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Penale Cop98CD

28-04-1999 14:56

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RIVISTA ITALIANA DI

DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA

DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O

NUOVA SERIE - ANNO XLV 2002

M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E


INDICE GENERALE

NECROLOGI VASSALLI G., Giovanni Leone ..............................................................................

3

DOTTRINA APA N., Note in ordine ad alcuni profili di costituzionalità connessi al giudizio abbreviato (A) ..............................................................................................

1306

BALSAMO A., L’inserimento nella Carta costituzionale dei principi del « giusto processo » e la valenza probatoria delle contestazioni nell’esame dibattimentale (A) ..................................................................................................

471

BARBIERI A., Astensione collettiva degli avvocati dalle udienze e sospensione del corso della prescrizione (N) .........................................................................

707

BARBIERI M.C., Moderne schiavitù e moderne libertà: quali i limiti di applicabilità dell’art. 600 c.p.? (N) ............................................................................

1110

BROGGINI G., Le rogatorie italo-svizzere, alla luce della L. 5 ottobre 2001, n. 367 (A) ................................................................................................................

116

CAPRARO L., Intercettazioni in autovettura, eccezionali ragioni di urgenza e motivazione per relationem (N) ..........................................................................

1451

CASSIBBA F., Acquisizione e criteri di valutazione del riscontro incrociato fra chiamate di correo alla luce dell’art. 111, comma 4, Cost. (N) ........................

723

CASTRONOVO D., Le definizioni legali del reato colposo (A) ...............................

495

CONTI C., Profili penalistici della testimonianza assistita: l’esimente dell’art. 384 c.p. tra diritto al silenzio e diritto a confrontarsi con l’accusatore (A) ......

840

D’ALESSANDRO F., La certezza del nesso causale: la lezione « antica » di CARRARA e la lezione « moderna » della Corte di Cassazione sull’« oltre ogni ragionevole dubbio » (N) .........................................................................................

743

DE VERO G., L’incerto percorso e le prospettive di approdo dell’idea di prevenzione generale positiva (A) ...........................................................................

439

DI GIOVINE O., Lo statuto epistemologico della causalità penale tra cause sufficienti e condizioni necessarie (A) ................................................................

634

DI MARTINO A., Giuoco corrotto, giuoco corruttore: due problemi penali dell’homo ludens (A) ........................................................................................

137

FOLLA N., Sulla tutela penale del know how aziendale (N) ...............................

1097

FRIONI I., Le diverse forme di manifestazione della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale (A) ..................................................................................

538

GIUNTA F., Principio e dogmatica della colpevolezza nel diritto penale d’oggi (A) ......

123


— IV — IAFISCO L., Osservazioni in tema di accertamento « dubbioso », efficacia in altri giudizi ex art. 654 c.p.p. e uso come prova della sentenza penale irrevocabile (A) ......................................................................................................... INSOLERA G., Il concorso di persone nei reati fallimentari (A) ........................... LOZZI G., Giudizio abbreviato e contraddittorio: dubbi non risolti di legittimità costituzionale (N) ......................................................................................... LOZZI G., Il giusto processo e i riti speciali deflativi del dibattimento (A) ........ LOZZI G., Giudizio abbreviato e prova necessaria (N) ....................................... LOZZI G., Corte costituzionale, Sezioni Unite e il legittimo sospetto (N) ........... MANTOVANI F., Il principio di offensività nel codice penale peruviano (A) ........ MARINUCCI G., « Societas puniri potest »: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee (A) .............................................................................. MAZZINI G., Prevalenza del diritto comunitario e non obbligatorietà della legge penale: un rapporto interessante, ma non sostenibile (N) .......................... MOCCIA S., Euforie tecnicistiche nel « laboratorio della riforma del codice penale » (A) ..................................................................................................... PULITANÒ D., La responsabilità « da reato » degli enti: i criteri di imputazione (A) .... PULITANÒ D., Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di diritto intertemporale (A) ......................................................................................................... ROMANO M., Irretroattività della legge penale e riforme legislative: reati tributari e false comunicazioni sociali (A) ................................................................. RUTA G., Stasi del processo e sospensione della prescrizione del reato: un lodevole tentativo di arginare manovre dilatorie (N) ......................................... SANTALUCIA G., Il potere del pubblico ministero di ricerca delle notizie di reato tra principi costituzionali e legge processuale (A) ....................................... SERANI D., Diritto di cronaca e verità putativa (N) ............................................ SOTIS C., Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica possibile? (A) ....................................................................................................... SQUARCIA E., Giudice di pace e ricorso immediato dell’offeso: un’eccezione al principio ne procedat iudex ex officio (A) ................................................... STELLA F., Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (A) ........ STELLA F., Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione di eventi (A) ................................................................................................. STOJA P., Efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione e certezza in senso soggettivo: un problema irrisolto (N) ................................................. TASSI A., Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale sul sistema processuale penale (A) .................................................................................

586 817 1087 1159 1419 1436 393 1193 368 453 415 1270 1248 701 150 1464 171 614 767 1215 353 223

IN ONORE DI GIULIANO VASSALLI STORTONI L., ‘‘Laudatio’’ per la Laurea ad honorem del prof. Giuliano Vassalli ........ JESCHECK H.-H., Giuliano Vassalli visto dalla Germania ....................................

271 277

LA RIFORMA DEL CODICE PENALE BARTOLI R., Brevi considerazioni sull’elemento oggettivo del delitto tentato in una prospettiva de lege ferenda ................................................................... COLLICA M.T., Prospettive di riforma dell’imputabilità nel « Progetto Grosso » ..

915 879


— V — EUSEBI L., La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa? ..... FIANDACA G., Osservazioni sulla disciplina dell’imputabilità nel Progetto Grosso ...... FORTI G., La riforma del codice penale nella spirale dell’insicurezza: i difficili equilibri tra parte generale e parte speciale ................................................. VASSALLI G., Riforma del codice penale: se, come e quando ..............................

76 867 39 10

LA RIFORMA DEL DIRITTO PENALE SOCIETARIO ALESSANDRI A., La riforma dei reati societari: alcune considerazioni provvisorie ........ LOZZI G., Successione di leggi penali e riforma dei reati societari ..................... PULITANÒ D., La riforma del diritto penale societario, fra dictum del legislatore e ragioni del diritto ..........................................................................................

993 974 934

NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO CATTI G., Le civil rights actions come strumento per la riparazione degli errori giudiziari negli Stati Uniti d’America ........................................................... LUPARIA L., WEIPING S., Lineamenti essenziali del nuovo processo penale cinese ....... RISICATO L., Tentativo e compartecipazione criminosa nella più recente dottrina di lingua tedesca ...........................................................................................

1025 1345 282

COMMENTI E DIBATTITI BELLI S., A proposito di S. CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Giuffrè, 1999 ....... CATTANEO M.A., Certezza del diritto soltanto sulla carta e pericolo totalitario .. DEMURO G.P., Una proposta di riforma dei reati contro i beni culturali ............ MARINUCCI G., Il diritto penale messo in discussione .......................................... MIRANDA L., Incontro con l’Autore Federico Stella: « Giustizia e modernità — La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime » ..................................... PISANI M., Radbruch e Giuliano Vassalli ............................................................. PULVIRENTI A., Il procedimento di esecuzione avanti il giudice di pace penale: una « semplificazione » eccessiva .................................................................

309 1354 1358 1040 689 308 1370

RASSEGNE Giurisprudenza della Corte Costituzionale (a cura di M. D’Amico) ...

314, 1064, 1392

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA PELISSERO M., Reato politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, Jovene, 2000, pp. 586 (S. L.) ......................................................................... SERENI A., Istigazione al reato e autoresponsabilità. Sugli incerti confini del concorso morale, Padova, CEDAM, 2000, pp. IX-207 (L. M.) ........................

323 323


— VI — AZZALI G., La tutela penale dell’ambiente. Un’indagine di diritto comparato, Padova, CEDAM, 2001, pp. XII-369 (G. D.) .................................................

324

BENUSSI C., I delitti contro la pubblica amministrazione. Tomo I, I delitti dei pubblici ufficiali, in Trattato di diritto penale, Parte speciale, diretto da G. Marinucci e E. Dolcini, Padova, CEDAM, 2001, pp. 1043 (C. B.) ....................

326

CACCIAVILLANI I., CALDERONE C.R., I delitti dei pubblici ufficiali nell’attività amministrativa, Padova, CEDAM, 2001, pp. XIX-223 (M. F.) .......................

328

GENNAI S., TRAVERSI A., La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Commento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 462 (C. C.) ....................................................................

329

GIOSTRA G. (a cura di), Processo penale minorile, Milano, Giuffrè, 2001 (A. N.) ......

329

HIRSCH H. J. (a cura di), Krise des Strafrechts und der Kriminalwissenschaften? Tagungsbeiträge eines Symposiums der Alexander von Humboldt-Stiftung, Bonn-Bad Godesberg, veranstaltet vom 1. bis 5. Oktober 2000 in Bamberg. Berlino, Duncker & Humblot, 2001, pp. 391 (F. B.) ..................................

1410

KIRAN BEDI, La coscienza di sé. Le carceri trasformate, il crollo della recidiva, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 371 (A. D. B.) ......................................................

330

MAUGERI A. M., Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 973 (E. M.) .......................................................

331

MERZAGORA BETSOS I., Lezioni di criminologia. Soma, psiche, polis, Padova, CEDAM, 2001, pp. XVI-561 (V. T.) ...............................................................

332

VASSALLI G., Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei ‘‘delitti di Stato’’ nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Milano, Giuffrè, 2001, pp. XIV-319 (L. M.) ...............................................

333

AMBOS K., Der Allgemeine Teil des Völkerstrafrechts. Anzätze einer Dogmatisierung, Berlino, Duncker & Humblot, 2002, pp. 1058 (C. M.) .....................

1412

CANEPA M., MERLO S., Manuale di diritto penitenziario, VI ed., Milano, Giuffrè, 2002, pp. XXV-582 (L. C.) .........................................................................

335

NOTIZIE Il comportamento delle parti tra invalidità e ragionevole durata del processo. Seminario di studi in ricordo del prof. Antonino Galati - Catania, 24-25 maggio 2002 (A. Zappulla) ................................................................................

1064

GIURISPRUDENZA Abusivo esercizio di una professione (avvocato) — Conseguimento dell’abilitazione in Germania - Normativa interna contrastante con i principi comunitari - Prevalenza del diritto comunitario - Ragioni della assoluzione - Abrogazione della legge penale e scriminante dell’esercizio del diritto - Inadeguatezza - Limite all’obbligatorietà della legge penale - Configurabilità (con nota di G. MAZZINI) ............................................................ Cause di estinzione del reato — Prescrizione penale - Cause di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare - Incidenza sul decorso della prescrizione del reato Sussistenza della sospensione ai sensi dell’art. 159 c.p. - Diversificazione delle

361


— VII — ipotesi in cui la sospensione della prescrizione opera (con nota di G. RUTA e di A. BARBIERI) ............................................................................................... — Prescrizione penale - Sospensione - Casi - Sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento su richiesta o per impedimento dell’imputato o del difensore - Necessità che sia adottato un provvedimento di sospensione dei termini della custodia cautelare in atto - Esclusione (C.p. art. 159, comma 1; C.p.p. art. 304) (con nota di G. RUTA e di A. BARBIERI) ............................. — Prescrizione penale - Sospensione - Casi - Situazioni diverse dalla presentazione di richiesta di autorizzazione a procedere, dal deferimento di questione ad altro giudizio e dalla sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale - Necessità che sia adottato un provvedimento di sospensione dei termini della custodia cautelare in atto - Sussistenza (C.p. art. 159, comma 1; C.p.p. art. 304) (con nota di G. RUTA e di A. BARBIERI) .........................

692

692

692

Giudizio abbreviato — Esclusione del consenso del pubblico ministero ai fini dell’ammissione del rito nonché esclusione della facoltà del pubblico ministero di chiedere una integrazione probatoria - Asserita violazione del principio del contraddittorio - Non fondatezza della questione (Cost. art. 111, comma 2; c.p.p., art. 438) (con nota di G. LOZZI) ........................................................................................... — Potere del giudice di assumere anche d’ufficio elementi probatori necessari ai fini della decisione - Asserita violazione del principio del contraddittorio Inammissibilità della questione (Cost. art. 24, comma 2 e 111, comma 4; c.p.p., art. 441, comma 5) (con nota di G. LOZZI) ....................................... — Impossibilità di sindacare il rigetto della richiesta condizionata di giudizio abbreviato - Preclusione alla concessione della riduzione di un terzo della pena Asserita violazione del diritto di difesa e del principio di eguaglianza - Inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (Cost. artt. 3 e 24, comma 2; c.p.p. artt. 438, 441, 442) (con nota di G. LOZZI) ......................

1073

1073

1416

Indagini preliminari — Chiusura delle indagini - Archiviazione - Successiva adozione di misura cautelare nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto in assenza di provvedimento di riapertura delle indagini - Illegittimità (C.p.p. art. 414) (con nota di P. STOJA) ............................................................................................

337

Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Intercettazioni tra presenti - Esecuzione delle operazioni - Decreto del pubblico ministero che dispone la utilizzazione di impianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica - Motivazione - Proroga della durata (con nota di L. CAPRARO) ..............................................................................

1441

Procedimento penale — Cause di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare Incidenza sul decorso della prescrizione del reato - Sussistenza della sospensione ai sensi dell’art. 159 c.p. - Diversificazione delle ipotesi in cui la sospensione della prescrizione opera (con nota di G. RUTA e di A. BARBIERI)) ...... — Rimessione del processo - Mancata previsione del legittimo sospetto - Illegittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p. per eccesso di delega e violazione del principio di imparzialità del giudice - Inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (Cost. artt. 76 e 111; c.p.p. art. 45) (con nota di G. LOZZI) ............................................................................................................. — Rimessione del processo - Mancata previsione tra le cause di rimessione del « legittimo sospetto » - Non manifesta infondatezza della questione di legitti-

692

1425


— VIII — mità costituzionale (Cost. artt. 76 e 111; c.p.p. art. 45) (con nota di G. LOZZI) .............................................................................................................

1425

Prova — Chiamata di correo - Elementi di riscontro costituiti da dichiarazioni del coimputato o di imputato in procedimento connesso o collegato - Utilizzabilità - Acquisizione secondo il principio del contraddittorio nella formazione della prova ex art. 111 comma 4 Cost. - Necessità - Esclusione - Ragioni (con nota di F. CASSIBBA) .......................................................................................

715

Reati contro l’inviolabilità dei segreti — Rivelazione di segreti scientifici o industriali - Applicazioni industriali Aspetti innovativi ed originali - Esclusione (C.p., art. 623) (con nota di N. FOLLA) ............................................................................................................. — Rivelazione di segreti scientifici o industriali - Notizie destinate a rimanere segrete - Know how aziendale - Concetto - Ambito della tutela penale (C.p., art. 623) (con nota di N. FOLLA) ..........................................................................

1093 1093

Reati contro la libertà individuale — Riduzione in condizione analoga alla schiavitù - Condizione di fatto - Convenzione di Ginevra sull’abolizione della schiavitù del 1956 - Carattere non tassativo dell’elenco contenuto nella Convenzione - Elementi costitutivi del reato Bene giuridico (C.p., art. 600) (con nota di M.C. BARBIERI) .........................

1109

Reati contro l’onore — Diffamazione a mezzo stampa - Esercizio del diritto di cronaca - Putatività Attendibilità della fonte - Confidenza di ufficiale di polizia giudiziaria - Esclusione (con nota di D. SERANI) ........................................................................

1462

Reato in genere — Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche - Giudizio di elevata credibilità razionale come probabilità confinante con la certezza - Necessità di accertamento del fatto in termini di assoluta certezza - Insufficienza di una probabilità anche del 90% (con nota di F. D’ALESSANDRO) .............. — Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche - Giudizio di elevata credibilità razionale come probabilità confinante con la certezza - Necessità di accertamento del nesso di causalità oltre ogni ragionevole dubbio Insufficienza di una probabilità anche del 90% - Insufficienza del semplice aumento della probabilità dell’evento lesivo (con nota di F. D’ALESSANDRO) ..

737

737

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE Cooperazione internazionale in materia penale (a cura di M. Pisani) — Gli ‘‘altri effetti civili’’ (art. 732 c.p.p.) del riconoscimento della sentenza penale straniera .................................................................................................. — La ‘‘complicità’’ del ministro e la garanzia dei cardini ................................. — Italia-Svizzera: la ‘‘consegna diretta’’ in materia di rogatorie ........................ — Un primo caso di collegamento audiovisivo per una rogatoria per l’estero ... — Il Liechtenstein e le indagini giudiziarie europee ........................................... — Il Lussemburgo e il problema del riciclaggio .................................................. — Cooperazione giudiziaria e armonizzazioni comunitarie ................................

381 383 383 386 388 390 758


— IX — — Criminalità organizzata internazionale e cooperazione giudiziaria ................ — Criminalità transfrontaliera e cooperazione internazionale ............................ — Corruzione e cooperazione internazionale ...................................................... — Criminalità informatica e cooperazione internazionale .................................. — L’estradizione e il « giusto processo » turco ................................................... — La « ragion di Stato » della non-estradizione ................................................. — Cooperazione giudiziaria in materia penale e diritti dell’uomo ..................... — Una risoluzione del CSM sulla criminalità organizzata ................................. — La lentezza (elvetica e no) della cooperazione internazionale ....................... — Le « rogatorie incrociate » e gli avvocati esterrefatti ...................................... — Sull’accordo italo-elvetico 14 dicembre 1998 di assistenza giudiziaria .......... — Incertezze sul « mandato d’arresto europeo » ................................................. — Milosevic e un’inutile trasferta in Olanda ...................................................... — La decisione quadro sul mandato d’arresto europeo ...................................... — Criminalità organizzata e Stati membri dell’Unione europea ........................ — Collaborazione con la Svizzera ....................................................................... — In tema di estradizione europea per reati fiscali ............................................ — Sulla confiscabilità di beni profitto di reato non perseguibile in Svizzera ..... — Cooperazione giudiziaria e applicazione « effettiva » dei diritti fondamentali ....... — Protezione dell’infanzia e cooperazione internazionale .................................. — In tema di rapporti Italia-Albania .................................................................. — Rapporti con l’estero e spese di giustizia .......................................................

758 761 761 762 762 765 1124 1128 1130 1130 1131 1132 1132 1484 1486 1487 1487 1488 1488 1489 1489 1490

LEGGI E DOCUMENTI Cass. Sezioni Unite, 10 luglio - 11 settembre 2002, Franzese ............................ Tribunale di Milano, sez. III, 15 maggio 2002, Dell’Utri (ord.) .........................

1133 1145


NECROLOGI

GIOVANNI LEONE

L’8 novembre 2001 è mancato ai vivi il professore Giovanni Leone, componente della direzione della Rivista italiana di diritto e procedura penale, della quale era stato condirettore con Giacomo Delitala fino alla sua elezione a presidente della Repubblica italiana nel dicembre 1971. Nonostante alcuni ricoveri in clinica degli ultimi anni, egli si era ripreso, tanto che aveva potuto festeggiare serenamente in famiglia il compimento dei 93 anni qualche giorno prima di quello fatale (Leone era nato a Napoli il 3 novembre 1908). Fino all’ultimo aveva mantenuto i contatti con gli amici e alcuni colleghi, interessandosi al movimento scientifico e legislativo nelle materie penali, riguardando le opere della sua giovinezza e della sua maturità, riandando con il pensiero e con l’indagine agli anni gloriosi dell’Assemblea Costituente (1946-1948) e a quelli successivi dell’intensa sua vita politica e parlamentare. Un impegno costante, quello politico, che non gli aveva mai impedito, tranne che negli anni in cui aveva ricoperto le massime cariche dello Stato, di allontanarsi dalla vita dell’avvocato e del professore e mai gli era stato di ostacolo o causa di soste nell’attività scientifica, perseguita con passione sin negli ultimi anni. Vicepresidente della Camera dei Deputati sin dalla prima legislatura repubblicana, presidente della Camera dei Deputati dal 1955 al 1963 (e dunque eletto e rieletto a quell’alta carica per più legislature), nel giugno 1963 aveva dovuto assumere la Presidenza del Consiglio dei Ministri per un incarico dichiaratamente temporaneo, ma essenziale per dar modo alle forze politiche in campo di attuare una tregua e di costituire un nuovo governo di coalizione. Una situazione analoga si era riprodotta cinque anni dopo (giugnonovembre 1968) allorquando si era trattato di dare l’avvio ad una non facile legislatura (quale fu appunto la quinta legislatura repubblicana) e quando egli, già nominato nel 1967 senatore a vita dal presidente Giuseppe Saragat ‘‘per avere illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo scientifico e sociale’’, aveva felicemente ripreso la vita accademica e professionale. Presidente della Repubblica dal dicembre 1971 al giugno 1978, nell’epoca turbinosa di scontri politici e sociali e poi del terrorismo interno, era tornato, anche se non senza profonda amarezza, nuovamente ai suoi studi prediletti fino a che, al compimento dei novanta anni, aveva potuto partecipare, con vigoria oratoria oltre che intellettuale, alle ono-


— 4 — ranze che gli furono degnamente rese nella cornice di Palazzo Giustinani in Roma, dal Presidente del Senato, dal Presidente della Camera e dal Governo della Repubblica. L’attività di Giovanni Leone nel campo degli studi e della professione forense era cominciata molto presto, nella sua Napoli e vicino all’amato padre suo, avvocato Mauro Leone, e si era subito sviluppata con una intensità ed una presenza difficilmente eguagliabili. Egli amava considerare suoi maestri Eduardo Massari ed Enrico De Nicola. In realtà Massari era stato suo maestro o guida nello studio del diritto e della procedura penale, De Nicola nel campo forense. Ma quest’ultimo Leone considerò suo maestro in tutti i sensi e sempre riandò col pensiero a quella antica consuetudine, fino a dedicare alcuni saggi (segnatamente nel 1965 e nel 1997) alla ricostruzione della sua figura, al suo magistero professionale, alla sua attività per la Costituzione e per la Repubblica: tutti scritti con autentico affetto. Massari fu suo professore quando, già stanco, era negli ultimi anni di vita. Cosicché lo stesso Leone amava considerarsi, almeno in certi limiti, autodidatta; ed effettivamente egli era debitore del proprio ingegno innato e della sua spiccata — e parimenti innata — propensione per la pronta e sagace comprensione degli istituti giuridici. Inoltre non v’è dubbio che sin dai suoi inizi egli si ispirò, sia pure senza avere un contatto diretto con tutti i suoi rappresentanti, agli orientamenti della scuola tecnico-giuridica, impersonata in Italia da Arturo Rocco, dallo stesso Massari e da Vincenzo Manzini, nonché alla dottrina penalistica tedesca dei primi trent’anni del secolo scorso; tuttavia sempre con una posizione autonoma ed originale ed un suo specifico metodo di lavoro. Quando egli cominciò a scrivere di diritto penale, il codice Rocco era appena entrato in vigore; ed anzi la sua tesi di laurea sulla Violazione degli obblighi di assistenza familiare (suggeritagli dal Massari e trasformata poi in volume nel 1932) fu preparata quando la nuova figura dei reato si trovava ancora allo studio della Commissione ministeriale, sì che egli molto si giovò — come amava ricordare — della legge poco prima emanata nella vicina Francia. Comunque è certo che per Leone, come per altri penalisti dell’epoca sua, il codice penale Rocco, al di là e al di fuori dei suoi significati politici, fu grande stimolo per il rinnovamento degli studi. Alcune delle innovazioni introdotte riportavano necessariamente lo studioso alla storia e alle ragioni degli istituti e inducevano a riflessioni di ordine dommatico, nonché a originali sistemazioni. Frutto perspicuo di tale periodo di lavoro fu per Giovanni Leone il poderoso volume Del reato abituale, continuato e permanente, edito nel 1933 quando l’autore non aveva che venticinque anni, e del quale l’origine e le ragioni sono spiegate in una breve quanto chiara prefazione. ‘‘Per il reato continuato — si legge in un passo che


— 5 — Leone amava ogni tanto ricordare — ho creduto di dedicare un capitolo alla storia dell’istituto, mentre non ho fatto altrettanto per il reato abituale e per il reato permanente. Il che non costituisce un difetto del lavoro, ma risponde ad una finalità. Le altre due categorie di reati, invero, non hanno un proprio sviluppo storico, che, se mai, potrebbe essere condotto solo in rapporto alle singole incriminazioni appartenenti a tali categorie e, seppur potesse essere ricostruito, niuna influenza avrebbe sulla sistemazione dogmatica degli istituti. Del reato continuato, invece, può ben rifarsi il cammino storico, dottrinale e legislativo, che è, come vedremo a suo luogo, fecondo di derivazioni importantissime’’. Un analogo orientamento Leone seguirà poi, nel 1940, anche nel volume sul Reato aberrante, un’opera che è rimasta in una posizione di primaria importanza nonostante i numerosi lavori pubblicati sulle stesse tematiche da altri valorosi autori negli anni successivi. Nella prefazione, appunto, egli scrive: ‘‘Ho voluto attingere un interessante materiale di studio dall’antica dottrina, che inizia col poderoso movimento dei glossatori: invece di premettere al lavoro un’arida esposizione storica, che di solito non vi è letta, ho utilizzato tale materiale, con un criterio rispondente anche ad esigenze pratiche, nella parte viva dedicata alla ricostruzione degli istituti ed alla soluzione dei problemi concreti. Questo contatto tra storia e diritto vivente mi pare consigliabile per tanti motivi, in particolare perché dimostra quali vividi riflessi di attualità proietti lo studio dello sviluppo storico degli istituti’’. Né, nelle sue prime opere di diritto penale sostanziale, Leone trascurò mai i rapporti tra interpretazione e dommatica. Sempre nella prefazione alla menzionata monografia del 1933 (Del reato abituale, continuato e permanente) il giovane autore scrive che il libro non si mantiene nelle astratte sfere della dogmatica, ma scende al contatto vivo con i problemi pratici: questa è, d’altronde, a mio avviso, una esigenza dei nostri studi, che non bisogna trascurare, e costituisce la prova migliore della bontà e dell’utilità delle costruzioni dogmatiche, contro le quali troppo spesso e a torto si scagliano i pratici’’. Le sue opere furono del resto sempre, sin dal primo suo contatto con gli studi, di alta utilità pratica. Un’ultima parte del volume già più volte citato è dedicata ai problemi processuali posti dalle tre figure di reato oggetto della sua elaborazione: querela, connessione, contestazione, giudicato e suoi limiti. Erano i tempi in cui diritto e procedura penale erano ancora unificati come parti di un medesimo insegnamento: sì che per accedere alla cattedra bisognava presentare opere sia di diritto penale che di procedura penale dimostrando di saper signoreggiare entrambe le materie. Leone presentò così al concorso anche il volume ‘‘Sistema delle impugnazioni penali’’ (1935), che divenne subito un ‘‘classico’’ nella materia, fino a che i suoi contenuti essenziali non confluirono nelle sue opere trattatistiche e manualistiche sul processo penale. Né vanno dimenticati scritti minori, che pure presentò al concorso, quali


— 6 — il breve ma esemplare saggio sulle ‘‘Norme penali in bianco’’ del 1932. Nel 1936, poco più che ventisettenne, Giovanni Leone vinse, come primo ‘‘ternato’’ (il secondo fu Giuseppe Bettiol) la cattedra di diritto e procedura penale. Chiamato a Messina (negli anni precedenti era stato professore incaricato a Camerino), Leone tenne in quella università la prolusione sulla Imputabilità nella teoria del reato: una tematica sulla quale aveva già a lungo riflettuto in occasione di precedenti saggi (p. es. in tema di ubriachezza) e che aveva toccato con pagine chiarissime dedicate al tema delle actiones liberae in causa inserite nel suo volume sul reato permanente. Del volume sul reato aberrante si è già detto. Carnelutti, che nelle sue abituali recensioni sulla Rivista di diritto processuale (da molti seguite con l’animo sospeso) non era con nessuno tenero, ebbe in quel caso a scrivere che ‘‘notevole è la tendenza del Leone a oltrepassare, nella ricostruzione dei concetti i confini del diritto penale e così, impiegando per la rielaborazione di questi princìpi cresciuti sul terreno di altre zone della scienza giuridica, a portare la teoria del diritto penale a una maggiore altezza’’. Corre anche l’obbligo di ricordare che le pagine del Leone sull’evento non voluto ed ascritto dalla legge a titolo di colpa nella aberratio delicti occupano un posto particolare nella storia della dottrina penalistica italiana per la interessante e vivace polemica a cui dettero luogo nei mesi successivi alla pubblicazione del volume. Il Leone, cercando di superare consolidate dottrine (rimaste, in verità, prevalenti sino ad oggi), aveva sostenuto che la responsabilità a titolo di colpa dell’art. 83 costituisse un vero e proprio caso di ‘‘colpa per inosservanza di leggi’’, potendo rientrare tra le leggi a cui si riferisce l’art. 43 del codice anche la legge penale che vieta un delitto doloso. Alfredo de Marsico reagì a questa costruzione con uno scritto molto critico, al quale Leone rispose in un articolo pubblicato proprio in questa Rivista, nel 1941. La stagione di Giovanni Leone cultore del diritto penale sostanziale non si chiuse certo con gli anni in cui egli divenne uno dei maggiori e reputati maestri del diritto processuale penale, passando — dopo gli anni trascorsi presso l’Università di Bari — all’insegnamento esclusivo di quest’ultima materia, ormai separato da quello del diritto penale, nelle Università di Napoli e poi, dal 1956, di Roma. Il suo interesse per la materia sorella rimase sempre vivissimo, così come è attestato dal suo impegno costante all’Assemblea costituente (dove egli ebbe parte prevalente nella ‘‘Commissione dei Settantacinque’’, che preparò la Costituzione), di deputato e di senatore. Come senatore fu anche relatore sul secondo progetto Gonella (1968) per un nuovo codice penale (e, quanto meno, per una nuova sua parte generale), progetto del quale la vita parlamentare ebbe fine nell’anno 1973. In quella sede Leone fu anche promotore o quanto meno partecipe di alcune proposte originali, taluna delle quali fu


— 7 — accolta (come quella, a mio avviso non molto felice, sulla incondizionata estensione della continuazione eterogenea) nella riforma attuata dal Governo con il decreto legge dell’11 aprile 1974. E anche fin negli ultimi tempi continuò ad interessarsi alla riforma diretta a creare un nuovo codice penale destinato a sostituire quello del 1930. Né possono essere dimenticati i numerosi studi penalistici minori, dei quali è costellata l’imponente bibliografia di Giovanni Leone. In particolare egli ebbe ad esaminare alcune figure minori di reati in materia di navigazione (della parte penale di quel codice Leone era stato l’autore nei primi anni Quaranta) ed altri reati previsti in leggi speciali, nonché figure del codice comune, come i reati contro l’onore, il furto, la calunnia e la bigamia; ed ancora si occupò del reato continuato redigendo l’omonima voce per il ‘‘Novissimo digesto italiano’’. A questo punto occorrerebbe scrivere, per ricordare degnamente l’autore, dell’opera processualistica di Giovanni Leone. Senonché, trattandosi di opera diuturna, complessa e completa, che abbraccia l’intero campo di quel ramo del diritto, all’autore di questo ricordo non è facile riassumerla. Tale opera, trattatistica o manualistica che dir si voglia, consta di una poderosa trilogia, sviluppatasi nell’arco di quarant’anni, iniziatasi con la prima edizione del primo volume dei Lineamenti di diritto processuale penale (1949) e terminata con la tredicesima edizione del Manuale di diritto processuale penale, in coincidenza con il varo del nuovo codice (1988), da Leone non amato e in ogni caso non condiviso nelle sue linee ispiratrici, ancorché queste fossero il frutto di un lavoro parlamentare durato per ben sei legislature. I due volumi dei Lineamenti, usciti in quattro edizioni (la prima — come già detto — negli anni 1949 e 1950) costituiscono il primo tracciato del grande percorso e presto sostituirono nella scuola altri manuali, a cominciare dalle ‘‘Istituzioni’’ del Manzini. Io stesso, che insegnai per incarico a Genova procedura penale per dieci anni, li adottai per l’insegnamento, traendone, per primo, giovamento, chiarezza e sistema. Peraltro due volumi come quelli, di forte costruzione dogmatica e qualche volta non facili per chi non poteva avere ancora conoscenza pratica del processo, rischiavano talora di essere un peso eccessivo per l’esame di giovani sia pure giunti al quarto anno di giurisprudenza. E fu lo stesso Leone a sostituirli, se così può dirsi, con un più svelto Manuale di diritto processuale penale, la cui prima edizione è del 1960 e che divenne libro di testo sempre più largamente adottato, di anno in anno, nelle Università italiane. Ma intanto Leone era venuto preparando un’opera monumentale, nella quale aveva potuto trovare spazio adeguato, e per le teorie e per l’interpretazione di ardui problemi e per le considerazioni sulla legislazione presente e su quella auspicata per il futuro, la trattazione dell’intera materia, in modo soddisfacente anzitutto per lo stesso autore. Questi cercava anzi-


— 8 — tutto, meritevolmente, di fare chiarezza seguendo nel Trattato la struttura del codice e la relativa nomenclatura e rifacendosi altresì, ovunque possibile, alla tradizione nella individuazione delle categorie concettuali. Perché — egli si domandava — sconvolgere senza necessità attraverso una propria elaborazione istituti, teorie, concetti faticosamente e gradualmente creati e consolidati? ‘‘perché creare inutili scompigli e sbandamenti?’’ Scopo dell’opera doveva esser quello di chiarire il sistema vigente, spiegandolo passo passo in modo che concetti istituti, principi e regole venissero dal lettore sicuramente compresi. Effettivamente l’uscita del Trattato, anche se preceduta — come s’è detto — da altre opere sistematiche dell’autore, suscitò larghe simpatie. Remo Pannain la recensì (Archivio penale, 1961) entusiasticamente, scrivendo che era ‘‘un trattato, che ha riconciliato con la vita e la procedura penale’’. Mario Pisani scrisse per questa Rivista italiana (1961, pp. 783791) una recensione analitica, nella quale non solo poneva in rilievo i pregi indicati, ma seguiva tutto lo snodarsi del lavoro intorno al nucleo del rapporto giuridico processuale penale, le cui caratteristiche venivano individuate nell’unità, nella complessità, nella continuatività e nella progressività. Pisani mise anche in rilievo i punti nei quali l’autore si staccava da pensieri o ricostruzioni precedentemente da lui stesso espressi e si poneva rispetto ad essi su un piano innovativo. Mi piace ricordare, così come fa il citato contributo del Pisani, le pagine del secondo volume del Trattato, nelle quali Leone prende ferma e polemica posizione contro quell’indirizzo della Corte di Cassazione secondo il quale le disposizioni degli artt. 304-bis e seguenti del codice di procedura penale, relative ai diritti della difesa e correttamente collocate dal legislatore nel titolo dell’istruzione formale, non sarebbero state ‘‘applicabili’’ (a’ sensi dell’art. 392 primo comma) all’istruttoria sommaria. Di quelle norme, entrate in vigore con la l. 18 giugno 1955, n. 517, che fu la prima grande riforma postbellica del codice di procedura del 1930, Leone era stato certamente tra gli ispiratori e — si disse — addirittura il redattore. Comunque egli sapeva bene quello che ne era lo spirito, tradito da una giurisprudenza ordinaria retriva. Egli fu così tra gli anticipatori di una fondamentale giurisprudenza costituzionale, che, dopo aver cercato di esercitare una funzione interpretativa fu costretta dalla ribellione della Corte di Cassazione ad esercitare i suoi poteri di annullamento (sent. n. 52 del 26 giugno 1965). Una memorabile ‘‘lotta tra le due Corti’’, che cinque anni prima non si era preveduta e che terminò con la vittoria del diritto e della Costituzione. Ma non è possibile indugiare sui contenuti di un’opera che è una autentica e feconda miniera di temi, di questioni e delle relative soluzioni. A tale opera Leone sentì ancora una volta il bisogno di sostituire per la scuola una trattazione più breve, dove tuttavia fosse contenuto tutto ciò


— 9 — che era essenziale all’apprendimento degli studenti. Ed uscirono così (1965) le ottime Istituzioni di diritto processuale penale, espositive e sintetiche per quanto la materia potesse consentire. Ma erano in due volumi, il primo dedicato alle ‘‘Dottrine generali’’ ed il secondo allo svolgimento del processo e all’esecuzione: forse ancora di troppo peso per la scuola nonostante la loro illuminante chiarezza. Fu così che il già ricordato Manuale (nonostante che il volume avesse raggiunto nell’ultima edizione fitte pagine 821) finì per essere preferito nella diffusione universitaria. Infine — sempre a proposito della procedura penale — non sarebbe giusto tacere di quegli Elementi di diritto e procedura penale, che uscirono nel 1967 e di cui si ebbero poi altre cinque edizioni; e tanto meno di quella ricchissima serie di articoli e di note a sentenza, che stanno a dimostrare, insieme al continuum rappresentato dalle citate opere generali, un inesausto amore per la materia, una eccezionale fede nelle sue possibilità di aiutare il cammino della giustizia e di contribuire al progresso della civiltà. Questa passione autentica per il diritto e per la giustizia portò Leone a partecipare ad attività congressuali ed associative e ciò anche in campo internazionale, dove ebbe notorietà che andava assai al di là di quella pure acquisita per i suoi viaggi come parlamentare e come presidente della Repubblica. Fu per lunghi anni presidente del gruppo italiano dell’Associazione internazionale di diritto penale; e dell’Associazione stessa presiedette con entusiasmo e prestigio il decimo Congresso internazionale svoltosi in Roma nel 1969. Fu uno studioso che credette nell’opera propria e in quella degli altri cultori delle materie da lui predilette. Alla Famiglia da lui tanto amata vanno in questa dolorosa circostanza i pensieri solidali e commossi della Direzione della Rivista italiana di diritto e procedura penale, alla cui storia il nome di Giovanni Leone è indissolubilmente legato. GIULIANO VASSALLI


LA RIFORMA DEL CODICE PENALE

RIFORMA DEL CODICE PENALE: SE, COME E QUANDO (*)

SOMMARIO: 1. Cenno sui precedenti. — 2. Necessità di una riforma integrale. La c.d. ‘‘riserva di codice’’. — 3. Sulla necessità di reagire alla cosiddetta ‘‘processualizzazione’’ del diritto penale sostanziale. — 4. Sul metodo della riforma: in particolare, sui rapporti tra parte speciale e parte generale. — 5.La riforma dei contenuti della parte speciale. — 6. Rapporti della riforma con il sistema penitenziario e con quello processuale. — 7. Breve disamina dei contenuti del progetto della ‘‘Commissione Grosso’’. — 8. In particolare, sulla riforma delle disposizioni concernenti il concorso di persone nel reato. — 9. Concorso di reati e sistema delle pene. — 10. Circostanze del reato, imputabilità e capacità ridotta, misure di sicurezza.

1. Sono più di settanta anni da che il codice Rocco è in vigore e la necessità di una sua integrale sostituzione, che potè sembrare impellente all’indomani della caduta del regime del quale esso vantava d’essere una delle predilette creature, è oggi molto attenuata. I tempi sono cambiati una seconda ed una terza volta, altri problemi urgono nel quotidiano, l’esigenza politico-criminale è diversa, anche se non sempre si riesce ad avvertire in quale senso e con quali obbiettivi. D’altra parte, in questi settanta anni, anche la situazione generale che sul codice penale ha, come su altri testi legislativi, non pochi riflessi, è profondamente mutata; ed è mutato in alcuni connotati essenziali, lo stesso codice. Le prime leggi del secondo dopoguerra provvedettero ad eliminare i connotati più incompatibili della parte speciale. Successive leggi hanno proseguito l’opera di aggiornamento su punti qualificanti: liberazione condizionale, rapporti tra pene e misure di sicurezza (1962), sospensione condizionale della pena e pene sostitutive (1974 e 1981), eliminazione dei casi di pericolosità presunta (1986) e della imputazione oggettiva delle circostanze (1990), per tacer d’altro, nella parte generale; rapporti tra lesioni e querela, procurato aborto, causa d’onore, trattamento della truffa e requisiti dell’usura, punizione del riciclaggio, solo per fare qualche esempio, nella parte speciale. A ciò si aggiungano alcune fondamentali sentenze della Corte costituzionale e, più in generale, il cambiamento di clima determinato, nonostante diffi(*) Lo scritto riproduce la Lectio magistralis, letta dall’Autore il 24 gennaio 2002, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna.


— 11 — coltà e ritardi, dai princìpi della Costituzione attraverso una loro lenta ma crescente realizzazione. A parte ciò, nell’ultimo decennio del secolo, vi furono le delusioni create dal nuovo codice di procedura penale, l’unico codice del periodo fascista ad essere stato sostituito per intero. La sostituzione era avvenuta nonostante che sul codice del 1930, almeno da un momento in poi, le sentenze della Corte Costituzionale avessero agito in senso profondo, creando nella fase istruttoria (anche nell’istruzione sommaria) un sistema di garanzie. Ma il Parlamento aveva voluto quasi sin dagli anni iniziali della Repubblica un sistema opposto, a costruire il quale aveva lavorato per ben sei legislature consecutive senza sostanziali contrasti e con obbiettivi precisi, sfociati in leggi di delegazione estremamente vincolanti. Eppure il risultato non è stato esaltante, le modifiche del testo del codice sono state continue sia da parte della Corte costituzionale che da parte dello stesso legislatore e si sono intrecciate, alla fine del secolo scorso, con forti innovazioni apportate all’ordinamento giudiziario. Nello stesso periodo sono stati portati all’estremo limite alcuni degli orientamenti più innovatori del codice (come quelli in tema di riti alternativi) venendosi a creare un sistema confuso, per non dire labirintico, nel quale si è perduto, nonostante il forte intervento di una legge costituzionale che nel novembre 1999 ha riscritto l’art. 111 della Costituzione, gran parte dello spirito originario della riforma; e soprattutto si sono perdute le speranze. Anche questi eventi hanno inciso in modo negativo sugli impulsi alla creazione di un nuovo codice penale e perfino hanno determinato in vari settori una perdita di interesse per l’argomento. Tra le persone che quando pensano alla possibilità di realizzare un codice penale integralmente rinnovato sono colte da un sentimento di sfiducia potrei annoverare ormai anche me stesso, anche se con motivazioni meno solide e meno valide di quelle esposte da alcuni avversari della riforma o da alcuni scettici dichiarati: sulla cui posizione diremo forse qualche cosa fra breve. Sul piano personale questo sentimento è spiegabile. Se guardo alla lunghissima mia vita passata, vedo che l’attività di cooperazione ai progetti di riforma occupa un posto notevole. Nato, come sono, nel 1915, di codici penali italiani ho conosciuto soltanto il codice Rocco, sul quale ho studiato e mi sono formato, ora con interesse e perfino con entusiasmo per alcuni aspetti di quel sistema, ora con vivo senso di insofferenza e di critica. Non ancora trentenne, nei primi mesi del 1945, fui chiamato a far parte, in Roma presso il competente ministero, della prima commissione creata dal Governo (era ministro della giustizia l’onorevole Umberto Tupini) per redigere un nuovo codice penale. Infuriava ancora la seconda guerra mondiale e per tanta parte l’Italia attraversava ancora eventi terribili. Tanto grande doveva apparire a quei nostri governanti l’urgenza di una integrale trasformazione del nostro sistema penale! Suc-


— 12 — cessivamente, come ho ricordato in altre occasioni, mi sono trovato a far parte di tutte le commissioni ministeriali esistite nella materia. Nel 1968, caduto da tempo il progetto Petrocelli-Vannini, non portato al Parlamento il ‘‘progetto preliminare di modificazioni’’ del ministro Aldo Moro e non mai esaminato dal Parlamento un primo progetto Gonella (del 1960), fui pregato da Giovanni Leone, illustre collega penalista in quei mesi presidente del Consiglio dei ministri, di scrivere io stesso un progetto di riforma di parte generale del codice. Lo feci dopo aver attentamente riordinato ed esaminato, oltre ai precedenti lavori ministeriali, i progetti presentati su vari punti sia alla Camera che al Senato in più di vent’anni, e lo presentai nei termini assegnatimi. Con poche modificazioni, esso divenne il secondo progetto Gonella, dal nome del ministro del tempo. Fu portato al Senato, che esaminò la sola parte generale, relatore essendone il professor Leone che nel frattempo aveva lasciato l’incarico di primo ministro (era il suo secondo ‘‘incarico estivo’’). Il testo approvato dal Senato venne alla Camera ed io ne fui nominato relatore. Feci la relazione, ma finì la quinta legislatura (fu il primo scioglimento anticipato nella storia della Repubblica). Avendo deciso di non ripresentarmi come deputato, lasciai in eredità relazione ed una quantità di proposte di emendamenti. Nella sesta legislatura, succedutomi come relatore alla camera il compianto amico e collega universitario Giovanni Musotto, il progetto dovette essere abbandonato (era il gennaio 1973) per disaccordi del relatore stesso con il ministro Zagari, che pur era dello stesso partito, ma che aveva idee rinnovatrici diverse specie per quanto riguardava la pena e la cosiddetta ‘‘strategia differenziata’’ contro la criminalità, strategia già allora divenuta di gran moda. Tuttavia un gruppo di professori consulenti del ministro trasse dai lavori di quegli anni una serie di riforme parziali della parte generale, che dettero luogo al decreto-legge dell’11 aprile 1974, n. 99, che è, ed è tuttora rimasta, la riforma più profonda subìta dal codice Rocco in oltre settanta anni. Con essa furono riformati istituti essenziali su cui il codice Rocco si basava: non solo l’aumento di pena per la recidiva, che divenne facoltativo, o la sospensione condizionale della pena, il cui tetto fu raddoppiato da uno a due anni, ma il sistema delle circostanze del reato e quello del concorso di reati e della continuazione criminosa in particolare. Per le circostanze si capovolse l’ultimo comma dell’art. 69 e si abolì così ogni restrizione al giudizio di comparazione (con possibile esito di equivalenza o di prevalenza) tra circostanze aggravanti ed attenuanti, mentre per il concorso formale di reati avvenne il ritorno al cumulo giuridico (e cioè semplice aumento di pena anche minimo). Fu inoltre ammessa la cosiddetta continuazione eterogenea: non più solo fra reati costituenti violazioni della medesima disposizione di legge, ma continuazione fra ogni tipo di reato, purché riconducibile ad un unico disegno ispiratore. Il rigore, indubbiamente duro, del codice Rocco ne venne travolto dalle fondamenta e


— 13 — per rimuovere eccessi di pena si passò alla possibilità, largamente usata, di eccessi di mitezza. Per giunta vi sono anche gravi riflessi di detta riforma in materia di prescrizione del reato perché tutti i reati con circostanze aggravanti possono essere ammessi a giudizio di comparazione, ed è dunque ammessa senza eccezione la prevalenza delle circostanze attenuanti comprese le attenuanti generiche, con la conseguenza che il potere discrezionale del giudice in materia di circostanze, allargatosi a dismisura, viene ad operare anche sulla durata della prescrizione. Nella riforma del 1974 è indubbiamente da ravvisare una delle cause della insoddisfazione determinatasi in notevole parte dell’opinione pubblica sulla asserita eccessiva mitezza della reazione penale e sulla stessa certezza della pena. Tanto ciò è vero che con la riforma presentata dalla Commissione presieduta dal prof. Grosso (1998-2001) si è proposta una marcia all’indietro su alcune di queste riforme, ripristinando ipotesi di aumento obbligatorio della pena per causa di recidiva, ripristinando il divieto di bilanciamento per alcune circostanze inerenti alla persona del colpevole, eliminando le cosiddette circostanze ad effetto speciale che vengono assimilate anche formalmente a titoli autonomi di reato, ed infine eliminando le attenuanti generiche (che erano state reintrodotte nel 1944 dopo che il codice del 1930 le aveva abolite), il tutto con evidenti effetti sulla restrizione del giudizio di comparazione e con forti riflessi sulla lunghezza del tempo necessario alla prescrizione del reato. Come già accennato poc’anzi, con il 1973 l’opera volta ad una riscrittura del codice penale sembrò abbandonata. Premevano le esigenze poste dal terrorismo interno e dalla connessa legislazione eccezionale e poi quelle poste dalla lotta ai fenomeni mafiosi e alla grave criminalità organizzata, anche qui con il seguito di una legislazione penale speciale. L’introduzione dell’art. 416-bis e della normativa ad esso correlata è del 1982. Sul piano della vera e propria riforma legislativa era sempre alle porte il codice di procedura penale, la cui legge di delegazione venne definitivamente alla luce nel febbraio 1987. Nel campo più strettamente penale vi erano state nel frattempo iniziative concernenti singoli reati e soprattutto la cosiddetta legge Gozzini dell’ottobre 1986, che aveva abolito ogni forma di pericolosità presunta ed aveva allargato, per numero e per incidenza sull’ordinamento penitenziario, le misure alternative alla detenzione. L’insieme della legislazione penale procedeva, come ormai da molti anni, a strappi, aumentandosi la severità da un lato e alleggerendola dall’altro. Una alternanza continua, poco intellegibile a chi non conoscesse le esigenze disparate della giustizia penale, la reattività della pubblica opinione, il contemporaneo convivere dell’allarme e della speranza. Giunta che fu alla luce la legge-delega sulla nuova procedura penale e nell’imminenza dell’ormai sicuro varo del relativo codice (che avvenne il 22 settembre 1988) mi sembrò doveroso, come ministro della giustizia,


— 14 — che il governo ritornasse ad occuparsi del codice penale. Tra l’altro, in singolare e non felice contrapposizione a quanto era avvenuto nel periodo fascista, in cui codici penali, regolamento penitenziario, legge penale finanziaria e quant’altro erano entrati contemporaneamente in vigore, oltre quarant’anni di legiferazione democratica ci avevano dato prima una legge penitenziaria (1975) e poi un codice di procedura penale, e cioè testi legislativi che a stretto rigore avrebbero dovuto o potuto essere pedissequi a un nuovo codice di diritto penale sostanziale. Così, nel febbraio 1988, nominai una commissione composta di alcuni tra i più insigni professori della materia con il compito di mettere a punto una ipotesi di legge-delega per un intero codice penale. Pensai ad una legge di delegazione perché quello era stato il sistema del codice Rocco, perché quello era stato il sistema del codice di procedura penale in via d’essere varato, perché quello era stato il sistema seguito per altri codici ancora ed anche perché la vastità della materia da trattare induceva a scegliere, almeno per il lavoro iniziale, vie di presumibile maggiore velocità. Poi vi sarebbero stati il Parlamento — e prima di esso gli apporti della dottrina, della magistratura e dell’avvocatura — ed infine le commissioni ministeriali impegnate a tradurre in codice le direttive del Parlamento. Viceversa, terminati che ebbe i suoi lavori la commissione presieduta dal professore Antonio Pagliaro, l’opera ristagnò, e soprattutto mancarono quegli apporti dei professori, dei magistrati e degli avvocati che pur senza illusioni era lecito attendersi dopo la presa in esame del progetto da parte del Consiglio dei Ministri e la distribuzione del progetto stesso fatta dal ministro Giovanni Conso. Un disinteresse diffuso, che era uno dei chiari segni ulteriori che la stessa fiducia di poter porre in essere un nuovo codice penale era grandemente scemata. Anzi, proprio in coincidenza con la diffusione di quel progetto ripresero forza, per parte di autorevoli giuristi, anche nel penale, le cosiddette tendenze per una decodificazione, il convincimento che bisognasse lasciare andare le cose per il loro verso, la sostanziale accettazione (nonostante le quotidiane deprecazioni) della sempre più caotica produzione legislativa, con il confinamento dei giuristi al ruolo, tuttavia importante, di ‘‘intellettuale-interprete’’, volto a chiarire in modo razionale (e possibilmente garantistico) i contenuti delle leggi, ad aiutare la giurisprudenza nel suo compito, a sottolinearne e a tentar di correggerne gli errori. In particolare si segnalava, autorevolmente, che la società del nostro tempo non aveva più bisogno della elaborazione idealistica dei professori, dei loro modelli di legittimazione spesso ‘‘fondati su punti di vista e preoccupazioni che risultano abbastanza estranei o indifferenti alla gente comune’’ ed anche che le sempre più diffuse aspettative di sicurezza collettiva rendevano la pubblica opinione sensibile soprattutto agli aspetti pratici di efficacia ed efficienza dell’intervento penale, con conseguente svalutazione dei profili di garanzia e comunque con appropriazione dell’opera legisla-


— 15 — tiva come appannaggio esclusivo del potere politico (Fiandaca e Musco, 1994). Veniva anche segnalata la progressiva erosione del diritto penale tradizionale, con la proliferazione delle fattispecie di pericolo astratto (connesse anche al crescente bisogno di sicurezza della società e con i tipi di pericolosa delinquenza che bisognava ogni giorno combattere), la crescita fatale delle fattispecie omissive connesse al diritto penale economico e ad altri importanti settori del diritto, l’invasione di istituti riconducibili al diritto dell’emergenza, l’inadeguatezza in certe situazioni del principio rieducativo, l’importanza delle strategie preventive, la perdita di legittimazione della pena tradizionale di fronte alla necessità e possibilità di interventi incisivi di tipo non penale, la riduzione del diritto penale a strumento soltanto coadiuvante nella gestione di una gravissima crisi e altri elementi ancora che finivano per confluire, nell’insieme, verso un motivato scetticismo circa la riuscita di ogni tentativo di una riforma di tipo codicistico e di fonte prevalentemente professorale nel diritto penale come in altri campi. Ma tant’è. Come ha scritto von Hippel, la storia del diritto penale è la storia della sua riforma. E questa riforma è stata quasi sempre opera prevalentemente degli studiosi del diritto penale, i quali non hanno mai rinunciato, negli ultimi due secoli, all’idea di un codice visto come fonte di ordine, di razionalità e di chiarezza, specialmente quando la legislazione occasionale e il groviglio dei sottosistemi hanno dimostrato di non potere efficacemente concorrere alla risoluzione di gravi crisi e al progresso della certezza del diritto. Scrisse una volta Pagliaro che la codificazione aiuta il cittadino a conoscere la legge penale del proprio paese. E così, nonostante la profondità e la modernità dei rilievi testé riassunti, anche nell’Italia degli anni Novanta la maggior parte dei penalisti sentiva di non poter rinunciare a quell’opera primaria che anche in tempi di crisi — e forse ancor più in tempi di crisi che in altri — rimane quella del giurista. Senza illusioni circa capacità taumaturgiche di un codice e nella piena consapevolezza del valore limitato dello strumento penale, si continuava a pensare alla riforma. E proprio dove il lavoro delle commissioni ministeriali sembrava aver subito l’ombra dell’incertezza o del disinteresse, si mosse il Parlamento. Un progetto questa volta — di legislazione diretta e sia pur limitato alla parte generale del codice (contenuta in 170 articoli) — venne presentato in Senato dal professore Roland Riz con la firma di altri quarantasei senatori appartenenti a tutti i gruppi politici. Neanche tale progetto giunse al dibattito (anche questa volta, come nel 1972, per fine anticipata della legislatura), ma restò — ed è tuttora — un segno quanto mai valido di una volontà riformatrice, ispirata non soltanto ai pur fondamentali valori costituzionali nello sforzo di creare un tronco valido e moderno sul quale potesse orientarsi una seria parte speciale e, infine, con il proposito di fornire elementi di semplicità e di chiarezza non solo all’interprete ma al popolo intero.


— 16 — Questa esigenza di un nuovo codice penale, adeguato alle esperienze — assai varie e vivaci — di oltre un quarantennio di vita democratica del paese rimase tuttavia viva; e già nell’ottobre del 1998 il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick insediava una nuova commissione di professori, magistrati e avvocati, con il compito, questa volta, di tracciare anzitutto le linee di un possibile nuovo codice penale. Il successore, ministro Diliberto, dette alla commissione mandato dl procedere alla stesura di un articolato e anche questo secondo lavoro fu condotto dalla Commissione, presieduta dal prof. Grosso, egregiamente a termine giovandosi anche di contributi e di dibattiti che si erano venuti svolgendo dopo la pubblicazione delle linee generali del 1999. Relazione ed articolato sono stati presentati nel settembre del 2000, e successivamente la commissione Grosso ha provveduto ad alcune importanti messe a punto e modifiche dell’articolato tenendo conto anche dei risultati di importanti convegni penalistici nazionali. Si tratta, allo stato, di un progetto di sola parte generale, ma tuttavia di un testo di alto valore, suscettibile di valutazione sia complessiva che articolata, con i limiti a cui fra breve accennerò. A seguito dell’elezione di un nuovo Parlamento (13 maggio 2001) e del mutamento della maggioranza parlamentare e del Governo è stata nominata nello scorso autunno una nuova commissione ministeriale di esperti, presieduta da un magistrato versato nelle materie penali e composta di professori, magistrati e avvocati. Il suo mandato è assai ampio e impegnativo poiché investe anche la parte speciale del codice e la coordinabile legislazione penale speciale. Iniziativa necessaria, quest’ultima, come rileverò fra breve. Secondo il decreto ministeriale che la ha istituita, si tratta questa volta — come nel 1988 — di redigere (nel termine di sei mesi) un testo di legge-delega. È, questo, un tema estremamente controverso che credevo superato. Vorrei solo permettermi di dire che — ove si prescinda dall’interpretazione restrittiva (per ora minoritaria nella dottrina) della parola ‘‘legge’’ contenuta nell’art. 25 comma 2 della Costituzione con riferimento alla materia penale sostanziale — vi sono argomenti pro e contro ciascuna delle scelte. Nella parte generale dei codici sono contenute disposizioni di estrema delicatezza tecnico-giuridica, che sarebbe meglio lasciare alla pacata riflessione degli esperti. Nella parte speciale sono più vive le tensioni politiche con la conseguenza che sarebbe doveroso lasciare al Parlamento la parola definitiva. L’esperienza dell’aula parlamentare, tuttavia, proprio nella riforma dei capitoli della Parte speciale, ha dato negli ultimi lustri esempi tutt’altro che esaltanti. Basterebbe pensare a come, con la legge 26 aprile 1990, furono cambiati i testi di numerosi articoli relativi ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, con una urgenza determinata da esigenze elettorali di alcuni partiti, sino a dover poi essere emendati vari articoli con leggi successive ad hoc. La realtà è che per procedere mediante legge-delega in mate-


— 17 — ria di codici occorrerebbero tre cose: a) che le leggi di delegazione fossero estremamente specifiche nei contenuti; b) che in ogni caso le commissioni ministeriali non fossero turbate nel proprio lavoro dalla necessità di arrivare al traguardo entro tempi troppo brevi; c) che il lavoro del legislatore delegato venisse, una volta completato, sottoposto nuovamente al Parlamento per un controllo non limitato ai problemi di conformità o meno alla delega. Quanto alla sostanza il citato decreto istitutivo non dà alcuna indicazione, ma è positivo che esso stabilisca che si debba tener conto del lavoro compiuto dalle commissioni precedenti. Tuttavia la temperie politica non consente di pronosticare tempi rapidi per una approvazione del redigendo progetto da parte del Parlamento. Oserei dire che la riforma si allontana nel tempo. E tuttavia ai penalisti spetta di occuparsene, schivi da pregiudizi e mantenendo inalterata la fede nel progresso della legislazione. 2. Pare dunque che si vada verso un nuovo codice penale e che né il rinnovamento del Governo né — presumibilmente — quello della maggioranza parlamentare vogliano, nonostante le difficoltà della nostra (e non solo nostra) situazione generale lasciar cadere gli sforzi che con tanto impegno e serietà sono stati compiuti su questo terreno negli ultimi anni. Se così è, è onesto domandarsi: a che pro questa riforma? è essa veramente necessaria? La risposta viene univoca e spontanea dalla constatazione della generale insoddisfazione (nei cultori della materia, nei cosiddetti operatori, nella pubblica opinione) per lo stato attuale della giustizia penale. Essa si estende anche al diritto penale sostanziale e segnatamente a quella che già più di dieci anni fa venne definita da un nostro valoroso penalista, Tullio Padovani, come la ‘‘disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio’’. Padovani — e con lui tanti altri illustri penalisti che hanno trattato negli ultimi anni questo tema — non si è fondato su proteste generiche, ma è andato a fondo nello scavo dei difetti dei quali l’intero nostro sistema sanzionatorio è venuto man mano gravandosi, individuando le cause della gravissima crisi (da taluno descritta con tinte che non esito a definire fosche) e cercando i rimedi: rimedi sui quali non è ora lecito soffermarsi, ma che implicano non più un seguito di ritocchi, ma un deciso e completo rifacimento del suddetto sistema. Ora io domando: si può seriamente pensare ad un rifacimento del sistema sanzionatorio, a creare quello che sarebbe in ipotesi un ‘‘codice delle pene e della loro applicazione’’, senza rivedere il codice per intero? La mia risposta è un no convinto e deciso. Innanzi tutto, infatti, bisogna che ci si intenda sulle pene edittali, che costituiscono la base sulla quale un nuovo sistema sanzionatorio deve operare; e questo significa, anche a prescindere da più vasti problemi posti dalle scelte di criminalizzazione,


— 18 — riscrivere, quanto meno nelle penalità specificamente comminate, l’intera parte speciale. E quanto alla parte generale: forse che il nuovo sistema delle pene potrebbe prescindere dalle regole da dettare per le circostanze comuni, attenuanti come aggravanti, e dal loro sistema di computo e di applicazione? forse che potrebbe prescindere dal trattamento della recidiva, del concorso di reati, della continuazione criminosa e dello stesso concorso di persone nel reato, per non fare che qualche esempio? E allora bisogna riconoscere che il sostenere — come oramai tutti fanno — la riforma del sistema sanzionatorio significa metter mano all’intero codice penale, parte generale e parte speciale. Sembra superfluo dire che alla mancanza di una adeguata codificazione penale non possono supplire né la giurisprudenza costituzionale né la giurisprudenza ordinaria. Quest’ultima si è troppe volte discostata dall’osservanza del principio di legalità, talora fraintendendo le fattispecie ed ampliandole, oltre ogni limite consentito, talaltra eccedendo in mitezza di soluzioni e di pene e comunque caratterizzandosi oramai da anni per le incertezze e i continui mutamenti di opinione dell’organo di nomofilachia, che non sempre ha contribuito alla chiarezza dell’ordinamento. È da tutti conosciuta la vasta letteratura, soprattutto penalistica, sulle discrasie tra dottrina e giurisprudenza. Tutto quanto viene in proposito e da anni sottolineato induce a non poter porre fiducia nell’opera sia pure indispensabile e benemerita della giurisprudenza ordinaria e tanto meno ad affidarle una funzione sostitutiva rispetto alle lacune o agli altri difetti del codice. Quanto poi alla Corte costituzionale vi è anzitutto da considerare la sua inidoneità a sostituirsi in modo organico al legislatore, derivante dalla posizione che le è stata data nel nostro ordinamento. I giudizi di legittimità sulle leggi le pervengono in modo casuale e sporadico, in dipendenza dell’interesse manifestato da questo o quel giudice su quella o su quell’altra disposizione di legge. Il resto rimane per la Corte inesplorabile e comunque non tangibile. Vi è poi la limitata competenza delle stesse sentenze quanto ai risultati, almeno in gran numero di casi. È la stessa giurisprudenza della Corte a riconoscere per prima i propri limiti e a richiamare la necessità di un intervento legislativo. Nel campo del diritto sostanziale penale mi limiterei a citare tre esempi. Il primo — molto grave e per buona sorte non ripetutosi — è quello di ciò che accadde nel campo del diritto militare con le pene edittali dei delitti di insubordinazione quando furono lasciati (sentenza 27 maggio 1982, n. 103) monchi di sanzione gli art. 186 e seguenti del codice militare di pace, che rimasero per ben tre anni e mezzo abbandonati alle più spericolate interpretazioni dei giudici e dei commentatori, essendo il legislatore intervenuto a indicare dette pene solo con l. 26 novembre 1985, n. 689. Il secondo ci viene dalla sentenza che, dichiarando illegittimo il ricovero dell’imputato minorenne in ospedale psichiatrico giudiziario (art. 222, comma 4, sentenza 24 luglio 1998, n.


— 19 — 324), ha espressamente demandato al Parlamento di provvedere al vuoto formatosi; e infine non si può non richiamare anche a questo proposito la sentenza Dell’Andro del 24 marzo 1988 (n. 364) che contiene, sulla redazione delle leggi penali, una serie di prescrizioni rivolte al legislatore. Raramente ne è stato tenuto conto nella profluvie legislativa dell’ultimo quindicennio, mentre con la redazione impegnativa di un codice v’è da pensare che le cose potrebbero andare diversamente. Tra l’altro, nel codice penale potrebbe entrare anche la cosiddetta riserva di codice, come proposto nel comma 2 dell’art. 3 del progetto della Commissione Grosso, riprendendo una proposta contenuta nello sventurato tentativo di riforma bicamerale della Costituzione di cinque anni fa: ‘‘Nuove norme penali sono ammesse — suona tale proposta di articolo — soltanto se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono’’. Se questa clausola fosse accolta (e i parlamenti del futuro se ne ritenessero vincolati) potrebbero venire diminuiti in modo consistente taluni difetti della nostra legislazione penale reiteratamente quanto invano denunciati dai nostri studiosi: disordine giuridico, ipertrofia, instabilità, frammentazione casistica, indeterminatezza normativa, sciatteria tecnico-giuridica, per stare alle icastiche espressioni del Mantovani; penalizzazione irrazionale e indiscriminata nei campi più disparati che — per stare alle parole del Fiandaca — contribuisce ad indebolire la funzione di prevenzione generale accentuando il tasso di ineffettività della sanzione penale. Nonostante che le più recenti leggi di depenalizzazione abbiano diminuito questi difetti, io sarei in linea di massima favorevole. Ma debbo osservare due cose: a) che un vincolo come quello proposto si troverebbe meglio in una disposizione costituzionale che in una prescrizione del codice; b) che la stessa seconda parte della formula proposta non è del tutto idonea, in quanto norme penali infelici o incongrue potrebbero venirsi a trovare anche in ‘‘leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono’’. Comunque è certo che i codici rispondono sin dal loro nascere ad una esigenza di ordine, mentre quest’ordine nella nostra materia manca ormai in larghissima parte. Siamo arrivati ad un punto in cui interessa molto meno la sostituzione dell’originario codice Rocco del 1930 della sostituzione dell’ordinamento che è venuto formandosi dall’insieme di quel codice e della legislazione penale variamente sopravvenuta. 3. A questo punto bisogna dire anche che la sola sostituzione del codice probabilmente non basterà a porre rimedio a quella crisi alla quale si è accennato, a quella del sistema sanzionatorio in particolare. Una delle denunce più vivaci od accorate che si sono sentite negli ultimi tempi è quella della cosiddetta processualizzazione del diritto penale sostanziale, della riduzione di quest’ultimo a ‘‘socio paritario’’ se non a vassallo del


— 20 — processo e al tramonto della concezione del processo come strumento per l’attuazione del diritto sostanziale. Peggio ancora, il diritto penale e i suoi principi messi, se non sotto i piedi, in sordina in nome della lotta al sovraffollamento processuale (Marinucci). Come è noto, questa critica si appunta soprattutto su quelli che sono stati (e si doveva pensare che sarebbero stati) i riflessi che l’introduzione dei cosiddetti riti alternativi (da taluno portati come fiore all’occhiello della seconda delega per un nuovo codice di procedura penale ed addirittura esaltati come il toccasana della nostra già tanto infelice giustizia penale) hanno avuto sul sistema sanzionatorio e sulla chiarezza e certezza della pena. Ci si riferisce, in particolare, come è noto, al giudizio abbreviato e al patteggiamento o ‘‘applicazione della pena su richiesta delle parti’’. Ora, bisogna riconoscere che nella esaltazione dei riti abbreviati e in particolare dell’esempio nordamericano del plea bargaining o patteggiamento, che alleggeriva la giustizia penale quotidiana di tanti pesi (esaltazione che in non pochi settori vive ancora oggi, tanto che insigni magistrati postulano un forte, ulteriore allargamento degli spazi del patteggiamento stesso), non tutti avevamo intravisto con sufficiente chiarezza i mali che tale sistema avrebbe potuto recare, una volta trapiantato in paesi di tradizioni e costumi diversi, a quella che oggi prende il nome, mille volte ripetuto, di certezza ed effettività della pena e, meglio diremo, alle finalità primarie del diritto penale sostanziale. In uno scritto del 1990, pubblicato nella Raccolta di studi in memoria del suo maestro Pietro Nuvolone, Franco Bricola fu tra i primi a porsi i problemi nascenti per il diritto penale sostanziale dal codice di procedura penale, che allora entrava in vigore. E, dopo essersi soffermato sull’impatto positivo che quel codice nuovo avrebbe potuto avere sull’auspicata nuova codificazione penale e su quelle che avrebbero dovuto essere le caratteristiche di un nuovo codice penale in presenza di un processo che si voleva ispirato ai princìpi del sistema accusatorio, guardava invece al patteggiamento non senza preoccupazione per un ‘‘arretramento — queste sono le sue parole — sulla strada di una razionalizzazione della commisurazione della pena’’. È vero che egli scriveva prima che la Corte costituzionale, con sentenza 2 luglio dello stesso 1990, redatta dal compianto collega Ettore Gallo, dichiarasse illegittimo l’art. 444 ‘‘nella parte in cui non prevede che il giudice possa (e dunque debba, aggiungiamo noi) valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole motivazione’’. Tuttavia le preoccupazioni di Bricola andavano al di là di questo punto pur fondamentale: egli postulava una maggiore circoscrizione della sfera sia del patteggiamento che di altri riti, segnalando in particolare l’introduzione praticamente avvenuta — con il rito abbreviato — di una nuova circostanza attenuante, di difficile inquadramento nella già disomogenea categoria delle circostanze medesime, circostanza consistente in buona so-


— 21 — stanza nell’avere agevolato il cammino della macchina giudiziaria evitando il rito ordinario. Concludeva, in nome delle funzioni assegnate alla pena dalla Costituzione, nelle quali non era permesso a suo avviso inquadrare la collaborazione a determinate strategie processuali, che rimanevano forti perplessità del cultore di diritto penale sostanziale nei confronti dei riti alternativi. Dopo di allora, come è noto, critiche al patteggiamento sono venute non solo dai cultori del diritto sostanziale (basterebbe ricordare Padovani, Mantovani, Palazzo, Marinucci, Dolcini ed altri) ma anche da insigni processualisti, alcuni dei quali sostengono l’illegittimità costituzionale dell’intero istituto. Non posso indugiare oltre su questo tema; ma mi sembra chiaro che coloro ai quali è demandato il compito di mettere a punto un nuovo codice penale non possono ignorare questa ingombrante presenza. Faranno, rispettando i limiti delle proprie competenze di fronte a quelle altrui, le loro proposte nell’articolato, dove questo sembrerà loro possibile, e per il resto segnaleranno le necessità di coordinamento e più ancora di adeguamento delle altre parti del sistema. Vedrà poi il Parlamento. Esso si è impadronito negli ultimi anni della materia processuale penale al di fuori d’ogni commissione di esperti, e bisogna dire che qualche volta a ciò è stato costretto: ora da taluni eccessi occorsi nella interpretazione e nella prassi giudiziaria, ora addirittura — bisogna pur dirlo — da una certa invadenza della Corte costituzionale nel riformare, con riferimento al solo criterio della ragionevolezza, normative appena votate dal Parlamento a grande maggioranza. Poi ha continuato in questa opera riformatrice dominato soltanto da ritenute esigenze della pratica o da esperienze più o meno diffuse. Ma quando l’auspicato progetto di codice penale sostanziale dovrà passare per il vaglio del Parlamento, uno stesso organismo sarà dunque impegnato a dirimere i conflitti tra diverse visioni del diritto sostanziale e del diritto processuale e a trovare soluzioni più convincenti di quelle attualmente adottate. Un altro tema, assai delicato, perché si tratterebbe, a mio avviso, di proporre una parte di marcia indietro sulla riforma del 1986, e che pure fuoriesce, almeno formalmente, dagli spazi tradizionalmente assegnati ai progetti per una riforma sostanziale, è quello dei poteri della magistratura di sorveglianza. Vi accenneremo a proposito delle misure alternative alla detenzione, ma anche per questa riforma sarà il Parlamento a dover compiere un giorno, con una visione auspicabilmente unitaria del sistema, i passi razionali dovuti. L’altro male, più volte lamentato, per quanto attiene ai rapporti tra attuazione del diritto penale sostanziale e ruolo della magistratura penale, è quello degli eccessi nell’uso del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena. Sotto i codici Rocco v’era il ben noto ‘‘vuoto di fi-


— 22 — ni’’ del tuttora vigente art. 133 c.p., che in sé autorizzava qualunque interpretazione e qualunque orientamento, ma che fino ad un certo momento trovò alcuni limiti nel carattere autoritario del regime e nel controllo, anche fuori del processo, del comportamento dei giudici. Nel 1944 con il ripristino delle attenuanti generiche e soprattutto nel 1974 con la riforma che allargò sia il sistema del cumulo giuridico sia quello della continuazione criminosa sia quello del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee, gli eccessi nell’uso del potere discrezionale sono aumentati, quasi con autorizzazione legale. A questo tipo di mali è tuttavia agevole cercar di porre rimedio nell’ambito di una riforma del codice sostanziale. Sono tutti istituti, quelli ora menzionati, che trovano la loro sede tradizionale in detto codice e ci sarà dato di parlarne nei cenni, che spero brevi, relativi ai contenuti della riforma. 4. Sia prima consentita qualche considerazione attinente al metodo della riforma. Una prima elementare e prioritaria esigenza, a cui dovrebbero assolvere coloro che sono chiamati a questo ennesimo tentativo di dar vita ad un nuovo codice penale, è quella di mettere a punto un progetto della parte speciale, e cioè della parte dedicata alla configurazione dei vari reati. È una esigenza già autorevolmente sottolineata da altri (penso ai professori Mantovani e Palazzo), ma che a mio avviso è impreteribile. Non vedo come si possa costruire uno schema di parte generale avendo sott’occhio soltanto le figure di reato oggi esistenti (cioè quelle proprie di una legislazione destinata ad essere sostituita) e non invece le figure destinate a rimanere o ad apparire sul proscenio contemporaneamente alla parte generale stessa. Faccio al riguardo solamente qualche esempio. Gli autori di un progetto di parte generale dovranno indubbiamente chiarire, riformando — come è pacifico che avverrà — in un modo o nell’altro l’art. 42 del codice Rocco — e in particolare far comprendere all’interprete se esistano o meno nel nostro ordinamento penale forme di elemento psicologico diverse dal dolo e dalla colpa, sia pure nel rispetto del principio di colpevolezza e nel connesso ripudio di forme di responsabilità oggettiva. Per esempio, è noto che alcuni scrittori individuano nella semplice prevedibilità in concreto dell’evento una forma di colpevolezza diversa dalla colpa e invitano a considerare come il concetto genuino della colpa, sempre riconducibile a inosservanza di precauzioni doverose (secondo la formula omnicomprensiva proposta da Francesco Antolisei e seguita da tanti autorevoli penalisti) mal si attagli ai casi in cui la responsabilità nasca da un fatto già di per sé penalmente rilevante (in genere a titolo di dolo) e si tratti di reprimere oltre a questo fatto anche le ulteriori e diverse conseguenze riconducibili ad altro riprovevole atteggiamento psico-


— 23 — logico dell’agente. Domando: si può pensare di provvedere ad una chiara definizione o regola di parte generale senza aver prima consumato l’attento esame della fattispecie di omicidio preterintenzionale e di tutti i tipi di delitti aggravati o qualificati dall’evento che saranno presenti nell’ordinamento anche al di fuori dei casi nei quali l’evento lesivo non voluto attenga al sacrificio della vita o dell’incolumità del soggetto passivo? Queste conclusioni mi sembran cogenti anche nel caso in cui fosse riconosciuto valido l’orientamento testé accennato, che vede incompatibilità tra dette forme di responsabilità e il concetto di inosservanza di precauzioni doverose e prevalga invece l’indirizzo, molto forte tra i nostri giuristi e proclamato da alcuni codici stranieri, secondo cui tutti questi casi di responsabilità aggravata (od autonoma come nell’omicidio preterintenzionale, figura che è estremamente improbabile che venga mantenuta) debbono essere ricondotti nel grande alveo della colpa, unica forma di elemento psicologico diversa dal dolo. Anche una simile decisione (pur comune a tutti i progetti di codice finora sul tappeto) non può non essere preceduta da una disamina di tutte le speciali (e numerose) ipotesi testé indicate e dalle scelte relative. Ancora sull’elemento soggettivo. Esistono nel nostro ordinamento casi nei quali la fattispecie legale prevede espressamente un dolo intenzionale: basterebbe pensare all’art. 323 (abuso d’ufficio), in cui l’intenzionalità del conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale è elemento costitutivo del reato; mentre tale tipo di reati è destinato ad allargarsi nella futura legislazione, per esempio nel caso delle falsità in bilancio e in altre comunicazioni sociali, se si pensa che l’art. 11 della legge-delega per la riforma del diritto societario prevede come elemento essenziale di alcune delle principali fattispecie legali in esso definite l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico o i destinatari di speciali comunicazioni (nn. 1, 2 e 3 del suddetto articolo, oggi ripetuto nei nuovi art. 2621 e 2633 c.c., quali risultano nel decreto delegato di recente pubblicazione). Come si fa — domando — a non considerare previamente l’opportunità o meno del mantenimento di formule consimili e a considerare questa problematica legislativa disgiuntamente da una eventuale definizione generale del dolo? In ogni caso temo che il mantenimento di figure speciali caratterizzate da un richiamo espresso alla loro intenzionalità, pur rispondendo a criteri di politica penale volti ad evitare abusi e sconfinamenti di delitti dolosi verso forme sostanzialmente colpose o di responsabilità oggettiva, aumenti il pericolo di un allargamento a tutti gli altri reati, o a gran parte di essi, della figura, un tempo marginale, del dolo eventuale che già oggi tende ad abbracciare, per lo meno per i delitti consumati, l’intero campo del dolo. Per giunta, in questo campo, l’evolversi tutt’altro che positivo delle società ci ha riportato, e non solo in Italia,a dover prendere in più attenta considerazione nuove fenomenologie di rischio, per le quali


— 24 — potrebbe crescere la tentazione di creare nuove fattispecie legali specifiche. Sono tutti problemi da rivedere insieme e la cui esistenza dimostra quanto sia sconsigliabile avventurarsi nella formulazione di una parte generale senza avere prima chiaramente stabilito quelle che saranno le fattispecie della parte speciale: quanto meno della parte speciale del codice. Non va dimenticato che tutta la materia del dolo è da tempo, in Italia, in grave tormento a causa di manifesti ed indiscutibili abusi compiuti dalla giurisprudenza, che hanno indotto Cesare Pedrazzi a parlare, sia pure con un punto interrogativo, di ‘‘tramonto del dolo’’. Se ci sarà un nuovo legislatore che possa tentar di costruire una valida parte generale, occorre che egli si occupi prioritariamente di questo problema dell’elemento soggettivo e che lo faccia in modo valido ad impedire o almeno a contenere gli abusi. Libero poi sempre, il legislatore stesso, di colpire con alte pene forme colpose di responsabilità penale quando abbiano indotto grave danno o siano state poste in grado di produrlo. Ancora. Vi sono, sempre vivi, i problemi posti dal principio di offensività, oggetto da vari decenni di approfondito esame da parte della dottrina penalistica italiana. Essi sono anche problemi primari per la eventuale riforma del codice. Gli autori del progetto di legge-delega presentato alla Commissione presieduta dal professore Pagliaro hanno optato a suo tempo per l’inclusione di detto principio nel capitolo di parte generale intitolato alla legge penale, accanto al principio di stretta legalità. Esso viene presentato, a dire il vero, come un ‘‘canone ermeneutico’’, nell’articolo dedicato alla interpretazione ed applicazione della legge penale, e consiste nell’imporre di interpretare la norma ‘‘in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico’’. Tuttavia nella relazione che accompagna il progetto il principio di offensività viene definito come ‘‘il baricentro’’ di ogni diritto penale non totalitario e non liberticida, e dunque come una necessaria integrazione del principio di legalità, che verrebbe così ad essere costituito dal binomio inscindibile tipicità-offensività. Successivamente anche il progetto della Commissione presieduta dal prof. Grosso (e siamo qui nell’anno 2000), collocando la materia in un articolo dedicato all’applicazione della legge penale, ha usato la formula seguente: ‘‘Le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano un’offesa al bene giuridico’’. Questa formula non mi dispiace, ma non mi sentirei di affermare che essa giova ad interdire al legislatore penale di prevedere figure che non definirei ‘‘reati senza offesa’’ per il suono perverso di questa definizione, ma che contengono la previsione dei cosiddetti delitti di pericolo astratto o di pericolo presunto. Ed allora, anche in previsione dei contrasti che continueranno ad esistere nella dottrina penalistica italiana a proposito del principio di offensività e della diffidenza per una sua previsione (non si sa ancora in quale forma) nella nuova parte generale, perché non procedere prioritariamente ad un attenta visione di


— 25 — tutte le figure di reato che vengono chiamate di mera condotta o delle varie specie dei delitti di pericolo e perfino delle contravvenzioni destinate a rimanere nel codice, talune delle quali hanno somiglianza, quando non identità, con i délits-obstacles di altre legislazioni? E come si fa a non considerare previamente con pari attenzione tutte le figure di attentato che si vogliono mantenere o addirittura introdurre nella parte speciale del codice? Senza dire che la stessa figura generale del reato impossibile, destinata a rimanere nella parte generale ove non si introduca espressamente in essa il principio di necessaria offensività, non potrà essere utilmente rivista senza una previa rivisitazione dei reati di mera preparazione di cui il nostro ordinamento è disseminato. Vi è, poi, anche il tema dei reati associativi, che non può essere abbandonato a sé stesso senza un qualche punto di riferimento nella parte generale; mentre a sua volta quest’ultima (penso alle norme sul concorso di persone, ma non solo a queste) non può dimenticare l’esistenza e la crescente solidità dei reati associativi stessi e il ricorso che a taluni di essi farà senza dubbio anche un ordinamento penale rinnovato. C’è molta confusione sotto il cielo e ogni dimenticanza o rinvio della parte speciale non può non produrre nuovi guai o costringere a sperimentazioni di scarsa utilità. Infine (e qui vorrei terminare questa esemplificazione) v’è il problema delle pene. Come si fa a stabilire i princìpi relativi alla commisurazione della pena ed altre regole proprio della parte generale senza aver prima esaminato che cosa si intenda proporre quanto alle pene edittali? È chiaro per una serie di segni che le pene edittali del codice Rocco e della legislazione speciale prodottasi sul suo modello debbono essere profondamente riviste: nei minimi come nei massimi; e che la stessa tipologia delle pene, che si tende ad allargare, debba essere vista anche alla stregua delle fattispecie legali esistenti o creande. Altrimenti si rischia di proporre nella parte generale un catalogo di pene del tutto ipotetico, non si vede con quanta congruità rispetto ad un codice rinnovatore. 5. Al di là delle esigenze di collegamento tra parte generale e parte speciale (che vorrei quasi denominare necessaria priorità logica della parte speciale) vi sono, in favore di un tentativo di redazione di un progetto di parte speciale del codice penale, ragioni non più metodologiche ma di sostanza. In paesi come quelli del tipo latino europeo, dove esistono oramai da tempo solidi principi costituzionali e corti preposte al controllo della osservanza di tali princìpi, le innovazioni più caratteristiche non sono, oramai, rappresentate da norme concernenti la teoria generale del reato, bensì dalle norme della parte speciale. È soprattutto con le singole figure di reato (o gruppi di figure di reato) che la società manifesta le pro-


— 26 — prie esigenze di intervento penale mutevoli nello sviluppo dei tempi e di fronte a fenomeni nuovi; e inoltre sono soprattutto le innovazioni portate nella parte speciale di un codice quelle che segnalano l’orientamento ideologico delle maggioranze e la visione politicamente prevalente nel paese in un determinato momento storico. Non è un caso che oculata dottrina (penso ancora a Franco Bricola, ma non solo) abbia ritenuto doversi tracciare una linea direttiva comune all’intera parte speciale e questa linea abbia individuato nella tutela dei beni costituzionalmente rilevanti. Non entro qui, di certo, in quest’ultima disputa (anche perché la prevalenza degli studiosi ritiene che una siffatta selezione sarebbe eccessivamente restrittiva) ma constato che sono soprattutto le norme della parte speciale quelle che forniscono il terreno di intese o di contese politiche creando in certi casi le maggiori tensioni. Guardando ad un passato non remoto, basti pensare ai reati in materia di abuso e traffico di stupefacenti, la cui disciplina, dopo il codice Rocco, è cambiata tre volte (1954, 1978 e 1990), ai reati in materia di prostituzione in relazione alla rifonna del 1958 ed anche a quella, più contenuta, del 1998, alla eliminazione delle figure di reato qualificate dalla causa d’onore, alle norme penali destinate a combattere la delinquenza mafiosa, il riciclaggio e l’usura, e alla riscrittura, avvenuta dopo tante polemiche cinque anni addietro, di alcune delle disposizioni del codice penale destinate a reprimere i delitti di violenza sessuale. Mentre se si guarda al futuro, destano indubbiamente grandissimo interesse morale e sociale le particolareggiate previsioni dedicate dal ricordato progetto di legge-delega presentato dalla Commissione Pagliaro (1993) a proposito dei reati contro la dignità dell’essere umano, tra cui figurano in separati capi sia i reati contro l’identità genetica che i reati contro la dignità della maternità e quelli di commercio di parti del corpo umano vivente. Così pure — sempre guardando al futuro di un codice completamente rinnovato anche sotto l’aspetto della incorporazione in esso di reati che tradizionalmente sono previsti nella legislazione speciale (e questa sarebbe opera carica di problemi e di difficoltà, ma indice di grande serietà) — meritano la considerazione più attenta i capi del progetto stesso dedicati ai reati contro i rapporti di lavoro, ai reati contro l’ambiente, a quelli contro il patrimonio culturale e a quelli contro la flora e il paesaggio: tutti interessi primari della collettività che non possono essere del tutto abbandonati alla continua mutevolezza delle leggi speciali e debbono invece trovare posto nel codice. Sui contenuti della parte speciale del codice, futuro ed eventuale, non vorrei dire altro. Ricordo soltanto che i compilatori avranno, tra gli altri, anche il compito di tradurre in precise disposizioni di legge i contenuti di non poche sentenze emanate dalla Corte costituzionale per quasi cinquant’anni. Si tratta prevalentemente di sentenze interpretative di rigetto, con le quali, preferendo siffatta procedura a quelle di abolizione o elimina-


— 27 — zione, si delimitano, in aderenza a princìpi costituzionali, una quantità di fattispecie legali previste nel codice Rocco: non solo nel campo dei delitti contro la personalità dello Stato o di vilipendio o di alcuni delitti contro l’ordine pubblico, ma anche nel campo dei delitti contro l’amministrazione della giustizia. Sarà un compito impegnativo anche questo, perché — oltre alla scelta di principio (incriminare o abbandonare l’incriminazione) — dovrà, nel caso di mantenimento della incriminazione, tenersi conto di requisiti e di limiti che dovrebbero poter essere segnati con la precisione e la chiarezza che si richiedono al legislatore: una precisione e una chiarezza che sono state formalmente richieste dalla sentenza n. 364 del 24 marzo 1988, redatta da Renato Dell’Andro; una sentenza costituzionale celebre e meritatamente esaltata, ma purtroppo rimasta per questa sua parte finale senza seguito, avendo il patrio legislatore continuato a scrivere articoli e commi poco comprensibili e soprattutto a tessere un sistema intriso di contraddizioni e fonte di molteplici dubbi. Vorrei terminare con un piccolo chiarimento queste considerazioni sull’esigenza di mettere a punto una vasta parte speciale prima di procedere al varo del codice. Qualcuno, e non solo in Italia, pensa che si potrebbe utilmente procedere alla pubblicazione di una nuova parte generale riservando a momenti ulteriori di provvedere a varare i capitoli della parte speciale man mano che saranno pronti e il momento parrà maturo. Anzi si sottolinea che la parte generale è quella dominante e che le disposizioni di parte speciale (le quali, a mio avviso, dovranno continuare ad avere come punto di partenza, nonostante tutte le crisi che ne sono state denunciate, il bene giuridico che si intende proteggere) dovranno conformarsi ai princìpi contenuti nella parte generale. Non si tratta di questo. Io rimango contrario all’idea di un varo separato, anche perché diverrebbe fonte di facili critiche la sostituzione soltanto parziale di un codice ultrasettantenne senza avere potuto portare il lavoro integralmente a termine. Certamente alcune delle innovazioni contenute in un progetto di nuova parte speciale potrebbero trovare in parlamento ostacoli insuperabili, assai più di quanto penso che possa accadere per innovazioni recate alla parte generale. In tal caso — ma solo di fronte alla constatata impossibilità di un accordo o di una maggioranza ragionevolmente ampia — sarebbe ammissibile lo stralcio. Rimarrebbe tuttavia acquisito il necessario collegamento di principio tra l’una e l’altra parte del codice, nel senso che la parte generale sarà stata varata alla stregua di un esame concreto e totale della costituenda parte speciale e che contraddittorietà o incongruenze saranno state, almeno per il momento, evitate. 6. Le considerazioni di carattere metodologico su progetti di riforma tanto importanti come quello di un codice penale non possono certo fermarsi al tema dei rapporti tra parte speciale (o anche leggi penali


— 28 — speciali) e parte generale. Ben altro vi sarebbe da dire. Vorrei solo accennare ai rapporti tra la riforma del codice penale e lo stato del sistema processuale e del sistema penitenziario. Per quest’ultimo il discorso è più semplice e va risolto anzitutto con il ritorno (un ritorno ideale perché prima della legge penitenziaria del 1975 le misure alternative alla pena detentiva neppure esistevano) della materia dell’esecuzione della pena, quanto meno nei suoi istituti essenziali, al codice penale. Il fatto che le cosiddette misure alternative alla detenzione non stiano nel codice penale è probabilmente dovuto all’essersi ritenuto negli anni Settanta che la prima legge penitenziaria della storia del paese dovesse caratterizzarsi anche per le innovazioni recate in tale campo; ma al groviglio, spesso di difficile comprensione, creatosi tra istituti contenuti nel codice penale (come la sospensione condizionale della pena) e istituti quali l’affidamento in prova del condannato ai servizi sociali, che sono viceversa tuttora regolati dalla legge penitenziaria e dalle sue numerose modificazioni, dovrà esser messo fine. Come ebbi già a segnalare all’epoca della riforma Grosso, è indispensabile, quanto meno, che sia una sola e medesima commissione ad occuparsi dell’esecuzione della pena detentiva e delle misure alternative. Basti pensare che la citata commissione ha ritenuto (e chi potrebbe darle formalmente torto?) di poter dettare una disciplina per il solo affidamento in prova del minore e non di quello dell’adulto, che sta nella legge penitenziaria; e che la detenzione domiciliare è venuta a figurare (e mi par giusto una volta che questa sanzione venga mantenuta) tra le pene principali mentre oggi fa ancora parte delle misure alternative contemplate dalla legge penitenziaria. Ma non si tratta solo di queste esemplari distonie tra un codice penale in costruzione e leggi penitenziarie soggette ad ogni stormir di fronda. Si tratta di qualcosa che va oltre questo o quel progetto di codice penale. È inconcepibile che in un ordinato sistema penale, in cui le sanzioni non possono non continuare ad essere una parte essenziale e caratterizzante, le sanzioni stesse (sia pure soltanto quelle detentive, che sono destinate a rimanere le più importanti) siano affidate quasi integralmente alla legge penitenziaria, e cioè ad un testo che nonostante ogni amplificazione ed enfatizzazione e nel rispetto che le modalità della detenzione debbono mantenere per i diritti del detenuto, è pur sempre nella sostanza un regolamento di esecuzione. La situazione attuale determina non poche incongruità ed inconvenienti. Come si può pensare a non regolare unitariamente la sospensione condizionale della pena e l’affidamento in prova, che alla prima dovrebbe finire per essere ricondotto o quanto meno fortemente collegato? Come si possono lasciar sopravvivere le incomprensibili interferenze tra la liberazione condizionale e le misure alternative applicate sul residuo della pena detentiva? E gli interrogativi potrebbero continuare. Quel che par certo è che per realizzare un comprensibile e razionale sistema sanzionatorio la disciplina del codice penale e


— 29 — quella penitenziaria vanno esaminate congiuntamente e i problemi comuni o le interferenze vanno risolti insieme. La proposta di unificazione dei lavori del codice penale con una revisione di una parte almeno della legge penitenziaria è di così chiaro fondamento da non meritare altri commenti. Più complesso è il tema dei rapporti tra codice penale e sistema processuale penale, soprattutto da quando gli spazi di applicazione dei riti alternativi — e segnatamente del patteggiamento e del giudizio abbreviato — sono stati tanto allargati (e v’è chi vorrebbe allargarli ancora). Il fenomeno della processualizzazione da tempo studiato e segnalato come intollerabile da insigni studiosi, deve trovare anch’esso un termine, in nome di esigenze di giustizia, di eguaglianza e direi anche di serietà. Tutti conosciamo il grande amore per i riti alternativi che ha pervaso da anni e tuttora pervade alcuni magistrati; e tutti dobbiamo sforzarci perché la giustizia italiana debba trovare, almeno in molti casi e con il consenso dell’imputato, le strade per un alleggerimento del peso dei suoi riti ordinari e per una accelerazione del suo funzionamento; ma certe distorsioni sono insopportabili se vengono praticate nello stesso momento in cui si invocano maggiore e più avveduta prevenzione generale dei reati ed effettività della pena. Se si vogliono questi risultati la prima parola non può che ritornare al diritto penale sostanziale e a coloro che sono chiamati a riformarlo. E la sanzione punitiva comminata, ovviamente nel rispetto dei princìpi costituzionali, dal giudice di cognizione dovrà riprendere il suo peso, restituendo la magistratura di sorveglianza ai suoi limiti ontologici, che riguardano l’esecuzione della pena già inflitta. Del resto questa non è che una reciproca. Affermata dalla Corte costituzionale a chiare lettere (sin dal 1990) la pertinenza del principio rieducativo enunciato nel comma 3 dell’art. 27 anche all’opera del legislatore e a quella del giudice di cognizione, non si vede perché poi, nella pratica, delle esigenze rieducative non debba occuparsi per primo il giudice di cognizione. 7. Sui possibili, od auspicabili, contenuti della riforma — e pur limitandomi ai propositi di modifica della parte generale — cercherò di essere estremamente breve perché il tempo questo impone. Prenderei lo spunto dalla riforma Grosso sia perché è la più recente sia perché, lungi dal poterla considerare superata, pare che continuerà ad essere presa in attenta considerazione. Nel progetto Grosso merita, a mio avviso, approvazione, nel complesso, tutta la parte dedicata alla legge penale. Sono stati ivi ribaditi i princìpi contenuti nel codice vigente, approfondendone alcuni aspetti e tenendo conto di una lunga elaborazione, anche costituzionalistica, intervenuta dopo la Costituzione del 1948 e negli anni immediatamente precedenti. La novità — già ricordata — è rappresentata dall’accettazione del


— 30 — principio di necessaria offensività del reato, introdotto non inopportunamente nell’art. 2, relativo all’applicazione della legge penale, che appare, in alcune delle sue proposizioni, una prosecuzione dei commi dedicati all’art. 1 al principio di legalità. Può sembrare un riconoscimento un poco timido, ma questa stessa via era già stata indicata dal progetto della commissione Pagliaro. Nel concorso apparente di norme, desta perplessità, per il timore di applicazioni arbitrarie, la proposta, peraltro scientificamente corretta, contenuta nel comma 2 dell’art. 4, dopo il principio di specialità; ‘‘Quando un medesimo fatto appare riconducibile a più disposizioni di legge, si applica quella che ne esprime per intero il disvalore’’ (è una formula con cui il legislatore intenderebbe regolare espressamente i criteri della consunzione, della sussidiarietà, della alternatività e simili, oggi lasciati all’interprete). Nel campo dei limiti della legge penale italiana in relazione allo spazio il progetto Grosso introduce alcune modificazioni che mi sembrano in linea di massima da condividere. L’abolizione dell’anomala ed ambigua figura del delitto politico era del resto comune ai progetti precedenti. Da approvarsi è l’estensione (in certa misura collegata con l’abolizione della figura del delitto politico) della punibilità incondizionata di delitti commessi all’estero (art. 7 del codice vigente) ai delitti di omicidio e lesioni gravissime dolose, di sequestro di persona a scopo di estorsione e di violenza sessuale in danno di cittadini italiani. Del pari mi sembra da approvarsi il mantenimento del sistema di cui all’art. 10 attuale (delitti commessi dallo straniero all’estero, compresi quelli contro Stati esteri o soggetti stranieri) con l’indicazione peraltro non più solamente di delitti individuati attraverso la pena edittale bensì anche di delitti la cui gravità è espressa dal titolo: omicidio, sequestro di persona e così via. Indubbiamente questa grande estensione della punibilità di delitti commessi all’estero in danno di interessi stranieri (propria peraltro già del codice del 1930) può destare qualche perplessità, anche in relazione ad una risalente dottrina che indicava come principio generale di diritto internazionale quello in virtù del quale la potestà punitiva dei singoli Stati doveva trovare un limite in fatti ad essi completamente estranei, privi di un qualsiasi momento di collegamento. Nei casi sopra indicati il momento di collegamento vi è, anche se limitato al fatto della presenza del reo nel territorio dello Stato italiano. D’altra parte si tratta di materia in perenne elaborazione politica, anche in relazione al fatto della cosiddetta globalizzazione, a cui neanche il diritto penale può, entro certi limiti, sottrarsi, oltre che a motivi umanitari. Opportunamente, infine, è stata lasciata fuori del codice la materia dell’estradizione, che — anche in ragione della sua complessità — dovrebbe insieme ad altre materie limitrofe, venire disciplinata in una apposita legge organica. Si tratta del resto di materie ‘‘miste’’, in cui le re-


— 31 — gole di diritto sostanziale sono affiancate da speciali regole processuali, sì che ne è opportuna una visione unitaria. Anche la recente e non positiva esperienza della direttiva-quadro volta a creare il cosiddetto mandato d’arresto europeo porta a rendere avvertiti della necessità di una disciplina organica ad hoc, che sia ben meditata in ogni sua implicazione. Nella disciplina proposta dalla Commissione Grosso per la materia attinente al reato in generale si rinvengono le innovazioni più significative al sistema attualmente esistente, alcune delle quali da tempo reclamate in seguito ad approfondimenti degni del massimo rilievo avvenuti da parte della dottrina nell’ultimo cinquantennio. Tali innovazioni riguardano anzitutto: a) l’introduzione del criterio della causalità umana nella disciplina del rapporto di causalità, mantenuta nel codice e sempre fondata sul criterio della condizione necessaria, valorizzato quest’ultimo anche per la causalità omissiva; b) l’espressa puntualizzazione delle fattispecie di pericolo concreto; c) l’espressa previsione delle posizioni di protezione di persone o di beni, delle posizioni di controllo su fonti di pericolo e soprattutto delle posizioni di garanzia, con particolare riguardo agli adempimenti nell’ambito di organizzazioni complesse, accompagnati dall’indicazione dei requisiti minimi dei modelli organizzativi da adottare. A prescindere da questa o quella correzione da introdurre in tutta questa nuova normativa riccamente articolata, si tratta di innovazioni destinate a ridurre grandemente e motivatamente il sostanziale vuoto normativo creato dalla formulazione dell’attuale capoverso dell’art. 40 e dunque ad assicurare l’osservanza del principio di legalità sotto l’aspetto della determinatezza e tassatività e della certezza del diritto. La relazione che accompagna il testo dimostra la consapevolezza di alcuni dei pericoli sociali insiti in questa impostazione, ma chiarisce in modo a mio avviso convincente le ragioni della scelta. Tutta questa materia della responsabilità per omissione si intreccia fatalmente con discipline speciali e con la stessa parte speciale del futuro codice, nella quale potrebbero venire introdotte nuove fattispecie, anche in tema di trattamento medico chirurgico: ad esempio, il rifiuto di intervento terapeutico od altre omissioni specifiche. In genere è da prevedere che tanto gli articoli dedicati al rapporto di causalità in generale quanto quelli dedicati alla responsabilità per omissione formeranno oggetto di particolare attenzione sia in seno alle nuove commissioni che in seno al Parlamento. Si tratta di una delle parti più delicate della riforma, peraltro necessaria fino a quando (e speriamo che sia sempre) si deciderà di affidare alla legge, e non a interpretazioni più o meno libere, il tema della responsabilità penale. Assai forti sono pure alcune delle innovazioni proposte dalla Commissione Grosso in materia di colpevolezza, anche se rispondenti ad approfondimenti già compiuti nel corso degli anni dalla dottrina e dalla giu-


— 32 — risprudenza e in linea con un comune sentire, oltre che ad un bisogno di chiarificazione. Vengono eliminate tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva o quasi-oggettiva, il delitto preterintenzionale, la responsabilità dolosa (anche se diminuita) per la produzione di un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti (art. 116), nonché l’attuale articolo 117 e l’aberratio delicti; e viene trasformato il trattamento sanzionatorio dell’aberratio ictus con pluralità di eventi prevedendosi la responsabilità per uno dei due eventi come delitto colposo concorrente anziché la punizione, come è oggi, con un consistente aumento di pena su quella stabilita per il delitto doloso; egualmente per i delitti aggravati dall’evento quest’ultimo viene posto a carico dell’agente solo se ascrivibile a colpa. Il tutto ispirato ad una osservanza la più rigorosa possibile del principio di colpevolezza dichiarato presupposto indefettibile della responsabilità penale. In nome di questo principio qualche studioso auspicherebbe una abrogazione ancora più ampia. Il dolo viene distinto, nell’ultima relazione, in tre tipi: intenzionale, diretto ed eventuale. Che anche quest’ultimo meriti di essere previsto dalla legge, anziché lasciato agli arbitri della giurisprudenza, mi sembra una necessità. Un tempo il dolo eventuale era una figura quasi marginale, fortemente condizionata dalle difficoltà probatorie su un intimo atteggiamento del pensiero e della volontà dell’agente, e dunque di limitata applicazione. Invece, a poco a poco, esso è stato esteso dalla giurisprudenza in modo del tutto improprio. Oggi il problema del legislatore italiano è quello di porre un margine a questa estensione e dunque di trovare una formulazione vincolante che ponga decisamente l’accenno sul requisito della volontà: volontà di produrre l’evento delittuoso, sia pure nella forma della consapevole accettazione della sua eventuale verificazione. Il pericolo è sempre quello che ci si accontenti della rappresentazione, finendo per punire a titolo di dolo casi di colpa cosciente. Nel progredire dei suoi lavori la commissione Grosso ha fatto significativi passi in questa direzione. Si tratta ora di approfondire il punto e di trovare una formula più felice di quella da ultimo proposta. Notevole impegno (anche se da alcuni ritenuto non sufficiente) ha posto la Commissione Grosso nella definizione della colpa penale. In ogni caso mi sembra da approvare il riferimento esplicito alla prevedibilità ed evitabilità del fatto nonché la disciplina dei rapporti tra colpa specifica e colpa generica. Manca tuttavia ogni anche timido tentativo di realizzare — secondo quello che ha richiesto nel progetto di legge-delega proposto dalla Commissione Pagliaro — ‘‘la definizione di colpa in modo che in tutte le forme di essa l’imputazione si fondi su un criterio strettamente personale’’. A questo punto il discorso dovrebbe allargarsi perché tutto il progetto Grosso è ancorato ad una visione di diritto penale del fatto, sì da


— 33 — meritare la conosciuta e vivace critica del professor Donini di aver completamente dimenticato l’autore e di essersi con ciò tradotto in una integrale deriva. Penso anch’io che l’impegno per un nuovo codice debba consistere nel prossimo futuro soprattutto in una revisione del progetto Grosso sotto questo aspetto e che non pochi siano i punti in cui si può adeguatamente incidere in detta prospettiva senza correre il rischio di una inutile imbellettatura. Ma intanto il merito del progetto Grosso è quello di averci fornito uno schema di revisione attenta e sensibile del diritto penale del fatto, anche se su di esso si potranno — e, ripeto, dovranno approntare — i necessari correttivi. Ad uno di questi ha già provveduto la stessa Commissione in discorso nell’ultima fase dei suoi lavori quando — proprio per rispondere all’esplicita richiesta del Donini e di altri partecipi del dibattito a suo tempo avviato — ha accettato di introdurre, nel nuovo art. 74, la causa di ‘‘non punibilità per particolare tenuità del fatto’’ indicando tra i requisiti essenziali dell’istituto ‘‘l’occasionalità del comportamento del colpevole e l’insussistenza di esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato’’. Viceversa mi sembra doversi riesaminare attentamente l’idea di abbandonare la distinzione proposta dalla Commissione Pagliaro con due elencazioni quanto mai precise (art. 16 e 17) tra cause (oggettive) di giustificazione e cause (soggettive) di esclusione della colpevolezza. Non si tratta solo di un problema di inquadramento dogmatico, come la relazione della Commissione crede di potere affermare, ma di una distinzione attinente alla configurazione di un diritto penale che tenga adeguato conto anche della situazione personale dell’autore e del rispetto che alla stessa è dovuto. Ritengo che questa delle esimenti sia una parte da cancellare e che si debba tornare con decisione al progetto della Commissione Pagliaro distinguendo le cause di giustificazione da quelle che escludono la colpevolezza. Pericolosa anche, sempre sotto questo profilo dell’esigenza di dar rilievo all’autore, mi sembra la proposta abolizione delle circostanze attenuanti generiche (delle quali già aveva proposto la soppressione la Commissione Pagliaro). La Commissione Grosso, con rispettabile richiamo alla legalità e alla certezza, spiega che esse vanno eliminate perché la prassi le ha sfigurate in ‘‘un indulgenzialismo gestito in modi non uniformi e non controllabili’’. Temo (vi ho già accennato) che ci sia sotto dell’altro: e precisamente l’insofferenza per un istituto la cui applicazione, nel sistema attuale, determina troppo frequentemente l’accorciamento dei tempi di prescrizione del reato. 8. Uno dei punti cruciali per qualsiasi seria riforma del codice Rocco e di talune sue impostazioni è quella della svolta che va operata sul


— 34 — concorso di persone nel reato. L’art. 110 del codice Rocco è a mio avviso la disposizione più anticostituzionale che esista nell’ordinamento penale italiano. Dal momento in cui è entrata in vigore la Costituzione tale disposizione contraddice in modo flagrante l’art. 25 comma secondo, che per costante dottrina e giurisprudenza vuole che la determinatezza del precetto sia elemento essenziale del principio di legalità. L’art. 110 viola il principio di determinatezza, ma anche il principio costituzionale di eguaglianza. Staccandosi da tutti i codici di tradizione latinogermanica, tradizione della quale il codice Zanardelli fu mirabile interprete (nonostante alcuni difetti secondari che nessuno intende negare), il codice Rocco annega ogni criterio di razionalità in un indistinto rapporto di causalità (con un solo irrilevante spiraglio, per giunta facoltativo, nel primo comma dell’art. 114), omettendo del tutto una descrizione e persino una menzione delle condotte punibili e parificando, contro eguaglianza e giustizia, tutte le ipotetiche e non descritte condotte integranti concorso nel reato. L’art. 110 non ha fatto che gettare semi di ingiustizia, di confusione e di incomprensione. La vaga sensazione che in esso qualcosa non andasse nel verso giusto ha anche contribuito a generare presunti mostri, come il ‘‘concorso morale’’ nei delitti di terrorismo e come il ‘‘concorso esterno’’ nei reati associativi, dove non solo si è smarrita la giurisprudenza, ma si smarrisce il cittadino che voglia tentare di capirci qualcosa. E mi permetto di dire ‘‘presunti’’ mostri perché a mio avviso hanno diritto di cittadinanza sia il concorso morale nelle forme tipiche dell’istigazione e della determinazione al reato sia il concorso esterno nelle forme dell’aiuto od ausilio (oltre che dell’istigazione, ancorché più rara e quasi scolastica) nei reati associativi. La da taluno ritenuta ‘‘mostruosità’’ non sta certo nelle figure del concorso morale o in quelle del concorso esterno in reato associativo, ma nella loro incerta costruzione, legata ad uno smarrimento crescente nella interpretazione, oltre che nella mancata differenziazione edittale della pena. Non ho bisogno di ricordare che nei codici di tradizione latino-germanica esistono: a) ipotesi tipiche di concorso nel reato, quali l’istigazione (concorso morale) e l’aiuto (concorso materiale), l’antica figura del mandato a delinquere essendo stata assorbita da quella dell’autore mediato; b) pene diverse per il concorrente, già nel momento edittale, da quelle previste per l’autore principale. Questi due pilastri sono venuti a sparire con il codice del 1930. E si è creato quel che si è creato. La Commissione Grosso si è resa pienamente conto dell’anomalia di questa situazione e delle esigenze di riforma dell’art. 110 e connessi. Ma ha operato in modo incerto e debole, insufficiente a porre riparo ad una situazione così gravemente compromessa. L’art. 43 del suo progetto ripristina, per fortuna, la tipicità delle condotte (tra cui figurano l’istigazione e l’aiuto), requisito inalienabile da una seria e giusta disciplina del con-


— 35 — corso. Ma, a parte talune critiche secondarie che si possono rivolgere ad alcune formulazioni, è carente sull’altro punto fondamentale, quello della determinazione di una diversa pena edittale. Si accontenta di risolvere il problema con il comma 1 dell’art. 44 statuendo che ‘‘la pena è diminuita per le condotte attive di rilevanza oggettivamente modesta’’, opportunamente trasformando l’attenuante da facoltativa (come è nell’art. 114 del codice vigente) in obbligatoria, ma rifiuta la soluzione di una pena edittale differenziata, necessaria quanto meno per la fattispecie di aiuto. Occorre, a mio sommesso avviso, differenziare già in partenza il concorrente dall’autore principale secondo un’antica e mai vinta dottrina. Altrimenti, se il passaggio al nuovo non è radicale, rimarranno i residui del sistema attuale, le timidezze, gli impacci, i ritorni di fiamma: una situazione pericolosa che è bene evitare. In caso di forme di concorso particolarmente gravi e rilevanti per la realizzazione del delitto al giudice non mancheranno mai i mezzi per adeguare la pena in concreto alla gravità oggettiva e soggettiva della partecipazione criminosa. 9. In materia di concorso di reati si potrebbe dire che per il concorso materiale il progetto della Commissione Grosso segue una linea intermedia tra quella che caratterizza il progetto Pagliaro e quella che caratterizza il progetto Riz: quest’ultimo conteneva il principio del cumulo materiale, ovviamente con i tradizionali limiti massimi, mentre il progetto Pagliaro era passato decisamente al cumulo giuridico. Il progetto Grosso adotta anch’esso il cumulo giuridico, ma riducendo al triplo l’aumento preveduto nel progetto Pagliaro fino al quadruplo. Analogamente avviene per il concorso formale e per il reato continuato, dove il progetto Grosso scende dall’aumento fino al triplo a quello fino alla metà. Sono tutte opzioni possibili. Quello che invece si capisce meno è il tentativo della commissione Grosso di ridurre l’ambito della continuazione criminosa chiedendo accanto alla medesimezza del disegno l’‘‘unità di contesto temporale’’ e declinando il compito di precisare questo concetto apparendole preferibile ‘‘lasciare spazio all’elaborazione giurisprudenziale’’: una rinuncia al compito del legislatore veramente poco comprensibile, L’elaborazione giurisprudenziale ha già di per sé ampi spazi e non è il caso di aumentarli previamente. Anche questa sarà tematica discussa in futuro. Buona mi sembra invece la scelta di stabilire espressamente che la violazione più grave, negli articoli concernenti concorso e continuazione, debba essere quella della violazione in concreto più grave e non quella della violazione più grave in astratto, riferita cioè alla pena edittale. Il legislatore deve infatti contribuire a eliminare le incertezze e le diverse vedute della giurisprudenza e non rischiare di contribuire ad aumentarle. Il sistema delle pene è stato oggetto di particolare approfondimento alla stregua dei dibattiti e delle proposte precedenti. Non occorre soffer-


— 36 — marsi su cose generalmente conosciute e tante volte invocate, come l’aumento della tipologia punitiva al di là delle pene detentive e pecuniarie: pene accessorie già esistenti, o analoghe, che vengono incluse nell’elenco delle principali come le interdizioni e sospensioni, divieti di accesso e di allontanamento, il ritiro o sospensione della patente, la pubblicazione della sentenza di condanna su rete telematica, giornali, radio e televisione; o come la pena pecuniaria per quote giornaliere e con ammissibilità del pagamento rateale, la sua sostituzione in caso di mancato pagamento con la semi-detenzione (sempre che il condannato non accetti di prestare un lavoro di pubblica utilità); o infine la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione speciale, l’introduzione della detenzione domiciliare. Le pene sostitutive delle pene detentive brevi vengono mantenute alle sole forme della semidetenzione e del lavoro di pubblica utilità (su richiesta dell’interessato) e della pena pecuniaria, eliminandosi così dal novero delle previsioni del 1981 quella della libertà controllata. E viene eliminata, come da gran tempo auspicato, la sospensione condizionale delle pene sostitutive. In generale, invece, la sospensione condizionale (istituto già reso centrale dal progetto della Commissione Pagliaro) è uno dei perni della riforma, anche se i proponenti sono stati molto accorti, con una disciplina assai penetrante, ad orientarla esclusivamente sulle esigenze di prevenzione speciale e ad evitarne possibili eccessi. Rigoroso è il legame di essa alla riparazione delle conseguenze del reato da parte del condannato ed anche ad altri obblighi chiamati ‘‘qualificati’’, quali divieti di accesso o di frequentazione, obblighi di frequentare scuole o corsi di formazione professionale, di sottoporsi a un trattamento terapeutico e riabilitativo. Rigoroso è anche il sistema dettato in relazione ad una possibile seconda sospensione. A proposito di quest’istituto ho già ricordato più sopra, in senso tendenzialmente adesivo, l’idea di chi vorrebbe vederlo legato al patteggiamento processuale una volta che questo rito alternativo venga mantenuto. 10. Resterebbero da considerare molti altri punti. Per non allungare il discorso, mi limiterò a due punti notevolmente innovativi: circostanze del reato e imputabilità. Al primo ho già accennato nella prima parte della presente esposizione. Per il computo delle circostanze il sistema del progetto Grosso è molto più severo di quello creato dalla riforma del 1974. Il bilanciamento nel caso di concorso fra circostanze eterogenee viene limitato alle circostanze ordinarie (per le quali la diminuzione di pena non è più fino a un terzo ma solo fino a un quarto) e viene escluso per le circostanze ad effetto speciale, così come avveniva sotto l’originario codice Rocco. Questa innovazione diminuisce la discrezionalità giudiziale e soprattutto contribuisce in modo pesante a diminuire i casi di prescrizione del reato. Tali finalità il progetto vorrebbe conseguire in modo ancora più


— 37 — incisivo eliminando le attenuanti generiche. Ho già detto delle mie gravi perplessità su questo punto. Pure per quanto riguarda la non imputabilità e la capacità ridotta le innovazioni proposte dalla Commissione Grosso sono notevoli, ancorché risalgano ad un orientamento dottrinale oramai radicatosi nel tempo. All’incapacità di intendere o di volere si sostituiscono le ‘‘condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità di tale valutazione’’; e all’infermità di mente si sostituiscono ‘‘l’infermità o altro grave disturbo della personalità’’. È indubitabile che con questa inclusione si aprirebbero alla non imputabilità spazi un tempo impensabili. Sarà bene riflettervi ancora. L’imputabilità in relazione alla minore età rimane ai livelli attuali: non imputabilità sotto i 14 anni e anche sotto i diciotto se il soggetto non era in grado di comprendere il significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione. Per i minori non imputabili non c’è più il riformatorio giudiziario, ma l’affidamento al servizio sociale con o senza collocamento in comunità: comunità chiusa per chi abbia commesso i delitti più gravi. Dette misure sono previste anche come pene per i minori imputabili in alternativa alla reclusione. Le misure di sicurezza personali, in genere previste solo per i non imputabili (non vi sono più — in conformità di quanto proposto con i progetti Pagliaro e Riz — misure di sicurezza personali aggiunte alla pena né per gli imputabili né per i semi-imputabili), devono rispondere a un bisogno di trattamento e di controllo, determinato dal persistere delle condizioni di incapacità che hanno dato luogo al delitto. Quando la finalità può essere perseguita con strumenti di carattere non penale, non si fa luogo alla misura. Il progetto prevede specificamente misure di ricovero in strutture con finalità terapeutiche o di disintossicazione, l’obbligo di sottoporsi a un trattamento ambulatoriale e quello di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie o di presentarsi periodicamente ai servizi sociali. Molto altro si potrebbe dire, ma credo proprio che sia venuto il tempo di porre fine a queste elencazioni, già note ai cultori della materia, anche se i temi da toccare sarebbero ancora numerosi. Nel complesso — e questo vale per tutti i progetti — in questo lungo cammino della riforma del codice penale non emerge nulla di palingenetico e di travolgente, bensì una messa a punto di concezioni oramai maturate in decenni di studio della dottrina, certamente oggetto possibile di ulteriori approfondimenti e di scelte più maturate. Non penso davvero che nuove commissioni possano andare molto al di là, mentre penso che vi sia ancora bisogno di impegno tecnico su molteplici settori. D’altra parte, se la riforma del codice è necessaria e un nuovo codice dovrà pur prendere un giorno o l’altro il posto di quello vigente, è anche vero che non esistono motivi di insuperabile urgenza. La riforma del co-


— 38 — dice — iscritta al dodicesimo ed ultimo posto del programma dell’attuale governo in materia di giustizia — è oramai prevalentemente, almeno a mio avviso, questione di ordine, di chiarezza, di serietà, nell’intento di contribuire anche su questo versante alle esigenze di un miglioramento complessivo della giustizia. Un compito che potrebbe anche apparire modesto rispetto a taluni grandi disegni del passato, alla lotta tra le scuole penalistiche, alla ricerca di uscite dal diritto penale tradizionale. Un compito tuttavia che è doveroso svolgere senza perdere inutilmente del tempo nell’inseguire fantasie, per non dire fantasmi, o in continui rimaneggiamenti parziali che troppo spesso hanno contribuito ad accrescere incertezza e disordine. GIULIANO VASSALLI


LA RIFORMA DEL CODICE PENALE NELLA SPIRALE DELL’INSICUREZZA: I DIFFICILI EQUILIBRI TRA PARTE GENERALE E PARTE SPECIALE (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Nuova codificazione e spirale dell’insicurezza. — 3. Il rapporto tra parte generale e parte speciale del diritto penale. — 4. Anticipazioni e aperture alla parte speciale in alcune soluzioni adottate nel Progetto Grosso. — 5. Rilievi conclusivi e spunti propositivi: il principio di extrema ratio come canone dominante della parte speciale e di un nuovo codice penale.

1. Con questo mio intervento vorrei proporre una riflessione su alcuni significati e implicazioni del rapporto tra parte generale e speciale nel lavoro di riforma condotto dalla Commissione presieduta da Carlo Federico Grosso, anche avendo riguardo alle modalità con cui tale rapporto sembra potersi delineare fin d’ora, sia per talune scelte adottate nella parte generale che è già sotto i nostri occhi, sia per le anticipazioni in merito al futuro assetto della parte speciale che la stessa Commissione ha formulato, a partire dal documento del 15 luglio 1999 (1). Il tentativo di identificare il punto d’equilibrio tra le due parti del codice non vorrebbe però approdare a esiti meramente descrittivi. La delucidazione di quali siano i fili interni che legano o separano queste due fondamentali componenti di ogni codificazione penale, nonché la scansione cronologica e metodologica con cui il Progetto Grosso ha scelto di porre mano a ciascuna di esse, pur coinvolgendo più le ‘‘linee esterne’’ e trasversali della riforma, il suo stile, che il merito delle singole soluzioni normative adottate, mi sembra un’operazione nevralgica per cogliere la specifica fisionomia, anche ideologica e teoretica, dell’articolato in corso di elaborazione. In queste più o meno latenti connessure, ritengo possa quanto meno intravedersi il ‘‘genoma’’ culturale e ideologico di una codificazione, che può essere disvelato dalla sua dimensione dia-logica, ossia dai legami tra le varie parti, dallo ‘‘zwischen ihnen’’, come direbbero i tedeschi, ben (*) Testo, con varie integrazioni e rielaborazioni, della Relazione presentata alla Conferenza nazionale sul ‘‘Progetto preliminare di riforma del codice penale’’, organizzata dall’ ISISC, Siracusa, 3-5 novembre 2000. (1) Lo si veda, ora, in C.F. GROSSO (a cura di), Per un nuovo codice penale, II, Relazione della Commissione Grosso (1999), Padova, 2000.


— 40 — più che dalla sostanza variamente rispettabile in termini dogmatici o politico-criminali delle sue singole componenti autonomamente considerate. In tale rapporto, a lungo trascurato dalla dogmatica (2), si localizza infatti un aspetto essenziale di quella forma della parte generale che, come ricordava Tiedemann anni fa proprio in una delle non frequenti riflessioni sulla parte speciale del codice penale, può diventare « vincolante anche dal punto di vista contenutistico », dal momento che « il contenuto di una norma muta al mutare della sua collocazione formale » (3). Aggiungerei che se i ‘‘contenuti’’ (4) del codice penale sono dati essenzialmente dalle singole fattispecie incriminatrici, queste ultime risulteranno necessariamente condizionate nel loro assetto già dal se e dal come, esplicitamente o implicitamente, la genesi della parte generale si sia sviluppata di pari passo con una loro consapevole prefigurazione. Inoltre, per un’ineludibile reciprocità, anche l’ambito di applicazione delle ‘‘regole’’ di parte generale potrà a sua volta subire sostanziali alterazioni per effetto di quelle scelte contenutistiche adottate nella parte speciale che esse non abbiano saputo adeguatamente anticipare. Del tutto pertinente al tentativo di cogliere e valorizzare la genuina circolarità di ogni componente della codificazione è il riscontro del clima politico-giuridico in cui la Commissione Grosso, composta da stimati docenti universitari di diritto penale, si è trovata a condurre la propria difficile opera. Riadattando una nota battuta di Talleyrand sui militari e la guerra (5), potremmo dire che politica e opinioni pubbliche da tempo si siano convinte che la questione criminale (e la questione penale) sia ‘‘troppo seria’’ per essere ‘‘lasciata’’ ai professori di diritto penale. Una delle derive più insidiose verso cui sospingono il ‘‘senso comune panpenalistico’’ e le ‘‘tolleranze zero’’ invocate ormai insistentemente da più parti, al di qua e al di là dell’Atlantico (6), è infatti la tendenza all’autonomizzarsi del senso di sicurezza collettiva, per effetto della quale ciò che conta (2) Cfr. K. TIEDEMANN, Zum Verhältnis von allgemeinem und besonderem Teil des Strafrechts, in FS-Baumann, Gieseking, 1992, p. 7, che rilevava come il tema fosse raramente e scarsamente trattato nella manualistica tedesca. (3) Cfr., con ulteriori riferimenti, K. TIEDEMANN, op. cit., p. 18. (4) Anticipiamo qui l’efficace concettualizzazione delle differenze tra parte generale e parte speciale, formulata in T. PADOVANI-L. STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose. Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Bologna, 1991, su cui v., infra, nel testo, il § 3 d). (5) « La guerra è una cosa troppo seria per essere lasciata ai militari ». La frase, originariamente di Charles-Maurice de Talleyrand (1754-1838), è stata attribuita a molti altri personaggi, tra cui gli statisti Lloyd George e Clemenceau. (6) Cfr. la recente istruttiva riflessione di L. WACQUANT, Les prisons de la misère, tr. it., Parola d’ordine: tolleranza zero, Milano, 2000. Un esempio rappresentativo di un tale diffuso, truce, ‘‘sentire’’, è la recente opera di G. FENECH, Tolérance zero. En finir avec la criminalité et les violences urbaines, tr. it., Tolleranza zero. Come vincere la criminalità e le violenze urbane, Milano, 2001.


— 41 — è la affermazione della tutela penale in sé, prima ancora di una netta definizione dei suoi oggetti (7); ciò che conta, ancora di più, è l’esibizione della criminalizzazione, non verificata realmente nei suoi singoli contenuti da erratiche politiche e opinioni pubbliche, inclini a conferire maggiore credibilità alle impressionanti esternazioni dell’opinion maker di turno, che alle effettive relazioni causali tra le decisioni prospettabili e il volume dei crimini individuati e puniti (8). Lo sforzo di tenere saldamente e precocemente i fili tra parte generale e parte speciale nel lavoro di riforma costituirebbe allora un passo promettente per contenere gli slittamenti cui anche le scelte di principio più illuminate si troverebbero esposte dalla tendenza corrente a concepire il senso di sicurezza (di fronte al problema criminale) in modo indipendente dal più ampio e complesso quadro di condizioni propizie a generare e approfondire le moderne insicurezze (esistenziali), collettive e individuali. Condizioni che, si veda bene, un legislatore dovrà considerare proprio e soprattutto nell’atto di confezionare il ‘‘catalogo’’ dei beni giuridici e di individuarne le relative modalità di aggressione, ossia nel corso di quell’operazione fondamentale da cui dipende la genesi della parte speciale codicistica. Condizioni destinate, inoltre, a imporsi tanto più prioritariamente all’attenzione dei riformatori laddove la loro opera debba e voglia rivendicare una stretta aderenza al canone dell’extrema ratio. La reale adozione del principio di sussidiarietà nella prassi legislativa attiva infatti innanzi tutto un processo di ‘‘deformalizzazione’’ o ‘‘materializzazione’’ del diritto penale derivante sia dalla necessità di confrontarsi con la complessità della realtà empirica, sia proprio dall’ineludibile esigenza di pensare le regole e i princìpi di parte generale insieme ai contenuti della parte speciale: è dal chiarimento di tali contenuti della tutela e dal loro rispettivo equilibrio che dipenderà quel consapevole e fermo governo dell’insicurezza senza il quale i princìpi e le regole della parte generale, a cominciare dalle scelte di fondo adottate sul piano sanzionatorio, tenderanno a sfuggire di mano anche alla più coscienziosa opera di ingegneria legislativa. Proprio e solo la centralità conferita al dettame dell’extrema ratio può infatti orientare verso la disaggregazione dei fattori da cui traggono alimento gli odierni appelli alla ‘‘legge e all’ordine’’, permettendo di estrarne e disinnescarne le molte componenti che in realtà esprimono propriamente un’istanza di controllo o, per usare un termine meno sospetto, più criminologically correct, di responsabilità sociale. (7) Cfr. P.A. ALBRECHT, Kriminologie, München, 1999, p. 3, anche con riferimento a F.-X. KAUFMANN, Sicherheit als soziologisches und sozialpolitisches Problem, 1970, p. 67. Per una emblematica raffigurazione di questa tendenza, cfr. Z. BAUMAN, In Search of Politics, tr. it., La solitudine del cittadino globale, Milano, 2000, p. 17 ss. (8) Z. BAUMAN, Social Issues of Law and Order, in British Journal of Criminology, 2000, p. 215.


— 42 — 2. La tutela della ‘‘sicurezza dei cittadini’’ e le ricette correnti che tenderebbero a garantirla, « flettendo i muscoli » (9) nella lotta contro il problema criminale, si basano per lo più sull’idea che esista una semplice relazione lineare tra numero dei reati e senso di sicurezza, e dunque che l’agire (o il mostrare di agire) per la diminuzione dei primi (magari con un facile inasprimento delle pene comminate) abbia necessariamente come effetto di aumentare il secondo. A ingenerare nell’opinione pubblica, non meno che nel mondo politico, una tale visione semplificata delle dinamiche di percezione sociale e paura collettiva del crimine, contribuiscono in misura rilevante anche le modalità di rappresentazione del problema criminale seguite da stampa e televisione (10): basti solo pensare all’uso sempre più frequente dell’intervista ‘‘a caldo’’ di parenti o conoscenti della vittima, con l’enfatizzazione di spontanei desideri di rivalsa, all’indugiare delle inquadrature o dei resoconti su particolari raccapriccianti, ecc. Se la nostra epoca è segnata dal dominio della tecnica e del mercato, i mezzi di comunicazione di massa sottostanno spesso alla medesima inversione logica che un tale dominio comporta, ossia alla preponderanza del mezzo rispetto al fine: è sempre in agguato, dunque, l’insidia che le esigenze di autoaffermazione di questi particolari mezzi tecnici prendano il sopravvento sulla legittima aspettativa di chi ne fruisce a ottenere dati attendibili per fondare le proprie valutazioni e scelte di vita. La ricerca dell’‘‘effetto’’, la confezione delle cronache secondo modalità che, rappresentando la criminalità come sommatoria di singoli comportamenti aggressivi a gravità crescente, vogliono soprattutto attrarre la curiosità del pubblico, ostacolano la prevenzione del crimine e ingenerano un’errata percezione del rischio di subire personalmente i reati. Tra le modalità della rappresentazione televisiva e giornalistica della criminalità più caratteristiche del nostro tempo, vi è la tendenza a disporsi e organizzarsi per cicli, a muoversi secondo il ritmo di ondate emozionali polarizzate su uno o più temi dominanti, destinati a sospingere di volta in volta in secondo piano, a rendere ‘‘assenti’’, anche per lunghi periodi, articolazioni e manifestazioni del fenomeno criminale altrettanto distruttive di quelle temporaneamente investite dalla luce di riflettori. Si determina allora un’artificiale scomposizione della criminalità in monadi indipendenti, in blocchi erratici, in ‘‘emergenze’’ che rivendicano ogni volta l’esclusiva dell’attenzione: la delinquenza giovanile, la criminalità dell’immigrato, le rapine, i sequestri di persona, la violenza negli stadi, il terrorismo... Su questa dinamica si appiattisce non di rado anche la politica o, almeno, quella cattiva politica che, priva di una visione meditata e distesa, (9) BAUMAN, op. ult. cit., p. 218. (10) Su questo fondamentale tema, cfr. per tutti, con ampio corredo di riferimenti, R. REINER, Media Made Criminality: The Representation of Crime in the Mass Media, in The Oxford Handbook of Criminology, 2a ed., Oxford, 1997, p. 189 ss.


— 43 — ansiosa di incamerare facili rendite demoscopiche o elettorali dal senso di insicurezza diffuso, reagisce con impulsiva immediatezza agli stimoli dell’attualità: al punto di adottare, anche in materie delicate, scelte legislative frammentarie e di breve respiro, spesso contraddette da repentini ripensamenti alla luce di un diverso manifestarsi dei dati reali. Questa formidabile convergenza di diverse forme del dominio tecnico ha come effetto di accentuare in misura esponenziale la tradizionale spinta selettiva dei sistemi penali a colpire verso il ‘‘basso’’, più che verso l’ ‘‘alto’’ (11): il sempre più prepotente bisogno di rassicurazione collettiva, sapientemente assecondato dall’apparato della tecnica politico-mediatica, non si sentirà certo alleviato dalla poco spettacolare prospettiva di trascinare qualche colletto bianco in un’aula giudiziaria, dai noiosi, complicatissimi e incomprensibili resoconti delle astruse operazioni finanziarie da questi posti in essere per occultare ingenti proventi illeciti o dagli ancor più ardui sforzi della magistratura per ottenere la cooperazione giudiziaria di una delle innumerevoli autorità straniere che la mobilità della società globale avrà disseminato lungo i tortuosi percorsi di quei capitali (12). La realtà sta in termini alquanto diversi e più complessi. Questa realtà ci rivela ad esempio che l’influenza del senso di insicurezza (in senso lato) sui livelli di criminalità è, nel medio e lungo periodo, almeno altrettanto importante del più scontato e immediato effetto di destabilizzazione collettiva prodotto dalla criminalità di strada. Affinché le decisioni legislative in materia politico-criminale non si riducano a una reattiva gestione del presente, ma si proiettino consapevolmente verso obiettivi solidi e duraturi, sarebbe necessario quindi che, con pazienza, sempre più ci si abituasse a considerare il rapporto tra crimine e percezione di sicurezza in senso circolare e non in senso lineare. Alla comprensione di questa più complessa dinamica si può pervenire riflettendo su come il crimine sia di per sé un tentativo individuale o di gruppo di risolvere un problema di sicurezza personale, diciamo di ‘‘sopravvivenza’’ in senso lato. Per dirla con le parole del filosofo, noi tutti giudichiamo cattivo ciò che può impedirci di esistere e buono ciò che ci appare utile alla conservazione del nostro essere (13). Anche la scelta criminale è quasi sempre la risposta a un problema esistenziale, nel senso che il reato appare, a chi lo realizza, nel momento in cui lo realizza, ‘‘buo(11) Il noto rilievo di T. MATHIESEN, Prison on Trial: A Critical Assessment, London, 1990, p. 70 ss., è recentemente ripreso e sviluppato da BAUMAN, Social issues, cit., p. 217. (12) Cfr. BAUMAN, op. ult. cit., p. 218. (13) Cfr. B. SPINOZA, Etica, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Torino, 1972, IV, Prop. VIII, Dimostrazione, p. 273 s.: « Chiamiamo buono o cattivo ciò che favorisce o contrasta la conservazione del nostro essere ossia ciò che aumenta o diminuisce, favorisce o ostacola la nostra potenza di agire ».


— 44 — no’’, ossia una soluzione di sopravvivenza più utile e concreta della conformità alla legge; il che permette, tra l’altro, di neutralizzare (14) la riprovazione sociale e legale che quel comportamento per lo più suscita nell’ambiente circostante. Un tale meccanismo non si applica certo solo alla criminalità dell’outsider sociale, ad es. dell’immigrato clandestino che si serva del crimine per sbarcare in lunario o per saldare il debito contratto con l’organizzazione criminale che lo ha traghettato in Italia. Analoga è ad esempio la genesi della cosiddetta criminalità dei ‘‘colletti bianchi’’, visto che il livello di sicurezza che il singolo aspira a preservare è variabile, culturalmente e socialmente condizionato. Nell’orientare le scelte criminali, quello che potremmo definire il senso di insicurezza immateriale, morale, svolge un ruolo non meno decisivo dell’incertezza legata alla mancanza di risorse vitali. Un grande imprenditore dotato di ingenti risorse finanziarie e proprietario di una molteplicità di aziende potrebbe avvertire come una seria minaccia esistenziale anche solo la prospettiva di perdere una parte del proprio impero economico o di vedere diminuita la propria immagine agli occhi della categoria di appartenenza: la sofferenza prodotta da questa sua percezione di insicurezza non sarà meno intensa di quella provata da altri al pensiero di perdere beni più vitali e potrà sospingerlo a scegliere la scorciatoia di condotte devianti, reputate idonee a risolvere un tale problema di sopravvivenza. È innegabile che le economie di mercato, i sistemi sociali fortemente competitivi, tendano ad accrescere il senso di precarietà e insicurezza, sollecitino energicamente il singolo a una crescente acquisizione e rafforzamento di posizioni di potere, anche con modalità illegali, al fine di garantirsi contro la assillante paura di soccombere, di ‘‘perdere la partita’’ nell’agone sociale. Molti studiosi statunitensi hanno del resto identificato i (14) Sul concetto di neutralizzazione in criminologia, cfr. G.M. SYKES-D. MATZA, Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency, in ASR, 1957, p. 664 ss.; ID., Juvenile Delinquency and Subterranean Values, ivi, 26, 1961, p. 712 ss.; ID., Subterranean Traditions of Youth, in Ann. Amer. Acad. Pol. Soc. Sci., 1961, p. 338; D. MATZA, Delinquency and Drift, New York, 1964; ID., Becoming Deviant (1969), tr. it. di M. Petracchi, Come si diventa devianti, Bologna, 1976. Sui meccanismi di difesa nella letteratura psicanalitica, v. S. FREUD, Inibizioni, sintomo e angoscia, in Opere, vol. 10, Torino, 1978; A. FREUD, L’Io e i meccanismi di difesa, Firenze, 1967. In psicologia, per ‘‘difesa’’ si intende « ogni operazione psichica, in parte inconscia, talvolta coatta, messa in atto per ridurre o sopprimere ogni turbativa che possa mettere in pericolo l’integrità dell’Io e il suo equilibrio interno » (G. TRENTINI, La gamma delle difese, in Manuale del colloquio e delle interviste, a cura di G. Trentini, Torino, 1995, p. 242). Sono dunque considerate « meccanismi di difesa » le « operazioni mentali che vengono messe in atto dall’Io — a livello inconscio — per proteggersi dai movimenti affettivi dolorosi legati a qualche situazione spiacevole; per risolvere i propri conflitti, sia con le altre parti dell’apparato psichico (Io, Super-Io), sia con l’ambiente (inteso a livello della rappresentazione mentale che gli corrisponde e non certo in senso oggettivo) » (ivi, p. 245).


— 45 — fattori criminogeni che si annidano nel c.d. ‘‘sogno americano’’, in un sistema sociale così pronto ad additare a tutti le mete del successo, ma non così in grado di mettere tutti nella condizione di adeguarsi a tale modello culturale (15). Nondimeno si può affermare che i livelli di criminalità negli Stati Uniti, pur elevati, siano ancora relativamente contenuti rispetto al potenziale criminogeno che si annida in quel sistema. Tale contenimento appare l’effetto di una forte tenuta della sicurezza normativa, di una percezione di vigenza di regole oggettive, di una nitida separazione tra bene e male nella coscienza civile che almeno in parte valgono a contenere le spinte criminogene di una società che, attribuendo tanto rilievo di status al perseguimento del successo materiale, sembrerebbe promuovere soltanto condotte frettolosamente egoistiche e scoraggiare il sacrificio soggettivo in nome dell’oggettivo ‘‘bene comune’’. Si può pensare che gli sviluppi possano essere diversi in una società come quella italiana, sofferente di una cronica debolezza dei sistemi di controllo informale, affetta da una flebile tenuta etica nei comportamenti istituzionali e sociali, dalla latitanza di quelle « forze che reagiscono al comportamento scorretto di qualche suo elemento, obbligandolo a correggersi » e a cui compete, specie nelle democrazie liberali, l’opera di « manutenzione ordinaria delle buone regole, come la quotidiana pulizia della casa » (16). Una tale società, di pari passo con l’instaurarsi di un sistema sempre più fortemente competitivo, sempre più culturalmente proteso alla misurazione dello status sulla base della ricchezza acquisita e del successo materiale, sempre meno bilanciato dal contrappeso delle reti di solidarietà sociale e di saldi legami familistici, sembra destinata a esibire nel medio e lungo periodo livelli di criminalità ben più elevati di quelli attuali e, pro(15) Basti qui il riferimento a R.K. MERTON, Social Theory and social structure (1968), tr. it. di C. Marletti-A. Oppo, Teoria e struttura sociale, Bologna, 1992, p. 305 ss.: « A ogni livello di reddito gli americani desiderano appena il venticinque per cento di più di quel che hanno (ma naturalmente questo ‘‘poco di più’’ continua a essere desiderato anche quando lo si è ottenuto). In questo continuo spostamento di standard non v’è un punto fermo e stabile, o piuttosto c’è un punto ‘‘appena un po’ più in là’’ che spinge sempre avanti. Un ricercatore, studiando una comunità in cui gli stipendi annui di sei cifre non sono infrequenti, riferisce le parole angosciate di una vittima del ‘‘sogno americano’’: ‘‘In questa città, io sono snobbato socialmente perché guadagno soltanto mille dollari alla settimana: questo fa star male’’. Affermare che la meta del successo pecuniario è radicata nella cultura americana significa solamente dire che gli americani vengono da ogni parte bombardati da precetti che proclamano il diritto e addirittura il dovere di tener duro verso questa meta anche se si debbano affrontare ripetute frustrazioni. Persone che nella società godono di grande prestigio rafforzano tale forzatura culturale. La famiglia, la scuola, il lavoro — i tre centri principali in cui si formano le mete e in cui si modella la struttura della personalità degli americani — si associano a fornire quella intensa disciplina che è necessaria perché un individuo continui ad aver fiducia in una meta che resta, elusivamente, fuori di portata, perché egli venga spinto dalla promessa di una gratificazione che non si adempie mai ». (16) Cfr. T. PADOA SCHIOPPA, Controllo sociale. Non c’è e si vede, in Corriere della Sera, 6 febbraio 2000, pp. 1 e 15.


— 46 — babilmente, in rapporto alla popolazione, di quelli presenti nella pur ‘‘criminogena’’ società americana. Se la criminalità, al pari di molti altri comportamenti individuali e sociali, è anche una risposta a un problema di sicurezza individuale o di gruppo, impegnarsi ad affrontare il problema criminale con razionalità ed efficacia vuol dire dunque esercitare, a tutti i livelli lo sforzo intellettuale di ricostruire complessivamente la genesi delle insicurezze personali e collettive. Si diceva appunto che esiste innanzi tutto un tipo di insicurezza elementare, legato al timore di perdere i mezzi di sussistenza fondamentali (il lavoro, la casa ecc.). Ma il crimine non può certo essere spiegato solo come un tipo di risposta deviante a queste situazioni estreme, anche se, come rilevano i più acuti analisti della ‘‘globalizzazione’’, le nostre società sono sempre più attanagliate da un’ ‘‘incertezza’’ che coinvolge anche questi bisogni essenziali (17). Ben più frequente della minaccia a una tale sopravvivenza primordiale è comunque la percezione di perdere un bene più immateriale, ma non meno prezioso: l’identità, lo status; risorse legate in larga misura al riconoscimento da parte del gruppo di appartenenza o della collettività più allargata. È difficile evidentemente ponderare quale sia il livello al di sotto del quale il singolo avverta come intollerabile la diminuzione del proprio status e sia dunque indotto a compensare con comportamenti illegali un tale deficit nelle sue aspettative di ‘‘sopravvivenza’’ sociale. Ciò dipenderà tra l’altro da fattori psicologici individuali (pensiamo all’autoimmagine acquisita nei primi anni di vita per effetto dell’educazione familiare) e, soprattutto, culturali: la molteplicità di interessi, una proiezione del sé verso una più vasta realtà umana, verso un mondo articolato di affetti e stimoli intellettuali, renderanno tollerabile lo scacco subito in un singolo ambito dell’agone sociale, in quanto esso verrà presto compensato dall’appagamento conseguito in altri quadranti di vita, in una gamma di rapporti umani, familiari ed extrafamiliari, ricchi e diversificati. La capacità di vestire una pluralità di identità culturali, così esemplarmente rappresentata nell’ideale dell’uomo rinascimentale (18), apre di per sé indubbiamente un largo ombrello protettivo al senso di insicurezza. Ma non si tratta di una risorsa accessibile a molti, specie nella nostra epoca e (17) Cfr. Z. BAUMAN, La società dell’incertezza, Bologna, 1999, passim. (18) Cfr. E. WIND, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958), tr. it.. di P. Bertolucci, Misteri pagani del Rinascimento, Milano, 1985, p. 235: « Nell’orazione De hominis dignitate di Pico la gloria dell’uomo viene fatta derivare dalla sua mutabilità. Il fatto che l’orbita della sua azione non sia prefissata, come lo è invece quella degli angeli o degli animali, gli dà il potere di trasformarsi in qualunque cosa egli voglia, e di diventare così uno specchio dell’universo. Può vegetare come una pianta, infuriare come una belva, danzare come una stella, ragionare come un angelo, e superarli tutti raccogliendosi nel centro nascosto del proprio spirito, dove potrà incontrare la solitaria oscurità di Dio. ‘‘Chi non ammirerà questo nostro camaleonte?’’ ».


— 47 — specie in quei sistemi sociali che non hanno colto l’importanza di porre fattivamente la formazione e l’istruzione tra le proprie priorità assolute. Per contenere la percezione dell’insicurezza e, dunque, per elevare la tolleranza alle perdite di identità sociale, un ruolo non meno importante delle variabili psicologiche e culturali è svolto dalla credibilità delle regole, giuridiche ed extragiuridiche, vigenti nella comunità di appartenenza. È soprattutto la percezione dell’oggettività di queste regole a conferire significato alle azioni dei soggetti e, soprattutto, a consentire loro di prevedere (e, dunque, di percepire come ‘‘innocue’’) le condotte dei propri simili. In qualche misura questo fattore di sicurezza assume rilievo preminente per la prevenzione del crimine rispetto a tutti gli altri, poiché da esso dipenderà la soglia oltre la quale una diminuzione materiale o sociale comincerà a venire percepita come minaccia alla propria sopravvivenza. In altri termini: un sistema di regole concretamente operanti nel corpo sociale può offrire livelli di appagamento del proprio senso di sicurezza in grado di proteggere ragionevolmente dalle perdite di status; il potere oggettivo della legalità ha infatti la capacità di surrogare o alleggerire la spinta al perseguimento di posizioni di potere personale per finalità di autoconservazione. Potremmo anche dire che la percezione della reale vigenza di un insieme di norme etico-giuridiche consente a ciascuno di smussare l’aggressività che i comportamenti altrui possono manifestare, di cogliervi soprattutto il liscio e tranquillizzante carattere regolato e uniforme, più che l’acuminata affermazione di interessi egoistici, idonea a sollecitare l’assunzione di posizioni antagonistiche da parte di chi se ne senta così minacciato. La scelta criminale diviene dunque una prospettiva tanto più remota quanto meno essa venga vissuta come rimedio a uno stato di soccombenza provocato da condotte, pubbliche e private, che si svolgano al di fuori dello spazio regolato da norme oggettive, generalmente e palesemente rispettate. Funzione dello Stato e delle istituzioni ad esso collegate è di farsi garanti soprattutto di questo particolare senso di sicurezza, garanti delle scelte di azione dei cittadini, libere perché fiduciose nella vigenza delle regole sociali e in grado di prevedere con ragionevole sicurezza il comportamento ugualmente regolato degli altri consociati. Ma Stato e istituzioni possono svolgere questo ruolo soprattutto in quanto siano e appaiano distaccati e oggettivi, autonomi dagli interessi e scopi delle persone che a ogni livello rivestono cariche pubbliche. Per quanto ardua si presenti la realizzazione di una tale condizione in quella che può apparirci la versione post-moderna della décadence, gravata dai cascami déjà vu di « un mondo molto irresponsabile » che « appunto viene chiamato ‘‘libertà’’ » (19), cruciale, proprio ai fini del contenimento dei livelli di crimina(19)

« L’intero Occidente non ha più questi istinti da cui crescono istituzioni, da cui


— 48 — lità, resta, in ogni società civile, l’immunità della sua classe politica e amministrativa anche solo dal sospetto di versare in situazioni nelle quali interessi personali e pubblici siano commisti e confusi (20). Una sostanziale indifferenza o rassegnazione per il tema della corruzione, dalla metà degli anni novanta, per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo elencare, si è pervasivamente insinuata nell’opinione pubblica, dopo una breve fiammata di indignazione morale e passione civile (21). Ciò appare sommamente incoerente con il bisogno di sicurezza che questa stessa opinione pubblica esprime in modo sempre più pressante. In realtà, il manifestarsi di un’ambigua commistione tra l’interesse generale e l’interesse personale di chi occupa cariche pubbliche, alla lunga, finisce per minare la tenuta normativa della società, producendo una crescita esponenziale di tutti i comportamenti illegali, con un effetto di reciproca imitazione e diffusione degli illeciti commessi nel settore pubblico e in quello privato. La corruzione, in senso lato, è soprattutto confusione di ruoli e interessi, personali e sociali, privati e pubblici. Il vero logorio delle istituzioni si produce dunque soprattutto quando coloro che le incarnano fisicamente esprimano una tale confusione, trascurando palesemente di separare la propria persona dalle regole oggettive che quelle istituzioni dovrebbero governare e indebolendone in tal modo la capacità di cresce un avvenire: forse nessun’altra cosa risulta tanto a contraggenio al suo ‘‘spirito moderno’’. Si vive per l’oggi, si vive in gran fretta — si vive in un mondo molto irresponsabile: questo appunto viene chiamato ‘‘libertà’’. Ciò che, delle istituzioni, fa istituzioni, viene disprezzato, odiato, rifiutato: si crede d’incorrere nel pericolo di una nuova schiavitù, se si fa anche soltanto sentire la parola ‘‘autorità’’. A tal punto arriva la décadence nell’istinto dei valori proprio dei nostri politici, dei nostri partiti politici: essi istintivamente preferiscono quel che disgrega, quel che affretta la fine... » (F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophiert, tr. it. di F. Masini, Il crepuscolo degli idoli, Milano, 1983, p. 115 s.). (20) Il problema del conflitto d’interessi, da mesi e anni inutilmente oggetto in Italia di un dibattito pubblico, è avvertito dai più come argomento riservato alla cerchia degli addetti ai lavori, se non addirittura come arma brandita strumentalmente da una parte politica contro l’altra. Nondimeno esso, insieme a quello della corruzione, cui si lega strettamente, tocca da vicino la vita di tutti i cittadini, visto che condiziona in profondità il loro senso di sicurezza e, correlativamente, è congiunto da una sottile, ma fitta trama di fili a quella criminalità ‘‘dilagante’’ di cui così spesso i politici fanno mostra di preoccuparsi. (21) Cfr., sul tema, D. DELLA PORTA-A. VANNUCCI, Un paese anormale. Come la classe politica ha perso l’occasione di Mani Pulite, Bari, 1999; D. DELLA PORTA-A. VANNUCCI, Corruzione politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori, Bologna, 1994; G. FORTI, L’insostenibile pesantezza della ‘‘tangente ambientale’’: inattualità di disciplina e disagi applicativi nel rapporto corruzione-concussione, in questa Rivista, 1996, p. 476 ss.; ID., Unicità o ripetibilità della corruzione sistemica? Il ruolo della sanzione penale in una prevenzione ‘‘sostenibile’’ dei crimini politico-amministrativi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 1069 ss.; ID., La corruzione del pubblico amministratore. Linee di un’indagine interdisciplinare, Milano, 1992; A. NOSENZO, Corruzione e sistemi istituzionali: una ricerca comparata, in Rassegna italiana di criminologia, 1999, p. 83 ss.; A. VANNUCCI, Il mercato della corruzione, Milano, 1997.


— 49 — trasmettere tranquillità e sicurezza al corpo sociale, implicitamente incoraggiato a servirsi, con eguale disinvoltura, di forme di autotutela privata, anche a carattere criminale. L’ ‘‘Indice della percezione della corruzione’’ pubblicato nel 2001 dall’organizzazione Transparency international (22) assegna all’Italia il 29o posto. Il nostro paese si trova preceduto non solo da Finlandia e Danimarca (che, occupando il primo e il secondo posto, risultano le nazioni del mondo percepite come maggiormente immuni da corruzione), ma, tra le altre, da Estonia, Taiwan e Botswana. I dati, riferiti a un rilevamento svolto nel 2000, segnalavano peraltro in quell’anno un deciso progresso dell’Italia rispetto alla classifica precedente, elaborata nel 1999, nella quale essa figurava solo al 39o posto, ossia ben dieci posizioni più in basso. Quello che parrebbe il limite di tale dato, ossia il fatto che si tratti di un ‘‘indice di percezione’’ della corruzione e non di un accertamento dell’entità reale delle corruzioni commesse durante l’anno preso in considerazione, ne costituisce tuttavia il più importante elemento di interesse proprio ai fini di una riflessione sui fattori che favoriscono la ‘‘spirale’’ del crimine nel nostro paese e sugli interventi che possano efficacemente contrastarla. Infatti è proprio la percezione del livello di corruzione nella comunità di appartenenza a minare il senso di legalità, indebolendo l’idea di oggettività delle regole vigenti nel corpo sociale. Una tale situazione, che potremmo chiamare anomica (23), alla lunga produce l’effetto di rendere più acuto il senso di minaccia alla propria identità e sopravvivenza avvertito dai cittadini, incoraggiandone risposte tortuose e trasversali rispetto alla linearità del rispetto della legge: comportamenti criminali, appunto. La percezione dell’illegalità nel mondo politico e amministrativo determina pesanti ricadute sul livello di conformità alle regole che governano la convivenza civile, siano esse giuridiche o etico-sociali. Gli illeciti tendono a diffondersi ‘‘dall’alto verso il basso’’, secondo una dinamica di autoreplicazione ben studiata dagli specialisti della materia, attenti a sottolineare come la corruzione generi altra corruzione e inneschi una spirale (22) Come può leggersi testualmente nel sito internet di Transparency International Italia (http://www.transparency.it/): « TRANSPARENCY INTERNATIONAL è un’organizzazione non governativa, non-profit, fondata nel maggio 1993 e avente sede a Berlino. Scopo privilegiato di TI è quello di sviluppare un approccio globale contro la corruzione, lottando in modo particolare contro la grande corruzione che si riscontra nelle transazioni commerciali a livello internazionale e che affligge soprattutto i Paesi in via di sviluppo. TI si propone di combattere anche contro la corruzione nazionale, in particolare quando essa è causa o effetto di quella internazionale. Sono aree di intervento la sfera pubblica e quella privata e sono strumenti di azione sia la sede di Transparency International sia le sue Sezioni Nazionali ». (23) Sui significati assunti dal concetto di ‘‘anomia’’ nella storia della criminologia e della sociologia, rinviamo a G. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, p. 445 ss.


— 50 — distruttiva destinata a coinvolgere interessi vitali per ogni collettività organizzata (24). Proviamo a immaginare questo orrendo ground zero: le rovine, i morti e i feriti, non solo in senso metaforico, accatastatisi in questi anni a causa del malaffare nel settore pubblico. Non è difficile esercitare questo sforzo di immaginazione se solo si pensa alle tangibili conseguenze sulla vita e la salute di tutti prodotte dal mare magnum di corruzioni portate (parzialmente) alla luce dalle inchieste giudiziarie nel campo della sanità, dei controlli ambientali e alimentari, della sicurezza dei trasporti. Ancora una volta ci si trova peraltro a scontare il paradosso per cui nonostante i crimini delle élites economico-politiche costituiscano uno dei maggiori fattori dell’insicurezza esistenziale collettiva nelle moderne società globalizzate, l’ossessione del pubblico per la sicurezza tende prevalentemente a scaricarsi verso il basso, prendendo di mira un’underclass fatalmente localizzata territorialmente (25). Anche da queste considerazioni discende che una corretta discussione del problema criminale, non solo tra gli addetti ai lavori, ma altrettanto nell’opinione pubblica e da parte dei media, dovrebbe essere governata dalla fondamentale linea guida volta a ricondurre il più possibile a unità sia le diverse forme in cui il fenomeno criminale sembrerebbe articolarsi e anzi frammentarsi, sia le sue cause ed effetti, da concepire più in termini circolari che lineari. La vera ‘‘spirale’’ del crimine è quella che deriva dalla crescente intensità con cui si manifesta l’insicurezza, materiale ed etico-giuridica, nelle società moderne o post-moderne. Il problema è, dunque, spezzare la spirale dell’insicurezza, motore principale di autoreplicazione di quell’illegalità diffusa che nessuna forza di polizia e nessun codice penale possono fronteggiare se non si promuovono le condizioni oggettive e normative in cui ciascuno può sentire preservata la propria sopravvivenza, oltre che materiale, morale e culturale. Ed è a mio giudizio proprio alla preliminare riflessione sulle dinamiche interne ai valori assunti quali oggetto di tutela dalla parte speciale, (24) Cfr., anche per vari riferimenti, G. FORTI, Remarks on the role of criminal sanction in a sustainable prevention of crimes in the public administration. The Italian experience of systemic corruption, in P. BERNASCONI (ed.), Responding to Corruption, Napoli, 2000, spec. p. 214 ss. (25) Cfr. BAUMAN, Social issues, cit., p. 219: « C’è un enorme vantaggio di cui gode la nuova élite della globalizzazione quando si trova di fronte i guardiani dell’ordine: l’ordine è locale, mentre l’élite e le regole del libero mercato cui essa si attiene sono trans-locali. Se i guardiani dell’ordine locale diventano troppo invadenti o molesti, se la situazione si fa troppo scomoda, c’è sempre la possibilità di spostarsi altrove: gobalità dell’élite significa mobilità, e mobilità vuol dire possibilità di fuggire ed evadere. C’è sempre qualche posto in cui l’ordine locale non si scontra con gli usi del mercato globale, o dove i guardiani locali sono lieti e disposti a guardare da una altra parte quando un tale scontro si produce. Tutti questi fattori considerati unitariamente convergono verso un effetto comune: l’identificazione del crimine con la (sempre localizzata) ‘‘classe inferiore’’ ovvero, cosa del tutto equivalente, la criminalizzazione della povertà ».


— 51 — nonché alle tecniche di tutela per ciascuno di essi concretamente prospettabili alla luce del dettame dell’extrema ratio, che compete l’attitudine di una nuova codificazione penale a contenere le derive di un’insicurezza collettiva artificialmente autonomizzata dalle condizioni reali che la promuovono. 3. Volgiamoci dunque a considerare il modo in cui il rapporto tra parte generale e parte speciale si presenta nel lavoro di riforma codicistica che è oggi sotto i nostri occhi. Un rapporto che, dopo le premesse sviluppate fin qui, intendiamo commisurare a quell’esigenza di consapevole circolarità che ci è parsa coerente con le istanze poste dall’odierno problema della sicurezza collettiva; un problema, peraltro, cui la stessa Relazione all’articolato dedica rilievi di grande equilibrio e sensibilità politico-criminale (26). Con riguardo a tale rapporto, il dato fondamentale e preliminare — un dato fin troppo evidente a tutti, a cominciare dagli stessi autori del Progetto — ma su cui mi sembra necessario richiamare l’attenzione, è che non solo la parte generale sia stata approntata dalla Commissione prima della parte speciale, ma, soprattutto, che, tra la preparazione dell’una e dell’altra, sia stato interposto uno iato, uno stacco cronologicamente e, soprattutto, metodologicamente significativo (27). La stessa Commissione di riforma, sappiamo, ha mostrato piena consapevolezza, in un passo della relazione, della « scorrettezza metodologica » connessa all’« affrontare la riforma della parte generale del codice (26) « Su tutti i punti la Commissione ha discusso in modo approfondito, con piena consapevolezza dei bisogni ‘‘di sicurezza’’ provenienti dalla società (ma anche del peso di fattori emotivi e talora francamente irrazionali) e della complessità dei problemi. Costruire un sistema di strumenti idonei di prevenzione e repressione dei reati è un compito che non può mai ritenersi risolto una volta per tutte. Esso implica scelte di valore e bilanciamenti fra interessi contrapposti; i princìpi della Costituzione pongono vincoli e indirizzi, ma lasciano aperte alternative diverse alla discrezionalità politica (oltre che tecnica) del legislatore. Sul piano tecnico, una progettazione razionale esige conoscenze approfondite della realtà su cui si va a incidere, e prognosi d’efficacia degli strumenti progettati; il prodotto che si può offrire è una scommessa sul futuro, che chiede di essere fondata su buone ragioni, ma è sempre esposta alla verifica dei fatti ». (27) « Con d.m. 22 giugno 2000 il Ministro della giustizia Piero Fassino, considerato che la Commissione stava completando la stesura dell’articolato della parte generale del codice penale [...] ha prorogato la Commissione stessa sino al 31 dicembre 2000, affinché terminasse il lavoro concernente l’articolato della parte generale del codice e la redazione della relativa relazione esplicativa. Nel contempo la ha incaricata di verificare (successivamente) ‘‘la possibilità di un intervento, specie sull’apparato sanzionatorio previsto dalle norme della parte speciale, che consentisse di rendere immediatamente utilizzabili nella sua interezza l’articolato della parte generale’’ ». Questa e tutte le successive citazioni in nota o nel testo di cui non sia indicata la fonte sono da intendersi come tratte dal testo del Progetto preliminare di Riforma del Codice penale della Commissione Grosso, nella versione in data 15 settembre 2000.


— 52 — sganciata da quella della parte speciale », dicendosi peraltro « convinta che, se esistessero le condizioni, sarebbe in effetti preferibile esaminare congiuntamente l’intero tessuto del codice penale, poiché le connessioni fra parte generale e parte speciale sono innegabili e numerose »; essa rileva tuttavia che « non essendovi tali condizioni », « di fronte ad una disciplina codicistica vigente di parte generale che, nonostante i ritocchi, rivela tutte la sue rughe, all’inerzia sia comunque preferibile l’avvio del lavoro: evidentemente sul presupposto che chi lavora non sia così sprovveduto dal non farsi costantemente carico dei possibili riflessi sulla parte speciale, prospettandosi possibili implicazioni e possibili scenari di soluzione » (28). Credo che un elementare senso di discrezione, oltre che un’altrettanto basilare conoscenza delle logiche che governano la ‘‘cucina’’ politico-legislativa, trattenga dall’incalzare i membri della Commissione con domande volte a scoperchiare la pentola ribollente sotto l’understatement racchiuso in una formula tanto laconica, per farle disvelare le contingenze storico-politico-giuridiche cui essa ha voluto alludere con il richiamo a quelle non meglio precisate ‘‘condizioni’’. La discrezione e, dunque, l’understatement stanno all’enfasi e alla verbosità come la democrazia e il pluralismo stanno al totalitarismo autoritario. L’understatement è democratico e pluralista perché è un tributo al valore dell’interpretazione e un atto di ironia per ogni proterva aspirazione di irrigidire in una immodificabile fissità ogni parola scritta o pronunciata; perché lascia all’interprete, a ogni interprete, la libertà di riempire di contenuti, secondo il proprio personale, purché razionale e comunicabile, punto di vista, il non detto; perché è un atto di rispetto per l’intelligenza dei propri interlocutori, cui si affida per completare ciò a cui tutt’al più ha voluto accennare. Cercherò allora innanzi tutto di riempire lo spazio di libertà concessomi dall’allusione dei colleghi riformatori con alcuni pensieri nei quali il problema del rapporto tra parte generale e parte speciale del codice sia posto in connessione, forse altrettanto allusivamente, con le condizioni da cui la praticabilità di una riforma del codice è destinata a dipendere nel(28) Più recentemente la Commissione Grosso, nella ‘‘Relazione sulle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale’’ del 26 maggio 2001, ha preso atto del complessivo apprezzamento della comunità scientifica per il lavoro svolto e ha ricordato come esso si accompagnasse all’ ‘‘incoraggiamento’’ a che la Commissione proseguisse e portasse a compimento i suoi lavori, « oltre che nell’indispensabile riferimento ad una concreta parte speciale, anche in connessione ai nessi esistenti con la disciplina penitenziaria e processuale, tenendo conto dei contributi venuti dal dibattito e che ancora verranno da parte degli studiosi di diritto penale ». E in effetti, ponendosi la nuova scadenza del settembre 2001, la Commissione si proponeva « di iniziare a pensare agli indispensabili raccordi della nuova disciplina penale con il regime penitenziario e con alcuni istituti di diritto processuale, e nei limiti del possibile all’elaborazione della parte speciale del codice penale ».


— 53 — l’attuale contesto politico-giuridico. In seguito cercherò invece di articolare qualche rilievo più specifico, attinente ai dettami che, in relazione a questo medesimo problema, scaturiscono dall’idea di residualità della sanzione penale, il puntello più importante per una nuova parte speciale e, quindi, per l’intero progetto di riforma, qualora questa voglia attuare un deciso e innovativo rovesciamento in chiave democratica e pluralistica del Codice Rocco. Un codice che si manifesta autoritario soprattutto laddove più marcato è il suo prescindere dalla verifica di un reale bisogno della pena nelle molteplici situazioni effettuali per cui essa viene prevista e applicata; un codice dalla cui ‘‘eredità perversa’’ (29), per riprendere una ormai storica formulazione, tutti noi desideriamo prendere commiato. a) Il primo dei pensieri suscitati dall’addebito di ‘‘scorrettezza metodologica’’ autorilevato, ma oltrepassato nella Relazione, nasce da uno dei molti topoi che beneficamente ingombrano la mente del penalista, uso a iscrivere il proprio percorso di studio e lavoro entro la cornice illuminista. Viene alla mente l’eco beccariana del monito di Bacone al « praeparatione opus est », specie « in rebus quibuscumque difficilioribus » (30): e ben sappiamo quanto difficile, quasi miracolosa, possa essere una riforma del codice penale nel brulichio di voci che assorda ogni discussione riguardante la ‘‘questione criminale’’. L’evocazione nasce dal timore, appunto, di una scarsità di « praeparatione » conseguente ai serratissimi tempi assegnati alla Commissione; dal presentimento che anche nella riforma del codice penale, e soprattutto di quella futura parte speciale (i cui contenuti ci appaiono non meno qualificanti della forma della parte generale), per una dolente coazione a ripetere, possa riapparire in sedicesimo il convulso affastellarsi della legislazione penale italiana degli ultimi decenni, ispirata dalla logica del tutto e subito, dalla falsa idea che il meglio sia nemico del bene e che il meno peggio sia comunque preferibile al nulla. b) Un secondo pensiero, ‘‘democraticamente’’ evocato dell’under(29) Cfr. G. MARINUCCI, L’abbandono del Codice Rocco: tra rassegnazione e utopia, in G. MARINUCCI-E. DOLCINI (a cura di), Il diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 327 ss. (30) Quasi superflua (tanto conosciuta è tra i giuristi penali) la citazione integrale dell’epigrafe che compare in apertura a Dei delitti e delle pene: « In rebus quibuscumque difficilioribus non expectandum, ut quis simul, et serat, et metat, sed praeparatione opus est, ut per gradus maturescant ». Cfr. l’edizione dell’opera beccariana a cura di G. Francioni, Milano, 1984, I, p. 15, dove si ricorda, con le parole del Venturi, come la frase, tratta dall’opera di BACONE, Sermones fideles ethici, politici, oeconomici, sive interiora rerum, saggio XLV, De officio iudicis, « stava a significare, come già alcuni contemporanei di Beccaria seppero intendere, che non si poteva sperare in un’immediata e completa riforma della legislazione penale dei diversi paesi d’Europa, ma che bisognava con costanza e fermezza proporla e prepararla ».


— 54 — statement dei nostri riformatori, riprende un’osservazione di Franco Bricola, risalente all’ormai lontano 1970. Il compianto maestro ricordava come lo scetticismo fosse — allora — di moda in materia di riforma del codice penale e, nel medesimo contesto, rilevava come ciascuno dei progetti succedutisi a partire dal 1949 avesse « sollevato aspettative o ottimismo in tutti coloro che non sapevano o non volevano chiedersi se alle spalle di ciascuno di essi vi fosse una ‘‘reale’’ volontà politica » (31). La questione è oggi, non meno e anzi forse più di allora, quella della volontà e anche della praticabilità politica di questa riforma del codice penale. Credo del resto che i contenuti e gli intendimenti del nostro incontro non possano perdere di vista le variabili ‘‘di contesto’’ che fanno da inevitabile sfondo a ogni dibattito di riforma e in particolar modo di una riforma così cruciale per le sue implicazioni politiche qual è quella di un nuovo codice penale. È proprio e già da alcune avvisaglie di dibattito, politico appunto, suscitate dalle comunicazioni alla stampa di aspetti del Progetto (abolizione dell’ergastolo, ampliamento degli ambiti applicativi delle pene pecuniarie, riduzione dei carichi sanzionatori), che abbiamo potuto cogliere la conferma di come la questione criminale e, con essa, la questione penale, appaia a qualcuno davvero cosa ‘‘troppa seria’’ per essere lasciata nelle mani, lente e riflessive, dei professori di diritto penale. Non voglio certo addentrarmi in un discorso complessivo e indominabile sulle discrasie tra legislazione e scienza del diritto, non meno lancinanti di quelle, ormai proverbiali, tra dottrina e giurisprudenza (32). Ma è appunto il tema delle interazioni tra parte generale e parte speciale a richiamare la questione del rapporto tra politica e diritto penale. Non dimentichiamo infatti che proprio sul terreno della parte speciale « si realizzano precipuamente le concrete scelte di politica criminale di ogni legislatore » (33); aggiungerei: è nella parte speciale che si esprimono le reali opzioni politiche di un sistema giuridico-sociale. Inevitabile allora il pensiero di come questa finestra a tutt’oggi lasciata aperta dalla riforma del codice in atto possa dare adito a correnti d’aria così turbinose da rischiare di far avvizzire le piante anche più rigogliose coltivate nel ‘‘vaso’’ della parte generale. (31) F. BRICOLA, Progetti di riforma parziale del codice penale: che sia la volta buona?, in Quale giustizia, 1970, p. 93 ss., ora anche in Scritti di diritto penale, I/1, Milano, 1997, p. 527 ss. (32) Discrasie tra dottrina e giurisprudenza che, peraltro, trovano a loro volta la principale matrice proprio nelle discutibili scelte del legislatore e, dunque, della politica. Cfr. Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A. Stile, Napoli 1991, Atti del seminario organizzato dall’I.S.I.S.C. a Siracusa l’11-13 ottobre 1990 e, spec., ivi, A. STILE, Conclusioni, p. 296 s. (33) T. PADOVANI-L. STORTONI, op. cit., p. 12, anche con rif. a G. ARZT-U. WEBER, Strafrecht. Besonderer Teil, 3, Bielefeld, 1988, p. 3.


— 55 — c) A questo preciso proposito mi soccorre allora un terzo rilievo, che raccolgo di nuovo dalla penna di Franco Bricola, grande e inesorabile decifratore non solo della fredda cortina dogmatica, ma altrettanto del caotico magma politico-giuridico sottostante alle scelte più apparentemente formalizzate. Del Codice Rocco egli ricordava come fosse segnato dalla non casuale contraddizione tra rispettabile facciata garantistica della parte generale, e autoritaria parte speciale, infarcita di reati di pericolo presunto e di attentato e volta a sostenere, anche nella ben nota progressione ‘‘discendente’’ dei beni giuridici tutelati, una forte volontà repressiva (34). Tutti ovviamente sappiamo che non è questo il rischio incombente sull’odierna riforma, nella quale anzi si è voluto per molti aspetti attuare un rovesciamento dell’impianto ideologico del Codice Rocco. Possiamo stare sicuri che la parte speciale, almeno quella che ci verrà proposta dagli eminenti colleghi della Commissione Grosso (non necessariamente quella che uscirà dai lavori parlamentari), sarà almeno altrettanto rispettabilmente imbevuta di princìpi liberali di quanto lo è la parte generale di cui oggi discutiamo. Ma non è questo il punto. Proprio l’esperienza concreta del Codice Rocco, quella che potremmo chiamare la (almeno apparente) discrasia ideologica tra le due ‘‘parti’’ del codice, ci mette in guardia sul fatto che la stessa scansione, lo stesso ordine logico-cronologico tra le due, può assumere di per sé un preciso significato in relazione alle scelte di contenuto della politica criminale, a prescindere dalle ‘‘intenzioni’’ espresse in ciascuna di esse. Si potrebbe anzi dire che nel rapporto parte generale-parte speciale, in ciò che di non scritto ‘‘vi sta in mezzo’’, e dunque soprattutto nella stessa prospettiva che concepisce uno iato tra i due momenti, possa annidarsi quel primato della politica à la Talleyrand sulla scienza dei professori cui facevo cenno poc’anzi. Non dimentichiamo del resto che la discussione del Progetto potrebbe collocarsi alla confluenza di una delle più lunghe campagne elettorali della storia repubblicana. Sotto questo punto di vista, mi sembra che una trattazione unitaria della parte generale e della parte speciale avrebbe offerto qualche garanzia in più che il codice finalmente uscito dalla fucina parlamentare fosse preservato dal rischio non dico dell’ ‘‘operazione di facciata’’ ricordata da Bricola in relazione a ben più antiche vicende, ma di qualche anche consistente travisamento dei buoni propositi dei riformatori. Anche questo sarebbe servito a tracciare e rimarcare una netta solu(34) Cfr. F. BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, p. 32 s. Cfr. anche L. STORTONI, Introduzione alla parte speciale, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 1997, p. 364. Proprio nella previsione dei delitti contro la personalità dello Stato, che apre, con il Titolo I, la parte speciale del Codice Rocco, si ravvisava del resto uno dei più emblematici ‘‘indicatori politici’’ della discontinuità tra tale codice e il liberale Codice Zanardelli: v. G. MARINUCCI, op. cit., p. 328.


— 56 — zione di continuità rispetto all’esperienza del Codice Rocco, rovesciandone la retorica che si annida nel pensare la ‘‘lettera’’ e anche lo spirito della parte generale senza la concretezza che compete ai ‘‘contenuti’’ della parte speciale. d) Per l’appunto, allora, mi richiamo — come quarta e ultima riflessione preliminare — a una nota, ma sempre efficace classificazione di Padovani e Stortoni: la parte generale come luogo delle ‘‘regole’’, la parte speciale, come luogo dei ‘‘contenuti’’. Alla parte generale compete in particolare un ruolo di garanzia, una funzione coesiva rispetto alla parte speciale (35). E tuttavia « le interazioni che legano i due ambiti normativi fanno sì che ogni mutazione positiva o negativa nell’uno si rifranga nell’altro e, conseguentemente, ogni scelta operata in uno dei due settori incida nell’altro » (36). È del tutto evidente come, nella discussione odierna sulla parte generale, la parte speciale in fieri sia allora destinata a incombere come un convitato di pietra capace, una volta finalmente materializzatosi, se non di sconvolgere, certo di alterare o almeno gettare nuova luce sugli assetti stabiliti in sua assenza. Ma è altrettanto chiaro come proprio nel quadro di un codice penale che voglia programmaticamente contrapporsi all’autoritarismo accentratore del Codice Rocco, alla sua trama di ‘‘regole’’ compatte e unitarie concepite separatamente dalla molteplicità dei ‘‘contenuti’’, per affermare una visione pluralistica e democratica della società italiana del ventunesimo secolo, divenga non solo esigenza di metodo, ma sostanza politico-criminale l’idea che le ‘‘regole’’ siano, quanto meno, pensate interamente insieme ai ‘‘contenuti’’. Pluralistica e dialettica è soprattutto la parte speciale che dà eco alla pluralità delle voci, alle cose, agli interessi. Non a caso, come tutti sappiamo, è la parte speciale a nascere prima nella storia delle codificazioni moderne (37), quasi che l’ambito penale abbia voluto rispecchiare la cruciale evoluzione religioso-culturale che, nella storia della civiltà occidentale, ha visto il passaggio dal politeismo dei Greci, al monoteismo cristiano. Rimanendo alla metafora storico-religiosa, potremmo dire dunque che la ‘‘genesi’’ di ogni parte generale stia nella dispersa e molteplice ‘‘polvere’’ della parte speciale. Ma questa polvere, apparentemente impalpabile se riguardata dall’alto delle grandi categorie della parte generale, è anche la sostanza di cui è fatto un codice, se è vero, come già osservava Pisapia, riprendendo un pensiero di Grispigni, che la parte speciale è « l’u(35) L. STORTONI, op. cit., p. 344 s. (36) T. PADOVANI-L. STORTONI, op. cit., p. 16. (37) Cfr. T. PADOVANI-L. STORTONI, op. cit., p. 13; M. FINCKE, Das Verhältnis des Allgemeinen zum Besonderen Teil des Strafrechts, Berlin, 1975, p. 5. Si ricorda come solo nelle codificazioni ottocentesche la parte generale si sia enucleata e resa autonoma rispetto alla mera elencazione dei fatti punibili in cui in precedenza consistevano pressoché esclusivamente le legislazioni penali.


— 57 — nico vero e proprio diritto penale, di cui la c.d. parte generale rappresenta nient’altro che la premessa o la introduzione, in quanto è essa, ed essa sola, che dà vita e contenuto sostanziale alle disposizioni contenute nella c.d. parte generale » (38). Ecco allora che la memoria di siffatta ‘‘genesi’’ si traduce in dettame metodologico: a questa polvere, consapevolmente o no, la parte generale è destinata a ritornare (memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris...). Quanto meno, essa potrebbe trovarsi a scontare duramente l’oblio di quel weberiano politeismo dei valori, di quella « realtà quotidiana » (39), a cui la parte speciale è più prossima, in quanto più vicina alla « pura esperienza » (40). Non si vuol dire che tale ‘‘pura esperienza’’, per fecondare i maestosi istituti della parte generale, dovesse necessariamente e subito travasarsi in un articolato catalogo di fattispecie incriminatrici. All’uopo sarebbe bastata una pre-comprensione della parte speciale quanto meno in grado di aggregare i tipi delittuosi secondo macro-categorie più penetranti rispetto alla tradizionale classificazione dei reati sulla base dei beni giuridici tutelati (41) o, più particolarmente, di generici ‘‘beni giuridici di catego(38) Cfr. G.D. PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Milano, 1948, p. 16; F. GRISPIGNI, Dall’esegesi alla dommatica della parte speciale del diritto penale, in Diritto penale italiano, vol. II, Milano, 1947, p. IV ss. Il pensiero è richiamato in PADOVANI-STORTONI, op. cit., p. 11 e da STORTONI, op. cit., p. 342. (39) Cfr. M. WEBER, Wissenschaft als Beruf, tr. it., La scienza come professione, Torino, 2001, p. 30 s.: « Il grandioso razionalismo della condotta di vita metodica, che scaturisce da ogni profezia religiosa, aveva detronizzato questa pluralità di dèi a favore dell’ ‘‘unico dio che occorre’’ e poi si è visto costretto, di fronte alla realtà della vita esteriore e interiore, a scendere a quei compromessi e a quelle relativizzazioni che tutti conosciamo dalla storia del Cristianesimo. Ma ciò è oggi ‘‘realtà quotidiana’’ per la religione. Gli antichi dèi, spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta. Ma ciò che proprio all’uomo moderno è tanto difficile, e sommamente difficile alla giovane generazione, è essere all’altezza di una tale realtà quotidiana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’ ‘‘esperienza vissuta’’ deriva da questa debolezza. Infatti è debolezza non poter guardare al volto severo del destino del tempo ». (40) Cfr. M. WEBER, op. cit., p. 29: « il vecchio Mill... dice in qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si perviene al politeismo ». (41) Cfr. GROSSO, op. cit., p. 92: « Per quanto riguarda la strutturazione della parte speciale, la Commissione condivide l’orientamento espresso dallo schema di legge-delega Pagliaro, secondo il quale la classificazione dei reati deve imperniarsi sul bene giuridico tutelato, nonché l’idea di organizzare la ‘‘parte speciale’’ secondo una prospettiva nella quale il punto di riferimento è la persona umana e non lo Stato. Pure la ripartizione nelle quattro grandi aree: a) dei reati contro la persona (comprensiva dei reati contro il patrimonio individuale), b) contro i rapporti civili, politici ed economici, c) contro la comunità, d) contro la Repubblica, merita apprezzamento, anche in considerazione del fatto che essa consente il non trascurabile vantaggio di un’eventuale tecnica di ‘‘inserimento progressivo’’ in ciascuna di tali aree di reati che, non inseribili in un primo momento nel codice per ragioni specifiche,


— 58 — ria’’ (42) — sulla cui attitudine a fungere da esclusivo criterio di organizzazione della parte speciale non da oggi si nutrono fondati dubbi (43) — ma sensibili anche a significative modalità criminologiche (e vittimologiche) di inquadramento delle condotte umane da sottoporre a sanzione penale. Una precomprensione per la quale forse sarebbe stata sufficiente anche solo la disposizione d’animo che a suo tempo ispirò l’idea, certo fatalmente inadeguata, di un ‘‘commentario del codice penale secondo il punto di vista delle scienze sociali’’ (44). Pressante, del resto, appare la necessità di confrontarsi con le enormi diversità tra una ‘‘grande criminalità’’ — economica, politico-amministrativa, organizzata — e una più tradizionale criminalità individuale e ‘‘di strada’’, retaggio non di ‘‘potenti’’ (45), ma di outsiders sociali. Diversità destinate a ripercuotersi anche sulla parte generale, e con riferimento non soltanto alla disciplina sanzionatoria o al delicato nodo della responsabilità penale delle persone giuridiche, ma, ancor prima, alla fisionomia complessiva di centrali categorie quali la colpevolezza, il concorso di persone, il reato omissivo e la stessa causalità. 4. L’esigenza metodologica fondamentale di una stretta integrazione tra parte generale e speciale, in ogni fase di elaborazione di un nuovo codice, suggerirebbe dunque di imprimere una stretta e consapevole circolarità tra le due parti, in modo che le ‘‘regole’’, pur sufficientedovessero successivamente risultare maturi per tale inserimento, sul modello di quanto è accaduto ad esempio nella legislazione tedesca e francese ». (42) Sul modesto ruolo interpretativo svolto dai c.d. beni giuridici ‘‘di categoria’’ (l’ ‘‘oggetto giuridico generico’’, secondo la terminologia di Arturo Rocco), cfr. G. MARIa NUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, 1, 3 ed., Milano, 2001, p. 543 s. (43) Cfr. T. PADOVANI-L. STORTONI, op. cit., p. 49, che ricordano in proposito i rilievi di Binding in merito all’impossibilità di una classificazione della parte speciale sulla base di un unico criterio. (44) Cfr. J. FEEST, Notizen zur Idee einer Kommentierung des Strafgesetzbuchs in sozialwissenschaftlicher Absicht, in Krim. J., 1970, p. 259 ss. Del ‘‘programma prospettato da Feest’’, si è detto, non potrebbe scaturire in realtà alcun commentario, ma solo una trattazione secondo la prospettiva della politica del diritto (W. NAUCKE, Über die juristische Relevanz der Sozialwissenschaften, Frankfurt a. Main, 1972, p. 61, n. 69; v. anche H. JÄGER, Veränderung des Strafrechts durch Kriminologie? Ansätze zur Konkretisierung interdisziplinärer Kooperation, in Krim. J., 1976, p. 103). E nella dottrina italiana si sottolineava la possibilità di rinvenirvi, tutt’al più, i presupposti per una critica del diritto vigente nella prospettiva delle scienze sociali. « Si badi bene: i presupposti, non certo la critica tout court. Perché una critica seriamente impostata possa effettivamente esercitarsi bisognerebbe dare per scontato che si disponga di un ulteriore anello di congiunzione, che è in realtà prioritario: tale anello consiste in una struttura teorica e argomentativa capace di dar lumi circa il come ed il quando determinate acquisizioni delle scienze empiriche possono essere elaborate all’interno di scelte normative » (L. MONACO, Su teoria e prassi del rapporto tra diritto penale e criminologia, in Studi Urbinati, Nuova Serie, 1984, p. 64). (45) Sul concetto di ‘‘criminalità dei potenti’’, v. S. SCHEERER, Kriminalität der Mächtigen, in G. KAISER-H.J. KERNER-F. SACK-H. SCHELLHOSS (a cura di), Kleines Kriminologisches Wörterbuch, 3. Aufl., Heidelberg, 1993, p. 246 ss. Cfr. anche, infra, il § 5.


— 59 — mente autonome, sappiano adeguatamente coordinarsi con i ‘‘contenuti’’ e questi ultimi, a propria volta, costituiscano coerente realizzazione dei princìpi espressi nella parte generale. Nella prospettiva di una parte generale già confezionata e che, ad eccezione di singole modifiche e ritocchi, non potrà comunque registrare un totale rovesciamento di impianto e ispirazione (almeno in seno alla Commissione Grosso) e di una parte speciale ancora in fieri, credo che il compito forse più produttivo da assolvere sia allora di prefigurarsi la fisionomia che siffatta parte speciale potrà o dovrà assumere sulla base di quanto oggi già materializzato nel Progetto che è sotto i nostri occhi. Una fisionomia che, come detto nelle battute iniziali di questo mio intervento, dovrà comunque essere colta per linee essenziali ed esterne, sulla base del modello di riferimento costituito dalla specifica gerarchia ivi impostata tra i princìpi fondamentali in materia penale. Ricordavo come la Commissione abbia espresso piena consapevolezza dell’esigenza di « farsi costantemente carico dei possibili riflessi sulla parte speciale, prospettandosi possibili implicazioni e possibili scenari di soluzione ». E in effetti vi sono molteplici passi della Relazione che, scolpendo con vigore le connessioni tra le due parti, valgono a conferire una qualche mobilità al loro reciproco rapporto, attraverso una sorta di gioco di simulazione, che ‘‘immagina’’ già come esistente la parte speciale. Le scelte adottate per dirimere una siffatta circolarità tra ‘‘regole’’ e ‘‘contenuti’’ appaiono assai differenziate, ma la nota prevalente è costituita da una tendenziale subordinazione dei contenuti alle regole o, meglio, da una tendenziale residualità dei contenuti rispetto a quanto già largamente definito dalle regole. E ciò per lo più sulla base di un’esigenza, ripetutamente espressa, di « realizzazione dei princìpi di tipicità e certezza nella disciplina dei presupposti della responsabilità penale: non soltanto attraverso l’enunciazione delle tradizionali norme generali di garanzia (principio di legalità, principio di stretta legalità, irretroattività della legge penale), ma soprattutto attraverso una definizione più tassativa di istituti tradizionalmente affidati ad un’ampia discrezionalità giudiziale ». Nella vocazione fermamente conferita alla parte generale di tenere saldamente i fili della parte speciale del codice, non è difficile del resto vedere la chiara e coerente rivendicazione della « necessità di ritornare ad una disciplina penale che restituisca al codice la tradizionale posizione di centralità normativa », ripresa da importanti enunciati già del Progetto Pagliaro e diretta a « evitare il proliferare di leggi penali speciali, disomogenee, scarsamente rispettose dei princìpi generali sulla responsabilità penale e di un impiego corretto delle tecniche della incriminazione ». La Commissione ha riaffermato appunto l’importanza « che il codice penale torni ad essere al centro del sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabiliti e ordinati a sistema i princìpi e gli istituti fondamentali ». La centralità del codice rispetto alla sua parte speciale ap-


— 60 — pare dunque cifra e condizione della centralità della codificazione rispetto alla parte speciale del diritto penale. Concettualmente la divisione di competenze sopra tratteggiata sembrerebbe dunque rispondere a un criterio di razionalità: il luogo delle ‘‘regole’’ è quello in cui ci si deve in effetti preoccupare direttamente della chiarezza e precisione, in quanto dalla reale osservanza di questi dettami dipende la stessa possibilità di identificare nelle norme una reale capacità regolativa. È innegabile del resto come già nella parte generale si giochi e si prepari quella « sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte di azione » in cui la notissima sentenza n. 364 della Corte costituzionale compendiava con mirabile sintesi il fondamento al contempo assiologico e funzionale del dettame della tassatività-irretroattività (46). Potremmo dire: la tassatività è ratio essendi della parte generale in quanto luogo delle regole. Il luogo dei ‘‘contenuti’’, la parte speciale, è quello in cui domina l’esigenza di concretezza degli oggetti, materiali o giuridici, ossia la previsione di fatti in grado di assicurare la protezione dei rispettivi beni giuridici; la tassatività vi è, certamente, importante, ma qui essa deve necessariamente transitare attraverso la definizione dei beni giuridici e, soprattutto, la costruzione di modelli di comportamento che, in quanto descritti — per riprendere una formulazione del Progetto Pagliaro — « in modo tale che la loro realizzazione assuma una dimensione di concreta lesività o di concreto pericolo per il bene giuridico », conferiscono appunto precisione alle fattispecie, specie nella prospettiva dinamica di applicazione alle stesse delle risorse ermeneutiche. Non a caso si è soliti dire che la parte generale sia cieca (47) o comunque indifferente alla dimensione degli og(46) Corte cost., 23-24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, con nota di D. PULITANÒ, p. 686 ss. e spec. p. 713: « Basilari norme costituzionali relative alla materia penale, mentre tendono a garantire al cittadino, ed in genere ai c.d. destinatari delle norme penali, la sicurezza giuridica di non essere puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti, svelano la funzione d’orientamento culturale e di determinazione psicologica operata dalle leggi penali. Non è, infatti, senza significato che il principio di legalità, inteso come ‘‘riserva di legge statale’’ sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale, dall’art. 25, comma 2, Cost.: trattandosi dell’applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la ‘‘praevia lex scripta’’. I princìpi di tassatività e d’irretroattvità delle norme penali incriminatrici, nell’aggiungere altri contenuti al sistema delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale intende garantire ai cittadini, attraverso la ‘‘possibilità’’ di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione ». (47) Quest’idea di ‘‘cecità’’ rispetto ai contenuti evoca, non casualmente, un’analoga cecità di cui risulta affetto il diritto penale se privato dell’apporto della criminologia (espressione a sua volta di quella politeistica ‘‘realtà quotidiana’’ che è spesso trascurata dall’unitario, ‘‘grandioso razionalismo’’, del diritto penale), secondo un’efficace battuta di H.H. Jescheck. Per un’analisi di questa e altre prese di posizione della scienza giuridico-penale sul


— 61 — getti di tutela, rechtsgüterblind (48), e che invece la parte speciale trovi in questi oggetti il proprio fondamento, anzi la propria ratio essendi. E questa è anche la lettura che possiamo conferire a una norma del Progetto (sulla quale per altri versi nutrirei non poche riserve di coerenza con l’ispirazione fondamentalmente ‘‘tassativizzante’’ della parte generale): a quel cruciale comma 2 dell’art. 2, secondo cui « le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico ». Indicativa di questa attenzione privilegiata conferita dal Progetto al dettame della tassatività-determinatezza (49) in seno alla parte generale ci pare del resto la marcata ‘‘oggettivizzazione’’ impressa a vari istituti, quali, emblematicamente, la colpa (art. 31) e il delitto tentato (art. 43). La prima, attraverso una definizione (50) che dà ragione della struttura oggettiva del reato colposo, ma assai meno sembra rifletterne, malgrado la collocazione in un capo III intitolato alla ‘‘colpevolezza’’, la ‘‘misura soggettiva’’. Il secondo, adottando una formulazione (51) che, rimosso il tradizionale riferimento del Codice Rocco alla ‘‘direzione non equivoca’’ degli atti, ottiene certo il risultato di conferire maggiore determinatezza alla nozione (52), ma rischia anche di ridurre significativamente le remore tema della collaborazione interdisciplinare, rinviamo a G. FORTI, L’immane concretezza, cit., spec. p. 86 ss. (48) Sulla parte generale come ‘‘cieca forma’’, rispetto a una parte speciale che esprime le scelte di politica criminale adottate dal legislatore, cfr. FINCKE, op. cit., p. 26 ss. Riprende questo pensiero TIEDEMANN, op. cit., p. 7. V. anche PADOVANI-STORTONI, op. cit., p. 15 s., i quali peraltro rilevano che « questa asserzione è, indubbiamente, troppo radicale posto che anche le norme di parte generale hanno dei contenuti, per così dire, di valore e rispecchiano opzioni di politica criminale, ma certamente coglie, nelle sue linee generali, una distinzione di ruoli tra i due ambiti del diritto penale ». (49) È singolare peraltro come nella Relazione sull’articolato si parli ampiamente del principio di legalità, ma non si spenda alcuna parola con specifico riferimento a una delle due principali novità di formulazione introdotte nell’art. 1, comma 1, consistente appunto nella sostituzione dell’inciso ‘‘espressamente’’ con il più esplicito ‘‘tassativamente’’. (50) « Art. 31.1 Risponde a titolo di colpa chi, con una condotta che viola regole di diligenza, o di prudenza, o di perizia, ovvero regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o discipline, realizza un fatto costitutivo di reato che è conseguenza prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare ». (51) « Art. 43.1. Chi intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto tentato, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica ». (52) « La proposta di modificare la nozione di delitto tentato fornita dall’art. 56 c.p. Rocco risponde al proposito garantista di questo progetto di riforma di dotare di maggiore determinatezza possibile le norme di espansione della responsabilità, come appunto quelle sul tentativo e sul concorso di persone nel reato, mediante un più rigoroso ancoraggio a requisiti di tipicità oggettiva, senza comunque dimenticare che la capacità regolativa di norme siffatte è sempre mediata dall’insopprimibile opera della giurisprudenza. La Commissione, convinta che i requisiti dell’idoneità e dell’univocità non siano in grado di fornire un criterio sufficientemente definito, e soprattutto oggettivo, di delimitazione dell’area dell’attività pu-


— 62 — dogmatiche attualmente frapposte alla configurabilità non solo di un tentativo con dolo eventuale o indiretto, ma, addirittura, di un tentativo colposo. Esito certo non auspicabile per una dottrina in larga prevalenza assillata dalle sue ‘‘discrasie’’ rispetto alla prassi applicativa, ritenuta fin troppo prona a cogliere, tra le pieghe del diritto positivo, ogni opportunità per ‘‘chiudere’’ le lacune di tutela lasciate scoperte da un diritto penale necessariamente frammentario, con esiti che spesso vanno proprio a scapito di una reale verifica di colpevolezza. La difficoltà risiede semmai nel fatto che questa ispirazione all’oggettività-tassatività del sistema penale, perseguita con pervicacia e coerenza dalla Commissione, comporta di per sé ‘‘costi’’ rilevanti sul terreno della modulazione della responsabilità in base a coefficienti soggettivi, la cui considerazione è pur sempre un indice dell’adattabilità del sistema alla molteplice realtà criminologica e, dunque, ai ‘‘contenuti’’, oggetto di disciplina. A ciò si aggiunga che la parte generale, a dispetto dei sinceri intendimenti espressi dai riformatori, rischia di risultare complessivamente tanto meno tassativa quanto più impossibilitata a prefigurarsi le concrete fattezze di una non ancora materializzata parte speciale, visto che solo da esse ogni normazione può attingere la propria piena intelligibilità. Di ciò è del resto consapevole la stessa Commissione la quale, come si è visto, non si dice affatto convinta che la rivendicazione di centralità normativa del codice dovesse necessariamente implicare una priorità cronologica e metodologica della stesura della parte generale. Nel dichiararsi condizionata a tale scansione dei propri lavori, essa si è peraltro proposta di riscattare in qualche modo una tale scelta, richiamando ‘‘anticipatamente’’ e ripetutamente l’attenzione sui molti fili che tengono o dovrebbero tenere allacciate le due parti. Cerchiamo dunque di scoprire almeno qualcuno di questi fili e di riflettere sulla loro ‘‘tenuta’’ nell’ambito del Progetto. Esili, certamente, appaiono questi fili nelle ‘‘regole’’ riguardanti « la legge penale » e « il reato », di cui si sottolinea l’ accentuato distacco dalla parte speciale: « una... autonomia e compiutezza, che teoricamente ne consentirebbero l’entrata in vigore anche indipendentemente dalla riforma del sistema sanzionatorio e di riforme di parte speciale. Si tratterebbe, ovviamente, solo dell’avvio di una riforma che è stata pensata come complessiva, e che anzi abbisogna di essere ulteriormente sviluppata con interventi sulla parte speciale ». Riprendendo un noto rilievo della dottrina, potremmo dire anche che, trattandosi, qui, di ‘‘problemi di qualificazionibile, e consentono di fatto al giudice eccessiva libertà nella determinazione di contenuto e limiti dell’istituto e nell’anticipazione dell’inizio dell’attività punibile, ritiene opportuno ritornare, in sostanza, alla formula dell’inizio di esecuzione prevista dai codici penali liberali ».


— 63 — ne’’, dominante vi sia il ruolo svolto dal ‘‘pensiero normativo’’, rispetto al ‘‘pensiero fattuale’’ (53). All’estremo opposto si pone il folto gruppo di norme concernenti il sistema sanzionatorio, in relazione alle quali la Commissione non esita a riconoscere una sorta di priorità dei ‘‘contenuti’’ della parte speciale rispetto alle ‘‘regole’’ della parte generale. Dunque: la scelta di attenersi saldamente al canone della tassatività già in seno alla parte generale (a scapito di un reale assorbimento anticipato dei contenuti della parte speciale), che attraversa, sia pure con diversità di accenti, gran parte degli istituti della teoria generale, trova — inevitabilmente — nella parte sanzionatoria un momento di discontinuità. Non nel senso che il piano sanzionatorio venga sottratto al dettame della tassatività. Al contrario: la tassatività delle pene è enunciata in modo forse ancor più fermo di quanto lo sia la tassatività dei precetti. Ma nel senso che mentre per questi ultimi, come detto, tale ‘‘garanzia’’ è perseguita prevalentemente nel luogo delle ‘‘regole’’, ossia nella parte generale, per le sanzioni si riconosce quanto ciò risulti inevitabilmente affidato soprattutto al luogo dei contenuti, alla parte speciale appunto. Scontato è dunque che, in relazione al sistema sanzionatorio, il ‘‘convitato di pietra’’ della parte speciale venga evocato dalla Commissione con particolare insistenza. Si afferma allora che in questa materia la parte generale non è « del tutto autoreferente », visto che il modello sanzionatorio ivi impostato presuppone anzi « per diventare concretamente operativo, scelte coerenti » e che « il volto effettivo e reale del nuovo sistema sanzionatorio dipenderà in larga misura dalla specificità di tali scelte ». Si tratta di enunciati assolutamente decisivi per ponderare il rapporto tra parte generale e parte speciale dell’intero Progetto di riforma, se solo consideriamo come il maggior numero di disposizioni presenti nell’attuale articolato riguardi direttamente o indirettamente la pena, con una forza attrattiva che ha portato ad assorbire nell’area topografica delle sanzioni addirittura un istituto come l’imputabilità, per il quale certo in altri contesti si sarebbe potuta più ragionevolmente concepire una collocazione nell’ambito delle norme sulla colpevolezza, con ciò rispecchiando l’autentico ruolo di questa categoria quale, appunto, ‘‘presupposto’’ della colpevolezza (54). Particolarmente sentita è altresì l’ipoteca di parte speciale gravante sui criteri di commisurazione della pena (art. 71) — un’area peraltro a sua volta del tutto qualificante nell’ambito del sistema sanzionatorio — in relazione alla quale si afferma che « il criterio della proporzione con la (53)

Cfr., per questa distinzione tra i problemi penalistici, i classici rilievi di C. PE-

DRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, p. 4.

(54) Cfr., per tutti, M. ROMANO, Commentario sistematico, II, 2a ed., Milano, 1996, sub Pre-Art. 85, p. 3.


— 64 — colpevolezza non è sufficiente a definire una misura punitiva ‘‘giusta’’ in assoluto. Ma potrà non essere (come non deve essere) una delega in bianco al giudice, se le cornici edittali ‘‘di parte speciale’’ sapranno definire tipi e livelli di pena adeguati a comprendere e differenziare le ‘‘gravità relative’’ dei reati commessi ». Lo stesso dicasi con riferimento alla disciplina — altrettanto cruciale e ‘‘disgregante’’ nell’attuale nostro sistema delle sanzioni — della sospensione condizionale (art. 80), dove la decisa scelta di effettività e afflittività, connessa all’oggettiva erosione degli spazi applicativi dell’istituto, si anticipa possa venire compensata con l’« adozione di limiti edittali più contenuti nella auspicata riforma della parte speciale ». Tra i due ‘‘blocchi’’ estremi di ‘‘regole’’, dotati rispettivamente di una tendenziale autonomia (legge penale e reato) e di una tendenziale dipendenza (sistema sanzionatorio) dalla parte speciale, il testo della Relazione colloca tutta una serie di istituti in relazione ai quali la scelta del punto di equilibrio tra ‘‘regole’’ e ‘‘contenuti’’ risulta diversamente articolata, a seconda della maggiore o minore tendenza ad aprirsi verso l’ancora inesistente parte speciale. Nella più spiccata ‘‘apertura’’, in questo senso, di certi snodi del Progetto si esprime talora l’intendimento di affidare alle singole fattispecie criminose le esigenze di tutela lasciate ‘‘scoperte’’ dalla disciplina ‘‘tassativizzante’’ impressa alla parte generale; in altri casi, essa nasce dall’aspettativa di trarre dalla parte speciale un ulteriore apporto di tipizzazione, ritenuto, per certi istituti, non interamente soddisfatto in seno alla parte generale, proprio per una rilevata migliore attitudine delle singole figure di reato a realizzare quest’opera di precisazione. Emblematica della prima forma di ‘‘affidamento’’ alla parte speciale è la presa di posizione sul rapporto di causalità (art. 13): un istituto la cui disciplina, sia detto per inciso e a prescindere dallo specifico tema del mio intervento, offre il fianco a qualche rilievo critico, non foss’altro per i vetusti echi di antoliseiana ‘‘causalità umana’’ che è dato avvertirvi. « Enunciata la disciplina del rapporto causale », la Commissione « sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all’evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es. la salute); ma ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti a un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati ‘‘delitti di rischio’’ ». Analogo mi sembra il criterio che ha governato la scelta del punto di


— 65 — equilibrio parte generale-parte speciale con riferimento al pericolo concreto (art. 15) e alla disciplina del reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti (art. 47), nonché all’eliminazione di « istituti quali la preterintenzione, l’aberratio delicti, la responsabilità ex art. 117 c.p. », accompagnata dall’« auspicio » di un’eliminazione anche dei delitti aggravati dall’evento; prospettandosi appunto la « possibilità di fare fronte sul terreno della parte speciale a specifiche esigenze di tutela che dovessero emergere con riferimento a settori particolari dell’ordinamento (es., delitti contro la persona) ». Come indicative di una collocazione ‘‘intermedia’’ tra parte generale e parte speciale possono assumersi le soluzioni adottate sul concorso di persone (art. 45), nella cui disciplina la Commissione dichiara di aver ricercato « un difficile, ma proficuo, equilibrio fra esigenze di tutela e necessità di una sufficiente tassatività dei presupposti della responsabilità penale »; e sul tentativo (art. 43). A proposito di quest’ultimo, si rileva che nell’ ‘‘ancoraggio’’ « al concetto di inizio di esecuzione, si è cercato di dotare di maggiore determinatezza una tipica norma di espansione della responsabilità penale: con una definizione che, pur non risolvendo ogni problema di riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale, ha comunque il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento, e di impedire un arretramento eccessivo dell’inizio dell’attività punibile ». Riflettiamo dunque su quanto detto fin qui. Alla parte speciale il Progetto si ‘‘apre’’ prevalentemente per sopperire a esigenze di tutela lasciate ‘‘scoperte’’ dalla disciplina ‘‘tassativizzante’’ impressa alla parte generale e, in misura minore, per trarne un ulteriore apporto di tipizzazione. Comunque, quale che sia l’arcobaleno di differenziati equilibri tra regole e contenuti che scandisce i vari istituti, resta il cruciale dato di fondo per cui la disciplina del sistema sanzionatorio è senz’altro quella complessivamente più dipendente, per chiaro riconoscimento della Commissione, dalle scelte di ‘‘contenuto’’ che verranno adottate in seno alla parte speciale. Ma tale disciplina sanzionatoria, come detto, è quella quantitativamente e topograficamente prevalente nell’economia del Progetto; e la spiccata invasività delle norme della parte generale riguardanti le pene non è un dato che possa racchiudersi entro recinti meramente formali, ma risulta, come ogni altro dato formale di una normazione, « vincolante anche dal punto di vista contenutistico ». Combinando queste considerazioni, rileviamo allora come il nucleo maggiormente significativo della disciplina codicistica di parte generale veda le sue ‘‘regole’’ subordinate, per una piena realizzazione dei princìpi portanti della riforma (ossia la tassatività e l’effettività di tutela dei beni), alla definizione dei ‘‘contenuti’’ della parte speciale. Definizione che peraltro dovrà essere appunto di contenuti; dunque, non potrà ridursi alla


— 66 — mera dosimetria sanzionatoria assegnata alle diverse fattispecie incriminatrici e necessariamente coinvolgerà i princìpi secondo i quali il legislatore dovrà impostare e ordinare le molteplici ipotesi di reato. È necessario a questo punto compiere l’operazione cui facevo cenno in apertura, ossia ricostruire il ‘‘corredo cromosomico’’ della riforma, lo zwischen ihnen tra le due parti del codice che le è caratteristico; in particolare: mettere in luce la gerarchia impostata dalla parte generale tra i princìpi costituzionali che ne conferiscono la ‘‘forma’’ e che ne rivelano anche le modalità di preparazione della sua parte speciale. In proposito mi sembra di identificare come chiave di volta dell’intero impianto della riforma quegli enunciati della Relazione nei quali l’importanza dell’extrema ratio per l’impostazione della futura parte speciale è messa in rilievo con nettezza ed efficacia e, soprattutto, è qualificata come oggetto di precisa indicazione scaturente dalla parte generale. « Come si è sopra osservato, per la concreta riforma del sistema sanzionatorio un nuovo catalogo delle pene non è che un punto di partenza: un arsenale di strumenti a disposizione del legislatore ‘‘di parte speciale’’, per le scelte relative a ogni singolo reato. Ciò non toglie che già le indicazioni della ‘‘parte generale’’ — con il proporre un catalogo ampio ed aperto di tipi di pena, e col ridurre i limiti edittali — additino un preciso indirizzo di politica sanzionatoria, verso un sistema che cerchi di prendere sul serio l’idea del punire come extrema ratio, e riduca al minimo, in particolare, il ricorso alla pena carceraria, sia con riferimento alla qualità ed al numero dei reati cui essa risulterà applicabile, sia con riferimento alla quantità della sua irrogazione (che si vorrebbe generalmente meno elevata già sul terreno della previsione edittale, e caratterizzata da una minore forbice fra minimo e massimo) ». L’idea di residualità della sanzione penale è dunque assunta come portante rispetto alla determinazione dei contenuti della parte speciale, ossia come dettame sovraordinato e regolatore, ci sembra, rispetto ai due princìpi della tassatività e offensività che pur dovranno governare la scelta di quali e quante fattispecie sottoporre a sanzione penale. Colgo un ulteriore sostegno, sia pure indiretto e trasversale, all’assunzione dell’extrema ratio quale supremo principio guida nella definizione dei ‘‘contenuti’’ della parte speciale, dalla lettura di ambiti di disciplina nei quali il Progetto segnala, a prescindere dalla bontà intrinseca delle soluzioni adottate, un vistoso quanto apprezzabile distacco dai modelli ‘‘ontologici’’ del Codice Rocco a favore di un’accentuata e molto consapevole normativizzazione di varie, fondamentali, categorie penalistiche. Credo che una siffatta lettura in chiave di residualità della norma penale possa compiersi innanzi tutto rispetto a quella che a giudizio di molti di noi è una delle componenti più avanzate e felicemente impostate dell’intero impianto di riforma: l’esplicita e dettagliata normativizzazione del


— 67 — reato commissivo mediante omissione e delle connesse posizioni di garanzia (art. 16 ss.). Una scelta che mi sembra trovi coerente rispecchiamento e ricaduta nell’avvertito bisogno di ‘‘contenuti’’ che la riforma mette in luce. Possibili « soluzioni di parte speciale », pur dettate dalla necessità di far fronte a esigenze di tutela attraverso la previsione « di nuove fattispecie di reati omissivi puri », vengono motivate nel Progetto in ragione della « migliore capacità di tipizzazione » da esse offerte. Ciò è poi particolarmente messo in evidenza, ad esempio, nell’ambito della responsabilità medica (art. 18), in relazione alla quale si rileva che per « i casi di inadempimento di doveri legali di presa in carico da parte del medico o di una struttura sanitaria, una disciplina ‘‘di parte speciale’’ appare più adeguata a tipizzare situazioni del genere, e a definire condizioni di rilevanza penale che possono anche prescindere da concrete conseguenze lesive, attestandosi sulla configurazione di fattispecie di mera condotta (omissiva) ». Per la stessa ragione, si suggerisce « una soluzione ‘‘di parte speciale’’ per il caso di inadempimento di doveri di soccorso (caso paradigmatico, gli interventi in caso di incendio, o di calamità ‘‘naturali’’) ». Ma, anche se non ho il tempo di sviluppare in dettaglio questo rilievo (55), ravviso altresì nell’accentuata normativizzazione della nozione di colpa una scelta che a sua volta si raccorda alla centralità, nell’impianto complessivo della riforma, assegnata al principio di extrema ratio. Si afferma, ad esempio, nella Relazione che « il rispetto delle regole cautelari specifiche... esclude la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole, salvo che il progresso scientifico o tecnologico, nel periodo successivo alla loro emanazione, non le abbia rese palesemente inadeguate » (art. 31, comma 2). L’idea è dunque che le esigenze di tassatività ed effettività della tutela dei beni giuridici possano essere soddisfatte basando il discrimine tra responsabilità e rischio consentito su regole cautelari-preventive di natura prevalentemente extrapenale. Altrettanto interessante, come espressione di un’ispirazione all’extrema ratio destinata a investire complessivamente i contenuti della codificazione, mi pare infine una delle più innovative previsioni della riforma, quell’art. 126 sull’« esclusione della responsabilità della persona giuridica », in cui si afferma che « la responsabilità della persona giuridica è esclusa se, prima della commissione del reato, era stato adottato ed efficacemente messo in pratica un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi ». Si tratta della previsione forse più ‘‘aperta’’ all’apporto di normazione extrapenale e dunque, ancorché non riguardante una responsabilità propriamente pe(55) Per uno specifico approfondimento del tema della colpa nell’ambito del Progetto Grosso, rinviamo alla nostra relazione Sulla definizione della colpa nel progetto di riforma del codice penale, presentata al convegno ‘‘La riforma del codice penale. La parte generale’’, Pavia, 10-12 maggio 2001 e di prossima pubblicazione negli Atti del convegno.


— 68 — nale delle persone giuridiche (56) che possa ritenersi equivalente ai modelli di corporate criminal liability nordamericani (57), del tutto significativa come promettente segnale della tendenza a spostare gli equilibri della nuova codificazione oltre i tradizionali recinti panpenalistici, verso una più ampia idea di compliance (58) e dunque, appunto, di extrema ratio. 5. Vorrei trarre da quanto detto fin qui qualche rilievo conclusivo e propositivo. La riforma in corso e, in modo particolare, l’assetto della futura parte speciale del codice, nonché il rapporto tra codificazione e legislazione speciale, dovrebbero essere complessivamente guidati non già semplicemente dal consueto ‘‘catalogo’’ di princìpi costituzionali in materia penale, ma dalla ferma consapevolezza di un ordine di priorità tra tali princìpi. È l’ordinamento di questi ultimi, la loro reciproca gerarchia, non il piatto ossequio tributato a tutti e ciascuno di essi a imprimere, al contempo, forma e sostanza a un progetto di riforma, a rispecchiarne l’identità giuridica e culturale, nonché a scolpirne tratti realmente innovativi rispetto all’ormai decrepito Codice Rocco. Nell’ambito di una siffatta gerarchia, riterrei fondamentale collocare in posizione di preminenza il dettame dell’extrema ratio. Ciò rappresenterebbe un apprezzabile stimolo a controbilanciare una diffusa sfiducia della dottrina penalistica in merito alle sue reali potenzialità e la pervicace riluttanza del legislatore a lasciarsene orientare nelle sue scelte normative. Verso l’assunzione dell’extrema ratio come preminente criterio regolatore e ordinatore proprio di una parte speciale che si prospetti come esito di questa riforma, sospinge una serie di considerazioni. a) Innanzi tutto il combinarsi del dato generale, di comune dominio, ma sempre imprescindibile punto di partenza di ogni teoria del reato — che rileva come il diritto penale tragga la propria identità e ragion d’essere da una sanzione, appunto penale, di per sé offensiva di fondamentali (56) In relazione alla quale v., ora, il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: ‘‘Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della l. 29 settembre 2000, n. 300’’. (57) Per un’orientamento nella vasta materia, si può ora consultare la ricca rassegna bibliografica di J. DI MENTO-G. GEIS-J.M. GELFAND, Corporate Criminal Liability, in Western State University Law Review, 28, 2000-2001, p. 1 ss. (58) Per una recentissima riflessione sulle prospettive della compliance societaria, sotto forma di green management, strategia alternativa rispetto alla sanzione penale nello specifico campo della prevenzione degli illeciti ambientali, rinviamo a J. DI MENTO-G. FORTI, ‘‘Green Managers Don’t Cry’’: Criminal Environmental Law and Corporate Strategy, in H.N. PONTELL-D. SCHICHOR (a cura di), Contemporary Issues in Crime & Criminal Justice, Upper Saddle River, NJ, 2000, p. 253 ss. Sul tema generale, richiamato proprio per esemplificare la necessità di un mutamento di ruolo del diritto penale, da assumere sempre più come ‘‘veramente accessorio’’ rispetto agli strumenti di tutela, v. F. STELLA, Criminalità di impresa: nuovi modelli di intervento, in questa Rivista, 1999, p. 1254 ss., spec. p. 1267 ss.


— 69 — beni giuridici — con la centralità conferita dal Progetto alla disciplina sanzionatoria, vero asse portante della riforma codicistica. Una disciplina in relazione alla quale è la stessa Commissione Grosso a porre decisamente in rilievo come « già le indicazioni della ‘‘parte generale’’ — con il proporre un catalogo ampio ed aperto di tipi di pena, e col ridurre i limiti edittali — additino un preciso indirizzo di politica sanzionatoria, verso un sistema che cerchi di prendere sul serio l’idea del punire come extrema ratio, e riduca al minimo, in particolare, il ricorso alla pena carceraria ». b) Credo che già solo i settant’anni trascorsi dall’introduzione del codice fascista e il vistoso ritardo del nostro paese, rispetto alla grandi democrazie occidentali, nel dotarsi di una nuova codificazione, a prescindere da ogni altra considerazione, spingano verso una seria e creativa soluzione di continuità rispetto al passato. L’idea di residualità della sanzione e del diritto penale è quella più qualificata per rappresentare e orientare una decisa presa di distanza dal Codice Rocco, perché si tratta del dettame certamente più disatteso da questo codice, a fronte del compunto, ancorché largamente retorico ossequio da esso tributato, soprattutto nella parte generale, ad altri ‘‘princìpi-cardine’’ di marca liberale, quali la colpevolezza, l’offensività e la tassatività. c) La consapevole assunzione, come asse portante del sistema penale, di questo principio, nel quale si compendia e amplifica il concetto fondamentale della relatività e del relativismo della pena (59), costituisce la migliore garanzia che sia dissipato o almeno tenuto a freno il tenace retaggio retributivo che si annida tra le pieghe di altri pur rispettabili princìpi di matrice liberale. In un recente scritto sulla legislazione penale complementare (60), si rilevava in dottrina il carattere mitologico e retribuzionistico dell’invocazione al ritorno a un diritto penale classico (61) e si sottolineava come la stessa validità di un tale diritto penale sia di per sé bisognosa di ‘‘collaudo (59) Su ciò che può intendersi per ‘‘relativismo’’ della pena e sulle sue implicazioni, rinviamo a FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 113 ss. (60) Cfr. M. DONINI, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato ‘‘costituente’’ per la riforma del codice, in M. DONINI (a cura di), La riforma della legislazione penale complementare, Padova, 2000, p. 14. (61) Per un’efficace sintesi dei connotati del diritto penale classico, cfr. C.E. PALIERO, Tecniche di tutela e riforma del codice penale, in AA.VV., Valori e princìpi della codificazione penale: l’esperienza italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, p. 144 ss. Quanto al ‘‘diritto penale moderno’’, esso viene sinteticamente caratterizzato come « sistema di prevenzione (generalizzata) della conflittualità sociale », ossia come « vettore di stabilizzazione socializzazione », che colloca « il suo fulcro d’azione non nel danno né nel pericolo, bensì nel rischio », che « imposta la dinamica del conflitto... alla stregua di un modello che non è più conflittuale, ma consensuale-consociativo », che si carica di una « forte spinta moralizzatrice, o neo moralizzatrice », come « unico strumento efficace di pedagogia politico-sociale ».


— 70 — empirico’’. Direi allora che il miglior collaudo empirico di un progetto pur volto a rivalorizzare molti connotati del diritto penale classico, ma anche davvero intenzionato ad affrancarsi da ogni cascame retributivo risieda in una scelta di metodo e di contenuto che sconti fino in fondo il dettame dell’extrema ratio, facendo di questo il principio regolatore centrale, sovraordinato anche rispetto a princìpi come la legalità-tassatività e l’offensività, tradizionalmente associati alla fisionomia del c.d. diritto classico. È infatti, di per sé, la coerente adesione a questo principio a indirizzare il sistema penale verso un serrato confronto con la realtà empirica, sotto forma di un’attenzione verso la genesi e gli effetti delle varie fenomenologie criminose, e di una concreta verifica delle potenzialità di tutela ascrivibili alle diverse risorse sanzionatorie complessivamente a disposizione dell’ordinamento giuridico. d) La stretta aderenza al canone dell’extrema ratio nell’elaborazione dei contenuti della parte speciale del codice, accompagnata possibilmente dalla sua enunciazione normativa come criterio guida anche per la parte speciale del diritto penale, può mettere al riparo da un rischio tutt’altro che teorico: che la parte generale, una volta stretta tra le spire di una Politica troppo preoccupata di ‘‘fare sul serio’’ sulla questione criminale per assecondare una domanda di sicurezza collettiva a senso unico, sia ridotta a un insieme di enunciati meramente retorici e declamatòri, incapaci di incidere stabilmente e profondamente sulla fisionomia e sul ruolo della pena nel nostro paese, ma soprattutto contraddetta, nei fatti, dall’assetto fatalmente selettivo assunto dalle scelte di criminalizzazione adottate nella parte speciale. e) Infine, una consapevole priorità conferita nella parte speciale al principio di extrema ratio rappresenterebbe lo sbocco più coerente di una serie di scelte normative già compiute nella parte generale del Progetto e localizzabili emblematicamente, oltre che nel sistema sanzionatorio e nella commisurazione della pena, nella disciplina ‘‘aperta’’ riguardante istituti quali la colpa e il reato commissivo mediante omissione nonché nella norma sulla compliance societaria, che mi sembra tra le più interessanti, innovative del Progetto. La riforma della parte speciale dovrebbe dunque trarre una serie di conseguenze dalla preminenza conferita al dettame dell’extrema ratio, irrorando di questo principio non solo la dosimetria sanzionatoria prescelta per i singoli reati e la determinazione dei comportamenti punibili, ma, prima ancora, il modo di intendere e applicare i criteri guida — in ispecie la tassatività e l’offensività — sulla base dei quali le fattispecie incriminatrici saranno state selezionate e formulate. Quegli stessi criteri guida che, come abbiamo visto, sia pure con accentuazioni di volta in volta diverse, costituiscono i due capisaldi della parte generale.


— 71 — Suggerisco dunque quanto segue. a) Prevedere, nel primo articolo della parte speciale o addirittura, auspicabilmente, in una legge costituzionale, un’esplicita enunciazione dell’extrema ratio come principio fondamentale dell’intera normativa penale. Tale norma, che si porrebbe come giugulare vena di collegamento, non solo topograficamente, ma anche formalmente e sostanzialmente significativa, tra parte generale e parte speciale, varrebbe a consolidare per fatti concludenti la centralità assiologica del codice penale rivendicata dal Progetto, che altrimenti rischierebbe di restare puramente virtuale. b) Conferire alle singole fattispecie criminose una tassatività di formulazione che non si riduca a mera chiarezza e precisione linguistica, ma che sia pensata in funzione, appunto, del dettame dell’extrema ratio. Ciò in un duplice senso. Innanzi tutto con una descrizione dei tipi delittuosi che tenga conto delle specificità della sanzione penale in rapporto agli altri sistemi di controllo e dunque, soprattutto, capace di imprimere incisivamente nei tipi delittuosi quei connotati (ad es. personologici e vittimologici) su cui è stata fondata la convinzione che solo la sanzione penale possa valere a contrastarli. E poi, finalmente, traendo tutte le conseguenze dal ben noto limite logico di ogni normazione, già molti anni fa additato da Bricola, Molari e Marinucci, sulla scia di Feuerbach, per cui il legislatore, nella sua opera di strutturazione della fattispecie, dovrebbe « utilizzare i risultati di rilevazioni criminologiche in ordine a comportamenti che nell’ambiente sociale si svolgono secondo una certa trama e con certe caratteristiche »; ciò anche per evitare l’introduzione nell’ordinamento di fattispecie ‘‘emblematiche’’, inapplicabili e inapplicate dalla giurisprudenza (62). Un limite che la medesima, ‘‘storica’’ dottrina, identificò anche a carico dell’interprete, vincolato a scegliere, « tra i vari significati proposti come possibili dall’espressione linguistica », « quello che meglio consente un avvicinamento del mondo astratto dei modelli legali alla realtà dell’esperienza concreta » (63) e che coinvolgerà ubiquitariamente (62) Cfr. F. BRICOLA, voce Teoria generale, cit., ora in Scritti di diritto penale, cit., I/1, p. 582. V. anche A. MOLARI, La tutela penale della condanna civile, Padova, 1960, p. 102 ss.; G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Il diritto penale in trasformazione, cit., p. 196. Si sviluppano ampiamente questi ‘‘storici’’ rilievi, nel quadro di una generale impostazione dei rapporti tra diritto penale e criminologia, in G. FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 42 ss., 101 ss. (63) Cfr. MOLARI, op. cit., p. 106; BRICOLA, Teoria generale, cit., p. 583: « Una volta precisato come questi limiti siano pertinenti più che alla fase di formazione a quella di posizione (e interpretazione) della norma penale, risulta evidente la loro riconducibilità nell’oggetto della teoria generale del reato, pur intesa in senso rigorosamente positivo: così è altresì dimostrato come le rilevazioni socio-criminologiche non vadano soltanto circoscritte a quel momento della scienza giuridico penale che concerne la costruzione delle norme future, ma


— 72 — l’intero ventaglio della normazione penale (64), ancorché diversamente modulato a seconda dei reati oggetto di disciplina nella parte speciale (65). Un limite che, a ben vedere, si iscrive a sua volta nel recinto dell’extrema ratio, se è vero che solo un’adeguata ponderazione dei fattori criminogeni localizzabili nella società, può permettere di prospettare delle alternative alla pena, credibili come alternative proprio in quanto in grado di inibire fattori le cui dinamiche causali siano state previamente oggetto di un’adeguata conoscenza socio-criminologica. E infatti, come si legge in dottrina, « le indagini di tipo empirico... sono tendenzialmente le sole in grado di offrire dati probanti, da un lato, rispetto alla effettiva ‘‘dannosità sociale’’ dei comportamenti da incriminare e, dall’altro, circa la reale efficacia dei diversi strumenti sanzionatori adottabili » (66). Ciò che più conta: una più stretta aderenza alle costanti empirico-criminologiche può soprattutto valere a segnare e rimarcare la distanza del nuovo Progetto dal vecchio Codice Rocco, talora ideologicamente interessato a disattenderle, come nel caso emblematico dei delitti contro l’economia pubblica (67). Tale importante criterio guida, da prendere finalmente ‘‘sul serio’’, attengano alla stessa fase di ricostruzione del diritto vigente e, quindi, alla teoria generale del reato ». (64) Cfr. G. FORTI, L’immane concretezza, cit., p. 182 ss. V. anche T. WÜRTENBERGER, Die geistige Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, tr. it., La situazione spirituale della scienza penalistica in Germania, Milano, 1965, pp. 49, 57: « Non esiste oggi alcuna importante questione di dogmatica penalistica nella cui chiara risoluzione la via della storia o l’esame della criminologia non possano fornire un contributo fondamentale per l’approfondimento scientifico del problema »; « indipendentemente dal fatto che si tratti di problemi della parte generale o dell’interpretazione delle fattispecie penali di parte speciale... ovunque i problemi della criminologia sono in primo piano e dovrebbero contribuire in modo essenziale a risolvere i problemi giuridici ». (65) Si è distinto in proposito tra « reati per i quali l’ancoraggio a tali costanti criminologiche è coessenziale alla loro natura, e reati per i quali esso non si pone, o si pone soltanto riguardo a certi elementi della fattispecie », riconducendosi a quest’ultima categoria « quelli che si sostanziano più nell’imposizione di una condotta per il raggiungiemento di certe finalità di politica legislativa (reati omissivi, in ispecie propri) che non nella registrazione di certe condotte, vietate, già dotate di una loro dimensione sociale »: BRICOLA, Teoria generale, cit., p. 583; MOLARI, op. cit., p. 106 s. Sulla distinzione tra aree del diritto penale a seconda della prevalenza ora del « pensiero normativo » ora del « pensiero fattuale », cfr. C. PEDRAZZI, Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, p. 4; si rilevava peraltro come anche nel campo dell’« imputazione », dove assolutamente prevalente parrebbe l’influenza del puro pensiero normativo, « inaccessibili » a tale pensiero restino importanti variabili, quali « lo stato psichico del soggetto, la volontà, l’azione ». (66) Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, p. 29. (67) Ci si riferisce al requisito di cui all’art. 501 c.p., ritenuto non rispondente a premesse criminologiche, del « fine di turbare il mercato interno dei valori e delle merci ». Il rilievo è ripreso, in BRICOLA, Teoria generale, cit., p. 582, da P. NUVOLONE, Antinomie fossili e derivazioni nel codice penale italiano, in Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova, 1969, p. 713, ed è formulato anche con riferimento a C. PEDRAZZI, voce Economia pubblica, industria e commercio (Delitti contro la), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, p. 280, a propo-


— 73 — può del resto connettersi a un’esigenza che nel corso dei lavori di questo convegno ho sentito più volte prospettare e per la quale lo stesso Presidente Grosso ha manifestato una viva sensibilità: il necessario coordinamento del momento sostanziale con quello processuale (68). Non solo per la necessità di scontare sul piano sanzionatorio gli effetti perversi e incontrollabili prodotti dai riti speciali, ma altresì per la necessità di una penetrazione ‘‘partecipante’’ delle questioni probatorie con cui la prassi è costretta a cimentarsi e in ragione delle quali, per lo più, essa è tentata di forzare i dati testuali-sostanziali. Senza lo sforzo di scontare questo snodo, senza dunque farsi carico di un’esigenza che potrei dire anche ‘‘rassicuratoria’’ per la prassi applicativa, ogni progetto rischia di sfarinarsi in mera declamazione. D’altro canto, una volta ridimensionata la centralità della pena detentiva, nel quadro di una complessiva residualità del diritto penale, si potrà davvero, senza soverchie cattive coscienze, valorizzare e potenziare la funzione del processo di ‘‘fare luce’’, di rivelare, di sottoporre democraticamente al vaglio della società civile qualcosa di più di una opaca verità meramente ‘‘processuale’’. c) Assoggettare parimenti l’offensività delle fattispecie di parte speciale al principio regolativo dell’extrema ratio. La relatività e residualità del diritto penale si pone come pietra angolare già della teoria del bene giuridico, la quale deve necessariamente interrogarsi sulle condizioni giuridiche e sociali di un’efficace protezione dei valori rilevanti, trovando al diritto penale la giusta collocazione tra i diversi strumenti disponibili. Ciò comporta, a mio modo di vedere, che nella parte speciale non si appresti il consueto catalogo di beni giuridici ordinati a seconda del rispettivo ‘‘rango’’ corrispondente a una non univoca gerarchia dei valori costituzionali. Semmai, volendo trarre dalla preminenza dell’extrema ratio ogni conseguenza metodologica, le fattispecie criminose dovrebbero essere almeno in parte ricostruite e sgranate secondo il bisogno di pena avvertibile per la tutela dei beni da esse aggrediti. Anche nella sistemazione della parte speciale, oltre che nella determinazione sito del ‘‘gigantismo’’ che connota le principali fattispecie contenute nel titolo VIII, libro II del codice penale. (68) La Commissione Grosso, anche nella più recente ‘‘Relazione sulle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale’’ del 26 maggio 2001, prende atto, oltre che del complessivo apprezzamento della comunità scientifica per il lavoro svolto, dell’ ‘‘incoraggiamento’’ a che la stessa proseguisse e portasse a compimento i suoi lavori, « oltre che nell’indispensabile riferimento ad una concreta parte speciale, anche in connessione ai nessi esistenti con la disciplina penitenziaria e processuale, tenendo conto dei contributi venuti dal dibattito e che ancora verranno da parte degli studiosi di diritto penale ». E in effetti, in vista della nuova scadenza del settembre 2001, la Commissione si proponeva « di iniziare a pensare agli indispensabili raccordi della nuova disciplina penale con il regime penitenziario e con alcuni istituti di diritto processuale, e nei limiti del possibile alla elaborazione della parte speciale del codice penale ».


— 74 — dei contenuti delle singole fattispecie che la compongono, è destinato dunque a pesare il ruolo delle « rilevazioni criminologiche in ordine a comportamenti che nell’ambiente sociale si svolgono secondo una certa trama e con certe caratteristiche ». Oggetto delle rilevazioni non saranno però più soltanto le costanti criminologiche di realizzazione delle diverse condotte tipizzabili, ma altresì i dati pertinenti agli effetti di vittimizzazione di tali condotte e, sulla base di tali preliminari parametri di riferimento, le conoscenze riguardanti le chances complessivamente offerte dall’ordinamento giuridico per esercitare un efficace controllo sulle stesse. Una tale ricognizione, per quanto ardua ed enormemente time consuming, per quanto terribilmente bisognosa di attenta praeparatione, potrebbe coinvolgere la stessa distribuzione nella parte speciale dei diversi ‘‘titoli’’. Quand’anche ci si volesse far guidare dal criterio, già prospettato nel Progetto Pagliaro, che trae fondamento classificatorio dalla tipologia dei beni giuridici (ma sappiamo non essere questa l’unica soluzione possibile e comunque, già nel Codice Rocco, non certo quella esclusiva), la distribuzione dei gruppi di reati non dovrebbe basarsi semplicemente sul rango assiologico dei valori assunti a oggetto di tutela: in un siffatto automatismo vedrei davvero la subdola materializzazione di quel tenace residuo retributivo che, come dicevamo, può annidarsi anche nei più rispettabili ‘‘princìpi cardine’’ di marca liberale, nel più cristallino modello di diritto penale classico. Meno scontata e più problematica potrebbe dunque risultare la scelta di adottare una progressione ascendente dei beni giuridici protetti dalle norme di parte speciale; scelta, come sappiamo, che la Relazione della Commissione Grosso del 1999 ha ripreso dal Progetto Pagliaro, nel comune intento di rovesciare la famigerata progressione discendente del Codice Rocco. Una ‘‘progressione’’ dei beni davvero informata al dettame dell’extrema ratio la vedrei piuttosto sgranare i titoli del codice a seconda del rispettivo ‘‘bisogno di pena’’ dei valori tutelati, da rapportare, come dicevo, al riscontro dei livelli di controllo, giuridico ed extragiuridico, verificabili come fattualmente vigenti nell’ordinamento e, prima ancora, nel corpo sociale. In questa prospettiva, per quanto fatalmente irrealistica possa suonare una tale proposta nell’odierna congiuntura politico-giuridica, non dovrebbe prioritariamente escludersi dal novero delle opzioni classificatorie della parte speciale anche la possibilità di tener conto del ruolo svolto dalla posizione ‘‘di potere’’ sociale (economico, politico, amministrativo, scientifico, familiare o di genere) dell’agente nella realizzazione della condotta criminosa. Da un tale elemento potrebbe trarsi ispirazione per modulare il bisogno di pena (ma non certo necessariamente l’entità o il tipo della stessa) e, con esso (per quanto detto sopra), la collocazione delle re-


— 75 — lative fattispecie di reato, sulla base di variabili relazionali (69) che diano rilievo allo squilibrato rapporto di forza tra autori e vittime. Verrebbe in considerazione a quel punto la concettualizzazione elaborata — soprattutto dalla criminologia tedesca, ma non solo da quella ‘‘critica’’ — con riferimento alla c.d. ‘‘criminalità dei potenti’’, intesa come l’« insieme dei fatti di reato commessi per rafforzare o difendere una posizione di potere » (70). Una categoria nell’ambito della quale sono state collocate soprattuto quelle fenomenologie criminose caratterizzate ad esempio da: divisione dei compiti e creazione o utilizzo di apparati organizzativi; produzione di rilevanti danni materiali e immateriali a fronte di un ridotto allarme sociale suscitato nella popolazione; relativa immunità degli autori grazie alla complessità dei fatti realizzati, alle migliori possibilità di occultamento degli stessi, all’influenza esercitata sull’opinione pubblica, alla più efficace protezione legale goduta e ai bassi livelli di stigmatizzazione sociale delle condotte realizzate. L’ambito, per l’appunto, cui dovrebbero prioritariamente indirizzarsi le attenzioni del riformatore penale, ove seriamente intenzionato a ricostruire i reali flussi che alimentano la spirale dell’insicurezza e, dunque, consapevole delle condizioni necessarie per fronteggiare sul piano politico-criminale (anche con gli strumenti di tutela della parte speciale del codice), i... potenti fattori che alimentano le odierne incertezze collettive. GABRIO FORTI Ordinario di Criminologia e Diritto penale nell’Università Cattolica del S.C. di Milano

(69) SCHEERER, op. cit., p. 247. (70) Cfr. SCHEERER, op. cit., p. 246. Sul tema, cfr. anche H. ALBRECHT, Der Fall Pinochet: Auslieferung wegen Staatsverstärkter Kriminalität?, Baden Baden, 1999; G. KAISER, Kriminologie, 10. Aufl., Heidelberg, 1997, p. 197 ss.; G. KAISER-J.M. JEHLE (a cura di), Kriminologische Opferforschung, Bd. 1, Grundlagen, Opfer und Strafrechtspflege, Kriminalität der Mächtigen und ihre Opfer, Heidelberg, 1994; W. NAUCKE, Die Strafjuristische Privilegierung staatsverstärkter Kriminalität, Frankfurt a. Main, 1996; ID., Eine leblose Vorschrift: Art. 103 II GG., in Kritische Vierteljahresschrift für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Sonderheft, W. Hassemer zum 60. Geburtstag, Baden Baden, 2000, p. 132 ss.; H. STACHAROWSKY, Massenmedien und Kriminalität der Mächtigen, Tübingen, Univ. Diss., 1994.


LA RIFORMA DEL SISTEMA SANZIONATORIO PENALE: UNA PRIORITÀ ELUSA? (*) SUL RAPPORTO FRA RIFORMA PENALE E RIFONDAZIONE DELLA POLITICA CRIMINALE

SOMMARIO: 0. Una premessa storica. — 1. Riforma penale senza politica criminale? — 2. Le aporie della logica imperniata sulla pena principale detentiva. — 3. Sull’inadeguatezza della nozione corrente di giustizia penale (e sull’insufficienza dell’approccio meramente riduzionista). — 4. La non omogeneità delle tipologie di reato e il fatto nuovo dell’emergere di sottosistemi penali. - 4.1. Il nodo costituito dalla tutela anticipata. 4.2. L’irrazionalità dell’attuale modello colposo. - 4.3. Il rilievo da attribuirsi all’autore. — 5. Quale modello di prevenzione, per quale politica criminale? - 5.1. La necessità di riconsiderare il paradigma preventivo tradizionale. - 5.2. Prevenzione-forza o prevenzione-consenso? - 5.3. Alcune precisazioni sulle c.d. componenti positive e sul ruolo del processo. - 5.4. Sistema sanzionatorio ed extrema ratio. — 6. Appunti per una serie di conseguenze possibili.

0. Resta interessante un testo di poco posteriore al 1530, tratto dai Ricordi di Francesco Guicciardini: ‘‘È tanto fragile la natura degli uomini e sì spesse nel mondo le occasioni che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. E però e’ savi legislatori trovorono e’ premi e le pene; e non fu altro che con la speranza e col timore volere tenere fermi gli uomini nella loro inclinazione naturale’’ (II, 134). Del resto, secondo il medesimo Autore, ‘‘non procede sempre el vendicarsi da odio o da mala natura, ma è talvolta necessario perché con questo esempio gli altri imparino a non ti offendere’’ (II, 74) (1). Quasi nulla è cambiato nei secoli rispetto al modello penalistico in tal modo proposto: prevenzione mediante retribuzione. 1. Che nei confronti dell’avvenuto realizzarsi di un reato, almeno in via ordinaria, non si debba rimanere inerti costituisce un’ipotesi di lavoro provvista, senza dubbio, di alta plausibilità: sostenere il contrario avalle(*) Il testo rielabora le relazioni svolte alla Conferenza nazionale sul Progetto preliminare di riforma del codice penale, ISISC, Siracusa, 3-5 novembre 2000, e al convegno Verso una giustizia penale ‘‘conciliativa’’: il volto delineato dalla legge sulla competenza penale del giudice di pace, Trento, 25-26 maggio 2001. (1) Cfr. F. GUICCIARDINI, Ricordi, ed. a cura di E. Janni, Milano, 1951, pp. 101 e 87.


— 77 — rebbe, verosimilmente, il proporsi dell’agire secondo logiche antisociali (2) come modello comportamentale in concreto praticabile (o, se del caso, reiterabile), anche per la connessa non opposizione verso l’attitudine propria della maggior parte fra le condotte illecite a produrre vantaggi. Che il da farsi vada pertanto concepito nel solco di una qualche razionalità preventiva è, a sua volta, un’idea ormai abbastanza radicata, non disgiunta — se si dà credito alle norme programmatiche ufficiali — dall’intento di utilizzare mezzi rispettosi della dignità umana, i quali nell’ordinamento italiano dovrebbero risultare orientati, per scelta costituzionale, a esiti rieducativi. Tuttavia, che cosa davvero abbia senso fare quando un illecito penalmente significativo sia stato compiuto non è affatto chiaro. Su questo problema, peraltro, si riflette poco: perfino nel momento in cui si pone finalmente mano alla riforma del codice penale, cioè a un’opera di riorganizzazione delle regole sostanziali di risposta al reato destinata a incidere nel lungo periodo, la discussione circa le modalità adeguate onde affrontare nel suo complesso il fenomeno criminale non pare, in effetti, accendersi; col rischio che l’impresa della riforma resti improntata a una mentalità processualistica, cioè intesa — essenzialmente — a far sì che l’apparato penale manifesti determinati standard di efficienza operativa, secondo contenuti socialmente accettati (seppur scarsamente argomentati in termini razionali) e con il contrappeso di norme applicative garantistiche, le quali fungono da presidio liberale ma pure, non lo si dimentichi, da elemento di legittimazione delle pene inflitte. Si finisce, in questo senso, per confondere l’effettività applicativa delle sanzioni — il fatto che il sistema giri: fatto la cui percezione, peraltro, viene in pratica riferita ai soli ambiti più scontati della criminalità comune — con l’effettività preventiva del diritto penale verso la criminalità nel suo complesso, vale a dire nella sua consistenza reale. Ma al maggior rigore applicativo delle pene principali classiche può ben corrispondere una non diminuzione, o perfino un aumento, dei tassi di criminalità e della stessa cifra oscura, nel qual caso ci si troverebbe di fronte a una reiterata utilizzazione simbolica degli strumenti penali. Il contenuto della risposta penale agli accadimenti criminosi, quasi si trattasse di un’ovvietà nemmeno degna d’essere approfondita, è ravvisato pressoché senza eccezione, ab immemorabile, in un qualcosa di negativo che dovrebbe patire il loro autore, dunque in una sofferenza o, sinteticamente, in un male. Si noti: non viene in gioco la presa d’atto della circostanza assai verosimile che la risposta — quale essa sia — nei confronti del reato, autonomamente costruita secondo motivazioni sostenibili dal (2) Presupposto un contesto di formazione democratico-costituzionale del diritto e a prescindere, comunque, dalla problematica della resistenza verso il diritto ingiusto.


— 78 — punto di vista razionale ed etico, comporti un percorso impegnativo, non privo di oneri (se si vuole, un percorso sofferto), per chi abbia violato la legge; piuttosto, è proprio dal mero minacciare e applicare un male che vengono attesi (in termini di deterrenza, neutralizzazione, o quant’altro) effetti preventivi. Ciò su cui in effetti si confida — nulla avvertendovi di contraddittorio — è che il vetusto meccanismo consistente nella ritorsione del male possa essere in grado di produrre il bene. Appare dunque logico che, in quest’ottica, la disputa sul contenuto delle strategie sanzionatorie penali e soprattutto sulla loro congruità politico-criminale abbia avuto, fino a oggi, assai poco spazio: la politica criminale si è per gran parte risolta nella politica penale e quest’ultima si è identificata, in pratica, nel continuo aggiustamento dei modi attraverso i quali l’unica idea portante in tema di risposta ai reati, la ritorsione del male, è andata materializzandosi nelle diverse epoche storiche; non senza il parallelo persistere del convincimento inespresso secondo cui la migliore prevenzione possibile rimarrebbe pur sempre quella che giunga a massimizzare il malum poenae in quanto causa efficiente dei supposti esiti preventivi, assunto dal quale deriva, per converso, che ogni elemento di mitigazione del sistema sanzionatorio penale si fonderebbe su considerazioni per sé estranee al finalismo punitivo, così da configurarsi, in rapporto al medesimo, sempre revocabile. Di conseguenza la problematica della pena ha sin qui costituito oggetto più di analisi sociologica (riferita ai significati reconditi e alle interazioni culturali di una prassi intesa come immutabilmente legata, nella sua dinamica intrinseca, al modello della c.d. giustizia commutativa), che non di concreta attività progettuale. Il che ha dato luogo ai ben noti equivoci circa la riferibilità di molti studi concernenti i meccanismi punitivi — si considerino, per esempio, quelli classici di Émile Durkheim (3) — alla sfera dell’indagine fenomenologica sull’essere o a quella della definizione, ad opera dei loro autori, di un condiviso dover essere: fino al tentativo esplicitamente condotto dalle correnti neo-retribuzioniste di mettere in campo l’intero arsenale del pensiero socio-psicologico moderno per legittimare le modalità sanzionatorie esistenti. Nel medesimo tempo i contributi dottrinali sulla funzione della pena si sono in larga misura configurati, al di là delle apparenze, più come disquisizioni a posteriori sulle modalità — assolute o riferite a uno scopo — attraverso le quali giustificare il punire, che non come fonti propositive di modelli fra loro concorrenziali della risposta al reato. Tanto è vero che la stessa idea di rieducazione, per sé la meno omogenea rispetto allo schema (3) Cfr., per una sintesi significativa del suo pensiero in merito alla problematica qui considerata, E. DURKHEIM, Breviario di sociologia, trad. it. di J.L. Morino, Roma, 1971, pp. 89 ss. e 116 ss.


— 79 — del contrappasso, è stata ampiamente utilizzata — e non solo in epoca remota — secondo modalità tutt’altro che alternative rispetto alle tipologie sanzionatorie consolidate. In realtà, la configurazione ordinaria del punire — lungi dal manifestarsi efficiente per sua stessa indole dal punto di vista preventivo — comporta che la strategia di risposta ai reati assuma non poche caratteristiche le quali si pongono palesemente in antitesi rispetto a una serie di esigenze significative, già prima facie, per una valida politica criminale: conseguenza ancor più rilevante in un sistema come quello italiano nel cui ambito il catalogo delle pene principali si riduce, in pratica, a un’unica modalità sanzionatoria — la detenzione — utilizzata per le forme più svariate di illecito. 2. In proposito, può essere utile soffermarsi su alcuni nodi problematici principali (4): a) Il sussistere di un modello egemone molto semplice, e assai poco differenziato nelle sue forme applicative, della risposta alla criminalità — modello costituito dall’applicazione di un male facilmente percepibile da parte della pubblica opinione, nonché facilmente commisurabile, qual è la permanenza in carcere — ha impedito di elaborare strategie sanzionatorie pensate in rapporto alle caratteristiche peculiari delle diverse attività criminose. La pena manifesta in un simile contesto, circa i suoi contenuti, legami pressoché nulli col tipo di reato commesso e col tipo di autore coinvolto: nella sostanza, resta funzionale al mero intento di segnalare con il suo quantum la gravità (ponderata, nel migliore dei casi, attraverso il giudizio — più o meno autonomo da asserite esigenze generalpreventive — relativo alla colpevolezza) del fatto verificatosi. Tuttavia appare tutt’altro che plausibile, a parte le obiezioni etiche, la produttività politico-criminale di una dosimetria generalizzata della logica compensativa, da applicarsi a qualsivoglia trasgressione prevista dalle norme penali. Si opporrà, utilizzando una sorta di parola magica, che tale prassi risulta nondimeno assai garantista, specie con riguardo ai rischi tradizionalmente ravvisati nella presa in considerazione delle strategie preventive attuabili con l’intervento sanzionatorio: obiezione tipica dell’approccio retributivo, la quale trascura che quest’ultimo, come ben si sa, non è per nulla in grado di definire — né rispetto al legislatore, né rispetto al giudice — un rapporto materiale per così dire ontologico fra reato e pena, rendendo semmai non controllabili le motivazioni effettive soggiacenti (4) Si veda altresì, di chi scrive, Politica criminale e riforma del diritto penale, in AA.VV., La bilancia e la misura. Giustizia, sicurezza, riforme, a cura di S. Anastasia e M. Palma, Milano, 2001, p. 130 ss.


— 80 — allo strutturarsi in un dato modo di quel rapporto (in tal senso, la recezione acritica operata dalle correnti neo-retribuzioniste degli impulsi emotivi di ritorsione al reato reperibili in una data epoca rappresenta l’esito ovvio del proposito espresso dalle teorie assolute di escludere circa le scelte sulla pena qualsiasi valutazione riferita a fini razionalmente perseguibili: proposito il quale, tuttavia, ben presto s’è rivelato conforme a una precisa modalità — non accettabile — di perseguire l’intento generalpreventivo). In effetti, la salvaguardia della dignità di chi subisca una pena, ma anche il contenimento degli oneri ad essa correlati, dipendono, come vedremo, dal tipo di politica criminale che si scelga di perseguire, cioè dai contenuti e dagli obiettivi che a quest’ultima vengano assegnati, e non dall’idea assai curiosa secondo cui la pena dovrebbe svolgere funzioni preventive nei limiti (quali?) della compensazione retributiva, laddove proprio l’assunto secondo cui la prevenzione costituirebbe effetto indotto del malum poenae ha portato, già lo osservavamo, a ritenere che il massimo della prevenzione corrisponda, per sé, al massimo della ritorsione. Non esiste, in altre parole, un parametro oggettivo di natura retributiva che funga da argine rispetto alla variabile indipendente preventiva, così da rendere inutile, ove soltanto lo si rispetti, qualsiasi discussione ulteriore sul tipo e sull’entità delle pene inflitte (5). La definizione della strategia sanzionatoria con cui si risponde ai reati, dunque, non può fare a meno di un serio dibattito politico-criminale, volto innanzitutto a rendere esplicito il modello di prevenzione — modulato in rapporto ai diversi contesti criminosi e alla luce di tutte le esigenze in gioco — cui l’ordinamento intenda ispirarsi. b) Proprio lo strutturarsi della pena come qualcosa che dev’essere un male e che per questo si esprime ordinariamente, in fase di minaccia e di condanna, nella detenzione (cui dunque si fa ricorso non perché ne venga motivata, in certi casi, l’irrinunciabilità rispetto a specifiche esigenze preventive, ma perché idonea a consentire un’omogenea ritorsione compensativa, di facile percezione simbolica, verso l’intero complesso dei reati) contribuisce in modo decisivo ai profili di ineffettività, così spesso di recente evidenziati, del sistema penale italiano. (5) Nella stessa commisurazione giudiziaria della pena — vi ritorneremo — sarebbe di per sé assai più nitido descrivere l’opera del giudice come concretizzazione della strategia politico-criminale cui sia da ricondursi la scelta legislativa della pena comminata in astratto (concretizzazione fondata, per quanto rilevi a carico dell’autore, solo su fattori riferibili alla colpevolezza emergente nello specifico fatto di reato), piuttosto che come atto derivante da una sorta di capacità mediatica del giudice medesimo di individuare il limite invalicabile costituito dal livello di pena (che non esiste) corrispondente alla colpevolezza: il problema, peraltro, è che parlare di scelte politico-criminali con riguardo alle scelte sanzionatorie legislative costituirebbe quasi sempre nulla più di un eufemismo (avevamo affrontato questa problematica nel volume La pena ‘‘in crisi’’, Brescia, 1990, p. 145 ss.).


— 81 — Precluso, infatti, lo sviluppo anche in termini organizzativi di modalità sanzionatorie veramente autonome dalla detenzione, è andata inevitabilmente delineandosi una sorta di alternativa rigida fra esecuzione della condanna in carcere e rinuncia alla pena: conseguenza alla luce della quale va letto il carattere per molti versi clemenziale dei mezzi sospensivi, sostitutivi e alternativi fortunatamente utilizzati al fine di non eseguire davvero — vuoi per l’affollamento penitenziario, vuoi per una reale percezione dell’ingiustizia e dell’inutilità di un ricorso così esteso al carcere — una parte delle pene detentive, di durata breve o medio-breve, inflitte. Una situazione, peraltro, non modificabile — come molti invece vorrebbero — rendendo semplicemente più rigorosi i requisiti onde accedere ai mezzi suddetti e continuare a beneficiarne fino al termine della fase esecutiva, in quanto ciò non farebbe che estendere in modo automatico gli ingressi in carcere, sfavorendo i soggetti più deboli dal punto di vista sociale, che hanno maggiori difficoltà ad adempiere, senza aiuto, prescrizioni risarcitorie o comportamentali; piuttosto, si tratta di introdurre forme nuove non detentive di pena principale, svincolate dal carattere ancillare rispetto al ruolo del carcere e dunque tali da evitare quanto più possibile il passaggio, nel caso di inadempimenti, all’esecuzione penitenziaria. Si noti bene, tuttavia: l’ineffettività del sistema penale non riguarda affatto, prioritariamente, l’ambito della criminalità tradizionale, come troppo spesso l’opinione pubblica tende a ritenere; la popolazione penitenziaria, in forte aumento negli ultimi anni, resta quella di sempre, composta in via pressoché esclusiva di outsider sociali (con la presenza maggioritaria, oggi, di tossicodipendenti ed extracomunitari), che sovente, del resto, vanno in carcere — per problemi di recidiva e di prognosi — anche a seguito di pene brevi. Dove il diritto penale risulta del tutto ineffettivo, proprio perché ricorre tuttora elettivamente a pene detentive (la cui entità non raggiunge — né, beninteso, sarebbe accettabile che ciò avvenisse — livelli tali da implicare una loro reale esecuzione), è nell’ambito degli illeciti di rilievo lato sensu economico, cioè, in pratica, di tutti i reati moderni intesi a evitare abusi nelle attività commerciali e finanziarie nonché a controllare delicati fattori di rischio rispetto alla compromissione dei beni giuridici tradizionalmente protetti (6). Un settore, questo, tutt’altro che marginale dal punto di vista preventivo, ove solo si rifletta sul fatto che le offese dei beni finali or ora citati dipendono in misura del tutto preponderante, per quantità, da violazioni pianificate, a movente economico, di determinate regole. Ogni giorno — (6) Cfr. in proposito la fondamentale problematizzazione operata da F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2001, in part. p. 157 ss.


— 82 — si rifletta — vengono commesse al mondo alcune centinaia di omicidi volontari, attraverso condotte miranti a cagionare un evento ben preciso: e di tutto questo il diritto penale s’è sempre occupato; ma ogni giorno al mondo si hanno decine e forse centinaia di migliaia di morti evitabili, quale esito indiretto di condotte molto spesso assai più freddamente programmate delle precedenti (il che peraltro vuol dire anche maggiormente suscettibili di prevenzione): eppure di esse — delle condotte a effetto o a rischio certo, su persone incerte — il diritto penale della pena detentiva non si è mai seriamente occupato, né appare in grado di occuparsi, manifestando tutta la sua vocazione a colpire i soli reati tradizionali posti in essere da agenti di reato tradizionali, ritenuti in grado di offrire alla potestà punitiva la sola libertà personale. c) In linea con quanto s’è appena osservato, il diritto penale che ricollega la sua operatività sanzionatoria alla sofferenza fisica e morale patita in carcere da una persona umana non ha mai prestato seriamente attenzione all’intervento sui profitti delle attività criminose, seppure questi ne costituiscano quasi sempre il movente e, per così dire, il volano: tanto è vero che nell’ambito della grande criminalità organizzata le singole posizioni soggettive risultano ampiamente surrogabili e il destino di una data realtà criminosa dipende dalla persistente attitudine di interazioni complesse, per molti versi spersonalizzate, a creare — per l’appunto — proventi illeciti, catalizzando secondo un circolo vizioso interessi individuali. Nella medesima ottica il diritto del malum poenae ha sempre guardato con distacco alla responsabilità penale (o comunque per reati) delle persone giuridiche, consentendo che i titolari dell’interesse reale ai profitti realizzati con mezzi illeciti dall’ente potessero beneficiare in modo incontrastato di questi ultimi (cioè senza alcuna conseguenza riferibile alla remunerazione del capitale investito, salvi gli effetti incerti derivanti dalla responsabilità civile) e fingendo di non sapere che la portata dissuasiva della minaccia penale nei confronti delle persone fisiche abilitate ad agire in nome e per conto della persona giuridica non è quasi mai in grado di controbilanciare l’incidenza del loro legame, economico e funzionale, con i soggetti nel cui interesse agiscono. Quanto d’altra parte si resti tuttora lontani dalla volontà di un serio approccio politico-criminale agli illeciti posti in essere attraverso lo schermo della personalità giuridica può evincersi dall’incredibile limitazione della sfera di reati previsti come rilevanti nella prima normativa organica italiana in materia (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), limitazione che, fra l’altro, disincentiva il venire ad esistenza, negli enti, dei modelli organizzativi interni — novità fondamentale della riforma — destinati a prevenire in forza di incentivi premiali le condotte illecite. d) Le istituzioni pubbliche esercitano in molti modi potestà di imperio che impongono oneri ai cittadini, e l’evoluzione postassolutistica del


— 83 — diritto ha voluto che simili interventi avvengano secondo procedure garantite dalla legge. Tali procedure sono tanto più complesse quanto maggiori risultano i gravami, senza contropartita immediata in termini di vantaggi, a carico di un determinato individuo. L’apice, comprensibilmente, è raggiunto ove si tratti di operare tout court, verso qualcuno, un male, in forza del supposto bene che ne deriverebbe solo per gli altri membri della società (7): dunque, se la pena da infliggersi consiste in un male — espresso da un provvedimento ordinario, la detenzione, incidente sulla sfera complessiva dei diritti soggettivi — le procedure volte ad applicarla devono essere, dal punto di vista delle garanzie, il più possibile rigorose (col problema già segnalato della tendenza a rimuovere, attraverso procedure — oggi si direbbe — politically correct, l’analisi critica di ciò che attraverso la procedura, foss’anche la pena di morte, venga reso praticabile). Proprio la massima complessità delle procedure richieste dall’inflizione di una condanna pressoché sempre suscettibile di implicare o non poter escludere l’ingresso in carcere incide, tuttavia, sull’efficienza del sistema penale, creando problemi dal punto della prevenzione. Non che, beninteso, sanzioni diverse da quelle detentive, e comunque meno immediatamente segnate dall’essere concepite come un male, siano per ciò solo paternalisticamente utilizzabili demolendo le garanzie: ma la configurazione operativa di queste ultime, come dimostra uno sguardo d’insieme sul diritto pubblico, dipende legittimamente, almeno in parte, dagli oneri in gioco: è cosa diversa, per esempio, l’esecuzione provvisoria di un provvedimento patrimoniale dall’esecuzione provvisoria di una pena detentiva. Del resto, c’è qualcosa che non funziona quando si resta ancorati alle forme punitive in sé maggiormente lesive dei diritti individuali, cioè meno garantistiche, in nome delle procedure garantistiche che dovrebbero — invero con molte discriminazioni di carattere sociale — accompagnarne la prassi applicativa, e ciò per il timore (cui va fatto argine con altri mezzi dell’ordinamento democratico) di un diritto eccessivamente interventista. Anche perché i rischi del perpetuare lo status quo, proprio sotto il profilo in esame, sono molto gravi: sussistono non a caso, infatti, tendenze all’e(7) Non è un caso, in questo senso, che proprio con riguardo alla pena siano stati posti gli interrogativi più pressanti in merito alla legittimazione dei poteri statuali: si rammentino le note parole di C. BECCARIA sull’origine delle pene e il diritto di punire, ‘‘... fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzione possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo’’, in Dei delitti e delle pene, cit. dall’Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, a cura di L. Firpo, vol. I, Milano, 1984, p. 31; cfr. altresì, significativamente, I. MANCINI, Filosofia della prassi, Brescia, 1986, p. 171: ‘‘considero fondamentali per la filosofia del diritto due questioni: onde avviene che qualcuno mi comandi, nati come siamo tutti uguali; onde avviene che qualcuno mi punisca, visto che siamo tutti liberi e indipendenti’’.


— 84 — rosione surrettizia delle garanzie, col fine di rendere meno problematiche le condanne, nello stesso sistema vigente fondato sulla detenzione. Si pensi alle vicissitudini interpretative di certe fondamentali categorie dogmatiche (causalità, dolo, posizioni di garanzia, etc.) e in particolare, per talune di esse, al venir meno strisciante di quel radicamento su dati desumibili dalle scienze di base che costituisce l’unico presidio credibile della loro autonomia (8); come pure all’introduzione di costi, consistenti nell’esporsi da parte dell’imputato alla possibilità di una maggior pena, onde usufruire nella loro pienezza dei diritti processuali (9). Ma si consideri anche il pericolo che la necessaria estensione delle forme di tutela penale anticipata, estensione la quale, per ragioni di costituzionalità, dovrebbe trovare ostacolo (tanto più con riguardo alle ipotesi di pericolo presunto) in un sistema il quale opera intervenendo sulla libertà personale, venga nondimeno ulteriormente perseguita all’insegna del ricorso a pene detentive. Ne deriva che attraverso una gestione alla luce del sole di nuove modalità sanzionatorie potrebbe realizzarsi ad un tempo il recupero di una minore compromissione sostanziale dei diritti soggettivi e il perseguimento più credibile di obiettivi politico-criminali. e) Una pena segnata, attraverso il ruolo cardine del modello detentivo, dall’idea dell’inflizione di un male rende pressoché impossibile che le relazioni processuali siano improntate a logiche di verità e ciò, a sua volta, rende molto difficoltoso che l’esito del processo faccia davvero luce, dal punto di vista materiale e soprattutto umano, su quanto è accaduto. Di fronte a un’accusa il cui fine, ordinariamente, è la condanna di chi sia ritenuto colpevole a una segregazione nel contempo fisica e simbolica dai rapporti sociali (a una deminutio complessiva del suo statuto esistenziale) non ci può essere dialogo, ma solo il tentativo, da parte di chi si difende, di arginare i danni. Il processo penale — aperto a un esito che non vede nel condannato un interlocutore, bensì un corpo da sottoporre al malum poenae — resta pertanto luogo della non comunicazione e dello scontro. In esso non si reimposta una relazionalità, per quanto austera, con l’autore del reato (in parte, potrà essere recuperata solo successivamente, o comunque nel momento in cui si deroghi all’ingresso effettivo in carcere): l’applicazione della pena comunemente inflitta per quasi tutti i reati, infatti, non coin(8) Più ampiamente, in proposito, il nostro contributo Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, in questa Rivista, 2000, p. 1053 ss. (9) Capita anzi, nella giurisprudenza di merito, di leggere anche questo: ‘‘la mancata richiesta, da parte dell’imputato, di riti alternativi al dibattimento pur ove si versi in situazioni di evidenza della prova a carico può ben essere valorizzata dal giudice dibattimentale, quale condotta del reo successiva al reato, in sede di commisurazione della pena’’ (Pret. Padova 21 maggio 1997, in Foro it., 1998, II, 216).


— 85 — volge per nulla la sfera del volere (l’autonomia) di chi sia punito, seppure l’entrare in gioco di quest’ultima dimensione appaia fondamentale nei rapporti fra persone. Che l’imputato, d’altra parte, non si limiti ad attestarsi sulla difensiva sconvolge il sistema: se ammette le sue responsabilità ne ha di regola un danno (viene condannato subito per l’intero, salva l’eventualità di un’attenuante), laddove denegando qualsiasi apertura al vero potrebbe (forse) essere condannato in futuro, sulla base (soltanto) di ciò che sia stato possibile provare. Di tutto questo patisce ripercussioni negative anche la vittima: lungi dal vedere soddisfatte le sue esigenze complesse di chiarificazione in senso lato dei fatti, di ammonimento a che quanto ingiustamente verificatosi non si ripeta, di riparazione, sovente anche di confronto personale con l’autore del reato, le viene offerta, quale strumento che sul piano simbolico ne attesterebbe le ragioni, la mera entità della pena detentiva inflitta (10). f) Per quanto ciò possa apparire paradossale, ritenendosi comunemente assai radicato nella società il punto di vista retributivo, l’assimilazione della pena a un male compromette largamente la collaborazione dei cittadini con la giustizia, anche quando ciò nulla abbia a che spartire con logiche di omertà. Non a caso, tale collaborazione riguarda pressoché esclusivamente coloro i quali, avendo subito il reato, manifestano un bisogno specifico di risposta nei suoi confronti, salvo ipotesi estreme in cui sia diffusamente avvertito il dovere inteso a scongiurare comunque, con riguardo a specifici agenti singoli o associati, la reiterazione di crimini gravi, per lo più contro l’incolumità o la vita. Negli altri casi, di regola, il cittadino che non è parte in causa non se la sente di attivarsi, nel nome di istanze preventive più o meno evanescenti, per fare del male a un altro individuo (la stessa vittima, del resto, si attiva ordinariamente in forza di motivazioni non riducibili all’intento della ritorsione). Ciò vale, è ovvio, soprattutto per coloro che abbiano rapporti di contiguità, quali essi siano, con il supposto autore di fatti illeciti, cioè proprio per coloro che avrebbero le maggiori chance di operare, anche in collaborazione coi pubblici poteri, un intervento tempestivo ed efficace, prima (10) Un breve testo molto suggestivo su queste problematiche, esterno al nostro ambito culturale, è quello del professore keniota B. AYINDO dal titolo Retribution or Restoration for Rwanda?, in merito ai modelli di giustizia applicati dal Tribunale internazionale per i crimini in Ruanda di Arusha: in Africanews, 22D, January 1998 (cfr. anche Africanews versione italiana, n. 1, marzo 1998): cfr. a quest’ultimo specifico proposito i lavori contenuti in. G. ILLUMINATI-L. STORTONI-M. VIRGILIO (a cura di), Crimini internazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali Internazionali alle Commissioni Verità e Riconciliazione, Torino, 2000.


— 86 — che la deriva delle condotte criminose giunga a esiti più gravi (una sorta, cioè, di prevenzione ambientale). Tali soggetti potrebbero essere interessati, quando il livello dell’informale si rivelasse non sufficiente, a contrastare l’altrui atteggiamento antigiuridico coinvolgendo le istituzioni, ma non a costo di provocare conseguenze devastanti (nei rapporti familiari, lavorativi, sociali) sul piano sanzionatorio e processuale; in molti casi, anzi, si desidererebbe un tipo d’intervento con forti componenti di recupero e di aiuto. Perdere simili potenzialità preventive per eccesso di mentalità repressiva non pare un buon investimento per il sistema giuridico, come del resto si può constatare dalla carenza di strategie che favoriscano, soprattutto in ambito economico, la nascita di serie strutture orientate all’autocontrollo degli enti, secondo la logica dei compliance program. Ma si consideri anche, circa l’inadeguatezza di una strategia costruita sui presunti effetti preventivi del malum poenae, il contrasto che può insorgere fra intervento penale e funzioni di aiuto esercitate pur sempre in base alla legge: l’idea secondo cui nei confronti di un reato debbano senz’altro utilizzarsi gli strumenti penalistici classici fa sì, ad esempio, che un operatore sociale il quale abbia agito come incaricato di pubblico servizio per sanare, poniamo, un conflitto familiare sia sulla carta tenuto a rovinare tutto con una denuncia (11), ove venga a sapere di un illecito tuttora punibile ex officio che sia stato commesso nell’ambito di quel conflitto. g) In un contesto nel cui ambito la strategia preventiva esige un’inflizione di sofferenza rapportata al male del reato, di modo che la prima appare funzione della seconda, non s’è mai chiarito quale statuto politicocriminale competa all’intento lato sensu rieducativo. Risulta pertanto comprensibile che il sistema vigente non abbia saputo produrre serie progettazioni riabilitative; né sorprende che, addirittura, possa essersi sostenuto negli ultimi anni (con una solerzia sospetta) il fallimento dell’idea di risocializzazione, proprio perché concepita come fine da perseguirsi entro la cornice di una pena principale rispondente, ancor oggi, allo schema generico del contrappasso. 3. Nonostante simili aporie, il modello cui s’ispira l’intervento penale, nel sistema del codice, nell’immaginario collettivo e, più ampiamente di quanto talora si lasci credere, anche nella prassi applicativa, continua a essere rappresentato dall’opporre un male al male, il che dovrebbe fare giustizia — la più tautologica delle formulette pigre (12) ricorrenti nella nostra materia — e produrre, altresì, risultati preventivi. (11) Il problema non pare dunque risolto, rispetto agli assistenti sociali, con la mera estensione a tale categoria ex art. 12 l. 3 aprile 2001, n. 119, di quanto disposto dagli artt. 103 e 200 c.p.p. (12) L’espressione, come si ricorderà, è di Franco Bricola.


— 87 — Di conseguenza, si risponde a esigenze reali derivanti dal prodursi di un fatto criminoso con un mezzo largamente inadeguato, ma senza alternative disponibili. Un mezzo — quasi una coperta troppo corta — cui si fa ricorso per far fronte a bisogni molteplici e scarsamente selezionati, il quale finisce non di rado per aggiungere danno a danno (13) senza appagare le attese in esso riposte. In quest’ottica l’interesse — comprensibile — a che, per l’appunto, una risposta al reato sussista prevale sull’interesse relativo alla verifica dei contenuti di tale risposta (seppure i medesimi ne condizionino la razionalità). Risulta dunque elusa la necessaria riflessione critica sui modi del punire, con riflessi inevitabili circa la funzione effettivamente svolta dalla pena, che proprio per i motivi summenzionati assolve il più delle volte, attraverso il suo quantum, a un ruolo nella sostanza simbolico. Ne deriva che l’elaborazione di fatto offerta dal diritto penale, mediante il processo e la condanna, degli stessi reati che suscitano maggiore allarme rivela profili di palese, se non addirittura patetica, fittizietà: sia rispetto allo spessore umano degli interrogativi in gioco, sia rispetto ai bisogni delle parti coinvolte, sia rispetto, infine, alle esigenze non puramente emotive della prevenzione. Del pari, accade che una serie di aspirazioni in sé comprensibili derivanti dalla commissione del reato (intese a rimarcare, per esempio, l’inaccettabilità delle condotte poste in essere, a intervenire sui beneficiari effettivi del fatto illecito, etc.) cerchi purtuttavia di esprimersi utilizzando l’unica modalità di risposta al reato disponibile, col rischio, peraltro, di indurre forzature assai pericolose delle regole sostanziali e processuali che la caratterizzano. In sintesi: per riformare davvero il sistema sanzionatorio occorre muovere da un’idea di politica criminale in base alla quale definire i contenuti della risposta giuridica ai reati, superando il luogo comune secondo cui la politica criminale non potrebbe che far uso, per fini di prevenzione, della dinamica punitiva consueta, rispondente a una logica molto nitida nel concetto di fondo — applicare un male — e nel contempo assai disponibile, nonostante l’enfasi proporzionalistica (14), a giustificare qualsiasi livello, o configurazione, di quel male. Ciò significa rendere finalmente meno asfittico, una volta svincolato (13) Lo esprime significativamente, con riguardo alla detenzione, un documento estraneo all’ambito della dottrina penalistica quale il messaggio datato 9 luglio 2000 del papa GIOVANNI PAOLO II per il giubileo nelle carceri (punto 5): ‘‘I dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione’’. (14) Qualcuno forse ricorderà in proposito, posto che non ve n’è memoria in testi scritti, lo scambio di battute particolarmente vivace fra Giuseppe Bettiol e Claus Roxin (che esigeva fosse chiarito was die schuldangemessene Strafe ist) al convegno su Colpevolezza


— 88 — dalla logica anzidetta, l’ambito della progettazione preventiva, sia con riguardo al ruolo cardine degli strumenti extrapenali, sia con riguardo alla scelta delle conseguenze da applicarsi ai reati. Potrebbe anzi dirsi che c’è necessità di una vera e propria rifondazione della politica criminale. Si tratta di un’esigenza non surrogabile dal rinvio, spesso operato in questi anni, al paradigma pur basilare del diritto penale minimo (15). Se infatti si elude la riflessione su nuove modalità d’intervento nei confronti delle condotte ritenute criminose, sarà ben difficile che una parte ampia di quanto oggi rileva penalmente possa essere sottratto — tout court depenalizzando — ai meccanismi punitivi classici. Proprio per depenalizzare risulta quindi indispensabile offrire modelli di gestione alternativa delle problematiche in gioco. Ma l’ambito di ciò che nel futuro, se si vuol essere realisti, rimarrà assegnato alla competenza penale (ove pure si dovesse tener conto, in senso limitativo, dei fattori criminogeni e delle stesse procedure di etichettamento) non sarà affatto secondario. Il costo di una prospettiva puramente riduzionista, in questo quadro, non è lieve: diffidando della progettazione politico-criminale per il timore, condiviso dagli indirizzi conservatori, di un diritto troppo invadente, si avalla il carattere retributivo degli strumenti di risposta al reato finché restino penali, vale a dire, in larga misura, ad oltranza; con un’aporia manifesta, per giunta, nell’ipotesi in cui all’auspicata mitigazione delle pene edittali non dovesse corrispondere, in forza di una più rigida prassi esecutiva, alcun decremento (o si associasse una crescita) del ricorso al carcere in concreto. Ancora una volta, ciò che funge da freno alla riforma degli strumenti punitivi è un concetto erroneo del garantismo: la pena retributiva, così talora si afferma, sarebbe oscena (per la selezione dei suoi destinatari, funzionale a interessi sottaciuti, e per il fatto stesso di sostanziarsi in mera sofferenza da subire, senza rilievo alcuno della corresponsabilità sociale), ma ove si punisca rappresenterebbe pur sempre l’unico mezzo conforme a istanze liberali, non ricercando alcuna interazione comunicativa, reputata inevitabilmente manipolatoria, con l’agente di reato, che dunque finisce per essere visto — già lo osservavamo — (soltanto) come un corpo sul quale applicare la condanna. In realtà, è tutt’altro che una forma attendibile di rispetto dell’individuo il punire chi abbia trasgredito la legge, al fine di non condizionarlo, estromettendolo tout court dalla trama dei rapporti sociali (quasi che la pena detentiva non incidesse, oltretutto, anche sulla psiche del recluso). morale e colpevolezza giuridica tenutosi presso l’Università di Urbino nel 1980 (cfr. questa Rivista, 1980, p. 1193 ss.). (15) Cfr. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 19996, passim.


— 89 — Se così non fosse andrebbe del resto rifiutato, in quanto capace di condizionamento, qualsiasi obiettivo motivazionale operante in ambito giuridico, vale a dire lo stesso diritto moderno: ma pure riesumando, con riguardo alla materia penalistica, le concezioni assolute, bisognerebbe spiegare perché certe condotte riprovevoli (e non altre), se non per disincentivarne l’adozione, siano punite. Il rispetto del condannato, piuttosto, dipende dalla capacità di non sacrificarlo alle esigenze collettive: cioè di adoperarsi pur sempre, come richiede l’art. 27, comma 3, Cost., onde creare i presupposti del recupero di una sua adesione libera all’adempimento delle regole (nel passato) violate, sostenendo in lui — e non già recidendo — il senso più o meno affievolito dell’appartenenza, con l’assunzione di precise responsabilità, alla compagine sociale. Si tratta di un fine che presuppone senza dubbio, per essere raggiunto, equilibri non facili da definirsi, come non facile è reperire livelli ottimali di convergenza, sul piano sociale, fra controllo normativo ed esercizio delle libertà. Proprio l’approfondimento di simili esigenze complesse, che non può essere eluso ricorrendo a formule semplificatorie precostituite, costituisce, peraltro, ambito operativo tipico dell’elaborazione politico-criminale. Ove invece da quest’ultima si voglia prescindere, reputando sospetto qualsiasi approccio giuridico nuovo alla commissione dei reati (16), resta sì intatta la possibilità di denunciare senza riserve il carattere iniquo dei meccanismi punitivi e di operare una censura molto drastica — non dilatabile, però, oltre certi limiti — delle modalità normative di criminalizzazione: ma vi è il rischio, in un simile quadro, che l’indirizzo critico, per mantenersi tale, si trasformi paradossalmente in uno strenuo difensore dell’oggetto della sua critica. 4. Il carattere monolitico dell’apparato punitivo, fondato sull’ottica retributiva, ha finora impedito una catalogazione dei reati la quale dia rilievo, per definire le strategie sanzionatorie, alle diverse modalità di tutela dei beni giuridici realizzate dalle fattispecie incriminatrici, seppure risulti assai improbabile che tipi d’illecito fra loro diseguali possano raggiungere i rispettivi scopi con mezzi identici: non averne tenuto conto — prima an(16) Restano significative nella loro sinteticità (per quanto riferite in via immediata alla critica condivisibile dell’uso improprio di strumenti cautelari, di prevenzione o di indagine) le parole con cui L. FERRAJOLI concludeva, più di vent’anni orsono, la voce Pena (profili reali) nel Dizionario critico del diritto (a cura di C. Donati, Milano, 1980, p. 305) evocando ‘‘l’immagine allarmante di una società panottica che può anche consentirsi di abolire il carcere in quanto è venuta sostituendolo con ben più efficaci e rilevanti sistemi di controllo autoritario della devianza e anche del dissenso’’.


— 90 — cora di considerare le esigenze stesse derivanti dalla varietà dei beni protetti — è da ritenersi, sotto il profilo politico-criminale, del tutto illogico. 4.1. Costituiscono, per esempio, realtà non assimilabili la violazione di regole finalizzate alla tutela anticipata dei beni giuridici (o alla tutela di meri beni-funzione) e l’avvenuta aggressione, intenzionale, di un dato bene, specie allorquando sussistano una o più vittime ben precise. Nel primo caso si tratta di operare non già rispetto a una decisione, messa in atto, che abbia per contenuto l’offesa di un bene, bensì rispetto all’incentivo derivante dagli indebiti vantaggi, soprattutto materiali, che l’inosservanza delle regole imposte dal diritto consente. In un tale contesto — non venendo in gioco una lesione, né la volontà di realizzarla — l’intervento giuridico può concentrarsi sul momento dinamico costituito dalla ponderazione di costi e benefici tipica dell’agire (lato sensu) economico, al fine di rafforzare l’insieme delle ragioni per non agire in contrasto con la legge (facendo sì, dunque, che dalla violazione di quest’ultima — come accadrebbe attraverso una cattiva scelta di marketing o di tipo finanziario — derivino in capo ai beneficiari potenziali conseguenze economicamente sfavorevoli). Nel secondo caso si tratta di operare pur sempre perseguendo finalità preventive, ma rispetto a un’offesa già intenzionalmente posta in essere, o comunque tentata, nei confronti del bene protetto dalla legge. Ipotesi la quale, pertanto, richiede che siano contrastati gli effetti dannosi, sotto il profilo della prevenzione, di un atto volutamente lesivo ormai realizzatosi: in modo da impedire che ne risulti incrinata la percezione sociale, promossa attraverso il precetto contenuto nella norma incriminatrice, dell’intangibilità di un certo bene e da permettere una composizione della frattura aperta nei rapporti intersoggettivi (cioè con riguardo ai vincoli imprescindibili di mutua solidarietà) dalla condotta illecita. Si noti: non rileva, a questo proposito, una pura e semplice distinzione in termini di maggiore o minore gravità intrinseca delle condotte ricomprensibili nei due gruppi, destinata a essere tradotta in una mera gerarchia quantitativa delle pene corrispondenti. Piuttosto, emerge la necessità che siano studiate risposte sanzionatorie le quali tengano conto di tutte le peculiarità dei contesti presi in esame, sulla base di una visione politico-criminale complessiva (17). (17) Il primo gruppo, del resto, potrebbe risultare più importante sotto il profilo dei potenziali eventi lesivi scongiurati, in quanto il divieto di una volontaria e immediata compromissione di beni fondamentali, espresso dal secondo gruppo, trova ancoraggi di tipo extragiuridico (sul piano culturale, etico-religioso, etc.) più estesamente riconosciuti e tali, dunque, da rivelarsi molto spesso sufficienti anche a prescindere dal presidio penalistico. Come pure deve riconoscersi che all’evidenza dell’aggressione nei confronti di un dato bene giuridico espressa dal secondo gruppo si associano più frequentemente circostanze esistenziali limitative della colpevolezza di quanto non accada per le condotte del primo gruppo,


— 91 — Abbandonare, in altre parole, una logica di risposta al reato fondata sulla ritorsione del male, optando per una risposta motivata in base a esigenze politico-criminali non segnate dalla caratteristica di perseguire i loro obiettivi attraverso il male di chi sia punito (dunque, in base a esigenze che siano pur sempre qualificabili come agire secondo ciò che in un dato contesto, anche moralmente, è bene), implica abbandonare l’ottica di una giustizia che si ritenga tale in nome — soltanto — di una formalistica proporzionatezza distributiva di quanto inflitto (senza preoccuparsi del suo contenuto di male), riferita a una nozione riduttiva, fortemente oggettivizzata e decontestualizzata, del reato. Il che significa recuperare il bisogno di proporzionatezza distributiva — senza pretesa di controproducenti dosimetrie matematiche (18) — sul piano della conformità a un disegno politico-criminale di fondo sufficientemente omogeneo, capace di garantire in termini sostanziali la valorizzazione della dignità umana di coloro che vengano condannati e del quale cercheremo di indicare nel prossimo paragrafo alcune caratteristiche auspicabili. Anche da questo punto di vista, peraltro, sarebbe ben strano ritenere ovvio — seppure finora così sia avvenuto — che il male lo si può infliggere, perché è possibile farlo in forme garantistiche, mentre ciò che (quantomeno) tenta di non essere male è a priori da escludersi, perché impraticabile secondo gli schemi garantistici correnti. A noi pare, piuttosto, che concepire il reato come realtà sulla quale intelligentemente lavorare, piuttosto che come realtà (semplicisticamente) da ripagare costituisca già in sé un passaggio importante pure a fini garantistici. 4.2. Quale riprova del profondo iato oggi sussistente fra finalità preventive e strategie sanzionatorie può valere, altresì, il riferimento al modello costituito dal reato colposo, modello in cui si sostanzia un vero e proprio apice dell’irrazionalità politico-criminale, risultando, per così dire, a cifra oscura istituzionalizzata, con ovvi riflessi dal punto di vista generalpreventivo. a) Nell’ambito delle condotte colpose, infatti, non accade soltanto, come in tutti i reati, che per ragioni contingenti molti degli autori non siano scoperti, ma altresì che di regola, soprattutto ove si tratti di colpa cosciente, risulti a priori improbabile il realizzarsi stesso dell’illecito penale una volta tenuta la condotta antidoverosa, cioè una volta compiuto frutto, assai frequentemente, di fredde ponderazioni a tavolino e, talora, di una sistematica insensibilità verso le esigenze solidaristiche. (18) Che del resto presupporrebbero un’indisponibile conoscibilità senza riserve, idonea a poterne graduare in modo inoppugnabile la gravità, di ciascun accadimento criminoso.


— 92 — tutto ciò che la fattispecie incriminatrice, finalizzata a incidere su comportamenti umani, desiderava (e poteva) immediatamente scongiurare. Ne deriva che l’attitudine preventiva specifica dei reati colposi, ove si tratti di una violazione consapevole della regola cautelare, è molto bassa, dato che il soggetto agente farà conto non solo sulla consueta speranza di non essere scoperto, ma anche sulla scarsa probabilità di produrre, comunque, l’illecito colposo (nonché, in certi casi, sulla difficoltà della prova relativa al nesso eziologico tra il fatto realizzatosi e il rischio attivato). La pena prevista in rapporto al tipo di illecito in esame finisce dunque per rappresentare la retribuzione di un evento il cui verificarsi o meno a seguito della condotta dipende, secondo un giudizio ex ante, dal caso, laddove un effetto preventivo credibile resta in pratica connesso alla sola effettività delle sanzioni che talora, sul piano amministrativo o penale, risultano applicabili in via immediata nei confronti del comportamento antigiuridico. Sussistono del resto conseguenze ulteriori, che null’altro se non l’assuefazione a modelli giuridici alquanto sedimentati impedisce di riconoscere illogiche. Si consideri, su questa via, come il cittadino possa ordinariamente rivolgersi al pubblico ministero, con riguardo alla violazione di regole cautelari, solo a evento lesivo ormai realizzatosi (nel qual caso la Procura della Repubblica certamente utilizzerà, in un’ottica retrospettiva, l’intero arsenale dei suoi mezzi d’indagine); dunque, come il cittadino che viceversa intenda agire quando le violazioni siano già in atto, ma prima che producano un danno, di regola non possa trovare aiuto alcuno nelle severe stanze in cui il pachiderma penalistico — il sedicente diritto penale preventivo — si mette in movimento: gli si direbbe di aspettare il morto (almeno la prova di un morto), così che, a parte le violazioni autonomamente sanzionate, egli resta condannato all’impotenza, salvo inventarsi itinerari più o meno attendibili per ottenere rimedi (auspicati) urgenti di carattere amministrativo o civilistico. Tutto ciò, seppur risulti evidente, non viene quasi mai rimarcato, tanto è il peso di un’ottica sanzionatoria come quella in uso fondata sul ruolo simbolico, assolto mediante la pena detentiva, della retribuzione di eventi, piuttosto che su un serio intento motivazionale, attuabile con mezzi meno drammatici, riferito alle condotte individuali. In effetti torna a prospettarsi, col reato colposo, una tutela del bene giuridico anticipata al momento in cui si rendano praticabili condotte pericolose: anche se, in un certo senso, tutto il diritto penale è a tutela anticipata, posto che intende scongiurare eventi disincentivando, o talora promuovendo, condotte umane — più o meno remote — le quali risultino significative in termini causali circa il verificarsi del fatto (salvo il caso in cui la condotta stessa si identifichi tout court con la lesione del bene). Il distinguo che viene in gioco, piuttosto, investe la scelta di interve-


— 93 — nire, onde evitare altre lesioni, solo a condizione che un evento lesivo risulti essersi verificato oppure sanzionando direttamente le condotte antidoverose. b) Simile alternativa lascia emergere un’importante peculiarità degli illeciti realizzati con dolo intenzionale rispetto alle altre tipologie criminose. Nell’ambito dei primi il ruolo cardine assegnato all’evento è comprensibile, perché in essi la condotta ha per lo più, ex ante, un’alta probabilità di conseguire il risultato lesivo, essendo il medesimo voluto (in linea tendenziale verrà scelta una condotta idonea, entro un certo quadro di concause esistenti e note, a produrre da sola quel risultato, cioè senza necessità di apporti causali ulteriori la cui verificazione risulti incerta). Quando l’esito lesivo sia voluto, del resto, ha scarso significato motivazionale il dare rilievo penalistico alla condotta piuttosto che all’evento, dato che il soggetto agente non fa conto, com’è invece la regola negli altri casi, sul mancato verificarsi del medesimo, cosicché è assai poco probabile che la prospettiva di non essere punito ove l’evento non si realizzi possa fungere da stimolo aggiuntivo a tenere la condotta. Rispetto ai delitti dolosi, tuttavia, viene sanzionato — nonostante la scelta di privilegiare il prodursi di eventi — anche il tentativo (nell’ottica, invero, di una retribuzione diminuita: mentre sarebbe da motivarsi, semmai, il surplus di pena previsto per i delitti consumati, del quale è irreperibile qualsiasi presupposto rilevante sotto il profilo della colpevolezza) (19). Tanto meno alla luce di queste considerazioni può dunque comprendersi perché il ruolo della condotta dovrebbe rimanere estraneo all’interesse penalistico in tutti gli altri casi, vale a dire proprio nei casi in cui — a differenza di quel che accade col dolo intenzionale — il far leva sul ruolo dell’evento finisce per svolgere, malgrado la connessa enfasi retribuzionistica delle cornici edittali, una funzione controproducente dal punto di vista preventivo. Il problema, quando si tratti di contrastare il prodursi di offese non intenzionali, è quello di incidere sulla propensione a tenere condotte pericolose o comunque negligenti e pertanto di far sì, fra l’altro, che l’agire in tal modo non convenga (ciò anche secondo forme nuove, come il promuovere la trasparenza): ferma la possibilità che il comportamento pericoloso, ove non prevalgano altre esigenze, sia reso addirittura impraticabile (valga un richiamo paradigmatico: non si vede proprio — o lo si comprende troppo bene nel contesto di un diritto penale simbolico — perché gli autoveicoli debbano poter raggiungere velocità di gran lunga superiori a quelle (19) L’evento lesivo potrebbe assumere un ruolo peculiare in ambito di riparazione e composizione del conflitto: v. infra.


— 94 — massime consentite, sebbene ciò abbia per costo un gran numero di morti). Un obiettivo, quello delineato, il quale può certamente esigere che si tenga conto di fattori ulteriori: ad esempio del fatto che il soggetto in questione non si avveda di produrre un rischio, ovvero ne sia consapevole, ma accetti soltanto di rischiare, in quanto non continuerebbe ad agire se fosse certo di essere causa dell’evento, ovvero agisca — al contrario — nello stato d’animo di chi è pronto, per conseguire i suoi scopi, a pagare il prezzo costituito dall’evento medesimo (e, dunque, accetta l’evento, poiché sarebbe disposto ad agire pure nel caso del suo sicuro verificarsi). Si noti come solo quest’ultima situazione risulti distinguibile, sotto il profilo psicologico, dalla colpa cosciente e sia in grado, perciò, di dare un contenuto al c.d. dolo eventuale: ferma peraltro la non assimilabilità di tale figura, ove essa debba sussistere, allo stesso dolo intenzionale. In questo senso, l’esigenza di evitare sovrapposizioni fra realtà diverse, come da tempo accade sulla scia di una sempre meno celata normativizzazione del dolo, viene ad assumere motivazioni ben precise anche di carattere politico-criminale, risultando ineludibile per una strategia sanzionatoria che voglia rapportarsi davvero alle molteplici forme in cui l’agire criminoso si esprime. c) Quanto alla opportunità, cui ci si è richiamati, che il diritto penale prenda sul serio la sua funzione preventiva riconsiderando il ruolo delle condotte è necessario, tuttavia, un chiarimento. Il solo far cenno a questo tema è infatti riguardato, nella dottrina italiana, con sospetto, poiché la presa in considerazione del fattore condotta tende a essere percepita come rimando alla realtà interiore, dunque alla Gesinnung e in tal modo a un’ottica illiberale che finirebbe per ritenere punibili meri stati mentali o caratteristiche della personalità, suscettibili di essere ricostruiti solo violando il foro interno. Orbene, parlare di condotta — ciò va precisato in modo molto fermo — non ha proprio nulla a che spartire con tutto questo: le azioni sono realtà del mondo fisico (e le omissioni il mancato compimento di azioni doverose), cioè esiti esteriorizzati di stati mentali (delle decisioni di perseguire dati fini). Anzi, proprio le azioni sono l’unica cosa che gli esseri umani possono compiere in senso fisico-naturalistico: non, tuttavia, come movimenti corporei fine a se stessi, ma in vista della produzione di modifiche nel mondo esterno. Del resto, senza azioni materialmente intese non è possibile trasformare — fattucchiere a parte — stati mentali in eventi. Dunque, il tornare a riflettere sulle condotte non autorizza in alcun modo le derive ascrivibili a taluni settori del finalismo classico, né può essere utilizzato per legittimare sconfinamenti circa la definizione del tentativo incompiuto. La condotta di cui si deve tener conto è essa stessa un fatto materiale


— 95 — (o il non verificarsi di ciò che sia richiesto da un obbligo di agire); e solo dopo la constatazione del suo sussistere potrà essere accertata la prospettiva finalistica che psicologicamente le abbia dato causa, onde concludere se quanto compiuto risulti o meno intenzionale rispetto all’evento penalmente rilevante: ma tale prospettiva, soggiacente a tutte le azioni, è essa pure un fatto (non un giudizio!), sebbene di natura psichica e come tale soggetto alle modalità di accertamento induttivo tipiche delle realtà psicologiche (ma anche, per esempio, della causalità naturalistica). È a questo punto — solo a questo punto — che della condotta, ormai definita nella sua natura dolosa o colposa, dovrà darsi anche un giudizio, come richiede la sensibilità moderna per la colpevolezza (e pertanto alla luce dei parametri rilevanti circa l’esclusione o la graduazione di quest’ultima). 4.3. Quanto s’è detto in merito alla considerazione delle condotte può in gran parte valere anche con riguardo a un altro polo di interesse fondamentale per un sistema sanzionatorio che voglia agire razionalmente, e tuttavia quasi del tutto latitante sia nella progettazione dei modi — annunciati in sede edittale e offerti al giudice — di risposta ai fenomeni criminosi, sia nell’ambito del processo: ci si riferisce alle diverse tipologie, e comunque alle caratteristiche personali, degli autori di reato (pure degli autori di reati della stessa specie) (20). È del tutto incongruo, peraltro, ritenere — come di certo non lo riterrebbe l’esperto di marketing di una qualsiasi azienda — che una strategia, nel nostro caso quella penalistica, orientata a motivare condotte possa non tener conto delle diverse condizioni in cui operino, o comunque vivano, i destinatari dei suoi messaggi. Il che dovrebbe orientare a costruire le strategie penalistiche in rapporto ai requisiti più probabili degli agenti potenziali di un certo reato, anche in vista di un’esecuzione penale rispetto ad essi sensata. Tanto meno, del resto, l’esecuzione potrebbe evitare di ridurre il condannato a mero oggetto passivo di un intervento i cui fini non lo riguardino senza muovere dal contesto umano che abbia fatto da sfondo all’agire antigiuridico. Parlare di risposta al reato (di pene previste per i reati) è, in ogni caso, un eufemismo: nella realtà — sebbene si punisca, ciò rappresentando un acquisito caposaldo liberale, solo in quanto un fatto risulti commesso — non si sanzionano, astrattamente, illeciti, ma si interviene pur sempre su persone; quelle persone che invece sembrano assai poco presenti al legislatore quando commina pene concepite come riflesso simbo(20) Cfr. M. DONINI, La sintassi del rapporto fatto-autore nel progetto Grosso, relazione svolta alla conferenza nazionale sul Progetto preliminare di riforma al codice penale, Siracusa, 3-5 novembre 2000 (par. 6).


— 96 — lico del disvalore assegnato a un certo accadimento offensivo e che l’art. 220, comma 2, c.p.p. si premura di escludere in modo molto netto dall’orizzonte del processo, essendo sentito l’interesse verso l’autore, specie nei casi di maggiore allarme, come un ostacolo alla funzione di conferma del diritto — dopo l’illecito — retoricamente ricollegata all’entità della pena (ma da perseguirsi, lo si vedrà, con altri mezzi). A ben vedere, un sistema punitivo simbolico, che considera fatti, più che fatti commessi da persone, tollera già con fatica la personalizzazione dell’intervento sanzionatorio indotta da un’applicazione rigorosa del principio di colpevolezza: molto meno, di conseguenza appare disposto a tollerare l’idea che possa essere in qualche modo differenziata, o personalizzata, la risposta al reato da applicarsi nei confronti di autori reputati colpevoli (la presa in carico, pur frammentaria, del problema viene rimessa alla fase esecutiva: ma ciò, come già osservavamo, elude il nodo del significato che l’interesse per l’autore dovrebbe assumere in rapporto alla strategia politico-criminale complessivamente perseguita, vale a dire fin dal momento in cui il legislatore definisce, nel suo insieme e rispetto a ogni singola fattispecie, il quadro sanzionatorio, nonché, a fortiori, fin dal momento della commisurazione giudiziaria). Si dirà che il tener conto del contesto esistenziale proprio di chi potrebbe commettere o abbia commesso un reato (anche al di là dei fattori stricto sensu rilevanti onde graduare il giudizio di colpevolezza) contrasta con esigenze garantistiche non eludibili, in quanto apre a una duttilità della conseguenze post delictum — connessa a specifiche opzioni politicocriminali del legislatore o comunque tale da consentire percorsi sanzionatòri non del tutto identici in presenza di reati prima facie analoghi — che mal si concilierebbe col principio di uguaglianza. Ciò, tuttavia, risponde a una nozione poco realistica di garanzia rispetto alla potestà punitiva, in quanto il valore — che talora diviene il mito — dell’uguaglianza, cui non di rado ci si affida per definire giusta qualsiasi giustizia, viene coltivato a costo di una drastica riduzione, e comunque di una formalizzazione, dei parametri rilevanti: trascurando che in concreto possono rivelarsi di gran lunga meno onerosi per il condannato, in termini di desocializzazione e sacrificio effettivo dei diritti fondamentali, percorsi non compatibili (diversamente da quanto accade per il binomio fatto di reato-pena detentiva) con una omogeneità rigida dei requisiti di accesso e degli oneri imposti. Il rispetto del principio di uguaglianza, abbandonato un concetto matematico della medesima che presuppone riferimenti per l’applicazione della pena molto semplificati e perciò largamente fittizi, andrebbe recuperato, in termini più credibili dal punto di vista sostanziale, attraverso linee guida sufficientemente elastiche ma non generiche di commisurazione in senso ampio (cioè di determinazione giudiziaria e di gestione esecutiva)


— 97 — della risposta alla condotta criminosa, tali da imporre, comunque, limiti ben precisi. Nella medesima ottica, lo stesso approfondimento processuale del nodo colpevolezza-personalità potrebbe finalmente assumere, in rapporto a una più o meno ampia diversificazione delle forme di risposta al reato, un ruolo (oggi riscontrabile solo in ambito penale-minorile) eccedente la mera risposta al quesito sulla sussistenza del fatto colpevole e dunque tale da avere rilievo in senso risocializzativo. Ove poi si guardasse con sospetto all’ipotesi di una considerazione esplicita dei criteri in base ai quali già il legislatore potrebbe definire, circa l’offesa di un dato bene, strategie preventive differenziate in rapporto a distinte categorie di autori potenziali, dovrebbe rammentarsi come disomogeneità nell’approccio penale verso condotte egualmente offensive e colpevoli siano da sempre operanti, per i motivi più vari (risultando conseguibili attraverso la descrizione delle fattispecie incriminatrici, ma anche introducendo circostanze aggravanti o attenuanti ovvero agendo addirittura, mediante cause di esclusione o condizioni, sulla punibilità). 5. Ciò che sin qui s’è detto servirebbe a poco ove non ci s’impegnasse a chiarire quale impostazione politico-criminale debba sorreggere, e dunque modellare, il perseguimento di finalità preventive (anche) attraverso strumenti penali. Già porre simile quesito come nodo problematico cardine rappresenta peraltro una scelta ben precisa: l’opinione tradizionale, lo si ricordava all’inizio di questo contributo, reputa infatti autoevidente quali siano le modalità della risposta giuridica al reato efficaci in senso preventivo; il che ha condotto — in base all’assunto secondo cui la prevenzione dipenderebbe dall’entità del malum poenae comminato e, se del caso, applicato — a spostare il fulcro dell’interesse sui limiti che andrebbero nondimeno previsti, costituendo il diritto penale arma a doppio taglio, nei confronti della potestà punitiva esercitata a fini di prevenzione. Una strategia di tutela rispetto agli eccessi della prevenzione, quest’ultima, che si rivela comunque debole: sia perché ove il funzionalismo utilitarista tenda a prevalere, come oggi accade, sulle istanze etiche — intorno alle quali spesso non è facile, del resto, coagulare un consenso forte — appare improbabile l’affermarsi di esigenze limitative concepite in radicale antitesi, cioè in veste di contrappesi, rispetto all’obiettivo di fondo perseguito (lo si evince, ad esempio, considerando l’incremento estremo della penalizzazione che, in nome di un’asserita necessità preventiva, caratterizza da vari anni gli Stati Uniti, sebbene i diritti umani rivestano un ruolo importante nella tradizione giuridica di quel paese); sia perché, in ogni caso, le esigenze limitative non sono in grado di tradursi automaticamente in livelli sanzionatori ad esse corrispondenti, tanto è vero che lo


— 98 — stesso paradigma cui si è soliti attribuire funzione di contenimento della pressione preventiva, vale a dire la colpevolezza, può circoscrivere i fattori di cui sia lecito tener conto ai fini della responsabilità penale (sia nell’an che nel quantum), ma non può offrire indicazioni sui modi e sull’entità del punire. A questo proposito — solo a questo proposito — hanno ragione Kant e Hegel: se una strategia preventiva reputa il condannato puro e semplice mezzo per ottenere l’utile altrui, richiedendo il suo sacrificio alle asserite esigenze di un bene comune dal quale viene ormai escluso e con ciò ammettendo che quanto si applica nei suoi confronti sia per lui soltanto un male, s’impone una scelta radicale, di accettazione o rifiuto. Il fatto è che Kant e Hegel, giudicato ovvio l’identificarsi della prevenzione con tale strategia, vollero prendere da quest’ultima le distanze proponendo, tout court, un’alternativa nei confronti della prevenzione medesima: non avvedendosi che il ricorso, per questo fine, a un improbabile programma retribuzionistico-assoluto offre una copertura etico-filosofica — capace di farla apparire come un bene — a quella stessa logica del rispondere al male minacciando e applicando una sofferenza corrispondente che è alla base del modello preventivo criticato. 5.1. Si tratta, dunque, di pensare altrimenti la prevenzione. Che del resto il modello classico, di cui è un riflesso la centralità del ricorso al carcere, funzioni poco e male l’abbiamo in parte già visto: ma l’analisi di una simile inadeguatezza potrebbe andare ben oltre. Valga il rimando, circa la prevenzione generale, al nodo della cifra oscura, sulla cui estensione l’agente di reato farà comunque affidamento, a discapito dell’effetto intimidativo (cosicché la pena elevata nasconde non di rado con la sua sporadica e quasi sempre mal distribuita applicazione ad alta rendita simbolica la scarsa capacità di ottenere il risultato al quale davvero potrebbe riconnettersi, come insegnava Beccaria, efficacia dissuasiva, vale a dire l’alta probabilità che del fatto illecito siano individuati beneficiari e responsabili e che il medesimo, di conseguenza, non paghi). Ma si consideri altresì come risulti assai poco credibile, rispetto alla complessità dei fattori a monte della scelta soggettiva di commettere un reato, immaginare che sia sufficiente agire, per scongiurare tale scelta, solo sull’aspetto rappresentato dalla valutazione delle possibili conseguenze sfavorevoli: ciò, quantomeno, ove non si tratti di criminalità economica dipendente da fredde ponderazioni a tavolino dei rischi e dei vantaggi prevedibili, ambito rispetto al quale, tuttavia, proprio la circostanza che la controspinta rappresentata dalla minaccia (in senso lato) di costi mantiene una sua verosimile efficacia rende non necessario, secondo quanto precedentemente osservavamo, il ricorso alla pena detentiva. Del resto, che l’attitudine preventiva dell’intimidazione non risulti af-


— 99 — fatto scontata emerge con chiarezza sia constatando il sussistere di attività criminose che implicano già di per sé, cioè a prescindere dalla risposta penale, rischi gravissimi, sia prendendo atto del manifestarsi di crimini terroristici realizzati attraverso il suicidio dei loro autori (realtà, questa, che nullifica a priori la portata dissuasiva della minaccia di un male come pena), sia considerando che non s’è mai provata una diminuzione dei tassi di criminalità violenta dipendente dall’applicazione stessa della pena di morte (o un loro aumento dopo la sua abrogazione), sussistendo piuttosto seri indizi per annoverare quest’ultima tra i fattori criminogenetici in forza della sua incidenza contraddittoria nei confronti del messaggio normativo che ha per oggetto l’intangibilità della vita umana. Se poi si volge lo sguardo alla prevenzione speciale può constatarsi come l’incapacitazione dei singoli agenti di reato non implichi affatto un corrispondente decremento nei tassi di criminalità, dato che di regola i posti di lavoro criminale in tal modo liberati, assenti strategie orientate a incidere sui fattori che creano opportunità delinquenziali, vengono ben presto coperti da altri soggetti, tanto più nell’ambito della criminalità organizzata. Un esito, questo, che taluno ritiene poter essere smentito ove solo si proceda, per lungo tempo, alla neutralizzazione sistematica e duratura dei condannati, specie se recidivi: ne deriverebbe, tuttavia, una drastica estensione, indotta dallo stesso sistema giuridico, del sacrificio complessivo di beni fondamentali, in antitesi con la funzione limitativa che dovrebbe pur sempre competere, in proposito, agli strumenti penalistici propri di uno stato liberale, con l’effetto di esarcerbare, senza risolverle, le problematiche sociali operanti in senso criminogenetico, incentivando scelte di radicale contrapposizione alla legalità. Non si dimentichi, del resto, che in presenza di politiche intese a una vastissima neutralizzazione detentiva, come quella in atto negli Stati Uniti (21), la disaggregazione dei dati statistici globali, già molto elevati, evidenzia tassi di detenzione relativi a determinate categorie di soggetti e a certe fasce di età — per esempio, ai non caucasici poveri ricompresi fra i quindici e i venticinque anni — addirittura paradossali. Il che induce a domandarsi, da un lato, se in questo modo non si finisca soltanto per dilazionare l’esplosione di problemi sociali irrisolti e, dall’altro, se ciò non serva di fatto a distogliere l’attenzione da comportamenti antigiuridici non riconducibili alla sfera dei reati che suscitano allarme sociale, ma talora di essi più pericolosi sia in rapporto alla salvaguardia delle istituzioni demo(21) Cfr. p. es. il vol. 3, n. 1 (January 2001), della rivista Punishment & Society. The international Journal of Penology, interamente dedicato alla problematica (Special Issue on Mass Imprisonement in the USA, ed. by D. Garland).


— 100 — cratiche, sia in rapporto alle conseguenze negative, dirette o indirette, per la tutela dei diritti umani (22). 5.2. A ben vedere, l’elemento che caratterizza, ricollegandolo alla logica retributiva, il modello classico di prevenzione si sostanzia nel qualificare quest’ultima come effetto di un mero esercizio della forza (23): in altre parole, come effetto — dal punto di vista generale — del timore di un danno coattivamente applicabile e, dal punto di vista speciale, dell’incapacitazione fisica a delinquere realizzata mediante l’esecuzione della condanna (aspetto, invero, che ha visto negli scorsi decenni alcune deroghe, ma che oggi, stante l’esempio americano, rischia di conoscere una nuova enfasi). Resta dunque assente da un simile quadro il rilievo in termini preventivi del fattore convincimento e con ciò l’interesse a promuovere nei cittadini anche attraverso il sistema penale la disponibilità ad accogliere per ragioni non puramente strumentali, facendole proprie, le esigenze di tutela rappresentate dal diritto. In breve: l’auspicata prevenzione penalistica dei reati si fonda tuttora su dinamiche di pura e semplice coazione esterna, trascurando il ruolo fondamentale che assume, onde scongiurare le condotte criminose, il consenso nei confronti dei precetti normativi: ma proprio un modello di prevenzione orientato a tenere alta l’autorevolezza di tali precetti e la libera adesione agli stessi dei loro destinatari — cioè fondato non già sull’esercizio della forza, bensì sulla ricerca del consenso — costituisce l’alternativa di fondo ai criteri fino a oggi ritenuti indiscutibili dell’intervento penale. Vi sono d’altra parte ottime ragioni per ritenere che producano livelli assai più stabili di prevenzione i sistemi penali disposti a riguardare i cittadini — in veste di agenti potenziali o attuali di reato — non già come mero oggetto passivo della minaccia e se del caso dell’applicazione di un male, bensì pur sempre come destinatari di un appello, tale da presupporre un dialogo costantemente aperto. ‘‘Il diritto — così di recente un giurista di area extrapenalistica — non si regge certo sulla sola comminazione di misure sanzionatorie, ma anche e principalmente sul riverbero sociale che giungono a ottenere le sue qualifiche normative’’ (24); dunque, su quella che, rispetto alle norme (22) Sulle tendenze, anche sotto il profilo storico, della penalizzazione in Italia cfr. M. PAVARINI, La penalistica civile e la criminologia ovvero discutendo di diritto penale minimo, in AA.VV., La bilancia e la misura, cit., in part. p. 90 ss. (23) Sulla tradizione del diritto inteso come forza e sul ruolo assunto a tal proposito dalla teorizzazione hegeliana cfr., sinteticamente, N. ABBAGNANO, Dizionario di filofofia, 3a ed. a cura di G. Fornero, Torino, 2001, p. 315 s. (24) Così S. BERLINGÒ, Libertà religiosa, pluralismo culturale e laicità dell’Europa: diritto, diritti e convivenza, relazione svolta al convegno Coscienza cristiana e nuove responsabilità della politica, Camaldoli, 29 giugno-1o luglio 2001, p. 1 del dattiloscritto (par. 3).


— 101 — penali, Klaus Lüderssen definisce Legitimationskraft, evidenziando il ruolo di fattore criminogenetico cardine che il suo difetto assume in rapporto ai deficit di socializzazione e alle insufficienze della struttura sociale: ‘‘nell’eventualità di una legittimazione molto debole viene pressoché meno la necessità di individuare ragioni specifiche dell’inosservanza di una norma’’ (25). L’attenzione per simili profili corrisponde in modo del tutto peculiare allo spirito della democrazia: solo lo stato democratico può infatti ambire, diversamente dai regimi totalitari o dalle aggregazioni criminali che perseguano il controllo del territorio, a ottenere un’adesione libera dei singoli individui nei confronti delle sue norme, e pertanto a convincere piuttosto che a costringere; ciò anzi ne rappresenta la forza autentica, mentre allorquando il diritto agisce secondo modalità di pura coazione il criterio del suo perseguire scopi preventivi dipende dalla contingenza dell’azione repressiva e può avere soltanto, a sua volta, effetti contingenti, non distinguendosi dal criterio operativo, poniamo, di un’organizzazione mafiosa. Potrebbe obiettarsi che il sussistere del diritto penale attiene proprio all’eventualità di una non sufficiente tenuta dei fattori lato sensu culturali cui è affidato in via primaria il compito della prevenzione; simile rilievo, tuttavia, non comporta in alcun modo che la tutela rafforzata (26) dei beni giuridici attraverso l’introduzione di reati debba attenere al piano puramente coercitivo e quindi prescindere dallo scopo di recuperare — in membri per così dire a rischio della società e da parte dello stesso condannato — il consenso (non prodottosi, o per ipotesi non in grado di prodursi, senza supporto penalistico) all’osservanza di specifiche regole fondamentali per la convivenza civile. Emerge, su questa via, un aspetto di notevole interesse quanto alla natura liberale del sistema giuridico: si tratta di far sì che lo stesso settore massimamente espressivo dei poteri imperativi statuali consideri l’agente (potenziale o attuale) di reato quale individuo cui l’ordinamento rivolge pur sempre una proposta, valorizzandone la capacità tipicamente umana di assumere decisioni o, se vogliamo, la libertà (27); in altre parole, si tratta di escludere una configurazione della strategia penalistica secondo modalità che, riguardando i loro destinatari come meri oggetti di una co(25) Cfr. K. LÜDERSSEN, Gibt es zwischen Ost und West ein gemeinsames Rechtsbewusstsein als Grundlage für strafrechtliche Wiedergutmachung und Resozialisierung?, in ID., Abschaffen des Strafens?, Frankfurt am Main, 1995, p. 173 s. (26) Cfr., ancora, K. LÜDERSSEN, Alternativen zum Strafen, in AA.VV., Strafgerechtigkeit (Festschrift für Arth. Kaufmann), Heidelberg, 1993, p. 491. (27) Significativamente I. MEREU, Il profeta dell’incivilimento, in Il Sole-24 Ore dell’8 maggio 2001, attribuisce dal punto di vista filosofico-giuridico agli illuministi lombardi dell’ottocento di aver cominciato ‘‘a discutere se si possa continuare a parlare di un diritto penale basato sulla tecnica della coazione o non sia il caso di cominciare a pensare a un sistema basato della tecnica della coesistenza (discussione che dura ancora oggi)’’.


— 102 — strizione fisica o psicologica, o di una minaccia, non sono proprie — non possono essere ritenute proprie — dei rapporti i quali coinvolgono persone (secondo un’esigenza che potrebbe essere derivata, al pari del principio di colpevolezza, dall’art. 27, comma 1, della Costituzione). È fuori di dubbio che le norme penali, almeno quando non operino cause di esclusione della colpevolezza o della pena, prevedono strumenti onde garantire che ne siano eseguite le sanzioni (ed in tal senso sono senza dubbio imperative), ma ciò non implica che le sanzioni medesime debbano essere pensate secondo logiche (coercitive) di intimidazione e neutralizzazione. 5.3. Se quanto s’è detto è vero, assumono ovviamente grande peso, in luogo di queste ultime nozioni, le cosiddette componenti positive della strategia preventiva. Per quel che concerne la prevenzione generale, dunque, l’autorevolezza delle indicazioni comportamentali e delle connesse qualifiche di antigiuridicità, autorevolezza dipendente, fra l’altro, dal credito riconosciuto alle procedure democratiche di produzione delle norme, dall’attendibilità delle istituzioni nel promuovere, sotto ogni profilo, i beni giuridici (anche penalmente) tutelati come pure nel provvedere in modo serio agli interventi che possano ridurre l’incidenza dei fattori criminogenetici, dalla capacità dei pubblici poteri di intercettare, bloccandone i vantaggi, un numero significativo di condotte illecite, dall’attitudine degli strumenti processuali a chiarire i quadri di responsabilità relativi agli illeciti commessi e a ribadire la vigenza del diritto violato. Si consideri, d’altra parte, che proprio nei contesti democratico-pluralistici, ove il più delle volte non sussistono autorità unanimemente riconosciute in ambito etico, la legge penale viene a rappresentare l’unico criterio orientativo valido in linea di principio per l’intera società circa le condotte necessarie ad assicurare esigenze minime di tutela dei diritti umani. La prevenzione generale positiva risulta in questo senso legata alla parte precettistica delle fattispecie criminose (al messaggio che esse, fissando un divieto, a contrariis propongono), non all’entità delle sanzioni: tanto è vero che, assente addirittura qualsiasi pena, è diversa l’incidenza generalpreventiva di una scriminante rispetto a quella di una mera esclusione della punibilità (sempre che il distinguo giuridico si renda, nelle conseguenze che se ne traggano in concreto, socialmente percepibile). Le sanzioni, semmai, possono contribuire allo scopo in esame non già attraverso la loro durezza o l’attitudine a soddisfare istanze retributive, bensì configurandosi secondo modalità esse pure capaci di operare in senso promozionale — per esempio nell’ottica della giustizia riparativa — rispetto al bene protetto. Così intesa la prevenzione generale positiva non ha dunque davvero a


— 103 — che fare, come invece ampia parte della dottrina sembra ritenere (28), con quanto sostenuto dalle correnti neoretribuzioniste, vale a dire con l’effetto di stabilizzazione della fedeltà alle norme che deriverebbe dal soddisfacimento dei bisogni di pena emergenti rispetto a ciascun reato. Secondo questo approccio, infatti, il risultato preventivo è pur sempre atteso dalla minaccia, attualizzata nelle altrui condanne, del malum poenae, salva una lettura più sofisticata rispetto a quella classica del meccanismo psicologico operante, tale per cui attraverso l’esempio delle pene inflitte e secondo i livelli delle medesime ritenuti necessari verrebbe assicurato, si sostiene, il costante depotenziamento degli impulsi a imitare le condotte criminose nonché a infrangere, di conseguenza, il tabù dell’adesione al diritto. Secondo l’ottica poco sopra descritta, invece, il realizzarsi della prevenzione generale positiva dipende da ciò che nelle fattispecie di reato e nella loro applicazione non s’identifica con l’entità e, al limite, con la stessa sussistenza di una pena. Si dirà che la questione attiene a mere scelte terminologiche, e in parte può essere. Ciò che conta, in ogni caso, è superare l’idea, propria dell’opinione più diffusa, secondo cui il diritto penale agirebbe in senso generalpreventivo soltanto, o soprattutto, attraverso l’entità della pena minacciata ed eventualmente inflitta, il che conduce a negare la centralità dei profili di orientamento delle condotte autonomi dalla logica fondata sulla deterrenza. Ricondurre questi ultimi alla prevenzione generale positiva risponde, peraltro, all’esigenza di distinguere fra strategie politico-criminali fondate sulla dimensione forza o sulla dimensione consenso, permettendo, subito lo vedremo, un utile raccordo con le componenti non puramente neutralizzative della prevenzione speciale. Rispetto a quest’ultima la versione positiva si sostanzia, com’è ben noto, nell’intento risocializzativo, che persegue il recupero della disponibilità personale al rispetto (per scelta) delle norme penali, in luogo dell’incapacitazione fisica a delinquere o del mero condizionamento a non rendersi recidivi per non patire di nuovo il male già sperimentato. Un’ottica nel cui ambito l’ordinarietà della pena dovrebbe essere intesa come mirante a consolidare i livelli di socializzazione del condannato, ferme esigenze di controllo per così dire speciale quando sussista il pericolo effettivo della reiterazione di gravi reati (laddove il modello vigente resta imperniato sulla sistematica desocializzazione connessa alla pena detentiva, salvo deroghe per lo più ispirate a logiche deflattive e propositi rieducativi quantomeno poco credibili). Ciò che appare importante, tuttavia, è il fatto per cui la valorizza(28) Riferimenti, p. es., in G. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, p. 136 ss.; si veda anche K. LÜDERSSEN, Vorwort, in ID., Abschaffen des Strafens?, cit., p. 9.


— 104 — zione del consenso quale cardine della finalità specialpreventiva non rileva soltanto a beneficio del condannato, così che gli obiettivi di interesse sociale perseguibili nei confronti di chi già abbia commesso un illecito lo sarebbero più efficacemente attraverso gli strumenti tradizionali; piuttosto, deve constatarsi come nulla sia in grado di riaffermare in modo maggiormente credibile, nella coscienza sociale, la vigenza della norma violata di quanto non lo sia la disponibilità a tornare a rispettarla da parte del trasgressore medesimo. Questi, prendendo le distanze con una sua scelta rispetto alla precedente esperienza criminosa destabilizza nel contesto sociale complessivo e, soprattutto, in quello specifico di provenienza l’attitudine dell’illecito posto in essere a fungere da modello di comportamento; il che assume tanto più rilievo alla luce dell’attenzione dedicata da tempo in sede criminologica (secondo la prospettiva delle c.d. associazioni differenziali) al ruolo cardine che rivestono quanto al diffondersi delle condotte antigiuridiche i processi imitativi — o più in generale le dinamiche di approvazione o disapprovazione operanti all’interno dei gruppi in cui l’individuo afferma la sua personalità verso determinate modalità dell’agire (29). L’orientamento al recupero implica del resto che l’ordinamento giuridico e di riflesso la società tornino, per così dire, di volta in volta a motivare le ragioni di tutela del bene leso, in certa misura riproponendole, mediante il percorso svolto dal condannato, a tutti i cittadini: il che non avviene con la mera stigmatizzazione, in maniera apodittica e non argomentata, del comportamento deviante attraverso il meccanismo retributivo (la società che si limita a operare una ritorsione, facendo affidamento sull’automatismo della sua efficacia simbolica, si mostra assai meno sicura di possedere spiegazioni convincenti e proponibili in un contesto democratico-pluralistico per il non delinquere). Dunque, la prevenzione speciale (intesa come risocializazione) fa prevenzione generale (in senso positivo), creando condizioni favorevoli al rafforzarsi del consenso intorno ai precetti normativi. Nel contempo, il recupero del condannato, incidendo sull’ascendente che l’agire antigiuridico esercita nella realtà da cui questi proviene, contribuisce a chiudere posti di lavoro criminale. Ne deriva la riconquista da parte dell’orientamento risocializzativo — non più fondato sulla centralità del carcere — di un ben preciso statuto politico-criminale, tale da consentire di riconoscere finalmente all’art. 27, comma 3, della Costituzione il ruolo, che gli spetta, di cardine della strategia preventiva, implicante l’opzione per una modalità della medesima (29) Cfr. G. FORTI, op. cit., p. 510 ss.; per un’interessante analisi dei meccanismi mimetici cfr., già nel 1947, M. HORKHEIMER, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Torino, 1969, p. 123 s.


— 105 — fondata, secondo la terminologia che abbiamo adottato, sul paradigma del consenso, piuttosto che su quello della forza. Del pari, ne deriva che la categoria della colpevolezza, in quanto esige il rilievo di fattori soggettivamente orientati che potrebbero risultare disfunzionali a una mera stigmatizzazione simbolica del fatto nel suo profilo oggettivo, non costituisce semplice contrappeso, ad essa estraneo, della strategia preventiva, ma elemento la cui considerazione è indispensabile in rapporto ai fini perseguiti dal sistema penale. Una volta che l’attesa di esiti preventivi non venga più ricondotta all’entità in sé della pena (all’entità, cioè, della sofferenza irrogata) si apre la via, inoltre, a una diversificazione reale dell’apparato sanzionatorio e alla rivalutazione del ruolo suscettibile di essere assolto in senso preventivo già dalla fase del processo. Proprio al processo, e non tanto alle caratteristiche della condanna, andrebbero affidati, per esempio, sia l’intento di rendere manifesto il giudizio sulla gravità del fatto criminoso, sia l’intento di riaffermare rispetto a quest’ultimo la vigenza del diritto violato: così che la pena possa invece rispondere, fondamentalmente, a un’ottica riparativa, riabilitativa o di contrasto — quando necessario — degli interessi economici in gioco. 5.4. Una strategia di risposta ai reati come quella tratteggiata, che va oltre il semplice rimando al diritto penale minimo, appare soprattutto in grado, peraltro, di consentire un’attuazione credibile dell’extrema ratio quale principio guida riguardante l’intero sistema punitivo. Simile principio, alla luce degli artt. 13 e 27, comma 3, Cost., implica, da un lato, che non s’intervenga su beni di maggior rango, piuttosto che su beni di rango inferiore, senza assoluta necessità, dall’altro che la risposta sanzionatoria cerchi quanto più possibile di consolidare, e comunque di salvaguardare, i livelli di socializzazione del soggetto ad essa sottoposto: solo un modello, tuttavia, che non identifichi la forma ottimale della tutela prevista dal diritto rispetto ai fatti illeciti con la massima durezza intrinseca delle sanzioni può consentire una presa di distanze convinta, e non revocabile, dal ruolo centrale del carcere, evitando che sia percepita come una rinuncia a fare prevenzione. Il canone dell’extrema ratio attiene dunque, prima che alla qualifica penale o extrapenale di un dato illecito, alle modalità sanzionatorie cui in concreto s’intenda fare ricorso ed esige, innanzitutto, che sia affermato il carattere rigorosamente sussidiario dell’utilizzazione di pene detentive. D’altra parte, il riferimento all’extrema ratio del diritto penale è nato proprio in rapporto alla coincidenza, per lungo tempo indiscussa, fra ius puniendi e possibilità di incidere attraverso la pena sulla libertà di chi abbia commesso un illecito: il che ha condotto a sovrapporre limiti riguardanti la penalizzazione e limiti riguardanti, per l’appunto, la privazione della libertà.


— 106 — Ciò premesso, le sanzioni non detentive sono suscettibili di essere qualificate o meno dal legislatore come penali secondo giudizi aperti a una certa legittima variabilità: in proposito, si tratta di valutare, essenzialmente, l’ambito dei diritti comunque coinvolti dalle singole sanzioni, l’opportunità di far leva in senso preventivo sulla specifica autorevolezza della definizione di un illecito quale reato, i motivi che depongano per il mantenimento della competenza in capo a un’autorità, quella giudiziaria, cui la Costituzione garantisce piena autonomia dal potere politico, le esigenze che consiglino di rendere disponibili i peculiari strumenti d’indagine propri della magistratura, la necessità di tener fermo l’apparato delle garanzie tipiche del sistema penale. Il profilo che attiene alle garanzie è particolarmente delicato: in presenza di sanzioni non detentive e soprattutto di sanzioni le quali non consistano nella privazione di diritti potrebbe in effetti discutersi, anche nei casi in cui sia mantenuta la competenza penale, del ricorso a procedimenti meno complessi rispetto allo standard penalistico ordinario (diversamente si rischia, come osservavamo, un’erosione strisciante delle garanzie entro l’ambito di un sistema che continua a fondarsi sulla minaccia del carcere); ma ove una simile via, con cautela, venga percorsa dev’essere accuratamente impedito che, semplificate le garanzie, l’accesso al carcere delle persone fisiche si renda nondimeno prospettabile in seconda battuta, vale a dire nell’ipotesi in cui siano disattese le prescrizioni dettate dalla sentenza di condanna. Appare dunque estremamente importante, per non incorrere in pericolose frodi delle etichette, che l’ambito delle sanzioni non detentive rilevanti sul piano penale e applicate sulla base di regole specifiche definisca un sistema chiuso, tale cioè da non consentire, in forza di vicissitudini della fase esecutiva, il passaggio alla detenzione (passaggio che in linea di principio, peraltro, andrebbe sempre evitato). Non sembra invece facilmente utilizzabile come criterio distintivo fra competenza penale ed extrapenale, ove sia esclusa in radice l’applicabilità del carcere, il mero riferimento al bene finale tutelato, dato che la gran parte delle norme istitutive di illeciti restano pur sempre riferibili, almeno in via indiretta, alla salvaguardia di beni tutt’altro che secondari, quali l’integrità fisica, l’uguaglianza, la dignità umana. Uno spazio molto ampio per il diritto penale non detentivo — vale a dire per sanzioni non detentive che restino penali — si manifesta in ogni caso necessario: diversamente, cioè rifacendosi al proposito di depenalizzare l’intera gamma degli illeciti che possano non essere sanzionati col carcere, si avrebbe con altissima probabilità (lo attestano le vicende degli ultimi anni) una depenalizzazione modesta e il permanere entro l’ambito del tradizionale sistema penale detentivo di tutte le fattispecie per le quali non vi sia bisogno alcuno di prevedere il ricorso al carcere, ma non sia del


— 107 — pari proponibile, per ragioni politico-criminali o anche storico-culturali, l’abbandono della competenza penalistica. In pratica, un diritto penale solo detentivo impedirebbe l’utilizzazione effettiva del carcere come extrema ratio. Mentre un ordinamento che prenda sul serio la sussidiarietà della detenzione, riservandola essenzialmente ai casi in cui sussista il serio pericolo della reiterazione di reati gravi (e quindi sussista l’esigenza di una peculiare rielaborazione in un ambiente per così dire protetto — rispetto al soggetto agente e alla società — del percorso criminoso), si configura in grado di superare davvero la coincidenza della politica criminale con gli strumenti tradizionali della politica penale, valorizzando il senso della continuità che dovrebbe contraddistinguere l’apparato sanzionatorio (penale ed extrapenale), nonché il collegamento di quest’ultimo con altri mezzi preventivi, sia di natura giuridica, sia attinenti alle politiche sociali e all’aspetto formativo-culturale. Potrebbe parlarsi, in breve, di un sistema orientato, per fini di prevenzione, a favorire il consenso, piuttosto che un’obbedienza instabile fondata sul timore, nei confronti dei precetti giuridici: un sistema tale per cui lo stesso impianto sanzionatorio sia costruito intorno alle idee portanti del recupero a una partecipazione sociale corretta di chi abbia trasgredito la legge e della composizione riparativa per ciò che concerne la frattura dei legami solidaristici intersoggettivi rappresentata dalla condotta antigiuridica; un sistema a un tempo molto vigile, nondimeno, circa il contrasto, soprattutto economico, delle condotte rischiose, come pure circa l’integrazione fra i diversi piani della strategia preventiva. In un simile quadro alcune esigenze specifiche di tutela, sulla base di scelte politico-criminali motivate e controllabili (non necessariamente inerenti al tipo di sanzione utilizzato), più che di suddivisioni aventi rilievo per così dire ontologico, verrebbero gestite dal diritto penale. Solo entro i confini di quest’ultimo — è chiaro — resterebbe possibile l’intervento, in termini di extrema ratio, sulla libertà personale. Al di sotto di questo vertice sanzionatorio limite si collocherebbero rispettivamente, nella piramide politico-criminale, le sanzioni non detentive penali, le sanzioni non detentive extrapenali, le discipline giuridiche (commerciali, amministrative, tributarie...) orientate a incidere sui fattori criminogenetici, gli interventi politico-sociali ed educativo-culturali. Non si dovrà attingere al livello superiore ove risulti sufficiente quello inferiore. Ma quale che sia il livello cui si ritenga necessario giungere onde tutelare, rispetto a certe forme di aggressione, un dato bene, i livelli antecedenti andranno comunque percorsi, perché solo in tal modo potrà essere minimizzato il numero delle fattispecie rispetto alle quali vengano previste le modalità d’intervento più intense, come pure il numero dei casi concreti rispetto ai quali le medesime vengano in effetti applicate. 6.

Quanto s’è detto lascia senza dubbio irrisolto il problema della


— 108 — progettazione tecnica di un nuovo sistema preventivo, problema implicante una serie di quesiti assai complessi: si pensi al rapporto, già più volte evocato, fra diritto penale e modalità sanzionatorie extrapenali, alla scelta delle sanzioni, al ruolo del codice penale, al destino dei reati contravvenzionali, ai criteri di rilevanza della personalità, e così via. Come fin dall’inizio s’indicava, tutto questo esige, peraltro, una visione politico-criminale, della quale confidiamo di aver tratteggiato alcuni aspetti non marginali. Sia consentito, da ultimo, derivarne in estrema sintesi, senza pretese di organicità, qualche conseguenza impellente, tenuto conto dei progetti di riforma del codice penale sinora elaborati: a) È indispensabile costruire un apparato organizzativo serio — ben altra cosa rispetto ai mezzi modestissimi gestiti dai Centri di servizio sociale — per l’esecuzione delle pene non detentive: finché le risorse resteranno assorbite dal sistema penitenziario sarà molto facile definire non praticabili, in concreto, percorsi davvero autonomi (non puramente sospensivi o clemenziali, o in altro modo ancillari) rispetto al carcere, seppure lo stesso costo unitario delle sanzioni che non si fondino sulla detenzione sia di gran lunga inferiore al costo-carcere e seppure l’effettività di tali sanzioni possa essere assai alto (non è scontato, ad esempio, che la pena pecuniaria si caratterizzi per i risibili livelli italiani di esecuzione reale, quando in altri paesi accade esattamente il contrario). b) L’auspicata estensione dei tipi di pena principale e il recupero del senso di continuità relativo all’insieme delle sanzioni che abbiano rilievo giuridico deve peraltro condurre a un decremento effettivo nel ricorso al carcere e non costituire una variabile autonoma — com’è accaduto nel passato con l’introduzione di strumenti sostitutivi o alternativi — rispetto all’andamento statistico della popolazione penitenziaria: ciò onde evitare la beffa, anche politico-criminale, di una riforma che finisca solo per aggiungere penalizzazione (o comunque ulteriore spazio per l’intervento sanzionatorio) rispetto all’ambito applicativo tradizionale del carcere e rispetto alle stesse ben definite tipologie di outsider sociali che ne costituiscono la clientela. c) Anche per questo va criticata l’indisponibilità riscontrabile pure nel progetto di riforma della commissione presieduta dal prof. Grosso a introdurre una forma di pena alternativa al carcere — imperniata sul modello di un ridefinito affidamento al servizio sociale — davvero spendibile rispetto alla gran parte della popolazione penitenziaria, composta da persone con gravi problemi di inserimento sociale e sovente provenienti da contesti di degrado civile ed umano: persone che potrebbero trovare difficoltà, fra l’altro, a beneficiare della stessa sospensione condizionale (tanto più in rapporto ai nuovi presupposti cui la medesima verrebbe subordinata e allo scotto per la non riuscita risocializzazione che attraverso la di-


— 109 — sciplina della recidiva si vorrebbe nuovamente caricare sul condannato, secondo un disegno che in termini preventivi ha ben poco di realistico), pur risultando il più delle volte non particolarmente pericolose (ad esempio, non organizzatrici di attività criminale), ma necessitanti di un serio sostegno riabilitativo onde poter consolidare, e non ulteriormente deteriorare attraverso la detenzione, il senso dell’appartenenza secondo vincoli di corresponsabilità al tessuto sociale. Ciò rende manifesti i limiti di una strategia che dichiara di prendere le distanze dalla centralità della pena detentiva, ma costruisce pur sempre le altre tipologie sanzionatorie — salvo la pena pecuniaria per quote giornaliere, riferibile soprattutto a determinate tipologie dell’agire criminoso — come mera privazione di diritti, non attribuendo spazio adeguato al filone delle pene-prestazione e ai percorsi riabilitativi: col rischio che la prevista detenzione domiciliare, lungi dal concorrere a ridurre realmente i tassi di reclusione in carcere, finisca per diventare la valvola di sfogo pur sempre custodialistica, a basso prezzo, di un sistema che non muta la strategia imperniata, per l’appunto, sul carcere, e in tal senso finisca per assorbire — ve ne sono avvisaglie preoccupanti, mutatis mutandis, già nel contesto giuridico vigente — lo spazio delle attuali misure alternative rispondenti a un’ottica riabilitativa. d) Del pari non è da condividersi l’indifferenza dei progetti di riforma per il recupero di un dialogo con l’autore di reato nell’ambito del processo: di un dialogo, cioè, il quale superi la prospettiva che dà spazio a elementi di giustizia negoziata per meri scopi deflattivi dei carichi giudiziari o persegue la mera collaborazione, quando rilevi, alle attività d’indagine, rimanendo chiusa, invece, a una logica di composizione del conflitto (non si è andati oltre il rilievo attenuante già oggi previsto per l’avvenuto risarcimento patrimoniale o l’essersi adoperati al fine di elidere o contrastare le conseguenze dell’illecito commesso). In un simile orizzonte il processo resta solo un mezzo per applicare pene, non un’opportunità suscettibile di avere in se stessa significato preventivo. Il fatto che l’imputato potrebbe essere disponibile, date certe condizioni, ad ammettere responsabilità proprie o perfino desiderarlo, continua — per esempio — a non suscitare interesse (30): sebbene il favorire percorsi orientati al rientro nella legalità, senza oneri di collaborazione sovente insostenibili, risulti della massima importanza preventiva (specie con riguardo a carriere che abbiano avuto inizio in condizioni o fasce (30) Una specifica rilevanza era stata attribuita all’ammissione del fatto, circa i presupposti per il ricordo al giudizio abbreviato, nel disegno di legge sulla giustizia a suo tempo presentato dal Ministro di grazia e giustizia G.M. Flick (cfr. Relazione al Pacchetto Flick sulla giustizia, con il testo del provvedimento, in Guida al diritto, 25 gennaio 1997, n. 3, p. 119 ss.).


— 110 — d’età segnate da scarsa autonomia decisionale), e sebbene lo stesso venir meno dei legami con gruppi criminali organizzati si manifesti, nella forma in esame, meno facilmente screditabile agli occhi degli altri membri di quanto non lo sia un distacco cui s’accompagnino benefici derivanti da una collaborazione ad altrui danno (31). e) Per analoghi motivi resta incomprensibile la diffidenza circa l’apertura del processo a sub-procedure di mediazione penale, che restano relegate entro l’ambito della prassi minorile e dei reati perseguibili a querela di parte dal giudice di pace (ex art. 29, comma 4, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274). La mediazione può offrire molto alla strategia preventiva, poiché consente di recuperare al processo, considerato in senso ampio, dimensioni incompatibili col suo strutturarsi ordinario ma assai importanti, come s’è visto, dal punto di vista politico-criminale, senza che ciò comporti lo svuotamento di capisaldi garantistici (ad esempio, del principio nemo tenetur se detegere): si pensi alla gestione non retribuzionistica delle esigenze legittime di cui è portatrice la vittima e all’introduzione di un contesto nel cui ambito può essere espressa, o ricercata, da parte dello stesso imputato — in assenza di conseguenze a suo danno — la verità. Con la mediazione si realizza infatti uno spazio di confronto, fra agente presunto e vittima (o, in mancanza, fra il medesimo e un soggetto esponenziale dei beni coinvolti), separato dalle udienze giudiziarie, tale per cui gli elementi fattuali che in esso emergano restano ignoti sia al pubblico ministero che al giudice e sono inutilizzabili ai fini della condanna. Il giudice, piuttosto, riceve dalla persona (qualificata) che sovrintende alla procedura una relazione, di cui potrà tener conto, riguardante in via esclusiva l’esito della stessa, vuoi per quanto concerne gli impegni assunti ed eventualmente già assolti dall’imputato onde attestare la disponibilità per il futuro a una condotta responsabile nei confronti dei beni giuridici offesi, vuoi per quanto concerne l’atteggiamento tenuto dal giudicando nei confronti del suo interlocutore (32). (31) Si consenta il rinvio, in proposito, a L. EUSEBI, Forme e problemi della premialità nel diritto penale, in Studium iuris, 2001, p. 277 ss. L’opportuno abbandono (cfr. L. EUSEBI, ibidem), nella seconda versione del ‘‘progetto Grosso’’, dell’ipotesi di un’attenuante generale imperniata sulla collaborazione alle indagini (art. 68, ora 66, lett. g)), non ha portato a definire una soglia alternativa della premialità c.d. ad effetto processuale, soglia che si sarebbe potuta attestare, per l’appunto, al livello dell’ammissione di responsabilità proprie. (32) Questa una traccia di possibili linee-giuda: ‘‘Durante la fase delle indagini preliminari o prima della chiusura del dibattimento, a tal fine sospeso per non più di novanta giorni, l’imputato è ammesso su sua richiesta a svolgere una procedura di mediazione [secondo le regole previste da un’apposita normativa] presso l’Ufficio di mediazione penale competente. La procedura ha il fine di favorire la composizione del conflitto aperto dal reato nei confronti della parte offesa e dell’ordinamento giuridico, nonché la disponibilità da parte del


— 111 — In un certo senso, dunque, viene in gioco con la mediazione un ribaltamento della stessa prospettiva sanzionatoria tradizionale: si muove da una presa di iniziativa dello stesso imputato, che sarà valutata dal giudice. A questo punto, resta ovviamente aperto il nodo concernente la scelta del tipo di rilievo da attribuirsi all’esito positivo dell’iter in oggetto nella commisurazione della pena in senso stretto e in senso lato: lo spettro delle soluzioni può essere molto ampio e va preso in esame con riguardo a specifiche categorie di reati e di pene, anche in ragione delle modalità sanzionatorie che si renderanno in futuro disponibili (potrebbe darsi un rilievo nell’ambito degli altri parametri commisurativi, ovvero ai fini della previsione di un’attenuante, di un provvedimento sospensivo o di messa alla prova, di una non procedibilità, dell’ammissione a un dato percorso, e così via). Del tutto scontato è che l’accesso alle specifiche procedure di mediazione può configurarsi soltanto come volontario. In ogni caso, il possibile ricorso alla mediazione non esige in alcun modo di essere circoscritto a meri ambiti di criminalità minore, secondo quanto, soprattutto in Italia, è finora accaduto. Per sua natura, anzi, la mediazione si manifesta quale strategia di portata generale, rispondente a una ben precisa scelta preventiva, quella imperniata sulla promozione (e sul recupero) del consenso intorno alle esigenze di tutela dei beni fondamentali e per lo più descritta, internazionalmente, con l’espressione di restorative-justice (33). Al di là delle singole procedure di mediazione fra agente e vittima di reato, che potrebbero essere accettate come una sorta di nicchia del sistema sanzionatorio penale da riferirsi a settori privilegiati, l’ottica finalizsoggetto agente alla riparazione e all’assunzione di impegni orientati a un futuro atteggiamento responsabile nei confronti dei beni giuridici offesi. Alla procedura di mediazione è chiamata a partecipare, se sussiste, la parte offesa dal reato. L’indisponibilità di quest’ultima alla partecipazione o alla collaborazione durante la procedura non pregiudica la valutazione positiva dell’esito della medesima rispetto all’atteggiamento dell’imputato. Di quanto avvenuto presso il tavolo di mediazione è resa nota al giudice solo una relazione finale sui risultati della procedura e sugli impegni concordati, assolti o comunque offerti dall’imputato medesimo. I contenuti dei colloqui svolti in sede di mediazione restano per ogni altro aspetto segreti. Nulla in particolare può essere comunicato al giudice rispetto a quanto venga ammesso dall’imputato presso il tavolo di mediazione circa i reati che gli vengono attribuiti. Qualsiasi utilizzazione in sede processuale dei suddetti contenuti è vietata a pena di nullità insanabile. Il giudice tiene conto dell’esito della procedura di mediazione ai fini...’’. (33) Cfr. sul tema C. MAZZUCATO, Mediazione e giustizia riparativa in ambito penale. Spunti di riflessione tratti dall’esperienza e dalle linee guida internazionali, relazione tenuta al convegno Verso una giustizia penale ‘‘conciliativa’’: il volto delineato dalla legge sulla competenza penale del giudice di pace, Trento, 25-26 maggio 2001 (in corso di pubblicazione).


— 112 — zata a promuovere — per l’appunto — mediazione può dunque assumere il ruolo di paradigma riferibile alla riforma dell’intero apparato sanzionatorio, e pertanto alla stessa ristrutturazione delle pene principali. f) Andrebbe superato il luogo comune sommamente equivoco del riferimento solo in apparenza garantistico, circa la commisurazione della pena, al ‘‘limite della proporzione con la colpevolezza per il fatto’’ (34), posto che tale criterio lascia supporre l’esistenza, come già osservavamo improponibile, di una configurazione della pena in sé corrispondente al fatto colpevole, che il giudice, tenuto conto di certi parametri, per intuito sarebbe in grado di cogliere: una prospettiva tutt’altro che innocua o meramente retorica, in quanto rappresenta — al di là di tutte le dichiarazioni programmatiche sulla funzione della pena — il caposaldo di una concezione retributiva del punire, aperta di fatto a una gamma assai vasta di esiti e in grado di esimersi, entro i limiti edittali, da ulteriori oneri argomentativi. Abbandonato il mito della pena giusta, l’opera del giudice, piuttosto, andrebbe razionalmente descritta, onde favorire scelte motivate e controllabili (35), quale riferimento al caso concreto delle valutazioni politicocriminali che hanno condotto il legislatore a definire, per un certo tipo di condotta e date certe caratteristiche personali, un determinato quadro della risposta sanzionatoria possibile (se si vuole, quale concretizzazione delle scelte sanzionatorie legislative). L’elemento garantistico dovrebbe essere essenzialmente ravvisato (oltre che nel tipo di opzione politico-criminale fatta propria dal legislatore) nel divieto di tener conto a carico del condannato di elementi estranei alla colpevolezza del fatto (36). (34) Così l’art. 69, comma 2, prog. prel. ‘‘Grosso’’ (versione 2001). (35) V. anche supra, nota 5. (36) Questi alcuni appunti per una possibile norma (vi si considera altresì il problema del rilievo attribuibile all’accertamento della personalità): ‘‘Il giudizio concernente la determinazione della pena è riferito alla colpevolezza che si è manifestata nel fatto di reato. Elementi della personalità del condannato che non si sono manifestati nel fatto e il comportamento successivo al reato sono presi in considerazione solo al fine di attenuare l’entità delle conseguenze sanzionatorie. Nel giudizio di cui al precedente comma il giudice applica al caso concreto, sulla base dei principi enunciati dall’art. 27 della Costituzione, la valutazione politico-criminale operata dal legislatore fissando la tipologia e lo spazio edittale delle pene previste per il reato commesso, in rapporto alle caratteristiche soggettive del colpevole. Quando una pena non detentiva o la detenzione domiciliare sono previste alternativamente a una pena detentiva quest’ultima può essere inflitta solo se sussistono fattori tali da far ritenere altrimenti non evitabile ed elevato il rischio di reiterazione del reato commesso. Il giudice può riservarsi di definire la pena all’esito dell’osservazione della personalità, condotta ai sensi dell’art. 13 ord. pen. A tal fine fissa una nuova udienza, successiva all’avvenuta osservazione.


— 113 — g) Un nodo complesso, che richiede una riflessione molto attenta e al quale in questa sede si può solo far cenno, è costituito dal rapporto fra sanzioni non detentive implicanti, come abbiamo auspicato, la partecipazione attiva del soggetto ad esse sottoposto e norme premiali o di chiusura tese a incentivare tale partecipazione, prevedendo che cosa debba accadere in caso di mancata adesione a un dato percorso sanzionatorio o di inottemperanza alle sue modalità esecutive (37). Viene in gioco, pertanto, il tema relativo al grado di autonomia di un modello processuale e sanzionatorio ispirato alla logica della prevenzioneconsenso rispetto a elementi che nell’ambito del medesimo modello restino improntati, in funzione di stimolo o di controllo, a logiche più tradizionali. Così impostato, tuttavia, il problema potrebbe avere soluzioni affrettate. Evidenziarlo, infatti, non significa avallare l’idea secondo cui qualsiasi sistema punitivo resta espressione, nel suo nucleo, di mere istanze coercitive: piuttosto, dovrebbe condurre ad agire affinché nei casi stessi in cui manchi o venga a mancare la cooperazione del condannato l’intervento sanzionatorio si configuri pur sempre espressivo di una volontà intesa al recupero e al dialogo da parte del diritto, come pure affinché gli elementi in esame rimangano i più contenuti possibile, secondo l’ottica di un’utilizzazione (non strategica, ma) strumentale all’idea preventiva portante. Anche per questo appare del tutto inadeguata la prospettiva che intenda dar spazio a nuove modalità sanzionatorie — privandole di autonomia sia sul piano teorico, sia sul piano degli apparati esecutivi — solo o prevalentemente entro l’ambito dei requisiti rilevanti circa la sospensione condizionale della pena detentiva, che di conseguenza resterebbe, in senso tecnico e nel sentire comune, cardine dell’intero sistema. Parallelamente, già lo si osservava, non potrebbe condividersi l’automatismo del ritorno alla reclusione come pena di seconda battuta (dunque, non ricollegabile a esigenze gravi di difesa sociale) con riguardo all’ipotesi del non adempimento di prescrizioni da assolversi in libertà. h) Da ultimo, va posto in evidenza il legame che esiste fra la riforma del sistema sanzionatorio e la stessa elaborazione dogmatica relaL’imputato può presentare memorie o perizie sulle sue condizioni socio-psicologiche. Ove lo ritenga necessario, il giudice può avvalersi della consulenza di periti. L’art. 220, comma 2, c.p.p. è abrogato. La non collaborazione dell’imputato all’osservazione della personalità non può costituire elemento che conduca ad aggravare le conseguenze sanzionatorie’’. (37) Valga ancora il rinvio a L. EUSEBI, Forme e problemi, cit., p. 273 ss.; cfr. altresì A. PICCIANI, La premialità nel sistema penale, in S. ARMELLINI-A. DI GIANDOMENICO (a cura di), Ripensare la premialità. Le prospettive giuridiche, politiche e filosofiche della problematica, Torino, 2002 (in corso di pubblicazione).


— 114 — tiva alle categorie rilevanti nella teoria del reato. Si tratta, soprattutto, di evitare che siano assecondati indirizzi tesi al recupero surrettizio di effettività del sistema incentrato sulla pena principale detentiva attraverso processi di normativizzazione (intesa come funzionalizzazione) delle categorie suddette: indirizzi i quali compromettono il ruolo di limite della dogmatica rispetto alle pretese suscettibili di essere avanzate da una politica criminale meramente simbolica e, in tal modo, quell’oggettività dell’approccio al contesto fattuale e psicologico in cui l’autore abbia operato necessaria affinché la sanzione non risponda a pure e semplici istanze satisfattorie. Di tutto questo appare paradigmatica la vicenda relativa alla definizione del dolo nel ‘‘progetto Grosso’’, definizione che, inglobando una formula assai incerta riguardante il dolo c.d. eventuale e del tutto equiparata a quella che contraddistingue il dolo intenzionale, finisce per incentrare sulla prima — come minus espressivo delle caratteristiche ad esso necessarie e sufficienti — il concetto stesso di dolo, svincolandolo di fatto dalla volizione in quanto fattore psicologico idoneo a differenziarlo qualitativamente dalla colpa. Ciò risultava di particolare evidenza nella prima versione, di cui al testo licenziato il 12 settembre 2000, della formula relativa al dolo eventuale (‘‘chi... agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come altamente probabile, accettandone il rischio’’: art. 30): con essa, osservavamo in altra sede, ‘‘la prova del dolo finirebbe per riferirsi solo al livello della probabilità di verificazione del fatto, secondo un confine peraltro chiaroscurale da cui dipendono esiti fra loro molto diversi; la stessa asserita dimensione limitativa di quel criterio rispetto a certe derive della prassi — proseguivamo — sconta il rischio di valutazioni assai discrezionali, specie ove non siano utilizzabili quadri statistici predefiniti, o addirittura presuntive (la suggestione derivante dall’essersi il fatto storicamente verificato può essere forte)’’ (38). Si addiveniva pertanto, col testo revisionato del 26 maggio 2001, a una nuova formula del dolo eventuale (‘‘chi... agisce accettando la realizzazione del fatto, rappresentato come probabile’’: art. 27), formula che, correttamente interpretata, dovrebbe coincidere con quella storica di Frank: accettare il fatto, e non il mero rischio, significa infatti agire nello stato psicologico di chi non solo è disposto, temerariamente, a rischiare, stato che è caratteristico, tout court, della colpa con previsione, ma è pienamente disposto a pagare il prezzo del fatto per ottenere i suoi risultati (come nel dolo c.d. diretto), così da potersi affermare sulla scorta di tutti i dati situazionali — prima formula di Frank — che continuerebbe ad agire (38) denda).

Cfr. L. EUSEBI, Il dolo nel diritto penale, in Studium iuris, 2000, p. 1080 (Ad-


— 115 — anche ove fosse certo quanto al prodursi dell’evento; criterio, quest’ultimo, il quale individua l’unico stato che, assente la volizione, sia differenziabile sul piano psicologico dal manifestarsi ordinario della colpa e che sia in grado, dunque, di offrire un contenuto autonomo, ove di una tale categoria si debba discutere, al c.d. dolo eventuale (39). Tuttavia è assai dubbio, considerate le vicende giurisprudenziali in materia degli ultimi anni, che simili conclusioni logiche, limitative della conseguenza rappresentata da una totale incertezza di confini fra dolo e colpa, saranno effettivamente derivate (si consideri anche l’incidenza negativa che potrebbe avere il passaggio, nella seconda versione della norma proposta in tema di dolo, dalla richiesta di una rappresentazione del fatto come altamente probabile a quella di una rappresentazione del medesimo come soltanto probabile). I confini rischiano di rimanere incerti, con spazi in potenza ampi per la reciproca assimilazione di atteggiamenti personali fra loro diversi. Ma compattare, semplificando, situazioni differenti — la stessa condizione psichica individuata dalla formula di Frank non è la stessa cosa del dolo intenzionale — non è conforme, tanto più ove sia in gioco la pena detentiva (e seppure possano sussistere in senso opposto suggestioni simboliche), alle esigenze di una politica sanzionatoria, intesa al recupero del condannato, razionale (40). LUCIANO EUSEBI Straordinario di Diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza

(39) Per un maggior approfondimento cfr., di chi scrive, Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, cit., p. 1085 ss., e Il dolo come volontà, Brescia, 1993, p. 171 ss. Quanto alla critica secondo cui la formula di Frank sostituirebbe ‘‘dati effettivi con elementi ipotetici’’ (così, p. es., G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 4a ed., Bologna, 2001, p. 330, nota 74) va ribadito che il giudizio ipotetico in cui essa si sostanzia, come accade in molti altri casi (ad esempio in tema di causalità), è utilizzato per cogliere, con attendibilità contigua alla certezza, uno stato psicologico reale (cfr. A. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 7a ed., Milano, 2000, p. 280, nota 21, nonché L. EUSEBI, Appunti, cit., p. 1090, e Il dolo come volontà, cit., p. 181 s.). (40) L’intera materia andrebbe riconsiderata anche in rapporto ai rilievi precedentemente svolti circa la responsabilità colposa.


DOTTRINA

LE ROGATORIE ITALO-SVIZZERE, ALLA LUCE DELLA L. 5 OTTOBRE 2001, N. 367 (*)

1. L’intervento è determinato dai miei interessi di giurista dedicato in primo luogo — partendo dal diritto romano — ai problemi generali della comprensione e della formazione del diritto ed inoltre, in secondo luogo, ai problemi specifici delle relazioni italo-svizzere, data la mia qualità di cittadino svizzero, ma anche di italiano non appartenente alla repubblica, come spiega l’art. 51 della Costituzione, grazie al quale sono stato ammesso all’ufficio di professore universitario in Italia, nel lontano 1968. Ma occorre invertire l’ordine della trattazione per avvicinarci al problema. L’interesse per i rapporti italo-svizzeri, mi ha spinto, nel 1982 ad affrontare l’assistenza giudiziaria in materia penale, a seguito dell’entrata in vigore della nuova legge svizzera sull’assistenza internazionale in materia penale del 20 marzo 1981. Una giornata di studi ha portato alla pubblicazione di contributi di Hans Schultz, Lionel Frei, Paolo Bernasconi, Tiziano Liniger di parte svizzera, Pietro Nuvolone, Paolo Laszloczly, Mario Pisani per l’Italia (1). L’art. 1 della legge svizzera sull’assistenza internazionale in materia penale stabilisce naturalmente, che la legge disciplina i procedimenti di cooperazione internazionale ‘‘in quanto convenzioni internazionali non dispongano altrimenti’’. Svizzera e Italia sono legate sia dalla Convenzione europea di estradizione che da quella di assistenza giudiziaria in senso stretto, ad esclusione cioè dell’estradizione, detta anche minore ed accessoria. Dal 20 luglio 1967 queste convenzioni rappresentano lo strumento normativo della cooperazione italo-svizzera in materia penale nell’ambito dello spazio giuridico europeo (2). (*) Lo scritto riproduce il testo dell’intervento a un Convegno promosso dall’associazione ‘‘L’Osservatorio’’, svoltosi a Milano il 26 novembre 2001. (1) L’assistenza internazionale in materia penale in Svizzera, Quaderni giuridici italo-svizzeri, raccolti da G. BROGGINI, vol. 1, Milano, 1983, p. 213. (2) I testi sono pubblicati nel volume a cura di P. LASZLOCZKY, La Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, Milano, 1984, p. 257. Cfr. altresì M. PISANI-


— 117 — L’art. 15, 7 della Convenzione fa salve le convenzioni bilaterali che prevedono la corrispondenza diretta fra autorità giudiziarie e cioè la trasmissione delle commissioni rogatorie da organo giudiziario a organo giuridico, senza passare attraverso il canale del Ministero della Giustizia o di altro organo amministrativo designato. Fra Svizzera e Italia è tuttora in vigore il Trattato di domicilio e consolare del 1868 ed il protocollo di esecuzione dello stesso (3). La collaborazione e la fiducia reciproca fra le amministrazioni giudiziarie dei due Stati sono dunque consolidate da oltre centotrenta anni! L’art. 9 del Trattato, completato dal terzo articolo del protocollo, prevede la semplificazione massima delle formalità e la corrispondenza diretta fra le Corti di Appello dei due Stati, anche per le commissioni rogatorie in materia penale. Nel 1983 ci si chiedeva quale significato potesse avere studiare in Italia una norma interna svizzera che opportunamente non modifica in nulla il fondamento normativo dei rapporti italo-svizzeri in questo campo, continuando essi ad essere retti dalle convenzioni. E tuttavia già allora si considerava che l’impatto della legislazione interna sull’attività applicativa delle convenzioni sarebbe stato notevole e comunque inevitabile. L’interazione fra norme convenzionali e norme interne non può mancare, sebbene anche le norme interne garantiscano la prevalenza delle convenzioni internazionali. Le convenzioni in genere contengono trame normative a maglie ampie, concedendo potere discrezionale all’autorità dello Stato chiamato a dare assistenza: si pensi alla facoltà di prestare assistenza in materia politica e fiscale (art. 2 a) alla facoltà di sottoporre l’assistenza alla condizione dell’uso esclusivo degli atti di assistenza per le infrazioni indicate F. MOSCONI, Codice delle Convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., Milano, 1984, p. 438 ss. (3) Il Trattato è pubblicato nel volume a cura di P. Laszloczky, cit. a nota 2 p. 188 ss. Il testo ufficiale è in francese; il volume pubblica anche una traduzione ufficiosa italiana, di cui trascrivo il primo capoverso dell’art. 9 ed il primo capoverso dell’art. 3 del Protocollo d’esecuzione: Art. 9: ‘‘Le citazioni o notificazioni di atti, le dichiarazioni o le deposizioni dei testimoni, le relazioni dei periti, gli atti giudiziari di istruzione e, in generale, tutti gli atti che debbono avere esecuzione, in materia civile o penale, in seguito a commissione rogatoria richiesta dal tribunale di un paese e da eseguirsi sul territorio dell’altro, devono ricevere la loro esecuzione in carta libera e senza pagamento di spese’’. Art. 3. ‘‘Per l’esecuzione dell’art. 9 della medesima Convenzione è convenuto che le Corti d’Appello del Regno (d’Italia), il Tribunale Federale ed il Tribunale Superiore di ciascuno degli Stati della Confederazione, corrisponderanno d’ora in poi direttamente fra loro per tutto ciò che concerne la trasmissione ed il disbrigo delle commissioni rogatorie, sia in materia civile, sia in materia penale’’. Il Trattato ed il Protocollo sono pubblicati anche nel Répertoire de droit international privé suisse di B. DUTOIT, F. KNOEPFLER, P. LALIVE, P. MERCIER, vol. 3, Berne, 1986, p. 101 ss.


— 118 — (principio di specialità). Si pensi infine al principio della doppia punibilità, ricordato dall’art. 5,1 a. È indispensabile quindi che convenzione e legge interna siano sottoposte ad una interpretazione coordinata e convergente, non essendo accettabile che la norma interna possa condurre a sconfessare ed a contrastare la regola convenzionale. 2. Le statistiche parlano di una media di 300 commissioni rogatorie richieste annualmente dall’Italia alla Svizzera e di circa la metà richieste dalla Svizzera all’Italia. L’Italia è fra i paesi che hanno formulato il maggior numero di rogatorie alla Svizzera. L’affollamento delle richieste ha convinto i due Stati a completare e precisare le regole usate dalla prassi. Ne è nato l’accordo stipulato a Roma il 10 settembre 1998. La sua finalità è indubbia: dare una codificazione alla prassi giudiziaria corrente e favorire le semplificazioni della procedura. Testualmente: semplificare l’applicazione della Convenzione, facilitare l’applicazione della Convenzione. Innovazioni particolari non ve ne sono. Mi permetto citare i più importanti passaggi: art. II, 3: Concessione della rogatoria in tema di truffa. art. IV: Principio di specialità. art. V: Modalità di esecuzione. art. VI: Videoconferenza (già praticata). art. XX: Esenzione semplificata. art. XXX: Soluzioni di controversie (4). 3. La l. 5 ottobre 2001, n. 367 di ratifica dell’accordo del 10 settembre 1998 snatura totalmente l’accordo, non tanto per le norme di attuazione, quanto per le modifiche al codice di procedura penale che essa ha parallelamente introdotto (5). La catena delle modifiche evidenziano una strategia legislativa mirata a soluzioni specifiche di casi e situazioni identificabili. È una legge ‘‘ad hominem’’, una legge del caso singolo, che fa rivivere il ricordo delle invettive di Cicerone contro Verre ed il suo editto (6). (4) L’accordo concluso a Roma il 10 settembre 1998 è pubblicato fra l’altro in appendice allo studio di P. BERNASCONI, La cooperazione italo-svizzera per i reati economici, di corruzione, fiscali e doganali alla luce dell’accordo italo-svizzero di assistenza firmato il 10 settembre 1998, in Diritto del Commerclo internazionale, 13, (1999) p. 25 ss. È pubblicato in Gazzetta Ufficiale — serie generale — 11 ottobre 2001, n. 237 parte I, pp. 24-29 con la premessa: ‘‘deve intendersi pubblicato alla p. 24 della Gazzetta Ufficiale — serie generale — dell’8 ottobre 2001, in calce alla l. 5 ottobre 2001, n. 367’’. Cfr. altresì in questa Rivista, 1998, p. 1441; 1999, p. 742; 2001, p. 1425, a cura di M. PISANI. (5) Gazzetta Ufficiale — serie generale — 8 ottobre 2001, p. 19 ss. In nota sono riportati gli articoli del codice di procedura penale e del codice penale modificati o comunque richiamati. (6) Cic. in Verrem II 1, 43, 110. Cicerone illustra le ragioni che hanno spinto il gio-


— 119 — ‘‘Ac si hoc iuris non unius hominis causa edixisses cautius composuisses’’ (in Verr II 1,43,120): ‘‘se non avessi redatto questo editto a causa di una sola persona, l’avresti redatto con maggior precauzione’’. ‘‘Quia non generis sed hominis causam, verbis amplecteris’’: ‘‘poiché con il tuo editto non hai voluto abbracciare la generalità dei casi ma la situazione di un’unica persona’’. È questo lo ‘‘ius singulare quod contra tenorem rationis propter aliquam utilitatem, auctoritate constituentium introductum est’’ (D. 1, 3, 16) come dice Paolo, e che i romani, fin dalle XII tavole, hanno fatto di tutto per escludere: ‘‘privilegia ne inroganto’’ (7). Se vedo bene, siamo in presenza di un vestito ritagliato su misura ed è evidente che si rimane imbarazzati, quando anche altri, estranei a quella situazione specifica, riescono ad utilizzarlo. Penso ai casi dei quali più si è parlato: quello di Francesco Prudentino in relazione all’inchiesta sul contrabbando di sigarette, con il rinvio dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari al 9 gennaio 2002 e successivnmente al 20 marzo, dove si tenta di far dichiarare inutilizzabili tutti gli atti acquisiti per rogatoria; penso a quello di Giuseppe Pozzi, fiduciario dell’avvocato di Lugano Francesco Moretti, liberato dal Tribunale di Milano che ha ritenuto inutilizzabili gli atti inviati agli inquirenti varesini dal pubblico ministero di Lugano. La catena della modifiche legislative è davanti agli occhi di tutti: si inizia con il sostituire l’attuale art. 696 c.p.p., che richiama genericamente tutte le convenzioni internazionali, con un testo che richiama in primis la Convenzione del 1959. Nulla di eccezionale se poi non si aggiungesse all’art. 12.1, il comma 5-bis dell’art. 727 c.p.p. vane Verre ad introdurre nel suo editto sulla lex Voconia una modifica sostanziale di quella legge (che risale al 169 a.C.) che impediva al cittadini romani della prima classe iscritti al censo, aventi cioè un patrimonio superiore ai centomila assi, di istituire erede una donna. Egli ci descrive Verre, invaghito dell’immensa fortuna di un certo Publio Annio Asello, non iscritto al censo, morto lasciando erede l’unica sua figlia. Verre scende a patti con certo L. Annio, nominato erede in seconda linea, dopo la figlia. Egli offre ad Annio l’eredità, contro una infame remunerazione, promettendogli un’interpretazione edittale della lex Voconia, che estenda l’applicazione del divieto anche ai cittadini non censiti, ma titolari di un tale patrimonio. Che tale modifica del tenore della legge tramite un editto fosse o meno in contrasto con il principio della irretroattività è un problema che Cicerone tratterà a fondo. Ma intanto egli ricorda il principio della generalità della legge, che impedisce di impostarla in relazione alla situazione di una sola persona. (7) Vedi soprattutto il commento di Cicerone nel de legibus (III, 44): ‘‘privilegium, quoquid est iniustius? cum legis haec vis sit: scitum et iussum in omnes’’. Cfr. V. SCARANO USSANI, Privilegio (dir. rom.), in Enc. dir., 35, (1986) p. 705 ss. (uno ‘‘strumento di potere’’); G. MELILLO, Ius singulare, in Noviss. dig. it., IX, (1965) pp. 380391; R. ORESTANO, ‘‘Ius singulare’’ e ‘‘privilegium’’ in diritto romano, in Annali Macerata, 1937, p. 8 ss.; 1939, p. 5 ss. A. GUARINO, Il Problema dogmatico e storico del diritto singolare, in Annali dir. comparato, 18, (1946) p. 7 ss.; p. 20 ss. M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 64 ss. (‘‘ius singulare’’ e ‘‘privilegium’’); M. KASER, Das römische Privatrecht, vol. I, München, 1971, p. 211.


— 120 — L’articolo si raccorda — in modo a dir poco capzioso — con l’art. 3, comma 3 della Convenzione (richiesta di originali) (8) e con l’art. 7, comma 1, secondo i quali lo Stato richiedente può esigere determinate modalità per la trasmissione degli atti (originale, copie dichiarate conformi ecc.). Da questo primo incrocio di norme generali e facoltative, quali gli artt. 3 e 7 della Convenzione, alla imposizione unilaterale delle modalità della trasmissione dei documenti e degli altri mezzi di prova, da parte dello Stato richiedente allo Stato richiesto, tramite la modifica dell’art. 727 c.p.p., si passa poi alla sanzione di un eventuale discostamento da queste ‘‘forme’’ e cioè alla inutilizzabilità degli atti trasmessi, sancita dall’art. 729 c.p.p. Ribadisco che si tratta di misure unilaterali: le modifiche al codice di procedura penale esulano totalmente dall’accordo italo-svizzero del settembre 1998. Libero beninteso ogni ordinamento di modificare le proprie regole interne, ma tali modifiche sono estranee e successive agli accordi raggiunti ed è quindi evidente la necessità di appurarne le conseguenze nei rapporti convenzionali internazionali. Dall’entrata in vigore della Convenzione europea con riguardo ai rapporti italo-svizzeri e cioè dal 1967 mai è stato chiesto dall’Italia alla Svizzera il rispetto delle modalità procedurali della raccolta e della trasmissione dei documenti, previste dallo Stato richiedente e cioè dallo Stato italiano (gli artt. 3 e 7 della Convenzione prevedono infatti in primo luogo il rispetto delle forme previste dallo Stato richiesto). Con l’Italia, come del resto con tutti gli Stati che hanno ratificato ed applicano la Convenzione, la Svizzera non appone certificati di conformità degli allegati e nemmeno li richiede nelle sue domande di assistenza. Si tratta di un atto di sfiducia nei confronti dello Stato richiesto. Le modalità attuali di trasmissione degli atti sono sempre state considerate garanzie sufficienti di legalità e di conformità. Ci si può anche chiedere se simili esigenze di contollo formale non siano in contrasto, oltre che con lo spirito, con la lettera stessa del comma 1 dell’art. 3 della Convenzione. Infatti esse non provocano semplificazione, ma addirittura un forte pregiudizio quanto all’applicabilità della Convenzione. Il coronamento dell’opera di capovolgimento delle regole procedurali avviene attraverso la norma ‘‘transitoria’’ dell’art. 18 e cioè attraverso l’applicazione retroattiva di queste regole ai procedimenti in corso, che (8) Il testo ufficiale francese è chiaro: ‘‘La partie requise pourra ne transmettre que des copiès ou photocopies certifiées conformes...’’. La versione italiana non ufficiale è fuorviante: ‘‘La parte richiesta non potrà trasmettere che semplici copie...’’. Giustamente il Codice di PISANI e MOSCONI cit. a nota 2 corregge la traduzione a p. 447: ‘‘Rectius: potrà limitarsi a trasmettere’’.


— 121 — versano nella fase delle indagini preliminari ovvero nei quali è in corso o deve aver luogo l’udienza preliminare. Per chi, come chi vi parla si è occupato per anni della storia e del significato attuale del principio della irretroattività delle leggi, da Roma a Savigny ed ai giorni nostri, ed in particolare dell’applicazione nel tempo delle norme procedurali (9), spiace di leggere giudizi disimpegnati ed ironici come quelli del collega Angelo Giarda, apparsi sul Sole 24 ore del 29 settembre. Il latinetto del brocardo ‘‘tempus regit actum’’ è tutt’altro che di contenuto opinabile, quando è evidente a cosa miri la sua violazione. Ancora una volta ricordiamo Cicerone e la sua critica sferzante nei confronti delle manipolazioni di Verre: ‘‘de iure vero civili si quis novi quid instituit, is non omnia quae ante acta sunt rata esse patietur?’’ (in Verre II 1, 42, 109): ‘‘tutto ciò che è stato posto in atto precedentemente, non deve forse venir confermato?’’ (10). ‘‘Omnia quae ante acta sunt, rata maneant’’, questo è il principio fondamentale della validità degli atti di procedura compiuti nel rispetto della legge in vigore nel tempo in cui sono stati posti in essere (lex temporis acti) e che trova la sua base deontologica nell’affidamento riposto nel diritto vigente al momento del compimento dell’atto, nel nostro caso dell’atto istruttorio. La dichiarazione d’inutilizzabilità di atti già acquisiti al momento dell’entrata in vigore della nuova legge è pertanto contraria al principio fondamentale di irretroattività della legge, con tutte le conseguenze che ciò comporta anche in ordine alla sospensione dei termini di prescrizione. L’art. 18 è per il giurista, formato nel solco della tradizione europea, del tutto insostenibile. Per la parte svizzera, che ha prestato la sua collaborazione da oltre trent’anni, il vedersi inserita una disposizione del genere nell’atto di ratifica di un accordo aggiuntivo, con la conseguenza di possibile inutilità di atti destinati a rogatorie e raccolti precedentemente a tale (9) G. BROGGINI, La retroattività della legge nella prospettiva romanistica, in Coniectanea. Studi di diritto romano, Milano, 1966, p. 343 ss.; Intertemporales Privatrecht, in AA.VV., Schweizerisches Privatrecht, vol. I, Basel, 1969, pp. 353-507; p. 399 ss.; per l’evoluzione storica del principio della irretroattività, da Fr. C. von Savigny in poi, cfr. la recente opera di B. HESS, Intertemporales Privatrecht, Tübingen, 1998, p. 58 ss. Rinvio da ultimo al mio commento dell’art. 72 della l. 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del diritto internazionale privato, in Le nuove leggi civili commentate, 19, (1996) pp. 1493-1500. (10) Rinvio al mio studio indicato a nota 9, Coniectanea, p. 381 ss. Il principio ‘‘tempus regit actum’’ è pacifico per i nostri sistemi procedurali, sia civili che penali. Cfr. le disposizioni transitorie al codice di procedura civile e al codice di procedura penale. Cfr. L. MONTESANO-G. ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, Padova, 2001, col. I, p. 36 s.; S. SATTA-C. PUNZI, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova, 2000, p. 259 ss. Quanto alle norme transitorie della procedura penale, cfr. gli artt. 241 ss. d.l. 28 luglio 1989, n. 271 ed i relativi commenti.


— 122 — ratifica, non è soltanto incomprensibile, ma anche irritante. Anche i giudici ed i funzionari svizzeri che si occupano di assistenza giudiziaria italosvizzera si pongono la domanda: ‘‘cui bono"? GERARDO BROGGINI già Ordinario di Diritto romano e di Diritto Internazionale Privato nell’Università Cattolica di Milano


PRINCIPIO E DOGMATICA DELLA COLPEVOLEZZA NEL DIRITTO PENALE D’OGGI SPUNTI PER UN DIBATTITO (*)

SOMMARIO: 1. La duplice dimensione della colpevolezza. — 2. I nessi tra teoria della colpevolezza e funzioni della pena. — 3. La tradizionale funzione garantistica della colpevolezza come limite della prevenzione. — 4. La progressiva affermazione delle concezioni funzionalistiche della colpevolezza. — 5. Quali prospettive per il giudizio di colpevolezza?

1. Secondo gli enunciati della dottrina largamente prevalente, la colpevolezza presenta una duplice dimensione concettuale: essa costituisce al contempo una categoria dogmatica interna alla sistematica del reato e un principio che permea per intero il diritto penale. Più precisamente, come categoria dogmatica distinta dal fatto e dall’antigiuridicità, la colpevolezza indica il luogo della teoria del reato deputato a raccogliere, con intenti ordinatori e didattici, i criteri di imputazione soggettiva. Quale principio peculiare del diritto penale, invece, la colpevolezza è espressione di una cultura giuridica che aborre ogni forma di responsabilità penale fondata sulla pura realizzazione di un fatto, ancorché tipico e antigiuridico. Da quest’angolazione, dunque, la colpevolezza è sinonimo di necessaria rimproverabilità morale del reo. Ora, se si considera la teoria della colpevolezza quale si è venuta sviluppando negli ultimi cinquant’anni, è agevole osservare che le due anzidette dimensioni della colpevolezza sono andate incontro a destini diversi, se non addirittura opposti. Infatti, mentre la categoria della colpevolezza ha registrato una decisa spinta nella direzione del suo progressivo svuotamento (1), il principio di colpevolezza è venuto assumendo un’importanza crescente, nel senso che la dimensione culturale della colpevolezza ha favorito l’elaborazione di modelli di responsabilità personale sempre più raffinati. (*) È il testo della relazione tenuta al Convegno di studio dal titolo ‘‘Ias Jornadas Internacionales de Derecho Penal’’, svoltosi dal 2 al 5 ottobre 2000 presso l’Universidad Católica Argentina di Buenos Aires. Salva diversa specificazione, gli articoli di legge citati nel testo si riferiscono all’ordinamento italiano. (1) Non manca poi chi vi ha rinunciato del tutto. Cfr. A. PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, p. 503.


— 124 — Il punto merita attenzione. Si pensi ai contenuti tradizionali della categoria della colpevolezza, comunemente individuati nel dolo e nella colpa. Uno degli insegnamenti della teoria finalistica dell’azione, condiviso oggi da larga parte della dottrina, risiede nel riconoscimento che tali criteri di imputazione svolgono una fondamentale funzione già nell’ambito della tipicità (2). Da qui la loro trasposizione dal piano della colpevolezza a quello del fatto, quale riflesso sistematico della trasformazione del dolo e della colpa da forme della colpevolezza a componenti soggettive della tipicità. Ebbene, questa evoluzione sistematica della colpevolezza sarebbe ben poca cosa ove si esaurisse in un puro cambio di etichette. Ma così non è, poiché l’ancoraggio dell’elemento soggettivo a livello del fatto favorisce la presa d’atto che il dolo e la colpa sono criteri di imputazione caratterizzati da innegabili margini di oggettivazione, come tali incapaci di per sé di esprimere compiutamente un rimprovero a titolo di colpevolezza. Com’è noto, infatti, il dolo viene provato in giudizio attraverso le massime di esperienza (3), dietro le quali non è difficile scorgere le valutazioni dell’uomo medio, assunto come ipotetico osservatore dell’azione. Quanto alla colpa, l’imputazione del comportamento negligente viene modellata dalla dottrina prevalente sulla falsariga dell’homo eiusdem condicionis et professionis (4), la cui funzione vorrebbe essere unicamente quella di relativizzare un giudizio di responsabilità che muove da indubbie basi oggettive (5). Invero, il parametro dell’agente modello, utilizzato per forgiare la misura oggettiva della colpa, costituisce una figura ideale di agente per definizione diversa dal soggetto cui si ascrive il comportamento negligente. Ne consegue che il criterio dell’homo eiusdem condicionis et professionis non può eliminare ma solamente contenere, in misura peraltro modesta, lo scarto esistente tra le notevoli capacità preventive dell’agente modello, talvolta prossime alle risorse cognitive e tecniche del massimo esperto del settore, e quelle dell’agente hic et nunc, rivelatesi insufficienti a impedire la realizzazione del fatto. In breve: come articolazione dogmatica, espressiva dei criteri di imputazione soggettiva previsti dal diritto penale, la colpevolezza presenta contenuti in transito verso la contigua categoria del fatto, via via che rive(2) V. soprattutto H. WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, 11 aufl., Berlin, 1969, pp. 37 s. e 58. V. anche: A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, 7a ed., Milano, 2000, p. 260; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1995, pp. 182 s. e 305 s.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2a ed., Milano, 1995, p. 300. (3) Cfr. ad esempio M. GALLO, Dolo, in Enc. dir., vol. XIII, 1964, p. 801. Nella manualistica, F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Padova, 1992, p. 328 s. (4) Cfr. ancora G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 495 s. (5) In argomento G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi urb., 1977-1978, p. 305.


— 125 — lano il loro prevalente profilo oggettivo. Da questa angolazione, dunque, la recente storia della colpevolezza è storia di progressive sottrazioni, come conferma, ancor prima delle evoluzioni sistematiche del dolo e della colpa cui si è fatto cenno, l’elaborazione della suitas della condotta. Originariamente recepita nell’ambito della colpevolezza come basilare criterio di personalizzazione della responsabilità penale (6), essa si è ben presto rivelata incapace di esprimere un autentico giudizio di rimproverabilità soggettiva. La funzione della suitas, infatti, è quella di contribuire a delineare l’ambito della responsabilità per fatto proprio, individuando le situazioni in cui, non soltanto l’agente concreto, ma qualunque uomo al suo posto, avrebbe perso il dominio della propria condotta. Com’è evidente, si tratta di un giudizio anch’esso finalizzato a tracciare il confine oltre il quale la condotta, seppure naturalisticamente appartenente a un soggetto, non può considerarsi umana, ossia opera dell’uomo inteso come concetto di genere. Si spiega così l’odierna afferenza sistematica della suitas al piano della tipicità (7). Diversamente deve dirsi in relazione al principio di colpevolezza: la sua storia è storia di continui accrescimenti. In effetti, come tutti i principi assiologici, anche quello di colpevolezza risulta fatalmente indefinito nei suoi massimi confini, come tale aperto alle influenze culturali e scientifiche provenienti da altri campi del sapere. Ne è una conferma l’evoluzione del principio di ‘‘personalità’’ della responsabilità penale, affermato nell’art. 27, comma 1, Cost. Invero, pur non contenendo l’espressa indicazione dei criteri di imputazione colpevole, esso ha guidato il legislatore italiano nell’opera di eliminazione delle principali ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nel codice penale e da tempo denunciate dalla dottrina (8). Last but not least, la consacrazione costituzionale del principio di colpevolezza ha consentito alla Corte costituzionale di dichiarare illegittimo l’art. 5 c.p. (9), che prevedeva l’assoluta inescusabilità dell’error iuris. (6) V. per tutti la collocazione sistematica della suitas secondo F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, 14a ed., Milano, 1997, p. 334 s.; non diversamente v. F. MANTOVANI, op. cit., p. 312 s. (7) V., ad esempio, nella manualistica G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 485. Amplius G. MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano, 1970, p. 188 s., a proposito della funzione c.d. negativa del concetto di azione. (8) Per una recente rilettura dell’influenza esercitata dal principio di colpevolezza sull’evoluzione legislativa del diritto penale, v. G.A. DE FRANCESCO, Il problema della colpevolezza tra pensiero giuridico ed evoluzione del sistema normativo, in Giuristi e legislatori, a cura di P. Grossi, Milano, 1997, p. 442 s. (9) Il riferimento è alla sentenza n. 364 del 1988, in Foro it., 1988, I, c. 1386. Per una rassegna della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di colpevolezza a partire dagli anni ’60, v. M. DONINI, Il principio di colpevolezza, in Introduzione al sistema penale, a cura di G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti, Torino, 1997, p. 198 s.


— 126 — 2. Quanto si è venuto osservando dovrebbe confermare che il perno su cui ruota e si sviluppa la colpevolezza è costituito essenzialmente dalla sua dimensione di principio assiologico. Ma qual è il fondamento di questo principio? Nonostante il contrasto di opinioni che agita la teoria della colpevolezza, è possibile fissare un punto fermo di natura metodologica. E precisamente: come emerge da un dibattito oramai secolare, il fondamento della colpevolezza è strettamente collegato alle funzioni della pena, al punto da potersi ritenere che giudizio di colpevolezza e giustificazione della pena costituiscono due aspetti di una tematica sostanzialmente unitaria. Ora, è noto che per un’impostazione risalente e oggi minoritaria l’intervento punitivo ha una funzione esclusivamente retributiva (10). A tale proposito si parla di teorie assolute della pena, perché quest’ultima non viene giustificata in base a contingenti obiettivi di politica criminale, bensì in ossequio a un ideale di giustizia superiore che impone di ricompensare il male del delitto con la sofferenza insita nella pena. Com’è evidente, in questa prospettiva la colpevolezza svolge il ruolo di giustificazione della pena, nel senso che come non vi può essere pena senza colpevolezza, così non vi può essere colpevolezza senza pena (11). A sua volta la colpevolezza vanta un fondamento metagiuridico, in quanto tale esterno al diritto penale. Essa, infatti, risulta espressione del principio filosofico del libero arbitrio (12), postulato attraverso un atto di fede. Da qui le tante critiche che sono state mosse alla teoria della colpevolezza, quale presupposto della pena retributiva: l’indimostrabilità del libero arbitrio (13), l’indifferenza dell’impostazione retributiva per la fase dell’esecuzione penale (14) e l’inconciliabilità delle concezioni eticizzanti della potestà punitiva con un diritto penale secolarizzato, il cui compito non consiste nel retribuire singole colpevolezze, bensì nel prevenire la lesione dei beni giuridici (15). Ebbene, se non ci si soffermerà su queste critiche non è certo perché siano (10) Anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. G. BETTIOL, L. PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, 12a ed., Padova, 1986, p. 797 s. nonché G. MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, p. 917. Di recente ripropone l’idea retributiva M. RONCO, Il problema della pena: alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Torino, 1966, p. 185 s. (11) Cfr., ad esempio, Arthur KAUFFMAN, Das Schuldprinzip, 2a ed., Heidelberg, 1976, p. 202. (12) F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, 4a ed., Lucca, 1871, pp. 10 e 33. (13) Da ultimo, ribadisce questa osservazione G. STRATENWERTH, Il concetto di colpevolezza nella scienza penalistica tedesca, in Materiali per una storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1998, p. 220. (14) Così C. ROXIN, Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1980, p. 372. (15) V. ad esempio C. ROXIN, op. cit., p. 371 nonché Sul problema del diritto penale della colpevolezza, ivi, 1984, p. 18 s. Cfr. anche M. ROMANO, op. cit., p. 14.


— 127 — infondate, ma per una ragione ancora più semplice e decisiva. Ed invero, la funzione meramente retributiva della pena è smentita dalla maggioranza degli ordinamenti vigenti, che dimostrano come la pena, proprio per il fatto di perseguire l’utile sociale e non un astratto senso di giustizia, sia derogabile, in tutto o in parte, nella durata o nei suoi contenuti. Si pensi all’istituto della sospensione condizionale della pena, che risulta chiaramente inconciliabile con il principio retributivo in quanto, facendo prevalere valutazioni di tipo specialpreventivo, consente di non punire l’autore di un fatto colpevole. Ma lo stesso rilievo vale per la gran parte delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario, in tanto che consentono la liberazione anticipata del detenuto o una trasformazione delle modalità esecutive della pena irrogatagli. Non resta, dunque, che aderire alle concezioni relative della pena, per le quali la sanzione penale persegue finalità politico-criminali nella duplice direzione della prevenzione generale dei reati, finalizzata a distogliere la generalità dei consociati da possibili propositi delittuosi, e della prevenzione speciale, intesa alla neutralizzazione e al recupero dell’autore del reato. Orbene, secondo questa impostazione, che è oggi largamente prevalente, i rapporti tra colpevolezza e pena si rovesciano. La funzione preventiva, infatti, non ha bisogno della colpevolezza per legittimarsi, provvedendo a ciò l’istanza di controllo sociale a sua volta finalizzata alla tutela dei beni giuridici. La colpevolezza — è questa la svolta — diventa conseguentemente una condizione del corretto uso preventivo della pena. Più precisamente, secondo una nota e largamente condivisa impostazione (16), la colpevolezza viene chiamata a svolgere una funzione antagonistica rispetto a quella preventiva propria della pena. 3. La preoccupazione che sorregge quest’ultima impostazione è di tutta evidenza: proprio perché finalizzata al perseguimento dell’utile sociale, la funzione preventiva della pena rischia di strumentalizzare il singolo. Si pensi al giudice che, in un periodo di recrudescenza delle rapine, applichi a un rapinatore una pena esemplare per dissuadere più efficacemente la generalità dei consociati dal commettere quel tipo di reato. Com’è evidente, l’istanza di prevenzione generale può degenerare nella logica del capro espiatorio (17). Ma anche la prevenzione speciale può sortire intollerabili strumentalizzazioni del singolo finalizzate a contenerne il rischio di recidiva. Sul piano utilitaristico, infatti, nulla impedisce di prati(16) Il riferimento alla tesi roxiniana (cfr. per tutti i lavori citati nelle note precedenti), su cui v. ampiamente T. PADOVANI, Teoria della colpevolezza e scopi della pena. Osservazioni e rilievi sui rapporti fra colpevolezza e prevenzione con riferimento al pensiero di Claus Roxin, in questa Rivista, 1987, p. 799 s. (17) Cfr. E. DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979, p. 219 s. e in particolare p. 223.


— 128 — care forme di trattamento risocializzativo, non solo manipolative della personalità, ma anche indeterminate nella durata, nei confronti di soggetti responsabili di reati poco gravi, i quali presentano una spiccata capacità criminale desumibile dall’ambiente socio-culturale di provenienza o da un temperamento proclive al delitto. Ora, un diritto penale che strumentalizza il singolo, anche ammesso che possa risultare più efficace, è certamente un diritto penale contrario al senso di giustizia. Si comprende, dunque, che, per contenere il rischio di una prevenzione penale ingiusta, la colpevolezza venga invocata come argine garantistico dei diritti individuali minacciati dalla pena (18); un argine oltre il quale non può spingersi l’istanza solidaristica insita nella logica della prevenzione. Il riconoscimento di questa funzione della colpevolezza costituisce il punto di arrivo di un dibattito scientifico così ampio e complesso da poter essere ricordato adesso solo nei punti essenziali. In effetti, la funzione garantistica della colpevolezza si ritrova in nuce già nel passaggio dalla concezione psicologica della colpevolezza, che esauriva il principio di soggettività nel nesso psicologico effettivo con il fatto, alla concezione normativa della colpevolezza, secondo cui il principio di soggettività consisterebbe nella rimproverabilità dell’agente per aver realizzato un fatto che avrebbe potuto evitare (19). Ebbene, questa ricostruzione della colpevolezza non ha consentito soltanto di legittimare la responsabilità colposa e, per altro verso, di graduare il rimprovero penale (20). La concezione normativa della colpevolezza, richiamando l’attenzione sul processo formativo della volontà colpevole, instaura una corrispondenza necessaria tra la libertà di autodeterminazione e l’aspettativa del comportamento conforme alle pretese dell’ordinamento, decretando al tempo stesso la scarsa plausibilità dell’ipotesi secondo cui la responsabilità oggettiva possa conciliarsi con la funzione generalpreventiva, esaltandone addirittura l’efficacia (21). (18) È questa la conclusione espressa da C. ROXIN in molti dei suoi importanti contributi al tema della colpevolezza; v. ad esempio Zum jüngsten Diskussion über Schuld, Prävention und Verantwortlichkeit im Strafrecht, in Festschrift für Paul Bockelmann, München, 1979, p. 308 s. Parla di ‘‘baluardo contro un esagerato ampliamento preventivo del diritto penale’’ B. SCHÜNEMANN, L’evoluzione della teoria della colpevolezza nella Repubblica Federale Tedesca, in questa Rivista, 1990, p. 35. (19) La paternità della concezione normativa viene comunemente fatta risalire all’opera di R. FRANK, Über den Aufbau des Schuldbegriffs, in Festschrift für die juristische Fakultät in Giessen, Giessen, 1907, p. 519 s. Così ad esempio H. WELZEL, op. cit., p. 140. Per alcune precisazioni al riguardo, cfr. però H. ACHENBACH, Riflessioni storico-dogmatiche sulla concezione della colpevolezza di Reinhard Frank, in questa Rivista, 1981, p. 844 s. (20) Di recente, v. per tutti F. PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, p. 57. (21) G. FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, p. 843.


— 129 — Ne è conseguita l’assegnazione al principio di colpevolezza di contenuti che delimitano la spinta solidaristica del diritto penale ora dal suo interno, ponendosi come condizioni logiche della prevenzione, ora dall’esterno, rilevando come valori prioritari rispetto ad essa. Per quel che concerne i primi, il riferimento è ai possibili fattori di disturbo o di alterazione del processo formativo della volontà, quali l’incapacità anche temporanea di autodeterminarsi e l’errore sul divieto penale. Più precisamente, l’imputabilità e la conoscibilità della legge penale diventano coefficienti della colpevolezza coessenziali alla logica della norma penale come strumento di motivazione e orientamento comportamentale (22). Quanto ai contenuti della colpevolezza che limitano dall’esterno la prevenzione, merita attenzione la categoria delle scusanti. Invero, posto che il soggetto scusabile — si pensi a colui che agisce in stato di necessità dovuto all’altrui minaccia (23) — poteva certamente comportarsi secondo il disposto normativo, la sua esenzione da pena viene spiegata osservando che si tratta di situazioni eccezionali, ragion per cui la rinuncia alla pena non pregiudica la tenuta preventiva del sistema (24). Lo stesso rilievo può valere per la dibattuta e controversa categoria dell’inesigibilità, quale scusante generale ultralegale (25): si pensi alla madre che, avendo avuto notizia del grave incidente occorso al figlio, si precipita all’ospedale dimenticando di legare alla catena il cane mordace che, in sua assenza, aggredirà la vicina di casa nel giardino condominiale. Orbene, la rinuncia alla pena per un siffatto comportamento negligente non parrebbe pregiudicare l’istanza preventiva. Infine, vi sono contenuti della colpevolezza che, essendo ispirati alla logica della proporzione, si prestano a delimitare la prevenzione indifferentemente dall’interno o dall’esterno. Invero, se, come si è avuto modo di anticipare, parte della dottrina moderna riserva alla colpevolezza un importante ruolo nella commisurazione della pena, osservando che, per ragioni di giustizia e rispetto del reo, la misura della sua punizione non deve (22) Sul ruolo dell’imputabilità come presupposto della colpevolezza normativa, v. per tutti F. MANTOVANI, op. cit., p. 302; sulla conoscibilità della legge penale come condizione imprescindibile di un corretto processo motivazionale, cfr. F.C. PALAZZO, Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, 1992, p. 128 s. (23) Sulla natura scusante dello stato di necessità, almeno limitatamente all’ipotesi prevista dal § 35 StGB, v. C. ROXIN, Strafrecht, Bd I, 3a ed., München, 1997, p. 827; in Italia, con riferimento allo stato di necessità determinato dall’altrui minaccia, v. analogamente T. PADOVANI, Teoria della colpevolezza, cit., p. 814 nonché Diritto penale, 5a ed., Milano, 1999, p. 227. (24) C. ROXIN, Sul problema, cit., p. 28 s. (25) In argomento, v. G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, p. 319 s.


— 130 — superare quella della sua colpevolezza (26), è anche vero che già Beccaria considerava la proporzione come la condizione essenziale di un’efficace prevenzione dei reati (27). La pena terroristica — osservava Beccaria — mentre non è maggiormente dissuasiva, può catalizzare sul condannato la solidarietà della collettività per l’ingiustizia ricevuta, creando un’esiziale frattura tra l’esercizio del potere punitivo e il corpo sociale. 4. Non è azzardato affermare che la rilettura del principio di colpevolezza alla luce delle concezioni relative della pena si è a lungo caratterizzata per un approccio al problema penale di tipo, per così dire, scientistico, alimentato cioè dalla fiducia, già compiutamente presente nel pensiero dei penalisti illuministi, di poter fondare il ricorso alla pena e il giudizio di colpevolezza sulla base di un modello di razionalità suscettibile di verifica empirica. Sennonché, negli ultimi lustri proprio la dimensione scientistica del diritto penale ha mostrato alcuni importanti segnali di crisi. Invero, un’ondata di scetticismo ha investito la dimostrazione empirica della funzione generalpreventiva della pena (28), anche in considerazione dei risultati affatto parziali che hanno offerto al riguardo le indagini finora condotte (29). Si può affermare pertanto che manca a tutt’oggi la spiegazione empirica dell’efficacia preventiva della pena. Ma la crisi dell’approccio scientistico al problema della colpevolezza ha coinvolto anche la convinzione, un tempo ben più solida, di poter mutuare dal sapere psichiatrico sicuri paradigmi di misurazione dell’imputabilità (30). A questo proposito la stessa collaborazione tra giudice e perito appare difficile e incerta. A quale paradigma di capacità di intendere e di volere deve rifarsi il perito? Al concetto nosografico di malattia mentale (31), che identifica il disturbo mentale all’interno di un catalogo chiuso di patologie, o alla nozione di infermità che si mostra sensibile an(26) V. soprattutto C. ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York, 1972, p. 1 s. nonché Considerazioni, cit., p. 370 s. e spec. p. 373 s. (27) V. Dei delitti e delle pene, ristampa a cura di P. Calamandrei, Firenze, 1965, § XX, p. 286. (28) G. JAKOBS, Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und ‘‘alteuropäischem’’ Prinzipiendenken, in ZStW, 1995, (107), pp. 844-845. (29) Per una valutazione più ottimistica, A. PAGLIARO, Le indagini empiriche sulla prevenzione generale: un’interpretazione dei risultati, in questa Rivista, 1981, p. 449 s. (30) Sulla crisi del concetto di imputabilità, v. M. BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, p. 412 s. Nella manualistica, G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., pp. 286 s. e 291. (31) Così G. BALBI, Infermità di mente e imputabilità, in questa Rivista, 1991, p. 860 s.


— 131 — che a fattori di condizionamento non patologici (32)? E ancora: nella scelta del perito si deve tenere conto della sua formazione culturale? Evidente è il rischio che l’esito del giudizio di imputabilità venga anticipato già nel momento in cui l’incarico peritale viene affidato a un determinato esperto anziché a un altro. Ebbene, le difficoltà in cui si è imbattuto l’approccio scientistico al problema della colpevolezza non sono rimaste prive di conseguenze. Il nuovo clima culturale di scetticismo ha favorito la progressiva affermazione delle concezioni funzionalistiche della colpevolezza, nel cui ambito merita un’attenzione particolare la teoria della prevenzione-integrazione (33). Muovendo dalla premessa che l’applicazione della pena mira a rafforzare il senso collettivo di fiducia nel sistema normativo violato, la teoria della prevenzione-integrazione ha il merito di avere corretto e smitizzato alcuni profili delle tradizionali impostazioni preventive. Essa, anzitutto, ha sottolineato efficacemente che la prevenzione generale non può derivare dalla minaccia legislativa di pena, di per sé astratta e ipotetica. Negli ordinamenti contemporanei, caratterizzati da una grande quantità di precetti penali, in parte ignoti finanche ai giuristi, affermare che la prevenzione dei reati sia l’effetto della rappresentazione anticipata della pena da parte dei cittadini, equivale a una fictio assolutamente insoddisfacente. Assai opportunamente, dunque, la teoria della prevenzione-integrazione pone al centro della prevenzione generale la concreta irrogazione della pena e la sua funzione stabilizzatrice e pacificatrice (34). In secondo luogo, sul versante della colpevolezza, la teoria della prevenzione-integrazione contribuisce a riportare entro i confini della realtà la dimensione della soggettività. La capacità di autodeterminazione — si osserva — non è solo il presupposto, ma anche la conseguenza della socialità. Al di fuori di un mondo oggettivo vincolante — si precisa — non vi è soggettività e viceversa (35). Da questi rilievi ne esce ridimensionata la stessa nozione di libertà di elezione sottesa al principio di colpevolezza. Essendo l’uomo un essere sociale, la capacità di effettuare scelte razionali non è un dato puramente naturalistico e nemmeno una pura astrazione idealistica. Per il diritto penale, che è scienza sociale, la sola libertà che rileva è quella che il contesto sociale riconosce ai cittadini. Per quanto sintetico, questo accenno alla teoria della prevenzione-in(32) G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 293, che propendono per la rilevanza esimente delle psicopatie (comprensive delle c.d. reazioni a corto circuito). (33) Il riferimento è all’opera di G. JAKOBS, Schuld und Prävention, Tübingen, 1976 nonché Strafrecht Allgemeiner Teil, 2a ed., Berlin-New York, 1991, pp. 9-10 e 7 s. (34) V. i lavori citati alla nota precedente. (35) G. JAKOBS, Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und ‘‘alteuropäischem’’ Prinzipiendenken, cit., p. 852.


— 132 — tegrazione sarebbe però gravemente lacunoso, ove non si guardasse anche al rovescio della medaglia. In effetti, la teoria della prevenzione generale positiva, limitandosi a spiegare la funzione sociale del diritto penale, si risolve in una dottrina puramente descrittiva del potere punitivo, come tale esposta al rischio dell’apologia dei sistemi penali vigenti (36), anche di quelli illiberali. La teoria della prevenzione-integrazione ha un’impostazione a-valutativa, se non addirittura priva di valori. Ciò emerge proprio dal ruolo che essa assegna alla colpevolezza, la quale perde la sua funzione di garanzia per diventare interamente funzionale all’istanza di prevenzione (37). Non è azzardato, dunque, ritenere che la teoria della prevenzione-integrazione finisce per riproporre lo schema di fondo della retribuzione giuridica (38), secondo cui, come il delitto nega il diritto, l’irrogazione della pena, negando il delitto, riafferma il diritto. 5. Le notazioni fin qui abbozzate non pretendono di ricostruire, nemmeno sommariamente, la moderna evoluzione della teoria della colpevolezza. Esse si propongono unicamente come un repertorio delle principali sfaccettature problematiche della colpevolezza, con le quali dovrà confrontarsi ancora la dottrina. Benché, come tutte le grandi tematiche, anche la colpevolezza si presti a essere oggetto di continue ricapitolazioni, il dibattito degli ultimi anni offre alcuni spunti di riflessione, che inducono a evitare sia l’atteggiamento di radicale rinuncia alla funzione liberale della colpevolezza, sia l’illusoria pretesa di calibrare il giudizio di colpevolezza in modo assolutamente aderente al comportamento dell’agente hic et nunc, ossia considerato nella sua unicità e irripetibilità. Il giudizio di colpevolezza, infatti, al pari di qualunque altro giudizio, non può tenere conto di tutto senza trasformarsi in una mera spiegazione del fatto costituente reato. In questa prospettiva, si possono formulare alcune considerazioni conclusive. La prima può sintetizzarsi così: alla base del diritto penale vi è l’idea della prevenzione, non quella della colpevolezza. Poiché la funzione preventiva difetta di una spiegazione empirica attendibile, essa può essere solamente supposta in termini di plausibilità, non di certezza. Ne consegue che la teoria della colpevolezza deve essere realistica: ciò significa pren(36) Così B. SCHÜNEMANN, Die Funktion des Schuldprinzips im Präventionsstrafrecht, in Grundfragen des modernen Strafrechtssystems, a cura di B. Schünemann, Berlin-New York, 1984, p. 181. (37) G. JAKOBS, Schuld, cit., p. 8 s. (38) Per questa impostazione, che si fa risalire a Hegel (cfr. M. ROMANO, op. cit., p. 13), v. nella letteratura italiana G. MAGGIORE, Diritto penale, parte generale, 3a ed., Bologna, 1939, I, p. 558 s.


— 133 — dere atto che la fisionomia dei criteri di imputazione soggettiva è fortemente condizionata dalla (reale o supposta) funzione preventiva della pena. Non si può negare, ad esempio, che è l’istanza preventiva ad imporre la repressione penale della colpa incosciente, nella convinzione che la delimitazione dell’intervento penale alle sole ipotesi di colpa cosciente, come pure proposto in dottrina (39), causerebbe una caduta di tutela al momento inaccettabile; almeno, fin tanto che l’ordinamento non disporrà di altri strumenti di controllo sociale ritenuti parimenti efficaci (40). Sono sempre le prioritarie preoccupazioni di tenuta generalpreventiva del sistema repressivo, che inducono la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza a ritenere sufficiente per l’imputazione a titolo di colpevolezza la conoscibilità del precetto penale e non la sua effettiva conoscenza da parte dell’agente (41). E ancora: nel campo dell’imputabilità, l’irrilevanza di alcuni fattori di disturbo come le nevrosi, che pure possono incidere fortemente sulla dinamica psichica dei reati, segnatamente di quelli colposi, va ricondotta a preoccupazioni di natura preventiva, liberamente interpretate dal legislatore e dalla dottrina anche sulla base di un atteggiamento culturale del corpo sociale ritenuto conforme. Ma gli esempi, com’è intuitivo, potrebbero continuare. Invero, la storia di ogni criterio di imputazione soggettiva si presta a essere riletta sotto il profilo della sua conformazione alle esigenze di prevenzione. Una seconda osservazione concerne il ruolo della colpevolezza, che in un diritto penale democratico rimane un’istanza irrinunciabile, dotata, allo stato della dottrina e della giurisprudenza, di una rigidità diversa a seconda che la si consideri nella fase della commisurazione della pena o nell’ambito dei criteri di imputazione interni alla teoria del reato. Ed invero, se, nella determinazione giudiziale della pena, la colpevolezza opera come argine contro il rischio di strumentalizzazioni del reo, nel quadro dei criteri di imputazione la colpevolezza rileva come valore che entra in bilanciamento con l’istanza di prevenzione. In entrambi i casi, la funzione di garanzia svolta dalla colpevolezza dipende dai contenuti di quest’ultima. (39) Da ultimo, v. G.V. DE FRANCESCO, Il ‘‘modello analitico’’ fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento soggettivo del reato, in questa Rivista, 1991, p. 133 s. (40) In argomento v. G. FIANDACA, I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze sociali, in Dei delitti e delle pene, 1987, p. 250, che sottolinea come, per il prevalere di preoccupazioni generalpreventive, il concetto penalistico di atto cosciente e volontario sia diverso da quello psicologico. (41) Su questa soluzione v. ad esempio M. GUARDATA, L’ignoranza della legge penale dopo l’intervento della Cote costituzionale: prime impressioni, in Cass. pen., 1988, p. 1153, il quale denuncia il rischio che si venga ‘‘a creare una ulteriore ipotesi di responsabilità ‘anomala’, vale a dire di responsabilità colposa punita a titolo di dolo’’; con riferimento ai reati a condotta neutra, v. diffusamente M. DONINI, Il delitto contravvenzionale, Milano, 1993, p. 200.


— 134 — Essi dipendono in certa misura dalla capacità di ascolto che la cultura penalistica e l’elaborazione giurisprudenziale sapranno mostrare nei confronti del sapere extragiuridico, confermando che la colpevolezza ha una dimensione interdisciplinare, alla cui definizione contribuiscono le scienze c.d. ausiliarie (criminologia, psichiatria, antropologia ecc.). I traguardi che possono conseguirsi per questa strada, però, non devono alimentare illusioni. Infatti, se è indubbio che il diritto penale possa fare a meno di una presa di posizione sull’esistenza, peraltro indimostrabile, del libero arbitrio, non va trascurato che la verità relativa su cui può plausibilmente fondarsi l’imputazione penale, ossia la libertà di autodeterminazione condizionata da fattori individuali e socio-ambientali, è anch’essa in larga misura destinata a rimanere incerta (42). È soprattutto l’incidenza dei fattori di condizionamento che appare refrattaria a una misurazione razionale, confermando che alla base dell’imputazione penale non vi è il sapere incontrovertibile delle scienze ausiliarie, ma soltanto la rappresentazione culturale, considerata su scala sociale, del loro apporto. L’imputazione a titolo di colpevolezza riflette cioè l’accettazione sociale di quel sapere extragiuridico, che gioca un ruolo diverso a seconda che la colpevolezza operi come antidoto contro il rischio di pene sproporzionate o come criterio di imputazione. Mentre nel primo caso essa incarna un’istanza personalistica destinata a prevalere sempre e comunque su quella solidaristica insita nella prevenzione, nel secondo caso il bilanciamento tra l’istanza personalistica e le ragioni della prevenzione deve pur sempre rispettare il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, nel senso che il criterio di imputazione che ne risulta, per quanto lontano dall’agente reale, dovrà valere erga omnes. Un terzo ordine di rilievi riguarda il ruolo della dottrina che, nella costante rielaborazione dei diversi criteri di imputazione, può individuare nuovi e più avanzati punti di equilibrio tra l’istanza di prevenzione e quella di personalità dell’illecito, in modo da favorire la progressiva valorizzazione del principio di colpevolezza. In questa prospettiva, il lavoro di affinamento concettuale torna a interessare la teoria del reato e le sue categorie: non solo quelle raggruppate nell’ambito della categoria dogmatica della colpevolezza, ma anche quelle che essa presuppone. Come ogni valore assiologico, infatti, anche la colpevolezza permea tutto l’edificio del reato (43). In questa sede, un siffatto programma non può che essere ri(42) Osserva che le scienze c.d. ausiliarie, cui si è rivolto il diritto penale per cercare di risolvere la questione della libertà di volere, hanno finito per incrementare il disorientamento del penalista, W. HASSEMER, Principio di colpevolezza e struttura del reato, in Arch. pen., 1982, p. 54. (43) Sottolinea efficacemente che l’art. 27, comma 1, Cost. svolge un ruolo particolarmente significativo anche per identificare e circoscrivere l’ambito relativo alla ‘‘selezione’’ dei comportamenti meritevoli di essere assoggettati ad una sanzione limitativa della libertà


— 135 — proposto per rapidi cenni e in modo sommario. Nell’ambito dei delitti dolosi, ad esempio, il principio di colpevolezza esige il rispetto della reale dimensione della volontà colpevole, escludendo che, nell’ipotesi di dolo eventuale, essa possa ravvisarsi nel mero stato di dubbio circa la verificazione dell’evento; per altro verso, la personalità dell’illecito dipende anche dall’adeguata valorizzazione delle componenti soggettive del dolo, quali l’intensità e i moventi. Nel contesto del reato colposo, per evitare che il giudizio di colpevolezza si risolva in una fictio, la ricostruzione della c.d. misura soggettiva dovrà tenere conto del c.d. quadro di vita dell’agente reale, ossia delle capacità preventive che questi ha mostrato di possedere nello svolgimento di attività pericolose analoghe a quella che ha realizzato negligentemente (44). Quanto all’error iuris, la dottrina ha già indicato alcuni settori di intervento. Viene qui in rilievo, ancora una volta, l’efficacia liberatoria che deve assumere il dubbio sull’illiceità del comportamento, specie se avvalorato dalla contraddittorietà al riguardo della giurisprudenza o degli organi di informazione. Ma non solo: parte della dottrina si orienta a riconoscere rilevanza scusante alla convinzione dell’agente che il fatto commesso sia un mero illecito amministrativo e non un reato (45). E ancora: per evitare presunzioni di conoscenza della legge penale che non giovano alla prevenzione, l’evitabilità dell’error iuris andrebbe ricostruita muovendo, non già dalle astratte capacità informative dell’agente modello, bensì da una previa rassegna degli ostacoli che il cittadino incontra giornalmente nel procurarsi la conoscenza della legge penale, in modo da valutare se quanto ha fatto per conoscere la legge è sufficiente a scusarne l’ignoranza, tenendo conto della complessità, a volte notevole, insita nell’adempimento di un siffatto dovere (si pensi, in particolare, alla difficile conoscibilità delle leggi penali integrate da norme extrapenali spesso mutevoli). Per quel che concerne l’imputabilità, il principio di colpevolezza impone il superamento delle presunzioni di capacità di autodeterminazione oggi smentire dalla scienza. Il riferimento non è solamente agli stati emotivi e passionali, che andrebbero trattati alla stregua di qualunque altra alterazione dei processi formativi della volontà (46), ma anche alla disciplina dell’actio libera in causa che impone di essere riletta alla luce del personale, G.A. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in questa Rivista, 1996, p. 22 s. (44) Amplius F. GIUNTA, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in questa Rivista, 1999, p. 109 s. (45) Cfr. L. STORTONI, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: significato e prospettive, in questa Rivista, 1988, p. 1343, nota 97. V. anche F. GIUNTA, in Codice penale, a cura di T. Padovani, 2a ed., Milano, 2000, sub art. 5, p. 46. (46) In tal senso si orientano le recenti proposte per la riforma del codice penale italiano. V.: il ‘‘Progetto Pagliaro’’, il cui testo è pubblicato nel volume Per un nuovo codice penale. Schema di disegno di legge-delega al Governo, a cura di M. Pisani, Padova, 1993; il disegno di legge n. 2038 del 1995 (primo firmatario il sen. Roland Riz) che può leggersi in


— 136 — principio di soggettività. In particolare, affinché possa dirsi soddisfatto il principio di colpevolezza, non basta per l’imputazione a titolo di dolo che il soggetto sia posto in condizioni di incapacità allo scopo di commettere un reato doloso, se poi l’evento progettato si verifica per violazione di una regola cautelare (47). Un’ultima sintetica considerazione riguarda il rapporto tra crisi della colpevolezza e tecniche alternative di controllo sociale. In effetti, come non è pensabile oggi un diritto penale senza colpevolezza, così la crisi della colpevolezza non è ancora sufficiente a decretare la scomparsa della pena, quale costante della storia e categoria fondamentale del pensiero. Altro è l’aspirazione razionale alla ricerca di strumenti sanzionatori alternativi al carcere, altro è la rinuncia alla pena come strumento di tutela dei beni giuridici. Le utopie più nobili, a volte, possono diventare le più pericolose. FAUSTO GIUNTA Ordinario di Diritto penale dell’economia nell’Università di Firenze

questa Rivista, 1995, p. 927 s.; il ‘‘Progetto Grosso’’, consultabile in Documenti giustizia, 2000, p. 596 s. (47) Sul punto v. M. ROMANO, in M. ROMANO, G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, 2a ed., Milano, 1996, p. 27 s.


GIUOCO CORROTTO, GIUOCO CORRUTTORE: DUE PROBLEMI PENALI DELL’HOMO LUDENS

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’art. 1, l. n. 401 del 1989: in particolare, sulla punibilità dell’atleta che si ‘‘dopa’’. — 3. Incollàti al ‘‘videopoker’’, inchiodàti alla sbarra degli imputati?

1. Premessa. — Tra la copiosa materia della corruzione, individuale e politica e ‘‘sistemica’’, o, in generale, fra il corrompimento dei modi (o di taluni modi) del vivere sociale e l’ascesa alla ribalta di fenomeni di ammorbamento e degenerazione del mondo sportivo, vuoi a base corruttiva, vuoi ad effetti desocializzanti, un occhio appena ‘‘sociologicamente deviato’’ può forse scorgere una qualche connessione. Né questa connessione deve stupire più di tanto. Se si riportano alla mente le riflessioni del grande storico Federico CHABOD, nel senso che il gioco è il processo attraverso il quale l’uomo crea ‘‘un mondo fittizio e pur vivo, convenzionale eppure non meno concreto del cosiddetto mondo reale’’ (1); se poi si condivide, di massima, l’idea che — per la ‘‘effettiva compenetrazione di gioco e cultura’’ (2) — vi siano tratti di corrispondenza fra mondo ‘‘serio’’ e mondo ‘‘giocoso’’, non pare particolarmente difficile capire come tanto si parli, nell’attuale temperie (soprattutto massmediatica) italiana, di frode sportiva, doping e giuoco d’azzardo (che in questa sede sarà considerato nella particolare forma del c.d. ‘‘videopoker’’). Nei confronti dei fenomeni del primo tipo — quelli a base corruttiva — il legislatore è appositamente intervenuto in tempi recenti con la l. 13 dicembre 1989, n. 401 (3); nei confronti dei fenomeni del secondo tipo — quelli ad effetti in senso lato desocializzanti —, identificati tradizionalmente nel gioco d’azzardo, la tutela è approntata dal codice penale e da talune disposizioni del T.U.L.P.S. (art. 110, R.D. n. 773 del 1931). (1) F. CHABOD, J. Huizinga, in Riv. storica it., 1948, 342 ss. (2) J. HUIZINGA, Homo ludens, trad. it., Torino, Einaudi, 1973 (Leida 1938), p. 8; il riferimento è da intendere ovviamente al gioco come manifestazione antropologica e non come fenomeno sportivo deteriore ‘‘di massa’’ (sul punto ad es. G. DORFLES, Nuovi riti, nuovi miti, Torino, 1965, p. 65 s. dell’ediz. 1979). (3) Cfr. partic. A. LAMBERTI, La frode sportiva, Napoli, 1990; S. BELTRANI, La disciplina penale dei giochi e delle scommesse, Milano, 1999, p. 300 ss.; sui rapporti con la fattispecie di truffa v., per tutti, F. ALBEGGIANI, voce Sport (dir. pen.), in EdD, XLIII, 1990, 555 ss.


— 138 — In termini giuridico-penali non vi sono, all’apparenza, assonanze particolarmente significative dal punto di vista sistematico fra i due ambiti poc’anzi accennati: volendo utilizzare il vocabolario del concorso di norme penali, si potrebbe dire ch’essi hanno in comune un elemento di per sé penalmente irrilevante, il ‘‘giuoco’’, per l’appunto, e sono eterogenee per tutto il resto. Tuttavia, come si avrà modo di evidenziare, entrambe sembrano esibire una parentela dogmatica con il capitolo di teoria generale del reato rappresentato dal concorso di persone nel reato, e specificamente con la particolare categoria — tradizionalmente ricondotta a detto istituto — dei reati c.d. a concorso necessario. Non che la qualificazione dogmatica in termini di esecuzione monosoggettiva o plurisoggettiva necessaria sia esplicitamente intesa come senz’altro risolutiva delle questioni pratiche di cui subito si dirà; essa però resta, per così dire, in sottofondo, quasi a copertura inespressa di soluzioni interpretative altrimenti difficilmente giustificabili. In effetti, la c.d. frode sportiva (art. 1, l. n. 481 del 1989) appare — almeno in una delle modalità di realizzazione — come un fatto di corruzione, nel quale vi sono almeno due soggetti, il corrotto ed il corruttore: quanto all’altra modalità, prevista dalla seconda parte dell’art. 1 (l’aver compiuto ‘‘altri atti fraudolenti’’), ne è stata pure affermata, in alcune pronunce giurisprudenziali cui si farà riferimento, la natura almeno ‘‘naturalisticamente’’ plurisoggettiva (4): e tale qualificazione è servita alla giurisprudenza per escludere la responsabilità penale dell’atleta per fatti di doping ‘‘autogeno’’. Il ‘‘videopoker’’ è (o meglio: può essere) in concreto un gioco d’azzardo, nel quale pure sembrano riscontrabili almeno due soggetti, giocatori entrambi o giocatore ed organizzatore: la sua caratteristica è rappresentata dalla mediazione di una macchina. È proprio sotto questo specifico e ristretto angolo visuale che saranno presi in considerazione, in questa sede, due problemi di applicazione pratica delle norme incriminatrici poc’anzi accennate: il primo riguarda la rilevanza penale o meno, ai sensi della seconda parte dell’art. 1, l. n. 401 del 1989, del fatto dell’atleta che assuma sua sponte sostanze ‘‘dopanti’’; il secondo la responsabilità, rispettivamente a titolo di ‘‘organizzazione’’ e ‘‘partecipazione’’ a gioco d’azzardo, del soggetto che installa e/o gestisce e di colui che gioca ‘‘con’’ l’apparecchio del ‘‘videopoker’’. 2. L’art. 1, l. n. 401 del 1989: in particolare, sulla punibilità dell’atleta che si ‘‘dopa’’. — L’art. 1, l. n. 401 del 1989, come è noto, punisce (4) Si intendono, per ‘‘naturalisticamente plurisoggettivi’’, secondo una nota prospettazione dottrinale (G.D. PISAPIA, Unità e pluralità di soggetti attivi nella struttura del reato, in Scritti giuridici in onore di Vincenzo Manzini, Padova, 1954, pp. 375 ss., 380 ss.), quei reati nei quali il fatto è realizzato, nella realtà naturale, da più persone, ma è normativamente considerato come ‘‘monosoggettivo’’.


— 139 — al primo comma ‘‘chiunque offre o promette denaro o altra utilità o vantaggio a taluno dei partecipanti ad una competizione sportiva... al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, ovvero compie altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo’’. Il secondo comma stabilisce che ‘‘le stesse pene si applicano al partecipante alla competizione che accetta il denaro o altra utilità o vantaggio, o ne accoglie la promessa’’. Il primo comma, dunque, prevede due modalità alternative di condotta (5): da un lato, un fatto di istigazione alla corruzione; dall’altro, un comportamento fraudolento non meglio specificato. Il problema che in tempi recenti si è posto in giurisprudenza (6) riguarda proprio l’applicabilità di quest’ultima modalità di condotta al fatto dell’atleta che assuma di sua spontanea volontà sostanze stupefacenti o anabolizzanti in vista dello scopo prefigurato dalla norma. Sia la giurisprudenza di merito sia quella di legittimità — nelle ancora sparute sentenze ad oggi disponibili — paiono orientate prevalentemente nel senso dell’esclusione del reato; gli argomenti addotti a sostegno della soluzione negativa sono di tipo (a) lessicale e (b) sistematico. a) Con il primo tipo d’argomenti si asserisce che il soggetto designato con il termine ‘‘chiunque’’ non potrebbe essere il partecipante alla competizione. Infatti, un unico soggetto reggerebbe grammaticalmente tutti i verbi descrittivi delle fattispecie criminose alternativamente previste nel primo comma: orbene, poiché questo soggetto, nella prima modalità di condotta (quella corruttiva), è un extraneus (cioè soggetto diverso dal partecipante), anche gli ‘‘altri’’ atti fraudolenti — si dice — non potrebbero essere posti in essere che dallo stesso soggetto e cioè da persona diversa dal partecipante. Inoltre, si aggiunge, quegli atti potrebbero avere come destinatario per l’appunto il partecipante alla competizione; ma, in tal caso, quest’ultimo sarebbe vittima e non correo. Su queste basi, si ritiene che ‘‘appare chiara la volontà del legislatore, che molto opportunamente ha distinto due momenti nella fattispecie incriminatrice: la dazione di denaro al partecipante (da questi accettata) che comporta la responsabilità sia dell’estraneo che del partecipante e l’atto fraudolento che comporta sola responsabilità dello extraneus’’ (7). (5) Secondo il modulo delle c.d. norme a più fattispecie: la disposizione può essere violata alternativamente con l’una o l’altra condotta, ma anche se si realizzano più condotte il reato resta unico: cfr. per tutti M. ROMANO, Commentario sistematico del Codice penale, I, Milano, 1995, sub Pre-Art. 71, nr. marg. 8. (6) G.I.P. Trib. Roma, 27 gennaio 1992, Carnevale, in Riv. dir. sport, 1992, 123 ss. con note di V. LENOCI e G. VIDIRI; G.I.P. Pret. Roma, 27 gennaio 1993, Omini, inedita; Pret. Trento (Sez. dist. Tione di TN), 14 maggio 1993, Alberi e a., in Giur. merito, 1994, 700 e in Riv. dir. sport, 1993, 755 ss. con nota di U. IZZO, 757; Cass. VI, 25 gennaio 1996, Omini, MCP 1997, n. 204.787. (7) G.I.P. Trib. Roma, 27 gennaio 1992, cit.


— 140 — In prospettiva non dissimile si è ritenuto (8) che gli atti innominati di frode ‘‘devono essere identificati alla stregua degli atti espressamente indicati nella proposizione principale, vale a dire nell’offerta o promessa di denaro... Le attività espressamente menzionate sono dunque connotate da due caratteristiche che per indefettibili esigenze di omogeneità devono connotare anche le attività innominate’’: in questa prospettiva, si spiega, le attività fraudolente sarebbero, per un verso, ‘‘attività proiettate all’esterno delle persone che le hanno deliberate e tali da investire direttamente altri soggetti’’; per altro verso, attività ‘‘in qualche modo sinallagmatiche dato che collegano la distorsione, che il soggetto esterno persegue, dell’esito della gara al denaro o all’altra utilità’’. b) Il secondo tipo d’argomenti intende correre in sostegno dell’avvertita precarietà della soluzione letterale-sintattica poc’anzi riassunta. Infatti, ‘‘per la difficoltà di interpretare il lunghissimo periodo nel quale si articola la norma in esame’’ — così la Cassazione — s’impone il ricorso alla ratio legis, la quale dimostrerebbe che ‘‘l’ambito di applicazione della legge in esame non si estende ai fenomeni autogeni di doping che trovano adeguata sanzione negli ordinamenti sportivi’’: tutte le norme della l. n. 401 del 1989 sarebbero volte, in questa prospettiva, ‘‘ad evitare l’irruzione nel mondo dello sport delle attività di gioco e di scommesse clandestine’’. In proposito, è considerato probante anche un argomento a contrario: ‘‘qualsiasi illecito sportivo, dallo spintone al calciatore in corsa alla spinta del gregario al campione ciclista in difficoltà, siccome oggettivamente volti a provocare un esito della gara diverso da quello cui avrebbe dato luogo una leale competizione, dovrebbero rientrare nella previsione della normativa in esame: il che, all’evidenza, non è‘’. Le posizioni assunte dalla giurisprudenza appaiono senz’altro la spia d’un grave e non trascurabile disagio. In effetti, la norma appaia un fatto corruttivo — che vede necessariamente, per così dire, l’incontro di (almeno) due soggetti, l’uno partecipante alla competizione (9), l’altro ‘‘esterno’’ — ad un fatto tipizzato mediante l’esclusivo riferimento alla sua fraudolenza, oltre che con la menzione dello scopo in vista del quale è compiuto (e che rappresenta il contenuto del dolo specifico). Siffatta giustapposizione non ha il pregio della perspicuità; né la genericità della condotta descritta nella seconda parte del primo comma sembra soddisfare in pieno i canoni della buona tecnica legislativa. Ma, ciò premesso, l’interpretazione giurisprudenziale poc’anzi esposta suscita irresistibili perplessità. L’argomento letterale si risolve, per un verso, in evidenti fallacie logi(8) Cass. VI 25 gennaio 1996, cit. (9) Precisamente, l’atleta impegnato nella gara: sul punto Cfr. T. PADOVANI, Commento all’art. 1, L. 13 dicembre 1989, n. 401, in Legisl. pen., 1990, 94; A. MEYER, Sport in diritto penale, in Dig. disc. pen., Torino, 1997, 582.


— 141 — che e, per alto verso, nella costruzione giurisprudenziale di una fattispecie non più riconoscibile in quella che emerge dal testo di legge. Vi è innanzitutto una tautologia, perché si finisce col sostenere che il partecipante alla competizione non può essere soggetto attivo degli ‘‘altri atti fraudolenti’’, mentre può esserlo del fatto corruttivo, perché... il legisitore ha distinto i due ‘‘momenti’’ nella fattispecie: che li abbia distinti è però solo la premessa del problema ermeneutico. Tale argomento appare inficiato, d’altronde e più radicalmente, da una fallacia logica per irrilevanza della conclusione: che il legislatore abbia distinto due fattispecie non può comportare l’inferenza che il soggetto attivo dell’una non possa esserlo anche dell’altra. D’altra parte, le stesse basi letterali dell’interpretazione propinata in quei termini si rivelano precarie: ben si potrebbe osservare che il legislatore non ha ripetuto, semplicemente per mere ragioni sintattiche, il ‘‘chiunque’’ che regge la prima parte del comma 1; il che non toglie che sia punito anche ‘‘chiunque’’ compie altri atti fraudolenti, diversi dall’offerta o promessa di denaro: e quegli ben può essere anche un atleta (10). Per altro verso, se si ritiene, con la Corte di cassazione, che gli atti innominati debbano essere connotati, rispetto alla tipologia corruttiva, da un’omogeneità a base sinallagmatica, sono in realtà inseriti nella fattispecierequisiti prelevati dagli alambicchi della camera di consiglio, perché nulla di tutto ciò pare desumibile dalla formulazione testuale della norma incriminatrice; sulla base di siffatta interpretazione, in effetti, i Giudici convertono un reato ad esecuzione palesemente monosoggettiva in una fattispecie implicitamente plurisoggettiva. L’esito di tale manipolazione: o l’annullamento della modalità alternativa di condotta nel requisito onnicomprensivo del fatto corruttivo, oppure, all’opposto, la costruzione dal nulla di una fattispecie preterlegale che serve... per non essere applicata. Non convincono, peraltro, neppure gli argomenti sistematici addotti per legittimare l’esclusione dell’atleta dal novero dei possibili autori degli ‘‘altri atti fraudolenti’’. Il riferimento all’intendimento politico-criminale perseguito dalla legge (arginare il fenomeno delle scommesse clandestine) è infatti sfuggente nel contenuto, non probante nella portata sistematica che ad esso si attribuisce, non appagante per talune implicazioni pratiche che ne potrebbero derivare. Per un verso, come pure ha osservato un Giudice di merito (11), nella ricerca della ratio legis è necessario muovere innanzitutto (prima ancora che dallo scopo dell’intera l. n. 401 del 1989) dall’oggetto specifico della tutela prevista dall’art. 1, il quale dev’essere identificato nella ‘‘correttezza del risultato delle competizioni sportive, risultato questo che deve (10) Cfr. anche A. LAMBERTI, op. cit., 175, 179, 211. (11) G.I.P. Pret. Roma, 27 gennaio 1993, Omini, cit.


— 142 — essere salvaguardato contro qualsiasi condotta che in qualche modo lo possa artificiosamente o fraudolentemente pregiudicare’’: forse un caso — come osserva con arguzia lo stesso Giudice — in cui il legislatore, nella norma in discorso, plus dixit quam voluit. D’altronde si può ricordare, in generale, come già agli inizi del secolo Ernst BELING chiarisse che il riferimento al bene giuridico tutelato non vale, come tale, a rappresentare un criterio differenziale tra le fattispecie incriminatrici (12). Inoltre, nulla esclude che — anche ammesso che lo scopo politico-criminale della legge fosse esclusivamente quello riassunto dalla Corte di cassazione — escludere dal novero dei soggetti attivi l’atleta che per suo conto assuma sostanze vietate con il fine previsto dalla fattispecie, solo perché tale condotta non s’inquadra in quell’ottica politico-criminale, appare conclusione arbitraria, al limite, anch’essa, della petizione di principio: che ‘‘tutte’’ le norme della legge siano orientate nella stessa prospettiva è proprio ciò che dev’essere dimostrato dopo aver identificato la struttura delle incriminazioni. Sotto l’ultimo profilo, basti osservare come non sia del tutto impensabile che il fenomeno di doping ‘‘autogeno’’ possa inserirsi in un contesto di scommesse in nero, indipendentemente dall’esistenza di un fatto corruttivo: si pensi al caso d’un atleta che si dopa per migliorare la sua prestazione, perché la sua famiglia è stata (supponiamo: più o meno velatamente) minacciata di vendette, per il caso d’una sua sconfitta, da soggetti che hanno scommesso clandestinamente su di lui. In tal caso le ragioni della punizione — la cui sussistenza potrebbe essere in questo caso affermata proprio in riferimento allo scopo della legge, se non sussistano in concreto gli estremi dello stato di necessità — sembrano poter essere escluse, al contrario, per difetto di uno degli elementi costitutivi della fattispecie, e cioè del dolo specifico (13). Se le precedenti osservazioni non sono del tutto destituite di fondamento, i tentativi giurisprudenziali di ricondurre il concetto di ‘‘altri atti fraudolenti’’ ad un rapporto sinallagmatico fra soggetti analogo, per omogeneità di contenuto offensivo, al rapporto corruttivo espressamente tipizzato, e — per questa via — di escludere la rilevanza penale di atti fraudolenti posti in essere dallo stesso atleta partecipante alla competizione, appaiono girare a vuoto. La conclusione pare dunque imposta: della commissione di ‘‘altri atti fraudolenti’’ può ben essere responsabile anche l’a(12) Dall’assoluta identità del bene giuridico tutelato (Normenschutzobjekt) non è deducibile alcunché in ordine all’unicità del fatto tipico; il bene giuridico, infatti, non potrebbe ricoprire alcun ruolo nella delimitazione rispettiva delle fattispecie, potendo essere tutelato da più fattispecie distinte ed autonome: cfr. E. BELING, Die Lehre vom Verbrechen, Tübingen, 1906, 273 s. (13) In questo caso, infatti, il conseguimento d’un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione non è oggetto di uno scopo in via ‘‘immediata’’ ma, piuttosto, rappresenta un ‘‘mezzo’’ per il conseguimento di un fine, per così dire, di autotutela.


— 143 — tleta. Non vi sono ragioni dogmatiche, del resto, in virtù delle quali si debba ritenere impossibile la coesistenza, nell’ambito di una stessa fattispecie, di modalità esecutive di tipo monosoggettivo e, in senso lato (14), plurisoggettivo: si pensi ad esempio, per limitarsi a norme del codice penale, agli artt. 243 e 244 (15). Il problema principale, pertanto, si identifica nello stabilire se l’assunzione di sostanze droganti o ‘‘dopanti’’ da parte dell’atleta impegnato in una competizione integri o meno il requisito di ‘‘fraudolenza’’ che fonda — sia pure in termini scarsamente tassativi — la tipicità della modalità alternativa di condotta prevista dall’art. 1, l. n. 481 del 1990. In questa prospettiva, l’unica obiezione a tale riconducibilità è rappresentata dall’idea che, ove si acceda a tale impostazione, ogni violazione delle regole del gioco sarebbe idonea ad integrare la fattispecie penale. Tale osservazione non pare convincente. La natura fraudolenta dell’atto, si è infatti precisato (16), ‘‘può dipendere sia da un artificio (incidendo sulla realtà, come ad es. attraverso l’alterazione degli attrezzi sportivi, o degli strumenti di misurazione della prova, o mediante il doping degli atleti o degli animali impiegati), sia da un raggiro (ad es. con false indicazioni fornite all’arbitro da un segnalinee)’’. Orbene, sulla scorta di queste osservazioni si può rilevare come non ogni violazione delle regole del gioco sia idonea ad integrare il requisito della fraudolenza (17): scaltrezza non è sinonimo di fraudolenza, se non si concretizza nell’alterazione della realtà con artifizi o raggiri. D’altra parte, non si potrebbe escludere a priori un’alterazione della realtà operata senza violazione, in senso proprio, delle regole del gioco. Si può pensare al caso della manipolazione, nell’interesse del primo classificato, di apparecchi di misurazione delle autovetture dopo una gara automobilistica al fine di far risultare irregolare la vettura classificata seconda (affinché non prenda i punti spettanti): la gara, di per sé, si è svolta correttamente. Ed analogo sembra essere il caso del doping: nulla esclude che la competizione si sia svolta secondo le regole del gioco; ciò che rileva è però (14) Cioè ‘‘naturalisticamente’’ plurisoggettivo, e dunque indipendentemente dall’effettivo riconoscimento della natura anche ‘‘normativamente’’ plurisoggettiva. (15) Fattispecie che puniscono, rispettivamente, il tenere intelligenze con lo straniero a scopo di guerra contro lo Stato italiano (fatto almeno naturalisticamente plurisoggettivo) o il compiere altri fatti diretti allo steso scopo, ed il fare arruolamenti o compiere ‘‘altri atti ostili’’ contro uno stato estero. (16) T. PADOVANI, Commento, cit., 94. (17) Sul problema della relazione tra regole del gioco e liceità/illiceità penale cfr. ad es., sia pure nel ben diverso ambito della violenza sportiva, G.A. DE FRANCESCO, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in questa Rivista, 1983, partic. 598 ss. In giurisprudenza cfr., di recente, Cass. V 2 dicembre 1999, Rolla, in Corr. giur. 6/2000, 737 e in Foro it., 2000, II, 321 (con nota C. RUSSO, Lesioni sportive, tra illecito sportivo e responsabilità penale, ibid.); Cass. IV 12 novembre 1999, Bernava, ibid., 740.


— 144 — proprio la realizzazione di artifici ‘‘al fine di’’ raggiungere un risultato diverso da quello conseguente ‘‘corretto’’ e ‘‘leale’’ svolgimento della competizione. Una conferma di siffatta visuale, secondo la quale non ogni violazione delle regole si risolve in una frode, pare risultare dalla stessa lettera della legge, ove i predicati di correttezza e lealtà siano intesi non già come un’endiadi, ma come espressione l’uno dell’effettiva conformità alle regole e l’altro di un più generale requisito di lealtà rispetto ai ‘‘valori agonistici’’ anche a prescindere dall’osservanza delle stesse (18). Non v’è dubbio che, in concreto, possano porsi problemi di accertamento e differenziazione tra effettiva immutazione del reale conseguente ad una frode ed atto meramente scorretto. Si tratta però d’un problema interpretativo che, per un verso, non concerne affatto — diversamente da quanto ha ritenuto la Cassazione — la struttura del reato e, per altro verso, sollecita eventualmente una migliore formulazione della fattispecie in termini di tassatività (19). Sulla base di quanto osservato, non pare dubbio che il doping autogeno integri di per sé una condotta fraudolenta, rilevante alla stregua della seconda parte dell’art. 1. Va da sé, peraltro, che de iure condito — e proprio per i problemi di tassatività e di ‘‘distanza’’ dall’offesa posti dalla fattispecie — si deve esigere una rigorosa prova dell’esistenza di tutti gli elementi tipici ed in particolare del dolo specifico (20). Sotto quest’ultimo profilo, invero, per ‘‘risultato’’ della competizione si deve intendere l’esito finale complessivo della gara come scontro di valori contrapposti (atletici, meccanici ecc.), e non già il solo compimento della prestazione atletica personale, pur nell’ambito della gara. Un esempio varrà a chiarire il concetto: un atleta assume di propria iniziativa sostanze ‘‘dopanti’’ non per alterare il risultato della competizione, ma per garantire alla squadra la propria partecipazione nonostante i dolori che l’affliggono. Ora, non pare che in questa ipotesi siano integrati gli estremi del dolo specifico di fattispecie. Conclusivamente, non si può in verità negare che la formulazione della norma incriminatrice, pur con le precisazioni poc’anzi articolate, lasci fortemente perplessi. In via interpretativa si potrebbe forse ipotizzare la ‘‘inserzione’’ d’un requisito di ‘‘idoneità’’ della condotta al conseguimento dello scopo (di alterazione del risultato della competizione), analogamente a quanto parte della dottrina ritiene necessario a proposito dei delitti di attentato: con conseguente esclusione della rilevanza penale di condotte del tutto inidonee rispetto a quello scopo. Tale soluzione, tuttavia, andrebbe incontro a difficoltà pratiche probabilmente ingestibili: la (18) Cfr. anche T. PADOVANI, op. cit., 95. (19) E di offensività: cfr. sul punto i rilievi di A. LAMBERTI, op. cit., 211-212. (20) Cfr. diffusamente A. LAMBERTI, op. cit., 223 ss.


— 145 — valutazione in concreto dell’idoneità appare, per un verso, particolarmente difficoltosa e, per altro verso, fonte di possibili disparità di trattamento. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, si può considerare come le maggiori chances di sottrarsi alla responsabilità arriderebbero ai membri d’una squadra, il cui contributo contestuale può più agevolmente ‘‘disperdersi’’ nella prestazione collettiva, diversamente da quanto accade nelle competizioni incardinate sulla prestazione del singolo, o di una squadra ma con contributi successivi (es.: una staffetta). Né risolverebbe ogni inconveniente la ulteriore concretizzazione del giudizio sulla effettiva decisività del contributo in relazione alle circostanze della gara (es.: il calciatore ‘‘dopato’’ ha segnato un goal), dacché si verrebbe a subordinare l’applicazione della fattispecie incriminatrice ad eventi del tutto casuali. 2. Incollàti al ‘‘videopoker’’, inchiodàti alla sbarra degli imputati? — Il secondo problema oggetto delle presenti osservazioni è rappresentato, come s’è detto, dall’ipotesi di responsabilità penale rispettivamente a titolo di ‘‘esercizio’’ o ‘‘partecipazione’’ a gioco d’azzardo (artt. 718, 720 c.p.) di colui che installa il (o colui che gioca al) ‘‘videopoker’’ ove l’apparecchio sia qualificabile, ai sensi dell’art. 110 T.U.L.P.S. come approntato ‘‘per il gioco d’azzardo’’ (21). Quest’ultima norma vieta l’‘‘installazione’’ e l’‘‘uso’’, nei luoghi pubblici, aperti al pubblico e nei circoli ed associazioni di qualunque specie, di apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici ‘‘da gioco d’azzardo’’; in relazione a tale divieto stabilisce (comma 4) che ‘‘si considerano apparecchi... per il gioco d’azzardo quelli che hanno insita la scommessa o che consentono vincite puramente aleatorie di un qualsiasi premio in denaro o in natura che concretizzi lucro’’; per contro, sono apparecchi ‘‘da trattenimento e da gioco di abilità quelli in cui l’elemento di abilità e trattenimento è preponderante rispetto all’elemento aleatorio. Tali apparecchi possono consentire un premio.. che può consistere: a) nella ripetizione della parte fino a un massimo di dieci volte; b) in gettoni, in misura non superiore a dieci...; c) nella vincita, direttamente o mediante buoni erogati dagli apparecchi, di una consumazione o di un oggetto, non convertibile in denaro, di modesto valore economico e tale da escludere finalità di lucro (comma 5). L’ultimo comma stabilisce infine che ‘‘oltre le sanzioni previste dal codice penale per il gioco d’azzardo, i contravventori sono puniti con l’ammenda da lire un milione a lire dieci milioni’’. È inoltre disposta la confisca degli apparecchi e congegni, che devono essere distrutti. Orbene, è fuori discussione che l’art. 110 T.U.L.P.S. punisca (soltanto) il fatto dell’organizzatore del gioco d’azzardo a mezzo degli appa(21) In generale, per i necessari riferimenti bibliografici, cfr. G. LA GRECA, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale — Codice penale. Parte speciale, VI, Torino, 1996.


— 146 — recchi meccanici, ad es. nella sua qualità di gestore del locale, del circolo, dell’associazione ecc., e non quella del giocatore (22). Qualche perplessità potrebbe insorgere in relazione alla condotta di ‘‘uso’’ degli apparecchi; ma una considerazione sistematica delle prescrizioni dettate dalla norma in esame non lascia dubbi di sorta: punito è l’uso da parte del ‘‘gestore’’ dell’apparecchio per gioco d’azzardo. Del resto, tale interpretazione è pacifica in giurisprudenza, tanto che si precisa che l’uso degli apparecchi delinea un’ipotesi di reato permanente che comporta la protrazione nel tempo dell’impiego cui ‘‘sono destinati’’ (23), e che ‘‘non è necessaria la sorpresa in flagranza dei partecipanti al gioco od il collegamento dell’apparecchio stesso con la rete di alimentazione, essendo sufficiente il suo rinvenimento in uno dei luoghi previsti’’ (24). Assodato, pertanto, che il precetto dell’art. 110 T.U.L.P.S. si riferisce al soggetto responsabile dell’installazione e del mantenimento in uso dell’apparecchio considerato d’azzardo e non già al giocatore, se ne dovrebbe concludere, innanzitutto, che la clausola di rinvio alle sanzioni previste dal codice penale ‘‘per il gioco d’azzardo’’ non può che riferirsi logicamente — per evidenti limiti di corrispondenza contenutistica — alle corrispondenti norme del codice che incriminano il fatto di chi ‘‘tiene’’ o ‘‘agevola’’ il gioco d’azzardo (artt. 718, 719 c.p). In secondo luogo, e conseguentemente, che la fattispecie di reato prevista dall’art. 110 T.U.L.P.S. è ad esecuzione monosoggettiva, dacché non postula in astratto la necessità di una pluralità di soggetti (i giocatori) quale elemento costitutivo. Per contro, quella dell’art. 718 è plurisoggettiva, dacché postula l’effettiva realizzazione del gioco d’azzardo ad opera di ‘‘partecipanti’’. In questa prospettiva, le fattispecie sono in rapporto di eterogeneità, e possono ben essere applicate entrambe, ove ne sussistano i relativi presupposti (25): non è forse un caso che l’ultimo comma dell’art. 110 T.U.L.P.S. dichiara applicabile l’ipotesi contravvenzionale in esso prevista ‘‘oltre’’, e non ‘‘salve’’ le sanzioni del codice penale (come sarebbe stato comprensibile in presenza di un rapporto di specialità). Detto questo, peraltro, si è data per scontata la premessa del ragionamento, e cioè che in tutte le ipotesi di apparecchi automatici menzionate dall’art. 110 T.U.L.P.S. ci si trovi di fronte ad un ‘‘gioco d’azzardo’’. Tale premessa non pare, però, così scontata come sembra ritenere comunemente la giurisprudenza. (22) Cfr. per tutti L. MAZZA, voce Giochi d’azzardo e proibiti nel diritto penale, in Dig. disc. pen., V, Torino, 1991, 420. (23) Cass. I, 15 novembre 1982, Scalvini, MCP 1983, rv. 157304. (24) Cass. III, 11 novembre 1986, Cacciato, MCP 1987, rv. 174789; Cass. III, 1 luglio 1996, Consonni, in Cass. pen., 1998, n. 227. (25) Cfr. Cass. III, 29 maggio 1998, Procida, in Cass. pen., 1999, m. 1774; Cass. III, 2 aprile 1984, Casinelli, in Cass. pen., 1985, m. 796; l’applicazione del concorso formale è stata ritenuta legittima da Corte Cost. n. 97 del 1983.


— 147 — Preliminarmente, è necessario richiamare le norme del codice penale in materia: l’art. 718 punisce chiunque ‘‘tiene un giuoco d’azzardo o lo agevola’’; l’art. 720 punisce chiunque ‘‘è colto mentre prende parte al giuoco d’azzardo’’. L’elemento normativo ‘‘giuoco d’azzardo’’ comune alle due norme, è definito dal successivo art. 721, per il quale ‘‘agli effetti delle disposizioni precedenti... sono giuochi d’azzardo quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria’’ (26). L’elemento dell’aleatorietà, a sua volta, sembra ulteriormente identificabile mediante il ricorso ai commi quarto e quinto dell’art. 110 T.U.L.P.S., sopra riferiti. Sennonché, è necessario riflettere attentamente sulla struttura dell’elemento normativo così definito in modo alquanto composito. A ben vedere, infatti, le disposizioni del comma 5 dell’art. 110, se concorrono senz’altro a definire i limiti di liceità alla stregua della contravvenzione del T.U.L.P.S., non paiono invece tutte utilizzabili per definire il concetto di aleatorietà rilevante anche per l’applicazione della norma penale. E valga il vero. L’art. 721 c.p., i commi quarto e quinto (prima parte) dell’art. 110 T.U.L.P.S. forniscono infatti un concetto di gioco d’azzardo nel quale l’aleatorietà attiene alla ‘‘struttura’’ del gioco: o in senso assoluto, perché il gioco ha insita la scommessa (art. 110, comma 4), o comunque consente vincite o perdite puramente (del tutto o quasi) aleatorie (art. 721 c.p., art. 110, comma 4 T.U.L.P.S.) o infine, in ogni caso, vincite aleatorie di un qualsiasi premio che concretizzi lucro (ancora art. 110, comma 4); oppure, per così dire, in senso relazionale, come nel caso specifico degli apparecchi, laddove cioè l’elemento aleatorio deve comunque essere ‘‘preponderante’’ rispetto all’elemento di abilità o trattenimento (arg. a contrario dall’art. 110, comma 5, prima parte). Diversamente, la seconda parte dell’art. 110, comma 5 non si riferisce affatto alla struttura del gioco ma alla ‘‘misura’’ della vincita: la norma ha carattere tipicamente modale, nel senso che segna i limiti dell’azzardo tollerato (perché misto ad abilità). Si presuppone che il giuoco non sia ‘‘puramente aleatorio’’, ma almeno in parte di abilità, ché altrimenti sarebbe vietato in assoluto, e non solo una volta superati i limiti definiti: ad es., il limite di ripetizione della partita fino al massimo di dieci volte (27). È comunque evidente che, ad es. nel caso della ripetizione ol(26)

Sul punto cfr. per tutti L. MAZZA, op. cit., 412 s.; S. BELTRANI, op. cit., 12 ss.,

21. (27) Così, implicitamente, anche Trib. Genova, sez. III Penale, 21 aprile 1997, n. 398, Pres. Noli, Est Petri, in http://www.penale.it (24 febbraio 2000), a proposito di un videopoker che attribuiva L. 100 per ogni punto totalizzato, si azionava con L. 500: ‘‘il gioco in esame, certamente da annoverare tra i giochi aleatori, presenta... una natura prevalentemente di intrattenimento’’ (la contestazione riguardava peraltro, nel caso di specie, l’esercizio abusivo dell’organizzazione di scommesse clandestine ai sensi dell’art. 4, l. n. 401 del


— 148 — tre le dieci volte, non si può comunque ritenere che tale requisito di illiceità incida sulla ‘‘struttura’’ del gioco, che diventerebbe ‘‘puramente’’ aleatoria (nel senso assoluto o relazionale di cui s’è detto). La conclusione è che il concetto di aleatorietà rilevante, per misura della vincita, alla stregua della seconda parte dell’art. 110, comma 5 T.U.L.P.S. è diverso da quello di aleatorietà (della struttura del gioco) rilevante alla stregua dell’art. 721 c.p. (e delle precedenti proposizioni dello stesso articolo 110 T.U.L.P.S.). D’altra parte, non sembra che si possa sostenere che il premio consistente nella ripetizione delle partite oltre il massimo di dieci volte (art. 110, comma 5, lett. a), o in gettoni rigiocabili, in misura superiore a dieci (art. 110, comma 5, lett. b), concretizzi a favore del giocatore ‘‘lucro’’ rilevante non solo alla stregua dell’art. 110 T.U.L.P.S. ma anche ex artt. 718, 720, c.p. Il concetto di lucro sembra da intendersi, infatti, nell’accezione di ‘‘accrescimento’’ di carattere strettamente patrimoniale, e cioè di utilità economicamente valutabile (28): la ripetizione delle partite o l’acquisizione di altri gettoni non pare però realizzare tale accrescimento, pur potendo accrescere il tasso di alienazione sociale del giocante: ma di questo non è detto che debbano occuparsi le norme del codice. Ponendosi nell’angolo visuale del giocatore, del resto, quando questi è con1989). I Giudici hanno escluso, in quel caso, l’esistenza del fine di lucro; sul rapporto tra tenuità della posta e fine di lucro cfr. ad es. Cass. III, 6 maggio 1998, De Maio, in Cass. pen., 1999, m. 1210. Diversamente, cfr. Pret. Gela 18 gennaio 1999, Millauro, in Riv. Pen., 2000, 257 ss.: questo Giudice, muovendo dalla condivisibile premessa che il limite massimo della ripetibilità delle vincite previste dalla lettera a) del comma V del cit. art. 110,... ha ad oggetto esclusivamente i giochi cd. ‘‘di abilità e trattenimenti’’ e non anche i giochi d’azzardo, sembra dedurne che, anche ai fini dell’applicazione delle norme del codice penale, il c.d. videopoker sia in ogni caso un gioco nel quale l’alea è praticamente assoluta poiché le combinazioni sono rimesse al caso e cioè al codice di funzionamento del congegno, ignoto al giocatore (ed in questa prospettiva diviene superfluo l’accertamento in ordine al numero di ripetizioni delle partite previsto a titolo di premio dalla macchina). Sennonché, tale conclusione non pare generizzabile. In effetti, è necessario di volta in volta verificare il meccanismo di funzionamento del gioco (di fatto: la scheda madre, contenente il software, ed eventualmente il programma-base): che il programma base sia ignoto al giocatore non significa che lo sia anche il meccanismo del gioco (ché anzi dev’essere comprensibile... appunto per poter giocare) né ch’esso sia, di per sé, rimesso al caso. Nella fattispecie decisa dal pretore di Gela, la possibilità di una singola giocata era limitata ad un numero non superiore a dieci play, ma era consentita una vincita in punti corrispondente ad una possibilità di ripetizione pressoché illimitata, ed i punti-ripetizione erano convertibili in denaro. Orbene, queste risultanze consentono, in effetti, di ritenere integrata la contravvenzione di cui all’art. 110 TULPS; solo la seconda di esse, però, può porre un probiema di sussistenza del lucro rilevante ai fini della contravvenzione dell’art. 718 c.p. (fermo restando che si deve poi stabilire se il meccanismo debba essere considerato realmente aleatorio). Per un cenno alla rilevanza della ‘‘struttura’’ del gioco, cfr. M.G. MAGLIO-F. GIANELLI. Questioni civili e penali in tema di gioco d’azzardo, in Giur. merito, 1992, 780. (28) Sul concetto cfr. per tutti M. GIARRUSSO, sub art. 721, in Codice penale (a cura di T. Padovani), Milano, 1997, 2600 s., al quale si rinvia per riferimenti di dottrina e giurisprudenza.


— 149 — sapevole che l’apparecchio non gli consente un’utilità economica ma solo la ripetizione delle partite o la possibilità di rigiocare i gettoni alle condizioni di cui alla lett. b) dell’art. 110, pare da escludere logicamente l’esistenza del fine di lucro rilevante ai sensi dell’art. 721 c.p. L’eterogeneità delle fattispecie pare infine confermata da un indizio sistematico. Le norme del codice (artt. 719, 720) prevedono quale aggravante il fatto che nel gioco siano impegnate poste rilevanti. Ciò significa che la sola misura della posta e della vincita o perdita conseguente sono — proprio per il loro valore soltanto circostanziale — elementi indipendenti ed autonomi rispetto alla struttura del gioco d’azzardo, presuppongono la previa qualifica dello stesso come ‘‘d’azzardo’’ (per il fine di lucro e la struttura del gioco), ma non ne sono elementi costitutivi. Da quanto esposto sembra derivare che il superamento dei limiti di cui al detto art. 110, comma 5, integra sicuramente la contravvenzione sanzionata da quella norma, ma non la fattispecie penale. Tale conclusione comporta che il responsabile dell’installazione e dell’uso degli apparecchi che superino i limiti modali come sopra evidenziati non potrebbe rispondere ai sensi degli artt. 718, 719 c.p., salva la sua responsabilità per la contravvenzione del T.U.L.P.S (29). Il giocatore, dal canto suo, non risponderebbe di alcun reato, per i motivi già indicati. ALBERTO DI MARTINO Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa

(29) Contra, da ultimo, Cass. III, 12 luglio-7 ottobre 1999, n. 11436, B.S., in http://www.repubblica.it/cittadino.lex (12 marzo 2000); Cass. III, 1 giugno 1999, n. 9596, idid.


IL POTERE DEL PUBBLICO MINISTERO DI RICERCA DELLE NOTIZIE DI REATO TRA PRINCIPI COSTITUZIONALI E LEGGE PROCESSUALE

SOMMARIO: 1. L’ambito costituzionale della questione. — 2. La ricerca della notizia di reato come attività di polizia giudiziaria. — 3. La disposizione del codice di rito sul potere del pubblico ministero di prendere notizia dei reati. — 4. I poteri di investigazione del procuratore nazionale antimafia. — 5. Alcune indicazioni normative contrarie all’ammissibilità del potere del pubblico ministero di ricerca della notizia di reato. — 6. Dal divieto di uso della denuncia anonima alla distinzione tra notizie di reato qualificate e non qualificate. — 7. Conclusioni.

1. Due recenti decisioni della Corte costituzionale su conflitti di attribuzione, in ambedue i casi proposti dalla provincia autonoma di Bolzano, offrono spunti di riflessione sui c.d. poteri di preindagine del pubblico ministero, che, come è noto, hanno suscitato l’interesse della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XIII legislatura, il cui progetto conteneva una nuova formulazione dell’art. 132 Cost., secondo cui per l’attuazione dell’obbligo di esercizio dell’azione penale il pubblico ministero avvia le indagini ‘‘quando ha notizia di un reato’’. La notizia di reato gioca un ruolo centrale nelle argomentazioni della prima sentenza, a cui qui è riferimento, la n. 511 del 13-20 novembre 2000 (1), che annulla solo parzialmente alcuni atti compiuti dal sostituto procuratore della Repubblica presso la pretura circondariale di Bolzano, ed in particolare una lettera, con cui si invitavano i presidi delle scuole elementari e medie della provincia autonoma a fornire notizie circa le lamentele, (1) La sentenza indicata è stata preceduta da altra pronuncia — n. 309 dell’11-20 luglio 2000, con la quale la Corte ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso dalla procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Bolzano, in persona del sostituto procuratore della Repubblica, nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, a seguito della mancata costituzione di quest’ultimo nel giudizio per conflitto di attribuzione con la provincia autonoma di Bolzano. La sentenza n. 309/2000 afferma che, nella configurazione attuale dei conflitti intersoggettivi, ‘‘per lo Stato è sempre e solo legittimato a intervenire il Presidente del Consiglio dei Ministri... anche quando... siano in discussione atti provenienti da organi dello Stato che, per la natura delle funzioni che sono chiamati ad esercitare, godono secondo la Costituzione di una posizione di assoluta autonomia e indipendenza dal Governo’’. Per un approfondimento della questione v. G. GEMMA, Intervento di organi giudiziari nei conflitti di attribuzione fra Stato e regioni relativi ad atti giurisdizionali, in Giur. cost., 2000, p. 3393 ss.


— 151 — le segnalazioni, le denunce o i suggerimenti pervenuti nei quattro anni precedenti in materia di trasporto scolastico, ed un decreto di esibizione, con cui si chiedeva copia autentica delle relazioni annuali relative all’attività dell’ufficio provinciale per il trasporto locale di persone, copia autentica degli atti relativi all’individuazione degli obiettivi annuali e delle relative verifiche, copia autentica di tutte le relazioni eventualmente predisposte, dal 1994 alla data del decreto di esibizione, cioè l’1 dicembre 1998. L’annullamento è parziale perché è limitato alla parte in cui gli atti si riferiscono al periodo successivo al 30 aprile 1998, data della morte di una bambina nel corso di un trasporto scolastico e per la quale morte quel sostituto procuratore svolgeva indagini preliminari nei confronti di tre funzionari della provincia autonoma, dopo che in procedimento separato era già intervenuta condanna per la conducente dell’automezzo ‘‘scuolabus’’, probabilmente per il reato di omicidio colposo. Il discrimine per l’annullamento degli atti è individuato nel tempus commissi delicti, e quindi nella notizia di reato che rappresenta l’ipotesi di riferimento delle indagini e la giustificazione delle richieste di notizie per il periodo precedente e coincidente con quello ivi descritto, rendendo evidente la loro finalizzazione all’acquisizione di elementi di conoscenza, potenzialmente rilevanti in base alla valutazione dell’organo di accusa, per l’accertamento del reato in contestazione. Per il periodo successivo alla data di commissione del reato per il quale si procede, la Corte costituzionale non rinviene ragioni che possano giustificare la richiesta di notizie ed informazioni, non individua ‘‘concrete esigenze di indagine’’ e pertanto conclude che quegli atti di investigazione tradiscono l’intento di sottoporre l’attività dell’amministrazione provinciale ad una ‘‘generalizzata e astratta revisione’’, risolvendosi così in una pretesa priva di giustificazione ‘‘nella posizione dell’autorità giudiziaria e nei poteri che le spettano’’. La motivazione della sentenza fa più volte uso del termine ‘‘giustificazione’’, per argomentare sulla funzione che la notizia di reato, nella concretezza dei riferimenti di fatto, svolge per dare fondamento anche d’ordine costituzionale all’attività del pubblico ministero, pure conformata da un noto e tanto discusso principio di obbligatorietà. In assenza di una notizia di reato, o meglio, con una notizia di reato dal contenuto temporale specificamente limitato, il pubblico ministero non può esercitare un’attività anche di mera raccolta di informazioni per periodi temporali successivi a quelli descritti in ipotesi, perché, così facendo, si attribuisce un potere che non gli spetta. La Corte riconosce che la mera richiesta di atti e notizie non è di per sé lesiva delle competenze costituzionali della ricorrente, allorché, dopo aver osservato che in parte gli atti rivelano un’indubbia finalizzazione alla raccolta di elementi di conoscenza potenzialmente rilevanti, aggiunge che ‘‘non si riesce a vedere in che cosa l’acquisizione di conoscenze possa ledere le attribuzioni della Provincia’’. Ma l’assenza di una definita notizia di reato fa di


— 152 — quella altrimenti innocua attività di raccolta di informazioni uno strumento di alterazione dell’ordine delle competenze, nella misura in cui resta estranea alla sfera di attribuzioni dell’autorità giudiziaria; essa costituisce un’indebita forma di ingerenza, un anomalo tentativo di controllo dell’attività dell’amministrazione provinciale in materia di trasporti di interesse provinciale nonché di istruzione elementare e secondaria, come definite dagli artt. 8, comma 1, n. 18), 9, comma 1, n. 2), e 16 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige approvato con il d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, e dalle relative norme di attuazione, le quali ultime dispongono, all’art. 4 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266, che ‘‘nelle materia di competenza propria... delle province autonome la legge non può attribuire agli organi statali funzioni amministrative, comprese quelle di vigilanza, di polizia amministrativa e di accertamento di violazioni amministrative...’’. Merita di essere sin d’ora evidenziato che la Corte sembra mettere in discussione non tanto le modalità di esercizio del potere di indagine, quanto l’esistenza stessa del potere in capo al pubblico ministero nei casi di mancanza di una notizia di reato. Nella motivazione della sentenza si richiama, secondo il metodo argomentativo dell’autocitazione (2), una precedente pronuncia di risoluzione di un conflitto intersoggettivo proposto dalla Regione Lombardia contro una nota della procura generale della Corte dei conti, volta ad ottenere l’elenco di tutti gli incarichi professionali, di qualsiasi genere, conferiti dagli organi regionali a persone fisiche e giuridiche in un determinato periodo temporale. In quel conflitto l’ente ricorrente lamentava che il procuratore generale, al quale non si contestava il potere di accertare eventuali responsabilità per danno erariale dei funzionari regionali, aveva fatto cattivo esercizio del potere, dal momento che la sua richiesta non si fondava su elementi di fatto concreti e specifici. La Corte, dopo aver premesso che nella promozione dei giudizi di responsabilità il procuratore generale esercita una funzione obiettiva e neutrale a tutela di un interesse ‘‘direttamente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali ed indifferenziati’’, ha rilevato che la legge non gli conferisce ‘‘l’amplissimo potere di svolgere indagini a propria discrezionalità’’, basandosi su mere supposizioni o ipotesi. L’obiettività, l’imparzialità e la neutralità del potere ne imbrigliano il fondamento di discrezionalità, proprio perché essa si dirige ‘‘ad un interesse giurisdizionale, cioè alla acquisizione di elementi necessari ad un’eventuale pronuncia del giudice’’. Nel caso appena riassunto, benché non venga detto espressamente, la Corte sembra inquadrare il conflitto nella categoria di quelli da menomazione, dato che il ricorrente non denuncia (2) Sulla funzione spiccatamente persuasiva della tecnica argomentativa dell’autocitazione v. A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Milano, 1996, p. 160 ss.


— 153 — un’usurpazione di competenza propria, ma il modo con cui il potere di accertamento è esercitato, e la stessa sentenza muove da considerazioni generali sulla configurazione normativa del potere riconosciuto al procuratore generale della Corte dei conti. Per quanto invece attiene all’attività investigativa del pubblico ministero in assenza di una notizia di reato, i rilievi critici della Corte investono radicalmente il fondamento giustificativo del potere nel particolare collegamento soggettivo che lo qualifica. Ed infatti non si revoca in dubbio il potere di indagine del pubblico ministero, tanto che gli atti oggetto del conflitto subiscono un annullamento soltanto parziale: per quest’aspetto potrebbe dirsi che la Corte colga il dato di rilievo nella modalità di esercizio, che non si attiene ai limiti temporali della notizia criminis. Se però si approfondisce l’esame, si scorge che non è tanto una modalità di esercizio ad avere rilievo, quanto la carenza radicale di giustificazione costituzionale del potere di investigazione, che, volgendosi alla ricerca della notizia di un reato, si trasforma in potere di polizia giudiziaria. La pronuncia si inserisce pertanto nel solco di un consolidato orientamento, per il quale i vizi deducibili nei conflitti da atto giurisdizionale sono ‘‘soltanto il difetto assoluto di giurisdizione, o l’esercizio di una competenza non spettante in radice al potere coinvolto’’ (3). Se, da un lato, non si contesta che il pubblico ministero ha un potere di indagine finalizzato all’accertamento del reato per il quale procede, da altro lato, si nega che, quali che siano le modalità di esercizio, possa rivendicare la titolarità di un potere di polizia. La considerazione di una sentenza di poco successiva, la n. 97 del 4 aprile 2001, fornisce a tal proposito un contributo di chiarezza. Anche questa pronuncia risolve un conflitto di attribuzione intersoggettivo, che era sorto per iniziativa della provincia autonoma di Bolzano, a causa di due verbali di ispezione redatti dal NAS dei carabinieri di Trento in occasione di controlli effettuati presso gli ospedali di Brunico e di Bolzano, finalizzati anche alla verifica delle effettive presenze del personale medico ed infermieristico. La sentenza nega fondatezza al ricorso, affermando che l’attività di polizia giudiziaria, consistente ‘‘nel prendere notizia dei reati e nell’assicurare le relative fonti di prova’’ in stretto rapporto di subordinazione funzionale con l’autorità giudiziaria, è affidata in via esclusiva allo Stato. A quest’ultimo spettano le funzioni di salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, ‘‘e cioè quelle concernenti le misure preventive e repressive dirette al manteni(3) P. VERONESI, I poteri davanti alla Corte - ‘‘Cattivo uso’’ del potere e sindacato costituzionale, Milano, 1999. L’analisi della giurisprudenza costituzionale consente di precisare che il rifiuto della Corte di valutare il modo in cui la giurisdizione si è esplicata conduce all’equiparazione del sindacato sul modo di esercizio del potere al sindacato sul merito dei provvedimenti, che, però, non rende improponibile ogni forma di conflitto da interferenza. Sono infatti ammessi i controlli sulle modalità di esercizio del potere che non si traducano in un giudizio di merito.


— 154 — mento dell’ordine pubblico..., nelle quali va fatta rientrare anche l’attività tradizionalmente ricompresa nel concetto di polizia giudiziaria’’. Gli appartenenti all’Arma dei carabinieri assumono, a seconda dei gradi, le qualifiche di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in vista dell’esercizio dei poteri regolati dal codice di rito, svolgono poi compiti di mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, in forza di un complesso di leggi e regolamenti; nello specifico settore sanitario, in forza del decreto del 23 gennaio 1996 del Ministero della sanità di concerto con il Ministero della difesa, i carabinieri, « posti alle dipendenze funzionali del Ministero della sanità, esercitano, anche nella loro qualità di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ‘‘le funzioni di controllo e di vigilanza igienico-sanitaria, con interventi operativi a tutela dell’interesse nazionale, nelle materie di competenza dello Stato’’ ». Dal complesso normativo si ricava, a giudizio della Corte costituzionale, che l’iniziativa dei Carabinieri si colloca nell’ambito dei loro compiti istituzionali, dati dalla prevenzione ed eventuale repressione degli illeciti in materia sanitaria, sicché, pur esplicandosi ‘‘in una sfera che rappresenta il proprium anche delle funzioni amministrative e di controllo demandate ad enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita’’ non è indicativa di ‘‘un’illegittima esorbitanza a danno delle attribuzioni spettanti alla provincia...’’, in assenza peraltro di elementi obiettivamente idonei a dimostrare l’intento invasivo. Da una lettura combinata di queste decisioni della Corte si ricava che dalla premessa dell’appartenenza allo Stato della funzione di polizia giudiziaria consegue immediatamente la legittimazione dei Carabinieri all’esercizio delle attività di accertamento, ma non anche la titolarità della stessa funzione in capo al pubblico ministero. Il potere di ricerca della notizia di reato, tipico della polizia giudiziaria, sembra presentare caratteri di diversità strutturale dal potere di indagine, che trova fondamento nella previsione costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e della titolarità della stessa in capo al pubblico ministero. Nonostante la regola della disponibilità diretta della polizia giudiziaria ad opera dell’autorità giudiziaria, l’attività di ricerca di una notizia di reato e di assicurazione conseguente delle fonti di prova, una volta che sia esercitata dal pubblico ministero, sembra perdere i connotati del potere di polizia giudiziaria per atteggiarsi a mera attività amministrativa, inevitabilmente destinata a sovrapporsi a quella collegata alle attribuzioni costituzionali della provincia autonoma di Bolzano. Una prima conclusione potrebbe allora essere che la posizione di vertice funzionale della polizia giudiziaria non legittima all’esercizio dei poteri di quest’ultima, almeno le volte in cui si scontri con settori di competenza costituzionalmente garantiti. 2. La motivazione della sentenza n. 97 del 4 aprile 2001 ha un passaggio argomentativo fondamentale nell’affermazione dell’inerenza del-


— 155 — l’attività di polizia giudiziaria alle competenze che attengono alla pubblica sicurezza. Le due nozioni esprimono una sostanziale diversità concettuale, che è solo affermata e non certo esclusa dall’inerenza dell’una all’altra. Tra le più soluzioni nel tempo proposte, si è fatto da ultimo strada il criterio dell’antitesi ‘‘ricerca dei reati-ricerca di un reato’’, per il quale spetta alla polizia di sicurezza la generica attività di ispezione ed investigazione per la ricerca di eventuali reati, di cui però non si ha notizia, ed alla polizia giudiziaria l’attività che si diparte dalla notizia sulla commissione di un reato, a prescindere dalla corrispondenza al vero dell’accadimento storico, e che si qualifica per poteri di coercizione diretta sulla libertà degli individui (4). Proprio sul versante della ricerca delle notizie di reato il criterio distintivo appena richiamato mostra come le due funzioni tendano a confondersi: se, infatti, non vi è dubbio che la ricerca delle prove e degli autori di un reato, l’assicurazione delle fonti di prova e la raccolta di tutto quanto possa servire all’applicazione della legge penale, secondo la formula normativa dell’art. 55 c.p.p., qualifica le attività di polizia giudiziaria, che possono in tale ambito avvalersi dei poteri coercitivi del sequestro del corpo di reato e delle cose pertinenti al reato, dell’arresto in flagranza e del fermo dell’indiziato di delitto, l’attività logicamente prodromica dell’apprensione della notizia circa la commissione, vera o supposta, di un reato è sospinta verso la generica attività di osservazione, che non può avere una diretta finalizzazione al momento processuale. In questo tratto funzionale si apprezza l’omogeneità dell’assetto organico della polizia tout court, che trova causa nella ragione di carattere squisitamente pratico della necessità di mantenere un collegamento informativo tra le attività dirette alla ricerca delle notizie di reato e le attività volte alla prevenzione della commissione dei reati ed, ancora più in generale, con le attività dirette alla prevenzione della realizzazione degli illeciti (5). L’attività informativa costituisce il comune denominatore di tutte le funzioni di polizia, perché l’attività di repressione dei reati, che qualifica la polizia giudiziaria, non può che trarre giovamento dall’attività informativa svolta a fini preventivi, così come l’attività di prevenzione si arricchisce e si rafforza per i contributi informativi provenienti dall’impegno giudiziario-repressivo. In questo continuo circuito informativo l’emersione della notizia di reato rappresenta, di regola, il risultato delle attività di prevenzione, che si compongono anche delle attività di ricerca della notizia, e non segna il passaggio ad una fase, che postuli la diversità organica dei soggetti di polizia ad essa preposti. L’individuazione degli organi di polizia giudiziaria negli apparati della polizia di sicurezza ed, in alcuni casi, della polizia am(4) P. TONINI, Polizia giudiziaria e Magistratura - Profili storici e sistematici, Milano, 1979, p. 261. (5) C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. I, Torino, p. 15.


— 156 — ministrativa esprime appunto l’esigenza di evitare fratture tra le due attività, quella di prevenzione e quella di repressione, che si alimentano di un rapporto osmotico (6). L’oscillazione tra diversità funzionale ed identità organica, costruita sul piano della legislazione processuale, deve necessariamente compararsi alle previsioni costituzionali, che della polizia giudiziaria fanno espressa menzione. Il riferimento principale è all’art. 109, che fissa il principio della disponibilità diretta della polizia giudiziaria da parte dell’Autorità giudiziaria, formula non priva di equivocità per la povertà del dato letterale. Opportunamente pertanto l’impegno interpretativo si è avvalso della considerazione delle ragioni del dibattito che animò i lavori dell’Assemblea costituente tra i sostenitori della dipendenza solamente funzionale e quelli della dipendenza anche gerarchica dall’autorità giudiziaria. Si è così osservato che la disponibilità esclusiva, voluta da quanti tendevano ad impedire qualsiasi interferenza dell’Esecutivo nell’attività giudiziaria, avrebbe accordato ai singoli uffici giudiziari il potere di impostare una propria politica repressiva, ricercando i reati da perseguire secondo criteri selettivi ampiamente discrezionali; la giustapposizione del rapporto funzionale con l’autorità giudiziaria a quello gerarchico con le autorità di Governo, allora propugnata con esplicita avversione al progetto di istituzione di un corpo speciale ed autonomo di polizia giudiziaria alle esclusive dipendenze dell’autorità giudiziaria, e che è stata così consegnata alla formula normativa della disponibilità diretta, pone sull’Esecutivo la responsabilità della repressione penale, che ha nel potere di ricerca della notizia di reato un elemento di principale importanza (7). Se alla disponibilità diretta si fosse sostituito il riferimento alla disponibilità esclusiva, la magistratura inquirente avrebbe avuto l’iniziativa sulle scelte repressive ed anche la conseguente responsabilità politica con il dovere democratico di rendere politicamente conto del suo operato. Ad una maggiore indipendenza funzionale avrebbe pertanto fatto seguito ‘‘una minore indipendenza effettiva’’ (8). Questa lettura, in qualche modo restrittiva, della disposizione costituzionale conduce ad affermare l’attinenza delle funzioni e degli organi di polizia giudiziaria all’ambito della polizia in generale, perché, se così non fosse, la polizia giudiziaria dovrebbe essere necessariamente collocata all’interno degli spazi di esplicazione funzionale dell’autorità giudiziaria, con inevitabile ed inaccettabile eliminazione del presupposto essenziale del rapporto di disponibilità diretta, che non può (6)

D. GROSSO, Polizia giudiziaria, II. Diritto processuale penale, in Enc. giur., 1989,

p. 3. (7) V. ZAGREBELSKY, Art. 109, in La magistratura, Commentario della Costituzione (fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso), tomo III, Bologna-Roma, 1992, pp. 39-41. (8) P. TONINI, op. cit., p. 296.


— 157 — non indicarsi nell’autonomia organica e funzionale (9). A meno di non revocare in dubbio l’appartenenza, nell’architettura costituzionale, del pubblico ministero all’ordine giudiziario (10), l’accentuazione dei tratti funzionali comuni alla polizia di sicurezza aumenta la distanza della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e diviene la premessa per escludere quest’ultimo dall’automatica partecipazione a tutti i poteri costitutivi il contenuto della funzione di polizia giudiziaria. Dal riconoscimento del ruolo di ‘‘capo della polizia giudiziaria’’, che pure è affermato dalla Relazione al progetto preliminare del codice oggi vigente, non si può inferire la valenza a tutto campo della regola ‘‘che le attribuzioni della polizia giudiziaria non sono superiori a quelle del magistrato, ma eguali, se non inferiori’’ (11). 3. La consequenzialità logica delle argomentazioni si arresta di fronte ad un dato normativo che è stato ignorato dalla sentenza n. 511/2000 della Corte costituzionale di risoluzione del conflitto per gli atti emessi dal sostituto procuratore di Bolzano. L’art. 330 c.p.p. contiene una disposizione di indubbio rilievo, equiparando il pubblico ministero alla polizia giudiziaria non solo nel ricevere le notizie di reato presentate o trasmesse nelle forme dallo stesso codice disciplinate, ma anche nel ‘‘prendere notizia dei reati di propria iniziativa’’. La natura di legge ordinaria non implica l’irrilevanza della disposizione ai fini della risoluzione del conflitto intersoggettivo, dal momento che occorre verificare, secondo l’orientamento della Corte nei conflitti per atto giudiziario, non solo la natura costituzionale dell’attribuzione che si assume lesa, ma anche la conformità degli atti censurati allo schema normativo, che ne consenta la riconducibilità entro i confini dell’esercizio costituzionalmente corretto del potere di volta in volta in rilievo. Ed infatti, in una precedente occasione e proprio in riferimento ad atti emessi nell’ambito di un procedimento penale da alcuni pretori e da un sostituto procuratore nell’esercizio di poteri istruttori, la Corte ne ha valutato la conformità allo schema normativo (9) C. TAORMINA, op. cit., p. 20. (10) Così invece M. TRAPANI, Dal pubblico ministero ‘‘giudice’’ al pubblico ministero organo amministrativo di giustizia?, in S. MAZZAMUTO (a cura di), Il Consiglio Superiore della Magistratura - Aspetti costituzionali e prospettive di riforma, Torino, 2001, p. 375 ss., secondo cui « le disposizioni costituzionali che parlano genericamente di ‘‘magistratura’’ o di ‘‘magistrati’’... non si riferiscono ai P.M., ma solo ai giudici » — p. 406 —; « è proprio da una lettura coordinata delle disposizioni costituzionali sgombra da preconcetti che... si deve evincere come, laddove la Costituzione parla di ‘‘magistrati’’, ...‘‘magistratura ordine autonomo ed indipendente’’, faccia in realtà riferimento soltanto alla magistratura giudicante. Per cui, seppure fino ad oggi la legislazione ordinaria ha totalmente parificato sotto il profilo delle garanzie giudici e P.M., ciò non è imposto da alcun vincolo costituzionale... » — p. 410 —. (11) G.P. VOENA, Via libera alle delazioni anonime?, in Giur. cost., 1975, p. 2153.


— 158 — processuale, per poi concludere per l’insussistenza in radice del potere degli organi giudiziari di compiere quegli atti (12). Dalla premessa della differenziazione costituzionale della funzione amministrativa da quella giurisdizionale, se ne fa discendere l’affermazione che l’art. 113, ult. comma, Cost., laddove rinvia alla legge la determinazione degli organi giudiziari chiamati ad annullare gli atti dell’amministrazione, preclude all’autorità giudiziaria ordinaria di annullare gli atti amministrativi in assenza di una previsione di legge e, più in generale, vieta la contrapposizione o sovrapposizione delle autorità giudiziarie alle autorità amministrative, mediante l’illegittima assunzione di poteri che spettano a queste ultime. Per quel che qui interessa, però, una norma di legge sembra prevedere espressamente il potere di ricerca della notizia di reato, che invece la Corte implicitamente ma inequivocamente disconosce. La norma ha subito suscitato forti perplessità per l’attribuzione al pubblico ministero del potere-dovere di ‘‘prendere notizia dei reati’’, attività tipicamente di polizia, e si è reagito alla forte contraddizione sistematica che ne consegue, precisando che la notizia di reato si compone di due elementi, la verificazione di un illecito penale e la percezione che di quest’accadimento ha un qualunque soggetto, sicché ‘‘il dovere di prendere notizia dei reati anche di propria iniziativa presuppone che l’illecito penale si sia realizzato, con la conseguente necessità di escludere che prima di tale momento possa sussistere una legittimazione... allo svolgimento della benché minima funzione’’ (13). Non tutte le opzioni interpretative sono animate dalla preoccupazione di evitare che la norma legittimi incursioni del pubblico ministero nei territori dell’investigazione, ove è piena l’autonomia funzionale degli organi di polizia come è dimostrato dalla costituzionalizzazione della sola disponibilità diretta della polizia giudiziaria. Di tanto si ha dimostrazione dalla tesi della piena assimilazione del pubblico ministero alla polizia giudiziaria nella fase precedente all’emersione di una notizia di reato (14), con riconoscimento al primo di ‘‘un ruolo attivo... nell’attività di acquisizione dell’informazione’’ (15). All’indomani del varo del codice di rito at(12) Sentenza n. 70 del 19 marzo 1985, che ha provveduto su un conflitto di attribuzioni promosso dal Presidente della Regione Toscana in relazione ad alcuni atti (mandati ed ordini di comparizione, comunicazioni giudiziarie e ‘‘inviti’’ alla comunicazione di provvedimenti adottati o adottandi), ritenuti dal ricorrente un’interferenza nelle attività amministrative. (13) C. TAORMINA, op. cit., p. 9. (14) M. NOBILI, La nuova procedura penale - Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, pp. 112-113, che ritiene superata la diatriba sorta sotto la vigenza del codice anteriore, circa la possibilità che il pubblico ministero ‘‘potesse svolgere una funzione analoga a quella del poliziotto, per l’appunto con riguardo alla notizia di reato’’: il nuovo codice opera un ‘‘forte spostamento istituzionale’’, che induce alla conclusione nel testo indicata. (15) BRESCIANI, La notizia di reato, in Indagini preliminari ed instaurazione del processo, in CHIAVARIO, MARZADURI (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto proces-


— 159 — tualmente vigente, si è espressamente preso atto dell’esplicito coinvolgimento del pubblico ministero nelle attività di ricerca della notizia di reato, rinunciando a riproporre ‘‘la ricostruzione di uno spazio di pertinenza esclusiva della polizia giudiziaria nella ricerca della notizia di reato e la conseguente configurazione di quest’ultima quale presupposto di legittimazione dell’intervento diretto del pubblico ministero...’’ (16). In senso contrario, il rifiuto di queste letture estensive assume come premessa la previsione della mera disponibilità diretta della polizia giudiziaria, in luogo di quella esclusiva, ritenendo che essa stia a significare l’esclusione costituzionale del pubblico ministero dall’iniziativa di ricerca dei reati: la disposizione dell’art. 330 c.p.p. dà unicamente fondamento ad azioni penali iniziate di ufficio quando il pubblico ministero, ‘‘in assenza di notitiae criminis qualificate, venga comunque a conoscenza della commissione di reati’’. Si è quindi negato che il pubblico ministero possa esplicare un’attività investigativa diretta all’acquisizione della notizia (17). Una pari cautela interpretativa traspare dalla tesi, secondo cui la disposizione dell’art. 330 c.p.p. ‘‘si limita a risolvere in senso positivo le dispute sorte sotto la vigenza del codice Rocco in ordine alla possibilità o meno per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale anche per i fatti conosciuti privatamente e per quelli notori’’ (18). Ed infatti, si argomenta, se la legittimazione del pubblico ministero deriva dal sistema normativo delle competenze del giudice, sì che nella fase delle indagini la legittimazione all’esercizio dei poteri inquirenti spetta al pubblico ministero costituito presso il giudice individuato mediante il ricorso ai criteri fissati dalle disposizioni codicistiche in tema di competenza per materia e territorio, è conseguente ritenere che, come l’individuazione del giudice naturale precostituito necessita dell’individuazione del fatto per cui si procede, la legittimazione del pubblico ministero alle indagini non può che poggiare su un fatto specifico, seppure genericamente descritto. In ragione di una più articolata riflessione si giunge a negare che la disposizione dell’art. 330 c.p.p. autorizzi il pubblico ministero ad intraprendere ricerche « al buio », ossia guidate da nulla più che un sospetto, ed a fare in esse uso degli strumenti tipici dell’indagine preliminare, pur registrando la relativizzazione della distinzione delle attività di prevenzione da quelle di repressione, alsuale penale, Torino, 1999, pp. 11-12, per il quale la disposizione dell’art. 330 c.p.p. rivela l’intento del legislatore delegato di ‘‘introdurre nell’ordinamento processuale... una norma che non... riducesse più il ruolo’’ del pubblico ministero « a quello di mero ‘‘collettore’’ di notizie, ma che, al contrario, lo coinvolgesse nelle attività preordinate alla loro acquisizione, così da rafforzare quell’ ‘‘esigenza di iniziativa’’ che fa capo al pubblico ministero in quanto ‘‘organo d’impulso del processo’’ ». (16) D. GROSSO, op. cit., p. 27. (17) V. ZAGREBELSKY, op. cit., p. 41, nota (4). (18) DI BITONTO, La modifica dell’imputazione nel dibattimento: problemi interpretativi e soluzioni possibili, in Giur. it., 1999, p. 2139, nota 21.


— 160 — meno sul versante della normativa sulla criminalità organizzata. Si riconosce che la scarsa tipicità delle fattispecie di reato associativo, prima fra tutte quella di cui all’art. 416-bis c.p., costringe sovente il pubblico ministero a tracciare preliminarmente egli stesso i confini del fatto penalmente rilevante, ricorrendo all’inchiesta preparatoria, momento necessariamente precedente all’indagine e funzionale appunto alla individuazione dei criteri di selezione dei fatti rilevanti all’interno di un complesso di condotte potenzialmente lecite (19). A tanto segue l’affermazione che nei procedimenti di criminalità organizzata la notizia di reato non è più il presupposto di fatto del procedimento e si configura come atto conclusivo dell’inchiesta preparatoria, che a sua volta prende inizio ‘‘da un sospetto orientato verso un ambiente criminoso’’; la norma dell’art. 330 c.p.p. è il segno di un equivoco, che trae origine dalla natura ibrida del pubblico ministero, che è sì parte ma ha aspirazioni di imparzialità: l’imparzialità dell’organo fa risaltare l’incoerenza della titolarità di funzioni investigative preliminari alla notizia di reato ed evidenzia la necessità che quest’organo dipenda non solo dal ‘‘mondo delle norme’’, come la previsione dell’obbligatorietà dell’azione assicura, ma anche dal ‘‘mondo dei fatti’’, che può concretizzarsi soltanto con l’assunzione del ruolo di recettore passivo della notizia di reato (20). Queste condivisibili riflessioni introducono al tema generale dei rapporti tra diritto penale sostanziale e processo ed alla loro evoluzione da posizioni di mera strumentalità del secondo rispetto al primo sino all’inversione dei ruoli tradizionali, con l’assoluta centralità del processo, ‘‘momento privilegiato e fase conclusiva del controllo sociale’’ (21). In quest’ambito concettuale un interrogativo di centrale importanza attiene alla tenuta del principio di legalità sul piano processuale e, più specificamente, alla funzione che la notizia di reato esplica all’origine del procedimento. Rilevata l’ambiguità dell’espressione ‘‘notizia di reato’’, che può indicare ora un fatto qualificato da una norma di incriminazione, ora la rappresentazione, documentale o orale, del fatto medesimo, si argomenta che il codice di rito individua il momento di obbligatorietà dell’azione alla chiusura delle indagini preliminari ed a monte non pone una situazione di dovere, ma di potere, che si esprime appunto nel potere dell’organo di accusa di prendere di propria iniziativa notizia dei reati, che si risolve in un ‘‘controllo preventivo generalizzato, attuato dal pubblico ministero sui più diversi aspetti disfunzionali... della vita economico-sociale’’ (22). Il potere di ricerca tende a sottrarsi allo spazio di efficacia della (19) R. ORLANDI, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata; una riedizione dell’inquisitio generalis?, in questa Rivista, 1996, p. 568 ss. (20) R. ORLANDI, op. cit., p. 577, nota (29), e p. 589. (21) T. PADOVANI, Il crepuscolo della legalità nel processo penale, in L’ind. pen., 1999, p. 529. (22) T. PADOVANI, op. cit., p. 533.


— 161 — legalità penale sostanziale, dal momento che svilisce necessariamente il ruolo della norma di incriminazione: se manca infatti il nucleo di fatto, che dovrà essere il contenuto del reato di cui si cerca la notizia, la norma di incriminazione si riduce ad un mero criterio di orientamento dell’attività investigativa, che per prima cosa dovrà selezionare il fatto, su cui poi svolgere le indagini. A tal punto si comprendono le ragioni di fondo del progetto di revisione costituzionale, a cui in esordio si è fatto cenno, e che rivelano l’intento di contenere la proiezione politica del pubblico ministero, impedendogli l’esplicazione di un’attività di investigazione assolutamente libera quanto a obiettivi e tempi di svolgimento. Nonostante l’espansione del ruolo del pubblico ministero abbia radici in fenomeni criminali di grande portata, terrorismo, criminalità organizzata e corruzione politica, e non sia il risultato di una preordinata usurpazione di poteri ad opera del settore più aggressivo di una corporazione, si avverte la pericolosità della trasformazione dei caratteri della magistratura, per l’accentuazione dell’immagine pubblica del magistrato penale, ed in particolare del magistrato inquirente, spesso protagonista sulla scena pubblica, in contrapposizione di forza con gli esponenti politici (23). La funzione giudiziaria, proprio perché la magistratura ha assunto il compito di tutelare la legalità dell’ordinamento non più indirettamente ed episodicamente con l’applicazione della norma al caso concreto ma con interventi sistematici di gestione unitaria delle attività processuali relative a identici fenomeni criminali, si è mano a mano identificata con il potere, nozione comprensiva sia dell’attività svolta istituzionalmente per determinati fini assegnati che del complesso di uffici e mezzi predisposto per l’espletamento delle funzioni, ponendo così ‘‘il problema dell’indirizzo politico complessivo da cui tale potere verrebbe autonomamente governato... e quindi dei condizionamenti conseguenti su ogni singolo procedimento in cui la funzione si estrinseca’’ (24). 4. Non è difficile notare che, ad assetto costituzionale invariato, la trasformazione del ruolo del pubblico ministero nella fase d’inizio del procedimento penale sia dipesa soprattutto dalle esigenze di contrasto della grande criminalità. L’impegno critico deve allora estendersi a più disposi(23) FERRARESE, La giustizia penale aggregata. Judicial intelligence e meccanismi narrativi, in Politica del diritto, n. 4, dicembre 1994, pp. 653-654. FIANDACA-PROTO PISANI, La giustizia ordinaria, in Il primo commento organico al progetto di riforma della Costituzione, in Diritto pubblico, 1997, p. 873, affermano che ‘‘Traspare... evidente la preoccupazione di contenere per il futuro quelle forme di iper-attivismo di cui i pubblici ministeri avrebbero dato manifestazione nelle maxi-indagini degli ultimi anni e che i bicameralisti appunto censurano come esorbitanti o troppo invasive’’. (24) F. MENCARELLI, Crisi della giustizia, notizia di reato e procedimento probatorio, in questa Rivista, 1997, p. 1242.


— 162 — zioni processuali, che sembrano completare la previsione circa il potere di ricerca della notizia di reato e che di quella disposizione fanno prevalere la lettura più ampia e forse meno attenta ai necessari riferimenti costituzionali. Acutamente si è detto che le norme codicistiche, che segnano la commistione funzionale tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, sono invero il riflesso di una legislazione processuale, che ha reso il primo partecipe delle attività di definizione della notizia di reato (25). Dalle norme che coinvolgono il pubblico ministero nel compimento, a fini investigativi, di atti illeciti simulati a quelle che, in materia di riciclaggio, attribuiscono solo ad ufficiali di polizia di sicurezza (capo della polizia, comandante generale dei carabinieri, comandante generale della guardia di finanza, direttore della DIA, che, come è noto, non sono ufficiali di polizia giudiziaria) il potere di programmare l’uso dello strumento investigativo dell’agente provocatore (26), a quelle ancora che danno alle autorità di polizia, ma non di polizia giudiziaria, il potere di richiesta dell’autorizzazione allo svolgimento delle intercettazioni preventive ed, infine, alla norma che consente anche al procuratore nazionale antimafia l’espletamento dei colloqui investigativi, prende corpo un sistema normativo di legittimazione dell’intervento in ambito pre-giudiziario del pubblico ministero. E se, da un lato, si apprezza l’esaltazione della funzione di impulso procedimentale, che consente al pubblico ministero di colmare eventuali lacune dell’impegno repressivo, dall’altro, si riconosce che il potere di ricerca delle notizie di reato implica la titolarità di scelte ampiamente discrezionali, che non si ritengono in contrasto col principio di obbligatorietà dell’azione, del quale anzi danno attuazione per la parte in cui esso esprime un’esigenza di uguaglianza di fronte alla legge penale, ma che compongono un potere eccessivo in capo ad un organo privo di responsabilità politica. Il rimedio, allora, si individua nel contenimento degli spazi di discrezionalità, che deve essere ancorata ai parametri tecnici degli schemi procedimentali ed orientata dalla norma penale sostanziale, della cui violazione si sospetta. Ulteriore corollario di questa mediazione tra opposte esigenze è l’estraneità alle attività di preindagine dei poteri autoritativi, che caratterizzano la fase successiva delle indagini. Il pubblico ministero può sì cercare notizia dei reati ma gli è precluso andare oltre una mera attività di ri(25) F. DE LEO, Il pubblico ministero tra completezza investigativa e ricerca dei reati, in Cass. pen., 1995, p. 871. (26) Nell’ambito di una riflessione sulle figure normative dell’agente provocatore e dell’infiltrato G. MELILLO, L’agire provocatorio fra ricerca della notizia di reato e ricerca della prova, in Arch. nuova proc. pen., 1999, p. 99, afferma che ‘‘nella realtà dell’esperienza investigativa, il p.m. si trova proiettato in una fase che sovente ha le caratteristiche non già della ricerca della prova in ordine a notizie di reato formate in tutti i loro elementi essenziali, ma in una fase preinvestigativa, tesa alla ricerca della notizia di reato... una fase in cui le esigenze preventive sono persino prevalenti rispetto a quelle tipiche dell’attività di polizia giudiziaria’’.


— 163 — chiesta di informazioni o di osservazione generica (27). La precisazione, che qui non si vuole contrastare per affermare l’opposto, non convince, perché non spiega con la necessaria puntualità la ragione per la quale all’omogeneità tra l’attività di ricerca e quella successiva di sviluppo della notizia di reato, ambedue affidate al pubblico ministero, non debba corrispondere un pari corredo di poteri di coazione, con l’unico temperamento della fondatezza o della gravità indiziaria per l’emissione di una particolare tipologia di atti. Ma, tralasciando questo rilievo critico, sembra che le disposizioni indicate a fondamento giustificativo del potere di ricerca della notizia di reato siano passibili di diverse interpretazioni. Va subito precisato che la partecipazione all’elaborazione della notizia di reato nei casi di operazioni di polizia con l’ausilio dell’agente provocatore e l’attribuzione del potere di autorizzare le intercettazioni preventive, se è indubbio che introducono il pubblico ministero negli spazi dell’investigazione di polizia, non hanno un ruolo decisivo nel rafforzare la tesi dell’ammissibilità di un’autonoma attività di ricerca, dato che vedono sempre il pubblico ministero in posizione di controllo e di vigilanza sulle operazioni di polizia, nella prospettiva di garantire il rispetto della legalità dell’azione. Le varie operazioni, però, restano pur sempre imputabili alla responsabilità investigativa degli organi di polizia, soprattutto di sicurezza, che mai cedono la scena al pubblico ministero, contenendolo nel ruolo di comprimario. Quel che potrebbe venire in rilievo è invece il potere di effettuare autonomamente i colloqui investigativi, potenziale veicolo di acquisizione di iniziativa della notizia di reato. Per convenire sulla plausibilità di una tale lettura, occorre previamente verificare che anche la disposizione generale sui poteri del procuratore nazionale antimafia contenga il riconoscimento di una funzione squisitamente di polizia, dovendo altrimenti concludersi che il colloquio investigativo, mero strumento, non può che essere dal pubblico ministero utilizzato per la realizzazione degli scopi tipici del potere normativamente ed in via generale disegnato. Se, in buona sostanza, al procuratore nazionale antimafia non si riconoscono poteri di investigazioni di polizia, il colloquio investigativo di cui può disporre non può essere piegato al perseguimento di obiettivi di polizia. La disposizione dell’art. 371-bis c.p.p., nel delineare poteri e compiti del procuratore nazionale antimafia, esordisce con un’espressione che li lega al procedimento penale: ed infatti l’esercizio delle funzioni è posto in diretta relazione ai procedimenti per i delitti indicati nell’art. 51 comma 3-bis c.p.p., sicché anche l’attività di acquisizione ed elaborazione di notizie, informazioni e dati non può che essere direttamente funzionale all’attività investigativa successiva alla ricezione di una notizia di reato. Si tratta allora di un’attività di intelligence su un patrimonio informativo che si compone di noti(27)

F. DE LEO, op. cit., p. 1448.


— 164 — zie di reato già portate alla cognizione degli uffici inquirenti e di dati che ad esse più o meno direttamente afferiscono; il procuratore nazionale antimafia non è un organo di ricerca della notitia criminis ed esercita una funzione di potenziamento delle capacità investigative degli organi dell’indagine su fatti criminosi previamente individuati. La disposizione dell’art. 18-bis della l. 26 luglio 1975, n. 354, che disciplina i colloqui investigativi, collega espressamente la facoltà ivi attribuita al procuratore nazionale antimafia alle sue funzioni di impulso e di coordinamento, che nell’articolazione dell’art. 371-bis c.p.p. sono dirette, senza alcuna mediazione, alle attività di indagine dei procuratori distrettuali e quindi a quelle attività che presuppongono una notizia di reato. Solo il ridimensionamento della portata precettiva del collegamento ad un procedimento penale, magari per intendere in quel riferimento nulla più che la definizione settoriale delle competenze del procuratore nazionale, potrebbe indurre a scorgere nella norma la commistione con i poteri di polizia. Ma il rinvio al procedimento non può che essere letto alla luce della sua nozione codicistica di fase che ha inizio dall’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro indicato dall’art. 335 c.p.p. 5. L’esame torna così alla disposizione dell’art. 330 c.p.p., con qualche ragione in più per diffidare della fondatezza della tesi dell’ammissibilità della preindagine del pubblico ministero. Se la premessa di questa tesi è che tra le due fasi investigative, quella che sta a monte della notizia di reato e quella diretta a trasformarla in accusa, vi è omogeneità di struttura, perché entrambe inidonee a produrre elementi probatori, non è fuor di luogo ritenere che anche per la prima debba valere la regola di economicità espressa per le indagini dall’art. 326 c.p.p., nella parte in cui pone l’obbligo per il pubblico ministero e la polizia giudiziaria di svolgere le ‘‘indagini necessarie’’ per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione, ed esclude implicitamente che il potere possa esplicarsi nel compimento di atti privi di strumentalità diretta con la sua finalità. Questa regola mal si adatta, però, alle preindagini, perché ha bisogno, per essere effettiva, di un fatto a cui commisurare gli sforzi di indagine e che possa far dire dove vi è esuberanza di attività. Essa traspone in ambito preprocessuale la regola, propria di un modello accusatorio, della delimitazione dell’oggetto della prova ai fatti che compongono l’imputazione ed agli altri fatti da cui dipende l’applicazione della sanzione penale, della misura di sicurezza o delle leggi processuali — art. 187 c.p.p. —. L’assenza di un fatto, sostituito dal sospetto investigativo, rende assai ardua la conformazione delle attività di preindagine a questa regola e conseguentemente impedisce lo svolgimento di forme di controllo. Ed infatti, se il disconoscimento della possibilità di esercizio dei poteri coattivi rende meno pressante l’esigenza dell’intervento giurisdizionale, non è parimenti di facile


— 165 — soluzione la questione delle forme e degli organi di controllo per un’attività, che, non muovendo da un fatto, può esplicarsi senza limiti di tempo e di oggetto, sottraendo comunque risorse umane ed organizzative alle attività di diretta strumentalità all’esercizio dell’azione penale e che, come tali, danno sicura attuazione alla regola dell’obbligatorietà dell’azione (28). Il principio di economicità dalle indagini è poi ribadito dalla disposizione dell’art. 346 c.p.p., che autorizza al compimento di atti di indagine, prima dell’intervento di una condizione di procedibilità che può utilmente sopravvenire, ma nei limiti della necessità di assicurare le fonti di prova. A fronte di questa regola non può non apparire irragionevole che il legislatore, così attento nell’evitare il compimento di atti di indagine inutili, non si premuri di orientare agli stessi fini l’attività di preindagine, limitandosi solo ad autorizzarla con la previsione del potere di prendere notizia dei reati. Assume sempre più consistenza il progetto interpretativo di leggere l’ambigua disposizione in termini diversi e contrari all’ammissibilità di preindagini sul mero sospetto investigativo. Il sospetto di reato è preso in considerazione dalla legislazione processuale, allorché si prescrive che il procuratore della Repubblica, ove vi sia un sospetto di reato per la morte di una persona, debba accertare la causa della morte e, se necessario, possa ordinare l’autopsia, da svolgersi nelle forme degli accertamenti tecnici irripetibili o in quelle dell’incidente probatorio — art. 116 disp. att. c.p.p. —. Se le preindagini fossero autorizzate in linea generale dalla previsione dell’art. 330 c.p.p., sarebbe stato più congruo farne richiamo invece che prevedere autonomamente, con una disposizione di attuazione, il compimento di atti tipici delle indagini, alcuni prescritti come obbligatori altri rimessi alla valutazione discrezionale del pubblico ministero che coltivi un sospetto di reato. Il fatto che la disposizione di attuazione prescinda dalla previsione dell’art. 330 c.p.p. sembra essere il sintomo della eccezionalità della preindagine, qui giustificata soltanto da un accadimento di particolare gravità, quale è la morte di una persona. 6. Il giudice di legittimità ha riconosciuto in più di un’occasione che il pubblico ministero può procedere alla ricerca della notizia di reato anche solo basandosi su una segnalazione anonima: nonostante la disposizione dell’art. 333 c.p.p. faccia divieto di fare alcun uso della denuncia anonima si invoca una giurisprudenza costante per ammettere che ‘‘le denunce anonime... possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico mi(28) La Corte costituzionale, con la sentenza n. 88/1991, ha affermato che la regola della completezza delle indagini per ogni notizia di reato dà attuazione al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione. Sul tema dei possibili controlli sulle attività di preindagine, ove queste siano ritenute ammissibili, sia consentito il rinvio a G. SANTALUCIA, Il controllo sulla discrezionalità investigativa degli uffici del pubblico ministero, in Questione giustizia, n. 5, 2000, p. 807.


— 166 — nistero o della polizia giudiziaria... onde verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili proprio al fine di delineare una notitia criminis’’. Le iniziative investigative tendono appunto alla ricerca della notizia di reato secondo il parametro dell’art. 330 c.p.p. e non danno luogo ad un’attività di indagine, che presuppone la notizia di reato, ma ad un’attività di natura meramente amministrativa, perché non strumentale all’esercizio dell’azione penale (29). Questa costruzione interpretativa nega l’omogeneità funzionale tra le due attività, che costituisce una premessa della tesi dottrinale del coinvolgimento del pubblico ministero nelle attività di polizia, e ciò nonostante giunge alla stessa conclusione, ritenendo compatibile la titolarità dell’azione penale con l’attribuzione di un potere aggiuntivo di natura meramente amministrativa. L’orientamento giurisprudenziale consegue alla distinzione tra le notizie di reato qualificate e quelle c.d. inqualificate, che comprendono qualsivoglia veicolo comunicativo del fatto di reato, e guarda alla delazione anonima appunto come ad un informale tramite di trasmissione di un sia pur sommario, generico ed indeterminato nucleo di fatto, che l’attività investigativa del pubblico ministero può trasformare in notitia criminis, idonea ad essere iscritta nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. Così facendo nega efficacia preclusiva alla disposizione dell’art. 333 c.p.p., che pone il divieto di uso della denuncia anonima, o per meglio dire contiene il divieto nell’ambito dell’attività giudiziaria e lo rende inefficace per la c.d. attività amministrativa preliminare. Si comprende allora la necessità di differenziare la natura delle attività che precedono e seguono l’emersione della notizia di reato, potendosi così ampliare i poteri investigativi del pubblico ministero senza affrontare la questione del ruolo esplicato dalla notizia di reato nell’evoluzione procedimentale. Questa distinzione di natura può anche coniugarsi con l’ormai datata definizione della notizia di reato in termini di elemento materiale, o materiale-formale, che i presupposti processuali, individuati nelle condizioni di esistenza del rapporto processuale, a loro volta presuppongono perché si abbia un legittimo procedimento penale (30): quel che invece la distinzione modifica è l’ambito della funzione di legittimazione dell’attività procedimentale, che va oltre l’affermazione secondo cui non solo la notizia può raggiungere il pubblico ministero ‘‘per immediata sua cognizione’’ o ‘‘anche per effetto della diffusione di opinioni o di affermazioni pubbliche in un determinato ambiente: voce pubblica e notorietà’’, sino ad ammettere che può essere consegnata anche ad un atto anonimo. Vigente il codice di rito del 1931, la Corte costituzionale aveva risolto la questione dell’utilizzabilità come denuncia della delazione anonima, rile(29) Cass., Sez. VI pen., sentenza n. 594 del 21 aprile-15 maggio 1998, ric. Sambrotta. (30) MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. IV (6a edizione aggiornata a cura del prof. Conso), Torino, 1972, p. p. 5.


— 167 — vando che il divieto di utilizzazione precludeva la considerazione della delazione alla stregua di qualsiasi altra forma di notitia criminis e pertanto le negava la capacità di provocare l’immediato inizio dell’azione penale, il che però non implicava la negazione di un potere discrezionale dell’autorità giudiziaria di disporre o non quelle indagini di polizia giudiziaria di volta in volta ritenute idonee alla scoperta della verità (31). L’eventuale esplicazione di investigazioni non costituiva un uso processuale, perché non dava luogo alla promozione dell’azione penale, che seguiva soltanto alla raccolta degli elementi di prova nuovi e validi. La riproposizione nel codice di rito del 1988 del divieto di uso, costruito specificamente, per quel che qui interessa, sulla denuncia anonima fa conservare attualità alla tesi che, muovendo dal divieto, giungeva alla conclusione della non configurabilità dell’anonimo come notizia di reato, che di converso postulerebbe la necessità che del dato informativo sia individuabile la fonte, integrando così non solo il fondamento dell’obbligo di azione ma anche la condizione legittimatrice dell’azione (32). Se il divieto ora non giovasse ad impedire lo svolgimento di attività di preindagine, il suo significato precettivo sarebbe ridotto a dispetto della locuzione ‘‘alcun uso’’, che all’evidenza indica l’ampiezza del contenuto preclusivo. Un’irragionevole inversione dell’ordine logico di lettura delle disposizioni codicistiche, che fa di quella dell’art. 330 c.p.p. una premessa generale e non, come dovrebbe invece essere, l’oggetto di un impegno ermeneutico diretto a fissare i confini concettuali dell’espressione, svilisce il divieto di uso della denuncia anonima a prescrizione di residuale importanza, capace di inibire soltanto un tratto delle attività in astratto esplicabili, e le nega, disconoscendone la puntualità e la chiarezza espressiva, la funzione di specificare i contenuti di disposizioni dalla costruzione letterale obiettivamente e particolarmente ambigua. Si può a questo punto valorizzare interpretativamente il fatto che il potere di prendere notizia dei reati di iniziativa è menzionato all’interno di una disposizione, che immediatamente dopo fa riferimento alla ricezione delle notizie, che siano presentate e trasmesse nelle forme tipiche della denuncia e del referto. L’attività di ricezione è dunque posta in relazione ad alcuni atti recettizi e dal contenuto predeterminato, che rappresentano i veicoli principali di comunicazione al pubblico ministero ed alla (31) Sentenza 19 dicembre 1974, n. 300, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 141 e 231 del codice di procedura penale, sollevata... in riferimento agli artt. 3, 24 e 109 della Costituzione. (32) Così GROSSO, op. cit., p. 12, che, ragionando sul divieto di uso processuale della delazione anonima, di cui all’art. 141 codice di rito previgente, anche in termini di non configurabilità come notizia di reato, osserva come esso serva a misurare ‘‘il grado di trasparenza di un ordinamento processuale penale’’, poiché postula la necessità dell’assunzione di responsabilità ‘‘da parte del soggetto da cui proviene la condizione di impulso di quell’accertamento’’.


— 168 — polizia giudiziaria delle notizie di reato: con questa elementare osservazione può ipotizzarsi che la prima parte della disposizione non serva ad autorizzare l’esplicazione di attività investigativa di ricerca della notizia, ma imponga, in termini di doverosità, l’impegno meramente intellettivo diretto ad individuare la notizia anche al di fuori degli atti tipici, costruiti come veicolo di loro trasmissione. Quest’interpretazione non riduce la norma a regola tanto ovvia quanto superflua, dato che non è raro che si possa avere notizia dei reati mediante i più vari atti, spettando all’iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria l’individuazione dei fatti, o anche dei frammenti di fatto, che possono costituire il dato di inizio delle indagini preliminari. Si consideri che sia all’uno che all’altra pervengono una pluralità eterogenea di atti, che solo in via eventuale possono contenere una notizia di reato, magari appena accennata o solo oggettivamente qualificata: essa, posta alla cognizione del pubblico ministero, va iscritta sul registro ex art. 335 c.p.p. e da quel momento origina formalmente il procedimento. Ed infatti le disposizioni di attuazione del c.p.p., all’art. 109, prescrivono che la segreteria della procura della Repubblica annota sugli atti, che possono contenere notizia di reato, la data e l’ora in cui sono pervenuti e li sottopone immediatamente al procuratore della Repubblica per l’iscrizione eventuale sul registro delle notizie di reato. Gli atti, a cui è riferimento, sono altri e diversi da quelli qualificati come denunce, querele o referti, ed ovviamente come informativa di p.g., che appunto perché tipicamente destinati alla trasmissione della notizia di reato determinano, salvi casi eccezionali (33), l’obbligo dell’iscrizione, adempimento che qui non può dirsi eventuale. A ciò si aggiunga che una disposizione dell’ordinamento giudiziario — art. 70, comma 5, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 — si cura di precisare che, ove un magistrato addetto ad una procura della Repubblica venga comunque a conoscenza, fuori dell’esercizio delle sue funzioni, di fatti che possano determinare l’inizio dell’azione penale o di indagini preliminari, può segnalarli per iscritto al titolare dell’ufficio. Quest’ultimo, se non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione e non intende procedere personalmente, designa per la trattazione uno o più magistrati dell’ufficio. Non può sfuggire che, pur con la puntuale attenzione riservata alla fase di trasmissione delle notizie apprese al di fuori dei canali formalizzati di comunicazione, non si considera l’eventualità di una conoscenza parziale, vaga e generica dei fatti appresi e si impone in ogni caso una definizione procedimentale della vicenda comunicativa. Se le preindagini fossero un’esternazione fisiologica del potere inquirente quale migliore occasione si potrebbe avere per menzio(33) Non si può escludere che anche le notizie di reato qualificate contengano fatti assolutamente irrilevanti, le c.d. pseudo-notizie, tali da non giustificare l’esplicazione dell’attività di indagine.


— 169 — narle espressamente in alternativa a soluzioni decisorie — richiesta di archiviazione o designazione per le indagini preliminari — comunque ristrette in ambito procedimentale? L’assenza di riferimento alla ipotizzata attività precedente la notizia, ben può significare, al riparo da suggestioni, l’inesistenza di un fondamento normativo. La formula del ‘‘prendere notizia dei reati di propria iniziativa’’ non è allora che lo strumento espressivo per trasporre nel vigente codice il contenuto della disposizione dell’art. 1 del codice di rito precedente, nella parte in cui collegava l’obbligo di esercizio dell’azione al rapporto, al referto, alla denuncia o ad altra notizia di reato, con una distinzione che ha dato luogo in dottrina alla bipartizione tra le notizie di reato qualificate e quelle non qualificate. Nel nuovo contesto normativo, però, il termine ‘‘ notizia di reato’’ (34) esprime sempre e soltanto il riferimento al fatto di possibile rilievo penale, mentre la distinzione degli strumenti di comunicazione, quelli qualificati e quelli non qualificati, è ora affidata rispettivamente alle espressioni ‘‘ricevono le notizie...’’ e ‘‘prendono notizia’’, che si distinguono anche per il particolare modo di indicazione dell’oggetto. L’azione di ricezione delle notizie evidenzia come queste ultime siano più o meno compiutamente conformate dal veicolo di comunicazione, costruito in modo da contenere una strutturazione ipotetica modellata sulla futura ed eventuale imputazione; il prendere notizia, invece, sottolinea l’assenza di una compiuta predeterminazione dell’oggetto, che va selezionato ed isolato all’interno di un contesto comunicativo, che non risponde alla finalità di farne percepire al destinatario la consistenza fattuale. Il risultato può apparire modesto se non si considera che una siffatta previsione, letta in termini di doverosità della condotta ivi descritta, giova ad attrarre quanto più possibile in ambito procedimentale tutte quelle notizie, che con facilità potrebbero altrimenti sottrarsi ai controlli di fondatezza voluti dal legislatore ed espressi dall’imposizione generalizzata del dovere di svolgere indagini, in ossequio al principio di obbligatorietà dell’azione penale, anche per notizie solo oggettivamente qualificate, prive cioè di un riferimento soggettivo al potenziale autore della condotta (35). (34) Sulla nozione di ‘‘notizia di reato’’ cfr. G. ARICÒ, Notizia di reato, in Enc. dir., XXVIII, p. 756 ss. (35) La necessità di un minimo di consistenza indiziaria per potere iscrivere nel registro una notizia di reato attiene alle notizie soggettivamente qualificate, ma sembra non qualificare l’obbligo di iscrizione delle notizie solo oggettivamente qualificate, che assai più frequentemente sono affidate a forme di comunicazione diverse da quelle tipiche: ed infatti la Cass., Sez. I pen., sentenza n. 2087 dell’11 marzo-23 giugno 1999 ha affermato che l’iscrizione ‘‘presuppone che a carico di una persona nota emerga l’esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti’’ in espresso riferimento alle notizie qualificate soggettivamente, che sono uno dei due tipi di notizia, nel senso di contenuto di fatto, presi in considerazione dalle disposizioni di cui agli artt. 335 e 405, comma 2, c.p.p.


— 170 — 7. Ma i meriti maggiori di questa soluzione si misurano per la capacità di inveramento, sul piano della legislazione ordinaria, di un’interpretazione della regola costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione con implicazioni sulla configurazione del pubblico ministero, sì da impedire che per intervento del legislatore ordinario si possano attribuire funzioni, la cui esplicazione prescinda dal controllo, sia pure finale, della giurisdizione. Il fatto che la legge processuale non regoli l’attività di preindagine del pubblico ministero rafforza la plausibilità di una lettura delle decisioni della Corte costituzionale, in esordio illustrate, nel senso che l’attività di ricerca della notizia di reato non solo resta fuori dello spettro giustificativo del principio di obbligatorietà dell’azione penale ma anche non possa essere attribuita al pubblico ministero dal legislatore ordinario, entrando altrimenti in rapporto di incompatibilità con la previsione costituzionale in ragione dello strutturale elevato tasso di opportunità delle valutazioni inquirenti da essa implicate. Il principio di obbligatorietà, come affermato dalla sentenza n. 88/1991 della Corte costituzionale, ‘‘esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice’’ e siccome si combina con i caratteri di officiosità e pubblicità dell’azione finisce col saldare a tal punto le funzioni inquirenti con l’ambito giurisdizionale da impedire che lo stesso organo di accusa abbia uno spazio di esplicazione funzionale che lo allontani dalla giurisdizione. Tanto non significa trascurare le pressanti ragioni investigative, che si manifestano sul terreno del contrasto della criminalità organizzata: a queste esigenze ben possono provvedere gli organi di polizia, che nel pubblico ministero possono certo rinvenire un autorevole riferimento per direttive e suggerimenti nella prospettiva di un’eventuale evoluzione procedimentale, senza però un coinvolgimento di quest’organo di giustizia che lo faccia centro autonomo di imputazione di scelte di politica criminale. Ma, più in generale, se queste esigenze investigative sono talmente pressanti anche per il modo di strutturazione della fattispecie incriminatrice, troppo centrata su elementi normativo-valutativi con descrizione della condotta tipica senza sicuri ancoraggi a riferimenti fattuali naturalisticamente apprezzabili, il rimedio non può consistere nell’incoraggiare atteggiamenti proteiformi del pubblico ministero, sfuggendo all’oneroso impegno di rivedere le fattispecie di reato in chiave di praticabilità probatoria e comunque procedimentale, che, se intrapreso, farebbe imboccare definitivamente la strada maestra di attuazione del modello accusatorio del rito. dott. GIUSEPPE SANTALUCIA


OBBLIGHI COMUNITARI DI TUTELA E OPZIONE PENALE: UNA DIALETTICA PERPETUA?

SOMMARIO: I. Introduzione. 1. L’oggetto e il metodo dell’indagine. — 1.1. Un modello per l’indagine: la procedibilità a querela del falso in bilancio prevista all’art. 11, lett. a), 1), punto 1.2.1. della legge n. 366/2001. — 1.1.0. Excursus: illegittimità comunitaria della procedibilità a querela del falso in bilancio. — 1.2. Lo scopo dell’indagine. — 1.3. Il contesto politico-criminale dell’indagine. — 1.4. Il sommario dell’indagine. II. Svolgimento. — 2. Norme incriminatrici e costituzione (cenni). — 3. Obblighi comunitari di tutela e norme incriminatrici. — 3.0.1. Una precisazione: diritto comunitario e diritto dell’Unione europea. — 3.1. Diritto comunitario e diritto nazionale. — 3.1.1. La «dottrina dei controlimiti» — 3.2. Diritto comunitario e diritto penale: i bisogni di tutela tra domanda europea e offerta nazionale. — 3.2.1. Il contenuto degli obblighi comunitari di tutela: tre paradigmi — 3.3. Gli strumenti giurisdizionali di cui dispone l’ordinamento comunitario per determinare e tutelare i suoi obblighi di tutela. — 3.3.1. Risultato intermedio. — 3.3.1.1. Conseguenza provvisoria. — 4. Obblighi comunitari di tutela e costituzione. — 4.1. Obblighi comunitari di tutela e Corte costituzionale: in particolare la sentenza n. 31 del 2000. — 4.1.1. L’emersione di un nuovo concetto: le ‘leggi comunitariamente necessarie’. — 4.1.2. Il ‘salto di qualità’: dai vincoli sui quesiti referendari ai vincoli sull’attività normativa. — 4.2. Obblighi comunitari di tutela in Costituzione: il nuovo art. 117 1o comma della Costituzione. — III. Ricostruzione. — 5. Gli obblighi comunitari di tutela nel sistema costituzionale delle fonti. — 5.1. Il rango costituzionale degli obblighi comunitari di tutela razionale. — 5.2. L’indifferenza costituzionale delle domande comunitarie di tutela penale. — 5.3. Norme incriminatrici ‘comunitariamente necessarie’ ma costituzionalmente illegittime.

I.

INTRODUZIONE.

1.

L’oggetto e il metodo dell’indagine.

L’indagine si propone di verificare se e in che misura i complessi e fragili equilibri su cui si basano i rapporti tra Costituzione, diritto comunitario e opzioni incriminatrici del legislatore nazionale siano oggi rimessi in discussione. La ragione che legittima tale riflessione è sotto gli occhi di tutti: l’espansione delle competenze europee (1), cui si affianca l’emersione di (1)

Cfr. FALLON, Le droit communautaire: un espace en expansion continue, in GE-

RARD-OST-VAN DE KERCHOVE (a cura di), L’acceleration du temps juridique, Bruxelles, 2000,

p. 301 ss. L’idea di fondo si radica nella convinzione che l’unico modo per riuscire a riformare le istituzioni europee è affidare all’Europa questioni più grandi di sé in modo da in-


— 172 — beni giuridici a vario titolo considerati di dominio comunitario (2), inevitabilmente comporta l’intensificarsi delle domande di tutela indirizzate da questo sistema al legislatore nazionale, sul presupposto che la protezione di tali beni costituisca il necessario strumento per il perseguimento degli obiettivi (per altro anch’essi puntualmente aggiornati (3)) iscritti nei Trattati. Il vigente sistema di una legiferazione in materia penale ripartita tra diritto comunitario e diritto nazionale (4) per ora ha sostanzialmente funzionato ‘in automatico’, attraverso l’esecuzione spontanea da parte del legislatore nazionale degli inputs normativi immessi da Bruxelles. In questo modo, perlomeno dal punto di vista formale, non vi è contrasto con il principio di riserva di legge in materia penale, giacché le fattispecie incriminatrici adottate in esecuzione di adempimenti comunitari trovano comunque la loro fonte in una legge dello Stato. Tuttavia, lo scenario politico e giuridico ‘di riferimento’ di siffatto equilibrio, in un arco brevissimo di tempo ha cambiato sfondo, principalmente a causa di due ordini di problemi: da una parte, una riforma costituzionale che sembra modificare in profondità i rapporti tra normativa comunitaria e normativa nazionale (5), soprattutto se interpretata alla stregua di alcuni segnali emessi di recente dalla Corte costituzionale (6); dall’altra parte, l’approvazione in rapida successione di una serie di provvedimenti legislativi — per altro assai controversi — (7), che segnano il pasdurre — per osmosi — ad adeguare il vecchio contenitore (le istituzioni europee) ai nuovi contenuti (le competenze comunitarie). (2) Per una ricognizione aggiornata, in prospettiva penalistica, del catalogo dei beni ritenuti dal diritto comunitario ‘meritevoli’ e ‘bisognosi’ di tutela, dagli interessi finanziari delle Comunità all’ordine pubblico europeo v. MANACORDA, Le droit pénal et l’Union européenne: esquisse d’un système, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 2000, p. 95 ss, in particolare p. 99 ss. (3) A puro titolo esemplificativo si vedano le modifiche e integrazioni apportate da ‘Maastricht’, ‘Amsterdam’ e ora proposte con la versione di Nizza agli artt. 2, 13 e 137 del trattato che istituisce la Comunità europea (TCE). (4) Su cui v. infra, par. 3.2. (5) Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, ‘‘Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione’’, in vigore dal 8 novembre 2001; in particolare ci riferiamo all’art.117 Cost. primo comma, dedicato alla subordinazione agli obblighi comunitari e internazionali della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni; v. infra, par. 4.2. (6) Ci riferiamo in particolare alla sentenza Corte cost. n. 31 del 2000 che ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo dell’intero d.lgs 25 luglio 1998 n. 286 recante il ‘‘Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero’’, v. infra, par. 4.1. (7) Facciamo riferimento alla legge 3 ottobre 2001 n. 366 - ‘‘Delega al Governo per la riforma del diritto societario’’, in Gazz. Uff. del 28 settembre 2001; al decreto-legge n.350 del 25 settembre 2001 - ‘‘Disposizioni urgenti in vista dell’introduzione dell’euro’’, pubbl. in Gazz. Uff. del 26 settembre 2001, noto come ‘decreto sul rientro dei capitali’; alla legge 5 ottobre 2001, n. 367 - ‘‘Ratifica e esecuzione dell’Accordo tra Italia e Svizzera che completa la


— 173 — saggio verso una nuova stagione della politica criminale italiana in materia di c.d. criminalità d’affari. Quest’ultimo aspetto, in particolare, ci induce l’input ‘in concreto’ di questa indagine: proprio questa nuova legislazione penale in materia economica, infatti incontra — a vario titolo — dei ‘punti di attrito’ con la normativa europea (8), e fornisce pertanto ai nostri occhi, il banco di prova ideale per il tipo di riflessione che intendiamo svolgere. 1.1. Un modello per l’indagine: la procedibilità a querela del falso in bilancio prevista all’art. 11, lett. a), 1), punto 1.2.1. della legge n. 366/2001 — Ipotesi di lavoro: cosa accade se i cennati ‘attriti’ tra normativa europea che esige tutela e normativa nazionale che tale tutela nega innescano una vera e propria antinomia? Se concentriamo la nostra attenzione sulla legge 3 ottobre 2001 n. 366 recante la ‘‘Delega al Governo per la riforma del diritto societario’’ (9) percepiamo che proprio un’opzione ‘qualificante’ delle disposiConvenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione, fatto a Roma il 10 settembre 1998, nonché conseguenti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale’’, in Gazz. Uff. del 8 ottobre 2001, nota come ‘legge sulle rogatorie’. (8) La legge n. 367/2001, c.d. ‘sulle rogatorie’, sta infatti registrando diverse iniziative giurisprudenziali tese a dichiararne, sulla base della prevalenza della normativa internazionale contrastante, la disapplicazione o l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 10 Cost. A nostra conoscenza infatti è già stata sollevata dal Tribunale di Roma questione di legittimità costituzionale degli artt. 727, comma 5 bis e 729 c.p.p., così come modificati dagli artt. 12 e 13 della legge n. 367 del 2001, e dell’art. 18 della medesima legge per violazione degli artt. 10 e 111 della Costituzione (Tribunale di Roma, Sezione VI penale, in composizione monocratica, Ordinanza 7 ottobre 2001, in www.penale.it, novembre 2001). Inoltre, il Tribunale di Milano ha emesso un’ordinanza in cui ha dichiarato, ex art. 10 comma 1o della Costituzione, non inutilizzabili gli atti già trasmessi dalle autorità rogate, affermando che la legge non deve essere applicata nelle parti in cui essa è contraria al diritto internazionale consuetudinario (Tribunale di Milano, Sezione II penale, in composizione collegiale, Ordinanza 12 novembre 2001, in www.penale.it novembre 2001). Per quanto concerne invece il decreto-legge n. 350/2001, c.d. ‘sul rientro dei capitali dall’estero’, va segnalato che con una lettera inviata i primi di novembre del 2001 il direttore generale degli affari economici e monetari, Klaus Regling, agendo per conto del commissario Ce Frits Bolkestein, responsabile del mercato interno e dei servizi finanziari ha contestato la normativa sotto differenti profili, tra cui, per quanto qui rileva, è stato contestato il meccanismo di esclusione della punibilità per i reati tributari previsto all’art. 14 comma 1 lett. c), poiché esso risulterebbe incompatibile con la libertà di circolazione dei capitali sancita all’art. 56 del trattato Ce, in particolare nella parte in cui prevede l’alternativa tra il pagamento forfettario del 2,5% della somma e l’acquisto di buoni del Tesoro italiani in percentuale non inferiore al 12% del capitale e nella parte in cui non garantisce l’anonimato di chi decide di mantenere i capitali all’estero. Comunicato stampa in www.europa.eu.int e anche ne il Corriere della sera del 6 novembre 2001, p. 14. (9) La c.d. ‘legge sulle rogatorie’ riguarda infatti il diritto processuale penale, e il contrasto si profila con la normativa internazionale e dell’Unione europea, non con il diritto comunitario in senso stretto (per la distinzione v. infra par. 3.0.1.); il decreto-legge c.d. ‘sul


— 174 — zioni penali in tale normativa contenute si presenta come emblematica della tematica che intendiamo esplorare, e che definiamo sin d’ora come ‘‘il problema dell’illegittimità comunitaria in malam partem’’ (cioè dovuta al ‘non esserci’, o comunque al ritrarsi della tutela penale da un determinato fascio di interessi). Presentiamo subito, allora, in un rapido excursus, gli argomenti da cui emerge il fumus di questa particolare specie di illegittimità, in modo da poterci servire, nel prosieguo della nostra indagine, di tale ipotesi come esempio paradigmatico su cui valutare in concreto i vari snodi della problematica in esame. 1.1.0. Excursus: illegittimità comunitaria della procedibilità a querela del falso in bilancio. — La legge-delega in questione esordisce all’art. 1 comma 2 con una pleonastica (10) dichiarazione di conformità alla normativa comunitaria (‘‘La riforma, nel rispetto ed in coerenza con la normativa comunitaria...’’) contraddetta però dalla stessa legge delega, che all’art. 11 lett. a) 1), nel dettare i criteri direttivi per la redazione della fattispecie di false comunicazioni sociali, prevede, al punto 1.2.1., per le società non quotate in borsa che, qualora la condotta abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci e creditori, il delitto sia perseguibile a querela. Orbene, tale meccanismo di procedibilità a querela è in contrasto con la normativa comunitaria. L’assunto è dimostrabile attraverso il seguente sillogismo interpretativo: (a) la ricognizione dei modelli normativi analoghi a quello voluto dal legislatore delegante italiano (premessa maggiore); (b) le censure che il diritto comunitario, per voce della Corte di Giustizia, ha espresso su questi stessi modelli (premessa minore); (c) la trasferibilità di tali censure al modello italiano (conclusione). (a) La procedibilità a querela e il diritto penale societario: i ‘precedenti’ in Europa. Il meccanismo della querela (11) in ambito penale societario è stato utilizzato a vario titolo dal legislatore tedesco e dal legislatore spagnolo. — Il legislatore spagnolo con il nuovo codigo pénal del 1995 ha introdotto ex novo alcune disposizioni specifiche dedicate ai reati societari (Titolo XIII ‘‘delitti contro il patrimonio e contro l’ordine socioeconomico’’, capitolo XIII ‘‘dei delitti societari’’, artt. 290-297). Tali disposizioni, invocate ‘come precedente’ nel corso delle roventi polemiche che hanno accompagnato l’approvazione della parte penarientro dei capitali dall’estero’ invece, nonostante si sia avanzata un suo attrito alla normativa antiriciclaggio, è — allo stato attuale — in eventuale contrasto con la normativa comunitaria da un punto di vista esclusivamente civilistico. (10) Pleonastica perché, come noto, sull’ordinamento giuridico italiano grava un generale obbligo di conformità al diritto comunitario in virtù del fondamentale principio di leale cooperazione iscritto all’art.10 del trattato Ce; sul punto v. infra, par. 3.2. (11) Su cui v., anche per l’indagine comparatistica, GIUNTA, Interessi privati e deflazione penale nell’uso della querela, Milano, 1993, in particolare p. 1 ss.; p. 131 ss.


— 175 — listica della legge delega italiana (12), prevedono effettivamente una forma di perseguibilità a querela. L’art. 296 del codigo pénal dispone infatti che ‘‘gli atti del presente capitolo (tra cui il falso in documenti sociali, previsto all’art. 290 del codigo pénal) saranno perseguibili solo mediante denuncia della persona offesa o del suo rappresentante legale’’. La denuncia tuttavia è una forma di querela sui generis, di tipo ‘relativo’ (13) e non ‘assoluta’ (nel senso cioè che l’assenza di denuncia costituisce sempre condizione di improcedibilità); il secondo comma di tale articolo prevede infatti che ‘‘Non sarà necessaria la denuncia richiesta nel numero precedente, quando la commissione del delitto offenda gli interessi generali o una pluralità di persone’’ (14). — Il sistema tedesco invece nell’Handelsgesetzbuch (codice di commercio tedesco, ‘‘HGB’’ nel prosieguo) prevedeva al § 335 una sanzione amministrativa pecuniaria (Zwangsgeld) nell’ipotesi di omessa pubblicazione del bilancio, obbligo sancito al § 325 dell’HGB (condotta analoga all’illecito amministrativo previsto e sanzionato nel ‘nostro’ art. 2626 c.c.). Tuttavia, conformemente al § 325 primo comma, punto 6, dell’HGB, in relazione con il secondo comma dello stesso articolo, un procedimento per l’applicazione della sanzione poteva essere instaurato solo a richiesta (Antrag) di un socio, di un creditore, della commissione interna centrale o della commissione interna della società. (b) L’incompatibilità della soluzione-querela-con il diritto comunitario. L’art. 6 della direttiva del Consiglio 9 marzo 1968, 68/151/CEE (c.d. ‘prima direttiva’) (15) prescrive che ‘‘gli Stati membri stabiliscano adeguate sanzioni per (12) Cfr. MARINUCCI, La depenalizzazione ‘‘di fatto’’ delle false comunicazioni sociali, in Guida al diritto, 24 novembre 2001, p. 10 ss., dove, in una breve e penetrante critica del sistema congegnato, ci ricorda che l’on. Pecorella, principale fautore della riforma, abbia additato il sistema spagnolo come ‘‘esempio di una buona legislazione’’. (13) L’istituto spagnolo della denuncia è una condizione di procedibilità ad hoc, prevista per i delitti definiti dalla dottrina spagnola come ‘‘semipubblici’’ (delitos semi-pùblicos) (i delitti perseguibili dal differente istituto della querella sono invece definiti privatos); in ambito penale societario la condiciòn de perseguibilitad della denuncia è prevista per tutti i delitti ed è finalizzata a soddisfare le opposte esigenze, da una parte, di porre un filtro selettivo alle condotte penalmente rilevanti qualora esse presentino dei profili di offensività rilevanti su un piano esclusivamente privatistico e dall’altra, tanto di fare salvi i preminenti e indisponibili interessi generali qualora anche questi risultino offesi dalla condotta, quanto di evitare la possibilità di fondare pratiche estortive da parte di un socio e di un creditore che potrebbe denunciare il management di una società per costringerlo a fare o a dare qualcosa in cambio, appunto, del ritiro della denuncia; l’istituto del perdòn del ofendido previsto tra le cause di estinzione della responsabilidad criminal all’art. 130 1o comma n. 4 del codigo penal, si applica infatti solo nei casi espressamente previsti dalla legge e tra questi non rientrano i delitti societari, proprio in virtù della loro natura di ‘‘delitti semipubblici’’; cfr. MARTÍNEZ-BUJÁN PÉREZ, Derecho penal econòmico. Parte especial, Valencia, 1999, p. 197 ss.; MUÑOZ CONDE, Derecho penal. Parte especial, 12a ed., Valencia, 1999, p. 506 ss.; MOYNA MÉNGUEZ, Codigo penal, 4a ed., Madrid, 1999, sub. artt. 86, 130 e 296. (14) Una presentazione di questo corpus normativo e la relativa traduzione in italiano dell’articolato è offerta da FOFFANI, I reati societari nel nuovo codice penale spagnolo del 1995, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 65 ss. (15) Tutti gli atti comunitari citati nel presente lavoro sono consultabili sul sito dell’Unione europea; rispettivamente www.europa.eu/int/Eur-Lex: legislazione comunitaria in vigore per la legislazione e www.curia.eu/int per la giurisprudenza; verranno quindi citati


— 176 — il caso di mancata pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite’’, come prevista dall’art. 2 n. 1 lett. f) della stessa direttiva. La Corte di giustizia Ce è stata chiamata a valutare la conformità, in particolare, del sistema tedesco all’esigenza di stabilire ‘‘adeguate sanzioni’’ prevista nella ‘prima direttiva’ (16): diversamente dal sistema spagnolo infatti, quest’ultimo prevedeva una querela di tipo ‘assoluto’. In merito la Corte si è preventivamente interrogata su quali interessi debbano essere tutelati attraverso l’opera di coordinamento della disciplina societaria in tema di bilancio svolta dal diritto comunitario. In proposito la Corte ricorda che la norma di riferimento è l’art. 54, n. 3 lett. g) del trattato Ce (ora art. 44 n. 3, lett. g), nella vigente versione del trattato Ce), dove si dichiara che tale coordinamento deve ‘‘proteggere tanto gli interessi dei soci come dei terzi’’ (17). La Corte afferma quindi che ‘‘la pubblicità dei conti annuali mira principalmente ad informare i terzi che non conoscano o non possano conoscere sufficientemente la situazione contabile e finanziaria della società’’ (18). La Corte conclude statuendo che ‘‘l’art. 6 della prima direttiva va interpretato nel senso che esso osta alla legge di uno Stato membro che preveda solo per i soci, i creditori nonché la commissione interna centrale o la commissione interna di una società il diritto di chiedere la sanzione’’ (19). Nel solco di questa giurisprudenza la Corte di giustizia Ce ha avuto successivamente modo di affermare, ancora più chiaramente, che tale sistema, rappresentando la mancata previsione di sanzioni adeguate, comporta la violazione da parte della Germania degli obblighi comunitari (20). Per dirla con il lessico penalistico italiano, insomma, il bene giuridico tutelato dalle disposizioni penali dedicate al bilancio societario non può essere schiacciato sui soli interessi — patrimoniali e non — dei soci e dei creditori, concretizzandosi invece nella tutela strumentale della veridicità e compiutezza del bilancio societario (21); proprio in considerazione di questa sua funzione ‘pubblica’ (nel senso più immediato del termine, ovvero di strumento rivolto al pubblico) la sua tutela solo gli estremi dei provvedimenti necessari per la consultazione su internet; per le sentenze della Corte di Giustizia precedenti al 1997 invece, non essendo disponibili on-line, si indicherà la fonte documentale da cui sono stati tratti. (16) Corte di giustizia 4 dicembre 1997, C-97-96, c/Daihatsu Deutschland. (17) Punti 17-20 c/Daihatsu Deutschland. (18) Punto 22, c/Daihatsu Deutschland. (19) Punto 23 c/Daihatsu Deutschland. (20) Corte di giustizia 29 settembre 1998, C-191-95, Commissione Ce/Repubblica federale di Germania, punto 68; su questa sentenza v. anche RIONDATO, Osservatorio della Corte di giustizia delle Comunità europee, in Diritto penale e processo, 1998, p. 1393. Successivamente a questa seconda pronuncia il sistema tedesco è stato modificato e prevede oggi che in caso di omessa pubblicazione dei conti annuali entro i termini prescritti il procedimento per l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria (Zwangsgeld) può essere instaurato a richiesta (Antrag) di tutti i terzi; cfr. Dossiers internationaux Francis Lefebrve. Allemagne, Levallois Perret, 2000, 3548, p. 436. (21) Sul punto v. per tutti PEDRAZZI, Società commerciali (disciplina penale), in Dig. disc. pen., 1997, p. 352 s.; FOFFANI in PEDRAZZI-ALESSANDRI-FOFFANI-SEMINARA-SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 2000, p. 227 ss.


— 177 — non può essere subordinata alle sole esigenze dei soci e dei creditori dato che questi rappresentano solo alcuni dei destinatari dell’informazione societaria. (c) L’incompatibilità del — nascituro — diritto italiano con la normativa comunitaria. Una precisazione preliminare: come ha affermato anche la nostra Corte costituzionale (22), ‘‘le statuizioni della Corte di giustizia sono a pieno titolo diritto comunitario, al pari delle disposizioni contenute nei Trattati e negli atti di diritto derivato’’; anche ad esse pertanto è applicabile il principio di prevalenza sul diritto interno. Ciò premesso, la sussunzione del ‘caso italiano’ nel contesto normativo e di conseguenza ermeneutico che ha rappresentato l’oggetto della citata giurisprudenza europea, sembra imposta dalle seguenti considerazioni. In primo luogo, le pronunce della Corte di giustizia sono intervenute sull’ipotesi di mancata pubblicazione del bilancio, ipotesi dotate di una carica lesiva del bene in gioco — addirittura — decisamente inferiore a quella di un bilancio sì esistente, ma falso. Appare quindi manifesto che quanto espresso per l’ipotesi residuale, a maggior ragione debba valere per il presidio penalistico che occupa la posizione centrale nella tutela della correttezza dell’informazione societaria. In secondo luogo, non possono esservi dubbi sul fatto che il bene giuridico tutelato dalla fattispecie prevista all’art. 11 lett. a) n. 1 della l. 366/01 non sia il patrimonio, ma proprio il bene strumentale della veridicità e compiutezza dell’informazione societaria. Il legislatore, infatti, nel descrivere la direzione offensiva della condotta parla di ‘‘fatti materiali non rispondenti al vero... idonei ad indurre in errore i destinatari dell’informazione... con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico...’’: subordinare pertanto la tutela di questo bene (veridicità/compiutezza dell’informazione societaria rivolta al pubblico) al danno di un altro bene (il patrimonio di soci e creditori) è — necessariamente — un macroscopico esempio di sanzione inadeguata agli scopi di tutela di uno strumento che — per riprendere le parole della Corte di giustizia — ‘‘mira principalmente ad informare i terzi’’. Infine, il meccanismo di perseguibilità a querela dettato nella legge delega, contrariamente al sistema spagnolo che invece lascia aperta la possibilità di procedere d’ufficio ‘‘qualora vengano offesi gli interessi generali’’, non presenta soluzioni elastiche. Ci sembra dunque di poter affermare come dato obiettivo acquisibile come ‘presupposto di fatto’ della nostra ipotesi di lavoro che la procedibilità a querela del delitto di false comunicazioni sociali adottata dal nostro legislatore risulta, nei termini sopra precisati, comunitariamente illegittima (23). Una precisazione, anche a questo stadio ‘embrionale’ dell’indagine, si rende tuttavia necessaria: il diritto comunitario non impone la natura penale della tutela, e meno ancora una tutela penale ancorata a determinati cornici edittali; esso pone un obbligo di sanzioni adeguate, e ritiene che, in considerazione della natura, delle (22) Corte cost. 23 aprile 1985 n. 113, v. infra, nota 52. (23) Rectius: che ha elevatissime chances di essere dichiarato comunitariamente illegittimo, (v. infra parr. 3.3.1., 3.3.1.1.) Segnaliamo che tale ricognizione ha incontrato l’autorevole avallo di FOFFANI, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, in Diritto penale e processo, 2001, p. 1198; avevamo ritenuto infatti di pubblicare sul sito www.penale.it di ottobre 2001 gli snodi logici-normativi di cui si compone questo excursus.


— 178 — funzioni e dunque della titolarità del bene giuridico ‘‘correttezza/veridicità dell’informazione societaria’’, subordinare la tutela di tale bene alla querela renda la sanzione strutturalmente inadeguata alle esigenze di tutela. Su questo profilo grava una limitazione di sovranità imposta ai legislatori nazionali.

1.2. Lo scopo dell’indagine. — La domanda che ci poniamo allora — e che rappresenta il filo conduttore di questo lavoro — è la seguente: presupposte come valide entrambe le seguenti condizioni: (a) prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno e (b) riserva assoluta di legge in materia penale, quali strumenti giuridici offrono l’ordinamento comunitario e l’ordinamento interno per far valere un vincolo comunitario di tutela disatteso dalla normativa penale nazionale? In altre parole: quanto ‘obbligano’ gli obblighi comunitari di tutela, sotto l’unico profilo giuridicamente rilevante, perché effettivo, cioè ‘l’azionabilità’ (davanti — è ovvio — alla Corte di giustizia e, rispettivamente, alla Corte costituzionale)? 1.3. Il contesto politico-criminale dell’indagine. — Un’indagine ‘sull’obbligatorietà’ dei vincoli di tutela gravanti sul legislatore ricorda da vicino quella ‘classica’, sui presunti obblighi costituzionali di tutela penale (24): ‘ora come allora’, pertanto, essa per essere affrontata su un piano giuridico deve essere inquadrata nella sua più ampia dimensione politico-criminale. In questa prospettiva occorre avere ben chiaro che ci si muove su un terreno scottante, che impone la massima cautela, e suggerisce di mantenere un atteggiamento molto sospettoso; infatti — indipendentemente dagli specifici conflitti politico-criminali — iniettare nel sistema giuridico obblighi formali riguardanti norme penali dedotti da una norma di rango superiore direttamente vincolante, comporta ‘effetti collaterali’ noti ed evidenti: (a) alterazione del valore relativo dell’intervento penale; (b) insensibilità a ogni valutazione in punto di idoneità della tutela; (c) impossibilità a effettuare un bilanciamento tra interessi tutelati e controinteressi sacrificati; (d) correlativa tendenza ad eccedere nell’anticipazione della tutela. Il carattere obbligatorio dell’intervento penale, per dirla con una battuta, libera il legislatore dalla sua ‘cattiva coscienza’: ridotto a semplice esecutore di scelte non sue non è più costretto a dubitare (e, ciò che più conta, a rendere conto) della razionalità e dell’adeguatezza delle sue opzioni. I vincoli formali si fondano infatti su un trasferimento normativo a istituzioni tecniche-giuridiche (se si vuole tecniche-giuridiche, se non ‘tecnocratiche’ tout court) di competenze proprie del sistema politico, con il risultato di liberare il primo da responsabilità in ordine all’adozione di determinati strumenti repressivi di tutela (25), segnatamente dalla responsabilità per i (sempre perniciosi) Nebeneffekte sviluppati da questi ultimi (26). (24) Con la solita preveggenza lo ‘slittamento’ dalla questione degli imperativi di criminalizzazione di matrice costituzionale a quelli di natura internazionale è stato segnalato tempo addietro da PEDRAZZI, Diritto penale, in Dig. disc. pen., Vol. IV, 1990, p. 69. (25) Fondamentali, per tale inquadramento politico-criminale e in generale per l’intera tematica degli obblighi: PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 484 ss., PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivi-


— 179 — Sempre in questa prospettiva, inoltre, ma da una differente angolatura, tra la ‘nostra’ tematica e quella dei più ‘classici’ obblighi costituzionali di incriminazione è ravvisabile una somiglianza di natura teorica quanto politica. Oggi come allora, il tema fomenta sia un’intrigante e una spinosa questione teorica, dall’alto valore metonimico (coinvolgendo problematiche inerenti — per tacere d’altro — all’equilibrio tra i principi di legalità, ragionevolezza e discrezionalità in materia di legislazione penale), sia una concreta ‘ragion politica’ (attingendo il quotidiano di specifici e contingenti conflitti politico-sociali). Infatti: ieri, il catalizzatore della diatriba, che finì per costituirne la (quasi) sola paradigmatica, era rappresentato dalla problematica dell’aborto in Italia, specificatamente dalla legittimità politico criminale della legge 22 maggio 1978 n. 194 sull’interruzione della gravidanza (27), non a caso definita ‘‘una delle leggi che più profondamente hanno innovato nel cuore del diritto penale tradizionale, con una svolta radicale rispetto al codice Rocco, in presenza di valutazioni etico-sociali fortemente differenziate’’ (28). Si trattava di una questione davvero ‘‘anfibologica’’ (29): l’aborto è fattispecie penale posta a tutela del bene primario per eccellenza, la vita; ma — al tempo stesso — culturalmente collegata alla sfera dell’etica (sessuale) e storicamente espressiva di un credo lato sensu religioso (30). Su un piano strutturale, poi, come è noto, l’argomento si era polarizzato sui ‘presunti vuoti costituzionali di tutela penale’ dedotti dal rango primario dei beni in gioco, e vedeva contrapposte alle ragioni dei vincoli formali di tutela (pretesi di natura esclusivamente penale per il valore del bene protetto) le ragioni dei vincoli razionali di tutela orientabili sui modelli alternativi, per il controbilanciamento fra benefici e costi della tutela stessa (31); oggi, il conflitto sembrerebbe porsi in modo non dissimile (ma, per così dire, invertito di segno politico). La materia del contendere è l’intervento sta, 1990, p. 455 ss.; DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, p. 333 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 3a edizione, 2001, p. 83 ss., p. 487 ss. (26) Sugli effetti collaterali (Nebeneffekte) connessi al ricorso della sanzione penale v. ampiamente PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25) p. 523 ss., p. 527. (27) Occorre ricordare che il contrasto con i principi costituzionali fu avanzato anche nei confronti della ‘depenalizzazione’ effettuata con la legge 10 maggio 1976 n. 319 sulla tutela delle acque da inquinamento (c.d. legge Merli) per una ricostruzione della questione e per i necessari riferimenti bibliografici e giurisprudenziali v. PULITANÒ, Obblighi, cit. (nota 25), p. 485 s.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit. (nota 25), p. 507 e relative note. Tuttavia la problematica, dell’aborto, per valore degli interessi in gioco, distanza tra valutazioni etico-sociali contrapposte e dimensione transnazionale, acutizzando e mettendo sul tavolo tutti i problemi connessi alla questione degli obblighi costituzionali di penalizzazione, ne rappresentò la ‘vicenda’ esemplare, sia su un piano politico che teorico. (28) PULITANÒ, Obblighi, cit. (nota 25), p. 485. (29) PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 456. (30) Così, più o meno testualmente PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 456 s. (31) Cfr. PULITANÒ, Obblighi, cit. (nota 25), p. 496; v. anche gli autori citati alla nota 25.


— 180 — penale nell’impresa, vale a dire il settore che più profondamente ha inciso sulla Storia contemporanea del nostro Paese, sia per il peso specifico crescente che il sistema delle imprese ha assunto nel ‘nostro’ tessuto economico e sociale (32), sia per le note vicende giudiziarie note come ‘mani pulite’ (33). Qui la diatriba è più elementare e drastica e si incentra sullo stesso clima di valori che si pongono ad oggetto della potenziale tutela. Ad un’opzione depenalizzatrice di segno ‘(vetero) liberista’, si contrappone il progetto ‘neo-dirigista’ che induce bisogni di pena a chiusura del sistema di controllo e di governo dell’economia. Il rischio da cui guardarsi, allora, è che il nuovo conflitto politico-criminale, irrigato dalle novità costituzionali — giurisprudenziali e legislative —, rappresenti l’insidioso terreno di coltura attraverso cui far ‘rientrare dalla finestra’ una questione che era stata ‘cacciata dalla porta’. Fuor di metafora il quesito suona: una volta arginata l’ipotesi di obblighi costituzionali impliciti di tutela penale (34), i vincoli comunitari di tutela godono di una forza vincolante tale (nell’ordinamento comunitario e — soprattutto — in quello nazionale) da imporsi comunque, con ‘la violenza delle cose’, come la moderna versione degli obblighi costituzionali di penalizzazione?

1.4. Il sommario dell’indagine. — Ritornando su un piano strettamente giuridico, lo svolgimento della problematica parte dalla constatazione che essa si compone — per dirla nel lessico giuscomparatistico — di tre distinti formanti (35): Costituzione, norme comunitarie obbliganti, norme incriminatrici interne. Fra questi si estrinseca una relazione triadica, che — molto schematicamente — può essere scomposta in tre relazioni semplici intrecciate tra loro: (a) norme incriminatrici e Costituzione; (b) norme incriminatrici e obblighi comunitari di tutela; (c) obblighi comunitari di tutela e Costituzione. La ricerca si organizzerà di conseguenza muovendo dalle tematiche su cui si sono polarizzate le tre relazioni semplici. Nell’ordine: (aa) ‘norme incriminatrici e Costituzione’: riprendendo cursoria(32) Cfr. SAPELLI, Storia economica dell’Italia contemporanea, Milano, 1997, p. 127 ss. (33) Su cui v. GINSOBORG, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato, 1980-1996, Torino, 1998, p. 339 ss.; p. 501 ss. (34) V. infra, par. 2. (35) Come noto il concetto di formante, mutuato dalla linguistica da SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1980, in particolare p. 27 ss. intende distinguere e prendere in considerazione tutti i differenti (e compresenti) vettori normativi che danno vita alle effettive regole operazionali espresse da un sistema giuridico, in questo modo è possibile dissociare le regole operazionali dal guscio formale e dal rango che nella gerarchia delle fonti uno specifico formante riveste; per l’uso del concetto nelle indagini comparatistiche aventi ad oggetto regole penali v. ad es., l’illuminante indagine di GRANDE, Imitazione e diritto: ipotesi sulla circolazione dei modelli, Torino, 2000; per una sintetica e efficace presentazione in ambito penalistico della teoria dei formanti v. PALAZZO-PAPA, Lezioni di diritto penale comparato, Torino, 2000, p. 30 ss.


— 181 — mente i termini del dibattito, per il momento archiviato sui ‘classici’ obblighi costituzionali di tutela penale; (bb) ‘obblighi comunitari di tutela e norme incriminatrici’: proponendo una ricognizione dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto interno (segnatamente, penale); del contenuto degli obblighi comunitari di tutela; degli strumenti giuridici di autotutela dell’ordinamento comunitario; (cc) ‘obblighi comunitari di tutela e Costituzione’: indagando la giurisprudenza costituzionale in tema di vincolatività degli obblighi comunitari di tutela, tema tra l’altro aggiornato dall’impatto del ‘neonato’ 1o comma art. 117 Cost. sul sistema dei rapporti tra sistemi ordinamentali diversi. Infine, sulla base dei frutti raccolti nello sviluppo di queste tre piste, cercheremo di ricomporre la relazione triadica, e, conseguentemente: la dimensione e il valore in Costituzione degli obblighi comunitari di tutela e i relativi effetti che ne discendono sulle norme interne che costituiscono, rispettivamente, l’adempimento o l’inadempimento di tali obblighi. II.

SVOLGIMENTO.

2.

Norme incriminatrici e costituzione (cenni).

La ricognizione in questo terreno, prima facie implausibile, anche nella ‘limitata’ prospettiva di una ricognizione sui ‘classici’ obblighi costituzionale di tutela penale (36); è facilitata dall’acquisizione di alcuni punti che possono considerarsi fermi (37). a) Non è possibile dedurre dal rango costituzionale di un bene un implicito obbligo formale di tutela penale per il legislatore (38). (36) In un’ampia letteratura v. in particolare, anche per i necessari richiami bibliografici e di diritto comparato, PULITANÒ, Obblighi, cit. (nota 19), p. 484 ss.; PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 455 ss.; DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione, cit. (nota 25), p. 353 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit. (nota 25), p. 487 ss., in particolare p. 506 ss.; G. A. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in CANESTRARI (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio - Atti del convegno in ricordo di Franco Bricola, Torino, 1998, p. 342 (in particolare nota 7). (37) La rapidissima ricognizione che facciamo in questa sede si avvale e si fonda sulla ricostruzione della questione offerta da DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione, cit. (nota 25) p. 350 ss., a cui ovviamente si rinvia, anche per la bibliografia relativa alle varie opinioni espresse sulla problematica. (38) Segnaliamo invece, perlomeno in nota, che la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha offerto qualche segnale di accoglimento a questa tesi; cfr. affaire X e Y c/Olanda, 26 marzo 1985, in serie A, no 91 1985, p. 352 ss.; affaire A c/ Regno Unito, 23 settembre 1998, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 1999, p. 585 ss., con un ampio commento di SILVANI, Jus corrigendi, reasonable chatisement e divieto di trattamento o punizioni degrandanti o disumane ex art. 3 Convenzione europea per la salva-


— 182 — La tesi degli obblighi costituzionali ‘impliciti’ di tutela penale riteneva che dal rango costituzionale di un determinato bene derivasse un obbligo di tutela penale gravante sul legislatore. Come è noto, la questione ha rappresentato lo sviluppo, portato alle estreme conseguenze della teoria dei beni giuridici costituzionali (39). Tale sviluppo infatti si fondava, e al tempo stesso produceva, un ribaltamento della funzione del bene giuridico costituzionale: da criterio-limite, strumento di legittimazione negativa dell’intervento penale, esso diveniva criterio-fondante, ‘positivo’ e vincolante della tutela penale.

La questione, che ha vissuto la sua fase più acuta nei primi anni ’80, con il fiorire di una serie di questioni di legittimità costituzionale in malam partem (40), si è poi andata stabilizzando (41). È possibile infatti affermare che la Corte tende ad escludere l’ammissibilità di decisioni manipolative in materia penale in malam partem (42), fondate sul rango primario del bene che si assume non tutelato, sul principio di uguaglianza o su una combinazione tra i due, dichiarandole inammissibili perché in contrasto con la riserva di legge in materia penale sancita dall’art. 25 2o comma Cost. (43). b) Gli unici obblighi di tutela penale ascrivibili alla nostra Costituzione sono quelli espressamente previsti nella legge fondamentale in virtù di esplicite ed univoche clausole di penalizzazione. Un obbligo espresso di tutela penale nella nostra Costituzione è rinvenibile ad esempio nell’art. 13 comma 4o, dove è stabilito che ‘‘È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà’’.

Non solo, il giudizio di legittimità costituzionale vigente in Italia necessita di una specifica norma su cui catalizzare il procedimento. Questo comporta che le clausole costituzionali espresse di penalizzazione sono irrilevanti in caso di omessa attuazione (parziale o totale) non essendo preguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Sugli effetti espansivi della Cedu v. per tutti DELMAS-MARTY, Les grands systèmes de politique criminelle, Parigi, 1992, p. 396 ss. (39) BRICOLA, Teoria generale del reato, in Novissimo dig. it., 1973, p. 8 ss. (40) Per i richiami giurisprudenziali v. PULITANÒ, Obblighi, cit. (nota 25), in particolare note 3 e 6, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit. (nota 25), in particolare p. 570, nota 75. (41) Scorrendo le date è più che plausibile ritenere che una funzione chiave nell’opera di stabilizzazione della giurisprudenza sia stata svolta dal fondamentale lavoro di Pulitanò pubblicato nel 1983 in questa Rivista, a cui abbiamo fatto più volte riferimento. (42) Cfr. tuttavia la sentenza Corte cost. n. 440 del 1995 in tema di bestemmia (contravvenzione oggi depenalizzata dalla legge 507 del 1999), dove è innegabile l’intervento manipolativo, anche in malam partem, prodotto dalla Corte proprio a partire dalla ricostruzione del bene giuridico; per una lucida critica a tale decisione v. D’AMICO, Una nuova figura di reato: la bestemmia contro la ‘‘Divinità’’, nota a Corte costituzionale n. 440 del 1995, in Giur. cost., 1995, p. 3487 ss. (43) Cfr. ad esempio Corte cost. n. 447 del 1998, Corte cost. 18 gennaio 1996. Per un’ampia rassegna della giurisprudenza costituzionale sulle decisioni additive in materia penale si rinvia alla nota redazionale pubblicata a margine dell’ordinanza n. 172 del 1998 in Giur. cost., 1998, p. 1443 ss.


— 183 — vista nel nostro ordinamento la possibilità di esercitare un ‘‘ricorso in carenza’’ davanti alla Corte costituzionale (44). Al contrario, le ipotesi di successiva depenalizzazione/decriminalizzazione (45) della norma incriminatrice costituzionalmente necessaria sono invece ‘azionabili’. In questi casi infatti, secondo le coordinate del giudizio di costituzionalità vigente in Italia, siamo in presenza di una specifica norma (la norma modificatrice/abrogatrice) su cui catalizzare il giudizio di illegittimità, in virtù del contrasto tra la norma modificatrice/abrogatrice e la clausola di penalizzazione costituzionalmente imposta. Così — per riprendere l’ipotesi esemplificativa avanzata da Dolcini e Marinucci — ‘‘se venisse depenalizzata la norma del codice penale italiano che incrimina l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608), potrà essere denunciata, per contrasto con l’obbligo costituzionale di incriminazione’’ (contenuto nell’art. 13 4o comma Cost.), ‘‘l’illegittimità della norma depenalizzatrice: la sua conseguente dichiarazione di illegittimità, travolgendo anche l’effetto abrogativo della precedente norma incriminatrice, farà ‘rivivere’ la disposizione illegittimamente abrogata’’ (46). (44) Cfr., anche qui, DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione, cit. (nota 25) p. 354 s.; v. inoltre, anche per i necessari aggiornamenti bibliografici e giurisprudenziali, MARCENÒ, La Corte costituzionale e le omissioni incostituzionali del legislatore: verso nuove tecniche decisorie, in Giur. cost., 2000, p. 1985 ss. (45) La terminologia da noi adottata intende con ‘depenalizzazione’ la degradazione dell’illecito penale in illecito amministrativo, civile, disciplinare ecc., mentre con ‘decriminalizzazione’ il passaggio da una tutela penale a nessuna tutela. Sulle varie opzioni tassonomiche e sulle ragioni che giustificano la terminologia da noi adottata v. per tutti PALIERO, Depenalizzazione, in Dig. disc. pen., 1989, p. 430. Per un utilizzo ‘sistemico’ della dicotomia depenalizzazione/decriminalizzazione v. DELMAS-MARTY, Les grands systèmes, cit. (nota 38), passim. (46) Così testualmente DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione, cit. (nota 25) p. 355 s. Un profilo problematico, ma chiarito dagli autori riguarda l’ipotesi in cui il giudizio verta sulla legittimità costituzionale di un fatto commesso dopo l’entrata in vigore della norma depenalizzatrice. Se i fatti fossero commessi prima che intervenga la depenalizzazione del reato costituzionalmente obbligatorio la questione di legittimità si presenterebbe infatti come rilevante proprio perché l’oggetto del giudizio riguarda l’applicazione o meno della norma incriminatrice di cui si contesta l’abrogazione, dato che la norma incriminatrice era in vigore al tempo del commesso reato, la sua applicazione non contrasta con il principio di irretroattività, (così, quasi testualmente DOLCINI-MARINUCCI, Costituzione, cit. (nota 25), p. 356). Invece, se i fatti fossero commessi dopo l’entrata in vigore della norma depenalizzatrice sembrerebbe venire meno il requisito previsto dall’art. 23 della legge n. 87 del 1953 che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio principale, dato che l’imputato dovrà comunque — per il divieto di applicazione retroattiva della legge penale inscritto nell’art. 25 2o comma Cost. — essere dichiarato assolto, indipendentemente dalla fondatezza della questione. Tuttavia la Corte costituzionale ha chiarito che la rilevanza non viene meno, poiché, proprio in ossequio ‘‘al fondamentale principio di civiltà giuridica elevato a livello costituzionale dal 2o comma dell’art. 25 comma 2 Cost. l’eventuale accoglimento viene ad incidere sulle formule di proscioglimento riflettendosi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria’’ (Così Corte cost. sentenza n. 148 del 1983 punto 3 del considerato in diritto; il corsivo è nostro).


— 184 — In conclusione: gli unici obblighi costituzionali di tutela penale giuridicamente azionabili sono gli obblighi espressi, nella particolare ipotesi che dopo aver trovato attuazione attraverso una legge dello Stato, risultino in seguito disattesi dall’intervento di una norma modificatrice/abrogatrice. 3.

Obblighi comunitari di tutela e norme incriminatrici.

In ambito comunitario, tracciando le coordinate essenziali su cui si sviluppa il sistema vanno richiamati in primo luogo i rapporti tra norma nazionale e norma comunitaria, quindi la relazione intercorrente tra il diritto penale (nazionale) e il diritto comunitario. 3.0.1. Una precisazione: diritto comunitario e diritto dell’Unione europea. — Devono essere tenute ben distinte, perlomeno nell’economia del nostro discorso, le norme di diritto comunitario — a cui facciamo riferimento — dalle norme del diritto dell’Unione europea, emanate nel quadro della cooperazione prevista nel titolo VI (il c.d. terzo pilastro) del trattato sull’Unione europea (TUE) (47). Le seconde, essendo organizzate secondo le forme della ‘‘cooperazione intergovernativa’’, restano ‘normali’ fonti di diritto internazionale pattizio, a cui non spettano le qualità proprie del diritto comunitario in senso stretto (in primis la capacità di penetrazione nell’ordinamento interno e le prerogative giurisdizionali riservate alla Corte di giustizia). Per alcuni settori tuttavia la dicotomia diritto comunitario/diritto dell’Unione europea entra parzialmente in crisi; ci riferiamo a quegli impianti normativi appartenenti al terzo pilastro ma che trovano la loro prima base giuridica nel diritto comunitario. Si iscrivono in questa ‘zona grigia’ le materie che sono state ‘comunitarizzate’ (48) e gli strumenti della cooperazione intergovernativa del terzo pilastro a tutela degli interessi finanziari della Comunità europea (49): quest’ultimo bene, (47) Sul terzo pilastro v. ADAM, La cooperazione in materia di giustizia e affari interni tra comunitarizzazione e metodo intergovernativo, in Dir. Un. eur., 1998, p. 481 s.; nella propettiva penalistica v. SICURELLA, Il Titolo VI del trattato di Maastricht e il diritto penale, in questa Rivista, 1997 p. 1307 ss.; MILITELLO, Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto al crimine organizzato, in MILITELLO-PAOLI-ARNOLD (a cura di) Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, Milano, 2000, p. 22 ss.; AA.VV., Vers un droit pénal communautaire? Le titre VI di Traité sur l’Union européenne et la matière pénale, in Rév. sc. crim. dr. pén. comp. 1995, p. 1 ss.; Sulle modificazioni apportate dal trattato di Amsterdam v. SOULIER, Le traité d’Amsterdam et la coopération policière et judiciaire en matière pénale, in Rév. sc. crim. dr. pén. comp., 1998, p. 247 s., Sulle variazioni e innovazioni adottate a Nizza nel dicembre del 2001 in materia penale, (tra cui ricordiamo, la Carta dei diritti fondamentali, l’unità provvisoria di coordinamento delle indagini giudiziarie — Eurojusts —.), v. RANCÉ-DE BAYNAST, L’Europe judiciaire, Parigi, 2001, in particolare p. 55 ss. (48) Sul ‘‘processo di comunitarizzazione’’ in materia di politiche migratorie v. infra, nota 127. (49) Cfr. le osservazioni critiche di VERVAELE, L’applicazione del diritto comunitario: la separazione dei beni tra il primo e il terzo pilastro, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p. 507


— 185 — infatti da una parte è di diretta pertinenza e competenza comunitaria (50), dall’altra ha trovato ‘tutela’ anche attraverso gli strumenti di cooperazione sopracitati (51). La precisazione è importante perché, anche se l’argomento esula dalla nostra indagine, perlomeno in questa sede, ci sembra che un’ipotetica violazione di questi particolari ‘obblighi internazionali di tutela fondati sul diritto comunitario’, si trascini con sé per relationem, in qualche misura, anche una violazione degli obblighi comunitari.

3.1. Diritto comunitario e diritto nazionale. Il dato di partenza è costituito, come noto a tutti, dalla prevalenza della normativa comunitaria (52) sulla normativa interna (53). Nei percorsi seguiti dai vari Stati per dare attuazione a questo fondamentale principio, che attiene all’esistenza stessa dell’ordinamento comunitario, l’Italia si caratterizza per il metodo utilizzato: un’interpretazione del testo costituzionale vigente, segnatamente dell’art. 11. In questo modo, senza procedere ad una revisione costituzionale (54), il nostro ordinamento si è adattato ‘filtrando’ le norme comunitarie attraverso l’art. s.; MANACORDA, Unione europea e diritto penale: stato della questione e prospettive di sviluppo, in Studium Juris, 1997, p. 946 ss.; SICURELLA, Il Titolo VI, cit. (nota 47), p. 1325 ss.; diversamente RINOLDI, art.280, in POCAR (a cura di), Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione europea, Padova, 2001, in particolare p. 937 ss. (50) Trova la sua prima base giuridica nell’art. 280 del trattato Ce. (51) Ci riferiamo in particolare alla convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 1995 (c.d. convenzione PIF), del primo e terzo protocollo di questa Convenzione, che trovano oggi la loro base giuridica nell’art. 29 comma 2o e art. 31 lett. e) TUE ratificati e pubblicati in allegato, con la recente legge n. 300 del 29 settembre 2000 pubbl. in Gazz. uff. del 25 Ottobre 2000. Segnaliamo inoltre che per porre rimedio all’evidente anomalia di questa sovrapposizione di competenze è in via di approvazione, una proposta di direttiva tendente a trasferire la tutela penale degli interessi finanziari dal terzo al primo pilastro (Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio ‘‘relativa alla protezione penale degli interessi finanziari della Comunità’’, del 23 maggio 2001, COM (2001) 272). (52) Ricordiamo che — per il nostro giudice costituzionale — compongono il ‘diritto comunitario’, e sono dunque prevalenti rispetto al diritto interno, le norme contenute: (a) nei Trattati istitutivi; (b) negli atti di diritto derivato (per le direttive v. ad esempio Corte cost. n. 64 del 1990 e Corte cost. n. 168 del 1991 quest’ultima decisione relativa alla disapplicazione della norma penale interna in contrasto con il diritto comunitario); (c) nelle stesse sentenze della Corte di giustizia (Corte cost. n. 113 del 1985, n. 389 del 1989). (53) Il primato delle norme comunitarie coinvolge tutte le norme interne, comprese quelle di rango costituzionale, fatta eccezione, come vedremo, per i diritti inviolabili della persona umana e i principi supremi dell’ordinamento, cfr. Corte costituzionale sentt., n. 183 del 1973, n. 170 del 1984 e n. 232 del 1989. (54) Come invece è avvenuto in altri Stati, ad esempio in Francia e Germania, dove si è ritenuto di procedere ad apposite modifiche costituzionali per consentire le necessarie limitazioni di sovranità derivanti dall’appartenenza alle Comunità europee, per dei cenni all’esperienze francese e tedesca con i relativi riferimenti normativi aggiornati alle modificazioni intervenute con il trattato di Amsterdam si veda CUOCOLO, L’Europa del mercato e l’Europa dei diritti, in Giur. cost., 2000, p. 604 s.


— 186 — 11 in modo da garantire a queste ultime la prevalenza rispetto alle fonti interne (55). Tale operazione, come noto, è avvenuta essenzialmente attraverso un dialogo instauratosi tra la Corte costituzionale (56) e la Corte di Giustizia (57), che ha trovato un soddisfacente punto di equilibrio a partire dalla sentenza n. 170 del 1984 della Corte costituzionale (58), in cui — nella prospettiva del giudice delle leggi italiano — sono stati fissati i nodi essenziali di tale rapporto, così sintetizzabili: (a) disapplicazione del diritto interno contrastante con il diritto comunitario, da operarsi direttamente da parte del giudice ordinario, senza necessità di sollevare apposita questione di legittimità costituzionale; (b) competenza pregiudiziale riservata alla Corte comunitaria sull’interpretazione e sul controllo di legittimità del diritto comunitario; (c) controllo di ultima istanza che la Corte costituzionale comunque si riserva per valutare se gli esiti dell’operato comunitario siano compatibili con i diritti inalienabili della persona umana, che costituiscono i principi supremi del nostro ordinamento. 3.1.1.

La ‘‘dottrina dei controlimiti’’. — La Corte costituzionale ha

(55) In una letteratura sterminata si veda la sintesi di ROSSI, Rapporti fra norme comunitarie e norme interne, in Dig. disc. pubbl., 1997, p. 367 ss.; CARTABIA-WEILER, L’Italia in Europa, Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000, p. 129 ss.; fondamentali ci sono apparsi poi il pionieristico saggio di PAONE, Primato del diritto comunitario e disapplicazione del diritto degli Stati membri, in Riv. dir. intern., 1978, p. 429 ss. e i rilievi di PINELLI, Le fonti del diritto nell’epoca dell’internazionalizzazione, in Dir. pubbl., 1995, p. 359 ss., in particolare p. 372 ss. Per una vibrante critica all’impostazione della Corte costituzionale — quasi unanimemente accettata in dottrina — si veda BERNARDINI, La sovranità popolare violata nei processi normativi internazionali ed europei, Napoli, 1997, p. 40 ss.; p. 95 ss. (56) I passaggi essenziali dell’evoluzione della Corte costituzionale sono fissati nelle sentenze n. 14 del 1964, n. 183 del 1973, n. 170 del 1984 e n. 232 del 1989. (57) Dal punto di vista della Corte di Lussemburgo il principio trova origine nelle celeberrime sentenze 5 febbraio 1963, causa 26/62 Van Gend & Loos e 15 luglio 1964, causa 6/64 Costa. (58) Tra le due Corti l’impostazione resta parzialmente differente su un punto centrale: per la Corte di giustizia - aderendo alla concezione ‘‘monista’’ — il diritto comunitario è integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri, in posizione sovraordinata rispetto al diritto nazionale; per il nostro Giudice delle leggi invece ‘‘i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato’’, così al punto 7 del considerato in diritto della sentenza n. 183/73, in Giur. cost., 1973 p. 2415, il passo, ripreso testualmente al punto 4 del considerato in diritto sentenza n. 170/84, è inoltre definito come ‘‘punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno’’ ivi, 1984, p. 1113. La differente prospettiva si riflette infatti nella qualificazione del primato della norma comunitaria sulla normativa interna: per la Corte di giustizia il primato si configura in termini di vera e propria superiorità gerarchica della normativa sopranazionale, per la Corte costituzionale il primato è giustificato sulla base del criterio della separazione delle competenze, per essa in sintesi i due ordini di fonti sono paralleli e perciò destinati in teoria a non incontrarsi mai, in questo senso, quasi testualmente, CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55), p. 173 s.


— 187 — voluto garantire al sistema normativo sottoposto al suo controllo una contropartita, in cambio delle limitazioni di sovranità da questo sofferte a favore dell’ordinamento comunitario: tale contropartita è rappresentata dalla c.d. ‘‘dottrina dei controlimiti’’, secondo la quale il diritto interno, anche di rango costituzionale, si ritrae di fronte alla norma comunitaria, ma qualora la norma comunitaria si ponga in contrasto con quel particolare sottoinsieme di principi costituzionali formato dai ‘‘principi fondamentali del nostro ordinamento Costituzionale e dai diritti inalienabili della persona umana’’ (59) — considerati imprescindibili e posti al gradino più alto della gerarchia delle fonti (una sorta di ‘Grundnorm’ formalizzata in canoni) —, sarà la norma comunitaria a essere disapplicata dalla Corte costituzionale (60). Ora, su un piano logico ‘la dottrina dei controlimiti’ rappresenta un’aporia del sistema, poiché nel caso in cui la normativa comunitaria sia disapplicata dalla Corte costituzionale per contrarietà ai ‘‘principi fondamentali’’, inevitabilmente ne consegue un’esautorazione delle prerogative comunitarie, che, attraverso l’art. 11 trovano la loro legittimità in una norma di rango costituzionale. Su un piano prasseologico, tuttavia, tale dottrina ha determinato una forte accelerazione nel processo di subordinazione delle Comunità europee, prima, e dell’Unione europea dopo, al rispetto dei diritti fondamentali. Infatti, come è stato detto, ‘‘la riserva di controllo di costituzionalità sostanzialmente si qualifica come una sorta di arma finale, che c’è — potremmo dire — per non essere mai declanchée’’ (61), il cui scopo è quello di ammettere le limitazioni di sovranità imposte dal sistema comunitario ‘a patto che’ quest’ultimo garantisca un livello di protezione dei diritti fondamentali equivalente a quello garantito in patria. Quindi, lasciando da parte ogni orgoglio sciovinistico, il processo di ‘integrazione critica’ che ha trovato nella ‘nostra’ Corte costituzionale un indiscusso protagonista (62) ha prodotto, e produce, una pre(59) Così testualmente Corte costituzionale punto 9 del considerato in diritto della sentenza n. 183/73 e punto 7 del considerato in diritto sentenza n. 170/84. (60) Sui ‘controlimiti’ v., per tutti, anche per i richiami giurisprudenziali CARTABIAWEILER, cit. (nota 55) p. 167 s. e il CD-ROM allegato al volume; il meccanismo, come noto, ha trovato i suoi protagonisti nelle Corti costituzionale italiana e tedesca, segnaliamo che quest’ultima Corte in particolare ha emesso di recente una sentenza tesa a precisare, nella sua prospettiva nazionale, il sistema dei controlimiti cfr. Bundesverfassungsgericht, 7 giugno 2000, in RTD eur., 2001, p. 155 ss.; in particolare il BVG ha chiarito che la violazione dei diritti fondamentali da parte della Comunità deve essere ‘‘manifesta, vale a dire che occorre che vengano constati dei deficits strutturali nella protezione dei diritti fondamentali’’ (ivi, p. 160, nostra traduzione dal francese). (61) Così, LUCIANI, La crisi del diritto nazionale, in VIOLANTE (a cura di), Legge, diritto, giustizia, Storia d’Italia, Annali, vol. 14, 1998, Torino, p. 1025. (62) Per degli espliciti riconoscimenti del ruolo fondamentale e pionieristico svolto dalla Corte costituzionale italiana nel processo in questione si veda, nella dottrina francese: DELMAS-MARTY, Pour un droit commun, Parigi, 1994, p.98; in quella belga: OST-VAN DE


— 188 — ziosissima funzione di controllo e di ‘civilizzazione giuridica’ del diritto comunitario (63). 3.2. Diritto comunitario e diritto penale: i bisogni di tutela tra domanda europea e offerta nazionale. — Per quanto concerne il rapporto tra diritto penale e ordinamento comunitario (64), il punto fermo, da cui prendere le mosse, è costituito dalla specifica incompetenza della Comunità europea in materia di sanzioni criminali. Nonostante le voci contrarie espresse in dottrina, l’ordinamento comunitario fino ad ora si è infatti conformato a tale principio (65). L’argomentazione più solida consiste nel deficit di democraticità di cui soffre la Comunità europea: i suoi atti, non KERCHOVE, De la pyramide au résau? Vers un nouveau mode de production du droit?, 2001, p. 12 del testo disponibile sul sito www.drt.ucl.be/Ost/vdK, e che costituirà il primo capitolo di una monografia in corso di elaborazione. (63) Per un’agile ed efficace ricostruzione v. GRASSO, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi riflessi sui sistemi penali degli Stati membri, in Riv. int. dir. dell’uomo, 1991, p. 617 ss. Ricordiamo inoltre che l’ingresso dei diritti fondamentali nell’Unione europea, che costituisce uno dei capitoli centrali dell’attuale evoluzione europea, dopo l’esplicito riconoscimento di diritto positivo contenuto nell’art. 6 del TUE, dispone oggi della ‘‘Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea’’ adottata con proclamazione solenne a Nizza il 7 dicembre 2000, che ha catalogato in un unico corpus normativo il contenuto dei principi dell’Unione Sulla Carta v. soprattutto BIFULCO-CARTABIACELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, 2001; v. anche l’utile rassegna della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo ordinata articolo per articolo FERRARI-BRAVO-DI MAJORIZZO, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2001; sulla portata giuridica e sulle funzioni della Carta v. PACE, A che serve la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea? Appunti preliminari, in Giur. cost., 2001, p. 193 ss.; e il volume dei rappresentanti italiani nella Convention che ha elaborato la Carta MANZELLA-MELOGRANI-PACIOTTIRODOTÀ, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna, 2000. (64) La prospettiva che qui rileva è limitata alla c.d. funzione espansiva svolta dal diritto comunitario sul diritto penale, e non l’opposto effetto in cui dalla norma europea discenda la ‘cedevolezza’ del diritto penale interno in contrasto. Su tale effetto per la prospettiva italiana, di tipo ‘dualista’, resta fondamentale, GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989; p. 269 s., v. anche l’eccellente sintesi offerta da MANACORDA, Unione europea, cit. (nota 49), p. 946 ss. Per la prospettiva ‘monista’, dove, in coerenza con tale prospettiva, tale effetto viene comunemente qualificato come ‘neutralizzazione’, v., anche per i necessari riferimenti bibliografici e giurisprudenziali: HUET-KOERING-JULING, Droit pénal international, Parigi, 2001, p. 61 ss. Per un’ampia casistica si vedano le Chroniques de Jurisprudence pubblicate sulla Révue de sciences criminelles et de droit pénal comparé a partire dal 1981 e l’osservatorio della Corte di giustizia curato da RIONDATO in Diritto penale e processo a partire dal 1997. (65) Esplicita in tal senso la relazione sulla correlazione tra il diritto comunitario ed il diritto penale, in particolare i nn. 8 e 11 della motivazione; presentata a nome della Commissione giuridica: relatore on. De Keersmaeker, Parlamento europeo, documenti di seduta 1976-1977, doc. 531/76, pubbl. in Riv. dir. eur., 1977, p. 195; per altre prese di posizioni ufficiali in tal senso v., oltre a quelle richiamate dalla suddetta relazione, GRASSO, Comunità, cit. (nota 64), p. 1. Per una presentazione delle diverse posizione espresse v. ad es. BERNARDI, Osservazioni sui principi e criteri direttivi in tema di sanzioni previsti dalle leggi co-


— 189 — provenendo da istituzioni investite della sovranità popolare, non sono legittimati a mettere in gioco la libertà personale. Nella prospettiva italiana un’eventuale competenza penale della Ce contrasterebbe con la riserva di legge in materia penale, sancita nell’art. 25 2o comma Cost. (66), e dato che tale principio è da considerarsi sicuramente un principio supremo del nostro ordinamento, un’eventuale competenza penale della Ce, senza che sia prima colmato il deficit di sovranità, rischierebbe di creare un conflitto suscettibile di far azionare il meccanismo dei ‘controlimiti’. Non essendoci quindi norme comunitarie incriminatrici direttamente applicabili, la normativa comunitaria in malam partem non ha mai efficacia diretta; gli ‘effetti espansivi’ del penalmente rilevante da imputarsi alla politica criminale europea avvengono quindi attraverso il ricorso al diritto nazionale. Sulla questione tuttavia le acque si stanno facendo talmente agitate che è necessario procedere ad alcune precisazioni. In primo luogo, con la contestuale approvazione del trattato di Amsterdam e l’elaborazione del progetto di un Corpus Juris unitario per tutto il territorio comunitario a tutela degli interessi finanziari della Ce (67), in dottrina sembra farsi strada l’idea che in base al nuovo art. 280 TCE la Comunità europea disponga di un’autonoma competenza penale, ove questa si rilevi necessaria alla tutela dei propri interessi finanziari (68). Sulla falsariga delle disposizioni contenute nel Corpus Juris inoltre, è in fase avanzata di approvazione un progetto di direttiva del munitarie 1995-1997 e 1998, in Riv. dir. agr., 1999, p. 230 s., in particolare le note 3, 4 e 5. (66) V., per tutti, GRASSO, La formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in GRASSO (a cura di), Prospettive di un diritto penale europeo, Milano, 1998, p. 2 ss.; per la prospettiva italiana MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit. (nota 25), p. 61 ss. (67) Su cui v. GRASSO (a cura di), Verso uno spazio giudiziario europeo, - Corpus Juris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, Milano, 1997; DELMAS-MARTY-VERVAELE (a cura di), La mise en oeuvre du Corpus Juris dans les États membres, Vol. 1, Anversa-Groningen-Oxford, 2000; v. inoltre, PALIERO, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la parte generale di un codice penale dell’Unione europea, in questa Rivista, 2000, p. 466 ss. passim; AA.VV., Tavola rotonda: Il ‘‘Corpus Juris’’ e le prospettive di riforma del sistema repressivo comunitario, in GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione, Milano, 2000, p. 341 ss. (68) In questa prospettiva TIEDEMANN, Pour un espace juridique commun après Amsterdam, in Agon, n. 17 (1997), p. 12 ss.; PICOTTI, Potestà penale dell’Unione europea nella lotta contro le frodi comunitarie e possibile ‘‘base giuridica’’ del Corpus Juris. In margine al nuovo art. 280 del Trattato Ce, in GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione, Milano, 2000 p. 357 s.; v. inoltre le posizioni espresse sul punto dagli experts che hanno redatto la seconda versione del Corpus Juris, in particolare — pur con una diversità di accenti — propendono per una competenza penale della Ce limitata alla tutela dei suoi interessi finanziari e correlativa possibilità di adottare il Corpus Juris per via regolamentare i proff. Bagigalupo, Delmas-Marty, Spinellis, Tiedemann, Vervaele e van de Wyngaert; contrari invece Spencer e Grasso, in DELMAS-MARTY-VERVAELE (a cura di ), cit. (nota 67), p. 385 ss.


— 190 — Parlamento europeo e del Consiglio ‘‘relativa alla protezione penale degli interessi finanziari della Comunità’’ (69) contenente la definizione dei reati di frode, corruzione e riciclaggio e finalizzato a riportare nell’alveo del diritto comunitario la tutela penale degli interessi finanziari della Ce, oggi affidata, come abbiamo visto, a strumenti del terzo pilastro. L’articolato elaborato dalla Commissione, da approvarsi con la procedura di codecisione, è stato profondamente emendato dal Parlamento europeo che, tra l’altro, ha ritenuto di proporre l’adozione di questo testo per via regolamentare (70), attraverso un atto quindi, al contrario della direttiva, direttamente applicabile: ciò comporterebbe l’affermazione di una autonoma competenza penale in capo alla Comunità, sulla base dell’art. 280 TCE, ancorchè limitatamente allo specifico settore degli interessi finanziari della Comunità europea. In secondo luogo, l’incompetenza penale delle Comunità europee, oltre a discendere dall’incompatibilità con il principio di riserva di legge in materia penale iscritto nelle Costituzioni di alcuni Stati membri (tra cui l’Italia), viene ancorata al rispetto dei diritti fondamentali cui è tenuto il diritto comunitario, sancito all’art. 6 comma 2o del TUE: e fra tali diritti è ricompreso il principio di legalità in materia penale (71). È anche vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sancisce all’art. 49 il principio di legalità e proporzionalità dei reati e delle pene, ha adottato una formulazione di quest’ultimo principio che lascia aperta la strada a possibili competenze penali dell’Unione europea (72): la questione però è tutt’altro che definita, e anche la qualificata dottrina che è intervenuta sul punto si mostra dubbiosa sull’effettiva capacità di tale formulazione del principio di legalità di fondare una potestà penale della Comunità europea, anche in considerazione degli altri principi contenuti nella Carta, segnatamente quelli sanciti dagli articoli 52 e 53 (73).

L’esigenza di fare ricorso al diritto nazionale delinea quindi il cosid(69) Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio ‘‘relativa alla protezione penale degli interessi finanziari della Comunità’’, del 23 maggio 2001, COM (2001) 272. (70) Projet de résolution législative du Parlament européen sur la proposition de directive du Parlament et du Conseil relative à la protection pénale des intérêts financiers de la Communauté PE 305.612. (71) Per tutti GRASSO, La formazione, cit. (nota 66), p. 2 ss. (72) Il primo comma dell’art. 49 (riproponendo un testo quasi identico a quello contenuto nell’art. 7 Cedu) recita infatti ‘‘Nessuno può essere condannato per un’azione o omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale’’, in particolare l’uso del termine ‘‘diritto’’ al posto di ‘‘legge’’ e l’accostare ai reati di diritto interno quelli internazionali lasciano aperta questa strada. Una efficace e sintetica ricostruzione, documentata con richiami di diritto interno e comparato, della problematica così come emergente da una prima lettura di questa disposizione è offerta da D’AMICO, Articolo 49, in BIFULCO-CARTABIA-CELOTTO, cit. (nota 63) p. 334 ss.; sull’art. 7 Cedu v. BERNARDI, art. 7, in BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI, Commentario alla convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, p. 249 ss.; DELMAS-MARTY, Les grands systèmes, cit. (nota 38), p. 379 ss. (73) Cfr. D’AMICO, Articolo 49, in BIFULCO-CARTABIA-CELOTTO, cit. (nota 63), p. 337.


— 191 — detto ‘diritto penale comunitario’ (74), come il risultato della stratificazione di vari livelli normativi organizzati secondo le rispettive competenze ripartite tra Comunità europea e ordinamento interno, dove, in sintesi, ad una domanda espressa dal diritto comunitario a tutela dei beni ‘creati’ dalle sue attività deve corrispondere un’offerta di tutela da parte del legislatore nazionale. Va inoltre precisato che il diritto comunitario rarissimamente impone sic et simpliciter l’adozione di norme penali. Generalmente, l’obbligo di tutela del bene richiesto agli Stati membri dal diritto comunitario è costituito dalla generica richiesta di corredare una determinata normativa comunitaria con misure coercitive che siano ‘‘adeguate’’, ‘‘proporzionate’’, ‘‘efficaci’’, lasciando il legislatore interno libero nella scelta tra sanzione penale, penale-amministrativa o di altra natura (paradisciplinare, o, al limite, anche civile). Anche qui si impone una precisazione. È noto infatti che le Comunità dispongono di un autonomo potere sanzionatorio di natura amministrativa, originariamente di tipo specifico e limitato al settore della concorrenza (75), e attualmente generale, per la tutela dei propri beni considerati meritevoli di autonoma protezione (76). Tuttavia la Comunità, in ossequio al principio di sussidiarietà dell’intervento comunitario su quello nazionale, ha utilizzato con estrema parsimonia tale suo potere, sicchè la distribuzione della potestà sanzionatoria tra Stato e Comunità non si è polarizzata secondo una correlazione di questo tipo: (a) diritto pe(74) Per una presentazione delle differenti forme attraverso cui si realizza il c.d. diritto penale comunitario v. BERNARDI, I tre volti del diritto penale comunitario, in PICOTTI (a cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale europeo, Milano 1999, p. 41 s.; una penetrante ricostruzione dei principi costituenti il nucleo pulsante della parte generale del diritto penale europeo è offerta da PALIERO, La fabbrica del Golem, cit. (nota 67), p. 466 ss. (75) Ci riferiamo alle tradizionali ‘ammende’ e ‘indennità di mora’ previste, sulla base dell’art. 83 Trattato Ce, nei regolamenti CEE nn. 11/60, 17/62 (da ultimo modificato dal regolamento Ce n. 1216/99) 1017/86, 4056/86, 4064/89 su cui rinviamo a D’ALESSIO, art. 83, in POCAR (a cura di), cit. (nota 49), p. 406 ss. (76) Le Comunità europee hanno infatti generalizzato il loro potere sanzionatorio attraverso l’uso con finalità afflittive di strumenti previsti originariamente, nella regolamentazione in materia di agricoltura e pesca, per finalità reintegrative nel patrimonio comunitario di sovvenzioni irregolarmente versate; tale operazione, contestata dalla Repubblica federale di Germania, venne invece espressamente riconosciuta dalla Corte di giustizia ex art. 229 Trattato Ce (c. 240/90, 27 ottobre 1992, RFT c Commissione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 739, con ampio commento di GRASSO, Recenti sviluppi in tema di sanzioni amministrative comunitarie), sulla base di tale evoluzione venne, come noto, adottato il Regolamento Ce, Euratom no 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee, che rappresenta la razionalizzazione codicistica di tale modello sanzionatorio; su questo potere penale-amministrativo della Comunità v. le ampie e approfondite analisi di PISANESCHI, Le sanzioni amministrative comunitarie, Padova, 1998, in particolare p. 20 ss., p. 103 ss.; MAUGERI, Il regolamento 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario, in GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode, cit. (nota 67) p. 149 ss.


— 192 — nale → competenza nazionale; (b) diritto penale-amministrativo → competenza comunitaria. Al contrario in materia sanzionatoria, la regola è il meccanismo stratificato tra domanda di tutela comunitaria e offerta (penale o penale-amministrativa) nazionale (77).

Queste ‘‘formulette pigre’’ (78) riacquistano tutta la loro vitalità precettiva attraverso il controllo esercitato dalla Corte di Giustizia in virtù dei principi fondamentali di leale cooperazione (79) e di proporzione (80). Il distillato di tali principi comporta in capo agli Stati membri l’obbligo di adottare misure punitive idonee a garantire l’osservanza della disciplina comunitaria e proporzionali alla gravità del fatto e alle esigenze di tutela. L’esistenza di un vero e proprio obbligo e non di una semplice facoltà venne affermata dalla Corte di giustizia nel leading case paradigmatico, in materia: l’arcinota sentenza del mais greco-yugoslavo, in cui fu condannata la Grecia affermando che il principio di leale cooperazione iscritto all’art. 5 del TCE (ora art. 10 TCE) ‘‘impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario’’. Essi devono quindi segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza, e che in ogni caso conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva’’ (81).

Combinando insieme i parametri di dissuasività e di proporzionalità, il controllo della Corte si rileva particolarmente incisivo, traducendosi in un controllo sull’adeguatezza delle soluzioni politico-criminali adottate dagli Stati membri. Ad esempio, la Corte di giustizia a dieci anni dalla sentenza del mais greco(77) Cfr. BERNARDI, Osservazioni, cit. (nota 65), p. 234 ss. (78) L’espressione è di BERNARDI, Osservazioni, cit. (nota 65), p. 236, a cui si rinvia per la chiara ricostruzione dei principi e criteri utilizzati dalla Corte di giustizia e per i puntuali richiami giurisprudenziali, ivi, p. 336 ss. (79) Il principio di leale cooperazione viene dedotto nell’art. 10 TCE: ‘‘Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dall’esecuzione del presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato’’. V. RINOLDI, art.10 TCE, in POCAR (a cura di), cit. (nota 49), p. 115 ss. (80) Tale principio non trova una specifica collocazione ma viene dedotto dai principi generali iscritti nel Trattato Ce, sul punto v., anche per i richiami, normativi, giurisprudenziali e dottrinali CANNIZZARO, Il principio di proporzionalità nel diritto internazionale, Milano, 1999, p. 9 ss.; FERRARI-BRAVO-DI MAJO-RIZZO, Carta, cit. (nota 63), p. 75 s., p. 188 ss.; BERNARDI, Osservazioni, cit. (nota 65), p. 239 ss. (81) Così, testualmente, Corte di giustizia, 21 settembre 1989, C-68/88 - Commissione c. Repubblica ellenica, in Cass. pen., 1992, p. 1654, con nota di SALAZAR.


— 193 — yugoslavo ha ritenuto di dover nuovamente censurare il sistema sanzionatorio greco a repressione delle frodi comunitarie. Qui l’oggetto del giudizio non è più l’esistenza di un sistema di tutela, ma la sua adeguatezza/effettività. La Corte infatti riconosce che la Grecia si è dotata di strumenti a tutela degli interessi finanziari della Comunità analoghi a quelli esistenti per la tutela dei suoi interessi finanziari, e anche che sono state ‘‘irrogate ammende, individuate responsabilità penali e recuperate somme indebitamente versate’’; ma queste constatazioni non sono motivo di per sé sufficiente a confutare gli accertamenti della Commissione (la convenuta del giudizio) che ha accertato ‘‘un’eccessiva negligenza’’ e ‘‘una generale inadeguatezza e inefficacia di questo sistema di misure di sorveglianza e di controllo’’; insomma: il vincolo richiede sia che esista un sistema di controllo analogo a quello previsto per le violazioni interne simile per natura ed importanza, sia che tale sistema risulti effettivo, proporzionato e dissuasivo (82). In altra occasione la Corte, come abbiamo visto, ha giudicato non adeguato il sistema tedesco a tutela dell’obbligo comunitario di pubblicazione annuale dei bilanci e dei conti profitti e perdite delle società di capitali. In ulteriori casi — rarissimi a dire il vero — la Corte di giustizia, valutando l’idoneità e la proporzionalità delle soluzioni sanzionatorie, ha affermato che l’unica soluzione adeguata fosse nel caso di specie il ricorso alla pena. In materia di pubblicità ingannevole di prodotti parafarmaceutici (83) ad esempio, in considerazione dei beni che da tali condotte potrebbero essere lesi (individuati nella tutela del consumatore, nella salute pubblica e nella lealtà delle transazioni commerciali) la Corte ha affermato che ‘‘le disposizioni che gli Stati membri intendono emanare devono prevedere che una pubblicità di tal genere costituisce una violazione, segnatamente di natura penale, accompagnata da sanzioni che possiedano effetto dissuasivo ‘‘ (84); su questa base si è così imposto agli Stati membri un rigido obbligo di penalizzazione in questa materia.

3.2.1. Il contenuto degli obblighi comunitari di tutela: tre paradigmi. Quanto al contenuto dei variegati inputs di tutela immessi da Bruxelles, nelle domande ‘comunitarie’ di tutela possiamo individuare tre distinti paradigmi. (a) La regola comunitaria impone la tutela penale. In questo caso l’input si traduce in una domanda formale di tutela penale, come se, potremmo dire, fosse stato già svolto per intero il giudizio sulla meritevolezza, necessità ed effettività di pena in sede comunitaria (85); in questo contesto, nella prospettiva comunitaria, al legislatore nazionale non ri(82) Corte di giustizia 13 luglio 2000, C-46/97 - Repubblica ellenica c. Commissione, riportata da RIONDATO, Osservatorio, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 1673. (83) Corte di giustizia 28 gennaio 1999, C-77/97 Unilever, riportata con un ampio commento sempre nell’indispensabile rassegna curata da RIONDATO, Osservatorio, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 447. (84) Così, quasi testualmente, il punto n.36 della sentenza riportata alla nota precedente (il corsivo è nostro). (85) Per questa catena logico-analitica nella formazione del precetto penale v. PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 461 s.


— 194 — mane che ratificare quanto già stabilito da Bruxelles (86) (‘‘obbligo formale di tutela penale’’). (b) La regola comunitaria, impone un obbligo generico di sanzioni o misure ‘‘adeguate’’, ‘‘efficaci’’ e ‘‘dissuasive’’, e il legislatore interno opta per la tutela penale. Qui il vincolo è chiaramente meno invasivo, investendo l’esistenza di una sanzione e la valutazione della sua adeguatezza funzionale (87). In questa sede, insomma, il diritto comunitario, dopo aver definito un determinato bene come meritevole di tutela rispetto ad una determinata condotta aggressiva, garantisce al legislatore libertà d’azione per quanto concerne la valutazione sulla meritevolezza e sulla necessità della pena, ma non concede sconti sulla razionalità della tutela. In altre parole l’input che il diritto comunitario invia al diritto nazionale si compone di tre messaggi: i) ciò che in ogni caso pretendo è l’esserci di una tutela realizzata mediante sanzione coercitiva; ii) scegli tu secondo i tuoi criteri logici, giuridici o politici la tecnica di tutela che preferisci, io su questo punto resto ‘agnostico’ (88); iii) una volta che tu hai operato la scelta, io valuto la razionalità (adeguatezza e proporzionalità) di questa scelta (‘‘obbligo funzionale di tutela adeguata’’). (c) La norma comunitaria impone la tutela di un proprio bene nello (86) In via giurisprudenziale quest’obbligo come abbiamo visto è stato posto in materia di pubblicità ingannevole di prodotti parafarmaceutici. Un esplicito obbligo di tutela penale, a nostra conoscenza, non è invece presente negli atti legislativi comunitari. Per ora ci si è andati ‘molto’ vicino con la direttiva 91/308/CEE del 10 giugno 1991 ‘‘relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite’’; in tale direttiva infatti, nel testo dell’articolato, non si fa mai menzione dell’aggettivo ‘‘penale’’, tuttavia tanto nel preambolo che, soprattutto, in una dichiarazione aggiunta in calce all’articolato è sancito l’impegno da parte degli Stati di adottare forme di tutela penale per la repressione degli illeciti tipizzati nell’articolato, sul punto cfr. MANACORDA, L’efficacia espansiva del diritto comunitario sul diritto penale, in Foro it., febbraio 1995, IV, 55 (estratto). Al contrario, il già citato progetto di direttiva del 28 maggio 2001 ‘‘relativa alla protezione penale degli interessi finanziari della Comuntà europea’’ contiene svariati obblighi di penalizzazione, l’art. 7 in particolare, rubricato esplicitamente ‘‘obbligo di incriminazione’’, afferma in modo ridondante ma che non lascia spazio al minimo dubbio che le disposizioni della direttiva ‘‘devono essere trasposte nel diritto penale nazionale in modo tale da erigere le condotte descritte in infrazioni penali’’. (87) È questo, come già detto, il meccanismo tipico attraverso cui il diritto comunitario esercita la sua domanda di tutela. La casistica è vastissima, e abbraccia tutti i settori di intervento del diritto comunitario. Ricordiamo solo che il sistema attraverso cui in Italia si attuano questi obblighi è la c.d. legge comunitaria annuale (istituita dalla legge 9 marzo 1989, n. 89), su cui v. per tutti, BERNARDI, Osservazioni, cit., (nota 65), p. 243 ss. (88) Definisce il diritto comunitario un diritto agnostico alla scelta tra penale e penale-amministrativo DONINI, Prospettive europee del principio di offensività, intervento al convegno ‘‘Verso un codice penale modello per l’Europa. La parte generale’’. Parma, 29/30 settembre 2000, p. 8 del dattiloscritto.


— 195 — stesso modo in cui lo Stato membro tutela l’analogo bene interno (89); qui vi è una sorta di presunzione di conformità, secondo cui, dando per presupposta l’adeguatezza di una tutela preesistente, si ritiene di canalizzare l’offerta sanzionatoria richiedendo di estendere al bene tutelando la tecnica di tutela già adottata per un analogo bene interno. Si tratta tuttavia di una presunzione relativa: se l’effetto dell’assimilazione è una tutela comunque inadeguata, infatti, il rispetto di questa tecnica non mette automaticamente il sistema nazionale al riparo da censure da parte del diritto comunitario (90) (‘‘obbligo analogico/funzionale di tutela per assimilazione’’). Guardando il contenuto dell’obbligo dalla nostra prospettiva nazionale le tre forme di pressione presentano un differente livello di compressione della discrezionalità concessa al legislatore interno. Sub a) l’obbligo investe l’an e il quomodo della sanzione, riducendo ai minimi termini il margine di oscillazione concesso al law maker nazionale, tuttavia il principio di riserva di legge sancito all’art. 25 2o comma Cost. garantisce comunque che la scelta di punire sia una scelta del legislatore: qui l’obbligo di tutela penale, in fondo, ha natura metagiuridica; più che di obbligo, è corretto allora parlare di domanda di penalizzazione (peraltro con elevatissime chances di trovare la risposta desiderata, dato il suo valore politico). Peraltro, se, per avventura, il legislatore (nella specie) italiano scegliesse di non adottare la tutela penale, sarebbe libero di farlo. In fondo, è un sistema che ‘funziona perché funziona’, e non ammette patologie; se i due sistemi dovessero irrigidirsi (il comunitario nel pretendere la tutela penale e il nazionale nel negarla) si produrrebbe un’aporia normativa che rischierebbe di portare ad un vero e proprio cortocircuito normativo (91). Sub b) il contenuto obbligatorio minimo ineludibile è costituito da un vincolo relativo all’esistenza di una risposta sanzionatoria adeguata allo scopo, che nei vari casi può essere ulteriormente arricchito da vincoli (89) L’idealtipo della tecnica della tutela per assimilazione è costituito dall’art. 194 trattato EURATOM dove è disposto che gli Stati membri equiparino la tutela del segreto atomico a quella predisposta in diritto interno in materia di attentato alla sicurezza dello Stato (su cui v. per tutti PEDRAZZI, La tutela penale del segreto atomico nel trattato dell’Euratom, in Il diritto dell’energia nucleare, Milano, 1961, p. 413 ss.; SGUBBI, Diritto penale comunitario, in Dig. disc. pen., 1990, p. 99), v. anche nota 97. (90) Come abbiamo visto, è esattamente quanto è avvenuto confrontando le due sentenze sul sistema greco di tutela degli interessi finanziari della Ce: con la sentenza del 1989 sul mais greco-yugoslavo si è chiesto di procedere ad un’assimilazione tra tutela del bene interno e tutela del bene comunitario; dieci anni dopo, nonostante il rispetto dell’obbligo di assimilazione, si è ritenuto sussistente un contrasto con l’obbligo comunitario di tutela proprio in considerazione del mancato raggiungimento del canone di adeguatezza (v. retro, par. 3.2. in fondo). (91) V. infra, par. 5.2. in fondo.


— 196 — relativi ai contenuti (formulazione più o meno dettagliata del precetto, cornici edittali, consigli su quale tecnica utilizzare, ecc.). Così, se vogliamo osservare il quantum di discrezionalità concesso al legislatore nazionale in relazione ai tre snodi logici-analitici su cui si fonda (rectius: si dovrebbe fondare) la legislazione penale (meritevolezza, necessità, effettività della tutela mediante pena) (92), ne emerge — se ci si consente la metafora — una figura simile a quei campanili ‘a cipolla’, tipici dell’Europa orientale. Sviluppando la metafora: — in sede di meritevolezza (che rappresentiamo con il fusto del campanile), la norma comunitaria individua e descrive il comportamento lesivo di un determinato bene giuridico, e vincola il legislatore interno all’adozione di una sanzione coercitiva, ma lo lascia libero nella scelta della tecnica; il diritto comunitario al massimo può essere un indice, più o meno intenso, della meritevolezza di pena (93). — in sede di necessità (la guglia a forma di cipolla) il legislatore ha margini ancora più ampi poichè, il comunitario su questo profilo si ritrae e può esercitare al limite una funzione di riduzione del penalmente rilevante; — in sede di adeguatezza infine (94), (il pinnacolo posto alla sommità del campanile), al legislatore non sono concesse divagazioni: la sua tutela deve essere adeguata allo scopo che si intende perseguire, che — sia detto ipersinteticamente — in un diritto penale ‘agnostico’ come quello comunitario è solo e soltanto la tutela del bene giuridico (95). Sub c) gli obblighi indotti dal c.d. ‘principio di assimilazione’, a nostro avviso, presentano un regime almeno in parte sui generis. Da questi ultimi infatti discende un ‘divieto di disparità di trattamento’ per il quale il bene comunitario deve essere tutelato allo stesso modo che l’omologo bene interno (che potremmo chiamare quindi ‘bene parametro’) che si va ad inserire in apertura della domanda di tutela, ma non la assorbe nei suoi ulteriori contenuti; l’obbligo di assimilazione infatti non surroga il canone (92) Cfr. PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 461 s.; sulla meritevolezza di pena v. per tutti, ROMANO, ‘‘Meritevolezza di pena’’, ‘‘bisogno di pena’’ e teoria del reato, in Scritti in memoria di R. Dell’Andro, vol. II, Bari, p. 789 ss. (93) Ad esempio, le indicazioni a favore della tutela penale allegate alla direttiva sulla repressione del riciclaggio, a cui abbiamo accennato alla nota 86, rappresentano un indice della meritevolezza di pena. (94) Nella nostra ricostruzione l’adeguatezza corrisponde a quella che PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 462 definisce il postulato di effettività. (95) Sullo scopo di tutela a cui agganciare il canone di adeguatezza e proporzionalità v., anche per gli accurati riferimenti, BERNARDI, Osservazioni, cit. (nota 65), p. 228 s.; per una panoramica v. HENNAU-HUBLET, Les sanctions en droit communautaire: réflexions d’un pénaliste, in TULKENS-BOSLY (a cura di), La justice pénale et l’Europe, Bruxelles, 1996, p. 487 s.


— 197 — di ‘adeguatezza’. In questo modo, se sul piano degli effetti il principio di assimilazione produce un’espansione del diritto penale interno, sul piano dei contenuti dominus principale delle opzioni politico-criminali resta comunque il legislatore nazionale, al quale è fatto obbligo di estendere al bene comunitario il livello e le forme di tutela da lui prescelte per proteggere l’omologo bene nazionale, sempre che queste siano adeguate. Insomma non vediamo enormi differenze rispetto all’ipotesi sub b). Con una fondamentale precisazione: l’assimilazione è ascrivibile sub b) — e resta valida — solo se avviene tra beni e modalità aggressive assolutamente omogenei (96). Vi è infatti una proporzionalità diretta tra la rigidità formale dell’obbligo e la disomogeneità tra il bene da tutelare e il ‘bene parametro’: più aumenta la disomogeneità tra i beni e/o le modalità aggressive che si intendono assimilare, più l’assimilazione si delinea come obbligo rigido e formale di penalizzazione (97). 3.3. Gli strumenti giurisdizionali di cui dispone l’ordinamento comunitario per individuare e tutelare i suoi obblighi di tutela. — La linea conduttrice della nostra indagine in definitiva è quella di verificare la ‘densità normativa’ — ossia il contenuto e la forza giuridica — degli obblighi comunitari di tutela. A tal fine, è pregiudiziale osservare la tematica nella prospettiva del sistema giurisdizionale comunitario; tale ricognizione si giustifica infatti non solo per valutare il ‘tasso di coazione’ di cui dispone l’ordinamento comunitario per far rispettare le sue domande di tutela, ma anche — e soprattutto — perché è attraverso l’attività giurisdizionale svolta dalla Corte di giustizia che viene individuato il reale e specifico contenuto normativo espresso dalle domande di tutela. Questo ci impone di procedere ad un rapido excursus sui rimedi giurisdizionali di cui il diritto comunitario dispone per accertare ed eliminare le violazioni di obblighi comunitari di tutela, prima di passare ad un provvisorio riepilogo dei risultati raggiunti fino a questo momento. L’ordinamento comunitario prevede due rimedi giurisdizionali: (a) il proce(96) Sulle regole e i principi che sovraintendono all’analogia legis fondamentale l’insegnamento di BOBBIO, Teoria generale del diritto, Torino, 1993, p. 265 ss. (97) Ad esempio, oltre a quanto ricordato alla nota 89, la tecnica di tutela per assimilazione, a parte per gli interessi finanziari della Comunità prevista all’art. 280 1o comma TCE, è stata utilizzata dal legislatore comunitario con la direttiva 91/250/CEE sulla tutela dei programmi informatici, con cui si obbligano gli Stati membri a tutelare i programmi per elaboratore come opere letterarie e artistiche (cfr. art. 1 della direttiva e il d.lgs. 29 dicembre 1992, n. 517 in attuazione della predetta direttiva), qui la distinzione è che non solo il ‘bene parametro’, ma anche il bene da tutelare non costituiscono ‘‘beni propri’’ delle Comunità; strutturalmente questo non comporta alcuna differenza, dal punto di vista politico-criminale tuttavia in questo modo si ‘sdogana’ l’utilizzo del metodo dell’assimilazione per la tutela di qualunque bene di rilevanza e non di appartenenza comunitaria, ampliando di conseguenza in misura notevole il campo di applicazione di questa tecnica.


— 198 — dimento disciplinato agli artt. 226-228 Trattato Ce, denominato ricorso in infrazione (98); (b) la procedura disciplinata dall’art. 234 Trattato Ce, comunemente noto come ricorso mediante rinvio pregiudiziale. (aa) Il ricorso in infrazione (99) consiste nell’accertamento giurisdizionale dell’inadempimento agli obblighi comunitari, svolto dalla Corte di giustizia, su iniziativa della Commissione o di uno Stato membro delle Comunità. Nel ricorso in infrazione, la Corte è chiamata ad emettere una sentenza la quale ha carattere di accertamento, limitandosi a constatare l’eventuale inadempimento dello Stato (100). In ossequio ai principi del diritto internazionale, secondo cui gli Stati sono liberi nella scelta dei mezzi di esecuzione di obblighi internazionali, pur se derivanti da sentenza, la Corte di giustizia non può infatti condannare lo Stato ad adottare uno specifico provvedimento, né può annullare le norme interne contrarie al diritto comunitario (101). Comunque, dato che, come abbiamo visto (102), il giudice nazionale — quando la disposizione violata è direttamente applicabile — è tenuto a disapplicare la norma interna contraria a quella comunitaria, saranno i giudici ordinari a dare attuazione alla sentenza della Corte, risolvendo l’antinomia in modo necessariamente conforme al giudizio della Corte di giustizia. Tuttavia, quando si presenti la nostra questione (in cui dalle statuizioni della sentenza possano derivare conseguenze penali in malam partem), i giudici nazionali non possono disapplicare le norme in violazione del diritto comunitario perché le disposizioni violate sono sistematicamente sprovviste di diretta applicabilità (103). Così, in caso di un persistente inadempimento da parte degli Stati, nonostante la Corte di giustizia abbia accertato tale mancanza, ad una reiterata violazione (rectius: ad una violazione della sentenza pronunciata sollecitata con ricorso in infrazione) non potrà che far seguito una nuova procedura di infrazione, diretta ad accertare l’inadempimento dello Stato rispetto agli obblighi scaturenti dalla medesima sentenza. (98) Cfr. ad es. FUMAGALLI, La responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto comunitario, Milano, 2000, p. 11 e BALLARINO, Manuale di Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2001, p. 139. (99) Su cui oltre a quanto riportato alla nota precedente v. TIZZANO, La Corte di giustizia delle Comunità europee, Napoli, 1967, p. 183 ss. FUMAGALLI, art. 226 TCE, in POCAR (a cura di), cit. (nota 49), p. 753 ss.; CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55), p. 59. LEANZA, Il contenzioso comunitario ex artt. 169-171 del Trattato CEE e lo Stato italiano, in Jus, 1988, p. 31; POCAR, Diritto dell’Unione e delle Comunità europee, Milano, 2000, p. 189 ss.; DRAETTA, Elementi di diritto dell’Unione europea, Milano, 1999, p. 143 ss. (100) Dottrina unanime cfr. POCAR, Diritto dell’Unione, cit. (nota 99), p. 184 ss.; TIZZANO, cit. (nota 99), p. 221 ss.; FUMAGALLI, La responsabilità, cit. (nota 98), p. 162 ss.; p. 34 ss.; DRAETTA, Elementi di diritto, cit. (nota 99), p. 146. (101) Non si tratta però di una sentenza di mero accertamento, poiché l’art. 228 co. 1 TCE pone in capo allo Stato l’obbligo di ‘‘prendere provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta’’. Così, nei fatti sarà la motivazione della sentenza ad indicare i provvedimenti da adottare, individuando in concreto l’inadempimento dello Stato (ad es. mancata adozione di un determinato atto, mancata abrogazione di una legge contraria al diritto comunitario, attuazione parziale o contraddittoria dell’obbligo comunitario); cfr. FUMAGALLI, La responsabilità, cit. (nota 98), p. 167 ss. (102) Cfr. supra, par. 3.1. (103) V. supra, par. 3.2.


— 199 — Questa seconda sentenza pronunciata dalla Corte è così scissa in due parti. Una prima, di natura dichiarativa, contiene (ex art. 228 1o comma) il ‘solito’ accertamento della violazione del diritto comunitario, cioè dell’obbligo di ‘‘prendere i provvedimenti che l’esecuzione della (precedente) sentenza della Corte comporta(va)’’. La seconda parte costituisce invece una pronuncia di condanna, strumentale all’attuazione del primo capo della sentenza (104). Questo sistema della ‘doppia condanna’ ha un evidente peso politico: la ‘buona volontà’ degli Stati nell’adempiere alle statuizioni della Corte è infatti ‘stimolata’ dalla spinta a evitare la gaffe internazionale di incorrere in una sanzione. Tuttavia, su un piano meramente giuridico, il sistema si ferma qui: l’adempimento in fondo è questione di ‘volontà’ (105): oltretutto, l’obbligazione pecuniaria da essa nascente non è dotata di efficacia esecutiva (106). (bb) Il ricorso in via pregiudiziale (107), come la procedura di infrazione chiede alla Corte di giustizia la stessa attività di interpretazione del diritto comunitario (108); il ricorso in via pregiudiziale tuttavia trova nei giudici nazionali lo strumento privilegiato per garantire l’efficacia delle proprie statuizioni in relazione alle violazioni del diritto comunitario da parte degli Stati. La questione è infatti direttamente sollevata dal giudice interno e in tal modo la Corte, pur rispettando formalmente la rigida separazione delle competenze (per cui spetta al giudice interno l’applicazione della norma comunitaria) finisce in sostanza per fornire al giudice tutti gli elementi interpretativi necessari per dirimere il contrasto. Pertanto, i giudici nazionali dovranno applicare la normativa comunitaria così come definita dalla statuizione della Corte (109). Il punto è fondamentale. Nella struttura del ricorso in infrazione, a mancare è (104) Cfr. POCAR, Diritto dell’unione, cit. (nota 99), p. 187. (105) Sull’evidente presupposto di evitare eccessive limitazioni di sovranità agli Stati, cfr. ad es. BALLARINO, Manuale, cit. (nota 98), p. 167. (106) Prevista esclusivamente per le sentenze pronunciate a danno di soggetti privati (artt. 244 e 256 TCE) cfr. CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55), p. 59. Diversamente FUMAGALLI, La responsabilità, cit. (nota 98), p. 219 sostiene che ‘‘un’esecuzione ‘forzata’ appare invece concepibile a livello comunitario: la Commissione potrà, ad esempio, dedurre dai contributi finanziari destinati ad uno Stato l’importo della sanzione pecuniaria dallo stesso non corrisposto’’. (107) Per quanto riguarda il ricorso pregiudiziale ex art. 234 TCE v., oltre ai manuali già richiamati: ADINOLFI, L’accertamento in via pregiudiziale della validità degli atti comunitari, Milano, 1997; FUMAGALLI, sub art. 234 TCE, in POCAR (a cura di), cit. (nota 49), p. 797 ss. (108) Comune ad entrambe le procedure (per infrazione e in via pregiudiziale) è infatti lo sforzo ermeneutico attraverso cui la Corte di giustizia arriva a trasformare una pronuncia sull’interpretazione del diritto in una sentenza sulla compatibilità tra norma comunitaria e norma interna, arrivando così — indirettamente — ad individuare lo specifico inadempimento dello Stato. (109) La stessa Corte costituzionale ha riconosciuto tale principio: ‘‘la normativa comunitaria (...) entra e permane in vigore, nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge dello Stato; e ciò tutte le volte che soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità. Questo principio (...) non vale soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della CEE mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti, come nella specie,


— 200 — proprio il giudice interno: il rapporto è tra il Governo dello Stato inadempiente, la Commissione e la Corte di giustizia; nel rinvio pregiudiziale, invece, il vero protagonista è il giudice nazionale ricorrente che, con la sua decisione resa in conformità alle statuizioni della Corte di giustizia, disapplicando il diritto interno — originario o sopravvenuto — che risulta contrario, così come statuito dalla Corte di giustizia, al diritto comunitario, in qualche misura ‘nazionalizza’ gli obblighi comunitari (110). Tuttavia, nell’ipotesi che a noi interessa indagare — ovvero se da tutto ciò derivino, in ultima istanza, effetti penali in malam partem —, resta acquisito che il giudice comune non può disapplicare la normativa interna contrastante (111). Infatti, se il diritto comunitario non ha competenza ad emanare norme incriminatrici nella law in book, a maggior ragione non può farlo nella law in action, come conferma peraltro la stessa Corte di giustizia (112). D’altra parte, sul giudice nazionale gravano sia il generale ‘obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario’, secondo cui ‘‘le autorità nazionali devono adottare tutti i provvedimenti atti a garantire l’adempimento dei precetti comunitari’’ (113), sia — come è ovvio — ‘l’obbligo di interpretazione conforme alla Costituzione’ che impone di adottare sempre l’interpretazione maggiormente aderente al dettato costituzionale (114). I due obblighi impongono al giudice di dare attuazione, rispettivamente, ai dettati comunitari e costituzionali. Così, il giudice comune, non podalle sentenze interpretative della Corte di giustizia’’. Corte costituzionale, 19 aprile 1985 n. 113, in Riv. dir. int., 1985, p. 388 ss. (110) Cfr. le intriganti riflessioni di CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55) p. 55 ss.; gli autori sottolineano come l’originalità dell’architettura giurisdizionale europea, dipenda proprio dall’individuazione dei giudici europei nei giudici nazionali e come la genialità di questo sistema risieda nel fatto che in questo modo si riesce ad evitare il limite, congenito nel diritto internazionale, di essere demandato alla buona volontà degli Stati; infatti quando il diritto viene assorbito e tradotto nelle decisioni dei giudici nazionali la regola internazionale diventa vincolante perché ‘‘uno Stato nelle democrazie occidentali, non può disobbedire ai propri giudici’’ (ivi, p. 61). E sebbene questo specifico meccanismo sia escluso in materia penale esso ha comunque contribuito in generale a far accettare il diritto comunitario e a produrre su di esso consenso: insomma una volta che un corpus normativo è accettato da parte dei giudici nazionali si semina ‘‘una attitudine dell’obbedienza e al rispetto della Rule of law, che tradizionalmente è molto meno sentita in relazione agli obblighi internazionali di quanto non lo sia rispetto a quelli nazionali’’ (ivi, p. 62). (111) La differente ricostruzione secondo cui il giudice nazionale deve comunque disapplicare il diritto interno contrastante, anche nelle questioni in malam partem, traspare invece in TIEDEMANN, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 209 ss.; RIONDATO, Profili di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale dell’economia (‘‘influenza’’, poteri del giudice penale, questione pregiudiziale ex art.177 TCE, questioni di costituzionalità), in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 1135 ss., in particolare p. 1155 ss. (112) Corte di Giustizia, 80/86, 8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmengen; C-168/95, 26 settembre 1996, pubbl. con note esplicative in FERRARI-BRAVO-DI MAJO-RIZZO, Carta, cit. (nota 63), p. 191, PIETROBON, art. 249, in POCAR (a cura di), cit. (nota 49), p. 861. (113) Criterio espresso dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Mearlising del 13 novembre 1990 causa C 106/89, in CD-ROM allegato a CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55); secondo tale criterio il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo delle fonti comunitarie. (114) Principio espresso da ultimo in Corte costituzionale n. 356 del 1996.


— 201 — tendo dare attuazione all’obbligo comunitario, perché altrimenti violerebbe il principio costituzionale della riserva di legge, ma dovendo al contempo adottare ‘‘i provvedimenti atti a garantire l’adempimento agli obblighi comunitari’’, dopo aver posto questione pregiudiziale alla Corte di giustizia non potrà fare altro che rimettere il quesito alla Corte costituzionale (115).

3.3.1. Risultato intermedio. — Riordinando le idee, possiamo a questo punto affermare che il sistema comunitario possiede un ampio ventaglio di strumenti di pressione per ‘sponsorizzare’ i suoi vincoli di tutela, ma questi non sono dotati di ‘azionabilità’. Non avendo infatti il diritto comunitario competenza penale, esso — a fortiori — non dispone di strumenti giuridici idonei a modificare direttamente in malam partem il diritto penale. Su questa base, in relazione alla struttura della prospettata antinomia tra obbligo comunitario di tutela e ordinamento interno, è possibile fissare i seguenti punti. a) Qualora all’obbligo comunitario di tutela corrisponda un’inattuazione originaria da parte del legislatore nazionale, il ‘ricorso per infrazione’ sembra mantenere uno spazio d’applicazione esclusivo. In questo caso infatti, esattamente come avviene davanti alla nostra Corte costituzionale (116), non vi è modo di denunciare il contrasto in via pregiudiziale, non essendoci una norma interna su cui catalizzare il procedimento. Così, nei casi in cui a un obbligo di tutela si contrapponga un vuoto normativo originario e assoluto, la violazione del diritto comunitario può essere denunciata nelle forme e nei limiti del solo ricorso in infrazione e in relazione al contenuto minimo ineludibile dell’obbligo comunitario di tutela: l’esserci di una sanzione (adeguata). In questi casi (inadempimento assoluto e originario di un obbligo comunitario di tutela), i rimedi si fermano qui: il legislatore quindi o decide di piegarsi alle potenti pressioni (metagiuridche) proprie di questo procedimento, oppure decide di non piegarsi: tertium non datur. Di fronte a questo vuoto normativo non vi sono strade ulteriormente alternative. b) Ugualmente, nell’ipotesi in cui la Corte di giustizia si fosse pronunciata nel senso di un inadempimento parziale di un obbligo di tutela, il discorso si arresta qui. La Corte costituzionale infatti, come abbiamo vi(115) Da una parte infatti spetta alla Corte costituzionale pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme interne che contrastino con le norme comunitarie non direttamente efficaci (così CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55), p. 190), dall’altra la stessa Corte costituzionale non può fare a meno del parere della Corte di Giustizia nel raffrontare la norma italiana, oggetto del suo giudizio, con quella comunitaria; essa ha infatti stabilito (ordinanza n. 109/1988) l’obbligo per il giudice a quo di adire preventivamente la Corte europea ex art. 234, la quale interpreterà la norma comunitaria dirimendo il contrasto con la legge italiana, su cui v. GHERA, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Giur. cost., 2000, p. 1198 s. (116) V. supra, par. 2.


— 202 — sto (117), non può comunque giudicare la norma interna ‘nella parte in cui’ non ha attuato un’adeguata tutela. c) Quando invece l’antinomia emerge da una norma interna che non adempie all’obbligo comunitario di tutela, perché modificativa/abrogativa della preesistente norma interna nella parte in cui rispondeva al canone di adeguatezza dell’obbligo di tutela il discorso muta: la struttura del giudizio di costituzionalità vigente in Italia rende infatti, in abstracto, azionabile la violazione dell’obbligo (118). Concentriamo allora la nostra attenzione su quest’ultimo tipo di antinomia e cerchiamo di tracciare le coordinate essenziali su cui valutare la percorribilità di questo (per ora ipotetico) giudizio di costituzionalità. In primis, va ricordato che sui giudici nazionali grava il generale obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario e che l’interpretazione del diritto comunitario spetta alla Corte di giustizia. Emerge così un primo punto chiave: il rispetto dell’obbligo comunitario di tutela, come abbiamo visto, si traduce in una valutazione sull’adeguatezza/proporzionalità della specifica sanzione offerta dal legislatore nazionale; ma l’adeguatezza/proporzionalità sono canoni che comportano un giudizio di relazione dai termini di riferimento chiari o quantomeno chiariti. Questo comporta che l’antinomia emergente tra l’obbligo comunitario di tutela e la normativa interna di per sé non è mai netta, e necessita dell’interpretazione della Corte di giustizia; per questo il rispetto ‘‘dell’obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario’’ comporta in primo luogo che l’antinomia sia stata specificatamente accertata dalla Corte di giustizia, attraverso il procedimento di infrazione, su iniziativa della Commissione o di uno Stato ovvero mediante questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale. Una volta affermata e chiarita, da parte della Corte di giustizia, l’antinomia da cui discendano effetti in malam partem, il giudice comune non può risolvere da sé il conflitto normativo ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale, impugnando la norma interna modificatrice/abrogatrice (oggetto della questione), per violazione dell’art. 11 della Costituzione (‘parametro diretto’ della questione), in riferimento alla norma comunitaria che contiene l’obbligo di tutela, come chiarito dalla Corte di giustizia (che funge in questo caso da ‘parametro interposto’ della questione) (119). 3.3.1.1. Conseguenza provvisoria. — Riprendiamo allora qui l’esempio sulla procedibilità a querela del falso in bilancio introdotto nell’incipit del discorso. Su tale ipotesi per ora possiamo affermare solo che vi sono elevate chances, (117) (118) (119)

V. supra, par. 2. V. supra, par. 2. Cfr., quasi testualmente, CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55), p. 190.


— 203 — sulla base della precedente giurisprudenza, che tale soluzione sia comunitariamente illegittima, ma per accertarlo occorrerebbe comunque una specifica pronuncia, sollecitata dalla Commissione o da uno Stato con il ricorso in infrazione, ovvero sollevata da un giudice nazionale mediante rinvio pregiudiziale (120). Con il ricorso in infrazione, come abbiamo visto, una condanna della Corte di giustizia non è di per sé idonea a modificare in malam partem l’ordinamento interno annullando la normativa italiana nella parte in cui subordina la tutela penale alla querela. Nel rinvio pregiudiziale, o sulla base della sentenza emessa con la procedura di infrazione — ipotizzando sempre che la Corte di giustizia abbia dichiarato l’illegittimità comunitaria della ‘soluzione a querela’ —, il giudice a quo non potrebbe disapplicare automaticamente la norma modificatrice, rendendo in questo modo perseguibile d’ufficio il reato previsto come procedibile a querela. Il giudice interno dovrà allora sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna che prevede la procedibilità a querela del reato di falso in bilancio (rectius: che abroga la perseguibilità d’ufficio del reato di falso in bilancio) (oggetto della questione), per violazione dell’art. 11 Cost. e — come vedremo dell’art. 117 Cost. — (‘parametro diretto’ della questione), in riferimento alla norma comunitaria così come chiarita dalla Corte di giustizia (‘parametro interposto’ della questione).

4.

OBBLIGHI COMUNITARI DI TUTELA E COSTITUZIONE.

Venendo ora a sogguardare la questione dal punto di vista costituzionale, devono essere presi in considerazione: da un lato, i segnali emessi dalla giurisprudenza costituzionale attraverso una decisione particolarmente innovativa, cioè la sentenza n. 31 del 2000 (121); dall’altro lato, la (120) Le peculiarità dei due procedimenti determinano inoltre che nel caso in questione il ricorso in infrazione sia proponibile anche nei confronti della sola legge delega n. 366 del 2001, mentre il rinvio in via pregiudiziale sollecitato da un giudice interno necessita ovviamente di una normativa in grado di dispiegare i suoi effetti in un giudizio: quindi che sia entrato in vigore il decreto legislativo in attuazione della legge delega. (121) Una sentenza innovativa in tema di ammissibilità di referendum, che affronta tematiche rilevanti — a tacer d’altro — per il diritto internazionale, e il diritto comunitario oltre che, ovviamente, per il diritto costituzionale, possiede di per sé delle potenti virtù caleidoscopiche. Se a questo si aggiunge che l’oggetto specifico è costituito dall’intero testo unico delle disposizioni sull’immigrazione, si comprende perché a questa decisione siano stati già dedicati nelle varie discipline giuridiche diversi scritti. Noi ovviamente offriremo una lettura frammentaria della decisione qui in esame, concentrata sulla sola (sic!) questione degli obblighi costituzionali/comunitari di tutela penale. In generale su tale sentenza v.: BASCHERINI, Il referendum sull’immigrazione: l’intervento di soggetti terzi, la natura composita dell’oggetto referendario, il limite degli obblighi internazionali, in Giur. cost. 2000, p. 233 ss.; CARTABIA, Referendum e obblighi comunitari: verso l’inammissibilità dei referendum su ‘‘leggi comunitariamente necessarie?’’, in Riv. ita. dir. pubbl. com., 2000, p. 183 s.; BIN, Potremmo mai avere sentenze sui referendum del tutto soddisfacenti? Una considerazione d’insieme sulle decisioni ‘‘referendarie’’ del 2000, in Giur. cost. 2000, p. 222 s.; CERASE, Dal giudizio sull’ammissibilità del referendum a quello sulla sovranità dello Stato, in Giur. cost., 2000, p. 228 s.; BONETTI, Il referendum abrogativo del testo unico delle disposizioni sull’immigra-


— 204 — recentissima legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, recante le ‘‘Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione’’. 4.1. Obblighi comunitari di tutela e Corte costituzionale: la sentenza n. 31 del 2000. — La sentenza n. 31 del 2000 ha dichiarato inammissibile la richiesta di un referendum abrogativo dell’intero d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 recante il ‘‘Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero’’ poiché ‘‘l’eventuale abrogazione renderebbe inadempiente l’Italia agli obblighi derivanti dalla Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen e quindi del Trattato di Amsterdam’’. Tale inadempimento si scontrerebbe con i limiti impliciti, desunti precedentemente (122) dalla stessa Corte per via interpretativo-sistematica sulla base dell’art. 75 Cost., giusta il quale non è consentito svolgere referendum sulle disposizioni normative strettamente collegate all’esecuzione dei Trattati internazionali; un principio che, interpretato in senso lato, viene riferito alle disposizioni considerate in attuazione di obblighi internazionali e comunitari (123). Tuttavia, nonostante i richiami della Corte costituzionale alla sua precedente giurisprudenza costituzionale in punto di ammissibilità del referendum sulle disposizioni considerate in attuazione di obblighi internazionali e comunitari, la sentenza n. 31 del 2000 da questa giurisprudenza si affranca per dire qualcosa di più e di diverso. Ricordiamo che nella precedente giurisprudenza costituzionale il presupposto della preclusione referendaria alle leggi in attuazione di obblighi internazionali e comunitari, risiedeva nella titolarità esclusiva in capo al Parlamento, organo sovrano e permanente, della responsabilità nei confronti della comunità internazionale. Il corpo elettorale, al contrario, disponendo solo in via eventuale della potestà legislativa, non sarebbe depositario della responsabilità internazionale dello Stato. Così, la preclusione in materia referendaria veniva fondata sulla ‘‘responsabilità che lo Stato italiano assumerebbe verso gli altri contraenti a cagione della dizione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2000, p. 77 ss. Per l’adiacenza delle argomentazioni addotte dalla Corte costituzionale nelle due decisioni v. anche BARONE, Referendum e contratti di lavoro a termine (osservazioni a Corte Cost. 7 febbraio 2000 n. 41), in Dir. Un. eur., 2000, p. 75 ss. Nella manualistica v. CARTABIA-WEILER, cit. (nota 55), p. 189. In prospettiva penalistica degli accenni a tale sentenza sono contenuti in MANACORDA, L’armonizzazione dei sistemi penali: una introduzione, in La giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale, Collana ‘‘Convegni di studio Enrico de Nicola’’, Milano, 2000, p. 60. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit. (nota 25), p. 67. (122) Le declinazioni giurisprudenziali di questo principio sono contenute, oltre alle sentenze richiamate direttamente dalla Corte nella n. 31 del 2000 (ovvero nn. 27 del 1997, 63 del 1990, 25 del 1987, 30 e 31 del 1981), nelle sentenze nn. 16 del 1978 e 28 del 1993. (123) V., anche per i riferimenti giurisprudenziali, CARTABIA, Referendum e obblighi comunitari, cit. (nota 121) p. 184; l’A. ricorda come l’equiparazione degli obblighi comunitari a quelli internazionali sia avvenuta tacitamente.


— 205 — sapplicazione dell’accordo, conseguente all’abrogazione delle norme apprestate per l’attuazione degli impegni assunti’’ (124). In questo modo la Corte, sottolineando che l’eventuale violazione di un obbligo internazionale comporta una responsabilità, che la Costituzione ha voluto riservare alla valutazione politica del Parlamento, riconosceva implicitamente che tali obblighi potevano essere comunque violati dall’organo legislativo permanente, titolare della responsabilità internazionale. In altre parole, per la Corte costituzionale l’obbligo internazionale (fino a ieri) produceva un vincolo a geometria variabile: ‘inviolabile’ dal corpo elettorale; ‘violabile’ dal legislatore ordinario, titolare della responsabilità internazionale dello Stato italiano.

Viceversa i principi espressi nella più recente decisione (125) travalicano tanto la materia oggetto del giudizio di ammissibilità (la disciplina (124) Così Corte cost. a partire dalla sent. 30 del 1981 in Giur. cost., 1981, p. 191. (125) In considerazione della ‘laboriosità’ della sentenza n. 31 del 2000 riteniamo opportuno riportare per intero i punti 3 e 4 del considerato in diritto della motivazione della Corte: ‘‘3. La richiesta è inammissibile per i motivi che si espongono. Il testo unico sull’immigrazione costituisce un corpus composito che include norme di natura e contenuto diversi, poiché raccoglie disposizioni di principio (artt. 1-3), una normativa organica sull’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale, sul controllo alle frontiere e sull’espulsione, sulla partecipazione alla vita pubblica e l’integrazione degli immigrati (artt. 4-11, 34-42, 45 e 46), norme incriminatrici e processuali (rispettivamente art. 12 e artt. 1317), previsioni di carattere umanitario (artt. 18-20, 28-33), sul diritto al lavoro (artt. 21-27), sui diritti civili (artt. 43 e 44) e, infine, norme di coordinamento e transitorie (artt. 47-49). Di precipuo interesse, ai fini del presente giudizio, è il titolo II che concerne l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato e che disciplina: — le condizioni in base alle quali lo straniero extracomunitario è ammesso in Italia; — quelle per cui può soggiornarvi, anche a tempo indeterminato; — il tipo di controlli cui è tenuta la polizia di frontiera; — le condizioni per l’irrogazione, l’esecuzione e l’impugnazione dei provvedimenti di respingimento o di espulsione; — le sanzioni penali da irrogare a chi illecitamente introduca o favorisca la permanenza di extracomunitari nel nostro Paese. Per effetto delle abrogazioni disposte dall’art. 47 del decreto legislativo n. 286 del 1998, le norme di cui sopra sono le uniche che, attualmente, regolano la materia, sì che — nell’ipotesi di abrogazione referendaria — verrebbe meno, da un lato, la disciplina circa l’ingresso e il soggiorno degli stranieri e, dall’altro, si determinerebbe una lacuna per quanto concerne le sanzioni penali a carico di coloro che sfruttano il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Occorre ricordare che il trattato di Roma, ratificato e reso esecutivo con la legge 14 ottobre 1957, n. 1203, di recente modificato dal trattato di Amsterdam (ratificato e reso esecutivo con la legge 16 giugno 1998, n. 209), stabilisce che gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale o particolare idonee ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti da esso ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Gli Stati membri hanno altresì l’obbligo di adempiere i compiti comunitari e di astenersi da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del trattato (art. 10 nel testo consolidato). E tra gli scopi fondamentali della Comunità rientra in particolare, sulla base delle modifiche apportate dal trattato di Amsterdam, quello di regolare in modo uniforme l’ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari (trattato di Roma, come modificato, artt. 61 e 63). Vincoli altrettanto significativi si rinvengono nel trattato di Maastricht, istitutivo del-


— 206 — dell’immigrazione), quanto lo specifico thema decidendum (giudizio di l’Unione europea, ratificato e reso esecutivo con la legge 3 novembre 1992, n. 454, anch’esso modificato dal trattato di Amsterdam. Tra i suoi fini vi è quello di conservare e sviluppare l’Unione ‘‘quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima’’, nonché la repressione del razzismo e della xenofobia (rispettivamente, artt. 2, comma 1, quarto periodo, e 29 del Trattato). Già da questo esame preliminare risulta in maniera incontrovertibile che i Trattati assicurano la piena libertà nell’attraversamento delle frontiere interne dell’Unione e, per converso, richiedono efficaci controlli alle frontiere esterne, anche al fine di prevenire e combattere la criminalità (artt. 61 e 63 del citato Trattato di Roma). Sì da apparire evidente che la materia dell’ingresso e del soggiorno degli extracomunitari non potrebbe restare priva di disciplina e, soprattutto, carente di strumenti adeguati per assolvere gli obblighi imposti dai Trattati. 4. Bisogna inoltre osservare — ed è un punto essenziale — che gli artt. 1 e 2 del Trattato di Amsterdam hanno sottratto la materia dell’immigrazione e dei visti d’ingresso alla mera cooperazione intergovernativa, elevandola a oggetto di politica e di normazione comuni. Tali norme prevedono in particolare che, entro cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato, il Consiglio adotti norme per garantire uniformità in materia di controllo dell’attraversamento delle frontiere esterne, di asilo e immigrazione (art. 61 del Trattato di Roma, come modificato da quello di Amsterdam). Ed è ancora da rilevare che l’art. 63, comma 2, dello stesso Trattato stabilisce che i singoli Stati possono disciplinare le suddette materie, ma soltanto attraverso norme compatibili con il Trattato e con gli accordi internazionali. Fra questi ultimi rientra il cosiddetto ‘‘Acquis di Schengen’’, che ricomprende convenzioni, protocolli e dichiarazioni immediatamente applicabili ai tredici Paesi membri dell’Unione per effetto del protocollo B, artt. 1 e 2, del Trattato di Amsterdam. In base all’Acquis i singoli Stati aderenti hanno assunto numerosi obblighi in materia di controlli al passaggio delle frontiere interne, di transito dei cittadini extracomunitari che si rechino in altro Paese contraente o di attraversamento delle frontiere esterne e, infine, in tema di sanzioni penali nei confronti di chi favorisca l’immigrazione clandestina. Sebbene l’art. 2, comma 2, del Protocollo sull’articolo J.7 del trattato sull’Unione europea, allegato al trattato di Amsterdam, riservi al Consiglio il compito di determinare, fondandosi sulle ‘‘pertinenti disposizioni dei trattati, la base giuridica di ciascuna delle disposizioni o decisioni che costituiscono l’Acquis di Schengen’’, non v’è dubbio che gli artt. 5, 6 e 27 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen costituiscano espressione di un preciso indirizzo normativo, rigidamente vincolante, al quale il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi. I Trattati di Maastricht e di Amsterdam hanno, dunque, inteso armonizzare le normative nazionali, assicurando libertà di circolazione all’interno dell’Unione, rigore nel controllo degli accessi dalle frontiere esterne, lotta all’immigrazione clandestina, scambio tra i Paesi membri di dati e informazioni attinenti al fenomeno immigratorio. In questo quadro normativo l’eventuale abrogazione dell’intero testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998 — in alcune disposizioni del quale si riflettono valori fondamentali della nostra Carta costituzionale — renderebbe inadempiente l’Italia agli obblighi derivanti dagli artt. 2, 5, 6, 18, 23 e 27 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e quindi dal Trattato di Amsterdam. E in linea con i principi costantemente affermati da questa Corte secondo cui, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, non si può svolgere referendum abrogativo sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e anche sulle altre disposizioni normative che producono effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività di tali leggi tanto da ritenersi implicita nel sistema la preclusione, si


— 207 — inammissibilità di referendum abrogativo), investendo la questione dei rapporti tra obblighi comunitari di tutela e norme incriminatrici nella specifica prospettiva in cui è chiamato a pronunciarsi il nostro giudice delle leggi: presupposta la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno, deve essere riservata una particolare ‘resistenza’ alle norme (penali) nazionali attuative di obblighi internazionali di natura comunitaria, descritti testualmente dalla Corte come ‘‘espressione di un preciso indirizzo normativo, rigidamente vincolante, al quale il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi’’. Ricostruiamo i passaggi logici seguiti dalla Consulta. Si muove dall’affermazione che il d.lgs. n. 238 del 1998 costituisce l’unico locus normativo attualmente deputato a regolare la materia migratoria ‘‘sì che — nell’ipotesi di abrogazione referendaria — (...) si determinerebbe una lacuna per quanto concerne le sanzioni penali a carico di coloro che sfruttano il fenomeno dell’immigrazione clandestina’’ (126). La disciplina contenuta nel decreto de quo costituisce inoltre l’attuazione dei doveri derivanti da una serie di disposizioni contenute nella Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen. Tale Convenzione — e questo aspetto è sottolineato dalla Corte come punto essenziale su cui fondare il giudizio di inammissibilità — è stata in seguito ‘‘comunitarizzata’’ (127) attraverso il trattato di Amsterdam, ‘‘sottraendo quindi la materia dell’immigrazione e dei visti d’ingresso alla mera cooperazione indeve dichiarare inammissibile la presente richiesta referendaria (sentenze nn. 27 del 1997; 63 del 1990; 25 del 1987; 30 e 31 del 1981)’’. (126) La Corte quindi esclude che l’abrogazione referendaria comporti la reviviscenza della normativa previgente (nel caso di specie la legge n. 39 del 1990 - c.d. ‘legge Martelli’). Sul tema si rinvia a CERASE, Dal giudizio sull’ammissibilità del referendum, cit. (nota 121), p. 233; BASCHERINI, Il referendum sull’immigrazione, cit. (nota 121), p. 237 sub nota 13, e bibliografia ivi riportata. (127) In proposito si impone un chiarimento sul c.d. ‘‘processo di comunitarizzazione’’ della materia migratoria. Secondo quanto previsto nel trattato sull’Unione europea (TUE) l’attuale struttura dell’Unione europea si fonda sul sistema dei c.d. ‘tre pilastri’: il primo, che ha assorbito integralmente il diritto comunitario, costituito dalle disposizioni generali contenute nel TUE, dal trattato della Comunità europea (TCE) e dalla normativa derivata, il secondo sulla politica estera e sicurezza comune (Titolo V TUE) ed il terzo, infine, sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (Titolo VI TUE). A questi tre pilastri si aggiunge poi la possibilità di instaurare una cooperazione rafforzata tra alcuni Stati membri ricorrendo alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi previsti nel TUE e nel TCE (Titolo VII TUE contenente disposizioni su una cooperazione rafforzata). In questo quadro, con il trattato di Amsterdam si è provveduto a ‘‘comunitarizzare’’ le politiche dell’immigrazione, trasferendole nel diritto comunitario (attraverso l’introduzione di un nuovo Titolo IV nel TCE in materia di ‘‘visti, asilo, immigrazione e altre politiche legate alla libera circolazione delle persone’’ artt. 61-69 TCE). Al tempo stesso, il protocollo n. 2 del trattato di Amsterdam, in applicazione del meccanismo della cooperazione rafforzata (per ovviare alla mancata adesione degli accordi di Schengen da parte del Regno Unito e dell’Irlanda), ha incorporato gli accordi di Schengen (tra cui in primo luogo assume rilievo


— 208 — tergovernativa, elevandola ad oggetto di politica e di normazione comuni, così gli Stati aderenti hanno assunto numerosi obblighi tra cui, in tema di sanzioni penali (rectius: appropriate (128)) nei confronti di chi favorisca l’immigrazione clandestina’’. Si tratta di una sentenza innovativa sia per quanto concerne l’estensione degli obblighi comunitari di tutela, sia — soprattutto — per quanto riguarda la vincolatività che deve essere riservata a tali obblighi. 4.1.1. L’emersione di un nuovo concetto: le ‘leggi comunitariamente necessarie’. — Per quanto concerne l’estensione, vengono considela Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 19 giugno 1990, l’atto a cui direttamente fa riferimento la Corte costituzionale) ‘‘nel quadro dell’Unione europea’’. Così la base giuridica della materia migratoria è oggi il diritto comunitario, mentre, per quanto concerne gli accordi di Schengen ‘‘comunitarizzati’’, la base giuridica dovrà essere determinata dal Consiglio (art. 2 2o comma del Protocollo n. 2 al trattato di Amsterdam) e, fino all’adozione di tale determinazione, ‘‘le disposizioni che costituiscono l’aquis di Schengen sono considerate atti fondati sul Titolo VI del trattato sull’Unione europea’’ (art. 2 4o comma del Protocollo). D’altra parte tali atti si trovano così fortemente intrecciati con le disposizioni in materia di immigrazione inserite nel trattato Ce da risultare, per osmosi, anch’esse in qualche misura comunitarizzate: tali materie sono di competenza del diritto comunitario e non del titolo VI del trattato dell’Unione europea; l’aquis di Schengen — ai sensi dell’art. 1 ult. periodo del Protocollo — deve rispettare oltre al trattato Ue anche il trattato Ce, simmetricamente il trattato Ce — ai sensi dell’art. 63 comma 2o TCE — deve conformarsi alle disposizioni contenute nell’acquis di Schengen. Allora, anche se tali materie trovano per il momento la loro collocazione normativa nel terzo pilastro, esse devono essere assiologicamente dedotte da principi iscritti nel trattato Ce, quindi di diritto comunitario. Sono — per così dire — regole dell’Unione europea comunitariamente imposte, la cui violazione comporta anche le violazione del diritto comunitario. Sulla questione v., NASCIMBENE, L’Unione europea e i diritti dei cittadini dei Paesi terzi, in Dir. Un. eur., 1998, in particolare p. 514 ss e p. 523 ss.; ADINOLFI, art. 61, in POCAR (a cura di), cit. (nota 49), p. 298 ss., che sostiene che ‘‘si tratta a tutti gli effetti di atti comunitari che non operano nei confronti degli Stati (Regno Unito e Irlanda) che non sono parti della Convenzione’’ (ivi, p. 300). (128) Va infatti sgombrato il campo da un immaginabile equivoco. La Consulta fa espresso riferimento ‘‘ad obblighi’’... in tema di sanzioni penali nei confronti di chi favorisca l’immigrazione clandestina affermando in proposito: ‘‘non v’è dubbio che (...) l’art. 27 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen costituisca espressione di un preciso indirizzo normativo, rigidamente vincolante, al quale il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi’’. Tuttavia l’obbligo che qui si intende esplorare come penalmente rilevante non nasce dall’accoppiamento terminologico tra il sostantivo obblighi e l’aggettivo penale operato in questa sede dalla Consulta. L’art. 27 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 19 giugno 1990 (Ratificata e resa esecutiva in Italia a seguito della legge 30 novembre 1993 n. 388) recita infatti: ‘‘le Parti contraenti si impegnano a stabilire sanzioni appropriate nei confronti di chiunque aiuti o tenti di aiutare, a scopo di lucro...’’. Tale impegno quindi vincola gli Stati relativamente alla sola esistenza di adeguate sanzioni coercitive: secondo la nostra classificazione (v. supra par. 3.2.1) è un ‘tipico’ ‘obbligo funzionale di tutela adeguata’; non vi è dunque in questa sede alcun vincolo relativo alla natura penale delle sanzioni che devono essere adottate da parte degli Stati contraenti. Gli atti normativi del ‘pacchetto Schengen’ (prima delle variazioni apportate dal trattato di Amsterdam) sono raccolti in appendice a NASCIMBENE, Da Schengen a Maastricht, Milano, 1995 p. 205 ss.


— 209 — rate ‘‘in attuazione di obblighi comunitari’’ le norme interne causalmente interferenti con l’ambito di applicazione di alcune normative europee. L’estensione emerge in tutta la sua evidenza dalla lettura di altre due sentenze di questa tornata referendaria: le nn. 41 e 45 del 2000, rispettivamente, sulla liberalizzazione dei contratti di lavoro a termine e in materia di lavoro part-time. Nella prima la legge del 18 aprile 1962 n. 230 è stata qualificata in attuazione della direttiva 99/70/CE del Consiglio dell’Unione europea del 28 giugno 1999 (direttiva inoltre che non era ancora scaduta); nella seconda è la legge n. 863 del 1984 a essere qualificata in attuazione della direttiva 97/81/CE del Consiglio dell’Unione europea del 15 dicembre 1997. In sintesi, la ‘‘mera’’ sovrapposizione normativa è per la Corte idonea e sufficiente a qualificare la normativa interna in attuazione del diritto comunitario eppertanto osservante del dovere di leale cooperazione sancito agli artt. 10 e 249 TCE (129).

Il giudizio della Corte invero non si limita a verificare se la normativa interna sia ‘‘legge di esecuzione’’ di obblighi comunitari, ma accerta se le norme oggetto di referendum interferiscano in qualche modo con principi derivanti dal sistema comunitario. Il criterio adottato dalla Consulta, inoltre, afferma che costituisce violazione di obblighi comunitari non solo l’antinomia tra la normativa interna (che risulterebbe a seguito di eventuale referendum) e la normativa comunitaria, ma lo stesso vuoto normativo sopravvenuto. In altre parole l’inadempimento sopravvenuto di obblighi comunitari viene equiparato dalla Corte al contrasto normativo risultante da una normativa interna frontalmente confliggente con la normativa comunitaria. Così, con questo criterio di giudizio adottato dalla Corte costituzionale, parafrasando il concetto di ‘leggi costituzionalmente necessarie’, le norme interne da considerarsi in attuazione degli obblighi comunitari, sono state definite ‘leggi comunitariamente necessarie’ (130), poiché ‘‘indipendentemente dal fatto che la disposizione sottoposta a referendum riproduca i contenuti prescritti da normative europee, essa può incontrare il limite di ammissibilità degli obblighi comunitari se in qualche misura ‘rientra nel campo di applicazione’ di una normativa comunitaria, venendo a costituire, anche per caso, (...) una prosecuzione sul piano interno di principi normativi sovranazionali’’ (131). L’ampliamento che ne risulta è di portata veramente notevole. Basta per un attimo volgere mentalmente lo sguardo alla normativa comunitaria per rendersi conto che le discipline in cui è possibile registrare un’inter(129) Cfr. BIN, Potremmo mai avere, cit. (nota 121) p. 225 ss. (130) La definizione è di CARTABIA, Referendum e obblighi comunitari, cit. (nota 121), p. 187, a cui si rinvia anche per la convicente riscostruzione della questione, che abbiamo ripreso in questa sede. (131) Così CARTABIA, Referendum e obblighi comunitari, cit. (nota 121), p. 189.


— 210 — ferenza tra diritto comunitario e diritto interno costituiscono ormai la regola e non l’eccezione del panorama normativo. Anche qui ci torna utile l’inesauribile esempio del falso in bilancio. Infatti, secondo la ricostruzione della Corte costituzionale, l’art. 2621 1o comma del codice civile sembrerebbe essere la ‘prosecuzione’ sul piano interno ‘dell’obbligo funzionale di tutela adeguata’ espresso dal combinato disposto dell’art. 44 del trattato Ce e dell’art. 6 della prima direttiva (132); in questo modo l’art. 2621 1o comma c.c., per quanto concerne il vincolo di esistenza di una adeguata tutela della veridicità e compiutezza dell’informazione societaria, dovrebbe essere considerato legge comunitariamente necessaria, tale da circoscrivere i margini di discrezionalità del legislatore nazionale al rispetto di questo parametro.

4.1.2. Il ‘salto di qualità’: dai vincoli sui quesiti referendari ai vincoli sull’attività normativa. — In secondo luogo, all’estensione dell’area di interferenza tra diritto interno e diritto comunitario sembra associarsi un’evoluzione più radicale, di tipo qualitativo, innescata dalla Consulta nella ricostruzione dei rapporti tra normativa interna e comunitaria. Per comprendere questo ‘salto di qualità’ ci sembra necessaria una premessa. La Corte stessa nel suo argomentare muove dalla constatazione che ‘‘il testo unico sull’immigrazione costituisce un corpus composito che include norme di natura e contenuto diversi’’. Tuttavia, all’affermazione del carattere composito del d.lgs. n. 286 del 1998 non segue un sindacato sull’omogeneità del quesito referendario (133). Tale argomento, immediatamente messo da parte per introdurre l’effettiva causa di inammissibilità scelta dalla Corte, sembra infatti richiamato ad abundantiam (134). Inoltre — il passaggio è cruciale —, la Consulta richiama nella decisione la sua precedente giurisprudenza in tema di inammissibilità del referendum su leggi strettamente connesse alle leggi di attuazione di trattati internazionali. Per tale giurisprudenza, tuttavia, le norme di diritto interno riconosciute come obbligate, in virtù di specifici vincoli di diritto internazionale pattizio, sono, di per sé, già causa sufficiente a dichiarare l’inammissibilità di un quesito referendario volto ad abrogare tali normative (135). Il decreto legislativo n. 286 del 1998 poteva quindi essere con(132) V. retro, par. 1.1.0. (133) Come noto, sin dalla sentenza n. 16 del 1978 la Corte ha chiarito che si può proporre referendum solo su quesiti omogenei e specifici (punto 8 del ‘‘considerato in diritto’’, in Giur. cost., 1978, p. 89 s.). (134) BASCHERINI, Il referendum sull’immigrazione, cit. (nota 121), p. 238. (135) In materia di stupefacenti ad esempio sono richiamate dalla Corte nella n. 31 del 2000 le due sentenze che hanno dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo (sentenze n. 30 del 1981 e n. 27 del 1997). In questi casi tuttavia, il vincolo risiedeva in una norma internazionale non comunitaria. Segnatamente e rispettivamente l’art. 14 paragrafo 1 lett. b) del Protocollo di Ginevra del 1972 di emendamento della Convenzione di New York del 1961 (entrambi ratificati con legge 5 giugno 1974 n. 412) e l’art. 3 paragrafi


— 211 — siderato già norma di attuazione di un obbligo internazionale (senza che fosse necessario addentrarsi nella tortuosa via della ‘comunitarizzazione’ degli accordi di Schenghen), dato che rappresenta l’unica modalità possibile di esecuzione della legge n. 388/93 contenente l’autorizzazione alla ratifica ed esecuzione degli accordi di Schengen (136). Il pilastro logico di questa decisione risiede invece proprio nella comunitarizzazione della materia migratoria, dalla Corte definita testualmente come punto essenziale, a cui ricollegare la nascita di un obbligo specifico. Allora, cercando di ragionare su un piano di logica giurisprudenziale, dobbiamo dedurre che tale motivazione non appariva necessitata dalla pressante urgenza di dichiarare ‘ad ogni costo’ inammissibile un referendum sicuramente inopportuno. Detto altrimenti, la via comunitaria non rappresentava l’unica via d’uscita utilizzabile dalla Consulta. La Corte insomma ‘ha scelto’, sia detto laicamente, questa motivazione, quasi ‘ci tenesse’ a suggerire che proprio la natura comunitaria del vincolo internazionale fosse idonea a dotare l’obbligo di una particolare densità normativa. È doveroso chiedersi allora perché l’obbligo diventi vincolante in questi termini soltanto se dalla ‘‘mera cooperazione intergovernativa’’ esso viene ‘‘elevato ad oggetto di politica e di normazione comuni’’, quando la ‘‘mera cooperazione intergovernativa’’, ci piaccia o no, è il metodo tipico di formazione del diritto internazionale pattizio e, quindi, per sé già produttivo di obblighi a cui la Corte costituzionale ha sempre riconosciuto un preciso limite in ordine all’ammissibilità di abrogazione referendaria. Le peculiarità del diritto comunitario evidentemente comportano che esso, non accontentandosi di semplici ‘‘limitazioni di sovranità’’, richieda per il suo funzionamento delle vere e proprie ‘attribuzioni di sovranità’ (137), con il corollario che gli obblighi comunitari si affrancano dalla struttura dei ‘semplici’ obblighi internazionali per assumere un regime sui generis. Ora, la cosa notevole di tale impostazione è che viene espressa dalla Corte costituzionale italiana, la quale sembra così assumere il ruolo di 2 e 4, lett. c) e d) della Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988 (ratificata con legge 5 novembre 1990 n. 328). Sui contenuti della politica proibizionista imposta dai Trattati richiamati v. PALAZZO, Consumo e traffico degli stupefacenti, Padova, 1994, p. 27 s. (136) Tale affermazione inoltre, sia detto per inciso, è ‘ancora più valida’ in tema di leggi in attuazione delle norme internazionali relative alla condizione giuridica dello straniero, che trovano l’espressa previsione del 2o comma dell’art. 10 della Costituzione, che impone in materia un obbligo specifico di conformità alle fonti internazionali pattizie e non solo a quelle consuetudinarie. (137) Sul punto, analogamente, cfr. il commento alla sentenza n. 31 del 2000 offerto da CERASE, Dal giudizio sull’ammissibilità, cit. (nota 121), p. 231 s.


— 212 — controllore (ma anche di garante) dei ‘flussi di sovranità’ che dallo Stato italiano affluiscono all’ordinamento comunitario, cosciente oltretutto che queste canalizzazioni non si esauriscono in un’operazione di smistamento di competenze normative, ma investono il più generale rapporto tra produzione normativa (interna) e potestà normativa (ripartita tra la Comunità europea e lo Stato). Ci sono due passaggi della sentenza che sanciscono il ‘salto di qualità’ effettuato dalla Corte: a) la natura peculiare delle relazioni risultanti dal trasferimento della materia migratoria nel sistema comunitario cui essa ricollega ‘‘l’elevazione di tali materie a oggetto di politica e di normazione comuni’’; b) l’effetto che discende da tale elevazione: le norme internazionali (nello specifico gli artt. 5, 6 e 27 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen), una volta ‘‘comunitarizzate’’, costituiscono ‘‘espressione di un preciso indirizzo normativo, rigidamente vincolante, al quale il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi’’. Insomma, se il normale obbligo internazionale vincola lo Stato sovrano nei suoi rapporti con altri Stati sovrani il che — e questo è il punto —, secondo la Corte lascia sempre aperta la possibilità per il Parlamento di violare tali obblighi; l’obbligo comunitario al contrario presenta un vincolo a cui per l’appunto, come dice ora la Consulta, (anche) ‘‘il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi’’. Il riflesso immediato di questa impostazione è che alle disposizioni di diritto interno in attuazione di obblighi comunitari (da intendersi, come abbiamo appena visto, secondo il criterio a maglie larghe di ‘interferenza causale’) viene riconosciuta una particolare vis giuridica nel sistema delle fonti. 4.2. Obblighi comunitari di tutela in Costituzione: il nuovo art. 117 1o comma Cost. — Il nuovo articolo 117 della Costituzione, introdotto dall’art. 3 della recentissima legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 recante le ‘‘Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione’’, esordisce al primo comma con questa disposizione: ‘‘Art. 117 — La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.’’

Ora, è evidente che una riforma così importante necessita di un’adeguata riflessione da parte della dottrina costituzionalistica e internazionalistica (138) e, soprattutto, di pronunce della Corte costituzionale; allo (138) Sul nuovo art 117 1o comma Cost., al momento v. soprattutto CANNIZZARO, La riforma ‘‘federalista’’ della Costituzione e gli obblighi internazionali, in corso di pubblicazione su Riv. dir. int., consultabile in internet, sull’indirizzo www.unimc.it/web 9900/prov


— 213 — stato attuale ci sembra dunque lecito esporre solo qualche osservazione ‘a caldo’. Procediamo all’inizio per truismi, fissando i punti fermi. Il fatto che la norma sia collocata nel titolo V della parte seconda della Costituzione non esclude che essa si riferisca anche alla legislazione penale, essendo quest’ultima richiamata tra la materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato (art. 117 comma 2o lett. l)) e non esclude nemmeno che essa abbia portata generale, poiché leggendo l’articolato appare chiaro che la riforma rimette in discussione i precedenti equilibri tra le varie parti della Costituzione (139). Per quanto concerne il suo contenuto, ad una prima lettura questa norma sembrerebbe dire ‘troppo’, mettendo sullo stesso piano gli obblighi comunitari e internazionali. Tale equiparazione letterale tuttavia non ci sembra insuperabile (140). Vi sono infatti, oltre a quanto emerso dall’osservazione della giurisprudenza costituzionale, due argomentazioni che ci sembrano decisive per affermare che nel nuovo tessuto costituzionale vi sia una differenza di regime tra ‘‘i vincoli alla potestà legislativa derivanti dall’ordinamento comunitario’’ e quelli derivanti ‘‘dall’obbligo internazionale’’. — Su un piano logico, se i vincoli comunitari fossero stati considerati un semplice sottoinsieme degli obblighi internazionali non avrebbe avuto senso indicarli entrambi. — Su un piano sistematico, gli obblighi internazionali — diversamente dai quelli comunitari — trovano già in Costituzione una disposizione a loro dedicata: l’art. 10, che specifica la differente vincolatività del diritto internazionale consuetudinario da quello pattizio. Ora, senza pretendere di svelare i futuri rapporti tra l’art. 117 1o comma e l’art. 10 ci sembra comunque evidente che gli obblighi internazionali di cui parla l’art. 117 1o comma dovranno essere coordinati con quanto espresso nell’art. 10; gli obblighi comunitari, invece, o verranno coordinati con il difdip/internaz Person/Cannizzaro/art117.rtf; v. inoltre PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, V, p.194 ss.; e il forum de il Mulino dal titolo ‘‘la riforma del titolo V’’ che si può consultare in internet seguendo questa procedura: www.mulino.it → ‘‘edizioni’’ → ‘‘riviste’’ → ‘‘quaderni costituzionali’’ → ‘‘forum’’ →’’ temi’’ → ‘‘la riforma del titolo V’’; nel forum sull’art.117 1o comma v. in particolare i contributi di N. LUPO, Nel nuovo titolo V il fondamento costituzionale della potestà regolamentare del governo?; BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della riforma costituzionale (2 dicembre 2001); e il già citato contributo di Cannizzaro pubblicato anche sul forum (10 dicembre 2001) ma in forma ridotta e sprovvisto di note. (139) Cfr. N. LUPO cit. (nota 139), in senso critico ma giungendo allo stesso risultato CANNIZZARO, La riforma, cit. (nota 139), p. 3 s. (140) Sembra invece presupporre un’equiparazione tra obblighi comunitari e internazionali CANNIZZARO, La riforma federalista, cit. (nota 139), p. 5.


— 214 — ferente art. 11, su cui sono stati fondati (141), o troveranno in futuro il loro riferimento nel solo art. 117 1o comma, ma in ogni caso troveranno un regime differente dagli obblighi internazionali. Possiamo quindi interrogarci sul valore dei soli obblighi comunitari in Costituzione alla luce dell’art. 117 1o comma, lasciando da parte gli obblighi internazionali. D’altra parte, un punto che resta fermo è che l’art. 25 comma 2o Cost. appartiene ai principi supremi del nostro ordinamento; quindi una domanda comunitaria di tutela penale non vincola costituzionalmente il legislatore, che resta ‘libero’ di accoglierla o meno. Invece sul nucleo tipico dell’obbligo comunitario di tutela — il vincolo di adeguatezza della tutela — la questione ci sembra più articolata. Infatti, come visto in precedenza, la Corte costituzionale ha assunto con la sentenza n. 31 del 2000 una funzione di controllore ma anche di garante dei flussi di sovranità tra ordinamento nazionale e comunitario (e uno dei contenuti principali di questo flusso è proprio il vincolo sulla razionalità della tutela). In questa prospettiva dunque è incidentale la tecnica di tutela prescelta, ma il legislatore, una volta imboccata la strada prescelta, anche quella penale, deve rispettare il vincolo comunitario di razionalità; poiche in caso di illegittimità comunitaria per inadeguatezza/non-proporzionalità della specifica opzione incriminatrice adottata, questa — ipotizziamo — potrebbe contenere un vizio di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 1o comma Cost. Non vi è infatti contrasto con il prevalente art. 25 2o comma poiché il giudizio di meritevolezza e necessità di pena è stato svolto in piena autonomia dal legislatore (142); sua è la scelta di punire: la riserva di legge è rispettata, solo che la discrezionalità del legislatore non contiene la possibilità di adottare una tutela — anche penale — non razionale. Ma allora, si dirà, è semplicemente una questione di ‘ragionevolezza mascherata’: perché riflettere sull’art. 117 1o comma quando il giudizio di ragionevolezza trova già una norma — l’art. 3, 1o e 2o comma — ad esso dedicata? Perché — e questa è l’ipotesi che noi avanziamo — ciò che la Corte costituzionale esprime in materia di giudizio di ragionevolezza attraverso il suo proverbiale self restraint (143) è che la discrezionalità del legisla(141) V. supra, par. 3.1. (142) V. supra, par. 3.2.1. (143) Cfr. PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 449, sul controllo di ragionevolezza in materia penale v. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in questa Rivista, 1998, p. 350 ss.; MAUGERI, I reati di sospetto dopo la pronuncia della corte costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza di proporzione e di tassatività (parte I e II), in questa Rivista, 1999, p. 434 ss.; in particolare p. 438 ss.


— 215 — tore è così ampia che lo ius utendi della potestà legislativa si estende fino a ricomprendervi anche lo ius abutendi della stessa. In altre parole, il legislatore nelle materie su cui ha competenza esclusiva — ci piaccia o no — può legiferare anche in modo ‘non razionale’; nelle materie ripartite tra diritto comunitario e nazionale il legislatore interno ha invece perso la potestà di esercitare in modo ‘non razionale’ le sue prerogative normative, perché il principio supremo, e al tempo stesso la chiave di volta del sistema di legiferazione ripartita tra diritto comunitario e nazionale, è che il legislatore nazionale è vincolato in relazione agli obiettivi da raggiungere; libertà negli strumenti, ma nessuna divagazione in tema di razionalità. Il flusso di sovranità interviene allora proprio su questa regola operativa garantita dalla Corte costituzionale: è stato sottratto al legislatore lo ius abutendi della potestà legislativa. Il vincolo costituzionale di razionalità della tutela è dunque a geometria variabile: — più ‘tollerante’ nelle materie su cui il legislatore ha competenza esclusiva (art. 3 Cost.) — più ‘intransigente’ nelle materie che sono il frutto della legislazione bifasica (input comunitario/output nazionale). In questi casi l’obbligo comunitario di tutela adeguata/proporzionata comporta che una volta accertata l’inadeguatezza/non proporzionalità (in una parola l’irrazionalità) della tutela apprestata dal legislatore interno, quest’ultima sia anche costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 117 1o comma Cost. III.

RICOSTRUZIONE.

5. Gli obblighi comunitari di tutela nel sistema costituzionale delle fonti. A questo punto possiamo cercare di ricomporre la dimensione triadica tra Costituzione, norme incriminatrici e obblighi comunitari, e dare così le ultime risposte alla domanda da cui siamo partiti: quanto obbligano gli obblighi comunitari di tutela? (144). Nel corso della nostra indagine le ipotesi percorribili si sono gradualmente assottigliate; in primo luogo abbiamo appurato che gli inputs comunitari di tutela non sono mai dotati del requisito della diretta applicabilità, precludendo in questo modo al giudice comune la possibilità, tipica invece nel normale rapporto tra norma interna e norma comunitaria, di disapplicare la normativa interna contrastante (145); abbiamo quindi osservato come nei casi in cui l’antinomia derivi da inattuazione originaria, totale o parziale, il contrasto può essere fatto valere con i soli strumenti (144) (145)

Par. 1.2. Parr. 3.1, 3.1.1. e 3.2.


— 216 — giurisdizionali offerti dall’ordinamento comunitario che, in fondo, non risultano idonei a garantire l’azionabilità dei vizi di illegittimità comunitaria in malam partem. Gli unici vizi di illegittimità comunitaria in malam partem azionabili si sono così circoscritti intorno alle ipotesi in cui il contrasto emerga dalla successiva modificazione di una norma da considerarsi in attuazione di un obbligo comunitario di tutela; in tali casi infatti il vizio può essere attribuito ad una specifica norma (la norma abrogatrice/modificatrice) su cui è possibile catalizzare il giudizio di costituzionalità vigente in Italia (146); abbiamo inoltre osservato come davanti alla Corte costituzionale sia impugnabile una norma interna per violazione di una norma costituzionale (‘parametro diretto’ della questione), in riferimento ad una norma comunitaria che funge da ‘’parametro interposto’ (147). Sotto un altro profilo abbiamo indagato sullo specifico contenuto degli obblighi comunitari di tutela, per individuare tre tipi di obblighi: gli obblighi formali di tutela penale, gli obblighi funzionali di tutela adeguata e gli obblighi analogici/funzionali di tutela per assimilazione, da cui è emerso che nei casi in cui il diritto comunitario imponga un vincolo di tutela razionale, tale imposizione non pregiudichi affatto la discrezionalità del legislatore nazionale nell’esercizio della funzione incriminatrice (e quindi il rispetto del principio di riserva di legge in materia penale). In questo caso infatti le valutazioni di meritevolezza e necessità di pena restano di esclusivo dominio del legislatore nazionale (148). Abbiamo appurato inoltre che l’antinomia emergente dal mancato rispetto del canone di adeguatezza della tutela, comportando un giudizio di relazione dai termini di riferimento chiari, ha sempre bisogno di essere individuata e precisata attraverso una specifica pronuncia della Corte di giustizia (149). Sotto un altro profilo ancora, abbiamo osservato che la Corte costituzionale individua le norme interne da considerarsi in attuazione di un obbligo comunitario di tutela in virtù della ‘casuale’ sovrapposizione normativa tra domanda comunitaria e offerta nazionale: e in modo tale, che la norma interna che offre tutela è in attuazione della norma comunitaria che domanda tutela se tra loro vi è corrispondenza di oggetto e contenuto di tutela; indipendentemente dal fatto che la norma interna sia stata posta espressamente per dare risposta alla tutela richiesta dalla norma comunitaria (150). Abbiamo inoltre visto come gli obblighi comunitari di tutela ricevano da parte della Corte costituzionale segnali del riconoscimento del loro valore vincolante anche nei confronti del legislatore, a cui risulterebbe in questo modo preclusa la possibilità di agire in inadempimento di (146) (147) (148) (149) (150)

Parr. 2. e 3.3. Par. 3.3.1. Parr. 3.1.1. e 3.2.1. Par. 3.3.1. Par. 4.1.1.


— 217 — tali obblighi attraverso la modificazione delle norme interne nella parte in cui rispondono al canone di adeguatezza/proporzionalità della tutela (151). Abbiamo, infine, ipotizzato che il nuovo art. 117 1o comma della Costituzione produca l’effetto di costituzionalizzare il vincolo di razionalità della tutela posto dagli obblighi comunitari (152). Resta dunque ancora da valutare quale valore costituzionale abbiano gli obblighi comunitari di tutela. 5.1. Il rango costituzionale degli obblighi comunitari di tutela razionale. — Quando, come avviene nella quasi totalità dei casi, il diritto comunitario impone il rispetto delle sue regole attraverso l’adozione di misure ‘‘adeguate e proporzionate’’, e il diritto nazionale ha approntato una tutela penale, la norma modificatrice della fattispecie incriminatrice che ne sterilizza l’adeguatezza si presenta come comunitariamente illegittima. La sterilizzazione può emergere attraverso una esplicita decriminalizzazione (153) oppure attraverso l’uso di altri meccanismi indiretti (‘sterilizzazione di fatto’). Va sottolineato che in questo secondo caso ‘l’inadeguatezza’ è sistematicamente più grave, perché al vizio per difetto di tutela del bene si aggiunge il vizio proprio di una tutela penale ancora esistente ma inadeguata, che comporta per definizione che qualcuno venga comunque punito, ma in modo irrazionale. Insomma, se la decriminalizzazione comporta una tutela inadeguata (ovvio: non c’è!), perlomeno è ‘proporzionata nella sua distribuzione dell’inadeguatezza’; la ‘sterilizzazione di fatto’ invece è due volte inadeguata (154): sia in relazione all’oggetto della tutela, sia in relazione al principio di proporzione tra interessi tutelati e interessi sacrificati dall’uso della pena (principio comune al diritto Comunitario e costituzionale). Ovviamente è pregiudiziale la fondamentale questione se la Corte costituzionale possa annullare o comunque manipolare una ‘norma penale di favore’ (155), dispiegando in questo modo effetti in malam partem. In proposito, se il criterio discriminante su cui valutare il rispetto della riserva di legge è che la funzione incriminatrice deve essere riservata al Par(151) Par. 4.1.2. (152) Par. 4.2. (153) Da intendersi come il passaggio da una reazione penale a nessuna reazione ordinamentale, nella terminologia da noi adottata (v. supra, nota 45). Parallelamente, lo ricordiamo, la ‘depenalizzazione’ di per sé non presenta profili di illegittimità comunitaria. (154) PALIERO, Il principio di effettività, cit. (nota 25), p. 444, definisce ‘‘inaccettabile’’ tale paradigma ‘‘proprio perché il diritto penale — la pena — è un’arma, e ‘a taglio doppio’, una volta ‘impugnata’ fa comunque le sue ‘vittime’; produce immediatamente i suoi (elevati) costi sociali e non può pertanto ‘permettersi di venire usata a ‘vuoto’’’. (155) Ricordiamo che la locuzione norme penali di favore, in uso presso la Corte costituzionale abbraccia tutte le norme caratterizzate dall’effetto giuridico di escludere o attenuare la responsabilità penale; cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit. (nota 25), p. 88.


— 218 — lamento, siamo convinti che il contenuto di questo tipo di obblighi di tutela non metta in discussione l’esercizio della funzione incriminatrice, che resta del Parlamento (156), ma un suo limite esterno: il particolare vincolo di razionalità comunitaria. Inoltre — punto fondamentale — non è la Corte costituzionale a svolgere il giudizio di adeguatezza/proporzionalità della tutela che, data la sua duttilità, coinvolgerebbe in qualche misura la discrezionalità del Parlamento lasciando trasparire un fumus di creazione legislativa in malam partem ad opera della Corte costituzionale stessa. Viceversa, il giudizio di adeguatezza è svolto dal diritto comunitario, non ha per oggetto la natura penale della tutela, ed è recepito attraverso il controllo della Corte costituzionale, in totale armonia quindi con i nostri principi fondamentali, in quanto fondato su canoni quali l’adeguatezza e proporzionalità della tutela, compresenti nei due ordinamenti (157). La Corte assume quindi il ruolo di garante del rispetto del limite esterno per cui lo Stato, nelle materie ripartite, non può intervenire in modo da sterilizzare la razionalità della tutela, sia essa penale ovvero di altra natura. È il caso del ‘nostro’ esempio della perseguibilità a querela del falso in bilancio, che, come si è anticipato, ha elevatissime chances di essere dichiarata comunitariamente illegittima (158) perché, come abbiamo visto strutturalmente inadeguata a tutelare il bene giuridico su cui cade la domanda di tutela espressa dall’ordinamento comunitario. Qui — una volta che fosse dichiarata espressamente l’illegittimità comunitaria di questo meccanismo — è conseguente ritenere che la norma del futuro decreto legislativo in attuazione del punto 1.2.1. dell’articolo 11, lett. a), 1) della legge delega n. 366 del 2001 nella parte in cui abroga la perseguibilità d’ufficio del falso in bilancio debba essere annullata per illegittimità costituzionale del principio espresso nella legge delega in riferimento agli artt. 11 e 117 1o comma Cost.

5.2.

L’indifferenza costituzionale delle domande comunitarie di tu-

(156) La Corte costituzionale infatti ritiene di non potere pronunciare alcuna sentenza, dalla quale derivi la creazione — esclusivamente riservata al legislatore — di una nuova fattispecie penale (corsivo aggiunto) (Corte cost. n. 108 del 1981 citata in PULITANÒ, art. 1, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, Padova, 1992, p. 11) e noi siamo convinti sulla base di quanto detto, che non siano affatto in discussione le prerogative di creazione della norma penale del legislatore. (157) Quando non vi è contrasto tra i principi comunitari e i principi costituzionali si realizza il c.d. ‘‘concordato giurisprudenziale’’, che è la base su cui poter fondare qualunque forma di osmosi tra le statuizioni della Corte di giustizia e quelle della Corte costituzionale. Cfr. GHERA, Pregiudiziale comunitaria, cit. (nota 115), p. 1200 ss.; sul ‘‘concordato giurisprudenziale’’ nella letteratura penalistica v. le osservazioni di RIONDATO, Profili, cit. (nota 111) p. 1140 s. (158) Chiariamo inoltre che riteniamo non risolutiva sul punto la natura processuale dell’istituto della querela, Cfr. GIUNTA, Interessi privati, cit. (nota 11), p. 112 ss.; ROMANOGRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano 1996, Pre-art.120, n. 8 ss.


— 219 — tela penale. — Se il diritto comunitario obbliga invece all’adozione di una tutela penale, ogni intervento di depenalizzazione dell’illecito, dal punto di vista del diritto comunitario, esonda i margini di soluzione concessi al legislatore interno: sia che essa venga attuata attraverso una esplicita depenalizzazione, sia che venga realizzata in modo meno evidente attraverso, ad esempio, la previsione e applicazione sistematica della transazione come causa di estinzione del reato. Comunque, in virtù di quanto esposto, non riteniamo assolutamente che l’art. 117 Cost. rappresenti la veste costituzionale alle domande comunitarie di tutela penale. Al contrario, qualora, di fronte a un legislatore nazionale riottoso, il diritto comunitario si impuntasse nel pretendere la tutela penale, sarebbe quest’ultimo ad essere ‘dalla parte del torto’, e a obbligare la Corte costituzionale, investita della questione, a esercitare la ‘dottrina dei controlimiti’ dichiarando costituzionalmente illegittimo un obbligo comunitario del genere. La regola comunitaria che impone la tutela penale al legislatore nazionale, se da questo non è spontaneamente accettata, si trasforma infatti nel tentativo di sottrarre al Parlamento nazionale la funzione incriminatrice, profilandosi quindi come contraria al principio di riserva di legge in materia penale, come detto, e noto, principio supremo dell’ordinamento. Per questo la ‘libertà’ di cui dispongono, rispettivamente, l’ordinamento comunitario nel formulare richieste di incriminazione e il legislatore nazionale nel disattendere queste richieste, va intesa kantianamente, con la consapevolezza dei relativi costi. Gli snodi di un tale conflitto portato alle estreme conseguenze sono così sintetizzabili: 1) richiesta comunitaria di tutela penale, 2) inadempimento del legislatore nazionale, 3) condanna da parte della Corte di giustizia, 4) controcondanna da parte della Corte costituzionale che, in virtù del principio di riserva di legge in materia penale — principio supremo dell’ordinamento —, censurerebbe la pronuncia della Corte europea. Il caso di un tale conflitto è comunque assolutamente teorico (159), in presenza di un’antinomia tra la richiesta comunitaria di penalizzazione e la norma nazionale in inadempimento di tale richiesta la Corte di giustizia troverebbe sicuramente delle vie alternative per non condannare lo Stato, il rischio è infatti di (159) Giusto per offrire un’esemplificazione possiamo ipotizzare il caso di un contrasto emergente dall’eventuale abrogazione della tutela penale prevista al 9o comma dell’art. 7 del d.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74 in materia di pubblicità ingannevole (cfr. supra, par. 3.2.). Il sistema adottato attribuisce in via amministrativa all’autorità garante della concorrenza e del mercato il compito di reprimere le forme di pubblicità ingannevole attraverso l’adozione di provvedimenti di urgenza, inibitori o di rimozione delle attività pubblicitarie che si presentano appunto come ingannevoli. L’attività svolta a tal fine dall’Autority (art. 7 d.lgs. n. 74/1992) è a sua volta tutelata attraverso la previsione inserita al 9o comma di questo articolo, che sanziona penalmente la non ottemperanza dei provvedimenti emanati dall’autorità amministrativa. In questo caso l’eventuale abrogazione della tutela penale della funzione di vigilanza e repressione svolta dall’Autority si porrebbe in contrasto con l’obbligo di tutela penale invocato dalla Corte di giustizia, e quindi dal diritto comunitario, in materia di pubblicità ingannevole.


— 220 — creare un corto circuito nel sistema, anche per questo il diritto comunitario — a monte — evita di creare una situazione potenzialmente pericolosa guardandosi bene dall’immettere per quanto possibile inputs comunitari concentrati sulla natura penale della tutela, e, comunque — a valle — il legislatore nazionale, e in ogni caso la Corte costituzionale, eviterebbero in tutti i modi di acutizzare un tale conflitto tra sistemi. In fondo allora, traendo spunto da un illuminante lavoro di Gavazzi (160), in questi casi più che di ‘libertà’ sarebbe forse corretto parlare di ‘oneri’; la struttura delle richieste comunitarie di penalizzazione è infatti inquadrabile nello schema tipico dell’onere: ‘‘se (non) vuoi A, allora B’’, che nel nostro caso si traduce rispettivamente: (1) — per il sistema comunitario — ‘‘se non vuoi rischiare di produrre un cortocircuito normativo (A), allora non formulare richieste di incriminazione (B)’’; (2) — per il sistema nazionale — ‘‘se non vuoi alimentare un cortocircuito normativo (A), allora ‘non non dare’ risposta a queste richieste (B)’’.

5.3. Norme incriminatrici ‘comunitariamente necessarie’ ma costituzionalmente illegittime. Resta da esplorare un terzo interrogativo, relativo all’ipotesi di una norma penale interna che si presenti al tempo stesso come ‘comunitariamente necessaria’ e costituzionalmente illegittima. La Corte costituzionale può abolire queste norme? Ora, come abbiamo visto, nella legislazione ripartita la fattispecie incriminatrice si compone di un guscio, dettato dalla norma comunitaria, e di un contenuto specifico, di appannaggio del legislatore nazionale. Contestualmente, il vizio di incostituzionalità può risultare dalle imposizioni contenute tanto nel nucleo di discrezionalità nazionale, quanto nel guscio comunitario. a) Nel caso in cui il vizio sia da imputare alla discrezionalità interna, per evitare il vuoto normativo e la relativa violazione dell’obbligo comunitario la Corte costituzionale, verosimilmente procederà ad emettere una sentenza interpretativa di accoglimento o, più probabilmente, di rigetto (161): in questo modo infatti riuscirà ad estrarre i profili di incostituzionalità senza lasciare l’ordinamento sprovvisto di una disposizione ‘comunitariamente necessaria’. Ipotizzando tuttavia, sempre in linea teorica, che la Corte volesse comunque annullare in toto la norma oggetto del giudizio in coerenza con la sua giurisprudenza, se lo specifico vizio di costituzionalità investisse un (160) GAVAZZI, L’onere. Tra la libertà e l’obbligo, Torino, 1985. (161) Ricordiamo che con le sentenze interpretative di accoglimento la disposizione rimane nell’ordinamento, senza che si determini alcuna lacuna, ma essa non potrà più trovare applicazione nell’interpretazione sulla base della quale la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità. Viceversa con le sentenze interpretative di rigetto la Corte giudica infondati i dubbi di legittimità costituzionale avanzati in relazione alla disposizione impugnata, qualora essa ritenga di consentire la sopravvivenza della disposizione impugnata nell’interpretazione datane dalla Corte. Così, quasi testualmente, CARETTI-DE SERVIO, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1999, p. 513.


— 221 — principio fondamentale dei diritti della persona a risultare prevalente sarebbe la norma costituzionale e dunque verrebbe annullata la norma interna; altrimenti, per le altre ipotesi di incostituzionalità, a risultare prevalente sarebbe la norma comunitaria e allora la norma interna comunitariamente necessaria non potrebbe essere abolita. Possiamo fare l’esempio dell’art. 53 del d.lgs. 22 febbraio 1997 n. 22 in tema di rifiuti (c.d. decreto Ronchi). La contravvenzione contenuta nel 1o comma di questo articolo (rubricato ‘‘traffico illecito di rifiuti’’) dispone: ‘‘chiunque effettua spedizioni dei rifiuti elencati negli allegati II, III e IV del Regolamento 259/93/CEE del Consiglio del 1o febbraio 1993 in modo tale da integrare il traffico illecito, così come definito dall’articolo 26 del medesimo Regolamento è punito con la pena dell’ammenda da lire tre milioni a lire cinquanta milioni e con l’arresto fino a due anni. La pena è aumentata in caso di spedizione di rifiuti pericolosi’’. Su questa contravvenzione da più parti sono stata sollevati dubbi di legittimità costituzionale, in quanto con essa il legislatore avrebbe operato un vero e proprio rinvio mobile (162) ossia un rinvio non ad un singolo atto, ma al potere normativo della fonte comunitaria (163), quindi all’atto e alle successive modificazioni che quell’atto potrebbe subire per volontà e iniziativa del legislatore comunitario (164). Certo, a ‘discolpa’ del legislatore va detto che in tali casi questi non ha molta scelta: infatti, i precetti contenuti nei regolamenti (che sono direttamente applicabili e non vanno trasposti nel diritto interno, come le direttive) non possono essere riformulati nel diritto interno perché, così facendo, si trasformerebbero le fonti comunitarie in fonti nazionali, ponendo l’opposto problema di aver trasferito il potere normativo su quell’atto dal legislatore comunitario a quello nazionale, che potrebbe dunque modificarlo successivamente a suo piacimento (165). Si tratta, a ben vedere, di un problema cronico in materia di regolamenti comunitari integrati da una normativa penale: se il legislatore nazionale riscrive il precetto contenuto nel regolamento viola la normativa comunitaria; se invece prevede la sanzione penale e rinvia al regolamento per la integrale individuazione del precetto, viola il principio di riserva di legge. Tornando al reato di ‘‘traffico illecito di rifiuti’’ previsto all’art. 53 d.lgs. 22/97: qui rileva segnalare che tale norma, al tempo stesso si pone come ‘costituzionalmente dubbia e ‘comunitariamente necessaria’. Quindi l’eventuale annulla(162) Cfr. IMPERATO, Inquinamento del suolo e responsabilità penale, in AMELIOFORTUNA (a cura di), La tutela penale dell’ambiente, Torino, 2000, p. 134 e gli autori ivi richiamati alla nota 42. (163) Ritengono costituzionalmente illegittima per violazione del principio della riserva di legge la tecnica del rinvio formale a una fonte comunitaria MARINUCCI-DOLCINI, cit. (nota 2), p. 64. (164) Sulle questioni connesse alla tecnica di costruzione delle fattispecie penali mediante rinvio in ambito comunitario v. PALIERO, La fabbrica del Golem, cit. (nota 67), p. 478 s.; v. inoltre, anche per gli opportuni richiami alla prassi tedesca e francese, BERNARDI, I tre volti, cit. (nota 74), p. 65 s. (165) Sul punto cfr. BERNARDI, I tre volti, cit., (nota 74), p. 66 e nota 73.


— 222 — mento della norma per illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 25 2o comma Cost. produrrebbe un vuoto normativo in inadempimento agli obblighi comunitari. La soluzione che la Corte adotterebbe, per tirarsi fuori dall’impasse, sarebbe — molto probabilmente — quella di emettere una sentenza interpretativa di rigetto, reinterpretando il rinvio non come mobile bensì come fisso; con la conseguenza che discenderebbe in capo al legislatore nazionale un obbligo di legiferare in caso di modificazione sopravvenuta della normativa comunitaria a cui si indirizza il rinvio. Comunque, se lo volesse, la Corte potrebbe al limite anche abolire la norma interna perché il vizio di costituzionalità discende dall’art. 25 2o comma Cost. che è principio fondamentale del nostro ordinamento e diritto inalienabile della persona.

b) Nell’ipotesi invece in cui il profilo di incostituzionalità fosse da imputarsi direttamente al diritto comunitario (166), la Corte costituzionale dovrebbe sollevare o far sollevare mediante ordinanza di inamissibilità e rinvio al giudice a quo questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia (ex art. 234 TCE) (167). A questo punto la Corte di giustizia potrà fare due cose: — annullare o modificare per via interpretativa la specifica regola comunitaria se ritiene che l’incostituzionalità si traduca anche nella mancata osservanza dei principi generali del diritto comunitario (168); — ritenere che la specifica regola — incostituzionale per il diritto italiano — non sia comunque illegittima per l’ordinamento comunitario. La Corte costituzionale a questo punto — ma solo a questo punto — potrebbe far scattare i c.d. ‘controlimiti’ dichiarando inapplicabile in Italia la singola norma europea perché contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano, e di conseguenza, abolire la norma incriminatrice. CARLO SOTIS Dottore di Ricerca in Diritto Penale Italiano e Comparato nell’Università di Pavia

(166) Possiamo ipotizzare un fatto illecito descritto dal diritto comunitaria su cui grava inoltre un obbligo comunitario di penalizzazione a titolo di responsabilità oggettiva. (167) Sul punto si v. GHERA, Pregiudiziale, cit. (nota 115), p. 1193 s. (168) V. retro, par. 3.1.1


IL SINDACATO DI RAGIONEVOLEZZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL SISTEMA PROCESSUALE PENALE (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Le forme del sindacato di ragionevolezza. — 3. Giudizio di eguaglianza e principi costituzionali. — 4. Coerenza e diritti. — 5. Il giudizio di bilanciamento nella sentenza n. 361 del 1998. — 6. Sistema costituzionale e modelli di processo: la ragionevolezza come fattore di continuità con la tradizione culturale del processo ‘‘misto’’. — 7. Ragionevolezza e art. 111 Cost. — 8. Conclusioni.

1. Premessa. — La straordinaria espansione del controllo di ragionevolezza delle leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale (1) ha investito da tempo tutti i settori dell’ordinamento, processo penale incluso. Tuttavia, la tematica del sindacato di ragionevolezza sull’operato del legislatore processuale penale non aveva mai assunto il risalto che, dopo gli interventi della Corte sul sistema introdotto con il codice dell’88, (*) Il presente saggio si inserisce nell’ambito della ricerca CNR La frontiera mobile della penalità nei sistemi di controllo sociale nella seconda metà del ventesimo secolo, diretta da A. BARATTA e M. PAVARINI. (1) Nella giurisprudenza della Corte costituzionale il principio di eguaglianza viene richiamato con assoluta prevalenza rispetto agli altri parametri, tanto che i criteri di giudizio elaborati con riferimento ad esso, ossia le tecniche del controllo di ragionevolezza, « rappresentano una delle chiavi fondamentali per cogliere, in una visione di sintesi, le diverse fasi di sviluppo del controllo di costituzionalità così come si è andato delineando, nell’arco di quarant’anni, nel nostro paese »: E. CHELI, Il giudice delle leggi, Bologna, 1999, p. 87. Con toni critici, v. G. ZAGREBELSKY, Aspetti del controllo di costituzionalità nel pensiero di Carlo Esposito, in Giur. cost., 1991, p. 1701, il quale denuncia un « uso troppo facile del criterio di ragionevolezza, che spegne ogni aspirazione al generale ». V. anche le osservazioni di F.P. CASAVOLA, La giustizia costituzionale nel 1992 (conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale), Roma, 1992: « Una sede, individuata come classica, della valutazione di ragionevolezza delle scelte legislative è costituita dall’esame di compatibilità di una disciplina con l’art. 3 della Costituzione, principio, secondo alcuni, così pervasivo da riguardare qualsiasi legge, da rendere insomma discrezionale ogni manifestazione dell’attività normativa primaria, ancorandola ad uno scopo che la giustifichi. Né, sotto un profilo quantitativo, la tesi pare discostarsi dalla realtà, se è vero che una indagine statistica del lavoro della Corte mostra che il parametro costituito dall’art. 3 della Costituzione è stato invocato ed applicato più di tutte le altre norme costituzionali contate insieme ». Per un’efficace analisi delle problematiche suscitate dal crescente utilizzo del controllo di ragionevolezza in diritto penale sostanziale, v. G. IINSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, a cura di G. INSOLERA-N. MAZZACUVA-M. PAVARINI-M. ZANOTTI, 2a ed., 2000, vol I, p. 288 ss.


— 224 — la caratterizza. L’uso del principio di ragionevolezza per convertire l’originario modello processuale, ispirato ai principi dell’oralità e del contraddittorio, in qualcosa di molto simile al sistema previgente, pone l’esigenza di comprendere i motivi dell’elevata aggressività di una tecnica di controllo cui si vorrebbe attribuire il compito di correggere gli errori del legislatore agendo dall’interno delle scelte compiute nello spazio di discrezionalità che ad esso dovrebbe essere riservato. L’elevato numero di decisioni che, nel risolvere questioni di legittimità di norme processuali penali, utilizzano il parametro ‘‘ispiratore’’ del sindacato di ragionevolezza (art. 3, comma 1, Cost.), sembrerebbe smentire chi ipotizza una minore presenza del medesimo nella giurisprudenza relativa ai codici, dove si darebbe più spazio alla valorizzazione dei parametri sostanziali (2). Tuttavia, dagli stessi argomenti sviluppati mediante i canoni propri della ragionevolezza, spesso prende forma, in modo più o meno esplicito, una giustificazione della scelta operata, reperibile nell’esigenza di attuare uno specifico principio. A volte, addirittura, se si sostituisse il riferimento all’art. 3 Cost. con una diversa disposizione costituzionale, la struttura della motivazione continuerebbe a reggere (3). Una delle ragioni di tale ‘‘immanenza’’ delle disposizioni costituzionali sul controllo di ragionevolezza va indubbiamente individuata nella diffusa ‘‘copertura’’ costituzionale di cui gode il processo penale. Pochi sono i settori della materia rispetto ai quale non sia possibile invocare un punto di riferimento nel testo della legge fondamentale (4). Ma se la sovrabbondanza di spunti testuali non è riuscita ad arginare il frequente ricorso ad un sindacato svincolato dal più rassicurante schema binario nel quale la norma ordinaria viene direttamente posta a confronto con un parametro costituzionale, lo si deve alla formulazione di alcune disposizioni costituzionali. Accanto a vere e proprie regole, dotate di fattispecie puntuali che ne consentono la diretta applicabilità al caso concreto e, comunque, la commensurabilità con le fattispecie delle disposizioni ordinarie (cfr. artt. 13, comma 3, 111, commi 6 e 7, Cost.), vi sono norme formulate in modo elastico e generico, che tutt’al più individuano principi e necessitano, pertanto, di attuazione. È il caso, ad esempio, di una disposizione-chiave come l’art. 24 comma 2 cost. Scritta in termini apparente(2) R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, p. 52, che qualifica con il termine « sostanziale » la norma che contempla un diritto costituzionale. (3) È ciò che avviene nella sent. n. 445/1993, sull’archiviazione pretorile, nella quale l’illegittimità delle norme impugnate viene argomentata sulla sola base dei « canoni della ragionevolezza e della coerenza », mentre le questioni proposte in riferimento all’art. 112 Cost. vengono dichiarate assorbite. (4) Per un’ampia e minuziosa ricognizione delle disposizioni costituzionali direttamente o indirettamente riferibili al processo penale, v. M. NOBILI, La disciplina costituzionale del processo (I), Bologna-Perugia, p. 78 ss.


— 225 — mente assoluti (5), essa, fin dai primi tentativi di stabilirne il significato, ha impegnato gli interpreti in operazioni ermeneutiche dall’esito incerto, mai definitivo, produttive di ulteriori norme generali a loro volta bisognose di essere concretate (6). Anche per il processo penale, dunque, i minori limiti derivanti da un testo normativo dotato di un’« apertura semantica » particolarmente elevata insieme alla debole incidenza del vincolo della dogmatica giuridica (7), hanno condotto l’ermeneutica costituzionale ad assumere strutture peculiari dove gli schemi del discorso pratico, di cui i canoni della ragionevolezza sono espressione, hanno un ruolo più importante rispetto a quello che, comunque, rivestono nell’interpretazione della legge ordinaria (8). 2. Le forme del sindacato di ragionevolezza. — Non è affatto agevole descrivere esaurientemente lo stato della riflessione intorno ai modi in cui il sindacato di ragionevolezza si manifesta. Sul versante giurisprudenziale, si registra l’insufficienza del contributo fornito dalla Corte costituzionale medesima nell’elaborare e sistemare standards decisori costanti nei loro tratti essenziali. Il riferimento alla ‘‘ragionevolezza’’ viene effettuato in contesti tra i più disparati e senza i chiarimenti concettuali indispensabili per delineare schemi argomentativi predeterminati, indipendenti dalle personali attitudini culturali ed ideologiche del singolo redattore (9). (5) P. FERRUA, Difesa (diritto di), in Dig. Disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 477, rileva che la formula dell’art. 24 comma 2 Cost. « è decisamente povera in senso denotativo, giacché la difesa vi figura, concettualmente non meno che grammaticalmente, come un postulato, come un’entità di cui sia noto e indefettibile il contenuto. Nulla è detto, infatti, né sul tipo di struttura idonea a salvaguardare la difesa né sulle singole garanzie che la compongono »; R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 11 ss. (6) Il diritto di difesa sembra contemplato dall’art. 24, comma 2, Cost. nei termini di un principio caratterizzato da quella forma di vaghezza riconducibile ad un contenuto teleologico o programmatico. Tale sarebbe, secondo R. GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, 1993, p. 445, il principio che « non prescrive una condotta determinata, ma esprime solennemente un valore, o raccomanda il perseguimento di un fine, o la realizzazione di un programma, senza tuttavia stabilire i mezzi che devono essere impiegati (i comportamenti che devono essere tenuti) per conseguire quel fine ». (7) In tal senso L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 120 ss., il quale osserva, con particolare riguardo alla minore efficacia dei vincoli della dogmatica, che il carattere politico dell’oggetto degli enunciati costituzionali li rende inidonei alla creazione di un sistema di concetti assiologicamente neutrali. (8) L. MENGONI, loc. ult. cit. (9) In tal senso, v. G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, p. 182 ss., dove l’esperienza italiana viene posta a confronto con quella dei tribunali costituzionali tedesco e nordamericano, la cui giurisprudenza è ricca di interventi tesi a costruire modelli di scrutinio ben definiti anche sotto il profilo del livello di penetrazione del sindacato nella discrezionalità legislativa. Con riferimento alla distinzione tra controllo di coerenza (effettuato attraverso il confronto con un tertium comparationis) e


— 226 — Numerosi sono, invece, i tentativi dottrinali di mettere ordine nella moltitudine di decisioni che analizzano in termini di ragionevolezza la norma sottoposta al vaglio di legittimità. Nonostante i modelli di classificazione proposti siano spesso tra loro molto diversi e ciascuno di essi fornisca un contributo originale nella ricerca dei caratteri fondamentali del fenomeno, si possono evidenziare alcune figure tipiche ricorrenti. La struttura in cui, tradizionalmente, si sviluppa il controllo di ragionevolezza è il giudizio di eguaglianza. Questo, dopo una prima e breve fase nella quale il relativo principio veniva inteso come imperativo di generalità e astrattezza della legge e quindi, divieto di discriminazioni soggettive riconducibili agli aspetti espressamente elencati nell’art. 3, comma 1, Cost., si è esteso fino a ricomprendere la verifica in ordine alla sussistenza di un ragionevole motivo per stabilire trattamenti difformi di situazioni eguali ovvero trattamenti eguali di situazioni diverse. In altre parole, da un approccio secondo il quale la Corte doveva limitarsi a trarre le logiche conseguenze delle premesse poste dal legislatore, non sindacabile nella sua valutazione dei profili di analogia tra le situazioni disciplinate, si passò alla possibilità di verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, differenziatrici od equiparatrici, attraverso la valutazione della loro adeguatezza rispetto ai contesti di fatto regolati (10). Al fine di arginare i rischi di un controllo tendente a sconfinare nel merito politico (11), lo schema logico del giudizio di eguaglianza è stato adottato quale cornice del sindacato di ragionevolezza (12). Vi sono « almeno tre termini, vale a dire la norma impugnata, il principio costituzionale d’eguaglianza ed un tertium comparationis, in vista del quale possa dirsi che la differenziazione o la classificazione in esame sia ragionevole oppure arbitraria, provvista o carente di un adeguato fondamento legislativo, e quindi conforme o difforme rispetto al generale imperativo dell’art. 3 » (13). La difformità di trattamento « dev’essere apprezzata in rapporto sindacato di ragionevolezza (senza l’uso del tertium) si è efficacemente notato come la Corte usi i due termini « in modo caotico e promiscuo... sicché proprio la giurisprudenza costituzionale in materia appare, almeno linguisticamente, ...incoerente e irragionevole »: A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2001, p. 163. (10) Sull’evoluzione del giudizio di eguaglianza, v. G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza, cit., p. 38 ss., al quale si rinvia anche per gli esaustivi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. (11) Detti rischi furono immediatamente avvertiti da C. ESPOSITO, L’art. 3 della Costituzione e il controllo dell’ingiustizia delle leggi, in Giur. cost., 1958, p. 604 ss., dove si criticava la sent. n. 53/1958, secondo la quale la violazione del principio di eguaglianza poteva essere affermata anche in presenza di leggi che parificassero situazioni oggettivamente diverse. (12) Si tratta del modello proposto da L. PALADIN in Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano, 1965, e più compiutamente elaborato in Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza (aprile 1979-dicembre 1983), in Giur. cost., 1984, p. 219 ss. (13) L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, cit., p. 222.


— 227 — alla disciplina che l’ordinamento riserva ad altre categorie o ad altre fattispecie, del tutto o in parte distinte da quella che forma l’oggetto della norma impugnata; ed è in relazione ad altre norme che deve dunque effettuarsi, per non esorbitare nel merito, il sindacato di legittimità costituzionale attinente al principio di eguaglianza » (14). Così concepito, il giudizio di eguaglianza-ragionevolezza viene visto come un sindacato che si sviluppa « per linee interne » (15) al fine di rimediare all’arbitraria trasgressione dei criteri e delle regole posti dal legislatore, ma dallo stesso disapplicati « senza il sostegno di pertinenti ragioni giustificative » (16). Sarebbe, insomma, un controllo di razionalità, di coerenza, basato sul principio di non contraddizione e, quindi, avente ad oggetto non « la voluntas del legislatore ma la conseguenziarietà del ragionamento sviluppato in base alla medesima », verificabile mediante « giudizi meramente analitici » (17). Da tale impostazione, la forma di sindacato in esame deriva la veste di « livello minimale », espressione « di una generale ‘‘deferenza’’ nei confronti delle valutazioni legislative » che predilige strumenti di controllo « esterni al momento valutativo vero e proprio » (18). Alla figura del sindacato di eguaglianza si aggiungono i modelli decisori slegati dallo schema triadico, nei quali la norma impugnata non viene posta in relazione ad un’altra situazione normativa presa come termine di paragone, ma si procede direttamente a verificare la ragionevolezza intrinseca della legge attraverso un giudizio incentrato sulla ratio giustificativa. Questo tipo di sindacato, definito anche di ragionevolezza in senso stretto, si esprime in valutazioni di adeguatezza, pertinenza, congruità, proporzionalità della legge, e degli strumenti che essa appresta, in rela(14) L. PALADIN, loc. ult. cit. (15) L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, cit., p. 230. (16) L. PALADIN, loc. ult. cit. (17) A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Esame analitico ed ipotesi ricostruttive, Milano, 1976, p. 98 s., nonché, per ulteriori chiarimenti, p. 117 s. (18) A. CERRI, Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur., vol. XXV, Roma, 1994, p. 16. La tipologia di sindacato impostata sullo schema del giudizio triadico, viene generalmente qualificata come interna all’ordinamento e quindi rispettosa delle scelte legislative, delle quali non tocca il merito. In tale direzione sembrano andare le riflessioni di G. ZAGREBELSKI, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 149 ss., il quale, tuttavia, distingue, nell’ambito del sindacato di eguaglianza-ragionevolezza, tra giudizio di razionalità e giudizio di ragionevolezza, attribuendo solo al primo la natura di sindacato sulla non contraddittorietà delle leggi e segnalando la ‘‘pericolosità’’ del secondo in quanto implicante apprezzamenti sulla plausibilità delle classificazioni legislative. V. anche A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 172, dove si individua, quale primo stadio del giudizio di ragionevolezza, un sindacato, definito interno, di « razionalità della legge in relazione: 1o) ai fini immanenti la legge stessa e 2o) ai fini complessivi del settore legislativo dell’ordinamento disciplinato dalla legge ».


— 228 — zione agli obiettivi perseguiti (siano o meno imposti da precetti costituzionali) (19). In ogni caso, occorre avvertire che anche le sentenze ispirate al modello in questione sono spesso costruite secondo uno schema ternario dove, tuttavia, il tertium non rappresenta, come nel giudizio di eguaglianza, il presupposto logico della decisione, ma opera « come ‘‘espediente retorico’’ al quale si ricorre per conferire un maggior rigore formale » ad una scelta « fondata essenzialmente su opzioni di valore largamente discrezionali » (20). Infine, un ruolo di particolare rilievo è stato assunto da quella modalità di giudizio etichettata come ‘‘bilanciamento degli interessi’’, dove la Corte sottopone a riesame i bilanciamenti con i quali il legislatore risolve situazioni di conflitto tra interessi riconducibili a principi di rango costituzionale. La tecnica del bilanciamento viene ritenuta necessaria poiché la Costituzione contiene norme tra loro antagonistiche (21), che assumono la forma di principi (22) e sono prive di un programma condizionale suscettibile di applicazione in via deduttiva (23). L’applicazione dei principi avviene secondo il peso o l’importanza che va « misurata caso per caso quando un principio entra in conflitto con un altro, in relazione alle circostanze nelle quali la collisione di manifesta » (24). Il giudice costituzionale deve quindi scegliere, nella concreta ipotesi ad esso sottoposta, quale diritto o interesse debba avere la prevalenza. Tale decisione viene adottata in una forma di sindacato che si sviluppa in tre momenti logicamente autonomi: l’identificazione degli interessi coinvolti nella disciplina impugnata, attraverso operazioni interpretative degli enunciati costituzionali e della norma di legge oggetto del giudizio; la ricerca di eventuali regole che (19) Fra i molti contributi dottrinali che si sono occupati, con proposte classificatorie in parte diverse ed originali sistematizzazioni della giurisprudenza, della tipologia di sindacato in esame, v. A.M. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. soc., 1975, p. 561 ss.; A. ANZON, Modi e tecniche del controllo di ragionevolezza, in AA.VV., La giustizia costituzionale a una svolta, a cura di R. ROMBOLI, Torino, 1991, p. 32 ss.; J. LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. Disc. pubbl., vol. XII, 1997, p. 351 ss.; G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza, cit., p. 181 ss.; A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, p. 145 ss. (20) G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza, cit., p. 108. (21) Cfr. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, 2a ed., Milano, 1997, p. 246. (22) Sui principi giuridici e sulla distinzione tra principi e regole, v., tra i numerosissimi contributi, R. DWORKIN, I diritti presi sul serio (1978), trad. it., Bologna, 1982, p. 90 ss.; S. BARTOLE, Principi generali del diritto (diritto costituzionale), in Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 494 ss.; F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur., vol. XXIV, Roma, 1991; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 148 ss.; R. GUASTINI, Principi di diritto, in Dalle fonti alle norme, Torino, 1992, p. 143 ss.; L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, cit., p. 126 ss. (23) In tal senso, v. L. GIANFORMAGGIO, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole ed argomentazione basata su principi, in Riv. int. fil. dir., 1985, p. 69 ss. (24) L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, cit., p. 132.


— 229 — fissino una gerarchia tra i principi implicati; la verifica del non eccessivo sacrificio di uno dei principi (25). La tripartizione operata nel tentativo di descrivere i diversi contesti in cui si esplica il sindacato di ragionevolezza, ha carattere prevalentemente illustrativo e non costituirà la struttura dell’analisi di seguito svolta. Non ci si ripropone, infatti, di fornire un’esauriente classificazione della giurisprudenza costituzionale più o meno fedele ai numerosi criteri apprestati dalla dottrina costituzionalistica. L’obbiettivo è invece quello di verificare, pur tenendo conto dei modelli sopra tratteggiati, l’impatto della ragionevolezza sul concreto ‘‘funzionamento’’ dei principi costituzionali attinenti al processo penale. 3. Giudizio di eguaglianza e principi costituzionali. — Tra i criteri riconducibili al sindacato di ragionevolezza, è indubbiamente il giudizio di eguaglianza quello più frequentemente utilizzato, mediante il richiamo all’art. 3, comma 1, Cost., da solo o in combinazione con altri parametri. In effetti, il valore dell’eguaglianza si pone, da una parte, come collante sistematico delle disposizioni costituzionali sul processo penale (26), dall’altra, come connotato di alcuni principi sostanziali rispetto ai quali il riferimento all’art. 3, comma 1, Cost. sembra limitarsi ad una funzione meramente rafforzativa, costituendo lo specifico parametro un’attuazione, in particolari materie, del principio generale. Nel primo senso, si è arrivati a sostenere che i singoli parametri costituzionali si collocherebbero in « posizione strumentale » rispetto all’eguaglianza come « fulcro intorno al quale ruota l’intero sistema costituzionale ». Inoltre, nel vagliare la legittimità della singola norma processuale non sarebbe sufficiente il confronto con la « specifica asserzione costituzionale alla quale essa immediatamente si ricollega », dovendo piuttosto accertare la sua « compatibilità con l’intero sistema, quale emerge dall’adesione della globalità dei principi all’affermazione fondamentale dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge » (27). In quest’ottica, quindi, ogni questione di legittimità costituzionale relativa a norme processuali penali è potenzialmente una questione di eguaglianza. Le disposizioni costituzionali relative al processo, dunque, ‘‘legate’’ (25) In generale, sulle tecniche di giudizio riconducibili al ‘‘ragionevole bilanciamento degli interessi’’, v. R. BIN, Diritti e argomenti, cit., passim; J. LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), cit., p. 355 ss., dal quale è stata tratta la suddivisione del giudizio in tre fasi riportata nel testo; G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza, cit., p. 309 ss.; A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 275 ss. (26) A.A. DALIA-G. PIERRO, Giurisdizione penale, in Enc. giur., vol. XV, Roma, 1989, p. 10; G. RICCIO-A. DE CARO-S. MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale: una rilettura della giurisprudenza costituzionale 1956-1988, Napoli, 1991, p. 253. (27) A.A. DALIA-G. PIERRO, loc. ult. cit.


— 230 — dal principio di eguaglianza nella sua duplice dimensione di divieto di trattamenti discriminatori ratione subiecti e, per estensione, di principio di astrattezza oggettiva e di razionalità dell’ordinamento (28), vanno a costituire il sostrato su cui lo stesso valore dell’eguaglianza prende forma. Esse finiscono cioè per dettare i criteri di giustizia che rappresentano la base dell’eguaglianza giuridica (29). D’altro canto, i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione devono essere attuati con norme di massima universalità soggettiva ed oggettiva (30). Questa reciproca implicazione sistematica rende particolarmente evidente come nel giudizio di eguaglianza, impostato sul confronto tra fattispecie teso a verificare la giustificatezza della difformità o parificazione di trattamento, tale controllo avvenga alla luce del principio specifico (31) di volta in volta chiamato in causa attraverso la norma di raffronto. Così, il principio di eguaglianza, pur costituendo la giustificazione costituzionale dello schema di ragionamento grazie al quale si sviluppa il discorso sulla ‘‘eguale applicazione’’ dei precetti costituzionali e, in definitiva, sia pure più indirettamente, sul contenuto dei medesimi, rimane estraneo alla sua struttura (32), che si ispira, piuttosto, all’argomento analogico (33). Da (28) A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), in Enc. giur., vol. XXXII, Roma, 1994, p. 7. (29) L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, in Teoria politica, 1998, n. 2, p. 4. V. anche V. ONIDA, Eguaglianza, legalità e Costituzione, in AA.VV., Annuario 1998. Principio di eguaglianza e principio di legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici, Atti del XIII Convegno annuale, Trieste 17-18 dicembre 1998, Padova, 1999, p. 262 ss., il quale, rilevato che il principio di eguaglianza pone il problema degli aspetti in relazione a cui i soggetti devono considerarsi uguali o non uguali, risponde a tale interrogativo individuando nei diritti fondamentali il principale terreno di applicazione dell’eguaglianza. (30) A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), cit., p. 7. (31) Va comunque precisato che il principio di cui il tertium comparationis è espressione, non necessariamente ha rango costituzionale. (32) Cfr. R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 46, nota n. 120, dove, in contrasto con la ricostruzione del modello operata da L. PALADIN (Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, cit., p. 219 ss.) il quale colloca il principio di eguaglianza al vertice del triangolo alla cui base sono poste le norme confrontate, si sostiene che è la ratio legis a chiudere la struttura triangolare. Più precisamente, secondo BIN (loc. ult. cit.) il vertice del triangolo « sarà dato dalla ratio legis se si accerta che le due norme messe a confronto sono accomunabili (dal punto di vista fissato dall’ordinanza di rimessione) dall’eadem ratio (con la conseguenza che saranno dichiarate illegittime le eventuali differenziazioni poste dal legislatore), mentre ‘‘triangolo’’ non vi sarà neppure se la diversità di rationes delle due norme comparate impedisce di fissare il ‘‘vertice’’ dello schema (con conseguente illegittimità delle eventuali parificazioni di trattamento legislativo) ». Anche per A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 80 s. e nota 93, il modello triangolare « si chiude nel punto di vista rilevante » del quale « sia le rationes delle norme poste a confronto, sia tutti gli altri elementi caratteristici costituiscono elementi sintomatici ». (33) Sulla ‘‘analogia’’ come base del giudizio di uguaglianza, v., A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 43 ss. dove (cfr. nota 4) si precisa che « l’applicazione del principio di eguaglianza, comprende, peraltro, anche le ipo-


— 231 — questo, in particolare, prende le caratteristiche del nucleo tipico che consiste nella determinazione della somiglianza tra due fattispecie. È stato messo in luce come questa operazione abbia natura valutativa e non si esaurisca nella mera constatazione di un dato esteriore, empiricamente verificabile (34). Si tratta invece del risultato di un giudizio condizionato dalle premesse assiologiche, dalle scelte di valore alla luce delle quali l’omogeneità viene sostenuta o negata: « affermare che due fattispecie sono ‘‘simili’’ non è diverso da sostenere che esse sono meritevoli della medesima disciplina giuridica » (35). D’altro canto, affinché la somiglianza possa essere definita rilevante e giustificare l’estensione di una disciplina al caso non previsto, occorre che l’elemento comune rappresenti la ‘‘ragione sufficiente’’, la ratio, il fine, lo scopo della norma (36). La ricerca della ratio, fase in cui si annida la debolezza dell’argomento a simili (37) in quanto aperta alle opzioni dell’interprete non dimostrabili con rigore logico (38), rappresenta lo snodo attraverso il quale, partendo dalla norma, si risale induttivamente al principio che la fonda per dare così concreto sviluppo a quella ‘‘eccedenza assiologica’’ che costituisce il fulcro del procedimento di produzione di una nuova norma tramite l’analogia (39). Così, in ogni forma di applicazione analogica, non tanto si reatesi di interpretazione estensiva, restrittiva e di applicazione diretta dei principi generali; il richiamo all’analogia deve dunque essere inteso in senso logico, non con riferimento ad istituto positivamente previsto ». Sul punto v. altresì A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, Roma-L’Aquila, 1984, p. 11 ss. (34) G. CARCATERRA, Analogia. I) Teoria generale, in Enc. giur., vol. II, Roma, 1988, p. 10 ss. (35) R. GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., p. 433; v. anche G. CARCATERRA, Analogia, cit., p. 11, « due casi sono simili non in quanto già sono, ma in quanto, secondo qualche criterio di valutazione presupposto dal p.g.a. [principio generale di analogia], dovrebbero essere, in quanto meritevoli di essere, regolati allo stesso modo ». (36) R. GUASTINI, loc. ult. cit. (37) È allo stesso Bobbio, principale assertore della ‘‘certezza’’ del ragionamento analogico, che viene riconosciuto il merito di aver chiarito come elementi di incertezza vadano a minare la ricerca della ragione sufficiente quando questa viene effettuata in concreto: cfr. L. LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1975, p. 288, nota 266, il quale, tuttavia, riferendo in ordine alle critiche di impronta giusliberista dell’analogia, osserva che « impostando il rapporto tra parte certa e parte incerta dell’analogia non come rapporto tra ragionamento ‘‘astratto’’ o ‘‘in sé’’ e ragionamento ‘‘concreto’’, ma come rapporto tra due momenti del ragionamento analogico tipico » l’incertezza viene ricondotta « all’interno di quest’ultimo ». (38) G. CARCATERRA, Analogia, cit., p. 14: « poiché il fine della norma non si ottiene attraverso un’algebra concettuale ma attraverso la ricostruzione e la comprensione della logica dell’azione normativa, la ricerca della ratio ha tutte le incertezze e la fallibilità dell’ermeneutica delle azioni umane ». L. CAIANI, Analogia. b) Teoria generale, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, p. 364, rileva che la scelta della norma nel caso di analogia o del principio nel caso di analogia iuris è il frutto di un atto intuitivo. (39) A. MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Torino, 1996, p. 69 ss.


— 232 — lizza l’estensione di una determinata disposizione, quanto piuttosto si applica « il principio della cui esistenza la disposizione particolare sarebbe ‘‘testimonianza’’ » (40). Ben si spiega allora come il frequente ricorso al parametro dell’art. 3, comma 1, Cost., spesso celi operazioni attuative dei diritti costituzionali implicitamente coinvolti nella questione attraverso la mediazione della ratio della norma ordinaria assunta a tertium comparationis. Nella sent. n. 390/1991, ad esempio, la ratio della norma di raffronto, l’art. 11, comma 1, c.p.p., che fissa i criteri di determinazione della competenza territoriale nei procedimenti in cui un magistrato sia imputato, persona offesa o danneggiato dal reato, viene individuata nella tutela del diritto di difesa, dell’imparzialità e della terzietà del giudice. Da simile premessa si trae l’illegittimità costituzionale della deroga, prevista dall’art. 11, comma 3, c.p.p., al criterio dello spostamento di competenza, nel caso di reato commesso in udienza. Mentre l’eccezione era stata sollevata dal giudice a quo in forza del solo art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento, la Corte la accoglie ritenendo violati, oltre al principio di eguaglianza, il diritto di difesa, i principi di serenità ed obbiettività dei giudizi e di imparzialità e terzietà del giudice (41). Anche quando la violazione del principio di eguaglianza e quella di un altro parametro vengono distintamente affermate, la prima si delinea su argomenti nei quali la differenza viene censurata perché, in definitiva, pregiudizievole per il diritto riconosciuto dal secondo. Così, è la stessa Corte ad ammettere l’inscindibilità e, pertanto, la non distinguibilità del principio di eguaglianza dal diritto di difesa nel dichiarare illegittimi, sotto entrambi i profili, gli artt. 294, comma 1 e 302 c.p.p., là dove esclude(40) R. GUASTINI, loc. ult. cit., il quale, poste tali premesse, conclude che tra applicazione analogica (analogia legis) e ricorso ai principi generali del diritto (analogia iuris) ricorre « una differenza solo di grado ». L’opinione si inscrive nell’orientamento espresso da M.S. GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus, 1941, p. 531 s., il quale afferma, con impareggiabile chiarezza, che « Anche nei casi in cui, stando alla lettera delle argomentazioni, possa apparire che chi applica il diritto, si fonda su una mera somiglianza esteriore (il Bobbio nel caso parlerebbe di ragionamento induttivo), in realtà tale somiglianza è un semplice artificio logico, o meglio una via logica, dietro cui si deve sempre trovare il principio giuridico superiore, in virtù del quale è possibile applicare alla situazione di fatto S la disposizione che riflette Q ». In senso analogo, v. anche L. CAIANI, Analogia, cit., p. 358 ss. (41) Identico approccio è rinvenibile nella sent. n. 455/1994 dove l’illegittimità dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice che ha pronunciato l’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2, c.p.p., viene pronunciata per « ingiustificata disparità di trattamento di situazioni tra loro assimilabili » e dichiarato assorbito il profilo relativo alla violazione del diritto di difesa. Infatti, la ratio ricavata dalla norma di raffronto (art. 34, comma 1, c.p.p.) e ritenuta « applicabile alla fattispecie » viene individuata nel principio di imparzialità del giudice, altre volte desunto dalla Corte da vari parametri sostanziali tra i quali il diritto di difesa. La stessa terminologia evoca un’operazione applicativa di principi costituzionali diversi dall’uguaglianza.


— 233 — vano l’interrogatorio di garanzia della persona in stato di custodia cautelare nel caso di misura eseguita nella fase che va dalla chiusura delle indagini preliminari con la richiesta di rinvio a giudizio alla conclusione dell’udienza preliminare (42). In un successivo intervento sulla medesima disposizione (43), l’ulteriore declaratoria di illegittimità, con cui è stato esteso l’obbligo dell’interrogatorio di garanzia anche allo stadio degli atti preliminari al dibattimento, viene fatta conseguire dal contrasto « oltre che con il principio di eguaglianza, anche con il diritto di difesa », senza che peraltro si possa individuare una linea di demarcazione tra gli argomenti relativi all’uno ed all’altro principio. La privazione del più efficace mezzo di difesa dell’interrogatorio, infatti, deriva da una disparità di trattamento, resa « ancor più irragionevole » dalla circostanza che « l’intervallo di tempo fra trasmissione degli atti ed inizio del dibattimento può essere contrassegnato da una estensione maggiore rispetto a quello che va dalla richiesta di rinvio a giudizio all’espletamento dell’udienza preliminare ». La conferma della stretta interdipendenza tra argomenti ‘‘sostanziali’’ e discorsi di stampo ‘‘analogico’’ può essere rinvenuta in quelle decisioni di infondatezza dove si esclude la somiglianza tra due fattispecie in ragione dell’acclarata congruità della norma impugnata rispetto alla tutela di una situazione soggettiva costituzionale (44). D’altro canto, quando agisce in nome di un parametro sostanziale la Corte, in modo speculare a quanto avviene nel giudizio di eguaglianza, raffronta due fattispecie al fine di appurare in concreto se quella sottoposta al suo giudizio è adeguata a tutelare il principio sancito in via generale. Poi, di fronte all’esito negativo della verifica, estende alla situazione considerata la disciplina del tertium sottolineandone le potenzialità espansive connesse alla ravvisata finalità di garantire un diritto fondamentale. In proposito, è emblematica la decisione che ha dichiarato illeggittimo l’art. 119 c.p.p. per violazione degli artt. 3, comma 1 e 24, comma 2, Cost. là dove non prevedeva la nomina di un interprete in favore dell’imputato muto, sordo o sordomuto che sappia leggere e scrivere (45). La Corte ha riconosciuto la violazione del diritto di difesa, sotto il particolare profilo del diritto all’autodifesa come « diritto primario dell’imputato, immanente (42) Sent. n. 77/1997. (43) Sent. n. 32/1999. (44) Cfr. sentt. nn. 101/1997, 114/1997, 122/1997, con particolare riguardo ad alcuni aspetti del diritto di difesa nei giudizi speciali. In tutte le decisioni menzionate, l’asserita violazione del diritto di difesa e quella del principio di eguaglianza vengono trattate congiuntamente ed il rispetto di entrambi i principi viene contestualmente espresso in un’unica affermazione. Nella sent. n. 122/1997, dove si osserva che « ...nessuna violazione può ritenersi subiscano il diritto di difesa o il principio di uguaglianza... », l’uso della disgiuntiva sembra evocare un rapporto di fungibilità tra i due termini. (45) Cfr. sent. n. 341/1999.


— 234 — a tutto l’iter processuale ». Tale conclusione è stata essenzialmente fondata sull’esito del confronto tra la disciplina impugnata e quella prevista per l’imputato che non conosce la lingua italiana, risultando queste due situazioni equiparabili in quanto entrambe attinenti ad un soggetto che « a causa di sue particolari condizioni personali, non sia in grado di comprendere i discorsi altrui o di esprimersi essendo compreso ». Nonostante siffatta differenza di disciplina fosse stata posta dal giudice a quo alla base di una censura per violazione del principio di eguaglianza, la Corte ha sviluppato i relativi argomenti in seno al diritto di difesa dichiarando assorbiti gli altri profili. Ciò anche in forza del fatto che il ricorso all’interprete non viene configurato « come un mero strumento tecnico a disposizione del giudice per consentire o facilitare lo svolgimento del processo in presenza di persone che non parlino o non comprendano l’italiano, ma come oggetto di un diritto individuale dell’imputato, diretto a consentirgli quella partecipazione cosciente al procedimento che... è parte ineliminabile del diritto di difesa ». Quest’ultima precisazione rappresenta con estrema efficacia l’alternativa, che si pone al giudice costituzionale nei giudizi in esame, tra il rimanere in un ambito pratico-funzionale e l’ ‘‘elevare’’ invece il proprio piano di azione ad un livello che permetta di considerare gli interessi sottesi alle situazioni normative messe a confronto, evidenziando il loro rilievo costituzionale e, eventualmente, verificandone la lesione. La scelta tra le due strade, peraltro, non viene effettuata solo quando la possibilità di esaminare la questione di legittimità rispetto ad un parametro specifico sia stata garantita dal riferimento ad esso operato dal giudice a quo, in aggiunta od in combinazione con l’art. 3, comma 1, Cost. Benché il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 27 l. n. 87/1953, imponga di circoscrivere il thema decidendum alle disposizioni oggetto dell’eccezione ed alle disposizioni parametro, l’evocazione del tertium dischiude un ampio ventaglio di profili dal quale la Corte estrae il punto di vista rilevante ai fini del decidere. Il processo interpretativo delle fattispecie coinvolte, infatti, comporta l’ingresso nel giudizio di costituzionalità di dati normativi, fattuali, teleologici ed assiologici che allargano considerevolmente l’orizzonte delle valutazioni da compiere nella verifica in ordine alla giustificatezza delle differenze o parificazioni di trattamento (46). Dunque, la Corte può dare rilievo all’ambito soggettivo di applicazione delle norme, ovvero ai profili oggettivi o ai presupposti di fatto, oppure, ancora, agli aspetti strutturali od a quelli funzionali (47). Nella selezione del punto di vista decisivo vengono allora effet(46) In tal senso, v. A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 63 ss., nonché, p. 86 ss. (47) V., ancora, A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 66 s.


— 235 — tuati giudizi di valore che riducono « considerevolmente la connotazione formale e logico-deduttiva del giudizio di eguaglianza-ragionevolezza » (48). In contesti come quelli sopra descritti, risulta alquanto problematico assegnare al principio di eguaglianza un ruolo che esorbiti dal semplice accorgimento (49) grazie al quale il sindacato di ragionevolezza, specie nella tipologia del giudizio di congruità-pertinenza, può ancorarsi ad una trama logica in grado di farlo apparire oggettivo e controllabile e di attribuire quindi all’esito della questione la veste di conseguenza ‘‘necessaria’’ delle scelte già operate dal legislatore (50). Là dove poi si arriva ad un uso dello schema triadico all’interno di un parametro sostanziale, la valenza dell’approccio ‘‘analogico’’ si risolve nel reperimento di una regola che fissi le condizioni giuridiche e fattuali atte all’affermazione del diritto ricavato dal parametro interessato (51). (48) Cfr. A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 87, dove si precisa che la connotazione logico-deduttiva « si dirada progressivamente in ragione della lontananza del giudizio stesso dallo schema tipico che la costruzione di Paladin implica, ossia il confronto tra norma speciale e norma generale ». Come ricorda il medesimo Autore (ivi, p. 84 s.), infatti, secondo il modello del giudizio di eguaglianza proposto da Paladin (cfr. in particolare, L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, cit., passim), il tertium comparationis farebbe entrare nel giudizio i precetti via via più generali che ne giustificano l’esistenza, fino ad arrivare talvolta a norme costituzionali. Ciò consentirebbe di ricercare le « logiche già in atto nell’ordinamento » per assicurarne la coerenza, secondo l’immagine delle « rime obbligate », e non per sindacare « la bontà intrinseca delle leggi ». (49) R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 45, parla di « meccanismo formale, ‘‘metarelazionale’’, che istituisce un rapporto tra fattispecie normative diverse, messe a confronto in un ragionamento di tipo analogico ». (50) In tal senso, G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza, cit., p. 109: « lo schema ternario permette di costruire la motivazione della decisione in modo tale che l’incostituzionalità della disposizione in giudizio sia fatta derivare non già dal suo diretto contrasto con le enunciazioni di principio della Costituzione, che dovrebbero in tal caso essere continuamente rilette dalla Corte nella concretezza del loro significato applicativo, ma dalla dissonanza della disposizione impugnata rispetto alle valutazioni compiute dal legislatore in una fattispecie analoga o comunque rispetto a principi desumibili dalla legislazione ordinaria ». (51) Cfr. R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 49. Quanto più è vago l’enunciato costituzionale che sancisce il principio da applicare (v., ad es. l’art. 24, comma 2, Cost.), tanto più è utile ricercare nel sistema subcostituzionale la regola che ne possa garantire l’attuazione. Occorre inoltre ricordare che, se, da un lato, l’art. 3, comma 1, Cost. si pone come principale fondamento positivo del controllo di ragionevolezza e pertanto il richiamo ad esso va visto in tale ottica, dall’altro, la Corte individua « un’equivalente ‘‘carica paritaria’’, sufficiente a fondare un controllo di ‘‘ragionevolezza’’ » anche in altre norme costituzionali come ad es. l’art. 24 Cost. (cfr. R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 44 e nota 118), particolarmente rilevante nelle questioni di legittimità relative a norme processuali penali. Si è chiarito come lo schema analogico sia prezioso anche fuori dall’uso nella sua accezione tecnica, potendo esso funzionare come forma di argomentazione in grado di contribuire alla concreta attuazione del principio di giustizia dell’eguaglianza di trattamento, sot-


— 236 — Naturalmente, la riconoscibilità di interventi riconducibili a principi diversi da quello di eguaglianza è di certo inferiore nelle decisioni imperniate sul solo art. 3, comma 1, Cost., particolarmente in quelle la cui motivazione è impostata sull’asettico confronto fra le situazioni che si assumono indebitamente parificate o differenziate. In queste ultime ipotesi, infatti, la Corte, per lo più al fine di non prendere posizioni troppo nette e di non legare le mani al legislatore, dopo un’analitica ponderazione di elementi comuni e tratti distintivi che lascia già intendere l’accordata prevalenza ai primi, identifica la ratio del tertium con un atteggiamento descrittivo-anassiologico (52), evitando qualsiasi collegamento tra il principio desunto dalla norma ordinaria ed uno specifico valore costituzionale. Così, un contegno decisamente cauto, dettato dall’esigenza di non incidere in modo definitivo su una delle novità salienti del codice come il giudizio abbreviato, ha consigliato alla Corte, nella prime occasioni in cui si è trovata ad affrontare il problema del controllo sul dissenso del pubblico ministero, di sfruttare tutte le peculiarità della disciplina transitoria e della figura atipica contemplata nell’art. 452, comma 2, c.p.p. per limitare ad esse i propri dicta e lasciare impregiudicata la normativa codicistica, probabilmente in attesa di interventi legislativi che ovviassero ad un inconveniente destinato a pesare sul futuro dell’istituto (53). Dopo aver ristretto l’oggetto del giudizio con l’inammissibilità delle questioni attinenti al modello ‘‘ordinario’’ (54), la Corte compara patteggiamento ed abbreviato, nell’assetto specifico delle situazioni considerate, limitandosi a dedurre dalla sostanziale corrispondenza delle due forme l’ingiustificatezza della mancanza di un controllo sul veto opposto dall’accusa nel solo giudizio abbreviato, soprattutto in ragione delle conseguenze sul merito connesse all’adozione del rito. Che dietro questa analogia delle due realtà normative, ispirata ad una concezione logicista della somiglianza rilevante necessaria ad estendere la teso all’analogia medesima: G. ZACCARIA, L’analogia come ragionamento giuridico. Sul fondamento ermeneutico del procedimento analogico, in questa Rivista, 1989, p. 1549 s. (52) Sulla concezione descrittiva della ratio come matrice di un controllo interno alla legislazione, v. G. SCACCIA, Gli ‘‘strumenti’’ della ragionevolezza, cit., p. 117. (53) Si parla di un atteggiamento cauto della Corte nelle sentenze menzionate in G. RICCIO-A. DE CARO-S. MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, cit., p. 264. (54) Nel negare il requisito della rilevanza delle questioni aventi ad oggetto gli artt. 438, comma 1 e 440, comma 1, c.p.p., la sent. n. 66/1990 pone a confronto abbreviato tipico e transitorio sostenendo la netta differenziazione funzionale e strutturale tra i due istituti ed escludendo che la disciplina transitoria possa essere considerata specifica applicazione di quella ordinaria. Agli stessi fini, massimo risalto è attribuito alla atipicità del giudizio abbreviato innestato in sede di giudizio direttissimo nella sent. n. 183/1990 per predicarne l’incommensurabilità col modello ordinario di cui agli artt. 438 ss. c.p.p.


— 237 — soluzione adottata nell’applicazione della pena su richiesta (55), vi fosse qualcosa di più della semplice esigenza di razionalità legata all’eguaglianza formale, non ha tardato ad emergere dai successivi interventi. Nella sentenza che affronta il problema con riguardo alla disciplina ‘‘tipica’’, infatti, si passa dal distaccato empirismo delle decisioni precedenti, all’impiego dell’art. 3, comma 1, Cost. come tramite per « esigenze di coerenza e ragionevolezza » orientate all’attuazione del principio di parità delle parti desunto, ancora molto prudentemente, da una direttiva della legge delega (56). Infine, quando la questione del controllo sull’accesso al rito premiale si presenta sotto la prospettiva attinente al ruolo del giudice, il legame rito-pena, prima valutato quale analogia tra due istituti (57), poi considerato nell’ottica del principio di parità (58), diviene carattere decisivo per affermare la diretta violazione di un parametro sostanziale in grado di ‘‘contenere’’ tutti i profili rispetto ai quali era stata riconosciuta in precedenza la violazione dell’art. 3, comma 1, Cost. (59). La sequenza giurisprudenziale appena descritta consente quindi di cogliere appieno l’estrema labilità del confine tra l’uguaglianza come principio autonomo, che agisce all’interno della legislazione ordinaria assicurandone l’« oggettiva razionalizzazione » (60), e l’uguaglianza come ‘‘strumento’’ tramite il quale agiscono principi e diritti costituzionali. Anzi, vicende del genere suscitano addirittura il dubbio per cui l’uso del principio nella prima accezione forse ‘‘nasconde’’ sempre un’operazione del secondo tipo. Tuttavia, oltre a non potersi ricercare conclusioni valide in ge(55) Lo stile della Corte nelle decisioni in questione sembra evocare il concetto di ‘‘ragion sufficiente’’. Sull’accezione della ratio come somiglianza rilevante, ossia presenza nei due termini dell’analogia di un carattere comune che costituisce la ragion sufficiente, la causa, dell’attribuzione ad uno di essi la qualità normativa da estendere all’altro, v. N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, p. 101 ss. La trasposizione del principio di ragion sufficiente dalla logica alla scienza del diritto è stata criticata alla luce del « carattere sostanzialmente storico e non naturalistico » della ricerca della ratio in quanto « diretta alla comprensione o se si voglia, al rivivimento storico di una gamma di elementi teleologici da una parte e di fini pratico-politici dall’altra, che richiedono un impegno valutativo, sia pure subordinato, da parte dell’interprete »: L. CAIANI, Analogia, cit., p. 363 ss. (56) Cfr. sent. n. 81/1991, dove l’argomento fondato sul principio di parità viene affiancato da un’ulteriore considerazione circa la violazione dell’eguaglianza a causa di difformi determinazioni del pubblico ministero in ordine al rito rispetto ad imputati « destinatari di un’identica imputazione e portatori di un’analoga capacità a delinquere ». Sembra interessante notare che la Corte, anche sotto il profilo in esame, punta il dito sulla carenza di motivazione del dissenso e sull’assenza di controllo giurisdizionale, aspetti già considerati nell’ottica del principio di parità delle parti, della cui violazione il rischio di trattamenti arbitrariamente difformi costituisce mero sintomo. (57) Sentt. nn. 66 e 183/1990. (58) Sent. n. 81/1991. (59) Sent. n. 23/1992. (60) L’espressione è di A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 129.


— 238 — nerale dall’analisi delle sole decisioni sulle norme processuali penali, una lettura sistematica della giurisprudenza costituzionale deve pur rimanere saldamente ancorata al proprio oggetto ed evitare qualsiasi costruzione che rischierebbe di farne perdere di vista anche i soli aspetti marginali, egualmente rilevanti in una visione d’insieme (61). Non si può allora dimenticare che in alcuni settori della materia, anche se più o meno ‘‘periferici’’, la Corte si limita ad un controllo di coerenza interno alla legislazione ordinaria, ritenuta libera da vincoli costituzionali: esempi di tale atteggiamento sono le decisioni in tema di spese processuali (62) e di fattispecie premiali (63). 4.

Coerenza e diritti. — Al di là delle situazioni appena ricordate,

(61) Preziose indicazioni metodologiche in A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 84 ss. (62) Nella sent. n. 45/1997, in seno alla questione di legittimità dell’art. 666, comma 6, c.p.p. nella parte in cui non prevede la condanna al pagamento delle spese processuali per colui che ha proposto un incidente di esecuzione dichiarato inammissibile o rigettato, la Corte, dopo aver ribadito il principio generale secondo cui « il costo del processo deve essere ‘‘sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice’’ », rigetta tuttavia la questione. Ciò sulla base del fatto che « non si rinviene in Costituzione un principio che faccia obbligo allo Stato di recuperare in ogni caso le spese processuali, sì che di volta in volta si tratta di valutare la ragionevolezza della scelta operata dal legislatore ». Procedendo, quindi, all’analisi della denunciata disparità fra colui che coltiva il procedimento di esecuzione fino al primo grado e chi, invece, ricorre per Cassazione contro l’ordinanza di inammissibilità o rigetto (caso in cui opera la regola della soccombenza), la Corte ritiene giustificato il diverso trattamento poiché solo in caso di ricorso « si realizza in pieno la fase contenziosa », mentre il procedimento di esecuzione « ha la finalità di stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto dell’esecuzione, sì che ad esso rimane estranea la regola della soccombenza ». Anche in tema di condanna del querelante al pagamento delle spese processuali, la Corte si muove, quantomeno a suo dire, in un terreno libero da « esigenze di rilievo costituzionale » limitandosi a valutare la ragionevolezza delle scelte legislative (sent. n. 134/1993) ed anche nelle sentenze di accoglimento per violazione dell’art. 3, comma 1, Cost., applica principi ‘‘interni’’ all’ordinamento: v. sentt. nn. 29/1992, 180/1993, 423/1993. Del resto, anche in relazione a disposizioni del codice abrogato, la Corte è intervenuta in materia sulla sola base dell’art. 3, comma 1, Cost., dichiarando assorbiti i profili attinenti alla violazione dell’art. 24, comma 1, Cost.: cfr. sent. n. 165/1974 nonché V. GREVI, Querela contro ignoti e responsabilità del querelante per le spese processuali, in Giur. cost., 1974, p. 2247 ss. (63) Ai giudici a quibus che chiedevano l’estensione del giudizio abbreviato transitorio ai procedimenti nei quali fossero già concluse le formalità di apertura del dibattimento, la Corte, nella sent. n. 277/1990, risponde negando la possibilità di assimilare la situazione del procedimento in cui si sia svolta, anche in parte, la fase dibattimentale, con la situazione in cui questa non sia iniziata. Tale conclusione viene raggiunta, in primo luogo, attraverso l’esclusione di qualsiasi obbligo costituzionale di stabilire la retroattività delle fattispecie premiali. In secondo luogo, la scelta di delimitare il beneficio processuale ai processi in cui non fosse ancora iniziato il dibattimento, viene giudicata razionale alla luce dello scopo del giudizio abbreviato, identificato, per l’appunto, nel risparmio di attività connesso alla mancata celebrazione del dibattimento.


— 239 — senza peraltro alcuna pretesa di fornire un elenco chiuso (64), è difficile reperire un modello di sindacato di uguaglianza che si esprima del tutto internamente alle scelte discrezionali del legislatore, che sia insomma un controllo di mera coerenza logica. Di sicuro l’apparenza condurrebbe a concludere in senso contrario, vista l’ ‘‘autosufficienza’’ dell’art. 3, comma 1, Cost. in molte decisioni; spesso tuttavia le vere premesse del ragionamento della Corte non sono reperibili nell’assetto normativo ordinario, ma altrove. E se sopra si è considerato il rapporto tra eguaglianza e situazioni soggettive costituzionali, vanno ora prese in esame quelle sentenze o, meglio, quel ‘‘blocco giurisprudenziale’’ (65) che, insieme agli interventi relativi al giudizio abbreviato, meglio rappresenta l’approccio della Corte rispetto ai più evidenti contenuti di novità della riforma del 1988: la giurisprudenza in tema di metodo probatorio. Di essa, infatti, si può dire, anticipando in parte le conclusioni, che simboleggia con particolare efficacia quel sindacato di ragionevolezza in senso stretto orientato dai fini costituzionali, dove però questi sono liberamente ricavati dallo ‘‘spirito’’ della Costituzione (66) e non, come nei casi già considerati, dai suoi asserti. Punto di partenza non può che essere il principio di non dispersione dei mezzi di prova e, quindi, la sent. n. 255/1992. Le critiche rivolte alla razionalità dell’iter argomentativo seguìto dal giudice delle leggi nella costruzione del principio, ne hanno messo chiaramente in luce tutte le incongruenze rendendo non necessario qualsiasi ulteriore approfondimento (67). Ma se l’elevata opinabilità delle premesse promana dal procedimento induttivo con cui si è preteso di individuare i geni della non dispersione in numerose e tra loro dissonanti disposizioni codicistiche, l’ir(64) In posizione intermedia, si possono forse collocare le sentt. nn. 102/1991, 94/1992, 175/1992, in tema di giudizio direttissimo pretorile, dove la Corte, pur muovendosi all’interno del sistema codicistico per verificare la coerenza delle scelte relative all’assetto del giudizio direttissimo pretorile in comparazione con quello del rito direttissimo nell’ambito del procedimento dinanzi al tribunale ed alla Corte d’assise, utilizza, nel giudizio di coerenza, il principio della massima semplificazione, ossia un principio ricavabile dalla legge delega che finisce per assumere la veste di parametro interposto, favorendo un sindacato ‘‘sostanziale’’ sull’eccesso di delega. (65) Sulla opportunità di leggere la giurisprudenza costituzionale per blocchi organici o complessi sistematici, A. SPADARO, Di una Corte che non si limita ad ‘‘annullare’’ le leggi, ma ‘‘corregge’’ il legislatore e, dunque, ‘‘scrive’’ — ...o ‘‘riscrive’’ per intero — le leggi (il caso emblematico della giurisprudenza normativa sulle adozioni), in Corte costituzionale e parlamento. Profili problematici e ricostruttivi, a cura di A. RUGGERI e G. SILVESTRI, Milano, 2000, p. 338. (66) A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 174. (67) Si rinvia a G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale nella motivazione della sent. n. 255 del 1992, in Giur. cost., 1992, p. 1973 ss.; P. FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo accusatorio, in questa Rivista, 1992, p. 1455 ss.; O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, ivi, 1997, p. 736 ss.


— 240 — ragionevolezza delle conclusioni discende dalla rigidità con cui dette premesse vengono trasformate in regola per il caso concreto: « il principio generale si evincerebbe con inconsapevole arbitrio travestito da logica e si applicherebbe poi con irriguardosa logica travestita da giustizia formale » (68). In particolare, anche senza negare la propensione del sistema al recupero di elementi probatori provenienti dalle risultanze investigative, ciò che manca in quella decisione è indubbiamente la determinazione del peso e dell’importanza del principio nei rapporti con i concorrenti canoni del contraddittorio e dell’oralità, ai quali viene semplicemente giustapposto quasi a voler rimettere ad un ordine spontaneo la loro coesistenza od a voler negare radicalmente la possibilità di una reciproca sovrapposizione (69). E questo nonostante l’esplicito, ma evidentemente non convinto, riconoscimento della valenza derogatoria delle norme poste a fondamento del principio (70). Le ragioni dell’omessa analisi delle relazioni tra non dispersione e principi concorrenti risiedono per lo più nella confusione tra le nozioni di immediatezza, oralità e contraddittorio (71), aggravata dalla disattenzione per le rationes delle singole norme prese a modello, ciascuna implicante un autonomo ed originale bilanciamento tra i valori coinvolti e quindi una circoscritta estensibilità a fattispecie caratterizzate da analoghi tratti eccezionali (72): insomma un’inadeguata ‘‘mappatura’’ degli interessi in gioco non poteva che condurre alle illimitate potenzialità espansive della ‘‘deroga’’, già concretizzate in precedenti decisioni e destinate ad ispirarne altre ancora. La prospettiva intrasistematica, dunque, non spiega tutto. Per capire (68) L’efficace espressione è di L. LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., p. 298, e serve all’A. per sintetizzare le critiche del giusliberismo alle pretese di oggettività della giurisprudenza classica. (69) V. punto 2.2 del considerato in diritto: « ... il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all’esigenza di ricerca della verità; ma accanto al principio dell’oralità è presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale ». La locuzione non compiutamente dà l’idea della necessità che tutto quanto è stato raccolto nelle indagini deve poter essere riversato in dibattimento. (70) V. punto 2.1. del considerato in diritto. (71) Sul significato ed il ruolo dei principi di oralità, immediatezza e contraddittorio, v. G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale, cit., p. 1973 ss.; P. FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992, cit., p. 1455 ss.; O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, cit., p. 736 ss. (72) Per una soluzione alternativa a quella adottata dalla Corte che avrebbe consentito di rispettare il principio di separazione tra le fasi introducendo, mediante una declaratoria di parziale illegittimità, un’ulteriore deroga al divieto di utilizzare le dichiarazioni contestate ai fini della decisione, v. G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale, cit., p. 1977.


— 241 — dove realmente poggino i puntelli della struttura ideata dalla Corte occorre guardare fuori dal codice. E fuori dalla sent. n. 255/1992. Con un excursus retrospettivo inteso a condensare i ‘‘capisaldi costituzionali’’ (73) in tema di prova, la sent. n. 111/1993, decisione connotata da un accentuato dogmatismo (74), ma comunque apprezzabile per chiarezza, riempie lo spazio tra il fine della ricerca della verità e l’irragionevolezza dei divieti probatori come quello cui all’art. 500, commi 3 e 4, c.p.p. In tema di « tecnica del processo », si afferma (75): « ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.) — che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate — nonché al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale (cfr. sent. n. 88/1991) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (cfr. sent. n. 255/1992) ». Se si considera inoltre la precisazione per cui, benché il processo penale italiano possa essere definito come ‘‘processo di parti’’, non si può dimenticare che « il pubblico ministero è un magistrato indipendente appartenente all’ordine giudiziario che ‘‘non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge’’ » (76), appare evidente a quale sistema si sia guardato nella ‘‘scoperta’’ del principio di non dispersione. In sostanza, l’operazione compiuta dalla sent. n. 255/1992 non mirava affatto all’eliminazione delle intrinseche contraddizioni del testo ordinario, ma sottoponeva invece quest’ultimo al vaglio di conformità rispetto ad un canone ‘‘ragionevolmente’’ desunto dal sistema costituzionale: l’uso di disposizioni codicistiche per avvalorare il criterio decisorio prescelto, si rivela a posteriori finalizzato a reperire il maggior numero di elementi confermativi di un’idea calata dall’alto dell’impianto normativo sovraordinato, piuttosto che a completare con le tessere mancanti il mosaico impostato dal legislatore. Si può evocare in proposito quel procedimento ermeneutico per cui la norma costituzionale, identificata quale fondamento della legge ordinaria, agisce sull’interpretazione degli enunciati infracostituzionali attraverso l’impiego di argomenti sistematici elaborati « in funzione del documento costituzionale anziché in funzione dei documenti della normazione infracostituzionale » (77). Così, il principio di legalità, visto come doverosa punizione delle condotte penalmente sanzio(73) L’espressione è di G. UBERTIS, Verso un giusto processo penale, Torino, 1997, p. 13, ed indica i principi costituzionali inderogabili. (74) P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1994, p. 1065 ss. (75) Cfr. punto n. 7 del considerato in diritto. (76) Cfr. punto n. 6 del considerato in diritto. (77) G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 339.


— 242 — nate, ed il principio di obbligatorietà dell’azione penale, pur non predisponendo direttamente una soluzione della questione di legittimità, hanno consentito di dare più ‘‘valore’’ ai meccanismi di recupero di elementi conoscitivi non riproducibili in dibattimento, collegandoli direttamente a finalità di rango costituzionale. Per tale via, il sistema subordinato viene ricostruito non già dall’interno, ma nell’alveo di quel condizionamento ermeneutico consistente nel « raccordo tra il valore sotteso alla norma ordinaria ed i valori assunti dalla costituzione » (78). Orbene, la confusione dei due livelli, oltre a provocare la palese forzatura del dato codicistico, permette alla Corte di imporre, dietro l’apparente ‘‘autenticità’’ della soluzione endogena, la propria visione di una sistematica sovraordinata di cui non vi è traccia nella motivazione ma che verrà palesata, per sommi capi, solo in una decisione successiva. Questa, oltre a rivelare i valori di riferimento della non dispersione, ne fissa la prevalenza in un definitional balancing (79) leggibile in controluce già negli interventi passati (sentt. nn. 24/1992, 254/1992, 255/1992) e poi rigidamente applicato in quelli successivi (sentt. nn. 179/1994, 60/1995, 381/1995). Nel ricordato brano che si occupa della ‘‘tecnica del processo’’, terzietà del giudice, separazione delle fasi, oralità e contraddittorio sono ingredienti discrezionalmente dosabili da parte del legislatore nei limiti di una ragionevolezza che si misura tuttavia sul parametro ad essi totalmente alieno dell’efficacia repressiva, fondato sugli artt. 25 comma 2 e 112 Cost. Lo schema abozzato nella decisione, non sembra limitarsi a richiamare l’ineludibile confronto tra le garanzie processuali ed i contrapposti interessi riassumibili nel principio della difesa sociale (80), ma pare piuttosto proiettato verso il riconoscimento di una superiore dignità ai valori del secondo tipo, vero banco di prova della razionalità del sistema. Le premesse appena poste in risalto orientano il sindacato di coerenza di cui la Corte si è avvalsa nella capillare opera di revisione effet(78) A. FALZEA, La Costituzione e l’ordinamento, in Riv. dir. civ., 1998, p. 279, dove si parla dell’interpretazione sistematica allargata come operazione composta dalla « doppia interpretazione sistematica, della norma ordinaria e del principio costituzionale di riferimento, all’interno dei rispettivi sistemi normativi parziali ». (79) Per definitional balancing si intende il bilanciamento « effettuato una volta per tutte e non ‘‘caso per caso’’, come tale vincolante per la stessa Corte costituzionale nelle sue future pronunzie »: A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., p. 239. Il definitional balancing consiste nella soluzione del conflitto mediante l’interpretazione giuridica e, pertanto, non è « una forma del bilanciamento vero e proprio... perché serve a determinare l’intensione e l’estensione delle nozioni impiegate dalle disposizioni costituzionali che disciplinano i diritti fondamentali »: R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 68, il quale colloca il bilanciamento fuori dalle operazioni di interpretazione dei testi. (80) Le radici culturali del principio di difesa sociale ed i nessi con la nozione di « verità materiale » sono analizzati in M. NOBILI, La teoria delle prove penali e il principio della difesa sociale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, IV, Bologna, 1974, p. 419 ss., in particolare, p. 446 s.


— 243 — tuata sulla disciplina del metodo probatorio. Lo strumento dell’uguaglianza ha manifestato, in quest’impresa, tutta la sua duttilità rispetto agli scopi dell’utilizzatore. Nella sent. n. 24/1992, dove pure erano in gioco esigenze di conservazione di prove irripetibili, la scelta del testimone comune e dell’appartenente alla polizia giudiziaria quali termini di paragone, consente alla Corte di sancire la recuperabilità di tutti gli elementi raccolti nelle indagini e non solo di quelli a rischio di dispersione, eliminando così di fatto il principio di separazione tra le fasi e non limitandosi invece a comprimerlo in favore di interessi contrapposti. La soluzione, proposta da uno dei giudici a quibus, di circoscrivere la questione al solo profilo della inutilizzabilità dei verbali di sommarie informazioni redatti dalla polizia giudiziaria in caso di morte, infermità od irreperibilità del teste (81), costituisce semplice argomento rafforzativo per sostenere l’esito radicale. Da tale punto di vista, la decisione in esame offre un valido esempio di come il modello analogico sia inidoneo a costituire un limite efficace ai poteri della Corte, rimanendo essa libera di dimensionare il proprio intervento, in modo apparentemente oggettivo, grazie alla selezione di uno tra più profili di similitudine, diversi per livello di generalità, ma tutti comunque dotati di un buon margine di evidenza. La scelta del piano di azione ha quindi la sua origine nel principio che il dato normativo esteriore consente di applicare alla classificazione considerata discriminatoria (82), e si risolve in una manipolazione degli assetti originari specie quando la verifica in ordine alle ragioni delle qualificazioni legislative non viene attentamente eseguita (83). Non si può certo parlare di « giudizi meramente analitici » o di « controllo relativo all’intrinseca logicità del sistema » (84) quando il tema cruciale della giustificatezza del divieto di testimonianza indiretta per gli organi di polizia giudiziaria viene sinteticamente liquidato con l’affermazione per cui lo scopo di tutelare il diritto di difesa si realizza grazie all’esame incrociato del teste indiretto: evidente la divaricazione tra il contenuto del diritto al contraddittorio a (81) Il Tribunale di Roma aveva costruito il raffronto tra la condizione del teste comune e quella dell’appartenente alla polizia giudiziaria con specifico riferimento alle situazioni rispetto alle quali l’art. 195, comma 3, c.p.p. contempla l’utilizzabilità della testimonianza indiretta (morte, infermità, irreperibilità del testimone), sostenendo peraltro, sempre per i medesimi profili particolari, anche l’illegittimità degli artt. 500, comma 4 e 512 c.p.p. L’illegittimità della normativa veniva quindi focalizzata nello sbarramento al recupero di prove effettivamente non acquisibili per l’impossibilità della loro acquisizione dibattimentale, mirandosi, in definitiva, alla sola estensione delle eccezioni già previste dalla disciplina. (82) Cfr. L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, cit., p. 230 s., dove si afferma che la Corte ricorre anche a dei tertia sottintesi, sempre ricavati dal diritto positivo, che consentono l’individuazione del principio violato nel caso di specie. (83) Sulla non sempre adeguata cura della Corte nell’individuazione ed eventuale ridefinizione della ratio legis, v. J. LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), cit., p. 354. (84) Le espressioni sono di A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 99 s.


— 244 — cui pensava il legislatore della riforma e la nozione fatta propria dalla Corte. Ciò che, in ogni caso, interessa porre in rilievo non è la preferibilità dell’una o dell’altra soluzione, quanto piuttosto la carenza, in questa ed altre sentenze, di una diretta presa di posizione in ordine al contenuto del diritto, sia pure finalizzata solo a fissare i termini di un’eventuale operazione di bilanciamento. Certo, non si può negare che dall’intero ‘‘blocco giurisprudenziale’’ analizzato emerge con chiarezza, anche se in modo obliquo, una precisa concezione della garanzia, coerentemente applicata fino alle estreme conseguenze. Tuttavia, l’occultamento dell’opzione di fondo dietro il logicismo dello schema del giudizio di uguaglianza, permette alla Corte di non dover mai giustificare esplicitamente le proprie scelte qualificanti nell’interpretazione del testo costituzionale. Ed è questo l’aspetto più preoccupante. In particolare, la strategia argomentativa grazie alla quale il ragionamento sui principi viene lasciato sullo sfondo è ravvisabile nella prevalenza accordata alla nozione di ratio legis intesa come fine della norma (85), nella specie individuato con l’enfatica affermazione per cui « fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità » (sent. n. 255/1992) e poi ribadito nella più misurata massima che ravvisa la « funzione essenziale del processo » nel compito di « verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilità » (sent. n. 361/1998): profilo che consente di affermare una similitudine autoevidente tra tutte le disposizioni in tema di prova. In tale ottica, il controllo esercitato dalla Corte si esplica sulla congruità del mezzo e prende a parametro, per estenderle, le fattispecie orientate alla massimizzazione delle informazioni acquisibili dal giudice, mentre gli sbarramenti all’ingresso di elementi probatori vengono sottoposti ad uno strict scrutiny che, in un approccio ispirato alla tutela dei diritti fondamentali, dovrebbe piuttosto essere riservato alle disposizioni che consentono l’entrata in dibattimento di materiale unilateralmente formato dagli organi investigativi. L’inversione di prospettiva è palese nella sent. n. 254/1992, notevole per la sua paradigmatica aderenza allo schema del sindacato di razionalità, utile come punto di osservazione sulla fase cruciale della scelta della disposizione da censurare (86). È certo, infatti, che una maggiore atten(85) La ratio intesa come fine della norma è uno degli aspetti in relazione ai quali si misura la somiglianza nello schema analogico: N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 106 ss. (86) La scelta della disposizione da censurare costituisce una fase necessaria del giudizio di eguaglianza, specialmente quando il raffronto avvenga fra normative equiordinate. Se infatti le norme coinvolte sono in rapporto generale-derogatoria o eccezionale, il criterio per ovviare alla lesione dell’uguaglianza è quello dell’eliminazione della seconda: su queste


— 245 — zione al diritto di difesa avrebbe suscitato il dubbio se la coerenza del sistema non potesse essere ugualmente garantita escludendo, quantomeno in via interpretativa (87), l’utilizzabilità delle dichiarazioni lette ex art. 513 comma 1 c.p.p. nei confronti dei coimputati: in tal modo, il rifiuto del contraddittorio avrebbe impedito l’utilizzazione erga alios degli atti in discorso sia nel processo cumulativo sia nei procedimenti separati e si sarebbe potuto pervenire all’identico risultato, ottenuto con la pronuncia, di svincolare il regime probatorio degli atti processuali dall’irragionevole legame con le contingenti esigenze di celerità e speditezza. Ancora una volta si è al cospetto di una scelta obbligata non dalla logica del sistema, ma piuttosto dalla logica della preminenza di un valore in esso insito rispetto ad un altro: non è certo casuale che la premessa da cui muove la Corte costituiva un’embrionale enunciazione del principio di non dispersione quale ratio della norma parametro (88). La sbrigativa equiparazione tra esercizio della facoltà di non rispondere dell’imputato in procedimento connesso e rifiuto dell’esame da parte dell’imputato, non ha lasciato spazio ad alcuna indagine in ordine alla possibile giustificazione della disciplina impugnata alla luce del diritto di difesa e, conseguentemente, alla revisione critica della norma di raffronto in un’ottica di garanzia. In particolare, l’assenza del principio del contraddittorio dall’orizzonte argomentativo della Corte testimonia l’inidoneità del medesimo ad entrare in conflitto con l’opposta direttiva della non dispersione, tanto da far apparire questa come operante con le caratteristiche di una retematiche, v. A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., p. 110 ss. (87) L’efficacia delle dichiarazioni acquisite ex art. 513, comma 1, c.p.p. anche nei riguardi dei coimputati, non era soluzione affatto scontata; si è anzi suggerito che in senso opposto militavano « argomenti assai seri di rango costituzionale » riconducibili al diritto di difesa: cfr. M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coord. da M. CHIAVARIO, 2o Agg., Torino, 1993, p. 275 s. Ove poi si fosse ritenuta non praticabile in via di mera interpretazione la soluzione di restringere al solo dichiarante l’utilizzabilità degli atti letti ai sensi dell’art. 513, comma 1, c.p.p., si sarebbe potuto ottenere il medesimo risultato dichiarando illegittimo, nella parte in cui ammetteva l’utilizzazione delle dichiarazioni dell’imputato lette in dibattimento anche nei confronti dei coimputati, proprio il tertium comparationis: sulla possibilità di dichiarare l’illegittimità costituzionale del tertium comparationis, a condizione che sussista il requisito della rilevanza nei giudizi a quibus, v. A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), cit., p. 11. (88) L’inclusione del rifiuto dell’imputato di sottoporsi all’esame nei casi di sopravvenuta ripetizione dell’atto, veniva indicata, anche sulla scorta della relazione al progetto preliminare, come espressione del « criterio, rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare il rispetto del principio-guida dell’oralità con l’esigenza di evitare — nei limiti e alle condizioni di volta in volta indicate — la ‘‘perdita’’, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede »: cfr. punto 3.1 del considerato in diritto, sent. n. 254/1992.


— 246 — gola (89). Ed in effetti, al di là degli argomenti tipici del sindacato di coerenza o di congruità, il cuore delle decisioni fin qui analizzate sembra essere l’applicazione ai casi concreti di una fattispecie astratta ben definita che prevede il recupero, « ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede » (90), predicandosi l’irripetibilità di ogni atto non fedelmente riproducibile per qualsiasi causa. Benché indirettamente, dunque, l’inesistenza di un diritto al controesame della fonte di prova riconducibile all’area dell’art. 24, comma 2, Cost., da bilanciare con l’esigenza di evitare la perdita di elementi non più acquisibili in dibattimento, emerge in modo perentorio e verrà confermata dalle successive pronunce sull’art. 513, comma 1, c.p.p., dove il diritto di difesa entra finalmente nelle argomentazioni della Consulta sotto il limitato profilo delle garanzie riconosciute al solo dichiarante in sede di interrogatorio. Così, nella sent. n. 476/1992, la scelta di escludere le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria a norma dell’art. 350 c.p.p. dal novero di quelle acquisibili mediante lettura in caso di assenza, contumacia o rifiuto di sottoporsi all’esame da parte dell’imputato, viene condivisa sulla base della non equiparabilità delle garanzie previste per le sommarie informazioni alla polizia giudiziaria a quelle di cui è circondato l’interrogatorio dell’autorità giudiziaria: più idonee le seconde ad assicurare il consapevole esercizio del diritto al silenzio. Se la nota positiva della decisione si può rinvenire nel ‘‘ritorno’’ ad un sindacato di congruità rispetto alla tutela di un diritto fondamentale, non si può dimenticare che esso si sviluppa sempre con esclusivo riferimento alla posizione del dichiarante, mentre l’eventuale utilizzazione delle dichiarazioni nei confronti di altri, pacificamente ammessa dalla sent. n. 254/1992, non stimola argomenti ulteriori. Ciò implica, in generale, che nel procedimento di formazione della prova l’unica garanzia individuale da cui non si può prescindere è connessa ad una specifica qualità della fonte e gli altri soggetti, sulla cui posizione processuale i risultati dell’acquisizione possono incidere, non sono portatori di alcun interesse rilevante nel discorso costituzionale. Sotto il profilo della tutela del dichiarante, nel successivo intervento sull’art. 513, comma 1, c.p.p., appurata la rispondenza allo standard minimo, delineato (89) Ossia nel senso di « norma la cui applicazione ha, quale fase centrale ed assolutamente determinante l’esito dell’argomentazione, la sussunzione di un concetto di specie (fattispecie concreta) sotto un concetto di genere (fattispecie astratta) »: L. GIANFORMAGGIO, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole ed argomentazione basata su principi, cit., p. 71. Al contrario, l’argomentazione per principi, oltre a caratterizzarsi per l’assenza della sussunzione, « può anche, per paradossale che possa apparire, avere una conclusione che si presenta come incompatibile con la formulazione letterale del principio » (ivi, p. 77 s.). (90) Cfr. sent. n. 254/1992.


— 247 — nella sent. n. 476/1992, della disciplina dell’atto che si assume estromesso senza ragionevole motivo dalla recuperabilità mediante lettura, la conclusione diventa coerentemente di segno opposto (91). Con riguardo ai diritti del soggetto contro cui le dichiarazioni sono indirizzate, la totale assenza di garanzie difensive non fornisce alcuna ragione contro l’ingresso in dibattimento di quanto riferito dal teste prossimo congiunto dell’imputato alla polizia giudiziaria od al pubblico ministero nel corso delle indagini, che in giudizio si avvalga della facoltà di atensione. Stabilito il parallelo con l’esercizio del diritto di non sottoporsi all’esame da parte dell’imputato al fine di includere la situazione in esame nella nozione di irripetibilità, la non dispersione, puntualmente evocata, torna ad essere regola poiché il diritto di difesa, mancando la necessità di tutelare il dichiarante, non può essere oggetto di alcuna attenzione (92). 5. Il giudizio di bilanciamento nella sentenza n. 361 del 1998. — L’ultimo atto della vicenda giurisprudenziale fin qui esaminata è stato scritto con la sent. n. 361/1998, la quale, pur inserendosi nel solco tracciato dalle decisioni precedenti, assume particolare rilievo per il contemporaneo uso di più tipologie del sindacato di ragionevolezza. La decisione viene inoltre considerata come segno dell’esistenza di un principio di ragionevolezza autonomo, sciolto dagli schemi del sindacato di uguaglianza, del bilanciamento e del giudizio di congruità (93). Quest’ultimo aspetto, tuttavia, non può essere convenientemente preso in esame senza aver prima ricostruito la trama logica che ha guidato la Corte verso un dispositivo articolato e complesso con cui è stata ridisegnata l’intera materia oggetto della questione. Anche se il sospetto che sia avvenuto il contrario e, cioè, che la volontà di concludere in quel senso abbia imposto di dare (91) Si tratta della sentenza n. 60/1995 che ha allargato l’elenco degli atti acquisibili mediante lettura, alle condizioni previste dall’art. 513, comma 1, c.p.p. nell’originaria formulazione, includendovi i verbali delle dichiarazioni dell’imputato assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. La Corte, dopo aver passato in rassegna i precedenti in materia (sent. n. 476/1992; ord. n. 176/1993) ne applica al caso di specie la ratio decidendi « fondata sull’aspetto delle garanzie difensive dell’imputato », rilevando come l’interrogatorio delegato previsto dall’art. 370, comma 1, c.p.p. (nel testo modificato dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356) fosse soggetto alla medesima disciplina garantistica propria dell’interrogatorio diretto del pubblico ministero, assunto quale tertium comparationis. (92) Cfr. sent. n. 179/1994. (93) Cfr. M.R. DONNARUMMA, La giurisprudenza costituzionale. Slanci creativi e prudenti elusioni, Padova, 2000, p. 15; in termini critici, O. CHESSA, Bilanciamento ben temperato o sindacato esterno di ragionevolezza? Note sui diritti inviolabili come parametro del giudizio di costituzionalità, in Giur. cost., 1998, p. 3945 ss.; sull’astratta configurabilità di un giudizio di ragionevolezza assoluto, v. G. ZAGREBELSKI, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 155.


— 248 — fondo, a posteriori, a tutti gli strumenti retorici disponibili, pare avvalorato, tra l’altro, da certe ‘‘carenze strategiche’’ della motivazione (94). Il fattore dominante nella pronuncia è un sindacato di tipo ‘‘bilanciatorio’’ (95) assisitito da un controllo di coerenza che funge, per un verso, da ‘‘motore di ricerca’’ della regola in cui reperire, nella disciplina codicistica, il punto di equilibrio tra gli interessi in gioco; per altro verso, da meccanismo di espansione della soluzione individuata a tutti i contesti normativi che presentano la medesima condizione antinomica. In concreto, la Corte, muovendo dalla questione relativa all’art. 513, comma 2, c.p.p., individua i termini del conflitto nell’interesse all’« acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare » e, in contrapposizione ad esso, nel diritto di difesa, secondo il quale « l’ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze del giudice » non può non essere « subordinato alla possibilità di instaurare il contraddittorio tra il dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni ». Il primo subisce un’irragionevole compressione per essere l’acquisizione dibattimentale delle precedenti dichiarazioni « rimessa alla concorrente volontà dell’imputato in procedimento connesso e della parte processualmente interessata a impedire l’acquisizione e utilizzazione delle dichiarazioni stesse »; il secondo, viene pregiudicato dall’assoluta preclusione di effettuare contestazioni all’indirizzo del dichiarante che si sia avvalso della facoltà di non rispondere. La soluzione normativa in grado di ovviare a tale duplice vizio della disciplina impugnata viene « offerta dallo stesso ordinamento » tramite « il meccanismo disegnato dall’art. 500, comma 2-bis, c.p.p. » in relazione alle contestazioni nell’esame testimoniale, stanti le « simmetrie » rinvenibili negli ‘‘statuti’’ dell’imputato in procedimento connesso e del testimone, giustificate dal fatto che si tratta di « soggetti le cui dichiarazioni (94) Ci si riferisce, in particolare, all’omessa considerazione del novum rappresentato dall’allargata possibilità di chiedere l’incidente probatorio per acquisire le dichiarazioni dell’imputato in procedimento connesso e dell’imputato sul fatto altrui, introdotta dalla l. 7 agosto 1997, n. 267 con la modifica dell’art. 392, comma 1, lett. c) e d) c.p.p. La ‘‘disattenzione’’ è rilevata da M. PONTIN, Dalle parti del 513, in Critica dir., 1999, f. 1, p. 33 s., secondo il quale essa avrebbe avuto un’influenza decisiva sull’esito della questione, anche in considerazione del fatto che la Corte, dimenticando l’incidente probatorio, ha potuto affermare che l’assetto normativo scaturito dalla novella del 1997 era praticamente simile a quello precente alla sentenza n. 254 del 1992. Sulla sent. 361/98, v. anche, per i preziosi spunti critici e le interessanti proposte in ordine ai possibili rimedi contro gli straripamenti della Corte costituzionale dovuti al sindacato di ragionevolezza, G. INSOLERA, I controlli di ragionevolezza sul sistema penale. Note in margine alla sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale, in Critica dir., 1999, f. 1, p. 16 ss. (95) Così A. CERRI, Una discutibile sentenza e i problemi irrisolti della giustizia penale, in Critica dir., 1999, f. 1, p. 15.


— 249 — sono contraddistinte dall’essere rivolte, e dall’essere destinate a valere, nei confronti di altri ». Quanto alla questione attinente all’art. 513, comma 1, c.p.p., la Corte, al fine di estendere all’imputato dichiarante sul fatto altrui il meccanismo acquisitivo pensato per l’imputato in procedimento connesso, scorpora la figura del primo dalla prescrizione impugnata attraverso la diversione della censura dall’art. 513, comma 1, c.p.p. all’art. 210. Quindi, grazie al sindacato di eguaglianza condotto sulle analogie rilevabili tra le due figure rispetto all’incidente probatorio, all’accompagnamento coattivo ed al criterio di valutazione, riscontra l’irragionevole mancanza di omogeneità normativa nella fase dibattimentale e, per tale via, arriva a dichiarare incostituzionale l’art. 210 « nella parte in cui non ne è prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri ». Ciò « consente di concentrare nell’art. 513, comma 2, c.p.p. la disciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto del dichiarante di rispondere sul fatto altrui ». L’intervento manipolativo si conclude con l’assimilazione delle dichiarazioni rese in altro procedimento (siano esse assunte in dibattimento o in incidente probatorio ovvero dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria delegata o in udienza preliminare) a quelle rese nello stesso procedimento in cui devono essere utilizzate, sulla base di una laconica affermazione secondo la quale non vi sarebbero ragioni per differenziarle. In particolare, anche l’art. 238, comma 4, c.p.p. risulta illegittimo laddove non consente il recupero delle precedenti dichiarazioni, raccolte fuori dal procedimento, tramite il metodo acquisitivo ricavato dai commi 2-bis e 4 dell’art. 500 c.p.p. In questo caso, l’identità tra le situazioni comparate viene data per scontata trattandosi della stessa tipologia di atti (96), anche se formati in procedimenti diversi; circostanza alla quale, coerentemente, la Corte non dà peso poiché differisce la garanzia del contraddittorio dal momento formativo a quello della traslazione dell’atto già assunto dal fascicolo del pubblico ministero al fascicolo per il dibattimento. L’intervento sull’art. 238, dunque, ha carattere squisitamente ancillare e serve a chiudere il sistema in funzione delle nuove premesse, come peraltro rivela il fatto che il tertium comparationis sembra essere individuato, (96) L’analogia tra le dichiarazioni delle persone indicate dall’art. 210 c.p.p. rese in un procedimento diverso e quelle raccolte nel medesimo procedimento viene giudicata « tanto più stretta » in considerazione del fatto che essa prende forma non solo in relazione agli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria delegata, ma anche rispetto a dichiarazioni rese, nel diverso procedimento, nell’incidente probatorio o nel dibattimento. In sostanza, l’irragionevolezza della regola d’esclusione prevista dall’art. 238, comma 4, c.p.p., è stata considerata ancor più eclatante laddove la norma non si limitava ad impedire il recupero di atti investigativi, ma arrivava ad estromettere dalla cognizione del giudice atti probatori assunti con le garanzie dibattimentali.


— 250 — in una sorta di sindacato di eguaglianza interno alla stessa decisione, nel testo simultaneamente riformulato dell’art. 513, comma 2, c.p.p. La sent. n. 361 del 1998 contiene significativi profili di novità rispetto alle decisioni precedenti, ma, allo stesso tempo, si muove su ben collaudati percorsi che la differente tecnica decisoria non può dissimulare. Dal primo punto di vista, va sottolineato l’ingresso, nelle argomentazioni della Corte, del contraddittorio inteso quale « diritto di confrontarsi con la fonte di accusa » (97), la cui assenza dalla prospettiva adottata nella sent. n. 254/1992 aveva propiziato la creazione di un meccanismo acquisitivo definito dalla Consulta medesima « meramente ‘‘cartolare’’ » (98). Sono tuttavia le ‘‘costanti’’ ereditate dai precedenti giurisprudenziali a rappresentare una pesante ipoteca sulla piena assunzione, da parte del ‘‘nuovo’’ principio, di un ruolo paritetico rispetto agli altri interessi coinvolti nella ricerca di una soluzione equilibrata. A ragione il bilanciamento operato dalla sent. n. 361/1998 è stato definito « troppo facile » (99). La sostanziale prevedibilità dei relativi esiti, infatti, scaturisce da una ponderazione solo apparente in quanto giocata su tre situazioni, due delle quali ‘‘blindate’’ poiché insuscettibili di cedere spazio alla terza, il diritto al confronto. L’interesse al recupero delle dichiarazioni legittimamente raccolte dall’autorità giudiziaria nel corso delle indagini preliminari ed il diritto al silenzio dell’imputato dichiarante sul fatto altrui, operano nella logica della decisione come vere e proprie regole refrattarie a qualsiasi forma di dosaggio in sede applicativa; cosicché, il diritto al contraddittorio, affidato allo strumento preso dall’art. 500, commi 2-bis e 4 c.p.p., non è idoneo, da un lato, ad impedire la piena utilizzabilità di dichiarazioni unilateralmente acquisite quando il ‘‘mutismo’’ dell’autore faccia girare a vuoto il meccanismo delle contestazioni azzerandone la funzione dialettica nella formazione della prova, né, dall’altro, (97) Cfr. sent. n. 361/1998, punto 4.2. del considerato in diritto. (98) Cfr. sent. n. 361/1998, punto 4.2. del considerato in diritto, laddove chiarisce che l’intervento del legislatore del 1997 era mosso dall’esigenza di « precludere l’acquisizione meramente ‘‘cartolare’’ delle dichiarazioni precedentemente rese sul fatto altrui dall’imputato di reato connesso o collegato che in dibattimento rifiuti di rispondere »: pur mancando espliciti riferimenti alla sent. n. 254/1992, appare perfino superfluo notare come la situazione normativa anteriore alla novella del 1997 non fosse altro che l’assetto introdotto dal dispositivo della decisione da ultimo menzionata. Inoltre, vale la pena sottolineare come il diritto al confronto dibattimentale con la fonte di accusa, lungi dall’essere un valore sconosciuto al legislatore del 1988, costituisse la ratio, dimenticata dalla Corte, dell’art. 513, comma 2, c.p.p. Proprio la sentenza n. 361/1998 indica il percorso alternativo ed opposto che si sarebbe potuto seguire nella prima decisione: ‘‘spostando’’ la disciplina delle dichiarazioni rese dal coimputato nel medesimo processo sul fatto altrui dal comma 1 al 2, l’incoerenza del legislatore sarebbe stata effettivamente risolta nell’alveo dei principi costituzionali che esso non aveva saputo seguire fino in fondo. (99) A. CERRI, Una discutibile sentenza, cit. p. 16.


— 251 — a far retrocedere lo ius tacendi mediante l’introduzione dell’obbligo di rispondere. La prima blindatura è stata ottenuta applicando la regola distillata, nelle passate decisioni sull’art. 513 c.p.p. (100), dal versatile principio di non dispersione, non evocato nei motivi ma egualmente annoverabile tra i fondamenti logici ed assiologici della decisione. L’assunto è di facile verifica se si nota che la Corte stabilisce la recuperabilità di tutte le dichiarazioni contenute nei verbali elencati dall’art. 513, comma 1, c.p.p. (cui rimanda il comma 2 della medesima disposizione), testo che ha già contribuito a scrivere con l’intervento additivo della sent. n. 60/1995, poi recepito dal legislatore con la novella del 1997, che rappresenta il punto di approdo del bilanciamento, non fittizio, operato tuttavia con un diritto di difesa dai limiti ben più esigui di quelli tratteggiati nella n. 361. Non essendovi stata alcuna intenzione di mettere in discussione i risultati raggiunti in precedenza, è stato sufficiente porre gli stessi come premessa ineludibile del ragionamento ricollegandoli ad un assoluto principio di ragionevolezza il quale, tuttavia, in concreto altro non è che la formulazione sintetica del parametro costruito nella coppia n. 254-255/1992 ed incluso nel sistema costituzionale nella n. 111/1993. Il secondo argine contro la possibile espansione del diritto al confronto viene invece collocato nella facoltà di non rispondere del dichiarante « irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa » (101). Ai giudici a quibus che chiedevano la compressione del diritto al silenzio, mediante l’introduzione dell’obbligo di rispondere in capo all’imputato in procedimento connesso, allo scopo di rendere effettivo il diritto all’esame ed al controesame dell’accusato altrimenti soggetto alla decisione arbitraria del dichiarante (102), la Corte replica negando in radice ogni possibilità di bilanciamento tra le due posizioni interne all’art. 24, comma 2, Cost. e, dunque, stabilisce una rigida gerarchia utile a presentare la soluzione allestita come l’unica allo stato praticabile. Tale repentino blocco imposto alla piena esplicazione del parallelo tra imputato dichiarante sul fatto altrui e testimone, vera spina dorsale della sentenza, costituisce una contraddizione spiegabile con ragioni di carattere ‘‘strategico’’. L’equiparazione dell’imputato al teste anche sotto il profilo dell’obbligo di rispondere avrebbe infatti imposto un intervento del legislatore finalizzato a « colmare le lacune normative che si sarebbero prodotte », in particolare, con riguardo alla necessità di « una corrispondente disciplina di diritto penale sostanziale, correlata allo status testimoniale in tal modo riconosciuto all’imputato dichiarante, con l’ovvio corollario relativo all’obbligo (100) Si tratta delle sentt. nn. 254 e 476 del 1992 e nn. 60 e 381 del 1995. (101) Cfr. sent. n. 361 del 1998, punto 10.2 del considerato in diritto. (102) Cfr. in particolare, l’ordinanza del Tribunale Militare di Torino, 13 novembre 1997, in G.U., 1a serie speciale, n. 3, 21 gennaio 1998, p. 44 ss.


— 252 — di deporre secondo verità » (103). Insomma, l’impossibilità di una soluzione esclusivamente giurisprudenziale ha sconsigliato alla Corte di affidare, eventualmente con una decisione interlocutoria (104), il completamento del proprio sistema ad un legislatore già più volte ‘‘corretto’’ sul tema del metodo probatorio (in particolare sull’art. 513 c.p.p.) e, pertanto, presumibilmente poco incline ad assecondare gli autonomi indirizzi di politica processuale penale del giudice delle leggi: era dunque preferibile apprestare una soluzione autosufficiente ed immediatamente operativa che potesse tuttalpiù essere perfezionata, in relazione agli strumenti per garantire l’effettività del diritto al contraddittorio, da un successivo intervento legislativo. Argomenti in questo senso provengono dalla « non casuale insistenza [della Corte] nel far risaltare come oggetto del sindacato di costituzionalità fosse ‘‘l’attuale disciplina del diritto al silenzio’’ » (105), quasi a voler indirizzare al parlamento « una sorta di messaggio indiretto (cauto, ma non equivoco) » circa la praticabilità costituzionale, in una cornice normativa opportunamente modificata, della limitazione del diritto al silenzio rispetto all’imputato dichiarante contra alios (106). Tale atteggiamento presenta due aspetti paradossali. Consente innanzitutto alla Consulta, dopo avere nella sostanza ribaltato le scelte qualificanti operate con la novella del 1997, di mostrarsi rispettosa del sistema codicistico e di rafforzare l’immagine del proprio intervento come prodotto ‘‘naturale’’ di un giudizio di coerenza ad esso interno (107). Determina, inoltre, la consapevole introduzione di un meccanismo che ottimizza la funzionalità repressiva del processo a scapito di un (103) V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, ora in Alla ricerca di un processo penale ‘‘giusto’’, Milano, 2000, p. 264, il quale rileva come il self restraint della Corte sul punto costituisca una palese incoerenza rispetto a « tutta l’argomentazione fino a quel momento elaborata dalla sentenza ». (104) Tra le soluzioni a disposizione della Corte vi poteva essere una sentenza additiva di principio, tendente ad introdurre una norma mancante ma individuabile tra una pluralità di soluzioni diverse affidate alla discrezionalità del legislatore, ovvero, analogamente, una sentenza di inammissibilità che, appurata l’illegittimità costituzionale dell’omessa previsione dell’obbligo di rispondere, rimettesse al legislatore la scelta degli strumenti processuali e sostanziali più idonei all’attuazione dell’inedito bilanciamento tra diritto al silenzio e contraddittorio. Trattandosi di materia con evidenti risvolti di natura penale sostanziale sarebbe forse stato preferibile il secondo modello di decisione (di cui si può rinvenire un efficace esempio della sent. n. 92/1992, in tema di integrazione probatoria nel giudizio abbreviato), stante il costante rifiuto della Corte di avvalersi delle additive in materia penale. In generale, su queste ed altre tipologie decisorie, v. A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 179 ss. (105) V. GREVI, loc. ult. cit. (106) Cfr. V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, cit., p. 265. (107) Va ricordato che l’art. 500, comma 4 è stato introdotto dal legislatore sotto dettatura della Corte. Pertanto, il legame con esso stabilito ha comunque natura autoreferenziale e non vale certo a cogliere le dinamiche interne all’ordinamento processuale.


— 253 — diritto fondamentale, per la tutela del quale rimanda la ‘‘questione’’ all’organo che in proposito dovrebbe controllare: più che di invasione della discrezionalità legislativa sembra trattarsi di un completo capovolgimento dei ruoli. In base alle riflessioni fin qui svolte, il modus operandi della Corte sembra consistere nell’applicazione di un modello preconfezionato nell’ambito di un’operazione sistematica in cui gli interessi coinvolti vengono definiti una volta per tutte nella loro estensione ed importanza. L’irragionevolezza assoluta delle regole che escludono dalla cognizione del giudice dibattimentale atti di indagine ‘‘surroganti’’ la prova formata in contraddittorio, simboleggia la non sovrapponibilità delle aree di influenza della non dispersione e del diritto al confronto e, quindi, nega, di fatto, la stessa possibilità di un conflitto paritetico dal quale entrambi potrebbero astrattamente uscire ridimensionati. Il secondo, allora, assume la veste di pretesa al contraddittorio nell’acquisizione del contenuto degli atti già unilateralmente formati dal pubblico ministero e non quella, ben diversa, di diritto di partecipare alla formazione della prova nel giudizio. Così, dietro i multiformi schemi del sindacato di ragionevolezza, si consuma un’attività di costruzione del parametro di legittimità che toglie ogni margine discrezionale al legislatore fissando un « canone » assoluto (108). Il tema del metodo probatorio, lungi dall’essere rimesso alle libere scelte legislative interne al confine tracciato dai precetti costituzionali, viene integralmente assorbito nella sistematica sovraordinata per il tramite di una ragionevolezza onnivora volta a sostituirsi alla legge più che a proseguirne l’opera nell’alveo dei principi. Tramonta in modo definitivo la neutralità della Costituzione in ordine al modello processuale penale (109). 6. Sistema costituzionale e modelli di processo: la ragionevolezza come fattore di continuità con la tradizione culturale del processo ‘‘misto’’. — Occorre a questo punto analizzare le premesse interpretative dei principi da cui la Corte muove nel mettere in atto il sindacato di ragionevolezza nella sent. n. 361/1998 e nelle altre decisioni in tema di metodo probatorio. Si è già visto come dei principi costituzionali applicati con gli strumenti del giudizio di coerenza, del controllo di congruità e nelle operazioni di bilanciamento si parli ben poco nelle decisioni esaminate, do(108) La terminologia, particolarmente efficace, è usata da F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, p. 1208, il quale parla di « canone inquisitorio », contestandone peraltro la reperibilità nella costituzione. (109) Per l’opinine secondo cui la Costituzione non imponeva il modello processuale accusatorio, v. G. BONETTO, Nuove prospettive per il processo di pretura, in Giur. cost., 1970, p. 1549; G.D. PISAPIA, Compendio di procedura penale, 4a ed., Padova, 1985, p. 26.


— 254 — vendo perfino essere reperiti in una sentenza che non utilizza la ragionevolezza come criterio di decisione (110). Ciò è dovuto, da un lato, alla pretesa di operare all’interno di un complesso di direttive costituzionali ben definite, calate nel codice in un’opera legislativa emendabile dall’interno solo per qualche sgrammaticatura sistematica; dall’altro, al fatto che la Corte raddrizza la mano al delegato ed al delegante ragionando sulla base di premesse, quali interessi e valori, perlopiù caratterizzate da una dimensione non testuale. In ogni caso, diritto di difesa a parte, principali fonti di ispirazione sono le disposizioni atte a veicolare nel discorso interessi di natura istituzionale. Più o meno direttamente vengono chiamati in causa gli artt. 25, comma 2, 104 e ss., 112 Cost. (111). Il primo, non rileva come cardine del sistema di garanzie in materia penale, ma, rendendo « doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate », assume piuttosto la funzione di collegare lo strumento processuale ai fini di carattere sostanziale pudicamente celati dietro lo scopo asettico della « giusta decisione », pregiudicato da « norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico » (112). Il principio di legalità e quello, intimamente collegato, dell’azione penale obbligatoria, garantiscono « il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l’interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi » (113). Il principio di obbligatorietà, dunque, viene utilizzato ben oltre la sua dimensione deontologica di criterio che, al fine di garantire l’eguale trattamento dei cittadini di fronte alla legge, esclude qualsiasi valutazione di opportunità nella decisione in ordine all’esercizio dell’azione ed impone « che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice » (114). Da esso viene estratto il valore di natura sostanziale che finisce per informare di sé il segmento caratterizzante il fenomeno processuale, stabilendo, col nesso verità-punizione, una chiara preferenza per la finalità repressiva a scapito della funzione di « assicurare un accertamento di una determinata qualità » (115). Un’operazione identica si sviluppa nel configurare il pubblico mini(110) Si tratta della già citata sent. n. 111/1993. (111) Ancora una volta ci si deve riferire alla sent. n. 111/1993, opportunamente definita « summa del processo penale costituzionale che va presa in considerazione non solo quale termine di riferimento per i giudizi di costituzionalità delle leggi già promulgate, ma quale promemoria inderogabilmente impegnativo per ogni auspicio de iure condendo »: A. GIARDA, ‘‘Astratte modellistiche’’ e principi costituzionali del processo penale, in questa Rivista, 1993, p. 890 s. (112) Sent. n. 111/1993. (113) Sent. n. 111/1993. (114) Cfr. sent. n. 88/1991. (115) L’espressione è di G. ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 84.


— 255 — stero quale « magistrato indipendente appartenente all’ordine giudiziario » (116): dalla prescrizione costituzionale, che sottrae l’organo dell’accusa dall’influenza degli altri poteri dello Stato al fine di garantire eguale trattamento ai cittadini, scaturisce il carattere dell’imparzialità, fattore logicamente e tradizionalmente di ostacolo alla piena recezione nell’ordinamento italiano del modello del processo di parti (117). Dunque, la Corte costruisce il modello processuale servendosi essenzialmente dei valori reperibili nella seconda parte della Costituzione, ossia nel complesso di enunciati normativi attinenti all’organizzazione dello Stato, ispirato, come tale, da finalità di natura pubblicistica rispetto alle quali « le posizioni soggettive tutelate sono ‘‘punti di vista’’, ‘‘angoli visuali’’, ‘‘proiezioni’’ delle norme generali attinenti all’organizzazione e ai fini costituzionali dell’azione pubblica » (118). Il fine della ‘‘giusta deci(116) Sent. n. 111/1993 che riprende affermazioni della sent. n. 88/1991. (117) Per l’analisi e la critica della concezione del pubblico ministero come ‘‘parte imparziale’’, v. G. ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, cit., p. 112 ss., al quale si rinvia altresì per i riferimenti dottrinali. La sottolineatura dell’imparzialità del pubblico ministero tradisce la preferenza della Corte per una tecnica epistemica nella quale un ruolo decisivo è attribuito alla figura del magistrato, sia esso giudice o accusatore: sulla scelta di tale modello da parte della Consulta, v. P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale, cit., p. 1083. In senso opposto, cfr. G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, p. 109, secondo il quale « la parziale valorizzazione probatoria degli atti compiuti durante le indagini preliminari non è giustificata dal giudice delle leggi con la riattribuzione al pubblico ministero di uno status diverso da quello di parte, ma con l’intento di modificare il meccanismo di utilizzabilità a fini probatori di atti non posti in essere nella fase dibattimentale, senza alterare la posizione reciproca tra accusa e difesa ». Occorre precisare che simile conclusione pare in ogni caso scaturire dalla concezione, abbracciata dall’A., del pubblico ministero « parte imparziale » e « organo di giustizia » (cfr. ivi, p. 100 ss., in particolare pp. 107 e 108) che postula l’inesistenza di un interesse pubblico ad accusare e che, quindi, finisce per collocare la difesa nella naturale posizione di inferiorità legata ad uno schema processuale in cui essa non si contrappone all’accusa in senso stretto, bensì all’azione di un organo interessato solo « alla giusta applicazione di sanzioni ai responsabili di violazioni della legge penale... non investigatore puro ma magistrato tenuto a rispettare e a far rispettare la legalità in ogni momento delle indagini » (il corsivo è dell’A.). (118) Così G. TARELLO, L’interpretazione della legge, cit., p. 333 s. L’A. spiega che tradizionalmente, soprattutto nell’esperienza costituzionalistica nordamericana, il rapporto tra gli enunciati ascrittivi di diritti (Carta dei diritti) ed l’insieme delle regole istitutive di organi statali che ne determinano la sfera di competenza e di azione (Forma dello Stato), veniva risolto attribuendo alle seconde valore strumentale rispetto alla realizzazione dei primi, ciò anche grazie alla loro formulazione sufficientemente precisa che consentiva l’alta ‘‘giustiziabilità’’ delle posizioni soggettive previste, « essendone determinabili sia i titolari che il contenuto » (ivi, p. 326 s.). Nelle più recenti esperienze organizzative a costituzione rigida (tra le quali quella italiana) il documento formale si presenta complicato da una serie di fattori, tra i quali: la costituzionalizzazione di interessi non solo individuali ma anche generali che possono persino entrare in conflitto con i primi; le posizioni soggettive non sono solo diritti ma anche doveri, soggezioni, funzioni; vengono costituzionalizzati i principi generali dell’azione amministrativa e dell’organizzazione giurisdizionale. « La moltiplicazione degli


— 256 — sione’’ non viene perseguito privilegiando i valori individualistici della presunzione di innocenza, del diritto di difesa, come strumenti di tutela rispetto alle indebite compressioni del diritto inviolabile alla libertà personale. L’imputato deve invece accontentarsi di una posizione di rincalzo, si direbbe di un interesse legittimo alla eguale attuazione della norma penale: è giusto l’epilogo decisorio al quale si perviene attraverso l’attività di un organo informato a criteri di imparzialità nell’investigazione e nell’esercizio dell’azione. D’altro canto, tale atteggiamento non poteva trovare limite alcuno nella nozione di contraddittorio, termine plurivoco (119), inidoneo a conferire al relativo principio un contenuto suscettibile di un’applicazione concreta delimitata da confini certi, anche se tollerabilmente elastici. Si può anzi stabilire un’analogia tra il concetto di contraddittorio e quello di uguaglianza, che peraltro, secondo un’opinione minoritaria (120), ne rappresenta la matrice costituzionale. Inteso nella sua essenza di « diritto delle parti di interloquire, in condizioni di parità, sui temi destinati a formare oggetto della decisione e, correlativamente, nell’esigenza che questa sia emanata secondo prospettive esaminate e discusse dagli interessati » (121), esso è in grado di rappresentare un concetto generalmente interessi costituzionalmente tutelati » fa crescere « a dismisura il numero delle variabili, e nell’attribuzione di significato ai documenti costituzionali nel loro complesso le combinazioni possibili nell’attribuzione di significato ai diversi segmenti che li compongono aumentano in proporzione geometrica » (ivi, p. 331). Inoltre, l’immissione nel documento costituzionale di interessi tutelati che non sono diritti e la forma di tutela di carattere sostanzialmente giurisdizionale, fa sì che i diritti non trovino limite solo in altri diritti ma anche in interessi che « talvolta si confondono con le ragioni delle norme di organizzazione o della ‘‘Forma dello Stato’’, e... per conseguenza, l’organo della tutela ha amplissime possibilità di svuotare ciascun singolo ‘‘diritto’’ costituzionalmente tutelato » (ivi, p. 332 s.). Se a ciò si aggiunge la tradizione dottrinale per cui lo studio del ‘‘Diritto costituzionale’’ viene assegnato a studiosi « che sono ritenuti e si sentono studiosi di ‘‘diritto pubblico’’ », accade che il rapporto tra gli enunciati riferibili alla tradizione delle ‘‘Carte dei diritti’’ e quelli integranti la ‘‘Forma dello Stato’’ « venga configurato dalla dottrina in modo opposto a quello tradizionale: non più il primo gruppo, direttamente giustiziabile, considerato come preminente ed il secondo gruppo di enunciati, non giustiziabile, considerato come ancillare e strumentale, bensì il secondo gruppo considerato come preminente ed il primo come subordinato » (ivi, p. 333). (119) Sulle difficoltà di individuare nella semantica giuridica un significato univoco del termine contraddittorio, v. G. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. dir., 1986, p. 13, nonché, da ultimo, in relazione alle concezioni espresse nella legislazione e nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Quale contraddittorio dopo la sentenza n. 361/1998 della Corte costituzionale, in Quest. giust., 1999, p. 197 ss. (120) Cfr. GIUS. SABATINI, Progressività causale e procedimento istruttorio, in Giust. pen., 1978, III, c. 49 ss. L’opinione prevalente individua il fondamento del principio nell’art. 24, comma 2, Cost.: v., in proposito, G. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, cit., p. 26, al quali si rinvia per i riferimenti bibliografici. (121) P. FERRUA, Difesa (diritto di), cit., p. 469.


— 257 — accettato cui però fanno da contraltare varie concezioni particolari assiologicamente connotate che annullano tale univocità: utilizzando uno dei paradossi dell’uguaglianza, si potrebbe dire che il contraddittorio « sembra essere per tutti la stessa cosa e, contemporaneamente, cose diverse per persone differenti » (122). A livello logico-linguistico il contraddittorio, come l’eguaglianza, stabilisce « una relazione comparativa tra due o più soggetti..., che possiedono una caratteristica rilevante in comune » (123), identificabile nella qualità di ‘‘parte’’. Nonostante quest’ultima sia una nozione dai contenuti ‘‘variabili’’, non si può infatti negare che anche laddove viene messa in risalto l’esistenza di asimmetrie tra gli estremi della relazione, rappresentati dall’accusa e dalla difesa, privilegiando la posizione della prima, non si rinuncia tuttavia all’impiego del concetto, limitandosi a connotarlo con un’ulteriore qualificazione (124); non viene cioè negata una relazione tra i due, ma si stabilisce la premessa per disciplinarla. D’altro canto, neppure il riferimento alle ‘‘condizioni di parità’’ serve a conferire alla nozione un preciso contenuto normativo orientato alla perfetta equiparazione dei termini in causa, poiché generalmente si riconosce che i principi di parità e del contraddittorio non prescrivono affatto l’attribuzione di identiche posizioni processuali (125). Il concetto in esame, insomma, funge da « struttura comune, puramente formale, che le singole concezioni rivestono di contenuto normativo » (126); esso « è neutro, avalutativo, e, di per sé, non viene generalmente contestato » (127). Passando al piano più strettamente normativo, ogni concreta concezione del contraddittorio delinea un peculiare assetto del rapporto dialettico tra le parti, nelle diverse fasi del procedimento (128) e, pertanto, sta(122) P. COMANDUCCI, ‘‘Uguaglianza’’: una proposta neo-illuminista, in Analisi e diritto, a cura di P. COMANDUCCI e R. GUASTINI, Torino, 1992, p. 88. È, in sostanza, quanto nota G. GIOSTRA, Quale contraddittorio, cit., p. 197 s., il quale ricorda che la sentenza n. 255/1992 è stata accolta da alcuni come un inno al contraddittorio, da altri come una lesione. (123) P. COMANDUCCI, ‘‘Uguaglianza’’, cit., p. 89. (124) Si tratta della definizione del pubblico ministero come ‘‘parte pubblica’’, ‘‘imparziale’’; sulla storia e sullo sviluppo del concetto di parte, v. O. DOMINIONI, Le parti nel processo penale. Profili sistematici e problemi, Milano, 1985, p. 3 ss., dove si illustra come il codice Rocco abbia rappresentato un rilevante miglioramento sistematico della disciplina delle parti. (125) I poteri delle parti vanno costruiti non nel senso della identità ma nel senso della reciprocità, ossia dell’idoneità degli uni a controbilanciare gli altri in funzione delle opposte prospettive, così da assicurare l’equilibrio nelle varie tappe del processo: in tal senso v. P. CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, 1940, in Opere giuridiche, a cura di M. CAPPELLETTI, vol. IV, Napoli, 1970, p. 426. (126) P. COMANDUCCI, ‘‘Uguaglianza’’, cit., p. 87. (127) P. COMANDUCCI, ‘‘Uguaglianza’’, cit., p. 88. (128) Il termine procedimento viene utilizzato nel significato ampio che include sia la fase investigativa, sia le fasi ed i gradi successivi all’esercizio dell’azione penale.


— 258 — bilisce il ruolo delle parti medesime all’interno di ognuna di esse contribuendo così a costruire una struttura processuale determinata. Trasferita a livello costituzionale, simile operazione, prima della modifica dell’art. 111 Cost., coinvolgeva i parametri di riferimento di ciascuna parte: art. 24, comma 2, Cost. per le parti private, art. 112 rispetto al pubblico mininistero (129). La rilevanza costituzionale del contraddittorio, infatti, mancando un’esplicita enunciazione, veniva ricondotta al diritto di difesa; ciò, peraltro, nei limiti della strumentalità del primo nei confronti del secondo, tutelabile, in certe sue manifestazioni, anche con altri mezzi (130). Una completa sovrapposizione dei due principi, ovvero un rapporto di continenza di uno nell’altro, sarebbe stata del resto improponibile alla luce del fatto che lo schema triadico sotteso al contraddittorio chiamava in causa gli altri vertici del triangolo (giudice e accusa) e, di conseguenza, gli autonomi valori costituzionali di cui essi sono portatori. Entravano così in gioco i principi sovraordinati che interessano la posizione del pubblico ministero, innescando un confronto dialettico dal quale sarebbe dovuta scaturire la disciplina costituzionale del processo. È proprio a questo punto che emergevano i nodi più scabrosi per l’interprete. Tanto l’art. 24, comma 2, che l’art. 112 Cost. erano manchevoli di indicazioni concrete circa la struttura del sistema processuale (131). Anche il ricorso ad un collegamento sistematico tra le disposizioni costituzionali poteva condurre tuttalpiù a concludere che la Carta fondamentale ripudiasse un assetto ispirato al modello inquisitorio puro, caratterizzato dall’accentramento di accusa e decisione in capo allo stesso organo, in evidente negazione dello schema trilatero. Ma entro un confine la cui inosservanza appare quantomeno improbabile, le scelte caratterizzanti erano rimesse alla discrezionalità del legislatore. Senonché si può affermare, senza peraltro voler entrare in un tema difficile e certamente estraneo alla presente analisi come quello dei rapporti tra giudice costituzionale e potere legislativo, che il problema rela(129) G. ILLUMINATI, I principi generali del sistema processuale italiano, in Pol. dir., 1999, n. 2, p. 312 s. (130) V., in proposito, le puntualizzazioni di G. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, cit., p. 26 e s., secondo il quale « se è vero che in ogni forma di effettivo contraddittorio trova rassicurante tutela il diritto di difesa, questo non è, sempre, identificabile come diritto al contraddittorio. Ne consegue che l’assenza di contraddittorio non comporta di per sé una violenza dell’art. 24 Cost., salvo casi in cui il diritto di difesa può trovare congrua tutela esclusivamente attraverso il diritto al contraddittorio ». (131) L’art. 24, comma 2, Cost., oltre ad utilizzare una formula dove la difesa appare come « un’entità di cui sia noto ed indefettibile il contenuto » (P. FERRUA, Difesa (diritto di), cit., p. 477), rinvia ad una scansione procedimentale tipica del codice del 1930, attestando « come la difesa si ponga in rapporto ad una articolazione del processo, la quale viene data per presupposta », G.P. VOENA, Difesa. III) Difesa penale, in Enc. giur., vol. X, Roma, 1988, p. 12.


— 259 — tivo alla scelta del modello di processo si è spostata dal campo della decisione politica a quello dell’attuazione costituzionale. Pur in direzioni e con modalità tra loro molto diverse, dottrina e giurisprudenza hanno eroso lo spazio riservato al Parlamento costruendo un’intelaiatura portante nella quale la libertà del legislatore si riduceva all’individuazione delle soluzioni tecniche più adeguate al perseguimento degli obbiettivi desunti dalla Costituzione. Da un lato, la scienza processualistica, in un approccio orientato alla massima valorizzazione delle garanzie individuali, ha connesso i principi costituzionali in uno schema sostanzialmente accusatorio ‘‘temperato’’ dal principio di obbligatorietà (132). Dall’altro, la Corte, dopo una lunga e meticolosa opera con cui sono stati eliminati gli eccessi inquisitori del codice Rocco, ha lasciato che alcuni dei suoi caratteri genetici (133) penetrassero nelle maglie larghe del dettato costituzionale e dessero luogo ad una coabitazione con i principi ivi enunciati (134) dalla quale ha preso corpo un modello misto ovvero inquisitorio-garantito. Tale biforcazione interpretativa trova senz’altro causa in opposte scelte di valore rispetto alle quali il ruolo della ragionevolezza, nonostante l’ampia libertà connessa ad un criterio di giudizio dalle strutture assai elastiche, pare assumere una veste marginale. Peraltro anche il sistema rights oriented non presupponeva affatto un modello di applicazione dei precetti costituzionali impostato sullo schema binario sussuntivo, ma operava nell’ottica della tendenziale maggiore idoneità « ad assicurare l’attuazione delle garanzie fondamentali » (135). Rimandava cioè ad un giudizio di congruità imperniato sui diritti intesi quali rationes, fondamenti della norma processuale penale. Laddove invece la dimensione teleologica si è esplicata rispetto alle finalità sociali dello strumento processuale, le posizioni soggettive hanno perso quella forza espansiva che consente loro di confrontarsi ‘‘ad armi pari’’ con gli interessi confliggenti rischiando così un irrigidimento identico a quello cui si perviene con metodi interpretativi esclusivamente fondati sul testo. (132) Cfr., sia pure con accenti diversi, M. NOBILI, La disciplina costituzionale del processo (I), cit., p. 163 ss.; P. FERRUA, Difesa (diritto di), cit., p. 477 s.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, p. 762 ss. (133) Ci si riferisce, in particolare, alle funzioni del pubblico ministero. (134) Sulle varie forme di interpretazione delle norme costituzionali alla luce della disciplina subcostituzionale, v. R. BIN, Diritti e argomenti, cit., p. 18 ss., nonché p. 134, dove, in particolare, si individua una tecnica consistente nella « ricerca del significato da assegnare alle espressioni impiegate dalla Costituzione nel corpo di nozioni elaborate nelle discipline di settore ». Per un esempio in tal senso v. sent. n. 96/1975, in tema di istruzione sommaria, dove il concetto di « giurisdizione » di cui all’art. 102 Cost. viene evidentemente elaborato sulla base della normativa della cui legittimità si sarebbe dovuto giudicare. (135) Cfr. G. ILLUMINATI, Accusatorio ed inquisitorio (sistema), in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, p. 5.


— 260 — D’altro canto, occorre sottolineare che gli approdi della ragionevolezza in ambito processuale penale sono in gran parte dovuti all’impiego di valori ‘‘posti’’ dalla Corte attraverso un uso delle disposizioni della Costituzione che rasenta la mera clausola di stile. Proprio questo svuotamento della funzione del testo come dato di partenza che la Corte non può controllare, rischia di provocare l’ingresso in Costituzione di interi settori dell’ordinamento nel tentativo del legislatore di riprendersi il ruolo ad esso sottratto (136). E ciò, per lo meno in parte, è avvenuto nella materia processuale penale. 7. Ragionevolezza e art. 111 Cost. — L’inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111, ossia in una disposizione che si trova nella seconda parte della Costituzione, nella quale sono stabilite le garanzie processuali intese in senso oggettivo, è stato criticato, sotto il profilo dell’incongrua impostazione sistematica. I ‘‘nuovi’’ principi e le ‘‘nuove’’ regole della giurisdizione penale, infatti, enunciati « secondo un’ottica prioritariamente attenta alla posizione dell’imputato » (137), avrebbero trovato « più opportuna sede nella prima parte della Costituzione, per esempio all’interno dell’art. 24 Cost. » (138). L’osservazione, astrattamente ineccepibile ed ispirata alla tradizionale bipartizione della Carta fondamentale in un settore dedicato ai diritti e doveri dei cittadini (Carta dei diritti) ed in un altro contenente le norme sull’ordinamento della Repubblica (Forma dello Stato) tra cui quelle sulla giurisdizione, fornisce un prezioso spunto per svolgere alcune considerazioni sull’effettiva natura dell’intervento del legislatore costituzionale. Nonostante da più parti si noti come la modifica dell’art. 111 Cost. sia stata mossa da uno spirito di rivincita del Parlamento nei confronti della Corte costituzionale (139), è stato convincentemente sgombrato il campo da qualsiasi sospetto in ordine alla possibile natura di revisione(136) Osserva G. SILVESTRI, La Corte costituzionale nella svolta di fine secolo, in Storia d’Italia, Annali, vol. XIV, Legge. Diritto. Giustizia, Torino, 1998, p. 974, che « la conseguenza della perdita di legittimazione di una Corte che adotta decisioni politicamente controverse, senza riuscire ad ottenere il consenso della maggioranza degli esperti, non è misurabile in termini elettorali, ma in termini di maggior praticabilità di riforme legislative o costituzionali volte a limitarne i poteri ». (137) V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello di « giusto processo » penale (tra « ragionevole durata », diritti dell’imputato e garanzia del contraddittorio), in Pol. dir., 2000, ora in Alla ricerca di un processo penale giusto. cit., p. 320. (138) V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello di « giusto processo » penale, cit., p. 321. (139) Cfr. V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello di « giusto processo » penale, cit., p. 312 s., dove, prendendo spunto dalla particolare rapidità dell’iter parlamentare e dalla rigorosa blindatura di un testo sostenuto da consensi plebiscitari, si osserva che la correzione della Costituzione è avvenuta « ‘‘contro la Corte costituzionale’’ ».


— 261 — sanzione dell’intervento, eventualmente celata dietro un’operazione ineccepibile sul piano formale (140). Non si è infatti verificata una « manipolazione delle norme costituzionali » limitativa di posizioni soggettive di vantaggio o estensiva « dell’area delle situazioni giuridiche di svantaggio », ovvero mirante alla elusione « di una incostituzionalità accertata dalla Corte... con l’aggravante dell’intimidazione e della compressione della potestà decisoria dell’organo di giustizia costituzionale » (141). Sotto quest’ultimo aspetto, basti aggiungere che l’orientamento giurisprudenziale ‘‘corretto’’ dalla revisione ha sempre adottato una tecnica ermeneutica non ascrittiva di significati, essendosi avvalso di un’interpretazione sistematica delle norme del codice e, a livello superiore, di valori costituzionali privi, tra l’altro, di precisi riferimenti testuali: in siffatto contesto sembra improponibile un giudizio sulla valenza elusiva della modifica. Ciò posto, se quindi si è trattato di una revisione istituzionalmente corretta, di revisione può però parlarsi solo nel senso lato di intervento dal quale deriva una modifica del testo della Carta costituzionale « anche se a seguito di arricchimento o di specificazione dei suoi contenuti normativi » (142). La reale funzione della novella, infatti, consiste nel superare un conflitto di interpretazione delle disposizioni costituzionali di principio, le quali risultano essere integrate dalla riforma e non soppresse o modificate (143). In particolare, l’integrazione si è resa necessaria poiché la Corte ha adottato una concezione del contraddittorio lontana da « quella che la dottrina italiana prevalente ha elaborato, anche sulla scorta degli apporti deducibili dalla normazione internazionale », e che l’ha condotta « ad un’interpretazione delle norme costituzionali, quali quella dell’art. 24, non tanto rigorosa quanto richiederebbero i canoni internazionali del giusto processo » (144). In definitiva, « quello che appare un conflitto tra organi in ordine all’ampiezza dei poteri che ad essi risultano attribuiti e/o all’uso che ne viene fatto, si configura, invece, come diversità di interpretazione dei parametri costituzionali cui subordinare i contenuti degli atti di esercizio del potere legalmente conferito ad ambedue » (145). (140) Così G. FERRARA, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e « giusto processo », in Rass. parl., 1999, p. 553. Occorre precisare che il saggio citato si riferisce al progetto di legge costituzionale, nell’identico testo poi approvato dai due rami del Parlamento. (141) Cfr. G. FERRARA, loc. ult. cit. (142) Cfr. G. FERRARA, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e « giusto processo », cit., p. 552. (143) Cfr. G. FERRARA, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e « giusto processo », cit., p. 552 s. (144) G. FERRARA, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e « giusto processo », cit., p. 557. (145) G. FERRARA, loc. ult. cit.; la natura di interpretazione autentica della Costituzione, propria del nuovo testo dell’art. 111 Cost., viene colta anche da P. TONINI, L’alchimia del nuovo sistema probatorio: una attuazione del ‘‘giusto processo’’?, in Giusto processo.


— 262 — In base a tali premesse, la collocazione dei precetti integrativi delle disposizioni costituzionali già esistenti, assume un valore sistematico particolarmente intenso proprio per il suo carattere ‘‘eccentrico’’ rispetto alla tradizionale dislocazione dei diritti individuali nella prima parte della Carta. Se, infatti, l’espressa previsione di principi in buona parte già desunti dagli enunciati preesistenti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza costituzionale (146), ha il pregio di fissare al massimo livello giuridico alcune garanzie fondamentali, con un evidente beneficio in termini di certezza, il maggiore contributo della riforma sembra esprimersi nella dimensione interpretativa, grazie all’individuazione dei valori guida del modello costituzionale di processo penale. Attraverso la forte connotazione individualistica dei principi della giurisdizione penale, viene definitivamente ribaltato quel definitional balancing in cui i diritti dell’imputato, in particolare il diritto al contraddittorio, assumevano un carattere recessivo rispetto all’« interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi » (147) sublimato nel « fine primario ed ineludibile... della ricerca della verità » (148). Ciò implica uno sbarramento logico alla riproposizione di un approccio sistematico nel quale gli interessi dell’efficienza e della difesa sociale siano collocati in posizione paritetica o addirittura privilegiata rispetto alle garanzie. D’altro canto, i futuri bilanciamenti dovranno strutturarsi nella consapevolezza che i diritti ‘‘processuali’’ assumono la veste di preferred positions, come tali passibili solo di eccezioni ragionevoli la cui giustificazione deve essere verificata con il canone della ‘‘stretta necessità’’ (149). Si tratta, in sostanza, di una gerarchizzazione, non rigida in quanto superabile in singoli casi concreti caratterizzati dall’eccezionale prevalenza degli interessi contrapposti, garantita dalla copertura che la previsione di inviolabilità dell’art. 24, comma 2, Cost. assicura Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1o marzo 2001, n. 63), a cura di P. TONINI, Padova, 2001, p. 14 s. (146) Non si può dimenticare che lo stesso diritto al contraddittorio sub specie di diritto al confronto con la fonte di accusa era stato enunciato dalla sent. n. 361/1998. Che poi la medesima decisione abbia attuato il principio sacrificandone le reali potenzialità di garanzia in nome di interessi con esso confliggenti, è aspetto che non può condurre a negare la preesistenza del diritto rispetto alla riforma costituzionale. (147) Sent. n. 111/1993. (148) Sent. n. 255/1992. (149) Sulle caratteristiche del sindacato bilanciatorio riguardante i diritti inviolabili, v. O. CHESSA, Bilanciamento ben temperato o sindacato esterno di ragionevolezza?, cit., p. 3928 ss., e, in particolare, p. 3937, dove si chiarisce che il giudizio di « stretta necessità » è un « controllo particolarmente stringente che contiene una presunzione di irragionevolezza della strumentazione normativa che tutela o realizza l’interesse che concorre con il diritto inviolabile. Non solo: proprio attraverso questa particolare regola di distribuzione degli oneri argomentativi, pone una regola di preferenza fra gli interessi in conflitto, nel senso che per i diritti inviolabili vi è una sorta di ‘‘presunzione favorevole’’, mentre sui principi o beni costituzionali concorrenti ricade l’onere di ‘‘provare’’ la ragionevolezza della propria attuazione ».


— 263 — alle esemplificazioni del diritto di difesa contenute nell’art. 111 Cost. (150). Simile impostazione consente di risolvere, per lo meno in prospettiva generale, le antinomie interne al ‘‘nuovo’’ sistema di garanzie, individuate dalla dottrina più attenta nel possibile conflitto tra i diritti della difesa ed il canone della ‘‘ragionevole durata’’ (151). Quest’ultimo, costruito come garanzia oggettiva (152), avrebbe convogliato nel quadro dei principi del « giusto processo » i valori dell’efficienza e dell’economia processuale, compromettendo così lo scopo del legislatore di arginare la discrezionalità della Corte costituzionale nelle conseguenti operazioni di bilanciamento (153). Senonché, quella che sembrerebbe essere una sacralizzazione degli interessi antagonisti dei diritti fondamentali non sposta di molto la questione del loro peso. Va innanzitutto ricordato che i primi già trovavano ampio riconoscimento nelle decisioni della Consulta antecedenti la riforma, conducendo sovente, specie nella giurisprudenza relativa al codice del 1930, alla compressione del diritto di difesa in nome di esigenze quali la « realizzazione della giustizia », la « repressione dei reati », la « tutela della collettività dal delitto » e l’« economia processuale » (154). Inoltre, proprio sul piano testuale, la « durata ragionevole », in quanto carattere di una struttura processuale modellata dal contraddittorio, dalla parità tra le parti, dalla terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, assume un (150) L’enumerazione di alcuni principi riconducibili al diritto di difesa ha una funzione meramente esemplificativa che non esaurisce le potenzialità applicative dell’art. 24, comma 2, Cost.: in tal senso, sia pure con riferimento all’analogo testo dell’art. 130 del progetto di riforma della Costituzione adottato dalla Commissione bicamerale il 4 novembre 1997, v. G. UBERTIS, La previsione del giusto processo, in Dir. pen. proc., 1998, n. 1, p. 46. (151) V. P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio. Troppi dettagli nel « 111 », in Dir. e giust., 2000, n. 1, p. 78; V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello di « giusto processo » penale, cit., p. 324 ss. (152) Cfr. V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello di « giusto processo » penale, cit., p. 326, il quale lo deduce dal confronto tra l’enunciato costituzionale e l’analoga previsione dell’art. 6 della Convenzione europea, che attribuisce direttamente all’imputato il diritto ad essere giudicato « entro un termine ragionevole »; nello stesso senso, v. P. FERRUA, loc. ult. cit. (153) In tal senso, cfr. P. FERRUA, loc. ult. cit. (154) Per una rassegna delle decisioni che, nel sindacato di leggittimità costituzionale sulle disposizioni del codice Rocco, si avvalevano degli interessi indicati nel testo, peraltro senza preoccuparsi della loro rilevanza costituzionale, al fine di individuare i limiti del diritto di difesa, v. G.P. VOENA, Difesa, cit., p. 14 s. Con riferimento alla giurisprudenza sul codice vigente, v. V. GREVI, Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell’imputato ed efficienza del processo nel sistema processuale, in AA.VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, 2000, ora in Alla ricerca di un processo penale giusto, cit., p. 106 s., dove si richiamano, in particolare, decisioni in materia di misure cautelari nelle quali vengono presi in considerazione l’interesse al buon esito del processo ovvero l’esigenza di salvaguardare l’imprevedibilità delle misure.


— 264 — ruolo accessorio, tendente ad influire più sulla configurazione delle modalità di godimento dei diritti che sul loro contenuto (155). Ma soprattutto, l’introduzione, nella disposizione costituzionale dedicata alla disciplina della giurisdizione, di un principio idoneo a convogliare nel sistema le istanze dell’efficienza, ha il pregio di escludere, questa volta in sintonia con il pensiero della Corte costituzionale (156), che esse possano trovare copertura nell’art. 112 Cost. e finire così per assumere una connotazione sostanzialistica, orientata a funzionalità repressive e di difesa sociale. Collocare infatti la fonte dell’efficienza nell’obbligatorietà dell’azione penale significa attribuire a questa il carattere dominante nella morfologia della giurisdizione, relegando la difesa a fattore antieconomico per definizione (157) e fissando così una volta per tutte un assetto dei rapporti tra i due termini in cui il primo riveste un ruolo prevalente (158). (155) Contra V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello di « giusto processo » penale, cit., p. 327, secondo il quale si tratterebbe di « una delle garanzie qualificanti del modello desumibile dall’art. 111 Cost., rivestendo anzi un rango logicamente prioritario rispetto alle altre ». Nella stessa direzione sembrano andare, anche se con toni più sfumati, le considerazioni di P. TONINI, L’alchimia del nuovo sistema probatorio, cit., p. 43 ss. Per un’opinione analoga a quella espressa nel testo, v. M. CECCHETTI, Il principio del ‘‘giusto peocesso’’ nel nuovo art. 111 della Costituzione. Origine e contenuti normativi generali, in Giusto peocesso. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, cit., p. 82 s. (156) È stata la sent. n. 460/1995 a stabilire che il bene dell’efficienza del processo penale, pur essendo costituzionalmente protetto, non trova garanzia nel principio di obbligatorietà essendo questo inidoneo ad operare « oltre il momento iniziale dell’impulso dato dal pubblico ministero ». Nella sent. n. 353/1996, risolvendo l’identica questione di illegittimità, relativa alla disciplina della rimessione del processo laddove impediva al giudice la pronuncia di una sentenza prima che fosse dichiarata inammissibile la richiesta si rimessione, la Corte ha ritenuto « il bene costituzionale dell’efficienza del processo... enucleabile dai principi costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale ». Infine, nella sent. n. 10/1997, riguardante l’analoga disciplina della ricusazione, ha ribadito il predetto principio individuandone il fondamento, tra gli altri, nell’art. 101 Cost. Per l’opinione che invece ritiene il valore dell’efficienza desumibile dall’art. 112 Cost., v. V. GREVI, Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell’imputato ed efficienza del processo, cit., p. 105 s. (157) In senso contrario, si può osservare che caratteristiche notevolmente antieconomiche sono rilevabili nel principio di obbligatorietà laddove impone, da un lato, una decisione del giudice su tutte le notizie di reato, dall’altro, l’adozione di criteri decisori sulla richiesta di archiviazione imperniati sul favor actionis, ossia sulla propensione all’intervento giurisdizionale anche nei casi dubbi. Elementi questi che escludono la funzione deflattiva dei meccanismi di controllo sull’esercizio dell’azione penale. Su questi temi, v. sent. n. 88/1991. L’opposto principio di opportunità, informato a criteri di economia del sistema, attraverso un controllo dei ‘‘carichi di lavoro’’ consentirebbe una maggiore celerità sia nella repressione dei reati sia nel rapido riconoscimento dell’innocenza dell’imputato. (158) Nella sent. n. 111/1993 appare con tutta evidenza come il principio di obbligatorietà dell’azione penale connesso al principio di legalità sostanziale, orienti finalisticamente il processo verso la realizzazione dell’« interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi », connotando così l’efficienza nel senso della difesa sociale.


— 265 — Dunque, la posizione ‘‘neutra’’ del principio favorisce una ragionevole ponderazione non orientata a limitare le sole garanzie soggettive ed anzi comporta che il ‘‘punto di vista’’ dell’accusa, sprovvisto della protezione dell’inviolabilità, debba confontarsi con l’efficienza e l’economia processuale in un rapporto molto più livellato di quanto non avvenga per la difesa (159). Ciò emerge altresì dal tenore della regola contenuta nel comma 4 dell’art. 111 Cost. e formulata come divieto in favore del solo imputato. Al di là delle difficoltà interpretative dovute ad un testo tecnicamente non impeccabile (160), in parte attribuibile agli effetti ansiogeni di una discrezionalità giudiziale ai limiti dell’arbitrio, la previsione stabilisce un limite a qualsiasi operazione di bilanciamento e, quindi, allo stesso sindacato di ragionevolezza. Si è in sostanza fissato il ‘‘contenuto minimo essenziale’’ del diritto al contraddittorio (161), costruendolo però sulla sola posizione dell’imputato. Circostanza che, oltre a confermare ulteriormente la ‘‘superiorità’’ della posizione difensiva, espone, sul versante opposto, i diritti dell’accusa a possibili compressioni giustificate dall’esigenza di realizzare il fine dell’economia processuale (162). D’altro canto, l’irragionevolezza, sancita dalla sent. n. 361/1998, di una « disciplina che precluda a priori l’acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare », assume una forte colorazione efficientistica in quanto, mancando una chiara presa di posizione sul valore epistemologico degli atti compiuti senza contraddittorio, sembra quasi voler scongiurare lo spreco di risorse provocato dalla regola di esclusione probatoria. Infine, la stessa ‘‘non dispersione’’ è una formula che evoca, prima di tutto, valori economicistici. (159) L’impostazione dei rapporti tra gli artt. 24 e 112 Cost. proposta, è peraltro reperibile nella sent. n. 98/1994, la quale, tuttavia, si occupava della legittimità costituzionale dei limiti al potere di appello del pubblico ministero in seno al giudizio abbreviato. (160) Per una serrata critica delle nuove disposizioni inserite nell’art. 111 Cost. e, in particolare, del relativo comma 4, secondo periodo, v. P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 5. (161) In tal senso, v. M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 6. (162) In tale ottica, più che autorizzare una deroga al contraddittorio nel senso dell’utilizzabilità dibattimentale in bonam partem delle indagini difensive (P. FERRUA, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, cit., p. 80), la mancata estensione al pubblico ministero del contenuto minimo essenziale potrebbe giustificare, sempre in ossequio ad esigenze di economia processuale, un meccanismo di accesso ad un rito extradibattimentale fondato sulla sola volontà dell’imputato, come avviene, ad esempio, nel giudizio abbreviato. Occorre chiarire, tuttavia, che se la privazione del diritto al dibattimento pare accettabile nei limiti in cui consente la trasformazione degli atti di indagine in prova ed impone un metodo di integrazione probatoria deviante rispetto al modello adversary, l’eliminazione del diritto alla prova anche, tra l’altro, sotto il profilo della prova contraria rispetto alle risultanze delle investigazioni difensive, non può non suscitare seri dubbi di compatibilità con i principi costituzionali che garantisco la posizione dell’accusa (v. ad es. art. 112 Cost.). I profili sopra evidenziati sono stati oggetto di una pronuncia della Corte (sent. n.


— 266 — Nel medesimo senso, l’art. 111, comma 5, Cost. ammette la soppressione del contraddittorio nella formazione della prova per volontà della sola parte privata ovvero, dando corpo alle istanze dell’efficienza, in situazioni specificamente individuate che, se per un verso sembrano conferire rilievo agli interessi istituzionali coagulati nel principio di non dispersione, per altro verso imbrigliano le illimitate potenzialità ermeneutiche di quest’ultimo con previsioni testuali che hanno già imposto alla Corte di correggere, con la sent. n. 440/2000, il proprio orientamento in tema di irripetibilità (163). È difficile stabilire in quale misura il nuovo stylus iudicandi fondato sul testo dipenda dalla volontà di dare un segnale distensivo dopo il contrasto istituzionale sfociato nella revisione dell’art. 111 Cost. Tuttavia, anche se il sindacato di ragionevolezza dovesse tornare ad interessare la materia della formazione della prova, le nuove basi testuali dei diritti della difesa imporrebbero un forte onere di motivare qualsiasi scostamento dalla littera constitutionis, che rappresenta comunque una garanzia contro i possibili sconfinamenti della Consulta (164). 8. Conclusioni. — Dalla sia pur limitata analisi della giurisprudenza costituzionale sul codice del 1988, emerge con chiarezza che le decisioni più dirompenti per il tessuto normativo sono state quelle che, accantonati i principi costituzionali, hanno inserito nelle strutture del sindacato di ragionevolezza valori completamente privi di un serio fondamento testuale. In sostanza, si può constatare che nessun modello decisorio (giudizio di eguaglianza, sindacato sulla ragionevolezza intrinseca, bilanciamento di interessi), se utilizzato nella prospettiva della realizzazione di fini che non trovano disciplina nei precetti della Costituzione, fornisce argini sicuri 115/2001), la quale ha ‘‘convalidato’’ l’eliminazione, operata dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, del consenso del pubblico ministero come condizione per l’accesso al giudizio abbreviato, ma ha contemporaneamente escluso il contrasto della nuova disciplina del rito premiale con l’art. 111, comma 2, Cost. (principi di parità e del contraddittorio) là dove non riconosce al pubblico ministero la facoltà di chiedere un’integrazione probatoria anche nel caso in cui l’imputato abbia presentato una richiesta non condizionata all’acquisizione di prove. (163) La decisione menzionata nel testo ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 512 c.p.p., in riferimento all’art. 111 Cost., come interpretato dalla sent. n. 179/1994. Tale pronuncia, applicando il principio di non dispersione, aveva sancito l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal teste prossimo congiunto che si fosse poi avvalso in dibattimento della facoltà di non deporre. La Corte, ha ritenuto non più valida la precedente opinione, argomentando sulla base di una stretta interpretazione letterale dell’art. 111, comma 5, Cost. nella parte in cui ammette la deroga al principio del contraddittorio nei casi, tra gli altri, di « accertata impossibilità di natura oggettiva ». (164) Sulla fondamentale importanza della motivazione come strumento per garantire la trasparenza del procedimento decisionale seguito dalla Corte, specie nell’esercizio di un potere di controllo così penetrante come il sindacato di ragionevolezza, v. A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 155 s.


— 267 — contro gli straripamenti del giudice delle leggi (165). D’altro canto, la svalutazione della dimensione deontologica dei diritti fondamentali procurata dal confronto paritetico con fini e valori collettivi (166), produce il prevalere degli argomenti funzionalistici e lo scadimento della portata precettiva delle norme costituzionali (167). Conseguenze queste in tutto somiglianti agli approdi della dottrina dei limiti naturali (della quale la tecnica del ragionevole bilanciamento degli interessi dovrebbe costituire il superamento) alla cui base stava una « concezione funzionalistica » che intendeva i diritti non come « istanze di libertà dallo Stato » ma come esercizio di una funzione « dello Stato, nonché per... lo Stato e l’ordinamento » (168). Ma è proprio la giurisprudenza della Corte a fornire un modello di ragionevolezza compatibile con la matrice culturale positivistica che in materia penale sembra essere ancora di particolare attualità. Nella sent. n. 89/1996, dove il principio di eguaglianza continua ad essere il fondamentale criterio ispiratore del controllo di ragionevolezza, si tracciano le linee di una tipologia di sindacato sulla congruenza mezzi-fini nel quale, tuttavia, lo schema triadico serve solo a cogliere la sintomatologia della scelta arbitraria (169). Questa non viene identificata in « qualsiasi incoerenza, (165) Sui rischi connessi all’interpretazione « per valori », che attribuirebbe un’« abnorme ampiezza » al metodo del bilanciamento ed al criterio della ragionevolezza, v. A. PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quad. cost., 2001, n. 1, p. 57. (166) Nel caso del processo penale, possono considerarsi fini collettivi, ad esempio, la realizzazione della giustizia, la repressione dei reati, la tutela della collettività dal delitto. (167) In proposito v. la riflessione di J. HABERMAS, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), trad. it., Milano, 1996, p. 302 ss., il quale fonda la propria critica alla dottrina dell’ordine dei valori, elaborata dalla Corte costituzionale federale tedesca, sulla distinzione tra principi e valori. I primi hanno un senso deontologico e stabiliscono un’obbligazione incondizionata ed universale. I secondi hanno un senso teleologico ed « esprimono la preferibilità di beni che in determinati collettivi valgono come desiderabili, e che possono essere acquisiti o realizzati tramite un agire finalistico ». Secondo Habermas, il fatto che i principi costituzionali siano stati ‘‘trasformati’’ in valori e vengano sottoposti, per la loro realizzazione, all’analisi costi-benefici, favorisce la possibilità di sentenze irrazionali « in quanto gli argomenti funzionalistici vengono ad avere la meglio su quelli normativi ». (168) A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., p. 314, al quale si rinvia altresì per le citazioni di dottrina e giurisprudenza sul tema dei limiti naturali; v. anche A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., pp. 118 e 136, nota 131. (169) « Il giudizio di eguaglianza, pertanto, in casi come quello sottoposto alla Corte costituzionale con l’ordinanza del giudice rimettente, è in sé un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la ‘‘causa’’ normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa ‘‘ragione’’ della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell’eguaglianza ».


— 268 — disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire, giacché, ove così fosse, al controllo di legittimità costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunità, per di più condotta sulla base di un etereo parametro di giustizia ed equità, al cui fondamento sta una composita selezione di valori che non spetta a questa Corte operare. Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si sovrappongono, dovendosi il sindacato arrestare in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella ‘‘causa’’ o ‘‘ragione’’ della disciplina, l’espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore è abilitato a compiere ». Il controllo di legittimità costituzionale « non può travalicare in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in cui la questione dedotta investa... sistemi normativi complessi, all’interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche ». Si individua così una ‘‘zona di indifferenza’’ in cui non è possibile intervenire nemmeno dall’interno delle scelte legislative attraverso quel controllo sulla razionalità logica che si fonda sui principi di coerenza dell’ordinamento e di non contraddizione (170). La causa giustificativa che, mancando, produce l’arbitrarietà della norma impugnata, viene reperita, nel caso sottoposto al vaglio della Corte, nella garanzia prevista dall’art. 13, ultimo comma, Cost. la quale impone la fissazione dei termini massimi di durata della custodia cautelare: la denunciata irragionevole equiparazione di situazioni diverse rispetto al momento iniziale del termine, perseguendo lo scopo di rendere certi e predeterminati i parametri per il calcolo della durata massima, viene esclusa. Messe da parte le esigenze di coerenza del sistema, la Corte si limita a valutare la ragionevolezza della norma rispetto al parametro costituzionale. Né si può dire che simile opzione sia strettamente legata al caso di specie, poiché vi era stata una specifica sollecitazione del giudice a quo di esaminare la questione sotto i profili del « completo abbandono di necessità cautelari attualissime » e del rapporto tra custodia cautelare e gravità del fatto contestato, con evidente richiamo ad esigenze di difesa sociale, altre volte ritenute rilevanti ai fini dell’accoglimento dell’eccezione. Vi è stato, dunque, un implicito, ma netto rifiuto di considerare la congruità della disciplina impugnata rispetto ai fini pratici sottesi al sistema delle misure cautelari coercitive e sono così rimasti « fuori dall’apprezzamento della Corte le indagini sulla ragionevolezza del contenuto della disposizione in ordine a ciò che il legislatore avrebbe dovuto ma ha omesso di (170) Sul sindacato di ragionevolezza inteso quale controllo di razionalità logica, v. supra paragrafo n. 2.


— 269 — fare o ha stabilito in modo irrazionale »; modalità di controllo che rivelano la volontà di assegnare alla tipologia di sindacato in questione il ruolo di parametro di legittimità costituzionale, con un « valore più pregnante di quello strettamente ermeneutico ed argomentativo che dovrebbe caratterizzarne l’uso » (171). Dall’angolo visuale espresso nella sent. 89/1996, il sindacato di legittimità, sia pure effettuato con i canoni della ragionevolezza, sembra efficacemente contenibile, per ridurre al massimo il rischio che esso si trasformi in un mezzo « per rivedere discrezionalmente le decisioni discrezionali del legislatore » (172). In ogni caso, una determinata concezione del sindacato in esame deve essere ‘‘sostenuta’’ da una concezione della Costituzione ad essa commisurata, e se il ruolo del giudice costituzionale va disegnato al fine di evitare che esso abbia sempre l’ultima parola su ogni scelta legislativa, occorre parallelamente riflettere sul ruolo da attribuire ai precetti della Carta nella creazione dell’ordinamento subcostituzionale. L’esigenza di sottoporre ad una rigida rete di garanzie un settore normativo che incide su di un bene primario come la libertà personale, ha spesso condotto gli interpreti a muovere da un approccio « fondazionale » (173), ossia a cercare nella Costituzione il sistema penale tanto nel suo versante sostanziale (174) quanto in quello del processo (175). I ritardi e le omissioni del Parlamento nella revisione di strutture codicistiche partorite dal regime fascista, hanno condotto la scienza penale a puntare « sulla Costituzione e sulla Corte costituzionale per imporre al legislatore (171) A. MOSCARINI, Un buon uso della tecnica di ragionevolezza in tema di applicazione delle misure cautelari, in Giur. cost., 1996, p. 846 s., alla quale si rinvia per un’attenta riflessione sul modello di ragionevolezza proposto dalla sent. n. 89/1996. (172) R. GUASTINI, La Costituzione come limite alla legislazione, in Analisi e diritto, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Torino, 1998, p. 111. (173) L’espressione è di M. DONINI, Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale. L’insegnamento dell’esperienza italiana, in Foro it., 2001, V, c. 29 ss. (174) F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nov. Dig., vol. XIX, Torino, 1973, passim. (175) Secondo M. NOBILI, La disciplina costituzionale del processo (I), cit., p. 62 ss., dalla Costituzione deve trarsi il massimo contenuto precettivo, tutto il potenziale valore; l’A. avverte, tuttavia, che le disposizioni costituzionali sono lacunose ed ambigue e che, pertanto, la loro interpretazione è operazione pericolosa; in senso analogo, cfr. G. RICCIO-A. DE CAROS. MAROTTA, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, cit., p. 249 ss. Per operazioni deduttive del sistema processuale dalle disposizioni della Costituzione, v. anche P. FERRUA, Difesa (diritto di), cit., p. 477 s.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 762 ss. In generale, sul valore normativo e sulle diverse concezioni della Costituzione, nonché sui connessi modelli interpretativi, si rinvia a M. DOGLIANI, Interpretazioni della Costituzione, Milano, 1982.


— 270 — dall’alto la riforme indispensabili » (176), prospettando così una sovraesposizione ‘‘politica’’ dell’una e dell’altra. In effetti, la Corte ha finito per assumere sempre più un ruolo tutelare del Parlamento ma ha fatto ciò in base ad un programma autonomo, per lo meno in parte, rispetto a quello propostole, circostanza che non può certo destare stupore se si considera che la Costituzione si presta a soluzioni interpretative tra loro opposte costituendo « più che un vero compromesso tra valori ed interessi diversi, una ricognizione di essi priva di indici sulla cui base decidere della prevalenza degli uni sugli altri » (177). Limitando il discorso alla materia processuale, forse proprio oggi che la maggiore puntualità dei nuovi enunciati sembrerebbe dare ulteriore stimolo a pensare il sistema infracostituzionale come uno « sviluppo quasi deduttivo, o comunque, un’espansione coerente » (178) della norma costituzionale, si presenta l’occasione di rimeditare il quadro d’insieme e di valutare l’opportunità di ‘‘deresponsabilizzare’’ il giudice delle leggi, predisponendo modelli ermeneutici nell’ottica di un ritorno alla concezione della norma primaria come mero sbarramento alle determinazioni del processo politico. dott. ANDREA TASSI

(176) M. DONINI, Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale, cit., c. 31. (177) R. BIN, L’ultima fortezza. Teoria della costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, p. 71. (178) G. TARELLO, L’interpretazione della legge, cit., p. 337.


IN ONORE DI GIULIANO VASSALLI ‘‘LAUDATIO’’ PER LA LAUREA AD HONOREM DEL PROF. GIULIANO VASSALLI (*)

1. Giuliano Vassalli, nato a Perugia il 25 aprile 1915, è dal 1991 Professore Emerito della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università ‘‘La Sapienza’’ di Roma, dopo avervi insegnato il diritto penale per lunghissimi anni. A quella cattedra prestigiosa — già retta da Maestri indimenticati quali Enrico Ferri, Alfredo De Marsico e Filippo Grispigni — egli giungeva dopo aver intrapreso, a soli 23 anni, l’insegnamento nell’Università di Urbino (1938-41) ed averlo proseguito, di poi, nelle sedi di Pavia (1940-42), Padova (1942-43), Genova (1945-56) e Napoli (1957-60). La sua attività didattica ha spaziato in tutte le discipline penalistiche: dal diritto penale, alla procedura penale, alla criminologia e si è esplicata, oltreché nei corsi universitari, nella Scuola di specializzazione in diritto penale e criminologia, cui egli ha dedicato particolare impegno nel coltivarne e potenziarne l’impronta sperimentale e la visione interdisciplinare voluta dal fondatore Enrico Ferri, nonché in corsi, lezioni e conferenze nelle più diverse sedi. Dopo aver esercitato ad altissimo livello la professione forense — ci sia dato ricordare che egli partecipò con Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Vezio Crisafulli e Massimo Severo Giannini, alla prima udienza della Corte costituzionale, il 23 aprile 1956, nella quale fu riconosciuto il sindacato della Corte anche sulle leggi anteriori alla Costituzione — nel 1981 optò per l’insegnamento a tempo pieno. Generazioni di studenti ricordano la sua dedizione alla scuola come i numerosi allievi il suo insegnamento: un professore, quindi, ed un caposcuola innanzi tutto. Maestro, e non dei soli suoi allievi ma di tutte le generazioni di penalisti che hanno potuto attingere insegnamento dai suoi innumerevoli (*) Si tratta del testo della Laudatio letta dal prof. Luigi Stortoni in occasione del conferimento della laurea honoris causa al prof. Giuliano Vassalli da parte della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna, il 24 gennaio 2002.


— 272 — scritti come dalla sua viva voce nei tanti interventi seminariali e congressuali. 2. All’impegno universitario, il prof. Giuliano Vassalli ha sempre unito quello nella società civile: egli, formatosi in tempi di tecnicismo giuridico dominante, pur recependone il rigore scientifico, non ne ha mai sopportato gli angusti arroccamenti imposti al giurista. Coerentemente schierato in difesa di ideali di libertà, tolleranza, senso dello Stato e del diritto ‘‘giusto’’, egli è stato partigiano militante dal settembre 1943, sostituendo Sandro Pertini (allora detenuto) dall’ottobre 1943 al gennaio 1944 nella giunta militare del Comitato di liberazione nazionale. Fu decorato di medaglia d’argento al valore militare e di croce di guerra. Deputato nel 1968, Senatore della Repubblica dal 1983 al 1987, divenne Ministro di grazia e giustizia dal 1987 al 1991. A lui, come è noto, si deve il più significativo ed importante sforzo di riforma del sistema penale del dopoguerra: in primo luogo il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989 ed il progetto di legge delega per un nuovo codice penale del 1991 redatto dalla Commissione presieduta dal prof. Pagliaro della quale fece parte anche il nostro compianto Maestro prof. Franco Bricola. Nel 1991 è stato nominato giudice costituzionale dal Presidente della Repubblica, e della Consulta è stato Vicepresidente e di poi Presidente. In tutti questi prestigiosissimi incarichi egli ha profuso il suo impegno portando a un impareggiabile contributo di alto ingegno e dirittura morale assoluta. 3. L’attività accademica e scientifica del prof. Giuliano Vassalli non è facilmente sintetizzabile: essa si snoda costante ed egualmente significativa per 60 anni a livello nazionale ed internazionale. Già esponente della Commissione Internazionale Penale e Penitenziaria dal 1946 e, quindi, della Sezione di difesa sociale dell’ONU, è stato dal 1950 al 1954 esperto dell’ONU per i problemi relativi alla criminalità. È Vicepresidente dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale dal 1979 ed è Presidente onorario del Gruppo italiano della stessa. È componente del Consiglio direttivo della Fondazione internazionale penale e penitenziaria della quale è Vicepresidente dal 1980. Dal 1956 ha diretto ininterrottamente (con Giacomo Delitala fino al 1972) la sezione Diritto penale dell’ ‘‘Enciclopedia del Diritto’’. È stato, per lunghi anni, membro del Consiglio e, altresì, Vicepresidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Dirige e fa parte dei comitati scientifici di varie riviste giuridiche tra


— 273 — le quali La giustizia penale e La rivista italiana di diritto e procedura penale. La sua opera spazia nei più diversi settori del diritto penale sostanziale, della procedura penale, del diritto penitenziario, della politica criminale e della criminologia stessa. Tanta vastità di temi è il segno di uno studioso sensibile agli stimoli provenienti dal complesso delle discipline penalistiche, aperto alle più diverse sollecitazioni, costantemente mosso da una curiosità che gli consente di dischiudere nuovi campi di indagine e di svelare nuove prospettive. Sol che si scorrano gli indici dei quattro volumi, di oltre 4000 pagine, nei quali, per i tipi di Giuffrè, sono di recente stati raccolti gli scritti del prof. Vassalli, si percepisce la dimensione, la ricchezza e la profondità della sua opera: dagli studi sui temi della legge penale e della sua interpretazione — nei quali, fin da giovanissimo, egli tocca le questioni di fondo del diritto penale quali le fonti e l’attuazione (Nullum crimine sine lege, in Nuovo Digesto italiano, 1939 e Leggi penali eccezionali e divieto di analogia, in Rass. di giur. it., 1944, tema anche oggetto di un’opera monografica e su cui tornerà nel 1987 con la voce Analogia e diritto penale, nel Digesto delle discipline penalistiche) — a quelli dedicati al reato ed alla responsabilità penale, che affrontano i nodi dommatici e teorici della dottrina del reato, offrendo analisi rigorose e prospettando soluzioni sicure quanto sovente originali. Scritti che si dipanano costanti nel corso degli anni, segno della continuità della ricerca dell’Autore; (basterà, tra i tanti, rammentare Cause di non punibilità, in Enc. del diritto, 1960, Le norme penali a più fattispecie, in Studi in onore di F. Antolisei, 1965; Concorso tra circostanze eterogenee e ‘‘reati aggravati dall’evento’’, in questa Rivista, 1975; Il fatto negli elementi del reato, in questa Rivista, 1984; La dottrina italiana dell’antigiuridicità, in Festschrift für H.-H. Jescheck zum 70. Geburtstag, 1985; L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., 1988; I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivista, 1991). Non meno significativi i numerosi scritti di parte speciale dedicati ai più svariati settori del diritto penale sia codicistico che extracodice; e che riguardano, a volte, fattispecie mai o quasi mai indagate in precedenza. Così, accanto a studi aventi ad oggetto l’omicidio, il peculato, la corruzione e tanti altri reati, comparivano, in anni oramai lontani, studi di diritto penale commerciale e, più in generale, dell’economia, che fanno dell’A. un antesignano di queste branche del jure penale: La tutela penale del credito (1938); L’art. 92 della legge bancaria (1952); Appunti sulla tutela penale dei luoghi di lavoro (1954). Un capitolo a parte credo meritino gli studi dedicati al delitto poli-


— 274 — tico, ai reati di opinione ed al diritto penale del tempo di guerra (La punizione dei criminali di guerra, in Idea, 1945; Bilancio di Norimberga, in Mondo Europeo, 1946; Collaborazionismo e crimine di guerra, in Giust. pen., 1966; Manifestazioni di ‘‘giurisprudenza libera’’ in materia politica, in Giust. pen., 1949; Intorno al carattere retroattivo delle norme incriminatrici del collaborazionismo, in Giur. cost., 1956). Una comune ispirazione ed una stessa ansia li accomuna: il rapporto tra diritto e giustizia; sommo problema che Giuliano Vassalli mai sfugge ed a cui tornerà di continuo. Si è qui parlato degli scritti così — e mai tanto impropriamente — detti minori perché, come anche chi parla sa bene, è ad essi che ogni studioso — giovane o meno giovane — può costantemente riandare per attingervi una serie di sollecitazioni che, ad onta del tempo, sempre nuove essi sprigionano. Ma non v’è dubbio che affidate alla storia della dottrina penale, e da annoverarsi tra i classici con cui ogni penalista deve formarsi e confrontarsi, restano le monografie del Maestro che oggi festeggiamo. Tra esse ed in primis quelle a cavallo tra la fine degli anni trenta e i quaranta con le quali l’allora giovanissimo studioso affronta, per così dire, i fondamenti e limiti del diritto penale. Così in Limiti del divieto di analogia in materia penale (1942) (che fa di poco seguito alla già citata voce Nullum crimine sine lege), si indagano le barriere di garanzia poste a presidio della libertà del cittadino rispetto alla creazione ed all’applicazione delle norme incriminatrici, verificandone irrinunciabilità e limiti di resistenza. Con La potestà punitiva (1949) — la maggiore forse delle sue opere per profondità di indagine, per respiro culturale, per rigore dommatico e capacità di ricostruzione concettuale — ci si cala, per così dire, nel cuore del diritto penale per indagare l’essenza del rapporto stato-cittadino che esso suppone e definisce al tempo stesso. Se pure l’opera del prof. Vassalli si arricchisce negli anni di contributi sempre di alto valore, è tuttavia da quei temi di fondo — crediamo di poter dire — che il pensiero e l’indagine del prof. Giuliano Vassalli restano costantemente attratti, laddove il diritto penale lambisce la filosofia e lascia trasparire i nessi che lo legano alle istituzioni ed alla politica. Segno di una personalità complessa e poliedrica in cui il rigore scientifico non si appaga in sé stesso, ma viene vissuto quale mezzo, pur se insostituibile, di indagine e conoscenza della realtà umana e sociale. Il rapporto, quindi, tra diritto e giustizia, laddove i due concetti paiono esprimere valori confliggenti, quando situazioni storico-politico li pongono in antitesi, quando esigenza di certezza e ragioni di giustizia tendono a porli tra loro in contrasto: questo il nodo. Il tema del ‘‘diritto ingiusto’’, insomma, che apre nella coscienza del giurista impegnato nella società civile una crisi che egli non può e non deve sfuggire.


— 275 — Ed è qui che l’insegnamento di Giuliano Vassalli diviene lezione etica ininterrotta. Frutto di riflessione e di non sopito tormento è, non a caso, la più recente sua opera dedicata proprio a queste tematiche: il volume ‘‘Formula di Radbruch e diritto penale (note sulla punizione dei ‘delitti di Stato’ nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista)’’ uscito nel 2001. In esso si ripercorre criticamente il travaglio della dottrina e della giurisprudenza tedesche che all’indomani del Nazismo — e di nuovo dopo la riunificazione — si trovarono di fronte al dilemma del valore da attribuire al diritto — anche penale — del vecchio regime tantopiù rispetto a comportamenti ‘‘criminali’’ che, perpetrati nella sua vigenza, da esso erano legittimati. Vassalli affronta il tema con rigore e coraggio muovendo dall’analisi della situazione determinatasi in Germania in quei periodi per poi liberarlo dalla contingenza storica ed universalizzarlo, onde saggiare la possibilità di trarne conclusioni generali e valide in ogni tempo. La mancanza di riferimenti normativi espliciti indusse, infatti, a sciogliere il nodo con soluzioni ispirate alla proposizione radbruchiana secondo cui, nel conflitto tra giustizia e certezza del diritto, il diritto positivo prevale fino al limite dell’ingiustizia ‘‘intollerabile’’, nel qual caso il ‘‘diritto ingiusto’’ deve cedere alla giustizia. Vassalli rileva che in tal modo si tentava ‘‘di mantenere in piedi, fino all’estremo limite possibile, la validità del diritto positivo, ma riconoscendo il valore superiore del diritto naturale sia pure nei soli casi di ingiustizia estrema ed intollerabile’’. L’affermazione del valore etico non basta, però, a celare i pericoli per la certezza del diritto che esso comporta e le insidie di una retroattività per altro imprevedibile in quanto affidata alla giurisprudenza anziché predeterminata normativamente. Di ciò è ben cosciente l’A. che percepisce il problema nei suoi termini complessivi: di qui la ricerca faticosa di un possibile equilibrio tra le opposte spinte; equilibrio che sia, però, codificato in norme certe che — laddove non possano non essere retroattive, perché volte ad eliminare norme ingiuste attinenti ed inaccettabili cause di giustificazione o alla carenza di adeguata punizione di fatti moralmente intollerabili — tengano, tuttavia, conto dei diritti fondamentali dell’uomo. Scelta non facile e di cui l’A. non pretende l’assolutezza ma che fa di questo libro un messaggio di salutare inquietudine, di grande onestà intellettuale e di altissimo livello etico. Tutt’altro che ‘‘lavoro di amanuense, o poco più compiuto da un vecchissimo, ancora malinconico amante di diritto penale e di giustizia’’ da giudicare con benevola tolleranza — come egli scrive nella prefazione — ma sollecitazione vigorosa e sferzante alle coscienze, sovente sopite e di-


— 276 — stratte, del nostro tempo; affinché non si dimentichino i nessi che debbono insondabilmente legare il diritto alla giustizia. Perché, quindi, ci si adoperi all’elaborazione di sistemi giuridici nazionali, internazionali e sovranazionali che soddisfino le esigenze di giustizia ed al tempo stesso di certezza di cui v’è necessità per non ritrovarsi, come egli scrive a conclusione del libro, ‘‘soli, senza sostegno adeguato nel diritto e avere ancora bisogno d’un orientamento di giustizia che nasca dalla nostra coscienza’’. 4. Tanta ricchezza culturale, scientifica, politica ed umana fa sicuramente di Giuliano Vassalli una delle figure più significative tra i penalisti viventi e lo fa annoverare tra i Maestri del secolo appena trascorso. Più che mai propria, quindi, la laurea ad honorem che l’Alma Mater Studiorum oggi gli conferisce. Bologna, 24 gennaio 2002

LUIGI STORTONI Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna


GIULIANO VASSALLI VISTO DALLA GERMANIA (*)

Caro amico Giuliano Vassalli, Magnifico Rettore, Signor Preside, Illustri membri della Facoltà, Cari colleghe e colleghi, Signore e signori, Invitato dalla Facoltà, che oggi La onora, e come Suo amico da molti anni, desidero congratularmi di cuore con Lei per l’alto riconoscimento, che Ella oggi riceve. La laurea honoris causa di una delle più antiche Facoltà d’Europa ha lo stesso rango di questa medesima Facoltà e significa che anche colui che la riceve gode di tale rango nella comunità scientifica e come tale viene riconosciuto. Essere presente a questa solenne cerimonia e poter persino prendere la parola è un onore anche per me e rappresenta nel contempo un segno dell’amicizia della Facoltà di Bologna nei confronti miei e del Max-PlanckInstitut di Friburgo. Il mio ringraziamento per questo invito rivolto a mia moglie e a me deriva dal sentimento di un cordiale legame esistente da molti anni con i colleghi di Bologna della Scuola del caro amico prematuramente scomparso Franco Bricola. Desidero utilizzare la libertà che mi è stata concessa, di poter parlare oggi in questa riunione, per illustrare molto sinteticamente ciò che noi in Germania conosciamo ed abbiamo appreso di Lei e del Suo lavoro, e ciò che per me personalmente significa la Sua amicizia. Noi abbiamo quasi la stessa età ed abbiamo ricevuto nella nostra giovinezza la stessa formazione giuridica, Ella guidata dall’esempio di Suo padre e dai Suoi famosi Maestri Arturo Rocco e Giacomo Delitala a Roma, io come allievo di Eduard Kern, Erik Wolf e Wilhelm Gallas a Friburgo e a Tubinga. Ma quando Ella, ancora giovanissimo, divenne a sua volta professore universitario nella nostra materia, la dogmatica penalistica classica non poteva più esserLe sufficiente. Sotto l’impressione dei radicali cambiamenti, che dalla metà del secolo scorso sono intervenuti nello Stato, nella società e nella comunità degli Stati, Ella ha ben presto ampliato il consueto ambito della scienza del diritto penale in tre direzioni: la comparazione giuridica, la criminologia e il nuovo diritto penale (*) Si tratta del testo della ‘‘relazione’’ letta dall’Autore in occasione del conferimento della laurea honoris causa al prof. Giuliano Vassalli da parte della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna, il 24 gennaio 2002. Traduzione, approvata dall’Autore, del prof. Luigi Foffani (Università di Modena e Reggio Emilia).


— 278 — internazionale. Questa evoluzione si è verificata anche in Germania. Ne è esempio il criterio di specializzazione dell’Istituto di Friburgo: accanto al diritto penale e processuale penale comparato, abbiamo previsto infatti la criminologia, come necessaria integrazione empirica di entrambe le scienze normative, nonché il diritto penale internazionale, inteso come una via per la tutela dell’ordinamento giuridico inter-europeo ed internazionale. Del Suo lavoro in questi tre campi, e dei Suoi legami con la Germania che da ciò sono scaturiti, desidero qui parlare. Le Sue trattazioni sui concetti fondamentali della parte generale del diritto penale — principio di legalità, analogia, fatto, offensività, colpevolezza — già racchiudono una grande quantità di indicazioni sul diritto e sulla letteratura di altri paesi. In particolare, nel Suo contributo agli scritti a me dedicati, Ella ha posto in risalto l’autonomo concetto dell’ ‘‘antigiuridicità’’ come un risultato della comparazione con la teoria tedesca ed ha mostrato come tale concetto sia significativo anche per l’Italia come fondamento del sistema. Si ricava dai Suoi lavori l’impressione che, attraverso la comparazione, si potrà nuovamente sviluppare in Europa una comune visione nella dottrina penalistica, quale è esistita nello ‘‘Jus commune europaeum’’ prima dell’epoca delle grandi codificazioni. Ella stessa deve aver ben presto provato l’impressione di una nuova comunità spirituale nel diritto penale degli Stati europei, poiché già nel 1961 Ella, accompagnato dalla Sua gentilissima consorte, ha partecipato su mio invito al Congresso di Diritto comparato di Trier, ed ha tenuto, fianco a fianco con Max Grünhut, Gerhard Simson e Hellmuth v. Weber, la Sua bellissima relazione sulla ‘‘Tutela penale della sfera della personalità nell’epoca della tecnica’’, che Johanna Bosch, nella sua qualità di assistente per l’Italia in Istituto, aveva diligentemente tradotto. A Trier, l’antica città imperiale Augusta Treverorum, con le sue grandiose vestigia romane, ci ha unito anche il comune interesse per la storia e si è fondato un legame personale. Un frutto immediato della comparazione giuridica è stata la nuova, e largamente comune, disciplina dell’errore di diritto in molti paesi europei. Su questo tema ci siamo entrambi quasi contemporaneamente pronunciati, nel 1988, Ella in un articolo sulla ‘‘Inevitabilità dell’ignoranza della legge penale’’, io in questa sede, nel mio discorso per il nono centenario dell’Alma Mater Studiorum Bononia, nel quale solo in una postilla dell’ultimo minuto ebbi la possibilità di introdurre la decisione della Corte costituzionale, allora ancora inedita, sull’art. 5 del codice penale, che mi era stata urgentemente inviata da Bari da parte del suo autore, il compianto professor Renato Dell’Andro. Il significato della criminologia per il moderno diritto penale era stato da Lei già trattato sulla base della grande tradizione italiana in questa materia — ‘‘Criminologia e giustizia penale’’ (1959), ‘‘La bibliografia


— 279 — criminologica italiana’’ (1965) e ‘‘Politica criminale e criminologia’’ (1987) —, quando ci incontrammo nuovamente a Pisa nel 1988. Ella aprì allora, nella Sua veste di Ministro della giustizia, la terza sezione del Convegno su ‘‘Francesco Carrara nel primo centenario della morte’’ e lodò in quell’occasione l’Istituto di Friburgo, come centro europeo di ricerca e di formazione, proprio dal punto di vista del nuovo legame fra diritto penale e criminologia. Per me fu un momento di ispirazione, dal quale trassi il convincimento che il vecchio e il nuovo nella nostra scienza debbano andare di pari passo, in quanto che, appena il giorno prima, nell’apertura della seconda sezione del Convegno a Lucca, avevo parlato di Carrara come del fondatore della costruzione classica (bipartita) del reato in Italia. Il diritto penale internazionale, il mio terzo punto, ci aveva unito già da molto tempo, senza che noi allora potessimo sapere nulla l’uno dell’altro. Quando Ella, nel gennaio 1946, tenne a Genova la Sua prolusione sul tema ‘‘Il processo di Norimberga’’, io ero prigioniero di guerra in Francia. Per un’occasione fortunata ebbi tuttavia la possibilità di dedicarmi allo stesso tema. Mi venne assegnato infatti dal comando del campo di prigionia, nel quale io mi trovavo, l’incarico di redigere settimanalmente una rassegna stampa per i miei commilitoni ed a questo scopo ricevevo regolarmente i grandi giornali francesi. Attraverso questi ebbi la possibilità di seguire il principale processo di Norimberga fino alla sentenza del 1o ottobre 1946. Scosso dagli avvenimenti e commosso dalla sentenza, mi riproposi, dopo il ritorno in patria, di analizzare scientificamente il fondamento giuridico del processo. Da ciò è nato il mio lavoro di abilitazione dal titolo ‘‘Die Verantwortlichkeit der Staatsorgane nach Völkerstrafrecht’’ (1952), un precursore dei suoi studi su ‘‘La giustizia internazionale penale’’ (1995). Più tardi, nell’ambito dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, abbiamo svolto entrambi per molti anni, in diverse posizioni, un’opera di promozione per la grande idea di un diritto penale internazionale contro i crimini di guerra, il genocidio ed i crimini contro l’umanità, così come per la creazione di una Corte penale internazionale, certo con alcune riserve, ma con costante fedeltà per il grande obiettivo. Nel 1979 Ella ha anche partecipato al XII Congresso Internazionale di Diritto Penale, organizzato ad Amburgo dal gruppo nazionale tedesco dell’AIDP. Venti anni più tardi, e un mezzo secolo dopo Norimberga, entrambi tali obiettivi — il diritto penale internazionale sostanziale e la Corte penale internazionale — sono stati accolti dalla grande maggioranza della comunità degli Stati nello Statuto di Roma del 17 luglio 1998. Ora, dopo l’intervento di 47 delle necessarie 60 ratifiche dello Statuto, possiamo davvero sperare che il Tribunale penale internazionale veda presto la luce e che il diritto penale internazionale divenga diritto vigente. Con un’ultima osservazione sul Suo lavoro in campo sopranazionale e sulla sua importanza per la Germania desidero ricordare la Sua presa di


— 280 — posizione dell’anno passato sui rapporti del diritto delle tirannie politiche con il diritto internazionale e con la tutela sovranazionale dei diritti dell’uomo. Si tratta di un problema in ultima analisi insolubile, ovvero, per meglio dire, di un problema che impone di scegliere fra validità del diritto e giustizia. Sulla questione della punibilità della criminalità di Stato, che si è riproposta costantemente da Norimberga in poi, il Suo libro pubblicato nel 2001, sotto il titolo ‘‘Formula di Radbruch e diritto penale’’, ha acquisito per la Germania una straordinaria attualità. Radbruch è stato un penalista e filosofo del diritto di grandissima fama. Dopo aver egli stesso vissuto la persecuzione politica nel Terzo Reich, ha pronunciato nel 1946, con riferimento ai crimini del nazismo commessi dallo Stato e coperti dalla legge, una fondamentale frase: ‘‘La contraddizione fra il diritto positivo e la giustizia può raggiungere proporzioni talmente intollerabili, da far sì che la legge, in quanto ‘diritto ingiusto’, debba piegarsi alla giustizia’’. Questa frase, conosciuta come ‘‘formula di Radbruch’’, ha avuto per due volte, nella nostra storia recente, un essenziale significato pratico: una prima volta in occasione della punizione dei crimini del regime nazista dopo il 1945, una seconda volta in occasione della punizione dei crimini di Stato della DDR dopo la riunificazione nel 1990. Ultimamente il problema della validità o nullità di un diritto ingiusto ha vissuto in Germania il suo momento più acuto in occasione del giudizio su casi gravidi di tragedia, i cosiddetti ‘‘Mauerschützenfälle’’. Si trattava dell’impedimento della fuga dei cittadini della DDR al di là del muro, dal proprio territorio statale verso la Repubblica federale: impedimento attuato tramite colpi d’arma da fuoco mirati da parte dei militari di frontiera della DDR, i quali agivano in forza della legge sulle frontiere e degli ordini emanati sulla base di questa. Dopo la riunificazione il Bundesgerichtshof ha condannato gli autori di tali fatti per omicidio, ma, in considerazione dell’ordine militare che a questi era stato impartito, ha pronunciato soltanto sentenze di condanna con sospensione condizionale della pena, mentre i membri del Consiglio di difesa della DDR (Krenz, successore di Honecker, e altri), responsabili della disciplina della frontiera, sono stati condannati come autori mediati ad elevate pene detentive. Ha trovato applicazione a tal fine il codice penale vigente nella DDR al momento del fatto. La disciplina della frontiera della DDR, insieme agli ordini che su questa avevano trovato fondamento, non sono stati riconosciuti come causa di giustificazione, proprio per il manifesto e intollerabile contrasto con elementari principi di giustizia, attraverso il richiamo della formula di Radbruch. Una violazione del divieto di retroattività, di cui all’art. 103, comma 2, della Costituzione tedesca, è stato escluso da parte del Bundesgerichtshof, in quanto è stato applicato direttamente il codice penale vigente al momento del fatto, che rimaneva applicabile —


— 281 — secondo l’opinione della Corte — dopo la dichiarazione di nullità della causa di giustificazione. La Corte costituzionale federale e la Corte europea per i diritti dell’uomo hanno condiviso questa decisione. La disputa sull’applicabilità del codice penale della DDR da parte del Bundesgerichtshof nei confronti di questi casi non è mai cessata in Germania. L’opinione contraria ritiene che, per il problema della retroattività, si debba fare riferimento alla situazione giuridica al momento del fatto nella sua totalità, che ne determinava allora la non punibilità. Tale situazione giuridica — secondo i sostenitori di questa tesi — non potrebbe modificarsi attraverso il riconoscimento a posteriori della nullità di una causa di giustificazione. Ella stessa tende nel Suo libro al medesimo risultato. I colpi mortali sparati in prossimità del muro sarebbero stati ‘‘intollerabilmente ingiusti, ma non punibili’’. Qui la formula di Radbruch troverebbe i suoi limiti. Se la conseguente non punibilità dei più gravi crimini di Stato non è moralmente accettabile per il successivo regime, la punibilità di tali fatti dovrebbe essere apertamente dichiarata da una legge retroattiva ed essere stabilita con i limiti e con le garanzie necessari in uno Stato di diritto. Questo è il punto nel quale oggi ci troviamo in Germania nel giudizio su questo problema. Entrambe le opinioni hanno dalla loro parte buone ragioni. Il Suo grande merito, caro amico, è quello di non aver avuto timore di dichiarare la rilevante e straordinaria conseguenza della Sua tesi: o lasciare l’intollerabile impunito o una legge penale retroattiva. Certo, le parole che ho pronunciato in questa cerimonia sulla Sua vita e sul Suo lavoro, dal punto di vista tedesco e sulla base di un legame personale, rappresentano solo una piccola parte del tutto: esse indicano tuttavia in quali punti Ella ha aperto nuove prospettive alla scienza penale e mostrano che, nel conflitto fra validità del diritto e giustizia, Ella ha fermamente giudicato secondo le Sue convinzioni e ne ha accettato le ardue conseguenze. A tutto ciò non potrebbe essere reso maggior onore, che attraverso la laurea honoris causa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Grazie della Loro attenzione. HANS-HEINRICH JESCHECK Freiburg im Breisgau


NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO

TENTATIVO E COMPARTECIPAZIONE CRIMINOSA NELLA PIÙ RECENTE DOTTRINA DI LINGUA TEDESCA UNA LETTURA SISTEMATICA DEI SAGGI CONTENUTI NELLA FESTSCHRIFT FÜR CLAUS ROXIN (*)

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Il fondamento dell’incriminazione del tentativo nel sistema penale tedesco: il ruolo della ‘‘rappresentazione del fatto’’ nella struttura del § 22 StGB. — 3. Tentativo e diritto penale del fatto: il problema della punibilità del c.d. untaugliche Versuch. — 4. Segue: le sorprendenti vicende del tentativo inidoneo nella legislazione penale spagnola: una breve disamina sulla configurazione del tentativo nel Código penal del 1995. — 5. Tentativo punibile e mittelbare Täterschaft: ancora una ipotesi di ‘‘combinazione’’ tra tentativo e partecipazione. — 6. La compartecipazione criminosa nei più recenti orientamenti del legislatore tedesco: l’occulto potere della concezione unitaria d’autore. — 7. La nuova disciplina del concorso di persone nel reato secondo il Código penal del 1995. Forme della partecipazione e principio di frammentarietà nel sistema penale spagnolo: la coraggiosa scelta della selezione delle condotte punibili nei reati commessi per mezzo della stampa. — 8. Segue: b) correità e dominio del fatto nella configurazione della dottrina spagnola: l’agevole riconduzione nella correità dei casi di esecuzione frazionata della condotta delittuosa. — 9. Segue: c) dominio del fatto e compartecipazione criminosa nel delitto colposo: la rivalutazione di una fattispecie ‘‘scomoda’’ ed i corposi dubbi sull’opportunità dell’auspicata abrogazione della clausola generale sul concorso colposo nel codice penale italiano. — 10. La partecipazione mediante omissione: ‘‘fianco scoperto’’ della dogmatica penalistica moderna? 1. La recente pubblicazione della Festschrift für Claus Roxin rappresenta un importante momento di riflessione e di discussione su temi essenziali del diritto penale. L’ampiezza dell’opera è tale da impedire al lettore di qualificarla semplicemente come una pur autorevolissima raccolta di scritti sul sistema penale tedesco. Essa può essere, piuttosto, definita come una preziosa testimonianza in lingua tedesca sullo stato attuale della dottrina e della legislazione penale europea, che abbraccia contributi di studiosi delle più varie nazionalità e delle più diverse esperienze. Eccessivamente gravoso e scarsamente utile è, pertanto, procedere ad una ricognizione critica dell’intera opera, che si tradurrebbe in un immane quanto incongruo sforzo di sintesi di temi riguardanti la parte generale e speciale del diritto penale. Si è, per questo motivo, preferito concentrare l’attenzione sui numerosi saggi, di Autori prevalentemente — ma non solo — tedeschi e spagnoli, relativi al tentativo ed al concorso di persone nel reato (1): temi (*) Festschrift für Claus Roxin zum 70. Geburtstag am 15. Mai 2001, a cura di B. SCHÜNEMANN, H. ACHENBACH, W. BOTTKE, B. HAFFKE, H.J. RUDOLPHI, Berlin-New York, 2001. (1) Cfr., in particolare, i contributi di H. OTTO, Mittelbare Täterschaft und Verbotsirrtum, 483 e ss.; J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme im neuen spanischen Straf-


— 283 — di interesse primario per il sistema penale italiano, soprattutto nella ormai difficilmente differibile prospettiva de iure condendo sollecitata, da ultimo, dai lavori della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1 ottobre 1998 (2). Temi in rapporto ai quali, dunque, l’esperienza comparatistica potrà rappresentare un concreto e versatile banco di prova delle diverse soluzioni normative prospettabili. La clausola sul tentativo prevista dall’art. 56 del nostro codice penale costituisce in atto, nonostante le sue ambiguità, una norma cardine del diritto penale dell’evento. Il Progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale prevede ora, all’art. 41, che risponda di tentativo chi ‘‘intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti’’. Inevitabile, dunque, il raffronto comparatistico con il requisito della ‘‘immediatezza’’ degli atti di tentativo presente anche nell’attuale § 22 StGB e con i considerevoli problemi interpretativi cui esso ha dato luogo, sia pur in connessione con il discusso requisito della ‘‘rappresentazione del fatto’’ secondo l’agente (3). Particolarmente delicata, poi, è la questione della omnicomprensiva portata dell’art. 110 c.p. e delle sue possibili future configurazioni: per quanto la tecnica normativa della tipizzazione differenziata delle condotte concorsuali risulti di per sé più rispettosa del canone della sufficiente determinatezza, essa non viene ‘‘recuperata’’ con coraggio dal Progetto preliminare della c.d. Commissione Grosso, il quale — deludendo le aspettative di non pochi studiosi — opta per un modello di tipizzazione degli apporti criminosi ancora parzialmente legato al paradigma causale (4). Di grande interesse risulta, sotto questo profilo, la comparazione con la nuova disciplina della partecipazione criminosa prevista dal Código penal spagnolo del 1995. Essa offre una preziosa occasione per riflettere sui vantaggi della c.d. tipizzazione differenziata degli apporti criminosi e sul fondamento stesso dell’incriminazione del partecipe (5). L’indagine comparatistica consentirà, inoltre, di riconsiderare ancora una volta la ventilata opportunità — ribadita dall’ultima versione del Progetto preliminare — di espungere dalla parte generale gesetzbuch von 1995, 549 e ss.; K. VOLK, Tendenzen zur Einheitstäterschaft. Die verborgene Macht des Einheitstäterbegriff, 563 e ss.; D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, 575 e ss.; A. CHARALAMBAKIS, Zur Problematik der psychischen Beihilfe. Zugleich ein Beitrag über die Kausalität der Beihilfe, 625 e ss.; T. HILLENKAMP, Zur ‘‘Vorstellung von der Tat’’ im Tatbestand des Versuchs, 689 e ss.; H.J. HIRSCH, Untauglicher Versuch und Tatstrafrecht, 711 e ss.; S. MIR PUIG, Untauglicher Versuch und statistische Gefährlichkeit im neuen spanischen Strafgesetzbuch, 729 e ss.; R.D. HERZBERG, Der Versuch, die Straftat durch einen anderen zu begehen, 749 e ss.; K. YAMANAKA, Betrachtungen über den Strafbefreiundsgrund des Rücktritt vom Versuch, 773 e ss. (2) Articolato e relazione illustrativa della più recente versione del Progetto preliminare di riforma del codice penale (parte generale) sono ora pubblicati in questa Rivista, 2001, 574 e ss. (3) V. quanto sarà meglio detto infra, § 2. (4) Si riporta, per comodità del lettore, il testo del primo comma dell’art. 43 del citato Progetto preliminare nella sua più recente versione: (Concorso di persone nel reato). ‘‘Concorre nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza casualmente rilevanti per la sua realizzazione’’. Il riferimento esplicito alla necessaria rilevanza causale degli apporti criminosi era peraltro assente nella prima configurazione dell’articolato. Neanche nella sua ultima versione, la disciplina del concorso di persone nel reato prevista dal c.d. progetto Grosso pare immune dal timore dei vuoti di tutela prospettabili nell’eventualità di una radicale riformulazione della tecnica di tipizzazione degli apporti concorsuali. Obiettivo della Commissione, in base alla relazione illustrativa della più recente veste dell’articolato in esame, è infatti proprio quello di creare fattispecie concorsuali sufficientemente elastiche, tali da non rischiare di circoscrivere arbitrariamente l’area della punibilità. (5) Infra, § 7 e ss.


— 284 — del codice penale italiano ogni esplicito riferimento ad una partecipazione criminosa nel delitto colposo: scelta che potrebbe definirsi da un lato ambigua, posto che essa non determinerebbe certo il tramonto di questa peculiare forma di concorso (6), dall’altro addirittura in controtendenza rispetto alle legislazioni penali europee, pronte — come si vedrà — a rivalutare la figura del concorso colposo nella sua precipua dimensione dogmatica e politico-criminale anche in assenza di una clausola generale ad hoc (7). La Festschrift für Claus Roxin offre, infine, l’occasione per tornare sullo spinoso tema della partecipazione mediante omissione (8), acutamente definito da K. Volk ‘‘fianco scoperto’’ (offene Flanke) della dogmatica della partecipazione (9). Sotto questo particolare punto di vista, il Progetto preliminare appare addirittura all’avanguardia per l’accuratissima previsione di una serie di obblighi di impedimento dell’altrui fatto illecito (10), che vincolano la partecipazione mediante omissione a precisi presupposti normativi (11). Nell’ambito della disciplina del concorso di persone nel reato, il secondo comma dell’art. 44 del Progetto prevede peraltro una specifica circostanza attenuante per le condotte omissive di concorso nel reato commissivo doloso, sia pure al di fuori dei casi di previo accordo, con ciò tornando a postulare una generale rilevanza di tale forma di partecipazione (12). Si tratta di una fattispecie delittuosa da sempre in difetto di esplicita configurazione legislativa e, di conse(6) La stessa Relazione illustrativa al Progetto preliminare (cit., 613) sembra escludere con sufficiente chiarezza che l’eventuale abrogazione di una disposizione come l’art. 113 dell’attuale codice penale possa contestualmente determinare anche l’irrilevanza penale della fattispecie del concorso di persone nel delitto colposo. La punibilità, in tali casi, risulterebbe anzi ‘‘agevolmente dal combinato disposto della norma che prevede il concorso di persone e di quelle che prevedono i singoli reati colposi’’. (7) Infra, § 9. (8) I rapporti tra omissione e partecipazione criminosa sono — com’è noto — fondati sulla disinvolta quanto ambigua equiparazione tra l’evento non impedito ex art. 40 cpv. c.p. dal titolare dell’obbligo di garanzia ed il reato commesso dai compartecipi, indipendentemente dalla presenza o meno in esso di quell’evento in senso naturalistico altrimenti ritenuto presupposto indefettibile della responsabilità commissiva mediante omissione. Nell’impossibilità di dar qui conto della non comune complessità della materia trattata, pare opportuno il rinvio alla sola dottrina italiana più recente. Sul punto, v. L. BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in questa Rivista, 1997, 1339 e I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia ed obbligo di sorveglianza, Torino, 1999. Per una ricognizione della questione nell’ambito della dottrina italiana e tedesca, oltre che una più approfondita indagine bibliografica e giurisprudenziale, sia consentito il rinvio a L. RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Contributo ad una teoria delle clausole generali di incriminazione suppletiva, Milano, 2001, 375 e ss. (9) K. VOLK, Tendenzen zur Einheitstäterschaft, cit., 568. (10) Alla responsabilità per omesso impedimento dell’evento erano dedicate ben undici disposizioni, successivamente accorpate e ‘‘ridotte’’ a nove: si tratta degli artt. 16-24 dell’articolato, relativi rispettivamente alle posizioni di garanzia in generale, alla protezione di soggetti incapaci, all’attività terapeutica, all’attività di polizia o di controllo, alla protezione di persone o beni, al controllo su fonti di pericolo, agli adempimenti nell’ambito di organizzazioni complesse, alle posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse, e, infine, all’omesso impedimento di reati commessi per mezzo della stampa e della radio-televisione. V. l’attento contributo di F. GIUNTA, La responsabilità per omissione nel progetto preliminare di riforma del codice penale, in Studium Iuris, 2001, 401 e ss., per un puntuale commento alle disposizioni qui brevemente richiamate, sia pur in riferimento alla precedente versione dell’articolato. (11) Si pensi alla paradigmatica ipotesi prevista dall’art. 19 dell’ultima versione dell’articolato, che prevede per la prima volta uno specifico obbligo di garanzia gravante sull’appartenente alle forze di polizia: questi è tenuto ad impedire reati della cui programmazione o esecuzione abbia conoscenza. (12) Infra, § 10.


— 285 — guenza, di una sua definitiva ma certo non incondizionata legittimazione. Stupisce pertanto che Cerezo Mir giustifichi la mancata previsione della compartecipazione omissiva nell’altrui reato in seno al nuovo codice penale spagnolo in base al rilievo che la giurisprudenza spagnola ha da tempo tranquillamente ammesso la possibilità di una partecipazione mediante omissione nell’altrui reato, sebbene tale forma di partecipazione non trovasse esplicita menzione nemmeno nel vecchio codice penale (13). 2. Il saggio di T. Hillenkamp affronta l’impegnativo tema dell’interpretazione del requisito della ‘‘rappresentazione del fatto’’ all’interno della struttura del tentativo delineata dal § 22 StGB (14). Tale elemento riflette più di ogni altro il fondamento dogmatico e politico-criminale della punibilità del tentativo nel sistema penale tedesco: il delitto tentato è manifestazione di una volontà antidoverosa, sia essa idonea o inidonea a generare una reale esposizione a pericolo per il bene di riferimento finale. Da qui la punibilità di chi, ‘‘secondo la sua rappresentazione del fatto, agisce in via immediata per la realizzazione della fattispecie’’. Le conseguenze di tale impostazione sono note: carattere meramente facoltativo della diminuzione di pena prevista per il tentativo rispetto al delitto consumato e, soprattutto, punibilità di ogni specie di tentativo, con esclusione del solo Wahndelikt. Ad una prima impressione, sembra che la rappresentazione del fatto sia un elemento di natura squisitamente soggettiva, destinato a fungere da filtro per individuare le condotte esecutive del reato nella prospettiva del piano delittuoso dell’agente e, conseguentemente, da discrimen tra atti preparatori ed atti propriamente esecutivi. Non appare chiaro, invece, il peso complessivo di questo elemento nella struttura del § 22 secondo la dottrina e, soprattutto, il rapporto intercorrente tra la ‘‘rappresentazione del fatto’’ e l’accingersi in via immediata a realizzare la fattispecie delittuosa. Secondo Hillenkamp, la definizione concettuale di ‘‘rappresentazione del fatto’’ si rivela quanto meno ambigua: a volte essa viene equiparata al dolo, spesso viene identificata con la risoluzione criminosa, e forse ancora più spesso viene descritta come qualcosa di diverso o addirittura di ultroneo rispetto al dolo ed al piano criminoso dell’autore (15). Non si tratta, com’è evidente, di un problema meramente teorico: identificare tout court la rappresentazione del fatto col piano delittuoso dell’agente significa anticipare la soglia dell’attività punibile a condotte ancora remotamente pericolose, come l’appostamento e l’attesa, purché valutate come parti essenziali del progetto criminoso complessivo. La questione è resa poi ancora più insidiosa dall’assenza, all’interno del § 22 StGB, di un elemento strutturale di tipo oggettivo in grado di individuare e di selezionare le condotte potenzialmente lesive: l’immediatezza della realizzazione non può, infatti, rivendicare in alcun modo un ruolo decisivo nella qualificazione delle condotte esecutive, ben potendo attagliarsi anche alla struttura del tentativo inidoneo (16). Decisiva nell’individuazione del ruolo della ‘‘rappresentazione del fatto’’ nel contesto del § 22 StGB è la giurisprudenza del BGH (17): nella prassi, la ‘‘rappresentazione’’ si è trasformata in un concetto composito, in cui domina il ‘‘piano delittuoso’’, ma entro il quale gravitano anche concetti come quello di ‘‘opinione’’, ‘‘volontà’’ e ‘‘dolo’’. L’interpretazione (13)

J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 557. Sul punto, v. meglio infra,

§ 10. (14) T. HILLENKAMP, Zur ‘‘Vorstellung von der Tat’’, cit., 689 e ss. (15) T. HILLENKAMP, loc. ult. cit. A complicare la questione della definizione del ruolo della ‘‘rappresentazione del fatto’’ concorre la consuetudine, frequente in giurisprudenza, di utilizzare come sinonimi ‘‘piano delittuoso’’ e ‘‘rappresentazione’’. In ogni caso, un’eventuale sovrapposizione tra i due concetti non escluderebbe che la rappresentazione possa rivendicare, in casi particolari, una sua autonoma funzione, distinta dal piano delittuoso e dal dolo del fatto. (16) Infra, § 3. (17) Per una rapida ricognizione delle più importanti pronunzie in materia, cfr. T. HILLENKAMP, op. cit., 690 e ss.


— 286 — più accreditata pone in stretta connessione i due requisiti della ‘‘rappresentazione’’ e della ‘‘immediatezza’’: presupposto necessario e sufficiente per la punibilità del tentativo è che l’agente si sia rappresentato, dal suo punto di vista, un concreto pericolo per il bene giuridico a seguito dell’inizio dell’esecuzione del piano delittuoso. Irrilevante appare, sotto questo peculiare angolo prospettico, l’esistenza di un effettivo pericolo concreto per il bene giuridico: il dato della rappresentazione assorbe e supera la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, a vantaggio di una valutazione della pericolosità del piano criminoso secondo l’interpretazione stessa dell’esecutore. È chiaro, da quanto evidenziato nel saggio qui in esame, come il dato dell’immediatezza risulti quasi pleonastico: esso non rappresenta una sorta di invalicabile ‘‘sbarramento’’ tra condotte punibili e non punibili, ma solo la linea di confine tra le condotte ritenute esecutive — e perciò pericolose — dall’agente e quelle che quest’ultimo ha ritenuto meramente preparatorie o inoffensive (18). Emerge dunque con chiarezza l’eterogeneità di fondo tra il concetto di ‘‘immediatezza’’ di cui al § 22 StGB e quello ora presente nell’art. 41 del c.d. Progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale italiano (19). La Commissione Grosso, nell’intento di ‘‘adeguare la disciplina italiana all’orientamento prevalente nella disciplina europea del tentativo’’ (20), recupera il criterio dell’inizio dell’esecuzione del delitto già previsto dal codice Zanardelli, temperandolo con l’inclusione nel novero delle condotte punibili degli atti immediatamente antecedenti (21). Appare evidente come il concetto di immediatezza sia qui le(18) Secondo T. HILLENKAMP, Zur ‘‘Vorstellung von der Tat’’, cit., 700 e ss., bisognerebbe comunque opporsi all’interpretazione largamente seguita in giurisprudenza secondo cui la rappresentazione si identificherebbe ora col dolo, ora con la risoluzione delittuosa. Decisiva, a riguardo, si rivelerebbe la stessa evoluzione legislativa in materia: sia il § 29 E1913 che il § 26 dell’E62 menzionavano distintamente il dolo dell’autore e la sua rappresentazione del fatto. La rappresentazione dovrebbe dunque essere collocata non al posto del dolo, ma accanto ad esso, e sarebbe chiamata a svolgere un compito diverso dal dolo. Secondo l’Autore, la ‘‘rappresentazione’’ potrebbe addirittura essere inserita nel Tatbestand oggettivo del tentativo. Facile, d’altro canto, è replicare a siffatta impostazione come la rappresentazione, sia pur inserita in un ipotetico Tatbestand oggettivo, riveli al di là di ogni evidenza la sua natura squisitamente soggettiva e la sua difficile ‘‘autonomia’’ dal dolo e dal piano criminoso dell’agente. Conferma della natura soggettiva di tale elemento è, del resto, fornita dalla sua decisiva rilevanza per l’individuazione del tentativo punibile nella reità mediata: per Hillenkamp, nella mittelbare Täterschaft la rappresentazione non deve avere per oggetto il punto di vista dello strumento umano che esegue il delitto, ma quello dello Hintermann (cfr. 708 e ss. Sulla questione del tentativo nella reità mediata, v. meglio infra, § 5). (19) Si riporta, per comodità del lettore, il testo integrale dell’art. 41 del Progetto preliminare nella sua ultima versione: (Delitto tentato). - ‘‘Chi intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente esecutivi, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. 2. Il colpevole è punito con la pena prevista per il delitto commissivo diminuita da un terzo alla metà. 3. La punibilità per delitto tentato è esclusa quando, per l’inidoneità della condotta o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto’’. (20) Così la Relazione alle modificazioni al progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale approvate dalla Commissione Ministeriale per la Riforma del codice penale nella seduta del 26 maggio 2001, in questa Rivista, 2001, 656. (21) È bene sottolineare come la disciplina del tentativo sia rimasta sostanzialmente inalterata nell’ultima versione dell’articolato rispetto alla precedente. Riflettendo sull’opportunità, sollecitata dalle numerose discussioni sulla precedente versione dell’articolato, di apportare modifiche strutturali atte a delimitare con maggiore precisione i confini del tentativo punibile, la Commissione rileva che il problema del tentativo costituisce probabilmente una sorta di ‘‘quadratura del cerchio’’ e decide di non modificare la formulazione originaria dell’art. 41 (pur sottolineando che il nodo del tentativo costituisce uno dei profili del Progetto sicuramente aperti a possibili ulteriori contributi in grado di contemperare le contrapposte esigenze di tipizzazione e di sufficiente elasticità dell’inizio dell’attività punibile).


— 287 — gato ad un elemento di natura squisitamente oggettiva, quale appunto l’inizio dell’esecuzione, e che si riferisca come tale a condotte in grado di determinare una concreta esposizione a pericolo del bene di riferimento finale secondo un parametro che non si identifica affatto con la ‘‘rappresentazione’’ delittuosa. Nondimeno, anche nel contesto dell’art. 41 del Progetto l’indicazione dell’immediatezza si rivela, ad un’attenta analisi, tutt’altro che essenziale per l’individuazione della soglia iniziale dell’attività punibile. Il rischio, pure paventato dalla Commissione, che la formula del tentativo — quale che sia la sua effettiva configurazione — si risolva comunque in una specie di ‘‘quadratura del cerchio’’ (22) non esclude la necessità di integrare il requisito dell’inizio dell’esecuzione con elementi ulteriormente selettivi rispetto all’’’immediatezza’’, quali l’idoneità e la direzione non equivoca degli atti. A riguardo, proprio il requisito dell’idoneità lesiva della condotta potrebbe tornare a svolgere il ruolo che si vorrebbe affidare al generico dato dell’immediatezza: l’idoneità rappresenta un prius logico rispetto all’inizio dell’esecuzione, ma pone in diretta evidenza quelle porzioni di condotta suscettibili di progressione lesiva nella fase propriamente esecutiva (23). L’immediatezza non è ancora (e forse non è affatto) idoneità: il raffronto con il § 22 StGB rivela come l’ ‘‘immediatezza’’ nulla dica all’interprete sull’idoneità lesiva degli atti e, soprattutto, sulla loro direzione: ‘‘immediata’’ risulta, in base al terzo comma del § 23 StGB, anche la condotta che, per grossolana incomprensione, non abbia alcuna possibilità di giungere alla consumazione. Prova lampante della pericolosa versatilità dell’immediatezza come requisito strutturale del tentativo e della sua totale autonomia rispetto a qualsiasi valutazione di pericolosità degli atti compiuti è fornita, del resto, proprio dalle discussioni sorte nell’ambito del tentativo inidoneo. 3. Il tema del tentativo inidoneo rappresenta un nodo cruciale per la dogmatica penalistica tedesca e spagnola, come conferma la molteplicità dei contributi rinvenibili nella Festschrift oggetto di ricognizione (24). Nell’ambito dei contributi provenienti dalla dottrina tedesca, è H.J. Hirsch ad occuparsi del rapporto tra tentativo inidoneo e diritto penale del fatto (25). La tematica del tentativo inidoneo, nella dottrina d’oltralpe, sottende in realtà la complessa diatriba sul fondamento e sui limiti stessi dell’incriminazione del tentativo. La disposizione di cui al comma terzo del § 23 StGB, all’interno di un sistema che attribuisce un fondamento eminentemente soggettivo alla punibilità del tentativo, non esclude la rilevanza penale del fatto che, per grossolana incomprensione dell’autore, non poteva condurre in alcun caso alla consumazione: anche il tentativo inidoneo si rivela dunque, a latere subiecti, manifestazione di una volontà ostile al diritto in grado di suscitare per ciò solo allarme sociale. L’unica eccezione alla ordinaria punibilità (anche) del tentativo inidoneo è, per la dottrina e la giurisprudenza unanimi, rappresentata dal c.d. Wahndelikt o tentativo irreale: dal tentativo, cioè, realizzato con mezzi delittuosi che appaiono tali solo alla mente turbata dell’agente, quali preghiere, fatture o invocazioni. La non punibilità è giustificata, in questo caso, dall’assoluta divergenza tra le rappresentazioni — oggettivamente innocue — dell’agente ed i valori del contesto sociale di riferimento: essendo insuscettibile di provocare in alcun modo allarme nei consociati o di mettere in pericolo un bene giuridico, il fatto non è nemmeno astrattamente meritevole di pena. (22) Cfr. supra, note 20 e 21. (23) Per una rivalutazione del ruolo dell’idoneità all’interno della struttura del tentativo, anche in prospettiva de iure condendo, v. da ultimo l’attento contributo di I. GIACONA, Il concetto d’idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, 2000, passim. (24) V. più dettagliatamente infra, § 4. (25) H.J. HIRSCH, Untaugliche Versuch und Tatstrafrecht, cit., 711 e ss. L’A. concorda con la giurisprudenza sul fatto che l’immediatezza sia una nota saliente di tutte le specie di tentativo: cfr. 726.


— 288 — Ancora una volta, il requisito dell’ ‘‘immediatezza’’ si rivela come il dato più ambiguo all’interno della struttura del tentativo: in base alla giurisprudenza tedesca della Corte Suprema, per la configurazione della fattispecie tipica di tentativo inidoneo si ritiene sufficiente, come nei casi di tentativo idoneo, che taluno — dolosamente o comunque intenzionalmente — abbia organizzato la decisione delittuosa in modo da accingersi, in base alla sua rappresentazione del fatto, a realizzare in via immediata la fattispecie (26). L’immediatezza si riferisce qui alle sole valutazioni (inesatte) dell’autore, senza alcuna pretesa di delineare ove possibile un confine tra atti dotati di una sia pur astratta pericolosità e condotte di mera preparazione. Quale interpretazione fornire dunque, in base ai contributi sinora presi in considerazione, per questo requisito strutturale del tentativo? Esso si limita a denotare una continuità spazio-temporale tra piano delittuoso e condotte lato sensu esecutive, ma non è per sua natura idoneo a selezionare e a connotare in alcun modo le condotte di tentativo secondo una loro definita progressione offensiva. Sino ad oggi, la dottrina più sensibile si è posta il problema dell’opportunità di punire anche il tentativo inidoneo in rapporto al terreno del reato commissivo mediante omissione: se già appare ardua l’individuazione del momento iniziale dell’omissione punibile nei casi di tentativo idoneo di delitto commissivo mediante omissione, la determinazione dell’omissione inidonea punibile e l’opportunità stessa della sua sottoposizione a pena rappresentano un nodo cruciale persino laddove il disvalore dell’evento non sia considerato il cardine della struttura dell’illecito. Il tentativo inidoneo di delitto omissivo improprio è stato, di recente (27), qualificato come un’ipotesi di confine tra meritevolezza e bisogno di pena, caratterizzata da una volontà delittuosa non in grado, in alcun modo, di sfociare in una reale esposizione a pericolo del bene giuridico da proteggere. In tali ipotesi, il fatto si rivelerebbe privo di ogni materialità, e la soglia dell’incriminazione arretrerebbe sino alla mera Gesinnung del reo. Il dubbio che agita la dottrina è quello di trovarsi di fronte ad un fatto, per vari profili, penalmente irrilevante. Si tratta, in realtà, di una tematica che ricomprende al suo interno fenomeni assolutamente eterogenei (28) e che, in ogni caso, non è di per sé sola in grado di determinare (26) H.J. HIRSCH, loc.ult.cit. (27) H.J. HIRSCH, Untaugliche, cit., 726. L’Autore richiama, a riguardo, il saggio di K. MALITZ, Der untaugliche Versuch beim unechten Unterlassungsdelikt, Berlin, 1998. Sul tema, cfr. anche B. NIEPOTH, Der untaugliche Versuch beim unechten Unterlassungsdelikt, Frankfurt a.M., 1994. V., da ultimo, L. RISICATO, Combinazione e interferenza, cit.,176 e ss. (28) La dottrina più attenta (K. MALITZ, Der untaugliche Versuch beim unechten Unterlassungsdelikt, cit., 16 e ss.) riconduce alla tematica in esame ben tre distinti gruppi di casi di ‘‘grossolana incomprensione’’ rilevante ai sensi del § 23, terzo comma, StGB, così individuabili: a) supposizione erronea di una esposizione a pericolo del bene da proteggere; b) supposizione erronea della possibilità di impedire l’evento; c) supposizione erronea di circostanze che, se presenti, fonderebbero una posizione di garanzia. È però subito chiaro come le ipotesi sub a) e sub c) siano profondamente diverse, anche in rapporto alla loro reale qualificazione dogmatica, rispetto alla fattispecie sub b). L’erronea supposizione di una inesistente situazione di pericolo o dei presupposti di fatto di una Garantenstellung può infatti confluire a pieno titolo nella tematica del reato putativo, prima ancora che in un ipotetico tentativo inidoneo di reato omissivo improprio. In entrambi i casi l’omittente, per un errore di percezione, ritiene presente un elemento del fatto storico in realtà assente: nella fattispecie sub a), l’omittente, per un errore inverso sul fatto, si rappresenta una situazione di pericolo inesistente; in quella sub c) ritiene invece erroneamente di avere l’obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo. L’unica ipotesi di tentativo inidoneo è, con ogni probabilità, solo quella rappresentata sub b), in quanto affine alla formula linguistica del § 23, terzo comma, StGB e caratterizzata dalla presenza effettiva sia di una posi-


— 289 — nella dottrina tedesca un ripensamento sulla necessità di punire il tentativo anche in assenza di un pericolo concreto per il bene giuridico. Il tentativo inidoneo presuppone, nell’impostazione di Hirsch, che dal punto di vista dell’agente debba sussistere il rischio della realizzazione del reato: si tratterebbe, pertanto, di un fatto astrattamente meritevole di pena poiché espressione della pericolosità dell’autore. Su questa base, la punibilità del tentativo inidoneo si rivelerebbe per Hirsch ancora compatibile con un diritto penale del fatto. L’Autore non esclude comunque una futura possibile eliminazione del § 23 StGB ed un ritorno, anche per il sistema penale tedesco, ad un’accezione oggettiva del tentativo che si rifletta sui limiti della sua incriminazione (29). Valutazioni, queste, che sembrano non aver influenzato la dogmatica penalistica spagnola, alle prese con la singolare interpretazione del significato della ‘‘sparizione’’ della disciplina del tentativo inidoneo dal nuovo Código penal del 1995. 4. È S. Mir Puig ad illustrare le curiose vicende normative e dogmatiche del tentativo inidoneo all’interno del sistema penale spagnolo, ripercorrendo così la ratio ed i limiti dell’incriminazione del tentativo in base al nuovo codice penale del 1995 (30). Esaminando prima facie il nuovo art. 16, comma primo, del Código penal, pare proprio che il legislatore spagnolo abbia accolto a fondamento dell’incriminazione del tentativo la teoria oggettiva (31): si ha tentativo — secondo quanto recita tale disposizione — « quando il soggetto dà inizio all’esecuzione del delitto direttamente con fatti esteriori, realizzando in tutto o in parte gli atti che dovrebbero oggettivamente produrre l’evento e, ciononostante, esso non si verifica per cause indipendenti dalla volontà dell’agente ». Conferma di questa ‘‘impressione’’ è poi fornita sia dall’art. 62 Código penal, che sancisce l’obbligatorietà della diminuzione della pena per il tentativo rispetto a quella prevista per il delitto consumato (32), sia dall’assenza di ogni esplicito riferimento alla punibilità del c.d. tentativo inidoneo, già sancita dall’art. 52, comma secondo, del previgente codice penale, il quale irrogava la pena prevista per il tentativo c.d. incompiuto ai casi in cui l’esecuzione o la prosecuzione del reato fosse impossibile. Se questa interpretazione dovesse essere accolta, si potrebbe sostenere che l’irrilevanza penale del c.d. tentativo inidoneo rappresenti una delle più significative innovazioni del testo normativo del 1995. Eppure l’abrogazione della clausola incriminatrice sul tentativo inidoneo non avrebbe di per sé ancora escluso, secondo parte consistente della dottrina e della giurisprudenza (33), la perdurante punibilità del tentativo inidoneo: non risulterebbe chiara, infatti, la volontà del legislatore sul punto. Si afferma, anzi, che l’accoglimento di un’accezione oggettiva del tentativo non rappresenterebbe affatto un ostacolo insormontabile alla punibilità del tentativo inidoneo, salvo rare eccezioni. Il tentativo inidoneo, per Mir Puig, rappresenterebbe un fatto meritevole di pena perché portatore di una pericolosità astratta valutabile ex ante da parte di un osservatore avveduto, esattamente come nei reati di perizione di garanzia, sia di una situazione di pericolo, che l’agente ritiene erroneamente di poter neutralizzare. (29) H.J. HIRSCH, Untaugliche Versuch, cit., 726 e ss. (30) S. MIR PUIG, Untaugliche Versuch und statistische Gefährlichkeit im neuen spanischen Strafgesetzbuch, cit., 729 e ss. (31) Così, del resto, ribadisce lo stesso S. MIR PUIG, Derecho penal. Parte general, 5a ed., Barcelona, 1998, 329. (32) In base al disposto dell’art. 62 Código penal, ‘‘agli autori del tentativo di delitto si applica la pena inferiore di uno o due gradi rispetto a quella prevista dalla legge per il delitto consumato, nella misura ritenuta adeguata avendo riguardo alla pericolosità delle intenzioni ed al grado di esecuzione raggiunto’’. (33) Si registrano anche, in proposito, opinioni di segno diametralmente antitetico, come quella di Cerezo Mir in dottrina. In giurisprudenza, opta per l’avvenuta abrogazione della punibilità del tentativo inidoneo una sentenza del Tribunale di Saragozza del 24 maggio 1996: cfr. S. MIR PUIG, Untaugliche, 730 e ss.


— 290 — colo astratto. Sotto questo peculiare punto di vista, il tentativo idoneo sarebbe riconducibile allo schema dei reati di pericolo concreto e quello inidoneo ricalcherebbe proprio il paradigma dei reati di pericolo astratto. Beninteso, la necessità della valutazione, in base ad un giudizio ex ante, dell’esistenza di un astratto pericolo di lesione per il bene giuridico escluderebbe, anche in questo caso, la punibilità del c.d. tentativo irreale, vincolando l’interprete all’applicazione di una sanzione nelle ipotesi di inidoneità dell’azione o di inesistenza dell’oggetto rilevate ex post (34). L’intervento abrogativo del legislatore del 1995 avrebbe così escluso in radice la rilevanza penale del solo tentativo già ex ante inidoneo ad arrecare un’esposizione a pericolo per il bene protetto, ma lascerebbe intatta la punibilità di tutte le altre specie di tentativo (che sarebbero caratterizzate da una sorta di ‘‘pericolosità statistica’’): soluzione, questa, corroborata ancora una volta dall’assenza, nell’art. 16 del codice penale spagnolo, di qualsiasi riferimento all’idoneità della condotta esecutiva del delitto. Per riuscire a comprendere le ragioni di questa pervicace ‘‘affezione’’ nei confronti del tentativo inidoneo, a dispetto dell’intervento formalmente abrogativo del legislatore, occorre — sia pur in estrema sintesi — ripercorrere le vicende dogmatiche del tentativo inidoneo prima dell’entrata in vigore del nuovo Código penal. È quanto meno bizzarro, in apparenza, che la dottrina non riesca ad interpretare in modo univoco e coerente l’eliminazione di qualsiasi riferimento normativo espresso alla punibilità del tentativo inidoneo. Questo fenomeno dipende, in realtà, da un antico dibattito sul significato e sulla portata del previgente art. 52, comma secondo c.p. (35). Quando tale disposizione fu introdotta nel corpo del vecchio codice penale spagnolo, parte della dottrina le attribuì piena efficacia costitutiva di nuova ed autonoma incriminazione: in assenza dell’art. 52 comma secondo del previgente codice penale, il tentativo inidoneo sarebbe stato, di conseguenza, non punibile (36). Altri studiosi interpretarono invece il disposto dell’abrogato art. 52 comma secondo in tutt’altro senso: la disposizione in esame, lungi dal rivendicare (34) S. MIR PUIG, op. cit., 741 e ss. Secondo l’Autore, il concetto di pericolo sarebbe comune a tutte le forme di tentativo. Esso non implicherebbe la reale e concreta (empirica e non statistica) possibilità della causazione di una lesione, bensì solo l’apparenza ex ante di questa possibilità. Solo quando al pericolo segue la lesione viene ribadita la reale e concreta possibilità di siffatta lesione, poiché viene dimostrato che esistevano tutte le condizioni necessarie a far sì che il pericolo si trasformasse in danno effettivo. Ma quando la lesione si realizza, non può più parlarsi di mero pericolo. E se, viceversa, la lesione non viene cagionata, si può dire che è esistito solo il pericolo. In tal modo, il danno (lesione effettiva) si contrappone al pericolo (lesione potenziale). Se si accetta questa contrapposizione, deve giungersi alla conclusione che il pericolo in quanto tale non implica alcuna reale e concreta possibilità di lesione, ma presuppone anzi l’assenza della lesione e, conseguentemente, della reale e concreta possibilità di essa. Sotto questo angolo prospettico, non esisterebbe quindi, nelle varie specie di tentativo, altra differenza che la configurazione del pericolo (ammesso che tale configurazione sia realmente di poco conto), posto che nemmeno nel tentativo idoneo l’azione giunge a compimento e l’evento si verifica. Argomentazione indubbiamente suggestiva, ma di dubbia compatibilità con una impostazione realmente oggettiva della punibilità del tentativo. Sul punto, v. anche S. MIR PUIG, Derecho penal, cit., 330. (35) Appare opportuno precisare, a riguardo, come il previgente Código penal disciplinasse in modo distinto le due figure del delito frustrado, contemplato dall’art. 51, e della tentativa de delito, oggetto appunto del citato art. 52. La prima tipologia di tentativo, corrispondente al tentativo compiuto, era punita con la pena di grado immediatamente inferiore a quella prevista dalla legge per il delitto commesso. La seconda specie di tentativo, a cui il secondo comma accomunava anche i casi di impossibilità di esecuzione o di produzione del delitto, era invece sanzionata, a discrezione del giudice, con la pena di uno o due gradi inferiore a quella stabilita dalla legge per il delitto commesso. Il terzo comma dell’art. 52 prevedeva, infine, l’applicazione della stessa disciplina fissata per il tentativo inidoneo ai colpevoli di cospirazione o di istigazione o di dichiarata intenzione di commettere il delitto. (36) S. MIR PUIG, op.cit., 732: secondo i fautori di questa tesi, la punibilità del tentativo inidoneo non sarebbe stata in alcun modo deducibile dalla definizione del tentativo di cui all’art. 3 del previgente codice penale.


— 291 — funzione autenticamente incriminatrice, avrebbe avuto una più contenuta funzione restrittiva della punibilità, rendendo applicabile al tentativo inidoneo — già punibile in base alla previsione generale sul tentativo di cui all’abrogato art. 3 — la minore pena prevista per il c.d. tentativo incompiuto. Appare evidente come solo coloro che attribuivano al previgente art. 52 una precisa funzione incriminatrice giungano adesso ad escludere in radice la punibilità di ogni specie di tentativo inidoneo. Gli altri, invece, ritengono plausibile la sua perdurante, pur se non indiscriminata, rilevanza penale sul presupposto della pacifica riconducibilità del tentativo inidoneo alla previsione generale sul tentativo, anche in assenza di una clausola normativa ad hoc. Nonostante le perduranti incertezze interpretative attentamente illustrate da Mir Puig, l’unica soluzione possibile all’annosa e tormentatissima diatriba risiede, con ogni probabilità, proprio nell’analisi della struttura e della portata dell’art. 16 del nuovo Código penal. Un rilievo critico di carattere preliminare si impone: se davvero l’abrogato art. 52, comma secondo, avesse avuto solo il compito di rendere applicabile al tentativo inidoneo la più mite pena riservata al tentativo incompiuto, dovremmo ora giungere all’improbabile conclusione secondo cui l’attuale disciplina del tentativo inidoneo è, nel suo complesso, forse più severa della precedente: in assenza di una disposizione che ne circoscriva opportunamente il trattamento sanzionatorio, oggi il tentativo inidoneo — in caso di sua piena e definitiva, pur se implicita, legittimazione — verrebbe punito con la stessa pena prevista per il tentativo idoneo, indipendentemente dalla valutazione dell’assenza di un effettivo pericolo di consumazione del reato! (37). Siffatta conclusione sembra davvero porsi in totale antitesi rispetto alla scelta legislativa di eliminare qualsiasi riferimento esplicito alla punibilità del tentativo inidoneo. Ciò che in realtà sorprende, nei tenaci sostenitori della perdurante sopravvivenza del tentativo inidoneo, è la non comune resistenza nell’interpretare l’avvenuta abrogazione di una clausola con funzione estensiva della punibilità in senso favorevole al reo: il principio di frammentarietà dovrebbe imporre in via primaria l’inequivocabile esclusione della rilevanza penale di ogni specie di tentativo inidoneo nel nuovo sistema penale spagnolo. E persino l’argomentazione in base alla quale la volontà del legislatore non sarebbe chiara nella risoluzione della questione potrebbe agevolmente superarsi valorizzando il riferimento, contenuto nell’art. 16 dell’attuale Código penal, all’esecuzione di atti che dovrebbero oggettivamente produrre l’evento. Ora, pare difficile considerare il riferimento all’attitudine ‘‘oggettiva’’ degli atti alla verificazione dell’evento lesivo come un dato astratto, sganciato dalla valutazione dell’effettiva idoneità offensiva della condotta posta in essere: la mera pericolosità ex ante di una condotta non si traduce ancora in un atto oggettivamente in grado di produrre l’evento in tutti i casi in cui si riscontri, ex post, che il pericolo non è mai esistito come tale. Se manca la possibilità della verificazione concreta del danno, l’evento non può oggettivamente essere prodotto, e la porzione di condotta eventualmente realizzata esula dalla portata dell’art. 16 Código penal. Alla luce di questa curiosa vicenda legislativa ed ermeneutica, maturata in un sistema penale ancora tutt’altro che immune dal fascino delle teorie soggettive dell’illecito, non può che essere di conforto la scelta, operata dall’art. 41, comma terzo, del Progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale italiano (38), di ribadire la non punibilità del tentativo quando, per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è (37) Cfr., a riguardo, la pena prevista per il tentativo (compiuto od incompiuto che sia) dall’attuale art. 62 del codice penale spagnolo (il cui testo è riportato supra, nota 32). Equiparare, in linea di principio, la punibilità di alcune specie di tentativo inidoneo alle ipotesi di tentativo idoneo significa di fatto prospettare una disciplina più rigorosa di quella attualmente prevista in tema di tentativo inidoneo dal § 23, comma terzo, StGB, il quale rimette al giudice la scelta di diminuire la pena o di non applicarla affatto, in rapporto al diverso grado ‘‘sintomatico’’ di pericolosità connessa al fatto. (38) Il testo dell’art. 41 è riportato supra, nota 19.


— 292 — impossibile l’evento dannoso o pericoloso, escludendo altresì l’applicazione facoltativa della misura di sicurezza attualmente prevista dall’ultimo comma dell’art. 49 c.p.: eliminata ogni valutazione del c.d. reato impossibile come episodio sintomatico di pericolosità sociale del reo (e quindi di quasi-reato), l’irrilevanza integrale del tentativo inidoneo appare come uno dei riflessi più evidenti di un articolato volto a ridefinire il sistema penale alla luce del principio di offensività, vero cardine della progettata riforma. 5. Prima di concludere l’esame dei saggi sul tentativo (39), appare opportuno valutare, ancora una volta, l’ambiguità del requisito della ‘‘immediatezza’’ in un’ipotesi di ‘‘combinazione’’ tra tentativo e compartecipazione sconosciuta alla dottrina italiana, ma molto discussa nella letteratura d’oltralpe (40): il riferimento è alla non semplice questione dell’inizio del tentativo nella mittelbare Täterschaft, trattata da R.D. Herzberg (41). La figura della reità mediata, contemplata dal § 25 StGB ed ora anche dall’art 28 del nuovo Código penal (42), si fonda — com’è noto — sull’utilizzazione di uno strumento umano inconsapevole per la commissione del reato da parte del cosiddetto Hintermann, autentico ‘‘regista’’, e perciò autore, del piano criminoso (43). A quest’ultimo devono, di con(39) Merita, in questo contesto, un cenno anche il saggio di K. YAMANAKA, Betrachtungen über der Strafbefreiungsgrund des Rücktritt vom Versuch, cit., 773 e ss., il quale, ripercorrendo le più significative tesi sul fondamento della disciplina del recesso nel sistema penale tedesco (dalla Schuldersfüllungstheorie di Herzberg alla Tatänderungstheorie di Jakobs, fino alla suggestiva Gefährdungsumkehrtheorie di Jäger), ribadisce la necessità di valutare il recesso non sulla base delle sole teorie dello scopo della pena, ma alla luce del rapporto tra la mutata volontà dell’agente ed il ‘‘recupero’’ del bene giuridico precedentemente posto in pericolo: il recedente, tramite la sua condotta successiva al reato, ha evitato la lesione del bene giuridico e, con ciò, ristabilito la fiducia nella norma da lui precedentemente violata. Per tal via, la colpevolezza del recedente viene compensata attraverso la controazione salvifica. (40) Per una rapida ricognizione del significato e della portata delle diverse ipotesi di applicazione congiunta di clausole generali di incriminazione suppletiva, sia ancora una volta consentito il rinvio a L. RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., 151 e ss. (41) R.D. HERZBERG, Der Versuch, die Straftat durch einen anderen zu begehen, cit., 749 e ss. Degno di nota, nell’ambito dei problemi posti dalla mittelbare Täterschaft, è anche il saggio di H. OTTO, Mittelbare Täterschaft und Verbotsirrtum, 483 e ss., dedicato alla discussa configurabilità della reità mediata qualora il Tatmittler versi in una situazione di errore sul divieto. È dubbio, infatti, se possa parlarsi di reità mediata solo nei casi in cui lo strumento umano versi in una condizione di errore inevitabile, o se tale figura ricorra anche nelle ipotesi di errore evitabile sul precetto da parte dell’esecutore materiale. Parte della dottrina ritiene, infatti, che in presenza di un errore evitabile sul divieto da parte del Tatmittler debbano applicarsi gli ordinari principi in tema di partecipazione criminosa, posto che il carattere evitabile dell’errore renderebbe difficile la configurazione dell’esecutore materiale come mero ‘‘strumento’’. Un orientamento minoritario, infine, ritiene sussistente la reità mediata solo nelle ipotesi di intenzionale o maliziosa induzione in errore (evitabile o inevitabile) da parte dello Hintermann. Otto risolve la questione rifacendosi all’opinione roxiniana che ritiene decisiva, ai fini della qualificazione giuridica della fattispecie, la consapevolezza che l’esecutore abbia della dannosità del proprio comportamento: sussisterebbe, in questa prospettiva, un’ordinaria ipotesi di partecipazione nell’altrui reato quando l’esecutore immediato abbia compreso l’antigiuridicità materiale, cioè la dannosità sociale, della propria condotta; per contro, quando l’esecutore (colpevole o incolpevole) non abbia consapevolezza dell’antigiuridicità materiale del proprio comportamento, sarebbero sempre ravvisabili gli estremi della reità mediata. (42) Sulle forme della partecipazione nel nuovo codice penale spagnolo, v. più dettagliatamente infra, § 7. (43) Non a caso, in base ad una traduzione meramente letterale del termine, Hintermann è colui che sta alle spalle: che dirige e controlla, cioè, un iter criminis in cui l’esecutore è inconsapevole o, comunque, incolpevole. La figura della mittelbare Täterschaft nasce, in


— 293 — seguenza, riferirsi tutti i presupposti della responsabilità. Lo Hintermann è il fulcro ed il parametro di valutazione dell’intera condotta criminosa. Nel caso del tentativo, si discute se i requisiti per l’applicazione del § 22 StGB debbano essere ravvisati unicamente nell’attività determinatrice dell’autore mediato o se non debbano, invece, essere valutati anche in rapporto all’attività esecutiva realizzata dal Tatmittler: se, cioè, ai fini della valutazione del momento iniziale dell’attività punibile sia decisiva la sola ‘‘rappresentazione del fatto’’ da parte dello Hintermann o se non sia necessario quanto meno un inizio di esecuzione del reato da parte dello ‘‘strumento umano’’. Nel primo caso, il § 22 risulterebbe applicabile già dal momento in cui l’autore mediato si accinga in via immediata ad esercitare la sua influenza sul Tatmittler. Nel secondo caso, potrebbe parlarsi di tentativo punibile solo qualora sia lo strumento umano ad accingersi immediatamente a realizzare il delitto. La soglia della punibilità, tra l’una e l’altra tesi, oscilla vistosamente: si va dall’assenza di una concreta attività esecutiva alla presenza di un inizio di esecuzione, sia pur filtrata attraverso il dato della ‘‘rappresentazione del fatto’’. L’orientamento forse attualmente più seguito valuta come una sorta di unità inscindibile (Gesamttat) i contributi all’azione dello Hintermann e del Tatmittler: in questa prospettiva, l’inizio del tentativo è ravvisabile solo quando sia lo ‘‘strumento umano’’ ad accingersi direttamente alla realizzazione della fattispecie tipica. Nondimeno, ci si chiede se in taluni casi l’inizio dell’attività punibile possa — o debba — ravvisarsi nel momento, di gran lunga antecedente, in cui lo Hintermann abbia esplicato la sua attività di influenza psichica sull’esecutore-strumento, ma questi non si sia ancora accinto all’azione. Tra i seguaci di questo secondo orientamento, tuttavia, come rilevato dallo stesso Herzberg (44), non v’è chiarezza in relazione al momento iniziale dell’attività punibile, essendo fortemente discusso se esso debba ravvisarsi quando l’influenza sul Tatmittler ha inizio, quando tale influenza si conclude o, ancora, quando, terminata l’opera di determinazione dello Hintermann, questi faccia ormai pieno e definitivo affidamento sulla (non iniziata) esecuzione della fattispecie da parte del primo. La seconda soluzione, che sembra scindere l’attività dell’autore mediato da quella dello strumento umano, consentirebbe di tutelare maggiormente il Tatmittler in buona fede (45). Pare chiaro, da quanto esposto nel saggio qui in commento, che la controversia sull’individuazione del momento iniziale del tentativo nella mittelbare Täterschaft risenta di consiGermania, per ovviare alle lacune legislative derivanti dall’accoglimento della teoria dell’accessorietà c.d. estrema come fondamento dell’incriminazione del partecipe: richiedere per la punibilità del complice un fatto principale tipico, antigiuridico e colpevole significava infatti assicurare l’impunità a chi maliziosamente si servisse di persone incapaci nella realizzazione del reato. Sulla questione dell’inizio del tentativo nella reità mediata, anche per un’ampia illustrazione delle posizioni della dottrina d’oltralpe, v. di recente il contributo di R. KRACK, Der Versuchbeginn bei Mittäterschaft und mittelbarer Täterschaft, in ZStW, 1998, 625 e ss. (44) R.D. HERZBERG, op. cit., 750 e ss. L’Autore rimprovera a questo orientamento la tendenza a configurare un tentativo punibile anche laddove manchi un pericolo attuale di realizzazione della fattispecie. Proprio il criterio dell’attualità del pericolo dovrebbe invece essere l’unico discrimen possibile per individuare il momento iniziale del tentativo punibile. (45) L’eterogenea e disorganica evoluzione dogmatica della figura della reità mediata tende sorprendentemente, in tempi recenti, a ricomprendere entro tale schema anche casi in cui lo strumento umano non sia affatto un incapace di intendere e di volere o una persona comunque incolpevole (perché sottoposta a violenza o minaccia o indotta in errore): è il caso del c.d. sfruttamento di un apparato di potere organizzativo (in cui taluno, solitamente un prestanome, viene posto al vertice di un’azienda per motivi di comodo), del c.d. strumento doloso privo di intenzione (in cui il dolo specifico richiesto per l’esistenza del reato fa capo allo Hintermann ma non al Tatmittler) e, infine, del c.d. strumento doloso privo di qualifica (in cui solo lo Hintermann possiede la qualifica soggettiva richiesta dalla legge per la realizzazione del reato). La riconduzione di siffatte ipotesi al paradigma della reità mediata è certamente anomala: in questi casi, lo strumento umano è chiaramente ‘‘consapevole’’ della sua condotta.


— 294 — derazioni politico-criminali relative all’opportunità di ‘‘coinvolgere’’ lo strumento umano incolpevole nella configurazione del tentativo punibile. L’individuazione di un momento iniziale (a dire il vero non poco) ‘‘fluttuante’’ dell’attività punibile, che — in rapporto al caso concreto — arretra sino a ricomprendere la mera attività di determinazione dello Hintermann pur in assenza di una condotta esecutiva propriamente detta, viene del resto ritenuta perfettamente compatibile con i principi generali del sistema penale tedesco: in un codice, si afferma, che punisce, ai sensi del § 30 StGB (46) ed a dispetto del carattere accessorio della partecipazione criminosa, il mero tentativo di partecipazione, l’attività di determinazione dell’autore mediato non può, a fortiori, non essere valutata indipendentemente dall’attività esecutiva del Tatmittler (47). 6. Il contributo di K. Volk (48) getta uno sguardo preoccupato sui recenti orientamenti legislativi e giurisprudenziali maturati in Germania in tema di compartecipazione criminosa. Si deve a C. Roxin, nella dottrina d’oltralpe e ora anche in quella spagnola (49), la definitiva individuazione dei criteri distintivi tra reità e partecipazione, attraverso la formulazione della teoria del dominio del fatto: autore è colui che determina il se ed il come dello svolgimento dell’iter criminis, anche in assenza di una condotta concretamente esecutiva (50). Tali rilievi, che attribuiscono alla figura della reità una valenza anche soggettiva estranea alla dogmatica ed alla legislazione penale italiana, si inseriscono, affinandolo, in un sistema penale che ha da sempre adottato il criterio della tipizzazione differenziata degli apporti criminosi, distinguendo concettualmente — prima ancora che sul piano del trattamento sanzionatorio — le figure dell’autore (mediato o immediato), del coautore (51) e del determinatore (52) da quella del complice (53). Stupisce pertanto che il legislatore d’oltralpe, in tempi recenti, sembri manifestare ritro(46) Si riporta, per comodità del lettore, il testo del § 30 StGB: Tentativo di concorso. ‘‘1. Chi tenta di determinare altri a commettere un crimine o ad istigare alla sua commissione, è punito secondo le disposizioni sul tentativo di un crimine. Tuttavia la pena dev’essere attenuata ai sensi del § 49 co. 1o. Anche a questo caso si applica il § 23 comma 3o. / 2. Allo stesso modo è punito chi si dichiara disponibile, chi accoglie la proposta di altri o si accorda con altri per commettere un crimine o per istigare alla sua commissione’’. (47) Per queste considerazioni, cfr., tra gli altri, M. KÖHLER, Strafrecht. Allgemeiner Teil, Berlin, 1997, 541 e 542. Per R.D. HERZBERG, 770 e ss., il criterio decisivo per la risoluzione della questione rimane quello dell’attualità del pericolo della realizzazione della fattispecie. A detta dell’Autore, l’inizio del tentativo non coincide con la sua compiuta esecuzione: in questa prospettiva, l’ultima condotta propria dell’autore mediato, e l’influenza sul Tatmittler, sono già un quid pluris rispetto ad un’attività meramente preparatoria. (48) K. VOLK, Tendenzen zur Einheitstäterschaft. Die verborgene Macht des Einheitstäterbegriff, cit., 563 e ss. (49) Cfr. infra, § 8. (50) V., da ultimo, C. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, 7a ed., Berlin-New York, 2000, passim. (51) Per comodità del lettore, si riporta — qui e nelle due note immediatamente successive — il testo della disciplina di cui ai §§ 25-27 StGB. § 25. Täterschaft (Reità). 1. ‘‘È punito come autore chi commette il fatto da solo o per mezzo di altri. / 2. Se più soggetti commettono il fatto collettivamente, ciascuno viene punito come autore’’. (52) § 26. Anstiftung (Istigazione). ‘‘Allo stesso modo dell’autore è punito, come istigatore, chi ha determinato dolosamente altri alla commissione dolosa di un fatto antigiuridico’’. Appare opportuno precisare come il concetto di Anstiftung appaia molto più preciso di quello, tendenzialmente omnicomprensivo, di ‘‘istigazione’’ accolto nel codice penale italiano. Anstifter è solo colui che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente. Da ciò l’equiparazione del suo trattamento sanzionatorio a quello dell’autore. L’istigazione in senso stretto, intesa come mero rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, è invece ri-


— 295 — vato consenso nei confronti di una concezione unitaria di autore, da tempo ritenuta superata in dottrina perché di dubbia compatibilità con i principi di colpevolezza e di proporzione: la concezione unitaria di autore sottrae ai partecipi la loro considerazione legislativa privilegiata, li trascina nella punibilità del tentativo (54), e tratta come autore anche il ‘‘provocatore’’ doloso del fatto colposo (55). Tra i numerosi punti deboli della concezione unitaria di autore, ricorda Volk, spicca lo svilimento della distinzione tra reità e partecipazione: essa avrebbe rilevanza solo sotto il profilo delle conseguenze sanzionatorie, ma perderebbe ogni altra valenza strutturale ed assiologica. I due concetti perdono, così, anche i loro netti contorni, limitandosi a fungere da meri criteri di commisurazione della pena. Questa affermazione ha costi altissimi per lo Stato di diritto. Tuttavia, in un numero sempre crescente di fattispecie incriminatrici il legislatore tratteggia la condotta tipica di partecipazione come una forma di reità, costringendo l’interprete a trattare il complice come autore. In tal modo, oltretutto, viene vietata qualunque possibilità di differenziare reità e partecipazione persino sul piano del trattamento sanzionatorio (56). La tendenza a punire il complice come l’autore si riscontra, in particolar modo, nell’ambito dei reati associativi e della criminalità economica (57): settori, questi, in cui le istanze della politica criminale diventano più forti dei principi penali. Paradigmatica, in questo senso, è la fattispecie di cui al § 129 StGB, che incrimina la formazione di un’associazione per delinquere equiparando, anche sul piano delle conseguenze sanzionatorie, l’appoggio o la propaganda delle attività dell’associazione al farne effettivamente parte (58): in una sorta di ‘‘anticipazione indifferenziata’’ di tutela, il legislatore equipara condotte (tradizionalmente) tipiche a inedite condotte di mero sostegno e persino di ‘‘propaganda’’. D’altro canto, il ‘‘potere occulto’’ (59) della concezione unitaria di autore manifesta riflessi ancora più preoccupanti in rapporto al sempre più disinvolto uso del potere discrezionale da parte del giudice. Il territorio che più soffre dell’interpretazione ‘‘creativa’’ della giurisprudenza è, significativamente, quello della compartecipazione omissiva nell’altrui reato: argomento, questo, che, per il suo delicatissimo rilievo, merita di essere ripreso e approfondito nella sede più opportuna (60). 7. In una prospettiva di riforma della disciplina della partecipazione criminosa all’interno del codice penale italiano, non può non risultare particolarmente proficua la comparacompresa nel § 27 StGB sotto forma di psychische Beihilfe, e gode pertanto della diminuzione obbligatoria di pena prevista da tale norma per tutte le specie di complicità. Sulla complessità del concetto di ‘‘complicità psichica’’, in riferimento alle difficoltà del suo accertamento causale ed all’eterogeneità delle sue forme di manifestazione, v. l’approfondito contributo di A. CHARALAMBAKIS, Zur Problematik der psychischen Beihilfe, cit., 625 e ss. (53) § 27. Beihilfe (Complicità). ‘‘È punito come complice chi dolosamente aiuta altri a commettere un fatto antigiuridico doloso./ 2. La pena per il complice è determinata in base alla pena prevista per l’autore. Essa dev’essere diminuita ai sensi del § 49 comma 1o’’. (54) Il mero ‘‘tentativo di complicità’’ non è previsto dalla disposizione di cui al § 30 StGB, il cui testo è riportato supra, nota 46. (55) K. VOLK, Tendenzen, cit., 563. (56) K. VOLK, Tendenzen, cit., 565. (57) Per una dettagliata disamina di questa tipologia di casi, anche in prospettiva storica, si fa rinvio a K. VOLK, Tendenzen, cit., 565. (58) Si riporta il primo comma del § 129 StGB (Formazione di associazioni per delinquere): ‘‘Chiunque fonda un’associazione i cui scopi o le cui attività siano diretti a commettere reati, o partecipa ad una tale associazione come membro, la propaganda o la sostiene, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria’’. (59) L’espressione, significativamente presente anche nel titolo del saggio, è di K. VOLK, Tendenzen zur Einheitstäterschaft, cit., 563 e ss. (60) V. infra, § 10.


— 296 — zione con il Código penal spagnolo del ’95, il quale, agli artt. 27 (61), 28 (62) e 29 (63) recepisce il modello della tipizzazione differenziata degli apporti criminosi ispirandosi visibilmente alla disciplina contenuta nei §§ 25 e ss. StGB, pur se con diverse peculiarità degne di nota. È Cerezo Mir (64) ad illustrare puntualmente le modifiche legislative intervenute nella materia della compartecipazione criminosa ed i loro riflessi sulla dogmatica penalistica spagnola. Neppure l’art. 27 Código penal, che stabilisce la responsabilità penale degli autori e dei complici nei delitti e nelle contravvenzioni, appare come una disposizione priva di rilievo sostanziale. L’abrogato art. 12 del previgente codice penale annoverava infatti tra i partecipi penalmente responsabili anche i ‘‘favoreggiatori’’ ed i ‘‘ricettatori’’. Escludendo definitivamente dalla parte generale del codice siffatte tipologie (anomale) di compartecipazione successiva alla realizzazione del reato, il nuovo codice del ’95 segue un cammino già segnato dai precedenti progetti e avamprogetti di riforma del codice penale, che da tempo contemplavano le condotte di ausilio post patratum crimen in autonome fattispecie delittuose della parte speciale, ribadendo la loro estraneità alla compartecipazione criminosa in senso stretto (65). Senza dubbio, però, è l’art. 28 a rivestire un ruolo essenziale nell’attuale disciplina della partecipazione criminosa. Ciò accade non solo perché tale norma, come tra breve vedremo, delinea le condotte di reità e quelle ad essa equiparate, ma anche perché il concetto di complicità viene desunto, dal successivo art. 29, in base ad un criterio negativo: complici sono tutti coloro che abbiano cooperato nell’esecuzione del reato ma la cui condotta non rientra tra quelle descritte dall’art. 28. La prima nota peculiare dell’art. 28 è appunto la netta distinzione tra le forme di compartecipazione che rientrano nel concetto (elastico, come nello StGB) di reità e quelle equiparabili alla reità solo quoad poenam. Ai sensi dell’art. 28, 2o comma, vengono puniti come l’autore l’istigatore ed il c.d. complice principale, ovvero colui che — pur essendo privo del dominio del fatto — coopera all’esecuzione del reato con un atto indispensabile alla sua realizzazione e la cui condotta sia quindi un’autentica condicio sine qua non del reato. Questa distinzione, secondo Cerezo Mir, rappresenta una delle più importanti modifiche del codice penale spagnolo. Dall’art. 14 del precedente codice penale non era desumibile, secondo la dottrina prevalente, alcun concetto di autore: esso si limitava semplicemente (e genericamente) a far cenno a coloro che avrebbero dovuto essere considerati autori e per questo pu(61) L’art. 27 stabilisce che sono penalmente responsabili dei delitti e delle contravvenzioni gli autori ed i complici. Le due disposizioni seguenti, che saranno riportate nelle note immediatamente successive, definiscono in maniera articolata il concetto di ‘‘autore’’ e, prevalentemente in negativo, quello di ‘‘complice’’. (62) Ai sensi dell’art. 28, ‘‘sono autori coloro che realizzano il fatto da soli ovvero insieme o per mezzo di altri dei quali si servono come strumento’’. Il secondo comma della disposizione individua poi i soggetti che vengono considerati autori (pur non essendolo) sul piano del trattamento sanzionatorio, e cioè: a) coloro che inducono direttamente altri a commettere il delitto; b) coloro che cooperano alla sua esecuzione con un atto senza il quale il reato non sarebbe stato realizzato (c.d. complici necessari). (63) In base al disposto dell’art. 29, sono complici ‘‘coloro che, non essendo compresi nel precedente articolo, cooperano all’esecuzione del fatto con atti precedenti o concomitanti’’. (64) J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme im neuen spanischen Strafgesetzbuch vom 1995, cit., 549 e ss. (65) J. CEREZO MIR, op. cit., 549 ricorda che attualmente la ricettazione è inserita (all’art. 298) tra i delitti contro il patrimonio e l’ordine economico, ed il favoreggiamento (agli artt. 451 e ss.) tra quelli contro l’amministrazione della giustizia.


— 297 — niti come tali (66). In definitiva, l’individuazione della figura dell’autore era, in precedenza, rimessa all’opera interpretativa della dottrina e, soprattutto, della giurisprudenza. Il primo comma dell’art. 28 enuclea, in successione graduale, le figure dell’autore immediato e, per la prima volta, del coautore (67) e dell’autore mediato (68). Autore è, in primo luogo, colui che realizza da solo il fatto tipico. Il codice prende qui le mosse da una concezione oggettivo-formale di autore, che nella scienza penalistica spagnola ha riscosso grandi consensi. Essa, tuttavia, non viene accolta integralmente, com’è dimostrato dai contestuali riferimenti alla correità ed alla reità mediata in cui, nella determinazione della fattispecie, diventa decisivo — come evidenziato dallo stesso Cerezo Mir — il riferimento al dominio del fatto (69). Il concetto di reità mediata recepito dalla dogmatica penalistica spagnola — ed ora dal codice penale — ricalca, senza differenze di rilievo, le riflessioni maturate nella dottrina d’oltralpe. La sua introduzione all’interno dell’art. 28 è stata considerata con unanime favore dagli studiosi più attenti, posto che l’autore mediato, quand’anche si accolga la teoria dell’accessorietà limitata, non sempre potrebbe essere punito in qualità di istigatore o di partecipe necessario. Ciò accadrebbe, in particolare, nelle ipotesi in cui lo strumento umano non realizzi una condotta pienamente conforme a fattispecie perché priva di un elemento del Tatbestand, come ad esempio nel caso il cui l’esecutore non abbia l’intenzione di appropriarsi della cosa nel delitto di furto. Ciò accadrebbe anche qualora lo stesso Hintermann abbia partecipato in veste di complice necessario all’esecuzione del delitto (70). L’art. 28 del Código penal riecheggia decisamente il § 25 StGB anche nel riferimento, del tutto nuovo, a coloro che commettono il fatto insieme. Correo è colui che realizza insieme ad altri il fatto delittuoso eseguendo anche solo parzialmente la condotta tipica o mantenendo una situazione di virtuale dominio del fatto persino in assenza di una condotta pro(66) J. CEREZO MIR, op. cit., 550. (67) Sulla correità vedi quanto verrà meglio detto infra, § 8. (68) La fattispecie della reità mediata, che deve certo la sua robusta configurazione dogmatica all’influenza esercitata dalla letteratura penalistica tedesca, non era comunque sconosciuta alla dottrina ed alla stessa legislazione penale spagnola. Essa era infatti stata prevista, sin dal 1980, in tutti i progetti e avamprogetti di riforma del codice penale spagnolo e, prima di allora, rientrava nella determinazione del concetto di autore già nell’art. 13 del primo codice penale spagnolo del 1822: cfr. J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 551 e ss., secondo il quale l’introduzione della reità mediata era indispensabile sia sul piano dogmatico che su quello politico-criminale. (69) J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 551. D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, 575 e ss., tentano — come vedremo meglio infra, § 8 — una rivisitazione personale della teoria roxiniana del dominio del fatto, su base prevalentemente oggettiva. (70) J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 552. Non appare immediatamente chiara, in casi siffatti, la ragione per cui non sarebbe possibile configurare un’ordinaria ipotesi di compartecipazione delittuosa, soprattutto qualora lo stesso strumento umano non sia una persona incapace di intendere e di volere: eventualità, questa, in cui la mancata sottoposizione a pena del Tatmittler suscita oltretutto fondate perplessità e sembra contraddire la ratio stessa della reità mediata. La ragione di questo singolare orientamento è, con ogni probabilità, da rinvenire nella teoria dell’accessorietà, che renderebbe impossibile la configurazione di un fatto principale tipico nelle ipotesi di strumento doloso privo di intenzione (richiamata appunto nel testo) e di strumento doloso privo di qualifica, ricondotte al paradigma della reità mediata dalla dottrina tedesca più recente (v. supra, nota 45). D’altro canto, nemmeno una eventuale riconduzione delle fattispecie in esame entro lo schema della correità risulta agevole, posto che questa forma di concorso — nell’accezione comunemente accolta anche nella dottrina spagnola — presuppone il dominio del fatto in ciascuno dei compartecipi: v. infra, § 8.


— 298 — priamente esecutiva (71). Per la sua complessità concettuale, appare opportuno rinviare la disamina delle articolazioni del concetto di correità ai peculiari sviluppi cui la teoria del dominio del fatto è andata incontro nella dogmatica penalistica spagnola (72). È però necessario sin d’ora sottolineare come la possibilità di considerare correo colui che esegue in parte la condotta tipica consenta di inquadrare senza difficoltà entro tale forma di compartecipazione anche i casi di c.d. esecuzione frazionata della condotta delittuosa, ritenuti — non a torto — dalla migliore dottrina italiana come un ostacolo insormontabile all’accoglimento della teoria dell’accessorietà. Il secondo comma dell’art. 28 Código penal si occupa delle forme di partecipazione equivalenti, sul piano del trattamento sanzionatorio, alla reità. Anche in questo caso, la scelta normativa riecheggia in parte il § 26 StGB. Tuttavia, mentre il § 26 StGB impone la pena prevista per l’autore solo a chi ha determinato dolosamente altri alla commissione dolosa di un fatto antigiuridico, il secondo comma, lett. a) dell’art. 28 del codice penale spagnolo si rivela decisamente più ambiguo. Esso considera infatti ‘‘autori’’ anche coloro che inducono direttamente altri a commetterlo (‘‘los que inducen directamente a otro u otros a ejecutarlo’’) (73). L’uso del termine ‘‘indurre’’ sembra lasciare spazio a tutte le forme di compartecipazione psichica nell’altrui reato, dalla determinazione sino all’istigazione in senso stretto. L’equivoca formulazione legislativa spiega di per sé le fondate perplessità manifestate dalla dottrina su questa parte del testo normativo: l’equiparazione quoad poenam tra reità ed istigazione lato sensu intesa appare decisamente iniqua laddove l’istigazione abbia rappresentato solo uno dei fattori che hanno indotto l’istigato a commettere il delitto. Queste tipologie di casi vengono del resto qualificate dalla dottrina tedesca come psychische Beihilfe ed inquadrate nell’ambito della semplice partecipazione disciplinata dal § 27 StGB (74). Non minori perplessità suscita, a dire il vero, anche la previsione di cui al secondo comma, lett. b), dell’art. 28. La conservazione della figura della complicità principale sarebbe addirittura, secondo Cerezo Mir, uno degli errori più marchiani del nuovo codice penale spagnolo (75). La figura del ‘‘complice principale’’ fu introdotta dal legislatore spagnolo con l’art. 14 del codice penale del 1848. Essa si fonda sull’antica distinzione, risalente ai giuristi italiani del tardo medioevo, tra la condotta di colui quod causam dedit delicto, senza il cui contributo cioè il fatto non si sarebbe mai verificato, e quella di colui quod causam non dedit delicto, la cui partecipazione si sia quindi rivelata non necessaria. Tale teoria, ad avviso dell’Autore, sarebbe ampiamente superata, perché per la moderna scienza penalistica è un dato ormai acquisito che sia impossibile misurare il peso causale delle differenti condizioni e che tale peso, ove concretamente misurabile, non si riveli comunque decisivo nella determinazione dell’an e del quantum della responsabilità. Non a caso, la figura del complice principale sarebbe scomparsa dagli altri codici penali europei sin dalla fine del diciannovesimo secolo. Le suggestive argomentazioni addotte nel saggio in esame contro la conservazione della (71) Così J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 553. (72) Infra, § 8. (73) Il regime sanzionatorio della compartecipazione criminosa è essenzialmente regolato, nel nuovo codice penale spagnolo, dagli artt. 63 e 64. In particolare, l’art. 63 stabilisce che ‘‘ai complici di un delitto consumato o tentato si applica la pena di grado inferiore a quella stabilita dalla legge per gli autori del medesimo delitto’’. L’art. 64 prevede invece che ‘‘le regole che precedono non si applicano nei casi in cui il tentativo e la complicità sono puniti dalla legge in modo specifico’’. (74) Secondo J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 555, sarebbe stato quanto meno opportuno prevedere per l’istigatore una diminuzione facoltativa di pena, da calcolare sulla base di quella prevista per l’autore. (75) Così, letteralmente, J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 556.


— 299 — c.d. complicità principale e la sua rigorosa equipazione alla figura dell’autore (76) non sarebbero tuttavia di per sé insuperabili. Per quanto forse obsoleta, la figura della complicità principale si basa sulla diversa ‘‘intensità’’ della condotta di partecipazione che si sia rivelata indispensabile per la realizzazione del reato e che si riflette, come tale, sul piano della commisurazione della pena. Piuttosto, le perplessità sorgono esaminando la stessa struttura dell’art. 28: come distinguere, in concreto, il complice principale dal correo? Sul piano strutturale, il complice necessario realizza infatti un apporto addirittura indispensabile all’esistenza del reato. L’unico criterio discretivo possibile è da rinvenire, ancora una volta, nell’esistenza di una situazione di dominio del fatto in capo al partecipe (77). Il problema, peraltro, pare destinato ad assumere una rilevanza meramente teorica, vista la sostanziale equivalenza tra correità e complicità necessaria. La disciplina della complicità viene, come già anticipato in precedenza, contemplata dall’art. 29 Código penal. Tale norma delimita, per dir così, in negativo i contorni della complicità. Potrebbe dirsi che complicità, ai sensi del nuovo codice penale spagnolo, sia tutto ciò che non è reità, purché si tratti di condotte di cooperazione all’esecuzione del reato con atti precedenti o concomitanti. Pare evidente che la disposizione in esame si riferisca essenzialmente a tutte le tipologie di partecipazione c.d. non necessaria nell’altrui reato. Secondo Cerezo Mir, in questa previsione così scarna e generica rientrerebbero anche i contributi di partecipazione psichica che non abbiano rappresentato una condizione per la realizzazione del reato e persino la complicità mediante omissione (78). La tipizzazione differenziata degli apporti concorsuali accolta dal codice penale spagnolo del 1995 sembra dunque convergere prevalentemente su di un’articolatissima struttura delle forme della reità e su una marginale rilevanza delle condotte di mera partecipazione. Tale quadro si rivelerebbe tuttavia parziale senza un accenno ad una delle previsioni che completano la definizione delle persone penalmente responsabili nel titolo secondo della parte generale del Código penal: si tratta dell’art. 30, relativo ai criteri di individuazione della responsabilità nei reati commessi a mezzo dei mass media (79). Questa disposizione si rivela, al primo comma, particolarmente interessante ai nostri fini, poiché rappresenta un’ipotesi di consapevole applicazione del principio di frammentarietà nella tormentata materia del concorso di persone, attraverso una precisa restrizione del novero delle condotte puni(76) J. CEREZO MIR, loc. ult. cit., ritiene opportuna anche per questa ipotesi una diminuzione facoltativa di pena rispetto a quella prevista per l’autore. (77) Lo stesso J. CEREZO MIR, loc. ult. cit., ammette che i complici principali diventano veri e propri correi qualora abbiano il dominio funzionale del fatto. Ciò, tuttavia, non accadrebbe sempre. I complici principali non hanno, ad esempio, il dominio finalistico del fatto qualora eseguano condotte meramente preparatorie, o quando realizzino, nella fase esecutiva del delitto, condotte di supporto che non appaiano ex ante come un essenziale ed autonomo contributo alla realizzazione del reato, ma che tali si rivelino in base ad una valutazione ex post. (78) I rilievi di Cerezo Mir sulla partecipazione mediante omissione saranno meglio ripresi infra, § 10. (79) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 30 Código penal: ‘‘1. Nei delitti e nelle contravvenzioni commessi avvalendosi di mezzi o strumenti meccanici di diffusione non rispondono penalmente né i complici né coloro che li hanno favoriti personalmente o realmente. / 2. Gli autori cui fa riferimento l’art. 28 rispondono in forma graduata, escludente e sussidiaria secondo l’ordine seguente: / 1o. Coloro che hanno realmente redatto il testo o prodotto il segno di cui si tratta e coloro che li hanno indotti a realizzarli. / 2o. I direttori della pubblicazione o programma in cui viene diffuso. / 3o. I direttori dell’impresa di pubblicazione, dell’emittente o dell’impresa di diffusione. / 4o. I direttori dell’impresa di registrazione, riproduttrice o stampatrice. / 3. Quando per un qualunque motivo diverso dall’estinzione della responsabilità penale, compresa la dichiarazione di contumacia o la residenza all’estero, non si può perseguire nessuna delle persone comprese in uno dei numeri del precedente comma, il procedimento è diretto contro le persone indicate nel numero immediatamente successivo’’.


— 300 — bili. Esso prevede che, nei delitti e nelle contravvenzioni commessi avvalendosi di mezzi o strumenti meccanici di diffusione, non rispondano penalmente né i complici, né coloro che li hanno favoriti personalmente o realmente (80). L’art. 30, come già l’art. 15 del previgente codice penale, si basa sul principio fondamentale della selezione del numero delle persone responsabili in presenza di una compartecipazione alla realizzazione di reati di opinione. È saldamente radicato il pensiero secondo cui sarebbe troppo complesso circoscrivere o comunque vincolare le regole generali sulla libertà di manifestazione del pensiero. L’indicazione selettiva dei soggetti responsabili, e la loro invero non semplice determinazione sulla base di un meccanismo di responsabilità ‘‘a cascata’’ (81), appaiono al legislatore spagnolo come gli strumenti più idonei per contemperare le istanze repressive con il rispetto delle libertà costituzionali. Il principio di frammentarietà ben dovrebbe, in una prospettiva di riforma, incidere in misura più radicale sulla disciplina della partecipazione criminosa, anche e soprattutto nel sistema penale italiano. Due sono le direttive su cui appare opportuno procedere per una riformulazione della delicata materia qui trattata. In primo luogo, appare indispensabile una modifica dell’attuale tecnica di tipizzazione del concorso criminoso. In secondo luogo, occorrerebbe operare una ulteriore selezione delle forme di partecipazione penalmente rilevanti, da attuare anche — se non soprattutto - nell’ambito della parte speciale del codice penale (82). Il sistema penale spagnolo rivela, attraverso l’art. 30, che questa strada può e deve essere praticata, in special modo in rapporto alle forme di partecipazione c.d. non necessaria ed alle tipologie meno gravi di illecito (83). (80) Qui, curiosamente, riappare la figura del favoreggiatore, definitivamente espunta dal novero dei partecipi nel reato dal nuovo testo dell’art. 27 Código penal. Si tratta, con ogni probabilità, di una mera svista del legislatore spagnolo del 1995, derivante dall’evidente difetto di raccordo tra le due previsioni ora in esame. (81) Secondo J. CEREZO MIR, op. cit., 558, non può obiettarsi alla disciplina di cui all’art. 30 di porsi in contrasto col principio di colpevolezza o di presentare scorie di versari in re illicita, poiché ciascuna delle persone indicate dal comma secondo dell’art. 30 può rivendicare per sé una causa di esclusione della colpevolezza. Il singolo, specificamente menzionato nella successione legislativa, potrà essere considerato responsabile solo qualora nessuna delle persone menzionate prima di lui dalla disposizione in esame possa essere perseguita. Questa rappresenterebbe una vera e propria condizione di procedibilità. (82) Sul punto, sia ancora una volta consentito il rinvio a L. RISICATO, Combinazione, cit., 88 e ss. (83) Opportuni sembrano, a questo punto, alcuni approfondimenti sulle prospettive di riforma della materia concorsuale nel sistema penale italiano. Uno ed indefettibile, in ogni caso, è il punto di partenza: l’abbandono del metodo di (sedicente) tipizzazione causale delle condotte concorsuali. Diversi gli sbocchi: potrebbe auspicarsi, de iure condendo, il ritorno al modello della tipizzazione differenziata degli apporti criminosi. Tuttavia, il ripristino di siffatta tecnica normativa non dovrebbe limitarsi ad una mera distinzione tipologica o, peggio, elastica tra le figure dei concorrenti (come accade in Germania con i §§ 25 e ss. StGB e adesso anche in Spagna con gli artt. 28 e 29 c.p.), ma dovrebbe realmente identificare forme e contenuto delle condotte concorsuali e graduare su tali basi il trattamento sanzionatorio riservato ai partecipi. L’auspicabile adozione di un modello di tipizzazione differenziata degli apporti criminosi dovrebbe consentire una più accurata tipizzazione delle singole tipologie di concorso e, nel contempo, una più congrua determinazione legale della pena. A tal fine, un rilievo prioritario dovrebbe essere riservato alla figura della determinazione al reato, da individuare attraverso un’opportuna selezione (possibilmente) tassativa delle modalità e dei mezzi usati (come attualmente previsto dal codice penale francese ed un tempo stabilito dal codice penale del Reich prussiano del 1871) e da punire con la stessa pena prevista per l’autore del fatto commesso. Più incisiva e precisa dovrebbe poi risultare la definizione della complicità materiale nell’altrui delitto, da punire con una diminuzione obbligatoria di pena rispetto a quella prevista per l’autore. Ancora più stringente la necessità di una accurata tipizzazione delle forme di mera complicità psichica. La definizione di questa forma di partecipazione ben potrebbe, in ragione della minore significatività del suo disvalore, essere rea-


— 301 — 8. La disamina della disciplina della partecipazione criminosa all’interno del nuovo Código penal si rivelerebbe incompleta senza una breve riflessione sugli originali sviluppi della teoria del dominio del fatto all’interno della recente dogmatica penalistica spagnola e sui suoi riflessi sul concetto di correità. Il tema, accennato da Cerezo Mir (84), viene poi approfondito nell’ampio contributo di D.M. Luzón Peña e M. Díaz y García Conlledo (85). I due Autori, in particolare, affermano di aver coniato una versione ‘‘eterodossa’’ della teoria roxiniana del dominio del fatto: si tratta di una interpretazione della Tatherrschaft che si fonda su una base eminentemente oggettiva, allo scopo di ricomprendere in essa anche i lizzata in virtù di una tecnica normativa ‘‘mista’’, che demandi cioè al legislatore della parte speciale la scelta definitiva di incriminazione di tale specie di concorso in rapporto alle tipologie criminose ‘‘di base’’. Anche la complicità psichica, peraltro, dovrebbe — e forse a maggior ragione rispetto alla più grave determinazione al reato — essere ancorata a modalità tipiche e tendenzialmente tassative di attuazione, volte soprattutto ad escludere l’equivoca tipologia dello ‘‘accordo’’ come forma autonoma di concorso morale. Un efficace intervento di riforma sul variegato ed eterogeneo terreno della partecipazione criminosa non può poi non tener conto della necessità di operare una selezione accurata ed ulteriore delle condotte concorsuali prospettate in via di principio come penalmente rilevanti sulla base del rango del bene da proteggere: ora, ritornare al modello della tipizzazione differenziata degli apporti criminosi senza poi delimitare l’indiscriminata applicazione, in rapporto a qualunque fattispecie delittuosa, delle forme di partecipazione già predisposte, equivale in sostanza a non eliminare, neanche in futuro, i rischi connessi ad esempio ad una generalizzata configurabilità del concorso morale, o del c.d. concorso esterno nei reati associativi. Sembra quindi di nuovo preferibile, in una prospettiva di riforma che tenga realmente conto dei canoni di frammentarietà, proporzione e necessità dell’intervento penale, l’adozione di una tecnica normativa mista — articolata cioè tra parte generale e parte speciale — analoga a quella stabilita dal legislatore tedesco per la punibilità del tentativo in rapporto ai Vergehen. In tal modo, il ritorno al modello della tipizzazione differenziata degli apporti criminosi — da collocare nella parte generale del codice penale — sarebbe ulteriormente affinato dall’indicazione tassativa ed auspicabilmente selettiva, a margine delle singole (ovvero a gruppi omogenei di) disposizioni di parte speciale, delle tipologie di partecipazione di volta in volta configurabili. Alla luce di queste riflessioni, risulta facile comprendere come, in riferimento alla disciplina del concorso di persone del reato, il c.d. Progetto preliminare deluda in gran parte le aspettative. La descrizione degli apporti concorsuali, come si evince dagli artt. 43-48 dell’articolato, è appena abbozzata e non riesce a liberarsi del tutto dall’ombra della tipizzazione su base causale, pur contenendo l’importantissima affermazione secondo cui ogni partecipe risponde in base alla sua colpevolezza, con la conseguente scomparsa di ogni scoria di versari in re illicita dalla disciplina della partecipazione criminosa. Sembra poi assente qualsiasi riferimento alla futura possibilità di adottare una tecnica di tipizzazione mista, per contenere la vis espansiva delle clausole generali di incriminazione suppletiva in relazione alle fattispecie delittuose meno gravi. L’articolato intende creare ‘‘tipologie di concorso sufficientemente elastiche, tali da non rischiare di circoscrivere arbitrariamente l’area della punibilità creando vuoti di tutela’’. Sembra dunque che le istanze repressive da sempre sottese alla disciplina del concorso si pongano in netta antitesi rispetto all’esigenza della frammentarietà. Eppure la frammentarietà è più che un principio: è un carattere della materia penale e la ratio stessa delle scelte di tutela. Certo, rispetto all’attuale art. 110 c.p. la disciplina di cui agli artt. 43 e ss. dell’articolato rappresenterebbe in ogni caso un vistoso passo in avanti, ancora tuttavia viziato dall’insostenibile horror vacui che sembra affliggere il legislatore (non solo) italiano nella materia della compartecipazione criminosa e, più in generale, delle c.d. forme di manifestazione del reato. (84) Cfr. J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 552 e ss. (85) D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, 575 e ss.


— 302 — casi di compartecipazione criminosa nel delitto colposo (86). La ragione di questo orientamento appare evidente se si considera la tendenza, ricorrente negli ambienti penalistici tedeschi e spagnoli, ad adottare una concezione restrittiva di autore sul versante dei reati dolosi ed un pericoloso concetto unitario di autore sul più insidioso versante dei delitti colposi (87). Autore del reato è, in base alla concezione formale-oggettiva, colui che realizza la fattispecie tipica di parte speciale o la cui condotta sia prevista da una fattispecie incriminatrice. Il criterio formale-oggettivo di determinazione della reità, tuttavia, diventerebbe insufficiente nei reati causali puri. Su questo terreno si innesta il concetto di dominio del fatto, che diventa criterio decisivo per l’individuazione della linea di confine tra reità e partecipazione: il contributo concorsuale può qualificarsi nell’ambito della reità qualora si presenti decisivo per la realizzazione della fattispecie. Gli altri contributi si tradurrebbero, così, in termini di supporto, esortazione o agevolazione con differenti gradi di rilevanza. Essenziali, e quindi inquadrabili nella reità, sono quelle condotte di compartecipazione caratterizzate da un dominio finalistico sugli accadimenti, che possono determinare il se e il come della realizzazione della fattispecie. Ora, il potere di signoria sugli accadimenti ben potrebbe essere inteso in senso oggettivo e positivo senza con ciò alterare struttura e portata della teoria del dominio del fatto: basterebbe, a riguardo, ‘‘liberare’’ la Tatherrschaft dal retaggio culturale della teoria finalistica dell’azione (88). Non basta la presenza del dolo a definire un soggetto come autore. Decisivo è, piuttosto, ciò che l’agente fa nel contesto del fatto concreto. Luzón Peña, in special modo, parla di determinazione oggettiva del fatto (determinación objetiva del hecho), comune tanto ai reati dolosi che a quelli colposi (89). Prima di analizzare i riflessi di siffatta accezione del dominio del fatto nell’ambito dei delitti colposi, appare opportuno delineare le diverse tipologie di correità inquadrabili, secondo il saggio qui in commento, nell’ambito dell’art. 28 Código penal. Esse si contraddistinguono per un rapporto sempre meno intenso con la realizzazione puntuale e completa della fattispecie incriminatrice. Correo è, in primo luogo, colui che realizza insieme ad altri il fatto tipico. In secondo luogo, correo è anche — come già accennato in precedenza (90) — chi realizza solo parzialmente la fattispecie tipica, eseguendo semplicemente una ‘‘porzione’’ della condotta descritta dalla norma di parte speciale (91). Correo è, infine, persino chi non esegue affatto alcuna porzione di condotta tipica, ma mantiene il dominio funzionale del fatto. Particolare interesse riveste per il giurista italiano la seconda delle ipotesi di correità qui delineate. Chi tiene ferma la vittima mentre un altro, con intenzione omicida, la pugnala è correo pur non eseguendo integralmente il fatto tipico (92): si tratta, com’è evidente, di una (86) (87)

Su cui v. meglio infra, § 9. Sui rischi connessi all’adozione di una concezione unitaria di autore, v. supra,

§ 6. (88) Così D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, 586 e ss. (89) D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, op. cit., 589. Gli Autori precisano che l’individuazione del dominio del fatto come criterio di distinzione tra reità e partecipazione comune tanto ai delitti dolosi che a quelli colposi non esclude, ovviamente, che la presenza del dolo possa poi concretamente influenzare la determinazione obiettiva del fatto. Cerezo Mir rimprovera all’orientamento qui in esame di conciliarsi male con una concezione personale dell’illecito, o generalmente con un concetto di illecito che veda il dolo (o eventualmente la colpa) come elemento soggettivo essenziale del reato. Gli Autori replicano a questo rilievo affermando la piena compatibilità tra una valutazione del dolo come elemento soggettivo del fatto tipico e le note peculiari della Tatherrschaft in senso oggettivo. (90) Supra, § 7. (91) Questa è, in particolare, l’opinione di J. CEREZO MIR, op. cit., 554, che non sembra riscuotere il consenso di D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, op. cit., 589 e ss. (92) L’esempio riportato nel testo è di J. CEREZO MIR, op. cit., 553.


— 303 — ipotesi di vera e propria esecuzione frazionata della condotta delittuosa. La riconduzione di questa peculiare forma di realizzazione concorsuale del reato nell’ambito della poliedrica figura della correità spiega anche le ragioni dell’accoglimento senza riserve, in ambiente spagnolo, della teoria dell’accessorietà limitata come fondamento dell’incriminazione del partecipe (93). Pare allora sempre più chiaro come il problema dei reati ad esecuzione frazionata, ritenuti ostacolo insormontabile all’accoglimento della teoria dell’accessorietà all’interno del sistema penale italiano, non rappresenti affatto un limite intrinseco della suddetta teoria, ma una vera e propria lacuna legislativa del nostro codice penale, certo determinata dalla rozza formulazione dell’art. 110 c.p. Beninteso, il concetto di correità tuttora prevalente nella dottrina tedesca e spagnola non può non suscitare giustificate riserve, essendo formulato su basi che non necessariamente hanno a che fare con l’esecuzione della condotta tipica. Tuttavia esso, opportunamente ricondotto nell’ambito della realizzazione anche frazionata del fatto tipico, ben potrebbe trovare accoglimento in una nuova codificazione penale italiana. Pare del resto contraddittorio affermare, come sostenuto per lungo tempo in dottrina, che nei reati ad esecuzione frazionata manchi una condotta principale e, di conseguenza, non vi sia (nemmeno) un autore. Chi esegue parzialmente la condotta tipica realizza un fatto oggettivamente più grave di chi si limita a fornire un contributo del tutto atipico. Se dunque chi agisce in condizioni di esecuzione frazionata non è (completamente) autore, non è nemmeno complice nel senso classico del termine. 9. Il terreno in rapporto al quale la teoria della ‘‘determinazione oggettiva del fatto’’ raggiunge i suoi sviluppi più originali è senza dubbio quello del concorso nei delitti colposi (94). Luzón Peña e Díaz y García Conlledo criticano, a riguardo, gli orientamenti forse tuttora prevalenti in seno alla dottrina tedesca: l’influsso del finalismo e della sua concezione oggettivo-soggettiva del dominio del fatto avrebbe infatti determinato l’adozione di una concezione unitaria di autore per i delitti colposi. Ciò varrebbe soprattutto per i reati causali puri di evento, laddove non sarebbe opportuno distinguere tra reità e partecipazione o tra differenti forme di reità. Così facendo, tuttavia, i margini della tipicità colposa monosoggettiva diventano talmente elastici da ricomprendere senza discriminazioni di sorta sia la condotta di chi abbia direttamente ed immediatamente violato la norma precauzionale, sia quella di chi abbia solo agevolato o istigato l’inosservanza della regola cautelare: condotte che potrebbero, pertanto, più dignitosamente qualificarsi come vere e proprie forme di partecipazione colposa, comunque non contemplata (anzi, apparentemente esclusa) dai §§ 25 e ss. StGB (95). Secondo i due Autori qui citati, apparirebbe inoltre ancora meno ovvio, sul piano politico-criminale, che tutti coloro che partecipano ad un delitto colposo debbano essere puniti allo stesso modo: quale fondamento può mai essere addotto per giustificare il fatto che il partecipe di un delitto doloso goda, nel sistema penale tedesco, di una diminu(93) Cfr. D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, cit., 580. (94) D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, cit., 598 e ss. (95) Analizzando la parte generale del codice penale tedesco, si potrebbe proprio essere indotti a ritenere, prima facie, non punibile la partecipazione criminosa nei delitti colposi, essendo essa non prevista dai §§ 25 e ss. dello StGB. Basta tuttavia esaminare le posizioni della dottrina più autorevole per scoprire che i casi di concorso nel delitto colposo vengono disinvoltamente affrontati nell’ambito della reità colposa monosoggettiva e che questo, comunque, non esclude la possibilità di configurare una fahrlässige mittelbare Täterschaft o una fahrlässige Mittäterschaft: sul punto, cfr., tra gli altri, P. CRAMER e G. HEINE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, 26a ed., München, 2001, Vorbem § 25, 112 e ss., e J. RENZIKOWSKI, Restiktiver Täterbegriff und fahrlässige Beteiligung, Tübingen, 1997, passim.


— 304 — zione obbligatoria di pena, mentre colui che — per ipotesi — partecipa allo stesso fatto cagionato per colpa debba rispondere con la stessa pena prevista per l’autore (96)? Diverso è, invece, il panorama offerto dalla moderna dottrina penalistica spagnola, dove la possibilità di una distinzione tra reità (97) e partecipazione (98) nei delitti colposi, desumibile implicitamente dalla disciplina di cui agli artt. 27 e ss. del nuovo Código penal, viene da più parti accettata. Altro discorso sarà poi quello relativo alla concreta necessità di punire (o, quanto meno, di punire sempre) la mera complicità colposa, in ossequio al principio di frammentarietà: poiché la partecipazione, in un’accezione restrittiva della reità, rappresenta un’estensione della Tatbestandsmäßigkeit, e la punibilità della colpa ha carattere eccezionale in considerazione della tendenziale minore gravità dei delitti colposi, sembra che alla questione debba darsi risposta negativa (almeno sin quando si intenda la materia penale come ultima ratio). Tale soluzione potrebbe, in verità, produrre in alcuni casi effetti indesiderabili. Ma a questo inconveniente sarebbe semplice porre rimedio creando apposite fattispecie di agevolazione colposa nella parte speciale del codice penale (99). Il quadro sin qui delineato ci consente di verificare come, nel panorama comparatistico europeo, l’istituto del concorso colposo non sia affatto obsoleto o, addirittura, del tutto estraneo alla disciplina della partecipazione criminosa. Negli ultimi anni, il tema sta anzi suscitando rinnovato interesse da parte della dottrina di lingua tedesca e spagnola, in considerazione del suo crescente rilievo nella prassi giurisprudenziale (si pensi, per tacer d’altro, solo alla materia della circolazione stradale e dell’attività medico-chirurgica). In Germania e in Spagna, la rivalutazione del concorso colposo avviene addirittura in assenza di una specifica clausola incriminatrice ad hoc. Il pensiero corre allora alle tormentate vicende dell’art. 113 del codice penale italiano ed al suo incerto destino. Dalla Relazione illustrativa al Progetto preliminare di riforma della parte generale del codice penale si evince la scelta della Commissione Grosso, in controtendenza rispetto ai precedenti progetti Pagliaro e Riz, di espungere l’art. 113 — o un suo equivalente — dalla futura disciplina della partecipazione criminosa (100). La punibilità, in tali casi, ‘‘si ricaverebbe agevolmente dal combinato disposto della norma che prevede il concorso di persone e di quelle che preve(96) D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung und Tatbestandsverwicklichung als Täterschaftsmerkmale, 599. (97) Gli Autori del passo qui commentato ritengono possibile la configurazione colposa di tutte le forme di reità delineate dall’art. 28 Código penal. Avremo pertanto una reità immediata, una reità mediata ed una correità colposa (tipica delle ipotesi di divisione del lavoro e, in generale, delle attività di équipe). La correità presuppone sempre che le azioni dei compartecipi siano in qualche modo coordinate e, per dir così, ‘‘paritetiche’’: i singoli correi, cioè, non devono trovarsi reciprocamente in posizione sovraordinata o subordinata (eventualità, quest’ultima, in cui può — ove ne ricorrano gli estremi — ravvisarsi una reità mediata): cfr. D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung, cit., 604-605. (98) D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung, cit., 606. Si ha, ad es., una partecipazione colposa (non punibile) in senso stretto, e certo istigazione colposa ad una lesione personale o ad un omicidio colposo quando il passeggero di una vettura esorti il conducente a compiere un sorpasso pericoloso, che questi puntualmente esegue cagionando un incidente. Si avrebbe, invece, partecipazione colposa in senso lato quando il complice abbia avuto un ruolo nel decorso causale del fatto principale ma senza il dominio del fatto. Il carattere frammentario della materia penale induce i due Autori a ritenere parimenti non punibile anche la mera partecipazione o istigazione colposa ad un fatto doloso. (99) D.M. LUZÓN PEÑA e M. DÍAZ Y GARCÍA CONLLEDO, Objektive positive Tatbestimmung, cit., 602 e 606. Gli Autori sono dell’opinione che la mera complicità colposa debba restare in linea di principio impunita, nella prospettiva di una selezione frammentaria delle condotte bisognose di pena. (100) Relazione, cit., 613. L’ultima versione del progetto ribadisce implicitamente l’originaria decisione di eliminare ogni riferimento diretto alla figura del concorso colposo.


— 305 — dono i singoli reati colposi’’ (101). La scelta di non riproporre in una futura codificazione penale una clausola generale sul concorso colposo non nasce allora, in base a quel che si legge, dall’intento di abrogare definitivamente la discussa fattispecie della cooperazione colposa (ora definita inutile perché priva di una sua autonoma funzione incriminatrice, ora invece pericolosa perché potenzialmente in contrasto col principio di frammentarietà), ma da quello — più insidioso — di conferire a tale istituto una disciplina solo implicitamente desumibile dalle norme sul concorso doloso. Scelta, questa, che ripropone vieppiù possibili profili di contrasto col carattere frammentario della materia penale, come appena dimostrato dall’esperienza comparatistica. Abrogare l’art. 113 c.p. non significherebbe affatto, in questa prospettiva, ribadire il carattere risolutamente monosoggettivo delle condotte colpose, eventualmente corroborato dalla creazione di un più congruo numero di ipotesi di agevolazione colposa nella parte speciale del codice, ma rimettere ancora una volta all’interpretazione del giudice la valutazione dei diversi margini di rilevanza (monosoggettiva e plurisoggettiva) della tipicità colposa: un rischio che, con ogni probabilità, non è il caso di correre. 10. La Festschrift für Claus Roxin non contiene che pochi cenni alla tematica della partecipazione mediante omissione. Si tratta, tuttavia, di riferimenti estremamente significativi, sia in rapporto all’attuale configurazione della fattispecie che in relazione alle sue prospettive di evoluzione normativa. A ben vedere, le fugaci considerazioni rivolte alla partecipazione omissiva sono di segno radicalmente antitetico: al ‘‘grido di dolore’’ di K. Volk, che definisce il terreno dell’omissione come offene Flanke della Beteiligungsdogmatik (102), si contrappone l’atteggiamento indulgente di J. Cerezo Mir nei confronti del legislatore spagnolo del ’95, che non ha dedicato alcun espresso ed autonomo rilievo alla materia della compartecipazione omissiva nell’altrui reato (103). Tale lacuna non sarebbe, a suo avviso, preoccupante, dato che la giurisprudenza spagnola ha da tempo tranquillamente ammesso la possibilità di una partecipazione mediante omissione nell’altrui reato, sebbene tale forma di partecipazione non trovasse esplicita menzione nemmeno nel vecchio codice penale: affermazione, questa, alquanto ambigua (se non addirittura decisamente inquietante), che sembra postulare una inversione di ruoli in cui il legislatore rinunzia — senza rimpianti né scrupoli di sorta — ad esercitare la sua potestà normativa laddove la giurisprudenza faccia maggior uso del suo talento ‘‘creativo’’. In realtà, anche nei sistemi penali che adottano il modello della tipizzazione differenziata degli apporti criminosi sarebbe più che mai opportuna un’esplicita presa di posizione del legislatore sul ruolo concretamente svolto dallo Hintermann all’interno della fattispecie concorsuale. La complessa diatriba dottrinale sorta oltralpe sui criteri distintivi tra Täterschaft e Beihilfe durch Unterlassen non ha carattere meramente teorico, ma determina importanti conseguenze sul piano del trattamento sanzionatorio: la qualificazione della condotta del concorrente per omissione in termini di Beihilfe comporta infatti l’applicazione sia della diminuzione obbligatoria di pena sancita dal § 27 StGB per le forme di complicità nell’altrui fatto antigiuridico doloso, che della diminuzione facoltativa prevista dal secondo comma del § 13 per il fatto commissivo mediante omissione (104). La questione ermeneutica in esame si rivela delicatissima sia sul piano dogmatico che su quello politico-criminale: (101) Relazione, loc. ult. cit. (102) K. VOLK, Tendenzen zur Einheitstäterschaft, cit., 568. (103) J. CEREZO MIR, Täterschaft und Teilnahme, cit., 557. (104) Si riporta, per comodità del lettore, il testo del § 13 StGB. Begehen durch Unterlassen (Commissione mediante omissione). 1. ‘‘Chi omette di impedire un evento previsto dalla fattispecie di una norma penale è punibile secondo questa norma solo se è giuridicamente obbligato ad impedire il verificarsi dell’evento e se l’omissione corrisponde alla realizzazione del reato mediante una condotta attiva. / 2. La pena può essere diminuita ai sensi del § 49 comma 1o’’.


— 306 — contro un inquadramento rigoroso delle forme di partecipazione omissiva lato sensu intese nella disciplina della Täterschaft milita, come si è appena visto, la (rinuncia alla) possibilità di applicare addirittura una duplice diminuzione di pena. Per converso, contro un generalizzato inquadramento delle condotte omissive nell’ambito della Beihilfe milita proprio la prospettazione di un trattamento sanzionatorio che può rivelarsi inopinatamente favorevole al reo anche nei casi in cui l’omissione si riveli di particolare gravità. Del resto, lo stesso § 13 StGB afferma che il disvalore dell’omissione può essere equivalente a quello della condotta attiva, sebbene tale equiparazione non appaia in linea di principio affatto scontata (105). Sono sufficienti queste brevi riflessioni per comprendere come la mancata previsione di (105) I nodi centrali della diatriba su reità e complicità mediante omissione vertono su almeno tre questioni determinanti ai fini della qualificazione delle forme di concorso omissivo lato sensu intese: a) azione ed omissione appaiono, in particolare agli occhi della dottrina più risalente, come due categorie ontologicamente irriducibili ad un minimo comun denominatore. Di conseguenza, la partecipazione omissiva all’altrui fatto delittuoso rappresenta una forma di concorso solo analoga a quella commissiva, ma sostanzialmente diversa da essa nei presupposti e nella struttura; b) il predominante criterio della Tatherrschaft appare in grado di risolvere con successo la qualificazione della condotta di concorso in termini di reità ovvero di complicità solo e soltanto in rapporto ai reati commissivi, ma si rivela inutile — a detta dello stesso Roxin — sul terreno della partecipazione mediante omissione all’altrui reato: se la fonte di pericolo è rappresentata dalla condotta umana di un terzo autoresponsabile, il garante non può avere il dominio del fatto perché non è in grado di determinare il se ed il come degli accadimenti. Eppure, giungere per questa via a qualificare tutte le forme di concorso omissivo nel fatto illecito altrui in termini di complicità, come pure è stato autorevolmente sostenuto, si rivela soluzione per un verso insoddisfacente — per l’impossibilità di determinare aprioristicamente il disvalore della condotta omissiva e le circostanze del caso concreto — e, per altro, inesatta: qualificare l’omissione sempre e soltanto come complicità nell’altrui reato sulla base del criterio della Tatherrschaft significa ignorare o, quanto meno, sottovalutare gravemente le caratteristiche strutturali peculiari ed autonome della responsabilità per omesso impedimento dell’evento; c) il contenuto dell’obbligo di garanzia può rivelarsi decisivo ai fini della qualificazione del ruolo dell’omittente all’interno della fattispecie concorsuale: ove infatti il garante non abbia, in concreto, poteri impeditivi dell’altrui fatto di reato ma solo obblighi di ‘‘contenimento’’ e di vigilanza su condotte pericolose di terzi, la sua omissione potrebbe acquisire rilevanza in termini di mera agevolazione negativa dell’altrui fatto di reato. Il criterio della determinazione della rilevanza causale della condotta omissiva è però, in questi termini, stravolto: ai fini della valutazione del non agere come forma di complicità, ci si accontenta — tramite un’applicazione in negativo delle teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento — del fatto che il garante, con la sua omissione, non abbia ridotto il rischio della verificazione dell’evento-reato, rendendo le cose ‘‘più difficili’’ ad un esecutore materiale che appaia come dominus incontrastato del fatto. Aderire a tale orientamento comporta, a ben vedere, un’inaccettabile estensione dei confini della punibilità: l’omissione risulterebbe, per tal via, rilevante anche qualora si dimostri che essa non sarebbe valsa ad impedire l’evento. Ma ciò va contro la stessa logica del § 13 StGB: l’ordinamento non esige dal garante sforzi inutili, e vincola la sua responsabilità penale ai soli casi in cui si accerti che la condotta doverosa sarebbe valsa ad impedire l’evento con una probabilità quanto meno vicina alla certezza. All’interno di questo complesso contesto dogmatico, le opinioni della dottrina d’oltralpe in materia possono essere idealmente ricondotte a tre grandi gruppi: ad un primo e più risalente orientamento, strettamente legato alla teoria finalistica dell’azione, che nega risolutamente la configurabilità di forme di complicità omissiva nell’altrui reato si contrappongono, da un lato, le interpretazioni di chi riconduce tutte le condotte di partecipazione omissiva alla figura della Beihilfe; dall’altro, le posizioni ‘‘eclettiche’’, che distinguono reità e partecipazione omissiva in rapporto al contenuto ed alla specie dell’obbligo di garanzia (rectius: ai poteri interdittivi dell’altrui reato spettanti al garante ed alla sua effettiva capacità di interferire sul decorso causale posto in essere dal terzo). Del tutto originale è infine la posizione di Roxin, che qualifica la complicità per omissionem commissa come una fattispecie ‘‘residuale’’ rispetto alla reità, in cui i dettami della tipicità omissiva non sono compiutamente e congiuntamente presenti. Per una più puntuale ed articolata esposizione delle opi-


— 307 — un’autonoma clausola generale per i casi di partecipazione omissiva nell’altrui reato, collegata ad un’attenta definizione dei poteri impeditivi dell’altrui reato posseduti dallo Hintermann, non possa essere considerata come un trascurabile dettaglio. Prova ne sia l’attuale confusa configurazione della tematica della partecipazione omissiva nel sistema penale italiano, dove proprio l’assenza di una disposizione ad hoc induce la dottrina forse tuttora prevalente e la giurisprudenza a sostenere la praticabilità di una vera e propria ‘‘schizofrenia ermeneutica’’ in rapporto all’art. 40 cpv. Combinandosi insieme all’art. 110 c.p., l’ambito di operatività della clausola di equivalenza tra azione ed omissione si estende ben al di là del territorio dei reati causali puri di evento: in una manifestazione plurisoggettiva, l’evento non impedito ex art. 40 cpv. c.p. diventa sinonimo dell’intero fatto illecito altrui, indipendentemente dalla presenza o meno in esso di quell’evento in senso naturalistico altrimenti ritenuto presupposto indefettibile della responsabilità commissiva mediante omissione in ambito monosoggettivo (106). Per queste ragioni, non può che essere accolto favorevolmente l’intento del Progetto preliminare di riforma del codice penale italiano — tradottosi nella formulazione di una disciplina degli obblighi di garanzia quanto mai dettagliata — di tipizzare in apposite clausole generali i più rilevanti obblighi di impedimento dell’altrui reato, come quello gravante ad es. sugli appartenenti alle forze dell’ordine (107), e di prevedere nell’ambito della disciplina del concorso di persone nel reato una specifica circostanza attenuante per i casi di partecipazione omissiva nell’altrui reato (108). Tale attenuante, peraltro, essendo destinata ad operare fuori dei casi di previo accordo, sembra dover assumere un ambito di operatività assai poco significativo, in grado, come tale, di vanificare gli scopi sottesi alla sua introduzione. Sembra quasi, anzi, che la definizione del ruolo dell’omittente all’interno della fattispecie concorsuale sia affidata proprio all’elemento del previo accordo: lo Hintermann si troverebbe dunque in posizione equivalente a quella dell’autore solo in caso di pregresso pactum sceleris con gli altri concorrenti, indipendentemente dai poteri connessi al suo obbligo di garanzia e, di conseguenza, dal ‘‘peso’’ della sua partecipazione. I problemi qui appena sfiorati fanno apparire più che fondata la preoccupazione espressa da K. Volk circa il ‘‘fianco scoperto’’ della dogmatica del concorso di persone: in attesa di eventuali univoche indicazioni legislative in sede di riforma, il terreno della partecipazione mediante omissione, a fronte della crescente espansione nella prassi giurisprudenziale, dev’essere ragionevolmente ricondotto entro i binari dei principi di tassatività e frammentarietà. LUCIA RISICATO Ricercatore di diritto penale nell’Università di Messina

nioni qui brevemente richiamate, sia consentito il rinvio a L. RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., 414 e ss., ed Autori ivi citati. (106) Sia ancora una volta consentito il rinvio a L. RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., 375 e ss. (107) La disciplina della responsabilità per omissione è contemplata dagli artt. 16-24 dell’articolato, in questa Rivista, cit., 664 e ss. (108) Si tratta della circostanza descritta dal secondo comma dell’art. 44 dell’articolato (in questa Rivista, cit., 669).


COMMENTI E DIBATTITI

RADBRUCH E GIULIANO VASSALLI (*)

Nella storia breve dei non più giovani penalisti della mia generazione, è rimasto vivo il ricordo — direi: è rimasta viva l’impronta — del ‘‘viaggio in Germania’’. Il primo, s’intende, e poi gli altri che sono venuti dopo: Freiburg, Heidelberg, Münster in Westfalen (ed altre città, altre Università, altri Istituti giuridici). Il primo approdo di chi scrive risale agli inizi della seconda metà degli anni ’50, e dunque ad anni ormai lontani. Ma come non ricordare ancora, al primo impatto, poco fuori dalla stazione ferroviaria di Colonia, e tra i ruderi di mura annerite dalle distruzioni della guerra, il profilo solenne della cattedrale nella luce del tramonto? S’andava in Germania, allora — e non mancherà certo chi ripercorre quegli itinerari — per una specie di rito, e di omaggio doveroso. E se ne tornava, ogni volta, con un nostro bagaglio di volumi, oltre che di ricordi: Heidegger, Jaspers, Hermann Hesse, Heinrich Böll. Ma accanto a loro c’erano, in ben maggior mole (che fatica per le nostre valigie post-belliche!) i libri giuridici, di nuova o nuovissima edizione. E così ci siamo portati a casa i nostri Radbruch e i nostri Welzel: e facevano loro compagnia gli scritti di Eberhard Schmidt e di Engisch, Sauer, Jescheck e Peters, Mezger e Niese, Klug e Würtenberger, e molti altri. Radbruch, per l’appunto filosofo e penalista, era un po’ il loro capofila, così che gli si addiceva una specie di posto d’onore nel comparto tedesco delle librerie. A Radbruch ci richiama ora, e ci riporta, questo sorprendente e recentissimo volume di Giuliano Vassalli, dedicato alla notissima ‘‘formula di Radbruch’’: quella che ha scolpito, con grande chiaroveggenza, il superamento del ‘‘gesetzliches Unrecht’’ da parte dell’ ‘‘übergesetzliches Recht’’. Di tale superamento il sottotitolo del libro — Note sulla punizione dei ‘‘delitti di Stato’’ nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista — descrive ed inquadra, per mutar di contesti, la controversa ed ammirevole fecondità. Ma il lettore avverte súbito — attraverso la ricca e documentatissima analisi, di carattere storico-critico — che si tratta ben di più che di semplice note. E prova spontaneo, alla fine, un sentimento di viva ammirazione, ed anche di gratitudine, per l’autore ‘‘ancora malinconico amante di diritto penale e di giustizia’’ (p. XIII prefaz.). Giunge però intanto notizia che l’Università di Bologna conferirà prossimamente a Giuliano Vassalli la laurea ad honorem. E ci sembra bello allora pensare, assecondando il calendario delle emozioni e dei sentimenti, che, nel libro — la sua ‘‘tesi di laurea’’? — i meriti e l’onore si compongano in una sintesi felice. (M. PISANI).

(*) A proposito di GIULIANO VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto penale, Milano, ed. Giuffrè, 2001, pp. XIV-319 [vd. anche la recensione di L. MASERA a p. 334 s.].


A PROPOSITO DI S. CANESTRARI, DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE. AI CONFINI TRA DOLO E COLPA NELLA STRUTTURA DELLE TIPOLOGIE DELITTUOSE

1. L’opera di delimitazione reciproca di dolo e colpa resta tuttora, come ebbe a dire Welzel, ‘‘la piu difficile e la piu discussa del diritto penale’’. Questo tema, ad un tempo attuale ed affascinante, si arricchisce oggi dell’importante e approfondito contributo di Stefano Canestrari, che si segnala, tra l’altro, per l’ampio respiro sistematico, l’equilibrio delle soluzioni proposte, e l’attenzione per la casistica, assunta a costante banco di prova dei più significativi passaggi dell’indagine. Lo studio, superando la pretesa contiguità tra gli avamposti di confine delle due principali regioni della colpevolezza, si propone di individuare un discrimine tra dolo eventuale e colpa con previsione, capace di soddisfare le esigenze di punibilità connesse a fatti contraddistinti da elementi psicologici sfuggenti o ambigui. Si pensi alla condotta dell’hiv carrier che, senza informare il partner, concluda un rapporto sessuale non protetto e, ovviamente, non violento. Un’ipotesi, questa, assai problematica e, per altro, recentemente sottoposta anche al vaglio della nostra giurisprudenza. Più in generale, il progressivo diffondersi di attività pericolose, ma consentite, assieme all’aumento di contegni devianti rispetto ad attività lecite, hanno scardinato l’allocazione dei rischi sottintesa al versari in re illicita, mettendo in luce la fragilità del canone interpretativo cui si affida tuttora la giurisprudenza. Del resto anche le teoriche tradizionali proposte dalla dottrina, non riescono ad illuminare la zona grigia tra le due forme di colpevolezza. Teorie fragili ed obsolete, come quelle della probabilità o della possibilità — osserva Canestrari — possiedono soltanto una residua capacità indiziaria. Quanto alle tesi ‘‘dell’operosa volontà di evitare l’evento’’, essa conduce ad epiloghi applicativi contraddittori e, per tanto, non può che risultare inefficace. Allo stesso modo, la teoria ‘‘dell’indifferenza’’, che rimette la qualifica dell’elemento soggettivo ad indici totalmente interni all’agente, finisce col risultare inutilizzabile. E ancora: la teoria ‘‘dell’approvazione dell’evento’’ offre ai giudici strumenti d’indagine eccessivamente manovrabili. Invero, anche nella versione apparentemente più rigorosa proposta dalla Corte Federale Tedesca, questa teoria desume dalla mera conoscenza dei possibili rischi la volontà di provocare l’evento lesivo, appiattendo così l’elemento volitivo su quello cognitivo. Infine i risultati cui conduce la teoria del ‘‘pericolo non schermato’’ non paiono sempre conseguenti al grado di offensività dei rispettivi fatti di reato. Quale ipotesi meno esposta a critiche, resta sul campo, allora, quella dell’accettazione del rischio di produrre l’evento lesivo, che però — conclude l’autore — ha bisogno di essere integrata da canoni che ne favoriscano l’applicazione rispetto alle varie tipologie di reato. 2. Muovendo da queste premesse, Canestrari analizza innanzitutto la nozione di dolo eventuale e quella di colpa cosciente. Per quanto riguarda la prima, Canestrari accoglie la definizione che, utilizzando la coppia concettuale accettazione del rischio/fiducia che l’evento non si verifichi, individua il dolus eventualis nella decisione personale dell’agente a favore della possibile lesione del bene giuridico. La nozione di colpa cosciente, invece, rappresenta la migliore sintesi tra i due canoni ermeneutici che, stando alle teoriche più recenti, caratterizzano il processo d’imputazione a titolo colposo: la misura oggettiva della colpa, da un lato, e dall’altro quella soggettiva. Difatti il titolo di responsabilità descritto dall’articolo 61,


— 310 — numero 3, c.p., risulta aggravato poiché, in quelle ipotesi, il soggetto ha previsto l’evento lesivo, divenendo pertanto consapevole della portata teleologica della norma cautelare violata. Ciò, per un verso, giustifica il più rigoroso trattamento sanzionatorio fissato dall’aggravante; per l’altro, spiega la minor entità delle pene previste in conseguenza di gravi negligenze, rispetto a quelle fissate per le omologhe ipotesi dolose. La maggior severità del giudizio sulla colpevolezza dolosa, infatti, non dipende dalla sua maggiore capacità offensiva, ma dal fatto che l’agente ha leso volontariamente il bene giuridico protetto. Se queste sono le differenze strutturali che separano le due principali categorie della colpevolezza — argomenta Canestrari — allora anche l’esistenza delle forme estreme del dolo e della colpa dovrà essere verificata sulla base di canoni interpretativi adeguati alla natura delle rispettive tipologie di responsabilità personale. Pertanto, Canestrari respinge sia quelle teorie che intendono distinguere dolus eventualis e colpa cosciente esclusivamente in base all’erronea rappresentazione del processo causale, sia quelle che, in forza di elaborazioni riassunte dal motto ‘‘non c’è dolo senza colpa’’, ritengono che il minimo comune denominatore di tutte le forme di colpevolezza sia dato dalla violazione di una norma cautelare. Piuttosto, dall’analisi delle ragioni che suggeriscono di abbandonare l’idea che dolo e colpa abbiano una base di rischio unitaria, emerge il ruolo svolto dal canone dell’agente modello. Essenziale per il processo d’imputazione colposa, esso non potrà che incidere in negativo anche su quello a titolo doloso. Difatti, se il rischio assunto dall’agente non fosse nemmeno riconducibile ai parametri dell’homo eiusdem professionis et condicionis, in quanto questi, calato nella situazione concreta, non avrebbe neanche preso in considerazione la possibilità di attivarlo, l’interprete dovrà propendere per la sussistenza del dolo eventuale. L’intuizione di Canestrari mostra subito i suoi punti di forza; pur evitando di esaurire l’indagine sul piano dell’elemento obiettivo, essa conferisce anche al dolo indiretto una residuale base normativa, ancorandone saldamente l’individuazione alla tipicità del fatto. Detto altrimenti: la ricostruzione proposta dall’Autore, da un lato, non esclude che la progressione lesiva di contegni ab origine criminosi possa condurre a imputazioni a titolo di colpa cosciente per i fatti previsti, ma non voluti dall’agente; dall’altro, consente di determinare la rilevanza penale di eventi lesivi causati sia all’area del rischio consentito, sia in quella delle attività ab origine lecite. Così, per tornare ad un caso che può considerarsi paradigmatico, il marito sieropositivo che, senza informarla del proprio stato di salute, abbia avuto con la moglie ripetuti rapporti non protetti, sarà chiamato a rispondere a titolo di dolo indiretto dell’esito letale della malattia trasmessa alla consorte. 3. Proseguendo nell’indagine, l’Autore mette in luce le differenze tra la soglia normativa del dolo e quella della colpa. Per quest’ultima, essa è fissata dalle conoscenze e competenze riferibili all’agente modello. Il gradino normativo del dolo, invece, è scolpito dall’articolo 49.2 del C.p., che, individuando il limite di punibilità del fatto nel requisito dell’idoneità offensiva della condotta, impone di tener conto anche delle conoscenze eventualmente superiori del singolo. Di conseguenza, l’attivazione di un rischio rilevante ai fini dell’imputazione dolosa potrebbe non rivelarsi tale rispetto a quella colposa. Queste premesse consentono di chiarire l’essenza volitiva del dolo intenzionale e di quello indiretto e, ad un tempo, l’operatività del discrimine tra dolus eventualis e colpa cosciente. Rispetto al dolo intenzionale, che si ha quando la produzione dell’evento o del fatto tipico sono direttamente prese di mira dall’agente, la valutazione delle particolari conoscenze del soggetto offre una base oggettiva utile per accertare l’esistenza dell’intento lesivo. Si ipotizzi — prosegue Canestrari — che un chirurgo si trovi ad operare d’urgenza un socio del proprio club, il quale anni prima, durante una conversazione casuale, gli aveva parlato della propria intolleranza ai comuni anestetici. Non ricordandosi di tale circostanza, il medico fa eseguire gli esami clinici previsti dal protocollo clinico standard. Questi, però, non sono in grado di rivelare la particolare patologia di cui soffre il paziente che, in seguito alla somministrazione degli anestetici ordinari, muore durante l’operazione. Ebbene, il contegno del medico — conclude Canestrari — non rileva ai fini di un’imputazione colposa. Secondo


— 311 — le leges artis, infatti, soltanto il medico di famiglia era tenuto a conoscere e a tener a mente tale circostanza. Se, al contrario, il clinico, ricordandosi dell’intolleranza, ne approfitta per liberarsi del marito della propria amante, saranno integrati gli estremi dell’omicidio volontario. E ancora: se il medico, pur volendo salvare il paziente, segue il protocollo standard perché non ha un farmaco alternativo, ma non vuol subire lo smacco di far trasferire il paziente in un’altra clinica, risponderà ugualmente del decesso, ma a titolo di dolo eventuale. Per quanto riguarda invece il dolo diretto, che ricorre quando l’agente prevede come sicura o altamente probabile la produzione dell’evento lesivo, Canestrari rifiuta le teoriche che lo accomunano al dolo eventuale, poiché la valutazione dell’entità del pericolo attivato, da effettuarsi ex ante sulla base di eventuali conoscenze superiori dell’agente, lo avvicinano piuttosto al dolo intenzionale. Ciò vale anche per le ipotesi di oblique intention, nelle quali l’incertezza non cade sull’evento accessorio, ma su quello preso di mira dal soggetto. È il caso dell’armatore che, con un congegno esplosivo a distanza, voglia affondare la nave per riscuotere il premio assicurativo, pur sapendo che ciò provocherà la morte di parte dell’equipaggio. I dubbi circa il funzionamento dell’ordigno, infatti, non incidono sul nesso psicologico che interessa l’offesa alla vita dell’equipaggio, considerata comunque una conseguenza certa dell’incerta esplosione. Infine, sul discrimine tra dolus eventualis e colpa con previsione, Canestrari ricorda come, per formulare il giudizio di riconoscibilità da parte dall’homo eiusdem professionis et condicionis, si dovrà tener conto anche delle eventuali conoscenze superiori dell’agente, non essendo sufficiente che egli abbia attivato un rischio non consentito. Così, colui che partecipi a sport violenti, pur conoscendo il deficit fisico dell’avversario, risponderà a titolo di dolo eventuale del decesso del suo antagonista. 4. L’indagine di Canestrari prosegue approfondendo la linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente anche al di fuori del prototipo dei reati d’evento commissivi e causalmente orientati. Iniziando da quelli di mera condotta, l’Autore, superata la sterile dicotomia tra concezione naturalistica e giuridica dell’evento, aderisce alla nozione di evento significativo, quale accadimento esteriore, comprensivo della condotta, nel suo significato umano e sociale. Su questa base, distingue due categorie in cui queste fattispecie possono essere suddivise. Nella prima, la descrizione del contegno, è affiancata da quella degli elementi atti ad esprimere il disvalore del fatto. Così per il reato descritto dall’articolo 527 c.p., il risultato offensivo dipende dalla visibilità degli atti osceni. Ebbene, in tali fattispecie si potrà ipotizzare sia un’imputazione a titolo di dolo eventuale, sia a titolo di colpa con previsione, a seconda che il rischio circa la concreta realizzazione della ‘‘situazione tipica pregnante’’ sia o meno riconducibile a quelli riconoscibili dall’homo eiusdem professionis et condicionis. La seconda categoria di reati di mera condotta è costituita da fattispecie per le quali non è possibile distinguere adeguatamente il fatto dalla sua antigiuridicità. Nel contesto di tali previsioni, è arduo perfino distinguere il dolo dalla colpa, dato che, il più delle volte, la natura dolosa del delitto finisce per identificarsi con quella della condotta (si pensi alla detenzione clandestina di un’arma). Di conseguenza, il tentativo di identificare il limite tra dolus eventualis e colpa cosciente più che frustrato, sembra destinato, in questi casi, a restare in radice inoperante. Passando ai reati di pericolo, Canestrari precisa preliminarmente i contorni del dolo di pericolo. Anche questo particolare abitus del dolo — osserva l’Autore — si fonda sia sulla rappresentazione, che sulla volontà del fatto, ragion per cui, non risultano condivisibili le teoriche che lo assimilano alla colpa con previsione. Ciò non vuol dire, però, che tal forma di dolo debba esser confusa con quella del dolo indiretto di danno. Quest’ultimo, infatti, presupponendo la percezione dei fattori di rischio produttivi di un evento, richiede che la rappresentazione dell’agente ricada su elementi estranei ai reati di pericolo. Canestrari ritiene invece che sussista uno spazio applicativo autonomo per il dolo eventuale di pericolo, che ricorre ogni qualvolta la creazione del pericolo non possa dirsi sicura, ma dipenda da fattori ignorati dall’autore o successivi alla sua condotta. Si pensi al terrorista


— 312 — che, programmata per le due del mattino l’esplosione dell’ordigno piazzato in un ufficio pubblico, a quell’ora solitamente deserto e distante dalle abitazioni, si immagini che, al momento dell’esplosione, possa passare di lì una guardia. Poiché, per Canestrari, la colpa con previsione è incompatibile con i reati di pericolo concreto, rispetto a tali fattispecie, la riconoscibilità del rischio attivato traccerà dunque la linea di demarcazione tra colpa incosciente e dolus eventualis. Si pensi al viticoltore che lavori del vino usando una sostanza potenzialmente nociva: se lo immette sul mercato, essendo consapevole della pericolosità della sostanza usata, risponderà a titolo di dolo eventuale del reato di cui all’articolo 440 c.p. altrimenti sarà imputabile per colpa, ai sensi dell’articolo 452 c.p. Infine, nei confronti dei reati di pericolo astratto, l’Autore osserva come lo speciale processo di tipizzazione della regola cautelare in essi contenuto, li renda incompatibili sia con il dolo eventuale (il soggetto non potrà non voler la creazione del pericolo), sia con la colpa con previsione. Per quanto riguarda i reati omissivi impropri, Canestrari, richiamando gli argomenti già impiegati per illustrare il diverso atteggiarsi della componente normativa dolosa rispetto a quella colposa, distingue, già a livello di tipicità, le omissioni dolose da quelle colpose. Respinte le teoriche che non ritengono il dolus eventualis compatibile con queste tipologie di reati, l’Autore non accoglie nemmeno quelle che deducono la natura dell’elemento psicologico dalla valutazione comparativa degli interessi in gioco, visto che, tra l’altro, esse avrebbero il torto di affidarsi ad un indice meramente interno al reo. Così, l’unico discrimine che resta validamente sul campo è, ancora una volta, quello della riconoscibilità del rischio attivato da parte dell’agente modello. In virtù di questo canone ermeneutico, Canestrari qualifica come coscientemente colposo il contegno dei genitori testimoni di Geova che, in ossequio alle loro credenze religiose, hanno rifiutato di sottoporre ad emotrasfusione la figlia, poi deceduta. Nel campo del diritto penale dell’economia, infine, Canestrari analizza l’atteggiarsi dell’elemento soggettivo dei reati di bancarotta. Premesso che il rischio, compreso quello cui risultano esposte le garanzie creditorie, è immanente all’attività d’impresa, se l’azzardo che si è assunto l’imprenditore non dovesse risultare neanche riconoscibile da parte dell’agente modello, si dovrà ipotizzare un’imputazione dolosa, atta ad integrare gli estremi della bancarotta fraudolenta di cui all’articolo 216 della legge fallimentare. Ma, in caso contrario, la responsabilità per le operazioni avventate dovrà essere ricondotta nella sfera della colpa cosciente e l’imprenditore sarà chiamato a rispondere di una delle fattispecie previste dall’articolo 217. Incidentalmente l’Autore osserva come tale ricostruzione presenti il vantaggio di segnare chiaramente il limite tra le reciproche sfere di applicabilità delle norme, ampliando la rilevanza delle fattispecie colpose. 5. Nell’ultima parte del suo studio Canestrari volge lo sguardo alle prospettive di riforma, soffermandosi sulle soluzioni proposte, de lege ferenda, dalla dottrina. Qui viene in rilievo la recklessness, istituto di common law incentrato sulla consapevole accettazione di un rischio ingiustificato o irragionevole. Secondo alcuni autori, infatti, essa, ponendosi a metà strada tra dolo e colpa, potrebbe semplificare l’accertamento delle figure di confine della colpevolezza. Per la verità, all’originaria concezione soggettiva dell’istituto, delineata dal leading case Cunningham, se ne è aggiunta una oggettiva, che, incentrandosi esclusivamente sull’irragionevolezza del rischio, lascia sullo sfondo l’indagine circa la componente volitiva dell’agente. Non a caso, la dottrina di lingua inglese ha chiesto al legislatore di ricondurre tale forma di colpevolezza nel proprio alveo originario. Prendendo spunto da questa disamina comparatistica, Canestrari osserva che, a prescindere dalle difficoltà concernenti l’inserimento di un istituto di matrice anglosassone in un ordinamento d’ispirazione continentale, la creazione di un tertium genus intermedio tra il dolo e la colpa non riuscirebbe, nei fatti, a semplificare l’indagine circa le più problematiche ipotesi di colpevolezza. Quanto alla proposta di rifarsi al modello della ‘‘mise en danger de la personne’’, previsto dal nuovo Codice Penale Francese, Canestrari rileva come, ad un’attenta analisi, questa nuova figura di responsabilità per volontaria creazione del pericolo, più che rappresentare un’innovazione, si


— 313 — risolve nella descrizione legislativa di una forma d’imputazione del tutto simile al nostro dolo eventuale. Alla luce di queste osservazioni, Canestrari propone d’inserire nella parte dell’articolo 43 c.p., dedicata alla definizione del dolo in generale, la nozione di quello eventuale, quale responsabilità volontaria che sussiste ogni qualvolta ‘‘l’agente si rappresenti concretamente la realizzazione del fatto tipico quale conseguenza possibile della propria condotta e ne accetti la verificazione’’. Lo scopo della proposta novella legislativa — conclude Canestrari — non dovrebbe essere quello di ‘‘semplificare’’ l’accertamento in concreto dell’elemento psicologico, ma, piuttosto, quello di indicare con chiarezza i caratteri del dolus eventualis che gli interpreti, e primo fra tutti il giudice, saranno chiamati ad accertare in concreto. dott. STEFANO BELLI


RASSEGNE

a) GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE (*) CODICE PENALE Parte generale

ART. 166 Sospensione condizionale della pena e diniego di licenza commerciale (Ord. 16 marzo 2001, n. 72, in G.U., I serie speciale, 28 marzo 2001, n. 13; Manifesta infondatezza) Viene sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 35 Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 166 c.p., come modificato dall’art. 4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 2, comma 5, della legge 25 agosto 1991, n. 287 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici servizi), nella parte in cui si prevede che la sospensione condizionale della pena non vale ad escludere per gli esercenti un pubblico esercizio commerciale il diniego di concessione, di licenza o di autorizzazione necessarie per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Il remittente osserva come, sebbene, in relazione alle ipotesi di rilevanza della condanna penale ai fini del riscontro dei requisiti soggettivi per ottenere l’iscrizione in albi o elenchi, valga, in generale, il principio sancito dall’art. 166 c.p., secondo cui la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire di per sé sola impedimento all’accesso a posti di lavoro, né determinare il diniego di concessioni, licenze o autorizzazioni necessarie per svolgere l’attività lavorativa, tuttavia, in relazione allo specifico settore dei pubblici esercizi commerciali, rileverebbe l’art. 2 della legge 25 agosto 1991, n. 287, il quale — una volta previsto per l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande la necessità di iscrizione del titolare dell’impresa o del legale rappresentante della società o di un suo delegato in apposito registro — specifica che in tale registro, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione, non possono essere iscritti per una durata quinquennale (e se iscritti debbono essere cancellati) coloro che abbiano riportato determinate condanne, tra cui condanne per reati contro la moralità pubblica e il buon costume o contro l’igiene e la sanità pubblica, compresi i delitti di cui al libro VI, Capo II, del codice penale. La Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione: deve escludersi sia una ingiustificata disparità di trattamento sia una manifesta irragionevolezza nella scelta del legislatore che, per gli esercenti (con funzioni di responsabilità) di pubblici esercizi, abbia previsto un particolare regime di durata quinquennale dell’effetto impeditivo della condanna, escludendo qualsivoglia rilevanza della sospensione condizionale della pena in quanto deve tenersi conto della specificità del settore e del particolare legame tra la tipologia dell’attività svolta ed i reati in relazione ai quali detto effetto impeditivo è disposto. Risulta altresì infondato per i giudici il richiamo all’art. 35 Cost. non potendosi evincere dalla tutela costituzionale del lavoro alcun vincolo specifico per quanto attiene alla disciplina (ordinanza (*)

A cura di Marilisa D’Amico.


— 315 — n. 226 del 1997) dei requisiti soggettivi previsti per una determinata attività che esige particolari garanzie anche per gli utenti del pubblico esercizio. ART. 176 Liberazione condizionale (Sent. 17 maggio 2001, n. 138, in G.U., I serie speciale, 23 maggio 2001, n. 20; Infondatezza) Un Tribunale di sorveglianza dubita della legittimità costituzionale dell’art. 176 cod. pen., nella parte in cui, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di cassazione (che il rimettente assume in termini di « diritto vivente » e che risulta comunque vincolante per lo stesso in quanto giudice del rinvio), attribuisce particolare rilievo, ai fini della valutazione del « sicuro ravvedimento » richiesto per la concessione della liberazione condizionale, alle manifestazioni di effettivo interessamento del condannato per la situazione morale e materiale delle persone offese ed ai tentativi fatti, nei limiti delle sue possibilità, per attenuare, se non riparare interamente, i danni provocati (cfr. Cass. pen., sez. I, 13 maggio 1991, Raimondo, in Cass. pen., 1992, 2751; Cass. pen., sez. I, 7 aprile 1993, Cerea, ivi, 1994, 2437). Questo atteggiamento assumerebbe rilievo nell’ipotesi in cui il condannato si trovi nell’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato. La violazione costituzionale riguarderebbe così sia l’art. 27, terzo comma, Cost., dal momento che la finalità rieducativa, cui l’istituto della liberazione condizionale è ispirato, sarebbe subordinata ad interessi civilistici di natura patrimoniale, sia l’art. 3 Cost., in quanto si avallerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento fra i condannati che dispongono dei mezzi economici per adempiere le obbligazioni civili (i quali potrebbero essere considerati « ravveduti » sulla base dei soli risultati del trattamento penitenziario) ed i condannati che ne sono privi (ai quali si richiederebbe, di contro, in aggiunta alla dimostrazione dell’incapacità di adempiere dette obbligazioni, anche una fattiva « manifestazione di solidarietà » verso le persone offese). La questione è dichiarata infondata. In primo luogo la collocazione tendenzialmente ‘‘terminale’’, all’interno di quel processo di progressiva « risocializzazione » del condannato a pena detentiva, della liberazione condizionale comporta come presupposto normativo un « ravvedimento », non meramente congetturale o probabile, ma « sicuro » ossia certamente avvenuto. In questa prospettiva, pur interpretando il concetto di « rieducazione », evocato dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, come mero rispetto della « legalità esteriore », intesa quale acquisizione dell’attitudine a vivere senza commettere (nuovi) reati, riveste fondamentale importanza che una prognosi sicuramente favorevole su tale versante non possa fare a meno dalla valutazione di comportamenti che rivelino l’acquisita consapevolezza, da parte del reo, dei valori fondamentali della vita sociale. È in questa ‘‘cornice’’ — specifica la Corte — che si spiega la giurisprudenza di legittimità non condivisa dal remittente: se il « sicuro ravvedimento », di cui all’art. 176 cod. pen., non può essere identificato nella mera astensione da violazioni delle norme penali e di disciplina penitenziaria, ma postula comportamenti positivi, esponenziali di valori fondamentali della vita in comune, ecco che tra questi deve annoverarsi ‘‘la solidarietà sociale’’, la quale richiede l’adempimento di doveri che l’art. 2 Cost. definisce inderogabili. Per chi è stato autore di un reato, un indice particolarmente significativo dell’acquisita consapevolezza di tale valore non può non essere rappresentato dall’atteggiamento assunto nei confronti della vittima del reato stesso. Senza poi tacere di come la condizione dell’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato viene in effetti in rilievo, non solo, e non tanto, per la sua funzione oggettiva di reintegrazione patrimoniale, ma anche, e soprattutto, come indice « soggettivo » dell’intervenuto ravvedimento. La Corte illustra poi l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione censurato dal remittente specificando come l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili, venga interpretata in senso non assoluto, ma relativo: in altre parole non solo non occorre un totale difetto di risorse economiche ma le manifestazioni di ‘‘interessamento’’ per le vittime ed i tentativi di le-


— 316 — nire il nocumento loro causato devono restare confinati nei limiti delle concrete possibilità del reo (e, cioè, di quanto da lui realisticamente ‘‘esigibile’’). Inconsistente poi si dimostra la censura circa eventuali disparità di trattamento: se l’‘‘indice del ravvedimento’’, per il condannato che ne ha la capacità, viene ricavato dall’effettivo ed integrale adempimento delle obbligazioni civili, quello per il condannato che non ha mezzi adeguati è tratto da alternative forme di interessamento per le sorti delle persone offese, le quali ben si sostituiscono al concreto sacrificio economico richiesto al primo. ART. 222 Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (Ord. 17 maggio 2001, n. 146, in G.U., I serie speciale, 23 maggio 2001, n. 20; Manifesta inammissibilità) La Corte costituzionale è chiamata a verificare, con riferimento agli artt. 27 e 32 Cost., la legittimità dell’art. 222 c.p., nella parte in cui non consente al giudice di disporre, nei casi da esso considerati, misure di sicurezza diverse dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, che risultino adeguate alle condizioni cliniche del soggetto e maggiormente idonee a garantirne il recupero psichico, nel rispetto delle esigenze di tutela della collettività. In particolare, l’art. 222 non accorderebbe alcuna facoltà di graduazione della misura da applicare nel caso di proscioglimento per infermità di mente ma imporrebbe, senza alternative, il ricovero del prosciolto in un ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo non inferiore a due anni. Ciò anche quando questa soluzione potrebbe risultare non adeguata alla condizioni cliniche dell’imputato e configgente con l’obiettivo del suo recupero. Un altro giudice remittente ritiene non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale sempre nei confronti dell’art. 222 c.p., nella parte in cui non prevede che la misura di sicurezza custodiale sia rigorosamente limitata ai casi di pericolosità sociale ‘‘accompagnata dal rifiuto di ogni terapia da parte dell’infermo’’; inoltre, viene specificato nell’ordinanza di rimessione, la dichiarazione di illegittimità della norma oggetto, avvenuta con la sentenza n. 324 del 1998, nella parte in cui prevedeva l’applicazione della misura de qua nei confronti dei minori, renderebbe oggi inconcepibile, nell’ambito di soggetti totalmente infermi di mente, una differenza di trattamento basata sull’età, data la dimensione totalizzante della loro malattia. La Corte, riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni in quanto esse richiederebbero interventi additivi di revisione della disciplina delle misure di sicurezza, applicabili nel caso di proscioglimento dell’imputato per infermità psichica, i quali, non espungendo dall’ordinamento la misura del ricovero in o.p.g., dovrebbero comprimerne la sfera di operatività, favorendo l’adozione di misure alternative di cura del malato di mente socialmente pericolo, diverse dall’affidamento a strutture chiuse e consone alle peculiarità del caso concreto. Trattasi, specificano i giudici, di innovazioni normative che esorbitano dai poteri della Corte e che comportano scelte discrezionali rientranti nella sola competenza del legislatore, stante la varietà delle soluzioni possibili.

CODICE PENALE Parte speciale ART. 271 Associazioni antinazionali (Sent. 5 luglio 2001, n. 243, in G.U., I serie speciale, 18 luglio 2001, n. 28; Illegittimità costituzionale) Viene all’esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 271 del c.p., il quale punisce le condotte di promozione, costituzione, organizzazione e direzione delle associazioni che si propongono di svolgere o che svolgono attività dirette a distruggere o deprimere il ‘‘sentimento nazionale’’. I dubbi di legittimità sono molteplici: l’unico limite


— 317 — posto dalla Costituzione alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), quello del buon costume, non avrebbe alcuna attinenza con il « sentimento nazionale », sostiene il remittente, né potrebbe identificarsi con la morale o la coscienza etica; il limite alla libertà associativa (art. 18 Cost.) si riferirebbe soltanto alle associazioni segrete o che perseguono scopi politici mediante organizzazioni militari, pertanto quelle finalizzate alla depressione o alla distruzione del sentimento nazionale sarebbero lecite a patto che non vi sia ricorso, diretto o indiretto, alla violenza; infine le associazioni punite dalla norma oggetto potrebbero dirsi formazioni sociali tutelabili ai sensi dell’art. 2 della Costituzione. La Corte, dichiarando fondata la questione, ricorda come essa, con la sentenza n. 87 del 1966, se, da un lato, ha respinto il dubbio di costituzionalità relativo al primo comma dell’art. 272 c.p (propaganda sovversiva), ha, dall’altro, accolto quello relativo al secondo comma sull’assunto che ‘‘il sentimento nazionale’’ costituisce soltanto un dato spirituale che, sorgendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità. Pertanto la relativa propaganda — non indirizzata a suscitare violente reazioni, né rivolta a vilipendere la nazione o a compromettere i doveri che il cittadino ha verso la Patria, od a menomare altri beni costituzionalmente garantiti — non poteva essere vietata senza che un contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero si evidenziasse. Premesso come la questione oggetto di costituzionalità non coinvolgesse il significato e la portata dei valori costituzionali della nazione e dell’unità nazionale, né le forme di tutela che vi si possono riferire, ma afferisse esclusivamente la legittimità dell’incriminazione della condotta sotto forma associativa, intesa a ‘‘distruggere o deprimere il sentimento nazionale’’, la Corte conclude ritenendo che le considerazioni che hanno portato a dichiarare l’illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice della propaganda antinazionale (art. 272, co. 2, c.p.) forniscono sufficiente ragione per addivenire a pari conclusione — in relazione ai parametri costituzionali ora invocati dal remittente (artt. 2, 18 e 21 Cost.) — con riguardo alla norma che vieta le associazioni per l’attività diretta sempre al fine di ‘‘distruggere o deprimere il sentimento nazionale’’. Infatti se non è penalmente illecito che il singolo svolga opera di propaganda tesa a tale scopo — ove non trasmodi in violenza o in attività che violino altri beni costituzionalmente garantiti fino ad integrare altre figure criminose — non può costituire illecito neppure l’attività associativa volta a compiere ciò che è consentito all’individuo. Ciò discende dall’art. 18 Cost. che riconosce, nei limiti posti dal secondo comma, la libertà di associazione per i fini che non siano ‘‘vietati ai singoli dalla legge penale’’. ART. 376, comma 1 Ritrattazione (Sent. 16 ottobre 2000, n. 424, in G.U., I serie speciale, 18 ottobre 2000, n. 43; Infondatezza) Su istanza di diversi giudici remittenti, la Corte è chiamata a vagliare, in riferimento all’art. 3 Cost., la legittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, c.p., nella parte in cui non estende la causa di non punibilità ivi prevista all’ipotesi delle dichiarazioni false o reticenti rese alla polizia giudiziaria quando questa assume ‘‘di propria iniziativa’’ sommarie informazioni. Secondo i rimettenti — essendosi prevista nell’art. 376 c.p. la non punibilità di coloro che abbiano reso ‘‘false o reticenti dichiarazioni al pubblico ministero’’ (art. 371-bis c.p.) o abbiano reso ‘‘falsa testimonianza’’ (art. 372 c.p.), qualora, non oltre la chiusura del dibattimento, abbiano ritrattato il falso e manifestato il vero — non troverebbe giustificazione alcuna, e quindi risulterebbe violato il principio di uguaglianza, la mancata estensione della medesima causa di non punibilità a coloro i quali, tramite dichiarazioni false o reticenti alla polizia giudiziaria, siano incorsi nel reato di ‘‘favoreggiamento personale’’ (art. 378 c.p.). Tale disparità risulterebbe ulteriormente evidenziata — aggiungono i remittenti — dopo che la sentenza n. 101 del 1999 ha già operato l’equiparazione, sotto il profilo della ritrattazione, del reato di favoreggiamento personale tramite false informazioni (sia pure solo nel caso specifico, allora rilevante, delle false informazioni alla polizia giudiziaria operante


— 318 — su delega del p.m.) al reato di false informazioni al pubblico ministero, cosicché si tratterebbe ora solo di estendere la pronuncia di allora fino a comprendere il medesimo reato di favoreggiamento compiuto tramite false informazioni rese alla polizia giudiziaria che agisce di propria iniziativa. Inoltre, argomentano i giudici remittenti, le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria per propria iniziativa (art. 351 c.p.p.) non si distinguono da quelle assunte su delega del p.m. e da quelle assunte direttamente da quest’ultimo; ciò, in particolare, sotto il profilo delle regole di documentazione applicabili (art. 357 c.p.c.), delle regole di utilizzazione nel processo (art. 500 c.p.c.) e delle norme che impongono obblighi di veridicità ai dichiaranti (art. 351 c.p.c.). La Corte rigetta la questione. In primo luogo non si tratterebbe semplicemente di estendere la portata del precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 101 del 1999 (in questa rassegna, n. 2/2000, pag. 707). In essa, ben lungi dall’affermarsi l’assimilabilità, ai fini della disciplina della ritrattazione, del reato di favoreggiamento al reato di false informazioni al pubblico ministero, l’irrazionalità della disciplina della ritrattazione discese dall’equivalenza esistente tra l’attività d’indagine svolta direttamente dal pubblico ministero e quella svolta attraverso attività delegate alla polizia giudiziaria, non tra il reato di favoreggiamento personale e quello di false dichiarazioni al pubblico ministero. In secondo luogo, la citata sentenza del 1999 si è pronunciata esclusivamente sul rapporto esistente tra l’assunzione diretta e personale da parte del p.m. (art. 370, comma 1, primo periodo, c.p.p.) di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 362 c.p.p.) e l’assunzione delle medesime informazioni per mezzo della polizia giudiziaria a ciò delegata (art. 370, comma 1, secondo periodo, c.p.p.), riconoscendo che si trattava di forme diverse della medesima attività, facente sostanzialmente capo comunque al pubblico ministero nell’esercizio dei poteri che ad esso spettano quale organo che dirige le indagini preliminari. Quest’equivalenza tuttavia — non riguardando affatto le attività di indagine del pubblico ministero e quelle della polizia giudiziaria come tali, ma solo il caso specifico in cui questa seconda opera per delega del primo - non può per la Corte essere di per sé invocata come criterio di soluzione del dubbio di costituzionalità proposto. Evidenziati questi due aspetti, la Corte sostiene che, se l’omologazione operata nel 1999 era necessaria perché si era in presenza di dichiarazioni rese nella stessa fase del processo, quando dunque la ritrattazione non poteva che assumere il medesimo valore e la medesima incidenza nello svolgimento delle indagini preliminari, la stessa condizione non si ripresenta ora in relazione all’assunzione di informazioni da parte della polizia giudiziaria, da un lato, e da parte del pubblico ministero o della polizia giudiziaria da esso delegata, dall’altro. Alla diversità soggettiva corrisponde poi una differente cadenza temporale dal momento che le informazioni assunte direttamente dalla polizia giudiziaria si pongono di solito nel momento iniziale delle indagini, a contatto immediato con i fatti o con la descrizione dei fatti da cui origineranno le indagini. Non presenta allora profili di manifesta irrazionalità una normativa che differenzi le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, eventualmente rilevanti sotto il profilo del reato di favoreggiamento e che neghi in tal caso l’applicabilità della ritrattazione. Infine la Corte conclude ricordando come la punizione del mendacio e delle dichiarazioni reticenti può assumere, nelle valutazioni del legislatore, un diverso significato, alla stregua del diverso interesse protetto in via prevalente, a seconda del momento in cui il primo e le seconde vengono normalmente a cadere. Precisato come la ritrattazione è finalizzata primariamente a dare soddisfazione all’interesse della definizione del giudizio penale (nel caso dell’art. 372 c.p.) o all’esercizio dell’azione penale (nel caso dell’art. 371-bis c.p.) sulla base di elementi probatori veridici, nella ipotesi in cui il mendacio si realizzi tramite dichiarazioni alla polizia giudiziaria che agisce di propria iniziativa — presumibilmente nella fase iniziale delle indagini, aiutando l’autore del reato ‘‘a eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa’’, aspetto questo che costituisce l’elemento materiale del reato di favoreggiamento — la sanzione penale mira primariamente ad assicurare il massimo di efficacia delle indagini e la tempestività delle loro conclusioni (sent. n. 228 del 1982). Un obiettivo che sarebbe irrimediabilmente compromesso dalla falsità delle dichiarazioni e non più realizzabile, nemmeno con postume ritrattazioni. Sul fatto infine che per il soggetto dichia-


— 319 — rante non è sempre percepibile a quale titolo opera la polizia giudiziaria che raccoglie le informazioni, cosicché esso non sarebbe in condizione, nel momento in cui rende la dichiarazione, di sapere se essa sarà o non sarà ritrattabile con l’effetto previsto dall’art. 376, primo comma, c.p., i giudici costituzionali osservano come questo soggetto sia sempre comunque tenuto a rispondere secondo verità alle domande che gli sono poste, non esistendo (o almeno non è argomentata dai rimettenti l’esistenza di) un diritto costituzionale alla ritrattazione delle false dichiarazioni comunque rese nel processo penale. Quest’assenza lascia ampia discrezionalità in capo al legislatore nel modellare la disciplina della ritrattazione delle false asserzioni nelle diverse fasi del procedimento. ART. 378 Favoreggiamento e false informazioni al pubblico ministero: sospensione del procedimento (Ord. 23 gennaio 2001, n. 22, in G.U., I serie speciale, 31 gennaio 2001, n. 5; Manifesta infondatezza) Viene sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 378 c.p. (Favoreggiamento personale), nella parte in cui, a differenza di quanto stabilito dall’art. 371-bis c.p. (False informazioni al pubblico ministero), non prevede la ‘‘sospensione’’ del procedimento iniziato a carico di chi, richiesto dalla polizia giudiziaria su delega del p.m. di fornire informazioni ai fini delle indagini, abbia reso dichiarazioni false o, in tutto o in parte, reticenti. Il dubbio di costituzionalità per il remittente è il naturale corollario delle argomentazioni svolte nella sentenza n. 101 del 1999 dalla Corte costituzionale (in questa rassegna, fasc. n. 2/2000, pag. 707), che ha dichiarato, per violazione dell’art. 3 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 376, primo comma, c.p., nella parte in cui non prevede l’applicazione della causa di non punibilità della ritrattazione in favore di chi, richiesto dalla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero di fornire informazioni ai fini delle indagini, abbia reso dichiarazioni false ovvero in tutto o in parte reticenti. Ciò che, per il remittente, assumerebbe ora particolare importanza è l’affermazione allora svolta in forza della quale l’assunzione diretta da parte del pubblico ministero di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini e l’assunzione delle stesse informazioni da parte della polizia giudiziaria delegata dal p.m. rappresenterebbero soltanto forme diverse della medesima attività, nonché quella in forza della quale per gli atti, assunti sia dal p.m. sia dalla polizia giudiziaria, sarebbero previste le medesime modalità di documentazione e regole di utilizzazione probatoria. Ciò posto, per il remittente, tra i due reati rispettivamente previsti dagli artt. 371-bis e 378 c.p. permarrebbe un’irragionevole disparità di trattamento sul terreno processuale, in quanto la ‘‘sospensione’’ del procedimento a carico di chi abbia fornito dichiarazioni false o reticenti sarebbe prevista solo in relazione al primo reato, e non anche quando le stesse dichiarazioni siano rese da chi, richiesto dalla polizia giudiziaria delegata dal p.m. di fornire informazioni ai fini delle indagini, venga chiamato a rispondere del delitto di ‘‘favoreggiamento personale’’. La Corte dichiara la questione manifestamente infondata. Premesso che, nella sentenza citata dal remittente, i giudici costituzionali avevano precisato come, per risolvere il dubbio di costituzionalità allora posto, non era stato necessario procedere ad alcun confronto, per ravvisarvi eventuali elementi comuni o differenziali, tra i reati previsti dagli artt. 371-bis e 378 cod. pen., essa afferma che la ‘‘sospensione’’ del procedimento prevista dall’art. 371-bis, secondo comma, c.p., costituisce una disciplina eccezionale e derogatoria rispetto al principio generale, enunciato nell’art. 2 c.p.p., che attribuisce al giudice, salvo che sia diversamente stabilito, il potere-dovere di risolvere ogni questione da cui dipende la decisione. Ciò posto la disciplina dettata dall’art. 371-bis, secondo comma, c.p. potrebbe essere assunta come termine di raffronto, al fine di verificare il rispetto del principio di eguaglianza, solo se fosse sorretta da una ratio integralmente estensibile alla fattispecie di cui all’art. 378 c.p., così da rendere la diversità di trattamento del tutto priva di ragio-


— 320 — nevole giustificazione. Ciò non è possibile stante la diversità degli elementi che integrano il modello legale delle due fattispecie poste a raffronto: se nel reato di ‘‘false informazioni al pubblico ministero’’ rileva il rendere dichiarazioni false ovvero tacere in tutto o in parte, nel reato di ‘‘favoreggiamento personale’’ rileva l’aiutare taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità mediante una condotta che può sostanziarsi in false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria delegata dal p.m. Questa differenza dimostrerebbe la diversa oggettività giuridica dei due reati presi in esame che, come tale, non renderebbe gli stessi comparabili ai fini della denunciata disparità di trattamento processuale; senza poi tacere di come la sentenza n. 101 del 1999 estendeva un istituto di diritto penale sostanziale, quale è la causa di non punibilità della ritrattazione, mentre ora alla Corte si chiede di ampliare l’applicazione di un istituto processuale, quale è la ‘‘sospensione’’ del procedimento, che, oltre ad avere natura eccezionale e derogatoria, potrebbe essere disciplinato dal legislatore con modalità diverse da quelle previste dall’art. 371-bis, secondo comma, c.p. ART. 596-bis c.p. e ARTT. 11 e 12 legge 8 febbraio 1948, n. 47 Diffamazione a mezzo stampa: responsabilità del direttore e dell’editore del giornale (Ord. 23 gennaio 2001, n. 20, in G.U., I serie speciale, 31 gennaio 2001, n. 5; Manifesta inammissibilità) Viene sollevata, in riferimento all’art 68, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e dell’art. 596-bis c.p., in quanto interpretati nel senso della loro applicabilità nei confronti del direttore ed editore del giornale, anche ai casi in cui l’autore dell’articolo diffamatorio sia un parlamentare. Il processo incidentale riguardava una causa civile per risarcimento dei danni intentata, da persona che si riteneva diffamata da un articolo apparso su un quotidiano, nei confronti dell’autore della pubblicazione, del direttore responsabile e del legale rappresentante della società editrice, nel corso della quale l’organo giudicante aveva tuttavia dichiarato inammissibile la domanda proposta nei confronti dell’autore dell’articolo a seguito della delibera di insindacabilità pronunciata dalla Camera dei deputati a norma dell’art. 68 della Costituzione. Ad avviso del remittente l’interpretazione costante diretta a ritenere permanente la responsabilità del direttore e dell’editore del giornale ‘‘anche in presenza della causa di esonero riconosciuta al parlamentare ex art. 68 c. 1 Cost.’’ si porrebbe in contrasto proprio con il citato articolo costituzionale in quanto, di fatto, tenderebbe ad escludere, o a rendere oltremodo difficile, la possibilità per il parlamentare di esprimere le proprie opinioni a mezzo della stampa. Risulterebbe poi contraddittorio che, da un lato, venisse prevista una prerogativa per le opinioni espresse in connessione con l’esercizio della funzione parlamentare, ma, dall’altro, si affermasse la responsabilità dei ‘‘veicoli di divulgazione’’ di tali opinioni, creandosi ostacoli alla diffusione del pensiero del deputato (o senatore) fuori dal contesto del Parlamento. La Corte ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile osservando come il remittente non avrebbe sottoposto un dubbio concernente il contrasto tra il significato da attribuire alle norme ordinarie da applicare nel giudizio incidentale e il parametro costituzionale evocato, ma, piuttosto, una questione interpretativa di quest’ultimo finalizzata ad estendere l’esonero dalla responsabilità al direttore del giornale e all’editore. Detta interpretazione, che il giudice a quo considera conforme a Costituzione, pur se non condivisa dalla giurisprudenza costante, può — conclude la Corte — essere direttamente adottata nel giudizio pendente in quanto, a suo parere, idonea a superare i dubbi di costituzionalità (nella giurisprudenza costituzionale sulla portata e natura dell’’art. 68, comma 1, Cost., cfr. sent. n. 58 del 2000, in Giur. cost., 2000, 467 ss.; sent. n. 56 del 2000, ivi, 443 ss., con nota di Gianniti, Osservazioni sulla qualificazione delle opinioni espresse da un parlamentare ‘‘opinionista’’; da ultimo v. sent. n. 10 del 2000, ivi, 85 ss., con nota di Pace, L’art. 68 comma 1 Cost. e la ‘‘svolta’’ interpretativa della Corte costituzionale nelle sentenze nn. 10 e 11 del 2000). Nella giurisprudenza, con riferimento al caso in cui l’arti-


— 321 — colo diffamatorio sia stata un’intervista ad un parlamentare, è stato affermato che ‘‘l’esenzione da responsabilità del parlamentare per un’intervista di carattere diffamatorio, a cui segue una delibera della camera di appartenenza di non concedere l’autorizzazione a procedere, non esclude la responsabilità civile dell’editore e dell’autore dell’intervista’’ (Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1995, n. 4871, in Foro it., 1996, I, 657, con nota di Cassella-Macrì, Risarcimento dei danni per diffamazione a mezzo stampa: l’intervista giornalistica di un parlamentare a proposito di un’interpellanza lesiva della reputazione di alcuni magistrati, in Resp. civ. e prev., 1995, I, 919; contra Trib. Roma, 7 novembre 1986, in Foro it., 1988, I, 587). Hanno altresì escluso la liceità della fedele pubblicazione del resoconto di atti parlamentari lesivi della reputazione di terzi: Cass. pen., sez. V, 4 febbraio 1987, Nonno in Riv. pen., 1988, II 260; Cass. pen., sez. V, 30 settembre 1987, Saraceni, in Dir. inf., 1988, 789; Cass. pen., sez. V, 20 ottobre 1983, Scafari, in Riv. pen., 1984, II, 655. In dottrina favorevoli ad un’estensione della scriminante in questione, pur con differenti motivazioni, risultano essere: MANTOVANI, Interpellanze a contenuto diffamatorio e responsabilità del giornalista, in Dir. inf., 1988, 805 e TRAVERSA, Immunità parlamentare, in Enc. dir., vol. XX, 1970, Milano, 197. ART. 449 Delitti colposi di danno (Ord. 19 dicembre 2001, n. 438 in G.U., I serie speciale, 2 gennaio 2002, n. 1; Manifesta infondatezza) Viene sollevata questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dell’art. 449 c.p. (delitti colposi di danno), relativamente all’ipotesi di incendio colposo, laddove la pena principale [reclusione da uno a cinque anni] per questa ipotesi delittuosa è equiparata a quella di una serie di altre ipotesi di disastro — tra le quali i reati di strage, di disastro ferroviario o aviatorio, di naufragio — che, nella loro forma dolosa, sono invece punite assai più severamente dell’incendio doloso. Relativamente all’argomentazione del rimettente circa l’irragionevole equiparazione, quanto alla misura della pena, tra il reato di incendio colposo e altre fattispecie di « disastro » anch’esse nella forma colposa, reputate più gravi perché corrispondenti a condotte che sono punite, se commesse a titolo di dolo, più severamente dell’incendio doloso, la Corte sottolinea la sua infondatezza dal momento che proprio l’art. 449, comma 2, c.p. prevede una differenziazione tra le pene previste per il reato oggetto del giudizio principale e quelli indicati come tertia comparationis, statuendo che la pena stabilita in via generale dal primo comma per l’incendio o per un altro disastro colposo « è raddoppiata se si tratta di disastro ferroviario o di naufragio o di sommersione di una nave adibita a trasporto di persone o di caduta di un aeromobile adibito a trasporto di persone ». Con riguardo invece alla doglianza afferente l’irragionevolezza e la sproporzione del trattamento sanzionatorio minimo (una anno di reclusione) previsto per il reato di incendio colposo, formulata attraverso il confronto con la misura della pena minima — 6 mesi di reclusione — stabilita per il reato di omicidio colposo, la Corte si limita ad osservare che la radicale differenza di struttura e di obiettività giuridica tra le due fattispecie impedisce che tra le medesime possa instaurarsi un utile raffronto per desumerne l’arbitrarietà della pena stabilita per l’incendio colposo. ART. 646, ult. comma Appropriazione indebita (Ord. 30 marzo 2001, n. 91, in G.U., I serie speciale, 4 aprile 2001, n. 14; Manifesta infondatezza) Viene sollevata, con riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 646, ultimo comma, c.p., nella parte in cui, per il delitto di appropriazione indebita, prevede la procedibilità d’ufficio qualora concorra alcuna delle circostanze indicate dall’art. 61, n. 11, c.p. Infatti, ad avviso del remittente, avendo l’art. 12 della legge 25 giugno 1999,


— 322 — n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), reso procedibile a querela il ‘‘furto aggravato’’ dalla medesima circostanza, si sarebbe determinata un’incomprensibile disparità di trattamento tra fattispecie analoghe a sfavore di chi commette il reato più grave. La Corte, dichiarando la manifesta infondatezza della questione, ricorda come, in una sua precedente pronuncia (cfr. n. 354 del 1999), aveva escluso che il legislatore, con l’art. 646, ult. comma, c.p., prevedendo la procedibilità d’ufficio, avesse compiuto una scelta irragionevole ‘‘in quanto l’interversione del possesso di cose altrui che abbia luogo in violazione del vincolo eminentemente fiduciario scaturente dai rapporti di cui all’art. 61, n. 11, c.p., assume un disvalore sociale particolare’’. Per la Corte, ora, questo giudizio non può cambiare nonostante la recente eliminazione della perseguibilità d’ufficio del furto nel caso di ricorrenza della stessa aggravante di cui al n. 11 dell’art. 61 c.p. I giudici costituzionali ribadiscono (cfr. ord. 27 del 1971) che la perseguibilità d’ufficio di un reato non è necessariamente in relazione alla gravità di questo e che tra le molteplici esigenze che il legislatore può considerare, nell’esercizio della discrezionalità che in materia è a lui riservata, vi può anche essere quella di assicurare, attraverso il meccanismo della perseguibilità a querela, la deflazione del lavoro giudiziario in ragione della incidenza statistica del reato (ord. n. 294 del 1987). Questo è stato infatti proprio l’obiettivo perseguito in concreto dal legislatore con riguardo al furto aggravato ex art. 61, n. 11 , c.p. ANDREA GIANNOTTI Dottorando di ricerca in Storia e dottrina delle istituzioni nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

PELISSERO M., Reato politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, Jovene, 2000, pp. 586. L’Autore avvia la sua analisi dei reati politici concentrando l’attenzione sulla caratteristica anticipazione di tutela, che il legislatore ha adottato per queste fattispecie, distaccata dal modello di reato come offesa effettiva al bene giuridico. L’Autore osserva infatti come, nel campo dei reati politici, sulla scorta dell’esperienza della cosiddetta ‘‘legislazione dell’emergenza’’, si sia assistito ad un processo di ‘‘deformalizzazione’’ delle forme di repressione, attuata sia mediante l’estensione dell’applicazione delle misure di prevenzione (definite vere e proprie ‘‘pene del sospetto’’), sia mediante interventi sul piano del diritto processuale, tesi ad accentuare il carattere inquisitorio, estendendo i poteri di polizia e comprimendo quelli della difesa. Si auspica, dunque, il superamento del modello offerto dalla legislazione dell’emergenza e la nascita di un nuovo approccio ai temi in questione, meno rigido ed orientato costituzionalmente. Prima di analizzare i singoli reati o gruppi di reati politici, l’Autore si impegna nella complessa ricostruzione di una nozione generale di reato politico, evidenziando l’insufficienza del tradizionale binomio delitto politico - personalità dello Stato. L’Autore conclude per l’adozione di una nozione di reato politico che comprenda tutte le fattispecie le quali, anche al di fuori del titolo dedicato ai delitti contro la personalità dello Stato, siano comunque posti a tutela dell’ordinamento costituzionale. I reati politici e le tecniche di tutela adottate dal legislatore vengono così suddivisi e analizzati in tre gruppi: le fattispecie a condotta politica (comprendente i delitti bellici, quelli a tutela del segreto di Stato e i reati di opinione), le fattispecie ad evento politico (di danno, di pericolo e i delitti di attentato) e le fattispecie a soggettivizzazione politica, comprendenti una vasta casistica di reati associativi, di accordo, in materia di armi ecc. L’Autore prosegue la sua indagine evidenziando come la cultura penale post illuminista abbia condotto ad una vera e propria ‘‘tirannia dei principi’’, cui sarebbe opportuno opporre una maggiore flessibilità delle categorie dogmatiche del fatto tipico, antigiuridico e colpevole, orientata secondo i principi di ordine costituzionale, al fine di affrancare lo studio delle categorie giuridiche dal rischio di un ‘‘astrattismo improduttivo fine a se stesso’’. Dopo avere evidenziato l’insufficienza della disciplina codicistica, alla luce degli interventi della legislazione speciale attuati sia in Italia che in Germania a partire dagli anni ’70, l’Autore analizza le prospettive di riforma del diritto penale politico, al fine di armonizzarlo quanto più possibile agli spazi di libertà che la Costituzione assicura. (Stefano Lalomia) SERENI A., Istigazione al reato e autoresponsabilità. Sugli incerti confini del concorso morale, Padova, Cedam, 2000, pp. IX-207. Il lavoro intende analizzare il tema del concorso morale nel reato alla luce del principio di autoresponsabilità, del quale si afferma la centralità in una prospettiva di regolamentazione della materia conforme ai principi costituzionali. La monografia è composta da quattro capitoli. Nel primo l’Autore pone a fondamento della responsabilità concorsuale il criterio causale, muovendo una critica puntuale alle tesi che spiegano in chiave soggettivo-probabilistica la punibilità del concorrente: l’infondatezza di questa ricostruzione del fenomeno concorsuale viene dimostrata tanto in relazione alle di-


— 324 — sposizioni del nostro codice in tema di concorso di persone quanto in relazione ai principi costituzionali che regolano la materia. Ampio spazio è poi dedicato alla verifica delle modalità con cui la nostra giurisprudenza, al di là delle affermazioni di principio, procede all’accertamento del nesso causale tra la condotta istigatoria e la determinazione criminosa dell’autore; oltre alla classica casistica relativa alla mera presenza sul luogo del reato, l’Autore esamina i contorni della responsabilità a titolo di concorso morale dei capi per i reati commessi dai partecipanti all’associazione criminosa e, soprattutto, l’utilizzo della nozione di istigazione fatto dalla giurisprudenza nei c.d. processi di Tangentopoli (in particolare, nel processo Cusani). L’analisi si estende anche alle soluzioni adottate sul punto nei principali ordinamenti europei: la conclusione cui l’Autore perviene è che, in tutti i sistemi giuridici considerati, ‘‘la partecipazione morale diviene l’espediente tecnico attraverso il quale punire condotte la cui rilevanza causale non è in realtà dimostrata o dimostrabile’’. Il secondo capitolo è dedicato alla ricostruzione in chiave critica dei principali modelli di inquadramento teorico del fenomeno concorsuale proposti dalla dottrina, in particolare da quella tedesca. Il dato saliente che l’autore individua quale nota comune a tutte le opinioni prese in esame è la generale insoddisfazione nei confronti di sistemi che affidino al solo criterio causale il compito di fondare la punibilità del concorrente morale: le insuperabili difficoltà di accertamento probatorio della relazione causale psichica rendono imprecisa la delimitazione dell’area della rilevanza penale e impongono l’introduzione di criteri che, senza comunque rinunciare al nesso eziologico, siano però in grado di precisare meglio i contorni della responsabilità dell’istigatore, in modo conforme al principio di offensività. La nozione di autoresponsabilità diviene, nel terzo capitolo, il punto di riferimento nella ricerca di questi nuovi canoni di imputazione. La libertà del volere, che il diritto penale pone quale presupposto della responsabilità, comporta che ogni individuo deve considerarsi normalmente autoresponsabile, cioè capace di determinarsi autonomamente rispetto alle molteplici influenze che gli derivano dal mondo esterno: da ciò deriva che non ogni comportamento, che pur possa considerarsi causale rispetto alla risoluzione criminosa dell’autore, può ritenersi punibile, in quanto si deve presumere in capo all’autore la libertà di compiere autonome scelte d’azione. Soltanto qualora la condotta istigatoria sia accompagnata da modalità tali da comportare un’ingerenza nell’altrui sfera di libertà che oltrepassi la soglia dei normali condizionamenti sociali, si potranno configurare gli estremi della responsabilità penale: quali forme particolarmente pericolose di condizionamento della volontà l’Autore cita la persuasione rafforzata da sanzioni positive (dazione o promessa di utilità) o negative (minaccia, abuso di potere, ecc.), lo sfruttamento dell’altrui incapacità, la comunicazione di istruzioni o informazioni riservate, l’incitamento in condizioni di particolari fragilità emotiva dell’autore, la determinazione mediante induzione in errore o sfruttamento dell’errore preesistente. Nell’ultimo capitolo l’Autore trae conclusioni de iure condendo dall’analisi svolta e propone una disciplina normativa del concorso nel reato che, sul modello del sistema francese, descriva puntualmente le condotte di istigazione punibili, impedendo l’incriminazione di comportamenti di mero rafforzamento del proposito criminoso altrui o, addirittura, di semplice non impedimento della commissione di reati da parte di terzi. (Luca Masera) AZZALI G., La tutela penale dell’ambiente. Un’indagine di diritto comparato, Padova, Cedam, 2001, pp. XII-369. L’opera fornisce un contributo allo studio del diritto penale dell’ambiente, attraverso una ampia indagine comparatistica, rivolta alla normativa di settore di Austria, Germania, Spagna, U.S.A., Italia e con cenni al diritto comunitario ed internazionale. All’esame tecnico-giuridico dei sistemi di governo statale dell’ambiente viene costantemente affiancata una loro valutazione sotto il profilo della funzionalità, al fine di evidenziarne i principali focolai di ineffettività di ordine giuridico - quali, ad esempio, i problemi legati all’accertamento del legame eziologico tra azione ed evento nei reati causalmente orientati — e di ordine po-


— 325 — litico — come, tra i tanti, lo scontro tra i gruppi di pressione antagonistici che si combattono per intensificare o per frenare la repressione delle aggressioni all’ambiente. Per ciascuno ordinamento l’Autore fornisce un quadro ed una lettura esegetico-interpretativa delle legislazioni ambientali vigenti e dei più significativi progetti di riforma. Si sofferma sullo studio delle principali problematiche teoriche coinvolgenti i reati ambientali, esaminate nel quadro delle categorie e dei problemi di teoria generale del reato e con un sistematico confronto con l’interpretazione dottrinale e con la prassi giurisprudenziale dei diversi Paesi. Tra i temi affrontati si ricordano: la legittimità della tutela penale dell’ambiente, come oggetto a se stante o quale bene strumentale alla protezione della vita e della incolumità personale; la scelta della tecnica di incriminatrice tra reati di danno, di pericolo (concreto, potenziale o astratto) e reati di inottemperanza alle ingiunzioni delle pubblica autorità. Ampio spazio viene dedicato all’analisi della tecnica di formulazione dei precetti nelle legislazioni italiana e straniera. Centrale è lo studio della c.d. ‘accessorietà amministrativa’, ossia del ruolo della disciplina amministrativa nella configurazione dei reati ambientali, essendo questi nella maggioranza dei casi strutturati secondo il modello sanzionatorio; in particolare, l’Autore affronta il tema dell’inquadramento teorico della categoria della ‘accessorietà amministrativa’; della sua compatibilità con il principio costituzionale di legalità e con il principio di offensività; e dei rapporti tra i vizi dell’atto amministrativo ed il precetto penale. L’indagine si completa con una panoramica sul diritto straniero concernente la disciplina della responsabilità dei funzionari della Pubblica Amministrazione per l’espletamento di compiti di gestione ambientale e di prevenzione dei fenomeni di inquinamento. Alla luce dei risultati della indagine svolta, secondo l’Autore interessanti spunti di riflessione in prospettiva de iure condendo potrebbero venire dalla valorizzazione di alcune soluzioni elaborate all’estero, quali, ad esempio, il recesso attivo, in funzione esimente, propria della legislazione di Austria e Germania; la formulazione di una specifica norma in materia di errore sulla disciplina extra-penale dell’ambiente, nella legislazione austriaca; la espressa previsione di limiti alla tutela penale, imperniati sulla ‘esiguità’ dell’offesa ambientale e la esplicita equiparazione della ‘assenza’ di autorizzazione a talune forme di ‘autorizzazione indebitamente ottenuta’, sempre nell’ordinamento tedesco; speciali ipotesi di reato ritagliate sul comportamento infedele del pubblico funzionario preposto alle autorizzazioni e alle ispezioni nel diritto spagnolo; infine, la responsabilità diretta delle persone giuridiche per reati ambientali prevista nella legislazione statunitense. In conclusione, vengono abbozzate le linee di alcuni possibili interventi di riforma del diritto penale ambientale italiano, che possono essere così sintetizzate. Riconosciuta la piena legittimità della tutela penale dell’ambiente come autonomo bene giuridico, secondo l’Autore l’opzione a favore dell’intervento penale sarebbe la conseguenza della assenza di valide alternative rinvenibili nel diritto civile e nel diritto amministrativo. Analizzando le varie tecniche di incriminazione, si è constatato che i tradizionali modelli di tutela, che utilizzano gli schemi dei reati di danno, di pericolo concreto, di pericolo potenziale sono destinati ad una tendenziale ineffettività per la diversità di scala tra la singola condotta inquinante e l’offesa arrecata, oltre che per la difficoltà di svolgere un accertamento scientificamente fondato del nesso causale. Anche il modello del pericolo astratto, che, pur a certe condizioni pare l’unica forma possibile di protezione dell’ambiente, non persuade, in quanto produce un effetto di bagatellizzazione dei reati ambientali con una contestuale caduta di effettività del sistema di protezione penale. Il modello che sembrerebbe garantire, invece, una efficace tutela dell’ambiente sarebbe quello ingiunzionale, una tecnica di incriminazione imposta dalla stessa attuale conformazione giuridica del governo extra-penale dell’ambiente. A fronte di una sempre più ampia attribuzione alla Pubblica Amministrazione di compiti di direzione e controllo nel settore del governo dell’ambiente, la sanzione penale assurge, infatti, ad essenziale ed estremo rimedio, cui ricorrere per garantire l’effettività del sistema. Oggetto principale di tutela penale sarebbero le tante funzioni giuridicamente regolate di controllo pubblico, sul cui sfondo verrebbe relegata la tutela indiretta dei beni ambientali. A favore del modello ingiun-


— 326 — zionale militerebbero diverse ragione, tra le quali, innanzitutto, la possibilità di eludere i problemi dell’accertamento causale e la configurabilità come delitto del reato di inottemperanza, con la conseguente comminatoria di severi carichi sanzionatori. La proposta dell’Autore si articola in altri momenti normativi penali ed extrapenali, tra i quali, si segnalano: la punibilità del reato ingiunzionale sia a titolo di dolo che a titolo di colpa; la previsione di un sistema di impugnazione della ingiunzione con effetto sospensivo; la fissazione nella legislazione amministrativa di presupposti di esiguità che escludano l’emanazione della ingiunzione; l’introduzione della responsabilità diretta della persone giuridiche, in quanto autrici per eccellenza dei fenomeni di inquinamento e le sole ‘persone’, di regola, in grado di ottemperare alle ingiunzioni e di sopportare il peso delle gravi sanzioni che possono conseguire alla loro inottemperanza; l’istituzione di uno specializzato apparato amministrativo di governo del settore ambientale con il compito di monitorare le fonti di inquinamento ed in grado di imporre il rispetto delle prescrizioni incorporate negli atti autorizzatori; la creazione di una norma specificatamente destinata a reprimere l’inerzia, dolosa e colposa, del funzionario pubblico, preposto al controllo dell’ambiente. (Giandomenico Dodaro). BENUSSI C., I delitti contro la pubblica amministrazione, Tomo I, I delitti dei pubblici ufficiali, in Trattato di diritto penale, Parte speciale, diretto da G. MARINUCCI e E. DOLCINI, Padova, Cedam, 2001, pp. 1043. Per la prima volta dopo la riforma del 1990, i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione sono oggetto di analisi in un Trattato, con un grado di approfondimento ulteriore anche rispetto alle più pregevoli trattazioni monografiche e ai commentari del codice penale. Corredato da un accuratissimo indice analitico e da un elenco cronologico delle sentenze, il volume in esame rappresenta un contributo importante in relazione ad una normativa destinata a suscitare sempre nuovo interesse, sia per la sua intensa applicazione da parte della giurisprudenza negli ultimi dieci anni, sia per l’attenzione che il legislatore ha dedicato a questo settore del codice, intervenendo più volte anche dopo il 1990, sino al 2001. Se le novità sul piano legislativo danno l’occasione all’Autore di confrontarsi dinamicamente con una realtà normativa continuamente sollecitata e gli consentono di offrirci un’osservazione sul passaggio da una vecchia ad una nuova realtà, in cui è cambiata radicalmente la lettura del bene giuridico tutelato (da formula vuota legata al prestigio e buon andamento della pubblica amministrazione a un bene giuridico rimodellato sulle formule costituzionali, in cui si sono rifondate le figure soggettive legate ad un concetto funzionale), l’approfondito esame della giurisprudenza e della dottrina sfociano in significative e motivate prese di posizione sulle questioni interpretative più dibattute. Nell’impossibilità di ripercorrere analiticamente l’intera opera, sembra opportuno soffermarci su alcuni punti, scelti come campione, in grado di far risaltare l’accuratezza dell’indagine e l’originalità delle scelte interpretative proposte da Benussi. Per quanto riguarda, ad esempio, la riforma del delitto di peculato, basti accennare alla questione relativa alla sopravvivenza all’interno della fattispecie dell’art. 314 c.p. della condotta di ‘‘distrazione’’, termine scomparso nel testo della norma per effetto della riforma del 1990. Come è noto, minoritaria quanto autorevole è l’opinione secondo la quale la condotta di distrazione non sia stata estromessa dalla riforma e che dall’art. 646 c.p. debba ricavarsi un concetto di appropriazione comprensivo anche della condotta di distrazione. L’opinione maggioritaria ritiene invece che la condotta di distrazione, espunta dalla fattispecie dell’art. 314, rilevi nell’ambito della fattispecie di abuso d’ufficio. Da un’accurata analisi della giurisprudenza e della dottrina riguardante il concetto di appropriazione nel delitto di appropriazione indebita Benussi trae dapprima la constatazione di un ampliamento del concetto di appropriazione, che arriva a comprendere anche la distrazione e l’uso arbitrario; in realtà solo l’uso della cosa che venga effettuato contro l’interesse del proprietario può essere indicativo di quell’interversio possessionis che caratterizza il comportamento uti dominus: a questa in-


— 327 — terpretazione più restrittiva va la preferenza dell’Autore; ma, e qui si evidenzia l’approfondimento dell’analisi, il concetto di appropriazione elaborato sotto l’art. 646 non può adattarsi semplicemente al delitto di peculato: nell’interpretazione di quest’ultima fattispecie gioca un ruolo importante il secondo comma, dove si punisce con una pena inferiore il peculato d’uso, in cui l’elemento della restituzione immediata dopo l’uso costituisce il limite inferiore della rilevanza dei comportamenti riconducibili sotto il peculato semplice. Qualunque condotta sarà rilevante come appropriativa, dunque, nel peculato, fino al comportamento di mero uso non momentaneo o non accompagnato da restituzione. Nonostante l’amplissima portata del concetto di appropriazione, insita nell’art. 314, non vi rientra comunque la distrazione che, comprendendo la deviazione di una cosa dalla finalità impressale dalla pubblica amministrazione, rimane concettualmente distinta. In questo contesto, la condotta di distrazione avrà una sua rilevanza nell’ambito del reato di abuso d’ufficio, ma solo se ricorreranno gli elementi di cui alla nuova formulazione di cui all’art. 323. In questo modo, con l’interpretazione restrittiva adottata per il peculato e la più rigorosa formulazione dell’abuso d’ufficio, solo le condotte più offensive per la pubblica amministrazione saranno da considerarsi penalmente rilevanti. Su una linea di interpretazione restrittiva e coerente con lo spirito della riforma si pongono anche le soluzioni prospettate riguardo ai problemi posti dalla fattispecie di abuso d’ufficio: il riferimento alla violazione di legge e al regolamento informa di sè tutta la fattispecie, diventando elemento centrale (insieme all’ingiustizia del vantaggio e del danno) intorno al quale ruota l’interpretazione della fattispecie. L’Autore prende dunque posizione negativamente riguardo alla riproponibilità della rilevanza dell’eccesso/sviamento di potere nel comportamento abusivo: questo vizio dell’atto amministrativo non dovrebbe essere annoverato tra i comportamenti punibili dall’art. 323 c.p., neppure se potesse configurarsi una violazione di legge. Infatti, diversamente ragionando, da un lato si finirebbe per rendere rilevanti solo quei comportamenti di eccesso di potere che violano la legge e non altri, equivalenti, che in tale violazione non si risolvono; dall’altro lato ci si metterebbe in contrasto con lo spirito che ha animato il legislatore, se si ritenesse che tale vizio rende penalmente rilevante il comportamento del pubblico amministratore in quanto in contrasto con le norme costituzionali che sanciscono il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione; tali norme, infatti, fondamentali nella ricostruzione dei singoli beni giuridici tutelati, sono però prive di prescrizioni che fissino regole di comportamento. In questa direzione va una recente pronuncia della Corte costituzionale, di cui l’Autore riporta utilmente i passaggi salienti che ricordano come il legislatore del ’97 abbia riformulato in senso restrittivo la fattispecie di abuso d’ufficio, in rispetto del principio di determinatezza della fattispecie penale e del principio di extrema ratio. In linea con questa interpretazione, anche l’obbligo di astensione ‘‘negli altri casi prescritti’’ dovrà sempre trovare il suo fondamento in una legge o in un regolamento, evitando anche per questa via di attribuire rilevanza a comportamenti viziati da eccesso di potere. Con riferimento ai delitti di concussione e corruzione — che hanno occupato giuristi teorici e pratici per lungo tempo, nel tentativo di trovare criteri distintivi tra le due fattispecie — un problema interpretativo classico verte sulla necessità dell’esistenza del metus nella concussione: un elemento non compreso nella struttura formale della fattispecie e frutto di una ‘precomprensione interpretativa’. In sintonia con altre opinioni dottrinali e con una chiara pronuncia della Cassazione, l’Autore ritiene che se si vuole considerare il metus come ‘‘metafora della concussione’’, o come rappresentazione vittimologica di questo delitto, ciò non basta comunque a farlo diventare elemento di fattispecie. Quanto ai rapporti tra costrizione e induzione, l’A. accoglie una interpretazione restrittiva della prima a vantaggio della seconda: mentre la prima si identifica con un comportamento esclusivamente coattivo, la seconda trascorre da manifestazioni nettamente ingannatorie a manifestazioni più suggestive e indirette, tutte comunque volte a esercitare una pressione sulla psiche della vittima. Con riferimento a questa condotta l’A. si discosta dunque


— 328 — dall’opinione prevalente, per proporre un’interpretazione sistematica del concetto di induzione, che, presente in numerosi reati previsti dal codice, non giustifica l’ interpretazione che dà rilevanza alle sole condotte ingannatorie, anche in considerazione di una prassi giurisprudenziale che mostra una varietà di fatti aggressivi della autodeterminazione del privato solo di rado riconducibili all’inganno. Quanto alla corruzione, e con riferimento a una delle innovazioni apportate dalla riforma del 1990, e cioè l’estensione della fattispecie di istigazione anche alla corruzione passiva, si ritiene non ammissibile il tentativo al di fuori delle situazioni che integrano l’art. 322, o, meglio, si ritiene che ogni condotta di tentativo di corruzione punibile vada ricondotta alla previsione di questo articolo, comprese le condotte che si sostanziano in trattative non andate a buon fine. Fermarsi a questo punto fa torto all’ampiezza della trattazione; se si volesse tentare, in via di estrema sintesi, di cogliere un tratto che caratterizza il lavoro di Benussi, si potrebbe dire che l’A. ha còlto pienamente lo spirito della riforma dei delitti dei pubblici ufficiali, anche dove il legislatore non è stato chiarissimo, e ha mostrato, come anche nella Presentazione viene sottolineato, quale ‘‘impervio, ma fecondo banco di prova per molti istituti di parte generale’’ sia questa parte del codice. (Cristina Barbieri) CACCIAVILLANI I., CALDERONE C.R., I delitti dei pubblici ufficiali nell’attività amministrativa, Padova, Cedam, 2001, pp. XIX-223. Dalla pletora di scritti in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione si distingue questo volume, in cui l’avvocato e il magistrato fondono le rispettive competenze per trattare la materia con completezza ed in una — insolita — chiave interdisciplinare. Il volume si articola in due parti: i principi e i singoli delitti. L’intento — ben riuscito — è quello di guidare il lettore nell’analisi delle singole fattispecie di reato dando previamente conto della disciplina ‘‘propria’’ della funzione pubblica — ratio, evoluzione, trasformazione —, rispetto alla quale il sistema punitivo penale occupa posizione strumentale. Enucleando le ragioni profonde dei mutamenti legislativi intervenuti negli ultimi anni nel diritto amministrativo, viene delineato uno schema che vede pubblico funzionario e cittadino in posizione di uguale servizio rispetto alla pubblica funzione, quest’ultima identificata e definita dalla legge e garantita, nei suoi connotati imprescindibili di correttezza, da un complesso sistema di garanzie e di controlli. In tale contesto viene tratteggiata la figura dell’operatore pubblico ed analizzate le modalità di esercizio della funzione amministrativa: atti o provvedimenti e attività anche materiali di esecuzione di essi, in una continua tensione fra diritto amministrativo e diritto penale. Le modalità operative della funzione amministrativa, infatti, in tanto rilevano in quanto costituiscono possibile veicolo di realizzazione dei delitti propri. L’esame del danno (patrimoniale e morale) della Pubblica Amministrazione costituisce l’occasione per una presentazione critica della consolidata giurisprudenza relativa alla posizione processuale della Pubblica Amministrazione in ordine al risarcimento. Esso prelude, inoltre, all’approfondimento delle concorrenti forme di garanzia del corretto funzionamento dell’apparato pubblico: responsabilità penale, civile, erariale e disciplinare, tutte mosse da un comune principio: il dovere di fedeltà alla funzione, come sinonimo di ufficio (munus) pubblico. L’esame delle singole fattispecie delittuose è dunque presentato come applicazione dei principi enunciati nella prima parte del testo, individuando sotto particolari profili i singoli elementi della patologia dell’azione amministrativa. Ciascuna figura di reato viene analizzata attraverso un attento vaglio della dottrina e della giurisprudenza più e meno recenti e risulta di particolare interesse, anche in virtù di un


— 329 — certo tono critico: la criticità di chi ben individua, della normativa complessivamente considerata, lacune e contraddizioni. L’opera è destinata agli operatori del diritto e riporta, in calce ad ogni capitolo, la motivazione di una sentenza particolarmente significativa per il tema trattato. (Maria-Francesca Fontanella) GENNAI S., TRAVERSI A., La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Commento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 462. Il testo, decisamente di taglio pratico, muove dalla esigenza di analizzare la nuova e assai articolata disciplina, sia di diritto sostanziale che processuale, contenuta nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (entrato in vigore lo scorso 4 luglio) che, in attuazione dell’art. 11 della legge delega 29 settembre 2000, n. 300, ha introdotto, per la prima volta nel nostro ordinamento, il principio generale della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e di altri enti collettivi, conseguente al compimento di determinati reati, commessi ‘‘a vantaggio’’ o ‘‘nell’interesse’’ dell’ente, da parte di soggetto legato funzionalmente all’ente stesso. In questa direzione il volume riprende la struttura del decreto legislativo, procedendo all’esame e al commento di ciascuno degli 85 articoli. Appare condivisibile la scelta degli Autori di non limitare la trattazione all’analisi delle singole disposizioni, ma di anteporre ad ogni sezione in cui si suddivide il provvedimento una breve introduzione che ha la funzione di illustrare in sintesi l’argomento oggetto della sezione medesima. Ai fini di maggior chiarezza, nell’appendice conclusiva è riportato il testo della legge delega e, per intero, quello del decreto legislativo accompagnato dalla relativa relazione governativa. (Chiara Conti) GIOSTRA G. (a cura di), Processo penale minorile, Milano, Giuffrè, 2001. La criminalità minorile costituisce tradizionalmente l’ambito di una differenziazione della giurisdizione penale, imposta ‘‘dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione’’ (art. 3, l.16 febbraio 1987, n.81, di delega per il nuovo codice di procedura penale, attuata poi con il d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, e con il d.lgs. 28 luglio 1989, n. 272). Sono peraltro discusse in dottrina la portata e le implicazioni funzionali di questa esigenza di specializzazione della giustizia minorile. E le contrapposizioni, talora anche radicali, che animano la disputa dottrinale hanno un riscontro giurisprudenziale vieppiù enfatizzante, perché la casistica della devianza minorile favorisce di per sé una sorta di particolarismo interpretativo, legittimato da una scelta ideologica dello stesso legislatore per una delega singolarmente estesa alla discrezionalità del giudice. In questo contesto problematico si inserisce con piena consapevolezza culturale il commento su Il processo minorile, curato da Glauco Giostra. La scelta interpretativa che guida l’intera opera è anticipata, sin dalla presentazione del Curatore, che poi la argomenta efficacemente nel commento all’art. 1 del d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448. È netta la critica per l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che al processo minorile pretende di riconoscere ‘‘un compito promozionale di rieducazione e di recupero sociale’’, in contrasto, si chiarisce, con il nostro ordinamento costituzionale, in particolare con l’art. 27 comma 2 Cost., che ‘‘consente di predisporre misure rieducative, peraltro mai a carattere coattivo, soltanto nei confronti del condannato’’. La tesi persuasivamente sostenuta, invece, è quella di una duplice valenza della finalità educativa della giurisdizione minorile. Per quanto attiene allo svolgimento del processo, questa finalità va intesa solo nel senso di una direttiva destinata a evitare che l’attività cognitiva giurisdizionale possa pregiudicare una corretta evoluzione della personalità del minore: e, quindi, si tratta di assicurare una compatibilità educativa al processo, piuttosto che assegnar-


— 330 — gli impropri compiti di rieducazione. Per quanto riguarda l’esito del giudizio, la finalità educativa va intesa più specificamente nel senso che occorre favorire una destinazione dell’epilogo del processo al recupero, piuttosto che alla repressione, del minore. Sicché si può dire che, secondo l’impostazione per molti versi originale di Glauco Giostra, la finalità educativa opera in negativo, come limite, sul piano processuale; opera in positivo, come alternativa alla pena, sul piano sostanziale. E a questa impostazione si mantiene coerente tutta l’opera, nella pur riconoscibile libertà critica assicurata agli Autori dei diversi commenti alle singole norme del decreto. I commenti, infatti, sono stati assegnati non solo a studiosi di provata affidabilità scientifica, ma anche a magistrati e avvocati con una lunga tradizione di impegno nell’attività giurisdizionale e per la giustizia minorile. Si è così costituito un gruppo di lavoro certamente omogeneo nella impostazione teorica, ma anche adeguatamente articolato nelle esperienze professionali. E di queste diverse sensibilità si è tenuto conto nella distribuzione dei temi. Ma sarebbe ingiustamente riduttivo considerare quest’opera solo nella prospettiva della pur rilevante traccia culturale che essa certamente segnerà negli studi sul processo penale minorile. Si tratta, in realtà, di un’opera di modernissima concezione, perché realizza efficacemente un progetto di pluralismo funzionale fortemente innovativo nel panorama della nostra editoria giuridica. L’elevato impegno teorico, che caratterizza tutti i commenti, non impedisce una completa e oggettiva rassegna della dottrina e della giurisprudenza sui diversi temi trattati, con un risultato di grande utilità pratica. In particolare la rassegna di giurisprudenza è ricca di richiami a sentenze inedite, che colmano così una lacuna informativa determinante in un settore tanto sensibile alle suggestioni della casistica. E proprio l’esigenza di dare conto della giurisprudenza inedita, evidentemente, ha indotto il Curatore e l’Editore a dotare l’opera di un’appendice nella quale sono riportati non solo i principali testi normativi rilevanti, ma anche le motivazioni di sentenze citate nei commenti e non pubblicate su riviste giuridiche. Completano l’opera una copiosa bibliografia e un indice analitico particolarmente accurato, che contribuiscono a renderla proficuamente utilizzabile non solo per lo studio ma anche per la consultazione da parte delle diverse figure professionali che operano nel settore, notoriamente interdisciplinare, della giustizia minorile. (Aniello Nappi) KIRAN BEDI, La coscienza di sé. Le carceri trasformate, il crollo della recidiva, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 371. In questo libro Kiran Bedi (già nota al pubblico italiano anche per il convegno tenutosi all’Università Cattolica di Milano nel luglio 2000) racconta in prima persona l’esperienza vissuta come direttrice del carcere di Thiar a Nuova Delhi. L’opera ha l’obiettivo di dimostrare che è ‘‘sempre possibile’’ — questo il titolo del lavoro nell’edizione inglese — trasformare le strutture carcerarie in luoghi di rieducazione, e ciò anche quando la sfida è tremenda, come nel caso dell’ ‘‘inferno di Thiar’’, un complesso carcerario dalle dimensioni ciclopiche nel quale sono rinchiusi più di 9000 detenuti. Nella prima parte del lavoro, l’Autrice descrive con immagini molto vivide la situazione disperata del carcere al momento del suo arrivo a Thiar nel maggio 1993. I gravi problemi di sovraffollamento, le condizioni igieniche raccapriccianti, il clima di corruzione e di violenza, il dilagare della droga, l’assoluto isolamento dalla realtà esterna avevano fatto di Thiar una sorta di fortezza disumana e disumanizzante, un’istituzione criminogena, vera fabbrica di emarginazione e di delinquenza. La seconda parte del lavoro è dedicata alla descrizione dell’opera di riforma intrapresa da Kiran Bedi e dai suoi assistenti. Il fine perseguito era quello di trasformare Thiar in un ashram, letteralmente un ‘‘luogo di rinascita’’, ove fosse possibile ‘‘preparare il detenuto alla libertà’’, restituendo alla società civile un soggetto con minor probabilità di delinquere di quando vi era entrato. Nella pratica il problema principale da risolvere era quello di riempire


— 331 — le giornate dei detenuti rendendo ‘‘produttivo’’ il tempo da essi trascorso all’interno del carcere. La soluzione fu raggiunta attraverso due strade: la creazione del c.d. ‘‘sistema cooperativo dei detenuti’’ e l’apertura del carcere al mondo esterno. Quanto al primo aspetto, partendo dalla convinzione che ‘‘Thiar rappresentava un enorme potenziale umano che attendeva solo di venir responsabilizzato’’, fu incoraggiata la formazione di gruppi autogestiti di detenuti a cui venivano affidati vari aspetti della vita del carcere. Tali ‘‘comitati’’, che si fondavano sulla partecipazione volontaria degli interessati, avevano propri responsabili e propri referenti nell’amministrazione penitenziaria. Vennero così istituiti numerosissimi ‘‘comitati’’: uno ‘‘legale’’ (i cui membri costituirono una bancadati ove i detenuti potevano registrare le proprie vicende processuali), uno per l’istruzione (finalizzato a debellare l’analfabetismo all’interno del carcere), uno per l’organizzazione delle attività sportive e molti altri ancora. Lo scopo, che era quello di indurre i detenuti a partecipare attivamente al proprio percorso di correzione, stando a quanto riferisce la stessa Autrice, fu pienamente raggiunto. Nello stesso tempo Kiran Bedi e i suoi assistenti si sono battuti per rompere l’isolamento estremo di Thiar aprendo le porte del carcere alla società civile e ai mezzi di informazione, secondo una logica di integrazione e non di esclusione. Nel giro di pochi mesi il carcere — grazie anche alla crescente attenzione dei media — si è popolato di organizzazioni di volontariato e di istituzioni pubbliche e private che, con l’apporto di tempo e di risorse, hanno permesso di avviare molteplici attività, da quelle culturali a quelle sportive e religiose. Fra tali attività merita un cenno l’introduzione dei corsi di meditazione vipassana, una tecnica di meditazione molto antica attraverso la quale si facilita in chi la pratica un processo di introspezione e di presa di coscienza di sé e del significato dei propri atti. Secondo quanto riferisce Kiran Bedi, il corso, frequentato volontariamente dalla quasi totalità dei detenuti, rappresentò un’eccezionale occasione di crescita e di sviluppo personale ed ebbe effetti profondamente benefici sui partecipanti in termini di riduzione dell’ansia e del sentimento di ostilità, unita ad un miglioramento della qualità della vita e delle attese per il futuro. Nel suo lavoro Kiran Bedi non affronta questioni teoriche, né si interroga in astratto sui fini della pena, ma descrive come, con una forte dose di pragmatismo ed una grande determinazione, è riuscita nel suo obiettivo: fare di Thiar un luogo idoneo al reinserimento sociale dei detenuti. E il valore del libro sta in ciò, nel racconto appassionato di un’esperienza concreta, un’esperienza da cui l’Autrice ricava un messaggio controcorrente, destinato a scuotere: ‘‘trasformare il carcere in un luogo di risocializzazione è possibile’’. (Angela Della Bella) MAUGERI A.M., Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 973. La crescente pressione della criminalità organizzata e la sua profonda penetrazione nell’economia legale nazionale ed internazionale hanno mostrato la fragilità e l’inadeguatezza delle tradizionali sanzioni patrimoniali, spingendo il legislatore a prevedere nuove forme di sanzioni, al fine di dotarsi di idonei strumenti di sottrazione del profitto da reato e di impedire così l’infiltrazione nel mercato di enormi flussi di denaro riciclato. Tali sanzioni (introdotte dal legislatore al di fuori di qualunque sforzo di conciliarle in maniera organica con il sistema penale e di determinarne la natura giuridica e la relativa disciplina, in una tipica ottica postmoderna) appaiono peraltro in larga misura finalizzate a conseguire il maggior utile possibile per le finanze statali, indipendentemente da problemi di coerenza sistematica e, soprattutto, con scarsa attenzione al rispetto delle garanzie fondamentali di uno Stato di diritto. Da queste premesse si diparte l’ampia e approfondita analisi dell’Autrice, che affronta il problema del contrasto tra funzionalità e garantismo nelle moderne sanzioni patrimoniali. L’Autrice, sottolineata, nel capitolo introduttivo, l’intrinseca problematicità della materia, articola la monografia in tre parti. La prima è occupata da una dettagliata ricostruzione storica delle sanzioni patrimoniali, della quali si evidenzia la più recente evoluzione con par-


— 332 — ticolare attenzione all’istituto della confisca, considerata la sanzione patrimoniale per eccellenza. Dopo aver delineato sinteticamente ed efficacemente la storia dell’istituto in alcuni tra i più significativi ordinamenti di civil e common law, nella seconda parte della monografia la Maugeri analizza l’attuale struttura della confisca in Europa, nei paesi del Commonwealth e nell’ordinamento nordamericano, dedicando un puntuale approfondimento alla situazione italiana. L’analisi pone in risalto le aporie ricostruttive che accompagnano, da sempre ed in ogni ordinamento, le riflessioni sull’istituto della confisca: aporie che, secondo l’Autrice, possono essere sciolte solo chiarendo la natura giuridica di tale sanzione patrimoniale. Ampio spazio è quindi dedicato al dibattito su questo tema negli ordinamenti stranieri e in quello italiano, con l’analisi dei criteri emersi e utilizzati dalla dottrina. Nella terza parte del lavoro, infine, l’Autrice, con non comune lucidità critica, fa emergere le difficoltà applicative della confisca così come delineata nei diversi ordinamenti e, all’interno della cornice così disegnata, saggia la conformità dell’istituto ai principi costituzionali di proporzione, di colpevolezza, di ne bis in idem e della presunzione di innocenza. I dubbi emersi da tale analisi spingono la Maugeri ad auspicare un’applicazione della confisca limitata a quelle forme di criminalità che sono manifestazione di un’organizzazione strutturata e stabile, la cui pericolosità per l’ordine pubblico e per il corretto funzionamento dell’economia e della democrazia può giustificare in termini di necessità un così severo intervento repressivo. Nelle conclusioni, l’Autrice propone una rimeditazione sul significato della confisca, cercando di restituire un fondamento teorico ad una sanzione che, nella legislazione e nella prassi odierna, pare dominata da una sorta di pragmatismo penalistico. Apre quindi una brevissima parentesi sulle prospettive di riforma in ambito internazionale — sul piano della cooperazione internazionale — e nazionale — con riferimento al progetto di riforma del codice penale presentato dalla Commissione Grosso -, dedicando altresì un paragrafo al ruolo della confisca nel quadro della disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un tema che l’Autrice ha potuto solo abbozzare, scrivendo in una fase in cui l’intervento del nostro legislatore non era ancora giunto a compimento. (Eleonora Montani). MERZAGORA BETSOS I., Lezioni di criminologia. Soma, psiche, polis, Padova, Cedam, 2001, pp. XVI-561. Con un’impostazione nuova rispetto a quella adottata dai manuali tradizionali, l’Autrice affronta — nelle tre parti di cui si compone il volume — alcuni dei temi classici e più interessanti della criminologia clinica: aggressività, violenza e omicidio (I Parte); delittuosità sessuale (II Parte); droga e criminalità (III Parte). La trattazione degli argomenti scelti si sviluppa, in particolare, attraverso una costante e puntuale riflessione sull’intreccio tra ‘‘soma’’ e ‘‘psiche’’, al quale l’A. aggiunge però — coerentemente con le moderne teorie che privilegiano un approccio multifattoriale nello studio di questa materia — anche alcuni elementi di ‘‘polis’’, ritenuti necessari per comprendere gli inevitabili effetti, sulle dinamiche psicologiche e comportamentali degli individui, del contesto culturale, sociale ed economico nell’ambito del quale nasce e si alimenta la criminalità. L’interessante ricerca è arricchita dal continuo rimando a dati statistici e quantitativi e dall’analisi di numerosi casi pratici tratti dalla realtà giudiziaria, che offrono al lettore un utile strumento per la comprensione — sotto il profilo pratico operativo — delle tesi prospettate. 1. Nella prima parte del testo, l’A. ripercorre — con puntuali rilievi critici — le teorie elaborate nel tempo sull’aggressività e sulla violenza, rilevando come la genesi di tali fenomeni non possa essere circoscritta a spiegazioni ‘‘unicausali’’, caratterizzate dalla esclusiva rilevanza del dato biologico rispetto a quello ambientale (e viceversa), ma trovi invece il proprio fondamento nella continua interazione di tali fattori.


— 333 — Con un approccio analogo, nelle pagine che seguono, l’A. procede all’analisi criminologica del reato di omicidio, nelle sue svariate e numerose tipologie, ritenuto il crimine per antonomasia e — anche per il nostro Paese — significativo indicatore di allarme sociale. In particolare, un ampio spazio della trattazione è dedicato alla disamina dei fattori di matrice socio-economica che, come dimostrano numerosi studi criminologici (soprattutto stranieri), sembrano assumere una precisa rilevanza, se pur non univoca, nell’eziologia di questo reato; nonché dei rapporti fra malattia mentale (nelle sue varie manifestazioni) ed omicidio, che da sempre sono stati alla base di facili preconcetti negli studi sul ‘‘tipo d’autore’’. 2. Ai rapporti tra sessualità, delitto e cultura è dedicata la seconda parte del volume: passando attraverso un’interessante digressione di carattere storico, l’A. si sofferma sull’attuale percezione sociale della devianza sessuale (rilevando, tra tutti i comportamenti nei quali essa può manifestarsi, una sostanziale identità di reazione quanto alla gravità della condotta di violenza sessuale) e — con la metodologia propria della ricerca criminologica — segnala i principali problemi giuridici posti dalla vigente disciplina normativa del fenomeno (l. 15 febbraio 1996 n. 66) dedicando, nella disamina delle condotte punibili, un’attenzione particolare agli abusi sui minori e sui soggetti in condizioni di inferiorità (fisica o) psichica, rispetto ai quali si aprono le maggiori questioni interpretative. Con un approccio strettamente psichiatrico, vengono poi dettagliatamente esaminate le singole alterazioni dell’istinto sessuale (tra esse: l’omosessualità, il transessualismo, il travestitismo, la pedofilia, il sadismo e il masochismo, l’esibizionismo, il feticismo, la zoofilia, la necrofilia, l’incesto) e la loro eventuale incidenza rispetto al problema dell’imputabilità, non senza far emergere - quale dato conclusivo dell’analisi complessiva - un’oggettiva difficoltà nell’individuare, in tema di sessualità, un autonomo concetto di ‘‘normalità’’ in senso psicopatologico, stante l’inevitabile e continuo interagire, anche nel fenomeno della devianza sessuale, di ‘‘natura’’ e ‘‘cultura’’ che impone, quale prima e diretta conseguenza, il superamento di spiegazioni riduttivistiche. Analoga considerazione viene ribadita dall’A. nell’ampio paragrafo dedicato alla confutazione dei miti e degli stereotipi sviluppatisi nel tempo sulla violenza sessuale e sulle caratteristiche dell’autore di questo delitto, manifestamente smentiti dall’ormai accertata multifattorialità criminogenetica. 3. Nella terza ed ultima parte del testo, infine, l’analisi dell’A. si concentra sui molteplici rapporti (diretti e indiretti) rinvenibili tra droga e criminalità, indotti da un lato dall’esistenza stessa di una regolamentazione normativa, che proibisce l’uso e il commercio delle sostanze stupefacenti, e dall’altro dagli effetti di dipendenza fisica e psichica prodotti dalla loro assunzione (un’ampia trattazione sul punto è dedicata alla cocaina). La ricerca criminologica, in particolare, ha messo in luce il ruolo di assoluta rilevanza che, rispetto a questo tipo di devianza, assume il fenomeno del traffico di sostanze stupefacenti condotto dalle organizzazioni criminali, nonché la particolare relazione esistente tra droga e carcere, alimentata anche dalla disciplina vigente in tema di imputabilità. Ciò induce una volta di più alla riflessione sulla opportunità o meno di una ipotesi di liberalizzazione o legalizzazione della droga, in una prospettiva di prevenzione e riduzione della criminalità: scelta politica che ovviamente non potrà basarsi su esclusive considerazioni di ordine criminologico, ma rispetto alla quale — a parere dell’A. — sembrano possano svolgere un utile contributo una serie di proposte di intervento c.d. ‘‘di riduzione del danno’’, volte a fornire al consumatore di droga interventi alternativi rispetto a quello meramente repressivo (Valeria Tartara). VASSALLI G., Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei ‘‘delitti di Stato’’ nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Milano, Giuffrè 2001, pp. XIV-319. In un celebre scritto del 1946, Gustav Radbruch afferma il principio secondo il quale il


— 334 — diritto positivo, quando raggiunge una soglia intollerabile di conflitto con la giustizia, deve considerarsi ‘‘ingiustizia legale’’ (gesetzliches Unrecht) e cedere di fronte alle esigenze del ‘‘diritto sovralegale’’ (übergesetzliches Recht), quando non deve addirittura essere ritenuto un non-diritto (Nicht-Recht). All’analisi di questa formula, del suo fondamento e della sua applicazione in materia penale da parte della giurisprudenza e della dottrina, non soltanto tedesche, è dedicato il nuovo denso contributo di Giuliano Vassalli, un protagonista della cultura penalistica che ancora una volta si impone all’ammirazione degli studiosi non solo per la qualità scientifica della sua opera, ma anche per la sua straordinaria sensibilità storico-politica. Il primo capitolo della monografia illustra il dibattito accesosi su questo tema in Germania già all’indomani del secondo conflitto mondiale, ora tornato d’attualità in seguito alla riunificazione del Paese. Dopo avere attentamente esaminato il pensiero del Radbruch e l’interpretazione fornitane dalla dottrina, l’Autore passa in rassegna le sentenze che hanno posto a fondamento della decisione la nozione di ‘‘diritto ingiusto’’: il quadro che ne risulta è quello di una pressoché costante recezione, più o meno esplicita, delle tesi del Radbruch, con una spiccata accentuazione del fenomeno nella recente giurisprudenza relativa agli omicidi commessi dalle guardie di frontiera della ex DDR per impedire il superamento del muro di Berlino. Il conflitto tra il principio di irretroattività in peius della legge penale e l’esigenza di non lasciare impuniti comportamenti che, pur se leciti secondo le leggi vigenti al momento della loro commissione, contrastano intollerabilmente con i più elementari canoni di giustizia e di umanità, è stato risolto, con l’avallo della Corte Costituzionale, affermandosi la prevalenza della necessità di ristabilire comunque la giustizia violata e di punire, quindi, i responsabili di quegli atti di non-diritto. Più articolato è, invece, il panorama delle opinioni espresse in dottrina: lo scrupoloso esame condotto dall’Autore testimonia la varietà delle posizioni assunte sul punto dagli scrittori tedeschi, che vanno da un’adesione senza riserve all’orientamento giurisprudenziale sino ad un aperto rifiuto di un’operazione di ‘‘superamento del passato’’ che, per affermare una pretesa giustizia extra-positiva, finisce per violare un principio cardine dello stato di diritto, quale l’irretroattività della legge penale. Il problema, del resto, non si è posto soltanto in Germania, ma è stato affrontato ovunque sia stata sperimentata la difficile transizione da un regime non democratico allo stato di diritto: all’analisi delle diverse soluzioni adottate nei Paesi europei in seguito alla caduta del nazismo prima e del comunismo poi è dedicato il secondo capitolo. Al di là delle ovvie peculiarità che, per ragioni storiche e politiche, caratterizzano le scelte di ogni ordinamento, l’Autore individua una differenza profonda tra la soluzione tedesca e quelle adottate in tutti gli altri ordinamenti europei: soltanto in Germania, infatti, i giudici si sono assunti il compito di sanzionare penalmente, in assenza di leggi retroattive, la cd. criminalità di Stato, mentre in tutte le altre Nazioni (tra cui l’Italia) l’alternativa si è posta tra la rinuncia alla persecuzione di tali condotte e l’emanazione di norme che espressamente sancissero la punibilità, in via retroattiva, delle azioni più odiose compiute in conformità alla legislazione vigente al momento della loro commissione. Nell’ultimo capitolo l’Autore, pur consapevole dell’impossibilità di fornire una risposta definitiva ad una questione giuridica così ricca di implicazioni politiche ed ideologiche, non si esime tuttavia dal compito di esprimere una propria personale valutazione delle soluzioni prospettate e di tracciare la strada da percorrere in futuro. Desta perplessità, ad avviso dell’Autore, l’atteggiamento della giurisprudenza della Germania unita che, pur in presenza di specifiche norme dell’Accordo di unificazione che disciplinavano la materia della successione di leggi, riconoscendo la validità delle norme della DDR, ha ritenuto di negare lo status di diritto ad una parte della legislazione della Germania comunista, punendo conseguentemente anche gli autori materiali di condotte all’epoca scriminate da una causa di giustificazione: pare all’Autore preferibile la soluzione adottata da un’isolata pronuncia della Jugendkammer di Berlino che, pur non rinunciando a punire gli autori delle uccisioni, ha evitato di ricorrere ad argomentazioni di natura meta-positiva ed ha limitato l’area della responsabilità a quelle sole condotte suscettibili di essere qualificate come illecite già alla stregua di un’in-


— 335 — terpretazione ‘‘amica dei diritti dell’uomo’’ della stessa legislazione comunista. Resta comunque auspicabile che, in considerazione della natura profondamente politica delle scelte da compiere, siano i legislatori democratici, qualora non intendano rinunciare alla punizione di fatti commessi sotto i passati regimi, a disciplinarne il trattamento con disposizioni esplicitamente retroattive, evitando così che il principio di irretroattività venga eluso mediante il ricorso da parte della giurisprudenza a nozioni di giustizia di stampo marcatamente giusnaturalistico. Permane la speranza che l’adesione della quasi totalità degli Stati a Convenzioni per la tutela dei diritti umani e l’istituzione di Tribunali penali internazionali per la repressione dei crimini contro l’umanità facciano sì che la problematica affrontata da Giuliano Vassalli in questo prezioso saggio conservi interesse soltanto sul piano storico. (Luca Masera) CANEPA M., MERLO S., Manuale di diritto penitenziario, VI ed., Milano, Giuffrè, 2002, pp. XXV-582. Giunto alla 6a edizione, e pur privato dell’apporto insostituibile di Mario Canepa, il manuale si conferma uno strumento conoscitivo assai importante non solo per chi si accosti per la prima volta all’ordinamento penitenziario (si veda ad es. la tabella relativa alle categorie di soggetti privati della libertà personale), ma altresì per coloro che già conoscono e ancor più vorrebbero comprendere il sistema penitenziario. L’opera si è arricchita delle numerose innovazioni che, introdotte a livello normativo dal 1999 (anno dell’ultima edizione) al 2001, sono venute ad incidere sul sistema dell’esecuzione penale in modo disorganico e spesso collidente con i principi fondamentali in esso affermati. Il che ha comportato un approccio diverso alle materie trattate con l’inserimento di nuovi paragrafi volti appunto a consentire al lettore una conoscenza più completa: così ad es. un adeguato spazio è dedicato alla normativa sul trasferimento dei condannati negli Stati di provenienza, mentre spicca un nuovo paragrafo dedicato alla disciplina internazionale (nel quale si sottolinea il ruolo fondamentale della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’estensione alle persone private della libertà personale delle garanzie espresse dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed in particolare del divieto di torture e di trattamenti disumani e degradanti sancito nell’art. 3 della stessa Convenzione). Proprio in relazione a questa norma l’interpretazione della Corte risulta assai importante, perché da un lato, riconoscendo le difficoltà in capo ai soggetti detenuti di provare le violazioni dell’art. 3 Cedu ha operato una sorta si inversione dell’onere della prova a carico dello Stato denunciato, dall’altro è giunta a ritenere violato lo stesso art. 3 anche quando lo Stato denunciato non abbia compiuto tutti gli accertamenti necessari ad individuare e punire i colpevoli delle violazioni. E proprio l’incompletezza delle indagini ha comportato la condanna dello Stato italiano (caso Labita contro Italia). Il richiamo alla giurisprudenza della Corte in tema di art. 3 Cedu acquista un rilievo particolare in quanto la sospensione delle regole trattamentali disposta ai sensi dell’art. 41bis ord. penit., pur non concretando secondo la Corte violazione del medesimo art. 3, tuttavia presenta margini assai confusi. Così che, proprio per il rischio di violazione dell’art. 3 insito nel regime sospensivo, il richiamo operato nel volume al problema, e soprattutto alle relative sentenze della Corte europea, assume una valenza assai rilevante. Lo sforzo maggiore di razionalizzazione della materia penitenziaria si coglie nella trattazione, confluita in un nuovo capitolo (il IV della parte seconda), degli « strumenti sospensivi » dell’esecuzione, ovvero degli istituti disciplinati negli artt. 146 e 147 c.p. e della sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 90 t.u. 309/90 per soggetti tossicodipendenti. In particolare per quanto concerne i primi istituti, gli Autori, dopo aver dato conto dell’ampliamento operato dalla legge 40/2001, hanno affrontato i problemi di coordinamento della disciplina dell’art. 146 c.p. con quella contenuta nella stessa legge 40/2001, che per un verso introduce una condizione ostativa alla concessione del differimento nei confronti delle madri (rappresentata dalla dichiarazione di decadenza dalla potestà parentale ex art. 330 c.c.), e per l’altro consente al tribunale di sorveglianza di differire l’esecuzione anche in presenza di


— 336 — pene accessorie, tra cui la decadenza dalla potestà, delle quali viene sospesa l’operatività per il tempo del beneficio. Soprattutto nel capitolo dedicato alle misure alternative si coglie l’intento informatore e razionalizzatore. Si tratta di un settore ampiamente toccato dagli interventi normativi di cui il volume dà esaustivamente conto: si va dalle disposizioni introdotte con la legge 231/1999 a favore dei soggetti affetti da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria, tese a consentire un accesso facilitato all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare e alla sospensione dell’esecuzione di pena, alla nuova ipotesi di detenzione domiciliare « speciale » destinata alle madri di prole di età inferiore a dieci anni, fino alle nuove modalità di controllo elettronico imponibili ai soggetti in detenzione domiciliare ‘‘comune’’ e ‘‘generica’’ (art. 47-ter commi 1o e 1o-bis ord. penit.) per facilitare appunto il controllo sull’osservanza delle prescrizioni e per meglio fronteggiare la pericolosità sociale dei soggetti. La trattazione ha conservato un taglio pratico, frutto dell’esperienza professionale degli Autori, diretto soprattutto, anche se non esclusivamente, agli operatori penitenziari: contribuiscono a ciò le esemplificazioni solo apparentemente ipotetiche, in realtà anch’esse tratte dalla esperienza quotidiana, ed in quest’ottica si giustifica il ricorso a caratteri grafici differenziati per evidenziare profili diversi di analisi, ma non sempre ciò che è in caratteri più piccoli è meno importante o interessante. Non mancano richiami bibliografici e giurisprudenziali che, se da un lato confermano una prospettiva di tipo didascalico, dall’altro contribuiscono ad attenuare l’impressione di asetticità nell’approccio ad una materia, quella penitenziaria, così drammaticamente viva. Ma ciò, forse, riflette semplicemente quel che avviene anche nel settore della ricerca scientifica, che sembra aver perso l’interesse di un tempo per il diritto penitenziario. Certo sono trascorsi molti anni dall’emanazione della legge penitenziaria: gli entusiasmi per la ‘‘novità’’ sono scemati e l’attenzione della dottrina sembra più orientata verso gli interventi legislativi diretti a consentire modalità di espiazione extra moenia. Ma, non ostante tali interventi, la realtà carceraria è ancora fatta di insostenibile sovraffollamento, di carceri spesso fatiscenti, di un insoddisfacente sistema di misure alternative, di personale scarsamente qualificato e costretto ad operare in situazioni difficili, tanto da offrire quotidianamente molti spunti di riflessione, che meriterebbero di trovare spazio in questo ed altri manuali: non per trasformarli in un cahier de doléances (che pure sarebbe utile e necessario), ma per evidenziare le differenze tra l’ordinamento penitenziario « libro dei sogni », secondo la sempre attuale definizione di Elvio Fassone, e la realtà degli istituti carcerari, oltreché per sollecitare l’amministrazione penitenziaria ad un maggior impegno nella realizzazione di quanto dettato nell’ordinamento. (Laura Cesaris)


GIURISPRUDENZA

c) Giudizi di Cassazione

CASSAZIONE PENALE — Sez. un. — 22 marzo 2000 Pres. Viola — Rel. Losapio P.M. Toscani (conf.) — Ric. Finocchiaro Indagini preliminari - Chiusura delle indagini - Archiviazione - Successiva adozione di misura cautelare nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto in assenza di provvedimento di riapertura delle indagini - Illegittimità. (C.p.p. art. 414). È illegittima l’ordinanza impositiva di misura cautelare adottata nei confronti della stessa persona e fondata sullo stesso fatto contemplati da un precedente provvedimento di archiviazione non rimosso, resa dallo stesso giudice delle indagini preliminari che decretò l’archiviazione e su richiesta dello stesso pubblico ministero che la sollecitò (1). (Omissis). — 1. Con ordinanza di data 7 giugno 1999, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania dispose l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di Giuseppe Alfio Finocchiaro, sospettato di appartenenza alle associazioni per delinquere (di tipo mafioso: art. 416-bis c.p.) facenti capo, una a tale P. Brunetto (fatto ascritto al capo 1 dell’imputazione) e l’altra a tali G. Scavo e B. La Motta (fatto ascritto al capo 11 dell’imputazione). Il Tribunale distrettuale de libertate di Catania, in sede di riesame sulla misura custodiale, con provvedimento del 20 luglio 1999, confermò l’ordinanza di cautela solo in relazione al delitto associativo contestato al capo 11, esclusa l’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 416-bis c.p., e annullò la detta ordinanza in relazione al delitto contestato al capo 1 dell’imputazione, non avendo ravvisato sufficienti indizi di reato. Avverso questa decisione, il Finocchiaro, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo tre mezzi di annullamento per violazione, rispettivamente, dell’art. 273, degli artt. 274 e 275 e dell’art. 414 c.p.p. 2. In particolare, con il terzo motivo di ricorso, ribadito anche con ‘‘motivi nuovi’’ e con nota di udienza, il difensore del ricorrente evidenzia come l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari e, di conseguenza, quella impugnata, pongono a loro fondamento fatti già oggetto di una precedente investigazione conclusa con provvedimento di archiviazione emesso dalla medesima autorità nei confronti della stessa persona. L’ordinanza custodiale, precisa il deducente, è stata


— 338 — adottata nonostante manchi agli atti l’autorizzazione alla riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p., unico provvedimento idoneo a superare la preclusione veniente dal decreto di archiviazione. Secondo il deducente, il giudice, a fronte della richiesta del pubblico ministero e alla luce dei principi espressi nella sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1995 e nella giurisprudenza di legittimità, avrebbe dovuto dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale, rigettando, quindi, la richiesta di misura cautelare. 3. La seconda sezione della Corte, alla quale ratione materiae fu assegnata la decisione sul ricorso, ha rilevato l’esistenza di un contrasto di indirizzi, nell’ambito della giurisprudenza della Corte, sulla questione relativa agli effetti della carenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari, ex art. 414 c.p.p., quando si proceda per i medesimi fatti oggetto di un precedente provvedimento di archiviazione; pertanto, al fine di comporre il contrasto, ha rimesso la decisione alle Sezioni unite. Il Primo Presidente, con decreto del 21 febbraio 2000, ha fissato per la trattazione in camera di consiglio per l’odierna udienza. 4. Dalla ordinanza impugnata risulta che i fatti posti a base dell’ordinanza cautelare sono gli stessi che sostennero un precedente provvedimento di archiviazione disposto il 23 dicembre 1998 dallo stesso giudice per le indagini preliminari, su conforme richiesta del pubblico ministero formulata il precedente 1o dicembre. Il provvedimento impugnato, infatti, dato atto dell’intervenuta archiviazione, evidenzia che: ‘‘[...] in epoca immediatamente successiva, senza che fosse intervenuta alcuna novità, è stata avanzata richiesta di applicazione di misura cautelare per gli stessi fatti e sulla scorta dei medesimi elementi indiziari [...]’’. Secondo il Giudice a quo: ‘‘[...] effettivamente la vicenda è singolare (e probabilmente risponde a scelte investigative non note) ma di per sé non è causa di nullità dell’impugnata ordinanza’’ custodiale oggetto del giudizio di riesame. Da quanto avanti riassunto emerge: (a) che il pubblico ministero, il 1o dicembre 1998, formulò richiesta di archiviazione, e, ottenuto il provvedimento, in relazione ai medesimi fatti e nei confronti dello stesso soggetto, subito dopo (immediatamente dopo, secondo l’ordinanza del Tribunale del riesame) chiese l’applicazione della misura cautelare; (b) che lo stesso giudice sulla stessa fattispecie e nei confronti dello stesso soggetto, con decreto del 23 dicembre 1998, ordinò l’archiviazione, e con ordinanza del 7 giugno 1999, applicò la misura cautelare detentiva; (c) che il pubblico ministero non aveva chiesto l’autorizzazione alla riapertura delle indagini; (d) che lo stesso materiale indiziario fu posto a fondamento prima dell’archiviazione e poi dell’applicazione della misura cautelare. Così definita la situazione in fatto quale ritenuta dal giudice del merito, può ritenersi che la questione al vaglio del Collegio è centrata sul se, nella permanente validità del decreto di archiviazione, sia legittima l’adozione di un provvedimento cautelare personale per lo stesso fatto sulla base dei medesimi elementi indiziari già oggetto della (precedente) archiviazione e, quindi, in assenza dell’autorizzazione prevista dall’art. 414 c.p.p. 5.

Prima di passare alla disamina della specifica questione sottoposta al giu-


— 339 — dizio del Collegio, giova riassumere i termini del contrasto giurisprudenziale quale emerge dalle motivazioni delle decisioni della Corte che si sono occupate della problematica, spesso connessa ad altri risvolti propri alle singole fattispecie, non sempre separabili senza pregiudizio per la comprensione del significato razionale dell’apparato motivazionale fornito da ciascuna decisione. Intanto, appare opportuno evidenziare la non coincidenza del problema da risolvere rispetto a quello affrontato e deciso dalla recente decisione di queste Sezioni unite all’udienza del 23 febbraio u.s. su ricorso Romeo (n. 37239/99 r.g.); là dove si discusse sul se possa essere posto a fondamento di una misura di cautela personale, seppure previa coeva revoca della sentenza di non luogo a procedere, il [nuovo] materiale indiziario emerso [o raccolto] dopo la sentenza e prima della revoca, con i propedeutici problemi sul se siffatto provvedimento possa essere adottato anche prima della revoca della sentenza di non luogo a procedere e sul limite di operatività della disposizione di cui all’art. 300 comma 5 c.p.p. in tema di ri-applicazione di misura restrittiva nei confronti del prosciolto. Tutti quesiti che scontano la modificazione, all’evidenza in pejus, dell’apparato indiziario a carico del soggetto (prima) inquisito. Nella fattispecie all’odierno esame del Collegio, invece, come si è detto, a fronte dell’elemento positivo ‘‘decreto di archiviazione’’, si evidenzia, in negativo, sia la mancanza del provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, sia l’insussistenza di nuovi (ed ulteriori) elementi indizianti. Sicché l’attuale situazione procedimentale scaturisce, all’evidenza, da una diversa (più severa) lettura (o rilettura) degli elementi preesistenti in carenza del provvedimento ex art. 414 c.p.p. 6. Preliminarmente, va ricordata la giurisprudenza della Corte costituzionale sul tema. Con la sentenza 19 gennaio 1995 n. 27, la Corte delle leggi affrontò la questione, sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale, concernente la dedotta violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) a causa dell’articolazione dell’art. 555 c.p.p. (nella formulazione all’epoca vigente), in relazione all’art. 414 stesso codice, laddove ‘‘[...] non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari’’; nella misura in cui, cioè, la disposizione risulta[va] sfornita di sanzione processuale per il caso in cui il pubblico ministero avesse esercitato l’azione penale senza autorizzazione ex art. 414 c.p.p., dovendosi, secondo il remittente, ritenere insufficiente la sanzione della inutilizzabilità degli atti di indagini, posto che un tanto non potrebbe esplicare effetto paralizzante sull’atto di esercizio dell’azione penale in mancanza di una esplicita previsione di nullità (art. 177 c.p.p.). A fronte di questa prospettazione, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione come dedotta, evidenziò che proprio l’art. 414 c.p.p., subordinando la riapertura del procedimento concernente un fatto in precedenza oggetto di archiviazione al placet del giudice, ha attribuito un’efficacia [limitatamente] preclusiva al provvedimento di archiviazione nella misura in cui, in difetto del provvedimento del giudice, l’eventuale esercizio dell’azione penale è impedito. La Corte costituzionale, dunque, fu dell’avviso che in detta ipotesi, come in ogni ipotesi di preclusione, è la instaurabilità di un nuovo procedimento (la procedibilità) ad essere impedita, secondo un meccanismo riferibile all’istituto del ne bis in


— 340 — idem (art. 649 c.p.p.), mutuabile anche, quanto ad effetti, alla sentenza di non luogo a procedere, in assenza della revoca di cui agli artt. 434 s. c.p.p.; principio condiviso dalla richiamata sentenza di queste Sezioni unite su ricorso Romeo. Conclusivamente, nel pensiero della Corte delle leggi, in presenza di provvedimento di archiviazione, l’art. 414 c.p.p. esprime un duplice comando scaturenti dalla preclusione endoprocedimentale: il divieto di agire e, quindi, il divieto di indagare sullo stesso fatto e nei riguardi della stessa persona. 7. Molte decisioni della Cassazione si sono mosse nell’ambito della ratio decidendi sottesa alla sentenza appena avanti riassunta precisandone non pochi risvolti ed affinando i concetti di valore suggeriti dalla Corte delle leggi. 7.1. Nella prospettiva dell’inquadramento sistematico dell’effetto del provvedimento (decreto od ordinanza) di archiviazione sul procedimento, come causa di preclusione all’esercizio dell’azione penale e, anche, all’attivazione di un atto inquadrabile come atto del procedimento — quale potrebbe definirsi, con il massimo di ampiezza, la richiesta di applicazione di misura di cautela —, come delineato dalla Corte costituzionale, e così valorizzando il meccanismo del ne bis in idem, Sez. I, 30 aprile 1996, Zara, in C.E.D. n. 205283, in fattispecie di ordinanza di custodia cautelare emessa da un giudice per le indagini preliminari diverso da quello che aveva reso il provvedimento di archiviazione, ha affermato il principio per cui ‘‘[...] deve ritenersi precluso, in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, l’esercizio dell’azione penale, riguardante un fatto già oggetto di archiviazione atteso che, in tal caso, è l’instaurabilità di un nuovo procedimento ad essere impedito. Con la conseguenza che, qualora il pubblico ministero non abbia dato dimostrazione di aver ottenuto l’autorizzazione predetta, il giudice deve prendere atto della mancanza del presupposto per procedere’’. 7.2. Sez. VI, 12 settembre 1996, Taglieri, C.E.D. n. 205902, in fattispecie di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), ha ribadito tale scelta ermeneutica correttamente limitando, però, l’effetto preclusivo del decreto di archiviazione solo nei confronti dell’autorità giudiziaria che l’aveva emesso. Ciò in quanto, secondo detta decisione, l’autorizzazione ex art. 414 c.p.p., preordinata a rimuovere gli effetti della precedente valutazione di infondatezza della notizia di reato, si pone come atto equipollente alla revoca, sicché non può provenire se non dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento ed inerire ad un sindacato sul potere di esercizio dell’azione penale riferibile al pubblico ministero titolare delle relative funzioni presso lo stesso ufficio giudiziario. La riapertura delle indagini sarebbe da definire come atto incidentale di quel dato procedimento e, per questo, non potrebbe che riguardare il ‘‘medesimo fatto’’, nella specificità degli elementi apprezzati al momento della prima iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e valutati allorquando fu consentita l’archiviazione. Così inteso, prosegue la decisione, il concetto di ‘‘medesimo fatto’’ non potrebbe prescindere dalle condizioni di luogo, di tempo e di persona che lo contraddistinguono in quel dato procedimento. Ne seguirebbe che se un elemento identificativo del fatto, ai fini che interessano, è il luogo in cui si è verificato, la preclusione non potrebbe avere carattere vagante essendo radicata al fatto quale apprezzato dal giudice dell’archiviazione, con quelle date connotazioni irripetibili in altro fatto altrove considerato e valutato. La preclusione, sempre secondo la decisione in disamina, postulerebbe l’esaurimento del potere decisionale come conseguenza del suo esercizio ovvero del


— 341 — compimento di un atto incompatibile, così generando l’effetto preclusivo. Ma proprio per questo limitato effetto, conclude la decisione in commento, nessuna preclusione potrebbe produrre nei confronti dell’autorità che non abbia esercitato quel potere. La ricostruzione dell’istituto, così operata, risulta ancorata al testo letterale dell’art. 414 comma 2 c.p.p. il quale dispone che ‘‘quando è autorizzata la riapertura delle indagini, il pubblico ministero procede a nuova iscrizione a norma nell’art. 335’’, sicché l’aggettivazione nuova, secondo la plausibile interpretazione fornita dalla sentenza: ‘‘[...] postula non solo la successione cronologica delle iscrizioni sullo stesso registro, ma — anche e conseguentemente — l’identità dell’ufficio del pubblico ministero procedente, che abbia iscritto sia la prima che la nuova notizia di reato’’. 7.3. Sulla stessa linea si muove, ai fini dell’operatività della preclusione dedotta dal contesto dell’art. 414 c.p.p., Sez. IV, 18 dicembre 1998, Bruno, C.E.D. n. 213140, la quale afferma esplicitamente che detta disposizione, per coordinarsi con il concetto di ‘‘stesso fatto’’, è da interpretarsi in stretto collegamento con le regole sulla competenza territoriale. Infatti, l’esattezza della regola, secondo la quale la competenza a disporre la riapertura appartiene allo stesso giudice che ha emesso il decreto di archiviazione, emerge dalla considerazione che un pubblico ministero, territorialmente diverso, non potrebbe richiedere al giudice delle indagini preliminari di altra sede giudiziaria, che ha emesso il decreto, il provvedimento di riapertura delle indagini, stante lo stretto ed esclusivo collegamento funzionale tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari operanti nella stessa sede. Da ciò l’epifonema che l’autorizzazione di cui all’art. 414 c.p.p., non è necessaria allorquando le nuove indagini (sullo stesso imputato e per lo ‘‘stesso fatto’’) siano attivate da pubblico ministero territorialmente diverso. 7.4. Sez. I, 11 giugno 1996, Morici, C.E.D. n. 205157, si intrattiene, particolarmente, sulla nozione di ‘‘stesso fatto’’ quale presupposto dell’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, in assenza della autorizzazione ex art. 414 c.p.p.. È ivi affermato il principio per cui, in caso di disposta archiviazione, la necessità dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini può essere esclusa soltanto quando si sia in presenza di un fatto da qualificare come oggettivamente diverso rispetto a quello cui si riferiva il provvedimento di archiviazione, e non, quindi, quando vi sia una nuova notizia di reato riguardante il ‘‘medesimo fatto’’. La decisione precisa, nella specificità della fattispecie molto somigliante a quella all’odierno esame del Collegio, che quando il decreto di archiviazione, pur investendo astrattamente la medesima imputazione (nel caso, di associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p.), concerna fatti storici materialmente diversi, sia sotto il profilo spazio-temporale delle condotte di partecipazione al reato che sotto quello delle persone coinvolte, l’autorizzazione giudiziale (per riattivare l’investigazione) non è necessaria, trattandosi, sostanzialmente, di una diversa notitia criminis, in relazione alla quale il pubblico ministero ha autonomo dovere di procedere alle indagini. Tale conclusione è sorretta da un’attenta analisi della nozione di ‘‘fatto diverso’’, che parte dalla premessa del rilievo attribuibile al nuovo procedimento per gli effetti che ne derivano sia sul piano della utilizzabilità delle acquisizioni investigative, ex art. 191 c.p.p., che sulla procedibilità dell’azione penale. L’essenzialità sta


— 342 — non nel dato, di ordine meramente formale, della iscrizione come nuova di una notizia di reato nell’apposito registro, ma nelle implicazioni sull’elusione del controllo giurisdizionale e sull’aggiramento della disciplina dei termini finali dell’investigazione. Centrato il problema sul contenuto della notitia criminis, vale a dire, sull’identità, o meno, delle componenti oggettive (condotta, evento, nesso causale) del fatto di reato, e non sull’identità della notitia di reato, il ‘‘fatto diverso’’, che esclude la necessità dell’autorizzazione a riaprire l’investigazione, deve essere identificato, prosegue la decisione, proprio attraverso l’analisi delle componenti sostanziali della notizia di reato, vale a dire, appunto, sul suo contenuto. Con la conseguenza che, ove non sussistano i requisiti di ‘‘medesimezza del fatto’’, acquista piena operatività la regola del favor actionis, secondo la regola di obbligatorietà dell’azione penale, a mente dell’art. 112 Cost.; sicché il subordinare la prosecuzione dell’investigazione ad un atto autorizzatorio del giudice costituirebbe un’ingiustificata limitazione all’esercizio dell’azione penale. La decisione opportunamente precisa, per quanto possa apparire ovvio, che il concetto di ‘‘stesso fatto’’ è ancorato non solo alla ‘‘medesimezza del fatto’’ ma, altresì, all’identità dei soggetti, facendo rilevare che, in caso di archiviazione ai sensi dell’art. 415 c.p.p., per esser ignoti gli autori del reato, la giurisprudenza più recente si è ormai consolidata nel ritenere non necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 414 stesso codice, sulla base della considerazione che le garanzie di cui alla detta disposizione operano solo con riguardo al soggetto noto, diverso da quello ignoto, con ciò valorizzandosi la funzione garantista del provvedimento di archiviazione. 7.5. Negli stessi ambiti ermeneutici si colloca Sez. I, 2 maggio 1996, Carfora, C.E.D. n. 205136, la quale, in fattispecie procedimentale alquanto complessa, nel respingere il ricorso avverso una [seconda] ordinanza del tribunale distrettuale de libertate — che aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare personale sul rilievo che esso era fondato sugli stessi fatti, oggetto di archiviazione e nella mancanza del decreto ex art. 414 c.p.p. — ha affermato il principio per cui la riapertura delle indagini in base ad una nuova notizia di reato, riguardante il ‘‘medesimo fatto’’, in precedenza archiviato, postula la necessità del decreto autorizzativo del giudice, su richiesta motivata del pubblico ministero. Con condivisibile puntualità, la sentenza precisa che: ‘‘[...] è fin troppo evidente che la riapertura delle indagini successiva ad un provvedimento di archiviazione, non può che avvenire sulla base di nuove acquisizioni, pervenute in un secondo momento a seguito di nuovi apporti provenienti da fonti diverse rispetto a quelle [...] valutate nel procedimento archiviato; apporti normalmente provenienti da una nuova notitia criminis, [ed] è altrettanto ovvio che qualora le nuove acquisizioni riguardino il medesimo fatto, oggetto del procedimento archiviato, la riapertura delle indagini non potrà che avvenire previa autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari [...]’’, mentre tale autorizzazione non è necessaria ‘‘[...] se la notitia criminis riguardi fatti diversi o, al limite, un soggetto diverso’’. Questa decisione, poi, riprende il concetto già espresso dalla sentenza Morici (par. 7.4.), ribadendo la irrilevanza, in sé per sé, della formalità di una nuova iscrizione al registro di cui all’art. 355 c.p.p., perché, pure in presenza di tale formalità, se la notizia di reato concerna lo ‘‘stesso fatto’’, occorre pur sempre l’auto-


— 343 — rizzazione ex art. 414 c.p.p., poiché, in contrario, da un lato, significherebbe approdare alla violazione sistematica dell’art. 414 c.p.p. e, dall’altro, si incorrerebbe in ‘‘[...] una affermazione di per sé contraddittoria ed ambigua, certamente contraria a principi di correttezza processuale’’. Dal che consegue, ulteriormente, che la riapertura delle indagini non potrebbe essere supportata solo da una (nuova e diversa) valutazione degli elementi di accusa già acquisiti nel corso della precedente fase procedimentale, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente una violazione delle norme caducative di cui all’art. 407 c.p.p. 7.6. Sez. I, 24 ottobre 1996, Romeo, C.E.D. n. 206380, affronta il problema sul rapporto tra decreto di riapertura delle indagini e ordinanza di custodia cautelare, escludendo espressamente che l’applicazione della misura possa svolgere funzione surrogatoria del decreto ex art. 414 c.p.p., implicitamente comprendendolo. Ciò in quanto l’adozione della misura cautelare deve ritenersi conseguente alle nuove indagini compiute dopo l’avvenuta archiviazione e, pertanto, precluse dal difetto della prescritta previa autorizzazione giudiziale con seguente inutilizzabilità dei risultati accusatori degli atti compiuti. La decisione razionalizza l’assunto considerando che: ‘‘[...] l’applicazione di misura cautelare [...] non può ritenersi surrogatoria della predetta autorizzazione o implicitamente comprensiva della medesima, sol che si rilevi come l’adozione della misura sia, di norma, consequenziale all’esito delle nuove indagini compiute dopo l’intervenuta archiviazione e come proprio l’espletamento di dette indagini sia precluso in assenza della prescritta autorizzazione giudiziale, con correlativa inutilizzabilità degli atti compiuti in difetto della stessa, ex art. 343 comma 4 c.p.p., da ritenersi generalmente applicabile a tutte le ipotesi di autorizzazione a procedere e, dunque, anche a quella prevista dall’art. 414 c.p.p.’’. 7.7. Più centrata sul problema della esercitabilità, o meno, dell’azione penale in presenza di archiviazione non rimossa, che di quello che direttamente interessa l’odierna decisione, ma utile a considerarsi per le ragioni fondanti ivi espresse, appare Sez. VI, 28 gennaio 1997, Cappello, C.E.D. n. 207360, la quale, nel precisare che senza la prescritta autorizzazione del giudice il pubblico ministero non è legittimato alla riapertura delle indagini, di tal che il giudice, investito della richiesta di rinvio a giudizio, o di qualsiasi altra richiesta correlata ad una siffatta non autorizzata riapertura, rilevata la mancanza del relativo decreto e, cioè, di una condizione di procedibilità, deve, ai sensi dell’art. 425 c.p.p., emettere sentenza di non luogo a procedere. Il sostegno razionale parte dalla considerazione che il principio del ne bis in idem ha carattere e valenza generale, in quanto tale applicabile alle procedure di cognizione e di esecuzione, sia pure con le limitazioni riguardanti i procedimenti incidentali de libertate sfociati in provvedimenti validi allo stato degli atti, per i quali riveste la più modesta portata di una preclusione endoprocedimentale; tale, comunque, da rendere inammissibile la reiterazione di provvedimenti che possano porsi in contrasto con altri, aventi medesimo oggetto e definitivi, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta a base del primo provvedimento. Da ciò se ne deduce, secondo questa decisione, che l’irrevocabilità, pur non essendo parificabile all’autorità della cosa giudicata, parimenti porta seco il limite negativo della preclusione, nel senso di non consentire il bis in idem, salvo che siano cambiate le condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione.


— 344 — Da ciò la Corte deduce che la ratio sottesa all’art. 414 c.p.p. è quella di evitare reiterazioni del procedimento fino a quando non intervengano esigenze di nuove investigazioni; il che si traduce nella produzione di una preclusione processuale ispirata al principio del ne bis in idem, superabile soltanto in virtù della richiesta del pubblico ministero, che vi diede causa, e dell’autorizzazione del giudice, che con il decreto di archiviazione vi diede luogo; l’una e l’alta, imprescindibilmente, vincolate all’accertata e oggettiva sussistenza di esigenza di nuove investigazioni. 7.8. Sez. VI, 5 agosto 1997, Audino, C.E.D. n. 208863, nel richiamare esplicitamente i principi affermati dalla sentenza Zara, in coerenza con il dictum estraibile dalla richiamata decisione della Corte costituzionale (n. 27 del 1995), ha riaffermato che in assenza di autorizzazione alla riapertura delle indagini, devono ritenersi preclusi sia l’esercizio dell’azione penale sia l’instaurazione di un nuovo procedimento riguardante un fatto già oggetto di archiviazione. Ne consegue che l’inutilizzabilità degli atti — acquisiti in violazione dell’art. 414 c.p.p. — colpisce sia la loro valutazione quali prove per l’affermazione di responsabilità che il loro apprezzamento quali indizi per giustificare una misura di cautela personale. Secondo la decisione — che, all’evidenza, si fa carico di contraddire le diverse ragioni espresse dalla sentenza su ricorso Greco, di cui appresso par. 8.1. —, limitare la sanzione al solo profilo probatorio (in senso stretto) equivarrebbe a non tenere nel dovuto conto l’aspetto funzionale dell’effetto preclusivo derivante dal decreto di archiviazione, come provvedimento volto ad istituire un controllo sull’attività del pubblico ministero, non solo al fatto della richiesta (rinvio a giudizio, misura di cautela) ma anche in relazione all’attività prodromica alla richiesta stessa ed a quella successiva, eventualmente, in sede di riapertura delle indagini. Per questo, la preclusione processuale non può essere rimossa che tramite il prescritto atto autorizzatorio ex art. 414 c.p.p. con esclusione di equipollenti, come l’applicazione della misura cautelare, l’adozione della quale, trovando fondamento nelle nuove indagini compiute dopo l’avvenuta archiviazione — minate però da inutilizzabilità seguente il difetto della prescritta autorizzazione giudiziale —, risulterebbe irrilevante ai fini autorizzatori. Anche questa decisione, come le sentenze Taglieri, Carfora e Morici sopra riassunte, precisa che, affinché la preclusione processuale operi, è necessario che le nuove indagini siano avviate dalla medesima autorità, nei confronti della medesima persona e per lo ‘‘stesso fatto’’. In proposito la sentenza in commento, partendo dalla considerazione che la riapertura delle indagini non può essere giustificata dalla semplice rivalutazione dello stesso materiale già acquisito al procedimento, poiché ciò comprometterebbe la regola caducatoria di cui all’art. 407 c.p.p., evidenzia come a questo meccanismo rimane estranea l’ipotesi di notitia criminis e di nuove acquisizioni riguardanti fatti diversi o un soggetto diverso. E ciò anche, esplicita la decisione, qualora il pubblico ministero svolga indagini che pure coinvolgano il soggetto nei cui confronti era stato adottato il provvedimento di archiviazione, ma che si assumono diverse, o per la differenziazione di circostanze di fatto che rivestano comunque valore significante, oppure perché il quadro plurisoggettivo risulti radicalmente diversificato. Anche in tale ipotesi prevale il principio dei favor actionis, come aveva rilevato la decisione su ricorso Morici (avanti par. 7.4.), perché, il subordinare la prosecuzione degli atti di investigazione all’autorizzazione del giudice, verrebbe a costituire un’ingiustificata limita-


— 345 — zione all’esercizio dell’azione penale, con intuibili riverberi anche sul principio di cui all’art. 112 Cost. Nella stessa scia dell’ora richiamata decisione, la sentenza precisa che la ‘‘diversità’’ del procedimento va riferita al contenuto della notizia di reato, vale a dire ‘‘[...] al fatto — reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, con la conseguenza che ove il pubblico ministero, autorizzato alla riapertura delle indagini, provveda ad una nuova iscrizione ai sensi degli artt. 414 comma 2 e 335 c.p.p., non si instaura un procedimento diverso e possono essere utilizzati i risultati delle indagini già svolte’’, richiamando, sul punto, il dictum di Sez. VI, 16 ottobre 1995, Pulvirenti, C.E.D. n. 203741. 7.9. Le regole enunciate dalle decisioni sopra esposte, sono state ribadite da Sez. I, 6 luglio 1999, Montalbano, C.E.D. n. 214099, la quale, in fattispecie di indiziato per omicidio, colpito da misura cautelare sulla base di dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria prima dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini, ha riaffermato il principio che la pronuncia del decreto di archiviazione determina una preclusione processuale all’utilizzazione degli elementi acquisiti successivamente ad esso e prima dell’adozione del decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p., la cui emissione funge da condizione di procedibilità per la ripresa delle investigazioni in ordine allo stesso fatto e nei confronti delle stesse persone, nonché per l’adozione di ogni consequenziale provvedimento, compresa l’applicazione di misure cautelari. 7.10. Nello stesso filone si inseriscono Sez. IV, 20 marzo 1997, Saltannecchi, C.E.D. n. 208528, per la quale l’autorizzazione del giudice delle indagini preliminari alla riapertura delle indagini vale a rimuovere una condizione di improcedibilità dell’azione penale costituita dal provvedimento di archiviazione, e a consentire la riproposizione dell’azione penale con la nuova iscrizione della medesima notizia di reato a carico della medesima persona, e Sez. VI, 14 febbraio 1997, Zagari, C.E.D. n. 208122, la quale insiste sulla regola per cui a norma dell’art. 414 c.p.p., dopo il provvedimento di archiviazione il pubblico ministero non può compiere nuove indagini, a pena di inutilizzabilità dei relativi risultati, se il giudice non abbia autorizzato la riapertura. Quest’ultima decisione si premura di evidenziare che l’autorizzazione non è richiesta ove si tratti di fatti successivi a quelli considerati nel provvedimento di archiviazione. 8. Analoga rassegna si impone quanto alle pronunce di legittimità che hanno seguito indirizzi diversi centrati intorno alla riflessione che l’oggetto dell’autorizzazione giudiziale alla riapertura delle investigazioni riguarda lo svolgimento di attività di indagine e non il potere-dovere di esercitare l’azione penale, sicché la violazione dell’art. 414 c.p.p., colpendo l’utilizzabilità degli atti ‘‘abusivi’’, analogamente a quanto disposto dall’art. 407 s.c., non pregiudicherebbe l’esercizio dell’azione penale. Con l’ulteriore conseguenza che la richiesta di applicazione di misura cautelare, restando fuori — e prima — dell’esercizio dell’azione penale ben potrebbe essere formulata, e l’ordinanza emessa, anche in presenza di non rimosso decreto di archiviazione. 8.1.

Così Sez. I, 30 novembre 1995, Greco, C.E.D. n. 203871, afferma che


— 346 — il decreto del giudice delle indagini preliminari che autorizza il pubblico ministero su sua richiesta, a riaprire indagini già oggetto di archiviazione, ‘‘[...] si concretizza in un provvedimento giurisdizionale la cui carenza ha unicamente l’effetto di rendere inutilizzabili gli atti compiuti dal pubblico ministero, in mancanza di detta autorizzazione, all’atto della loro valutazione come ‘prova’ in ordine alla responsabilità dell’imputato e non al momento del loro apprezzamento come ‘indizio’ a carico dell’indagato ex art. 191 comma 2 c.p.p.’’. Tesi fortemente resistita, poi, dalla sentenza Audino, come si è avanti evidenziato (cfr.: par. 7.8.). Secondo questa decisione, l’eventuale carenza di motivazione in ordine all’eccepita mancata produzione da parte dell’autorità giudiziaria procedente del decreto di autorizzazione, non inficierebbe l’ordinanza del giudice del riesame di uno dei vizi deducibili a mente dell’art. 606 comma 1, lett. c) c.p.p., non essendovi obbligo di motivare sul punto che esula dal thema decidendum sottoposto al giudice de libertate con la procedura di cui all’art. 309 del codice di rito penale, concernente la legittimità e la fondatezza nel merito della misura di cautela. 8.2. Sez. I, 1 ottobre 1996, Palumbo, C.E.D. n. 206004, mantiene distinte le conseguenze scaturenti dalla conduzione di indagini in presenza di archiviazione non rimossa rispetto alle condizioni di esercibilità dell’azione penale. Infatti, dopo avere affermato che sono colpiti da sanzione di inutilizzabilità gli atti assunti successivamente ad un provvedimento di archiviazione pronunciato sia ai sensi dell’art. 414 c.p.p. che dell’art. 415 s.c., precisa che tale sanzione va rapportata alla prescrizione dell’art. 191, in riferimento al comma 3 dell’art. 407, c.p.p., senza implicazioni sulla legittimità dell’esercizio del potere di attivazione dell’azione penale, ex art. 178 comma 1 lett. b) c.p.c., in quanto, in siffatte ipotesi, l’azione penale è comunque iniziata dal pubblico ministero; e ciò a prescindere dalla eventualità che la mancanza del provvedimento autorizzatorio del giudice possa configurarsi come difetto di una condizione di procedibilità. 8.3. Nella stessa scia si muove Sez. II, 12 novembre 1996, Palazzo, C.E.D. n. 206362. Si afferma, invero, che il pubblico ministero anche in costanza di decreto di archiviazione conserva il potere di agire in quanto ‘‘[...] non vi sono previsioni ad hoc di decadenza, né potrebbero esservene perché contrastanti con l’art. 112 Cost.’’; tuttavia, quando l’organo dell’accusa ‘‘[...] riconsidera casi archiviati deve chiedere al giudice il permesso di indagare, essendo altrimenti gli atti, tardivamente compiuti, sterili in sede istruttoria’’. Con l’ulteriore precisazione che quando ‘‘[...] l’atto sia stato assunto nell’ambito di indagini diverse, volte ad individuare gli autori di altri reati’’, non scatta la sanzione di inutilizzabilità, affermando un principio poi condiviso dalla sopra richiamata decisione di queste Sezioni unite su ricorso Romeo. 8.4. Ancor più esplicita appare Sez. VI, 21 gennaio 1998, Cusani, C.E.D. n. 210032, la quale, dopo aver premesso che ‘‘[...] il decreto di archiviazione ha per oggetto la notizia di reato, non il fatto, e impedisce l’avvio di un procedimento, non il giudizio su un’imputazione’’, afferma il principio per cui ‘‘[...] l’intervenuta archiviazione non può precludere l’integrazione nel dibattimento, a norma degli artt. 516, 517 e 518 c.p.p., dell’oggetto di un’azione penale già esercitata e di un processo già instaurato, quando e nei limiti in cui una tale integrazione sia in quel processo consentita’’.


— 347 — Il principio è affermato in relazione alla specifica fattispecie di contestazione integrativa nel dibattimento, ai sensi dell’art. 517 c.p.p., di addebito oggetto di indagine precedentemente archiviata. Infatti, in prosieguo, la motivazione esplicita che ‘‘[...] l’art. 414 c.p.p. preclude l’esercizio ex novo dell’azione penale, anche quando non siano necessarie nuove indagini, ma non preclude [...] l’integrazione dell’oggetto di un’azione penale già esercitata e di un processo già instaurato’’. 8.5. Nel filone in esame si inserisce anche la sentenza Sez. VI, 24 giugno 1998, Migliaccio, C.E.D. n. 212910, per la quale la mancata osservanza della norma dell’art. 414 c.p.p. non comporta nullità del procedimento, ma determina solamente l’inutilizzabilità dei risultati degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero. Nella specie il ricorrente era stato indagato, nella sua qualità di dirigente del settore tecnico regionale della pianificazione urbanistica, per avere, tra l’altro, concorso al rilascio di una concessione edilizia in violazione della normativa urbanistica; fatto per il quale era intervenuta archiviazione. Successivamente, lo stesso soggetto fu indagato e condannato per il reato di abuso d’ufficio; in sede di legittimità oppose, tra l’altro, la forza preclusiva dell’intervenuta archiviazione instando per la dichiarazione di nullità del procedimento a causa della violazione dell’art. 414 c.p.p.. Il motivo di annullamento fu rigettato sull’affermazione del principio secondo il quale dalla ‘‘[...] violazione dell’art. 414 non scaturisce l’improcedibilità dell’azione penale, essendo la stessa collegata ai presupposti di cui al titolo III del libro V del c.p.p.’’, sicché detta violazione ‘‘[...] non inficia la validità della richiesta di rinvio a giudizio ma determina solo la inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dal p.m.’’. 8.6. Seppure all’esito di un ampio discorso giustificativo, centrato su problemi connessi all’utilizzo di atti di indagine compiuti, in costanza di un provvedimento di archiviazione, riguardanti fatti costituenti il sostrato di non omogenei addebiti in materia urbanistica e sfociati in un provvedimento di sequestro preventivo, Sez. V, 12 febbraio 1999, Rubino, C.E.D. n. 212881, ha evidenziato che la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti, conseguente ad investigazioni espletate prima che sia intervenuta la formale autorizzazione del giudice alla riapertura delle indagini, non colpisce quegli atti che, sia pure prima della predetta autorizzazione, siano stati regolarmente raccolti nell’ambito di un diverso procedimento, in quanto essi sono stati assunti nel corso di separate indagini, volte ad individuare la sussistenza di altri reati. Inoltre, secondo questa decisione, colui che assume che il provvedimento impugnato sia stato adottato a seguito di indagini condotte prima del decreto autorizzativo ex art. 414 c.p.p., ha l’onere di dimostrare che il convincimento del giudice del merito si sia fondato su atti acquisiti al di fuori delle regole codicistiche e di specificare quali essi siano. 8.7. Su diverso ordine di argomenti fu fondata la decisione resa da Sez. V, 25 ottobre 1994, Carbone, C.E.D. n. 199874, la quale ravvisò abnormità nel provvedimento del giudice che, investito della richiesta di rinvio, a giudizio, ne dichiarò l’inammissibilità sulla base della considerazione che il pubblico ministero avrebbe dovuto prima chiedere l’autorizzazione alla riapertura delle indagini, essendo intervenuto decreto di archiviazione per gli stessi fatti e nei confronti degli stessi indagati. Secondo la decisione, a mente dell’art. 424 comma 1, c.p.p., il giudice — all’esito dell’udienza preliminare — deve pronunciare sentenza di non luogo a pro-


— 348 — cedere o decreto che dispone il giudizio. Ergo, tertium non datur. Ne seguirebbe che un siffatto provvedimento del giudice violerebbe il principio di irretrattabilità dell’azione penale, posto che l’inosservanza della disposizione dell’art. 414 c.p.p. potrebbe comportare, ex art. 407 c.p.p., l’inutilizzabilità di quegli atti di indagine eventualmente compiuti dal pubblico ministero dopo la scadenza dei termini, ma non potrebbe sostenere la dichiarazione di inammissibilità della richiesta di rinvio a giudizio. Invero, prosegue la sentenza, la richiesta di rinvio a giudizio fa assumere la qualità di imputato alla persona alla quale è attribuito il reato e, ai sensi dell’art. 405, comma 1 c.p.p., la formulazione della richiesta medesima segna l’inizio dell’azione penale con passaggio dalla fase del procedimento a quella del processo. Inoltre, ai sensi dell’art. 50 comma 3 c.p.p., l’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge, mentre, in forza dell’art. 60 comma 2 s.c., la qualità di imputato, una volta assunta, si conserva fino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, o sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna. 8.8. Opera piuttosto sul piano processuale Sez. I, 24 giugno 1998, Coppola, C.E.D. n. 211291, la quale afferma il principio per il quale l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo l’archiviazione e senza l’autorizzazione alla riapertura da parte del giudice per le indagini preliminari non è rilevabile di ufficio ma solo su eccezione di parte, giacché quest’ultima potrebbe avere anche un interesse opposto all’inutilizzabilità. 9. Prospettato, con la opportuna ampiezza, il quadro della giurisprudenza sulle tematiche connesse al quesito cui deve darsi risposta, resta in evidenza che, pur nella varietà della fattispecie in giudizio, un contrasto di indirizzi esiste nella giurisprudenza della Corte a riguardo dello specifico quesito cui deve darsi risposta, secondo quanto argomentato dall’ordinanza di remissione a queste Sezioni unite del ricorso proposto dal Finocchiaro. Per le decisioni riassunte sotto il par. 7, esplicitamente o implicitamente, è da escludersi che, in assenza del provvedimento di cui all’art. 414 c.p.p., possano condursi utili investigazioni e possa legittimamente esercitarsi il potere dell’organo dell’accusa di chiedere l’emissione di un provvedimento di cautela e persino, per talune decisioni, un qualsiasi provvedimento che implichi l’attualità della fase di investigazione. Con la conseguenza, in talune decisioni esplicitata in termini, che una rilettura degli elementi indizianti, ritenuti inidonei dal giudice delle indagini preliminari a sostenere l’accusa e, per questo, fatti oggetto di provvedimento di archiviazione, possa poi giustificare, rimosso o no il provvedimento di archiviazione, l’adozione di una misura di cautela; evenienza che, invece, non risulta scartata dalla maggior parte delle decisioni raggruppate nel par. 8. Per dare ordine alla razionalizzazione della decisione appare opportuno partire dalla lettura dell’art. 414 comma 1 c.p.p. Detta disposizione codicistica, sotto la rubrica ‘‘Riapertura delle indagini’’, stabilisce: ‘‘Dopo il provvedimento di archiviazione [...] il giudice autorizza con decreto motivato la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dalla esigenza di nuove investigazioni’’. Dalla struttura logica del testo normativo si può dedurre, con evidenza, che,


— 349 — se la richiesta di apertura deve essere giustificata dalla esigenza di nuove investigazioni (da prospettare al giudice), queste non possono essere attivate se non dopo avere chiesto ed ottenuto il provvedimento giudiziale. La stringatezza della disposizione e la mancata esplicita indicazione di sanzioni ha provocato in giurisprudenza diversità di indirizzi (come si è visto), sia quanto ai presupposti che all’ampiezza dell’effetto invalidante su eventuali acquisizioni investigative conseguenti alla mancata autorizzazione. Del che, sia pure incidenter tantum, si è occupato la recente sentenza di queste Sezioni unite su ricorso Romeo, sopra richiamata ed alla quale, per il risvolto colà esaminato, giova rinviare. 10. Ai fini che interessano la odierna decisione, che concerne non il destino delle investigazioni realizzate in presenza di provvedimento di archiviazione non rimosso ma piuttosto gli effetti, eventualmente paralizzanti, di tale provvedimento sull’attività del pubblico ministero e, di riverbero, sulla legittimità del provvedimento assunto dal giudice a seguito di richiesta formulata nella data situazione procedimentale (di presenza di archiviazione non rimossa), si pone in termini ineludibili il problema sulla risposta da dare al quesito sul se il provvedimento di archiviazione produca una preclusione endoprocedimentale idonea a paralizzare, prima della sua rimozione, l’attività del pubblico ministero, come definita dagli artt. 326 s. c.p.p., e pur dominata dalla prescrizione costituzionale di cui all’art. 112. Non solo, dunque, a impedire l’esercizio dell’azione penale (artt. 405 s. c.p.p.), né solo il compimento di specifici atti investigativi, che pure costituisce l’essenzialità dell’attività d’indagine, ma ostacolo in radice a ogni attività, ivi compresa qualsivoglia richiesta al giudice (applicazione di misura di cautela, intercettazioni telefoniche, ecc.). È appena il caso di avvertire che restano estranee alla presente tematica le ipotesi di cui all’art. 345 c.p.p., laddove è la stessa legge che prevede un meccanismo operativo automatico. Pur fermando l’attenzione sull’ultimo profilo della questione, che è quello che specificamente concerne l’odierna decisione, vale a dire sul se sia attribuibile un effetto preclusivo al provvedimento di archiviazione incidente sull’attività di richiesta, da parte del pubblico ministero, di ordinanza cautelare, non va sottaciuto come l’esito della decisione sulla specifica questione si estenda logicamente a consequenzialmente a qualsiasi richiesta; vale a dire, definisce ab imis la questione sull’effetto endoprocedimentale dell’archiviazione quale conseguenza della riconoscibilità di efficacia preclusiva generale dell’archiviazione (non rimossa). 11. Valutati gli esiti argomentativi della giurisprudenza della Corte sul tema, come sopra esposti, ritiene il Collegio, optando per l’indirizzo espresso dalle decisioni riassunte sotto il par. 7, che deve essere affermata la regola secondo la quale, una volta disposta l’archiviazione in ordine a una data notizia di reato, senza il preventivo provvedimento di cui all’art. 414 c.p.p., lo stesso pubblico ministero, da intendersi come medesimo ufficio, non può legittimamente chiedere, e lo stesso giudice delle indagini preliminari, sempre da intendersi come ufficio, non può valutare, accogliendola o rigettandola, la domanda di emissione di un provvedimento di cautela (o altro provvedimento che implichi l’attualità di un procedimento investigativo); sia che tale richiesta sia fondata su una semplice rilettura degli elementi presenti negli atti archiviati, sia che ponga a base atti compiuti dopo


— 350 — l’archiviazione ed in relazione allo stesso fatto e, persino, occasionalmente conosciuti, senza che prima non sia stato chiesto e pronunciato il decreto di riapertura delle indagini preliminari ex art. 414 c.p.p. Invero, va condiviso e valorizzato quell’indirizzo giurisprudenziale che, nella scia della più volte richiamata sentenza n. 27 del 1995 della Corte costituzionale, ravvisa un effetto (limitatamente, perché subordinato all’assenza del decreto ex art. 414 c.p.p.) preclusivo del provvedimento di archiviazione. Tale guadagno ermeneutico è sostenuto dalla corretta interpretazione logico-sistematica dell’apparato normativo che disciplina l’istituto, sia con riferimento al momento dichiarativo della carenza di elementi idonei a giustificare il prosieguo delle indagini, riassumibile nella formula ‘‘infondatezza della notizia di reato’’ (artt. 408, 409 c.p.p.), sia nel momento della riapertura, condizionato dal presupposto, in fatto, dall’esigenza di nuove (altre, cioè, rispetto alle preesistenti) investigazioni ed assoggettato alla valutazione del giudice che deve provvedere con decreto motivato il quale, pare ovvio, deve dare conto della valutazione effettuata sulla richiesta, pur essa motivata, del pubblico ministero (art. 414 c.p.p.). Né la richiesta può essere formulata sulla base di una semplice rilettura del materiale indiziario utilizzato per la declaratoria di infondatezza della notizia di reato, né il relativo decreto autorizzativo può limitarsi ad assentire una diversa valutazione di quel materiale, poiché l’art. 414 prescrive una motivazione tipizzata, centrata sull’esigenza di nuove investigazioni. Le quali possono esitare anche in modesti risultati che, però, valutati unitamente al materiale preesistente — certamente utilizzabile — ben possono giustificare un sostanziale ribaltamento del quadro indiziario, secondo la regola propria al regime della prova indiretta espresso nell’antico brocardo quae singula non probant et unita probant. 12. Il primo effetto del tale meccanismo è che, una volta autorizzata la riapertura, il pubblico ministero provvede, ex art. 414 comma 2 c.p.p., a nuova iscrizione nel registro degli indagati di cui all’art. 335 s.c., sicché da tale momento iniziano a decorrere i termini indicati dall’art. 405. Già questa constatazione, fondata sul dato testuale, dimostra la valenza garantista che deve essere riconosciuta al provvedimento di archiviazione, come conseguenza operativa del sistema dei termini di chiusura delle indagini (art. 405 commi 2 e 4 c.p.p.), di durata massima delle indagini (art. 407 c.p.p.), con connessa normativa quanto a proroga (art. 406 s.c.) e a sanzione d’inutilizzabilità dei risultati di indagini compiute al di là del tempo massimo (art. 407 comma 3). Siffatto sistema sarebbe facilmente eluso se fosse rituale riesumare dall’archivio, in qualsiasi tempo, una data ‘‘pratica’’ e, senza passare attraverso il controllo del giudice (a sua volta ‘‘controllato’’ dall’obbligo di motivazione sull’esigenza d’ulteriori indagini), rimettere in moto il meccanismo investigativo colpendo la persona direttamente nel suo bene primario della libertà, com’è accaduto nella fattispecie all’esame della Corte; scavalcando, altresì, tutto il sistema di termini massimi (art. 407) che resterebbe obliterato nella sua funzione. Non giova eccepire che il legislatore confida, nel disegnare il sistema procedimentale, sulla lealtà istituzionale e nella deontologia professionale degli operatori preposti alla gestione del processo, poiché ciò che qui rileva è l’argomento ermeneutico che deve trarsi dall’imprescindibile presupposto di coerenza logica del sistema processuale. Non è, all’evidenza, logico ritenere che il legislatore abbia predisposto un articolato e


— 351 — compiuto sistema di garanzie a difesa del cittadino e, poi, abbia lasciato sì ampi varchi attraverso i quali quelle garanzie potrebbero essere vanificate; ed anzi, collegando il dovere di azione investigativa alla regola di cui all’art. 112 Cost., come qualche decisione tra quelle commentate avanti al par. 8 ha evidenziato, persino dovrebbe accadere. 13. Quanto al meccanismo paralizzante, va accolta la nozione della preclusione endoprocedimentale quale fornita dalla prevalente giurisprudenza della Corte (ad es., Sez. VI, 28 gennaio 1997, Cappello, cit.) e formatasi, specialmente, in materia di procedimenti incidentali de libertate sfocianti in provvedimenti resi allo stato degli atti, di tal ché l’effetto preclusivo, sempre di natura processuale, rende inammissibile la reiterazione di istanze tese a provocare un nuovo provvedimento che possa porsi in contrasto con altro già pronunciato sul medesimo oggetto, senza che si sia modificata la situazione di fatto e di diritto posta a base del primo provvedimento. Dal che si deduce che la delineata situazione processuale, pur non essendo parificabile a quella derivante dall’autorità della cosa giudicata, tuttavia esprime il dato negativo dell’impedimento all’esercizio di una facoltà, in costanza delle condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione; in sostanza, in una decadenza. Applicando tale regola all’archiviazione della notitia criminis, si costruisce il sostegno sistematico alla regola sopra enunciata, con la precisazione che la modificazione della situazione sulla base della quale il provvedimento fu adottato deve essere certificata dalla decisione del giudice competente ad emettere il provvedimento motivato di cui all’art. 414 c.p.p. su, ugualmente motivata, richiesta del pubblico ministero che aveva sollecitato l’archiviazione. 14. Stabilito, dunque, che dal provvedimento di archiviazione consegue, per logica di sistema, una preclusione endoprocedimentale a qualsiasi iniziativa del pubblico ministero specificamente diretta ad attivare (riattivare) le indagini, in assenza delle sopra descritte condizioni modificative, si pone l’esigenza di ben delimitare l’ambito di operatività di tale preclusione. Tale delimitazione viene, essenzialmente, dall’analisi del concetto racchiuso nell’espressione ‘‘stesso fatto’’ in correlazione alla reciproca ‘‘fatto diverso’’; analisi appropriatamente sviluppata in plurime decisioni della Corte, sopra menzionate al par. 7 (in particolare le sentenze su ricorsi Taglieri, Bruno, Morici e Audino). La prima delimitazione che viene in immediata evidenza è quella connessa alla soggettività dell’ufficio d’accusa investito delle indagini e del suo referente giudice per le indagini preliminari. È stato, infatti, evidenziato come l’interpretazione del sistema codicistico porta necessariamente alla conclusione secondo la quale non può definirsi ‘‘stesso fatto’’ quello in accertamento da parte di autorità investigativa diversa rispetto a quella operante presso il giudice che pronunciò il provvedimento di archiviazione. Come condivisibilmente esplicitano la sentenze sopra ricordate, la nozione di ‘‘stesso fatto’’, ai fini che qui interessano, comprende sia le componenti oggettive dell’addebito (condotta, evento, nesso di condizionamento eziologico), vale a dire il contenuto della notitia criminis, sia gli aspetti esterni al fatto di reato, per tali intendendosi l’autorità che procede (o procedette) alla investigazione, essendo chiaro che l’effetto preclusivo, di cui si è parlato, condiziona solo la condotta del-


— 352 — l’ufficio investigativo che chiese ed ottenne il decreto (o l’ordinanza) di archiviazione di quella notizia di reato e che, sopravvenendo ragioni di approfondimento delle indagini, può rivolgersi al suo giudice referente per chiedere ed ottenere il decreto di cui all’art. 414 c.p.p.. Certo, ciò non potrebbe essere chiesto da un pubblico ministero diverso, per territorio, rispetto a quello che fu investito dalla richiesta di declaratoria della infondatezza della notizia di reato. E ciò a prescindere anche dalla considerazione, di puro fatto, che difficilmente un ufficio è in grado di conoscere l’attività svolta da un altro operante in diverso territorio. Sul punto, pertanto, può affermarsi che è estraneo al concetto di ‘‘stesso fatto’’ l’ipotesi di investigazioni condotte, ancorché specificamente, da altro ufficio di procura della Repubblica perché la preclusione procedimentale non può svolgere funzione impeditiva oltre l’ambito del rapporto pubblico ministero-giudice della data indagine preliminare. 15. Scendendo più in particolare, viene in evidenza il contenuto della notitia criminis, nelle sue giù ricordate componenti oggettive dell’addebito (condotta, evento, nesso di causalità) ed in quelle soggettive. Quindi, occorre verificare, da un canto, la identità del soggetto (o dei soggetti) nei cui riguardi fu già condotta investigazione conclusa con l’archiviazione, essendo chiaro che, non ricorrendo tale requisito, l’obbligo (dovere-potere) del pubblico ministero di procedere non subisce condizionamento alcuno; la stessa funzione garantista dell’istituto non ha ragione di esplicarsi. Occorre verificare, poi — il che può presentare aspetti più delicati e complessi —, il contenuto della notizia di reato per saggiare la medesimezza a confronto degli essenziali elementi costitutivi del reato: la condotta, nei suoi risvolti di azione o omissione e connessi risvolti sull’elemento psichico; l’evento, nella sua essenzialità modificativa del mondo esterno (evento in senso naturalistico o di messa in pericolo) e, oppure o, secondo le teorie accettate, nella offesa (effettiva o esposizione a pericolo) dell’interesse protetto dalla norma; il rapporto di condizionamento tra la condotta (quella data condotta) e la produzione dell’evento, nel senso che questo non si sarebbe verificato senza quella. In mancanza di omogeneità tra uno o più dei descritti elementi, è chiaro che trattasi non dello ‘‘stesso fatto’’ ma di ‘‘stesso diverso’’ e anche in tale ipotesi il potere dovere del pubblico ministero di investigare e poi di esercitare l’azione penale rimane integro e in nulla condizionato. Conclusivamente, dunque, deve affermarsi il principio per il quale è illegittima l’ordinanza impositiva di misura cautelare adottata nei confronti della stessa persona e fondata sullo ‘‘stesso fatto’’ contemplati da non rimosso (precedente) provvedimento di archiviazione, reso dallo stesso giudice delle indagini preliminari che decretò l’archiviazione e su richiesta dello stesso pubblico ministero che la sollecitò. Alla luce di tale principio appare evidente l’errore di diritto nel quale il Tribunale distrettuale de libertate di Catania incorse nel rendere la sua decisione di riesame di data 20 luglio 1999, come sopra impugnata, e, quindi, nel confermare l’ordinanza custodiale adottata dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania del 7 giugno 1999, che, invece, doveva essere giudicata illegittima e perciò annullata. Questa Corte, pertanto, per le spiegate ragioni, nell’accogliere il ricorso — as-


— 353 — sorbiti gli altri profili di denunzia di illegittimità — deve annullare, senza rinvio, l’ordinanza impugnata e l’ordinanza impositiva della cautela e ordinare l’immediata scarcerazione del ricorrente Finocchiaro Giuseppe Alfio se non detenuto per altra causa. — (Omissis).

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Efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione e certezza in senso soggettivo: un problema irrisolto.

L’art. 414 c.p.p., fortemente stigmatizzato in dottrina (1), ha provocato un imbarazzante contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità in termini di inquadramento sistematico dell’effetto del provvedimento archiviativo nel procedimento, stante l’ambiguità della disposizione e la mancata esplicita indicazione di sanzioni processuali conseguenti alla sua inosservanza. La norma si limita a dire che per riaprire un procedimento ‘‘archiviato’’, cioè quando le ‘‘nuove investigazioni’’ riguardino il medesimo fatto e la medesima persona di cui al precedente decreto d’archiviazione (2), è indispensabile l’assenso del giudice per le indagini preliminari a una conforme richiesta dell’organo dell’accusa (3), una sorta di ‘‘nulla osta giurisdizionale’’ (4). La norma, però, non dice che cosa debba intendersi per ‘‘nuove investigazioni’’ e soprattutto che cosa accada nell’ipotesi in cui il pubblico ministero resusciti il procedimento archiviato senza avere richiesto — o peggio senza avere ottenuto — l’autorizzazione del giudice (5). Nella sentenza che si annota, la Suprema Corte a Sezioni Unite, risolve la questione dedotta in giudizio pervenendo ad un’affermazione di più ampio respiro, non circoscritta cioè al tema cautelare, estendendo l’esito della decisione ‘‘logicamente e consequenzialmente a qualsiasi richiesta’’, definendo ‘‘ab imis la questione sull’effetto endoprocedimentale dell’archiviazione quale conseguenza della riconoscibilità di efficacia preclusiva generale dell’archiviazione (non rimossa)’’. Si sottolinea subito che se pare certamente condivisibile lo sforzo ermeneutico teso ad offrire una (più) tranquillizzante interpretazione logico-sistematica dell’istituto dell’archiviazione, il risultato a cui giunge la sentenza in parola si presta comunque a non pochi rilievi critici. Il fatto oggetto d’imputazione: il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania dispose l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di un soggetto, sospettato di appartenere ad associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), ponendo a fondamento dell’ordinanza applicativa della misura restrittiva i medesimi fatti già oggetto di una precedente investiga(1) Secondo CORDERO, Procedura Penale, Giuffrè, 5a ed., 2000, la norma è ‘‘segno di anacronistico garantismo inquisitorio... un tipico infortunio da iperfasìa legislativa, una regola inopportuna sotto ogni aspetto e dissonante dal nuovo stile... che serve a rendere meno chiara l’ovvia regola che l’archiviazione non ha effetti preclusivi e che perciò è inutile revocarla’’. (2) Cfr. la Relazione sul progetto preliminare del codice di procedura penale, in Speciale documenti giustizia, II, Roma, 1988, p. 224; v. CARLI, Preclusione e riapertura delle indagini preliminari nell’art. 414 c.p.p., in Giur. it., 1993, II, c. 640 s. (3) Cfr. CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, Ed. Jovene, 1994 e in Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, in Cass. pen., 1995, p. 1374. (4) Cfr. G. GIOSTRA, L’archiviazione: lineamenti sistematici e questioni interpretative, p. 95, ‘‘il comma 1 dell’art. 414 c.p p. non vieta soltanto al pubblico ministero di riaprire le indagini senza autorizzazione, ma anche al giudice di autorizzare la riapertura senza la richiesta; e allo stesso modo è da escludere che il giudice possa revocare d’ufficio il decreto o l’ordinanza di archiviazione che ha emesso, per spianare la strada ad una ripresa delle indagini’’. (5) CAPRIOLI, Archiviazione, op. cit., p. 1375.


— 354 — zione conclusa con provvedimento di archiviazione emesso dalla stessa autorità nei confronti della medesima persona, senza che fosse intervenuta alcuna novità indiziante e in difetto della rituale autorizzazione alla riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 del codice di rito. La quaestio iuris dedotta in giudizio: è legittimo il provvedimento assunto dal giudice a seguito di richiesta formulata nella data situazione procedimentale (di presenza di archiviazione non rimossa)? La decisione della Suprema Corte, che nel suo iter argomentativo dà conto delle due divergenti opzioni interpretative formatesi sul punto in seno alla stessa Corte (che avevano reso necessario rimettere la questione alle Sezioni Unite) si fa carico di superare l’‘‘impasse’’ alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza del 19 gennaio 1995, n. 27 (6). Come noto, la Corte delle leggi chiamata a pronunciarsi in relazione alla dedotta violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) in relazione alla mancata previsione della nullità del decreto che dispone il giudizio nell’ambito di un procedimento già definito con provvedimento di archiviazione, senza che fosse stata disposta la riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 c.p.p., nel dichiarare infondata la questione sottoposta a scrutinio di legittimità, con sentenza interpretativa di rigetto, ha ricondotto la problematica sul diverso piano della carenza di condizioni di procedibilità: ‘‘posto che, diversamente dal previgente ordinamento processuale, il nuovo codice di rito penale assegna un’efficacia (limitatamente) preclusiva al provvedimento di archiviazione, di talché, dopo l’archiviazione, l’inizio di un nuovo procedimento è subordinato a un nuovo provvedimento autorizzatorio del giudice (art. 414 c.p.p.), che ha dunque l’effetto di rendere possibile il riaprirsi di un procedimento per il fatto già archiviato e, all’esito di esso, l’eventuale esercizio dell’azione penale, che, in difetto dell’autorizzazione, sarebbe precluso, nell’ipotesi de qua, come nel caso più eminente di preclusione, quello del giudicato, essendo precluso l’esercizio dell’azione penale, in quanto riguardante il medesimo fatto già oggetto di un provvedimento di archiviazione, in carenza di autorizzazione del giudice a riaprire le indagini è la instaurazione di un nuovo procedimento e, quindi, la ‘procedibilità’ a essere impedita; sicché se il presupposto del procedere manca, il giudice non può che prenderne atto, dichiarando con sentenza, appunto, che l’azione penale non doveva essere iniziata (cfr. artt. 529, 469, 425, nonché, sia pure in termini non identici, l’art. 129 c.p.p.)’’. Lo stesso dicasi ‘‘qualora sia esercitata l’azione penale per un fatto per il quale sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere nell’udienza preliminare, in mancanza della revoca giudiziale prevista dagli artt. 434-437 c.p.p. Anche in questa ipotesi la regola della declaratoria dell’effetto preclusivo, sub specie di sentenza di improcedibilità dell’azione penale, è da ritenere espressa in termini generali dalle disposizioni sopra menzionate’’. La carenza di procedibilità, secondo i giudici costituzionali, rende appunto superflua la previsione di nullità (7). La sentenza delle Sezioni Unite, muovendo dalle premesse poste dalla Consulta, statuisce che l’autorizzazione alla riapertura delle indagini prevista dall’art. 414 c.p.p. è ‘‘autorizzazione a procedere’’, non soltanto ‘‘ad investigare’’, producendo il provvedimento di archiviazione ‘‘una preclusione endoprocedimentale (8) (6) Corte Costituzionale 19 gennaio 1995, n. 27, in Giur. cost., 1995, p. 257; ID., in Cass. pen., 1147 con nota di Macchia; ID., in questa Rivista, 1995, 1370, con nota di Caprioli. (7) Contra, CORDERO, Procedura Penale, Giuffrè, Milano, p. 424 ss. L’Autore parla di ‘‘preclusioni immaginarie’’ e afferma: ‘‘se la Consulta vuol stravolgere i resti della procedura penale, se ne assuma la responsabilità’’. Sarebbe valida, quindi, la richiesta del rinvio a giudizio, ‘‘mancando norme che dicano l’opposto (ipotesi folle): non esistono preclusioni; l’art. 414 c.p.p. non incide sul potere di agire; è un divieto d’indagare; possiamo soltanto arguire che gli atti istruttori siano inutilizzabili’’. (8) Sul concetto di preclusione nel diritto processuale penale, si veda LOZZI, voce Preclusioni (dir. Proc. Pen.), in Enc. giur., 1990). Sottolinea il chiaro Autore che ‘‘appare indispensabile e connaturato alla


— 355 — idonea a paralizzare, prima della sua rimozione, l’attività del pubblico ministero come definita dagli artt. 326 ss. c.p.p. e pur dominata dalla prescrizione costituzionale di cui all’art. 112. Non solo, dunque, a impedire l’esercizio dell’azione penale (art. 405 ss. c.p.p.), né solo il compimento di specifici atti investigativi, che pure costituisce l’essenzialità dell’attività di indagine, ma ostacolo in radice a ogni attività, ivi compresa qualsivoglia richiesta al giudice implicante l’attualità di un procedimento investigativo (tra cui, appunto, l’applicazione di misure di cautela)’’. Le Sezioni Unite, d’altronde, nell’affermare la regola di tale preclusione endoprocedimentale, ne precisano l’ambito di operatività in relazione a uno ‘‘stesso fatto’’, intendendo con tale locuzione il fatto la cui notitia criminis presenta il medesimo contenuto, sia sotto il profilo, com’è ovvio, delle componenti oggettive dell’addebito (condotta, evento, nesso di causalità), sia di quelle soggettive, intendendo per tali l’identità dell’ufficio del pubblico ministero procedente. Quindi il fatto è il medesimo solo se è in accertamento da parte dello stesso pubblico ministero (da intendersi come ufficio) che sollecitò l’archiviazione, il quale non può legittimamente chiedere, e lo stesso giudice per le indagini preliminari (sempre da intendersi come ufficio), non può valutare, accogliendola o rigettandola, la domanda di emissione di un provvedimento di cautela. In altre parole, quindi, la preclusione endoprocedimentale condiziona solo la condotta del medesimo ufficio investigativo che chiese ed ottenne il provvedimento di archiviazione e che, sopravvenendo ragioni di approfondimento delle indagini, può rivolgersi al suo giudice referente per chiedere e ottenere il decreto di riapertura delle indagini, mentre rimane invece estraneo al concetto di ‘‘stesso fatto’’, trattandosi di ‘‘fatto diverso’’, l’ipotesi di investigazioni condotte, ancorché specificamente, da altro ufficio della procura della Repubblica, rimanendo in tal caso integro e in nulla condizionato il potere dovere del pubblico ministero di investigare e poi di esercitare l’azione penale, trattandosi di notitia criminis connotata di diverso contenuto’’. In conseguenza, nel caso de quo, è illegittima l’ordinanza impositiva di misura cautelare adottata nei confronti della stessa persona e fondata sullo ‘‘stesso fatto’’ contemplati da non rimosso (precedente) provvedimento di archiviazione, perché reso dallo stesso giudice delle indagini preliminari che decretò l’archiviazione e su richiesta dello stesso pubblico ministero che la sollecitò, sulla base appunto dell’efficacia preclusiva che scaturisce dall’archiviazione. In particolare, in materia di procedimenti de libertate, sfocianti in provvedimenti resi allo stato degli atti, non è ammissibile la reiterazione di istanze tese a provocare un nuovo provvedimento che possa porsi in contrasto con altro già pronunciato sul medesimo oggetto, senza che si sia modificata la situazione di fatto o di diritto posta a base del primo provvedimento, modifica che deve essere certificata dalla decisione del giudice competente ad emettere il provvedimento motivato di cui all’art. 414 c.p.p. su, ugualmente motivata, richiesta del pubblico ministero che aveva sollecitato l’archiviazione. La delineata situazione processuale, precisa la Corte, esprime il dato negativo dell’impedimento all’esercizio di una facoltà, in costanza delle condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione; in sostanza una decadenza (9). nozione di procedimento il concetto di preclusione’’ evidenziando che ‘‘in seno agli atti del procedimento vi è un’importantissima distinzione tra gli atti necessari, il cui compimento, secondo un ordine prestabilito, ha come effetto il dovere di porre in essere il successivo e atti eventuali di acquisizione probatoria che non costituiscono, ‘‘per dirla con Cordero’’, altrettanti, immancabili stadi progredienti’’. (9) Si veda, in proposito, la tradizionale elaborazione di preclusione processuale di CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, secondo cui la nozione di preclusione processuale indica la perdita del potere di compiere un determinato atto processuale o, in genere, atti processuali in seguito al decorso dei termini o in seguito al compimento di atti che appaiono incompatibili con l’esercizio della facoltà predetta oppure comportino già un valido esercizio della facoltà stessa (e si parlerà allora di consumazione).


— 356 — Tale decisione, pur dettata da istanze di garanzia di indubbio rilievo, non è immune da rilievi critici sotto il profilo della certezza in senso soggettivo. Si avverte chiaramente la necessità di non consentire che il singolo individuo possa essere assoggettato indefinitamente a procedimento penale pur nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, posto a salvaguardia dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. In proposito, si è affermato in dottrina che ‘‘la tesi che attribuisce un’efficacia preclusiva al provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. risulta difficilmente conciliabile con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale’’, perché introdurrebbe ‘‘una consistente limitazione di natura estrinseca all’operatività dell’obbligo sancito dall’art. 112 Cost.’’ (10); ma a voler negare efficacia preclusiva al provvedimento d’archiviazione, si è puntualmente replicato, ‘‘bisogna riconoscere che l’esercizio dell’azione penale conseguente ad indagini preliminari effettuate in violazione dell’art. 414 c.p.p. dà luogo ad una nullità assoluta giacché l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, in assenza del decreto di autorizzazione, avverrebbe con modalità non consentite dalla legge e, quindi, in violazione dell’art. 178 lett. b) prima parte’’ (11). Si è pure posto in rilievo che ‘‘se è vero che i presupposti positivi dell’archiviazione sono proprio in quanto tali — i presupposti negativi dell’azione penale, appare evidente come i correlativi comportamenti del pubblico ministero non possono non essere vincolati all’esito dell’accertamento di tali presupposti, nella cornice del principio di legalità e, quindi, secondo il modello della condotta dovuta’’ (12). Rispetto alla questione dedotta in giudizio, poi, è da notare che l’art. 274 c.p.p., subordina le specifiche ed inderogabili ‘‘esigenze cautelari’’, che possono giustificare l’applicazione delle misure, alla pendenza del procedimento, dal momento che il codice di rito ne ricollega la diretta attinenza alle indagini relative ai fatti per i quali si procede. L’impossibilità di iscrivere la notitia criminis in assenza del decreto autorizzativo ex art. 414 c.p.p. comporta l’impossibilità di ‘‘sottoporre alle indagini’’ il soggetto nei cui confronti è avvenuta l’archiviazione, che quindi non potrà essere destinatario della richiesta di provvedimento cautelare. L’autorizzazione alla riapertura delle indagini rappresenta l’unico strumento attraverso cui superare lo stallo in cui versa il procedimento archiviato, non potendosi attribuire all’applicazione della misura cautelare alcuna funzione surrogatoria dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini o implicitamente comprensiva di questa (13). Tale guadagno ermeneutico, argomentano i giudici di legittimità, è ricavabile dal presupposto, in fatto, condizionante la riapertura delle indagini, l’esigenza di nuove (altre, cioè, rispetto alle preesistenti) investigazioni ed assoggettato alla valutazione del giudice che provvede con decreto motivato dando conto della valutazione effettuata sulla richiesta, pur essa motivata, del pubblico ministero, che deve ‘‘prospettare in concreto un nuovo progetto investigativo’’ (14); e perciò dovrebbe essere rigettata una richiesta del pubblico ministero ‘‘che si basasse sol(10) CAPRIOLI, Archiviazione, op. cit. (11) Cfr. LOZZI, Lezioni di Procedura Penale, 3a ed., Giappichelli ed., Torino, p. 349. (12) Cfr. GREVI, Archiviazione per ‘‘inidoneità probatoria’’ e obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1281. In senso critico, invece, CAPRIOLI, op. cit., p. 1384. (13) In questo senso v. già Cass., sez. I, 24 ottobre 1996, Romeo, C.E.D. n. 206380. (14) Cfr. LOZZI, Lezioni, cit., p. 285. Contra, CORDERO, Procedura, cit., p. 424 ss.: ‘‘ogniqualvolta lo ritenga dovuto, il pubblico ministero agisce, puramente e semplicemente; né occorrono dati nuovi, quali postulava la vecchia riapertura dell’istruzione o richiede l’art. 434, rispetto al non luogo a procedere; basta un ripensamento’’.


— 357 — tanto sulla affermazione della necessità di svolgere nuove indagini ma non specificasse nulla in ordine al contenuto delle indagini stesse’’ (15). Le Sezioni Unite si premurano poi di sottolineare che la richiesta non può essere formulata sulla base di una semplice rilettura del materiale indiziario utilizzato per la declaratoria di infondatezza della notizia di reato, né il relativo decreto autorizzativo può limitarsi ad assentire una diversa valutazione di quel materiale, che sarebbe una valutazione diversa delle ‘‘stesse investigazioni’’ (16), poiché l’art. 414 prescrive una motivazione tipizzata, centrata sulla esigenza di nuove investigazioni, i cui risultati, valutati unitamente al materiale preesistente, ben possono giustificare un sostanziale ribaltamento del quadro indiziario. Una volta, poi, autorizzata la riapertura, il pubblico ministero provvede, ex art. 414 comma 2 c.p.p., a nuova iscrizione nel registro degli indagati di cui all’art. 335 c.p.p., sicché da tale momento iniziano a decorrere i termini indicati dall’art. 405 c.p.p. Già questa constatazione, argomentano i giudici di legittimità, fondata sul dato testuale, dimostra la valenza garantista che deve essere riconosciuta al provvedimento di archiviazione, come conseguenza operativa del sistema dei termini di chiusura delle indagini (art. 405 commi 2 e 4 c.p.p.), di durata massima delle indagini (art. 407 c.p.p.), con connessa normativa quanto a proroga (art. 406 s.c.) e a sanzione di inutilizzabilità dei risultati di indagini compiute al di là del tempo massimo (art. 407 comma 3)’’ (17). Ma nella sentenza in esame, a ben vedere, si afferma, a contrario, che, pur investendo astrattamente la medesima (futura) imputazione, è ben possibile rimettere in moto il meccanismo investigativo colpendo la persona direttamente nel suo bene primario della libertà e senza passare nemmeno attraverso il controllo del giudice in ordine all’esigenza di nuove investigazioni, scavalcando, altresì tutto il sistema dei termini massimi (art. 407), purché a procedere sia un altro (ufficio del) pubblico ministero, nei confronti del medesimo soggetto e in relazione allo stesso caso per il quale era stata già disposta l’archiviazione. Le ricadute sul piano applicativo appaiono evidenti. L’individuazione della medesimezza del fatto in base alla specifica e rigorosa condizione dell’identità dell’autorità giudiziaria procedente, piuttosto che in relazione al soggetto nei cui confronti sono state svolte le precedenti indagini, è un risultato poco tranquillizzante dal punto di vista delle garanzie individuali. Emerge allora chiaramente un’incongruenza nell’‘‘articolato e compiuto sistema di garanzie a difesa del cittadino’’, parafrasando le Sezioni Unite, laddove lascia poi ampi varchi attraverso i quali quelle garanzie potrebbero essere vanificate. Il concetto di ‘‘stesso fatto’’ così come individuato in relazione al provvedimento d’archiviazione stride, e di molto, con quello di ‘‘stesso fatto’’ riferito al giudicato penale, che è invece contraddistinto dall’effetto del ne bis in idem onde garantire la certezza in senso soggettivo (18), inibendo l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto nei con(15) CAPRIOLI, Archiviazione, op. cit., p. 1382. (16) LOZZI, Lezioni, op. cit., 348: il principio di obbligatorietà dell’azione penale impone di interpretare l’art. 414 c.p.p. nel senso che la ‘‘esigenza di nuove investigazioni’’ è riferibile pure alla necessità di colmare nuove lacune investigative mediante acquisizione di elementi probatori che avrebbero potuto essere in precedenza assunti dal pubblico ministero, mentre nella nozione di ‘‘nuove investigazioni’’ non può ricomprendersi una valutazione diversa (degli stessi elementi probatori e quindi) delle ‘‘stesse investigazioni’’. Contra, CORDERO, Procedura, cit., ‘‘esistono anche archiviazioni motivate solo in diritto’’ e il pubblico ministero che non cerca altro materiale perché reputa sufficienti i materiali di allora o ha ripensato sulla quaestio iuris non ha bisogno d’indagare’’. (17) In realtà, nulla impedisce al pubblico ministero vicino alla scadenza dei termini massimi, di riservarsi furbescamente qualche ‘‘carta’’ per il futuro in modo da ottenere la riapertura delle indagini e il riazzeramento dei termini (in questo senso GIOSTRA, L’archiviazione, cit.). (18) LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 120 ss.; ID., Lezioni, cit., pg. 513 ss.; ID., voce Giudicato (dir. pen.), in Enciclopedia del diritto, vol. XVIII, Giuffrè, 1969, p. 918 ss.; G. DE


— 358 — fronti dello stesso soggetto a qualsiasi ufficio della Procura della Repubblica che intenda nuovamente esercitarla, quindi realmente capace di garantire ‘‘quell’aspirazione al certo’’ (19) che tanto manca invece al soggetto precedentemente indagato (rectius l’intangibilità delle situazioni giuridiche dal singolo acquisite), non sottratto ad una ‘‘teoricamente illimitata possibilità di persecuzione penale’’ (20). Si noti, peraltro, che a differenza anche di quanto accade nel caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere (art. 435 comma 3 c.p.p.), la decisione di riaprire il procedimento archiviato viene presa senza che il potenziale reindagato e la persona offesa possano esercitare il diritto al contraddittorio; rilevante è, poi, la differenza tra le ‘‘nuove investigazioni’’ di cui all’art. 414 c.p.p. e le ‘‘indagini volte ad acquisire... nuove fonti di prova’’ di cui all’art. 435 c.p.p., differenza fondata sul criterio suggerito dalla Relazione al progetto preliminare, imperniato sulla differente rilevanza del novum probatorio ai fini degli sviluppi ulteriori del procedimento: nel primo caso è sufficiente che vi sia la semplice necessità di svolgere ‘‘nuove investigazioni’’; nel secondo caso, occorre invece che le acquisende fonti di prova siano ‘‘determinanti’’ ai fini del rinvio a giudizio. Perciò, a norma dell’art. 414, ‘‘la ripresa delle indagini deve pertanto essere autorizzata anche quando gli elementi di prova che si intendono acquisire non siano di per sé decisivi per l’esercizio della azione penale (potendolo diventare solo sulla base di una determinante riconsiderazione degli elementi già in possesso dell’inquirente); nel caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere, occorre invece che sia la nuova fonte di prova a fungere, per così dire, da elemento trainante della rivisitazione del quadro probatorio’’ (21). La sensazione, si è rilevato, è che il meccanismo processuale delineato nell’art. 414 c.p.p. sia troppo esile per poter sopportare il peso contenutistico che la Corte costituzionale, prima, e le Sezioni Unite, poi, gli vorrebbero accollare, ma tale sforzo ermeneutico si giustifica proprio con la particolare fisionomia che la fase delle indagini preliminari ha ormai acquisito. Il meccanismo previsto per la riapertura delle indagini preliminari e la efficacia preclusiva che si vuole ricollegare al provvedimento di archiviazione sono la diretta conseguenza della particolare collocazione che l’istituto in parola è andato assumendo nell’attuale sistema processuale (22). LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, p. 79 ss.; ID., voce Giudicato, in Enciclopedia del diritto, XV, Roma, 1989, p. 6 ss. (19) L’espressione è del Lopez, cfr. da DE LUCA, I limiti soggettivi, cit., 90. (20) Cfr. G. DE LUCA, I limiti soggettivi, cit.; del resto, si è detto, al diverso ‘‘corredo garantistico’’ non può non corrispondere una diversa portata degli interessi in gioco, il che ‘‘permette di escludere la possibilità di costruire un’assimilazione quanto mai opinabile tra giudicato e decreto di archiviazione sul piano dell’identità di effetti preclusivi che dagli stessi verrebbero a scaturire’’ (MACCHIA, Nota a Corte costituzionale 12 gennaio 1995, n. 27, in Cass. pen., 1995, p. 1150). (21) Cfr. CAPRIOLI, Archiviazione, op. cit. (22) Sulla natura del nuovo procedimento di archiviazione non esiste uniformità di vedute tra gli interpreti. (Riconoscono espressamente il carattere non giurisdizionale del provvedimento CORDERO, Procedura (1993), op. cit., p. 801 s.; NOBILI, La nuova procedura, op. cit., p. 214; BERNARDI, Commento all’art. 409 c.p.p., op. cit., p. 534; RAMAJOLI, Chiusura, op. cit., p. 4; DRAGONE, Le indagini, op. cit., p. 566. Afferma LOZZI, Lezioni, op. cit., p. 518: ‘‘il decreto d’archiviazione non è un provvedimento giurisdizionale, ma per il complesso di attività che presuppone v’è da ravvisare una chiara menomazione della certezza in senso soggettivo’’; secondo CAPRIOLI, L’archiviazione, op. cit., p. 475, ‘‘la veste formale attribuita all’archiviazione risulta a volte difficilmente conciliabile con una natura ‘sostanzialmente’ giurisdizionale dell’istituto’’. Meno convinte le posizioni di CRISTIANI, Manuale, op. cit., p. 326 (che attribuisce alla nuova disciplina dell’istituto ‘‘caratteri misti: da un lato la natura amministrativa del provvedimento e la sua collocazione preprocessuale riconducono l’archiviazione nell’ambito delle attività di ordine extragiuridizionale; dall’altro il controllo motivato del giudice delle indagini preliminari, non privo di iniziative, seppure indirette, nel merito, aprono prospettive di ordine giurisdizionale’’) e GIOSTRA, L’archiviazione, op. cit., p. 5, nota 5, (che osserva come ‘‘gli stessi caratteri che nella previgente disciplina erano stati ritenuti ineccepibilmente tipici della sentenza di non luogo a procedere, oggi si attagliano perfettamente al


— 359 — È fuor di dubbio che il legislatore del 1988, ancor più di quello precedente, abbia inteso porre azione ed archiviazione in un rapporto di esclusione reciproca, ma è altrettanto vero che la sottrazione della fase inquirente alla sfera della giurisdizionalità non ha impedito che gli atti di indagine — aumentando progressivamente di peso e di importanza — travolgessero i deboli sbarramenti opposti dal legislatore al loro utilizzo coma prova. Oggi, molto più che allora, alla persona sottoposta a indagine dovrebbe essere riconosciuto (in una certa misura) il diritto alla stabilità degli esiti investigativi, posto che nell’attuale sistema processuale l’alternativa all’archiviazione non è più ‘‘inquirere in vista dell’eventuale giudizio’’ (23), ma richiederlo sulla base delle indagini oggettivamente e soggettivamente già svolte, che possono protrarsi sino ad un periodo di due anni (nell’ipotesi dell’art. 407 c.p.p.) e durante il quale l’indagato può aver subito una custodia cautelare fino ad un anno, (art. 303 comma 1 n. 3 c.p.p.), possono essere state assunte prove con l’attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova (se vi siano stati incidenti probatori, oggi più frequenti perché non più vincolati ai casi delle lett. a e b dell’art. 392 c.p.p.) e possono esservi stati numerosi provvedimenti giurisdizionali, se il provvedimento di custodia cautelare del giudice delle indagini preliminari sia stato impugnato davanti al tribunale della libertà ed alla Corte di cassazione. Inoltre, lo stesso provvedimento d’archiviazione può essere emanato dopo un’attuazione del contraddittorio, avente ad oggetto l’intera fase delle indagini preliminari, ove il decreto di archiviazione sia preceduto dalla camera di consiglio prevista dagli art. 409 e 410 c.p.p., nel quale l’indagato ha contestato la fondatezza in fatto e in diritto di un’accusa già delineatasi in tutti i suoi elementi essenziali e accidentali, anche se al fine limitato di valutarne la sostenibilità in giudizio. Bisogna prendere atto che l’inchiesta preliminare rapida e ‘‘indolore’’ immaginata dai riformatori si è trasformata in breve tempo in un ponderoso procedimento istruttorio, caratterizzato spesso da un ricorso massiccio allo strumento della custodia cautelare: il contrasto tra la forma e la sostanza delle indagini preliminari ha prodotto effetti gravemente pregiudizievoli per la persona sottoposta a indagine. Non si può non convenire, dunque, che ‘‘se fin dall’inizio era apparso alquanto sconcertante che fosse possibile emanare provvedimenti di custodia cautelare in assenza di un imputato e di un’imputazione, o che si potesse esercitare il diritto di difesa (inteso anche come contraddittorio) al di fuori del processo, con il passare del tempo la consistenza imputativa e afflittiva delle indagini preliminari si è rivelata ancora più chiaramente, confermando l’assoluta inadeguatezza dell’inquadramento sistematico voluto dal legislatore’’ (24). Si è cominciato a prendere atto della rilevanza probatoria degli atti investigativi dapprima nel 1992, con i primi interventi della Corte Costituzionale e del legislatore (25), poi con decreto l. 7 agosto 1997, n. 267, che ha soppresso il richiamo alle circostanze previste dalle lett. a) e b) dell’art. 392 c.p.p., ampliando notevolmente la possibilità di effettuare incidenti probatori, fino ad arrivare alla l. 16 dicembre 1999, n. 479, che con l’art. 415-bis ha decretato un’anticipazione provvedimento di archiviazione’’. Apertamente schierati, poi, per la tesi della giurisdizionalità sono ARIOLI, L’applicazione ‘‘definitiva’’ delle misure di sicurezza nel processo penale e la natura del decreto di archiviazione, in Cass. pen., 1993, 2789, (ma con riferimento alla sola ordinanza emessa all’esito dell’udienza camerale); MENCARELLI, Procedimento probatorio e archiviazione, Napoli, 1993, pp. 112 ss. e 140; SAMMARCO, La richiesta, op. cit., p. 299 ss.; TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, 1991, p. 554). (23) Cfr. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 73. (24) Cfr. CAPRIOLI, L’archiviazione, op. cit. (25) Cfr. CAPRIOLI, L’archiviazione, op. cit., con riferimento alle sentenze costituzionali nn. 24, 254 e 255 del 1992, nonché al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356.


— 360 — della discovery con arretramento di atti e adempimenti che sarebbero in realtà prodromici ai profili funzionali dell’udienza preliminare, spostando l’esercizio del diritto alla prova ad un momento precedente (26) (si è spostato, inoltre, il baricento del processo all’indietro verso l’udienza preliminare trasformandola in una sorta di ‘‘mini-dibattimento’’) (27) per arrivare infine alla recentissima legge sulle indagini difensive (l. 7 dicembre 2000, n. 397) che, ribadendo il primato della fase precedente il giudizio, costituisce la presa di coscienza della grande rilevanza probatoria degli atti investigativi e di quanto fosse pregiudizievole per il cittadino l’essere giudicato sulla base di elementi di prova raccolti unilateralmente dal pubblico ministero (28). Orbene, nonostante il complesso di ponderosa attività istruttoria che precede il decreto d’archiviazione le indagini possono riprendere nei confronti dello stesso indagato e per il medesimo addebito, tanto che ‘‘appare innegabile la menomazione della certezza in senso soggettivo’’ (29) a causa della violazione delle fondamentali istanze di garanzia che ispirano il principio del ne bis in idem (la ripresa delle indagini potrebbe coincidere anche con un’immediata privazione della libertà personale del ‘‘reindagato’’ (30), con conseguenze tali da rendere auspicabile un nuovo intervento del legislatore in materia: l’efficacia preclusiva del provvedimento d’archiviazione andrebbe infatti direttamente ricollegata al carattere afflittivo delle indagini che precedono la sua emanazione. Scriveva molti anni or sono Carnelutti: il processo penale ‘‘assume le proporzioni di un dramma’’ di cui il soggetto è protagonista (31); ebbene oggi bisogna riconoscere che quel dramma comincia sin dal procedimento penale (32). Dott. PATRICK STOJA

(26) V. GALANTINI, in Giudice unico e garanzia difensive, Giuffrè, 2000, p. 113. (27) V. SPANGHER, Il nuovo processo penale davanti al giudice unico, Ipsoa, 2000, p. 184. (28) Nel senso che uno sviluppo eccessivo della fase investigativa avrebbe prodotto conseguenze deleterie per il principio di formazione dibattimentale della prova, v. già LOZZI, Indagini preliminari, incidenti probatori, udienza preliminare, in Riflessioni sul nuovo processo penale, p. 62 ss. (29) Cfr. LOZZI, Lezioni, op. cit., p. 518. (30) V. Cass. 8 maggio 1992, Rapisarda, in Cass pen., 1994, p. 314. (31) F. CARNELUTTI, La certezza del diritto, in Riv. dir. proc. civ., 1943. (32) Alla luce di quanto esposto, è ben comprensibile che in dottrina ci si domandi se la scelta legislativa di spostare la soglia di esercitabilità dell’azione penale dalla semplice ‘‘non manifesta infondatezza della notizia di reato’’ fino alla ‘‘sostenibilità della accusa in dibattimento’’, non sia stata una scelta — oltre che inopportuna (cfr. GIOSTRA, L’archiviazione, op. cit., p. 24, nota 13) — persino lesiva del dettato costituzionale, cfr. CAPRIOLI, Archiviazione, op. cit., p. 485; la possibilità di emanare provvedimenti restrittivi della libertà personale precedentemente all’esercizio dell’azione penale — e la ‘‘conseguente assenza di una ‘liberatoria’ sentenza di proscioglimento’’ della quale possa beneficiare il soggetto nei cui confronti siano stati emessi gli anzidetti provvedimenti — vengono ritenute lesive dell’art. 76 Cost., per contrasto con la direttiva n. 36 della legge-delega del 1987 da NOBILI, La nuova procedura, op. cit., pp. 214, 356 e 368), ritenendo auspicabile, pertanto, riportare la soglia preclusiva dell’archiviazione alle battute iniziali dell’indagine, restituendo al pubblico ministero il potere/dovere di richiedere una decisione munita di efficacia preclusiva (secondo schemi analoghi a quelli recepiti nell’abrogato sistema processuale) dopo la nascita ‘‘sostanziale’’ dell’imputazione e il conseguente trapasso dell’indagine dalla fase ‘‘informativa’’ a quella ‘‘persecutoria’’; secondo TAORMINA, Diritto processuale penale, op. cit., pp. 570 e 594 ss. ‘‘sarebbe indispensabile per garantire la stessa legittimità costituzionale del sistema — prevedere che il controllo del giudice sulla ricorrenza di tale presupposto abbia natura giurisdizionale e postuli l’avvenuto esercizio dell’azione penale’’.


d) Giudizi di Merito

TRIBUNALE MILANO — 1o marzo 2001 Giud. Giordano — Imp. Fadani Enrico Abusivo esercizio di una professione (avvocato) - Conseguimento dell’abilitazione in Germania - Normativa interna contrastante con i principi comunitari Prevalenza del diritto comunitario - Ragioni della assoluzione - Abrogazione della legge penale e scriminante dell’esercizio del diritto - Inadeguatezza - Limite all’obbligatorietà della legge penale - Configurabilità. Dal contrasto della legge professionale italiana la cui violazione è contestata all’imputato con la normativa comunitaria di riferimento emerge l’obbligo di disapplicazione della normativa statale per il principio del primato del diritto comunitario. Si pone la necessità di rintracciare le legittime ragioni che consentono al giudice penale di assolvere l’imputato perché la legge penale italiana non è conforme al diritto comunitario. La disapplicazione non è un’abrogazione della legge penale che era (al momento del fatto), è e rimane (al momento e dopo il giudizio) in vigore. Lo schema dell’esercizio del diritto ex art. 51 c.p. si struttura sul concorso di norme (entrambe applicabili al fatto) appartenenti allo stesso ordinamento; nulla vieta di adattare questo schema all’operatività diretta della fonte comunitaria, ma non sembra una spiegazione della ratio essendi di siffatta operatività. La spiegazione del meccanismo assolutorio dovrebbe spostarsi dalla pur vera caduta dell’antigiuridicità e riportarsi nell’ambito dell’operatività, rectius dei limiti dell’operatività della legge penale. L’art. 3.1 c.p. dispone l’obbligatorietà della legge penale per chiunque (cittadino o straniero) si trovi nel territorio dello Stato italiano ‘‘salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale’’. Sebbene tale importante limite sia stato sempre interpretato quale clausola di salvaguardia dell’applicabilità soggettiva della legge penale (pensando soprattutto alle immunità), non può negarsi che la norma de qua si presta fisiologicamente e automaticamente a recepire nuovi confini della legge penale in relazione all’evoluzione del diritto pubblico interno e del diritto internazionale. Sicché la restrizione del campo di applicabilità della nostra legge penale a tutti i casi in cui non contrasti con norme comunitarie direttamente operative per i singoli risponde ad un limite fisiologico di obbligatorietà della legge penale (1) (Omissis). — 1. Il fatto. — L’imputato viene tratto a giudizio per rispondere del reato ex art. 348 c.p. perché senza aver ottenuto il riconoscimento in Italia del titolo di Rechtsanwalt, ai sensi del d.lgs. n. 115/1992 esercitava in Italia la professione di avvocato dall’agosto 1995 al luglio 1997.


— 362 — Attraverso l’istruttoria dibattimentale costituita dall’esame dei testi Bosini, Corrado, Bicecci Casorati e Marani, dall’esame dell’imputato e dall’acquisizione di documenti è emerso pacificamente che l’imputato, cittadino italiano laureatosi nella repubblica federale tedesca nel 1993, divenuto Rechtsanwalt con il superamento in Germania dell’esame di Stato il 20 giugno 1995, si iscrive all’albo presso il tribunale di Heidelberg come Rechtsanwalt. Dall’agosto dello stesso anno fino al giorno 1o luglio 1997 collabora con lo studio legale Frere Cholmeley Bischoff di Milano. L’imputato già dall’11 agosto 1995 si attiva presso il Ministero della giustizia italiano per ottenere il riconoscimento del titolo abilitante conseguito in Germania, imboccando un iter burocratico che — non certo per inerzia o lentezza dell’imputato — lo porterà a sostenere l’esame presso il Consiglio Nazionale Forense nel maggio 1997 (il cui esito gli verrà comunicato dopo oltre sedici mesi), e gli consentirà infine di iscriversi all’albo degli avvocati di Milano il 19 novembre 1998. Frattanto l’imputato continua ad esercitare l’attività professionale presso uno studio legale a Mannheim e successivamente a Francoforte nonché a collaborare con il citato studio di Milano. 2. Il quadro normativo comunitario e statale. — Precipuamente è necessario delineare quale sia il quadro normativo comunitario e statale in cui si inscrive l’attività svolta dall’imputato. All’imputato viene contestato il reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p. che prevede una norma penale in bianco caratterizzata da un’antigiuridicità speciale perché si sanziona chi svolga un’attività professionale riservata ai soggetti abilitati mediante la violazione delle specifiche norme extrapenali regolatrici dell’accesso alla professione. Infatti nel caso concreto si contesta quale elemento integrativo della norma penale la violazione del d.lgs. n. 115/1992 sull’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato da parte di omologhi professionisti di altri Stati comunitari. Invero l’attività (comunque qualificata) compiuta in Italia dall’imputato nella qualità di Rechtsanwalt si è svolta temporaneamente e quindi deve essere valutata anche alla luce della l. n. 31/1982. La disciplina del d.lgs. n. 115/1992, della l. n. 31/1982 e del recente d.lgs. 2 febbraio 2001, si inserisce in un quadro normativo che costituisce esecuzione (e quindi deve leggersi alla luce) delle direttive comunitarie 77/249, 89/48, 98/5. 1) La direttiva 77/249 regola la libera prestazione di servizi da parte degli avvocati in base agli artt. 57 e 66 (ora 47 e 55) Trattato CE; in particolare l’art. 4, n. 1, dir. 77/249 stabilisce che le attività tipiche difensive ‘‘sono esercitate in ogni Stato membro ospitante alle condizioni previste per gli avvocati in questo Stato, ad esclusione di ogni condizione di residenza o di iscrizione ad un’organizzazione professionale nello stesso Stato’’. Lo Stato italiano ha recepito tale direttiva con la l. n. 31/1982 ammettendo i cittadini di altri Stati membri ivi abilitati all’esercizio dell’attività di avvocato ma temporaneamente e vietando loro di stabilire in Italia uno studio, una sede principale o secondaria (art. 2 l. n. 31/1982). Tale disposizione è stata già oggetto della sentenza Gebhard della Corte di giustizia CE del 30 novembre 1995 che ha precisato il diritto di un avvocato di uno Stato membro di disporre in Italia di un’infrastruttura idonea per effettuare la


— 363 — prestazione professionale, in forza della libertà di servizio così come disciplinata dalla dir. 77/249. Anche la Corte di cassazione Sez. un. civili si è pronunciata sullo stesso caso Gebhard con sent. 18 marzo 1999, n. 146. Invece in base alla normativa italiana dell’art. 2, n. 2, l. n. 31/1982 vige il divieto di disporre in Italia di un’infrastruttura necessaria allo svolgimento dell’attività professionale per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri che vogliono esercitare in Italia. Dalla lettura del divieto legislativo emerge una sorta di sospetto e di diffidenza come se la prestazione professionale di un avvocato abilitatosi in un altro Stato membro fosse automaticamente una manovra elusiva delle altre norme sul diverso diritto di stabilimento. Ma anche se così fosse, spetterebbe sempre allo Stato italiano dimostrare per ogni caso concreto la reale elusione delle norme sul diritto di stabilimento, prova che peraltro è mancata in questo dibattimento. Tutto ciò appare in piena violazione dell’art. 59 trattato CE (ora 49 CE) che vieta le restrizioni alla libera prestazione di servizi all’interno della Comunità (per una recentissima lettura anche di tale disposizione v. Corte di giustizia CE 1o febbraio 2001, C 108/96, Dennis Mac Quen). 2) L’art. 1, lett. g) direttiva 89/48 sul riconoscimento dei diplomi conseguiti in un altro Stato della comunità per le attività professionali definisce l’oggetto, lo scopo e le modalità della prova attitudinale, quale atto meramente ricognitivo del titolo professionale conseguito in un altro Stato membro e comunque da espletarsi ‘‘nel rispetto del diritto comunitario’’. Gli artt. 3 e 4 della stessa direttiva stabiliscono il principio di pari condizioni tra i professionisti ai fini dell’esercizio dell’attività con varie specificazioni. Il d.lgs. n. 115/1992 intende trasporre la dir. 89/48 subordinando il riconoscimento in Italia del titolo conseguito in un altro Stato membro al superamento di una prova attitudinale volta ad accertare le conoscenze e le capacità professionali, e stabilendo la necessità di un decreto ministeriale per dare esecuzione alle modalità di riconoscimento e di esame (artt. 8 e 9). Al riguardo si osserva che: A) Tale prova attitudinale ex d.lgs. n. 115/1992 è costituita da un esame scritto (redazione di un atto o di un parere su tre materie ma tra le dieci previste), e da un esame orale su undici materie. Se si considera che il professionista tenuto a sostenere tale prova è già abilitato quale Rechtsanwalt, avocat, barrister, solicitor, ecc. e che l’ordinamento italiano dovrebbe limitarsi a modalità di verifica delle capacità al fine del ‘‘riconoscimento’’ di tale titolo balza evidente in primo luogo la gravosità di un vero e proprio secondo esame di abilitazione; così come disciplinata, rectius applicata, la prova attitudinale risulta fortemente dissuasiva, in contrasto con la ratio della direttiva 89/48 volta invece ad agevolare la presenza dei professionisti e la circolazione della cultura professionale europea. In secondo luogo è evidente la differenza di trattamento rispetto ai praticanti: nonostante per questi ultimi si debba effettivamente verificare la preparazione e l’esperienza si prevede un esame con una notevole minore quantità di materie per gli esami e una possibilità di scelta per gli esami orali lasciata al candidato. Si badi che il trattamento riservato a chi è già abilitato all’estero appare particolarmente ingiustificato e discriminatorio nel caso concreto dove l’imputato pur essendo cittadino italiano ha dovuto sostenere una prova sostanzialmente volta a fargli ripetere un esame di abilitazione ancora più esigente di quello normalmente


— 364 — richiesto ai praticanti; trattandosi di un cittadino italiano non rileva la disparità di trattamento con i cittadini di altri Stati membri ma rileva (e ripugna) la disparità di trattamento tra un italiano laureatosi e abilitatosi in Germania e i praticanti italiani laureatisi in Italia e ancora da abilitarsi. È evidente che si viola lo spirito della direttiva 89/48 (volta ad agevolare e non ad ostacolare la circolazione degli avvocati) e in particolare degli artt. 1, lett. g) e 4. B) Inoltre la dir. 89/48 non è stata recepita tempestivamente e completamente laddove impone una disciplina della prova attitudinale che ancora oggi nel nostro ordinamento attende un regolamento di attuazione circa le modalità di svolgimento della prova. Invero in mancanza di tale decreto si provvede ancora con decreti ad hoc di riconoscimento emessi dopo la prova derivante da una prassi ministeriale con una sostanziale incertezza giuridica, quindi in spregio ai principi di diritto comunitario sugli obblighi degli Stati membri sulla trasposizione delle direttive (v. Corte di giustizia, sentenza 3 marzo 1998, C 116/86, Commissione/Italia). C) Il provvedimento ministeriale sul riconoscimento del titolo abilitante si deve emettere entro quattro mesi dalla domanda (art. 12) ma nel caso concreto l’imputato ha atteso oltre tre anni e non per sua colpa. Se fosse stato rispettato il termine di quattro mesi previsto dalla direttiva, l’imputato avrebbe conseguito il riconoscimento del proprio titolo entro la fine del 1995 senza altro strascico che verosimilmente ha inciso sulla sua libertà di esercizio professionale. 3) La direttiva 98/5 disciplina la libertà di stabilimento degli avvocati di altri Stati membri ed è stata recepita in Italia recentemente con il d.lgs. del 2 febbraio 2001. Si tratta di una disciplina successiva alla condotta per cui si procede ma precedente al giudizio; però giova rilevare che per i punti di contatto con il caso dell’imputato nulla ha innovato ma anzi ha espressamente ribadito che ‘‘la prestazione di servizi con carattere di temporaneità da parte degli avvocati cittadini degli Stati membri dell’Unione europea è disciplinata dalla l. 9 febbraio 1982, n. 31’’ (art. 1.2). 3. Il primato del diritto comunitario e la disapplicazione della legge penale. — Da quanto esposto emerge un netto contrasto tra i principi comunitari sulla libertà di esercitare la professione di avvocato — anche per la cogente interpretazione ricevuta dalla Corte di giustizia CE — e la disciplina italiana: in particolare quella riguardante il divieto di stabilire in Italia anche un minimo di infrastruttura per rendere una prestazione professionale; quella che prevede una prova attitudinale per il riconoscimento del titolo abilitante conseguito in un altro paese della comunità sostanzialmente dissuasiva e sperequativa rispetto all’esame riservato ai praticanti che vogliono abilitarsi; quella che di fatto consente una procedura di riconoscimento superiore a quattro mesi dalla data della domanda; infine quella dovuta alla mancata emanazione del decreto ministeriale volto a regolare le modalità di tale prova. Dal contrasto della legge professionale italiana la cui violazione è contestata all’imputato con la normativa comunitaria di riferimento emerge l’obbligo di disapplicazione della normativa statale per il principio del primato del diritto comunitario, come delineato dalla giurisprudenza costituzionale (affermatasi con la sent. n. 170/1984) e comunitaria (ex plurimis Corte di giustizia 12 giugno 1980, C 88/79, Grunert; Id. 22 giugno 1989, C 103/88, Fratelli Costanzo).


— 365 — Il principio del primato del diritto comunitario vige anche in campo penale laddove — come nel caso in parola — l’obbligo di disapplicazione della norma statale comporta l’assoluzione di un imputato che ha effettivamente violata una legge penale in vigore (Corte di giustizia 5 aprile 1979, C 148/78, Ratti). L’obbligo di non applicare la norma statale contrastante con quella comunitaria di riferimento incombe su tutti i soggetti ma per quanto riguarda il giudice penale — che deve considerare precipuamente il principio di legalità — assume connotati peculiari che meritano una seppur breve analisi. Infatti il compito del giudice ‘‘sottoposto soltanto alla legge’’ ex art. 101.2 Cost. è quello di verificare che la fattispecie astratta ascritta ad un imputato sia prevista dalla legge, al momento del fatto e al momento del giudizio, e che sia integrata da un fatto concreto colpevolmente realizzato dall’imputato. In forza del primato del diritto comunitario, però, il giudice penale non si può più limitare al giudizio sul fatto ma deve procedere ad un vero e proprio giudizio di legittimità verificando la conformità della normativa statale rispetto a quella comunitaria se direttamente applicabile ai singoli. A ciò eventualmente, in caso di difformità, consegue la disapplicazione di una legge penale che è e resta in vigore. Non contenendo il diritto comunitario una norma penale, la fonte comunitaria fino ad oggi può esplicare sul diritto penale soltanto effetti indiretti perché interviene quale norma integratrice della fattispecie penale. Nel caso sub iudice la fonte comunitaria non si sovrappone direttamente all’art. 348 c.p. ma alla norma extrapenale (di disciplina dell’accesso alla professione) che viene privata della propria applicabilità. Atteso che la norma extrapenale integra la fattispecie penale nella quale confluisce e dalla quale viene incorporata il meccanismo di disapplicazione diretta di una norma extrapenale obbliga in definitiva il giudice a non applicare una norma penale in vigore. Di conseguenza si pone la necessità di rintracciare le legittime ragioni che consentono al giudice penale di assolvere l’imputato perché la legge penale italiana non è conforme al diritto comunitario. La quaestio rileva sia sotto il profilo costituzionale sia sotto il profilo penale e processuale (si pensi alla formula assolutoria con le diverse conseguenze anche in relazione alla responsabilità civile, amministrativa, disciplinare: artt. 652-653 c.p.p.). 4. Disapplicazione e principio di legalità e di irretroattività. — In ordine al principio di legalità e di irretroattività ex artt. 1 e 2 c.p., 14-15 preleggi, 25.2 e 101.2 Cost. il giudice osserva che la disapplicazione non è un’abrogazione della legge penale che era (al momento del fatto), è e rimane (al momento e dopo il giudizio) in vigore. L’abrogazione è un effetto dovuto alla successione o sovrapposizione di due fonti normative almeno di pari grado; invece la disapplicazione consegue ad un’interpretazione delle fonti che consente al giudice di paralizzare la fonte statale che rimane in vigore. Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale la fonte comunitaria appartiene ad un ordinamento diverso, parallelo e autonomo rispetto a quello statale ed è noto che è priva di contenuto penale. Di conseguenza non v’è luogo per procedere all’applicazione dell’art. 2 c.p. che presuppone una nuova legge che si sostituisce a quella in vigore al momento del fatto; non si può sviluppare alcun ef-


— 366 — fetto abrogativo sulla singola fattispecie statale, e non può nemmeno essere oggetto di un giudizio di minore o maggiore favorevolezza. Acutamente si è ritenuto di spiegare la disapplicazione de qua considerando che il contrasto con il diritto comunitario impedirebbe il sorgere della validità della norma penale. Considerazione che intuisce il vero ma non esaurientemente: la norma statale che cede di fronte alla norma comunitaria non è per ciò solo invalida, non ha alcun vizio che ne inficia complessivamente l’operatività, ma rimane efficace seppur non pienamente. Ciò pare rilevante nel diritto penale dove la disapplicazione (nel caso dell’art. 348 c.p. come integrato dalle citate disposizioni sull’accesso all’avvocatura) è soltanto in bonam partem per il fatto concreto, ma continua ad avere la propria operatività. 5. Disapplicazione ed esercizio del diritto. — Altrettanto acutamente il meccanismo che porta alla disapplicazione della legge penale statale è stato spiegato mediante l’operatività dell’art. 51 c.p. perché l’esercizio del diritto soggettivo riconosciuto dalla norma comunitaria elide l’antigiuridicità del fatto che così non è punibile, pur rimanendo in vigore la legge penale che continuerà ad applicarsi per gli altri casi. Tale spiegazione è stata accolta anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE in casi in cui le decisioni si attagliano perfettamente al caso dell’imputato in giudizio. Ad esempio dalle sentenze Auer (22 settembre 1983, C 271/82) e Rienks (15 dicembre 1983, C 5/83) ci giunge un importante insegnamento: dalle direttive direttamente applicabili sorge per i singoli cittadini di uno Stato membro il diritto di praticare la professione; quindi la mancata iscrizione ad un ordine professionale nazionale non può impedire il libero esercizio della professione da parte di chi è iscritto regolarmente in un ordine di un altro Stato membro e non può fondare un’incriminazione per esercizio abusivo della professione. Si tratta di una soluzione convincente che si espone invero ad una seppur marginale osservazione: la scriminante ex art. 51 c.p. sottrae il carattere antigiuridico ad un fatto perché sulla fattispecie incriminatrice (in vigore) prevale la fattispecie autorizzatrice nei limiti in cui prescrive un diritto o una libertà. L’operatività della scriminante, quindi, presuppone l’esistenza di due norme, entrambe in vigore e applicabili al caso concreto ma di segno opposto, il cui conflitto si risolve a favore della norma autorizzatrice. Il conflitto di norme spiega la non punibilità in concreto di un comportamento (che astrattamente rientra nella norma incriminatrice) ma non spiega ancora perché il giudice prima del merito, sul piano dell’operatività della legge in astratto, deve risolvere il conflitto tra due fonti di ordinamenti giuridici diversi e autonomi (ancorché paralleli) nettamente a favore della normativa comunitaria, privando quella penale di applicabilità. Lo schema dell’art. 51 c.p. si struttura sul concorso di norme (entrambe applicabili al fatto) appartenenti allo stesso ordinamento; nulla vieta di adattare questo schema all’operatività diretta della fonte comunitaria ma non sembra una spiegazione della ratio essendi di siffatta operatività. Di conseguenza la spiegazione del meccanismo assolutorio dovrebbe spostarsi dalla pur vera caduta dell’antiugiuridicità e riportarsi nell’ambito dell’operatività, rectius dei limiti dell’operatività della legge penale. 6. L’obbligatorietà della legge penale. — Sul piano dell’operatività della legge penale — anche da parte della giurisprudenza — si evoca il princpio di spe-


— 367 — cialità che se da un lato postula la disapplicazione della lex generalis per lasciare spazio alla lex specialis, dall’altro però presuppone l’esistenza di due norme che agiscono contemporaneamente in rapporto di genus ad speciem. In primo luogo il rapporto di specialità si pone tra due norme dello stesso ordinamento applicabili allo stesso caso concreto (in particolare l’art. 15 c.p. si riferisce a ‘‘più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale’’) quando invece nel campo in analisi vi sono due norme che appartengono a due ordinamenti diversi e di cui una non ha alcun contenuto penale e l’altra non si deve applicare a priori. In secondo luogo non è detto che la normativa comunitaria sia speciale (e quindi per questo prevalente) rispetto a quella statale. In breve pare a questo giudice che la spiegazione della disapplicazione della legge penale statale sia da ricercare nei limiti di obbligatorietà della stessa. L’art. 3.1 c.p. dispone l’obbligatorietà della legge penale per chiunque (cittadino o straniero) si trovi nel territorio dello Stato italiano ‘‘salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale’’. Sebbene tale importante limite sia stato sempre interpretato quale clausola di salvaguardia dell’applicabilità soggettiva della legge penale (pensando soprattutto alle immunità) non può negarsi che la norma de qua si presta fisiologicamente e automaticamente a recepire nuovi confini della legge penale in relazione all’evoluzione del diritto pubblico interno e del diritto internazionale. Al riguardo non v’è dubbio che il primato di quel particolare diritto internazionale che è il diritto comunitario (laddove direttamente applicabile ai singoli) deriva per il nostro ordinamento costituzionale dagli artt. 10 e 11 Cost. in forza dei quali il nostro ordinamento giuridico si conforma al diritto internazionale anche acconsentendo a limitazioni di sovranità e assicurando agli stranieri una condizione giuridica in linea con norme e trattati internazionali. Sicché la restrizione del campo di applicabilità della nostra legge penale a tutti i casi in cui non contrasti con norme comunitarie direttamente operative per i singoli, anche a voler considerarla una limitazione della sovranità nazionale (che di certo si esprime al massimo livello con l’esercizio della potestà penale) risponde ad un limite fisiologico di obbligatorietà della legge penale. Questa non si applica ai casi su cui il diritto comunitario proietta disposizioni direttamente applicabili sancendo diritti e libertà. In tal caso il comportamento realizzato è previsto dalla legge come reato ma non ha alcuna rilevanza penale; quindi non sussiste un fatto penalmente rilevante. 7. La collaborazione prestata. — Ad ogni buon conto l’attività effettivamente svolta dall’imputato nel periodo di collaborazione con lo studio legale di Milano è consistita in una prestazione professionale basata sulla conoscenza delle lingue e degli ordinamenti italiani e tedeschi; conoscenza di cui lo studio si è avvalso senza per ciò richiedere all’imputato attività tipiche dell’avvocato italiano (nessuno dei testi ha deposto nel senso di indicare una qualsiasi attività anche stragiudiziale da parte dell’imputato). Tutt’al più egli ha esercitato in Italia — sia in quello studio legale sia assistendo ad un’udienza, ma non patrocinando — legittimamente un’attività di Rechtsanwalt e si è avvalso di un’infrastruttura come riconosciutogli dalle direttive e dalle sentenze citate. A favore di tale ricostruzione dei fatti depongono i testi Bosini (tenente dei CC. che durante il sopralluogo ha notato che non veniva speso dall’imputato nes-


— 368 — sun titolo che potesse far riferimento alla qualifica di avvocato), Corrado, Bicecci Casorati, Marani (che hanno spiegato analiticamente i rapporti professionali intercorsi con l’imputato all’interno dello studio) nonché l’esame dell’imputato che ha spiegato tutti i passaggi della vicenda e dando dimostrazione comunque dell’assenza di qualsiasi intenzione criminosa idonea a integrare l’elemento psicologico ex art. 348 c.p. In definitiva anche sul piano storico il fatto attribuito all’imputato non sussiste. P.T.M. — Visto l’art. 530 c.p.p. assolve l’imputato perché il fatto non sussiste. La motivazione sarà redatta entro 90 gg. (Omissis).

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Prevalenza del diritto comunitario e non obbligatorietà della legge penale: un rapporto interessante, ma non sostenibile.

1. La vicenda. — La sentenza in epigrafe affronta un caso già noto alla nostra giurisprudenza di merito e a quella comunitaria: l’esercizio (abusivo) di professione da parte di un soggetto che, sottoposto a procedimento penale, viene poi assolto in applicazione dei principi comunitari in tema di libertà di prestazione di servizi e di stabilimento dei lavoratori (1). Nella fattispecie in esame si aggiunge una peculiarità: l’incriminazione ex art. 348 c.p. è formulata nei confronti di un cittadino non comunitario, ma italiano. Tale situazione — che fa pensare ad un trattamento discriminatorio per così dire ‘‘domestico’’ — non presenta tuttavia delle specificità tali da giustificare una sua considerazione separata rispetto alle discriminazioni concernenti cittadini comunitari: infatti l’imputato ha seguito e completato il corso di studi e di abilitazione professionale non in Italia, ma in un altro Stato membro. 2. Le problematiche di diritto. — Il quadro normativo italiano sulla base del quale si è giunti al rinvio a giudizio appare immediatamente in contrasto con il complesso della disciplina comunitaria ricavabile dal Trattato, dalle fonti derivate e dalla relativa giurisprudenza della Corte di giustizia. Il giudice sottolinea in particolare tre profili meritevoli di censura: il divieto per i professionisti abilitati in un altro Stato membro di disporre in Italia di un’infrastruttura per lo svolgimento della prestazione professionale; il carattere fortemente dissuasivo e discriminatorio della prova a cui devono sottoporsi i professionisti abilitati all’estero per ottenere il riconoscimento del titolo; la mancanza di un’adeguata disciplina e di garanzie per il rispetto dei tempi relativi alla procedura ministeriale di riconoscimento. L’esito processuale favorevole all’imputato è dunque scontato per il richiamo al principio della prevalenza del diritto comunitario. Posto però che l’assoluzione conosce diverse forme, il giudice, opportunamente, non si è limitato alla superficiale constatazione che la pena non si applica, ma si è posto il problema di inda(1) Ad es. Corte giust., 22 settembre 1983 (Auer), in Racc., p. 2727 ss.; Pret. Lodi, 17 maggio 1984, in Dir. com. scambi int., 1984, p. 189 ss. Cfr. anche GROSSO C.F., in BRICOLA F.-ZAGREBELSKY V., Giurisprudenza sistematica di diritto penale, 1996, p. 393 ss. e AMATO G., in LATTANZI G.-LUPO E., Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, VI, 2000, p. 466. Di recente, per una decisione che nega l’applicabilità dei principi comunitari v. Cass., 13 giugno 1997, n. 5672, in Cass. pen., 1997, p. 697 ss.


— 369 — gare sulle ragioni sottostanti l’impunità. In primo luogo si è esclusa la sussistenza di un’ipotesi di abrogazione in senso proprio della legge penale, argomentando dalla tesi della separazione degli ordinamenti, ancora nominalmente sostenuta dalla Corte costituzionale sebbene con qualche significativa apertura. Quanto all’opinione sostanzialmente maggioritaria che l’impunità discende dalla mancanza di antigiuridicità del fatto per la presenza della scriminante dell’esercizio di un diritto (comunitario), si rileva che lo schema dell’art. 51 c.p., benché utilizzabile, non sarebbe in grado di dare conto correttamente del meccanismo che conduce all’esito favorevole all’imputato. In ultimo il giudice, ritenendo che il principio della prevalenza del diritto comunitario trovi collocazione sistematica sul piano dell’operatività della legge penale, afferma che la spiegazione più appropriata della decisione liberatoria sia da rinvenire nell’art. 3 c.p., il cui richiamo alle ‘‘eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale’’ si presterebbe, di per sé, a dare ingresso anche al primato del diritto comunitario, e pertanto ‘‘non sussiste un fatto penalmente rilevante’’. Il riferimento al principio dell’obbligatorietà della legge penale contenuto nel percorso interpretativo appena riassunto emerge come un elemento di assoluta novità in materia. Non constano infatti precedenti tentativi di fondare su questo dato normativo la spiegazione dell’incidenza del diritto comunitario sul diritto penale. In questa sede si tenterà allora di prendere in esame i menzionati punti salienti della sentenza, in modo da verificare se il richiamo dell’art. 3 c.p., non implausibile ictu oculi, sia effettivamente da preferire al più tradizionale orientamento legato al meccanismo delle cause di giustificazione. Anzitutto occorre considerare lo schema dell’abrogazione. 3. L’ipotesi dell’abrogazione. — Sia la legge penale (la fattispecie incriminatrice in questione), sia, più correttamente, le norme extrapenali rilevanti per l’operatività della stessa (‘‘abusivamente’’) (2) non possono considerarsi abrogate per l’intervento di norme comunitarie con esse incompatibili e su di esse prevalenti. L’idea che la norma di origine comunitaria, benché direttamente applicabile o direttamente efficace, è inidonea a porsi, rispetto alla norma interna, in una posizione identica o paragonabile a quella riguardante norme interne di diverso rango, sembra ancora meritevole di essere difesa. In altre parole, considerare le fonti comunitarie come facenti parte tout court del sistema o gerarchia delle fonti normative interne, nel significato proprio del diritto costituzionale (3), appare al momento un risultato su cui non si può convenire (4). Peraltro, posto il primato del diritto comunitario, è innegabile la sussistenza di un rapporto non paritario tra fonti, continuamente riscontrabile nella realtà dell’applicazione del diritto. Nel senso che le norme comunitarie dotate di certe caratteristiche prevalgono, grazie al meccanismo della disapplicazione o della non-applicazione (5), su quelle interne con esse contrastanti. Tuttavia, come si vedrà, sia la dottrina che la giuri(2) Quanto alla discussione sul carattere in bianco o meno della fattispecie cfr. ROMANO M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. Artt. 336-360 c.p., 1999, art. 348/4 ss. (3) PALADIN L., Diritto costituzionale, 1998, p. 137 ss. (4) Oltre a quanto si dirà in seguito, già prima facie si può osservare che le fonti comunitarie vanno ad alterare — senza però ridurre ad unità tutti gli ordinamenti statali e quello comunitario (PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, 1996, p. 434) — lo schema (espressione della sovranità statale) incentrato sul monopolio da parte di ogni ordinamento delle proprie fonti (sul rapporto tra teoria delle fonti e teoria degli ordinamenti v. CRISAFULLI V., voce Fonti del diritto, in Enc. dir., XVII, 1968, p. 930 ss.). Dalla necessità di rispettare pertanto questo schema è nata l’esigenza di rinvenire un fondamento costituzionale delle fonti comunitarie, individuato, come noto, nell’art. 11 Cost.: PALADIN L., Le fonti, cit., p. 436 ss. Nel senso di un’abrogazione implicita cfr. tuttavia di recente RIZ R., Unificazione europea e presidi penalistici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000, p. 185 s. (5) Sulla preferibilità del concetto di non-applicazione rispetto a quello di disapplicazione nel nostro ordinamento, dove vige il principio della sottoposizione del giudice alla legge (art. 101, comma 2,


— 370 — sprudenza costituzionale — seppure quest’ultima appaia più cauta, almeno nella forma — hanno seguito un percorso evolutivo di non poco rilievo: sì che, nonostante l’idea della separazione degli ordinamenti mantenga ancora un qualche significato, limitarsi a questo richiamo sembra attualmente forse riduttivo. Anzitutto, e per porre delle coordinate anche terminologiche, va chiarito come i rapporti tra norme comunitarie e norme interne non si pongano in termini di abrogazione o di annullamento. L’abrogazione in senso tecnico, come privazione dell’efficacia ex nunc (salvo eccezioni: art. 11, comma 1, preleggi) di una determinata norma da parte di una norma successiva, presuppone la sussistenza di un’antinomia normativa che viene risolta con il criterio cronologico (lex posterior derogat priori), per le leggi espressamente previsto all’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale. Quando invece la detta antinomia normativa viene risolta ricorrendo al criterio gerarchico (lex superior derogat legi inferiori) non si avrebbe, benché sul punto non vi sia unanimità di vedute, abrogazione, ma annullamento, nel senso che deve essere dichiarata l’illegittimità dell’atto, a questo punto viziato (6). Alla luce di ciò, se si ritengono valide queste premesse, l’abrogazione presuppone che il contrasto normativo si venga a creare tra fonti del medesimo rango; infatti, quando le fonti sono in rapporto gerarchico, quella superiore prevale su quella inferiore, non abrogandola, ma inficiandone la validità (7). Prescindendo ad ogni modo da tale distinzione, che peraltro fa emergere delle differenze sostanziali tra i due fenomeni (8), pare di poter dire che, ai limitati fini della questione in oggetto, anche una nozione ‘‘ampia’’ di abrogazione (quale sembra quella richiamata nella sentenza in commento) è assolutamente inidonea a fungere da punto di riferimento concettuale e dogmatico per spiegare il meccanismo della prevalenza del diritto comunitario: sia che si tratti di fonti pariordinate in successione cronologica, sia che si tratti di fonti sovra o sottordinate, anzitutto è necessario che si tratti di fonti dello stesso ordinamento. Si vede dunque come il problema sotteso all’inutilizzabilità di questi concetti attiene alla non lineare sistemazione delle fonti comunitarie nel quadro delle fonti del diritto italiano. A conclusione di questa prima parte pare utile ricordare i principali sviluppi della discussione sul punto. La tesi sostenuta dalla Corte costituzionale, di per sé non scorretta nelle premesse ed anzi lineare e coerente nelle conseguenze, trova il suo fulcro nell’affermazione che il diritto interno e il diritto comunitario ‘‘possono configurarsi come sistemi giuridici autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenze stabilita e garantita dal Trattato’’ (9). Di qui lo sviluppo ineccepibile che le norme comunitarie non entrano a comporre il sistema delle fonti interne Cost.) v. BIN R.- PITRUZZELLA G., Diritto costituzionale, 2000, p. 395 s. e anche Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168, in Giur. cost., 1991, p.1414. (6) Per una precisa e chiara distinzione tra abrogazione e annullamento, criterio cronologico e criterio gerarchico cfr. da ultimo BIN R.- PITRUZZELLA G., Diritto, cit., p. 303 ss.; in argomento cfr. anche CRISAFULLI V., voce Fonti, cit., pp. 955 s., 958, nota 71; PALADIN L., Diritto, cit., p. 141. (7) Di diverso avviso, ammettendo che vi possa essere abrogazione anche da parte di una norma superiore rispetto ad una inferiore (legge-regolamento), ad es. QUADRI R., Dell’applicazione della legge in generale, in SCIALOJA A.-BRANCA G. (a cura di), Commentario del codice civile, 1974, p. 321 s.; PUGLIATTI S., voce Abrogazione, in Enc. dir., I, 1958, p. 146, ma, in senso diverso, p. 151. (8) Pur non essendo pertinente al problema specifico, al fine di valutare la non inconsistenza della questione, si può ricordare, mutatis mutandis, come l’alternativa tra illegittimità (costituzionale) e abrogazione sia stata la prima questione affrontata dalla Corte costituzionale allorché i giudici si sono posti il quesito di come risolvere le antinomie venutesi a creare tra la sopravvenuta Costituzione e le leggi anteriormente formatesi: cfr. sul punto ZAGREBELSKY G., La giustizia costituzionale, 1988, p. 140 ss. (9) Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183, in Giur. cost., 1973, p. 2415, con un’osservazione di BARILE P., Il cammino comunitario della Corte. Quest’idea, successivamente confermata in Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. cost., 1984, p. 1114, è a tutt’oggi inderogabilmente sostenuta dalla Corte,


— 371 — con i riflessi sopra descritti (10). Ogni tipo di norma è valida ed efficace nel proprio ordinamento e si applica l’una o l’altra a seconda che la materia rientri nella competenza della Comunità oppure dello Stato. La dottrina ha sottoposto a verifica questa posizione ritenendola non tanto intrinsecamente erronea, perché basata su false premesse, quanto piuttosto unilaterale e sostanzialmente astratta. Rifacendosi a parametri meno o per nulla formali, se si osserva il modo con il quale il diritto comunitario di fatto vive ed opera nell’ordinamento interno appare inevitabile giungere alla conclusione che diritto comunitario e diritto interno non sono entità nettamente separabili, e anzi sembrano porsi in un rapporto di integrazione (11). Il che, come è evidente, non vuole dire accedere alla tesi c.d. monistica (12) strenuamente sostenuta dalla Corte di giustizia, anch’essa, a dire il vero, non del tutto aderente alla realtà: le norme interne non vengono affatto annullate o invalidate o comunque eliminate dalle norme comunitarie (13). Non si ha dunque né una situazione di autentica separazione secondo il significato ad essa originariamente attribuito dalla Corte costituzionale, né un rapporto gerarchico come vorrebbe la Corte comunitaria. La dottrina più recente è orientata a qualificare il rapporto tra fonti comunitarie e fonti interne richiamando il principio della preferenza: in maniera analoga a quanto da noi avviene tra fonti statali e fonti regionali, il diritto comunitario è preferito al diritto interno solo quando esso abbia esercitato in concreto le proprie competenze, vale a dire che fino a tale momento l’astratta pertinenza di un settore alle attribuzioni comunitarie non ostacola l’esercizio delle potestà normative nazionali (14). La stessa Corte costituzionale, del resto, finisce per stentare a difendere — non tanto formalmente, ma sostanzialmente — la teoria dualistica nella sua assolutezza. Infatti, non mancano prese di posizione che, seppur non incoerenti con le premesse di partenza, ne condizionano quasi fatalmente la tenuta. Si pensi — a seppure delle significative aperture nella sua giurisprudenza, di cui si dirà in seguito, ne ridimensionano non poco la portata. (10) ‘‘La distinzione fra il nostro ordinamento e quello della Comunità comporta, poi, che la normativa in discorso non entra a fare parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti aventi forza di legge) dello Stato... L’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall’abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all’interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti’’: Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170, cit., p. 1114 s. Per la sussistenza di ulteriori argomenti che sembrano confermare l’irriducibilità ad unico sistema delle fonti comunitarie e di quelle interne cfr. PALADIN L., Le fonti, cit., p. 423 ss. (11) Valga a ciò richiamare alcune circostanze: il ruolo svolto dai giudici nazionali, le modificazioni sostanziali all’apparato normativo interno, l’inconsistenza della tralatizia affermazione che, essendo le competenze comunitarie fondate sul principio di attribuzione, sia possibile in concreto operare una reale separazione degli ambiti. Per maggiori approfondimenti cfr. PALADIN L., Le fonti, cit., p. 426 ss.; BIN R.-PITRUZZELLA G., Diritto, cit., p. 399 s. (12) L’idea dell’integrazione tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali con prevalenza del primo sui secondi, è stata introdotta — poco dopo il riconoscimento dell’efficacia diretta delle norme del Trattato: Corte giust., 5 febbraio 1963 (Van Gend en Loos), in Racc., p. 3 ss. — a partire dalla sentenza Corte giust., 15 luglio 1964 (Costa c. Enel), in Racc., p. 1127 ss. In argomento v. FOIS P., voce Rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in Enc. giur. Treccani, XXV, 1991, p. 1 ss.; TESAURO G., Diritto comunitario, 1995, p. 119 ss. (13) CARTABIA M.-WEILER J.H.H., L’Italia in Europa, 2000, p. 174. (14) PALADIN L., Le fonti, cit., p. 431; CARTABIA M.-WEILER J.H.H., L’Italia, cit., p. 175 s.; nella sostanza, pare, già PIZZORUSSO A., Delle fonti del diritto, in SCIALOJA A.-BRANCA G. (a cura di), Commentario, cit., 1977, p. 490 s. Non manca tuttavia anche chi ritiene sostanzialmente corretto il ricorso al criterio gerarchico, come espressione di una piena integrazione tra fonti interne e fonti comunitarie al punto che la legge italiana in contrasto col diritto comunitario è disapplicabile perché illegittima, violando una norma di rango superiore: GRECO G., in AA.VV., Diritto amministrativo, 2001, I, p. 161 s.


— 372 — parte occasionali aperture anche nominali (15) — all’utilizzabilità delle fonti comunitarie direttamente applicabili quali parametri per il sindacato di costituzionalità delle leggi (16) o all’idoneità riconosciuta alle medesime di soddisfare le esigenze della riserva di legge (17) in alcuni ambiti da essa coperti e del principio di legalità (18), inteso nel senso di dare fondamento legislativo agli atti del potere esecutivo (19). Tornando, per concludere, all’inquadramento delle norme comunitarie nel sistema delle fonti interne, sembra che la soluzione migliore sia annoverarle tra le fonti-fatto (20) del nostro ordinamento. Sebbene le fonti in esame abbiano, intrinsecamente, natura ‘‘attizia’’, in quanto prodotte secondo precise regole proprie dell’ordinamento europeo, tuttavia dalla prospettiva del diritto interno la loro rilevanza è legata all’essere fatti, da cui discendono norme efficaci ed operative (21). 4. Il limite all’obbligatorietà della legge penale. — Dato e non concesso che l’assoluzione dell’imputato non trovi piena spiegazione nello schema dell’esercizio di un diritto — di cui si tratterà espressamente nel paragrafo che segue — il ragionamento sviluppato nella sentenza in commento rinviene il fondamento sostanziale della non punibilità in un livello ancora anteriore alla mancanza di antigiuridicità del fatto, vale a dire nella stessa operatività della legge penale, richiamando a questo proposito l’art. 3 c.p., la cui formulazione potrebbe offrire il necessario appiglio normativo. La legge penale non ‘‘obbligherebbe’’ eccezionalmente in quei casi stabiliti dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale, tra cui vi è senz’altro anche il diritto comunitario. Quindi, grazie all’art. 3 c.p. il giudice potrebbe (anzi, dovrebbe) non applicare la legge penale italiana allorquando essa, pur rimanendo formalmente in vigore, vede il suo campo di applicazione compresso o limitato dall’intervento di norme del diritto internazionale a cui l’ordinamento si conforma. (15) Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389, in Giur. cost., I, 1989, p. 1766: ‘‘ordinamenti reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti’’. (16) Corte cost., 10 novembre 1994, n. 384, in Giur. cost., 1994, p. 3449 ss.; Corte cost., 30 marzo 1995, n. 94, in Le Regioni, 1995, p. 1131 ss., con nota di BIN R., All’ombra della ‘‘La Pergola’’. L’impugnazione in via principale delle leggi contrarie a norme comunitarie, che osserva appunto come in questa maniera si avrebbe la ‘‘riprova che i due ordinamenti si sovrappongono, perdono la loro distinzione e si coordinano secondo le regole tipiche di un ordinamento unitario’’. Su tale problematica cfr. anche CARTABIA M., Nuovi sviluppi nelle ‘‘competenze comunitarie’’ della Corte costituzionale, in Giur. cost., I, 1989, p. 1016 ss., dove si rileva che tale equiparazione tra diritto comunitario e norme costituzionali è intimamente legata alla sottoposizione delle norme comunitarie al sindacato, ad opera della Corte costituzionale, rispetto ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale (su cui PALADIN L., Le fonti, cit., p. 441 ss.): e anche qui, tuttavia, la formale separazione degli ordinamenti viene salvata perché oggetto del controllo di costituzionalità è la legge di esecuzione del Trattato, autentica finzione, visto che in tale maniera la Corte potenzialmente controlla tutto il diritto comunitario. Sul diritto comunitario quale parametro di legittimità anche dell’atto amministrativo GRECO G., in AA.VV., Diritto amministrativo, cit., p. 162. (17) Corte cost., 27 novembre 1998, n. 383, in Giur. cost., 1998, pp. 3316 ss., 3327. (18) Corte cost., 10 novembre 1999, n. 425, in Giur. cost., 1999, pp. 3726 ss., 3742 s. (19) Per un’ampia e dettagliata analisi della progressiva evoluzione nella giurisprudenza delle Corte costituzionale sul rapporto tra fonti comunitarie e fonti interne cfr. CARTABIA M.-WEILER J.H.H., L’Italia, cit., p. 163 ss. (20) Con tale concetto si designano nella dottrina costituzionalistica più recente quelle fonti che danno origine a disposizioni richiamate nell’ordinamento, ma non prodotte da organi dello stesso sulla base di precise norme sulla produzione giuridica; caratteristica, quest’ultima, propria delle fonti-atto: BIN R.-PITRUZZELLA G., Diritto, cit., p. 294; cfr. sul punto anche PIZZORUSSO A., Delle fonti, cit., p. 22 ss. e CRISAFULLI V., voce Fonti, cit., p. 933 s. (21) PALADIN L., Le fonti, cit., p. 435 s.; BIN R.-PITRUZZELLA G., Diritto, cit., p. 399. Per PIZZORUSSO A., Delle fonti, cit., p. 488, gli atti comunitari costituiscono un ‘‘sottosistema distinto dal sistema generale delle fonti dell’ordinamento italiano’’, seppure le norme contenute nei regolamenti comunitari possono abrogare le norme statali anteriori in qualità di ius superveniens; analogamente anche CRISAFULLI V., voce Fonti, cit., p. 941.


— 373 — Questa costruzione appare in sé non solo intimamente coerente con le sue premesse, ma anche rispettosa del dettato normativo. Tuttavia non esente da alcuni rilievi. In primo luogo appare improprio il collegamento tra obbligatorietà e ambito di operatività della legge penale: nozione quest’ultima con la quale si intende la non corrispondenza tra un fatto storico e la norma astratta incriminatrice, così come, eventualmente, anche ridimensionata dalle norme comunitarie. Oggetto dell’art. 3, comma 1, c.p. è l’enunciazione del principio di territorialità della legge penale. Ciò è confermato indirettamente dalla contestuale presenza di altre norme (artt. 7-10 c.p.) — già ‘‘preannunciate’’ dal comma 2 dello stesso art. 3 c.p. — che, seppure riconoscendo elementi di collegamento tra reato e legge penale diversi dal territorio (22), regolano la medesima materia: l’ambito spaziale di applicabilità della legge penale. Questo sembra attualmente il significato più accreditato che va riconosciuto a tale disposizione, anche alla luce della disputa sul concetto di capacità penale (23). Al di là dell’utilità o meno di questa categoria in sé (24), interessa qui ribadire un punto di centrale importanza. Benché l’espressione ‘‘obbligatorietà’’ possa evocare un problema di individuazione dei soggetti nei cui confronti si rivolge la norma penale, l’idea, pur autorevolmente sostenuta (25), che vi siano soggetti non destinatari (come ad es. gli immuni o gli incapaci) del precetto, non sembra da condividere. A parte la circostanza che per sostenere la tesi contraria occorre assumere la scindibilità del precetto dalla sanzione (26), operazione comunque dogmaticamente sostenibile, sembra di potere dire che in termini ‘‘culturali’’ sia preferibile rimanere fermi al dato (forse ‘‘preconcetto’’) (27) che la norma di comportamento si pone come un imperativo nei confronti di tutti i consociati, tra i quali non ci possono essere soggetti legibus soluti: in quanto tale, allora, la norma penale non può non essere sempre obbligatoria (28). Conseguentemente, le eccezioni di cui si fa menzione nell’art. 3 c.p. non concernono la dimensione precettiva della legge penale, ma l’applicazione della sanzione in concreto, che può non avere luogo nei confronti di determinati soggetti (c.d. immuni), benché presenti nel territorio dello Stato (29). (22) Sui criteri astrattamente utilizzabili e sulla scelta concretamente operata dal nostro legislatore, cfr. ad es. PAGLIARO A., voce Legge penale nello spazio, in Enc. dir., XXIII, 1973, p. 1054 ss.; MANTOVANI F., Diritto penale, 2001, p. 932 ss.; MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso di diritto penale, I, 2001, p. 297 ss. ove ampia bibliografia. (23) Non potendosi qui soffermare sull’argomento, si rinvia a MORO A., La capacità giuridica penale, 1939; GALLO M., voce Capacità penale, in Noviss. Dig. it., 1958, p. 880 ss.; DELL’ANDRO R., voce Capacità giuridica penale, in Enc. dir., VI, 1960, p. 104 ss. (24) Utilità, comunque, scientifica, più che pratica, come riconosciuto dallo stesso MORO A., La capacità, cit., p. 67 s. (25) MORO A., La capacità, cit., p. 88 ss.; GALLO M., voce Capacità, cit., p. 884; DELL’ANDRO R., voce Capacità, cit., p. 115 ss.; BRICOLA F., Fatto del non imputabile e pericolosità, 1961, 88 s.; PAGLIARO A., voce Immunità (dir. pen.), in Enc. dir., XX, 1970, p. 220. (26) MORO A., La capacità, cit., p. 90 ss.; GALLO M., voce Capacità, cit., p. 882. (27) L’aggettivo, di MORO A., La capacità, cit., p. 91, si riferisce alle tesi dell’inammissibilità di ‘‘porre il Sovrano al di fuori del diritto’’. (28) Ad es. MANTOVANI F., Diritto, cit., p. 936; ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, I, 1995, art. 3/2. (29) ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte generale, 1997, pp. 138, 146 s.; MANTOVANI F., Diritto, cit., p. 846 ss.; ROMANO M., Commentario, cit., art. 3/3. Questa lettura è confermata anche da quegli autori che, pur non discostandosi dalla classificazione ‘‘tradizionale’’ dell’art. 3 c.p., vale a dire riferendolo all’ambito di validità, efficacia personale della legge penale, tengono a precisare che le eccezioni in esso contemplate non costituiscono propriamente delle deroghe al principio di obbligatorietà, ma si risolvono nella sottrazione del soggetto all’applicabilità della sanzione: FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, 1995, p. 121 s.; GRISPIGNI F., Diritto penale italiano, I, 1947, p. 370. Ad ulteriore riprova si consideri che quest’ultimo autore, pur distinguendo tra appunto ‘‘limiti di efficacia del diritto penale rispetto alle persone’’ e ‘‘limiti di efficacia del diritto pe-


— 374 — A questo punto appare chiaro che il nodo decisivo per attribuire all’art. 3 c.p. un significato piuttosto che l’altro sta proprio nella scelta di fondo, dalle forti sfumature ideologico-culturali, di riconoscere l’autonomia funzionale del precetto rispetto alla sanzione. La questione, come noto, non è affatto semplice, né si presta ad essere affrontata in questa sede. È però necessario dire che, al di là della ricchezza del dibattito intervenuto già da tempo sul problema, in termini (nuovamente) culturali pare preferibile considerare reato anche ciò che non è punibile, quando le ragioni della non punibilità siano legate a considerazioni esterne al disvalore oggettivo e soggettivo tipico dell’illecito penale (30). Su di un piano più tecnico, tuttavia, se si ha riguardo a certi riflessi applicativi e dogmatici della discussione sulla natura giuridica delle immunità (31), emergono profili che forse possono contribuire a rendere più lineare la tesi qui sostenuta rispetto all’altra. Il riferimento va alle problematiche della legittima difesa e del concorso di persone: se si ritiene che il fatto realizzato da certi immuni è penalmente irrilevante, in quanto essi non sono tenuti a rispettare le norme penali, per giustificare la possibilità di una reazione difensiva nei confronti dei loro comportamenti di per sé ‘‘tipici’’ e per punire i concorrenti, rispetto ai quali non si giustificherebbe l’esenzione dalla responsabilità, si compiono sviluppi interpretativi non inesatti, ma ad una visione complessiva viziati da una certa unilateralità di prospettiva. Riguardo alla legittima difesa, si dice che il requisito dell’ingiustizia non deve essere unicamente ricavato da norme penali, ma può discendere anche dalla violazione di norme di carattere extrapenale, se non addirittura da valutazioni sociali di giustizia. Quanto al concorso di persone, la circostanza che il fatto dell’immune sia penalmente lecito non impedirebbe che lo stesso fatto sia penalmente illecito rispetto ai compartecipi (32). Sulla problematica della legittima difesa, ricordando che la dottrina largamente maggioritaria è nel senso di considerare ingiusta l’offesa arrecata contra ius e non iure (33), si possono fare due osservazioni. Anzitutto pare opportuno tenere distinta la nozione di ingiustizia di cui all’art. 52 c.p. rispetto a quella presente negli artt. 62, n. 2 e 599, comma 2, c.p. (34), comunemente ritenuta integrata anche dalla contrarietà del fatto stesso a norme morali e sociali, oltre che giuridiche. La diversità dell’ingiustizia si ripercuote infatti, pur chiaramente grazie alla presenza di altri elementi, nell’eterogeneità degli effetti: nel caso della legittima difesa si ha una causa di giustificazione; nel caso della provocazione la valutazione dell’ordinamento si concentra sulla colpevolezza, escludendola o graduandola. Si aggiunga, come è stato autorevolmente osservato, che la connessione voluta dal legislatore tra ‘‘diritto’’ e ‘‘ingiustizia’’ suggerisce di attribuire al secondo termine la stessa estensione del primo, inscindibilmente legata a qualificazioni discendenti da nale nello spazio’’, ammette che le norme che li regolano si ispirano agli stessi principi e che le due questioni, pur se concettualmente diverse, ‘‘finiscono col coincidere’’ (op. ult. cit., p. 373 s.). Sulla sostanziale sovrapposizione degli ambiti dell’art. 3 c.p. (riferito alle persone) e dell’art. 6 c.p. (riferito ai fatti), v., oltre ai Lav. Prep., vol. V, parte I, p. 31, ANTOLISEI F., Manuale, cit., p. 117 s.; PAGLIARO A., voce Legge, cit., p. 1055, secondo cui una delle due disposizioni è ‘‘superflua’’. (30) Sulla problematica nel testo appena evocata mi limito a rinviare alle sintetiche, ma essenziali considerazioni di VASSALLI G., voce Cause di non punibilità, in Enc. dir., VI, 1960, p. 615 ss., ove ulteriore bibliografia. (31) Sulla questione cfr. PAGLIARO A., voce Immunità, cit., p. 218 ss.; ROMANO M., Commentario, cit., art. 3/20 ss. e da ultimo, ampiamente, MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso, cit., p. 347 ss. (32) Ad es. GALLO M., voce Capacità, cit., p. 884; PAGLIARO A., voce Immunità, cit., p. 220. (33) GROSSO C.F., Difesa legittima e stato di necessità, 1964, p. 126 ss.; FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale, cit., p. 249; MANTOVANI F., Diritto, cit., p. 269 s.; ROMANO M., Commentario, cit., art. 52/7 ss. (34) VIGANÒ F., in DOLCINI E.-MARINUCCI G., Codice penale commentato, 1999, art. 52/26.


— 375 — norme giuridiche (35). In secondo luogo, posto che la legittima difesa (quella di cui all’art. 52 c.p., e non all’art. 2044 c.c., anche se questa viene ricondotta interpretativamente alla prima) (36) implica il compimento di un fatto di reato, sembrerebbe in linea di principio preferibile ammetterla quando il pericolo di offesa sia legato ad una aggressione di ‘‘interesse’’ del diritto penale (37). Seppure, peraltro, la dettagliata previsione degli elementi costituivi dell’art. 52 c.p. (si pensi soprattutto al requisito della proporzione) condurrebbe probabilmente ad evitare in pratica l’eventualità che si giustifichi un fatto costituente illecito penale come reazione al pericolo di un illecito extrapenale. Per concludere sul punto, anche chi ritiene ‘‘formalmente ineccepibile’’ l’apertura operata dai sostenitori dell’incapacità penale degli immuni verso la sufficienza dell’illiceità solo extrapenale (apertura come si può intuire necessaria se si vuole ammettere la legittima difesa contro il fatto dell’immune ‘‘incapace’’) non manca di muovere comunque dei rilievi all’opinione qui criticata, fondati sia sul dato che talvolta l’immunità penale viene estesa anche al settore civile e amministrativo (venendo meno dunque l’argomento dell’antigiuridicità extrapenale), sia sull’idea, in precedenza ricordata, che i soggetti immuni non possono considerarsi legittimati a violare le norme penali (38). Quanto alla configurabilità di un concorso di persone, sembrerebbe ad una prima considerazione più coerente coniugare l’insussistenza in capo al soggetto immune di un dovere di astenersi dal commettere reati (come si sostiene) con la totale irrilevanza delle sue condotte a tutti gli effetti penali, quindi appunto, agli effetti del concorso di persone, come anche, ad esempio, del rapporto di presupposizione tra reati (si pensi alla ricettazione). Nel caso specifico della partecipazione criminosa si sostiene che, una volta rigettata la teoria dell’accessorietà (39), non vi sarebbero problemi a fare rispondere penalmente il concorrente dell’immune (40). Dogmaticamente il risultato può apparire sostenibile, ed anzi per certi versi viene in mente che ad esso si pervenga sulla base di un meccanismo del tutto analogo a quello operante col concorso di persone nel reato proprio, dove l’extraneus non è di per sé destinatario del precetto (41). A ben vedere, tuttavia, ci sono delle differenze. Quando si ha concorso nel reato proprio, l’extraneus viene punito come l’intraneus pur non essendo originariamente destinatario del precetto che vieta la realizzazione monosoggettiva del reato: lo diventa per così dire ‘‘dopo’’, e del precetto risultante dal combinato disposto dell’art. 110 c.p. e fattispecie di parte speciale. Nel caso degli immuni invece, si ha un contributo causale in premessa penalmente irrilevante, e penalmente irrilevante con riguardo non solo alla fattispecie di parte speciale, ma anche alla fattispecie allargata data, secondo i postulati della teoria sulla fattispecie plurisoggettiva eventuale, dall’incontro tra la norma di parte speciale e l’art. 110 c.p.: in quanto l’immunità spiegata come incapacità, andrebbe intesa come una situazione di piena affrancazione dal rispetto delle norme penali. Rimane difficile, allora, continuare a parlare di concorso. Vi sarà spazio, semmai, per un reato monosoggettivo, quando di esso siano integrati gli estremi. Del resto, che esistano dei limiti all’ammissibilità del concorso di persone alla stregua della teoria ora richiamata è cosa nota: basti pensare ai quei reati (35) GROSSO C.F., Difesa, cit., p. 115. (36) SCOGNAMIGLIO R., voce Responsabilità civile, in Noviss. Dig. it., XV, 1968, p. 654; ALPA G., in ALPA G.-BESSONE M., La responsabilità civile, 1987, p. 227. (37) In dottrina, peraltro, si tende prevalentemente ad ammettere la sufficienza di un fatto contrario a norme giuridiche anche extrapenali: GROSSO C.F., Difesa, cit., p. 124, nota 13 e voce Legittima difesa (dir. pen.), in Enc. dir., XXIV, 1974, p. 35 s., ove ulteriori riferimenti. (38) GROSSO C.F., Difesa, cit., p. 165 ss. (39) Su cui v. GRASSO G., in ROMANO M.-GRASSO G., Commentario sistematico del codice penale, II, 1996, pre-art. 110/19 ss. (40) GALLO M., voce Capacità, cit., p. 884, nota 8. (41) Su cui cfr. ancora GRASSO G., in ROMANO M.-GRASSO G., Commentario, cit., art. 117/1 ss.


— 376 — propri che richiedono l’esecuzione personale da parte dell’intraneus della condotta tipica (42). E allora, se si vuole restare fermi alle premesse di partenza, sembra che anche l’incapacità penale finisca per svolgere questo ruolo di limite alla configurabilità del concorso. Altrimenti, ci si può forse azzardare a dire, sarebbe come ritenere condotte rilevanti in termini concorsuali anche la condotta della vittima (s’intende, nelle ipotesi di concorso eventuale) o condotte del tutto estranee alla tipicità penale, eppure determinanti per l’evento come verificatosi hic et nunc (si pensi a chi si dimentica di chiudere la propria auto che poi viene usata da malviventi per compiere una rapina): vale a dire un nonsenso giuridico. Concludendo, posto che gli immuni indubbiamente (su questo si è tutti d’accordo) (43) possono compiere fatti penalmente rilevanti, nel senso che, pur non venendo assoggettati all’applicazione di sanzioni penali, i fatti stessi producono conseguenze giuridiche nell’ordinamento penale, pare a questo punto semplicemente più lineare riconoscere che l’immune è tenuto al rispetto delle norme penali e che realizza dei fatti almeno tipici, il che è la base per dare conto del perché ad essi sono legati specifici effetti giuridici penali (44): certamente diversi a seconda delle circostanze, ma che altrimenti si è costretti a riconoscere solo seguendo dei percorsi argomentativi che sembrano più accidentati. Alla luce di queste considerazioni, e se ben s’intende il senso del richiamo all’art. 3 c.p. nella sentenza, sembra fuori luogo utilizzare questa disposizione come una sorta di base legale in grado di recepire limiti alla tipicità dei fatti discendenti dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Questi rilievi risultano già assorbenti. Ma anche volendoli ritenere superabili, la tesi ricavabile dalla sentenza in commento mal si concilia con l’idea di ‘‘eccezione’’, essendo gli effetti della incidenza del diritto comunitario sugli ordinamenti nazionali un fenomeno non propriamente eccezionale, anche nel diritto penale, e comunque espressione di un assetto stabile e consolidato tra i due ordinamenti. Accedendo a questa prospettiva, le incongruenze della ricostruzione che qui si critica possono apparire forse ancora più evidenti allorché si facesse un passo ulteriore, concretizzando il riferimento alle eccezioni stabilite dal ‘‘diritto pubblico interno’’: ben potrebbe dirsi che anche il principio di offensività (45), quale limite alla configurabilità di fatti di reato, o se si vuole all’operatività della legge penale, di per sé si adatta allo schema dell’art. 3 c.p. Ma pure qui l’elemento dell’eccezionalità pare assolutamente incommensurabile con la portata generale del principio quale criterio per la formulazione delle fattispecie incriminatrici e per la loro interpretazione. In ultimo si consideri che la tesi della sostanziale corrispondenza tra obbligatorietà e limiti spaziali di applicabilità della legge risulta confermata anche secondo i canoni dell’interpretazione storica e sistematica. È vero, con riguardo al primo criterio, che una volta poste, le proposizioni normative ‘‘vivono di vita propria’’ e possono pertanto acquistare significati originariamente non voluti dal legislatore, tuttavia il richiamo alle sue intenzioni può ben servire ad adiuvandum. Dalla Relazione al codice penale emerge chiaramente che l’introduzione dell’art. 3, pur costituendo un elemento di novità rispetto al codice Zanardelli, viene incontro ad esigenze di maggiori precisione ed estensione del principio di territoria(42) GRASSO G., in ROMANO M.-GRASSO G., Commentario, cit., pre-art. 110/27; MANTOVANI F., Diritto, cit., p. 563 s. (43) Cfr. ancora GALLO M., voce Capacità, cit., p. 884, nota 8. (44) ROMANO M., Commentario, cit., art. 3/5. (45) MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso, cit., p. 449 ss.


— 377 — lità, che non alterano però il sistema adottato dal codice del 1889, incentrato, appunto, su questo criterio di collegamento (46). Dal punto di vista sistematico, poi, è noto che l’obbligatorietà della legge (penale e non) è sancita nel nostro ordinamento anche in altre sedi. Oltre all’ora abrogato art. 28 preleggi c.c., che ribadisce, senza la clausola di salvezza per le immunità, il principio di territorialità, si parla dell’obbligatorietà della legge anche all’art. 10 preleggi, indicandone il momento di inizio. Dal contenuto di questa norma si deduce che allora l’obbligatorietà è il carattere essenziale di una legge il cui procedimento di formazione è giunto a compimento, di una legge in vigore o, come anche si dice, astrattamente efficace, operativa, esecutoria (47). Chiaramente nei limiti (spaziali, che qui interessano) predeterminati dal legislatore. 5. La causa di giustificazione dell’esercizio del diritto. — A questo punto dell’analisi occorre tornare sullo schema della causa di giustificazione, ricordato nella sentenza, ma non ritenuto il migliore modello esplicativo. In particolare il giudice osserva che la scriminante dell’art. 51 c.p. si struttura su di un concorso di norme confliggenti (la fattispecie incriminatrice e la disposizione autorizzatrice), che viene risolto assicurando la prevalenza della norma ‘‘facoltizzante’’ (48). Si aggiunge poi che, siccome tale concorso va inteso nel senso di coinvolgere norme appartenenti allo stesso ordinamento, non è dato rinvenire il motivo (la ratio essendi) per il quale l’antinomia debba comunque essere risolta a favore di quella comunitaria. Se si è inteso bene il senso del rilievo mosso all’utilizzo dell’art. 51 c.p., non si vede tuttavia quale elemento possa consentire di concludere per la necessità che le norme confliggenti appartengano allo stesso ordinamento: al contrario, il carattere tendenzialmente aperto, ‘‘in bianco’’ (49) della disposizione sembra deporre in maniera lineare per il senso contrario (50). Ciò che pare decisivo per il funzionamento dell’art. 51 c.p. non è tanto che il ‘‘diritto’’ provenga da una fonte normativa interna, quanto che esso, indipendentemente dalla fonte, sia riconosciuto come tale dall’ordinamento (interno) e in questo, pertanto, sia invocabile. L’esigenza, senza dubbio correttamente richiamata, che non si dia ingresso nell’ordinamento interno ad istanze non solo a questo estranee, ma soprattutto non ‘‘vagliate’’, costituisce il nocciolo di verità di quelle posizioni, se si vuole, più diffidenti verso una classificazione tendenzialmente aperta delle fonti dei diritti scrimi(46) Lav. Prep., vol. V, parte I, p. 26. (47) Come essenziali riferimenti in argomento si può confrontare, oltre a PALADIN L., Diritto, cit., p. 351; MODUGNO F., L’invalidità della legge, II, 1970, p. 215 ss., in particolare, pp. 221, 223, 262; PIZZORUSSO A., La pubblicazione degli atti normativi, 1963, p. 65 ss.; QUADRI R., Dell’applicazione, cit., p. 46 ss.; SANDULLI A.M., voce Legge (dir. cost.), in Noviss. Dig. it., IX, 1963, p. 646 s. A questa nozione di obbligatorietà sembra riferirsi anche FROSALI R.A., voce Obbligatorietà della legge penale, in Noviss. Dig. it., XI, 1965, p. 540. (48) Sul meccanismo di operatività delle cause di giustificazione cfr. MARINUCCI G., Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p. 1228 s. (49) GROSSO C.F., L’errore sulle scriminanti, 1961, p. 199; MARINUCCI G., Fatto, cit., p. 1232. (50) In dottrina non sono mancate opinioni conformi alla tesi fatta propria nella sentenza (CARACCIOLI I., L’esercizio del diritto, 1965, p. 80; MANTOVANI F., voce Esercizio del diritto (dir. pen.), in Enc. dir., XV, 1966, p. 660 s.), tuttavia queste non tenevano conto delle specificità tipiche della produzione normativa comunitaria. Più recentemente, infatti, si è ampiamente d’accordo sulla compatibilità dell’art. 51 c.p. con diritti contemplati in fonti comunitarie: PEDRAZZI C., L’influenza della produzione giuridica della CEE sul diritto penale italiano, in CAPPELLETTI M.-PIZZORUSSO A. (a cura di), L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano, 1982, p. 623; LANZI A., La scriminante dell’art. 51 c.p. e le libertà costituzionali, 1983, p. 93 ss.; GRASSO G., Comunità europee e diritto penale, 1989, p. 269 e La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi riflessi sui sistemi penali degli Stati membri, in Riv. int. dir. uomo, 1991, p. 629; FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale, cit., p. 61; ROMANO M., Commentario, cit., art. 51/9; VIGANÒ F., in DOLCINI E.-MARINUCCI G. (a cura di), Codice, cit., art. 51/15; MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso, cit., p. 633, nota 44. In giurisprudenza v. da ultimo Pret. Milano, 30 aprile26 maggio 1999, in Dir. com. scambi int., 2001, p. 89 s.


— 378 — nanti (51). Tuttavia tale logica non è affatto smentita dalla tesi che riconosce effetti scriminanti a diritti di matrice comunitaria: la sussistenza di una base formale (52) che consente l’adeguamento del diritto interno a quello comunitario, a cui si assicura la prevalenza, unitamente alla perdurante validità del principio di attribuzione (art. 5 Tr. CE) (53), valgono ad evitare gli inconvenienti che si paventano. Così, come la presenza di una specifica ‘‘norma di collegamento’’ (54) legittima l’efficacia scriminante di un diritto non interno, alla stessa maniera funziona sul piano formale l’art. 11 Cost. Vi è certo la differenza che per le particolari caratteristiche del fenomeno comunitario i diritti con efficacia scriminante non sono sempre predeterminabili e sfuggono ad un controllo, per così dire, puntuale, da parte dell’ordinamento interno; tuttavia, la normativa comunitaria è comunque riconducibile ad una espressa ‘‘recezione’’ interna. Appurata l’astratta configurabilità di un conflitto di norme (interna e comunitaria), il criterio sulla base del quale il giudice nazionale deve fare prevalere quella comunitaria sta proprio nel principio, già più volte ricordato, della preminenza del diritto comunitario. In termini generali va ricordato che non ogni situazione di contrasto tra diritto interno e diritto comunitario va risolta con il meccanismo delle cause di giustificazione, in primis dell’esercizio del diritto: questo è un possibile modello esplicativo, ma non l’unico. La giurisprudenza, a dire il vero, si limita talvolta a segnalare o a prendere atto semplicemente di un generico conflitto tra la norma interna penalmente sanzionata e la norma comunitaria, da cui deriva la non punibilità della condotta in esame (55). Se da un lato questo è ciò che più conta, dall’altro lato non sembra secondario riflettere sulle ragioni di tale impunità: sia per una lettura concettualmente più precisa del ‘‘fenomeno’’ interferenza del diritto comunitario sul diritto interno, sia per possibili riflessi di ordine processuale e pratico. Anche sotto questo profilo, quindi, la sentenza in commento sembra emergere in un panorama giurisprudenziale poco incline ad interrogarsi esplicitamente sul perché della non punibilità, e giustamente si pone il problema di utilizzare la formula assolutoria più pertinente alla struttura di questo tipo particolare di incompatibilità, ricordandone le diverse conseguenze sulla responsabilità civile, amministrativa, disciplinare. Non è qui possibile riproporre i vari tentativi di sistemazione dogmatica delle forme di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale compiuti in dottrina (56): pare utile, tuttavia, richiamare lo schema dell’incompatibilità in senso proprio, strettamente contiguo a quello dell’esercizio del diritto, in (51) CARACCIOLI I., L’esercizio, cit., p. 81; MANTOVANI F., voce Esercizio, cit., p. 661. (52) Sul fondamento costituzionale dell’adesione dell’Italia all’Unione Europea cfr. CARTABIA M.WEILER J.H.H., L’Italia, cit., p. 129 ss. (53) Sull’attribuzione da parte degli Stati delle competenze e dei poteri alla Comunità v. ancora CARTABIA M.-WEILER J.H.H., L’Italia, cit., p. 101 ss., i quali, peraltro, sottolineano l’interessante fenomeno (già richiamato in precedenza) della progressiva erosione di questo principio nel corso dell’evoluzione storica della Comunità. (54) Per questo decisivo riferimento, cfr. CARACCIOLI I., L’esercizio, cit., p. 79 ss. (55) Tale fenomeno è praticamente inevitabile nella giurisprudenza della Corte di giustizia — tra le tante, ad es. da ultimo, Corte giust., 8 giugno 2000 (Carra e a.), in Attività della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado delle Comunità europee, n. 17/00, p. 14 ss.; — tanto più se si considera che la Corte medesima si rifiuta formalmente di pronunciarsi direttamente proprio sulla compatibilità tra diritto interno e diritto comunitario, operazione questa spettante ai giudici nazionali: da ultimo ad es. Corte giust., 3 maggio 2001 (Verdonck e a.), in Attività della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado delle Comunità europee, n. 11/01, p. 17. Anche le decisioni dei giudici nazionali, però, benché contengano la scelta della formula assolutoria, non sempre sembrano prestare particolare attenzione al meccanismo che porta alla decisione favorevole all’imputato: pare, così, ad es. Pret. Desio, 15 gennaio 1980, in questa Rivista, 1982, p. 402 ss.; Cass., 21 febbraio 1989, in Cass. pen., 1989, p. 1547 ss. (56) Per un esempio e per dei riferimenti bibliografici si rinvia a MAZZINI G., Prevalenza del diritto comunitario sul diritto penale interno ed effetti nei confronti del reo, in Dir. Un. Europea, 2000, p. 349 ss. Da ultimo v. anche MANTOVANI F., Diritto, cit., p. 977 s.


— 379 — quanto la fattispecie concreta in esame dà l’occasione per evidenziarne le reciproche differenze. La lettura dei fatti e del quadro normativo coinvolto, correttamente compiuta dal giudice, è nel senso che la normativa extrapenale di diritto interno che dà contenuto all’elemento dell’abusività è sostanzialmente contrastante con lo spirito della normativa comunitaria. Non vi è quindi una puntuale e specifica incompatibilità tra una norma interna penalmente sanzionata e una precisa disposizione comunitaria, che ad essa si sostituisca o comunque ne impedisca in toto l’applicabilità. In questo senso, allora, fermo rimanendo che comunque sarebbe improprio parlare di incompatibilità totale (dove la fattispecie penale astratta perde del tutto il suo disvalore in quanto non residuano spazi per una sua applicazione non in contrasto col diritto comunitario), rimane la possibilità di una qualificazione in termini di causa di giustificazione appunto, oppure di incompatibilità parziale, che porta ad individuare un limite all’applicazione del precetto. Pur in presenza di autorevoli studiosi che ritengono sostanzialmente equivalente l’uno o l’altro inquadramento (57), pare tuttavia più rispondente alla realtà delle cose non considerare questi due concetti del tutto fungibili, come si è altrove cercato di illustrare (58). Prendendo spunto dal caso in esame, lo schema dell’esercizio del diritto sembra lo strumento concettuale più appropriato per il motivo, già anticipato, che non è possibile, data la pluralità delle disposizioni extrapenali e comunitarie coinvolte, rintracciare un contrasto netto tra proposizioni normative ben precise e delimitate tale da consentire la non applicazione della fattispecie penale: se cioè si potesse dire che uno dei profili della condotta contestata si trovi a violare una specifica norma extrapenale e a rispettare invece un’altrettanto specifica norma comunitaria, allora, per il principio della prevalenza, la norma extrapenale non potrebbe proprio applicarsi, e, di conseguenza, verrebbe meno l’elemento dell’abusività. Non essendo però così, la norma extrapenale acquista la sua rilevanza e determina quindi la tipicità del fatto: questa, però, è superata dalla successiva constatazione che, nel caso concreto, dal complesso della normativa comunitaria pertinente emerge una facoltizzazione al compimento della medesima condotta incriminata. Inoltre, a ben vedere, seppure su di un piano solo astratto, prescindendo quindi dalla specificità del caso concreto, non si può escludere che ai due inquadramenti siano legati effetti diversi. Quello in termini di causa di giustificazione potrebbe risultare (forse, paradossalmente) più favorevole all’imputato di quello in termini di incompatibilità parziale, vale a dire di limite alla tipicità del fatto. In altre parole, avendo riguardo al diverso significato sul piano sostanziale di un’assoluzione ad es. perché il ‘‘fatto non sussiste’’ o perché ‘‘il fatto non è previsto dalla legge come reato’’ o perché ‘‘il fatto non costituisce reato’’ (59), sembra di potere dire che, se l’accadimento concreto viene qualificato come un fatto tipico ma giustificato, la sua piena liceità in tutto l’ordinamento impedisce di considerare rilevanti sotto un profilo amministrativo, civile o disciplinare quelle conseguenze che al medesimo fatto storico oggetto del procedimento penale siano (laddove lo siano) effettivamente riconducibili (60). Diversamente, se si accede alla qualificazione di fatto non tipico, penalmente non rilevante, non si può escludere a priori, pur con tutte le riserve legate alla necessità di un riscontro empirico, che l’agente sia chiamato a rispondere di eventuali violazioni di carattere extrapenale che risul(57) Per tutti, MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso, cit., p. 73. (58) MAZZINI G., Prevalenza, cit., p. 361 ss. (59) Per la tipologia e il significato delle formule processuali di assoluzione cfr. CORDERO F., Procedura penale, 2000, p. 915 ss. (60) Sulla circostanza che le scriminanti rendono un fatto lecito in tutto l’ordinamento vi è larghissimo accordo. Per tutti cfr. MARINUCCI G., Fatto, cit., p. 1231 s.; ROMANO M., Commentario, cit., preart. 50/5 ove ulteriori riferimenti.


— 380 — tassero intimamente legate alla verificazione di quell’accadimento storico accertato dal giudice penale (61). 6. Conclusioni. — Tirando le somme, la sentenza in commento presenta aspetti di sicuro interesse quanto all’attenzione nel classificare la non punibilità discendente dal principio di prevalenza del diritto comunitario. In particolare, l’evidenziazione dei profili dell’illecito penale su cui il diritto comunitario potrebbe incidere viene incontro oltre che ad istanze di classificazione dogmatica, anche ad eventuali profili pratici. Tuttavia non è sembrato pertinente l’aggancio all’art. 3 c.p.: seppure, come si diceva, l’operazione risulti apparentemente sorretta dalla lettera del testo normativo, una valutazione complessiva dell’istituto non può avallare una tale interpretazione. Va detto, però, che di per sé collegare nel settore penale il primato del diritto comunitario alla creazione di un limite alla tipicità appare sul piano valutativo un messaggio più forte, e soprattutto più coerente con le più recenti tendenze evolutive verso una sempre maggiore integrazione tra gli ordinamenti interni e quello comunitario, nella prospettiva già da tempo inaugurata dalla Corte di giustizia. GABRIELE MAZZINI Dottore di ricerca in Diritto penale italiano e comparato

(61) Non è evidentemente il caso di addentrarsi in una complessa problematica come quella del rapporto tra giudizio penale e procedimenti di carattere extrapenale — su cui si rinvia a GHIARA A., in CHIAVARIO M., Commento al nuovo codice di procedura penale, VI, 1991, p. 442 ss. Ai nostri fini pare sufficiente il rilievo compiuto nel testo, che trova conforto, in linea di principio, anche nella circostanza che l’ottica degli artt. 652-653 c.p.p. è specificamente processuale: sulla non identità della nozione di ‘‘fatto’’ processuale con quella di ‘‘fatto’’ (tipico) sostanziale, cfr. PAGLIARO A., voce Fatto (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XVI, 1967, p. 961 s.


RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)

Gli ‘‘altri effetti civili’’ (art. 732 c.p.p.) del riconoscimento della sentenza penale straniera. 1. È stato posto alla nostra attenzione il seguente caso. Era intervenuta una sentenza penale di condanna all’estero (in Corea), per inquinamento marino,nei confronti dei responsabili e degli addetti di una società locale incaricata delle operazioni di scarico di petrolio dalla nave alle tubazioni. Successivamente a quella condanna, la compagnia assicuratrice di tale società conveniva in giudizio, in Italia, i costruttori dei dispositivi — in seguito: P.B.B. — regolatori della fuoriuscita del petrolio, nell’intento di addebitare ai medesimi il carico (ingentissimo) della responsabilità civile per quell’inquinamento. Il convenuto si è posto il problema della possibilità e dell’utilità del riconoscimento, in Italia, della sentenza straniera di condanna di cui s’è detto. 2. Per affrontare tale problema occorre muovere dall’art. 12, n. 4, del vigente codice penale del 1930, alla stregua del quale è consentito (e — comma 2o, facilitato) il riconoscimento della sentenza penale straniera allorquando debba essere ‘‘fatta valere in giudizio sul territorio dello Stato agli effetti delle restituzioni o del risarcimento del danno, o ad altri effetti civili’’. Rispetto a questa norma sostanziale risulta ‘‘servente’’ la disciplina dell’art. 732 c.p.p. — che non diverge, sul punto, dalla disciplina del c.p.p. del 1930 — secondo cui l’interessato a far valere la sentenza straniera per i predetti ‘‘altri effetti civili’’ può domandare il riconoscimento ‘‘alla Corte d’appello nel distretto della quale ha sede l’ufficio del casellario competente ai fini dell’iscrizione’’. (Nel nostro caso, trattandosi di persone nate all’estero — art. 685, comma 2 — la Corte di appello di Roma). 3. La giurisprudenza non ha avuto occasione, neanche di recente (e salva una qualche più aggiornata verifica), di prendere posizione in ordine alla nozione di ‘‘altri effetti civili’’. 4. La dottrina, invece, fin dagli anni ’30, propone,in modo tralaticio, una serie di esempi rientranti in tale fattispecie, e, ovviamente, ne indica anche la ratio. Gli esempi: separazione personale; scioglimento del matrimonio per delitto; indegnità a succedere; revoca di donazione per ingratitudine (da ultimo v. M. Romano, R. Kostoris, P. Pittaro). La ratio: in questi casi, la sentenza penale riconosciuta può fare da ‘‘titolo’’ (Aloisi; Sabatini; Saltelli-Romano di Falco) ovvero da ‘‘fondamento’’ per la ‘‘pretesa’’ fatta valere (N. Levi). 5. Orbene, nel caso nostro, non è pensabile che la sentenza straniera possa fare da ‘‘titolo’’ o ‘‘fondamento’’, per una pretesa, o sia pure per una contro-pretesa del convenuto.

(*)

A cura di MARIO PISANI.


— 382 — Infatti, l’accertamento era stato mirato in ordine alle responsabilità — in agendo e/o in omittendo — degli operatori della manovra e — almeno da quanto risulta in prima approssimazione — non aveva invece affrontato (ed escluso) la prospettiva e la tematica di una qualche concausa, rappresentata — per quanto ci interessa — da un difetto costruttivo dei PBB. Perché si possa avere riconoscimento deve trattarsi, in sostanza, degli effetti civili del reato, e non già degli effetti civili ricavabili, o desumibili, addirittura dai ‘‘non-accertamenti’’ in qualche modo inquadrabili nell’iter di accertamento del reato. 6.

E con ciò, il problema potrebbe già dirsi esaurito, con una conclusione negativa.

7. D’altronde, esaminando lo stesso problema da un altro punto di osservazione, v’è da dire che — come pare ovvio — da una sentenza straniera riconosciuta non si può pretendere una maggior autorevolezza ed efficacia rispetto a quelle che discendono da una sentenza penale italiana. E del resto, si è sempre ritenuto (v., ad es., Cass., sez. II, 11 gennaio 1971, Cuel, RGI, 1972, voce ‘‘Sent. pen. straniera’’, n. 2) che ‘‘l’istituto del riconoscimento delle sentenze penali straniere non intende parificare l’atto giudiziale straniero a quello italiano, ma soltanto assumerlo quale fatto storico-giuridico per alcuni effetti tassativamente determinati dall’art. 12 c.p.’’. E proprio per quella ragione, occorre oggi far capo alla disciplina contenuta nell’art. 654 c.p.p. (Efficacia della sentenza penale (...) in altri giudizi civili o amministrativi). Secondo tale norma — che fa parte, ben differenziata, di un contesto di altre, attinenti ad altri tipi di efficacia della sentenza penale (artt. 651 ss.) — la sentenza penale, una volta divenuta irrevocabile, può avere, quoad facta, una sua efficacia vincolante, ma solo — v. l’esordio dell’articolo — ‘‘Nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale’’. Ha precisato la Cassazione civile (22 maggio 1992, n. 61614, CED Cass. n. 477338; si ricordano anche, in senso conforme, Cass. civ., 12 agosto 1994, n. 7405, in Giust. civ. Mass., 1994, 1090, ed un’altra sentenza del 1993) che l’art. 654 c.p.p. — in armonia con la sent. n. 55 del 22 marzo 1971 della Corte costituzionale dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 28 c.p.p. 1930 — esclude che l’accertamento dei fatti materiali oggetto di un giudizio penale sia vincolante nei giudizi civili nei confronti di coloro che siano rimasti estranei. E, per l’appunto, i costruttori dei PBB erano rimasti estranei all’accertamento penale straniero. V. anche. a tale proposito, Corte dei Conti, Sez. riun., 5 febbraio 1990, Morsello, in Cons. di St., 1989, II, 1841: l’art. 654 esclude la validità erga omnes dell’accertamento dei fatti effettuato in sede penale, introducendo, sostanzialmente, il principio della separatezza tra i giudizi. 8. Con tutto ciò, peraltro, non si può dire che il giudizio penale svoltosi all’estero non possa avere alcun rilievo od efficacia probatoria davanti al Tribunale italiano adito. Infatti, perfino in sede penale si parla, al di là della tassatività delle previsioni normative, di alcuni ‘‘effetti atipici’’, sia pur non senza contrasti, derivabili dalla sentenza penale (anche) non riconosciuta, ma pur presa in considerazione come fatto storico: ad es. per ricostruire la personalità del reo, determinare la pena, la concedibilità delle generiche, ecc. (e, dunque, ‘‘in odiosis’’). Ad ogni modo, si è precisato, quanto alla sede civile, che, a prescindere dal riconoscimento, resta fermo il fatto che la sentenza penale straniera ‘‘costituisce comunque un documento dal quale il giudice può trarne elementi di giudizio, sia pure non vincolanti (così Cass. civ., 12 agosto 1994, cit.; v. anche Cass. civ., 17 gennaio 1995, n. 482, in Foro ital., 1996, I, 1410). 9. È parso allora opportuno, per il convenuto, puntare verso la valorizzazione dell’autorevolezza (sia pure non vincolante) del documento/sentenza, dando risalto ai fondamenti probatori della sentenza straniera, quali risultavano, testualmente, dal quadro Evidence contenuto nella sentenza medesima (le risultanze di un’ispezione compiuta dalla polizia marittima; il parere espresso dagli esperti e di un istituto di ricerca specializzato).


— 383 — La ‘‘complicità’’ del ministro e la garanzia dei cardini. ‘‘Cesare Previti si appella a Scalfaro contro il pool Mani pulite e accusa il ministro Flick di complicità con la procura milanese: l’acquisizione della sua corrispondenza bancaria svizzera, che secondo il pool proverebbe i suoi rapporti con la Fininvest e con l’ex giudice Renato Squillante, rappresenta per l’onorevole di Forza Italia ‘‘una violazione macroscopica vicina alla violenza bruta, alla quale ha collaborato anche il Guardasigilli’’. In una lettera inviata al capo dello Stato, nella sua qualità di presidente del Csm e al presidente della Camera Luciano Violante, l’ex ministro sostiene in altre parole che il pool, andando a curiosare tra le famose ‘‘carte svizzere’’ che lo riguardano, avrebbe violato l’art. 68 della Costituzione: e cioè quello che tutela, oltre alla libertà personale dei parlamentari, la loro ‘‘libertà di corrispondenza e il diritto alla riservatezza di ogni forma di comunicazione’’. E Flick, scrive Previti, ‘‘aveva il dovere’’ di ‘‘rilevare che la richiesta di rogatorie per l’acquisizione di corrispondenza viola l’art. 68 della Costituzione’’. ‘‘Tutto ciò che è alla nostra attenzione — replica il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio — si riferisce al periodo in cui Previti non era parlamentare e non ha niente a che fare con la sua funzione di deputato. Inoltre tra gli atti non c’è nessuna corrispondenza a sua firma’’. Ma Previti ha indirizzato la sua lettera allo stesso Flick, al vicepresidente del Csm Carlo Federico Grosso, al procuratore generale presso la Cassazione Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, all’avvocato generale dello Stato Franco Morozzo della Rocca, al procuratore generale di Milano Umberto Loi e al procuratore di Brescia Giancarlo Tarquini: augurandosi che tutti costoro vogliano ‘‘prontamente intervenire per ristabilire e garantire i cardini di uno Stato di diritto’’ (...) (Da un servizio non firmato, apparso sotto il titolo: Previti si appella a Scalfaro: il pool viola la Costituzione, in Corriere della Sera del 4 aprile 1998, p. 13).

Italia-Svizzera: la ‘‘consegna diretta’’ in materia di rogatorie. 1. Con ordinanza 21 novembre 2001 il Tribunale di Milano sez. IV (presid. Carfì) prendeva posizione — nel corso di un procedimento a carico di Previti più altri (il c.d. processo Imi-Sir) — in ordine ad una serie di eccezioni di inutilizzabilità relative a documentazione varia acquisita per via rogatoriale. A venire in gioco era anche la tematica della trasmissione diretta, tra autorità giudiziarie, in materia di rogatorie. 2. Questa è stata la presa di posizione del Tribunale: ‘‘... In ogni caso, non può non sottolinearsi come la modalità della trasmissione diretta fra autorità giudiziarie sia da tempo in essere non solo nei rapporti italo-svizzeri, ma anche nei rapporti fra l’Italia e altri paesi con i quali siano state stipulate convenzioni internazionali in materia di assistenza penale, come oltre si vedrà. S’è già dato conto nella prima parte di questa ordinanza del valore cogente delle prassi internazionali, ricollegabili alla natura pattizia del vincolo che si viene a instaurare fra i paesi firmatari dei trattati internazionali; identiche considerazioni alla problematica inerente la c.d. ‘‘certificazione di conformità’’ vanno svolte con riferimento alla attuale supposta violazione dell’art. 15, commi 1 e 2 della CEAG [Convenzione europea di assistenza giudiziaria]. Rileva il Tribunale come anche in tal caso si possa individuare la esistenza di una prassi sempre più orientata a privilegiare la consegna diretta della documentazione inerente una richiesta rogatoriale così come si può desumere anche dalla evoluzione riscontrabile in tal senso negli accordi internazionali successivi alla stessa CEAG ed in particolare, come si vedrà, dall’accordo di Schengen e dallo stesso accordo italo-svizzero del 10 settembre 1998, di


— 384 — recente ratificato proprio con la legge della quale oggi si discute [l. 5 ottobre 2001, n. 367] (1). Risulta agli atti la nota 2 novembre 2001 con la quale l’Ufficio Federale di Giustizia della Confederazione Elvetica, proprio con riferimento a detta problematica esplicitamente afferma che: ‘‘le modalità di consegna diretta degli atti di esecuzione alle competenti AA.GG. dello Stato richiedente con relativa trasmissione della lettera certificante la consegna alle autorità centrali degli Stati richiedenti è considerata prassi sempre più in uso, nei rapporti tra il nostro ufficio e gli Stati parte alla CEAG. Lo scrivente ufficio non si oppone alla consegna diretta da parte delle autorità giudiziarie esecutrici di richieste svizzere alle autorità giudiziarie svizzere richiedenti ... in egual misura nessuna parte alla CEAG non si è mai opposta a tale modalità di trasmissione’’. È stata prodotta a conferma di ciò copiosa documentazione dalla quale risulta la effettiva esistenza di tale prassi, mai contestata in qualunque forma dal Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana. Si veda per tutte la nota 19 ottobre 2001 a firma del funzionario dell’Ufficio Federale di Giustizia Giorgio Bomio indirizzata al funzionario del Ministero della Giustizia italiano, ove la autorità svizzera precisa che: ‘‘tale modalità di trasmissione (id est: consegna diretta) è del resto già consuetudinaria nei rapporti tra le autorità dei nostri paesi’’: affermazione anche questa che, intervenuta tra l’altro dopo l’entrata in vigore della legge che qui ci occupa, non risulta oggetto di qualsivoglia contestazione da parte del Ministero della Giustizia italiano, e ciò in linea per altro con il comportamento sempre mantenuto in situazioni analoghe, come documentato in atti da numerose missive di trasmissione direttamente indirizzate alla A.G. italiana (cfr. oltre a tutte quelle relative al presente procedimento, quelle allegate alle note 18 ottobre e 2 novembre del 2001 dell’Ufficio Federale di Giustizia). A conferma della adesione del Ministero della Giustizia italiano a detta prassi, richiamata dalle autorità elvetiche, vanno ricordate le note 2 maggio 1996 e 29 novembre 1999 a firma del Direttore dell’Ufficio 2o del Ministero della Giustizia, laddove con riferimento a specifiche richieste di assistenza giudiziaria il precitato direttore dava per scontata la conformità alle norme CEAG della trasmissione mediante consegna diretta, esplicitamente affermando nei citati documenti: ‘‘Si resta in attesa di essere informati in merito all’esito della rogatoria e circa l’eventuale consegna diretta a codesto ufficio (id est: Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano) di copia degli atti di esecuzione’’ (nota 2 maggio 1996). ‘‘Si trasmette in allegato copia delle due note datate 16 novembre 1999 qui pervenute dall’ufficio Federale di Polizia di Berna, dalle quali risulta che la documentazione relativa alle rogatorie in oggetto è stata acquisita direttamente da codesta Procura della Repubblica’’ (cfr. nota 29 novembre 1999). E che la adesione da parte del Ministero della Giustizia italiano a tale prassi relativa alla consegna diretta della documentazione oggetto di rogatorie corrisponda tuttora alla effettiva volontà delle parti è confermato dall’art. XVII dell’accordo fra Italia e Svizzera del 10 settembre 1998, ratificato da entrambi i parlamenti degli Stati contraenti (sia pur non ancora reciprocamente notificato), laddove testualmente si afferma che ‘‘le domande di assistenza giudiziaria ... possono essere indirizzate direttamente alla autorità competente ad eseguire il provvedimento relativo alla assistenza e restituite per la stessa via’’. Proprio la continuità testimoniata sull’argomento dalla disposizione di cui sopra conferma la costante adesione nel tempo prestata dallo Stato Italiano alla prassi di cui si discute, che di conseguenza, per gli argomenti trattati in apertura dell’ordinanza e qui da intendersi riportati, non può che assumere valore cogente, sicché è legittimo concludere che nessuna violazione dell’art. 15 può dirsi integrata neppure alla luce del novellato art. 729 c.p.p. Del resto proprio nei più recenti accordi di cooperazione internazionale anche in campo

(1)

L’accordo non risulta in vigore alla data del 31 gennaio 2002.


— 385 — penale, ratificati dalla Repubblica Italiana, si può cogliere chiaramente la volontà di aderire a modalità di collaborazione snelle e rapide, e proprio per ciò che qui maggiormente interessa, con riferimento alla c.d. trasmissione diretta sia della richiesta che degli esiti della rogatoria. Ci si riferisce in particolare all’accordo di Schengen ratificato dall’Italia con l. 30 settembre 1993, n. 388, laddove all’art. 53 comma 1 testualmente si afferma: ‘‘le domande di assistenza giudiziaria possono essere fatte direttamente tra le autorità giudiziarie e nello stesso modo possono essere rinviate le risposte’’. Volontà, per altro, con specifico riferimento ai rapporti con la vicina Confederazione elvetica, già espressa dal governo italiano da 133 anni, a far data dalla ‘‘Convenzione di stabilimento e consolare’’ del 22 luglio 1868 [decr. 5 maggio 1869, n. 5052] stipulata tra ‘‘Sua maestà il re d’Italia e il Consiglio Federale della Confederazione svizzera’’, nonché dal Protocollo concernente la esecuzione delle convenzioni stipulate tra l’Italia e la Svizzera a Firenze e a Berna il 22 luglio 1868, protocollo recante la data dell’1 maggio 1869 (2). Si stabilisce all’art. 9 della convenzione per prima citata che ‘‘le citazioni o le notificazioni degli atti, le dichiarazioni o gli interrogatori dei testimoni, le perizie, gli atti di istruzione giudiziaria e, in generale, tutti gli atti che devono avere esecuzione in materia civile o penale a seguito di commissione rogatoriale del Tribunale di un paese sul territorio dell’altro dovranno ricevere esecuzione su carta non timbrata e senza pagamento di imposte’’. Si precisa all’art. 3 del protocollo di esecuzione dell’1 maggio 1869 che ‘‘per l’esecuzione dell’art. 9 della convenzione consolare resta stabilito che le Corti d’Appello di Italia e il Tribunale Federale e il Tribunale Superiore di ciascun Stato della Confederazione Elvetica corrisponderanno d’ora in avanti, direttamente tra di loro per tutto quello che riguarda la trasmissione di lettere rogatorie sia in materia civile che in materia penale’’. Appare dunque chiaro che quanto meno fin dal 1869 i rapporti fra i due Stati in materia di richieste rogatoriali hanno inteso privilegiare, quanto alle modalità della trasmissione, la comunicazione diretta fra le rispettive autorità giudiziarie. E che detta normativa sia tuttora in vigore non può essere revocato in dubbio atteso che lo stesso art. 15, comma 7 CEAG testualmente prevede che ‘‘il presente articolo non pregiudicherà le disposizioni degli accordi o pattuizioni bilaterali tra parti contraenti nelle quali sia prevista la trasmissione diretta delle domande di assistenza giudiziaria tra le autorità delle parti’’. Sicché si può affermare che, nei rapporti italo-svizzeri, la trasmissione diretta tra Autorità giudiziarie più che dalla prassi deriva da una norma convenzionale ancora in vigore, per quanto antica. Unica ‘‘novità’’ appare essere solo quella delle autorità tra le quali intercorre la trasmissione diretta, indicata allora per parte italiana nella Corte di Appello ed oggi, a seguito delle disposizioni dello stesso art. 15 della CEAG, nella autorità giudiziaria procedente’’. 3. A titolo di contributo d’ordine storico in merito al nostro problema riportiamo alcuni passi del ‘‘Processo verbale delle riunioni fra una delegazione italiana ed una delegazione svizzera per l’esame delle questioni inerenti all’assistenza giudiziaria penale e all’estradizione — Berna, 19/22 giugno 1984’’ (per il testo integrale v. Ind. pen., 1985, p. 436 ss.): ‘‘(...) I. ASSISTENZA GIUDIZIARIA Vie di trasmissione. a) Le delegazioni italiana e svizzera hanno rilevato l’esigenza di semplificare le vie di trasmissione delle domande di assistenza giudiziaria. Le autorità dei due Paesi esamineranno la possibilità di pervenire a tal fine, eventualmente mediante la conclusione di un accordo aggiuntivo alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria. L’accordo potrebbe regolamentare anche altre questioni inerenti all’assistenza giudiziaria, agli effetti previsti all’art. 26, par. 3, della Convenzione stessa.

(2) Per il Protocollo di cui nel testo v. Codice degli accordi giudiziali internazionali in materia civile e penale, a cura di S. BAGNATO, L. SALTERIO e G. MAMBRINI, 1968, p. 489; La Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, a cura di P. LASZLOCZKY, 1984, p. 189.


— 386 — Sino a quando non si pervenga a tali intese, continueranno a trovare applicazione fra le parti la Convenzione europea di assistenza giudiziaria ed il Protocollo concluso il 1o maggio 1869. Ai fini dell’esatta applicazione di quest’ultimo, la parte svizzera trasmetterà al Ministero di Grazia e Giustizia italiano una lista delle autorità cantonali competenti a trasmettere e ricevere le domande di assistenza giudiziaria ai sensi del Protocollo medesimo’’. 4. Sulla vigenza del predetto Protocollo v.: per la parte italiana, LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. I, 1961, p. 80, nota 14; per la parte elvetica, PONCET e NEYROUD, , L’éxtradition et l’asile politique en Suisse, 1976, p. 101; SCHMID-FREI-WISS-SCHOUVEY, L’entraide judiciaire internationale en matière pénale, 1981, p. 271; ZIMMERMANN, La coopération judiciaire internationale en matière pénale, 1999, p. 34. V., inoltre, la sent. del Tribunale Federale 19 febbraio 1990 (ATF 116 I b86) nella causa D. e litise contro Camera dei ricorsi penali del Tribunale di appello e Giudice istruttore sottocenerino.

Un primo caso di collegamento audiovisivo per una rogatoria per l’estero. 1. Nel trasmettere il materiale relativo alla rogatoria da lui espletata, il giudice dott. Guido Salvini — che qui vogliamo ringraziare — osservava opportunamente quanto segue: ‘‘Si tratta della richiesta da parte delle Autorità inglesi di ascoltare in Italia in collegamento audiovisivo con una Corte londinese un testimone di nazionalità spagnola ma residente a Milano. Ciò nell’ambito di un procedimento penale in corso a Londra nei confronti di un cittadino iraniano detenuto per i reati di commercio fraudolento e frode in danno di una banca. Il testimone avrebbe dovuto recarsi a Londra nel mese di ottobre, ma aveva fatto presente le sue difficoltà dovute alle recenti evenienze del traffico aereo e al disastro di Linate e aveva comunque manifestato la sua disponibilità ad essere sentito in Italia. Le Autorità inglesi hanno subito chiesto l’applicazione a titolo di reciprocità dell’art. 16 della l. 5 ottobre 2001, n. 367 che aveva introdotto l’art. 205-bis c.p.p. prevedendo il collegamento audiovisivo per le rogatorie attive. Il Ministro di Giustizia, con nota in data 22 ottobre 2001, aveva dato subito un’interpretazione favorevole alla possibilità di espletare anche la rogatoria passiva in tale forma. Infatti l’art. 205-bis fa riferimento a quanto previsto da accordi internazionali in questo caso non ancora specificamente esistenti (a differenza ad esempio dell’art. 6 dell’Accordo con la Svizzera) ma sotto tale profilo dovevano essere tenuti in considerazione sia l’obbligo generale della più ampia collaborazione di cui all’art. 1 della Convenzione Europea sia l’art. 10 del Trattato del maggio 2000 dell’Unione Europea il quale, benché non ancora ratificato, prevederà specificamente per tutti i Paesi europei lo strumento dell’audizione mediante videoconferenza. Visto che normalmente e non a torto si parla della lentezza della Giustizia italiana in campo europeo va segnalata la rapidità della procedura cui si è deciso di aderire. La richiesta delle Autorità inglesi è infatti del 15 ottobre, la nota del Ministro del 22, la richiesta del Procuratore Generale del 24 e già il 31 ottobre, il sottoscritto, quale GIP delegato dalla Corte d’Appello, ha potuto svolgere la videoconferenza anche grazie all’impegno sul piano del raccordo tecnico del magistrato inglese di collegamento’’ (3). 2.

Segue la parte più importante della documentazione:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, Direzione Generale degli Affari Penali delle Grazie e del Casellario - Ufficio II, Roma, 22 ottobre 2001. — Procura generale presso la Corte di Appello di Milano; Direzione Ge-

(3)

Per un cenno a tale magistrato v. in questa Rivista, 2001, p. 1441.


— 387 — nerale degli affari civili - Ufficio IV, Sede, 06/68897471; Dipartimento amministrazione penitenziaria Uff. IV, Settore Multivideocomunicazione, Sede, Fax 06/661165808. OGGETTO: richiesta di assistenza giudiziaria internazionale formulata il 15 ottobre 2001 dal Crown Prosecution Service britannico, nel procedimento penale a carico di Abdul Latif. Audizione in videoconferenza di Sanchez Carlos. Visto l’art. 723 del codice di procedura penale, visto l’art. 16 della l. 5 ottobre 2001, n. 367 (G.U. 8 ottobre 2001) e le disposizioni dell’art. 205-ter, comma 5 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, si trasmette la richiesta di assistenza giudiziaria in oggetto. Si prega darvi corso con ogni possibile sollecitudine, e con le modalità che l’Autorità giudiziaria britannica ha esplicitamente richiamato e di inviare copia della presente nota all’A.G. che sarà delegata all’esecuzione, unitamente al testo della richiesta. La richiesta ha per oggetto l’escussione di un testimone che l’Autorità britannica ha disposto venga eseguita con il sistema della videoconferenza internazionale in collegamento con l’Italia e l’interessato ha confermato di essere disposto a rendere testimonianza tramite questo sistema. Agli effetti dell’art. 696 c.p.p., si segnala che alla rogatoria in oggetto è applicabile la Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 (L. 23 febbraio 1961, n. 215). Questa convenzione impegna gli Stati aderenti, all’art. 1, a prestarsi reciprocamente ‘‘la più ampia collaborazione giudiziaria in ogni procedimento concernente reati la cui repressione è, al momento in cui l’assistenza viene richiesta, di competenza delle autorità giudiziarie dello Stato richiedente’’. Si ritiene opportuno segnalare, altresì, che la Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, stabilita dal Consiglio dell’Unione il 22 maggio 2000, che l’Italia si prepara a ratificare, disciplina, all’art. 10, l’audizione mediante videoconferenza. Considerato che l’art. 725, secondo comma c.p.p. prevede che, per il compimento degli atti richiesti, si possano applicare le forme espressamente richieste dall’A.G. straniera che non siano contrarie ai principi dell’ordinamento giuridico dello Stato, si ritiene utile, anche a fini di reciprocità, assicurare l’uso di tale strumento di esecuzione. A tal fine si renderà necessario poter effettuare il collegamento audiovisivo a distanza tra il Tribunale penale di Southwark Crown Court, in Londra e la località in cui sarà escusso il teste. In vista dello svolgimento dell’attività ed in attesa che le Autorità italiane interessate effettuino gli adempimenti di competenza, viene contestualmente informato il Settore Multivideocomunicazione dell’Ufficio IV del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Roma, preposto alla cura degli aspetti di cui sopra. Pertanto si potrà fare capo direttamente al suindicato Ufficio, del quale si indicano qui di seguito i referenti: Responsabile: Magistrato dott. Francesco Patrone; Ispettore Chiani, Ispettore Pellegrino; Telefoni: 06/66591287/8/9; Fax: 06/66165808. Per quanto riguarda, invece, il referente britannico, è stato indicato il signor Lew Graham quale responsabile tecnico (tel. 0044/207/622/7200, fax 0044/ 207/522/7300) e l’apparecchiatura utilizzata è Picturetel Venue 2000, con velocità di trasmissione di 384 Kbps.; inoltre, il Magistrato di collegamento con le Autorità britanniche insediato presso questo Ministero, attualmente Miss Sally Cullen, che risponde al numero telefonico 06/6885-2914, potrà assicurare il proprio interessamento per il migliore esito del caso. Si fa presente, da ultimo, che l’Autorità centrale britannica ha espressamente assunto l’impegno di sostenere i costi della videoconferenza e dell’attività di interpretariato eventualmente necessaria. CORTE D’APPELLO DI MILANO, 5A SEZIONE PENALE, n. 224/01 Rog. Int., n. 2001, Rog. 245, Rog. Gen. La Sezione Procedimenti Speciali presso la Corte d’Appello di Milano, composta dagli Ill.mi Signori: Dott. G. Riccardi, Presidente; Dott. M. Maiello, Consigliere; Dott. A. Nova, Consigliere. Letta la rogatoria in data 15 ottobre 2001 emessa dal Pubblico Ministero di Londra, (Inghilterra) nel proc. pen. c/Latif Abdul per commercio fraudolento e frode, con la quale si chiede l’audizione in videoconferenza da parte del giudice della Corte di Southwork in Londra, del teste Sanchez Carlos, reperibile presso El Corte Ingles s.r.l. Milano, via Boncompagni 3/B. Letti gli allegati. Letta la requisitoria del Procuratore Generale presso codesta Corte d’Appello in data 24 ottobre 2001 con la quale si chiede che sia dichiarata esecutiva nella Repubblica la rogatoria suddetta, commettendone l’esecuzione al giudice competente ai sensi dell’art. 725 c.p.p. Avvisato il Procuratore Generale in data 25 ottobre 2001, Ritenuto che la richiesta non è contraria a disposizioni di legge, né ai principi generali dell’ordinamento della Repubblica; Visti gli artt. 724-725 c.p.p. ORDINA l’esecuzione nella Repubblica della rogatoria di cui si tratta, delegando per gli incombenti relativi il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Milano. Milano, 26 ottobre 2001. TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI MILANO, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, n. 262/01 Reg. Rog. Gip. VERBALE DI ROGATORIA INTERNAZIONALE - AUDIZIONE TESTIMONIALE (art. 723 e ss. c.p.p.). Il giorno 31 ottobre 2001, alle ore 15.50, presso l’aula della I Corte d’Assise di Milano, Palazzo di


— 388 — Giustizia — 1o piano, dinanzi al Giudice per le Indagini Preliminari, dr. Guido Salvini, assistito per la redazione del presente atto dal Cancelliere Rosa Pitrè Santarsiero, procede all’audizione testimoniale richiesta con rogatoria internazionale dalla Corte di Southwark in Londra nel procedimento penale c/Latif Abdul per commercio fraudolento e frode. Sono presenti: — la signora Liliane Meyer in qualità di interprete. — il dr. Davide Vetri, operatore giudiziario addetto all’Ufficio del Giudice procedente. — il signor Renato Canali, in qualità di tecnico addetto al collegamento audiovisivo. Il Giudice dispone che il teste venga introdotto in aula e lo invita a dichiarare le proprie generalità: Sono SANCHEZ CARLOS, nato a Madrid (Spagna) il 7 agosto 1956 e domiciliato a Milano, in Via Carlo Boncompagni, n. 3/b presso EL CORTE INGLES S.r.l. Italia. Il Giudice dà atto che è stato attivato il collegamento audiovisivo con l’Autorità Giudiziaria richiedente con le modalità previste dalla richiesta di rogatoria internazionale in data 15 ottobre 2001 e preliminarmente, anche a richiesta del Giudice della Corte di Southwark, invita il teste a giurare secondo la formula di cui all’art. 497 c.p.p. e cioè: ‘‘Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza’’. Il teste, il quale dichiara di comprendere e parlare la lingua italiana, risponde: ‘‘LO GIURO’’. Dopo tale formalità viene dato inizio all’esame del testimone ponendo allo stesso domande in lingua inglese che vengono tradotte dall’interprete in lingua italiana e viene tradotta in lingua inglese la relativa risposta. L’esame viene iniziato dal Crown Prosecutor presente in udienza e segue il controesame del difensore dell’imputato Abdul Latif e seguono ulteriori domande da parte del Crown Prosecutor. Si dà atto che l’audizione verte su quanto indicato nella richiesta di rogatoria internazionale e cioè eventuali acquisti di tappeti orientali da parte della società EL CORTE INGLES dalla ditta PARS ORIENT Ltd. di Londra di cui è amministratore l’imputato. Al testimone sia il Crown Prosecutor sia il difensore mostrano tramite il video vari documenti e fatture relative alla presunta vendita di tappeti da parte della PARS ORIENT. Si dà atto che il testimone risponde a tutte le domande e non viene mai richiamato e l’audizione termina alle ore 17.10 con soddisfazione dell’Autorità Giudiziaria richiedente. La videocassetta contenente la registrazione dell’udienza sarà trasmessa alla Procura Generale della Repubblica di Milano unitamente al presente verbale e agli altri atti per l’ulteriore inoltro all’Autorità richiedente. (Seguono le firme del giudice Salvini, dell’operatore giudiziario e dell’interprete).

Il Liechtenstein e le indagini giudiziarie europee. Nel settembre 1998 si era svolto, su invito di alcuni parlamentari francesi, un incontro, di fronte all’Assemblea nazionale, coi magistrati firmatari dell’‘‘Appello di Ginevra’’ (1996) (4). Ne era scaturita l’idea di una ‘‘missione parlamentare’’, denominata ‘‘Missione d’informazione comune sugli ostacoli al controllo e alla repressione della delinquenza finanziaria e del riciclaggio dei capitali in Europa’’. La ‘‘missione’’ — presidente V. Peillon, relatore A. Montebourg — ha curato la stesura di un primo rapporto (tomo I, vol. 1), dedicato alla situazione del Liechtenstein (5). Pubblichiamo alcuni brani del rapporto, nel testo italiano stampato in appendice al volumetto dal titolo I paradisi fiscali (Asterios Ed., Trieste, 2001, p. 72 ss.). ‘‘... Il ministro della giustizia, Heinz Frommelt, ha assunto una posizione di principio, dichiarando che ‘‘il Liechtenstein ha l’obbligo ... di lottare contro la criminalità organizzata’’ e che ‘‘la cooperazione nell’ambito del riciclaggio è assolutamente necessaria al fine di ridurre le opportunità del crimine organizzato in questo dominio’’. A questo discorso accomodante, il vostro relatore ha deciso di controbattere con un’esposizione della realtà, e ha riferito con risoluta chiarezza alle autorità del Liechtenstein ‘‘l’esasperazione dei giudici istruttori francesi, che, quando hanno la sventura di doversi rivolgere all’autorità finanziaria del Liechtenstein in merito a un caso di delinquenza finanziaria o di riciclaggio di capitali, non ottengono, se non raramente, ovverosia praticamente mai, al-

(4) (5) 1260.

Se ne veda il testo in questa Rivista, 1997, p. 1509. A tale riguardo v. In tema di ‘‘paradisi fiscali’’: Il Liechtenstein..., in questa Rivista, 2000, p.


— 389 — cuna risposta’’; il vostro relatore ha poi ritenuto opportuno aggiungere che questa situazione è ampiamente condivisa dai magistrati europei. Così il Ministero della giustizia italiano ha reso noto alla Missione che su 39 commissioni rogatorie internazionali trasmesse al Liechtenstein tra il 1995 e il 1999, ben 19 non avevano mai ottenuto alcuna risposta (6). Il ministro della giustizia Heinz Frommelt si è dichiarato pienamente d’accordo sul fatto che talune richieste dei magistrati italiani vertevano su casi di estrema gravità, ma ha addossato la responsabilità dell’inerzia di cui avevano fatto prova le autorità del Liechtenstein agli stessi italiani. La Svizzera, paese vicino e amico, non è stata affatto trattata con maggiori riguardi. Anche il giudice Paul Perraudin ha dovuto negoziare per cercare di far procedere il disbrigo di casi difficili dei quali era stato incaricato, ma vanamente e, in definitiva, senza esito alcuno. Norbert Marxer, capo del servizio giuridico del governo, ha d’altra parte riconosciuto dinanzi alla Missione: ‘‘Per quel che riguarda il caso di Ginevra, siamo addivenuti a una composizione amichevole, giacché il signor Perraudin non aveva preso in considerazione le tre diverse fasi’’. Nel corso di una conferenza stampa tenuta il 19 gennaio, il procuratore generale del cantone di Ginevra, Bernard Bertossa, ha dichiarato: ‘‘Il Liechtenstein è un pessimo esempio in fatto di cooperazione internazionale sul riciclaggio del denaro, perfino in confronto alla Svizzera’’. Il 24 gennaio, in occasione della visita del capo della diplomazia svizzera Joseph Deiss, il primo ministro del Liechtenstein, Mario Frick, è arrivato a riconoscere davanti alla stampa che ‘‘una decina di casi riguardanti la Svizzera, che presentavano dei problemi rilevanti, erano stati fatti oggetto di un trattamento fin troppo lento’’. I casi che approdano al Liechtenstein e finiscono per insabbiarsi sono assai numerosi. Alla Missione sono state riferite molte situazioni che sono state oggetto di un rifiuto di cooperazione da parte delle autorità locali. Esse illustrano alla perfezione gli ostacoli creati dal Liechtenstein per opporsi a ogni richiesta di cooperazione. Il carattere stereotipato delle risposte attesta innanzitutto la scarsa attenzione concessa al trattamento di queste richieste. Le autorità del Liechtenstein rendono note le tre fasi della procedura, poi precisano che la concessione di cooperazione viene valutata in base alla convenzione europea del 1959 e, in maniera complementare, facendo riferimento alla legge nazionale sulla cooperazione giudiziaria (RHG), prima di basarsi su un articolo di questo testo per non fornire le informazioni richieste. La legge del Liechtenstein ammette ogni sorta di rifiuto della cooperazione. Possono essere invocati vizi di forma che sono sufficienti a respingere la richiesta. Sono altresì invocate delle ragioni di principio che sottopongono l’accoglimento o il rifiuto dell’assistenza all’esercizio di un potere puramente discrezionale. Così alcune richieste sono state respinte solo in quanto non giustificate, poiché ciò che veniva domandato non era dichiarato indispensabile per l’accertamento della prova. La ricerca della prova deve sottostare a condizioni talmente restrittive da rendere praticamente impossibile una risposta positiva di cooperazione. Se da un giudice istruttore francese, il quale indaga su una società panamense o costaricana che ha un conto o una fiduciaria in Liechtenstein, si pretende che egli abbia già richiesto le informazioni al Panama o al Costa Rica, il Principato esige, per accordare la sua cooperazione, che quel giudice abbia già ottenuto quelle stesse prove per cui si è appunto rivolto al Liechtenstein. In questo modo, il Principato attua, in netta malafede e con la più marchiana ipocrisia, una politica di deliberato intralciamento. Bisogna rilevare, d’altronde, che il Liechtenstein rifiuta di rispondere a richieste di informazioni bancarie di carattere generico, e che non esiste nel paese un archivio generalizzato di informazioni del genere della FICOBA francese. In Francia, infatti, quest’archivio con-

(6) ‘‘... Finora Vaduz ha evitato di rispondere alle richieste di collaborazione inviate dai giudici di mezzo mondo alla caccia di denaro sporco. Per fare un esempio, da tre anni sono ferme nel principato le richieste di assistenza inviate dalla Procura di Milano che indaga sul caso Imi-Sir in cui è coinvolto Cesare Previti (...)’’ (V. MALAGUTTI, Liechtenstein, il voto batte ‘‘mani pulite’’, in Corriere della Sera del 13 febbraio 2001, p. 20).


— 390 — sente di trovare una risposta esauriente a qualsiasi richiesta di un giudice che desideri conoscere l’insieme dei conti bancari di cui è titolare una determinata persona. Prima di offrire la propria cooperazione, il Principato pretende quindi dal giudice richiedente che questi abbia raccolto tutte le prove in sede preliminare. Si capirà dunque la severità delle critiche di cui viene fatto oggetto attualmente il Liechtenstein, sia da parte di vari Stati, nel quadro delle relazioni bilaterali che intrattengono con il Principato, sia da parte della comunità internazionale o europea’’. ‘‘VADUZ. Il Liechtenstein avrà un nuovo ‘‘Ufficio per l’attuazione dell’obbligo di diligenza nell’ambito finanziario’’: la direzione — ha indicato ieri l’ufficio stampa del Principato — è stata assegnata allo svizzero trentasettenne Daniel Thelesklaf, già capo a Berna dell’Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio di denaro (UCR). Il compito più urgente affidato dal governo di Vaduz a Thelesklaf sarà la determinazione degli aventi diritto economici e la definizione dei profili della clientela. L’incarico è a tempo determinato, di una durata non ancora stabilita. A più lungo termine è prevista la costituzione di una autorità centrale per la sorveglianza del mercato finanziario. Thelesklaf era stato fino a fine novembre 2000 capo dell’UCR della Confederazione a Berna, da cui si era dimesso per divergenze sulla riorganizzazione dell’Ufficio (...). Dopo essere finito sulla lista nera che annovera gli Stati che non collaborano in materia di riciclaggio di denaro, il Principato del Liechtenstein ha messo in vigore all’inizio di quest’anno una rigorosa legge sul dovere di diligenza da parte degli operatori finanziari. Le nuove direttive riguardano in particolare l’obbligo di identificazione da parte delle banche dei clienti che vogliono aprire un conto: per ogni conto deve essere infatti identificato l’avente diritto economico’’. (Nota dell’Agenzia ATS, sotto il titolo: FL, uno svizzero alla direzione dell’organo antiriciclaggio, in Corriere del Ticino dell’11 ottobre 2001, p. 8). ‘‘... Dal Liechtenstein, invece, la collaborazione viaggia veloce, anche troppo per i ritmi italiani, almeno secondo quanto il pm espone al tribunale: Vaduz comunica via e-mail che aspetta solo chi dall’Italia vada a prendere alcuni documenti, « ma stavolta il ministero non ha autorizzato qualcuno ad andare all’estero a prendere queste carte ». Solo posta’’. (L. FERRARELLA, Mondadori, Ripa di Meana smentisce De Benedetti, in Corriere della Sera del 9 febbraio 2002, p. 18).

Il Lussemburgo e il problema del riciclaggio. La ‘‘missione parlamentare’’ dell’Assemblea Nazionale francese in tema di riciclaggio dei capitali in Europa ha compiuto un altro passo avanti. Dopo il rapporto sulla situazione del Liechtenstein, riferito nella scheda precedente (7), il 22 gennaio 2002 ha fatto seguito il deposito del rapporto relativo al Lussemburgo. Secondo i deputati Peillon e Montebourg — riferiscono J. Follorou e P. Santi in Le Monde del 23 gennaio, p. 5 — ‘‘le autorità del Lussemburgo proteggono, in misura generalizzata, gli interessi dei proprietari dei capitali anonimi’’. Senonché — riferisce J.P. Stroobants nello stesso quotidiano (sotto il titolo: Le GrandDuché dément les critiques du rapport Montebourg) — Luc Frieden, ministro lussemburghese al contempo del Tesoro e della giustizia, alle critiche contenute nel rapporto oppone: ‘‘Noi siamo membri dell’Unione e ne applichiamo tutte le disposizioni in materia di lotta contro il riciclaggio o di collaborazione giudiziaria’’. E ricorda, con una sorta di ammiccamento: ‘‘Le case madri di gran parte delle banche collocate presso di noi sono situate nei Paesi vicini. Senza dubbio esse giudicherebbero inammissibile che le loro filiali si comportassero in modo non conforme al diritto europeo’’. E così continua, nella sua parte centrale, il testo dell’articolo: ‘‘Non esitando ad affermare che il suo Paese è ‘in regola con la lotta alla criminalità’ e si dimostra più punitivo degli

(7) Altri rapporti erano stati a suo tempo presentati relativamente al Regno Unito, alla Svizzera e al Principato di Monaco.


— 391 — altri, Frieden specifica punto per punto l’arsenale di cui il suo Paese si è dotato e che lo mette in grado di rispettare nella loro integralità le raccomandazioni pubblicate dal GAFI. Anche nel settore del trust, meccanismo spesso denunciato come mezzo di riciclaggio e che consente alle banche di intervenire a nome dei clienti nei confronti dei terzi? ‘‘I conti e le operazioni anonime sono vietati in Lussemburgo’’ replica Frieden, smentendo una delle conclusioni del rapporto Montebourg. Nessun problema, invece, nel negare che il Granducato si oppone ad abolire il suo sacrosanto segreto bancario. Considerato come una componente della vita privata, esso però viene meno davanti al giudice in materia penale. Resta da sapere se, in linea di fatto, la piazza lussemburghese non oppone, come dice il rapporto, una resistenza incomprensibile ai suoi vicini, soprattutto mantenendo i ricorsi contro le rogatorie che le vengono dirette. ‘‘La pratica degli abusi è abolita da una nuova legge e le vie di ricorso sono divenute una quantità trascurabile’’, afferma il governo. ‘‘Noi abbiamo ricevuto 52 rogatorie dalla Francia. Nessuna è stata rifiutata e sono state espletate entro termini identici a quelli delle rogatorie che noi stessi avevano trasmesso’’, specifica il ministro del Tesoro e della giustizia’’.



DOTTRINA

IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ NEL CODICE PENALE PERUVIANO (*)

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. La funzione politico-garantista del principio di offensività. — 3. Il principio di offensività come canone di criminalizzazione legislativa. — 4. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte generale del diritto penale. — 5. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte speciale: il bene giuridico. — 6. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte speciale: l’offesa al bene giuridico. — 7. Il principio di offensività e i reati senza bene giuridico o senza offesa. — 8. Il principio di offensività come canone di interpretazione.

1. Considerazioni introduttive. — Il codice peruviano del 1991 si apre con un titolo preliminare, contenente una serie di principi, i quali, con la loro manifesta funzione politico-garantista, debbono caratterizzare il sistema penale peruviano, delineandone il volto. Di tali principi la quasi totalità trova espressa consacrazione già nei codici ottocenteschi della tradizione penale liberale e, comunque, nei codici penali moderni degli Stati di diritto. Così il principio di legalità del reato, della pena e delle misure di sicurezza (Artt. II, VI), col conseguente divieto di analogia (Art. III); il principio della responsabilità colpevole (Art. VII); il principio della proporzionalità della pena alla sola responsabilità per il fatto (Art. VIII); il principio del giudice naturale (Art. V). Non altrettanto può dirsi per il principio di offensività, che non trova riconoscimento, almeno in esplicite disposizioni legislative, nei codici democratico-liberali anche di più recente data, quali i codici tedesco del 1974, portoghese del 1982, brasiliano del 1984, francese del 1994, spagnolo del 1995, sloveno del 1995, croato del 1997. Anche se esso può essere stato desunto in via interpretativa dallo specifico sistema penale ed essere stato oggetto di approfondite elaborazioni da parte della dottrina, quale quella italiana (1). Al contrario il codice peruviano è forse l’unico (*) Il presente scritto è destinato al numero speciale della Revista peruana de ciencias penales, dedicato ai « Diez años de vigencia del Codigo Penal Peruano ». (1) Per un’ampia analisi di tale principio ci permettiamo di rinviare al nostro: Diritto penale, Parte generale, Cedam, Padova 2001, p. 192 ss.; e al nostro studio: Il principio di offensività nello Schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1997, p. 314 ss.


— 394 — codice penale democratico-liberale, che prevede espressamente tale principio, sancendo all’art. IV che « La pena, necesariamente, precisa di lesión o puesta en peligro de bienes jurídicos tutelados por la ley ». Pertanto, anche nel sistema penale peruviano, il principio di offensività non può non rivivere le problematiche, che hanno caratterizzato la sua storia e i più recenti dibattiti specie da parte della dottrina europea, e con esse confrontarsi. 2. La funzione politico-garantista del principio di offensività. — Il principio di offensività, posto a baricentro del diritto penale peruviano, esplica quella fondamentale funzione politico-garantista che è connaturale a tale principio. A) Tale funzione politico-garantista implica, innanzitutto, la prioritaria opzione tra due noti modelli di diritto penale. Di adesione, cioè, ad un modello di diritto penale a base oggettivistica, inteso come un sistema di norme con funzione di tutela di beni giuridici, incentrato sui due cardini del bene giuridico e dell’offesa: con tutti i coerenti corollari. E del conseguente netto rifiuto di un qualsiasi modello di diritto penale a base soggettivistica: sia esso un diritto penale, repressivo, della volontà, per il quale il reato è concepito come un mero atto di violazione del dovere di fedeltà, di disubbidienza della volontà del singolo alla volontà statualecollettiva: con tutti i coerenti corollari. Sia esso un diritto penale, preventivo, della pericolosità sociale, per il quale il reato è inteso come sintomo di pericolosità sociale dell’autore: con tutti i coerenti corollari. B) Nell’ambito dei sistemi penali dell’offesa l’ulteriore funzione garantista del principio di offensività impone un’ulteriore opzione tra due tipi di diritti penali dell’offesa. Di adesione, cioè, alla concezione del reato come fatto offensivo tipico, ossia come fatto non solo previsto dalla legge come reato, ma legislativamente costruito in termini di necessaria offensività al bene giuridico. E di netto rifiuto di una concezione del reato come fatto socialmente pericoloso, propria dei sistemi penali totalitari, quali in particolare quelli della Germania nazionalsocialista e quelli degli ex o degli attuali Paesi socialisti. Invero, i suddetti codici penali totalitari, incentrandosi sulla « legalità sostanziale », si aprono anch’essi con la consacrazione del principio di offensività espresso tramite la clausola generale, rispettivamente, della punibilità di ogni fatto meritevole di punizione « secondo il sano sentimento del popolo » e di ogni fatto socialmente pericoloso, in misura rilevante, per la società socialista. Fondano il giudizio di pericolosità sociale del fatto sul raffronto, sulla tensione dialettica tra il « bene giuridico specifico » tutelato dalla norma, e un « bene giuridico generico » della tutela penale, esterno alla norma ed identificantesi col generale interesse della comunità nazionalsocialista e della società socialista, al quale spetta la pa-


— 395 — rola definitiva, in caso di conflitto col suddetto bene specifico, circa la illiceità penale del fatto. E, pertanto, elevano a fonte basilare (incriminatrice o scriminante) del diritto penale le fonti sostanziali extralegislative (il sano sentimento del popolo, la coscienza rivoluzionaria, la coscienza giuridica socialista, ecc.). Ma profonda è la differenza di funzioni del principio di offensività nei sistemi penali totalitari in genere e nei sistemi penali degli Stati di diritto, quale quello peruviano. Nei primi il principio di offensività, quale espressione di una fondamentale opzione politico-utilitaristico-collettivistica a favore della « difesa sociale » (ossia dei « valori » dei suddetti sistemi), funge da strumento per fuoriuscire dalla « tipicità », dovendosi considerare reati tutti i fatti ritenuti pericolosi per la comunità nazionalsocialista e per la società socialista, anche se non previsti come reati dalla legge, e viceversa non reati i fatti previsti dalla legge, ma ritenuti non pericolosi per le medesime. E, quindi, tale principio ha costituito e costituisce lo strumento, stante l’indeterminatezza delle fonti extralegislative da cui desumere la pericolosità delle condotte, per adeguare il diritto al finalismo ideologico dello Stato totalitario e alle esigenze della Ragion di Stato. Nei sistemi penali degli Stati di diritto il principio di offensività, quale espressione di una fondamentale opzione politico-individualistico-garantista a favore della libertà indiziale (favor libertatis), funge, viceversa, da strumento restrittivo, da ulteriore limite, della punibilità. Esso, infatti, compenetrandosi, come nel codice peruviano, col superiore principio di legalità, inserisce l’offesa nella tipicità, costituendone elemento essenziale ed oggetto di accertamento da parte del giudice. Sicché è data al cittadino la duplice garanzia di non essere punito né per la mera disubbidienza ad un precetto, ma neppure per la sola pericolosità del proprio agire. Ma soltanto per un fatto offensivo, previsto dalla legge come reato. 3. Il principio di offensività come canone di criminalizzazione legislativa. — Perché il principio di offensività possa esplicare la sua piena funzione politico-garantista occorre che esso costituisca, prima ancora che canone di interpretazione, innanzitutto il canone di costruzione legislativa delle fattispecie criminose. Ciò per l’ovvia ragione che mediante l’interpretazione non è possibile ricuperare al principio di offensività i reati irrimediabilmente senza offesa, poiché qui la tutela è anticipata agli atti meramente preparatori o la punibilità è estesa ai comportamenti meramente sintomatici o alle mere intenzioni offensive. Sul punto del principio di offensività come canone di criminalizzazione legislativa appaiono peccare di opposti eccessi sia la tradizionale tesi dell’assenza di ogni vincolo per il legislatore circa la costruzione delle fattispecie in termini di offensività; sia la tesi più recente del valore assoluto di tale vincolo, auspicandosi la costituzionalizzazione — qualora non


— 396 — sia già prevista nel singolo ordinamento — del principio di offensività, al fine di potere affermare l’indiscriminata illegittimità costituzionale di tutti i reati senza offesa. Più realistica è la tesi intermedia, che è quella seguita anche dal codice peruviano, come via via specificheremo: 1) del principio di offensività, sia esso o meno costituzionalizzato, come direttrice fondamentale di politica criminale, sì da essere elevato a « baricentro » del diritto penale contro regressioni a diritti penali soggettivistici; 2) del valore relativo del principio di offensività, in quanto esso è principio regolare, che può, però, subire deroghe necessarie per la prevenzione delle offese a beni primari, individuali, collettivi, istituzionali, dovendo la « razionalità » dei principi contemperarsi talora — per non diventare « tirannide » — con la « necessità » della prevenzione delle offese ai beni giuridico-penali. Dovere dello Stato di diritto è di riconoscere, innanzitutto, i diritti fondamentali di ogni uomo e di garantirli, anche attraverso la tutela dei beni-mezzo (cioè strumentali alla salvaguardia, dignità e sviluppo della persona umana), pure contro le altrui aggressioni, adottando le tecniche di tutela, repressive ma anche preventive, necessarie allo scopo: quindi, in sintesi, di garantire il « diritto di libertà dal crimine ». Con la conseguente presa di coscienza, da un lato, della tendenziale eccezionalità delle deroghe al principio di offensività e, dall’altro, della loro irrinunciabilità. Ciò in quanto, nell’attuale era tecnologica, la tutela di beni individuali e collettivi richiede sempre più controlli amministrativi, penalmente sanzionati, ed interventi penali preventivi, potendo essere di ben scarsa utilità la punizione del danno già verificatosi (es.: da disastri nucleari, da produzione di armi batteriologiche, da sostanze tossiche, da epidemie o da disastri ecologici dovuti alla fuga da laboratori o da immissione nell’ambiente esterno di microrganismi genemanipolati, ecc.). 4. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte generale del diritto penale. — Perché il principio di offensività come canone di criminalizzazione possa esplicare la sua piena funzione politico-garantista occorre che esso trovi attuazione legislativa rispetto a tutti i settori del diritto penale. Esso deve cioè improntare: 1) in via prioritaria, la Parte speciale del diritto penale, che deve essere costruita mediante le tecniche di costruzione delle specifiche fattispecie incriminatici in termini di offesa a specifici beni giuridici; 2) ma, nondimeno, anche la Parte generale del diritto penale, i cui vari istituti debbono essere costruiti, per non costituire il « tallone vulnerabile » del principio di offensività, con le tecniche idonee a salvaguardare anche qui tale principio. Per quanto riguarda il diritto penale peruviano il principio di offensività, pur essendo stato affermato dal codice — e non poteva, in tale sede, essere altrimenti — come canone di interpretazione, esso ha trovato coe-


— 397 — rente attuazione anche come canone di costruzione legislativa degli istituti di Parte generale. E in particolare: A) per quanto concerne, innanzitutto, il tentativo punibile, che può essere il primo vulnerabile tallone del principio di offensività, ma che ha invece trovato qui la sua attuazione legislativa: a) mediante il rigetto della concezione soggettivistica del tentativo, connaturale ai diritti penali della volontà o della pericolosità, i quali — mediante la ricorrente formula degli « atti aventi per scopo di causare o favorire la produzione di un reato » — estendono la punibilità del tentativo al più remoto stadio degli atti preparatori e a qualsiasi manifestazione della volontà criminosa; e ne equiparano la pena a quella del reato consumato; b) mediante la piena adesione alla concezione a base oggettivistica del tentativo, la quale ne limita la punibilità all’« inizio dell’esecuzione » (art. 16) e, conseguentemente, ne assicura nella maggiore misura il concreto pericolo per il bene giuridico. Dal tentativo punibile restano, pertanto, esclusi non solo i meri atti preparatori, ma anche gli atti pretipici, quali gli atti con cui il soggetto « si accinge ad intraprendere l’esecuzione del delitto », che sono invece punibili, ad esempio, secondo il codice tedesco e il progetto preliminare di un nuovo codice penale italiano del 2000. Un certo temperamento del principio di offensività si ha, invece, per quanto riguarda la pena, essendo il delitto tentato punito non con pena edittale inferiore alla pena del reato consumato, ma con pena diminuita a discrezione del giudice. Come pure per quanto riguarda la desistenza e il recesso volontari, entrambi non punibili (a meno che non costituiscano di per sé reato) (art. 18), mentre una più rigorosa coerenza col principio di offensività potrebbe legittimare la non punibilità della desistenza e la punibilità diminuita del recesso, poiché qui l’agente ha posto in essere tutti i fattori causali per il verificarsi dell’evento e, quindi, il tentativo ha raggiunto il massimo di pericolosità per il bene tutelato, essendo fra l’altro l’azione impeditiva dell’evento non sempre destinata ad avere successo. Esiste una profonda differenza, ad esempio, tra l’avere propinato una sola dose di veleno e l’essere riuscito miracolosamente ad evitare la morte del soggetto, avvelenato con tutte le dosi necessarie; B) per quanto riguarda il tentativo non punibile, poiché l’art. 17, coll’escludere la punibilità del tentativo in caso di impossibilità della consumazione del delitto per « la ineficacia absoluta del medio empleato o absoluda impropriedad del objecto », ribadisce l’esigenza che il tentativo, per essere punibile, deve realizzare un concreto pericolo per il bene giuridico e il conseguente rigetto della punibilità di una mera volontà criminosa. Riecheggia qui la distinzione, operata dai classici italiani, tra inefficacia assoluta (o astratta) e inefficacia relativa (o concreta) del mezzo, secondo la quale si riteneva non punibile il tentativo assolutamente inefficace, allorché cioè il mezzo non avrebbe mai potuto condurre alla consu-


— 398 — mazione del reato (es.: propinare zucchero al posto dell’arsenico). Era, invece, ritenuto punibile il tentativo relativamente inefficace, quando cioè il mezzo avrebbe portato al risultato voluto se circostanze concrete non ne avessero determinato l’insuccesso (es.: colpo di pistola contro persona protetta da giubbotto antiproiettile o in auto blindata). Tale distinzione è stata respinta in considerazione del fatto che il giudizio di efficacia del mezzo va effettuato non in astratto, ma in concreto, cioè nel contesto delle circostanze in cui esso opera. Ciò per il fatto che il mezzo assolutamente inefficace in astratto può essere efficace in concreto (es.: propinare zucchero al soggetto diabetico). E, viceversa, il mezzo del tutto efficace in astratto (es.: colpo di pistola) può essere concretamente inefficace (es.: se tale colpo è sparato contro persona protetta da giubbotto antiproiettile). Lo stabilire, poi, se anche in quest’ultimo caso il tentativo sia punibile o non punibile dipende, come vedremo, se il giudizio di efficacia debba essere un giudizio ex ante a base parziale o a base totale; C) per quanto riguarda il reato putativo, che trova espressa menzione in altri codici, quale, ad esempio, quello tedesco ed austriaco (che lo ritengono non punibile se è dovuto ad errore sul precetto e punibile se è dovuto ad errore sul fatto tipico). Nessuna menzione esso trova, invece, nel codice peruviano: ciò a conferma della coerente attuazione della sua opzione per un diritto penale a base oggettiva, dell’offesa, e del conseguente principio del cogitationis poena nemo patitur; D) per quanto riguarda le cause di giustificazione, che sono imputabili obiettivamente, per il solo fatto di esistere: a) perché l’art. 20, nn. 3, 4, 8, 9, 10, non richiede la consapevolezza della loro esistenza e la volontà di realizzare la specifica finalità (es.: di difendersi e non di offendere); b) perché anche rispetto alla legittima difesa e allo stato di necessità (nn. 3, 4) manca ogni menzione ai coefficienti psicologici della « costrizione », presenti invece in altri codici e che hanno posto in dubbio la rilevanza oggettiva di tali cause di giustificazione; c) perché esse sono costruite, pertanto, in termini di prevalenza dell’interesse (che viene attuato con l’adempimento del dovere o dell’ordine della pubblica autorità, o con l’esercizio del diritto, o ingiustamente aggredito nella legittima difesa o di valore superiore nello stato di necessità); o di equivalenza degli interessi di pari valore in quest’ultima scriminante; o di mancanza dell’interesse alla tutela per la rinuncia ad essa da parte del titolare del bene (così nel consenso prestato da costui); d) perché le suddette cause di giustificazione, costituendo dei limiti alla tutela del bene, ne escludono l’offesa: vi sarà un’offesa in senso naturalistico (come, ad es., la perdita della vita dell’aggressore nella legittima difesa), ma non un’offesa in senso giuridico, perché « giustificata ». 5. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte speciale: il bene giuridico. — Il perno si cui ruota un diritto


— 399 — penale dell’offesa, il supporto stesso del principio di offensività, è il bene giuridico-penale. Poiché la storia del bene giuridico è anche la storia dei continui svuotamenti e manipolazioni della sua funzione politico-garantista, per comprenderne e salvaguardarne tale funzione occorre innanzitutto distinguere: 1) l’oggetto giuridico del reato, cioè il bene preesistente alla norma e assunto ad elemento costituivo della fattispecie, in modo esplicito (ad es.: l’onore, la libertà personale, il segreto, il pudore, rispettivamente negli artt. 132, 152, 165, 183) od implicito (ad es.: la vita, la libertà sessuale, il rapporto patrimoniale, rispettivamente negli artt. 106, 170, 185); 2) lo scopo della norma, che è il fine perseguito dal legislatore con l’incriminazione del fatto. Esso non è elemento costitutivo, ma la ratio dell’incriminazione e si identifica con la stessa fattispecie vista in chiave teleologica. Mentre esistono, anche nel codice peruviano, reati senza offesa al bene giuridico, lo scopo dell’incriminazione è immanente, invece, in tutte le norme incriminatici. Paradigmatico esempio: il possesso illegittimo di armi (art. 279), che è punito non perché offende un bene giuridico facente capo ad un soggetto passivo, ma perché contrasta con l’esigenza del controllo sulla circolazione di mezzi che possono essere usati in attività illecite. Ma ciò non è l’oggetto della tutela, preesistente alla norma, ma lo scopo dell’incriminazione, il fine che lo Stato intende perseguire attraverso il divieto di tale condotta. Identificandosi con l’intera fattispecie, lo scopo della norma si differenzia dall’oggetto giuridico poiché questo, anche nei reati ove esso sussiste, è soltanto un elemento della fattispecie. Ad es., nella truffa (art. 196), mentre il bene giuridico è l’interesse patrimoniale offeso, lo scopo è l’impedire l’impoverimento altrui e il proprio arricchimento parassitario mediante l’inganno. Ciò premesso, va subito rilevato che, nella sua autentica funzione garantista, il bene giuridico è esposto ad un duplice rischio. A) Il primo e più risalente rischio è quello dello svuotamento di tale funzione attraverso l’« elargizione » di pseudoggettività giuridiche a reati che ne sono irrimediabilmente privi: quindi, di legittimazioni ad essi in base al principio di offensività, le quali vanno invece ricercate sul diverso piano della necessità preventiva e dell’eccezionalità. Tutto ciò è stato operato coi graduali passaggi dall’originaria concezione metapositivistica del bene giuridico quale entità ontologicamente preesistente al diritto positivo, che la norma trova e non crea e che funge, come tale, da limite alla libertà del legislatore; alla successiva concezione giuspositivistica del bene giuridico, che è tutto ciò che il legislatore ritiene di tutelare e che, pertanto, non è più preesistente alla norma, ma creato dal legislatore e non più limite a questi. E si continuò con la cosiddetta concezione metodologico-teleologica, che, identificando il bene giuridico con lo « scopo della norma » espresso nella sua formula più concisa, ne fa


— 400 — un doppione della ratio legis ed un puro « metodo teleologico » per l’interpretazione della norma. E poiché ogni norma ha un suo scopo, si riesce così a dare a tutti i reati un bene giuridico: soltanto, però, in virtù di un equivoco anche terminologico, continuandosi a chiamare bene giuridico un quid che, in quanto coevo alla norma, non può assolvere alcuna funzione critico-limitatrice dell’attività del legislatore. Ridotto ad una mera categoria formale onnicomprensiva, attraverso cui ogni tipo di Stato tutela i beni che ritiene meritevoli e non altri, il bene giuridico è diventato un dogma polivalente, accettato da tutti i sistemi penali. Da quelli degli Stati di diritto a quelli degli Stati totalitari e dittatoriali, essendosi prestato a tutelare sia i diritti fondamentali dell’uomo, sia gli interessi implicanti la negazione di tali diritti. A partire dalla seconda metà del secolo scorso e in coincidenza del mutato clima politico-culturale in vari paesi europei l’oggetto giuridico è ritornato al centro del dibattito penalistico: nella sua originaria funzione politico-garantista di entità preesistente, ricavabile, specie da parte della dottrina tedesca, da fonti metagiuridiche (teoria illuministica del contratto sociale, teoria umanistico-personalistica, teoria sociologico-funzionale dei fatti socialmente dannosi). La travagliata storia del bene giuridico sta, però, eloquentemente ad insegnare che, perché tale bene possa assolvere la sua funzione critico-garantista, occorre il concorso di due presupposti: 1) la sua preesistenza ontologica alla norma, perché tale funzione è vanificata se esso è un mero bonum creato dalla legge; 2) la sua vincolatività per il legislatore, perché detta funzione è altresì compromessa se esso è un bonum semplicemente preesistente alla legge. Ciò sia per la sua non vincolatività per il legislatore ordinario. Sia, ancor prima, per la difficoltà di trovare criteri oggettivi di identificazione (che cos’è il socialmente dannoso per il giusnaturalismo contrattualistico, per il personalismo umanitario o per il funzionalismo sociologico?). Secondo una innovativa impostazione costituzionalistica italiana soddisfano la duplice esigenza della preesistenza e della vincolatività: a) i beni costituzionalmente rilevanti, esplicitamente o implicitamente riconosciuti dalla Costituzione italiana; b) e, al più, i beni desumibili dalla attuale realtà socio-culturale e costituzionalmente non incompatibili. Questi ultimi sono quei beni, specie emergenti (es.: i beni ambientali, non riconosciuti dalla Costituzione italiana, a differenza di certe Costituzioni più recenti: portoghese, spagnola, brasiliana), la tutela dei quali può comportare, al più, limitazioni (non l’annullamento) di beni strumentali costituzionalizzati (proprietà, libertà di iniziativa economica), ma non dei beni primari (ossia della persona umana), non contrastando ma addirittura favorendo essa la conservazione, la dignità e lo sviluppo della persona medesima. Il bene giuridico « costituzionalmente orientato » non offre « magiche


— 401 — soluzioni » al problema della tutela penale per le incertezze ed ambivalenze delle Carte costituzionali, non essendo esse un « catalogo di beni ». Ma per il carattere « rigido » e tanto più se « garantista-personalistico » delle medesime, offrono un poderoso strumento per la costruzione della Parte speciale del diritto penale segnando « direttrici di fondo »: 1) nella criminalizzazione di fatti offesivi di precise tipologie di oggettività giuridiche di categoria, enucleate sulla base di beni già tutelati dalle varie Costituzioni o anche desunti dalla realtà socio-culturale del nostro tempo e con esse compatibili. E secondo le Costituzioni personalistiche — incentrate sul primato della persona umana, dell’uomo-valore, dell’uomo-persona, dell’uomo-fine, non strumentalizzabile per alcuna finalità extrapersonale, neppure di politica criminale; e in irriducibile contrapposizione ad ogni concezione utilitaristica dell’uomo-cosa, dell’uomo-massa, dell’uomo-mezzo, esposto a tutte le strumentalizzazioni in funzione dell’utilitarismo pubblico-collettivo, dell’utilitarismo maggioritario (della maggiore felicità per il maggior numero a scapito dei pochi) o dell’utilitarismo individualistico-egoistico (della sola maggiore felicità propria), anche per quanto riguarda la politica criminale — i corrispondenti modelli di diritti penali personalistici debbono operare non più e soltanto come tradizionali limiti alla libertà, ma anzitutto e primariamente come strumento di libertà, in funzione cioè della difesa — senza discriminazioni — dei diritti della persona umana contro le offese di chiunque, soggetti privati e soggetti pubblici, delinquenza privata e delinquenza di Stato. E come strumenti di libertà essi debbono caratterizzarsi secondo la triplice direttrice personalistica: a) della centralità della persona umana, fine primo e ultimo del sistema penale; b) della conseguente distinzione tra i beni-fine, costituiti dai diritti fondamentali della persona umana e tutelati come tali, e i beni-mezzo, costituiti dai beni individuali patrimoniali, dai beni ultraindividuali della famiglia, della comunità (salute e sicurezza collettive, beni ecologici, paesaggistici, culturali, faunistici, floristici, ordine economico, ecc.), dello Stato di diritto nella sua unità e nelle sue istituzioni (giustizia, pubblica amministrazione, fisco); c) della conseguente centralità dei delitti contro la persona, che proprio per la loro priorità debbono, anche topograficamente, aprire la Parte speciale dei codici personalistici, seguiti via via dai delitti contro i beni-mezzo. Con totale capovolgimento dell’ordine gerarchico proprio dei codici penali totalitari o autoritari, imperniati sulla centralità dei beni pubblico-collettivi, elevati a beni-fine, e sulla degradazione dei beni della persona umana a beni-mezzo, strumentali ai suddetti beni e tutelati nei limiti di tale strumentalità, nonché sulla centralità — come nel codice italiano del 1930 — dei delitti contro lo Stato, che aprono anche topograficamente la Parte speciale, la quale si chiude coi delitti contro la persona e contro il patrimonio. In termini personalistici appare orientato il codice peruviano per


— 402 — quanto riguarda: a) la proclamazione, nell’Articolo I, quale propria finalità « la prevención de delitos y faltas come medio protector de la persona humana y de la sociedad »; b) la sua apertura coi delitti contro i diritti della persona, seguiti poi dai delitti contro il patrimonio, la famiglia, la comunità, lo Stato; c) l’attuazione della centralità del codice, assorbendo esso i delitti decentrati, in altri paesi, nella legislazione speciale, quali, in particolare, certi delitti contro la persona (di prostituzione, di aborto, informatici) o trascendenti le singole persone perché costituiscono delitti contro l’umanità (terrorismo, genocidio, tortura, discriminazione); 2) nella depenalizzazione, cioè per la esclusione come illeciti non solo penali ma anche amministrativi, dei reati che tutelano interessi non conciliabili con le rispettive Costituzioni o costituzionalmente non rilevanti e anacronistici rispetto alla realtà socio-culturale attuale; 3) nella criminalizzazione delle nuove tipologie di aggressione, che via via vengono ad offendere, in misura consistente, beni costituzionalmente rilevanti o non incompatibili, tradizionali o emergenti: gli stessi beni personalistici, per effetto delle manipolazioni genetiche, della clonazione umana, dell’ibridazione uomo-animale, della locazione del ventre materno, dell’embriosperimentazione, dell’embrioproduzione per fini non procreativi; o beni ultraindividuali, quali la salute collettiva e l’ambiente, per effetto delle manipolazioni genetiche di microrganismi in ambiente chiuso, ma suscettibili di fuga, o destinati all’ambiente aperto; 4) nella decriminalizzazione di certi illeciti penali ad illeciti amministrativi. Quel criterio distintivo tra illecito penale ed illecito amministrativo, così faticosamente ricercato, per ridurre l’inflazione della legge e il carico della giustizia penali, è tendenzialmente offerto dal principio di offensività, essendo, almeno come direttrice generale di politica legislativa, l’ambito naturale: a) del diritto penale, quello della tutela dei valori costituzionalmente rilevanti (o, al più, non incompatibili) contro i fatti di elevata offensività; b) dell’illecito amministrativo, quello dei fatti di tutela anticipata o di lesività trascurabile di interessi rilevanti (o non incompatibili) costituzionalmente; 5) nel proporzionare la specie e la quantità della pena dei vari reati al diverso rango dei beni (secondo la gerarchia desumibile — anche se non sempre agevolmente, specie per i beni intermedi — dalle Costituzioni « personalistiche » e dalla realtà socio-culturale) e al diverso grado e quantità dell’offesa (lesione o pericolo, pericolo concreto, presunto o astratto; maggiore o minore lesione o pericolo); 6) nella qualificazione dell’illecito penale come delitto o come contravvenzione, che, oltre una certa misura, non dipende più dalle mutevoli valutazioni del legislatore, ma dall’importanza del bene tutelato e dal grado di offesa al medesimo. Con la conseguente elevazione a delitti di certi illeciti penali costituenti, per certi codici, contravvenzioni (ad es.: in


— 403 — materia di ambiente, di attentati al patrimonio artistico, storico, faunistico, floristico, che il codice peruviano prevede invece come delitti nei titoli VIII, XIII). E, viceversa, con la degradazione a contravvenzioni o ad illeciti amministrativi di certi illeciti penali, costituenti per certi codici delitti, pur se offensivi di interessi costituzionalmente non rilevanti, anche se meritevoli di tutela, o di ridotta offensività (come, ad esempio, i reati minori contro il patrimonio e la tranquillità pubblica, previsti dal Titolo I e VI del Libro III del codice peruviano come contravvenzioni), oppure a criminalizzazione anticipata (come certi reati contro la sicurezza pubblica, previsti dal Titolo V del Libro III del suddetto codice). B) Il secondo e più recente rischio per il bene giuridico è quello della sua « messa in liquidazione », attraverso l’enfatizzazione in particolare: a) dei reati con beni giuridici vaghi o diffusi, non ben identificabili nella loro reale consistenza e presenti, immancabilmente, anche nel codice peruviano (la fede pubblica, l’ordine economico, l’ecologia, l’amministrazione pubblica e la giustizia, ecc.), di fronte alla moltiplicazione dei quali si parla di « volatilizzazione » del bene giuridico; b) dei reati a tutela di una funzione, che caratterizzano il moderno « diritto penale accessorio » e consistono, almeno in via immediata, nella mera inosservanza delle norme amministrative con cui la pubblica amministrazione ha risolto un conflitto di interessi (in materia di scarichi di sostanze inquinanti: artt. 304, 305, 306, 307; di assetto urbanistico, ambientale, paesaggistico: artt. 311, 312, 313; di mercato e concorrenza: artt. 232, 234). Col conseguente interrogativo se il diritto penale moderno e postmoderno non debba fare a meno del bene giuridico. Posizioni, queste, che anche rispetto al diritto penale peruviano, provano troppo: a) perché le due suddette categorie di reati sono non l’intero diritto penale né degli altri paesi, né peruviano, ma solo una parte minoritaria di esso, essendo i delitti nei vari codici ancora in maggioranza costruiti in termini di offesa (lesione o messa in pericolo) di un bene giuridico; b) perché certe asserite oggettività giuridiche vaghe in verità costituiscono più propriamente non vere e proprie oggettività giuridiche, ma astrazioni concettuali, con mere finalità classificatorie, di raggruppamento di reati, e che sono comprensive di specifici beni giuridici, in cui si « concretizzano » e debbono essere concretizzati. Paradigmatici i reati contro la fede pubblica, ove il vero bene giuridico è l’interesse patrimoniale, amministrativo, giudiziario, fiscale, offeso dalla falsificazione dello specifico documento. Come pure i reati contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, ove i veri beni giuridici sono non tali denominatori astratti, ma i concreti interessi sottostanti agli specifici atti dei singoli uffici amministrativi o agli specifici procedimenti o provvedimenti giudiziari; c) perché, rispetto ad altri reati, si tratta di metafore concettuali, che esprimono « situazioni strumentali », « beni inter-


— 404 — medi » (ecosistema, governo del territorio, sicurezza pubblica, sicurezza della circolazione stradale, ecc.), la cui tutela, anche se autonoma, è pur sempre funzionale alla tutela di beni giuridici finali, « preesistenti » e di rango superiore a quelli collidenti, e non più adeguatamente protetti con le forme tradizionali di tutela di fronte alle nuove aggressioni dell’era tecnologica. E l’aggancio a tali sottostanti beni giuridici finali è fondamentale per legittimare, con sufficiente preservazione del principio di offensività, la criminalizzazione dei fatti raggruppati sotto oggettività giuridiche intermedie, strumentali, e per delimitarne, altresì, l’ambito della criminalizzazione. Pertanto, il problema non è la liquidazione del bene giuridico del diritto penale, con tutte le pericolose ed imprevedibili implicazioni, ma piuttosto il recupero, attraverso le possibili tecniche legislative disponibili, e che vedremo, delle suddette categorie di reati nel campo dell’oggettività giuridica. 6. Le tecniche di attuazione legislativa del principio di offensività nella Parte speciale: l’offesa al bene giuridico. — Mentre il bene giuridico è il supporto, l’offesa è la concretizzazione, l’essenza, del principio di offensività. Poiché anche la storia dell’offesa è la storia dei continui svuotamenti e manipolazioni della sua funzione politico-garantista, per comprenderne e salvaguardarne tale funzione occorre innanzitutto distinguere: 1) i reati di offesa, in cui l’offesa a un preesistente bene giuridico è elemento costitutivo del reato, esplicito (es.: artt. 121, 122, 130, 132, 196, 198, 374) o implicito (es.: artt. 106 ss., 114 ss., 185, 188, 205); 2) i reati di scopo (o senza offesa), coi quali si incrimina non l’offesa a un bene giuridico, ma la realizzazione di certe situazioni che lo Stato ha interesse a che non si realizzino. Qui manca l’offesa o per l’anticipazione dell’incriminazione a fasi preoffensive, come — meglio vedremo — nei reati-ostacolo e in certi reati a dolo specifico. O per la mancanza dello stesso bene giuridico. Tale interesse dello Stato alla non realizzazione di dette situazioni è non l’oggetto giuridico del reato, ma lo scopo dell’incriminazione. E la vanificazione di tale scopo, attraverso la commissione del reato, coincide con la realizzazione della condotta criminosa e altro non è che la fattispecie vista in chiave teleologica. Quando si parla qui di offesa, si confonde l’offesa col disvalore del fatto tipico. I reati di scopo assumono, sempre più spesso, la veste di reati-funzione, posti a tutela — come gia accennato — del modo, affidato dalla legge alla pubblica amministrazione, di soluzione di un conflitto di interessi. Così, ad es., i reati (artt. 304 ss.), che incriminano gli scarichi di sostanze inquinanti non come tali, ma in assenza dell’autorizzazione della pubblica amministrazione, investita del compito di stabilire se un certo scarico sia consen-


— 405 — tito o meno, e non tutelano, almeno in via immediata, un bene giuridico, perché l’autorizzazione rilasciata non esclude che lo scarico sia inquinante e l’autorizzazione mancante non esclude che lo scarico non sia inquinante. Bensì essi tutelano soltanto il modo con cui la pubblica amministrazione ha risolto il conflitto di vari interessi (della purezza delle acque, turistici, abitativi, industriali, occupazionali, ecc.). E reati di scopo sono pure i reati di mera trasgressione di regole tecnico-burocratiche, connesse alla gestione dei beni giuridici (es.: certi reati tributari meramente formali). Coi reati di scopo siamo, pertanto, fuori della tematica dell’oggetto giuridico o, comunque, dell’offesa, sia pure ad una serie indeterminata di soggetti. Ciò premesso, va subito precisato che, nella sua autentica funzione garantista, anche l’offesa è esposta — in tutti i sistemi penali dall’offesa e, quindi, anche nel sistema penale peruviano — ad un duplice rischio. A) Il primo e più risalente rischio è quello della « elargizione » di pseudoffese a reati che sono senza offesa: quindi, di legittimazioni ad essi in base al principio di offensività, le quali vanno invece ricercate sul diverso piano della necessità preventiva e dell’eccezionalità. Tutto ciò è stato operato sul postulato che ogni norma è preordinata al conseguimento di un interesse, identificando l’offesa con la tipicità, con la stessa infrazione della legge penale. Sicché col puro e semplice verificarsi del fatto tipico deve ritenersi realizzato ciò che, dal punto di vista del legislatore, costituisce l’offesa all’interesse che il medesimo ha inteso perseguire con la norma incriminatrice. In questa prospettiva giuspositivistico-formalistica ogni reato postula, per definizione, un’offesa, la quale però non è che un travisamento verbale della fattispecie legale, rappresentando essa non un elemento costitutivo del reato, da accertarsi caso per caso, ma lo stesso reato visto sotto il profilo della vanificazione dell’interesse dello Stato alla non commissione del reato stesso, ed identificandosi col disvalore del fatto tipico. E si è così degradata l’offesa a una categoria formale, capace di abbracciare gli autentici reati di offesa come pure i reati senza offesa o di scopo, e politicamente polivalente, aperta a tutti gli usi. B) Il secondo e più attuale rischio è quello della « messa in liquidazione » anche dell’offesa, attraverso l’enfatizzazione delle difficoltà di un’adeguata tipizzazione in termini di offesa delle fattispecie criminose. Pur se incontestabili, tali difficoltà attengono soprattutto ai reati con beni giuridici vaghi o diffusi (rispetto ai quali non è sempre facilmente identificabile la condotta lesiva o pericolosa, specie se tali beni possono essere lesi, quale ad es. l’ecosistema o l’ambiente, per effetto non della singola condotta, ma di condotte « seriali », cioè generalizzate, ripetute, frequenti); o ai reati a tutela di funzioni oppure a criminalizzazione anticipata rispetto alla stessa messa in pericolo del bene. Trattasi però di categorie di reati pur sempre minoritarie. Ed il problema non è la liquidazione


— 406 — dell’offesa dal diritto penale, ma piuttosto il ricupero, attraverso le tecniche legislative disponibili, dei suddetti reati al principio di offensività. Secondo, però, un garantismo realistico, non avulso dalle concrete esigenze di politica criminale, direttrice di fondo di politica legislativa deve essere quella di elevare a reati fatti che siano realmente offensivi di beni concreti, sì che l’offesa non sia più mero doppione della fattispecie legale, ma rientri nella tipicità come autonomo elemento costitutivo del reato, da accertarsi caso per caso. Con la consapevolezza, però, dell’irrinunciabilità di certe deroghe per la prevenzione delle lesioni a beni primari, pur se da contenersi nei limiti della necessità preventiva. 7. Il principio di offensività e i reati senza bene giuridico o senza offesa. — Il principio di offensività è vulnerato dai reati senza bene giuridico, su cui si è già detto, e dai reati senza offesa, su cui occorre qui soffermarsi. A questo proposto si pone un duplice problema: a) quale sia il grado di anticipazione della tutela del bene giuridico compatibile col principio di offensività, onde stabilire se il reato sia con o senza offesa; b) quali siano le tipologie di reati che legittimano deroghe al principio di offensività. Circa il primo problema è una realtà incontestabile che il diritto penale moderno, a differenza di quanto avveniva secondo una concezione rozzamente oggettivistica del diritto penale, include nell’offesa non solo l’effettiva lesione del bene giuridico, consistente nella distruzione (es.: della vita nell’omicidio: artt. 106 ss.), nella diminuzione (es.: dell’integrità fisica nelle lesioni personali: artt. 121 ss., dell’imparzialità amministrativa nella corruzione: artt. 393 ss.), nella perdita (es.: del potere sulla cosa nel furto: artt. 185 ss.) del bene medesimo (reati di danno). Ma anche la messa in pericolo, che si concreta in un nocumento potenziale del bene, che viene soltanto minacciato (es.: così nei reati degli artt. 125, 126, 273, 280, 289, 397 A, 451) (reati di pericolo). Ma è parimenti vero che nei diritti penali moderni è presente una crescente serie di deroghe al principio di offensività. A) Una deroga al principio di offensività sono, innanzitutto, certi tipi di reato di pericolo, perché all’interno di questa categoria di reati occorre distinguere tra: 1) i reati di pericolo concreto (o effettivo), per la sussistenza dei quali il pericolo deve effettivamente sussistere, essendo esso previsto dalla norma come elemento tipico « espresso » della fattispecie incriminatrice e dovendo, perciò, il giudice accertarne la reale esistenza: cosa possibile in quanto trattasi di fattispecie che consentono, già al momento della condotta, di controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il probabile verificarsi dell’evento lesivo (es.: nei reati sopramenzionati degli artt. 125,


— 407 — 126, 273, 280, 289, 397 A, 451). Trattasi di reati che sono conformi al principio di offensività. Poiché il pericolo è la probabilità di lesione del bene giuridico, sono reati di pericolo concreto solo i reati in cui il pericolo, oltre ad essere elemento tipico da accertare, concretizza anche tale probabilità lesiva. Non sono tali invece i reati di pericolo di pericolo, quindi di « non pericolo », perché il pericolo, pur essendo qui elemento tipico da accertare, non è probabilità lesiva (né concreta e nemmeno presunta o astratta). Sono tali i reati con anticipazione del requisito tipico del pericolo ad atti prodromici, preparatori, per indicare la loro mera funzione di premessa, di azione idonea a concretizzare un eventuale futuro pericolo per il bene protetto, che per attualizzarsi ha bisogno di ulteriori attività. Esempio paradigmatico è il reato dell’art. 287, nel quale l’aver reso pericolose le sostanze destinate all’uso pubblico è il requisito minimo per non rendere assurda l’anticipazione dell’incriminazione ad atti al più preparatori e l’inclusione di tale reato tra i reati contro la salute pubblica. E per attualizzare il pericolo per questo bene occorre la messa in circolazione delle suddette sostanze. I reati del presente tipo trovano la loro corretta collocazione tra i reati-ostacolo, onde la teoria dei reati di pericolo dovrebbe sbarazzarsi di essi per porre fine alle sterili fatiche per classificare come reati di pericolo reati di non pericolo; 2) i reati di pericolo astratto, nei quali il pericolo per il bene protetto non è requisito tipico, ma è dato dalla legge come insito nella stessa condotta, perché questa è ritenuta, secondo la miglior scienza ed esperienza, pericolosa; ed il giudice si limita a riscontrare la conformità della condotta concreta alla condotta tipica. Ciò in quanto trattasi di tipi di reati che per loro natura precludono al giudice la possibilità ex ante e, talora, anche ex post, di controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il verificarsi dell’evento offensivo. Così, ad esempio, il reato dell’art. 274, non essendo possibile prevedere la condotta di chi guida in stato di ebbrezza o di intossicazione da stupefacenti. E, in particolare, il reato dell’art. 183 non potendosi conoscere ex ante e neppure ex post i possibili effetti delle pubblicazioni o delle esibizioni oscene sulla psiche del minore e in ordine all’armonico sviluppo della sua sessualità. Nonché il reato dell’art. 318, non essendo anche qui accertabili neppure ex post i reconditi effetti sulla tranquillità pubblica delle offese alla memoria dei defunti. Come pure i reati a tutela di beni, danneggiabili soprattutto con « condotte seriali » (cumulative cioè con altre), stante l’impossibilità di escludere che la singola condotta tipica, anche se da sola può non essere pregiudizievole del bene, possa innescare, con altre condotte, pericoli o danni anche consistenti per lo stesso (es.: attività inquinanti; depredazione di flora o fauna protette: art. 308). Poiché questi reati precludono la possibilità al giudice di accertamento ex ante e talora anche ex post l’esistenza delle condizioni per il verificarsi dell’evento lesivo, l’alternativa per il legi-


— 408 — slatore è di rinunciare a tale categoria di reati e, quindi, alla tutela preventiva anche di beni primari oppure di accettarli come tali, circoscrivendo però il ricorso ad essi soprattutto per la tutela di detti beni (incolumità e salute pubblica, integrità psichica e sessuale dei minori, sentimento di pietà verso i defunti, rispetto dell’altrui senso del pudore); 3) i reati di pericolo presunto, nei quali il pericolo per il bene protetto non è necessariamente insito nella stessa condotta, perché al momento di essa è possibile controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il verificarsi dell’evento lesivo, ma viene presunto juris et de jure, per cui non è ammessa a favore dell’agente neppure la prova contraria della sua concreta inesistenza. Così il reato (posto che per la legislazione peruviana sia tale) del passaggio col semaforo rosso, il quale sussiste anche se le strade di incrocio erano, in piena notte, totalmente deserte. Così pure il delitto dell’art. 409, che sussiste anche se la falsità in giudizio non ha minimamente condizionato la decisione del giudice. Mentre nei reati di pericolo astratto vi è una potenzialità lesiva generica, i reati di pericolo presunto ammettono anche una concreta assenza totale di rischio. E, rispetto a questi ultimi, punire per un pericolo presunto anche nei casi in cui nessun pericolo fu preaccertato esistente per avere, ad es., il soggetto neutralizzato ex ante ogni pericolo di lesione, è degradare in violazione del principio di offensività il reato di pericolo a reato soggettivistico di mera disubbidienza, come tale sentito come iniquo. Punctum dolens del diritto penale dell’offesa, i reati di pericolo hanno vissuto e stanno vivendo, almeno nella dottrina italiana, « alterne fortune », tra avversione e rivalutazione, essendo tutt’ora aperto il dibattito tra: a) gli autori che, privilegiando il principio di offensività vorrebbero circoscrivere tali reati ai soli reati di pericolo concreto o, al più, ai reati di pericolo relativamente presunto, con possibilità per l’agente di prova contraria; b) gli autori che, privilegiando il principio di tassatività e certezza giuridica e le esigenze di tutela, hanno abbandonato ogni preconcetta avversione per i reati di pericolo non concreto. Ciò sia per le difficoltà e incertezze dell’accertamento dell’esistenza o inesistenza del pericolo concreto e le divergenze, come vedremo, sugli stessi criteri dell’accertamento medesimo. Sia perché i reati di pericolo non concreto sarebbero maggiormente rispettosi del principio di tassatività e strumenti obbligati di tutela dei beni sovraindividuali e non sempre afferrabili; o contro la diffusività del pericolo, originato da complessi processi tecnologici, legati alla produzione di massa (di alimenti, medicinali, ecc.) e minaccianti non di rado la salute collettiva; o di beni che possono essere danneggiati in genere solo da condotte « seriali » (con conseguente impossibilità di escludere il concorso della singola condotta tipica nel compromettere, assieme ad altre condotte, ad es. l’integrità dell’ambiente). La soluzione più realistica e corretta appare quella: a) della conver-


— 409 — sione dei reati di pericolo concreto in reati di danno, dei reati di pericolo presunto in reati di pericolo concreto o di pericolo relativamente presunto; b) la conservazione dei reati di pericolo non concreto in ragione del rango del bene giuridico da tutelare, perché tanto più importante è tale bene, tanto più giustificata è l’anticipazione della tutela; e in ragione delle tecniche di tipizzazione, cioè della capacità del legislatore di descrivere gli elementi di pericolosità della condotta tipica per il bene protetto. B) Una seconda deroga al principio di offensività è costituita da certi tipi di reati a dolo specifico. Nell’ambito della presente categoria di reati occorre distinguere tra: 1) i reati a dolo specifico di offesa, con funzione di tutela anticipata, perché qui l’offesa è prevista come risultato non oggettivo, ma meramente intenzionale, rendendo così punibile una condotta di per sé inoffensiva (es.: il reato dell’art. 233, nonché i reati associativi degli artt. 317, 326, 349, dove le rispettive condotte, costituenti meri atti preparatori, sono punite sulla base di un mero fine criminoso); 2) i reati a dolo specifico di ulteriore offesa, con funzione limitatrice della punibilità, perché accanto all’offesa oggettiva è richiesta un’ulteriore offesa meramente intenzionale, che pertanto ha una funzione restrittiva dell’illiceità penale di un fatto che è già di per sé offensivo e, quindi, meritevole di pena (es.: i reati degli artt. 185, 189 A, 214, i quali, oltre all’offesa reale dell’impoverimento altrui, richiedono l’offesa intenzionale all’interesse al non arricchimento parassitario); 3) i reati a dolo specifico differenziale, con funzione cioè differenziatrice della punibilità rispetto a fatti di pari offensività oggettiva e, comunque, meritevoli di pena (così, per quanto riguarda il codice italiano, i reati di sequestro di persona, previsti dagli artt. 289-bis e 630 e che si differenziano per il fine, rispettivamente, di terrorismo e di estorsione). Mentre nel terzo tipo di reati si ha una disarmonia col principio di offensività, nel secondo tipo non sussiste violazione alcuna del principio di offensività. Nel primo tipo si ha violazione di tale principio, alla quale si può rimediare convertendo i reati a dolo specifico di offesa in reati di pericolo di lesione o, quanto meno, obbiettivizzando il dolo specifico, da intendersi non come mera intenzione offensiva, ma anche come obiettiva idoneità della condotta a realizzare tale intenzione, quale requisito minimo per non rendere assurda la anticipata punibilità di meri atti preparatori. Così sarebbe assurda la punibilità, dei suddetti reati associativi degli artt. 317, 326, 349, come tali, in assenza di un’organizzazione, pur se rudimentale, che renda verosimile la realizzazione dei delitti-fine. C) Una terza deroga al principio di offensività è costituita dai delitti di attentato (o a consumazione anticipata), perché, essendo descritti dalla legge con le formule « chiunque attenta a » o « commette un atto diretto a », sono dalla stessa elevati a delitti perfetti, mentre potrebbero essere al più un tentativo (es.: art. 336) o anche meno di un tentativo, come


— 410 — quando si richiede solo la suddetta direzione dell’atto (es.: art. 325, 338), ma non anche l’inizio di esecuzione del reato. Trattasi talora di delitti, come quello dell’art. 325, che esprimono anche l’esigenza reale di bloccare sul nascere fatti che altrimenti potrebbero non essere più controllabili. La dottrina italiana, per evitare strumentalizzazioni politiche della categoria dei delitti di attentato (presenti però nel codice del 1930 in numero ben superiore a quello del codice peruviano) ha abbandonato l’interpretazione soggettivistica, che, ritenendo sufficiente qualunque « atto intenzionalmente diretto » al risultato lesivo, ha trasformato tali delitti in delitti di mera disubbidienza. E, in nome del principio di offensività, ha adottato un’interpretazione oggettivistica, che riconduce i delitti di attentato alla struttura del tentativo. Sicché tale categoria di delitti, privati della ragione della loro emanazione — fatta eccezione per le poche ipotesi in cui il reato consumato potrebbe non essere più punibile o vi è l’esigenza di sanzionare il tentativo con pena più severa — costituiscono un inutile residuo storico. D) Una quarta deroga al principio di offensività è costituita dai reati-ostacolo (o ostativi), cioè da quelle incriminazioni, lontanamente arretrate, che non colpiscono comportamenti offensivi di un bene, ma tendono a prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, mediante la punizione di atti che sono la premessa idonea per la commissione di altri reati. Essi coprono una sfera di delitti anteriori allo stesso tentativo punibile, perché sono in sé atti non esecutivi o equivoci, potendo sfociare in vari delitti ma anche in fatti del tutto irrilevanti. Ivi rientrano: 1) i reati di possesso di cose, le quali possono, eventualmente, essere usate per commettere altri reati, che sono essi soltanto offensivi dei beni tutelati (es.: detenzione illegale di armi, di sostanze esplosive, ecc. o di materiale destinato alla loro preparazione: art. 279; o di strumenti destinati alla falsificazione di monete: art. 255); 2) i reati di attività soltanto eventualmente prodromiche alla messa in pericolo o alla lesione di beni tutelati (es.: adulterazione di sostanze destinate all’uso pubblico: art. 287; fabbricazione di strumenti per la falsificazione di monete: art. 255); 3) i reati di attività meramente prodromiche alla messa in pericolo o alla lesione dei beni tutelati. Sono delitti-ostacolo di quest’ultimo tipo i delitti associativi degli artt. 317, 326, 349: a) perché la mera costituzione dell’associazione rivela la pericolosità soggettiva (quale probabilità di commissione di reati) della stessa, data la maggiore capacità del raggruppamento organizzato di attuare un programma criminoso; b) perché essa non realizza, ancora, una pericolosità oggettiva per i singoli beni, tutelati dai reati-fine programmati, in quanto l’associazione come tale rientra nell’ambito dei meri « atti preparatori » e non costituisce, perciò, ancora né lesione e nemmeno messa in pericolo di detti beni, non realizzando neppure un tentativo punibile; c) perché la « pace pubblica », la « sicurezza


— 411 — nazionale », l’« ordine costituzionale », sotto i quali i suddetti reati sono, rispettivamente, classificati, sono astrazioni concettuali o, comunque, oggettività giuridiche di sintesi, comprendenti l’insieme dei beni oggetto giuridico dei delitti-fine che saranno commessi, ma dal solo fatto dell’associazione non ancora neppure messi in pericolo. Il pericolo — concreto o, al più, astratto o presunto in comportamenti generalmente pericolosi — segna il limite estremo del diritto penale dell’offesa. Ma anche il diritto penale preventivo, con anticipazione dell’incriminazione a fasi preoffensive trova la sua legittimazione nell’esigenza della prevenzione della lesione o messa in pericolo del bene, alla triplice condizione: 1) dell’elevato rango del bene giuridico; 2) della necessità della tutela preventiva; 3) dell’adeguata tipizzazione della fattispecie. Con la conseguente delimitazione dei reati-ostacolo o che, comunque, anticipano la soglia della punibilità agli atti preparatori, ad una loro circoscritta utilizzazione per incriminare fatti che sono la « premessa idonea » per la commissione di reati offensivi di interessi di elevato rango (quali le associazioni per delinquere, terroristiche, segrete, la banda armata, la cospirazione politica; nonché il possesso illegale di armi, esplosivi, sostanze stupefacenti; la detenzione o la fabbricazione di strumenti per la fabbricazione di monete; come pure la sperimentazione ai fini di clonazione umana e di ibridazione uomo-animale). Circa la conciliabilità dei reati omissivi col principio di offensività, essi sono ricuperabili a tale principio in termini non naturalistici (stante l’inconsistenza « fisica » dell’omissione), ma normativi: nei limiti, cioè, in cui non ne violano la ratio garantista e, quindi, non contrastino col diritto penale a base oggettiva. E ciò attraverso: 1) la riformulazione o, comunque, l’interpretazione dei reati omissivi propri (cioè di mera condotta omissiva) in termini di offesa (da accertarsi in concreto) ad un preesistente bene giuridico. E non invece in termini di mera disubbidienza all’obbligo di attivarsi, come sono, oggi, in genere formulati ed interpretati (es.: il delitto dell’art. 377, che incrimina l’omissione di atti di ufficio, a prescindere dal fatto che essa abbia o meno provocato un qualche turbamento alla regolare attività della pubblica amministrazione); 2) la ricostruzione dei reati omissivi impropri (cioè di omesso impedimento dell’evento) in termini di equiparazione, sotto il profilo del disvalore sostanziale, dell’offesa non impedita all’offesa causata. Ciò sulla base dei tre requisiti seguenti: a) la previa formulazione dei reati commissivi, convertibili in forza dell’art. 13 in reati omissivi impropri, in termini di offesa; b) la delimitazione dell’obbligo di garanzia (art. 13, n. 1) nei termini solidaristici della protezione dei soggetti incapaci di un’adeguata autoprotezione dei propri beni e a carico di specifiche categorie di soggetti, muniti di reali poteri giuridici impeditivi; c) la specificazione dell’azione doverosa idonea ad impedire l’evento, poiché è l’azione doverosa impeditiva che tipizza il reato omissivo improprio.


— 412 — 8. Il principio di offensività come canone di interpretazione. — Il principio dell’art. IV, quale canone di interpretazione, impone al giudice il dovere di interpretare le fattispecie vigenti in termini di offesa, anche se trattasi di fattispecie non sempre costruite in armonia con esso, ma pur sempre convertibili in reati di offesa senza che la lettera della legge ponga degli ostacoli insuperabili. Così debbono considerarsi non reati, perché inoffensivi, il falso grossolano, il falso innocuo o inutile, la falsa testimonianza su circostanze estranee o prive di efficacia probatoria, la privazione della libertà personale per una durata trascurabile, la truffa commessa mediante atti fraudolenti evidenti, le accuse calunniose paradossali o manifestamente infondate, la violazione del segreto relativo a fatti notori, i piccoli doni al pubblico funzionario, nonché la sottrazione o il danneggiamento di cose prive di apprezzabile valore, lo scarico insignificante di rifiuti, ecc. Parimenti debbono considerarsi non reati, perché inoffensivi, anche i reati omissivi propri, allorché il bene, che l’azione doverosa intende tutelare, non è pregiudicato dall’omissione posta in essere. Così nei reati di omessa rimozione di una preesistente situazione di pericolo (es.: artt. 127 e 451 n.3), allorché l’omissione resta inoffensiva, perché tale situazione viene rimossa da altri (es.: perché il soccorso alla persona in pericolo è prestato simultaneamente da altro soggetto o alla riparazione dell’edificio pericolante provvede nei debiti tempi il locatario). Così pure nei reati di omessa informazione (es.: art. 407), allorché l’omissione resta inoffensiva del bene protetto, perché le informazioni doverose sono già state comunicate da altri soggetti all’Autorità competente. E, altresì, nel delitto dell’art. 377, allorché l’atto posto in essere dal funzionario pubblico è diverso da quello dovuto, ma è parimenti idoneo a soddisfare l’interesse del richiedente. Ma una particolare applicazione interpretativa del principio dell’art. IV va operata anche per quanto riguarda lo stesso concetto di « pericolo », che caratterizza tutti i reati di pericolo. E proprio in ordine a tale concetto occorre precisare: 1) circa l’essenza, che è oggi un punto fermo la concezione del pericolo-giudizio di relazione probabile tra una condotta e un evento dannoso. Abbandonata è, infatti, la concezione del pericolo-evento, quale situazione di incertezza tra il verificarsi e il non verificarsi di un evento, naturalisticamente esistente, causalmente provocata e da accertarsi ex post sulla base delle leggi causali. In termini naturalistico-causali è inconcepibile un siffatto stato di incertezza, poiché le condizioni del verificarsi dell’evento o esistevano, e allora l’evento era certo, o non esistevano e allora l’evento era impossibile. L’incertezza del verificarsi dell’evento altro non è che il frutto dell’umana incapacità di onniscienza dell’insieme dei fattori causali, umani e naturali, positivi o negativi, concretamente operanti;


— 413 — 2) circa il momento del giudizio, va respinta la tesi della diagnosi ex post (dopo cioè la verificazione o la non verificazione dell’evento), poiché essa non solo rende inconcepibile il giudizio del pericolo, in quanto « a cose concluse » l’evento lesivo non è più probabile, ma si è verificato o non verificato; ma priva altresì il reato di pericolo della sua funzione preventiva, quando si fa coerentemente dipendere la presenza o assenza del pericolo dalla presenza o assenza della lesione. Va viceversa accolta la tradizionale tesi della prognosi ex ante, retrocedendo il giudizio, in conformità alla funzione preventiva dei reati di pericolo, al momento che, a seconda dei tipi di reato, assicura la maggiore efficacia preventiva. Ossia: a) al momento della condotta rispetto ai reati di condotta pericolosa o equivalenti, nei quali cioè il pericolo qualifica la condotta (es.: artt. 273, 287), il presupposto (es.: art. 127) o l’oggetto materiale (es.: art. 451 n.3) della stessa; b) al momento, tra la fine della condotta e la fine dell’evento tipico, più sfavorevole rispetto alla suddetta prognosi, se si tratta di reati di evento di pericolo o di evento pericoloso, nei quali cioè il pericolo costituisce l’evento stesso (es.: artt. 280, 288, 451 n. 2) o un attributo di esso (es.: art. 289). Così ai fini, ad es., dell’art. 121 n. 1 è sufficiente che, in un qualsiasi momento del processo patologico, la vita del soggetto sia stata in imminente pericolo, anche se poi questo si è dileguato; 3) circa la base del giudizio, si contrappongono: a) la tradizionale tesi della base parziale ex ante, per la quale deve tenersi conto delle circostanze, al momento della condotta, conosciute o generalmente conoscibili (dall’uomo medio o da un osservatore obiettivo posto nella stessa situazione temporale-spaziale dell’agente); b) la più recente tesi della base totale ex ante, per la quale debbono considerarsi tutte le circostanze esistenti, nei momenti soprandicati, anche se conosciute successivamente. Le due tesi riflettono le contrapposte opzioni, rispettivamente, per un diritto penale a tendenza soggettivistica, del disvalore della condotta, e per un diritto penale a base oggettivistica. La prima assicura una maggiore efficacia preventiva dei reati di pericolo. Al prezzo, però, non solo della commistione dell’elemento oggettivo del pericolo con la colpevolezza. Ma, altresì, dello scavalcamento del principio di offensività, portando essa ad ammettere il pericolo ove non esiste o, addirittura, ad escluderlo dove esiste (es.: ad ammettere il pericolo dell’art. 273 in caso di incendio di cosa propria in zona generalmente affollata, ma casualmente deserta, e ad escluderlo in caso di incendio in zona generalmente deserta, ma casualmente affollata, allorché la causale presenza o assenza di persone non siano né conosciute dall’agente, né generalmente conoscibili). La seconda tesi, se può attenuare la funzione preventiva dei reati di pericolo, è la più rispondente ai principi di offensività e di extrema ratio, assicurando la concretezza del giudizio di pericolo (nel suddetto esempio il pericolo, correttamente, esiste nel secondo caso e non nel primo);


— 414 — 4) circa il metro del giudizio, la probabilità dell’evento va determinata secondo a migliore scienza ed esperienza del momento storico, utilizzandosi cioè le leggi naturali, universali (di necessità o di impossibilità) o statistiche (di probabilità); 5) circa il grado necessario di probabilità, esso è dato dalla probabilità relativa (un rilevante numero di possibilità), non essendo sufficiente né la mera possibilità, né necessaria la certezza (pressoché inesistente) o la probabilità assoluta (maggiori possibilità positive rispetto alle negative). Con tutte le ineliminabili incertezze dei giudizi quantitativi, non essendo il grado di probabilità determinabile in termini matematici ed essendo, comunque, del tutto arduo stabilire se il fatto concreto raggiunga il necessario grado di probabilità. FERRANDO MANTOVANI Cattedratico di Diritto penale nell’Università di Firenze


LA RESPONSABILITÀ ‘‘DA REATO’’ DEGLI ENTI: I CRITERI D’IMPUTAZIONE (*)

SOMMARIO: I. Societas delinquere potest? — II. Funzioni e costi della responsabilità degli enti. — III. I criteri d’imputazione del reato all’ente. — IV. I modelli organizzativi.

I. Societas delinquere potest? — 1. Dedicando alle ‘‘ragioni del diritto’’ la presentazione degli scritti in onore di un compianto Maestro (1), Piero Schlesinger ha richiamato con forza il senso di fondo del lavoro dei giuristi impegnati nello studio e nell’applicazione del diritto positivo. L’orizzonte è complesso; ‘‘il rapporto fra interpretazione e dogmatica non è lineare, ma circolare’’; la centralità del riferimento al sistema — ‘‘quale elemento di verifica della razionalità e ammissibilità delle possibili attribuzioni di senso’’ — si accompagna ad una esplicita messa in guardia contro i pericoli del concettualismo. Ma proprio la consapevolezza delle difficoltà e delle tensioni — fra pensiero topico e sistematico, fra la ‘‘rinata esigenza di una legittimazione metalegislativa’’ e il vincolo ‘‘assoluto’’ di fedeltà al testo della legge — dà sostanza ad un impegno intellettuale ed etico che si misura, in ultima analisi, sul piano delle ragioni del diritto e della razionalità dell’approccio. Fondamento e, insieme, obiettivo problematico della scienza giuridica, al di là delle partizioni per campi di materia, sono dunque ragioni, alla luce delle quali il diritto trae senso e legittimazione. È su questo terreno, che la scienza giuridica è sfidata in particolare dalle novità legislative più dirompenti rispetto al sistema normativo preesistente, e, di riflesso, rispetto al sistema di pensiero che sulla tradizione si è modellato. Un esempio di forte ‘‘attualità’’, al crocevia fra il diritto penale e altri settori dell’ordinamento giuridico, può essere colto nell’introduzione, nell’ordinamento giuridico italiano, di un sistema di responsabilità di enti collettivi conseguente a reato (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, emanato in attuazione della legge delega 29 settembre 2000, n. 300) (2). (*) Destinato agli Studi in onere di Piero Schlesinger. (1) SCHLESINGER, Presentazione degli scritti in onore del prof. Luigi Mengoni - Le ragioni del diritto, in Jus, 1996, p. 11 s. (2) Occasione e stimolo dell’introduzione della responsabilità degli enti è stata l’attuazione (con la citata l. n. 300) di convenzioni internazionali in materia di corruzione ed al-


— 416 — La nuova forma di responsabilità è espressamente definita amministrativa, ed è nata con un ambito d’applicazione ridotto a pochi delitti dolosi particolarmente profilati. Un catalogo più ampio era previsto dalla legge delega, che comprendeva anche delitti colposi contro la persona (omicidio e lesioni da infortuni sul lavoro), delitti contro l’incolumità pubblica (con chiaro riferimento privilegiato ad eventi incidentali derivanti da attività d’impresa) e contravvenzioni (le più gravi) in materia ambientale. Queste materie, che avrebbero fatto della responsabilità degli enti un problema di quotidiana amministrazione della giustizia, sono state escluse dall’attuazione della delega, nella fase finale di elaborazione del decreto legislativo, sotto la spinta di pressioni del mondo imprenditoriale (3). Sono rimasti nel d.lgs. n. 231 del 2001 (artt. 24-26) soltanto delitti dolosi (anche solo tentati) attinenti ai rapporti con la Pubblica Amministrazione: malversazione in danno dello Stato (art. 316-bis), indebita percezione di erogazioni (art. 316-ter), truffa e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico, concussione e corruzione. Il catalogo è poi stato allargato (a delitti di falso nummario) dalla normativa sull’euro (art. 6 del d.l. 25 settembre 2001, n. 350, convertito in l. 23 novembre 2001, n. 409) e, soprattutto, con l’attuazione della delega per la riforma del diritto penale societario (d.lg. 11 aprile 2002, n. 61). La ‘‘parte generale’’ è d’ampio respiro. Il d.lgs. n. 231 contiene i principi generali e disciplina gli istituti generali di una responsabilità di tipo nuovo nell’ordinamento italiano (ancorché ben nota all’esperienza comparatistica). Con la scialba etichetta di responsabilità amministrativa, e in ambito ridotto all’osso, è stata introdotta una forte innovazione sistematica, il cui disegno è fin d’ora potenzialmente aperto a reggere un indefinito sviluppo della responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti. Ci troviamo di fronte, per così dire, ad una rivoluzione timida: una svolta ‘‘di sistema’’, attuata con estrema (troppa?) cautela, verso il superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest. 2. Di fronte al nuovo istituto, il dibattito teorico si è largamente focalizzato sul suo inquadramento: davvero responsabilità amministrativa, tro. Sulla tormentata storia dell’attuazione della legge delega, cfr. PIERGALLINI, Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale, in Dir. pen. e processo, 2001, p. 1353 s. Sul d.lgs. n. 231 del 2001, cfr. MUSCO, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, in Diritto e giustizia, 2001, n. 23, p. 8 s.; PALIERO, Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere (et puniri) potest, in Corriere giuridico, 2001, n. 7, p. 845 s.; DE MAGLIE, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, in Dir. pen. e processo, 2001, p. 1348 s.; GENNAI-TRAVERSI, La responsabilità degli enti, Milano, 2001; DE VERO, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato, in questa Rivista, 2001, p. 1126 s. (3) Contrastanti pareri, su questo punto, sono stati espressi dai due rami del Parlamento della XII legislatura. Una valutazione positiva del self restraint del legislatore delegato, pur ‘‘al limite del difetto di delega’’, è espressa da DE VERO, op. cit., p. 1128 s.


— 417 — come sta scritto nei testi di legge, o non invece, nella sostanza, responsabilità penale? Vale le pena soffermarci un attimo sul senso della questione, situata per così dire sul crinale fra pensiero sistematico e concettualismo dogmatico. La qualificazione di un istituto rivela un senso normativo, in quanto additi l’applicabilità di uno, piuttosto che d’un altro modello di disciplina. Nella specie, l’opzione per la formula della ‘‘responsabilità amministrativa’’ — che occorre prendere sul serio, in quanto espressione della volontà del legislatore — aprirebbe teoricamente la strada a un’integrazione nel sistema dell’illecito amministrativo, già ben noto all’ordinamento italiano. In concreto, però, la formula adoperata dal legislatore italiano si riduce a un’etichetta carica di significati simbolici, del tutto neutra rispetto alla disciplina degli istituti. Il problema, cui si è ritenuto di rispondere istituendo la nuova forma di responsabilità degli enti, sorge dentro il terreno penalistico: la questione concerne una responsabilità direttamente raccordata al presupposto penalistico della commissione di reati. Gli strumenti sanzionatori previsti per gli enti consistono in sanzioni severe (ancorché sotto tanti aspetti inadeguate) già utilizzate sia nel diritto penale classico, sia nella disciplina dell’illecito amministrativo. Per il loro contenuto, tali istituti pongono problemi ‘‘di garanzia’’, che il legislatore italiano ha ritenuto di dover risolvere apprestando il livello di garanzie più elevato, proprio del diritto penale: principio di legalità e applicazione della legge più favorevole, con riferimento a tutti i presupposti della responsabilità (artt. 2 e 3); e ancoraggio della responsabilità a criteri d’imputazione soggettivamente pregnanti. In coerenza con la collocazione in ambito penalistico, la normativa italiana, pur parlando di responsabilità amministrativa, ha stabilito la competenza del giudice penale, e assicurato garanzie difensive corrispondenti a quelle previste per l’imputato. Nella sostanza, ci troviamo di fronte ad un sottosistema autonomo, entro il complesso di quello che può essere ed è definito dalla dottrina come sistema punitivo, comprendente sia il diritto penale sia il sistema dell’illecito ‘‘amministrativo’’. Per come è disciplinato dal d.lgs. n. 231, il nuovo sottosistema non sembra (allo stato) bisognoso di integrazioni tratte aliunde, salvo il collegamento funzionale col sistema penale per quanto concerne la definizione del primo presupposto della responsabilità dell’ente, costituito dal commesso reato. 3. Preso atto dei contenuti, dell’autonomia, delle connessioni del nuovo sottosistema normativo, la questione dell’etichetta (‘‘penale’’ o ‘‘amministrativo’’) si riduce a questione ‘‘accademica’’. Un contenuto sostanziale lo avrebbe, se il parlare (come ha fatto il legislatore italiano) di responsabilità amministrativa, desse corpo ad una ‘‘frode delle etichette’’


— 418 — nel senso pregnante in cui il concetto è utilizzato in dottrina: se cioè la classificazione formale servisse a coprire l’elusione di garanzie rese necessarie dalla sostanza ‘‘punitiva’’ degli istituti. Non è il nostro caso: nell’apprestare garanzie sostanziali e processuali, il legislatore italiano del 2001 ha adottato (come vedremo fra poco) un’ottica tipicamente penalistica, fra tutte la più garantista (4). Parlando di responsabilità amministrativa, e non penale, il legislatore italiano ha fatto una scelta simbolica, tutt’altro che priva di efficacia sul piano della retorica della comunicazione pubblica. L’etichetta prescelta trasmette un messaggio di minor gravità e di minore riprovazione, rispetto alla responsabilità penale. Soltanto dentro questo involucro simbolico la responsabilità degli enti è stata accettata (e non senza contrasti) nel contesto culturale e (soprattutto) nel contesto politico italiano, ancora alla svolta del millennio. I giuristi teorici, più o meno liberi da preoccupazioni ‘‘retoriche’’, ma non da pretese ‘‘dogmatiche’’, hanno reagito nel modo acutamente descritto da Umberto Eco: ‘‘spesso, di fronte al fenomeno sconosciuto, si reagisce per approssimazione: si cerca quel ritaglio di contenuto, già presente nella nostra enciclopedia, che bene o male sembra rendere ragione del fatto nuovo’’ (5). E così, nel nostro caso i giuristi sono andati a cercare, e hanno avuto buon gioco nel ritrovare aspetti che ricollegano la responsabilità degli enti, così come disciplinata nel d.lgs. n. 231 del 2001, all’uno o all’altro dei modelli già noti all’ordinamento italiano. Hanno proceduto, per riprendere l’esempio introdotto da Eco, come Marco Polo quando, a Giava, vede il rinoceronte, e, facendo uso di un concetto che la sua cultura gli metteva a disposizione, lo classifica come unicorno, non senza, però, mettere in evidenza le peculiarità che distinguono il rinoceronte da ogni altro animale con un solo corno sul muso (6). L’analisi dei dati normativi conduce alla conclusione che l’istituto introdotto dal d.lgs. n. 231 del 2001 non corrisponde appieno né all’illecito amministrativo né all’illecito penale, così come tradizionalmente configu(4) D’altra parte, la stessa sanzione amministrativa non si sottrae, anche alla luce del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., a regole e principi che, ‘‘piuttosto che discendere dalla connotazione penale, civile o amministrativa dell’illecito’’, discendano ‘‘dalla connotazione dell’illecito in quanto tale, in quanto infrazione a cui l’ordinamento debba o possa specificamente reagire’’: ANGIOLINI, Principi costituzionali e sanzioni amministrative, in Jus, 1995, p. 247. Ove mai garanzie indispensabili fossero eluse, si porrebbero problemi di legittimità in relazione a fonti sovraordinate, quali gli artt. 25 o 27 della Costituzione, o l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, indipendentemente dalla qualificazione legislativa: in questo senso vanno i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea, su cui cfr. PALIERO, in questa Rivista, 1985, p. 908 s.; PALIERO-TRAVI, La sanzione amministrativa, Milano 1988, p. 151 s. (5) U. ECO, Kant e l’ornitorinco, Milano 1997, p. 43. (6) MARCO POLO, Il Milione, p. 143.


— 419 — rati (7). La Relazione al decreto ha ripreso la classificazione come tertium genus, già formulata nel progetto di riforma del codice penale (8) che, proponendo un articolato sistema di responsabilità ‘‘da reato’’ della persona giuridica, ha fatto da apripista alla l. n. 300 del 2000: il sistema delineato coniugherebbe ‘‘i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo’’. Soluzione ‘‘centauresca’’, ha obiettato chi vi coglie il rischio di complicazioni difficilmente controllabili (9). A me pare che il senso della formula stia, al contrario, nel sostanziale disimpegno dal problema classificatorio, risolto con la pura e semplice rilevazione della ‘‘novità’’ dell’istituto: un istituto ‘‘ancorato a presupposti penalistici (commissione di un reato) e governato dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto al diritto penale classico presenta inevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari’’ (10). La funzione e i nessi sistematici del nuovo istituto possono essere senz’altro evidenziati da proposizioni più pregnanti della volutamente incolore etichetta di tertium genus. Del tutto inadatta mi pare l’etichetta di responsabilità ‘‘amministrativa’’, della quale, peraltro, l’interprete del diritto condito dovrà tenere in considerazione le potenziali implicazioni normative. È prevedibile (e ritengo auspicabile) un logoramento, nel corso del tempo, dei significati ideologici che quell’etichetta vorrebbe trasmettere, così come, storicamente, è avvenuto per le misure di sicurezza (‘‘amministrative’’, recita il codice, senza che più nessuno vi dia ascolto). D’altra parte, non ne farei un problema: nella attuale incerta ‘‘situazione spirituale’’, l’etichetta incolore e indolore di responsabilità meramente ‘‘amministrativa’’ sembra essere la più favorevole (la meno ostativa) ad ulteriori sviluppi del nuovo genere di istituti. Certo, è più aderente alla funzione ed agli strumenti normativi della responsabilità degli enti il ravvisarvi un ‘‘terzo binario del diritto penale criminale, accanto alla pena e alla misura di sicurezza’’ (11); un binario pensato per soggetti ‘‘artificiali’’, diversi dall’uomo che delinque, ma comunque collegato al ‘‘problema criminalità’’. Non è un caso che del problema della responsabilità degli enti, e delle possibili soluzioni, si siano occupati prevalentemente i penalisti; anche la soluzione del legislatore italiano, indipendentemente dall’etichetta, resterà prevedibilmente acquisita, nelle partizioni accademiche degli studi giuridici, all’area penalistica. C’è bisogno di riassumere l’ancoraggio penalistico della nuova forma di responsabilità in una qualche aggettivazione o qualificazione dogma(7) DE VERO, op. cit., p. 1163. (8) Il progetto e la relazione della Commissione presieduta dal prof. C.F. Grosso sono ora pubblicati in questa Rivista, 2001, p. 574 s. (9) DE VERO, op. cit., p. 1164. (10) Relazione al progetto Grosso, loco cit., p. 643 s. (11) DE VERO, op. cit., p. 1167.


— 420 — tica? Mit Worten laesst sich trefflich streiten, mit Worten ein System bereiten, an Worten laesst sich trefflich glauben: con le parole si può discutere convenientemente, con le parole si può costruire un sistema, alle parole si può bellamente credere. Del beffardo insegnamento di Mefistofele all’aspirante allievo, nella prima parte del Faust, i giuristi tendono spesso a dimenticarsi, seguendo una sorta di spontaneo, ingenuo platonismo delle ‘‘essenze giuridiche’’. Anche la disputa sulla natura giuridica della responsabilità degli enti rischia di scambiare per problemi ‘‘dogmatici’’, di sostanza, problemi di mera costruzione del linguaggio della scienza giuridica (12). Per individuare l’istituto di cui qui parliamo, mi sembra idonea la formula ‘‘responsabilità da reato’’, la quale esprime con immediatezza il problema di disciplina cui la nuova normativa ha inteso dare risposta, ed evoca il contenuto precettivo e sanzionatorio dei nuovi istituti. Personalmente, mi propongo di utilizzare questa terminologia, intendendola come ‘‘dogmaticamente neutra’’. Chi senta il bisogno di credere alle parole, sia libero di introdurre aggettivazioni coerenti con le proprie preferenze. Il difensore della purezza del diritto penale classico (13) potrà distanziare concettualmente il diritto punitivo rivolto agli enti dal diritto penale in senso stretto; altri potrà accentuare la funzione comune di risposta a fatti delittuosi. Lasciamo allora, con tutta tranquillità, la scelta di eventuali etichette ‘‘dogmatiche’’ alle preferenze ideologiche ed al profilo simbolico. Con una avvertenza: da premesse concettuali convenzionali non è dato desumere conseguenze normative. Il limite alla scelta ‘‘dottrinaria’’ delle etichette è che non sono ammesse frodi delle etichette, id est elusioni surrettizie di principi di garanzia. Sul piano normativo, interessano i contenuti, e il rispetto dei principi che i contenuti normativi chiamano in causa. II. Funzioni e costi della resposabilità degli enti. — 1. L’etichetta di ‘‘responsabilità amministrativa’’, usata dal legislatore italiano, non sottrae le soluzioni adottate al confronto con le obiezioni che la dottrina tradizionale muove contro l’idea d’una responsabilità penale delle persone giuridiche. Le obiezioni di fondo, a ben vedere, riguardano ad un tempo i (12) Di tale natura mi sembra, per es., il problema enunciato da DE VERO, op. cit., p. 1165: ‘‘può costituire reato il fatto nei confronti del cui autore non possa trovare applicazione la pena criminale, ma altro tipo di sanzione da questa più o meno divergente dal punto di vista della natura e della funzione?’’. Se sui contenuti normativi (presupposti della responsabilità e contenuto della sanzione) non c’è discussione, il problema concerne le regole d’uso (la definizione) del concetto di reato come concetto della dottrina. Non è una questione di vero o falso, ma di stipulazione o di uso linguistico. (13) Per es. ROMANO, Societas delinquere non potest (nel ricordo di Franco Bricola), in questa Rivista, 1995, p. 1031 s.


— 421 — limiti garantisti del diritto penale, e le condizioni di razionalità di un corpus normativo che intenda adempiere a funzioni di prevenzione generale mediante la posizione di precetti e sanzioni, comunque denominate, rivolte ad enti collettivi. Nell’ordinamento italiano, occorre inoltre fare i conti con l’art. 27 della Costituzione, che, nel porre il principio fondamentale sulla responsabilità penale personale, è stato pensato (nell’orizzonte normativo e culturale dell’epoca) con riferimento alla persona umana. Ammettiamo pure che la responsabilità penale delle persone giuridiche è fuori di quell’orizzonte storico (14); ciò non basta a concludere che sia vietata, decisiva essendo la possibilità di fondare o meno, nei confronti della persona giuridica, un giudizio di colpevolezza per un fatto ‘‘personalmente’’ commesso (15). Personalità della responsabilità e principio di colpevolezza sono principi di garanzia. Sotto questo profilo, la questione cruciale è se la previsione di sanzioni punitive a carico di soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche comporti o meno una lesione delle garanzie che l’art. 27 della Costituzione, pensando alle persone fisiche, ha elevato a principi cardine del sistema penale. Sgombriamo subito il campo dalla risalente e ricorrente obiezione secondo cui la sanzione finirebbe per colpire terzi ‘‘innocenti’’, quali gli associati all’ente collettivo (16). Anche nella legge delega emergeva una forte preoccupazione di tutela del socio estraneo al reato, con la previsione di un diritto di recesso, del tutto estravagante rispetto ai modelli consolidati del diritto societario, e di nuove ipotesi di azione di responsabilità. La prima bozza di decreto portata all’esame del Governo conteneva una disciplina di attuazione di tali punti, elaborata in sede tecnica con sofferta cautela, ma che non aveva potuto eliminare del tutto le forzature sistematiche che la legge delega imponeva. Reazioni provenienti dal mondo delle imprese hanno infine indotto il Governo a non attuare la delega in parte qua. Questa vicenda mostra, con l’evidenza dei fatti, come la preoccupazione di tutelare l’associato ‘‘innocente’’ sia stata perdente nello scontro con esigenze di tutela dell’ente stesso. L’argomento dell’incidenza sul socio innocente pone in rilievo un (14) All’inizio delle riflessioni della dottrina, l’art. 27 Cost. era ritenuto un ostacolo all’introduzione di una responsabilità propinamente penale delle persone giuridiche. Cfr. per tutti BRICOLA, Il costo del principio societas delinquere non potest, in questa Rivista, 1970, p. 951 s. In epoca più recente, ROMANO, op. cit. (15) In questo senso si era chiaramente espresso, fin dagli anni ’70, Gaetano PECORELLA, Societas delinquere potest, in Riv. giur. lav., 1977, p. 357 s. (16) L’argomento è stato oggetto di discussione nel 40o Juristentag del 1954, ed è stato in quella sede sostenuto da Engisch. Riferimenti in BERTEL, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 59 s.


— 422 — dato puramente fattuale, che può presentarsi in qualsiasi applicazione di sanzioni: qualsiasi pena può di fatto incidere indirettamente su terzi innocenti, legati al condannato. Tale risvolto fattuale sta fuori della portata del principio di responsabilità personale. Per gli associati, l’assoggettamento dell’ente a sanzione (comunque qualificata: anche, eventualmente, sanzione penale) fa parte del normale rischio d’impresa (17), come semplice questione di costi, di perdita patrimoniale in ragione del decremento di valore dell’ente, non diversamente da quanto avviene ed è ammesso senza problemi nel caso di assoggettamento dell’ente a conseguenze civili pregiudizievoli (per es., condanna al risarcimento di danni o ad altra prestazione). 2. Come principio fondamentale dell’attribuzione di responsabilità, la personalità dell’illecito va verificata con riguardo al soggetto che si vuol sottoporre a sanzione punitiva. Destinatario della sanzione non può essere altri che l’autore (colpevole) dell’illecito. Nel caso degli enti collettivi, occorre tenere conto della peculiare struttura dell’ente, con quanto di naturale e di artificiale concorre a determinarla. Essendo in gioco principi di garanzia, sovraordinati al legislatore ordinario, ‘‘non si può far dipendere, meccanicamente, la scelta di rendere responsabili o meno le persone giuridiche dall’adesione a precostituite opzioni dogmatiche di estrazione civilistica’’ (18). La domanda cruciale è se la garanzia incorporata nel principio di personalità-colpevolezza consenta o escluda la costruzione d’un ‘‘diritto punitivo’’ rivolto a persone giuridiche, per esigenze di garanzia della persona giuridica stessa. La risposta può essere fondata, senza fare appello a concezioni dogmatiche ‘‘discutibili’’, su ragioni di coerenza dell’ordinamento giuridico. In via di principio, una volta ammessa la possibilità ed opportunità di ‘‘creare’’ un autonomo centro d’imputazione di attività e di rapporti giuridici, la medesima logica che vale per l’imputazione all’ente dell’agire lecito di suoi ‘‘esponenti’’ (uso un termine volutamente generico) non può ragionevolmente non valere anche per l’imputazione del fatto illecito e delle sue conseguenze. È stato osservato, in quest’ordine di idee, che ‘‘se la persona giuridica può stipulare contratti, il soggetto degli obblighi che nascono da questi contratti sarà proprio essa, e sarà sempre essa che potrà violare tali obblighi. Ciò vuol dire che la persona giuridica può agire in maniera illecita’’ (19). Andando alla radice: se la persona giuridica è costruita dall’ordi(17) KREMNITZER, Die Strafbarkeit von Unternehmen, in ZStW, 2001, p. 551. (18) FARIA COSTA, Contributo per una legittimazione della responsabilità penale delle persone giuridiche, in questa Rivista, 1993, p. 1246. (19) TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, ivi, 1995, p. 625.


— 423 — namento come soggetto capace di agire, di esercitare diritti, di assumere obblighi, di svolgere attività da cui trarre profitto, ovviamente per il tramite di persone fisiche agenti per l’ente, è nella logica di un tale istituto che all’ente possa essere ascritto sia un agire lecito che un agire illecito, realizzato nella sfera di attività dell’ente stesso. La ‘‘capacità di colpevolezza’’ della persona giuridica, ideologicamente negata da un filone della dottrina, è implicita nella configurazione fattuale e giuridica di un soggetto capace di agire. La ragion sistematica conduce dunque a concludere che vi è contraddizione fra il riconoscere gli enti collettivi come ‘‘soggetti protagonisti del sistema’’, ed il pretendere per essi, in nome di principi di garanzia pensati per le persone fisiche, ‘‘una completa immunità nei confronti del sistema penale’’ (20). Lungi dal fungere da garanzia della certezza d’azione, come il ‘‘principio di colpevolezza’’ intende essere, la tesi che nega in radice la ‘‘capacità di colpevolezza’’ delle persone giuridiche è supporto ideologico di pretese di ingiustificato privilegio. Risposta affermativa, dunque, al problema se sia possibile fondare una responsabilità personale della persona giuridica (21). Si apre, a questo punto, il diverso problema delle modalità concrete di disciplina, necessarie ad assicurare la ‘‘personalità’’ della responsabilità in maniera conforme alla particolare natura dell’ente collettivo. Di ciò diremo fra poco. 3. Fin qui, abbiamo discusso della legittimazione di un sistema ‘‘punitivo’’ rivolto a persone giuridiche. Se e come un tale sistema punitivo meriti di essere costruito, passa ovviamente attraverso ulteriori valutazioni di politica del diritto. L’opzione per un sistema autonomo (anche nelle etichette) dal diritto penale può essere, per es., ragionevolmente giustificata dalla preoccupazione di non infiltrare nel diritto penale delle persone fisiche modelli d’imputazione soggettiva pensati per enti ‘‘artificiali’’. Sotto questo aspetto, l’opzione incolore del legislatore italiano, per una responsabilità definita extrapenale, può aiutare a non perdere di vista differenze insite nella natura delle materie regolate, e che giustificano discipline ragionevolmente differenziate avendo riguardo alla diversità di destinatari. L’interrogativo più radicale è un altro, e vale ugualmente per qualsiasi modello sanzionatorio: che senso ha la minaccia di sanzioni per la (20) FARIA COSTA, op. loc. cit. (21) Ciò finisce per essere riconosciuto anche da chi, pur ritenendo fuori del sistema costituzionale una responsabilità penale delle persone giuridiche, ammette che ‘‘nel diritto penale amministrativo il societas delinquere non potest non si pone negli stessi rigidi termini’’: ROMANO, op. cit., p. 1037. Anche il sistema dell’illecito amministrativo, infatti, non può prescindere da un criterio di responsabilità ‘‘personale’’: KREMNITZER, op. cit., p. 551. Cfr. anche ANGIOLINI, op. cit., p. 248.


— 424 — persona giuridica? Se è vero che solo gli individui possono venire influenzati da sanzioni, in termini di ‘‘prevenzione generale’’, allora la sanzione a carico delle imprese può assumere un ruolo dal punto di vista politico-criminale solo se soggetti agenti per l’ente ne siano influenzati, e messi nella condizione di mutare il loro comportamento (22). Una prognosi positiva, circa l’efficacia ‘‘generalpreventiva’’ delle sanzioni rivolte all’ente, non è affatto scontata. Ma può essere ragionevolmente ipotizzata, salva la verifica dei fatti. La Relazione governativa sul d.lgs. n. 231 del 2001 parla di ragioni ‘‘di politica criminale’’ che premono per l’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi. Da un lato, esigenze di omogeneità delle risposte sanzionatorie degli Stati (23). Dall’altro, la consapevolezza di ‘‘pericolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa’’: l’esigenza di sanzioni ‘‘punitive’’ si lega alla ‘‘scoperta’’, da parte del diritto penale e della criminologia, dell’impresa e di altre organizzazioni complesse quali centri capaci di generare o di favorire la commissione di fatti illeciti, anche delittuosi (24). Richiamando testualmente un passo della relazione della Commissione Grosso, sul progetto preliminare di riforma del codice penale, la relazione al d.lgs. n. 231 prende in considerazione l’ente collettivo ‘‘quale autonomo centro d’interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell’interesse dell’ente’’. Sono comprovate dall’esperienza le potenzialità ‘‘criminogene’’ di strutture organizzate. Come osserva la Commissione Grosso, riprendendo temi ben presenti nella letteratura criminologica e giuridica, ‘‘spesso l’illecito è frutto di condizionamenti sull’agire del singolo, connessi all’operare per l’organizzazione: condizionamenti che possono derivare, e di regola derivano, da vincoli organizzativi, stili di comportamento, ‘politiche’ imposte o additate ai portatori di determinati ruoli’’. Appare perciò ragionevole supporre che sanzioni comunque significative, rivolte alla persona giuridica, possano venire in rilievo per le decisioni e le attività dei soggetti che, associati nell’ente collettivo, o comunque operando per esso, sono il tramite necessario per l’adempimento dei doveri gravanti sull’ente, e deb(22) BERTEL, op. cit., p. 65. (23) Sulle esperienze di altri paesi, nei quali è da tempo più o meno remoto in vigore un sistema di responsabilità anche penale delle persone giuridiche, ci limitiamo ad alcune poche indicazioni: DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, p. 88 s.; DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità penale delle personnes morales, ivi, 1995, p. 189 s.; STELLA, Criminalità d’impresa. Lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998. Per la letteratura americana, DI MENTO-GEIS-GELFAND, Corporate crime liability: a bibliografy, in Western State University Law Review, vol. 28o, 2001. (24) Cfr. per tutti FARIA COSTA, op. cit., p. 1243.


— 425 — bono assumere e assumono gli interessi dell’ente fra i criteri di orientamento della propria attività. Questa influenza può esplicarsi non semplicemente nei confronti dei potenziali autori di reato, secondo il modello della deterrenza, ma nei confronti di tutti i soggetti che abbiano l’interesse e la possibilità di influire sul modo di essere dell’ente. Anche gli associati possono fare qualcosa per prevenire reati dell’ente (25), per es. con un’oculata scelta degli amministratori. Rivolto al ‘‘fatto’’ di organizzazioni complesse, il sistema di responsabilità chiama in gioco un sistema complesso di azioni e reazioni di una pluralità di soggetti, e può favorire, con opportune tecniche, un migliore assetto ed orientamento delle organizzazioni cui è rivolto. Importanza decisiva, anche sotto questo aspetto ‘‘funzionale’’, hanno i criteri d’imputazione della responsabilità all’ente, già altrimenti decisivi sotto l’aspetto della ‘‘personalità’’ della responsabilità. III. I criteri d’imputazione del reato all’ente. — 1. Per quanto concerne l’ambito obiettivo della responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti, il legislatore italiano ha adottato un modello chiuso, fondato su un’elencazione nominativa di reati (26). Il criterio d’imputazione del fatto all’ente è quello della commissione del reato, da parte di date categorie di soggetti, ‘‘a vantaggio’’ o ‘‘nell’interesse’’ dell’ente. Nella legge delega per la riforma societaria si parla solo di reato commesso ‘‘nell’interesse’’. Secondo la relazione al decreto, il criterio dell’interesse caratterizzerebbe la condotta in senso marcatamente soggettivo, quello del vantaggio esprimerebbe invece un aspetto obiettivo, che ‘‘richiede sempre una verifica ex post’’. Credo sia preferibile interpretare i due termini come un’endiadi che addita un criterio unitario, riducibile ad un ‘‘interesse’’ dell’ente inteso in senso obiettivo: non necessariamente un interesse in concreto soddisfatto, sì invece un interesse dell’ente (o, che è lo stesso, un suo possibile vantaggio) riconoscibilmente connesso alla condotta dell’autore del reato. Il collegamento del reato con l’ente non è rimesso (e non sarebbe ragionevole rimetterlo) alle soggettive intenzioni o rappresentazioni dell’agente, ma poggia su dati obiettivi (27). (25) KREMNITZER, op. cit., p. 552. (26) Il progetto Grosso propone invece (art. 123, comma 1) un modello aperto, fondato un duplice criterio: a) delitti dolosi commessi ‘‘per conto o comunque nell’interesse specifico’’ della persona giuridica stessa, da parte di soggetti competenti a impegnarla; b) reati realizzati nello svolgimento dell’attività della persona giuridica, con inosservanza di disposizioni pertinenti a tale attività, da persone che ricoprono una posizione di garanzia nell’ambito dell’organizzazione (esclusi i reati commessi in danno della persona giuridica). (27) È espressamente esclusa la responsabilità dell’ente qualora l’autore del reato ab-


— 426 — Non è richiesto dalla legge, anche se sarà il caso normale, che l’interesse o il vantaggio abbiano un diretto contenuto economico. La formula dell’agire ‘‘nell’interesse’’ o ‘‘a vantaggio’’ ben si attaglia a forme aggressive di criminalità dolosa, come quelle considerate nel d.lgs. n. 231 del 2001. Ove mai la responsabilità dell’ente venisse estesa a reati colposi, il criterio dell’interesse o vantaggio dovrebbe (e potrebbe) essere ragionevolmente interpretato come riferito non già agli eventi illeciti non voluti, bensì alla condotta che la persona fisica abbia tenuto nello svolgimento della sua attività per l’ente. Per quanto concerne i soggetti, del cui fatto l’ente possa rispondere, viene delineato (art. 5) un sistema a due livelli: quello dei soggetti che, con brutta ma comoda espressione, sono definiti ‘‘in posizione apicale’’ (lett. a)) e quello dei soggetti ‘‘sottoposti alla direzione o alla vigilanza’’ di uno dei soggetti apicali (lett. b)). La distinzione ‘‘interna’’ fra soggetti apicali e subalterni acquista rilievo ai fini della determinazione delle condizioni, in presenza delle quali la responsabilità dell’ente si vuole esclusa. Il d.lgs. n. 231 del 2001 colloca al livello apicale, accanto alle persone ‘‘che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente’’, anche i soggetti apicali di strutture decentrate autonome, muniti di autonomi poteri di direzione. Tale inquadramento, spiega la relazione, è suggerito sia dal dato empirico (nelle realtà aziendali non piccole, vi sono organi, per es. direttori di stabilimento, molto spesso dotati di una forte autonomia gestionale), sia dalla coerenza con modelli normativi già adottati in materie pertinenti ad attività e a responsabilità d’impresa (emblematico il d.lgs. n. 626 del 1994 in materia di sicurezza e igiene del lavoro) (28). 2. Nello stabilire i presupposti della responsabilità dell’ente, il legislatore italiano ha optato per una disciplina particolarmente garantista. bia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi. Si tratta di un mero corollario del criterio di cui al comma 1, che non comporta alcuna ulteriore restrizione. (28) Può venire in rilievo anche il fatto di soggetti ‘‘esterni’’ alla struttura formale dell’ente, che abbiano agito nell’interesse o a vantaggio di questo? Fra i soggetti apicali la normativa inserisce coloro che abbiano esercitato, ‘‘anche di fatto, gestione e il controllo’’ dell’ente. Su questo punto, il decreto d’attuazione ha pedissequamente recepito la formula della legge delega, che sembra riferirsi esclusivamente all’ente nel suo complesso (non, dunque, a singole unità) e richiedere congiuntamente l’esercizio di fatto della gestione e del controllo. Restano esclusi i soggetti (come i sindaci) che abbiano competenza a svolgere o di fatto svolgano soltanto attività di controllo. Cfr. GENNAI-TRAVERSI, op. cit., p. 43. Quanto ai soggetti sottoposti alla altrui direzione o vigilanza, la appartenenza formale all’organizzazione dell’ente è condizione normale, ma non sono impensabili situazioni peculiari, nelle quali un incarico particolare sia stato affidato a soggetti esterni, tenuti ad eseguirlo sotto la direzione e il controllo di soggetti apicali dell’ente. In situazioni del genere, che ben potrebbero essere strumento od occasione di illeciti, non vedo ragioni per ritenere esclusa la responsabilità ‘‘da reato’’ dell’ente, se il reato sia stato commesso a suo interesse o vantaggio dall’incaricato (possiamo dire dal ‘‘faccendiere’’?) inquadrato o meno in uno stabile rapporto di lavoro subordinato. Ciò che conta, come leggiamo (ad altro proposito) nella


— 427 — Secondo la relazione al decreto, che bene ne esprime l’ideologia, l’ente risponde di un reato che sia espressione della politica aziendale o quanto meno derivi da una ‘‘colpa di organizzazione’’. L’analisi del sistema mostra, mi pare, una realtà normativa più complessa, non interamente riconducibile all’idea della colpa d’organizzazione. I criteri d’imputazione sono differenti, secondo che il reato sia stato commesso da soggetti apicali o da subalterni. La differenziazione era già nel progetto Grosso, ma diversi, nel d.lgs. n. 231 del 2001, ne sono i criteri e gli effetti. Per quanto concerne il reato commesso da ‘‘subalterni’’, secondo la legge delega l’ente ne risponde ‘‘quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi’’ connessi alle funzioni di direzione o vigilanza. Il d.lgs. n. 231 del 2001, all’art. 7, ripropone nel comma 1 tale formula, e nel comma 2 aggiunge che l’inosservanza è esclusa ‘‘se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi’’. Questa formula corrisponde quasi alla lettera all’art. 124, comma 1, del progetto Grosso. Quali le ragioni della soluzione adottata? La funzione preventiva che può essere svolta dalla previsione della responsabilità da reato degli enti, è proprio quella di sollecitare l’ente ad adottare modelli organizzativi ed operativi idonei a prevenire reati. La previa adozione di modelli idonei viene dunque, con buone ragioni, ritenuta influente sulle conseguenze dell’illecito commesso nonostante l’operatività del modello. L’alternativa proponibile è fra soluzioni in chiave di riduzione, bene esemplificate nell’esperienza comparatistica, ovvero di esclusione della sanzione. L’opzione per la soluzione in chiave di esonero, nel d.lgs. n. 231 del 2001, è coerente con le indicazioni della legge delega a proposito del reato dei subalterni: se non vi è stata inosservanza di obblighi di direzione o vigilanza, la responsabilità dell’ente è esclusa. L’adozione e attuazione di modelli organizzativi idonei allo scopo può ben ritenersi modalità normale di adempimento dei doveri ‘‘di direzione’’. Doveri di vigilanza verranno in rilievo, in quanto inerenti al modello organizzativo. Per il reato dei subalterni, la previsione di un limite alla responsabilità dell’ente, chiaramente fondata sulla legge delega, è inoltre fondata nell’ottica ‘‘garantista’’ di una pregnante valorizzazione di coefficienti di colpevolezza ascrivibili all’ente, la cui colpevolezza non si ritiene possa essere identificata tout court in quella del ‘‘subalterno’’ autore del reato. Nella relazione al decreto, la rilevanza assegnata ai modelli organizzativi (esonero da responsabilità, non mera riduzione della sanzione) è relazione al decreto, è che l’ente risulti impegnato dal compimento di un’attività destinata a riversare i suoi effetti nella sua sfera giuridica.


— 428 — stata motivata su un duplice ordine di ragioni: da un lato, evidenti ragioni di garanzia (ricerca di un collegamento pregnante fra il reato e la voluntas societatis), e dall’altro asserite ragioni di funzionalità preventiva. ‘‘Ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi, significa motivarlo all’osservanza degli stessi, e quindi a prevenire la commissione di reati da parte delle persone fisiche che vi fanno capo’’. Ciò in alternativa a soluzioni in chiave di versari in re illicita, che indurrebbero nel destinatario ‘‘un senso di fatalista rassegnazione’’. 3. Per il reato dei dirigenti apicali, la legge delega (anche qui seguendo il progetto Grosso) non prevedeva condizioni di esonero dell’ente. Il legislatore delegato, discostandosi dal sistema della delega, ha però ritenuto di dover attribuire rilievo all’organizzazione dell’ente, anche per il reato dei soggetti apicali. È questo il punto su cui si è concentrata l’attenzione e la critica dei primi interpreti del decreto legislativo. Dispone l’art. 6 che, se il reato è stato commesso da un soggetto apicale, l’ente ‘‘non risponde se prova che...’’: la fattispecie di esonero è costruita in chiave di inversione dell’onere della prova. L’effetto di esonero è incompleto: dispone il comma 5 dell’art. 6 che ‘‘è comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente’’ (nel sistema della responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti, la confisca è una sanzione, e quindi sottende un riconoscimento di responsabilità). Le condizioni dell’esonero non si esauriscono nella predisposizione ed efficace attuazione di idonei modelli organizzativi: l’esonero dell’ente da responsabilità (più precisamente: da sanzioni diverse dall’eventuale confisca) si ha soltanto se il soggetto apicale ha commesso il reato ‘‘eludendo fraudolentemente’’ il modello. Questa ulteriore restrizione intende circoscrivere l’esonero a situazioni limite, nelle quali il soggetto apicale, che normalmente impersona l’ente, abbia chiaramente agito (sia pure ‘‘nell’interesse’’ o ‘‘a vantaggio’’ dell’ente) non semplicemente in contrasto con le regole, ma in modo da frustrare, con l’inganno, il diligente rispetto delle regole da parte dell’ente nel suo complesso. Un problema di compatibilità dell’art. 6 con la legge delega è stato sollevato nel motivato parere contrario della Commissione giustizia del Senato, e motivatamente riproposto in uno dei più attenti studi sul decreto legislativo (29). La Relazione al decreto sembra adombrare (invero in modo non chiaro) un problema di legittimità costituzionale di soluzioni diverse, che non prevedessero alcuna possibilità di esonero dell’ente dalla (29)

DE VERO, op. cit., p. 1131 s.


— 429 — responsabilità (dalle sanzioni) per il reato di soggetti apicali (30). Se così fosse, la soluzione adottata dal decreto sarebbe doverosa; ma la premessa costituzionale è più che discutibile. L’elevato livello di poteri e di responsabilità del soggetto apicale consente di fondare sul suo ‘‘fatto colpevole’’, commesso ‘‘a vantaggio’’ o ‘‘nell’interesse’’ dell’ente, una qualche reazione nei confronti di questo, su una base che non pare proprio qualificabile come responsabilità per versari in re illicita, ma come colpevolezza dell’ente stesso, impersonato dal soggetto apicale che ha agito colpevolmente. La medesima logica che giustifica, sul versante dell’agire lecito, l’imputazione all’ente del fatto dei suoi rappresentanti e dirigenti, e del profitto che ne sia conseguito, giustifica anche l’imputazione del fatto illecito e delle sue conseguenze: ciò non è in discussione per le conseguenze civilistiche, e non si vede perché mai la soluzione debba essere diversa per le sanzioni di tipo punitivo. Anche sotto il profilo della funzionalità preventiva, la previsione dell’esonero da responsabilità è una soluzione ‘‘discutibile’’. La funzione di prevenzione generale è radicata nella comminatoria di sanzioni efficaci e credibili (31). L’ente avrebbe in ogni caso interesse a fare (a fare per davvero) il possibile per un’effettiva prevenzione di reati che ne comporterebbero la responsabilità. E può fare molto. Valutazioni di affidabilità morale, oltre che tecnica, possono (dovrebbero) venire in rilievo nella scelta dei dirigenti a qualsiasi livello; può (dovrebbe) essere favorito il consolidarsi di uno stile etico fortemente dissuasivo rispetto a dissonanti interpretazioni di ciò che l’ente si attenda dai suoi uomini. L’efficace attuazione di misure idonee può raggiungere il risultato ‘‘preventivo’’, soddisfacendo un interesse che è anche dell’ente: l’esonero da sanzioni sarebbe ottenuto nei fatti, evitando l’illecito. Per contro, la previsione di un possibile esonero, pure in caso di commissione del reato, può aprire la strada alla predisposizione di adempimenti fittizi, premessa di scuse pretestuose, con effetti di inutile complicazione del processo. Ovviamente, trattandosi di valutazioni prognostiche di carattere probabilistico, esposte ad una possibile ‘‘falsificazione’’, il problema fattuale della funzionalità preventiva resta aperto alla verifica dei fatti. Ma proprio per questo, l’appello ad una indimostrata maggiore funzionalità preventiva non è un fondamento sufficiente per la soluzione adottata dal legislatore delegato. 4. Il dubbio d’una forzatura della legge delega può essere (forse) faticosamente superato, alla luce di un’attenta lettura sistematica della (30) Parla, cautamente, di ‘‘temperamento suggerito dal peculiare quadro costituzionale italiano’’, PALIERO, op. cit., p. 847. (31) DE VERO, op. cit., p. 1143.


— 430 — struttura e degli effetti della contorta fattispecie di esonero, di cui all’art. 6 del decreto. La modalità di costruzione della fattispecie di esonero, in chiave di inversione dell’onere probatorio, colloca la questione dei modelli organizzativi al di fuori dei presupposti positivi dell’attribuzione di responsabilità per il reato di soggetti apicali. La stessa legittimità dell’inversione probatoria poggia sul presupposto che, per fondare il rimprovero in capo all’ente, è sufficiente il reato del soggetto apicale. Non parleremo, dunque, di ‘‘severa presunzione’’ di una colpa organizzativa, di dubbia compatibilità col principio di colpevolezza (32), ma di sufficienza, nel sistema del d.lgs. n. 231 del 2001, della colpevolezza per il commesso reato, che è, ad tempo, colpevolezza del soggetto apicale autore del reato, e dell’ente che egli ‘‘impersona’’. Ciò trova conferma nelle conseguenze che l’art. 6 riconnette alla fattispecie che abbiamo definito ‘‘di esonero’’. L’esonero non è totale, non essendo esclusa la confisca. La fattispecie incide sulla sanzione, non sulla responsabilità. Ragionando secondo le categorie della teoria del reato, non siamo nella sfera delle scusanti soggettive, ma in quella ‘‘residuale’’ della punibilità. Questa ricostruzione del sistema non è del tutto coerente con l’ideologia del legislatore delegato, sì invece con la legge delega, ed è quella che meglio inquadra e giustifica gli aspetti del decreto qui evidenziati. Soprattutto, mi sembra coerente con il principio di colpevolezza, nella versione più ragionevole. Il ‘‘di più’’ (rispetto alla colpevolezza del soggetto apicale autore del reato) cui l’art. 6 aggancia il possibile effetto di esonero, può essere ricondotto ad una concezione ipergarantista della colpevolezza dell’ente, teorizzata nella relazione al decreto, ma non al principio di colpevolezza quale principio ‘‘sovraordinato’’ del diritto punitivo. Soltanto questa lettura, che disancora l’art. 6 dai presupposti della responsabilità-colpevolezza, consente di sostenere la non incompatibilità con la legge delega. L’ipotesi che l’art. 6 disciplina è un’ipotesi di esclusione di sanzioni diverse dalla confisca, ideologicamente ritagliata secondo criteri (opinabili) di opportunità. C’è infine da aggiungere che la situazione ritagliata è una situazione limite, un ‘‘caso di scuola’’ di assai improbabile realizzazione (33). Ciò, da un lato, rafforza le perplessità sul ‘‘rendimento’’ dell’istituto, ma proprio la marginalità delle ipotetiche applicazioni rafforza la difesa di fronte (32) In tal senso FERRUA, La responsabilità penale-amministrativa delle imprese, in Diritto e giustizia, 2001, n. 29, p. 80. (33) Ciò è stato notato da molti commentatori. Cfr. per es. DE VERO, op. cit., p. 1139. GENNAI-TRAVERSI, op. cit., p. 48, parlano criticamente di probatio diabolica: prospettazione fuorviante, posto che la difficoltà di prova è radicata nella stessa struttura della fattispecie sostanziale, costruita secondo un criterio di opportuno rigore.


— 431 — alla censura di eccesso di delega, e rende accettabile una vigile sperimentazione. 5. Per l’ente, la predisposizione dei modelli ‘‘preventivi’’ è un obbligo, o si esaurisce in un onere, che l’ente può avere interesse a soddisfare per evitare sanzioni? Solo in prima battuta ci si può accontentare dell’osservazione che il predisporre compliance programs funziona come onere (34). Il senso della domanda (onere o obbligo?) ha a che fare con l’inserimento ‘‘sistematico’’ della normativa: gli adempimenti cui è condizionato l’esonero da sanzioni ‘‘punitive’’, corrispondono, o no, ad obblighi già altrimenti imposti all’ente dall’ordinamento giuridico, o che debbano ritenersi imposti ex novo dalla normativa in esame? Per quanto concerne la disciplina relativa ai reati dei ‘‘sottoposti’’, è esplicito il riferimento alla ‘‘inosservanza di obblighi’’ (di direzione o di vigilanza). La stessa identificazione della situazione considerata presuppone una disciplina di riferimento, posta dalla legge o ‘‘interna’’ all’ente, che preveda poteri e correlativi doveri di soggetti apicali. In quest’ambito, la predisposizione di modelli preventivi ex d.lgs. n. 231 del 2001 è esercizio di poteri ed adempimento di doveri già altrimenti stabiliti, in vista del buon funzionamento dell’ente. Vi è dunque un lineare inserimento degli adempimenti di cui all’art. 7 entro un sistema normativo di riferimento in cui si radicano i poteri e doveri di direzione e vigilanza (dei soggetti apicali su altri) dei quali l’art. 7 concorre a specificare le linee di adempimento e la rilevanza (35). La predisposizione di modelli organizzativi idonei a prevenire il reato dei sottoposti è dunque un obbligo, ad un tempo, dei soggetti apicali e dell’ente che essi ‘‘impersonano’’. Relativamente al reato dei soggetti apicali la situazione è più complessa. Anche per i soggetti apicali, il vincolo di soggezione alla legge comporta che vi siano regole da seguire, relative ad aspetti strumentali all’adempimento dei doveri legali. Modelli di buona organizzazione dell’ente possono essere funzionali anche al corretto adempimento dei doveri (34) DE MAGLIE, op. cit., p. 158; DE VERO, op. cit., p. 1146. (35) In tale situazione potrebbero essere ravvisate, in capo a soggetti ‘‘apicali’’, vere e proprie posizioni di garanzia, rilevanti anche per il diritto penale, volte all’impedimento di reati (di determinate categorie di reati) nello svolgimento dell’attività dell’ente. Nel progetto Grosso, che propone un sistema ‘‘aperto’’ di responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti, le condizioni della responsabilità degli enti sono per l’appunto ricollegate a posizioni di garanzia delle persone fisiche: aspetti, l’uno e l’altro, di un unitario sistema di poteri e doveri di impedimento di reati. In questo contesto, il riferimento a posizioni di garanzia non evoca semplicemente ipotesi di responsabilità omissiva, ma serve a identificare categorie di soggetti, la cui eventuale commissione di reati (commissivi od omissivi che siano) in violazione della garanzia dovuta, possa essere ascritta alla persona giuridica come inadempimento di doveri propri di questa.


— 432 — legalmente sanzionati dei soggetti apicali e alla prevenzione di illeciti da parte loro. Ma la disciplina dell’art. 6 del d.lgs. n. 231 si spinge oltre, con la previsione di un sistema di controllo, specificamente ed esclusivamente rivolto alla prevenzione di reati dei soggetti apicali, non riconducibile ai moduli organizzativi ‘‘normali’’. Tratto saliente del sistema è che ‘‘il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento’’ sia ‘‘affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo’’ (comma 1, lett. b)). Quando, nelle prime riflessioni sull’art. 6, si è posto il problema della individuazione dell’organo di controllo ivi previsto, è apparsa chiara la difficoltà (anche se non l’impossibilità di principio) di identificarlo in istituti già noti all’ordinamento, quale potrebbe essere il collegio sindacale, e sono emersi interrogativi che sottendono un atteggiamento critico (36). Chi nomina l’organo di controllo? A chi questo risponde? Di quali garanzie dispone? La ragion sistematica consente, con difficoltà, di proporre delle soluzioni. La nomina non può che provenire dall’organo di vertice dell’ente. Il ‘‘nominato’’, però, non risponde né all’organo nominante, né ad altri. È infatti senz’altro da escludere, nel silenzio della legge, che risponda o debba riferire ad organi esterni (poniamo, al P.M.); e la sua funzione di controllo esclude qualsiasi vincolo di subordinazione anche solo funzionale rispetto alla sfera su cui il controllo si esercita (il decreto parla di ‘‘poteri autonomi’’). In questo sistema è anche implicita l’esigenza di garanzie d’indipendenza, peraltro non precisate dal decreto. Sul piano sistematico, la disciplina dell’art. 6 sembra configurare, nella parte in cui introduce un nuovo organismo di controllo sull’osservanza della legge penale, un modulo organizzativo extra ordinem, non costituente attuazione di doveri altrimenti imposti. È senz’altro da escludere che la normativa specifica sulla responsabilità dell’ente abbia inteso modificare, con l’imposizione di un nuovo organismo di controllo, la disciplina tipica dei diversi tipi di ente per i quali è stata introdotta la responsabilità ‘‘da reato’’. Nessun vincolo è imposto per quanto concerne l’autonomia e i poteri dei soggetti apicali; non v’è alcun dovere di porli sotto vigilanza, che avrebbe comportato una grossa e non meditata restrizione dell’autonomia statutaria e organizzativa degli enti (37). L’adozione di modelli ’preventivi’ ai sensi dell’art. 6 è dunque una possibilità che la legge ha introdotto, rimettendola alla scelta discrezio(36) DE MAGLIE, in Dir. pen. e proc., cit., p. 1351 s. (37) Va da sé che, per quanto concerne le unità organizzative in cui l’ente si articoli, è nella facoltà dell’ente istituire modelli che riconoscano diversi livelli di autonomia: ciò avrà rilievo, ai fini del d.lgs. n. 231 del 2001, nel determinare l’applicabilità dell’art. 6, ove sia riconosciuta autonomia finanziaria e funzionale, ovvero dell’art. 7 negli altri casi.


— 433 — nale dell’ente. Non un obbligo, se non nella misura in cui doveri attinenti all’organizzazione siano desumibili da altre fonti normative. Il di più, che l’art. 6 abbia introdotto, è un mero onere, che non immuta il quadro degli adempimenti doverosi per l’ente. Il dovere dell’ente, di assicurare il rispetto della legge penale, può continuare a fare in ultima analisi affidamento nella capacità e nella correttezza dei soggetti ritenuti idonei all’espletamento di funzioni ‘‘apicali’’. Ovviamente, ricadranno sull’ente le conseguenze di un affidamento mal riposto, non diversamente da come ricadrebbero sull’ente le conseguenze dei difetti di struttura o di funzionamento di un qualsiasi modello organizzativo. Un’ultima notazione. Per il comma 4 dell’art. 6, negli enti di piccole dimensioni i compiti dell’organismo di controllo ‘‘possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente’’. Ciò ha senso in relazione al controllo sull’attività di soggetti, sia pure apicali, diversi dall’organo dirigente sovraordinato a tutti gli altri. Non ha senso, invece, rispetto alla prevenzione del reato del medesimo ‘‘organo dirigente’’, che non può essere controllore di se stesso. L’ente che si avvalga di quanto disposto dal comma 4 rinuncia a priori alla possibilità di esonero totale dalla responsabilità per il fatto del dirigente-controllore. IV. I modelli organizzativi. — 1. Fin qui ci siamo soffermati sulle differenze fra le due fattispecie ‘‘di esonero’’, previste dagli artt. 6 e 7. Vediamo, adesso, gli elementi strutturali comuni. L’elemento base è costituito dalla ‘‘adozione ed efficace attuazione’’ di modelli organizzativi idonei a evitare reati della specie di quello verificatosi. Il riferimento del decreto al reato in concreto verificatosi non delimita gli obblighi, ma precisa le condizioni dell’eventuale responsabilità in concreto. Dal punto di vista ‘‘preventivo’’, indipendente dal verificarsi di un dato reato, il problema che si pone per l’ente ha ad oggetto modelli organizzativi idonei a evitare qualsivoglia reato, per il quale la responsabilità dell’ente possa venire in rilievo. La ‘‘idoneità’’ del modello organizzativo va misurata, ovviamente, sul fine di evitare la commissione di reati di un dato tipo. Appunto all’idoneità del modello attengono i requisiti contenutistici previsti dagli artt. 6, comma 2, e 7, comma 4, con formulazioni differenti. Ai fini della elaborazione dei modelli, le due disposizioni vanno considerate unitariamente. Salvo il riferimento, nell’art. 6, all’organo di controllo di cui già si è detto, competente specificamente alla funzione di prevenzione del reato di soggetti apicali, tutti gli altri punti hanno rilievo per la costruzione di uno schema razionale e tendenzialmente unitario di ‘‘modello idoneo’’. Sulla disciplina dei modelli organizzativi, che costituisce il perno del sistema, sono state mosse censure di insufficiente specificazione dei conte-


— 434 — nuti, e di eccessivo spazio lasciato al potere del giudice penale, nelle valutazioni sulla idoneità e l’efficace attuazione dei modelli. L’istanza che viene rappresentata è quella di un più deciso ancoraggio a fonti legislative, sul modello della disciplina in materia di sicurezza del lavoro (38). Si tratta di un punto di grande delicatezza. I problemi sollevati, a proposito delle fonti e del grado di specificazione della disciplina dei modelli organizzativi, sono problemi che attraversano a tutto campo la questione della colpa, e presentano aspetti ancora bisognosi di approfondimento. Il modello additato in chiave critica verso il d.lgs. n. 231 del 2001 (la disciplina della sicurezza del lavoro) presenta la medesima struttura e i medesimi problemi del nuovo decreto. Sullo sfondo delle tante disposizioni specifiche in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, l’organizzazione della sicurezza è costruita su un compito proprio del datore di lavoro, del tutto corrispondente all’adozione e attuazione di compliance programs. Il riferimento è, ovviamente, alla valutazione del rischio, caposaldo del sistema del d.lgs. n. 626 del 1994, dovere specifico ‘‘non delegabile’’ del datore di lavoro. Anche nel nostro caso, il problema è di valutazione e di prevenzione del ‘‘rischio reato’’: dei reati su cui si appunti la responsabilità dell’ente. L’approccio del d.lgs. n. 231 del 2001 corrisponde appieno a quello del d.lgs. n. 626 del 1994. Al di là delle formule, i tratti essenziali dell’adempimento richiesto sono una rilevazione corretta e completa delle situazioni di ‘‘rischio di reato’’; la predisposizione di misure, e in particolare di regole di comportamento idonee a fronteggiare i rischi individuati; la capacità di adeguamento delle valutazioni e delle conseguenti misure al mutare delle situazioni; altre eventuali garanzie di attuazione efficace. Entro questo approccio comune, vi sono però grandi differenze nell’articolazione del sistema. In materia di sicurezza del lavoro, le misure di risk management trovano riferimenti normativi (più o meno precisi, più o meno puntuali) nelle disposizioni delle leggi speciali. Per i reati inseriti nel sistema della responsabilità degli enti, un simile apparato di regole cautelari codificate non c’è. Lo sfondo normativo, su cui l’ente ha da costruire i modelli di prevenzione del rischio reato, si restringe alle regole di diligenza prudenza perizia, rilevanti sul piano della c.d. ‘‘colpa generica’’. L’affievolimento del principio di legalità, che viene denunciato nella disciplina dei compliance programs nel d.lgs. n. 231 del 2001, è il medesimo che attraversa l’intero campo della colpa, dove è accettato un ampio spazio per regole cautelari ‘‘non codificate’’. Parimenti radicato nella questione della colpa è il ruolo ancipite dei modelli organizzativi, che sono, per un verso, fonti di regole cautelari, e (38)

DE VERO, op. cit., p. 1145 s.


— 435 — per altro verso adempimenti dell’obbligo cautelare rivolto all’ente, che esige per l’appunto l’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi idonei a fronteggiare il ‘‘rischio reato’’. 2. Le tensioni fra colpa e principio di legalità emergono chiare in una sentenza della Corte costituzionale, con la quale la scienza penalistica ha evitato di confrontarsi fino in fondo. Mi riferisco alla sentenza n. 312 del 1996 (39), con la quale la Corte ha risolto, con sentenza interpretativa di rigetto, una questione di legittimità costituzionale, in relazione al principio di legalità, di una clausola generale in materia di sicurezza del lavoro, costruita secondo un modello ricorrente: l’obbligo di adottare, per la riduzione al minimo di dati rischi, le ‘‘misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili’’ (nel caso di specie — art. 41 del d.lgs. n. 277 del 1991 — i rischi da esposizione a rumore). L’analogia col problema dei ‘‘modelli organizzativi’’ è di tutta evidenza. Di fronte a un precetto che coinvolge l’attività d’impresa nella sua totalità, trasferendo sul giudice ciò che normalmente è oggetto di discrezionalità dell’imprenditore, la Corte costituzionale ha ritenuto che la sola via per salvare la legittimità costituzionale della norma sarebbe ‘‘quella di fornire, in sede applicativa, una lettura tale da restringere, in maniera considerevole, la discrezionalità dell’interprete’’; e la lettura prospettata dalla Corte, con sentenza interpretativa di rigetto, è che il legislatore ‘‘si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondano ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti’’. Taluni aspetti problematici, che la decisione lascia aperti, sono stati segnalati dalla stessa sentenza in una considerazione conclusiva: l’art. 41 Cost., e il ‘‘pregnante dovere’’ di protezione dei lavoratori, che esso fonda, potrebbero far pretendere dall’imprenditore ‘‘assai di più’’, fino a ‘‘giustificare una raffigurazione legislativa che assegni all’impresa il compito di realizzare innovazioni finalizzate alla sicurezza’’, con un ‘‘ruolo di impulso assegnato al giudice civile ed alla pubblica amministrazione’’. Ma ciò non può collocarsi entro l’orizzonte penalistico, nel quale il canone di determinatezza della fattispecie introduce un contrappeso costituzionale, che impone di ‘‘restringere, in un’interpretazione costituzionalmente vincolata’’, le potenzialità di disposizioni formulate in termini generici e onnicomprensivi. Sono pertinenti, questi temi e problemi, alla responsabilità (‘‘amministrativa’’) degli enti? Ritengo di sì, essendo in gioco una garanzia di legalità che vale per qualsiasi forma di ‘‘diritto punitivo’’, e che il legislatore ha, del resto, espressamente riaffermato. È in questo orizzonte problematico, che la questione dei modelli organizzativi si pone. (39)

In Riv. it. dir. lav., 1997, II, p. 15 s.


— 436 — La sentenza della Corte costituzionale segna un punto di riferimento ineludibile, ma non risolve le tensioni fra esigenze tutte ineludibili. L’interpretazione proposta, agganciando la colpa a standard ‘‘fattuali’’, apre il ‘‘rischio dell’affermazione di un sistema ‘autoreferenziale’ di prevenzione’’, nel quale sarebbe il sistema produttivo a determinare (e quindi a circoscrivere) la concreta portata dell’obbligo, disperdendosi in tal modo la dimensione ‘‘normativa’’ propria di regole cautelari. La funzione di regole cautelari (tali sono sia le regole di sicurezza, sia i compliance programs) è di controllo delle prassi, di invalidazione di prassi scorrette o inadeguate: è perciò contraddittorio desumere tout court il contenuto delle regole cautelari da quelle stesse prassi che la regola ha il compito di orientare. Insomma: il metro normativo dei doveri non può essere desunto proprio da quelle prassi che si vuol conformare alle esigenze di tutela avute di mira. Le conclusioni della sentenza n. 312 del 1996 sembrano condurre ad un’impasse entro l’orizzonte penalistico. Vi sarebbe una ambiguità irrisolta, fra aspirazioni-esigenze di completezza di tutela e configurazione degli standard della colpa; il profilo garantista della certezza è in tensione con quello funzionale dell’effettiva dimensione normativa. Ciò mette in mora la riflessione dottrinale e, per altro verso, lo stesso legislatore. La linea di tendenza, che la Corte addita in materia di colpa, è comunque vincolata al primato del principio di legalità-determinatezza, là dove sia in gioco lo strumento penale. Quel principio (secondo il dictum specifico della sentenza n. 312 del 1996) è matrice di interpretazioni restrittive costituzionalmente vincolate, anche quando la tutela penale concerna interessi importanti; clausole generiche che costituiscono matrice di regole cautelari abbisognano di essere depurate di quanto di indeterminato vi sia, in modo da ricostruire i confini del penalmente rilevante in termini sufficientemente determinati. 3. In una prospettiva di riforma, mi pare emerga una forte indicazione a favore di una tipizzazione quanto più possibile precisa ed esaustiva delle regole cautelari, e quindi anche di cornici legislative dei compliance programs. Non si tratta di un compito semplice, trattandosi di metter mano a modelli di prevenzione del ‘‘rischio reato’’, articolatamente per settori, così come è avvenuto nel settore specifico della sicurezza. Non è un compito che il testo normativo di base sulla generica responsabilità da reato degli enti avrebbe potuto anche solo affrontare. La connotazione prevalentemente tecnica dei problemi (sia del risk assessment che del risk management) lascia comunque ampio spazio per apporti significativi di fonti sublegislative, come nel sistema delineato dall’art. 43 c.p., e come nel caso dei compliance programs del d.lgs. n. 231 del 2001. Quali che possano essere le eventuali integrazioni della disciplina vigente, avremo comunque a che fare con modelli organizzativi che


— 437 — l’ente — il singolo ente — ha il compito di elaborare e attuare, nell’esercizio della propria autonomia ed autoresponsabilità, e che costuiscono, nello stesso tempo, adempimento e matrice di obblighi cautelari. Allo stato, l’interprete delle scarne disposizioni del d.lgs. n. 231 del 2001 è chiamato a estrarre quanto ragionevolmente vi può essere estratto, alla luce dei criteri che, bene o male, reggono la difficile concretizzazione dei parametri della colpa. Relativamente ai delitti dolosi cui è oggi limitata la responsabilità degli enti, anche per la prevenzione del (poco probabile) reato di subalterni, importanza decisiva hanno elementi previsti nell’art. 6, quali i protocolli per la formazione e attuazione delle decisioni dell’ente, e le modalità di gestione delle risorse finanziarie (per esempio: protocolli volti a impedire la formazione di fondi extracontabili). Per ‘‘adozione’’ si intende la predisposizione del modello, quale regola (insieme di regole) per l’operare dell’ente. La ‘‘efficace attuazione’’ ha riguardo al funzionamento concreto del modello. L’uno e l’altro aspetto riconducono a poteri e doveri di direzione e di vigilanza di soggetti apicali, che non si esauriscono in un adempimento iniziale, ma persistono nel tempo, in forme corrispondenti alle diverse situazioni e al modello organizzativo in concreto adottato. Ai fini della responsabilità per un commesso reato, ciò che interessa è il funzionamento del modello in quella data situazione, in tutto ciò che sta ‘‘a monte’’ del comportamento dell’autore del reato. Il funzionamento ‘‘efficace’’ dovrà essere escluso ogni volta che il reato sia stato reso possibile da una qualche carenza nell’attività di altri soggetti, relativa a comportamenti facenti parte del modello. L’esigenza d’un idoneo sistema disciplinare, espressa sia nell’art. 6 che nell’art. 7, attiene alle condizioni di credibilità del modello preventivo, agli occhi di chi sia chiamato, agendo per l’ente, a darvi attuazione. Non sono invece testualmente previsti obblighi di denuncia all’autorità. Nel silenzio della legge, deve ritenersi che il modello organizzativo sia libero di prevederli o meno, fermo ovviamente l’obbligo di rimuovere le condizioni che abbiano reso possibile il reato (con le conseguenti responsabilità in caso di inadempimento). Nell’ipotesi di reato commesso da subalterni, l’assenza di colpe ‘‘a monte’’ — nella struttura del modello organizzativo, ovvero nella sua attuazione da parte di soggetti sovraordinati — esclude la responsabilità dell’ente. Della più complessa disciplina per il caso di reato di soggetti apicali, abbiamo già detto. L’art, 6, comma 3, prevede che i modelli organizzativi possano essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative, comunicati al Ministero della giustizia, che può formulare osservazioni sulla loro idoneità. Le associazioni più importanti (in


— 438 — primis la Confindustria) hanno provveduto ad elaborare proprie linee guida. Ciò dovrebbe (se il lavoro sarà ben fatto) favorire uniformità di approcci, ed assicurare adeguati livelli di attenzione ai problemi. Occorre, peraltro, tenere ben chiara la distinzione fra le linee guida di categoria, e i modelli organizzativi dei singoli enti: questi non possono che essere ritagliati su concrete situazioni e strutture organizzative, e su ‘‘rischi reato’’ prospettabili in esse, avuto riguardo a tutte le loro specificità. Linee guida ‘‘di categoria’’ possono aiutare il singolo ente nell’adempimento dei suoi doveri di buona organizzazione, ma non servono a risolvere il problema dell’eventuale colpa d’organizzazione, con riferimento a vicende concrete di singoli enti. DOMENICO PULITANÒ


L’INCERTO PERCORSO E LE PROSPETTIVE DI APPRODO DELL’IDEA DI PREVENZIONE GENERALE POSITIVA (*)

SOMMARIO: 1. Genesi, consistenza e limiti della prevenzione generale integratrice nel pensiero di W. Hassemer. — 2. Dalla prevenzione generale integratrice alla prevenzione generale positiva in senso stretto (ovvero: dalla teoria della pena alla teoria del diritto penale): il ruolo determinante del concetto di ‘‘formalizzazione del controllo sociale’’. — 3. Permanente problematicità del percorso intellettuale di W. Hassemer sul terreno della prevenzione generale positiva. — 4. Indicazioni per una risolutiva caratterizzazione ed un coerente inquadramento dell’idea di prevenzione generale positiva nel sistema costituzionale italiano.

1. Tra le molteplici costellazioni del dibattito penalistico contemporaneo, nelle quali ha avuto modo di manifestarsi l’acume di ricognizione critica e l’originalità di nuove prospettazioni propri del pensiero di Winfried Hassemer, acquista sicuramente un’evidenza particolare il tema della prevenzione generale positiva (1). Si tratta — come è noto — di una categoria di emersione relativamente recente nel panorama delle teorie sulla funzione della pena. Inserendosi nella crisi in cui, a partire dagli anni settanta, si è trovato a versare il paradigma della risocializzazione, l’idea di una rifondazione del tradizionale modulo generalpreventivo (negativo, poiché basato sull’effetto deterrente della minaccia legale) si è giovata di una sensibile spinta propulsiva; eppure gli esiti di tale sviluppo, maturati in particolare all’interno della scienza penalistica tedesca (2), hanno susci(*) Testo, corredato di essenziali riferimenti bibliografici, dell’intervento svolto a Firenze il 20 ottobre 2001 in occasione della ‘‘Giornata di studio in onore di Winfried Hassemer’’. (1) Tra i molteplici contributi arrecati in materia dall’Autore, terrò qui presenti, in particolare, il più recente (Variationen der positiven Generalprävention, in W. HASSEMER, Strafen im Rechtsstaat, Baden-Baden, 2000, p. 199 ss.) e quello contenuto in una più organica esposizione del caratteristico approccio hassemeriano ai temi penalistici, intessuto di robuste acquisizioni di teoria e sociologia del diritto (W. HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, 2a ed., München, 1990, p. 309 ss.): entrambi i lavori saranno successivamente richiamati senza ulteriore citazione dell’Autore. (2) Come è noto, occupa in quest’ambito una posizione centrale, se non addirittura ‘‘di riferimento’’, la concezione di G. JAKOBS, sviluppata nel manuale (Strafrecht. Allgemeiner Teil. Die Grundlagen und die Zurechnungslehre, 2a ed., Berlin-New York, 1991, p. 6 ss.) e ripresa in molteplici scritti, tra i quali basti qui menzionare: Zur gegenwärtigen Straftheo-


— 440 — tato per lo più notevoli riserve da parte della nostra dottrina, soprattutto nella sottolineatura di una sorta di inevitabile attrazione di tale ‘‘moderna’’ configurazione della prevenzione generale verso il polo della nuova retribuzione (3), anch’esso, per parte sua, ben pronto ed attrezzato a recuperare gli spazi progressivamente lasciati sguarniti dalla crisi della prevenzione speciale risocializzatrice. 1.1. La messa a punto delle questioni cruciali in tema di prevenzione generale positiva prende le mosse, nell’itinerario di Hassemer, da un preliminare quadro riassuntivo delle obiezioni più o meno tradizionalmente rivolte alla concezione della prevenzione generale come intimidazione, tanto sul piano della compatibilità con i fondamentali valori connessi con la dignità dell’uomo quanto a livello di plausibilità empirica dei presupposti e degli effetti da essa postulati. Degna di particolare — e di necessità selettivo — rilievo in questa sede, mi sembra la sottolineatura di un aspetto significativo del deficit attinente alla conoscenza della norma penale da parte dei destinatari, quale presupposto essenziale dell’operatività della concezione della prevenzione generale negativa. Contrariamente a quanto si può essere indotti a ritenere, Hassemer sostiene acutamente che il campo elettivo di evidenza di tale deficit non sia il diritto penale c.d. complementare o accessorio, mentre è rispetto alle fattispecie del diritto penale classico che il messaggio rie, in AA.VV., Strafe muß sein! Muß Strafe sein? Philosophen, Juristen, Pädagogen im Gespräch, Würzburg, 1998, p. 29 ss.; Das Strafrecht zwischen Funktionalismus und ‘‘alteuropäischen’’ Prinzipiendenken, in ZStW, 1995, p. 843 ss.; Über die Behandlung von Wollensfehlern und von Wissensfehlern, ivi, 1989, p. 516 ss. Su di un analogo piano si collocano le posizioni di U. KINDHÄUSER, Strafe, Strafrechtsgut und Rechtsgüterschutz, in AA.VV., Modernes Strafrecht und ultima ratio-Prinzip, Frankfurt a.M., 1990, p. 29 ss., e Gefährdung als Straftat, Frankfurt a.M., 1989, pp. 29 ss. e 132 ss.; R. MOOS, Positive Generalprävention und Vergeltung, in Festschrift für F. Pallin, Wien, 1989, p. 300 ss. Una significativa variante dell’approccio generalpreventivo-positivo, intesa a valorizzare le acquisizioni della ‘‘psicologia del profondo’’, si coglie — sulle orme di B. HAFFKE, Tiefenpsychologie und Generalprävention. Eine strafrechtstheoretische Untersuchung, Frankfurt a.M., 1976 — in F. STRENG, Schuld ohne Freiheit? Der funktionale Schuldbegriff auf dem Prüfstand, in ZStW, 1989, p. 273 ss. e Tiefenpsychologie und Generalprävention. Ein Diskussionsbeitrag, in KrimJ, 1987, p. 48 ss. Per una ricognizione critica delle teorie della prevenzione generale positiva riscontrabili nella dottrina tedesca v., di recente, A. KALOUS, Positive Generalprävention durch Vergeltung, Regensburg, 2000. (3) V., da ultimo e per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 4a ed., Bologna, 2001, p. 663. Per una netta accentuazione di tale valutazione, da una prospettiva peraltro dichiaratamente retribuzionista, cfr. E. MORSELLI, La funzione della pena alla luce della moderna criminologia, in Ind. pen., 1991, p. 510 ss. e La prevenzione generale integratrice nella moderna prospettiva retribuzionistica, in questa Rivista, 1988, p. 48 ss. Sull’incompatibilità, in particolare, della prevenzione generale integratrice con i postulati ed i principi di un diritto penale di stampo liberale cfr., tra gli altri, L. EUSEBI, La pena ‘‘in crisi’’. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990, p. 57 ss.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 4a ed., Bari, 1997, p. 262 ss.


— 441 — contenuto nella norma incriminatrice rischia di pervenire deformato ai destinatari. La conoscenza delle puntuali e complesse norme incriminatrici poste ad esempio dal diritto penale dell’economia fa a ben guardare parte addirittura integrante del bagaglio professionale dei rispettivi destinatari. Le norme che puniscono i delitti naturali vengono di contro ad aggiungersi e ad affiancare preesistenti norme sociali, le quali rappresentano le autentiche istanze mediatrici in cui si riconoscono o con cui hanno comunque diretta familiarità i consociati. Poiché, d’altro canto, tali norme sociali di comportamento variano a seconda dei gruppi di appartenenza, risulta di conseguenza non solo falsificata la pretesa tradizionalmente avanzata dalla teoria della coazione psicologica che la norma penale possa instaurare un rapporto e quindi esplicare un condizionamento immediato nei confronti dei destinatari, ma si configura altresì come necessariamente differenziata in capo ai consociati la percezione del significato penalistico dei comportamenti vietati; e ciò ad onta di quella ubiquitarietà (nel senso di uguale vigenza) della norma penale che costituisce un’altra delle ingenue pretese della teoria in parola (4). Nell’una e nell’altra direzione risulta seriamente compromessa, prima ancora che la verifica dei risultati, la stessa plausibilità empirica del presupposto della teoria, rappresentato dall’attitudine motivazionale della norma penale nei confronti dei destinatari. 1.2. Le carenze denunciate dall’approccio di tipo intimidativo della prevenzione generale, tanto sul piano normativo-ideale che sul piano empirico, sono destinate ad essere quanto meno attenuate dal passaggio alla dimensione positiva della teoria. L’esposizione che di una prima fase di tale sviluppo presenta Hassemer è — anche sul piano definitorio — coerente con la teoria della prevenzione generale integratrice, nella paradigmatica conformazione da essa assunta all’interno della dottrina tedesca ad opera in particolare di Jakobs: la pena, considerata prevalentemente nel momento dell’applicazione piuttosto che in quello della comminatoria, serve a ristabilire nei consociati la fiducia nella permanente vigenza della norma trasgredita, scossa appunto dall’esperienza del crimine commesso (5). Questa funzione di ‘‘convalida’’ della norma incriminatrice, a seguito della sua violazione, costituisce l’essenziale contributo arrecato dalla pena all’integrazione sociale dei consociati, all’orientamento degli stessi verso l’osservanza delle fondamentali norme ed aspettative comportamentali su cui si basa il consorzio civile; e ciò al di là dell’ingenua distinzione operata dalla teoria della prevenzione generale negativa tra i componenti del nucleo sociale di per sé disposti all’osservanza dei valori della convivenza e quanti invece tenderebbero alla perpetrazione di delitti, (4) Einführung, p. 311 ss. (5) V. in particolare Variationen, p. 220; Einführung, p. 325 ss.


— 442 — ove appunto non intervenisse la pena ad esercitare la sua funzione di controspinta psicologica. In questa nuova concezione è ravvisabile, secondo Hassemer, un significativo passo verso il superamento delle obiezioni tradizionalmente mosse alla teoria della coazione psicologica. Proprio il carattere diffuso, ‘‘soffice’’, espresso dall’orientamento culturale indotto dalla pena nel contesto sociale di riferimento, emancipa la teoria delle prevenzione generale dalle censure avanzate contro di essa a livello sia ideale che empirico. Qui non si tratta più di ipotizzare un condizionamento immediato nei confronti dei singoli consociati e lesivo della dignità dell’uomo, secondo la classica rappresentazione hegeliana del cane minacciato con il bastone; e di conseguenza non è più necessario interrogarsi, almeno con altrettanta urgenza, sull’effettività e sull’ampiezza del riscontro empirico di tale influenza. Certo, si è pur sempre in presenza di una concezione preventiva della pena, come tale non partecipe della ‘‘sovrana indifferenza’’ nutrita dalle teorie assolute circa il radicamento empirico dei propri postulati; ma la rappresentazione della pena come strumento di convalida della vigenza della norma all’interno dell’ordinamento giuridico e sociale è tale da sottrarsi ai consistenti rischi di falsificazione che incombono sulle tradizionali teorie preventive (anche di tipo speciale), la cui giustificazione sta o cade in funzione della verifica dell’effettiva intimidazione (o, rispettivamente, risocializzazione) dei destinatari delle norme penali (6). 1.2.1. Questo sensibile, anche se non totale affrancamento della teoria generalpreventiva in chiave integratrice dal vincolo giustificativo della verifica empirica rappresenta, nella ricognizione hassemeriana, il profilo più saliente di una più generale e caratteristica fisionomia di tale filone dottrinale: la sua indubbia corrispondenza allo ‘‘spirito del tempo’’ (zeitgenössisch), con particolare riguardo a quell’insieme di istanze, linee di tendenza ed opzioni, che si è ormai soliti riassumere nella categoria del diritto penale moderno, contrapposto al diritto penale classico. Un orientamento di pensiero, che assegna alla pena nient’altro che la funzione di convalida della dimensione precettiva delle norme incriminatrici, appare particolarmente adatto a recepire o comunque a coniugarsi con gli aspetti più significativi della ‘‘modernità’’ penalistica: la spiccata preferenza nei confronti della tutela di beni giuridici di carattere universale; la connessa crescente utilizzazione della tecnica di tutela del pericolo astratto; la tendenza a risolvere la contraddizione tra le pressanti aspettative di tutela espresse dalla società ed il progressivo disincanto circa quanto di ‘‘reale’’ e ‘‘salutare’’ ci si può aspettare dagli effetti della pena, semplicemente costruendo norme dotate di valenza simbolica; un complessivo fastidio per (6) Variationen, p. 211 ss.


— 443 — l’insieme dei principi di stampo classico, ritenuti anacronistici e comunque inadatti a fronteggiare i moderni compiti del diritto penale (7). 1.3. La valutazione complessiva espressa da Hassemer sulla prevenzione (generale) integratrice non è di per sé negativa. A suo avviso non è contestabile che la pena svolga un ruolo di stabilizzazione della consapevolezza e fiducia collettive circa l’effettiva vigenza di quelle fondamentali aspettative di ordinato svolgimento della vita sociale di solito racchiuse nelle norme penali. Tale ordine di idee, se appare di conio dottrinale relativamente recente, può vantare peraltro una sicura e risalente continuità di manifestazione nella giurisprudenza e nello stesso linguaggio legislativo; ciò appare particolarmente evidente quante volte, specie in rapporto alla commisurazione della pena, vengono evidenziati sull’uno e sull’altro piano limiti invalicabili, rispetto ad una piena espansione di istituti ispirati alla finalità di risocializzazione, in nome della ‘‘difesa dell’ordinamento giuridico’’ ovvero dell’ ‘‘interesse pubblico all’esecuzione della pena’’ (8). La teoria in parola è piuttosto affetta da un grave limite, nel senso dell’unilateralità del suo approccio al problema penale, tale da lasciare in ombra una parte considerevole di quel complesso normativo, la convalida della cui vigenza deve costituire il punto di riferimento di una (autentica e compiuta) teoria della prevenzione generale positiva. Occorre cioè spingere lo sguardo ben al di là dell’insieme delle norme incriminatrici della parte speciale, a cui riserva la propria attenzione l’approccio della prevenzione integrativa, per cogliere la superiore sintesi che le collega strettamente agli istituti della parte generale, alle norme processuali e costituzionali di ispirazione garantista, agli interventi legislativi di depenalizzazione, in una parola a quell’insieme di norme che tutelano la libertà ed i diritti (del reo come) di ogni soggetto comunque coinvolto dall’operatività del sistema penale e che di esso rappresentano il lato ‘‘chiaro’’ (9). 2. Queste ultime considerazioni — che di per sé potrebbero apparire non foriere di significativi progressi sul piano di una teoria preventiva della pena — costituiscono in realtà l’espressione sintetica più concisa di una poderosa concezione che Hassemer sviluppa a proposito dei connotati generali del sistema penale, visto essenzialmente nei suoi rapporti con le altre istanze di controllo sociale (10), taluni aspetti della quale sono già (7) Variationen, p. 211. (8) Variationen, p. 202 ss. (9) Einführung, p. 326 ss.; Variationen, p. 214 ss. (10) Essenziale, in proposito, la lettura di Einführung, p. 316 ss., di cui riassumo nel testo le fondamentali cadenze argomentative.


— 444 — stati anticipati sul piano della critica dell’originaria accezione intimidativa della funzione generalpreventiva (11). Il fondamentale errore di prospettiva in cui — secondo Hassemer — incorrono un po’ tutte le teorie preventive — compresa appunto la teoria della prevenzione integratrice — è quello di rappresentarsi la funzione della pena e del diritto criminale in modo vagamente ‘‘esoterico’’, come se davvero il compito di assicurare le condizioni della pacifica convivenza fosse di competenza esclusiva di tali istituzioni giuridiche, che calerebbero dall’alto su di un contesto sociale destinato a recepirle senza altre risorse e senza altre mediazioni. In realtà il diritto penale condivide la funzione di integrazione e stabilizzazione sociale con una serie di altre istanze — e quindi di (sistemi di) norme sociali — quali, ad esempio, la famiglia, la scuola, l’ambiente di lavoro. Del tutto analogo è il paradigma fondamentale di sviluppo del controllo sociale: come già è proprio di ogni altra agenzia a ciò deputata, esso si scandisce attraverso la posizione della norma e l’individuazione, per un verso, della sanzione e, per altro verso, del procedimento di applicazione della medesima. Realmente esclusivi ed irripetibili sono invece i caratteri specifici che il controllo penalistico dei comportamenti devianti esprime rispetto alle istituzioni affini: è nel sistema penale che vengono in considerazione, da un lato, i comportamenti lesivi dei beni di più consistente rilevanza sociale e, dall’altro lato, gli strumenti reattivi di controllo maggiormente invasivi della sfera di libertà, dignità e comunque dei fondamentali diritti dell’individuo. Questa relazione biunivoca tra oggetto e strumenti del controllo sociale genera a sua volta il connotato differenziale più genuinamente riassuntivo della fisionomia del sistema penale: l’accentuata e massima ‘‘formalizzazione del controllo sociale’’. Un sistema di controllo sociale, come quello penale, che utilizza gli strumenti più gravosi di contrasto nei confronti dei fatti carichi del maggior grado di antisocialità deve necessariamente sviluppare una ‘‘vocazione’’ alla cautela, alla misura, alla considerazione bilanciata di una molteplicità di interessi potenzialmente collidenti; ciò perché altrimenti il saldo dei benefici e dei costi dell’intervento potrebbe essere a sua volta negativo in vista delle complessive esigenze di ‘‘tenuta’’ del contesto sociale di riferimento (12). In modo certo storicamente variabile, eppure in larga misura indefettibile, il diritto penale deve fare i conti con le istanze di garanzia dei soggetti che vengono coinvolti nel suo campo di azione, deve proporre a se stesso il paradigma di una (11) Supra, 1.1. (12) Esempio paradigmatico ed estremo di un meccanismo repressivo che, per essere impermeabile a tali istanze di moderazione, acuisce, piuttosto che risolvere i conflitti sociali, è la ‘‘faida’’ (Blutrache), laddove la risposta sanzionatoria si configura come un nuovo delitto, che esige a sua volta di essere sanzionato in una spirale indefinita: Einführung, p. 321.


— 445 — ‘‘frequentazione umana con i problemi della devianza’’ (Muster humanen Umgangs mit Abweichung). Il portato ed il precipitato essenziali di tale ineludibile polarità, appunto ‘‘positiva’’, del diritto penale sono proprio quelle norme genericamente riconducibili alla garanzia dei diritti dei cittadini, rimaste del tutto estranee alla proiezione convalidante e stabilizzatrice sottolineata dalla (unilaterale) teoria della prevenzione integratrice; merita allora davvero una qualificazione in termini di prevenzione generale positiva una teoria (ormai non solo più della pena, ma a pieno titolo) del diritto penale che riconduca nel fuoco dell’orientamento socio-culturale questo ulteriore universo normativo, in posizione (almeno) paritetica rispetto alle norme propriamente incriminatrici. Una volta ancorata all’idea-guida della ‘‘formalizzazione’’, la prevenzione generale positiva vede accentuarsi in misura ormai determinante la propria emancipazione dal vincolo di ‘‘verifica empirica’’ — invero già avviata dall’approccio integrativo — atteso l’intrinseco carattere normativoideale che anima e vivifica tale idea. Ma lo sfondo resta pur sempre problematico: ai problemi di carattere empirico-metodologico si sostituiscono ora quelli di carattere pratico-politico: come far avanzare le istanze di formalizzazione attraverso l’impervio cammino della relatività storica e della vulnerabilità politica (13). 3. L’itinerario intellettuale di Hassemer in rapporto alla problematica della prevenzione generale positiva si snoda dunque in tre successivi passaggi: critica della tradizionale versione negativa della teoria della prevenzione generale; valorizzazione della prevenzione integratrice; superamento (ma non rifiuto) di questo secondo approccio attraverso lo sbocco nel più ‘‘gratificante’’ orizzonte di una prevenzione generale positiva (in senso stretto) all’insegna dell’idea-guida della formalizzazione del controllo sociale. Dico subito che questo percorso mi sembra caratterizzato da un eccesso e da un difetto: superfluo, se non pericoloso, considero il (seppur parziale) riconoscimento tributato nei confronti della prevenzione integratrice; mentre la straordinaria capacità rappresentativa dei connotati essenziali del diritto penale, come sistema di controllo sociale altamente ‘‘formalizzato’’, mi sembra dover costituire non già il punto di arrivo, il suggello delle Straftheorien oltre il quale si apra solo l’impegno di verifica storico-politica, ma piuttosto un nuovo e più consapevole punto di partenza per una teoria (in buona parte ancora da delineare) della pena in senso stretto ben diversamente configurata rispetto alla prevenzione integratrice. (13) Einführung, p. 329.


— 446 — Sviluppiamo distintamente i due assunti. 3.1. Innanzitutto non mi sembra corretto ascrivere tout court la concezione integratrice della pena al novero delle teorie preventive, almeno nel senso tradizionale del termine. L’aspirazione al ‘‘condizionamento comportamentale’’ nei confronti dei consociati, che Hassemer ravvisa in tale concezione, è in realtà troppo generica ed equivoca per poter segnare una linea di sostanziale continuità — sia pure nella consapevolezza della richiamata evoluzione in chiave ‘‘moderna’’ — con l’insieme delle autentiche teorie preventive della pena. Il connotato di convalida e stabilizzazione dei modelli normativi di condotta, in cui si compendia il significato essenziale della concezione in parola, evidenzia a ben guardare una relazione di parentela di grado almeno pari, se non più stretto, con le teorie riconducibili al variegato universo neo-retribuzionistico, che raccoglie appunto le versioni più sofisticate della classica istanza della retribuzione giuridica. Sottolineare la vocazione della pena di riaffermare la ‘‘vigenza’’ della norma violata, e quindi di ristabilire nei consociati la fiducia nell’ordinamento giuridico scossa dalla perpetrazione del delitto, che cos’altro rappresenta se non una formulazione più cauta — indotta probabilmente dalla scarsa spendibilità di una franca ed esplicita riproposizione dell’idea retributiva — delle tesi sviluppate dalle recenti concezioni, appunto, satisfattorio-stabilizzatrici della pena? Con queste teorie la concezione integratrice, sedicente preventiva, condivide appieno la preoccupazione non tanto di evitare la perpetrazione di reati, quanto piuttosto di assicurare la permanenza di un accettabile ordine e pace sociale per l’eventualità che reati siano commessi. Ora, si può pure convenire in qualche misura sul carattere ingenuo, forse velleitario e comunque scarsamente ‘‘moderno’’ della fede e degli slanci che hanno animato le classiche teorie della prevenzione generale e speciale; ma si affermi allora più apertamente — senza misconoscere la storicamente insuperabile bipolarità prevenzione-retribuzione — che allo ‘‘spirito del tempo (‘moderno’)’’ si addica maggiormente, in una sorta di ciclico ed ineluttabile ritorno, la prospettiva appunto retributiva. 3.1.1. Ma la mia valutazione critica trascende la questione (non soltanto) terminologica della più corretta qualificazione della concezione integratrice della pena, se in termini di prevenzione o di retribuzione. Mi preme in realtà ribadire quanto sopra accennato: nell’articolazione logico-argomentativa, che collega il primo al terzo passaggio dell’itinerario intellettuale sviluppato da Hassemer in tema di prevenzione generale (infine qualificata come stricto sensu positiva), non c’è alcun bisogno di inserire quale momento intermedio la valorizzazione della concezione integratrice della pena, preventiva o retributiva che sia da qualificare. Mi sembra al contrario che la (piuttosto severa) ricognizione critica dei limiti che affliggono la prevenzione generale negativa e la stessa prevenzione


— 447 — speciale costituisca di per sé presupposto adeguato e sufficiente per introdurre la rappresentazione straordinariamente efficace che Hassemer ci propone (non più o non solo della pena, ma) del sistema penale, quale ambito formalizzato del controllo sociale. Tale collegamento, che — ribadisco — è immediatamente articolabile con la critica delle concezioni tradizionali della pena, assume a mio avviso — ed oserei dire al di là di più esplicite indicazioni in tal senso da parte dello stesso Autore — questo preciso significato: il diritto penale, come sistema di controllo sociale storicamente dato, non attende certo la legittimazione della sua vigenza da parte di qualsivoglia concezione della pena, in particolare di quante intendano asseverarne, addirittura sul piano empirico, effetti di autentica e tangibile prevenzione dei reati; ciononostante, esso racchiude in se stesso il seme vitale, destinato comunque a fruttificare, della ‘‘formalizzazione’’, cioè l’ineliminabile tendenza a sviluppare una ‘‘frequentazione umana con la devianza’’, al riconoscimento — in misura perfettibile eppure indefettibile — dei diritti individuali dei consociati coinvolti in concreto dai meccanismi della sua operatività. 3.2. Se così è, non solo si conferma che il perdurante riconoscimento del ruolo esplicativo (sia pure parziale) (14) della teoria della prevenzione-integrazione non ha una particolare ragion d’essere — se non, semmai, quella di mera identificazione del polo ‘‘oscuro’’, opposto alla ‘‘formalizzazione’’, del dinamismo intrinseco (non più alla pena di per sé ma) al sistema penale —; ben al di là, si apre un nuovo scenario per la rifondazione di una o più teorie della pena (di nuovo in senso stretto, come parte essenziale ma non esaustiva del sistema penale). Intendo dire che, superata la visione probabilmente ingenua che la pena possa essere giustificata e fondata su basi empirico-tecnocratiche (15), la dottrina giuridica — e non solo giuridica — dovrebbe sviluppare la precisa consapevolezza che le Straftheorien sono parte integrante del processo storico-culturale di ‘‘formalizzazione’’ del controllo sociale immanente al diritto penale: esse cioè, intrise e nutrite di vocazioni normativo-ideali più che di aspirazioni o pretese di ‘‘verifica empirica’’, rappresentano uno dei veicoli privilegiati, all’interno della complessiva esperienza giuridica, per l’emersione, la testimonianza e, direi, il ‘‘principio di attuazione’’ di quei valori in cui tende storicamente a conformarsi l’istanza di ‘‘formalizzazione’’. Beninteso, ciò non significa che sia lecito, da parte dei promotori delle Straftheorien, sbizzarrirsi in enunciazioni tendenzialmente retoriche (14) ‘‘La prevenzione integratrice e la prevenzione generale positiva nel senso qui precisato si raccordano l’una all’altra come la parte al tutto’’: Variationen, p. 219. (15) Critica riferita da Hassemer soprattutto alla formulazione in chiave di coazione psicologica della teoria della prevenzione generale (negativa): Einführung, p. 309.


— 448 — e/o destinate solo a lenire la ‘‘cattiva coscienza’’ dello jus terribile. Al contrario, si tratta di fornire indicazioni suscettibili di tradursi in una ‘‘reale’’ politica criminale e penitenziaria, laddove la ‘‘realtà’’ va commisurata non tanto alla prospettiva empirica del risultato (statistiche criminali, tassi di recidiva e quant’altro), ma piuttosto alla capacità di attuazione, in funzione di orientamento e limite del magistero punitivo, dei valori umani (o personali) espressi dall’ordinamento giuridico e socio-culturale di riferimento. 4. Chiaramente, un compito del genere risulta allo stesso tempo più doveroso e più agevole all’interno di un ordinamento giuridico caratterizzato da una costituzione rigida, che, esplicitamente o implicitamente, contenga norme riferibili al piano delle Straftheorien. Tali norme — allo stesso modo delle teorie dei giuristi o dei filosofi, di cui rappresentano a ben vedere il consolidamento politico-istituzionale — non vanno apprezzate — conviene ancora ribadire — come improbabili e ‘‘velleitarie’’ prese di posizione sulla consistenza e sugli effetti ontologici della pena, ma, in maniera ben più rigorosa, come indicazioni vincolanti circa i presupposti assiologici e i concreti percorsi di ‘‘formalizzazione’’ che il legislatore costituente intende operativamente assegnare al proprio sistema penale. È il caso emblematico della Costituzione della Repubblica italiana. L’approccio alla ‘‘questione penale’’ qui rinvenibile è significativamente omogeneo ai percorsi argomentativi sopra descritti. Le norme in cui esplicitamente il legislatore costituente prende posizione a proposito della sanzione penale — l’art. (25 comma 2 e) 27 commi 3 e 4 — non intendono affatto fornire la ragione giustificativa della potestà punitiva statuale; esse disegnano piuttosto la fondamentale idea-guida di un doveroso percorso di ‘‘formalizzazione’’ del sistema penale all’insegna del principio di (legalità e di) rieducazione del reo. Il ‘‘fondamento’’ della pena è dato per presupposto e non indagato. A riguardo può solo valere una certezza negativa: il legislatore costituente, nel momento in cui ha riconosciuto l’opportunità (o l’inevitabilità?) di sanzioni penali, ha di sicuro preso le distanze da qualsiasi suggestione ‘‘abolizionista’’. In tal modo ha implicitamente espresso un avviso del quale proprio Hassemer, tra altri, dà oggi una formulazione particolarmente efficace e convincente: qualunque entità prendesse il posto del diritto penale sarebbe sicuramente peggiore del diritto penale, dato che lo spazio così liberatosi sarebbe necessariamente occupato da altri sistemi di controllo sociale meno sensibili del primo alle istanze di ‘‘formalizzazione’’ (16). 4.1. Ma, a ben vedere, le indicazioni scaturenti dalla carta costituzionale, circa il modello di ‘‘frequentazione umana con la devianza’’ che il (16) Einführung, p. 332.


— 449 — diritto penale italiano deve proporsi e (soprattutto) attuare, sono più articolate e complesse: tali, in particolare, da riassorbire quella sorta di disomogeneità o quanto meno di discontinuità che, specie in tempi meno recenti, veniva segnalata tra la finalità rieducativa di cui all’art. 27 Cost. ed una ‘‘irriducibile’’ funzione retributiva della pena, quale ‘‘momento logico ed ineliminabile della stessa’’ (17). Come spesso accade in materia di fisionomia costituzionale degli istituti giuridici, le più significative di tali indicazioni risultano, più che da una norma puntuale ad essi dedicata, dallo stesso contesto generale e dai fondamentali principi che lo ispirano. In quest’ambito occorre preliminarmente mettere a fuoco e quindi collegare il rispettivo profilo costituzionale dell’illecito criminale e del suo autore. Il primo, alla stregua di una visione laica e secolarizzata risalente all’illuminismo e che a maggior ragione può ritenersi recepita nella costituzione di un moderno stato liberaldemocratico, costituisce il più grave degli illeciti giuridici, tale da compromettere potenzialmente le condizioni essenziali della pacifica convivenza civile. Il secondo non è precisamente ‘‘un cane verso il quale si brandisce il bastone’’: l’autore (potenziale o effettivo) di reati è una persona, vale a dire l’essenziale baricentro del progetto costituzionale, sia in termini di tutela, sia e soprattutto in termini di protagonismo all’interno del complesso sistema di rapporti civili, economici, sociali e politici in esso disegnato, le cui chances di effettività sono appunto rimesse alla responsabile partecipazione di tutti i consociati. Se così è, l’autentica e primaria relazione che occorre costruire (da un punto di vista ‘‘costituzionalmente orientato’’) tra il reato ed il suo autore è che il primo costituisca oggetto di un ‘‘dovere inderogabile’’ di astensione da parte del secondo, agevolmente riconducibile all’ambito dell’art. 2 Cost. ed in un certo senso sovraordinato ai (o riassuntivo dei) particolari doveri di solidarietà qui richiamati, giusto in vista della postulata proiezione devastante dell’illecito criminale sul progetto di civile convivenza. Dovendo allora l’adempimento di tale ‘‘dovere inderogabile’’ essere rappresentato e comunicato ai consociati con una particolare ‘‘drammaticità’’, ecco spiegarsi il ricorso al meccanismo sanzionatorio di tipo punitivo. Tale meccanismo, incentrato sulla previsione del pregiudizio in capo al reo di beni altamente significativi come la libertà personale, ben si presta a promuovere (18) nei destinatari la consapevolezza della gravità (17) V., per tutti, F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nov. Dig. it., XIX, 1973, p. 82. Per la critica del carattere pluridimensionale delle teorie miste e per un’esemplare riaffermazione della necessaria unitarietà, non disgiunta dall’articolazione di criteri modali, di una teoria che ricerchi la legittimazione ed il senso ultimo della pena statuale, nel segno della prevenzione generale, v. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, 2a ed., Milano, 1995, pre-art. 1, n. 36 ss. (18) Uso a ragion veduta il termine promuovere, piuttosto che senz’altro trasmettere,


— 450 — degli interessi offesi dall’illecito criminale: se la legge — questo è in sintesi il senso del ‘‘messaggio’’ — arriva al punto di prevedere come sanzione (punitiva) di un illecito il sacrificio di essenziali diritti e beni personali (nella cornice di un ordinamento costituzionale che a tali diritti e beni assicura la massima tutela), allora si tratta davvero di fatti carichi di straordinario disvalore sociale, la commissione o l’astensione dai quali rende il cittadino (o comunque il consociato) in un certo senso ‘‘arbitro’’ delle sorti della convivenza civile. A questo punto, il discorso sulla ‘‘funzione della pena’’ — inteso, ribadisco, non come improbabile attribuzione ad essa di effetti più o meno empiricamente verificabili, ma piuttosto come emersione all’interno del contesto giuridico-sociale di riferimento di una sorta di ‘‘autocoscienza’’ dello stato del processo di formalizzazione, gravida di implicazioni ulteriormente normative e soprattutto di corrispondenti impegni attuativi — può tornare a focalizzarsi, sulla scia eppure con una significativa correzione del lascito feuerbachiano (19), sul momento della comminatoria contenuta nella legge penale. Le norme incriminatrici si rivolgono in funzione preventiva ad una generalità di soggetti non tanto allo scopo di intimidire, ma piuttosto per sollecitare l’acquisizione da parte di tutti e di ciamemore delle acute riflessioni di Hassemer circa il carattere non immediato del canale comunicativo che nella concretezza della dimensione sociale si viene a creare tra norma incriminatrice e destinatari di essa (supra, 1.1.). (19) In una Habilitationsschrift pubblicata di recente in Germania, ad opera di un esponente della scuola jakobsiana che non si perita di inscrivere ‘‘d’autorità’’ il proprio contributo nel novero, notoriamente ristrettissimo, delle grandi Revisionen, viene sviluppato un attacco frontale nei confronti delle teorie della pena orientate in senso preventivo, ed in particolare nei riguardi di Feuerbach, l’aver seguito la strada tracciata dal quale, invece di procedere ‘‘auf dem Hegelschen Wege’’, viene considerato dall’Autore come una sorta di peccato capitale della scienza moderna del diritto penale: H.H. LESCH, Der Verbrechensbegriff. Grundlinien einer funktionalen Revision, Köln-Berlin-Bonn-München, 1999, passim e, con particolare enfasi, p. 170 s. Per parte mia, mi permetto di replicare che la scienza penalistica europea degli ultimi due secoli poteva (e può) abbandonare il Feuerbachscher Weg solo a costo di coltivare tutt’altra cosa dal diritto penale, così come scaturito dall’autentica rivoluzione copernicana — evidentemente non da tutti ancora appieno compresa — promossa da Feuerbach, allorché, attraverso la geniale composizione dell’idea di prevenzione generale con il principio di legalità in vista della focalizzazione della funzione della pena nel momento della predisposizione della norma incriminatrice piuttosto che in quello della reazione al crimine già commesso, riesce in gran parte a rimuovere la pietra tombale che sembrava essere stata calata da Kant sulle teorie preventive della pena patrocinate dall’illuminismo giuridicopenale. Certamente non si può e non si deve restar fermi sulle posizioni espresse due secoli fa da Feuerbach, e risulta necessario — sulla scorta, tra gli altri, del contributo di Hassemer — governare la transizione dalla prevenzione generale negativa alla prevenzione generale positiva: ma non può essere messo in discussione che l’angolo visuale unitario e di sintesi, dal quale guardare — a livello appunto di autocoscienza del processo di ‘‘formalizzazione’’ — alle problematiche della pena e del diritto penale resta quello — perennemente ‘‘feuerbachiano’’, con buona pace dei tardi epigoni contemporanei di Hegel — della comminatoria della pena e dell’influenza che da essa è lecito attendersi sul comportamento dei consociati.


— 451 — scuno della personale consapevolezza di quanto sia necessario astenersi da determinati comportamenti pregiudizievoli di rilevanti interessi individuali e collettivi ai fini della stessa permanenza del consorzio civile. Quando poi un reato viene tuttavia commesso, l’applicazione e l’esecuzione nei confronti del singolo della pena già comminata intendono semplicemente riallacciare e sviluppare più in concreto questo rapporto di stretta interlocuzione e responsabilizzazione avviato dalla comunità statuale con i suoi componenti (il c.d. ‘‘magistero punitivo’’) e interrotto traumaticamente dal crimine. La funzione rieducativa della pena — segnalata (apparentemente solo) a questo punto dall’art. 27, comma 3, Cost. — non è quindi una sorta di più o meno imbarazzante incomodo, o comunque di limite estrinseco che si profili solo ad un certo momento della fenomenologia della pena; essa è piuttosto la naturale prosecuzione di un processo di orientamento culturale ai valori intrinsecamente unitario e continuo, diretto, sin dal momento della comminatoria, a dislocare su tutti e ciascuno dei consociati la responsabilità e la garanzia primarie del mantenimento delle condizioni irrinunciabili della convivenza civile, nel riconoscimento a costoro di una sorta di ‘‘sovranità negativa’’ speculare a quella di cui all’art. 1 Cost. La ‘‘funzione’’ attribuibile alla pena nel nostro quadro costituzionale viene così a coincidere con la più plausibile ed autentica configurazione dell’idea di prevenzione generale positiva. Pressoché diametralmente opposta alla prevenzione integratrice (20), non esaurientesi ma anzi presupponente la fine analisi hassemeriana in ordine alla prevenzione generale positiva nella prospettiva della ‘‘formalizzazione del controllo sociale’’, questa accezione del concetto sembra poter recuperare l’ascendenza feuerbachiana dell’idea di prevenzione generale, riscattandola dai molteplici limiti evidenziati sul piano empirico ed ideale ed assumendola, per di più, quale naturale antecedente della (altrettanto positiva) prevenzione speciale rieducativa (21). Sul piano empirico, non può più valere la censura rivolta alla preven(20) Manifesta, nella dottrina italiana, lucida consapevolezza circa la profonda divaricazione ravvisabile tra prevenzione generale positiva in senso stretto e prevenzione generale integratrice F. PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, p. 44 ss.; avverto in particolare piena sintonia con l’affermazione che la teoria della prevenzione generale positiva, in senso stretto, « sul piano operativo dovrebbe favorire una tendenza a contenere, da un lato, la portata afflittiva della sanzione circoscrivendola nei limiti della stretta necessità e agevolando una conseguente diversificazione delle tipologie sanzionatorie; dall’altro lato, a privilegiare e potenziare le condizioni — di chiarezza legislativa, dignità contenutistica del precetto, ponderazione e riflessione delle scelte legislative — in presenza delle quali è possibile e si esalta l’effetto pedagogico-educativo del precetto » (p. 45: corsivo mio). (21) Con ciò presuppongo, evidentemente, un’accezione del concetto di rieducazione molto più vicina alla (ri)acquisita consapevolezza dei valori disattesi col comportamento illecito che all’idea di una socializzazione secondaria o sostitutiva: la pena esprime, nelle fasi


— 452 — zione generale (negativa) in ordine all’irrealistica rappresentazione del destinatario della norma incriminatrice come homunculus calculans: non sarà un freddo calcolo di costi e benefici a rendere sensibile il potenziale reo ad una coazione psicologica espressa dalla minaccia della pena, ma sarà piuttosto la consapevolezza della gravità dell’illecito che verrebbe commesso, maturata anche per il tramite di collaterali norme sociali invalse nel contesto di riferimento, ad esprimere un’attitudine motivazionale nei confronti di quanti non rinuncino a sentirsi membri responsabili del consorzio civile. Ma, soprattutto, diventa definitiva l’emancipazione dalla verifica empirica dei risultati quale indefettibile condizione di legittimità dello strumento punitivo. La profonda dignità del messaggio di ‘‘persuasione’’ contenuto nella norma incriminatrice resta esente da (rischi di) convalide o falsificazioni affidate alle statistiche criminali: la sua granitica ‘‘realtà’’ si fonda e si identifica con la scelta (interamente di valore) del legislatore costituente di voler considerare i destinatari delle norme penali come responsabili e garanti in prima persona del mantenimento delle condizioni essenziali della convivenza civile, ben prima o ben al di là del pur necessario esercizio dei pubblici poteri coattivi di polizia di sicurezza. Ed in questa fondamentale opzione, che trascorre senza soluzione di continuità nell’esplicito riconoscimento della finalità rieducativa della pena, va ravvisato lo specifico ed elevato contributo arrecato dal sistema (costituzionale e) penale italiano al Muster humanen Umgangs mit Abweichung. Sul piano ideale, infine, non residuano tracce apprezzabili di strumentalizzazioni o lesioni della dignità umana del tipo di quelle denunciate da Kant e da Hegel. Oserei anzi dire che diventa possibile riproporre in chiave (realmente) moderna, affrancandolo da incrostazioni metafisiche, l’aforisma hegeliano sul tributo di onore recato dalla pena nei confronti dell’uomo: nello Stato liberaldemocratico disegnato dalla Costituzione, intriso di valori personali e attento alla corresponsabilità sociale, ‘‘la pena onora e si fa carico del consociato come componente responsabile e prezioso del consorzio civile’’. GIANCARLO DE VERO Ordinario di Diritto penale nell’Università di Messina

dell’irrogazione e dell’esecuzione, un finalismo rieducativo esattamente in quanto già esprime un finalismo educativo nella fase della comminatoria (per i vari significati attribuiti e/o attribuibili al termine ‘‘rieducazione’’ è fondamentale il riferimento a G. FIANDACA, Commento dell’art. 27, comma 3, in Commentario della Costituzione. Rapporti civili (artt. 2728), Bologna, 1991, p. 222 ss.).


EUFORIE TECNICISTICHE NEL ‘‘LABORATORIO DELLA RIFORMA DEL CODICE PENALE’’

1. Nel 1910, com’è noto, Arturo Rocco lancia un vibrante appello al tecnicismo tramite la prolusione sassarese su ‘‘Il problema e il metodo della scienza del diritto penale’’. Gli obiettivi dichiarati di Rocco erano molteplici, innanzitutto ristabilire, da un lato, la ‘storicità’ del diritto penale contro le tendenze giusnaturalistiche e metafisiche della Scuola classica (1), ancora molto diffuse nella scienza penale, e, dall’altro, riaffermarne la ‘giuridicità’ in polemica coi postulati socio-antropologici della Scuola positiva (2). Riprendendo moduli bindinghiani, Rocco individuava come unica possibile scienza giuridica quella che aveva ad oggetto rigorosamente, anzi ‘‘religiosamente e scrupolosamente’’ (3) il diritto positivo, indicandone i compiti nella esegesi della norma penale, nella dommatica e nella sistematica, cioè nell’‘‘elaborazione tecnico-giuridica del diritto positivo vigente’’ (4), in nome di un carattere neutro ed avalutativo della scienza del diritto penale. Nel suo evidente intendimento di negare legittimazione ad una critica che ponesse in discussione le norme in sé considerate, il loro fondamento politico-criminale, le loro finalità, l’indirizzo tecnico-giuridico risultava perfettamente funzionale alle opzioni ordinamentali autoritarie che trovarono la loro naturale consacrazione nel diritto fascista. In questo contesto si inserisce, in perfetta coerenza, la negazione per la scienza giuridica di qualsiasi legittimazione ad un’attività de lege ferenda; non a caso Rocco parla di ‘‘sfrenata voluttà della critica legislativa e della riforma delle leggi penali vigenti’’ (5). Ovvero afferma che ‘‘non è soltanto sterile la critica legislativa, ma altresì, bene spesso, esiziale al fi(1) ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale (1910), in Opere giuridiche, vol. III, Roma, 1933, p. 268. (2) ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, cit., p. 272. (3) Op. cit., p. 274. (4) Op. cit., p. 294. (5) Op. cit., p. 266.


— 454 — siologico sviluppo della scienza’’ (6). Dunque era preclusa all’interprete ogni valutazione critica delle scelte di politica criminale: ‘‘Si deve tenere distinta l’indagine propriamente e strettamente giuridica da quella filosofica e politica, se si vuole evitare una illecita e pericolosa intrusione ed inframmettenza di elementi filosofici e politici nella logica limpidezza della ricerca giuridica’’ (7); pertanto, ‘‘appare erronea l’opinione di coloro che confondono la politica criminale... con la scienza del diritto penale’’ (8). Come pose in rilievo con la consueta lucidità Franco Bricola — con riferimento anche ad un ammonimento di Pietro Nuvolone (9) — la costruzione di norme future rappresenta, invece, l’oggetto ulteriore e più genuino della scienza giuridica: ‘‘Altro è che la teoria generale del reato debba essere condotta in termini rigorosamente positivi, altro è che in ciò si esaurisca il compito del giurista in genere e del penalista in ispecie’’ (10). Ad onor del vero, Rocco considera la critica come attività confacente alla scienza del diritto, solo che la limita al diritto positivo vigente interno (11) o di altri ordinamenti (12), ma pur sempre in una dimensione meramente tecnicistica. In ogni caso affida la prospettiva de lege ferenda alla politica criminale, e non alla scienza del diritto, ritenendo anzi di dover proteggere questa ‘‘dai variabili ed insidiosi venti della politica criminale riformatrice’’ (13). 2. Una tale impostazione, come avremo modo di verificare di qui a poco, sembra aver trovato un inatteso revival, ad oltre novant’anni di distanza dalla prolusione di Arturo Rocco, all’interno del ‘‘laboratorio della riforma del codice penale’’. Infatti, in un saggio recentemente apparso, viene delineato, in ultima analisi, una sorta di breviario, inaspettatamente rétro, sul ruolo della scienza giuridica, sui rapporti tra questa ed il legislatore, nonché sui limiti alla critica che la scienza può esprimere nei confronti delle opzioni prospettate dal legislatore (o aspirante tale), se essa vuole mantenere la sua ‘‘autonomia’’, senza cadere in una posizione di ‘‘subalternità’’ (questo poi, come vedremo, è l’argomento più sorprendente). ‘Interessanti’ considerazioni sono state anche svolte in materia di sistema ed implicazioni ad esso connesse. (6) Op. cit., p. 314. (7) Op. cit., p. 293. (8) Op. cit., p. 312. (9) Natura e storia nella scienza del diritto penale, in Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova, 1969, p. 205. (10) BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. D.I., XIX, Torino, 1974, p. 12. (11) ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, cit., p. 309 ss. (12) Op. ult. cit., p. 320. (13) Op. ult. cit., p. 323.


— 455 — Per quel che concerne l’attività del giurista, leggiamo: ‘‘Come studiosi del diritto, siamo abituati a porre e a cercare di risolvere problemi di conoscenza: di interpretazione del diritto positivo, di adeguata sistemazione concettuale e simili. Il compito del legislatore è invece quello di assumere decisioni di politica del diritto...’’ (14); ‘‘la ratio, della quale la scienza è portatrice, si pone al servizio di scelte le cui ragioni non si esauriscono sul piano della razionalità strumentale, ma hanno a che fare con i fini...’’ (15). Da quest’ordine di idee viene immediatamente in evidenza il fatto che il giurista debba limitare il suo impegno a risolvere semplicemente problemi di conoscenza, di interpretazione, di adeguata sistemazione concettuale e così via — secondo le indicazioni di Arturo Rocco —; al giurista — sempre assecondando il pensiero di Rocco — viene, in effetti, inibita tutta l’attività di critica, tesa alla riforma (o a tentare di bloccare malaccorte riforme) e, dunque, viene preclusa la possibilità di coltivare la prospettiva de lege ferenda: se la si vuol coltivare, si vedrà in seguito a quali ‘rischi’ si andrebbe incontro! E una conferma si ricava anche dal fatto di aver posto la ratio della scienza al mero servizio della razionalità strumentale, escludendo qualsiasi relazione di questa con i fini, che invece vengono considerati dominio del legislatore, della politica del diritto. Tuttavia, vorrei osservare, tutto ciò potrà valere per un tecnicista puro, ma non certamente per chi ritenga — avendolo ampiamente argomentato — che qualunque teorizzazione giuridica si fondi su considerazioni di politica del diritto: il diritto è politica, esso rappresenta sic et simpliciter la formalizzazione delle scelte della politica, e quest’acquisizione dovrebbe aver contribuito in maniera decisiva ad un cambiamento radicale di prospettive in materia di teoria generale, di sistematica e di dommatica. Per quel che concerne i rapporti tra scienza e legislatore, va sottolineata la ‘strana’ complessità di taluni passaggi: ‘‘Come giuristi tendiamo a sopravvalutare l’importanza delle nostre elaborazioni teoriche o ‘dogmatiche’, fino ad aspirare di vederle puntualmente riflesse nei testi legislativi e a censurare il legislatore che non lo fa. A me pare che il rapporto fra legislazione e scienza (non solo quella giuridica) sia più complesso: di connessioni, ma anche di reciproca autonomia’’ (16). Più avanti, nel contesto di un discorso che mi riguarda personalmente — e su cui tornerò in seguito — si afferma che attraverso l’esercizio dell’attività di critica ‘‘di fronte a scelte ‘sistematiche’ difformi (o ritenute difformi) da parte del legislatore affiora un atteggiamento di subalternità: una sostanziale rinuncia a svolgere il lavoro di elaborazione sistematica che è proprio della (14) PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del codice penale, in questa Rivista, 2001, p. 9. (15) PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del codice penale, cit., p. 9. (16) PULITANÒ, op. cit., p. 14.


— 456 — scienza giuridica, come se il legislatore, effettuando opzioni ‘dogmaticamente sbagliate’, potesse espellere con effetto vincolante la concezione dogmatica ‘vera’ ’’ (17). Partendo da quest’ultima affermazione, mi pare piuttosto evidente che l’opzione legislativa è ben in grado di espellere dalla vita del diritto ‘‘concezioni dogmatiche vere’’, come, ad esempio, quella che esige la presenza di un Tatbestand soggettivo accanto a quella di un Tatbestand oggettivo, là dove consente ipotesi di responsabilità oggettiva. A mio avviso, dunque, l’opzione ‘‘dogmaticamente sbagliata’’ ha notevolissime implicazioni: l’errore dommatico, per essere un errore, fornisce una falsa rappresentazione della realtà e, pertanto, dà vita ad una soluzione quanto meno inadatta a regolare correttamente l’oggetto della disciplina, con tutto quel che consegue sia dal punto di vista delle garanzie che da quello della funzionalità delle norme. Certo, l’opzione legislativa ‘‘dogmaticamente sbagliata’’ non cancella la verità, ma pone notevoli ostacoli alla sua affermazione. E non si vede perché, se la soluzione sbagliata è proposta in una fase de lege ferenda, essa non debba essere censurata, nella speranza che l’errore venga corretto. Questa non mi pare affatto un’abdicazione a svolgere il lavoro di elaborazione sistematica proprio della dottrina, come pur viene sostenuto. In sostanza, secondo un tale, curioso ‘‘ordine di idee’’, la dottrina parrebbe legittimata a svolgere una critica legislativa a cose fatte, quando l’errore è diventato legge, altrimenti, se lo fa per tempo, ‘‘affiora un atteggiamento di subalternità’’; ma su questa paradossale conclusione ci soffermeremo di qui a poco. In ogni caso, mi pare opportuno precisare che cosa s’intende normalmente per dommatica o dogmatica, dal momento che sembra che in proposito nel ‘‘laboratorio’’ si faccia un po’ di confusione. Certo, il lettore ‘intelligente’, anche a fronte delle tante imprecisioni che incontra, può sempre mantenere la propria bussola e non perdere la direzione, ma se, magari, anche chi scrive si sforzasse di essere più intelligibile, non sarebbe un male. Dunque, al termine dogmatica o dommatica si è talvolta conferito significati diversi, che non paiono correttamente attribuiti: la dogmatica dovrebbe essere, rettamente, intesa come quella disciplina che si occupa del diritto positivo e considera le norme veri e propri dogmi, in quanto oggetto privilegiato e dato di origine irrinunciabile dell’elaborazione concettuale. Essa adempie ad una fondamentale istanza di sintesi e di intelligibilità: si pone in uno stadio di astrazione intermedio tra norma e fattispecie concreta, al fine del riconoscimento delle caratteristiche più rilevanti di (17)

PULITANÒ, op. cit., p. 16.


— 457 — ogni elemento, e, delimitando l’ambito delle alternative possibili, offre un affidabile modello decisionale rispettoso di esigenze di uniformità e, dunque, di eguaglianza e di ragionevolezza. In tal modo imbriglia, per così dire, garantisticamente, spinte a libere creazioni interpretative, contribuendo anche a conferire razionalità nell’inflizione delle sanzioni. Se, invece, si fa riferimento all’elaborazione-sistematizzazione di un ordine concettuale ed alla metodologia impiegata, che trascende il dato dell’interpretazione e del chiarimento del significato di una norma, allora il riferimento più aderente alla realtà delle cose va fatto, oltre che alla sistematica, alla teoria generale, alla politica criminale, alla metodologia, che, in ogni caso, fungono da presupposti anche dell’elaborazione dommatica. Mi sembra, quindi, anche ai fini di una migliore comunicazione delle idee, che non vadano confusi termini come dogmatica, scienza, teoria del diritto, sistematica, che hanno evidenti caratteri differenziali e, dunque, non appare corretto utilizzarli come sinonimi. 3. Ciò precisato, per quel che concerne i rapporti tra scienza e legislatore, può essere anche vero che i giuristi tendano a ‘‘sopravvalutare’’ le loro elaborazioni teoriche fino ad aspirare di vederle puntualmente riflesse nei testi legislativi — la qual cosa talvolta capita pure — mentre il rapporto tra legislazione e scienza è sicuramente ‘‘di connessione, ma anche di autonomia’’. Ciò non toglie, però, che il giurista debba aspirare a veder realizzate, ove possibile, le risultanze della sua opera, se è in buona fede, se agisce con onestà intellettuale. Francamente non si capisce perché chi ritenga di essere nel giusto debba rinunciare a veder affermato ciò che sostiene. Quanto all’autonomia decisionale del legislatore ed all’autonomia ‘‘conoscitiva’’ della scienza giuridica, da tenere in qualche modo distinte, senza cioè interferenze reciproche, va osservato che il legislatore, la sua autonomia, la esercita quotidianamente — e sappiamo con quali risultati —; quello che riesce difficile da accettare è l’idea di una dottrina supinamente osservante gli errori del legislatore nella fase de lege ferenda, che deve attendere — in nome di una incomprensibile ‘‘non subalternità al legislatore’’ — che gli errori divengano legge per poi esprimersi. In base a questo curioso ordine d’idee, uno dei migliori progetti di codice penale che si siano mai visti, l’Alternativ-Entwurf, non avrebbe mai dovuto vedere la luce, se non a costo di una accettazione di ‘‘subalternità’’ rispetto al legislatore dei vari Roxin, Arth. Kaufmann, Maihofer, Baumann, Schultz, Noll, Stratenwerth e così via: la cosa si commenta da sé. Certamente, in uno stato di diritto la legislazione è compito del Parlamento, dei rappresentanti, democraticamente eletti, del popolo, e tra i compiti del giurista vi è quello della sistematizzazione, dell’astrazione


— 458 — dommatica e dell’interpretazione teleologica della normativa esistente. Ma, tra i suoi compiti, vi sono certamente anche quelli relativi alla lex ferenda, alla riforma, alla politica criminale e, quindi, alla legislazione. Una contrapposizione tra questi gruppi di attività appartiene ad una impostazione scientifico-metodica di tipo tecnicistico, che già nella seconda metà dell’Ottocento cominciava a mostrare la sua inadeguatezza alle ragioni dello stato di diritto. Non va dimenticato che la stagione della massima affermazione tecnicistica è stata quella del diritto autoritario, che ha trovato il suo coronamento nella legislazione penale fascista. In ogni caso, da quando il riconoscimento della forte interazione tra politica criminale e dommatica ha portato al superamento di una sistematica di tipo meramente logico-formale per una teleologica, orientata a principi, normativamente dedotti, di politica criminale, l’oggetto della scienza penalistica si è ampliato ben oltre la consueta dimensione di tipo dommatico-metodico-sistematico, fino a comprendere legittimamente la politica criminale e la legislazione, nel senso della scienza e della tecnica legislativa. Sin dai primi anni ’70 è divenuta acquisizione indiscutibile il fatto che, nei rapporti di diritto penale, sia possibile misurare il livello qualitativo della tutela di libertà e personalità individuale in una determinata compagine statuale e in un particolare momento storico, e ciò grazie alla piena consapevolezza dell’‘inganno tecnicista’ che contrabbandava per purezza della teorizzazione la negazione della critica trascendente la logica interna della legge vigente e, dunque, relativa ai presupposti politico-criminali della medesima. Risale, infatti, a quegli anni, la lezione di Roxin, che rappresenta in maniera esemplare l’esigenza della costruzione di un sistema penale, che assuma come principi di riferimento i valori politicocriminali di derivazione liberal-solidaristica: essi sovente risultano normativizzati nelle Costituzioni orientate ai principi dello stato sociale di diritto (18). D’altra parte, nell’ambito di una concezione socio-statuale libera da ipoteche di estrazione metafisica, trascendenti la realtà dei singoli consociati e fondate su assunti irrazionali di tipo fideistico, è nell’esigenza di politica criminale di consentire una pacifica coesistenza tra i consociati, intesi anche come titolari di diritti fondamentali, che il diritto penale trova addirittura la sua origine. È evidente, dunque, che alle scelte di politica criminale derivate con coerenza dalle opzioni fondamentali, di tipo normativo, sancite nella Costituzione, va attribuito un ruolo centrale nella costruzione del sistema e (18) Magistralmente espresso in Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, 1. Aufl., Berlin-New York, 1970, trad. it. Politica criminale e sistema del diritto penale, Napoli, 1986.


— 459 — nell’interpretazione della norma (19); se, infatti, la tutela dei diritti dell’uomo si impone come processo storico irreversibile, i limiti che essa può sopportare in uno stato sociale di diritto vanno delineati con estremo rigore e chiarezza. Sotto altro profilo, la ricerca di un affidabile, anche perché comprensibile, complesso di regole ed il privilegio di prospettive soggettive nella definizione dei titoli di responsabilità, in una parola l’impianto garantistico, formale e sostanziale, che contrassegna, o dovrebbe, il sistema penale, rappresenta una diretta conseguenza del fatto che quel sistema, in via di principio, è orientato ad incidere, anche in misura notevole, sui diritti di libertà e personalità individuale che, per definizione, sono posti all’apice dei valori sui quali si basa il patto sociale in democrazia. A risultati insoddisfacenti porta, invece, un dogmatismo di tipo tecnicistico, che finisce per assecondare più o meno consapevolmente scelte illiberali, nel momento in cui, ripetiamo, fornisce una giustificazione teorica all’espulsione, dalla teoria del sistema penale, delle problematiche di politica criminale, la cui forte caratterizzazione in senso assiologico-materiale risulta poco armonizzabile con la purezza astratta di categorie squisitamente dommatico-tecnicistiche. In particolare, l’opzione dommatico-tecnicistica esprime la sua vocazione illiberale nella misura in cui esclude la possibilità per l’interprete di indagare per elaborare argomenti di tipo assiologico, utili a porre in discussione la validità e la legittimità di singoli aspetti del sistema e quel carattere quasi esoterico che ha contrassegnato fino a non molti anni orsono parte non trascurabile della dommatica giuspenalistica. Altra questione è quella relativa ad una dommatica tesa all’elaborazione di regole, generali ed astratte, che ‘organizzi’ il materiale legislativo, tenendo anche conto di parametri ‘metatecnicistici’, quali ragionevolezza, conformità allo scopo, e così via; sempre che, naturalmente, le norme siano redatte — dal punto di vista strutturale e dei contenuti — in maniera tale da consentire lo stesso procedimento di affidabile generalizzazione ed astrazione (20). Ne consegue che la comprensione sia del sistema nel suo insieme, che dei singoli istituti, passa innanzitutto attraverso l’attenta considerazione del complesso dei principi di fondo. In altri termini, che ai fini della coerenza sistematica — che poi altro non è che la spia di legittimità e funzionalità del sistema — la correzione o la rimozione di soluzioni normative risultanti aporetiche passa necessariamente attraverso rigorose operazioni di verificazione o di falsificazione delle stesse in rapporto alle opzioni fon(19) Cfr. per tutti BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in questa Rivista, 1988, p. 3 ss. (20) Sul tema v. anche le considerazioni svolte da C. FIORE, Diritto penale, I, Torino, 1993, pp. 110-111.


— 460 — damentali implicate. Partendo dal dato della possibile contraddittorietà, rispetto alle opzioni fondamentali, delle singole scelte normative — de lege lata o de lege ferenda —, sarà compito dell’interprete segnalare l’errore e, quindi, la mancata coerenza sul piano della logica interna e/o la carenza di compiutezza nella singola soluzione. In particolare, la scienza penalistica esercita, dunque, un controllo di razionalità, di fondatezza logica, di legittimità. Questo significa anche che un progetto di legge debba essere valutato dal punto di vista dell’esattezza sotto il profilo metodico-dommatico e della coerenza, sia interna alle singole norme, che in una prospettiva sistematica, di più ampio respiro. Naturalmente, il controllo di razionalità riguarda anche l’adeguatezza dell’opzione penale, la prospettiva delle possibili conseguenze, la rispondenza ai principi fondamentali di politica criminale. È quindi conforme alla natura delle cose l’interazione tra scienza del diritto e legislazione, pur nel rispetto assoluto dei ruoli ed in particolare, dell’assolutamente indipendente esercizio del potere legislativo da parte dei rappresentanti del popolo democraticamente eletti. Allo stesso modo, in conformità ai principi che sanciscono libertà di ricerca e libertà di opinione è un diritto-dovere della scienza giuridica far sentire la propria voce, già nella fase progettuale delle norme, per orientare le scelte del legislatore in conformità ai principi di una legittima politica criminale ed ai principi di una corretta attività di normazione conforme al rispetto di esigenze logico-metodiche e di coerenza sistematica. Tutto ciò implica la possibilità di una comunicazione razionale tra scienza e legislatore già nella fase di preparazione della normativa. La mancanza di questa interazione discorsiva comporta spesso una carenza di legittimazione materiale della legge, quando questa viene emanata senza che risultino verificati dal legislatore tutti i presupposti di ordine politico-criminale, sistematico, logico-formale, che per definizione costituiscono oggetto di studio da parte della dottrina: l’esito di questo tipo di procedimento legislativo, nel migliore dei casi, è quello — fortemente negativo per lo stato di diritto — dell’aporia che pregiudica legittimità e funzionalità delle norme. 4. Degno di nota appare anche il ruolo che, all’interno del ‘‘laboratorio’’, viene assegnato ai problemi di ordine sistematico: esso lascia trasparire, unitamente alla riduzione ‘tecnicistica’ dell’attività della scienza, un’idea molto particolare di sistema. In effetti, attraverso un iter argomentativo non proprio limpido, si comincia con l’affermare che ‘‘poiché la scrittura (o riscrittura) di un codice passa anche attraverso scelte ‘sistematiche’ relative alla struttura del sistema normativo, chi effettua le scelte ha l’onere di renderne ragio-


— 461 — ne’’ (21); ‘‘il sistema del codice dovrebbe ‘rappresentare’ (in tutti i sensi del termine) un sistema completo, chiaro e coerente di soluzione di problemi’’ (22); più avanti, si afferma che non si intende ‘‘negare che, in sede di riforma, vengano in rilievi problemi di collocazione sistematica’’, dispregiativamente indicati come ‘‘collocazione dei mobili nella stanza’’, che rileverebbero sul piano ‘‘estetico’’ o della chiarezza del messaggio — quest’ultima, per la verità, in uno stato di diritto non è cosa da poco —, ‘‘ma tale questione non ha la dignità di una questione ‘dogmatica’ (sic) e non è stretta nelle alternative secche tra il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato’’ (23). Mi sia consentita qualche breve considerazione sul problema della ‘‘sistemazione dei mobili nelle stanze’’ liquidata, con fastidiosa sufficienza, come operazione rilevante, al più, sul piano meramente estetico. A questo proposito vorrei osservare che, innanzitutto, la dimensione estetica, in assoluto, appare molto significativa, certo, essa varia in rapporto alla sensibilità della persona; tuttavia, per quel che concerne più da vicino la costruzione di un sistema normativo, la dimensione estetica ha a che fare con l’ordine, l’armonia tra le parti, la chiarezza: e questi, francamente, non sembrano affatto aspetti trascurabili. Ma la ‘‘sistemazione dei mobili’’, a ben vedere, ha anche una sua dimensione estremamente pratica: essa ha a che fare con la fruibilità, sia della stanza, che dei mobili stessi: un grosso armadio posto al rovescio davanti ad una finestra impedisce l’uso corretto della stanza e dell’armadio stesso, per non parlare poi del tavolo da pranzo nella stanza da bagno o del letto davanti alla porta d’ingresso! È importante la ‘‘sistemazione dei mobili’’, com’è vero che è importante l’ordine sistematico per la comprensibilità delle norme e per la loro funzionalità. L’ordine sistematico, infatti, esprime — e dovrebbe essere servito ad esprimere — una logica, se si nega questo assunto si legittima il caos. E non credo che i compilatori del progetto abbiano tirato a sorte la sequenza degli articoli. L’ordine sistematico rappresenta, o dovrebbe, un ordine d’idee ed in ogni caso un ordine d’idee poco chiaro complica paurosamente le cose per l’interprete. Lo stesso esempio dell’art. 5 c.p. che non avrebbe impedito una ‘‘riflessione teorica non subalterna al sistema del codice’’ (24), appare preoccupante, perchè ad una soluzione soddisfacente si è giunti soltanto dopo quasi sessanta anni; e ciò conferma, e non certamente smentisce, la significatività della collocazione sistematicamente corretta: se il problema dell’error juris fosse stato trattato nella sede (21) PULITANÒ, op. cit., p. 14. (22) PULITANÒ, op. cit., p. 14. (23) PULITANÒ, op. cit., p. 17. (24) PULITANÒ, op. cit., p. 17.


— 462 — più idonea, probabilmente si sarebbe risparmiato tempo ed iniquità. Certamente, a fronte di un codice riformato la dottrina ha la responsabilità di continuare il suo lavoro, ma se i risultati di rettifica degli errori li può ottenere prima, non si capisce perché debba, un po’ masochisticamente, rinunciare ad ottenerli (25). La verità è che dietro ragionamenti di questo genere, non poco contorti, sembra affiorare l’irritazione dell’intolleranza; e cioè pare che sia la critica a non essere sopportata, e questo, nel dibattito delle idee, è veramente intollerabile. La corretta collocazione sistematica, essendo servente alla chiarezza del messaggio, e dunque alla comprensione dello stesso, ha la medesima ‘‘dignità’’ di una questione ‘‘dogmatica’’ ed è certamente ‘‘stretta’’ nell’alternativa secca ‘‘tra il giusto e lo sbagliato’’. Si consideri che l’idea di sistema, così come è andata evolvendosi, assolve a due funzioni fondamentali: una di tipo conoscitivo della fenomenologia giuridica e l’altra di elaborazione legislativa, dottrinale e giurisprudenziale del diritto. Sotto il profilo storico l’accezione di sistema più risalente è quella di tipo meramente conoscitivo: il sistema c.d. estrinseco ‘‘come modo di meglio disporre il materiale trattato’’ (26) che risulta usuale tra i giuristi medievali. Da Jhering (27) in poi si affaccia l’accezione di sistema intrinseco ‘‘come ordine che si astrae dal fondo medesimo dell’oggetto’’, dunque della coerenza immanente tra le norme di un ordinamento: concatenazione logica e/o finalistica tra le regulae juris. Non solo, dunque, formulazione di concetti ricavati dalle norme e loro disposizione verticale, in maniera tale da concentrare gradualmente i concetti più o meno speciali all’interno di quelli più o meno generali. Il sistema penale, all’interno di uno stato di diritto, a Costituzione rigida, quindi a strettissima legalità, va concepito come il logico ed ordinato svolgersi di precetti desumibili da principi fondamentali non in contraddizione tra loro, che rappresentano la cristallizzazione di valori politici basilari di una determinata società in una particolare epoca storica. Non si tratta, dunque, di un casuale aggregato di norme, ma di un complesso organico da cui sia possibile agevolmente individuare e classificare gli istituti secondo prospettive assiologiche armoniche: un sistema teleologicamente coerente come un insieme di proposizioni normative non contraddittorie tra loro. Quando parliamo di coerenza ci riferiamo anche alla coerenza terminologica del dettato normativo: è essenziale ai fini in(25) PULITANÒ, op. cit., p. 17. (26) ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto, Torino, 1961, p. 65. (27) Geist des römischen Rechts, I, Leipzig, 1878, pp. 36-37.


— 463 — terpretativi ipotizzare che il legislatore adoperi i termini con i quali detta le norme sempre con un significato costante: le ambiguità, a tacer d’altro, nuocciono gravemente alla certezza del diritto. Infine, all’idea di coerenza sistematica, da perseguire sia nel momento della creazione delle norme che in quello della loro interpretazione, si collega l’assunzione e la verifica delle conseguenze fattuali delle norme, proprio in virtù della caratteristica non solo conoscitiva del sistema, ma anche, e soprattutto, di quella teleologico-normativa. Certo, diverse sono le possibili accezioni di sistema, tuttavia è pacifico attribuire al concetto di sistema giuridico alcune caratteristiche che possono ritenersi comunemente accolte, e cioè l’essere costituito da un complesso di norme, connotato da un certo grado di interdipendenza reciproca; tuttavia la caratteristica più significativa, ripeto, è data dalla coerenza e non tanto nel senso che le norme siano reciprocamente in un rapporto logico di implicazione, quanto nel senso che esse non possano essere fra loro incompatibili: cioè norme contraddittorie o contrarie. In presenza di antinomie, com’è noto, sono diversi i criteri di soluzione, da quello cronologico a quello gerarchico a quello di specialità. Ma il criterio più rispondente alla fondamentale esigenza di coerenza è quello secondo cui le norme incompatibili vanno eliminate e, specialmente in una fase de lege ferenda, lo sforzo perché norme incompatibili non vi siano dev’essere massimo. Indubbiamente, la realtà ci mostra che difficilmente si trova un sistema perfettamente coerente, ma ciò non toglie che la finalità della coerenza debba fermamente essere perseguita. 5. Alla luce di queste considerazioni, piuttosto scontate, invero, su ruolo e funzione del sistema, proviamo ad esaminare le censure mosse a quanto avevo sostenuto in materia di imputabilità (28). Esigenze di chiarezza mi costringono ad ampie citazioni testuali: ‘‘Una comunicazione scritta [nota 19: Moccia, p. 13 del dattiloscritto] sostiene, con riferimento al progetto preliminare della Commissione, che ‘la scelta di estromettere la considerazione dell’imputabilità dal titolo relativo al reato rivela una grave ambiguità dei rapporti tra imputabilità, colpevolezza e prevenzione, che si riflette nella conservazione di un sistema dualistico di sanzioni e nel singolare regime dell’imputabilità ridotta’ ’’... ‘‘Premessa della critica sembra essere la pretesa di un rapporto stringente (di corrispondenza fin nella collocazione di singole norme) fra la (28) Il testo della relazione è ora pubblicato in Critica del diritto: cfr. MOCCIA, Considerazioni sul sistema sanzionatorio nel Progetto preliminare di un nuovo codice penale, in Crit. dir. 2000, 266 ss.


— 464 — ‘sistematica’ del codice e una particolare concezione ‘dogmatica’. Ciò, da un lato, comporta una forte dilatazione delle pretese di verità o validità delle costruzioni dogmatiche della dottrina, al punto di erigerle a criterio d’accettabilità delle soluzioni legislative, secondo una logica binaria (vero o falso). La primazia, dunque, si vuole assegnata alla dogmatica. Dall’altro lato, di fronte a scelte ‘sistematiche’ difformi (o ritenute difformi) da parte del legislatore, affiora un atteggiamento di subalternità: una sostanziale rinuncia a svolgere il lavoro di elaborazione sistematica, che è proprio della scienza giuridica, come se il legislatore, effettuando opzioni ‘dogmaticamente sbagliate’, potesse espellere, con effetto vincolante, la concezione dogmatica ‘vera’ ’’... ‘‘Una lettura ‘intelligente’ del progetto del settembre 2000 non autorizza minimamente a dire che, in esso, l’imputabilità non ha a che fare con la colpevolezza. Una simile critica confonde la ‘collocazione dei mobili’ nelle stanze del codice con la struttura logica e normativa del sistema, ed abdica alla funzione di elaborazione concettuale e sistematica che è propria della scienza giuridica. Una ‘scienza giuridica’ consapevole dei problemi di disciplina legati alla questione della (non) imputabilità sa che questa ha obiettivamente a che fare con il problema dei presupposti della responsabilità, sia con il problema del trattamento dei ‘non imputabili’. Dovunque collocata, la definizione della (non) imputabilità mantiene logicamente questa duplice rilevanza; collocarla nel capitolo della colpevolezza o in quello del trattamento dei non imputabili è questione di mera ‘estetica’ del codice, del tutto irrilevante sia per i contenuti normativi, sia per l’elaborazione sistematica della dottrina, che potrà — e dovrà — tranquillamente rilevare il nesso fra imputabilità e colpevolezza, non diversamente da come ciò è stato possibile di fronte al sistema del codice Rocco, che colloca l’imputabilità nel titolo del reo’’ (29)... ‘‘Il gusto per la critica, così diffuso nel ceto dei giuristi d’ogni tendenza, talvolta si alimenta anche di (...) obiettiva difficoltà a comprendere e inquadrare il nuovo’’ (30)... ‘‘Dove il dialogo è parso incepparsi, è quando sono state introdotte letture fatte non già con gli strumenti della cultura che ci unisce, ma con gli occhiali di una particolare dogmatica, e si è creduto di poter attribuire al progetto coloriture ‘dogmatiche’ ch’esso non ha affatto inteso assumere. Ciò ha condotto talora ad interpretazioni ‘non intelligenti’, che una lettura del testo libera da pregiudizi consente agevolmente di scartare’’ (31). (29) PULITANÒ, op. cit., pp. 15-16. (30) PULITANÒ, op. cit., p. 20; quanto somiglia quest’affermazione a quelle più su citate di Arturo Rocco!, vedi supra, p. 1. (31) PULITANÒ, op. cit., p. 21, nota 24.


— 465 — Al di là delle contumelie, virgolettate o meno, proviamo a verificare se la disciplina proposta in materia di imputabilità risulti ‘‘comprensibile’’, ‘‘determinata’’, e ‘‘univoca’’. Nel settore dei rapporti tra imputabilità, colpevolezza e prevenzione, la disciplina del Progetto, a mio avviso, solleva problemi di ordine sistematico, non meramente ‘estetici’ — anch’essi, ripeto, sarebbero comunque significativi —, ma rilevanti per una disciplina della materia che risulti conforme ai principi costituzionali. La collocazione della (non) imputabilità all’esterno del Titolo dedicato al reato, rivela, infatti, ne sono convinto, un’ambiguità di fondo che investe non solo i nessi tra imputabilità, dolo-colpa e colpevolezza, ma, attraverso di essi, anche la funzione delle pene e delle misure di sicurezza. 5.1. In relazione ai rapporti tra imputabilità e colpevolezza, la collocazione della prima vincola, sul piano di una corretta interpretazione sistematica, ad una verifica dell’ipotesi che l’imputabilità sia considerata dal Progetto come elemento estraneo alla colpevolezza e tale da presupporla. Viene, allora, in considerazione l’art. 28, comma 1 del Progetto, secondo cui ‘‘la colpevolezza dell’agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale’’. Nonostante la formulazione della norma — ‘‘colpevolezza... per il reato commesso’’ (sic) —, la collocazione del Capo III, ‘‘Colpevolezza’’, all’interno del Titolo II, ‘‘Il reato’’, e l’opinione pressoché unanime della scienza penalistica inducono a ritenere — salvo quanto si dirà fra breve su una possibile lettura alternativa — che, per il Progetto, la colpevolezza sia elemento del reato. Se la non imputabilità escludesse la colpevolezza, verrebbe meno, quindi, non solo la responsabilità penale, ma la stessa commissione di un reato. Ma se il non imputabile non commette un reato e non è penalmente responsabile, non si spiega come sia possibile sottoporlo a misure di sicurezza, anche privative della libertà personale, a meno che non le si definisca, con una vecchia frode delle etichette, come misure ‘‘amministrative’’. L’ipotesi che la non imputabilità escluda la colpevolezza e, quindi, il reato, appare smentita, per di più, dalle norme del Progetto che presuppongono, ai fini dell’applicazione di misure di sicurezza, la commissione di un ‘‘reato’’ da parte del non imputabile, artt. 98, 101, comma 1. Se a ciò si aggiungono le norme del Progetto che richiedono, per l’applicazione di una misura di sicurezza ad un non imputabile, l’accertamento del dolo e/o della colpa (art. 99, comma 1, lett. a) e b), art. 100, comma 1 e 2 Prog. prel.), che secondo il Progetto sono elementi della colpevolezza (art. 30, 31 Prog. prel.), l’interpretazione secondo cui l’imputabilità, nel Progetto, presuppone la colpevolezza ed anzi il reato, sembrerebbe definitivamente confermata. È vero che l’imputabilità esige, secondo il Progetto, la ‘‘possibilità di


— 466 — comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione’’ (art. 96, comma 1, Prog. prel.) e, quindi, parrebbe presupporre la possibilità di conoscere la legge penale (art. 29 Prog. prel.). Ma l’ignoranza dell’illiceità da parte del non imputabile non sarà, di regola, ‘‘scusabile’’, e non escluderà, quindi, la colpevolezza. Certamente, resterebbe, a questo punto, da chiedersi come sia possibile una colpevolezza, ossia una ‘rimproverabilità’ del non imputabile. Ad ogni modo, se l’intento dei compilatori del Progetto era quello di costruire l’imputabilità come presupposto o elemento della colpevolezza, esso parrebbe non tradursi né nelle singole disposizioni normative, né nel sistema complessivo. Peraltro, è possibile anche una diversa lettura dell’articolato, che consentirebbe di affermare che la non imputabilità escluda la colpevolezza; tuttavia, essa presupporrebbe la codificazione di opzioni dogmatiche tutt’altro che ‘leggere’ — anzi, piuttosto ‘particolari’ — e comporterebbe costi elevati in termini di razionalità del sistema e, soprattutto, di garanzie. Secondo tale lettura, la colpevolezza non sarebbe, per il Progetto, un elemento del reato. Infatti, secondo l’art. 28, comma 1, la colpevolezza dell’agente ‘‘per il reato commesso’’ è presupposto della ‘‘responsabilità penale’’. Ciò significherebbe che la colpevolezza ed i suoi elementi, in primis dolo o colpa (!), non sarebbero elementi del reato, ma solo della responsabilità penale. Si spiegherebbe, così, in che senso sia richiesta la commissione di un ‘‘reato’’ per l’applicabilità di una misura di sicurezza al non imputabile: ciò che si esige è la commissione di un fatto antigiuridico (‘‘reato’’), ma non colpevole. In altri termini, secondo il Progetto, il non imputabile commette un ‘‘reato’’, ma non è ‘‘penalmente responsabile’’, perché incapace di colpevolezza. Ed infatti, le misure di sicurezza possono applicarsi, con la sentenza che ‘‘accerta il reato’’, ai ‘‘prosciolti’’ per non imputabilità (art. 98, comma 1, Prog. prel.). Tuttavia, una tale lettura, oltre a riproporre una fittizia ‘‘irresponsabilità penale’’ del non imputabile, darebbe luogo ad un concetto di reato eccessivamente ampio, meramente causale: anche chi agisce in maniera scrupolosamente conforme a diligenza commetterebbe un ‘‘reato’’. Ma soprattutto, se la non imputabilità esclude la responsabilità perché esclude la capacità di colpevolezza, allora gli elementi della colpevolezza, che non incidono sul ‘‘reato’’, ma sulla sola responsabilità penale, non sono richiesti per il fatto del non imputabile. Non sono richiesti né dolo, né colpa, ma è possibile una responsabilità oggettiva del non imputabile. Né si dica che ciò viene chiaramente impedito dalla formulazione delle norme del Progetto che esigono la commissione di un delitto doloso o colposo: infatti, è ben noto e sempre disponibile l’escamotage dello ‘pseudo-dolo’ o della ‘pseudo-colpa’, vale a dire di ‘interessanti’ forme di responsabilità oggettiva occulta.


— 467 — A questo punto, pare evidente che le disposizioni e la sistematica del Progetto danno luogo, qui, ad una disciplina poco chiara, poco determinata e poco univoca — id est ambigua —, e rischiano, inoltre, di dar luogo ad una violazione, rispetto al non imputabile, del principio di personalità della responsabilità penale. 5.2. In rapporto alla necessità costituzionale di esigere anche in relazione al non imputabile il dolo o la colpa, sarebbe stato opportuno prendere in considerazione l’idea per cui essi costituiscono elementi essenziali della tipicità, la cui presenza va, quindi, accertata indefettibilmente sia in rapporto al fatto dell’imputabile, che del non imputabile. E qui non si tratta soltanto di una scelta ‘‘dogmaticamente più sofisticata’’ (32), bensì di una precisa opzione conforme alla natura delle cose ed orientata nel senso delle garanzie individuali. Se, infatti, riteniamo che la ‘garanzia’ del dolo, o della colpa, debba contrassegnare anche il fatto del non imputabile, allora non è solo questione di ‘‘spostamento dei mobili nella stanza’’, per finalità di ‘dogmatica sofisticata’, criticare la collocazione di dolo e colpa nella colpevolezza, dal momento che questa ‘sistemazione dei mobili’ rischia di far trovare ‘fuori della stanza’ i diritti del non imputabile. Certo, attraverso operazioni dogmatiche ‘‘intelligenti’’, questi possono sempre rientrare dalla finestra; a questo punto, però, potrebbe risultare ‘‘poco intelligente’’ la scelta del legislatore, o aspirante tale, che, lungi dalle professate istanze di ‘‘chiarezza’’, ‘‘semplificazione’’ e ‘‘aderenza alla realtà’’, con la sua opzione ‘‘dogmatica’’ manifesta — rectius, di teoria generale — le cose le complica, obbligando l’interprete a ricercare presunte opzioni occulte più attinenti alla realtà e, quindi, esatte. Il riferimento ai principi costituzionali, che pur viene dichiarato dagli estensori del Progetto, avrebbe dovuto orientare verso ben altra soluzione. Infatti, è acquisizione ormai pacifica l’esigenza, segnalata già da lunga data (33), di una ricostruzione del sistema penale teleologicamente orientata ai principi della ‘‘norma fondamentale’’, che da una posizione sovraordinata indica prospettive assiologico-normative cogenti. Ed infatti, in questa materia si è avuta la ‘‘storica’’ (34) sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale, espressiva di una fine e chiarissima ermeneutica, fondata sull’interazione dei principi di personalità della responsabilità penale, art. 27, comma 1, Cost., di legalità, art. 25, comma 2 e 3, Cost. e di rieducazione, art. 27, comma 3, Cost. — quest’ultimo in (32) PULITANÒ, op. cit., p. 18. (33) MARINUCCI, Il reato come azione, Milano, 1971, pp. 183-184; BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., p. 7 ss. (34) Così PULITANÒ, Una sentenza ‘‘storica’’ che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 686.


— 468 — funzione di trait d’union tra i primi due —, significativamente integrati dal disposto di cui alle norme degli artt. 2, 3, 73, comma 3, Cost. La ‘‘storica’’ sentenza ha, in sintesi, indicato come conformi a Costituzione due precise opzioni di teoria generale: una attinente alla tipicità e l’altra attinente alla colpevolezza-responsabilità. Dal primo punto di vista la Corte ha affermato l’esigenza, ai fini della tipicità, della presenza del coefficiente soggettivo ‘‘in relazione agli elementi più significativi della fattispecie’’ (35) collegandosi agli esiti della concezione personale dell’illecito penale, che considera dolo e colpa elementi del fatto. Si legge infatti nella motivazione della sentenza: ‘‘Il fatto (punibile, ‘‘proprio’’ dell’agente) va, dunque, ...costituzionalmente inteso in una larga, anche subiettivamente caratterizzata accezione e non in quella, riduttiva, d’insieme di elementi oggettivi. La ‘‘tipicità’’ (oggettiva e soggettiva) del fatto... costituisce, così, il primo, necessario, ‘‘presupposto’’ della punibilità ed è distinto dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso’’ (36). Tale assunto viene ribadito, dalla stessa Corte, poco dopo, in altra significativa decisione, la n. 1085/1988, ove si afferma molto chiaramente: ‘‘Perché l’art. 27, comma 1, Cost. sia pienamente rispettato e la responsabilità sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo e dalla colpa)’’ (37). Ma, oltre al riconoscimento ‘‘costituzionale’’ della dimensione soggettiva del Tatbestand, la Corte, nel dare rilevanza all’error juris scusabile, ha arricchito il principio della responsabilità personale di contenuti ancor più complessi sotto il profilo dogmatico e di maggior valore dal punto di vista delle garanzie. Infatti, il principio accolto dalla Corte può essere definito come principio della responsabilità per fatto proprio colpevole. Esso si contrassegna, dunque, una volta per la presenza di un nesso psicologico quanto meno tra condotta ed evento e, una seconda volta, per la valorizzazione della effettiva relazione tra il soggetto e la legge penale. Tutto ciò, naturalmente, esige la possibilità della conoscenza del precetto, di qui l’illegittimità della presunzione assoluta di conoscenza della legge penale. Va, tuttavia, rimarcato che la Corte, nel valorizzare il requisito della possibilità della conoscenza dell’illiceità, ha finito con il dare piena realizzazione ai dettami della concezione normativa della colpevolezza: infatti, se l’ignoranza risulta evitabile, non assume rilevanza il mancato instaurarsi della relazione tra soggetto e norma penale, in quanto ciò esprime la (35) (36) (37) p. 289.

Cfr. Corte cost., 23-24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 706. Corte cost., 23-24 marzo 1988, n. 364, cit., p. 710, v. anche pp. 712-713. Corte cost., 30 novembre-13 dicembre 1988, n. 1085, in questa Rivista, 1990,


— 469 — riprovevole indifferenza del soggetto nei confronti dell’ordinamento, di guisa che il suo fatto — già doloso o colposo — resta colpevole. Alla luce di queste considerazioni, risulta strana l’opzione del Progetto di ‘restaurare’ un’obsoleta concezione psicologica della colpevolezza, che, a fronte di un’autorevolissima ricostruzione costituzionale di tipicità e colpevolezza-responsabilità, avrebbe richiesto un’ampia, dettagliata motivazione, per non correre il rischio di risultare un’opzione ‘‘dogmatica’’ viziata di concettualismo antinormativo (38). Dunque, a tal riguardo il Progetto ha adottato un’opzione teorica, vincolante e tutt’altro che ‘leggera’, collocando dolo e colpa nell’ambito della colpevolezza, il che contribuisce a tradurre sul piano sistematico scelte politico-criminali contrarie al principio di cui agli artt. 27, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 3, Cost. Le preoccupazioni segnalate aumentano, anziché diminuire, in relazione alla successiva versione del Progetto preliminare, pubblicata in rete il 26 maggio 2001: infatti, il concetto di imputabilità è stato ridefinito come ‘‘possibilità di comprendere il significato del fatto’’ (art. 94, comma 1), il che rischia di incidere pesantemente sull’accertamento di un dolo del non imputabile. 5.3. Le opzioni sistematiche del Progetto rivelano, tuttavia, un’ambiguità più generale, che riguarda i rapporti tra non imputabilità, colpevolezza e finalità preventive delle sanzioni penali. La separazione anche topologica tra colpevolezza e non imputabilità corrisponde, infatti, all’intento di riprodurre, sul piano dei presupposti, la netta distinzione, operata sul piano delle conseguenze giuridiche, tra pene e misure di sicurezza. Ma quella separazione significa, in termini di struttura del reato, che la pena si fonda sulla colpevolezza come rimproverabilità, secondo una concezione legata ad una funzione retributiva — o, quanto meno, anche retributiva — della pena. Tale concezione entra, peraltro, in crisi in relazione alla disciplina dell’ ‘‘imputabilità ridotta’’: un ibrido rispetto a cui è arduo conciliare l’idea di un ‘giusto castigo’ con quella di un trattamento di chi risulta essere vittima di condizionamenti. Ad ogni modo, un tale sistema si legittima soltanto a partire dall’idea di una funzione delle sanzioni criminali diversa per le pene e le misure di sicurezza, nel senso di assegnare alla pena una funzione (anche) retributiva. D’altro canto, rispetto alle misure per i non imputabili, pur stabilendo un limite massimo di durata, il Progetto non attua adeguatamente il (38)

Cfr. in proposito la magistrale, e purtroppo dimenticata, lezione di Dario SAN-

TAMARIA, Interpretazione e dommatica nella dottrina del dolo, Napoli 1961, passim, spec. p.

33 ss.


— 470 — principio costituzionale di proporzione: infatti, la durata della misura è sganciata dal reato commesso, mentre, in un diritto penale del fatto, esso non dovrebbe costituire solo un sintomo di ‘‘esigenze di trattamento o di controllo’’ (art. 98, comma 1), ma anche indicare la misura possibile dell’intervento statuale. Anche in rapporto alla scelta relativa alla durata minima della misura (art. 101, comma 2, Prog. prel.), non vengono indicati criteri commisurativi utilizzabili, dovendosi escludere un riferimento alle regole sulla commisurazione della pena, che presuppongono espressamente un autore colpevole, v. art. 71, comma 2, e comma 3, lett. a), c), d), e) Prog. prel. Per il non imputabile è quindi possibile una misura di durata molto inferiore o molto superiore rispetto ad esigenze di proporzione. Addirittura, sia pure in casi ritenuti eccezionali (art. 101, comma 7, seconda proposizione), la durata massima della misura è indeterminata. La violazione del principio di eguaglianza sub specie proporzione, in rapporto ai non imputabili, è un’ulteriore, nota conseguenza di un sistema dualistico di sanzioni, che parta da una diversa finalità assegnata alle pene ed alle misure di sicurezza. Essa risulta pure disfunzionale rispetto alle legittime esigenze di orientamento dei consociati e di rieducazione assegnabili anche alle misure di sicurezza. In conclusione, affrontare in modo meno ambiguo il nesso tra imputabilità, colpevolezza e finalità di prevenzione avrebbe dovuto significare riconoscere la poca compatibilità con i principi costituzionali di una netta differenziazione tra le finalità della pena e della misura e l’estensione ai soggetti non imputabili delle garanzie tradizionalmente ricondotte alla colpevolezza: proporzione rispetto al reato commesso, necessità di dolo o colpa, rilevanza dell’ignoranza inevitabile della legge penale. Ciò avrebbe potuto tradursi, sul piano della struttura del reato, nell’adozione di un concetto generale di responsabilità, che, sostituendo il riferimento alla colpevolezza, abbracciasse il fatto dell’imputabile e del non imputabile, conciliando esigenze di proporzione e finalità di prevenzione; e, sul piano delle sanzioni, nel superamento del ‘doppio binario’. SERGIO MOCCIA Ordinario di Diritto penale nell’Università di Salerno


L’INSERIMENTO NELLA CARTA COSTITUZIONALE DEI PRINCIPI DEL ‘‘GIUSTO PROCESSO’’ E LA VALENZA PROBATORIA DELLE CONTESTAZIONI NELL’ESAME DIBATTIMENTALE

SOMMARIO: I) Il contenuto precettivo del principio del ‘‘giusto processo’’ e la funzione conoscitiva del contraddittorio dibattimentale. — II) La nuova disciplina delle contestazioni: la valenza probatoria delle precedenti dichiarazioni.

I. Il contenuto precettivo del principio del ‘‘giusto processo’’ e la funzione conoscitiva del contraddittorio dibattimentale. — La disciplina dettata dal nuovo testo dell’art. 500 c.p.p. (riformulato dall’art. 16 della l. n. 63 del 1o marzo 1991), che ha introdotto la regola generale secondo cui nell’esame dibattimentale ‘‘le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste’’, ha immediatamente suscitato seri dubbi di illegittimità costituzionale nella dottrina (1) e nella giurisprudenza di merito. Nello stesso giorno in cui è entrata in vigore la nuova normativa, è stata sollevata la prima questione di legittimità costituzionale dell’art. 500 comma 2 c.p.p., nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni lette per la contestazione, e valutate ai fini della credibilità del teste, possano essere acquisite e valutate anche quale prova dei fatti affermati, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24 comma 1, 25 comma 2 e 101 comma 2 Cost. (2). Partendo dalla premessa che ‘‘la disciplina del procedimento di formazione della prova, per la sua natura strumentale, non può introdurre limitazioni di tale entità da privare di efficacia la legge penale sostanziale, così violando il diritto costituzionale di azione, svuotando la peculiare funzione del giudice penale e, in sostanza, privando di effettiva tutela i diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione e salvaguardati dalla legge penale’’, si è rilevato che ‘‘la norma impugnata appare palesemente priva (1) Sul punto v. CORBETTA, Il nuovo dibattimento: b) le problematiche probatorie: esame testimoniale, interrogatorio del coimputato e regime delle contestazioni e delle letture alla luce della riforma dell’art. 111 della Costituzione, relazione per la prima settimana di tirocinio riservata ad uditori giudiziari, organizzata dal Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 19-23 febbraio 2001, p. 10. (2) Ordinanza del 6 aprile 2001 del Tribunale di Firenze, in Dir. e giust., 2001, n. 16, p. 66.


— 472 — di giustificazione, ponendo in essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verità’’, e si è sostenuto che la nuova disciplina presenta gli stessi vizi ravvisati dalla Corte costituzionale nell’originaria formulazione dell’art. 500, comma 3, c.p.p., ritenuto irragionevole a causa del suo contrasto con i principi della non dispersione della prova e del libero convincimento del giudice. Occorre però verificare se simili rilievi critici possano trovare una adeguata risposta — almeno con riguardo alle situazioni processuali che assumono un significato emblematico ed una spiccata rilevanza pratica — in un’interpretazione costituzionalmente orientata della nuova normativa. Si tratta di un’operazione ermeneutica che può trovare un supporto di fondamentale importanza proprio nella recente riforma che ha realizzato l’inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione, con il dichiarato intento di rendere effettivo, nel nostro ordinamento, il nucleo centrale delle garanzie previste dalla Convenzione europea sui diritti dell’Uomo. In ordine all’espressione ‘‘giusto processo’’, impiegata dall’art. 111 della Costituzione, sono state prospettate tre chiavi di interpretazione radicalmente diverse. Si è manifestata, in primo luogo, una posizione polemico-retorica, secondo cui l’esplicito riferimento ad un concetto, come quello di ‘‘giusto processo’’, privo di riscontro nell’originario impianto costituzionale, implicherebbe un giudizio negativo su molti punti qualificanti del vigente sistema processuale penale, i cui lineamenti portanti avrebbero subito uno stravolgimento per effetto dell’opera demolitoria della Corte costituzionale (3). È una concezione che, evidentemente, non tiene conto della circostanza che proprio i principi esplicitamente sanciti dai primi due commi del nuovo testo dell’art. 111 Cost. avevano già trovato ampio riconoscimento nella giurisprudenza della Corte costituzionale anteriormente alla riforma, ed avevano quindi influito profondamente sulla fisionomia del sistema processuale. Un secondo indirizzo interpretativo ha sostenuto che la nozione di ‘‘giusto processo’’ sarebbe sostanzialmente tautologica, risolvendosi nella conformità del processo ai principi espressamente sanciti dall’art. 111 (3) Per un’analisi critica di siffatte prese di posizione, emergenti nei dibattiti che precedettero ed accompagnarono la gestazione della riforma, cfr. L. SCOTTI, Il testo sulla giustizia approvato dalla Commissione Bicamerale, in Doc. giust., 1997, p. 2196; TROCKER, Il valore costituzionale del ‘‘giusto processo’’, p. 36-41, e PIVETTI, Per un processo civile giusto e ragionevole, p. 55-59, in AA.VV., Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Maria Giuliana Civinini e Carlo Maria Verardi, Franco Angeli, Milano, 2001. V. anche FERRUA, Il ‘‘giusto processo’’ in Costituzione — Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, in Dir. e giust., 2000, 1, p. 5.


— 473 — Cost. (4). A questa impostazione si è però persuasivamente replicato che la norma enuncia il principio del ‘‘giusto processo’’ come regola costituzionale autonoma, dotata quindi di un proprio significato precettivo; gli altri principi specificamente previsti dall’art. 111 sono certamente inclusi nel concetto di ‘‘giusto processo’’, ma non lo esauriscono (5). Si va quindi progressivamente affermando nel dibattito dottrinale una terza concezione, che muove dall’idea che il principio del ‘‘giusto processo’’ ha una valenza relazionale e sistemica. È una formula in cui si coordinano e si integrano in un sistema coerente e ragionevole tutte le diverse garanzie che attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale, evitando il pericolo di una interpretazione atomistica ed assolutizzante di ciascuna di esse, e promuovendone, invece, una applicazione che tenga conto di tutte le loro interazioni, del risultato complessivo che si ottiene, e all’esigenza di tutelare i diritti inviolabili di tutte le parti coinvolte nel giudizio (6). Tale concezione esprime l’idea (coessenziale al modello internazionale del ‘‘giusto processo’’ (7)) che il diritto fondamentale dell’individuo ad un processo giusto non si esaurisce in una serie di garanzie singole, ma si basa sul necessario coordinamento di più garanzie concorrenti. Si evidenzia cosl il carattere strumentale delle altre garanzie processuali rispetto al fine della giustizia del processo (8). E si mira a prevenire il pericolo della riduzione del processo a una forma sostanzialmente vuota, capace di essere riempita di ogni contenuto (9). In questa prospettiva, la formula del ‘‘giusto processo’’ è tutt’altro che una locuzione enfatica priva di autonomo valore precettivo. Essa, al contrario, rappresenta il criterio di fondo per operare il contemperamento ed il bilanciamento tra i diversi valori costituzionali espressamente richia(4) Cfr. FERRUA, op. cit., p. 5, secondo cui ‘‘l’attributo aggiunge poco al sostantivo, sia perché i connotati del processo sono poi definiti nei commi successivi, sia perché ogni modello di processo è, per chi lo adotta, immancabilmente giusto’’; v. anche SCOTTI, op. cit., p. 2196, che sostiene che ‘‘l’espressione giusti processi è infelice: per un verso risulta tautologica perché ad un processo è strutturale essere giusto in quanto esso, per sua natura, è rivolto a rendere giustizia; risulta, per altro verso, ambigua perché, data l’assenza di una corrispondente formula nella Costituzione del ’47, fa intendere che fino ad ora non sempre si sono celebrati processi giusti donde la necessità di sancirne il principio’’. (5) PIVETTI, op. cit., p. 60. (6) In proposito cfr. CECCHETTI, Il principio del ‘‘giusto processo’’ nel nuovo art. 111 della Costituzione. Origini e contenuti normativi generali, in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, a cura di Paolo Tonini, CEDAM, Padova, 2001, p. 70-76; TROCKER, op. cit., p. 49 e ss. (7) Sui dati costanti del modello internazionale del giusto processo, v. COMOGLIO, I modelli di garanzia costituzionale del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, p. 687 e ss. (8) Sull’argomento v. PIVETTI, op. cit., p. 61. (9) TROCKER, op. cit., p. 43.


— 474 — mati dall’art. 111, ed assume una portata autenticamente normativa, per le sue rilevanti implicazioni che incidono profondamente sulla fisionomia dell’intero sistema processuale. La riflessione dottrinale che si è proposta di recuperare il significato profondo della garanzia del ‘‘giusto processo’’ ha condotto ad individuarne le seguenti essenziali implicazioni: 1. poiché la necessaria qualificazione in termini di giustizia investe non solo il mezzo, ma anche il risultato decisorio cui esso conduce, il processo deve essere regolato e gestito in modo tale da favorire il perseguimento di una decisione giusta (10); 2. dovendosi valutare la ‘‘giustizia’’ di un tipo di processo sulla base della sua conformità ai principi fondamentali della forma di Stato in cui si inserisce, e traendo origine il principio del ‘‘giusto processo’’ dalla reazione istituzionale degli Stati nei confronti degli abusi del periodo totalitario (11), nel nostro ordinamento il processo può essere considerato ‘‘giusto’’ solo in quanto le regole che lo governano siano adeguate alle caratteristiche dello Stato di diritto fondato sul metodo democratico (12); 3. dato che il principio del ‘‘giusto processo’’ affonda le sue radici, prima ancora che nella Costituzione italiana, in una realtà giuridica sovranazionale ed internazionale, le implicazioni che ne discendono vanno ricostruite assumendo come indispensabili punti di riferimento le disposizioni delle Convenzioni internazionali (segnatamente, l’art. 6 della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo), e realizzando una effettiva interazione tra l’ordinamento interno e il sistema convenzionale europeo; in quest’ottica, gli insegnamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo possono offrire un imprescindibile contributo idoneo ad orientare l’interpretazione della disposizione interna (13). I tre profili sopra delineati si integrano tra di loro e concorrono ad evidenziare la necessità che il processo resti orientato verso la ricerca della verità. Come è stato autorevolmente rilevato in dottrina (14), il principio di verità dei fatti è un dato costante che emerge in tutte le teorie che configurano la decisione giusta come scopo del processo. Qualunque sia il criterio giuridico che si impiega per definire la giustizia della decisione, la verità dei fatti rappresenta una condizione necessaria (anche se non sufficiente) di ogni decisione giusta. Anche nell’ambito della concezione del processo come strumento di (10) PIVETTI, op. cit., p. 62-64. (11) TROCKER, op. cit., p. 50. (12) FOIS, Il modello costituzionale del ‘‘giusto processo’’, in Rass. Parl., 2000, p. 571; CECCHETTI, op. cit., p. 76. (13) Cfr. TROCKER, op. cit., p. 50-54. (14) TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, Milano, 1992, p. 36 e ss.


— 475 — risoluzione dei conflitti, se si assume che il conflitto debba essere risolto sulla base di un criterio di giustizia, occorre riconoscere che l’accertamento veritiero dei fatti è una condizione necessaria di ogni soluzione giusta di una controversia. Giunge alle stesse conclusioni la concezione della decisione giudiziaria come attuazione della legge (15). Se la norma giuridica ha una struttura condizionale — in quanto stabilisce che una determinata conseguenza giuridica si verifichi, e venga dichiarata dal giudice, quando viene ad esistenza il fatto previsto dalla disposizione — la sua corretta applicazione presuppone necessariamente un accertamento veritiero delle circostanze empiriche che integrano la fattispecie astratta. Muovendo dall’idea che, in uno Stato di diritto, la fonte di legittimazione della giurisdizione penale consiste nell’esercizio di una funzione di applicazione imparziale della legge, è inevitabile concludere che tale funzione si collega strettamente alla verità delle conoscenze che il giudice riesce a acquisire nel processo ed a porre alla base della sentenza. È, infatti, questo il presupposto indispensabile che consente al processo di divenire il luogo di attuazione della legge, e non il luogo della sua elusione. La ricerca della verità dei fatti nel processo rappresenta una finalità necessaria nell’ambito delle concezioni razionali e democratiche della giustizia che caratterizzano l’attuale cultura giuridica occidentale. Il modello penale garantista, fatto proprio dalle moderne costituzioni, esige che la legittimità delle decisioni penali sia condizionata alla verità dei loro presupposti fattuali (16); è stato efficacemente osservato che una giustizia senza verità equivale ad un sistema di arbitrio in cui non esistono garanzie sostanziali né processuali (17). Un autorevole orientamento dottrinale tedesco (18), nell’analizzare in termini interdisciplinari il rapporto tra diritto e verità, ha affermato che, dopo l’esperienza negativa dello Stato totalitario, lo Stato costituzionale non può più rinunziare alla verità come valore culturale di riferimento. È in funzione della ricerca della verità che lo Stato costituzionale pone il principio dell’indipendenza personale e istituzionale del giudice, la regola della pubblicità dei dibattimenti giudiziari, e le norme sul giusto processo. Secondo questa impostazione, alla democrazia pluralistica è conge(15) Sulla tesi per cui funzione del processo è l’attuazione della legge v. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli 1933, I, p. 32 e ss. (16) Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 2000, p. 43, il quale sottolinea che il concetto di verità come corrispondenza delle asserzioni ai fatei del mondo empirico è connesso intrinsecamente alla concezione garantistica del processo. (17) TARUFFO, La prova, cit., p. 48. (18) HÄBERLE, Diritto e verità, Einaudi, Torino, 2000.


— 476 — niale il razionalismo critico: la teoria delle ipotesi che possono e devono essere migliorate mediante revisioni successive in vista di una sempre maggiore approssimazione alla verità (19). Questa prospettiva epistemologica conduce ad attribuire una essenziale funzione, sul piano processuale, al principio del contraddittorio, proprio perché esso favorisce il processo circolare di adeguamento delle ipotesi interpretative alla realtà (20). L’affermazione del principio del contraddittorio, che si traduce nel metodo dialettico di formazione della prova, muove dal presupposto della ‘‘divisione della conoscenza’’, secondo cui solo il confronto delle diverse prospettive da cui muovono le parti consente di cogliere il significato dei fatti e di comprenderne il reale valore sociale. Si tratta, quindi, di un metodo che intende esaltare la funzione conoscitiva del processo. Se si passa dalle ideologie del processo all’analisi comparatistica dei modelli di prova presenti nei diversi sistemi processuali di common law e di civil law, si rileva con chiarezza la presenza di tendenze convergenti, che partono da presupposti epistemologici omogenei e che conducono ad una diffusa concezione della prova come strumento per una scelta conoscitiva intorno alla ricostruzione più attendibile dei fatti (21). La previsione dei più autorevoli studiosi è che i sistemi processuali di matrice inquisitoria e di common law giungeranno in futuro, sul tema delle prove, ad un equilibrio omogeneo, tale da soddisfare le esigenze del garantismo unitamente all’interesse al pieno accertamento dei fatti di reato (22). Deve quindi riconoscersi che trova profonde radici nelle caratteristiche primarie della nostra forma di Stato, nelle tendenze evolutive degli ordinamenti europei, e negli orientamenti di fondo dell’epistemologia e della cultura giuridica contemporanee, l’affermazione della Corte costituzionale secondo cui il fine primario ed ineludibile del processo penale è quello della ricerca della verità, e la scelta in favore della dialettica del contraddittorio dibattimentale dipende dalla maggiore rispondenza di questo metodo di formazione della prova rispetto allo scopo conoscitivo del processo (23). Ed è un orientamento che conserva piena validità anche dopo (19) Sul razionalismo critico v. POPPER, Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 85 e ss. Il tema dell’avvicinamento alla verità è stato analizzato dallo stesso autore in Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 369 e ss. (20) NAPPI, Il problema della prova dei reati associativi e la prospettata riforma dell’art. 192 c.p.p., in Gazzetta Giuridica, n. 36 del 1997. (21) V. sul punto TARUFFO, Modelli di prova e di procedimento probatorio, in Riv. Dir. Proc., 1990, p. 421 e ss. (22) Cfr. le osservazioni di AMODIO, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio comparativo, in questa Rivista, 1999, p. 9. (23) In questi termini la sentenza n. 255 del 3 giugno 1992 della Corte costituzionale.


— 477 — l’inserimento nell’art. 111 della Costituzione dei principi del ‘‘giusto processo’’. Come è stato efficacemente detto, il ‘‘cuore’’ dell’art. 111 sta nell’affermazione del contraddittorio (24). È comune in dottrina l’osservazione che il principio del contraddittorio è richiamato dai commi 2 e 4 dell’art. 111 nei suoi due aspetti essenziali: quello oggettivo e quello soggettivo; e cioè, come metodo di conoscenza e come garanzia dell’imputato (25). Questa interpretazione è stata recepita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 440 del 12 ottobre 2000, in cui si è evidenziato che il principio del contraddittorio nella formazione della prova in seno al processo penale è ora espressamente enunciato nella sua dimensione oggettiva, cioè quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti, oltre ad essere richiamato nella sua dimensione soggettiva, come diritto dell’imputato di confrontarsi con il suo accusatore. Il significato delle disposizioni previste dai commi 2 e 4 dell’art. 111 Cost. deve essere ricostruito attraverso un equo contemperamento tra i diversi valori sottesi al principio del contraddittorio in senso soggettivo e oggettivo. Un contemperamento che è richiesto dalla stessa nozione di ‘‘giusto processo’’: se questa espressione ha un senso, è quello di enunciare il concetto che il processo deve tendere alla giustizia della decisione (che ne implica l’orientamento verso la ricerca della verità) ed alla garanzia dei diritti di tutte le parti. Al riguardo, occorre tenere presente che al contraddittorio è inscindibilmente collegato il requisito della parità delle parti nel processo. Non è possibile realizzare pienamente il contraddittorio se le parti non sono poste in condizioni di parità, secondo un criterio ispiratore già ricavabile dall’art. 3 e riaffermato dall’art. 111 comma 2 della Costituzione. La portata precettiva del nuovo disposto costituzionale consiste nella garanzia che ogni processo debba svolgersi in modo tale da assicurare alle parti l’uguale possibilità di incidere sul convincimento del giudice (26). Già nelle discussioni parlamentari che hanno accompagnato la riformulazione dell’art. 111 emergeva con chiarezza l’idea che la parità delle parti implica non l’identità di poteri e mezzi per l’accusa e la difesa, ma la reciprocità (24) TONINI, L’alchimia del nuovo sistema probatorio: una attuazione del giusto processo?, in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, cit., p. 15. (25) C. CONTI, Le due ‘‘anime’’ del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost., in Dir. Pen. proc., 2000, n. 2, p. 198; TONINI, Il recepimento dei principi del giusto processo nella nuova formulazione dell’art. 111 Cost., relazione per l’incontro di studio organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura sul tema: ‘‘Le recenti riforme del processo penale’’, Roma, 1-3 febbraio 2001. (26) CECCHETTI, op. cit., p. 79-80.


— 478 — di diritti in ordine alla formazione della prova, cioè la uguale possibilità di accesso alle prove ed alle fonti di prova (27). Il principio del contraddittorio in senso soggettivo, pertanto, non si esaurisce nel semplice diritto dell’imputato a confrontarsi con la fonte di accusa, sancito dall’art. 111 comma 4 secondo periodo, ma viene a sostanziarsi nel diritto — spettante a tutte le parti in condizioni di parità — a utilizzare ogni mezzo di prova che sia ammissibile ed utile per l’accertamento dei fatti, ed a contribuire attivamente alla formazione della prova, cosl da assicurarne l’attendibilità. In entrambe le dimensioni (oggettiva e soggettiva) del principio del contraddittorio è, quindi, centrale la sua funzione di metodo di conoscenza. In dottrina è stato esattamente rilevato che il metodo non può essere tutelato a prescindere dalla sua idoneità a perseguire il fine (28). Il valore costituzionale del principio del contraddittorio va ricostruito alla luce delle acquisizioni della epistemologia giuridica contemporanea, in cui è consolidata l’idea che esso costituisce un essenziale strumento per la ricerca della verità. L’intento del legislatore costituzionale di valorizzare il significato conoscitivo del contraddittorio, e di escludere che la tutela del metodo dialetico di formazione della prova finisca per pregiudicare il conseguimento del fine cui esso è preordinato, emerge con chiarezza da una lettura sistematica dei commi 2, 4 e 5 dell’art. 111 Cost. La norma costituzionale, invece di affermare il principio del contraddittorio in modo assoluto e massimalistico, ha previsto espressamente una pluralità di eccezioni che rendono ragionevole il principio e che tengono conto della necessità di contemperamento di interessi contrapposti, tutti di rilievo costituzionale (29). Secondo il tenore letterale dell’art. 111 comma 4 Cost., la previsione dell’inutilizzabilità, come prova di colpevolezza, delle dichiarazioni rese dal soggetto che si è sempre sottratto al controesame della difesa, rappresenta esclusivamente una sanzione per la completa elusione del contraddittorio in senso soggettivo, in termini pregiudizievoli per l’imputato. È proprio la sostanziale lesione del diritto fondamentale dell’imputato di confrontarsi con colui che lo accusa, nel disegno costituzionale, l’elemento idoneo a giustificare il limite all’accertamento dei fatti che discende dalla suddetta clausola di inutilizzabilità. L’espressa formulazione dell’art. 111 comma 4 secondo periodo (27) V., in particolare, la relazione del sen. Pera, in Atti Parlamentari XIII Legislatura, Senato della Repubblica, disegni di legge e relazioni, n. 3619, 3623, 3630, 3638, 3665A, 6-7. (28) TONINI, Il recepimento, cit., p. 17. (29) Cfr. TONINI, L’alchimia, cit., p. 16.


— 479 — Cost. consente di affermare con certezza che si tratta di una inutilizzabilità soltanto relativa: resta preclusa la possibilità di utilizzare come prova di colpevolezza le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio in senso soggettivo, ma le stesse dichiarazioni possono concorrere a formare la prova dell’innocenza dell’imputato. La previsione di inutilizzabilità contenuta nella suddetta norma costituzionale rappresenta esclusivamente una sanzione per un comportamento elusivo del contraddittorio in senso sfavorevole all’imputato, e non si traduce nell’esclusione di un determinato elemento di prova per la sua assoluta ed ontologica inaffidabilità (30). Con riferimento al tema delle contestazioni nell’esame dibattimentale del teste, in dottrina è stato esattamente rilevato che l’inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni forma oggetto di un vincolo costituzionale soltanto nei limiti sopra esposti (31). Resta, invece, assolutamente estranea ai principi costituzionali l’esclusione della valenza probatoria delle dichiarazioni predibattimentali utilizzate per contestare la deposizione del testimone che, nel sottoporsi all’esame incrociato, fornisca una diversa versione dell’accaduto (32). In proposito, si è osservato che anche in questa ipotesi il principio del contraddittorio trova una completa attuazione, poiché la prova valida ai fini della decisione dibattimentale si forma in un modo complesso, nel quale viene rispettata la dialettica tra accusa e difesa (33). Non sembra aderente alla lettera né alla ratio ispiratrice dell’art. 111 Cost. la tesi (34) secondo cui il primo periodo del comma 4 di tale norma (30) Cfr. TONINI, L’alchimia, cit., p. 41. (31) TONINI, L’alchimia, cit., p. 42; CORBETTA, Principio del contraddittorio e disciplina delle contestazioni nell’esame dibattimentale (art. 499, 500, 503 c.p.p.), in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, cit., p. 476 e ss. (32) Al riguardo, v. GREVI, Alla ricerca di un processo penale ‘‘giusto’’, Giuffrè, Milano, 2000, p. 333, secondo cui la regola di inutilizzabilità sancita nell’art. 111 comma 4 Cost. esclude che le dichiarazioni accusatorie rese in precedenza possano essere recuperate al processo come prove di colpevolezza mediante gli strumenti della lettura o della contestazione allorché il teste si sia sempre sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore, ma non anche quando vi abbia reso dichiarazioni difformi. (33) In questo senso TONINI, L’alchimia, cit., p. 39, che aggiunge: ‘‘in effetti, al testimone può essere chiesto conto della difformità tra dichiarazioni rese attualmente e quelle precedenti; egli, sotto l’obbligo di verità, deve fornire le spiegazioni richieste. Il dichiarante, che muta versione, non si sottrae al contraddittorio perché le parti possono fare domande tendenti a chiarire le ragioni della differenza rispetto a quanto affermato in precedenza; pertanto in questo caso la Costituzione non impone l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini’’. Lo stesso autore sottolinea la correttezza della interpretazione (prospettata da D. SIRACUSANO, Il contraddittorio tra Costituzione e legge ordinaria, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1425) che considera ‘‘formata in contraddittorio’’ anche quella prova complessa che si compone della dichiarazione resa nel corso dell’esame incrociato e del precedente difforme che è oggetto di contestazione (p. 42). (34) La tesi in esame è sostenuta da FERRUA, L’avvenire del contraddittorio, in Critica


— 480 — — ai sensi del quale ‘‘il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova’’ — porrebbe implicitamente una sanzione di inutilizzabilità per le ipotesi nelle quali non si osservi detto principio, sicché non assumerebbero mai valore di prova le dichiarazioni raccolte fuori dell’esame incrociato, e le uniche eccezioni alla inutilizzabilità sarebbero quelle delineate dal comma 5. A tale ricostruzione teorica sono state mosse in dottrina alcune fondate obiezioni (35). Al riguardo, si è osservato anzitutto che, se fosse vero che il primo periodo del comma 4 dell’art. 111 contiene implicitamente la regola della inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni originariamente assunte al di fuori del contraddittorio, diverrebbe superfluo il secondo periodo del medesimo comma (il quale prevede espressamente la sanzione della inutilizzabilità per le dichiarazioni di colui che si è sempre sottratto al contraddittorio con l’imputato). Ma l’interpretazione che conduce a ritenere che quest’ultima disposizione risulti del tutto inutile (in quanto certamente non sarebbe stato necessario che il legislatore costituzionale precisasse di nuovo l’applicabilità della sanzione) si pone in aperto contrasto con il fondamentale criterio ermeneutico esplicitamente enunciato dall’art. 1367 c.c., che costituisce espressione di un principio generale dell’ordinamento, secondo il quale, nel dubbio, un testo normativo deve essere interpretato nel senso in cui gli si può riconoscere qualche effetto precettivo. Si aggiunga che, in base al sistema vigente, la inutilizzabilità non può essere prevista dal legislatore in modo implicito perché ciò contrasta con il principio di tassatività che regola le sanzioni processuali. Occorre, poi, rilevare che un importante orientamento per la ricostruzione del significato dei principi contenuti nell’art. 111 Cost. può trarsi dalle indicazioni espresse dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo con riferimento al disposto dell’art. 6 comma 3 lett. d) Conv. eur. Dir. uomo, che disciplina il diritto all’assunzione della prova in contraddittorio. La Corte europea afferma costantemente che ai fini decisori sono utilizzabili anche le deposizioni rese nella fase istruttoria anteriore al dibattimento, purché venga accordata all’imputato una possibilità adeguata di contestare le dichiarazioni a suo carico e di interrogarne gli autori nel corso dell’esame oppure in una fase successiva. Ciò che si richiede è che la fonte di prova sia comunque inserita nel circuito del contraddittorio, dir., 2000, p. 25, e da MARZADURI, Sul diritto al silenzio degli imputati il giusto processo vive di contraddizioni, in Guida al Diritto, 2000, n. 43, p. 12. (35) Esposte da TONINI, Il recepimento, cit., p. 15 e ss.


— 481 — ma si riconosce senza alcun dubbio la sufficienza di un contraddittorio differito (36). L’indirizzo seguito dalla Corte europea rappresenta un chiaro esempio di come sia possibile — pur in stretta aderenza al dettato delle norme pattizie che hanno costituito il modello di riferimento della riforma costituzionale — ampliare il significato conoscitivo del contraddittorio e, al contempo, venire incontro al bisogno di tutela dei testimoni e delle vittime. Al suesposto orientamento della giurisprudenza europea (che svolge un’importantissima funzione di raccordo culturale tra gli ordinamenti continentali e quelli anglosassoni) si avvicinano alcune soluzioni interpretative emerse nei sistemi di common law (37). È particolarmente significativo il fatto che, nell’ordinamento statunitense, la Corte Federale Suprema, già con una pronuncia emessa nel 1970 (38), abbia ritenuto conforme al Sesto Emendamento (che sancisce il right of confrontation) l’utilizzazione di dichiarazioni rese nell’udienza preliminare da un testimone minorenne che, in dibattimento, ricordava di avere reso quelle dichiarazioni, ma non il loro contenuto. Secondo questa pronuncia, se si realizza una situazione nella quale il teste è stato chiamato a rendere la deposizione davanti alla giuria ed è stato sollecitato a dire la verità dalla difesa che ha condotto il controesame, possono essere utilizzate dichiarazioni rese in sede predibattimentale, perché la giuria è in grado di decidere, in base all’osservazione diretta del contegno del teste, se credergli o meno quando nega o conferma le dichiarazioni compiute in precedenza. Nella normativa ordinaria emanata per dare attuazione all’art. 111 della Costituzione, si è manifestata chiaramente la consapevolezza, da parte del legislatore, della compatibilità con i principi costituzionali di una disciplina che attribuisca rilevanza probatoria alle dichiarazioni difformi rese, nel corso delle indagini preliminari, dal soggetto che successivamente si sottoponga all’esame dibattimentale. La l. n. 63 del 2001, infatti, pur modificando parzialmente l’art. 503 c.p.p., ne ha lasciato inalterato il comma 5, che consente l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni, quando le stesse sono state rese dall’imputato davanti al Pubblico Ministero o davanti alla polizia giudiziaria su delega del Pubblico Mini(36) Sull’argomento v. UBERTIS, Principi di procedura penale europea, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 57 e ss. (37) Sul tema v. CORBETTA, Principio del contraddittorio, cit., p. 479-480. (38) California v. Green, 399 U.S. 149 (1970), citata da D.P. GENTILE, Il diritto delle prove penali, in AA.VV., Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di E. Amodio e M.C. Bassiouni, Milano, 1988, p. 230.


— 482 — stero, sempre che si tratti di una deposizione predibattimentale cui il difensore aveva il diritto di assistere. La persistenza di tale norma anche a seguito dell’intervento riformatore dimostra quindi che, nell’impianto codicistico delineato sulla base del nuovo testo dell’art. 111 Cost., il principio del contraddittorio nella formazione della prova non implica necessariamente l’inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali difformi (39). II. La nuova disciplina delle contestazioni: la valenza probatoria delle precedenti dichiarazioni. — I principi desumibili dall’art. 111 Cost., oltre a porsi come parametri di legittimità costituzionale della legge ordinaria, rappresentano imprescindibili punti di riferimento per elaborare una interpretazione conforme a Costituzione (40) della nuova disciplina dettata dall’art. 500 c.p.p. in materia di contestazioni nell’esame dei testimoni (41). Benché la norma non presenti una formulazione analoga all’originario testo dell’art. 500 comma 3 (il quale stabiliva che ‘‘la dichiarazione utilizzata per la contestazione (...) non può costituire prova dei fatti in essa affermati »), in dottrina si ritiene che con la recente riforma sia stata ripristinata la regola di esclusione probatoria che caratterizzava il primitivo impianto del codice. Si trae argomento, in tal senso, dalla mancata riproposizione dell’art. 500 comma 4, nel testo introdotto dall’art. 7 del d.l. n. 306 del 1992 (conv. dalla l. n. 356 del 1992). Pertanto le precedenti dichiarazioni difformi, lette per la contestazione, non potranno essere acquisite al fascicolo per il dibattimento e venire utilizzate dal giudice per la decisione, ma serviranno esclusivamente per valutare la credibilità del teste, ed, eventualmente, per paralizzare l’efficacia probatoria delle dichiarazioni da lui rese in dibattimento (42). L’art. 500 prevede tre eccezioni a questa regola generale, ammettendo l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni nelle ipotesi rispettivamente indicate nel comma 4 (cioè ‘‘quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso’’), nel comma 6 (che consente che le (39) Cfr. TONINI, L’alchimia, cit., p. 42-43; CORBETTA, Principio del contraddittorio, cit., p. 478-479. (40) Cfr. la sentenza n. 440 del 12 ottobre 2000 della Corte costituzionale. (41) La norma in questione, che si riferisce esplicitamente alle contestazioni nell’esame testimoniale, è richiamata dalle disposizioni che regolamentano l’esame dei periti o consulenti tecnici (art. 501 comma 1), degli imputati in procedimenti connessi o di reati collegati (art. 210 comma 5), e delle parti (art. 503 comma 3, che rinvia all’art. 500 comma 2). (42) V. CORBETTA, Principio del contraddittorio, cit., p. 471-472.


— 483 — dichiarazioni assunte dal giudice nell’udienza preliminare ex art. 422 c.p.p. siano valutate a fini di prova nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione), e nel comma 7 (cioè quando vi è l’accordo delle parti). In queste situazioni, la configurabilità della c.d. contestazione acquisitiva trova il suo fondamento nella presenza di un pericolo di inquinamento probatorio, nelle garanzie con cui sono state assunte le dichiarazioni predibattimentali, e nell’esistenza del consenso delle parti. È arduo sostenere che il mutato quadro costituzionale consenta di ritenere superati i rilievi che avevano indotto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 255 del 1992, a dichiarare costituzionalmente illegittima l’originaria regolamentazione dettata dal codice. Come è noto, tale regolamentazione era stata considerata intrinsecamente irragionevole dalla Corte perché imponeva al giudice di contraddire il proprio convincimento motivato nel contesto della stessa decisione. La Corte costituzionale infatti aveva rilevato che, se la precedente dichiarazione è ritenuta veritiera e per ciò stesso sufficiente a stabilire l’inattendibilità della deposizione dibattimentale difforme, risulta chiaramente irrazionale che essa non possa essere acquisita ai fini della prova dei fatti dopo essere stata introdotta nel giudizio, essere entrata nel patrimonio di conoscenze del giudice, ed essere stata esaminata nel contraddittorio delle parti con la presenza del teste sottoposto alla cross examination. Non vi è dubbio che queste osservazioni mantengano la loro validità anche a seguito dell’inserimento nella Costituzione dei principi del giusto processo. Si è, infatti, già avuto modo di evidenziare come la riforma costituzionale presenti profonde implicazioni in tema di orientamento del processo verso la ricerca della verità, di valorizzazione del significato conoscitivo del contraddittorio, di pieno riconoscimento del diritto alla prova spettante a tutte le parti in condizioni di parità. E si è chiarito come l’inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali costituisca oggetto di un vincolo costituzionale esclusivamente con riferimento all’ipotesi di sostanziale lesione del diritto fondamentale dell’imputato di confrontarsi con colui che lo accusa. Partendo da queste premesse, deve riconoscersi che risulta assolutamente illogica, e contrastante con i suesposti principi desumibili dall’art. 111 della Costituzione, la scelta di privare di valenza probatoria le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni in una situazione in cui il diritto dell’imputato di interrogare il proprio accusatore ha avuto la possibilità di esplicarsi nella sua pienezza, tutte le garanzie difensive sono state rispettate, e il metodo del contraddittorio ha trovato attuazione proprio secondo le modalità richieste dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Tale scelta legislativa appare ancor più irragionevole, in quanto determina una inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni predibattimentali,


— 484 — che — in mancanza dell’accordo delle parti — non possono neppure essere acquisite al fine di integrare la prova dell’innocenza dell’imputato. Si realizza, pertanto, una vistosa violazione del diritto di difesa. Per cercare di rendere meno problematico il rapporto tra la nuova disciplina delle contestazioni ed il principio di ragionevolezza, appare necessario percorrere la strada di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 500 comma 2, evitando di attribuire un decisivo rilievo al contingente disegno politico manifestatosi nei lavori parlamentari. Importanti spunti in tal senso possono trarsi dal dibattito dottrinale apertosi a seguito della riforma legislativa. Un particolare interesse è riscontrabile nella tesi sviluppata da una autorevole dottrina (43), la quale ha negato che possa venire in gioco una regola legale di esclusione probatoria nell’ipotesi in cui il teste, nel corso del dibattimento, ammetta di avere reso le dichiarazioni che gli vengono contestate, ma fornisca una diversa versione dei fatti. In questo caso ci si trova di fronte a due dichiarazioni dibattimentali tra di loro contrastanti: una ricostruisce direttamente l’accaduto, mentre l’altra lo ricostruisce indirettamente mediante il riferimento ad una precedente narrazione esposta dallo stesso soggetto. La ‘‘metadichiarazione’’, con cui il teste ammette di avere reso una precedente deposizione avente un determinato contenuto, dà luogo ad una situazione strutturalmente analoga a quella disciplinata dall’art. 195 c.p.p. (relativo alla testimonianza indiretta), anche se nel primo caso le due dichiarazioni risalgono alla stessa fonte. È chiaro che non si può attribuire un rilievo decisivo alla negativa valutazione espressa dal teste nella deposizione dibattimentale in ordine alla veridicità delle dichiarazioni che egli stesso riconosce di avere fatto. Anche in questo caso, analogamente a quanto avviene nell’ipotesi di testimonianza de relato (44) (in cui è certamente consentito il passaggio dal fatto materiale della dichiarazione riferita alla verità della dichiarazione stessa), il principio del libero convincimento del giudice può portare ad attribuire una valenza probatoria positiva, in ordine alla verità del fatto storico, a quella parte della deposizione dibattimentale in cui il teste ammette di avere reso le dichiarazioni che gli vengono contestate, quando la versione esposta nel corso delle indagini risulta coerente con il complesso (43) FERRUA, L’indagine entra in dibattimento solo attraverso il contraddittorio, in Dir. e giust., 2001, n. 7, p. 9 e ss. In termini analoghi si sono espressi anche MARZADURI e MANZIONE, Nuove contestazioni per un reale contraddittorio, in Guida al Diritto, 2001, n. 13, p. 55, secondo cui ‘‘la dichiarazione dibattimentale di smentita totale o parziale di quanto detto in precedenza ‘‘passa’’, di regola, attraverso una riaffermazione di quanto si vuole contraddire che non può non considerarsi, anch’essa, dichiarazione resa in contraddittorio e quindi pienamente utilizzabile dal giudice attraverso la lettura del verbale dibattimentale’’. (44) In proposito cfr. FERRUA, L’indagine, cit., p. 9.


— 485 — delle altre emergenze probatorie, mentre la diversa versione fornita nel corso del dibattimento appare viziata da reticenze ed incongruità. Viene in gioco, pertanto, un semplice criterio di valutazione, secondo cui il significato dell’ammissione di avere reso una certa dichiarazione andrà verificato alla luce di ogni altro elemento di prova, con il controllo giudiziale in ordine alla ragionevolezza e persuasività dell’inferenza. Una soluzione analoga è stata prospettata da un altro orientamento dottrinale (45), facendo riferimento alla tradizionale rilevanza probatoria delle res gestae: si giustifica una più ampia valutazione del contenuto informativo di una dichiarazione dibattimentale quando assumono rilevanza le particolari circostanze che l’hanno preceduta, accompagnata o seguita (ad esempio se si tratta di una dichiarazione resa prima del verificarsi di un evento significativo). In altri termini, si può essere in presenza di situazioni che rendono rilevante il fatto stesso che una determinata dichiarazione sia stata resa. La possibilità di assegnare un qualche valore probatorio alla dichiarazione pregressa, ove il teste, pur ritrattandola, riconosca in dibattimento di averla liberamente compiuta, andrebbe quindi verificata sviluppando il significato normativo dello stesso art. 500 comma 2, che attribuisce rilevanza probatoria al fatto stesso che la difforme dichiarazione predibattimentale sia stata resa, ammettendone la valutazione ai fini della credibilità del dichiarante. Non sarebbe, invece, riproducibile lo schema normativo della testimonianza indiretta, poiché presuppone una distinzione soggettiva tra il teste che riferisce e il teste di riferimento. Un approfondimento dei presupposti teorici sottesi alle soluzioni interpretative sopra esposte conduce a riconoscere che il contrasto tra queste due tesi è più apparente che reale. Entrambe, infatti, contengono significativi elementi di verità, che possono integrarsi in una ricostruzione unitaria della fattispecie. Va anzitutto rilevato che l’ammissione, da parte del teste, di avere reso una determinata dichiarazione predibattimentale, difforme dalla ricostruzione dell’accaduto da lui operata nel corso dell’esame incrociato, viene a configurarsi come una prova indiretta. Al riguardo, occorre premettere che la tradizionale distinzione tra prove dirette e prove indirette, fondata sulla percezione del giudice in relazione al fatto da provare, è stata sottoposta ad una attenta revisione critica dalla più autorevole dottrina contemporanea. Come è noto, per derivazione dalla dottrina tedesca della fine dell’Ottocento, si era diffuso nella cultura giuridica italiana l’orientamento che distingueva le prove in dirette ed indirette, a seconda che il giudice percepisse direttamente il fatto da provare, ovvero un altro fatto dal quale po(45) NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, Giuffrè, Milano, 2001, p. 128-129.


— 486 — tesse risalirsi al primo; venivano quindi collocate tra le prove dirette la testimonianza e il documento, e tra le prove indirette le presunzioni e gli indizi. A questa impostazione sono stati mossi persuasivi rilievi critici da parte di un autorevole orientamento dottrinale (46), che ha evidenziato che la distinzione tra prova diretta e prova indiretta non può essere operata in base ad elementi vaghi ed incerti come la percezione del giudice ovvero la natura o struttura intrinseca del mezzo di prova. Si è pertanto riconosciuto che il criterio distintivo tra la prova diretta e quella indiretta va individuato nel rapporto che si pone tra l’oggetto della prova e il fatto da provare. L’oggetto della prova è il fatto di cui la prova fornisce la dimostrazione, cioè l’asserzione fattuale su cui verte la prova. Esso può essere costituito da un fatto principale, direttamente riconducibile alla fattispecie normativa (ed è tale il fatto che le disposizioni di diritto sostanziale individuano come elemento costitutivo del reato ovvero come circostanza aggravante o attenuante), ma anche da un fatto secondario, da cui è possibile desumere per via inferenziale conclusioni in ordine al fatto principale; in questo secondo caso, la idoneità dimostrativa della prova viene a dipendere anche dal più ampio contesto descrittivo della vicenda in cui i fatti delineati nell’imputazione vengono inseriti da ciascuna delle parti (47). Il fatto da provare, invece, si identifica con il fatto principale, cioè il fatto giuridicamente rilevante da cui dipende direttamente la decisione. Quando l’oggetto della prova coincide con il fatto da provare, si ha la prova diretta. È tale, quindi, la prova che verte direttamente sul fatto giuridicamente rilevante. Si ha, invece, la prova indiretta quando l’oggetto della prova è un fatto diverso da quello giuridicamente rilevante ai fini della decisione. Questa prova ha ad oggetto un fatto secondario che, per la sua connessione logica o conoscitiva con quello da provare, serve a stabilire, per mezzo di un ragionamento inferenziale, la verità del fatto principale. Si tratta di una distinzione funzionale e relazionale, non ontologica. Quasi tutte le prove possono essere, in concreto, dirette oppure indirette, in funzione del proprio specifico oggetto. La prova indiretta, a sua volta, può essere finalizzata alla dimostrazione del fatto da provare oppure a fondare una valutazione circa l’attendibilità di un’altra prova. Nel primo caso, il fatto secondario che costituisce l’oggetto della prova indiretta consente di formulare inferenze che riguardano l’esistenza del fatto principale. (46) TARUFFO, La prova, cit., p. 426 e ss. (47) Sul punto v. NAPPI, Guida al Codice, cit., p. 106-107.


— 487 — Nella seconda ipotesi, invece, dal fatto secondario possono trarsi inferenze sulla credibilità della prova che verte sul fatto principale. Quest’ultimo tipo di prova indiretta ha una funzione sussidiaria; essa riguarda, ad esempio, la capacità psico-fisica del teste, le modalità della sua dichiarazione (reticenze, contraddizioni, ecc.), i rapporti tra il teste e una parte (48). Alla luce dei criteri sopra illustrati, deve rilevarsi che la ‘‘metadichiarazione’’ del teste rientra certamente nell’ambito delle prove indirette, in quanto ha ad oggetto non il fatto principale da provare, ma un fatto secondario: la precedente dichiarazione difforme resa nel corso delle indagini preliminari. È chiaro che la precedente dichiarazione consente in ogni caso di formulare inferenze sull’attendibilità della deposizione dibattimentale, in quanto la funzione tipica della contestazione è appunto quella di evidenziare discrasie o incompletezze presenti nella nuova versione dei fatti. Ma è pure possibile che la stessa esistenza della dichiarazione predibattimentale, avente un determinato contenuto, consenta di formulare inferenze relative all’esistenza del fatto principale. In questo caso, circoscrivere la valenza probatoria della dichiarazione al solo controllo di credibilità della deposizione dibattimentale significa introdurre una rilevante limitazione proprio a quelle che sono le implicazioni essenziali del ‘‘giusto processo’’ e del principio del contraddittorio: il diritto alla prova spettante a tutte le parti, la funzione conoscitiva del metodo dialettico di formazione della prova, l’orientamento del processo verso la ricerca della verità. Una limitazione così pregnante può trovare giustificazione solo nella tutela di un valore costituzionale di rango preminente. Ma, qualora (come nel caso di specie) non vengano in gioco prevalenti interessi costituzionalmente rilevanti, la disciplina dell’utilizzabilità del dato probatorio desumibile dalla precedente dichiarazione deve conformarsi ai principi generali, che consentono di trarre da tale elemento di convincimento — una volta inserito nel patrimonio di conoscenze del giudice — tutte le inferenze suscettibili di agevolare il completo accertamento dei fatti principali. La dichiarazione predibattimentale che il teste, pur negandone la veridicità, riconosce comunque di avere reso, deve quindi essere assimilata, sul piano del regime probatorio, ai fatti secondari da cui possono logicamente trarsi conseguenze dimostrative in ordine ai fatti principali. La deposizione dibattimentale compiuta dal teste nel contraddittorio delle parti consente di accertare la circostanza fattuale che nel corso delle indagini era stata resa una determinata dichiarazione. Spetta poi al giudice il compito di verificare se, sulla base di questo fatto secondario, sia (48)

Su tutta la problematica in esame cfr. TARUFFO, La prova, cit., p. 426 e ss.


— 488 — o meno possibile formulare inferenze probatorie in ordine al fatto principale che ha bisogno di essere provato. Se alla dichiarazione predibattimentale che il teste ha ammesso di avere effettuato si attribuisse una valenza probatoria inferiore a quella propria di ogni fatto secondario ritualmente accertato nel processo, si verrebbe a creare una inammissibile disparità di trattamento tra gli enunciati relativi a comportamenti di contenuto descrittivo o narrativo e gli altri elementi di prova. In un sistema nel quale il giudice può porre a fondamento del proprio ragionamento probatorio ogni comportamento di terzi riferito dal teste, non si vede perché questa regola generale debba rimanere inefficace in relazione al precedente comportamento dello stesso testimone, processualmente accertato e sostanziatosi nel rendere determinate dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari. Opinando diversamente, si verrebbe ad istituire, in modo assolutamente arbitrario, un divieto probatorio ulteriore rispetto a quelli espressamente sanciti dalla legge. L’art. 500 comma 2 c.p.p., nel prevedere che ‘‘le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste’’, non ha introdotto un esplicito divieto probatorio (insito, invece, nell’originario testo della disposizione), né ha delineato una specifica ipotesi di inutilizzabilità. L’irrilevanza probatoria della precedente dichiarazione difforme, discende dalla circostanza che l’art. 500 non ne prevede — di regola — l’acquisizione al fascicolo dibattimentale, all’interno di un sistema processuale nel quale nessun atto di indagine può convertirsi in prova se non per il tramite del suo inserimento in tale fascicolo (49). Ma, se è questa la ratio giuridica della inutilizzabilità, ne consegue, a contrario, che la dichiarazione predibattimentale difforme può assumere valore probatorio (ovviamente, alla luce di una valutazione complessiva degli elementi di convincimento raccolti) in tutte le ipotesi in cui essa viene legittimamente introdotta nel contenuto del fascicolo per il dibattimento, anche al di fuori dei casi di ‘‘contestazione acquisitiva’’ espressamente disciplinati dall’art. 500 c.p.p.: segnatamente, quando forma oggetto di un esplicito richiamo effettuato dal teste nel corso dell’esame. L’orientamento che attribuisce una valenza probatoria positiva all’ammissione, da parte del teste, di avere reso la dichiarazione contestatagli, anche quando persiste la difformità tra la deposizione dibattimentale e quella predibattimentale, trova, dunque, un saldo fondamento logico nei suesposti principi generali del vigente sistema processuale. (49) FERRUA, Introduzione, in AA.VV., L’attuazione del giusto processo con la legge sulla formazione e valutazione della prova, in Dir. pen. proc., 2001, n. 5, p. 587.


— 489 — Ed occorre fare riferimento alle regole generali in materia di prova anche per individuare i criteri valutativi applicabili alle pregresse dichiarazioni confermate dal teste nella loro oggettiva esistenza. Qualora non si versi in uno dei casi di ‘‘contestazione acquisitiva’’ espressamente disciplinati dall’art. 500 c.p.p., alle precedenti dichiarazioni difformi, raccolte unilateralmente da una delle parti, non può essere applicata la stessa regola di valutazione che riguarda le dichiarazioni rese dal teste nel contradditorio dibattimentale. Come è noto, le dichiarazioni dibattimentali, quando sono rese da un testimone non assistito, sono soggette al solo limite ordinario dell’attendibilità, da valutare secondo i normali criteri del libero e giustificato convincimento, senza che occorra cercarne la conferma nei riscontri richiesti dall’art. 192 comma 3 c.p.p. Quest’ultima regola di giudizio è invece applicabile alle dichiarazioni dibattimentali rese da soggetti che rivestano una delle qualifiche indicate dall’art. 197-bis c.p.p. o dai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p. Ma anche in questo caso, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità (50), alle dichiarazioni va riconosciuto valore di prova e non di mero indizio, per quanto esse non possano essere utilizzate da sole, ma debbano trovare riscontro in altri elementi di prova, di qualsivoglia tipo e natura, idonei a confermarne l’attendibilità. Le regole valutative previste per la prova indiziaria (51) vanno, invece, estese alle dichiarazioni che il teste, in sede di esame dibattimentale, riconosce di avere reso nel corso delle indagini (pur contestandone la rispondenza al reale svolgersi degli eventi). In proposito, va osservato che le suddette dichiarazioni si sostanziano — come gli indizi — in circostanze certe dalle quali è possibile, attraverso un procedimento logico di inferenza probabilistica basata sulle massime di esperienza, trarre una conclusione circa la esistenza o la inesistenza di un fatto da provare. Sarebbe assolutamente irragionevole escludere, con riferimento alle sole dichiarazioni predibattimentali, l’operatività della regola generale secondo cui l’affermazione della responsabilità penale può essere fondata su una pluralità di elementi probatori indiretti giudizialmente accertati, univocamente ricollegabili al thema probandum, ed idonei a confluire nel loro complesso — attraverso una logica coordinazione tra di essi — in un giudizio di certezza del fatto da dimostrare. Vanno dunque richiamati, anche con riferimento alle precedenti di(50) Cfr. per tutte Cass., Sez. VI, sent. n. 2654 del 1991, ric. Caniggia; Cass., Sez. un., sent. n. 2477 del 1990, ric. Belli; Cass., Sez. un., sent. n. 1048 del 1992, ric. Scala ed altri. (51) Sulla prova indiziaria v. SCAPINI, La prova per indizi nel vigente sistema del processo penale, Giuffrè, Milano, 2001.


— 490 — chiarazioni, i requisiti in presenza dei quali la prova indiziaria deve ritenersi logicamente formata con efficacia pari a quella della prova diretta. Per espressa previsione normativa, gli indizi devono possedere i requisiti della gravità e della precisione. Secondo l’interpretazione prevalente nella giurisprudenza di legittimità, il requisito della gravità puntualizza la capacità dimostrativa (52): sono gravi gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni, e quindi attendibili e convincenti (53). La precisione dell’indizio si sostanzia nella sua inidoneità a prestarsi — secondo regole di esperienza fondate sull’id quod plerumque accidit — ad una interpretazione diversa ed alternativa rispetto a quella che fornisce la prova del fatto ignoto da ricostruire; sono precisi gli indizi non generici; e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, e pertanto non equivoci (54). Una volta riscontrata la gravità e la precisione delle singole circostanze indizianti, occorre verificare la loro concordanza: è infatti necessario che tra le circostanze indizianti esista un collegamento derivante dalla loro coordinazione logica globale, che determini la loro oggettiva confluenza in un’unica direzione probatoria. La concordanza costituisce, dunque, il criterio di valutazione finale degli indizi raccolti: il giudice deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari che presentano una potenziale rilevanza probatoria rispetto al thema probandum. L’esame globale ed unitario dei vari indizi è assolutamente necessario in quanto il singolo dato indiziante, anche se valutato secondo una corretta massima di esperienza, possiede sempre un valore indicativo non univoco, ma di carattere probabilistico. L’essenziale è che l’univocità probatoria venga raggiunta attraverso i collegamenti e la confluenza dei plurimi indizi, tenendo conto del significato promanante dal sinergismo indiziario (55). L’ambiguità indicativa del singolo indizio può così essere superata attraverso una valutazione complessiva, che consente di sommare i diversi dati indizianti integrandoli logicamente gli uni con gli altri (56). (52) Cass., sent. del 13 dicembre 1991, ric. Grillo e altro. (53) Cass., sent. del 24 giugno 1992, ric. Re. (54) Cass., sent. del 24 giugno 1992, ric. Re. (55) Cass., Sez. I, sent. n. 8045 del 1992, ric. Pirisi. (56) In proposito, la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione ha evidenziato che ‘‘l’indizio è un fatto certo dal quale, per interferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. È possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma di norma il fatto indiziante è significativo di una plaralità di fatti non noti ed in tal caso può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192, comma 2, c.p.p. Peraltro l’apprezzamento unitario degli indizi per la verifica


— 491 — Nell’ambito di una approfondita riflessione dottrinale sulla prova, si è evidenziato che i requisiti della precisione e della gravità degli indizi vanno definiti in funzione della natura probabilistica dell’inferenza probatoria: essi sono, pertanto, riscontrabili quando, tra le varie conclusioni che possono trarsi dal fatto accertato, la più probabile è quella che conferma l’ipotesi sul fatto da provare. Il requisito della concordanza tende, poi, ad evitare che si consideri provata un’ipotesi rimasta priva di una sufficiente conferma perché, sulla base di altre inferenze fondate su diversi fatti noti, appaiono attendibili anche ulteriori ipotesi sul fatto da provare (57). Nella dottrina sviluppatasi in relazione ai sistemi di common law, si è specificato che l’ipotesi sorretta da una pluralità di indizi concordanti può essere ragionevolmente posta a fondamento della decisione giudiziale quando è congruente con i fatti accertati ed è quindi, tra le ipotesi disponibili, l’unica capace di dare un senso alla ‘‘storia’’ che si propone per la ricostruzione della vicenda che forma oggetto dell’indagine (58). L’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, sopra riassunta, in materia di prova indiziaria, fornisce puntuali indicazioni per la definizione della regola valutativa applicabile alle precedenti dichiarazioni difformi, che il teste ammetta di avere reso. Dalle suddette dichiarazioni, utilizzate per le contestazioni, può discendere la prova positiva di un fatto negato dal teste nel corso della deposizione dibattimentale, purché concorrano tutte le condizioni cui è subordinata la formazione di un giudizio di certezza mediante inferenze desumibili da una pluralità di fatti secondari. Occorre, in particolare, che: a) le pregresse dichiarazioni siano intrinsecamente attendibili; b) la diversa versione dei fatti esposta nel dibattimento risulti priva di credibilità; c) le dichiarazioni predibattimentali si integrino logicamente con i della confluenza verso un’univocità indicativa che dia la certezza logica dell’esistenza del fatto da provare, costituisce un’operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquisita la valenza indicativa — sia pure di portata possibilistica e non univoca — di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell’esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del libero convincimento del giudice’’ (Cass., Sez. un., sent. n. 6682 del 1992, ric. P.M., p.c., Musumeci ed altri). (57) TARUFFO, La prova, cit., p. 443 e ss. (58) MAC CORMICK, Coherence in Legal Justification, in PECZENIK-LINDHAL-VAN ROERMUNDS (eds.), Theory of Legal Science, Dordrecht, 1984, (trad. it. in AA.VV., L’analisi del ragionamento giuridico, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Torino, 1987, p. 243 e ss.).


— 492 — restanti elementi di convincimento raccolti, confluendo univocamente nella stessa direzione probatoria. Si tratta, dunque, di un criterio valutativo più rigoroso di quello previsto dalla previgente formulazione dell’art. 500 c.p.p., in forza della quale l’utilizzazione della dichiarazione predibattimentale come prova dei fatti in essa affermati era possibile sia laddove la stessa risultasse corroborata da altri elementi di prova, sia qualora il suo contrasto con la deposizione dibattimentale risultasse spiegato da una comprovata inattendibilità di quest’ultima; tali condizioni, delineate rispettivamente dal comma 4 e dal comma 5 della disposizione (nel testo introdotto dalla riforma del 1992), potevano ricorrere in via alternativa. La suesposta interpretazione dell’art. 500 comma 2 c.p.p. consente, nel pieno rispetto dei principi fondamentali del sistema processuale, di recuperare il contenuto dimostrativo delle precedenti dichiarazioni difformi, nell’ambito di una valutazione globale del materiale probatorio entrato nel patrimonio conoscitivo del giudice nel corso del dibattimento. Si tratta, però, di una operazione ermeneutica che rimane circoscritta alle situazioni in cui il teste ammette di avere reso la dichiarazione utilizzata per contestare la sua deposizione. Nella diversa ipotesi in cui il teste neghi di avere compiuto la dichiarazione predibattimentale, è possibile attribuire alla stessa una valenza probatoria positiva soltanto laddove sia configurabile una delle fattispecie di contestazione acquisitiva espressamente delineate dai commi 4, 6 e 7 dell’art. 500 c.p.p. Al riguardo, assume una particolare importanza la definizione della sfera di operatività dell’art. 500 comma 4 c.p.p., che ammette l’inserimento delle precedenti dichiarazioni nel fascicolo del dibattimento in presenza di elementi concreti che denotino la realizzazione di determinate condotte di inquinamento probatorio. Si tratta di una previsione normativa che tende a rimuovere gli effetti negativi delle pressioni esercitate sui testimoni e che si fonda su un presupposto di indubbia ragionevolezza: è infatti evidente che proprio l’attentato all’integrità della prova costituisce una conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni che si intendono alterare. In dottrina è stata sottolineata la grande delicatezza della questione concernente il grado della prova occorrente per dimostrare le pressioni subite dal testimone, specialmente nei processi di criminalità organizzata, in cui anche velate allusioni o comportamenti in apparenza ‘‘neutri’’ possono assumere, rispetto a un determinato contesto socio-culturale, un chiaro significato minaccioso (59). In questa ipotesi, richiedere che si raggiunga un livello dimostrativo (59)

CORBETTA, Principio del contraddittorio, cit., p. 481.


— 493 — pari a quello necessario per una sentenza di condanna (cioè la prova al di là di ogni ragionevole dubbio) significa privare l’ordinamento processuale di qualsiasi seria possibilita di reazione contro la maggior parte delle condotte di inquinamento probatorio. È chiaro, infatti, che una prova del genere è tanto più difficile quanto più è efficace la condotta intimidatoria effettivamente realizzata. Non è neppure pensabile che la polizia giudiziaria sottoponga a penetranti controlli tutti i soggetti che devono deporre come testimoni nei processi per fatti di rilevante gravità. Ed è assolutamente irragionevole immaginare che il soggetto minacciato, pur modificando il contenuto della deposizione in dipendenza delle pressioni ricevute, risponda in modo veridico alle domande tendenti ad accertare se vi sono state condotte di inquinamento delle fonti di prova. Una dimostrazione in termini di assoluta certezza in ordine al compimento di atti di intimidazione o comunque di subornazione del teste non sembra, del resto, richiesta dal tenore letterale della norma, che ha impiegato l’ampia espressione ‘‘elementi concreti per ritenere che...’’ ed ha introdotto un semplice accertamento incidentale nel processo principale, senza prevedere una sospensione di quest’ultimo in attesa della pregiudiziale definizione dell’eventuale procedimento relativo all’illecito penale commesso in danno del teste. Se si vuole interpretare l’art. 500 comma 4 c.p.p. in conformità alla sua ratio, deve riconoscersi che il presupposto probatorio per la contestazione acquisitiva non può certamente consistere in semplici elementi di sospetto, ma può essere integrato da qualsiasi serio indizio che lasci ragionevolmente presumere almeno la presenza di un tentativo di inquinamento probatorio, posto in essere da qualsiasi soggetto, anche non identificato. In dottrina è stato osservato che può risultare significativo anche il gesto o lo sguardo di eloquente intimidazione rivolto dall’imputato al testimone (60). Si possono trarre importanti elementi di convincimento anche dallo stesso contenuto della deposizione, ad esempio nell’ipotesi in cui il teste, in un contesto sociale caratterizzato dalla forte presenza di ambienti criminali, non riesca a spiegare in modo persuasivo il contrasto tra le dichiarazioni dibattimentali e quelle predibattimentali. Le concrete modalità che connotano l’esame dibattimentale possono, infatti, ricomprendersi nell’ambito delle ‘‘circostanze emerse nel dibattimento’’, espressamente richiamate dal testo normativo. Resta, in ogni caso, ininfluente la provenienza delle condotte di coartazione o di collusione, poste in essere nei confronti del teste. Già sotto la (60)

FERRUA, L’indagine, cit., p. 79.


— 494 — previgente disciplina, la giurisprudenza aveva precisato che non è necessario che le situazioni che compromettono la genuinità dell’esame siano addebitabili all’imputato (61); ciò che giustifica l’acquisizione del verbale non è, infatti, una reazione sanzionatoria a un comportamento illecito, bensì la particolare rilevanza probatoria che tale comportamento consente di attribuire al fatto stesso che siano state rese le precedenti dichiarazioni (62). Attraverso una interpretazione teleologica della suddetta previsione normativa è quindi possibile introdurre a pieno titolo nel materiale probatorio utilizzabile per la decisione il contenuto dimostrativo di dichiarazioni che possono assumere un valore insostituibile ai fini dell’accertamento di fatti criminosi di grande rilevanza sociale. Gli aspetti di dubbia costituzionalità della nuova disciplina possono dunque essere sostanzialmente superati, mediante un’operazione ermeneutica volta a rendere possibile un coerente sviluppo delle caratteristiche essenziali del ‘‘giusto processo’’, con riferimento sia alle situazioni in cui il teste ammetta di avere effettuato una precedente deposizione avente un determinato contenuto, sia alle fattispecie riconducibili alla previsione del comma 4 dell’art. 500 c.p.p. Resta, invece, aperto il problema della compatibilità con i principi costituzionali della normativa che esclude ogni rilevanza probatoria delle precedenti dichiarazioni, nell’ipotesi in cui il teste neghi di averle rese e sia impossibile pervenire alla dimostrazione di condotte di coartazione o collusione realizzate in danno del medesimo soggetto. ANTONIO BALSAMO Giudice della Corte di assise di Palermo

(61) (62)

Cass., Sez. I, sent. del 18 giugno 1993, ric. Mezzapelle. Così NAPPI, Guida al Codice, cit., p. 126.


LE DEFINIZIONI LEGALI DEL REATO COLPOSO

SOMMARIO: 0. Premessa. — 1. Modelli di definizione legale della colpa in prospettiva storica e comparata. — 2. A) La definizione ‘‘differenziata’’ ovvero ‘‘di parte speciale’’. 2.1. Le definizioni di delitto colposo contenute nel codice Zanardelli nello specchio della elaborazione teorica tra fine Ottocento e inizio Novecento. - 2.2. La definizione differenziata nelle codificazioni vigenti (Francia, Turchia). - 2.3. Ulteriori risvolti dogmatici legati (potenzialmente) alla definizione differenziata di colpa. — 3. B) Il modello della ‘‘non-definizione’’ ovvero della ‘‘rinuncia’’ alla definizione (Germania, Spagna). — 4. C) Il modello della definizione ‘‘unitaria’’ ovvero ‘‘di parte generale’’ (Italia). — 5. Prospettive de lege ferenda: cenni alle ipotesi definitorie formulate nei più recenti progetti di riforma del codice Rocco. - 5.1. Il Progetto Pagliaro. - 5.2. Il Progetto Riz. - 5.3. Il Progetto Grosso. — 6. Considerazioni conclusive.

0. Premessa. — A dar credito alle diffuse lagnanze della scienza giuridica contemporanea, almeno di quella italiana, circa la non infrequente trascuratezza linguistica dei testi normativi nostrani, non sembrerà eccessiva l’estensione (quasi ‘‘per contagio’’) dell’immagine calviniana della « peste del linguaggio » anche al linguaggio giuridico, specialmente quello dei legislatori (1). Uno dei luoghi del discorso giuridico in cui maggiormente insidiose (1) Cfr. I. CALVINO, Esattezza, in ID., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, 1993, p. 66: « [...] mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato [...] Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza [...] » (corsivi nostri). L’accusa di usare il linguaggio talvolta « in modo approssimativo, casuale, sbadato » è, invero, un motivo ricorrente della critica mossa dalla dottrina giuridica al legislatore italiano. Si è parlato, in proposito, di una « inutile bruttezza » (MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino, 2001, 99 ss.); suscettibile, tuttavia, di convertirsi in una bruttezza potenzialmente esiziale in materia penalistica: la peculiare ‘‘sensibilità’’ del diritto penale verso gli effetti della eventuale trascuratezza stilistica dei testi normativi non necessita di soverchie dimostrazioni tese ad attestare come le carenze in termini di ‘‘esattezza’’ linguistica, nel momento in cui si risolvano in ambiguità o vaghezza, rischino poi di tradursi in violazioni del principio di tassatività, o di favorire il ricorso al procedimento analogico. In generale, sull’ideale illuministico delle leggi chiare e precise, e sulle ragioni del pessimismo attorno alla sua praticabilità, cfr., ad es., SCARPELLI, Il linguaggio giuridico: un ideale illuministico, in DI LUCIA (cur.), Nomografia. Linguaggio e redazione delle leggi, in Quaderni di filosofia analitica del diritto, Milano, 1995, pp. 5 ss., 26 ss.


— 496 — rischiano di rivelarsi tali patologie epidemiche nell’uso del linguaggio è, con tutta evidenza, la ‘‘definizione’’: una figura di pensiero particolarmente frequentata dai legislatori, come pure dai giudici e dai giuristi dottrinari, ma della quale non si manca di paventare, alle volte, la inopportunità, se non la pericolosità tout court (2). Rimanendo alle definizioni giuridiche formulate dal legislatore (le definizioni ex lege o ex codice, alle quali si affiancano o si sovrappongono le definizioni ex cathedra dei giuristi), un posto peculiare occupano quelle relative a concetti o categorie fondamentali della teoria del reato (3). Tra queste, la definizione di colpa — qui oggetto di attenzione sotto molteplici punti di osservazione (storico, comparatistico, de lege ferenda) — è sicuramente, come s’è ricordato da ultimo, un importante « frammento di discorso giuridico » (4). Un frammento notevole, tra l’altro, tanto sul piano dell’indagine ermeneutica (tesa alla ricostruzione della fattispecie colposa) quanto, ancor prima, su quello della legistica o nomografia (5). Con una avvertenza ulteriore, tuttavia: pur dovendosi assegnare alla definizione legale un ruolo importante, a essa non può essere affidato, forse nel caso della colpa più che altrove, alcun esito autenticamente risolutivo. Metaforicamente: essa non corrisponde alla raffigurazione completa di una immagine, ma, al più presto, alla disposizione dei colori sulla tavolozza. Del resto, le definizioni codicistiche, isolatamente considerate, rappresentano soltanto elementi del ‘‘lessico’’ di un codice, cioè parti elementari destinate a combinarsi con altre nella sua complessiva ‘‘sintassi’’. Di tali postulati — l’irrinunciabile importanza e, al contempo, la connaturale insufficienza della definizione legale di colpa ai fini della ricostruzione interpretativa dei presupposti della responsabilità penale —, solo apparentemente in reciproca contraddizione, si cercheranno conferme nel corso di questo lavoro introduttivo. 1. Modelli di definizione legale della colpa in prospettiva storica e comparata. — Nell’intraprendere uno studio introduttivo sul reato col(2) Sul problema delle definizioni legali in àmbito penalistico, si faccia riferimento sin da ora ai contributi raccolti nel volume coordinato da CADOPPI, Omnis definitio in iure periculosa? Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, Padova, 1996. Emblematico l’interrogativo scolpito nel titolo della raccolta. (3) Per la distinzione tra definizioni del discorso giuridico (o definizioni legali) e definizioni sul discorso giuridico (o definizioni dei giuristi), v. BELVEDERE, voce Definizioni, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., V, 1989, 153. (4) Per questa espressione, cfr. FORTI, Sulla definizione della colpa nel progetto di riforma del c.p., datt. della relaz. al Convegno: ‘‘La riforma del c. p. La parte generale’’, Pavia, 10-12 maggio 2001, 1. Al problema delle definizioni della colpa, in prospettiva comparata, dedica una vasta e penetrante indagine, già in sede monografica, ID., Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, 71-147. (5) Sulla ‘‘legistica’’, la tecnica di redazione delle leggi, detta anche ‘‘nomografia’’, cfr.: AINIS, PAGANO (cur.), Indicazioni bibliografiche sul drafting legislativo, in D’ANTONIO (cur.), Corso di studi superiori legislativi 1988-1989, Padova, 1990, 803 ss.; DI LUCIA, Il termine ‘‘nomografia’’, in ID., Nomografia, cit., p. IV ss.


— 497 — poso, pare utile porre preliminarmente una questione di carattere generale, secondo la formulazione seguente: se la colpa possa (nel senso della praticabilità) e/o debba (nel senso della opportunità) essere o meno cifrata in una definizione legale; proprio al fine di tentare di verificare quali conseguenze le diverse soluzioni ipotizzabili possano esplicare sul piano dei presupposti della responsabilità colposa: in particolare, per es., sul problema, davvero basilare, della individuazione delle regole di condotta a contenuto preventivo-cautelare che costituiscono il nucleo precettivo di ogni singola fattispecie colposa; ovvero sulla questione della personalizzazione del giudizio di colpa. Il panorama normativo sul piano storico e della comparazione — ottenuto incrociando gli esiti dell’indagine diacronica e sincronica, nella prospettiva offerta da una ricognizione della maggior parte delle codificazioni europee — mostra tre alternative possibili: il modello della non-definizione (meglio: della ‘‘rinuncia’’ alla definizione); il modello della definizione unitaria (ovvero: ‘‘di parte generale’’); il modello, infine, della definizione differenziata (ovvero: ‘‘di parte speciale’’). Quest’ultima alternativa rappresenta un modello di derivazione napoleonica adottato, per il passato, anche dal codice Zanardelli, nonché, odiernamente, dallo stesso nuovo c.p. francese (anche se, come si vedrà, solo in maniera spuria) e, inoltre, dal c.p. turco. Nel prosieguo, di tale modello si apprezzeranno le capacità (certamente soltanto virtuali) di far emergere il rapporto (supposto come stringente) tra violazione delle regole di cautela e singolo evento tipico, legando funzionalmente quelle regole preventive ai particolari scopi di tutela esplicati all’interno di ogni singola fattispecie (infra, § 2). La alternativa definitoria ‘‘di parte generale’’ — oltre ad essere seguìta, come noto, dal vigente c.p. italiano — rappresenta, a sua volta, un modello che trova ampia diffusione tra le codificazioni dell’Europa continentale, pur nella grande diversità di soluzioni e tipologie. Se ne valuteranno, criticamente, le possibili varianti, utilizzando quale riferimento privilegiato la definizione consacrata nell’art. 43 del nostro codice (infra, § 4), anche nelle prospettive di riforma avanzate nell’ultimo decennio (infra, § 5). La ‘‘rinuncia alla definizione’’ della colpa rimane, invece, un modello seguìto tradizionalmente dal codificatore tedesco e recentemente confermato dalla ricodificazione spagnola. In proposito, si tratterà di verificare le buone o cattive ragioni dell’atteggiamento di rigido rifiuto, sin qui opposto specialmente dalla dottrina tedesca, nei confronti delle definizioni di concetti generali della teoria del reato (infra, § 3). 2. A) La definizione ‘‘differenziata’’ ovvero ‘‘di parte speciale’’. — 2.1. Le definizioni di delitto colposo contenute nel codice Zanardelli nello specchio della elaborazione teorica tra fine Ottocento e inizio Novecento. — Come noto, il c.p. Zanardelli del 1889 non conteneva alcuna


— 498 — norma definitoria di parte generale dedicata alla colpa, essendo affidato il compito di disegnare i caratteri dei comportamenti colposi alle singole fattispecie incriminatrici di parte speciale (6). Se questa soluzione differenziata (o di parte speciale) sia preferibile, rispetto a quella unitaria (o di parte generale) contenuta nel c.p. vigente e affacciata altresì dalle iniziative di riforma sin qui prospettate, rimane quesito di difficile soluzione. Pare comunque pacifico che — una volta intesa la colpa, in senso normativo e in sede di tipicità, come violazione del dovere oggettivo di diligenza —, ove si voglia istituire uno stretto collegamento tra colpa ed evento facendo svolgere alle regole di cautela un ruolo nella descrizione del fatto tipico, rimanga pur sempre indispensabile ricostruire il contenuto di tali regole in correlazione con le variabili tipologiche della singola fattispecie, così come da tempo posto in luce in dottrina. La « dipendenza contenutistica » della colpa dai singoli crimina culposa richiede la « concretizzazione » di essa all’interno di ogni singola fattispecie (7): cioè la identificazione del contenuto del particolare dovere oggettivo di diligenza, quindi della regola comportamentale capace di evitare quel determinato evento (o fatto) tipico. Pertanto, la scelta sistematica operata dal codificatore ottocentesco, a prescindere da quali fossero le reali intenzioni dello stesso (quand’anche si fosse trattato di una « pura e semplice dislocazione normativa dei parametri di qualificazione della colpa »), sebbene certamente non decisiva sul punto, sembrerebbe tuttavia oggettivamente funzionale (o, quantomeno, non impeditiva) nei riguardi dell’istanza di una maggiore compenetrazione tra (particolari) regole di cautela e (singolo) fatto tipico (8). Invero — anche in considerazione della ben nota tendenziale « cecità rispetto ai beni giuridici » che è coessenziale ad ogni (soluzione di) parte generale (9) — l’opzione di prevedere le qualifiche normative della colpa all’interno delle singole fattispecie, in stretto collegamento teleologico con i diversi beni giuridici, poteva (virtualmente) significare il conferimento di una maggiore « specificità di contenuti » alle regole cautelari. (6) Come noto, un notevole contributo allo studio della colpa in prospettiva storica proviene da G. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione dommatica, in S. VINCIGUERRA (coord.), Diritto penale dell’Ottocento. I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, 1993 (e 1999), 409 ss. (7) Per limitarsi alle indicazioni essenziali, cfr. già ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, (Berlin, 1930), rist. Aalen, 1964, 326 ss.; e, da noi, MARINUCCI, Il reato come ‘azione’. Critica di un dogma, Milano, 1971, 85-87. (8) Così, sostanzialmente, G. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli, cit., 429-431. Tra i commentatori del c.p. Zanardelli, cfr., nel medesimo senso, i cenni (anticipatori) di CIVOLI, Trattato di diritto penale, I, PG, Milano, 1912, 375. (9) Cfr., per tutti, FINCKE, Das Verhältnis des Allgemeinen zum Besonderen Teil des Strafrechts, Berlin, 1975, 26 ss.; e, in senso meno radicale, per es., STORTONI, in PADOVANI, STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, 17 s.


— 499 — Così, esemplificando, l’omicidio colposo — autentico archetipo dell’illecito colposo causalmente orientato — era definito dall’art. 371 del c.p. del 1889 con una formulazione che trovava analogo riscontro nelle altre ipotesi di delitto colposo (10); e, comunque, secondo una nozione di colpa, derivata dalla codificazione napoleonica e accolta nella gran parte dei codici pre-unitari, non troppo dissimile da quella contenuta nella parte generale del c.p. vigente. Le definizioni dei singoli delitti colposi — tutte pressoché invariabilmente incentrate sulla « imprudenza, negligenza, ovvero imperizia nella propria arte o professione, o inosservanza di regolamenti, ordini o discipline » — erano date con lo scopo dichiarato (dal Ministro guardasigilli dell’epoca) di fornire un criterio di orientamento volto a limitare l’arbitrio del giudice, senza voler prendere posizione su una categoria dogmatica ritenuta oscura (11). Difatti, è vero che nell’elaborazione della Scuola classica del diritto penale la essenza stessa della colpa stava tutta nel requisito della ‘‘prevedibilità’’ dell’evento lesivo (12). Tuttavia, è parimenti vero che, affermando un modello concettuale di chiaro stampo psicologico e obliterando qualsiasi parametro di stampo normativo, tale concezione, rivelando insufficienze e aporie fin troppo note, sembrava ben presto inadeguata sia sul piano dogmatico, sia anche « a risolvere i complessi problemi che la pratica giudiziaria andava via via ponendo »; e con una ulteriore accentuazione delle denunciate insufficienze « a seguito del progressivo diffondersi delle attività pericolose autorizzate dall’ordinamento ». In effetti, una volta introdotte norme tese a disciplinare più o meno minuziosamente determinate attività pericolose, la questione relativa all’accertamento in concreto della prevedibilità dell’evento lesivo finiva per perdere gran parte della sua centralità (13). Inoltre, la tendenza, già attuale in quell’epoca (14), a collegare la tematica della colpa a quella del nesso causale — col rischio, spesso evidenziato anche dalla dottrina odierna, di confondere i due aspetti, risolvendo il primo nel secondo — aumentava il suddetto processo erosivo del requi(10) Risulta analoga, ad es., la struttura descrittiva della fattispecie di lesioni personali colpose, prevista dall’art. 375 del c.p. Zanardelli. (11) Cfr. G. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli, cit., 410. V., inoltre, CRIVELLARI, Introduzione al commento del nuovo C. p. italiano, in ID., Il C. p. per il Regno d’Italia, I, Torino, 1890, p. CCXCIII: le « specificazioni adottate hanno il pregio di una larga applicazione ed evitano il soverchio arbitrio che avrebbe il magistrato ove si fosse seguìto il sistema del Codice toscano, che non dava alcuna definizione di questo malefizio ». (12) In maniera esemplare, CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, 5a ed., Lucca, 1877, § § 66, 68, 78, 80, 83, 84, 87. (13) G. DE FRANCESCO, La colpa, cit., 411-4 (da cui sono tratti i brani riportati nel testo). (14) Cfr., ad es.: STOPPATO, L’evento punibile. Contributo allo studio dei delitti colposi, Padova, Verona, 1898, 94 ss.; ID., Causalità e colpa penale, in Riv. pen., LIII, 1901, 383 ss.


— 500 — sito psicologico, vieppiù se posto in correlazione alla categoria della colpa specifica: « Se la colpa per inosservanza non postula la prevedibilità in concreto dell’evento, ecco che il problema del nesso causale riemerge in tutta la sua importanza, in vista della necessità di delimitare l’area degli eventi attribuibili ad una condotta già di per sé contraria all’ordinamento, perché posta in essere violando le norme preventive espressamente previste allo scopo di regolare quel determinato tipo di attività pericolosa » (15).

Ciò implica la necessità di verificare i rapporti tra l’area dello scopo di tutela della norma violata e l’evento lesivo cagionato (specie in riferimento alle ipotesi di intervento di ulteriori fattori causali). Peraltro, la tendenza a costruire uno stretto collegamento tra colpa e causalità (o imputazione oggettiva) — col rischio talvolta di un appiattimento reciproco dei criteri selettivi dell’evento — sarà tutt’altro che estranea, come noto, alla elaborazione dogmatica del Novecento, rappresentando da sempre il reato colposo il settore cui è deputato per eccellenza lo studio o quantomeno l’approfondimento delle questioni che si agitano in tema di nesso causale (16). Sarà, insomma, nel concorso di altri fattori, l’emersione inarrestabile di àmbiti sempre più estesi di colpa specifica a segnare con evidenza la crisi delle concezioni (meramente) psicologiche della colpa, e a decretare la caduta in disgrazia, già presso la dottrina e la giurisprudenza coeve al codice Zanardelli, del criterio della prevedibilità come quintessenza della colpa medesima (17). Ciò non ostante, la formula uti(15) G. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli, cit., 414 ss. (in part., 417). (16) Su tale fenomeno, e soprattutto sulle sovrapposizioni in giurisprudenza tra il piano della causalità della condotta (colposa) e il diverso piano della causalità della colpa (evitabilità dell’evento prevedibile), v. il recente studio di DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per l’aumento del rischio’’, in questa Rivista, 1999, 32 (spec., 41 ss.). Sulla confusione degli elementi normativi (posizione di garanzia/dovere di diligenza), con contestuale dissolvimento negli stessi degli elementi naturalistici (condotta/nesso di causalità), in relazione alla prassi (e alla elaborazione dottrinale) in materia di reati omissivi impropri colposi, v. il saggio di PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in RIML, 1992, 821 (spec., 829 ss.). Per una rimeditazione di ampio respiro sulla categoria della causalità nel diritto penale moderno — in relazione alle tendenze a risolvere la causalità in un giudizio ex ante di idoneità lesiva o in aumento del rischio — cfr. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2001, 157 ss., 225 ss. (17) In questo senso, ma con distinzioni, si rileggano, ad es., le pagine di: STOPPATO, L’evento punibile, cit., 128-144; ID., Causalità e colpa penale, cit., 389; IMPALLOMENI, L’omicidio nel diritto penale, 2a ed., Torino, 1900, 99 s.; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, II, (1a ed.), Torino, 1908, 48 s.; CIVOLI, Trattato, cit., 363-375; nonché, per una rassegna della giurisprudenza, TOLOMEI, Gli indirizzi della giurisprudenza circa la prevedibilità nella colpa, in questa Rivista, 1910, II, 57 ss. (spec., 60 s.). In generale, sulle ragioni del superamento delle concezioni psicologiche della colpa, si veda la puntuale retrospettiva tracciata da GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993, 35 ss.


— 501 — lizzata nel codice del 1889 per definire l’omicidio colposo — formula già presente, peraltro, nel c.p. francese del 1810 e nella maggior parte delle codificazioni italiane preunitarie —, lungi dall’attestare l’estraneità del criterio della prevedibilità (soprattutto nell’ambito della colpa specifica), ponendosi quale formula che bandiva ‘‘per legge’’ le malsicure valutazioni psicologiche legate a quel criterio, rappresentava soltanto la rinuncia a tradurre sul piano del diritto positivo determinate opzioni dogmatiche (dell’uno come dell’altro segno) (18). Del resto, il requisito della prevedibilità finiva per conservare un ruolo ancóra significativo quantomeno nella elaborazione giurisprudenziale e dottrinale riferibile alla colpa generica (19). Una efficace sintesi di quanto si viene dicendo è rinvenibile in un breve scritto di Tolomei, datato 1910: « [...] al confronto della nostra legge la condizione della prevedibilità non [può] veramente dirsi esclusa, come si è talvolta affermato, sulla semplice dichiarazione della relazione ministeriale che ‘‘il concetto della prevedibilità dell’evento... vien giudicato empirico e fallace’’. Queste parole non sono che la constatazione di un fatto — la tendenza dottrinaria, cioè, contraria alla prevedibilità — constatazione cui lo Zanardelli non aggiunse alcun suo apprezzamento, e tanto meno adesivo: piuttosto vi aggiungeva l’asserto di non saper sostituire quel concetto con altro meno malsicuro. D’altronde sta in fatto che la legge [...] non richiede già soltanto che l’uomo involontariamente cagioni l’evento sinistro, ma ch’ei lo cagioni ‘‘per imprudenza, negligenza, etc.’’: il fatto causale, adunque, deve rispondere a certa condizione subiettiva, che non sapremmo alla stregua di qual criterio determinare se non quello della prevedibilità. Questa prevedibilità non ha (18) Così G. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli, cit., 413, 420. In tal senso, già TOLOMEI, Gli indirizzi, cit., 58; cfr. altresì Cass., 28 dicembre 1905, riportata ivi, 61 s. (19) È quanto messo in luce da G. DE FRANCESCO, La colpa nel codice Zanardelli, cit., 424-429, anche attraverso l’analisi delle posizioni dottrinali dell’epoca ‘‘apparentemente contrarie’’ al requisito della prevedibilità. Esemplificativamente, nel quadro di vivaci dispute dottrinarie (alla stregua di una piccola polemica fin de siécle), cfr., nel senso della ineliminabilità del requisito: B. ALIMENA, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, I, Torino, 1894, 449; ID., Ancora sul fondamento della colpa penale, in Riv. pen., LV, 1902, 5; PUGLIA, Della responsabilità penale per colpa e senza colpa, in Scuola pos., 1900, 578 s.; mentre, in senso polemicamente contrario, cfr.: STOPPATO, L’evento, cit., 128 ss.; ID., Causalità e colpa, cit., 389. Per « la erroneità e l’inconcludenza pratica del criterio della prevedibilità » si era anche espresso, ad es., CIVOLI, Trattato, cit., 363-375 (spec., 372 s.); e il MANZINI (Trattato di diritto penale italiano, I, 5a ed., Torino, 1981, 799) ne aveva attestato il ‘‘ripudio espresso’’ da parte del nostro diritto positivo, tanto con riferimento al c.p. Zanardelli, quanto pure al c.p. Rocco. Sulla questione, cfr. inoltre, nella letteratura dell’Italia zanardelliana: TOSTI, La colpa penale. Studio sociologico e giuridico, Torino, 1908, 60-85, 94 s.; JANNITTI DI GUYANGA, Concorso di più persone e valore del pericolo nei delitti colposi. Contributo alla dottrina delle cause colpose mediate, Milano, 1913, 43-47, 122-124. Per un riesame di queste dispute, v. anche F. ALIMENA, La colpa nella teoria generale del reato, Palermo, 1947, 33-42, che tratta la prevedibilità alla stregua di un carattere necessario della colpa; e, ulteriormente: ALTAVILLA, La colpa. Il reato colposo, riflessi civilistici, analisi psicologica, Roma, 1949, 47 ss.; CECCHI, Il delitto colposo, S. Maria C.V., 1950, 27-35, 131 ss.


— 502 — poi d’uopo di essere specificatamente accertata quando il fatto causale consista in una inosservanza di regolamenti, ordini o discipline, perché l’esistenza di questi ne costituisce già una sufficiente prova generica [...] » (20).

Sembra inoltre possibile affermare che il criterio della prevedibilità, talvolta inteso « secondo criterii relativi, espressione della comune avvedutezza di un determinato momento storico », venga posto, quantomeno in alcune ricostruzioni, alla base della individuazione della diligenza violata in caso di colpa generica; quindi, utilizzando da parte di taluni scrittori — anche se indubbiamente in maniera ancóra non del tutto consapevole e senza la indispensabile nettezza di contorni — un concetto di prevedibilità in senso obiettivo e, dunque, pure un concetto di colpa inteso (nonostante ricorrenti incertezze terminologiche), normativamente, come violazione di un dovere obiettivo di diligenza. Invero, come noto, la lettura comunemente data di queste risalenti impostazioni dottrinali, tendenti a valorizzare il requisito della prevedibilità, è nel senso di una riconduzione unitaria di esse alle vecchie e superate concezioni psicologiche della colpa (21). Tuttavia, in conclusione, riteniamo che tra la letteratura coeva al codice Zanardelli si possano isolare impostazioni più moderne, le quali — una volta depurato il discorso dalle vischiose formule linguistiche (probabilmente tipiche dello stile letterario degli studi giuridici dell’epoca) nelle quali l’obiettivo e il subiettivo sembrano spesso sovrapporsi confusamente — non si lasciano descrivere semplicemente collocandole nell’alveo delle teoriche di matrice psicologica, nonostante la dichiarata adesione al criterio della prevedibilità dell’evento (22). (20) TOLOMEI, Gli indirizzi, cit., 58. Cfr., altresì, CRIVELLARI, SUMAN, Il C.p. per il Regno d’Italia, VII, Torino, 1896, 746: « Taluno giudica il concetto della prevedibilità empirico e fallace, ma la dottrina l’ha ricevuto, ed è su di essa che in generale modernamente si fonda la teorica della colpa ». Sul ruolo differente giocato dal criterio della prevedibilità in relazione all’accertamento della colpa per imprudenza o per negligenza (da un lato) e della colpa per inosservanza di leggi o per imperizia (dall’altro), v. IMPALLOMENI, L’omicidio, cit., 95 s., 99 s.: « La differenza insomma tra la imputabilità dei delitti colposi derivanti da imprudenza o negligenza, e di quelli derivanti da inosservanza di un precetto legale, o da imperizia nello esercizio di una professione o di un’arte, è soltanto in ciò che nel primo caso devesi provare che l’opera dell’agente contraddice alla comune capacità di previsione, nel secondo e nel terzo caso tale contraddizione è per legge presunta ». (21) Cfr., ad es., GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 52. Lo stesso A. ritiene comunque, più in generale, che nelle concezioni psicologiche si annidasse un insopprimibile carattere ‘‘normativo’’, rivelato, tra l’altro, dal « ruolo impoverito » assegnato nell’economia delle stesse all’elemento della prevedibilità (ivi, 67-72). (22) Alcuni esempi. Il passo più sopra riportato tra virgolette (la prevedibilità definita « secondo criterii relativi, espressione della comune avvedutezza di un determinato momento storico ») è tratto da TOLOMEI, Gli indirizzi, cit., 58, il quale prosegue indicando come « erratissima nozione della prevedibilità, quella nozione subiettiva [...] da cui probabilmente prendon le mosse molti dei suoi oppositori. La prevedibilità non si misura alla stregua delle attitudini dell’agente; che se così fosse nessuno sarebbe mai ritenuto responsabile per


— 503 — 2.2. La definizione differenziata nelle codificazioni vigenti (Francia, Turchia). — Lungi dal rappresentare un fossile giuridico proprio delle codificazioni di derivazione napoleonica, l’alternativa definitoria ‘‘differenziata’’ — quella che prevede definizioni di reato colposo nella parte speciale — sopravvive pure in taluni codici ancóra vigenti. Come si accennava poc’anzi, odiernamente, tale modello definitorio di reato colposo può rinvenirsi nel c.p. turco del 1926. Tenuto conto che rispetto al codice turco si riconoscono, più in generale, taluni non secondari influssi del nostro codice Zanardelli (23), siffatta analogia di modelli definitori, a prima vista sorprendente, potrebbe trovare spiegazione proprio in questo rapporto di derivazione. Inoltre, in coerenza con la tradizione risalente alla vecchia codificazione napoleonica del 1810, la soluzione definitoria ‘‘differenziata’’ aveva trovato conferma, in un primo momento, pure nel testo del nuovo Code pénal francese del 1992, ove, nella versione originariamente entrata in vigore nel 1994, soltanto nella parte speciale erano previste definizioni di (fattispecie di) reato colposo: in particolare di homicide involontaire e blessures involontaires (24). Peraltro, è il caso di aggiungere che — sebcolpa e il previsto coinciderebbe col prevedibile, divenendo così la sventatezza [...] una scusa per la colpa, mentre è precisamente quella che si vuol reprimere. È la prevedibilità obiettiva — misurata, cioè, alla stregua delle attitudini della generalità degli uomini — quella che stabilisce il limite della responsabilità penale per colpa, ed a determinarla nessuna rilevanza hanno le circostanze personali al colpevole [...] » (corsivi originali). Ma per un’opinione ancóra precedente, e forse più autorevole, si veda IMPALLOMENI, Delitti contro la persona, in COGLIOLO, Completo trattato teorico e pratico di diritto penale secondo il codice unico del Regno d’Italia, vol. II, parte 2a, Milano, 1889, 169; nonché ID., L’omicidio, cit., 95 s.: « Se la colpa è la violazione di un dovere di diligenza, è evidente che essa concerne tutti quei fatti che debbono essere evitati, astenendosi i cittadini dal fare o dall’omettere quello che, secondo la comune esperienza, vale a cagionarli. Il suo carattere specifico è quindi la prevedibilità della lesione giuridica commessa [...]. Ma intendiamoci bene, non è già che si abbia ad indagare se l’agente abbia potuto prevedere il sinistro da lui cagionato [...]. Ciò che si richiede, invece, in conformità della nozione da noi data della colpa, è la prevedibilità propria della comune degli uomini, quale per la ordinaria esperienza della vita si presume esistente nella generalità degli uomini. [...] quando si dice che alla colpa è implicita la prevedibilità dell’evento lesivo con ciò non si esprime una condizione di fatto soggettiva, che debba essere provata nell’agente per la imputabilità del fatto, ma si esprime invece una condizione obiettiva di imputabilità, cioè che l’azione o l’omissione causatrice dell’evento sia in contraddizione con la comune capacità di previsione. [...] E cotesta prevedibilità è appunto quello che differisce la colpa dal caso fortuito, il quale è ciò che non può essere antiveduto e prevenuto a norma della comune capacità ed esperienza » (corsivi originali). (23) Per quest’ultimo rilievo, cfr. TELLENBACH, Einführung, in Das Türkische Strafgesetzbuch. Türk Ceza Kanunu, tr. tedesca a cura di EAD., Freiburg i. Br., 1998, 1. V., in part., gli artt. 455 (omicidio colposo), 459 (lesioni personali colpose), 383 (incendio colposo). (24) Art. 221-6: « Il fatto di cagionare, [...] per imperizia [così traduciamo, un po’ arbitrariamente, ‘‘maladresse’’], imprudenza, disattenzione, negligenza o inottemperanza a un obbligo di sicurezza imposto dalla legge o dal regolamento, la morte di un terzo costituisce omicidio involontario [...] » (similmente è formulato pure l’art. 222-19: lesioni involon-


— 504 — bene i redattori del nuovo c.p. francese abbiano introdotto nella parte generale una norma in tema di élément moral (art. 121-3) — neppure nella versione attualmente in vigore sembra richiesta una previsione legale espressa della responsabilità a titolo di colpa (25). In realtà, la richiesta di una mera previsione legale delle ipotesi di responsabilità per colpa (come nell’art. 121-3 c.p. francese), senza restringerne la portata ai casi di previsione espressa (come nell’art. 42 c.p. italiano), pare del tutto insufficiente a limitare l’attività interpretativa volta alla identificazione di casi di imputazione colposa implicita. Inoltre, questo dato sistematico potrebbe attenuare le prestazioni in termini di necessaria concretizzazione della colpa che più sopra abbiamo riconosciuto come potenzialmente legate alla soluzione ‘‘differenziata’’ (§ 2.1). Invero, la impossibilità (in relazione al principio di tassatività) di configurare un unico e indistinto crimen culpae e la necessità, al contrario, di edificare la colpa in riferimento a singole fattispecie di crimina culposa trovano il loro fondamento positivo proprio nella disposizione che, in gran parte degli ordinamenti europei, richiede la « previsione espressa » della responsabilità per colpa (26). tarie). Cfr., ad es., ROUJOU DE BUBÉE, BOULOC, FRANCILLON, MAYAUD, Code pénal commenté, Paris, 1996, sub artt. 221-6 e 222-19. Più in generale, sull’àmbito di applicazione del délit involontaire, in relazione non soltanto ai beni della vita e dell’integrità personale: MERLE, VITU, Traité de droit criminel, I, 7a ed., Paris, 1997, 756 s.; J-H. ROBERT, Droit pénal géneral, 4a ed., Paris, 1999, 327. (25) Tenendo conto della tradizionale tripartizione del reato in crimini, delitti e contravvenzioni (classificazione conservata nel nuovo c.p. francese), l’art. 121-3, per quanto riguarda i relativi criteri di imputazione, si limita a disporre: « Non vi è crimine o delitto senza l’intenzione di commetterlo. / Tuttavia, allorché la legge lo preveda, vi è delitto in caso di deliberata esposizione a pericolo della altrui persona. / Vi è egualmente delitto, allorché la legge lo preveda, in caso di colpa per imprudenza, per negligenza [...]. / Non vi è contravvenzione in caso di forza maggiore ». Dunque, nei delitti, la punibilità a titolo di colpa (e di mise en danger) potrà essere anche implicitamente desumibile da parte dell’interprete? Con quali effetti applicativi, viste le note incertezze talora insorte anche in relazione a quei codici che, come quello italiano, contengono la regola della previsione legale espressa della punibilità per colpa? Sul punto, che, per la verità, non sembra preoccupare troppo la dottrina francese (nonostante le pregresse prassi giurisprudenziali in tema di délits matériels o contraventionnels invalse sotto il c.p. previgente — con presunzione della colpevolezza nella mera realizzazione materiale del fatto — e poi ‘‘risolte’’ dall’art. 339 della loi d’adaptation del 16 dicembre 1992), cfr. i cenni di: MERLE, VITU, Traité, cit., 727 s.; STEFANI, LEVASSEUR, BOULOC, Droit pénal général, 16a ed., Paris, 1997, p. 212 s.; PRADEL, Traité de droit pénal et de science criminelle comparée, 12a ed., Paris, 1999, 439. Il problema era già stato evidenziato, in relazione al nuovo c.p. francese, in DONINI, Il delitto contravvenzionale, Milano, 1993, 110 ss. Cfr., inoltre, J-H. ROBERT, Droit pénal, cit., 308 ss.: l’A. sembra ritenere (ma senza offrire una vera motivazione) che, trattandosi di eccezioni al principio generale, sia richiesta una « previsione espressa » per la punibilità dei delitti a titolo di faute non intentionelle (p. 309). (26) In questo senso: F.C. SCHROEDER, in JESCHECK, RUß, WILLMS (cur.), Leipziger Kommentar, 10a ed., I, Berlin, New York, 1985, § 15, n. marg. 1 e 5; MAURACH, GÖSSEL, ZIPF, Strafrecht. AT, II, 7a ed., Heidelberg, 1989, § 42, n. marg. 12-16; QUINTERO OLIVARES


— 505 — Tanto fugacemente osservato, e tornando alla questione dei modelli definitori, va detto che il legislatore francese ha successivamente superato il tradizionale modello ‘‘differenziato’’ (anche se, come si dirà, in maniera soltanto parziale). Difatti, era intervenuta, a distanza di soli due anni dalla entrata in vigore del nuovo codice, una prima modificazione della parte generale sul punto, mediante la loi n. 96-393 del 13 maggio 1996, che — oltre a previsioni riguardanti il nuovo criterio di imputazione della mise en danger — aveva fatto registrare l’inserimento di una definizione generale di colpa proprio nel testo dell’art. 121-3 c.p. dedicato all’élément moral, peraltro per mezzo di una formulazione non del tutto sovrapponibile a quelle contenute nelle singole incriminazioni di parte speciale (27). Infine, una ulteriore modificazione dell’art. 121-3 c.p. (quindi della definizione generale) è stata da ultimo approvata dal Parlamento francese mediante la loi n. 2000-647 del 10 luglio 2000: ne risulta una formulazione assai complessa che coinvolge tipi e gradi diversi di responsabilità tutti riconducibili, non senza scontare problemi terminologici e di classificazione, al concetto di faute d’imprudence (28). (dir.), Manual de Derecho Penal. PG, Barcelona, 1999, 313 s.; FORTI, Colpa ed evento, cit., 66-71 (con riferimenti, anche bibliografici, alle difficoltà insorte nell’interpretazione dell’art. 42 c.p. it. in relazione a fattispecie delittuose extra codicem). In verità, i rapporti tra modelli di definizione della colpa e regola della previsione espressa richiederebbero un approfondimento ulteriore. Limitandosi solo ad alcune esemplificazioni, nel panorama europeo continentale, una disposizione corrispondente a quella dell’art. 42, comma 2, c.p. it. (nel senso della previsione espressa) si rinviene: nel § 15 c.p. tedesco (dopo la riforma del 1975), nell’art. 18 c.p. svizzero, nell’art. 13 c.p. portoghese, nell’art. 24 c.p. russo, nell’art. 8 c.p. polacco, nel § 40 c.p. norvegese, nell’art. 43 c.p. croato, nonché nell’art. 12 del nuovo c.p. spagnolo (sul quale v. infra, § 3, nota 34). (27) Nell’esprit della prima riforma dell’art. 121-3 c.p., l’intento (a quanto pare, tradito dalle prime applicazioni giurisprudenziali) era quello di contrastare la prassi tradizionale tendente a una valutazione « in abstracto » nel giudizio di colpa, stabilendo la regola di un « apprezzamento in concreto » al fine di un recupero di ‘‘personalizzazione’’, specialmente nei confronti di soggetti responsabili posti al vertice di organizzazioni complesse di diritto pubblico e privato. Cfr.: J-H. ROBERT, Droit pénal, cit., 324 s., 327; PRADEL, Traité, cit., 454 ss.; DESPORTES, LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, I, Paris, 1999, 375 s., 397 ss.; GIUDICELLI-DELAGE, La sanction de l’imprudence, in Mélanges offerts à P. Couvrat, Paris, 2001, 531 s.; STEFANI, LEVASSEUR, BOULOC, Droit pénal, cit., 226 s. Questi ultimi, per vero, sostengono che la colpa non troverebbe una definizione generale (ivi, 226): ciò che, tuttavia, non è più condivisibile in relazione al testo dell’art. 121-3 riformato nel 1996 e poi nel 2000. Quel che si può discutere è, semmai, la opportunità o la completezza della formula adottata. Ma ciò riguarda, in generale, le norme definitorie contenute in qualsiasi codice, giacché è dato riscontrare definizioni incentrate esclusivamente, ad es., sulla distinzione tra colpa cosciente e incosciente oppure tra colpa generica e specifica, e che tralasciano altri aspetti (cfr. infra, in part. nota 30). (28) L’alinea 3 (lievemente modificato) dell’art. 121-3 recita: « Vi è egualmente delitto, allorché la legge lo preveda, in caso di colpa per imprudenza, per negligenza o per inottemperanza a un obbligo di prudenza o di sicurezza previsto dalla legge o dal regolamento, se risulta che l’autore dei fatti non ha osservato le normali diligenze tenuto conto, all’occor-


— 506 — Dunque, in conclusione, attualmente, con riferimento al c.p. francese, si può parlare, in tema di colpa, di una soluzione definitoria intermedia ed eclettica (‘‘differenziata’’ e, insieme, ‘‘unitaria’’), con una nozione asimmetricamente distribuita tra parte generale e speciale: un ibridismo sistematico forse non immune da qualche possibile discrasia concettuale e applicativa. 2.3. Ulteriori risvolti dogmatici legati (potenzialmente) alla definizione differenziata di colpa. — Prima di procedere oltre, è solo il caso di accennare a un ulteriore vantaggio forse potenzialmente (se non addirittura accidentalmente) connesso al tipo di definizione che più sopra abbiamo indicato con l’attributo di ‘‘differenziata’’ (29). Invero, una volta che si sia optato comunque per la soluzione definitoria in tema di colpa, una nozione ‘‘differenziata’’ o ‘‘di parte speciale’’ potrebbe rivelarsi parzialmente idonea ad eludere (certo non a risolvere) taluni interrogativi imrenza, della natura dei suoi compiti o delle sue funzioni, delle sue competenze nonché del potere e dei mezzi di cui disponeva ». Inoltre, l’alinea 4 (radicalmente aggiunto) risulta così redatto: « Nei casi previsti dall’alinea che precede, le persone fisiche che non hanno cagionato direttamente il danno, ma che hanno creato o contribuito a creare la situazione che ha permesso la realizzazione del danno o che non hanno adottato le misure atte ad evitarlo, sono responsabili penalmente se risulta che hanno violato in maniera manifestamente deliberata un obbligo particolare di prudenza o di sicurezza previsto dalla legge o dal regolamento, oppure che hanno commesso una colpa caratterizzata e che esponeva altri a un rischio di particolare gravità che non potevano ignorare ». In tale occasione, sono stati fatti oggetto di parziale modificazione anche gli artt. 221-6 e 222-19 e s. (omicidio e lesioni): tuttavia, soltanto (per quel che qui interessa) nel senso di prevedere in aggiunta, nel definire i comportamenti involontari, un esplicito rinvio alla norma che contiene la definizione di parte generale (art. 121-3): quindi, senza risolvere tutte le asimmetrie definitorie alle quali si accennava nel testo. Quest’ultima riforma dell’art. 121-3, ad onta delle apparenze, è definita « di interesse limitato » da PRADEL, De la véritable portée de la loi du 10 juillet 2000 sur la définition des délits non intentionnels, ne Le Dalloz, (29), 2000, p. V, che pure, tuttavia, paventa « probabili difficoltà applicative ». Per un accenno critico alla reiterazione (nella pur breve vita del nuovo codice) di interventi di modifica in relazione ad una norma regolante i criteri di imputazione della responsabilità, v. FRONZA, La riforma del diritto penale complementare in Francia, in DONINI (cur.), La riforma della legislazione penale complementare, Padova, 2000, 127, nota 25. Per rilievi attorno alla ri-classificazione, imposta dalla versione 2000 del c.p., delle tipologie di faute d’imprudence (secondo la graduazione: simple, délibérée, caractérisée), in considerazione della presenza o meno di un evento di danno, della gravità e importanza di questo, nonché del tipo di contributo causale (autore diretto, indiretto, mediato), v. GIUDICELLI-DELAGE, La sanction, cit., 526 ss. (alla stessa A. si rinvia altresì per un quadro critico aggiornato e per ragguagli bibliografici sulle modificazioni apportate all’art. 121-3: ivi, 523 s., 528 ss., 531 ss.). Cfr. inoltre i contributi di CARTIER, FORTIS, JOURDAIN, OUTINADAM, VINEY, pubblicati (allorché il presente lavoro era in bozze) in R. sc. crim., 2001, 725 ss.; nonché, per approfondimenti ulteriori, SICURELLA, L’impervio cammino del principio di colpevolezza nel sistema penale francese, in questa Rivista, 2001, 968-973. (29) Vantaggio ‘‘ulteriore’’ rispetto a quelli, sopra accennati, in termini di potenziale concretizzazione della colpa, che dovrebbe risultare agevolata dalla correlazione immediata tra requisiti definitori e variabili tipologiche della singola fattispecie colposa (§ § 2.1 e 2.2).


— 507 — mancabilmente connessi a una definizione ‘‘di parte generale’’: cioè a una definizione unitaria che tacitamente finirebbe (e, di fatto, finisce) anche per presupporre una concezione unitaria della colpa medesima. Il punto meriterebbe da solo una intera ricerca. Tuttavia — limitandosi qui a considerazioni minime — pare innegabile che le possibilità di tenuta di una definizione unitaria, fondata su una pretesa concezione ugualmente unitaria, andrebbero oggi verificate anche in relazione alla emersione (invero non ancóra posta in piena luce) di diverse ‘‘forme’’ di colpa (30): dal parametro (in un certo senso ‘‘elementare’’) della colpa incosciente ai particolarismi della colpa cosciente, con previsione dell’evento, impropria, nella cooperazione al reato, in contesto illecito, relativa a circostanze aggravanti, della ‘‘culpa iuris’’ (31). (30) La tematica dei « nuovi orizzonti del (non più unitario) modello colposo di imputazione » è ampiamente trattata in DONINI, Teoria del reato, Padova, 1996, 334-378; nonché in ID., voce Teoria del reato, in Dig. disc. pen., XIV, 1999, 286 s., 288-290, ove si lamenta « la scarsa attenzione per il notevole pluralismo delle tipologie di colpa presenti nell’ordinamento » (p. 289); e, infine, in ID., Selettività e paradigmi della teoria del reato, in CANESTRARI (cur.), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, Torino, 1998, 435-437. Per un accenno in tal senso, v. BRICOLA, Le definizioni normative nell’esperienza dei codici penali contemporanei e nel progetto di legge delega italiano, in CADOPPI, op. cit., 187 s. Cfr., altresì, ma in una prospettiva diversa, M. GALLO, voce Colpa penale, in Enc. dir., VII, 1960, 625 ss., che poneva già l’interrogativo se la definizione dell’art. 43 c.p. « esaurisca o no tutte le forme di delitto colposo contemplate dal nostro ordinamento », anche se in relazione alle sole ipotesi di colpa anomala o impropria. Nello stesso senso anche, ad es.: BETTIOL, Diritto penale, 11a ed., Padova, 1982, 467; nonché CONTENTO, Corso di diritto penale, II, Bari, 1996, 126-128. Per una panoramica sulla letteratura anche precedente, circa i dubbi di incompletezza o erroneità della formula dell’art. 43 sotto diversi profili, v. FORTI, Colpa ed evento, cit., 108 ss. Da ultimo, la incompletezza della definizione di colpa, ma, significativamente, con riferimento al carattere normativo degli elementi della sua struttura (negligenza, inosservanza di leggi), è rilevata da M. MANTOVANI, Colpa e preterintenzione, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, II, Torino, 2001, 199 s. Tra gli AA. stranieri, sottolinea la non esaustività della definizione di colpa contenuta nell’abrogato c.p. portoghese del 1982 (in tutto simile a quella poi riproposta nel vigente c.p. del 1995), perché incentrata sulla sola differenza tra colpa cosciente e colpa incosciente — e quindi trascurando, tra l’altro, la nozione di colpa grave, enunciata in numerose fattispecie della parte speciale —, DE FARIA COSTA, Le definizioni legali del dolo e della colpa, in CADOPPI, op. cit., 261 ss.: cfr. artt. 15 (nozione di negligência) e 137, comma 2 (negligência grosseira come aggravante dell’omicidio colposo), del Código Penal del 1995. (31) In particolare (senza poter essere esaustivi, ma privilegiando opere di carattere generale o i contributi più recenti), sui concetti di colpa cosciente (circa la violazione di regole cautelari, senza riferimento a future conseguenze lesive), colpa con rappresentazione (circa elementi del fatto diversi dal risultato: es. presupposti della condotta) e colpa con previsione (dell’evento di danno) — nel contesto di una indagine sensibile alla c.d. pluridimensionalità delle tipologie di illecito e alla esistenza di sottosistemi nel Nebenstrafrecht — v., da ultimo, CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, 23 ss., 79 ss., 202-210, 211 ss., 225 ss., 308 ss. (anche per utili riferimenti). Sulle ipotesi riconducibili alla vecchia etichetta della colpa c.d. impropria, per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale. PG, 4a ed., Padova, 2001, 346-348. Sulla ‘‘culpa iuris’’, in termini sintetici, DONINI, Teoria del reato, cit.,


— 508 — « Tutte ‘forme’ (anziché ‘specie’) », come è stato segnalato, « che appartengono al molteplice e complesso universo del reato colposo e che vanno meglio coordinate con i tentativi di offrire una teoria della colpa più rappresentativa, perché non si lasciano affatto imprigionare nelle descrizioni modali della colpa incosciente come tipicità ‘esterna’ e assenza di dolo » (32).

Tanto brevemente accennato, qualche considerazione va anche dedicata alle ulteriori due opzioni alternative, entrambe costituenti esiti di scelte opposte, ma precise: definire (già) nella parte generale; non definire affatto. Poiché, quasi ‘‘contrappuntisticamente’’, il non definire non può valere soltanto alla stregua di semplice inerzia del legislatore, ma deve essere inteso anch’esso, al pari del definire positivamente la colpa, come espressione di una specifica scelta normativa: quella di una ‘‘rinuncia’’ ad avvalersi di quel particolare strumento di tecnica legislativa rappresentato dalla definizione. E così, per contro, la scelta definitoria operata dal legislatore italiano è una scelta in sé significativa, anche e proprio perché i codificatori di altri ordinamenti si sono astenuti del tutto, rinunciando a fornire una definizione legale del reato colposo (33). 3. B) Il modello della ‘‘non definizione’’ ovvero della ‘‘rinuncia’’ alla definizione (Germania, Spagna). — Esempio noto di codificazione penale che, da sempre, ignora una definizione di colpa (oltre che di dolo) risulta essere quello tedesco, anche dopo la riforma del 1975 (34). Questa 341 ss. (ed ivi indicazioni ulteriori). Sulla colpa in contesto di base illecito, ad es.: CANESTRARI, voce Preterintenzione, in Dig. disc. pen., IX, 1995, 716 ss.; DONINI, op. ult. cit., 345 ss. (entrambi in termini riassuntivi circa le rispettive divergenti posizioni, e con dovizia di riferimenti); cfr. inoltre: CARMONA, Il versari in re illicita « colposo », in IP, 2001, 223 ss. In relazione alla colpa rispetto a elementi circostanziali, v.: Al. MELCHIONDA, Le circostanze del reato, Padova, 2000, 761-766 (anche per puntuali ragguagli a precedenti contributi dello stesso e di altri AA.); VALLINI, voce Circostanze del reato, in Dig. disc. pen., Agg., 2000, 3641. Infine, sulla cooperazione colposa, cfr., da ultimo: ALBEGGIANI, La cooperazione colposa, in Studium iuris, 2000, 515 ss.; RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato, Milano, 2001, 114 ss. (anche per puntuali ragguagli). (32) DONINI, voce Teoria del reato, cit., 289. Del resto, si potrebbe aggiungere che, ad onta di ogni concezione unitaria, il concetto di colpa (come quello di dolo) assume una connotazione peculiare anche in relazione alle contravvenzioni: sia per ragioni sistematiche e di peculiare disciplina legislativa dell’elemento soggettivo in questa tipologia meno grave di reato; sia per ragioni spesso legate alle caratteristiche strutturali della tipicità; sia, infine, sul piano della prassi, in ragione dei parametri di accertamento giudiziale normalmente seguìti. Lo stesso dicasi, più in generale, per i reati (delitti e contravvenzioni) « a struttura contravvenzionale » (per questa nozione: DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 13 ss. e passim). (33) Cfr. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, cit., 72. (34) L’esempio tedesco, pur non essendo unico, si segnala come ampiamente paradigmatico e significativo; pertanto, la nostra analisi del modello della ‘‘rinuncia alla definizione’’ sarà condotto prevalentemente in relazione a esso. Tra le altre codificazioni europee contemporanee che non contengono alcuna definizione della colpa o del reato colposo, si pensi, ad es., al c.p. norvegese (del 1904) e al nuovo c.p. spagnolo (del 1995). In particolare,


— 509 — significativa espressione di « intenzionale reticenza normativa in tema di colpa » (35), proprio perché intenzionale, e storicamente ricostruibile come tale, mostra come l’assenza di una definizione legale di colpa sia tutt’altro che frutto del caso, quale conseguenza del fatto che il problema dell’alternativa ‘‘definire/non-definire’’ non sia stato nemmeno prospettato come tale da legislatori distratti (36). I riformatori tedeschi seguirono sul problema del ricorso alle definizioni legali nella codificazione spagnola, sebbene con riferimento ad una precedente fase dell’iter progettuale che portò al codice del 1995, v. MORALES PRATS, Omnis definitio in iure periculosa? El problema de las definiciones en el codigo penal español y en el proyecto de codigo penal de 1992, in CADOPPI, op. cit., 275 ss. (in part., sulla colpa, 283 s., 285 ss., 296 ss.). Il caso spagnolo si rivela notevole anche sotto altro profilo, benché ormai con rilievo storico. Difatti, il vecchio Código penal, oltre a non contemplare (come pure il c.p. tedesco fino al 1975) la ‘‘regola della previsione espressa’’ per la punibilità a titolo di colpa, conteneva nella parte speciale (art. 565) una clausola generale del seguente tenore: « Chiunque, per colpa temeraria, realizzerà un fatto che se sussistesse dolo costituirebbe delitto, sarà punito con una pena detentiva diminuita ». In proposito si poteva ritenere, quindi, che fosse stato accolto un sistema di « incriminazione aperta (numerus apertus) » delle ipotesi di delitto colposo, in contrapposizione al sistema della « tipicizzazione chiusa o eccezionale (numerus clausus) » accolto in altri ordinamenti (cfr. gli esempi cit. supra, nota 26): così, in senso critico rispetto alla vecchia soluzione, MIR PUIG, Derecho penal. PG, 5a ed., Barcelona, 1998, 269. La punibilità della colpa, insomma, era raggiunta mediante una tecnica legislativa che ricorreva a una clausola generale di estensione della punibilità destinata a combinarsi con le fattispecie dolose: ciò che poteva comportare, come è stato esattamente notato, la riduzione della colpa a un unico e indistinto crimen culpae, con conseguente violazione del principio di tassatività (cfr. QUINTERO OLIVARES, dir., Manual, cit., 314). Come già detto (nota 26), la questione risulta superata in virtù dell’art. 12 del nuovo c.p: « Le azioni od omissioni colpose saranno punite soltanto quando lo preveda espressamente la legge ». (35) Così FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, cit., 72. (36) Un dettagliato resoconto delle vicende riguardanti la rinuncia a una definizione di colpa, nel lungo dibattito sulla riforma del c.p. in Germania, è reperibile nei volumi delle Niederschriften über die Sitzungen der Großen Strafrechtskommission (Bonn, 1959). Nella nostra letteratura, anche per i necessari richiami bibliografici, si veda la accurata ricostruzione di FORTI, Colpa ed evento, cit., 74 ss. Peraltro, è forse interessante notare che (come ricorda sempre ID., op. ult. cit., 74), sulla questione di principio relativa alla opportunità di ricorrere alla definizione legale (del dolo e) della colpa, la Große Strafrechtskommission si era espressa a larga maggioranza in senso contrario; tuttavia, i pochi voti a favore erano provenuti dai ‘‘pratici’’ (magistrati, funzionari ministeriali e avvocati), mentre i commissari ‘‘accademici’’ (professori di diritto penale) si erano schierati in modo compatto per la soluzione contraria. Inoltre, è opportuno ricordare che, invece, sia l’Entwurf del 1960, sia quello del 1962 (§ 18) — sebbene entrambi fossero frutto dei risultati del dibattito espresso in seno alla stessa Große Strafrechtskommission — contenevano comunque « il testo di una definizione della colpa, nell’intento di non lasciare del tutto deluse le richieste provenienti dalla prassi ». E una definizione era pure contenuta nell’Alternativ-Entwurf (§ 18). Tuttavia, nel corso del successivo dibattito parlamentare, che sarebbe poi sfociato nel testo della vigente riforma dello StGB (1975), tornò a prevalere la linea della rinuncia ad ogni definizione del dolo e della colpa (così ancóra ID., op. ult. cit., 75 s.). Più in generale, sulla questione dell’opportunità dell’impiego di definizioni legali di concetti fondamentali (dolo, colpa, antigiuridicità, colpevolezza, tentativo, causalità, autorìa, compartecipazione, ecc.) nelle vicende progettuali che precedettero la riforma dello StGB, cfr. FRISCH, Le definizioni legali nel di-


— 510 — sul punto la concezione tradizionale risalente al c.p. imperiale del 1871 (Reichstrafgesetzbuch): « Compito del legislatore era, infatti secondo tale concezione, l’individuare la regolamentazione degli effetti giuridici per determinati fatti, ma non determinare legislativamente concetti fondamentali o interpretazioni di istituti; tali questioni concettuali erano lasciate alla dottrina e alla giurisprudenza » (37).

Non mancarono, peraltro, nella cultura penalistica tedesca, talune voci critiche nei riguardi della rinuncia a formulare una nozione definitoria legale (tra l’altro) della colpa, con riferimento, in particolare, all’esigenza della determinatezza (38). Tuttavia, si trattò di posizioni pure autorevoli, ma che rimarranno isolate ed espresse in maniera pressoché episodica. Si tenga anche presente che, curiosamente, a dispetto delle resistenze opposte dalla dottrina penalistica tedesca verso l’introduzione nel c.p. di una definizione generale di colpa, è poi del tutto ricorrente il ricorso — sia nella giurisprudenza che nella stessa letteratura germaniche — alla « formula » civilistica della Fahrlässigkeit contenuta nel § 276, comma 1, del Bürgerliches Gesetzbuch (39). Sono ben note le ragioni poste a fondamento dell’opinione ostile ad ritto penale tedesco, in CADOPPI, op. cit., 191 ss. (in part., 192, 214-216, 224, 231 s., 233236). Da tutto quanto sopra riportato, sebbene in maniera incompleta, trova sufficiente conferma, sul piano della ricostruzione storica, che il modello che abbiamo definito della ‘‘rinuncia alla definizione’’ è esso stesso, come si diceva, non proprio frutto di inerzia colposa del codificatore, ma esito consapevole di una scelta emersa a séguito di uno specifico dibattito. (37) Così FRISCH, Le definizioni, cit., 214. Per un accenno in tal senso, v. anche: ESER, Strafrecht, II, 3a ed., München, 1980, 19; HIRSCH, Bilanz der Strafrechtsreform, in GS für H. Kaufmann, Berlin, New York, 1986, 143; FREUND, Strafrecht. AT, Berlin, Heidelberg, 1998, 146. Cfr., inoltre, FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, 10 s., 65 s. Per una rassegna delle definizioni dottrinali di colpa nella letteratura tedesca (definizioni ex cathedra che dovrebbero sopperire al vuoto normativo in materia), riferimenti in JEa SCHECK, WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts. AT, 5 ed., Berlin, 1996, 563 e nota 5. (38) Cfr., ad es., sempre in relazione alla riforma del 1975, JESCHECK, Strafrechtsreform in Deutschland. AT, in SchwZSt (91), 1975, 23 (il quale qualificava come deplorevole tale rinuncia sul piano della certezza del diritto). In tono fortemente critico anche F.C. SCHROEDER, in Leipziger Kommentar, cit., Vor § 15, nn. marg. 2-4 (in relazione al serio contrasto con l’esigenza di determinatezza ai sensi dell’art. 103, comma 2, Grundgesetz, nonché del § 1 StGB: « Lo sviluppo dogmatico non può essere salvaguardato anche a discapito della certezza del diritto »). (39) Forse un segno di contraddizione che potrebbe suggerire una certa dipendenza (quasi un ritorno obbligato) del discorso teorico, ma anche delle argomentazioni della pratica, verso l’utilizzazione di ‘‘formule’’ legislative, ovunque rintracciabili nell’ordinamento. Il che è (proficuamente) possibile, peraltro, solo ove si postuli la coerenza intertestuale, e non solo co-testuale, di una definizione legale (per questa distinzione, cfr. BELVEDERE, Testi e discorso nel diritto privato, in Ars interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 1997, 151 s., che cita, quale es. di incoerenza intertestuale, la nozione penalistica di ‘‘possesso’’, che, come noto, non corrisponde alla definizione dell’art. 1140 c.c.).


— 511 — un largo impiego delle definizioni legali a proposito di taluni concetti fondamentali di parte generale, e tra questi della colpa (40). Anzitutto, la « pericolosità » — o, meglio, la « inopportunità » (41) — di tali definizioni viene motivata sulla base della considerazione, piuttosto consueta, secondo la quale « il codice non è un commentario né un manuale di diritto penale »; e, per conseguenza, il legislatore non avrebbe il compito di ‘‘fissare’’ per legge, cristallizzandole, determinate elaborazioni dogmatiche, inevitabilmente connesse alle definizioni di certi istituti (42). Ma non solo. Tanto meno sfugge, inoltre, a dimostrazione della estrema complesL’enunciato definitorio del § 276, comma 1, BGB è il seguente: « Fahrlässig handelt, wer die im Verkehr erforderliche Sorgfalt außer acht läßt » (agisce colposamente chiunque tralascia la diligenza richiesta nel traffico). Nella dottrina penalistica tedesca, cfr., a puro titolo esemplificativo: WELZEL, Fahrlässigkeit und Verkehrsdelikte. Zur Dogmatik der fahrlässigen Delikte, Karlsruhe, 1961, 15, ove la formula del § 276 BGB assurge a « quadro di riferimento » per completare la « tipicità lacunosa » dei reati colposi; JESCHECK, Struttura e trattamento della colpa nel mondo moderno, in Scuola pos., 1966, 371; BOCKELMANN, VOLK, Strafrecht. AT, 4a ed., München, 1987, 159; JESCHECK, WEIGEND, Lehrbuch, cit., 577 s. In modo meno netto, invece, ma senza negare un uso strumentale della formula civilistica per la comprensione del concetto penalistico di colpa: KÜHL, Strafrecht. AT, 3a ed., München, 2000, 592; FREUND, Strafrecht. AT, cit., 146. Cfr., inoltre, per un’ampia considerazione (dal punto di vista penalistico) del significato civilistico della ‘‘diligenza richiesta nel traffico’’, KAMINSKI, Der objektive Maßstab im Tatbestand des Fahrlässigkeitsdelikts, Berlin, 1992, 105 ss. Per gli indispensabili riferimenti alla letteratura civilistica tedesca (oltre alla notevole e sempre citata monografia di DEUTSCH, Fahrlässigkeit und erforderliche Sorgfalt. Eine privatrechtliche Untersuchung, Köln, Berlin, Bonn, München, 1963, in part. 22 ss.), si veda, per un resoconto più aggiornato, HANAU, in REBMANN, SÄCKER (cur.), Münchener Kommentar zum BGB, II, Schuldrecht. AT, 3a ed., München, 1994, § 276, n. marg. 74 ss. (40) Si tratta, ovviamente, di una ostilità che travalica i confini tedeschi, e che ritroviamo, con varietà di accenti, anche presso le dottrine penalistiche di Paesi (Italia inclusa) ove vigono codificazioni che fanno ricorso alla definizione di colpa, di dolo, ecc. (41) Per una condivisibile e misurata svalutazione dei rischi connessi all’attività definitoria, e per la riduzione della polemica sulle definizioni legali ad una questione di ‘‘opportunità’’ (anziché di ‘‘pericolosità’’), v. BELVEDERE, Note in tema di definizioni legislative penalistiche, in CADOPPI, op. cit., 121. In generale, sulle motivazioni della avversione dottrinale per le definizioni legali, cfr. BELVEDERE, voce Definizioni, cit., 154. (42) Per un icastico ‘‘compendio’’ delle ragioni dell’avversione dei penalisti tedeschi all’intervento definitorio, espresso proprio in occasione della riforma dello StGB del 1975, valga per tutti il richiamo a ROXIN, Unterlassung, Vorsatz und Fahrlässigkeit, Versuch und Teilnahme, in ROXIN, STREE, ZIPF, JUNG, Einführung in das neue Strafrecht, 2a ed., München, 1975, 10: « Denn die definitorische Abklärung allgemeiner Verbrechensmerkmale ist Aufgabe nicht des Gesetzgebers, sondern der Wissenschaft, und zwar schon deshalb, weil kurze Gesetzesparagraphen der Kompliziertheit der Materie nicht gerecht werden können und aller Erfahrung nach weit mehr Probleme aufwerfen als lösen ». Al contrario, per una argomentata difesa dell’opportunità di una definizione di colpa, si rileggano, nella nostra letteratura, le chiare considerazioni di M. GALLO, voce Colpa, cit., 625 s.: « un tale rimprovero [id est: quello di « dottrinarismo fuori posto »] deve ritenersi giustificato soltanto quando tragga spunto da quelle definizioni con le quali il legislatore attribuisce una qualificazione dommatica alla disciplina dettata per determinate materie [...]. /Ben altro discorso va fatto, invece, per le definizioni che sintetizzano un tipo di disciplina e, soprattutto, per quelle che enunciano gli elementi costitutivi di una fattispecie. /Qui ci troviamo di fronte alla determina-


— 512 — sità del tema, la valenza istituzionale e politica, se non ideologica, di esso, dovendosi ammettere che, specialmente rispetto alle definizioni di concetti fondamentali di parte generale, l’alternativa tra definizione legislativa ed elaborazione dottrinale e giurisprudenziale è una « scelta che incide direttamente nell’assetto tra i poteri dello Stato e che quindi trascende l’ambito del diritto penale per coinvolgere l’equilibrio istituzionale dell’ordinamento » (43). Ancóra: la medesima alternativa (cioè quella tra definizione legale ed esclusiva elaborazione giurisprudenziale e dottrinale) si lascia apprezzare, su un piano diverso, in termini di rapporto dialettico tra rispetto dei princìpi (determinatezza, frammentarietà, certezza), da un lato, e rigidità del sistema, dall’altro, paventando quindi il rischio che certe definizioni possano sortire sul sistema medesimo un esiziale effetto necrotizzante (44). Peraltro, sembrerebbe potersi sdrammatizzare, almeno in parte, anche l’effetto di preteso irrigidimento del sistema apportato dalle definizioni di istituti generali. Invero, nella realtà delle codificazioni contemporanee, tali definizioni (e così è anche per la nozione di colpa) sono spesso formulate mediante l’impiego di enunciati che esprimono proposizioni dotate di un certo coefficiente di indeterminatezza, e che consentono quindi quella elasticità che si temeva perduta. Occorre ammettere che, ove le definizioni legali assomiglino a clausole generali (vedi « negligenza, imprudenza, imperizia »), il rischio di una fossilizzazione delle categorie è ragionevolmente scongiurato attraverso una necessaria complementarità tra legge ed elaborazione giurisprudenziale e dottrinale (45). Semmai, fatta questa considerazione, rimarrebbe alla fine da interrogarsi, piuttosto che sulla presunta ‘‘pericolosità’’ delle definizioni legali, sulla residua ‘‘utilità’’ (rectius: ‘‘opportunità’’) di esse, atteso che quelle espresse mezione della struttura di dati il cui contenuto può variare, e varia, nel corso del tempo e da ordinamento a ordinamento. /La puntualizzazione legislativa appare, quindi, non soltanto utile ma indispensabile » (considerazioni ora ribadite in ID., Appunti di diritto penale, vol. II, Il reato, pt. II, L’elemento psicologico, Torino, 2001, 137 s.). (43) Così STORTONI, Relazione di sintesi, in CADOPPI, op. cit., 501. Cfr. anche le relazioni di BRICOLA, Le definizioni, cit., ivi, 177; e di F. PALAZZO, Sulle funzioni delle norme definitorie, ivi, 382, 385 ss. Insiste sulle implicazioni ideologiche sottese alla polemica sulle definizioni legali anche FORTI, Colpa ed evento, cit., 83 ss. (con altri richiami). Più in generale, su questi profili, cfr. BELVEDERE, JORI, LANTELLA, Definizioni giuridiche e ideologie, Milano, 1979, 189 ss., 429 ss., 516 ss. (44) Sul rapporto ‘‘certezza’’ versus ‘‘rigidità’’ del sistema, e sulle peculiarità che il problema delle definizioni acquista in àmbito penale, si vedano le relazioni di: BRICOLA, Le definizioni, cit., 177 ss.; di F. PALAZZO, Sulle funzioni, cit., 382, 384 s.; e di Al. MELCHIONDA, Definizioni normative e riforma del codice penale, 394 ss., 411 ss., raccolte in CADOPPI, Omnis definitio, cit. Sul punto, cfr. altresì FRISCH, Le definizioni, cit., ivi, 192 ss., 224 ss. Può anche registrarsi, sin da ora, la presa di posizione favorevole, in generale, ad un utilizzo di formule definitorie, ove necessarie a garantire maggior ‘‘certezza’’, espressa nei più recenti progetti di riforma del c.p. it. (v. infra, § 5). (45) V., sul punto, ORRÙ, Le definizioni del legislatore e le ridefinizioni della giurisprudenza, in CADOPPI, op. cit., 150-152, 159 ss.


— 513 — diante clausole generali, essendo ontologicamente indeterminate, non sarebbero più in grado — contribuendo a ridurre la vaghezza del discorso giuridico — di garantire quella esigenza di certezza generalmente posta alla base della opportunità e della legittimazione del loro impiego nei codici (46). Infine, sempre secondo la prospettiva contraria alle definizioni di concetti fondamentali della parte generale, si ricorda che tale tipo di definizioni neppure potrebbe trovare giustificazione nell’interesse del cittadino: « il cittadino è ben poco aiutato da una definizione generale di colpa. Piuttosto gli dovrebbe essere detto che cosa egli debba fare o non fare in contesti concreti, affinché il suo comportamento non venga considerato colposo » (47).

Quest’ultima osservazione si rivela di delicatezza estrema, poiché ci riporta alle fondamenta del problema della colpa, tanto più dal punto di vista ormai prevalente della concezione normativa (48); vale a dire, proprio alla questione della individuazione della particolare regola di comportamento a contenuto preventivo-cautelare che il cittadino deve osservare nel caso concreto; e, altresì, alla questione del momento iniziale di potenziale fruizione, da parte del medesimo, della conoscibilità di tale regola. Trattasi sicuramente di questioni più decisive rispetto a quella riguardante l’opportunità o meno di una definizione generale della colpa. Nondimeno — pur dovendosi convenire sul fatto che al cittadino interesserebbe sapere piuttosto quale regola di condotta debba seguire per non incorrere nella causazione colpevole dell’evento — tale obiezione prova troppo, e non vale da sola a far ritenere che una definizione di colpa non sia opportuna o sia addirittura dannosa, perché comunque inidonea a indicare il modello di comportamento da adottare al fine di scongiurare un pericolo. Ad onta dell’evidenza dell’assunto, si ribadisce che non sono queste le prestazioni richieste a tale definizione: il codificatore, ma anche l’interprete o il cittadino, possono realisticamente attendersi da essa soltanto risultati assai più modesti. In breve. Dalla obiezione sopra riportata discende soltanto l’ammissione scontata per la quale una definizione legale di colpa non può mai ri(46) Sulla funzione delle definizioni giuridiche, cfr., da un punto di vista linguistico, i cenni contenuti nel recentissimo saggio di MORTARA GARAVELLI, Le parole e la giustizia, cit., 11 ss. (anche per ulteriori informazioni bibliografiche); nonché, BELVEDERE, voce Linguaggio giuridico, in Dig. disc. priv. — Sez. civ., Agg., 2000, 562, nota 55. (47) FRISCH, Le definizioni, cit., 234. Tale asserto interferisce inevitabilmente con la controversa questione del destinatario (o dei destinatari) del codice e, più in generale, delle norme. Da ultimo, in riferimento alla concretizzazione della colpa, cfr. IDA, Inhalt und Funktion der Norm beim fahrlässigen Erfolgsdelikt, in FS für H.J. Hirsch, Berlin, New York, 1999, 225 ss. (48) Impossibili, in questa sede, riferimenti dettagliati sulle implicazioni del processo di normativizzazione della colpa. Per tutti, GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 2 ss., 73 ss.


— 514 — sultare risolutiva al fine (della definitiva fissazione dei presupposti della responsabilità colposa e) dell’individuazione della regola di condotta a contenuto preventivo. Conclusione che era facile supporre in anticipo, certo; ma che, ciò nonostante, non esclude la eventualità che una determinata definizione generale, pur senza essere decisiva, possa, in qualche modo, influire sulla concretizzazione della colpa: ad es., contribuendo ad agevolare il procedimento di individuazione (da parte del giudice o del cittadino destinatario del precetto penalmente sanzionato) delle norme precauzionali doverose nel caso concreto. 4. C) Il modello della definizione ‘‘unitaria’’ ovvero ‘‘di parte generale’’ (Italia). — Come più volte ribadito, risulta di segno opposto — al confronto con la soluzione adottata, per es., tradizionalmente, in Germania e Spagna (49) — la scelta operata da altri legislatori europei contemporanei, oltre che dagli artefici del c.p. italiano del 1930, che si sono invece orientati nel senso della consacrazione positiva della nozione di colpa in una formula definitoria contenuta nella parte generale (50). L’opzione definitoria fu dunque mantenuta, in Italia, anche dal codificatore del Novecento, ma utilizzandone la variante che scolpisce la nozione di colpa, una volta per tutte, già nella parte generale del c.p. La di(49) Cfr. supra, § 3 e nota 34. (50) La notevole vocazione definitoria del c.p. vigente era segnalata da DELITALA, Le dottrine generali del reato nel progetto Rocco, (1927), ora in ID., Diritto penale. Raccolta degli scritti, I, Milano, 1976, 279. Peraltro, tale propensione di tecnica normativa concorre in modo decisivo « all’incremento numerico delle disposizioni di parte generale », al confronto con il c.p. Zanardelli: cfr. DOLCINI, Codice penale, in MARINUCCI, DOLCINI, Studi di diritto penale, Milano, 1991, 21; nonché: PEDRAZZI, Probleme der Strafrechtsreform in Italien, in ZStW, (67), 1955, 95 s.; NUVOLONE, La parte generale del codice Rocco dopo cinquant’anni, in Quest. crim., 1981, 44; G. FIANDACA, Il codice Rocco e la continuità istituzionale in materia penale, ivi, 71. Non essendo possibile una disamina comparativa analitica sul punto, ci si limiterà ai seguenti rapidi ragguagli. Tra le codificazioni europee contemporanee, definiscono la colpa (nelle rispettive parti generali e mediante formulazioni anche notevolmente differenti), ad es.: l’art. 15 c.p. portoghese del 1995 (sulla definizione pressoché identica contenuta nell’art. 15 c.p. portoghese del 1982, v. DE FARIA COSTA, Le definizioni, cit., 257 ss.); l’art. 18 c.p. sloveno del 1995; l’art. 45 c.p. croato del 1997; l’art. 19 c.p. rumeno; l’art. 26 c.p. della Federazione russa del 1996; l’art. 9, § 2, c.p. polacco del 1997; l’art. 28 c.p. greco del 1950; il § 6 c.p. austriaco del 1975 (sul § 6, v., in senso parzialmente critico, BURGASTALLER, Das Fahrlässigkeitsdelikt im Strafrecht, Wien, 1974, 18 ss.; ID., in FOREGGER, NOWAKOSKI, Wiener Kommentar zum StGB, Wien, 1979, 2. Lfg., § 6, n. marg. 11: nel senso che la definizione si rivela « incompleta », laddove non tiene conto che, secondo la moderna concezione, la colpa non è una mera forma di colpevolezza; cfr. anche FORTI, Colpa ed evento, cit., 94 ss.); l’art. 18, comma 3, c.p. svizzero del 1937 (sul quale, nella nostra letteratura, v. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, 165 s., che evidenzia il carattere « essenzialmente psicologico » di questa definizione); nonché, infine, l’art. 121-3 c.p. francese del 1994, in séguito alle modifiche apportate dapprima con la legge n. 96-393 e, da ultimo, con la legge n. 2000-647 (supra, § 2.2).


— 515 — versa collocazione risponde, ovviamente, anche a comprensibili ragioni tecniche di economia normativa, poiché consente di evitare la ripetizione delle caratteristiche della colpa nelle singole incriminazioni contenute nella parte speciale del codice e — in virtù dell’estensione prevista dall’art. 16 c.p. — in quelle contenute nelle leggi complementari (51). Pur senza sopravvalutare il dato concettuale enucleato nella definizione legale, ma nella consapevolezza della sua importanza sistematica ed ermeneutica, si può pertanto condividere l’opinione secondo la quale: « La chiave di volta normativa per la ricostruzione dei presupposti dell’imputazione colposa è naturalmente costituita dall’art. 43 c.p., ineludibile punto di partenza e di approdo di qualsiasi indagine dogmatica » (52).

Come altri ha posto in evidenza — sulla scorta delle acquisizioni della analisi del linguaggio (applicate alla definizione in esame) — la nozione di « delitto colposo » formulata nell’art. 43 si articola in due parti distinte: prescindendo tuttavia dall’enunciato intensionale negativo della ‘‘non volontà’’ (la colpa come non-dolo), la nostra attenzione deve riguardare taluni profili dell’enunciato di natura estensionale contenuto nella definizione medesima: l’evento (non voluto) « si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline » (53). In particolare, essendo prematuro ogni ulteriore approfondimento, in questa sede occorre quantomeno verificare l’opportunità o l’utilità di tale definizione legale, in relazione alle possibilità da essa offerte all’interprete di ‘‘concretizzare’’ gli astratti paradigmi normativi del dovere cautelare. Orbene — e il giudizio riguarda la complessiva formula definitoria adottata a proposito del delitto colposo dal legislatore — la nostra letteratura ne ha solitamente rilevato la sostanziale povertà informativa (54). L’art. 43 avrebbe in effetti disatteso il princi(51) Si noti peraltro che, sul piano linguistico, l’art. 16 c.p. vale a conferire all’enunciato definitorio espresso nell’art. 43 c.p. una sicura estensione intertestuale, poiché extracodicistica (cfr. supra, nota 39). (52) FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, cit., 71. (53) Per maggiori ragguagli, e per una fine disamina degli aspetti teorici connessi alla definizione del reato colposo, si veda FORTI, Colpa ed evento, cit., 104 ss. (spec., 115 ss.). In generale, sulle possibili classificazioni delle definizioni legali, assumendo quale punto di partenza la teoria di Carnap, cfr. SCARPELLI, La definizione nel diritto, in ID. (cur.), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976, 183 ss.; ulteriormente, BELVEDERE, voce Definizioni, cit., 149 ss. Per una sintesi efficace sull’uso giuridico-penale delle « definizioni nominali », HRUSCHKA, Strafrecht nach logisch-analytischer Methode, Berlin, New York, 1983, 398 ss. (54) Cfr., tra altri: MARINUCCI, La colpa per inosservanza, cit., 118 ss., 170 s.; BRICOLA, Le definizioni, cit., 182 s.; FORTI, Colpa ed evento, cit., 119 ss.; U. PIOLETTI, Ridefinire colpa e dolo?, in CADOPPI, op. cit., 467. V., inoltre (per una considerazione espressa al di fuori del nostro contesto nazionale), JESCHECK, WEIGEND, Lehrbuch, cit., 575, nota 63, ove si rileva che l’art. 43 c.p. it. si limita a nominare la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia, « senza tuttavia dare una definizione della colpa ».


— 516 — pale compito attribuito a una definizione in un sistema di norme: quello di assicurare precisione e certezza (le maggiori possibili), quindi di rendere direttamente riferibili al segno linguistico dell’enunciato normativo determinate realtà, riducendo la vaghezza del discorso giuridico. Tale giudizio di segno sostanzialmente negativo, non può essere pienamente condiviso: come subito si vedrà, una volta posto in luce il carattere sistematico di questa definizione, un ruolo in qualche misura significativo pare debba esserle riconosciuto (nonostante i difetti e la incompletezza che la connotano) sul piano della ricostruzione ermeneutica della fattispecie. Nel rilevare la relatività della distinzione fra le qualifiche normative di fonte sociale (negligenza, imprudenza e imperizia), Marcello Gallo invitava a non sopravvalutare la stessa, per evitare che si possa essere così indotti a ritenere: « che si siano sufficientemente precisati gli estremi di un comportamento imputato a titolo di colpa col definirlo negligente, imprudente, ecc.; mentre ciò che conta è mettere in rilievo quale sia la regola di condotta, determinata ed individua, che il soggetto abbia trasgredito » (55).

Certo: lo si era anticipato poc’anzi, non è questo che ci si può attendere in generale da una definizione legale della colpa, e in particolare dalla definizione dell’art. 43 c.p. (56). In effetti, come esattamente notato, la definizione (o pseudo-definizione) contenuta nel codice italiano, anziché dire all’interprete « che cosa è la colpa », dovrebbe semplicemente indurre l’interprete medesimo ad individuare « le regole d’uso del termine », cioè « le condizioni alle quali sono veri gli enunciati nei quali il termine ricorre ». Si tratta, dunque, di un termine logico o sistematico, poiché, questa definizione di colpa: « [direttamente] non mira a ‘‘designare nessun fatto, né qualità, relazione, evento o processo qualsivoglia, ma esclusivamente la correlazione sistematica tra una pluralità disgiuntiva di fatti condizionanti e una pluralità cumulativa di conseguenze giuridiche’’, sicché essa propriamente ‘‘non sta al posto di nulla’’, nel senso che alla domanda che cosa essa sia non è possibile rispondere con una ‘‘definizione per sostituzione’’ ». « [Affermare questo] non è altro in fondo che ribadire il suo carattere ‘‘normativo’’ e l’inutilità di una ricerca di suoi possibili sostrati ontologici i.e. psicologici » (57). (55) M. GALLO, voce Colpa, cit., 641 (corsivo aggiunto). (56) Cfr. supra, § 3. (57) Così FORTI, Colpa ed evento, cit., 131 s., 126 ss., 132 ss. (corsivi e interpolazioni nostri), mutuando il concetto di ‘‘definizione sistematica’’ dai teorici del diritto: cfr. in part. ROSS, La definizione nel linguaggio giuridico, in SCARPELLI (cur.), Diritto e analisi del linguaggio, cit., 208. Già in precedenza, seppure con terminologia diversa, M. GALLO (voce Colpa, cit., 625) — partendo dalla constatazione circa la « curiosa concezione che delle definizioni legali i giuristi assai spesso mostrano di avere » — aveva lucidamente osservato: « la determinazione della struttura di un qualunque dato costitutivo di fattispecie niente altro


— 517 — Pertanto, trattandosi di una definizione di carattere sistematico, la nozione di delitto colposo (e in definitiva di colpa) (58) funge da elemento normativo delle singole fattispecie di reato che contengono un espresso richiamo a tale criterio di imputazione (59). Il carattere sistematico della (definizione di) colpa è qui inteso nel senso di rappresentare (la definizione dall’esterno di) un elemento costitutivo della fattispecie: in particolare, un elemento costitutivo riconducibile alla categoria dei normative Merkmale (60). Il rinvio alla definizione di colpa deve però essere inevitapuò significare se non la individuazione delle regole che definiscono operativamente tale dato, che indicano, cioè, il senso da attribuirsi alle proposizioni in cui esso si riscontra: il che, appunto, vuole fare il legislatore elencando i presupposti in presenza dei quali è configurabile un delitto colposo » (così, da ultimo, anche in ID., Appunti, cit., 135). Considerazioni in parte analoghe si leggono, ma questa volta a proposito del concetto (dottrinale) di ‘‘responsabilità’’, in ROSS, Colpa, responsabilità e pena, Milano, 1976 (tr. it. di Skyld, answar og straf, Kobenhaven, 1970), 29 ss., ove si rileva che: « Esaminare le condizioni della responsabilità non equivale ad analizzare il concetto di responsabilità [...] Esiste una considerevole letteratura sul concetto di responsabilità in senso giuridico e morale. Questa letteratura si occupa per lo più delle condizioni necessarie perché una persona possa essere ritenuta responsabile. Pare chiaro che la condizione fondamentale è che si ritenga essere stata violata una norma »; e l’A. aggiunge (p. 33), anche se in senso critico rispetto a questa tendenza propria della letteratura filosofica in tema di responsabilità: « Si crede o, più o meno, ci si illude di analizzare il concetto di responsabilità. Ma quel che si fa, è in realtà un esame di una condizione fondamentale della responsabilità, cioè l’aver agito ‘‘di propria volontà’’. Ci si occupa non del senso del concetto di responsabilità, sì dei criteri (o di uno dei criteri), in base ai quali si possa dire che la responsabilità esiste » (corsivi originali). (58) Che l’art. 43 c.p. « contenga il nucleo di una vera e propria definizione della colpa », e non soltanto del delitto colposo, è autorevolmente sostenuto, ad es., da M. GALLO, voce Colpa, cit., 625. (59) Il tema richiederebbe un maggiore approfondimento; comunque, per una prima puntualizzazione, si vedano sin d’ora, nella nostra dottrina, relativamente alla colpa come ‘‘elemento’’ (o ‘‘concetto’’) normativo, nonostante l’inquadramento codicistico come « elemento psicologico »: M. GALLO, voce Colpa, cit., 637 (ove, tuttavia, non si adopera espressamente la locuzione, ma si parla, come noto, di elemento oggettivo dell’imputazione soggettiva); ID., Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951, 60 s.; PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 259; MARINUCCI, Colpa per inosservanza, cit., 113 s., 166 ss.; ID., Il reato come ‘azione’, cit., 100, 112-121; SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, 130 s., 149 s.; RONCO, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979, 150 s.; FORTI, Colpa ed evento, cit., 125 ss.; C. FIORE, Diritto penale. PG, I, Torino, 1993, 245 s.; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 169 s., 251 ss. (il quale scrive di « unità linguistiche qualificate »); DONINI, Teoria del reato, cit., 222, 228; M. MANTOVANI, Colpa e preterintenzione, cit., 199 s. Più in generale — oltre ai classici della letteratura tedesca: M.E. MAYER, Der A. T. des deutschen Strafrechts. Lehrbuch, Heidelberg, 1915, 182 ss.; e K. ENGISCH, Die normativen Tatbestandselemente im Strafrecht, in FS für E. Mezger, München, Berlin, 1954, 127 ss. — cfr. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 214 ss. (60) Beninteso, il suddetto carattere ‘‘sistematico’’ della (nozione di) colpa, se da un lato implica la sua funzione ‘‘strutturale’’ di elemento normativo del Tatbestand, d’altro canto, su un piano diverso (quello della sistematica dei ‘‘criteri di imputazione’’) postula la sua necessaria diversità rispetto al dolo, alla preterintenzione, alla responsabilità oggettiva.


— 518 — bilmente seguìto da un ulteriore rinvio di ‘‘secondo grado’’, necessario per riempire di contenuto la fattispecie, secondo una sequenza di ricostruzione ermeneutica progressiva del precetto suscettibile di essere rappresentata nel diagramma: (a) è vietato causare per colpa l’evento x; (b) è vietato causare l’evento x per negligenza, imprudenza o imperizia o per inosservanza di norme formalizzate; cioè: (c) violando la regola cautelare y (modello comportamentale doveroso) (61). La formulazione contenuta nell’art. 43 c.p., si atteggia, in definitiva, a clausola generale (62), e quindi di per sé (si direbbe: ontologicamente) indeterminata, ma determinabile esclusivamente mediante la insostituibile attività di ‘‘concretizzazione’’ dell’interprete, necessariamente coinvolto nella ricostruzione del singolo precetto al completo della regola di condotta a contenuto preventivo (63). Qui, come altrove, i princìpi (ad es., la tassatività della fattispecie penale, ma anche la stessa irretroattività) — o meglio: la ‘‘realizzazione’’ di essi all’interno di un sistema di norme giuridiche — scontano l’inevitabile accomodamento alla realtà (64). È pur vero che, accanto a questo carattere sistematico, la attuale definizione generale di colpa denuncia diversi inconve(61) Ricorrendo alla proposizione condizionale « se A, allora B », il carattere ‘‘sistematico’’, nel senso sopra specificato, della (definizione di) colpa può essere rappresentato dall’enunciato ipotetico « se A (nelle condizioni di C), allora B »: dove la pròtasi circoscrive i fatti condizionanti a quelli che si verificano secondo i presupposti stabiliti da C, che, nel nostro caso, definisce la colpa. (62) Per la riconducibilità della condotta colposa alla tipologia delle Generalklauseln (essendo tipizzato normalmente soltanto l’evento), cfr., ad es., in maniera esplicita: DUBS, Probleme der Fahrlaessigkeit, (Habilitationsvorlesung), s.l. (ma: Basel), 1959, 16 s. Il concetto di Generalklausel è ripreso, ancóra nella letteratura elvetica, anche da TRECHSEL, NOLL, Schweizerisches Strafrecht. AT, I, 4a ed., Zürich, 1994, 241, ove viene indicato come criterio ‘‘residuale’’ per la individuazione della norma di diligenza violata. Più in generale, sulla funzione dinamica di mediazione tra realtà storica e legislazione, svolta dalle clausole generali, v.: ORRÙ, Le definizioni, cit., 150-152, 159 ss.; BELVEDERE, voce Linguaggio giuridico, cit., 561 s. (e nota 54). Sulla problematica integrazione delle clausole generali contenute negli artt. 40 cpv., 56 e 110 c.p. con i principi costituzionali in materia penale, cfr. RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., 41 ss. (63) Sui rapporti tra attività ermeneutica di concretizzazione della legge e certezza del diritto, cfr. le celebri pagine di H.G. GADAMER, Verità e metodo, (tr. it. di G. Vattimo di: WAHRHEIT UND METHODE, Tübingen, 1986), Milano, 2000, 671 ss. (in part., 681). Lo stesso filosofo tedesco cita, peraltro, il fondamentale studio di ENGISCH, Die Idee der Konkretisierung in Recht und Rechtswissenschaft unserer Zeit (2a ed., Heidelberg, 1968). Cfr., inoltre, di recente (anche per ulteriori riferimenti), le considerazioni di FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in A. PALAZZO (cur.), L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, Napoli, 2001, 299 ss., 323 ss. (64) In generale, per un quadro istruttivo sulla relatività e gradualità di realizzazione dei princìpi nell’ordinamento, anche di quelli a contenuto dimostrativo o assiomatico, e dunque aventi sicura cogenza normativa, v. DONINI, Teoria del reato, cit., 25 ss. Il rapporto insanabilmente dialettico tra princìpi illuministico-liberali — la legalità, ma anche il suo ‘‘precipitato’’ sul piano istituzionale: la divisione dei poteri — e interpretazione (come attività concretizzatrice: perciò, almeno in una certa misura, creatrice) non necessita di alcun tipo di dimostrazione, trattandosi di una di quelle ‘‘contraddizioni’’ immanenti al fe-


— 519 — nienti, o comunque non si è mostrata capace di correggere talune note distorsioni affioranti nella prassi applicativa. Evidentemente, il legislatore non ha saputo imprimere un autentico contenuto ‘‘di disciplina’’ a tale definizione generale, idoneo, appunto, ad imporsi rispetto a prassi devianti (65). Non di meno, lo scarso peso ‘‘prasseologico’’, in tal senso, della definizione contenuta nell’art. 43 c.p. non significa necessariamente completa inutilità della medesima: tale disposizione, come sua prestazione massima, fornisce al giudice e al cittadino-destinatario (non la norma di condotta a contenuto preventivo, ma), nel minimalismo semantico dei suoi enunciati, taluni parametri per l’individuazione della regola di comportamento doveroso, rinviando a fonti di carattere ‘‘sociale’’ (negligenza, ecc.) e ‘‘formali’’ (inosservanza di leggi, ecc.), contribuendo a ridurre in parte quel vuoto di tipicità che connota le fattispecie colpose (66). nomeno giuridico nel suo complesso. D’altronde, la cifra e il peso argomentativo di tale ineliminabile dialettica assumono, in diritto penale, le proporzioni che il pensiero giuridico ha delineato nel corso almeno degli ultimi tre secoli. Va anche segnalato che le preoccupate denunce circa la fragilità degli argini frapposti, dal diritto penale di derivazione illuministica e liberale, rispetto ai fenomeni di attività creatrice dell’interprete, soltanto raramente (e, comunque, in verità, mai in maniera troppo decisa) hanno interessato i meccanismi ermeneutici relativi alla colpa. Eppure, tale elemento normativo si colloca nelle diverse fattispecie incriminatrici occupando uno spazio di tale ampiezza e profondità da suscitare l’impressione (quasi un horror vacui) di trovarsi di fronte a norme penali (almeno parzialmente) in bianco. (65) Cfr. DONINI, Selettività e paradigmi, cit., 436 s. (e in nota). Secondo l’A., il pluralismo strutturale (del contenuto di offensività delle tipologie) degli illeciti, accanto al già ricordato pluralismo delle forme di colpa (supra, § 2.3), imporrebbe cautela rispetto all’uso di definizioni ‘‘generali’’ unitarie di tipo meramente ‘‘classificatorio’’, sia verso quelle della scienza penalistica, sia anche verso quelle codicistiche. « Diverso, s’intende, è il discorso », sostiene ancóra Donini, « in caso di definizioni legislative ‘‘di disciplina’’ (se ed in quanto siano ancorate ad una corretta comprensione della varietà dei fenomeni regolati) ». Le esemplificazioni ivi offerte riguardano il dolo (in part., l’errore e il dolo eventuale). Il tema dovrà essere ripreso, ed esteso ad esemplificazioni riguardanti definizioni di disciplina relative alla colpa, in relazione alle prospettive de lege ferenda affacciate dai progetti di riforma del c.p. (infra, § 5). Più in generale, sull’impraticabilità di definizioni generali ed unitarie rispetto alla dimensione (attuale) dei concetti di dolo e di colpa, v. DONINI, voce Teoria del reato, cit., 290 (e, per riferimenti, nota 319): « della tipicità soggettiva non sono possibili convincenti definizioni ‘‘a dizionario’’ (con identificazione netta di una nozione davvero generale unificante tutte le c.d. specie), ma soltanto definizioni ‘‘a enciclopedia’’ », che sappiano mettere in luce, o non lasciare completamente nell’ombra, le differenti forme ipotizzabili. Come già ricordato, alle « definizioni che sintetizzano un tipo di disciplina e [...] che enunciano gli elementi costitutivi di una fattispecie » faceva cenno, con riferimento alla polemica sulle definizioni legali, M. GALLO, voce Colpa, cit., 625 s. (66) In senso recisamente contrario, U. PIOLETTI, Ridefinire colpa e dolo?, cit., 467487: « Quella contenuta nell’art. 43, terzo comma, è certamente una delle più complesse e tormentate disposizioni definitorie contenute nella parte generale del vigente c.p. e, probabilmente, anche una delle più inutili. L’effetto dispositivo del dettato legislativo sembra essere stato in questo caso inversamente proporzionale alla sua prolissità descrittiva » (p. 468). L’A., peraltro, ritiene non auspicabile una definizione di colpa anche in prospettiva di riforma del codice (Ibidem, 487). Cfr. anche ID., Contributo allo studio del delitto colposo,


— 520 — Peraltro, dal punto di vista dogmatico (e per fugare almeno in parte i timori e i sospetti della scienza penalistica nei confronti delle definizioni Padova, 1990, 14 s. (e nota 7 s.), ove tale scetticismo viene collegato alla « constatazione, rivolta al lungo termine, dell’esaurimento del mito della codificazione con la sua idea di chiusura e completezza e con la sua — autoritaria — pretesa di sostituirsi alla dinamica della produzione normativa che si opera attraverso la dialettica della cultura giuridica che viene via via cristallizzandosi, ma al contempo superandosi, nei successivi sistemi dogmatici ». Benché si debba convenire sullo scetticismo ormai diffuso nei confronti della vana pretesa di ‘‘completezza’’ dell’opera di codificazione penale — rilievo che, tuttavia, potrebbe estendersi anche ai sistemi dogmatici —, non si può fare a meno di notare, altresì, che queste affermazioni, in un certo senso, risultano, nel breve volgere di un decennio, non del tutto attuali. L’epoca presente ci riserva, infatti, una ripresa piuttosto decisa (se non un’autentica frenesia progettuale) dell’opera di ricodificazione penale a tutti i livelli: sia nell’àmbito nazionale, ove la stagione dei tentativi di riforma pare essersi definitivamente ‘‘riaperta’’, al di là degli esiti raggiunti, a far data dai primi anni Novanta (v., per tutti, VASSALLI, Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in AA.VV., Prospettive di riforma del c. p. e valori costituzionali, Milano, 1996, 5 ss.; INSOLERA, Progetti di riforma del codice Rocco: il volto attuale del sistema penale, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, I, 2a ed., Torino, 2000, 31 ss.); sia nel contesto degli ordinamenti del continente europeo (si pensi alle recenti riforme penali — realizzate con l’emanazione di nuovi codici penali — in Spagna, Portogallo, Francia, Croazia, Slovenia, Federazione russa, ecc.); sia, infine, sul piano sovranazionale o comunitario, ove si susseguono gli sforzi tesi ad una armonizzazione dei sistemi punitivi dei Paesi membri dell’U.E., con interventi settoriali, ma che non di meno, dal punto di vista della tecnica normativa, non sembrano voler rinunciare né ad una parte generale, né allo strumento definitorio: ci si riferisce, in particolare, al c.d. Corpus Juris (cfr. i contributi raccolti in: PICOTTI, cur., Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, Milano, 1999; GRASSO, cur., Prospettive di un diritto penale europeo, Milano, 1998; DELMAS-MARTY, VERVAELE, cur., The implementation of the Corpus Iuris in the Member States, Groningen, Oxford, 2000). Inoltre, in questo contesto, si segnala, tra le ultime iniziative, anche il documento, elaborato da diversi studiosi europei coordinati dal prof. Tiedemann, intitolato: Vorschläge zur Harmonisierung des Wirtschaftsstrafrechts in der Europäischen Union — ‘‘Europa-Delikte’’ (in corso di pubbl.); tale proposta contiene, nella sua parte generale, definizioni di Fahrlässigkeit e di Leichtfertigkeit. Più in generale, per una recentissima riconsiderazione di questa « utopia necessaria », v. il saggio di PALIERO, La fabbrica del Golem, in questa Rivista, 2000, 466 ss. Peraltro, la europeizzazione giuridica nel senso della armonizzazione implica problematiche linguistiche, specialmente in relazione alla traduzione nei vari idiomi nazionali di categorie talvolta peculiari: cfr., nella versione inglese del c.d. Corpus Juris (art. 9: Mens rea) il problematico tentativo di tradurre il concetto continentale di ‘‘colpa grave’’ (che, tradizionalmente, riguarda il grado della colpa) ricorrendo al ben distinto termine anglosassone di ‘‘Recklessness’’ (un criterio intermedio di imputazione soggettiva: per una considerazione comparata e in prospettiva di armonizzazione europea, CURI, Tra forme intermedie di dolo e colpa, in IP, 2001, 493 ss.). Evidentemente, l’utopia della ricerca di una lingua perfetta come rimedio alla confusio linguarum (una delle sfide della cultura europea) difficilmente trova soluzioni — nel caso di quel linguaggio settoriale che è il diritto — mediante l’utilizzo di una lingua veicolare (ad es., l’inglese o il francese) o formale (ad es., quella della logica); né tantomeno pare sempre praticabile il ricorso alla traduzione (almeno in presenza di termini tendenzialmente intraducibili) (cfr., in generale, ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma, Bari, 1993, 8 s.; e, sul problema della traduzione: SACCO, Traduzione giuridica, in Dig. disc. priv. — Sez. civ., Agg., 2000, 722 ss.; nonché i saggi pubblicati in Ars interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, n. 5, 2000). Se i testi giuridici nazionali sono talvolta affetti, come si diceva all’inizio (supra,


— 521 — generali), può osservarsi che la formula definitoria adottata dal codice Rocco, richiamando elementi strutturali di tipo psicologico e normativo insieme (67), sembra supporre (o comunque non ostacolare) una nozione di tipo anche normativo della colpa: una concezione oggi del tutto prevalente, come noto, e che, accanto al demerito di avere spersonalizzato eccessivamente il giudizio di colpa (specialmente nelle sue versioni più estreme), ha anche (e proprio) il merito di avere posto al centro dell’attenzione l’importanza della violazione di regole di condotta a contenuto cautelare nel giudizio di imputazione colposa (68). Come noto, in modo ancor più preoccupato, si evidenzia in dottrina la tendenza, emersa talvolta nella prassi, a ‘‘normativizzare’’ eccessivamente (quindi a ‘‘oggettivizzare’’) persino il contenuto del dolo. Ricostruendolo in termini puranota 1), dalla peste del linguaggio, sul piano sovranazionale una possibile minaccia sembra poter provenire dalla confusione delle lingue (giuridiche). Tirando le somme di queste digressioni, è il caso di affermare che il mito della codificazione pare, se non per la scienza penalistica, almeno per la ‘‘politica’’, tutt’altro che tramontato, essendosi da poco inaugurata una nuova ‘‘età della ricodificazione’’ (sul fenomeno della ricodificazione, cfr. fra gli altri: MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ‘‘ricodificazione’’, in questa Rivista, 1995, 758 ss.; PADOVANI, Spunti polemici e digressioni sparse sulla codificazione penale, in CANESTRARI, cur., op. cit., 95 ss.; FIANDACA, MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 23 ss., spec. 61 s.; PALIERO, L’autunno del patriarca, ivi, 1220 ss.; F. PALAZZO, Certezza del diritto e codificazione penale, in Pol. dir., 1993, 365 ss.; invece, DOLCINI, Codice penale, cit., 44, parla — ma in relazione alle spinte centrifughe verso la ‘‘decodificazione’’ — « di commiato dall’idea stessa della codificazione penale »). Pertanto, alle odierne acquisizioni — imposte da realismo — circa la perdita di centralità dei codici (perdita alla quale contribuisce quasi ovunque, in concorso con altri fattori, l’espansione inarrestabile del Nebenstrafrecht: v. i contributi di diritto comparato raccolti in DONINI, cur., La riforma della legislazione penale complementare, cit.) corrispondono, in contro-tendenza, una larga sperimentazione progettuale e, in qualche caso, la definitiva attuazione di riforme realizzate, in diversi sistemi penali europei, attraverso l’antico strumento della codificazione. Una contro-tendenza, quella alla ricodificazione, che non si esita a definire « di imbarazzante inconfutabilità » (così: PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1221). (67) Sulla coesistenza nella definizione dell’art. 43 di « requisiti di natura psicologica e requisiti a carattere normativo », cfr., ad es., FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. PG, 4a ed., Bologna, 2001, 501; nonché GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 5 s. (che, comunque, scrive di tentativo malriuscito di conciliare queste due ‘‘anime’’ della colpa nell’art. 43 c.p.). (68) Per questa ambivalenza della concezione normativa della colpa, cfr. DONINI, Teoria del reato, cit., 356 s. Che « il processo di normativizzazione della colpa » (pur trovando nel silenzio del legislatore germanico « le condizioni ottimali per la sua definitiva affermazione speculativa ») non abbia in realtà incontrato soverchi ostacoli nella definizione del c.p. it. (nemmeno nella « apparente portata evocativa di concezioni psicologiche » assegnabile al requisito della ‘‘contrarietà all’intenzione’’) è puntualmente rilevato da GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 4 s., 7. Cfr., inoltre, FORTI, Colpa ed evento, cit., 134: « Significativa [...] è anche la distanza dello schema definitorio proprio dell’art. 43, comma 3o, c.p. dalle formulazioni dei moderni codici penali austriaco e svizzero, nonché da quelli elaborati dai vari progetti di riforma tedeschi, e quindi l’assenza, nel codice italiano, delle pesanti ipoteche ‘‘psicologistiche’’ da cui quei modelli sono segnati ». Per rilievi critici sulle formule definitorie dei codici svizzero e austriaco, si faccia riferimento alla dottrina cit. supra, nota 50.


— 522 — mente ‘‘ascrittivi’’ (ad es. obliterandone l’elemento volontaristico a tutto vantaggio di quello rappresentativo) e secondo sembianze funzionali a esigenze di prevenzione generale, si finisce per renderlo non più distinguibile dalla colpa (69). È evidente, tuttavia, che le cose stanno diversamente sul versante colposo della responsabilità, ove la ‘‘normatività’’ viene indicata, dalla dottrina internazionale assolutamente dominante, alla stregua di un carattere della colpa: un carattere, peraltro, che nel caso della colpa deve ritenersi addirittura genetico: salvo, ovviamente, denunciarne le eventuali estremizzazioni, producenti l’esito di una completa ‘‘oggettivizzazione’’ del giudizio di colpa, privo ormai di ogni sperabile dimensione di colpevolezza (70). Conclusivamente sul tema, si ricorda che, in sede di dibattito per la riforma dello Strafgesetzbuch austriaco, pur raccomandandosi da parte di autorevole dottrina l’opportunità — per ragioni di determinatezza — di una definizione legale della colpa, poiché essa potrebbe « chiarire la struttura dei concetti e i punti di vista in base ai quali devono essere valutati », non ci si nascondeva affatto che, comunque, « le valutazioni stesse, ad es. quella relativa alla diligenza prescritta [...], non si prestano ad essere tipizzate; per di più la vita è qui davvero continuamente mutevole, producendo [sempre] nuove situazioni [...] » (71).

D’altra parte, il problema della concretizzazione delle qualifiche normative ‘‘sociali’’ o ‘‘formali’’ richiamate dalla definizione sistematica dell’art. 43 c.p. — che costituiscono il labile criterio valutativo per pervenire all’individuazione dei paradigmi comportamentali di volta in volta doverosi — si palesa come una delle questioni di più difficile approfondimento nella attuale teorica della colpa, imponendosi come uno degli oggetti che, (69) Per una pronuncia di merito significativa in tal senso e per la relativa critica, v. EUSEBI, In tema di accertamento del dolo: confusioni fra dolo e colpa, in questa Rivista, 1987, 1060; in argomento cfr., più ampiamente, ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993, 13 ss., 68 ss., 75 ss. e passim. (70) Sopra siffatti esiti indesiderati della ‘‘normatività’’ della colpa, per evitare inutili appesantimenti bibliografici, cfr. per tutti V. DE FRANCESCO, Il ‘modello analitico’ fra dottrina e giurisprudenza, in questa Rivista, 1991, 114-116, 130-136 (e riferimenti qui riportati). Più in generale, sul meccanismo di svalutazione dell’accertamento dell’elemento soggettivo, quale effetto della identificazione del reato come « illecito di mera trasgressione » (tra l’altro: « di regole tecniche »), cfr. SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna, 1990, 22-24. Sui rapporti tra colpa e principio di ‘‘personalità’’, ALESSANDRI, Il 1o comma dell’art. 27, in BRANCA, PIZZORUSSO, Commentario della Cost., Bologna, Roma, 1991, 87 ss. Per una recente riconsiderazione generale delle questioni relative al capitolo della colpevolezza, cfr. SCHÜNEMANN, La culpabilidad: estado de la cuestión, in ROXIN, JAKOBS, SCHÜNEMANN, FRISCH, KÖHLER, Sobre el estado de la teoría del delito, Madrid, 2000, 91 ss. (71) NOWAKOWSKI, Probleme der österreichischen Strafrechtsreform, Opladen, 1972, 14.


— 523 — per via del loro carattere ancóra ambiguo, necessitano di più attente e complete indagini (72). 4. C) Prospettive de lege ferenda: cenni alle ipotesi definitorie formulate nei più recenti progetti di riforma del codice Rocco. — Nel completare queste osservazioni preliminari o introduttive a uno studio della colpa — osservazioni sin qui condotte mediante una ricognizione storica e comparata delle scelte definitorie praticate — qualche breve considerazione meritano anche le opzioni in tema di reato colposo contenute nei progetti di riforma del c.p. che si sono susseguiti nell’ultimo decennio. Del resto, non a caso, le discussioni (e la polemica) sulle definizioni legali in generale sembrano essere tornate di grande attualità proprio in relazione alla ripresa del dibattito sulle prospettive di riforma del codice che si è registrata a partire dal principio degli anni Novanta (73). 5.1. Il Progetto Pagliaro. — Il c.d. Progetto Pagliaro del 1992 (74), dopo aver apertamente dichiarato la opportunità di ricorrere a definizioni (75), si limita, come noto, a porre il principio (generale) secondo il quale la definizione di colpa andrà formulata « in modo che in tutte le forme di essa l’imputazione si fondi su un criterio strettamente personale » (76). La povertà degli elementi offerti dipende, senza dubbio, an(72) Si noti che la incontrastata ‘‘vigenza’’ presso la letteratura internazionale di una concezione della colpa di stampo decisamente normativo non ha sinora prodotto i necessari approfondimenti sul fondamento autenticamente normativo di essa, consistente nella (violazione) di una data regola cautelare: il tema dei criteri di individuazione delle norme comportamentali doverose, che stanno alla base della tipicità colposa costituendone il nucleo precettivo, rimane tuttora parzialmente oscuro. Cfr., da ultimo, tra i contributi maggiormente impegnati sul punto, GIUNTA, La normatività della colpa penale, in questa Rivista, 1999, 86 ss.; e, per un collaudo in tema di bancarotta, D. MICHELETTI, La colpa nella bancarotta semplice patrimoniale. Contributo allo studio della regola cautelare come criterio di delimitazione della tipicità colposa, in RTDPE, 2000, 609 ss. Nella letteratura tedesca, v., da ultimo, in relazione ai rapporti col principio di tassatività, DUTTGE, Zur Bestimmtheit des Handlungsunwerts von Fahrlässigkeitsdelikten, Tübingen, 2001, 29 ss., 135 ss. (73) Cfr., per questo rilievo, Al. MELCHIONDA, Definizioni normative, cit., 391 s. (74) Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo c.p., in IP, 1992, 579. (75) Sul piano della tecnica normativa, il Progetto Pagliaro inserisce tra i princìpi di codificazione (art. 2, n. 4) il proposito di « impiegare, se necessario, norme definitorie, per garantire una maggiore certezza » (Ibidem, 580, 596). Cfr., in merito, PAGLIARO, Lo schema di legge delega per la riforma, metodo di lavoro e principi ispiratori, in AA.VV., Prospettive di riforma del c.p., cit., 38; CONTENTO, Clausole generali e regole di interpretazione come « principi di codificazione », in AA.VV., Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, 109 ss. Dubbi concernenti la opportunità della riproposizione di definizioni generali di dolo e di colpa, a proposito del Progetto Pagliaro, erano stati avanzati, ad es., da GROSSO, Il principio di colpevolezza, in AA.VV., Prospettive di riforma del c.p., cit., 127 s. (76) Art. 12, comma 1, del Progetto Pagliaro (« Elemento soggettivo del reato »).


— 524 — che dallo strumento normativo prescelto: quello dello schema di delega legislativa (77). Come è stato autorevolmente ammesso, « soprattutto sul terreno delle definizioni i membri della Commissione si trovavano di fronte ad una grossa difficoltà, perché non potevano fissare e formulare delle definizioni particolarmente articolate, perché in questo modo avrebbero tradito il loro compito, non avrebbero lasciato più alcuno spazio al Delegato, né potevano fissare soltanto delle linee tendenziali, perché avrebbero fatto troppo poco e allora queste definizioni sarebbero risultate imprecise e carenti di un criterio di disciplina vero e proprio » (78).

Dunque, le uniche due indicazioni estrapolabili dalla esangue direttiva rivolta al legislatore delegato in materia di colpa riguardano, anzi tutto, (a) il mantenimento della opzione definitoria di tipo ‘‘unitario’’ (cioè di parte generale), ma senza alcuna indicazione della formula da adottare; inoltre (b) — conformemente all’intento di « escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole » (79) — la necessità che la nozione di colpa definisca « i parametri di imputazione, considerando validi soltanto quelli che consentano un giudizio strettamente personalistico del comportamento umano » (80). Elemento, quest’ultimo, che finisce per rappresentare anche l’unico principio, fornito dallo Schema di delega legislativa, in base al quale definire la colpa: formula in sé commendevole, ma che si staglia alla stregua di un truismo sostanzialmente privo di contenuto informativo rispetto ai caratteri della futura definizione. Si tratta, secondo una lucida autocritica, di « una definizione che esprime un semplice auspicio, che non fissa un criterio di disciplina ben preciso » (81). A ben ve(77) In generale, sulla inopportunità o illegittimità del ricorso allo strumento della legge di delegazione in materia di riforme penali, v. ultimamente: MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 3a ed., Milano, 2001, 43 ss. (p. 44, con riferimento, tra l’altro, proprio all’art. 12 del Progetto Pagliaro); MUSCO, Verso un nuovo codice penale?, in DPP, 1999, 1497 s. Per una sintesi delle ragioni tecniche e pratiche poste a fondamento della scelta in favore del procedimento della legge-delega, in occasione del progetto in esame, v. invece: PAGLIARO, Principi di diritto penale. PG, 6a ed., Milano, 1998, 68 s.; ID., Lo schema di legge delega, cit., 29-32. (78) BRICOLA, Le definizioni, cit., 183; inoltre, il compianto membro della Commissione ministeriale non manca, poche pagine più avanti, di aggiungere: « Direi che queste difficoltà, questo dilemma si è prospettato in maniera più drammatica, più accentuata proprio a proposito delle definizioni di cui ho detto »: cioè, le definizioni di dolo e di colpa (p. 186). Cfr. anche la Relazione del Progetto (p. 580): « Trattandosi di schema di legge-delega, e non dell’articolato del codice, è sorto sin dall’inizio dei lavori il problema di stabilirne il giusto livello di determinatezza ». Ma si vedano, sul punto, le considerazioni critiche di GROSSO, Il principio di colpevolezza, cit., 130 s. (79) Questo l’incipit dell’art. 12 del Progetto. (80) Così la Relazione del Progetto, p. 583. Cfr., altresì, PAGLIARO, Principi, cit., 70 s. (81) BRICOLA, Le definizioni, cit., 186. Giudica ingiustificato il self-restraint contenuto nel Progetto Pagliaro, laddove si limita a dettare solo alcune caratteristiche delle forme di imputazione soggettiva, rimandandone le compiute definizioni al legislatore delegato, AN-


— 525 — dere, anziché una autentica definizione legale, il Progetto Pagliaro contiene piuttosto il richiamo ad un modello di responsabilità: all’esigenza che la futura nozione di colpa si informi al principio della responsabilità personale colpevole — secondo la più aggiornata rilettura dell’art. 27 della Costituzione —, proprio nel tentativo di contrastare quel processo erosivo di eccessiva ‘‘obiettivizzazione’’ e ‘‘spersonalizzazione’’ fatto registrare, quale loro esito applicativo più pernicioso, dalle versioni più estreme della concezione normativa della colpa (82). 5.2. Il Progetto Riz. — Diversamente dal Progetto Pagliaro, il c.d. Progetto Riz del 1995 (83), abbandonato lo strumento normativo della delega legislativa, si presenta con la veste formale del procedimento legislativo d’iniziativa parlamentare (84). Superate, così, le difficoltà che in materia definitoria si erano prospettate ai redattori del Progetto Pagliaro — almeno quelle dipendenti, come s’è detto, dall’iter legislativo prescelto —, l’art. 39 del disegno di legge in esame (che, al pari dell’art. 43 del codice Rocco, conserva la rubrica: « Elemento psicologico del reato ») contiene una definizione di colpa che, pur ricalcando per larga parte quella del c.p. vigente, presenta taluni elementi di originalità, relativi alla questione della prevedibilità dell’evento e al problema del grado della colpa (85). Difatti, la definizione formulata nel Progetto Riz, richiedendo che l’evento involontario si verifichi « come effetto prevedibile » della violazione del dovere di diligenza, eleva la prevedibilità ad autonomo ed esplicito requisito della fattispecie colposa (86). Il secondo elemento innoGIONI, Le norme definitorie e il progetto di legge delega per un nuovo c.p., in CANESTRARI

(cur.), op. cit., 192: « L’art. 76 Cost. impone al Parlamento di determinare non solo i principi ma anche i criteri direttivi di esercizio della funzione legislativa delegata al Governo. Nell’art. 12 del Progetto, in tema di imputazione soggettiva, a me pare che si siano fissati solo i principi generali e non invece i criteri direttivi ». Segnala la « genericità della enunciazione normativa » anche GROSSO, Il principio di colpevolezza, cit., 129 s. Cfr. inoltre MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, 432 ss.: « il ‘‘Progetto 1992’’ non contiene alcuna definizione della colpa e non argina il pericolo che nella responsabilità per colpa si annidi la responsabilità oggettiva ». (82) In senso critico nei confronti dell’art. 12 dello Schema di delega legislativa — in relazione all’inserimento in una futura definizione di colpa (ritenuta comunque non auspicabile) del requisito della ‘‘personalità’’ — U. PIOLETTI, Ridefinire colpa e dolo?, cit., 487 ss. (83) Disegno di legge n. 2038 (del 1995) riguardante la riforma del Libro I del c.p., in questa Rivista, 1995, 927. (84) Sulle peculiari ragioni che suggerirebbero il ricorso, in materia di riforme penali, allo strumento normativo della elaborazione di un disegno di legge formale, cfr. la stessa Relazione al Progetto Riz, 930 s. (85) « Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, se l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica come effetto prevedibile di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Se l’evento è conseguenza di prestazione d’opera che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, l’imperizia deve essere grave » (corsivi aggiunti). (86) Sul requisito della prevedibilità, sulla sua funzione nella economia (cioè, nel modello strutturale) di una definizione legale di colpa, v. i cenni svolti infra (§ 5.3).


— 526 — vativo, contenuto nella definizione dell’art. 39 del Progetto Riz, riguarda la tormentata questione del grado della colpa (87) in relazione allo svolgimento di attività professionali. Tale questione viene qui risolta con il riconoscimento della limitazione della responsabilità penale ai casi di « colpa grave » ove si tratti di « imperizia », sul presupposto che si versi in ipotesi di prestazioni d’opera che implichino « la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà » (riprendendo, così, letteralmente, la formulazione prevista dall’art. 2236 c.c. a proposito della responsabilità civile) (88). Il riferimento alla colpa grave — trattandosi di un problema di ammissibilità di forme di responsabilità limitata (anche) in materia penale, in relazione allo svolgimento di attività professionali — non riguarda direttamente la definizione della colpa in senso stretto. Né incide sui criteri di ricostruzione ermeneutica (‘‘individuazione’’) delle regole cautelari, se non nel senso della qualificazione di esse come norme dal contenuto squisitamente tecnico (dovendosi appunto trattare, come richiesto nell’art. 39 del (87) Sul grado della colpa, oltre ai rinvii successivi, v., nella nostra letteratura, la ancóra fondamentale indagine di PADOVANI, Il grado della colpa, in questa Rivista, 1969, 819 ss.; nonché DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979, 279-281. Per un quadro storico della evoluzione della categoria (penalistica) della « Leichtfertigkeit » (colpa grave), nell’ordinamento tedesco, cfr., da ultimo: C. BIRNBAUM, Die Leichtfertigkeit — zwischen Fahrlässigkeit und Vorsatz, Berlin, 2000, 31 ss. (anche per una rassegna delle ipotesi legislative e codicistiche che la prevedono); più sintetici riferimenti, per es., in TRÖNDLE, FISCHER, Strafgesetzbuch und Nebengesetze, 50a ed., München, 2001, § 15, n. marg. 20 (ove si ricorda anche che la « Leichtfertigkeit » trova il suo corrispondente concettuale nella categoria civilistica della « grobe Fahrlässigkeit »). (88) Sul tema della rilevanza del grado della colpa già ai fini dell’an della punibilità, si veda, in giurisprudenza, Corte cost., 22 novembre 1973, n. 166, in FI, 1974, I, c. 19. Cfr., in dottrina, con posizioni differenziate: GRASSO, La responsabilità penale nell’attività medico-chirurgica, in RIML, 1979, 80; MAZZACUVA, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, ivi, 1984, 401 ss.; RIZ, voce Medico, in EGT, XIX, 1990, 1-8; MANNA, voce Trattamento medico-chirurgico, in Enc. dir., XLIV, 1991, 1292 ss.; CRESPI, voce Medico chirurgo, in Dig. disc. pen., VII, 1993, 591 ss. (ed ivi riferimenti a precedenti contributi dell’A.); IADECOLA, Il medico e la legge penale, Padova, 1993, 51 ss.; PULITANÒ, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al c. p., 3a ed., Padova, 1999, Art. 43, 177 s. V. anche, per un’ampia rassegna, PARODI, NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Torino, 1996, 87 ss.; nonché F. SIRACUSANO, Ancora sulla responsabilità colposa del medico, in Cass. pen., 1997, p. 2904. Più in generale, cfr.: F. MANTOVANI, voce Colpa, in Dig. disc. pen., II, 1988, 310 s., 312 s.; MARINI, voce Colpa. II) Diritto penale, in EGT, VI, 1988, 12 s.; FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, 336-338; C. FIORE, Diritto penale. PG, I, cit., 267 s.; M. ROMANO, Commentario sistematico del c.p., I, Milano, 1995, Art. 43, n. marg. 110 ss.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. PG, cit., 505 s.; M. MANTOVANI, Colpa e preterintenzione, cit., 243 ss. Con specifico riferimento al Progetto Riz, v., dal punto di vista medico-legale, CAVE BONDI, CIPOLLONI, Delitti colposi e prestazioni d’opera professionali nel progetto di riforma del c.p., in RIML, 1998, 15. Sulla questione si sofferma brevemente, tra l’altro, la stessa Relazione al Progetto Riz, § 6.7, p. 944 ss. Come noto, la ‘‘colpa grave’’ trova una particolare definizione nel d.lgs. n. 472 del 1997 (art. 5, comma 3), contenente le disposizioni generali sugli illeciti amministrativi in materia tributaria.


— 527 — Progetto, di colpa per imperizia). Invero, nelle ipotesi di colpa grave, la ricostruzione ermeneutica della fattispecie colposa non si atteggia in maniera differente rispetto alle ipotesi di colpa lieve. Come noto, oltre al grado di prevedibilità/evitabilità dell’evento, ciò che vale a differenziare (secondo un apprezzamento quantitativo e sul piano oggettivo) le due tipologie di colpa è essenzialmente il grado di divergenza tra la condotta astrattamente doverosa (individuata secondo il parametro dell’agente modello) e il comportamento concretamente realizzato, quindi la misura della violazione della regola cautelare (89). (89) Ciò premesso, ci si limiterà a pochi rilievi ulteriori in tema di colpa grave. Anzitutto, la comune opinione tendente, giustamente, a svalutare la distinzione interna tra le varie qualifiche normative di fonte sociale, attesa la sostanziale reciproca permeabilità delle stesse (tra gli altri: M. GALLO, voce Colpa, cit., 641; C. FIORE, Diritto penale. PG, I, cit., 253; M. ROMANO, Commentario, cit., Art. 43, n. marg. 81 ss.; PAGLIARO, Principi, cit., 295; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 166-169), deve essere parzialmente corretta, attribuendo alla medesima distinzione una maggiore importanza allorquando si tratti di accertare una responsabilità colposa in relazione ad attività professionali, e sempre che si verta in ipotesi di « speciale difficoltà ». Fermo restando che ciò che conta è che si individui la norma cautelare concretamente violata, in caso di responsabilità professionale è decisivo — ai fini della limitazione della responsabilità alle ipotesi di imperizia grave — poterla qualificare come regola a contenuto tecnico (lex artis). Tale rilievo sembra ineludibile, beninteso, in presenza di una nozione di colpa come quella contenuta, da ultimo, nel Progetto Riz; ma si tratta, ancor prima, di una nozione — conforme a quella fatta propria dalla Corte cost. nella sent. n. 166/1973 — seguìta, non da oggi, anche da una parte considerevole della dottrina e della giurisprudenza: in altre parole, in presenza di una concezione della colpa che espressamente riconosca rilievo, ai fini della limitazione della responsabilità ai casi di colpa grave, alla sola imperizia, non anche alla negligenza o alla imprudenza (cfr., per i riferimenti necessari, supra, nota 88). Va in secondo luogo precisato che sarebbero da ritenere norme di perizia anche quelle norme tecniche a contenuto cautelare, riguardanti il corretto svolgimento di un’attività pericolosa, che fossero state ‘‘recepite’’ (si potrebbe dire: ‘‘ratificate’’) in un documento scritto avente la forma di legge, regolamento, ordine o disciplina. [Per la possibilità di individuare ipotesi in cui norme di natura tecnica a contenuto preventivo (norme di perizia) assumono la veste formale di norme giuridiche, cfr. MARINUCCI, DOLCINI, Corso, cit., 141 s. In senso diverso, nella letteratura tedesca, LENCKNER, Technische Normen und Fahrlässigkeit, in FS für K. Engisch, Frankfurt a.M., 1969, 495. Sulla possibilità, in generale, che la violazione di regole tecniche rappresenti un comportamento contrario alla diligenza, e sulla funzione di completamento delle norme penali in bianco da parte delle stesse regole tecniche, cfr. SCHÜNEMANN, Die Regeln der Technik im Strafrecht, in FS für K. Lackner, Berlin, New York, 1987, 367 ss., in part. 374, 394-396]. Al di là delle possibili obiezioni circa l’opportunità di una diffusa positivizzazione delle leges artis (in relazione al connesso rischio di irrigidimento degli schemi di comportamento relativi a una determinata professione), si può pensare, per es.: alle norme (sicuramente di perizia) circa le procedure da adottare per la gestione delle situazioni di emergenza in caso di incendio a bordo di un aeromobile, recepite in un dettagliato protocollo scritto, avente la forma di un disciplinare od ordine di servizio diretto ai piloti; o anche a un protocollo medico-chirurgico, per il trattamento di una specifica patologia, che recepisca, con la forma dell’ordine di servizio del direttore sanitario (adottato al fine di combattere prassi lassiste degli operatori), le regole tecniche (per ipotesi: inconfutabilmente consolidate e diffuse in seno alla comunità scientifica) valide per la gestione dell’insorgere di un particolare effetto collaterale indesiderato (sul presupposto che, in en-


— 528 — 5.3. Il Progetto Grosso. — Si segnala, infine, la definizione di colpa contenuta nell’Articolato del c.d. Progetto Grosso (90). Peraltro, tanto nel confronto con il c.p. vigente quanto rispetto ai due precedenti tentativi di ricodificazione, la nozione di colpa tratteggiata nei tre commi dell’art. 28 del Progetto Grosso si presenta con una formulazione notevolmente più complessa e con tratti di originalità davvero rimarchevoli (91). Non di meno, a dispetto ma anche in conseguenza di ciò, pur trattandosi di una definizione gravida di stimolanti sollecitazioni, in questa sede non si potrà dedicare alla stessa che qualche breve considerazione critica, non immune da approssimazioni (92). Del resto, indicazioni ancóra esigue e comunque provvisorie potevano trarsi in merito dalla Relazione Grosso del 1999, che — sebbene sottoposta (quale ‘‘documento di base’’ per il prosieguo trambe le ipotesi, gli atti scritti esemplificati siano riconducibili a una delle qualifiche normative proprie della c.d. ‘‘colpa specifica’’ richiamate dall’art. 43 c.p.). Ebbene, in ipotesi del genere, la circostanza che l’inosservanza riguardi regole tecniche di perizia formalizzate in norme scritte (c.d. colpa specifica) non varrebbe, per ciò solo, a far perdere alle regole precauzionali la natura che è loro propria, dovendosi perciò applicare anche qui — in caso di prestazione di speciale difficoltà — le eventuali limitazioni di responsabilità (previste in forza di una norma come quella prefigurata dal Progetto Riz ovvero ritenute per via interpretativa), escludendo la punibilità nei casi di imperizia lieve: cioè, di lieve discostamento della condotta realizzata in concreto rispetto al modello di comportamento delineato dalla regola tecnica astrattamente prevista in un atto scritto o comunque formale. (90) Progetto preliminare di riforma del c.p. P.G., versione 26 maggio 2001, in Internet: http://www.giustizia.it; ora anche in questa Rivista, 2001, 574. Il Progetto (Articolato e Relazione esplicativa) era stato preceduto dalla pubblicazione della Relazione della Commissione ministeriale per la riforma del c.p., in questa Rivista, 1999, 600. Nel prosieguo, i tre documenti saranno citati rispettivamente come Progetto Grosso o Articolato (del 2001), Relazione esplicativa (del 2000), Relazione Grosso (del 1999). (91) Art. 28: « Colpa. /1. Risponde a titolo di colpa chi, con una condotta che viola regole di diligenza, o di prudenza, o di perizia, ovvero regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o discipline, realizza un fatto costitutivo di reato che è conseguenza prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare. /2. Il rispetto delle regole cautelari specifiche di cui al comma precedente esclude la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole, salvo che il processo scientifico o tecnologico, nel periodo successivo alla loro emanazione, non le abbia rese palesemente inadeguate. /3. Relativamente agli aspetti non considerati da regole cautelari specifiche, l’adozione di misure di generale applicazione, salvo che esse siano palesemente inidonee, esclude la colpa ». Nella versione pubblicata in Internet nel settembre 2000, la definizione di colpa era contenuta nell’art. 31, con una formulazione identica a quella del 2001 sopra riprodotta, tranne che per qualche lieve modificazione al testo del comma 3. Nella Relazione alle modificazioni al progetto approvate nel maggio 2001 (in questa Rivista, 2001, 655), si legge: « In tema di colpa la Commissione, pur concordando con le osservazioni di chi ha sostenuto che non si sono adeguatamente affrontati a livello legislativo nodi fondamentali come quello della personalizzazione del concetto di colpa, e soprattutto della colpa nelle attività pericolose, non è stata in grado, anche nella assenza di convincenti proposte [...] alternative [...], di colmare le lacune denunciate, preferendo affidarsi [...] alla elaborazione giurisprudenziale ». (92) Per una trattazione anche propositiva di un possibile modello alternativo, di estremo interesse, v. FORTI, Sulla definizione della colpa nel Progetto, cit., 18 ss. del datt. (§ 3).


— 529 — dei lavori della Commissione) a una intensa attività di discussione in sede congressuale — poco poteva anticipare sulla formulazione effettiva della odierna definizione, limitandosi correttamente a tematizzare una serie di interrogativi (93). Intanto, sul piano della collocazione sistematica, si può rimarcare che la norma contenuta nel Progetto all’art. 28, sotto il Capo IV — intitolato alla « Colpevolezza » — riguarda esclusivamente la colpa, essendo il dolo definito da altra apposita norma (art. 27), e non trovando più disciplina alcuna la preterintenzione (94). (93) Nella Relazione Grosso del 1999 si leggeva, tra l’altro, a proposito del dolo e della colpa (III.2), che le « definizioni del codice Rocco hanno contribuito più a far sorgere problemi che ad additare soluzioni. La scelta che si pone in sede di riforma è fra la loro sostituzione con definizioni nuove e più idonee ad orientare la prassi, ovvero la rinuncia a qualsiasi definizione legale, lasciando l’elaborazione degli istituti alla razionalità interna della cultura giuridica. L’opzione a favore di definizioni legislative è ritenuta preferibile per esigenze di certezza del diritto ». In part., tra le « questioni relative alla colpa », ferma la configurazione di essa come realizzazione del fatto « con inosservanza di regole di comportamento aventi funzione cautelare », si indicava come primo problema quello della « individuazione delle regole cautelari pertinenti al giudizio di colpa » (III.2.2). Gli altri interrogativi, problematicamente richiamati, riguardavano: la prevedibilità e la prevenibilità dell’evento; il metro della colpa; il rischio consentito; il grado della colpa relativamente ad attività professionali (III.2.2). Ma, nella norma alla fine abbozzata nell’Articolato, manca ogni riferimento al metro e al grado della colpa. Cfr., sull’ultimo punto, G. CANZIO, Trattamenti terapeutici e responsabilità penale, in DPP, 2001, 667. Secondo la Relazione esplicativa del 2000 (p. 577 s.), l’obiettivo (assunto a principio ispiratore della riforma) della « configurazione di un c.p. fortemente caratterizzato dalla impronta garantista della tradizione liberaldemocratica » viene perseguìto « innanzitutto prestando grande attenzione alla realizzazione dei princìpi di tipicità e certezza nella disciplina dei presupposti della responsabilità penale [...], soprattutto attraverso una definizione più tassativa di istituti tradizionalmente affidati ad una ampia discrezionalità giudiziale ». Nonostante la Relazione riferisca come esempi significativi di tale orientamento gli sforzi compiuti per la tipizzazione delle posizioni di garanzia al fine della selezione dei reati omissivi impropri, o le discipline del tentativo e del concorso di persone, non sembra estranea, a nostro avviso, all’intento definitorio in chiave di limitazione della discrezionalità giudiziale (di « massima tipizzazione possibile ») anche la definizione di colpa di cui all’art. 28 del Progetto. (94) Più in generale, « la realizzazione piena del principio di colpevolezza » è stata considerata alla stregua di un « obiettivo primario della riforma », attraverso la eliminazione delle forme residue di responsabilità oggettiva, anomala e — per quanto possibile — per rischio (cfr. Relazione esplicativa, 600). Nella versione definitiva dell’Articolato, si richiede, inoltre, la imputazione per colpa della conseguenza non voluta nei delitti aggravati dall’evento (art. 31). Sulla realizzazione del principio di colpevolezza nelle prospettive di riforma del c.p., cfr.: DONINI, La relazione della Commissione ministeriale per la riforma del c.p., in Crit. dir., 1999, 414 ss.; DOLCINI, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 2000, 863 ss., 871 ss.; CANESTRARI, La responsabilità colpevole nell’articolato della parte generale del Progetto Grosso, in questa Rivista, 2001, 884. Sul significato, ritenuto dogmaticamente neutrale, della collocazione sistematica del dolo e della colpa nel capitolo della colpevolezza nel Progetto Grosso, PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del c.p., in questa Rivista, 2001, 13 ss. (in part., 18). È forse curioso notare come il principio di colpevolezza, un principio che soltanto di re-


— 530 — Per quanto attiene alla struttura del reato colposo (e analoga considerazione vale per quello doloso), il punto di fuga oggettivo non è più rappresentato dalla controversa figura dell’evento dannoso o pericoloso (art. 43 c.p.), ma dal « fatto costitutivo di reato ». Si superano così, almeno in parte, alcuni dei rimproveri di incompletezza mossi alle definizioni dell’elemento soggettivo previste dal codice vigente, ritenute difettive perché non atte a comprendere, ad es., le fattispecie c.d. di mera condotta (95). D’altronde — se la definizione del codice Rocco, basata sull’evento, prendeva in considerazione il dogmatischer Normalfall della responsabilità colposa (96) — non va taciuto che anche tutta la teorica del reato colposo è ancóra ampiamente costruita proprio su tale tipologia ‘‘normale’’. Pertanto, la definizione abbozzata all’art. 28, ove diventasse un giorno diritto vigente, troverebbe come supporto dogmatico un armamentario concettuale (ancóra) largamente parametrato sul reato colposo causalmente orientato, perciò spesso dimentico della varietà di tipologie di illecito presente nell’ordinamento. Fatta questa avvertenza, si ritiene comunque corretta l’opzione definitoria del Progetto, strutturalmente basata sulla nocente ha assunto la sua massima espansione — cioè, ha assunto, a Costituzione invariata, un valore sicuramente dimostrativo o assiomatico (così DONINI, Teoria, cit., 27 ss.) —, potrebbe trovare in futuro una espressa codificazione anche sul piano della legge ordinaria: cfr. l’art. 25 del Progetto Grosso (« Responsabilità colpevole »). Peraltro, le implicazioni fatte discendere sul piano sistematico dalla codificazione del principio di colpevolezza sono di non poco momento, e meriterebbero una apposita riflessione: « Enunciato [...] il presupposto soggettivo indefettibile della responsabilità penale [id est: la colpevolezza], alla Commissione è d’altronde sembrato inutile continuare a prevedere la coscienza e volontà della condotta di cui all’art. 42 comma 1 c.p. Rocco, ed il caso fortuito, la forza maggiore ed il costringimento fisico di cui, rispettivamente, agli artt. 45 e 46 c.p. Rocco » (così la Relazione esplicativa, p. 601). In proposito, sia soltanto consentito di osservare che tali (radicali) implicazioni suscitano l’impressione che si finisca per trasfondere nel nullum crimen sine culpa più promesse di quelle che lo stesso pare in grado di mantenere. Tanto più che, a fronte della abbozzata cancellazione dell’istituto (benché poco determinato) del « caso fortuito », la Commissione si è poi orientata per l’esclusione della previsione espressa di « ipotesi di inesigibilità in concreto » (ibidem, p. 604). Sulla inesigibilità, si veda, da noi, FORNASARI, Il principio di inesigibilità, cit., in part. 320-338. Sull’istituto (« dogmaticamente polivalente ») del caso fortuito, si veda, di recente: FIANDACA, voce Caso fortuito e forza maggiore nel diritto penale, in Dig. disc. pen., II, 1988, 107; CORNACCHIA, Caso fortuito, in BRICOLA, ZAGREBELSKY (dir.), Giurisprudenza sistematica di diritto penale. C. p., I, PG, 2a ed., Torino, 1996, 805. (95) Cfr. M. ROMANO, Commentario, cit., Art. 43, n. marg. 61 s. Per una sintesi relativa alla definizione di dolo, ma con argomentazioni estensibili anche a quella di colpa, v. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. PG, cit., 314 ss., 322 s. Per la dottrina più risalente, F. ALIMENA, La colpa, cit., 69 s., 142. (96) Cfr., per rimanere alla nostra letteratura: MARINUCCI, La colpa per inosservanza, cit., 5, 85, 116; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano, 1983, 262 s.; F. MANTOVANI, voce Colpa, cit., 302; FORTI, Colpa ed evento, cit., 321 s.; GIUNTA, Illiceità e colpevolezza, cit., 17; e, di recente, CANESTRARI, Dolo eventuale, cit., 211. Per la dottrina d’oltralpe, cfr., ad es.: BOLDT, Zur Struktur der Fahrlässigkeits-Tat, in ZStW, (68), 1956, 354; nonché CRAMER, STERNBERG-LIEBEN, in SCHÖNKE, SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 26a ed., München, 2001, § 15, n. marg. 110a, p. 279 s.


— 531 — zione di « fatto ». Esprimendosi in termini di fatto costitutivo di « reato », la nozione di colpa riguarda, poi, non soltanto i delitti, ma è direttamente pensata, con un ulteriore sforzo di generalizzazione, anche per le contravvenzioni (97). Tuttavia, la ‘‘vitalità’’ normativa di tale opzione definitoria fortemente generalizzante andrà verificata, ancóra una volta, in relazione alla struttura (offensiva) degli illeciti contravvenzionali ai quali la prospettata formulazione di colpa dovrà riferirsi. La nozione di colpa prefigurata nel Progetto è costruita — anziché sul definiendum « delitto colposo » (così come avviene nel c.p. vigente: « il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando... ») — in senso più direttamente ascrittivo, cioè dettando i criteri condizionali di imputazione in base ai quali si risponde del fatto a titolo di colpa. Tali presupposti sono rappresentati dalla realizzazione di un fatto costitutivo di reato con una condotta che vìola regole cautelari di fonte sociale (« di diligenza, o di prudenza, o di perizia ») o formalizzate (« stabilite da leggi, regolamenti, ordini o discipline »). In tal modo, le regole cautelari rilevano in positivo: mentre, nel codice vigente, l’art. 43 è costruito, in negativo, sulla « negligenza o imprudenza o imperizia ». Questo dato, forse di per sé apparentemente insignificante, potrebbe contribuire ad esprimere in maniera più diretta il volto normativo della responsabilità colposa — per come attestato dalle correnti opinioni dottrinali — costituito dalla violazione di una regola cautelare: facendo al contempo retrocedere definitivamente ogni tentazione di ricostruire la colpa, secondo suggestioni psicologiche o moraleggianti, come atteggiamento (interiore) negligente o imprudente o imperito (98). Inoltre, figurando nell’enunciato definitorio, le regole cautelari sono portate, per così dire, en plein air, assumendo quel potenziale ruolo di tipicizzazione del fatto che troppo spesso la prassi applicativa (dalla contestazione del fatto alla motivazione della sentenza) pare obliterare. Infine, come precisa la Relazione esplicativa (99), la specificazione espressa del contenuto cautelare delle norme oggetto di violazione dovrebbe restringere il campo della responsabilità per c.d. colpa specifica esclusivamente alle ipotesi di inosservanza di tale particolare tipologia di norme, caratterizzata, appunto, da una intrinseca funzione preventiva. Il fatto costitutivo di reato, realizzato con una condotta posta in essere in violazione di norme a scopo preventivo, deve essere conseguenza (97) Le contravvenzioni sopravvivono nel Progetto Grosso come specie meno grave di reato, ma con un apparato sanzionatorio del tutto differente rispetto a quello odierno, non prevedendosi più la pena detentiva, ma soltanto pene pecuniarie e, in senso lato, interdittive (art. 50). (98) Tale rilievo vale, con riferimento alla attuale formulazione dell’art. 43 c.p., in relazione particolarmente alla ‘‘colpa generica", essendo la ‘‘colpa per inosservanza di leggi’’ costruita, per il lessico utilizzato, secondo uno schema (e non potrebbe essere diversamente) maggiormente normativo. (99) Relazione esplicativa, p. 603.


— 532 — prevedibile ed evitabile dell’inosservanza della regola cautelare medesima (100). In particolare, si noti che la prevedibilità — una volta inserita ex lege nel modello strutturale della definizione: fatta emergere, quindi, quale espresso criterio di imputazione — potrebbe (anche se solo in parte) bilanciare il rischio di una eccessiva ‘‘normativizzazione’’ e ‘‘oggettivizzazione’’ della colpa (specialmente della colpa c.d. specifica), sottraendola alla logica del versari in re illicita. Naturalmente, il richiamo esplicito dei requisiti della prevedibilità e della evitabilità non è privo di significato proprio dal punto di vista del processo genetico delle regole di cautela, nonché della individuazione giudiziale delle stesse. Sono questi, come noto, i due requisiti solitamente posti alla base del fenomeno di formazione delle norme di diligenza. Inoltre, per quanto detto poc’anzi, una definizione di questo tenore potrebbe svolgere una virtuale funzione di disciplina (101), nel tentativo di indirizzare o di governare taluni effetti distorsivi emergenti nella giurisprudenza in tema di colpa (102). (100) Sul piano del grado di ‘‘generalità’’ assegnabile a questa definizione ‘‘unitaria’’ — poiché, come visto, l’art. 28, comma 1, definisce direttamente la colpa quale criterio di imputazione (« risponde a titolo di colpa chi [...] ») anziché il delitto colposo — sembrerebbe doversi concludere che tale definizione riguardi anche le ipotesi di colpa in contesto illecito, che si connoterebbero, quindi, per la prevedibilità/evitabilità dell’evento ulteriore in ipotesi di condotta-base posta in essere in violazione di regole cautelari. Si tenga presente, al riguardo, che l’art. 31 del Progetto, per i delitti aggravati dall’evento, stabilisce che della conseguenza non voluta « si risponde solo se essa è ascrivibile a colpa »; inoltre, secondo l’art. 45, il concorrente risponde « a titolo di colpa » del reato diverso da quello voluto. Sui profili problematici delle ‘‘definizioni unitarie’’ di colpa si rinvia alle indicazioni del § 2.3. (101) Nel senso precisato supra, § 4 e nota 65. Si rinvia alla dottrina ivi cit. (102) Invero, la Relazione Grosso del 1999 (III, 2.2) faceva esplicito riferimento, nell’evidenziare la rilevanza del tema della prevedibilità, a vicende giudiziarie come quelle dei processi relativi all’insorgenza di tumori da amianto a séguito di esposizione avvenuta in anni remoti: l’interrogativo riguarda la correttezza della punibilità per omicidio colposo dell’imprenditore, fondata semplicemente sulla violazione di regole cautelari dal contenuto assai generico (relative, ad es., alle misure da adottare per limitare la esposizione alle polveri); e quindi, se non sia invece necessario richiedere la prevedibilità dell’evento-morte-da-tumore, alla luce delle conoscenze nomologiche disponibili al momento del fatto. È chiaro, dunque, che una definizione di colpa che richieda il requisito della prevedibilità (nonché quello della evitabilità) potrebbe sortire un effetto di disciplina, allorché fosse capace di imporsi rispetto a determinate prassi applicative. Su tali vicende giudiziarie v., anche per i ragguagli indispensabili: MICHELETTI, Tumori da amianto e responsabilità penale, in RTDPE, 1996, 218; DEIDDA, Un po’ di chiarezza sull’uso indiscriminato dell’amianto in Italia fino agli anni ’70, in DPP, 1996, 751; PIERGALLINI, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di « diritto penale del rischio », in questa Rivista, 1997, 1473; VENEZIANI, Utilizzazione di amianto ed omessa adozione di misure prevenzionali, in IP, 1998, 544; GUARINIELLO, I tumori professionali nella giurisprudenza penale, in FI, 1999, II, c. 237. Cfr., inoltre, con riferimento a casi differenti (prevedibilità del meccanismo eziologico di produzione di una valanga), FORNARI, Descrizione dell’evento e prevedibilità del decorso causale, in questa Rivista, 1999, 719 ss. L’ulteriore requisito della evitabilità (o prevenibilità) dell’evento varrebbe, allo stesso modo, a valorizzare (obbligando il giudice a doverne tenere conto!) l’argomento controfat-


— 533 — I commi successivi dell’art. 28 risultano dedicati al proponimento di dare risposta ad alcuni problemi inerenti precipuamente alla disciplina di attività pericolose, quindi alla delimitazione dell’area del rischio consentito. In particolare, il secondo comma esclude (anche qui acquisendo un intento ‘‘di disciplina’’) la residua possibilità di affermare una colpa generica in presenza di condotte osservanti regole cautelari formalizzate, tranne che nei casi in cui queste ultime, a causa del progresso scientifico o tecnologico successivo, appaiano palesemente obsolete (103). Il terzo comma, infine, riguarda, simmetricamente, le ipotesi in cui difetti una disciplina cautelare specifica, sempre in relazione allo svolgimento di attività pericolose (lecite). Tali lacune di disciplina fanno necessariamente riemergere i paradigmi normativi propri della colpa c.d. generica, qui definiti come « misure di generale applicazione »: l’osservanza degli standard di sicurezza, attuati nei diversi settori produttivi in un determinato momento storico, vale ad escludere la responsabilità colposa ove gli stessi non siano palesemente inidonei (104). Questi — scontando una certa approssimazione della nostra analisi tuale del c.d. comportamento alternativo lecito, quindi a imporre la distinzione tra causalità della condotta colposa e causalità della colpa: dovendosi cioè accertare, inoltre, che il comportamento conforme alla regola di diligenza, ove concretamente tenuto, sarebbe valso ad evitare la verificazione dell’evento. Sul punto v., da ultimo (anche per riferimenti aggiornati): DONINI, La causalità omissiva, cit., 41 ss.; EUSEBI, Appunti sul confine fra dolo e colpa nella teoria del reato, in questa Rivista, 2000, 1061 ss. (103) Che la nozione offerta persegua un proposito ‘‘di disciplina’’ è adombrato, in qualche misura, dalla stessa Relazione esplicativa (p. 603): « Questa statuizione, che molti (ma non tutti) ritengono desumibile già dal diritto vigente, dovrebbe ridurre le incertezze nello svolgimento — e nella valutazione — di attività pericolose che siano state opportunamente fatte oggetto di una disciplina specifica di settore ». (104) D’altra parte, è la stessa legislazione vigente a fare in qualche caso rinvio alle misure tecniche, organizzative e procedurali necessarie per la « riduzione al minimo del (di diverse tipologie di) rischio »: in riferimento al ‘‘rischio rumore’’ v., ad es., Corte cost., sent. n. 312 del 1996, in Giur. cost., 1996, 2575; su tale significativa pronuncia (richiamata anche dalla Relazione esplicativa, p. 604): GUARINIELLO, Il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, in ISL, 1997, 339; DONINI, Rischio e legislazione penale: tecniche di tutela e modelli punitivi, datt. della relaz. per l’Incontro di studi del C.S.M.: ‘‘Forme di responsabilità giuridica nella società del rischio’’, Frascati, 22-24 gennaio 1998, 18 ss., 21 s. Per un quadro generale: GUARINIELLO, I rischi lavorativi da rumore, amianto, piombo nella giurisprudenza della Corte di cass. (1995-1996), in FI, 1996, II, c. 542; PADOVANI, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in questa Rivista, 1996, 1161 ss.; DE ANTONIIS, La definizione delle regole cautelari nelle attività lavorative pericolose, in DPP, 1999, 753. Peraltro, soluzioni legislative di questo tipo (e, quindi, anche la norma del 3o comma dell’art. 31 del Progetto), se da un lato producono un potenziale contrasto con il principio di legalità (stante la loro vaghezza), rischiano, dall’altro, di disperdere la dimensione regolativa delle norme cautelari, la cui funzione precipua è anche quella di ‘‘controllo’’ delle prassi produttive, non dunque di mera ‘‘convalida’’ di esse (cfr. Relazione Grosso del 1999, III.2.2). Tale rischio, a giudizio della Commissione ministeriale, pare tuttavia scongiurato mediante la previsione del requisito della « valutazione di inidoneità degli standard generalmente os-


— 534 — — i principali elementi strutturali della nozione di colpa proposta nell’art. 28 del Progetto, tesi soprattutto a scolpire i confini della tipicità colposa ricorrendo al concetto (normativo) del ‘‘dovere’’ di diligenza. Non figura, invece, nella struttura dell’enunciato definitorio, alcun riferimento espresso al ‘‘potere’’ (o ‘‘capacità’’) del soggetto di riconoscere la situazione rischiosa, o di conformarsi alla regola cautelare, o di evitare la realizzazione del fatto: una scelta suscettibile, in astratto, di produrre influssi negativi sul piano del grado di individualizzazione del giudizio di colpa (105). 6. Considerazioni conclusive. — Dall’indagine retrospettiva (in senso diacronico) sin qui condotta, emerge una robusta linea di tendenza — unificante le codificazioni italiane del 1889 e del 1930, nonché i progetti di ‘‘ricodificazione’’ più recenti — decisamente incline all’utilizzo dello strumento normativo della definizione della colpa (o del reato colposo), con consolidamento, a far data dalla redazione del codice Rocco, della soluzione definitoria ‘‘unitaria’’ o ‘‘di parte generale’’. Muovendo da questo dato tecnico-legislativo radicato nella nostra tradizione giuridica — che trova peraltro significative conferme e analogie nella indagine prospettica (in senso sincronico) allargata alla considerazione delle soluzioni praticate in ordinamenti prossimi al nostro (106) —, si può tentare una conclusione in forma riassuntiva. Si è chiarito sin dall’inizio che, pur ritenendo, personalmente, opportuna e necessaria una definizione di colpa, la stessa non sarà mai idonea — quale che sia il grado di forza regolativa riconoscibile in essa — a risolservati » (Relazione esplicativa, p. 604). Anche questi punti, qui tratteggiati in guisa di rapidi cenni, meriterebbero un approfondimento ulteriore. (105) In questa direzione, sostanzialmente, anche i primi giudizi: CANESTRARI, La responsabilità colpevole nell’Articolato, cit., 904 s.; DONINI, La sintassi del rapporto fatto/autore nel « Progetto Grosso », datt. per la ‘‘Conferenza nazionale sul Progetto preliminare di riforma del c.p.’’, ISISC, Siracusa, 3-5 novembre 2000, pp. 26, 28; FORTI, Sulla definizione della colpa, cit., p. 20 del datt. (§ 3). Va da sé che non si tratta soltanto di un problema di definizione (si direbbe: di ‘‘lessico’’ del codice): l’enunciato dell’art. 28 si rivela, come s’è visto, non privo di pregi sotto più di un profilo, nonostante sembri eccessivamente sbilanciato sul versante del fatto tipico illecito, a discapito della dimensione di colpevolezza. In realtà, il rischio di eventuale dissipazione del contenuto personalistico della colpa risulta ricollegabile, nella complessiva ‘‘sintassi’’ del Progetto Grosso, oltre che alla definizione proposta, anche alla eliminazione degli istituti della « coscienza e volontà della condotta » e soprattutto del « caso fortuito »; nonché alla rinuncia a codificare ipotesi di « inesigibilità in concreto » (v. supra, nota 94). Se, come crediamo opportuno, si devono evitare nozioni generali ontologiche (ad es.: di essenza psicologica), è chiaro che il contenuto di colpevolezza colposa (l’individualizzazione della colpa) andrebbe poi necessariamente recuperato, in negativo, attraverso la codificazione di ipotesi di inesigibilità scusante. (106) Pur nella grande varietà di tipi di definizione ‘‘unitaria’’ concretamente codificate nei diversi ordinamenti.


— 535 — vere tutti i problemi concretamente prospettabili: è questo un effetto, scontato, della mutevole molteplicità delle cose del mondo, prima che dello scetticismo ‘‘postmoderno’’ verso la disponibilità di verità assolute (107). D’altra parte, rimane altresì fermo che la definizione è solo un elemento, destinato a combinarsi con innumerevoli altri nella sistematica di un testo giuridico complesso: secondo un andamento che — passando per le varie declinazioni possibili — dal ‘‘lessico’’ conduce alla ‘‘sintassi’’ di un codice (108). Tutto considerato, dunque, dal carattere sistematico di una definizione legale ‘‘unitaria’’ di colpa, e dalla natura propria della colpa (che si atteggia, nella struttura delle singole fattispecie tipiche, come elemento normativo), discende che la opportunità (per quanto residuale) di una definizione può essere apprezzata come segue (109). a) Sul piano della concretizzazione interpretativa dei precetti (rectius: della costruzione ermeneutica degli esatti confini della tipicità colposa), una definizione di colpa si mostra opportuna ove offra un contributo (potenziale) nel tracciare i parametri per l’individuazione del dovere oggettivo di diligenza prescritto nell’ipotesi concreta (id est: della singola norma a contenuto cautelare che si assume violata), mediante rinvio a fonti sociali (diligenza, prudenza, perizia) o formali (leggi, regolamenti, ordini, discipline). A tale funzione ‘‘minima’’, pare poter assolvere, anche se solo in parte — e con tutti i noti limiti sopra richiamati —, la definizione di delitto colposo contenuta nell’art. 43 c.p. vigente, sebbene la stessa paia suscettibile, anche da questo punto di vista, di aggiustamenti e modifiche nella sua attuale formulazione. Meglio strutturata, in questo senso, si rivela la nozione di chiara impronta normativa proposta nel Progetto Grosso. b) Una definizione di colpa si rende inoltre opportuna nella misura in cui riesca ad esplicare una (potenziale) funzione di disciplina, cioè ad enucleare nella sua formulazione un contenuto (virtualmente) teso a fare governo di particolari tendenze emerse sul piano della prassi applicativa. Da questo secondo punto di vista, in verità, risulta del tutto carente la nozione di colpa tratteggiata dall’art. 43 c.p. vigente, alla quale tale funzione di disciplina pare del tutto estranea (anche, ovviamente, per ragioni storiche legate alla distanza ormai ragguardevole tra l’epoca di redazione del codice e l’attualità cui lo stesso deve applicarsi); mentre, si segnala come (107) Sull’opposizione ‘‘moderno/postmoderno’’ — nel senso dato all’espressione dal filosofo J.F. Lyotard — nei discorsi dei giuristi, e sulla relativa adattabilità della stessa, cfr., da ultimo, i cenni contenuti in BARBERIS, Presentazione a: MINDA, Teorie postmoderne del diritto, Bologna, 2001, p. VII ss. (108) Cfr. quanto premesso supra (§ 0) e poc’anzi ribadito (nota 105). (109) Sul carattere ‘‘sistematico’’ delle definizioni — nel senso utilizzato in relazione all’art. 43 c.p. (oltre che, con diversa terminologia, da Marcello Gallo) da Gabrio Forti sulla scorta, tra gli altri, di Alf Ross — cfr. supra, § 4 (nota 57).


— 536 — maggiormente orientata in questa direzione la definizione abbozzata nell’art. 28 (specialmente nei commi 2 e 3) del Progetto Grosso (che pur non manca di suscitare, come s’è detto, qualche riserva, soprattutto in tema di possibilità di individualizzazione del giudizio) (110). Al contrario, non pare possibile accreditare definizioni legali (ma anche dottrinali o giurisprudenziali) che — esorbitando dal carattere ‘‘sistematico’’, e dalle connesse funzioni ‘‘ermeneutica’’ e ‘‘di disciplina’’ — aspirino a fornire una formulazione categoriale ‘‘di essenza’’, nel tentativo illusorio di attingere i connotati consustanziali, ontologici della colpa (come del dolo), e così di ipostatizzarne in un concetto generale l’in se. « I sinistri influssi dell’essenzialismo sulla definizione dei termini giuridici » sono ben noti (111). Si faccia ancóra una volta riferimento al monito di Marcello Gallo, il quale segnalava che, nell’impostare il problema della determinazione delle note che la individuano, occorre evitare quello che costituisce uno dei pericoli maggiori della teoria della colpa: vale a dire lo scambio tra una ricerca che abbia per fine la determinazione di un elemento di fattispecie, e quella che tenda, invece, a cogliere il fondamento della colpa, si tratti del tentativo di chiarirne la essenza in termini normativi o, al contrario, psicologici (112). Tali conclusioni, circa la opportunità di una definizione ontologicamente agnostica, riceverebbero ulteriori conferme ove si apprezzassero sul terreno del ‘‘molteplice’’: cioè, della ricostruzione del dovere cautelare (110) Diverso, invece, è il discorso circa la opportunità di cifrare in una nozione legale altri fattori suscettibili di incidere sull’accertamento della responsabilità colposa. In particolare, riguardo al ‘‘principio di affidamento’’, si rinvia alla profonda ed ampia disamina di M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, in part. 450: « Dipendendo le sue possibilità di applicazione, in base ai dati emergenti dalla nostra prassi applicativa, dall’assetto che viene conferito ai doveri di una pluralità di soggetti operanti in una situazione di rischio, una eventuale codificazione del principio di affidamento nulla toglierebbe e nulla aggiungerebbe allo stesso [...] ». Si ricorda, inoltre (come segnalato dallo stesso ID., op. ult. cit., 52 s., nota 97), che il principio di affidamento ha trovato un esplicito riconoscimento legislativo nell’ordinamento austriaco, ma limitatamente al settore ‘‘di origine’’ del medesimo principio, cioè in materia di circolazione stradale (cfr. § 3 Straßenverkehrsordnung). Tale esplicitazione legale del principio di affidamento, se da un lato vale « a confortarne l’operatività », « dall’altro, tuttavia, si presta ad essere utilizzata come argumentum a contrario rispetto alla sua efficacia in àmbiti di attività diversi da quello in cui essa ha avuto luogo » (così Ibidem). (111) Si veda ROSS, La definizione nel linguaggio giuridico, cit., 209 s., il quale mette in guardia contro questa tendenza di derivazione aristotelica. (112) Così, pressoché letteralmente, M. GALLO, voce Colpa, cit., 636 (625 s.). In senso non dissimile FORTI, Colpa ed evento, cit., 132, secondo il quale è dal carattere « sistematico » e « normativo » della definizione di colpa dell’art. 43 c.p. che deriva « l’inutilità di una ricerca di suoi possibili sostrati ontologici i.e. psicologici ». Rileva che la ‘‘Commissione Grosso’’ si è opportunamente astenuta dal fornire definizioni « di essenza » sia del dolo che della colpa DONINI, La sintassi del rapporto fatto/autore, cit., 2 del datt. Per ulteriori riferimenti in merito alla inopportunità di definizioni generali ‘‘di essenza’’, supra, nota 65.


— 537 — con riferimento alle singole incriminazioni; invero, la disponibilità di un concetto ‘‘sistematico’’ di colpa (come quello descritto, pur imperfettamente, dall’art. 43 c.p.), inteso alla stregua di elemento normativo di fattispecie, ne relativizza il contenuto in funzione di ogni singola incriminazione, consentendone, ma anche imponendone, un processo di continua e necessaria ‘‘concretizzazione’’. Ma questa sarebbe già un’altra ricerca. DONATO CASTRONUOVO Dottore di ricerca in Diritto penale Università di Modena e Reggio Emilia


LE DIVERSE FORME DI MANIFESTAZIONE DELLA DISCREZIONALITÀ NELL’ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’obbligo costituzionale di agire e il suo reale ambito di applicazione nella realtà del codice. — 3. Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. — 4. I criteri di priorità nella trattazione dei processi (art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998). — 5. La discrezionalità dell’azione penale con riferimento al quadro probatorio. — 6. Discrezionalità e offensività. — 7. La discrezionalità in relazione all’impatto del processo sull’imputato. — 8. Discrezionalità e risarcimento del danno. — 9. Conclusione.

1. Premessa. — Difficile trovare, nel campo processualpenalistico, argomenti ancora fecondi, rimasti immacolati tra le pagine del codice in attesa di essere sottoposti ad approfondimenti critici, tanto più quando essi riguardino principi generali, oggetto privilegiato dell’attività ermeneutica. È dunque inevitabile che, nell’affrontare la tematica dell’esercizio dell’azione penale, argomento tra i più saturi di interventi dottrinali, l’originalità del contenuto debba lasciare spazio alla ricognizione e alla pura epitome del ‘‘già detto’’. Quanto appena affermato, peraltro, non è che una valutazione soggettiva, condivisibile o meno a seconda dell’ottica da cui si procede. Un argomentare diverso non sarebbe certo impercorribile né avrebbe minori possibilità di essere condiviso. Infatti, da un lato è perfino ovvio che ogni ricerca, quale ‘‘spiegazione’’ di dati esistenti, abbia quale componente essenziale l’elaborazione dell’altrui pensiero. Essa infatti ingloba al suo interno le attività di reperimento, vaglio ed accertamento delle fonti, che implicano un esercizio ricognitivo. A tale fase preliminare segue peraltro un’attività prettamente valutativa e critica delle fonti, coincidente in ultima analisi con l’interpretazione. Ma, se il carattere ricognitivo si addice per definizione alla ricerca intesa quale attività di raccolta, esso non è in questa costringibile, ché la stessa (*) Il presente studio è parte di una ricerca sul tema: « L’esercizio dell’azione penale tra obbligatorietà e discrezionalità », co-finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica.


— 539 — attività di interpretazione, complemento ultimativo della ricerca, è per buona parte non altro che la declamazione di idee altrui che avviene dopo la loro scoperta. Nell’interpretazione è sempre presente una buona dose di opportunismo, inteso quale procedimento di assimilazione di quanto ritenuto soggettivamente utilizzabile. Da ciò deriva il carattere necessariamente ricognitivo della stessa attività critica ed ermeneutica. Tuttavia, è pur sempre possibile che alla ricognizione possa aggiungersi altro che non sia semplice mutamento di forma. Una mole di studi su un dato argomento non è necessariamente d’ostacolo alla novità, ben potendo essa costituire, a talune condizioni, il veicolo per un maggior sforzo critico dell’interprete, viatico, sia pur solo potenziale, di originalità argomentativa. Con tale affermazione ben potrebbe convenire non solo qualunque relativista epistemico, il cui pensiero è portato a convergere sull’idea che ogni interpretazione e giudizio non possono essere né esatti né sbagliati, ma solo ‘‘coerent[i] con le premesse ermeneutiche stabilite dallo stesso interprete’’ (1), e quindi validi solo dal punto di vista soggettivo (2), ma altresì ogni persona che rifugga da ogni ingenuo oggettivismo. Procedendo su questa strada, appare condivisibile l’idea secondo cui la proprietà primaria degli enunciati non sia la loro verità o falsità, bensì la loro asseribilità. Ne discende dunque che un enunciato in sé può solo essere appropriato o inappropriato, a seconda del contesto in cui viene utilizzato. In conformità a tale paradigma antioggettivistico, dovrebbe altresì abbandonarsi ogni pretesa di verità, di evidenza e di oggettività del giudizio, con il che di nessun giudizio potremmo mai contestare la validità senza timore di essere smentiti da altri. Infatti, ‘‘per ogni asserzione (teoria, punto di vista) che è creduta vera con buone ragioni possono esistere argomentazioni che mostrano che l’opposto, o un’alternativa più debole sono veri’’ (3). In ultima analisi, poiché ogni ragione giustifica il suo contrario, convenire con la prima o con la seconda delle valutazioni sopra proposte è una mera questione di scelta, rimessa alla valutazione di chi venga chiamato ad esprimersi in merito. E tale scelta, lungi dal coincidere con la ve(1) P.G. MONATERI, ‘‘Correct our watches by the public clocks’’. L’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in DERRIDA-VATTIMO (a cura di), Diritto, giustizia e interpretazione, Bari, 1998, p. 203. (2) Per una nitida osservazione sull’idea soggettivistica dell’interpretazione, sebbene d’ambito affatto diverso, v. MONTAIGNE, Apologia di Raymond Sebond, in Saggi, vol. I, Milano, 1996, p. 779, secondo cui esistono ‘‘tanti mezzi d’interpretazione che è difficile che, per un verso o per l’altro, uno spirito ingegnoso non trovi in ogni argomento qualche aspetto che faccia al caso suo’’. (3) P.K. FEYERABEND, Addio alla ragione, Roma, 1990, p. 69.


— 540 — rità, è la sintesi della sensibilità, della cultura e di ogni ulteriore aspetto della personalità del singolo soggetto. Queste prime indicazioni, più che intese a premettere le argomentazioni che seguiranno, entrano direttamente nella sostanza della tematica di nostra spettanza, ovvero lo spazio di discrezionalità concesso al pubblico ministero nella sua attività di organo propulsore del processo. Se infatti prerogativa dell’ufficio dell’accusa, distintiva ad esempio rispetto alle peculiarità delle parti private, consiste in primo luogo nel carattere doveroso degli atti da esso promossi, è però manifesto che innumerevoli sono le situazioni in cui il pubblico ministero deve scegliere, ovvero valutare secondo discrezione (4). Innumerevoli sono cioè le situazioni in cui il pubblico ministero, al pari dell’interprete che abbiamo sin qui preso come termine di paragone, si trova a dover premettere giudizi ai comportamenti (alle conclusioni) da assumere. Ed anche in questo caso, il motore dell’azione non può che essere la sintesi delle inclinazioni personali e delle intenzioni o scopi del singolo magistrato. Allo stesso modo dell’interprete, che può far propria o contestare l’argomentazione proposta da altri, selezionando ‘‘opportunisticamente’’ le diverse soluzioni plausibili, procede il pubblico ministero quando si trovi di fronte alla scelta di impugnare o meno una sentenza o quando debba valutare gli elementi di indagine in suo possesso al fine di azionare o meno il processo. In entrambi i casi la discrezionalità ricopre un ruolo determinante. Poiché alla base di ogni decisione v’è la scelta, anche l’azione penale sembrerebbe dunque avere, quale primo presupposto, la discrezionalità dell’agente, manifestantesi ad esempio nel momento in cui si opera la valutazione delle risultanze investigative. Da quanto sinora detto sembrerebbe — a prescindere dai problemi di varia natura che, come diremo, contribuiscono a desacralizzare il principio di obbligatorietà — che la presenza della discrezionalità trovi genitura in un ulteriore elemento, naturalmente dato. Non potendosi disporre normativamente l’individuazione del peso che la notitia criminis deve avere perché al pubblico ministero sia imposto l’obbligo di azionare il processo, è lo stesso magistrato che, discrezionalmente, valuterà gli elementi acquisiti e procederà ad assumere le proprie determinazioni. Non diversamente, cioè, da come opererà nella fase iniziale, decidendo in che direzione e con quale ampiezza svolgere le indagini. Procedendo di questo passo, si potrebbe concludere definendo la discrezionalità come una necessità ineliminabile, un a priori dell’attività del (4)

Cfr. F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., 1987, p. 74.


— 541 — pubblico ministero, che sottende ogni sua valutazione e giudizio e che è emanazione dell’insieme di giudizi di valore, abitudini, cultura allo stesso riferibili. Si potrebbe addirittura teorizzare che la presenza di un principio implicito e presupposto, quello di discrezionalità, abbia determinato la necessità di limitarne l’estensione, attraverso la costituzionalizzazione del principio inverso. In sostanza, poiché la discrezionalità, liberata da vincoli si trasformerebbe in arbitrio, la obbligatorietà avrebbe il ruolo di frenare tale pericolo incombente, senza riuscire però ad eliminarlo. L’art. 112 Cost. fungerebbe così da baluardo contro l’arbitrio, essendo ‘‘la trasformazione del potere da libero a vincolato... il solo mezzo idoneo per ovviare all’eventualità di un uso anormale del potere stesso’’ (5). Ma esso non avrebbe la forza per porsi in antitesi alla discrezionalità, per rappresentarne cioè la negazione. Con la costituzionalizzazione del principio di obbligatorietà, la discrezionalità non sarebbe dunque stata eliminata, ma si sarebbe delineata una compresenza di principi regolatori, posti su un piano di complementarità. L’obbligatorietà come principio normativo, la discrezionalità come principio naturale. Scansando il discorso da ogni possibile equivoco, è chiaro che queste ultime valutazioni siano erronee, per lo meno in relazione al significato tecnico-giuridico assegnato alla discrezionalità. Esse, peraltro, sembrano utili per premettere al resto quella definizione di discrezionalità che rientra nell’oggetto del presente lavoro. L’errore, evidentemente, deriva dalla parzialità dell’analisi, che non tiene conto della situazione normativa, e dall’avere affrontato il problema della discrezionalità muovendo da un’ottica esclusivamente metagiuridica e psicologica, peraltro ineliminabile. Ed infatti, a premessa di ogni atto giuridico v’è un comportamento umano che in esso finisce col confluire. Tecnicamente intesa, la discrezionalità, quale sinonimo di valutazione libera ancorata al principio di convenienza, non sembra trovare formalmente alcuno spazio nel nostro ordinamento. La presenza del principio di obbligatorietà è realmente intesa ad escluderne l’esistenza, e si pone effettivamente quale sua negazione. Sebbene dunque la discrezionalità sia manifestamente tangibile sul piano psicologico, essa, riformulata in termini giuridici, si infrange contro gli ostacoli frapposti dall’ordinamento, che fa divieto di eludere l’obbligo di agire. Non v’è dunque alcuno spazio formale per una valutazione di opportunità dell’agire. (5) p. 5.

Così A. CRISTIANI, La discrezionalità dell’atto nel processo penale, Milano, 1985,


— 542 — Peraltro, lo sbarramento posto alla discrezionalità pura o ‘‘libera’’, ovvero all’opportunità identificata nella autonoma volontà del pubblico ministero intorno alla scelta di agire, non è esteso in termini massimalistici, poiché esso non include la discrezionalità nell’altro suo significato propriamente tecnico, che va sotto il nome di ‘‘discrezionalità vincolata’’ (6). Il pubblico ministero viene privato della possibilità di scegliere se esercitare o meno l’azione penale sulla base del proprio insindacabile volere. Egli però dispone di parametri o vincoli normativi preventivamente fissati (art. 125 disp. att.) entro il cui rispetto operare la scelta. L’obbligo di agire presuppone dunque, e logicamente, l’esclusione della possibilità di scegliere in modo libero, ma si concilia con la possibilità di scegliere tra due diverse opzioni, entrambe tecnicamente perseguibili e vincolate a un criterio processualistico (7). Non deve poi ingannare il fatto che è pur sempre il pubblico ministero a dover valutare discrezionalmente se gli elementi acquisiti siano o meno sufficienti per l’instaurazione del processo. Infatti l’obbligatorietà non esclude, ciò che evidentemente non può fare, una valutazione soggettiva del materiale probatorio esistente, bensì inibisce che il pubblico ministero possa introdurre valutazioni di convenienza che rompano il necessario automatismo tra le conoscenze acquisite e la richiesta di punizione (8). Quanto sinora premesso consente di accedere all’idea di una possibile e naturale convivenza tra discrezionalità psicologica e obbligatorietà, confermata peraltro dall’art. 125 disp. att. c.p.p., secondo cui ‘‘il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato’’. Ma porta per converso ad escludere ogni coesistenza di principi invero incompatibili, ovvero l’obbligatorietà e la discrezionalità giuridica ‘‘libera’’. Quanto appena evidenziato, peraltro, non sfugge agli stessi limiti di ‘‘accettabilità’’ individuati inizialmente. Non basta infatti che un’asserzione sia perentoria perché da essa possano trarsi conseguenze univoche. Il riferimento è ovviamente all’art. 112 Cost., consacrante l’obbligatorietà ad unico principio regolante l’esercizio dell’azione penale, la cui lettura non appare però idonea ad escludere la presenza di falle volte a sgranarne il contenuto precettivo. Falle, si badi, che hanno origine ordinamentale prima ancora che pratica. Ritorniamo dunque al punto di partenza, alla sostenibilità dei concetti ed alla loro condivisibilità. Si è parlato di errore in relazione alla pre(6) Sulla distinzione tra discrezionalità libera e vincolata, v. E. DOLCINI, Potere discrezionale (diritto processuale penale), in Enc. dir., 1985, vol. XXXIV, pp. 747 ss. (7) V.V. GREVI, Archiviazione per ‘‘inidoneità probatoria’’ ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1296. (8) V.O. DOMINIONI, voce Azione penale, in Dig. disc. pen., I, 1987, p. 410.


— 543 — senza nell’ordinamento di un principio di discrezionalità affiancato a quello declamato in costituzione. Ma, come vedremo, anche la materia giuridica è soggetta all’imperio di quella regola generale secondo cui il fine ultimo raggiungibille coincide non con la verità, bensì con l’asseribilità, data dalla coerenza delle conclusioni con le loro premesse. 2. L’obbligo costituzionale di agire e il suo reale ambito di applicazione nella realtà del codice. — Accantonando ogni ulteriore riferimento alla discrezionalità in senso psicologico, l’attenzione può ora accostarsi alla discrezionalità in senso proprio, apparentemente estranea, come dettosi, al nostro sistema giuridico. In realtà, affermare il ‘‘dominio’’ della obbligatorietà quale unico principio regolante l’azione penale è erroneo (contrario alla verità) ed ancor più illusorio (contrario alla realtà). Da un lato la verità normativa sembra condurre alla negazione di un simile assunto, ratificando invece la coesistenza dei due principi; dall’altro la stessa realtà pratica sembra avere ormai certificato un avvicendamento tra di essi. Tale affermazione, essa stessa chiaramente fallibile nella sua perentorietà, necessita di alcune ulteriori premesse di ordine sistematico e terminologico, concernenti il concetto di azione penale. In effetti, la frequenza con cui si è soliti affermare l’esistenza, neppure troppo latente, di un principio di discrezionalità dell’azione affiancato, o fors’anche ormai sostituitosi a quello di obbligatorietà, impone di valutare in quali termini il codice abbia compiutamente attuato la regola costituzionale (9) ed, ancora, se la discrezionalità abbia proprio in esso trovato validi punti di sfogo. In particolare, è il momento in cui l’azione penale si instaura nel corso del procedimento ad assegnare, sotto il profilo temporale, il preciso operare dell’obbligatorietà dell’azione penale ed, eventualmente, del suo riflesso negativo. Difformi sono le conclusioni, infatti, a seconda che l’azione penale sia fatta coincidere con la richiesta di rinvio a giudizio ovvero con il momento dell’acquisizione della notitia criminis da parte del pubblico ministero. Assumendo per buona la seconda ipotesi, le decisioni del pubblico ministero intorno all’an, al quomodo e al quantum delle indagini rientrerebbero nell’ambito di un’azione penale già obbligatoriamente esercitata (10), dal che si determinerebbe una patente degenerazione del principio di obbligatorietà ove si intravedessero spazi di attività discrezionale. (9) Il principio costituzionale viene enunciato all’interno del codice di rito dall’art. 50, secondo il quale ‘‘il pubblico ministero esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione’’. (10) V. sul punto M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in Cass. pen., 1993, p. 2663.


— 544 — Su tale prima ipotesi è necessario dunque soffermarsi, richiamando la distinzione offerta in ordine ai concetti di discrezionalità psicologica e discrezionalità-opportunità. Il pubblico ministero, acquisita la notitia criminis, svolge, ai sensi dell’art. 326 c.p.p., ‘‘le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale’’. È lo stesso codice, dunque, a delimitare il terreno investigativo a quelle indagini ritenute necessarie dal pubblico ministero per l’assunzione delle successive determinazioni. Il codice non costringe l’attività di indagine entro criteri predeterminati, ciò che per vero non sarebbe nemmeno immaginabile, ma trasferisce al pubblico ministero l’onere di valutare quali atti di indagine siano necessari al fine di costituire quella base conoscitiva su cui fondare la decisione sul procedere o meno alla richiesta di giudizio. Nella fase delle acquisizioni conoscitive, il pubblico ministero è dunque ‘‘interprete delle necessità’’, le quali verranno vagliate e misurate dal loro dominus, secondo la sua soggettiva valutazione. Analogamente all’art. 125 disp. att. c.p.p., l’art. 326 c.p.p. certifica dunque l’indefettibilità della discrezionalità psicologica d’indagine. Peraltro, v’è da considerare che, con riferimento alle modalità di conduzione delle indagini, al quomodo e al quantum delle stesse, sarebbe inutile veicolare l’atteggiamento discrezionale del pubblico ministero all’interno della discrezionalità psicologica o della discrezionalità-opportunità. Ciò in quanto le due categorie finiscono inevitabilmente col confondersi, essendo il significato da attribuire alla scelta del pubblico ministero insondabile dall’esterno. Ipotizziamo che il pubblico ministero decida di non assumere informazioni da una persona informata sui fatti. Egli potrebbe ritenere non necessario tale atto al fine delle proprie determinazioni finali, avendo raggiunto per altra via la convinzione dell’infondatezza della notizia di reato, ovvero, lo stesso atto potrebbe venire scientemente accantonato per via di un preventivo favore assegnato ad altri procedimenti ritenuti più importanti, o per altri e diversi motivi di opportunità. In realtà, il discorso sembra mutare in relazione all’an delle indagini. In presenza di una notizia di reato, infatti, l’eventuale inerzia sembrerebbe poter essere originata non da altro che da un atteggiamento discrezionale puro. A ben vedere, anche in tal caso, come in quello precedente, non possono trarsi conclusioni univoche. L’inerzia del pubblico ministero potrebbe anche dipendere da motivi estranei alla sua volontà, quali la necessità di dar corso ad altre indagini, complesse e temporalmente imponenti, tali da imporgli l’accantonamento dei restanti procedimenti, che finiscono con il trovare principio e fine nel solo atto di iscrizione della notizia. Sarebbe dunque arduo, se non impossibile, comprendere anche in tali circo-


— 545 — stanze se la scelta del pubblico ministero di non agire sia da ascrivere a scelte di opportunità, ovvero indotte dalle necessità. Ed è questo, come vedremo, il terreno su cui poggia l’annodata e annosa questione dei c.d. criteri di priorità. Le osservazioni ora espresse, relative alla difficoltà di discernere in quale misura la discrezionalità ‘‘libera’’ possa insinuarsi nelle indagini, appaiono nondimeno superflue, poiché il codice sembrerebbe avallare l’idea di un’obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale muovente dalla fase post-procedimentale, coincidente con la conclusione delle indagini, con conseguente legittimità di una discrezionalità posta nella fase preliminare. La sostenibilità di una discrezionalità ‘‘di diritto’’, autorizzata normativamente, risulta plausibile solo in quanto l’esercizio dell’azione penale non venga fatto originare dall’insorgenza della notitia criminis (11). Ché, in tal caso, la discrezionalità avrebbe natura meramente pratica ma antigiuridica. Ma è lo stesso codice a concludere in un senso proficuo per la conclusione ora tratta. È infatti solo con la richiesta di rinvio a giudizio (o la formulazione dell’imputazione) che il pubblico ministero pone in essere un atto obbligato, essendogli imposto di esercitare l’azione ‘‘solo’’ quando la notitia criminis sia fondata. Si consideri a questo proposito, che nel progetto di revisione costituzionale approvato dalla Commissione Bicamerale, l’art. 132 Cost. era stato modificato proprio al fine di porre definitiva luce sulla questione. Prevedendo che ‘‘il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale e a tal fine avvia le indagini quando ha notizia di un reato’’, si era proprio inteso esplicitare lo iato tra lo svolgimento delle indagini e l’esercizio dell’azione penale. In particolare, nel codice la certificazione di questa frattura tra indagine ed azione penale è in primo luogo esclamata dall’art. 326 c.p.p. Disponendo che ‘‘il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale’’, si definisce l’indagine come attività forgiata propedeuticamente all’azione penale. È soprattutto l’art. 405 c.p.p., tuttavia, ad esplicitare i contorni del principio costituzionale. Ed infatti, sin dalla sua rubrica (inizio dell’azione penale), esso collega azione penale ed imputazione, disponendo che ‘‘il pubblico ministero, quando non deve chiedere l’archiviazione, esercita l’a(11) Cfr. sul punto O. DOMINIONI, voce Azione penale, in Dig. disc. pen., I, 1987, p. 409; M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 2663; B. CARAVITA, Obbligatorietà dell’azione penale e collocazione del pubblico ministero: profili costituzionali, in Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Atti del convegno, Perugia, 20-21 aprile 1990, a cura di A. Gaito, Napoli, 1991, pp. 299-300.


— 546 — zione penale, formulando l’imputazione... ovvero con richiesta di rinvio a giudizio’’. Se dunque l’obbligo di esercitare l’azione penale ha come riferimento la formulazione dell’imputazione, il discorso muta, ma solo ora, in maniera irreversibile. Il pubblico ministero non ha la possibilità di scegliere tra archiviazione e processo. Ove non debba richiedere l’archiviazione, egli deve procedere. Si tratta in entrambi i casi di un dovere e non di una scelta. Il codice non consente al pubblico ministero di optare per l’una o per l’altra decisione, a seconda del suo giudizio, ma postula come necessario l’esercizio dell’azione penale quando gli elementi acquisiti si rivelino fondati e quantitativamente idonei a suffragare la richiesta di giudizio. Non vi è allora discrezionalità, poiché la fondatezza della notizia impone l’attivazione del processo. Il pubblico ministero verifica l’esistenza di certi presupposti (art. 125 disp. att.) e formula l’imputazione, esercita cioè l’azione penale, sulla base di una valutazione discrezionale degli elementi acquisiti precedente però alla nascita del dovere di agire pro processo. Quanto premesso consente di abbozzare una prima conclusione, che tende ad affermare in primo luogo l’affiancamento della discrezionalità all’obbligatorietà come regola normativa e ad escludere che la discrezionalità in sé rappresenti una forzatura delle regole ordinamentali vigenti. Tali regole infatti vengono forzate non dalla discrezionalità intesa quale espressione della valutazione soggettiva del magistrato sulla sussistenza dei presupposti di legge, né nel caso in cui le indagini siano state condotte con criteri di opportunità; bensì solo nell’ipotesi in cui, concluse le indagini, il pubblico ministero opti per il non esercizio pur in costanza di quegli elementi probatori che renderebbero sostenibile l’accusa in giudizio. Prima della conclusione delle indagini, dunque, l’attività del pubblico ministero è orientabile a sua discrezione. In tal modo viene legittimato, e temporalmente circoscritto, l’ambito della discrezionalità. Alla discrezionalità psicologica si affiancano una discrezionalità procedimentale legittima ed una discrezionalità preprocessuale, quest’ultima sola confliggente con la Costituzione. Se il codice di rito appare permeabile ad una discrezionalità modulata nell’ampio raggio dell’attività di indagine, il problema della c.d. discrezionalità ‘‘di fatto’’ sembrerebbe allora assumere connotati impropri e mal posti, per come inteso ordinariamente. Di solito, infatti, la natura giustificativa della discrezionalità, lungi dall’essere riscontrata nel codice, viene relazionata a ragioni di ordine pratico, che ne imporrebbero la necessaria (ma illegittima) presenza. A fronte di un principio, quello di obbligatorietà, fortificato entro le mura della co-


— 547 — stituzione, la deriva verso la discrezionalità troverebbe radice in ragioni fattuali, acuite da disfunzioni di carattere organizzativo. Peraltro, la plausibilità di un’interpretazione intesa a confutare l’idea della discrezionalità quale ‘‘principio non scritto’’, per affermarne la compresenza ‘‘di diritto’’ accanto a un principio di obbligatorietà di operatività successiva, non conduce, a ben vedere, ad alcuna contraddizione. La discrezionalità trova in effetti origine e giustificazione in problemi di ordine pratico. Dal canto suo, il codice certifica semplicemente come la discrezionalità, giustificata da ragioni di fatto, non sia per tale motivo in frizione con l’ordinamento, che invece legittima il travaso dei problemi pratici nell’ordine giuridico. Ragioni giustificative e ragioni normative sono poste dunque su piani differenti ma non in reciproco conflitto. Una confutazione di quanto sinora detto non parrebbe in realtà improponibile. Tutt’altro. Vero è infatti che l’art. 335 c.p.p., combinato con le altre norme codicistiche intese ad affermare il principio di completezza delle indagini (artt. 326 e 358 c.p.p.) (12), postula un obbligo per il pubblico ministero che trova stretta colleganza con l’obbligo di esercitare l’azione penale. Sebbene tale principio di completezza investigativa abbia un significato non più che orientativo ed esortativo, ché il pubblico ministero si dimostra, anche in concreto, titolare assoluto di ogni valutazione sulla necessità degli atti di indagine da espletare, resta il fatto che su tale base non potrebbe non affermarsi la coincidenza tra attività di indagine e obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (13). Vero è, ancora, e prendendo a prestito le parole della Corte costituzionale, che l’ordinamento prevede strumenti appositamente destinati a ‘‘contrastare le inerzie e le lacune investigative [del pubblico ministero] ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale’’ (14). La presenza nell’ordinamento di strumenti finalizzati ad escludere una gestione della funzione d’accusa in senso discriminatorio e quindi discrezionale, dovrebbe dunque confermare tale coincidenza tra indagini e obbligatorietà dell’azione. Il fatto poi che tale rete di strumenti non sempre si riveli idonea allo scopo, deporrebbe al limite in favore della presenza nell’ordinamento di una discrezionalità ‘‘di fatto’’, non già di una discrezionalità ‘‘di diritto’’, tollerata dal codice. (12) Cfr. Corte cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88, in Cass. pen., 1991, II, p. 207. (13) In questo senso, cfr. A.A. SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, pp. 13-14, secondo cui ‘‘l’obbligo costituzionale dell’esercizio dell’azione penale si risolve nell’obbligo di svolgere le indagini, e quindi di iniziare il procedimento. Pertanto, ove quest’obbligo non fosse previsto, o non ne fosse garantito efficacemente il rispetto, si profilerebbe una violazione dell’art. 112 Cost.’’. (14) Corte cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.


— 548 — Ove accedessimo a tale seconda lettura, la discrezionalità diverrebbe una forzatura di un sistema di per sé rigidamente impostato, non già dunque un principio ammesso. Tuttavia, la prima interpretazione, sebbene apparentemente audace, sembra trovare ulteriore legittimità ove si ponga attenzione al differente significato che l’azione penale ha assunto nel passaggio tra il vecchio e il nuovo codice. A conferma della difficoltà di assegnare univocità di significato ai termini e ai principi normativi, anche a quelli apparentemente più solidi, si consideri che la definizione di azione penale è stata oggetto di dispute interpretative almeno sin dagli inizi del secolo scorso. Già allora vi era infatti chi restringeva l’azione penale all’atto ‘‘col quale il pubblico ministero investe il potere giurisdizionale della conoscenza dell’illecito penale’’ (15), escludendo dall’azione stessa ogni attività propedeutica. Tale interpretazione restrittiva veniva peraltro osteggiata da chi nell’azione penale conglobava tutte le attività preparatrici dell’azione in senso stretto, intendendo la stessa come attività e non come atto (16). E quest’ultima interpretazione ben si acconciava al testo codicistico del 1930, il quale disponeva che ‘‘l’azione penale è pubblica e, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza, è iniziata d’ufficio in seguito a rapporto, a referto, a denuncia o ad altra notizia del reato’’. Sembra evidente come a tale disposizione non si conformi l’attuale comma 2 dell’art. 50 c.p.p., ai cui sensi ‘‘quando non è necessaria la querela, la richiesta, l’istanza o l’autorizzazione a procedere, l’azione penale è esercitata d’ufficio‘‘ (17). Mentre il codice Rocco inscriveva nel medesimo articolo il principio dell’officialità dell’azione insieme al tempus a quo della stessa (‘‘l’azione penale... è iniziata d’uffico in seguito a...’’), l’attuale codice regredisce precettivamente al mero dato, sempre residuale, dell’officialità. Affermare che ‘‘l’azione penale è esercitata d’ufficio’’ non consente alcuna deduzione intorno all’inizio dell’azione penale, che non a caso, e a questo punto coerentemente, viene posposta dallo stesso codice del 1988 ad un momento successivo (art. 405 c.p.p.). Mentre dunque il codice Rocco consentiva di interpretare l’azione penale come attività, modulata sui momenti della preparazione e della ac(15) Così LANZA, Sistema di diritto processuale penale italiano, Roma, 1922, I, p. 55, cit. da B. PETROCELLI, Azione, istruzione, accusa, in Riv. pen., 1931, II, p. 227. (16) In particolare, v. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, Torino, 1925, II, p. 268. (17) Coerenza logica al principio di cui all’art. 1 era assegnata dall’art. 74, comma 1, secondo cui ‘‘il pubblico ministero o il pretore per i reati di sua competenza inizia ed esercita con le forme stabilite dalla legge l’azione penale a norma dell’art. 1’’.


— 549 — quisizione degli elementi per attuare la decisione del giudice, l’attuale sistema sembra interpretare l’azione come mero atto di promovimento. Essa non prosegue con la formulazione dell’imputazione, ma inizia e si identifica in quel momento. Poiché il profilo dogmatico consente di accedere a due distinte interpretazioni dell’azione, tali che la prima non può di per sé escludere l’altra, è nella norma positiva che può (deve?) trovarsi il necessario ancoraggio per risolvere il dubbio che aleggia sulla nozione di azione penale. Ed il dato normativo non sembra lasciare dubbi sulla preferibilità dell’esegesi che vuole l’azione penale limitata al momento del suo promuovimento. Certo è che l’opzione caldeggiata, oltre che formalistica, appare altresì pericolosa, per via del conseguente spazio di illimitata libertà che verrebbe legittimamente concessa al pubblico ministero. D’altra parte, sarebbero di estrema e facile reperibilità le argomentazioni critiche di tale lettura. Tra di esse si potrebbe indicare, ad assorbimento di ogni altro argomento contrario, la Relazione al progetto preliminare del nuovo codice, che sottolinea come la mancata distinzione fra inizio ed esercizio dell’azione penale e il conseguente distacco dal previgente sistema siano dovuti a non altro se non alla circostanza ‘‘che l’esercizio dell’azione implica e presuppone necessariamente il suo inizio’’. È indubbio che la forza di un tale passaggio abbia una perentorietà cruciale. Il legislatore non ha insistito sulla nozione di azione penale, evitando ogni dilungamento e specificazione concettuale della nozione all’interno del codice, ritenendo che esercizio ed inizio dell’azione penale siano un tutto unitario ed inscindibile. Dal che sembrerebbero cadere tutte le argomentazioni sinora spese in favore della ‘‘discrezionalità di diritto’’. Il legislatore non ha inteso posporre l’azione penale al termine delle indagini, non ha dunque ritenuto di dover innestare il principio costituzionale su una fase di indagine libera, ma ha inteso garantire l’obbligatorietà dell’azione penale nella sua piena latitudine. Ed infatti, dal su riferito passaggio della Relazione si trarrebbe un principio consolidato e assuefatto, secondo cui l’esercizio dell’azione penale obbligatorio impone e presume l’obbligatorietà dell’inizio della stessa azione. Tuttavia il dubbio permane e convince a rimanere arroccati sull’interpretazione più aderente alla lettera normativa. Se l’esercizio dell’azione ‘‘implica e presuppone necessariamente il suo inizio’’, l’art. 405 c.p.p. dovrebbe infatti essere riscritto. In esso l’inizio dell’azione penale non viene presupposto, non viene premesso temporalmente all’esercizio, il quale non è atto successivo, bensì coincidente col primo. La Relazione contiene un principio ribaltato dal codice, in cui inizio ed esercizio dell’azione penale rappresentano non momenti distinti e collegati l’uno all’altro, ma termini utilizzati in senso sinonimico. Nel Pro-


— 550 — getto l’azione penale assume valenza di ‘‘attività’’, nel codice l’azione penale diviene ‘‘atto’’, unico e temporalmente certo. 3. Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. — Dopo queste considerazioni, rimaniamo convinti che l’interpretazione più aderente al lessico normativo, che legittima l’affiancamento della discrezionalità di diritto all’obbligatorietà post-procedimentale, sia soluzione, oltre che corretta, preferibile anche sul piano pratico. Per sostenere l’utilità pratica della discrezionalità quale principio coregolatore dell’azione penale, si procederà a contrario, invalidando l’idea della discrezionalità di diritto ed affermando come unico e ‘‘vero’’ principio regolatore quello dell’obbligatorietà, muovente dunque sin dalla fase di indagine. Così ragionando, resterebbe un dato, la discrezionalità di fatto, che verrebbe a questo punto riesumata nel suo significato comunemente inteso, ovvero quale forzatura del principio di obbligatorietà imposta dall’impossibilità per il sistema giudiziario di smaltire l’inarrestabile fiume di notizie di reato riversate ogni giorno negli uffici di procura. Se così fosse, però, una conclusione inossidabile sarebbe quella di ritenere illegittimo e sanzionabile ogni comportamento del pubblico ministero che rimanga inerte davanti alla notizia di reato acquisita. Ed infatti, non può non riconoscersi che la scelta tra le due interpretazioni offerte finisca col determinare un’unica differenza sul piano pratico. Ovvero la legittimità del comportamento del pubblico ministero inerte o poco incline ad indagare nell’un caso (discrezionalità di diritto), la sua responsabilità penale o disciplinare nell’altro (discrezionalità di fatto). A questo punto, sorge la necessità di valutare gli aspetti di problematicità orbitanti intorno alle due distinte opzioni ermeneutiche: quella qui preferita, che sulla base delle norme positive consente di liberare il pubblico ministero dal laccio costituzionale, concedendogli libertà di azione fino alla fase terminale del procedimento, e quella largamente condivisa della c.d. discrezionalità di fatto che, in ultima analisi, determina gli stessi effetti, sia pur sulla scorta di giustificazioni che, però, non appaiono del tutto convincenti (18). Prendiamo le mosse dai motivi che pongono la dicrezionalità c.d. di fatto quale dato necessario dell’attività di indagine delle procure, come anche empiricamente evidenziato da una molteplicità di analisi. Non v’è autore che non consideri la discrezionalità come una neces(18) Di estremo interesse, sul punto, è l’analisi di G. D’ELIA, I principi costituzionali di stretta legalità, obblicatorietà dell’azione penale ed eguaglianza a proposito dei ‘‘criteri di priorità’’ nell’esercizio dell’azione penale, in Giur. cost., 1998, III, p. 1878 ss.


— 551 — sità ineliminabile, per l’impossibilità pratica di far corrispondere un processo ad ogni notizia di reato. Problema non nuovo, questo, se si considerano le analoghe preoccupazioni espresse addirittura in sede di redazione del codice Finocchiaro Aprile (19). E non v’è autore che, nell’affrontare la tematica dell’esercizio dell’azione penale, non abbia avuto ad oggetto della propria analisi il problema dei criteri di selezione o di priorità nella trattazione delle notizie di reato, a volte indicati quale unico mezzo salvifico, idoneo a razionalizzare il lavoro delle procure nel rispetto dell’art. 112 Cost. Sul perché i criteri di priorità debbano essere ritenuti in linea con il principio costituzionale, senza pertenere dunque all’ambito illecito della discrezionalità di fatto, si è detto che ‘‘l’individuazione di criteri di priorità non contrasta con l’obbligo di cui all’art. 112 Cost., dal momento che il possibile mancato esercizio dell’azione penale tempestiva e adeguatamente preparata per tutte le notizie di reato non infondate, non deriva da considerazioni di opportunità relativa alla singola notizia di reato, ma trova una ragione nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro’’ (20). Altrimenti detto, ‘‘si può parlare di discrezionalità naturalmente solo se l’abbandono di certe fattispecie risponde ad una scelta intenzionale e non coatta’’ (21). Ed ancora: ‘‘Ciò non suona offesa all’obbligatorietà dell’azione penale nei limiti in cui... tale soluzione non deriva da considerazioni di opportunità relative alla singola notizia di reato, ma trova causa nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso e della procura della Repubblica in particolare’’ (22). Il pubblico ministero che si sottragga all’obbligo di esercizio dell’azione in costanza di criteri di priorità non potrebbe dunque essere sottoposto ad azione disciplinare, né a maggior ragione incapperebbe nel rischio di una denuncia per omissione di atti d’ufficio. (19) ‘‘Così abbiamo una folla incredibile di procedimenti penali che ingombra le preture, massime nei maggiori centri urbani; e a chi osserva attentamente lo svolgersi di questo fenomeno non può sfuggire che la funzione giudiziaria riesce spesso impari al compito di mantenere integra l’osservanza delle leggi’’. Così si legge nella Relazione della commissione speciale del Senato sul disegno di riforma del codice presentato nel 1911, in Commento al codice di procedura penale, vol. III, lavori parlamentari, pp. 16-17, Torino, 1915. (20) Così, V. ZAGREBELSKY, Una ‘‘filosofia’’ dell’organizzazione del lavoro per la trattazione degli affari penali, in Cass. pen., 1991, p. 364. V. anche, dello stesso autore, L’obbligatorietà dell’azione penale. Un punto fermo, una discussione mancata, un problema attuale, in Cass. pen., 1992, p. 3186. Sull’utilità dei criteri di preselezione delle notitiae criminis, v. anche V. GREVI, Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per legge ordinaria?, in Dir. pen. proc., 1997, p. 495. (21) Così, U. NANNUCCI, Analisi dei flussi delle notizie di reato in relazione all’obbligatorietà e facoltatività dell’azione penale, in Cass. pen., 1991, p. 1669. (22) C.S.M., sez. disc., 23 luglio 1997, Vannucci, in Cass. pen., 1998, p. 1490.


— 552 — Il ragionamento non convince del tutto o, se convince, è facilmente estensibile alla prassi attuale, in cui pur anche in mancanza di criteri di priorità, i pubblici ministeri operano in modo generalizzato scelte tra i procedimenti cui dare precedenza. Se le notizie di reato sono troppe rispetto alle capacità di smaltimento delle stesse, la coazione che impone ogni giorno alle procure di operare scelte discrezionali salva dall’illiceità anche lo statu quo. A meno che non si voglia credere che oggi il pubblico ministero il quale, a prescindere da ogni preventiva razionalizzazione delle categorie di reati da perseguire con immediatezza, agisca a suo piacere, violi l’obbligo costituzionale. Obbligo che, invece, non verrebbe violato ove tale scelta avvenisse dall’alto e fosse posta ad unificare il comportamento di tutti i magistrati di una determinata procura, se non tutti i pubblici ministeri d’Italia. In definitiva, senza i criteri di priorità, resterebbe il dubbio che il pubblico ministero possa agire arbitrariamente o per convenienza personale, preponendo le proprie scelte ideologiche o le proprie opzioni di politica criminale agli obblighi derivanti dal principio di legalità e di uguaglianza. Con la previsione di criteri di priorità, tutto a un tratto, la violazione della costituzione verrebbe disinnescata. A dire il vero non si capisce il perché. Sia che la scelta sulla sorte dei procedimenti sia lasciata al caso e alla decisione del singolo magistrato, sia che l’insieme dei procedimenti sia trattato razionalmente secondi criteri regolamentati, si tratterebbe comunque di scelte imposte dalla necessità. Dunque, anche oggi il comportamento dei pubblici ministeri che agiscano al di fuori di ogni criterio razionalmente imposto, non sarebbe discrezionale, ma pur sempre allineato al principio costituzionale perché imposto da contingenze esterne al volere del magistrato. Sostenere che l’inerzia del magistrato sia illegittima quando derivi da considerazioni di opportunità relative alla singola notizia di reato, ma non lo sia quando trovi causa in un limite oggettivo, non ha significanza alcuna se non intesa a nascondere una realtà che, comunque la si guardi, legittima il magistrato a dominare le proprie scelte. È infatti possibile capire quando il magistrato operi per ragioni di convenienza e quando operi per necessità estranee alla sua volontà? Come è possibile dimostrare, sempre che sia ‘‘storicamente’’ vero, che il tal magistrato ha volontariamente eluso ogni tipo di indagine per convenienza e non perché costretto dalla necessità di perseguire altri reati ritenuti più importanti? Peraltro, perché mai i criteri di priorità dovrebbero essere preferibili all’attuale stato di anarchismo metodolgico regolante l’attività di alcune procure? Pur prescindendo dalla difficoltà di stabilire l’organo cui sarebbe pre-


— 553 — feribile assegnare il compito di creare la scala dei reati da perseguire (23), essa non avrebbe effetti salvifici, poiché verrebbero ad essere estromessi dalle aule di tribunale intere tipologie di reati, ovvero quei reati che venissero a trovarsi all’ultimo gradino. Se questo deve essere il prossimo corso della fase procedimentale, imposto dalla necessità di razionalizzare l’attività delle procure, meglio lasciare le cose come sono. In tal modo, per lo meno, il cittadino avrà sempre la speranza che qualche magistrato possa avere a cuore la tutela di beni giuridici ritenuti meno prementi da valutazioni esse sì coattive, espresse dal C.S.M. o dal governo. In tal modo, reati che rimarrebbero sicuramente impuniti, diverrebbero, come attualmente sono, solo potenzialmente tali. È in ultima analisi da preferire un sistema improntato al buon senso del singolo magistrato che non a quello di organi superiori, lontani dalle peculiari esigenze che contraddistinguono, in modo differente, l’attività di ogni singola procura. Se le considerazioni comunemente spese a salvare la discrezionalità di fatto dalla frizione con la costituzione non appaiono riguardare solo la natura dei criteri di priorità, bensì anche l’esistente discrezionalità incontrollata, v’è ancora da considerare che, in realtà, tutte le giustificazioni utilizzate per allineare alla costituzione l’adozione dei criteri di priorità e, per quanto ora detto e necessariamente, la discrezionalità di fatto tout court, sono in realtà controvertibili. Se il principio di obbligatorietà è non altro che un corollario del principio di uguaglianza e del principio di legalità, cui sono sottoposti giudici e pubblici ministeri, allora i criteri di priorità sono chiaramente in contrasto almeno con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). E a tal proposito non vi sarebbe alcuna distinzione tra discrezionalità di fatto incontrollata e discrezionalità legalizzata incisa nei criteri di priorità. In definitiva, possono trarsi due conclusioni. Se la discrezionalità di fatto è da considerarsi conforme al dettato costituzionale, in quanto imposta da necessità estranee alle intime volontà del pubblico ministero, a nulla servirebbe una modificazione dell’attuale sistema, che consente all’organo pubblico di selezionare a piacere le notitiae criminis. Ciò in quanto non sono i criteri di priorità a rendere le scelte del pubblico ministero conformi alla costituzione, bensì il sovraccarico di procedimenti, che legittimerebbe anche oggi il pubblico ministero, caso per caso, a scegliere come operare. Se invece tale giustificazione fosse inaccoglibile, avremmo quale conseguenza, per vero stupefacente, che l’attuale e generalizzata prassi delle procure ha fino ad oggi instaurato una permanente convivenza con l’illecito. Ciò in quanto, come si è ampiamente detto, sebbene le scelte del (23)

Sul punto, v. ottimamente U. NANNUCCI, Analisi dei flussi, cit., p. 1670.


— 554 — pubblico ministero rimangano insondabili dall’esterno, un’obbligatorietà nascente al momento del sorgere della notitia criminis imporrebbe una regolamentazione dell’attività di indagine obbligatoria e completa, con conseguente illegittimità di ogni inattività o attività parziale nell’effettuazione delle indagini. I vizi nascenti dall’interpretazione omnicomprensiva del principio di obbligatorietà non verrebbero peraltro meno ove si accedesse all’interpretazione inversa, che continuiamo ugualmente a preferire. Anche in essa v’è una buona e palese dose di giustificazionismo. Infatti, un sistema che concedesse al pubblico ministero di agire liberamente nel corso delle indagini e che ne vincolasse il comportamento solo al termine dell’attività di raccolta (eventuale) degli elementi probatori, sarebbe passibile di critiche ancor più profonde in punto di costituzionalità. In questo caso, infatti, il principio di uguaglianza — ma non, ovviamente, l’art. 112 Cost. — sarebbe patentemente violato, dal che sembra apparire con evidenza l’insostenibilità del ragionamento. Tuttavia, se la dottrina è riuscita a sostenere — nonostante il dato costituzionale — la compatibilità con esso dei criteri di priorità, vale forse la pena di individuare i motivi che portano a preferire, a prescindere dalla sua sostenibilità, l’opzione inversa e inizialmente esposta. In primo luogo, e da un punto di vista esclusivamente pratico, la prima interpretazione toglierebbe dall’ormai nemmeno più nascosto impaccio la magistratura inquirente, costretta ad inseguire giustificazioni a questo punto inutili per legittimare una prassi ormai persuasa dell’indefettibilità della discrezionalità dell’agire. Tanto più se si considera che le sanzioni a carico del magistrato inerte appaiono di fatto estranee ad ogni pur minimo ambito di applicazione. Poiché infatti l’impossibilità materiale di esaurire con compiutezza tutti i procedimenti assegnati al magistrato è circostanza facilmente dimostrabile, scontato sarebbe l’esito di qualsiasi procedimento a suo carico (24). L’interpretazione che vuole delineata una compresenza di principi è peraltro preferibile dal punto di vista propriamente normativo, senza che in essa possa intravedersi una difettosa attuazione dell’art. 112 Cost. Infatti, la presenza dell’opportunità nell’espletamento dell’attività di indagine può coesistere con un principio di obbligatorietà affermantesi in una fase successiva. Tanto più che la rete di strumenti ordinamentali, rimessi nella titolarità dell’organo giurisdizionale, del Procuratore generale e della persona offesa, è preposta proprio al controllo dell’attività del pubblico ministero, al fine di impedirne l’inerzia o la negligenza. La posizione istituzionale del giudice, informata al principio di lega(24)

V. C.S.M., sez. disc., 23 luglio 1997, Vannucci, in Cass. pen., 1998, p. 1489.


— 555 — lità, sarebbe proprio intesa ad evitare che l’opportunità con la quale il pubblico ministero ha inizialmente condotto l’attività di indagine, finisca col disinnescare il sopravveniente principio di obbligatorietà dell’azione penale, sulla cui operatività è fatto obbligo al giudice di porre attento presidio. Gli strumenti di controllo rimessi all’organo giurisdizionale non dimostrerebbero la presenza di un obbligo di esercitare l’azione penale nascente con l’affermarsi della notizia di reato, bensì la volontà del legislatore di evitare che l’esercizio dell’azione penale obbligatorio sia impedito a causa di indagini consapevolmente incomplete o ‘‘disattivate’’. Sebbene discrezionale, l’attività di indagine non autorizza il pubblico ministero a fare ciò che vuole. Il principio di obbligatorietà, posto nella fase ultima delle indagini, determina sull’organo pubblico un condizionamento verso una completa attività di indagine, che il codice ritiene necessaria perché l’obbligatorietà dell’azione penale sia compiutamente realizzabile. Ma, a prescindere dai motivi di ordine pratico e dalle giustificazioni di carattere normativo, la vera e decisiva ragione che conduce a preferire l’idea della ‘‘obbligatorietà minima’’, deriva dai rischi che potrebbero determinarsi con l’uscita dall’attuale situazione, dai più ritenuta insostenibile ed invero, per lo meno per chi scrive, da conservare ed anzi da sostenere anche mediante sforzi interpretativi sia pur audaci. Ed infatti, la malattia dell’attuale architettura dell’azione penale viene diagnosticata nell’ampia discrezionalità lasciata alla libera determinazione dei singoli uffici di procura, situazione questa che determinerebbe una profonda lesione ai principi costituzionali di obbligatorietà dell’azione penale e di uguaglianza. Tuttavia, le medicine che si vorrebbero somministrare avrebbero effetti ancor più dannosi, e massimamente tali, con riferimento ai criteri di priorità, se stabiliti per legge. Si considerino solo i pericoli di assoggettamento dei pubblici ministeri al potere politico insiti nell’ormai decaduto disegno di legge n. 2027 (25), presentato nel corso dei lavori della Commissione bicamerale per le riforme, che da un lato intendeva rimettere al Parlamento, su proposta del Ministro della giustizia, la lista delle priorità cui vincolare l’attività di indagine delle procure (26), dall’altro optava (25) Il disegno di legge S2027, Pera ed altri, presentato il 24 gennaio 1997, proponeva la riformulazione dell’art. 112 Cost. nei seguenti termini: ‘‘Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura requirente e il Ministro dell’interno, propone al Parlamento ogni anno i criteri e le priorità al fine dell’esercizio dell’azione penale. Il pubblico ministero esercita l’azione penale ove ne sussista l’interesse pubblico e comunque attenendosi ai fissati criteri di priorità’’. (26) Su cui si veda, in senso critico, V. GREVI, Pubblico ministero e azione penale, cit., p. 494.


— 556 — chiaramente per la totale sostituzione del principio di obbligatorietà con quello discrezionale puro. Ma ancora, si consideri che proprio l’impossibilità di dare un seguito processuale ad ogni notizia di reato ha condotto molti a teorizzare l’abbandono del principio di obbligatorietà in favore di quello di discrezionalità. Pericolo, questo, che verrebbe meno ove il sistema attuale venisse ‘‘letto’’ nel senso caldeggiato, che consente la compresenza dei due opposti principi. Infatti, un’obbligatorietà nascente in un momento successivo al sorgere della notizia di reato consentirebbe sì al pubblico ministero di attivarsi in autonomia e discrezionalmente nella fase iniziale, con la certezza però che l’incombente principio di obbligatorietà sarà pur sempre tutelato dalla rete di controlli rimessa all’organo giurisdizionale. Preso atto dell’ineliminabilità della discrezionalità, è il caso di trovare soluzioni che consentano di garantire una navigazione il più possibile piana al nostro processo, senza che dalla consapevolezza del problema attuale ci si volga verso l’approntamento di soluzioni che sarebbero ancor più gravose e insostenibili per il sistema. Perché l’attività del pubblico ministero nell’opera di selezione delle notizie di reato possa rimanere libera e al contempo obbligatoria, sono prospettabili due ipotesi: conservare l’interpretazione classica dell’art. 112 Cost., che vuole l’obbligo di esercizio dell’azione penale operante dalla fase di indagine in avanti, e lasciare che i pubblici ministeri agiscano secondo criteri selettivi autonomi, già ora peraltro condizionati dagli indirizzi imposti dai procuratori generali ovvero dal CSM, che hanno un carattere di fatto vincolante (27), sebbene ancora non normativizzato e dunque formalmente orientativo. Ma in tal caso si dovrebbe giungere a un’affermazione di compatibilità tra discrezionalità di fatto e principio di obbligatorietà dell’azione penale, sulla scorta di argomenti analoghi a quelli proposti dai fautori dei criteri di priorità. Oppure, limitare l’ambito di operatività del principio costituzionale e concedere così al pubblico ministero di muoversi discrezionalmente nell’arco dell’attività di indagine e fino alla conclusione delle stesse. 4. I criteri di priorità nella trattazione dei processi (art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998). — Senza abbozzare previsioni sulle scelte del nuovo legisla(27) Secondo G. DI FEDERICO, Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle attività del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, in Accusa penale, cit., p. 197, è ‘‘inevitabile... che le valutazioni compiute da un organo che distribuisce gratificazioni e compie continuamente valutazioni che in via più o meno diretta hanno, o appaiono avere, contenuti sanzionatori (nell’immediato o in prospettiva futura) non possono non avere conseguenze sui comportamenti dei magistrati, anche se questi effetti possono variare al variare delle caratteristiche personali dei magistrati stessi’’.


— 557 — tore in materia di esercizio dell’azione penale, v’è comunque da sottolineare che l’elezione dei criteri di prorità quale strumento di razionalizzazione del carico processuale si è già insinuata nell’ordinamento con il decreto legislativo sul giudice unico, che, in sede di disciplina transitoria, ha enucleato precisi criteri sui quali informare la trattazione e la definizione dei processi pendenti all’entrata in vigore del decreto (28). Gli indici della gravità del reato, della sua concreta offensività e il pregiudizio che il ritardo potrebbe comportare per la definizione del processo, si pongono quali criteri guida, preposti al mero dato cronologico. Con tale disposizione si è dunque aperta una strada, si è cioè per la prima volta normativamente accreditata l’idea che la preselezione delle notizie di reato possa rappresentare nel prossimo futuro la soluzione all’attuale malvista discrezionalità di fatto incontrollata. La lettera normativa pone subito alcuni dubbi interpretativi, inducenti un obbligo di riflessione sull’effettiva portata della disposizione. Si è appena detto della futuribilità dei criteri di selezione dei procedimenti, cui l’art. 227 potrebbe dare impulso. Per vero, si potrebbe invece ritenere che la norma abbia già autorizzato gli uffici di procura ad organizzare la propria attività in tal senso. Il riferimento ai ‘‘processi pendenti alla data di efficacia del presente decreto’’ non sembra lasciare dubbi sulla caratterizzazione ‘‘processuale’’ della norma, intesa a razionalizzare l’attività degli organi giudicanti. Ma tale conclusione pare essere contraddetta dall’ulteriore riferimento ai ‘‘procedimenti’’ e dall’onere per gli uffici di comunicare ‘‘tempestivamente al Consiglio superiore della magistratura i criteri di priorità ai quali si atterranno per la trattazione dei procedimenti e per la fissazione delle udienze’’. La norma sembra dunque avvalorare l’idea di una impostazione generale imbastita sui criteri di priorità, regolanti sia l’attività delle procure che quella dei giudici. Se così fosse, tutti i procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto (2 giugno 1999) e dunque quelli che tuttora si trovino in fase di indagine, potrebbero essere trattati secondo i principi inscritti nella norma in esame. I pubblici ministeri sarebbero dunque già stati liberati dallo scomodo paravento della discrezionalità di fatto, con conse(28) Questo il testo dell’art. 227 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51: ‘‘1. Al fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti alla data di efficacia del presente decreto, nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa. 2. Gli uffici comunicano tempestivamente al Consiglio superiore della magistratura i criteri di priorità ai quali si atterranno per la trattazione dei procedimenti e per la fissazione delle udienze’’.


— 558 — guente liceità — per autorizzazione legislativa — di inerzie investigative forgiate sui tassativi canoni della scarsa gravità del fatto e della scarsa offensività del reato. Sennonché, non sembra che gli uffici dei pubblici ministeri si siano sinora affaccendati a comunicare al CSM quei criteri di priorità che permetterebbero loro una più lineare e fattiva organizzazione del lavoro. Ma allora, è più probabile che la norma, lungi dall’essere rivolta agli uffici della Procura, abbia un ambito applicativo più limitato e residuale, rivolgendosi a ben vedere alla sola attività degli organi giudicanti. Questo, in effetti, deve essere il senso da assegnare all’art. 227 in esame, che — sin dal suo esordio — si pone in esclusiva relazione con la fase processuale. Ragionando diversamente, infatti, non si comprenderebbe il senso della finalità in esso declamata, ovvero l’assicurazione della rapida definizione dei processi. Tutto il resto deve necessariamente essere consequenziale all’esordio e, per questo, deve essere interpretato secondo logica. Certo il riferimento ai procedimenti non sembra felice, ma non appare decisivo, posto anche l’utilizzo improprio del termine ‘‘procedimento’’ spesso presente nel codice di rito. Se la finalità è quella di ‘‘assicurare la definizione dei processi pendenti’’ non avrebbe senso anticipare l’utilizzo dei criteri di priorità in una fase, quella di indagine, che nessuna conseguenza avrebbe sul raggiungimento di quella finalità. Ed infatti, poiché il processo ‘‘pende’’ a seguito della formulazione dell’imputazione, l’utilizzo di criteri di priorità nella fase procedimentale non aiuterebbe il raggiungimento di quel fine, ma determinerebbe soltanto una duplicazione delle finalità della norma, che la stessa tende chiaramente ad escludere. Se la norma si riferisce al giudizio (29), e se è vero che avrà un’operatività a termine per via della sua natura transitoria, ciò non toglie che essa rappresenti la base su cui modellare l’eventuale futuro impianto delle priorità processuali e procedimentali. Il suo ingresso timido, relegato ai margini della legge, non può nascondere le sue potenzialità. In particolare, l’importanza della norma sta nel suo significato simbolico. Essa è stata inserita al solo fine di razionalizzare il lavoro degli organi giudicanti all’atto dell’entrata in vigore della legge sul giudice unico, ciò (29) Sulla stessa linea si pone ora l’art. 15 d.m. 6 aprile 2001, n. 204, Regolamento di esecuzione del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, il quale prevede che ‘‘nella formazione del ruolo per le udienze davanti al giudice di pace si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, nonché dell’interesse della persona offesa e delle possibilità di conciliazione tra le parti’’.


— 559 — che appare ovvio vista la sua collocazione tra le disposizioni transitorie. Non una norma-principio, dunque, ma una norma di natura contingente. Eppure la norma eccezionale, una volta insinuatasi, rischia spesso di elevarsi a principio (30). Con il che, è possibile che l’apertura del legislatore ai criteri di priorità possa innescare un processo di assuefazione, tale da consentire a questa nuova impostazione di superare il piano processuale e transitorio per tramutarsi in principio generale, regolante la stessa attività di indagine, o addirittura in avamposto teorico per i fautori della discrezionalità pura, sia pur magari ‘‘schermata’’ da pseudo-vincoli (a loro volta discrezionalmente interpretabili) di comportamento (31). 5. La discrezionalità dell’azione penale con riferimento al quadro probatorio. — Il discorso sinora elaborato necessita di un ulteriore sviluppo, che conduca l’analisi dal piano prettamente dogmatico a quello, più eminentemente pratico, dell’evidenziazione delle modalità in cui la discrezionalità si manifesta. Si è inizialmente visto come la decisione di non agire trovi pur sempre origine in una valutazione personale del pubblico ministero in ordine ai presupposti di legge cui è subordinata la decisione medesima. La regola di giudizio cui il pubblico ministero deve attenersi per sostanziare la richiesta di archiviazione è dettata dall’art. 125 disp. att., che collega l’infondatezza della notizia di reato all’inidoneità degli elementi acquisiti ‘‘a sostenere l’accusa in giudizio’’. Ove tali elementi siano ritenuti inidonei, il pubblico ministero propenderà (dovrà propendere) per l’inazione. È dunque indubbio che la valutazione sulla fondatezza o meno della notizia criminis, come sostanziatasi all’esito delle indagini, sia rimessa alla soggettiva valutazione effettuata dal pubblico ministero. Peraltro, l’art. 125 disp. att. delimita e circoscrive la decisione del pubblico ministero all’interno di un parametro processualistico inteso proprio ad evitare una decisione libera del magistrato che, in mancanza di esso, verrebbe certo concessa in virtù del vago ed incerto canone della ‘‘infondatezza della notizia di reato’’, indicato dall’art. 408 comma 1 c.p.p. Se dunque la valutazione soggettiva è presente non solo nel corso dell’attività di indagine ma anche nel momento decisivo della scelta sull’esercizio dell’azione penale, la regola di giudizio suddetta costringe però il pubblico ministero a decidere all’interno di un predefinito vincolo normativo e, di conseguenza, preclude alla discrezionalità psicologica di trasformarsi in discrezionalità pura. La discrezionalità psicologica permane, ac(30) Si pensi alle deroghe al principio di oralità che, inserite nel codice del 1989, hanno ben presto eroso il sistema, tramutandosi esse stesse in un principio (c.d. di non dispersione probatoria) sostituitosi a quello originario. (31) Cfr. nota 25.


— 560 — compagnata da quella discrezionalità tecnica che è pienamente coerente con il principio costituzionale di obbligatorietà (32). Una volta concluse le indagini, il pubblico ministero non violerà il principio costituzionale a meno che, nonostante la sussistenza di elementi idonei a chiedere il rinvio a giudizio o a formulare l’imputazione, opti per la richiesta archiviativa. Ciò che consente di escludere la presenza della discrezionalità nella decisione assunta alla stregua della regola prevista dall’art. 125 disp. att. è, dunque, la mancanza di una decisione svincolata da ogni parametro e quindi potenzialmente arbitraria. È questo il momento in cui deve porsi attenzione alla centralità assegnata dall’ordinamento al controllo giurisdizionale sulla conformità della decisione del pubblico ministero al parametro di cui all’art. 125 disp. att. Poiché il vincolo normativo potrebbe essere eluso dal pubblico ministero per convenienza, la scelta del pubblico ministero di non agire viene sottoposta a una prova di resistenza rimessa al g.i.p. Tale controllo, attivato ex officio ovvero su sollecitazione della persona offesa (art. 410 c.p.p.), viene elevato a principale baluardo del principio costituzionale, inteso ad impedire che le scelte del pubblico ministero siano orientate in senso discrezionale. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale ‘‘esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice’’ (33). Tale guarentigia applicata alla scelta del pubblico ministero di non agire, sembra tagliata su diversi presupposti, a seconda che il pubblico ministero abbia svolto effettivamente un’attività investigativa completa ovvero sia rimasto inerte od ancora si sia mosso in modo insoddisfacente in relazione al quantum investigativo. Nel primo caso, in presenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, la richiesta di archiviazione si porrebbe in contrasto con il precetto costituzionale, ed il giudice viene chiamato ad evitare tale violazione. È questa l’ipotesi dell’imputazione coatta (art. 409, comma 5, c.p.p.). Se però al giudice è concesso di imporre alla parte pubblica la formulazione dell’imputazione, tale ordine non può che fondarsi su un’attività di indagine completa e non necessitante nuovi sviluppi. Ed allora, il fenomeno dell’imputazione coatta è inteso ad impedire che, pur in presenza di elementi idonei a convalidare l’opzione processuale, la processualizzazione della notizia di reato venga esclusa da motivi di opportunità del pubblico ministero. Peraltro è chiaro che, se il pubblico ministero non intendesse perseguire una notizia di reato per motivi di opportunità, la sua scelta do(32) Cfr. V. GREVI, Archiviazione per ‘‘inidoneità probatoria’’, cit., p. 1296. (33) Corte cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88. cit.


— 561 — vrebbe ricadere sull’inazione ovvero sulla superficialità dell’approfondimento investigativo, non già su un’indagine meticolosamente condotta e consapevolmente proiettata verso l’inazione. Ma allora, una volta concluse le indagini, la richiesta di archiviazione non potrebbe, nella più parte dei casi in cui ad essa segue l’imputazione coatta, essere originata da motivi di opportunità, bensì da una valutazione discrezionale tecnica (e quindi legittima) del pubblico ministero in ordine ai presupposti di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p., cui il giudice non fa che sostituire la propria, analoga e contraria. Il più delle volte, l’imputazione coatta si pone dunque non come vero controllo, bensì quale espressione soggettiva del giudice antitetica a quella del pubblico ministero. Poiché presupposto dell’imputazione coatta è la non necessità di nuove indagini, ne deriva che pur di fronte alla sufficienza ed esaustività dell’attività di indagine, e mancando ogni omissione da parte del pubblico ministero, il processo si instaura sulla base di una valutazione contraria a quella del soggetto cui è istituzionalmente rimesso il suo innesto. Con il che il controllo si trasforma in realtà in una valutazione estranea ai profili di tutela del corretto esercizio dell’azione penale, poiché ciò che distingue la decisione del giudice da quella del pubblico ministero ha quale riferimento la medesima regola (art. 125 disp. att.), ovvero la soggettiva valutazione degli elementi di prova e la prognosi di sostenibilità del giudizio. Che al pubblico ministero possa contestarsi una valutazione arbitraria dei presupposti necessari per la richiesta di rinvio a giudizio, pur a seguito di indagini complete, è ipotesi remota e comunque certamente residuale. Ne deriva che l’art. 409, comma 5, dietro la maschera del controllo sull’effettivo dispiegamento dell’obbligo costituzionale di agire, nasconde un trasferimento della funzione d’accusa dal pubblico ministero al giudice. Nelle ipotesi in cui si sviluppa l’imputazione coatta, dunque, non v’è alcuna tentazione alla discrezionalità da parte del pubblico ministero. Si tratta cioè di ipotesi in cui, pur nel rispetto del principio costituzionale da parte del pubblico ministero, l’ordinamento preferisce concedere al giudice una surroga di potere inquisitorio (34). A ben vedere, però, il fenomeno dell’imputazione coatta assume una funzione bivalente. Vi sono infatti ipotesi in cui l’imputazione coatta as(34) L’istituto dell’imputazione coatta garantisce il rispetto del carattere monopolistico dell’azione penale, che nel codice Rocco subiva un’eccezione proprio con riguardo alla possibilità per il giudice istruttore di disporre ex officio l’istruttoria formale ove ritenesse di non dover accogliere la richiesta di archiviazione. L’art. 74, comma 3, c.p.p. 1930 concedeva dunque direttamente al giudice di promuovere l’azione penale in caso di disaccordo con il pubblico ministero, preponendo al formalismo oggi recuperato un principio ritenuto meglio rispondente alle esigenze di celerità ed economia processuale. V. sul punto, G. PISAPIA, Presupposti e limiti del decreto di non doversi procedere, in questa Rivista, 1954, pp. 178-79.


— 562 — sume connotati differenti da quelli ora esposti. Si consideri infatti, seguendo la Corte costituzionale (35), che la decisione del pubblico ministero sull’azione non deve essere circoscritta all’analisi degli elementi acquisiti, dovendo invece parametrarsi sulla prospettiva potenziale delle acquisizioni future, ipotizzabili ‘‘dopo la richiesta di rinvio a giudizio... o dopo la pronuncia del decreto che dispone il giudizio... ovvero nel corso dell’udienza preliminare..., oltreché dell’attività probatoria esperibile nel contesto della dialettica dibattimentale’’. Se dunque il g.i.p. assumesse quale proprio parametro di decisione l’attività di indagine nella sua proiettabilità futura, è chiaro che l’imputazione coatta potrebbe esercitarsi anche su ipotesi di richieste archiviative fondate su attività di indagine volutamente incomplete. È solo in tal caso, dunque, che l’art. 409, comma 5 si dimostra strumento inteso a precludere l’elusione dell’obbligo di agire. Un utilizzo alternativo dell’imputazione coatta può dunque nella pratica determinarsi in caso di mal funzionamento della seconda tipologia di controllo, attivata nei confronti dell’attività di indagine incompleta o insufficiente attraverso lo strumento dell’indicazione di nuove indagini (art. 409, comma 4, c.p.p.), ovvero di quelle indagini che il giudice ritiene necessarie al fine di garantire completezza al quadro probatorio su cui formare correttamente la decisione sull’azione. È con tale strumento, propriamente, che l’ordinamento intende tutelare il principio di completezza delle indagini, presupposto logico dell’esercizio dell’azione, dall’attività lacunosa del pubblico ministero. Sebbene il pubblico ministero possa astenersi dal completare le indagini, possa cioè a sua discrezione modulare la loro ampiezza e la loro tipologia, al giudice viene ricondotto l’obbligo di controllare se vi siano spazi di ulteriore approfondimento, di valutare autonomamente quelle ‘‘indagini necessarie’’ (art. 326 c.p.p.) espunte dall’agenda del pubblico ministero, così da garantire che la decisione sull’azione penale possa finalmente parametrarsi al principio di obbligatorietà. Il controllo eventuale del giudice trova il suo limite d’operatività, analogamente alla decisione del pubblico ministero, nel criterio di valutazione previsto dall’art. 125 disp. att. c.p.p., che rappresenta la linea di confine tra azione ed archiviazione. È peraltro proprio in questo caso che l’attività discrezionale del pubblico ministero ha trovato sinora il suo peculiare spazio. Ed infatti, non solo il pubblico ministero non può essere costretto a svolgere le attività di indagine ritenute necessarie dal giudice, ma anche in caso di imputazione coatta successiva a tale confermata inerzia, l’udienza preliminare avrebbe (35)

Corte cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.


— 563 — il destino segnato (36). A maggior ragione oggi, sembrerebbe, in virtù dell’ampliamento della nuova e rivoluzionaria (37) regola ammissiva del non luogo a procedere che, come diremo, delimita in senso restrittivo le possibilità di instaurazione del giudizio. Un parallelo tra controllo sull’inazione e controllo sull’azione appare obiettivamente calzante, poiché l’istituto dell’archiviazione e la fase dell’udienza preliminare rappresentano, sotto il profilo probatorio, momenti concatenati, ricondotti ai medesimi principi sostanziali, tanto più evidenti dopo la riformulazione dell’art. 425 c.p.p. e la relativa corrispondenza di campo tra le ipotesi di archiviazione e quelle ammissive del non luogo a procedere. Controllo sull’inazione e controllo sull’azione rappresentano facce di una stessa medaglia, che impone di perseguire le sole notizie di reato degne di una pronuncia dibattimentale. I rapporti tra art. 125 disp. att. e art. 425 c.p.p. sono stati oggetto di ripetute analisi, per lo più indirizzate in modo critico nei confronti dell’originaria e diversa regola di giudizio sottesa alle due norme. Agli albori del nuovo codice, mentre il giudice, per garantire il rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, aveva quale riferimento — analogamente al pubblico ministero — il parametro dell’inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio, nella fase eventualmente successiva, tale parametro veniva forgiato su presupposti differenti, ricondotti inizialmente al principio di ‘‘evidenza’’ in ordine all’innocenza dell’imputato (38). L’aggettivo ‘‘evidente’’ rendeva la valutazione del giudice in udienza preliminare stridente non solo con le prerogative del medesimo presenti nella fase precedente di controllo sull’inazione, ma anche rispetto ai criteri di giudizio del giudice dibattimentale (art. 530, comma 2, c.p.p.). Di fronte ad acquisizioni investigative contraddittorie o insufficienti, il pubblico ministero aveva comunque un certo margine di sicurezza in ordine alla possibilità di superare il vaglio dell’udienza preliminare e di ar(36) Sempre che, tra l’altro, il pubblico ministero abbia davvero l’obbligo di accogliere l’ordine del g.i.p. di formulare l’imputazione. Si consideri, secondo Cass., sez. I, 24 ottobre 1995, Laureti, ‘‘nel caso in cui il p.m. omettesse di formulare l’imputazione coatta o insistesse, invece, nella richiesta di archiviazione, al g.i.p. non resterebbe altra facoltà che quella di pronunicare il decreto di archiviazione ovvero di sollecitare il procuratore generale presso la Corte d’appello ad avocare le indagini e a esercitare l’azione penale. Ma qualora anche il p.g. ritenesse di richiedere l’archiviazione e di non esercitare l’azione penale, il g.i.p. sarebbe obbligato ad archiviare’’. (37) V.E. AMODIO, Giudice unico e garanzie difensive nella procedura penale riformata, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. II, Milano, 2000, p. 45. (38) Il riferimento all’evidenza è stato eliminato con l’art. 1 della l. 8 aprile 1993, n. 105.


— 564 — rivare al dibattimento, pur in mancanza di quegli elementi idonei a confortare l’ipotesi accusatoria di fronte al giudice dibattimentale. Quali fossero i potenziali riflessi di tale prima impostazione sull’istituto dell’archiviazione e sull’operare della discrezionalità dell’agire da parte del pubblico ministero, è presto detto. Ed erano riflessi idonei a limitare l’ambito di discrezionalità del pubblico ministero. Una regola di giudizio così rigida, che imponeva al giudice di disporre il giudizio eccettuati i limitatissimi casi di irragionevolezza della richiesta di rinvio a giudizio, non poteva che condizionare il giudice nel senso del favor actionis, anche nell’ipotesi in cui il pubblico ministero, invece che esercitare l’azione, optasse strumentalmente per la rinuncia alla stessa. In prospettiva di esercizio dell’azione, il pubblico ministero poteva a suo piacimento darvi luogo anche sulla sola base della sua audacia inquisitoria, ed il giudice si trovava spesso dinanzi all’obbligo di accedere alla richiesta, pur ove ritenesse gli elementi acquisiti inidonei a convalidare in giudizio l’ipotesi accusatoria. Il pubblico ministero aveva un potere decisorio sovrastante le possibilità di controllo del giudice. Nella prospettiva inversa dell’inazione, il g.i.p. aveva un’analoga e proporzionale libertà di movimento rispetto al pubblico ministero ove quest’ultimo optasse per la richiesta di archiviazione. In presenza di indagini parziali e carenti, al giudice veniva concessa la possibilità di ‘‘costringere’’ il pubblico ministero verso l’approfondimento di indagine e, addirittura, di forzarne la volontà attraverso l’imputazione coatta, consapevole che i ristretti limiti entro i quali era possibile pronunciare il non luogo a procedere avrebbero garantito la celebrazione del giudizio. In sede di controllo sull’inazione, il g.i.p. ben poteva, guardando alla prospettiva dell’udienza preliminare, valutare con illimitata potestà decisionale l’attività di indagine svolta dal pubblico ministero. Paradossalmente, mentre dunque il rinvio a giudizio ‘‘veniva sostanzialmente deciso dal pubblico ministero’’ (39), l’archiviazione veniva decisa dal giudice. Si determinava dunque una sorta di inversione di attribuzioni, con un pubblico ministero sottoposto a un controllo particolarmente rigido in caso di scelta di non agire, e molto più libero in caso di esercizio dell’azione penale, anche ove fondata su elementi insufficienti. La situazione è andata modificandosi con la riformulazione dell’art. 425 e l’eliminazione dell’aggettivo ‘‘evidente’’. Sebbene la giurisprudenza si sia dimostrata restia ad ammettere la coincidenza dei parametri valutivi previsti dall’art. 530, comma 2, c.p.p. con quelli utilizzabili per la sen(39) p. 289.

Così G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Padova, 1996,


— 565 — tenza di non luogo a procedere (40), si era comunque giunti ad equiparare il canone di giudizio adottabile dal g.i.p. in tale frangente con quello utilizzabile in sede di controllo sull’inazione. Ma è proprio da questo momento che il giudice ha visto limitati i propri poteri di controllo dinanzi alla richiesta di archiviazione. Il cammino verso l’indebolimento dell’efficacia dei controlli del giudice nei confronti dell’inazione sembra infine aver trovato compimento nell’ultima e recente modifica dell’udienza preliminare, avvenuta con la l. n. 479 del 1999. La nuova regola di giudizio posta dall’art. 425, comma 3, c.p.p. coniuga gli aspetti letterali propri degli artt. 125 disp. att. e 530, comma 2, c.p.p., ed ha finalmente posto termine, o così almeno sembrerebbe, alle questioni interpretative stimolate dalla precedente impostazione, non del tutto allineata alle citate disposizioni. Il nuovo criterio per la pronuncia del non luogo a procedere ha avuto quale finalità precipua quella di restringere le maglie del filtro preliminare (41), al fine di restaurare la funzione di controllo e di deflazione dell’udienza, divenuta secondo molti e dopo anni di esperienza pratica, un inutile costo. Senza poter approfondire le imponenti questioni poste dal nuovo ruolo assunto dall’udienza preliminare, ci si limiterà ad evidenziare le conseguenze determinate sul potere discrezionale del pubblico ministero nella fase precedente al rinvio a giudizio. A ben vedere, infatti, la nuova udienza preliminare assume rilevanza non solo quale controllo sull’azione esercitata, ma anche, di riflesso e indirettamente, sull’attività ad essa precedente, nella quale si dispiega la discrezionalità. Ed il problema nasce proprio dal dovere del g.u.p. di pronunciare sentenza di non luogo a procedere ‘‘anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio’’. La valutazione del giudice per l’udienza preliminare dovrà dunque avere a riferimento non solo il canone utilizzato dal suo ‘‘collega’’ nella fase di controllo sull’inazione, ma altresì quelli sulla cui base è chiamato a pronunciarsi il giudice del dibattimento. Da tale nuova impostazione deriva, come anticipato, il definitivo indebolimento del potere di controllo del g.i.p. in caso di richiesta di archiviazione. Infatti, il pubblico ministero che abbia in sfavore un determinato procedimento, troverà nel g.i.p. un organo di controllo ‘‘costretto’’ nella (40) Cfr. Cass. 9 maggio 1995, Cardoni, in Arch. N. proc. pen., 1995, p. 837. (41) V. A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, in Le recenti modifiche al codice di procedura penale, Commento alla l. 16 dicembre 1999, n. 479, vol. I, Milano, 2000, p. 390.


— 566 — sua valutazione dagli ampi limiti di prosecuzione del processo che il g.u.p. troverà inscritti nel nuovo art. 425, comma 3, c.p.p. Ove, per ipotesi, il pubblico ministero rimanga inerte, il g.i.p. potrà indicare nuove indagini ai sensi dell’art. 409, comma 4, c.p.p., con la consapevolezza tuttavia che, in mancanza di un’effettiva volontà del pubblico ministero di agire, il procedimento troverà conclusione all’udienza preliminare. Si potrebbe sostenere, come avvenuto, che il nuovo principio regolante la pronuncia di non luogo a procedere non imponga in realtà al giudice il proscioglimento quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti o contraddittori, ma solo nel caso in cui manchi una prognosi positiva sulla possibile espansione in giudizio del materiale probatorio esistente (42). Si ripropongono in tale frangente gli stessi problemi di valutazione rimessi al pubblico ministero in punto di decisione sulla richiesta di archiviazione. Come la decisione sull’inazione, anche il proscioglimento potrebbe ritenersi correlato a quel ‘‘principio di provvisorietà di fase’’ in cui l’accertamento è compiuto (43), che impone al pubblico ministero di tener conto della possibilità di acquisire nuovi elementi di prova dopo la richiesta di rinvio a giudizio e fino all’instaurarsi della dialettica dibattimentale. Tale valutazione progressiva è certo apprezzabile in relazione al momento precedente l’esercizio dell’azione penale, poiché, se il pubblico ministero potesse fondare la richiesta archiviativa sulla sola base del quadro probatorio fuoriuscito dalle indagini, l’istituto dell’archiviazione potrebbe realmente trasformarsi in un porto franco per l’inazione. Il discorso muta però se rivolto all’udienza preliminare, considerata la nuova centralità assegnatale. Basare la decisione su un dato dinamico e progressivo consente non solo al pubblico ministero di optare per l’imputazione ogniqualvolta vi sia spazio per uno sviluppo delle acquisizioni probatorie, ma altresì al g.u.p. di disporre il rinvio a giudizio sulla base di un’analoga ipotesi di sviluppo investigativo che, nella sostanza, non può preventivamente escludersi se non in casi del tutto residuali. Con il che l’insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti, anche a seguito dell’ordinanza ex art. 421(42) Cfr. R. NORMANDO, La ‘‘riscrittura’’ dei parametri di utilità del giudizio, in Le recenti modifiche, cit., p. 289 ss. Secondo l’A., che ha operato una meticolosa analisi dei lavori parlamentari sul punto, ‘‘gli elementi non contraddittori e sufficienti alla condanna impongono il giudizio, quelli contraddittori e insufficienti danno luogo ad una possibilità di recupero, se, nella concreta prospettiva di un accrescimento probatorio, si ritenga che tali ‘pecche’ possano essere emendate’’ (p. 295). Nello stesso senso, R. BRICCHETTI, L’impedimento del difensore rinvia la causa, in Guida dir., n. 1, 2000, p. LVI. (43) Cfr. Corte cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.


— 567 — bis c.p.p., potrebbe essere sempre ritenuta essa stessa insufficiente a giustificare il proscioglimento. Tale interpretazione, che si conforma al precedente giurisprudenziale delle ‘‘soluzioni aperte’’ (44), è criticabile proprio avuto riguardo alla ratio del nuovo sistema (45), che vuole l’udienza preliminare forgiata ad effettiva e rinnovata barriera contro le accuse azzardate. Peraltro, se accediamo all’idea di un proscioglimento legato alla semplice insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti dal pubblico ministero, diviene consequenziale l’affievolimento degli spazi di prosecuzione processuale, ove rimessi a un pubblico ministero disinteressato al processo. Ed infatti il pubblico ministero finirebbe col conservare la sua posizione di dominio non solo nell’arco del procedimento, ma anche in quello dell’udienza preliminare. Così reimpostata la norma, è quindi ben possibile che il g.i.p., in sede di richiesta archiviativa fondata sull’inerzia del pubblico ministero, sia condizionato in negativo dalla circostanza che un’udienza preliminare condotta da un pubblico ministero disinteressato potrebbe condurre a un inutile spreco di tempo, in virtù dell’interrelazione tra insufficienza probatoria e proscioglimento. Sennonché, proprio in ambito di udienza preliminare, importanza centrale sembra assumere la regola incisa nel nuovo art. 421-bis c.p.p., che consente al giudice dell’udienza preliminare, ove non possa decidere allo stato degli atti ed in caso di incompletezza delle indagini, di indicare al pubblico ministero le ‘‘ulteriori indagini’’ da compiere, ‘‘fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare’’. La norma aggiunge l’obbligo per il giudice di dare comunicazione del provvedimento al procuratore generale presso la Corte d’appello, il quale potrà disporre l’avocazione delle indagini, in sintonia all’art. 412, comma 1, c.p.p. ed incondizionatamente, senza cioè che gli sia rimesso l’onere valutativo sulla reale sussistenza di un’inerzia investigativa imputabile al pubblico ministero. Il codice di rito ha con tale norma duplicato le forme di controllo sulla completezza delle indagini, non più limitate all’attività del g.i.p. ai sensi dell’art. 409, comma 4, c.p.p., ma estese all’attività del g.u.p. Questi, ove a seguito della richiesta di rinvio a giudizio riscontri elementi di incompletezza nell’attività di indagine, può indicare specifiche indagini necessarie, per supportare la richiesta avanzata (46). La completezza delle indagini diviene dunque principio di rilevanza (44) V. Cass., sez. VI, 27 novembre 1995, La Penna, in Cass. pen., 1996, p. 3436. (45) In questo senso, v. E. AMODIO, Giudice unico e garanzie difensive, cit. p. 46. (46) Sul punto v. le analisi di G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, pp. 386 ss; A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria, cit., p. 411 ss.


— 568 — centrale non solo nella prospettiva dell’archiviazione, ma anche nel caso di esercizio dell’azione penale. Peraltro, l’art. 421-bis c.p.p., estendendo il controllo sulla completezza delle indagini anche ove il pubblico ministero eserciti l’azione, se da un lato pone problemi, come rilevato in sede di lavori preparatori, per i rischi di elusione da parte del pubblico ministero del rispetto dei termini per lo svolgimento delle indagini (47), dall’altro, indirettamente, determina effetti, riflessi e positivi, proprio sul controllo relativo all’esercizio obbligatorio dell’azione. Se il pubblico ministero può esercitare l’azione anche in mancanza di elementi sufficienti a sostenere l’accusa in dibattimento, conscio della possibilità di dare seguito all’attività di indagine su input del giudice, è per altro verso il g.i.p., in caso di inazione del pubblico ministero e in sede di valutazione sull’archiviazione, a trarre profitto da questa nuova regola. Infatti, come dimostra proprio il collegamento tra art. 409 e art. 421-bis c.p.p., il pubblico ministero può ‘‘strumentalizzare’’ l’incompletezza investigativa sia ai fini della richiesta di archiviazione che dell’esercizio dell’azione penale. Se in quest’ultimo caso il pubblico ministero potrà sfruttare il tempo supplementare concessogli dal giudice, ove opti per l’archiviazione egli si troverà di fronte a un duplice controllo, inizialmente effettuato dal g.i.p. e successivamente dal g.u.p. Ove il pubblico ministero infatti, a seguito dell’ordinanza ex art. 409, comma 4, c.p.p., persistesse nella sua inerzia e chiedesse nuovamente l’archiviazione, il g.i.p. potrebbe disporre l’imputazione coatta, invece che aderire alla volontà del pubblico ministero, confidando nella presenza del nuovo ed analogo controllo rimesso al g.u.p. sull’attività investigativa fino ad allora elusa dal pubblico ministero. Se si considera poi che al duplice controllo del giudice si somma un duplice potere avocativo del procuratore generale, viene a dimostrarsi la presenza di una nuova struttura ordinamentale particolarmente rigorosa nel controllo sull’esercizio dell’azione e sul rispetto dell’obbligo di cui all’art. 112 Cost. Il nuovo art. 421-bis c.p.p. assolve dunque a due finalità. La prima, diretta, è quella di evitare l’esercizio apparente dell’azione penale. La seconda, mediata e retroagente, è quella di evitare il non esercizio strumentale dell’azione stessa. (47) V. intervento dell’on. Pecorella alla Camera dei deputati nella seduta del 3 febbraio 1999, secondo il quale ‘‘il pubblico ministero ha il tempo e i mezzi necessari per assicurare la presentazione di una richiesta di rinvio a giudizio corredata da un adeguato supporto investigativo e non vi è pertanto alcuna esigenza, né alcuna ragione di opportunità per introdurre previsioni normative che consentirebbero forme di surrettizia rimessione in termini’’. In dottrina, v. A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria, cit., p. 419.


— 569 — Resta, è vero e pur sempre, la possibilità che il pubblico ministero non svolga le ulteriori indagini indicategli dal g.u.p. (48). Ed infatti, è da sottolineare come l’eventuale inerzia non sarebbe in tal caso illegittima, in mancanza di una sanzionabilità espressa di tale comportamento, trovandoci dinanzi ad un’azione penale già esercitata e quindi in tutto conformatasi al principio di obbligatorietà. Tuttavia, e sebbene dunque il pubblico ministero rimanga dominus dell’azione, dal che sono sorti sinora i dubbi sull’effettiva idoneità del controllo ex art. 409 c.p.p. a garantire il rispetto dell’art. 112 Cost. (49), è peraltro chiaro che sarà difficilmente sostenibile, dopo l’inattività seguita all’indicazione di nuove indagini disposte ai sensi dell’art. 409, comma 4, c.p.p., un’ulteriore inerzia nel caso in cui, dopo l’imputazione coatta, il g.u.p. reiteri analoga richiesta in sede di udienza preliminare. Tanto più che anche il procuratore generale, avrà il gravoso onere di giustificare l’elusione della sua facoltà di avocazione. Dalla combinazione degli artt. 409 e 421-bis c.p.p. si trae così un accrescimento evidente dei poteri del g.i.p. nella fase di controllo sull’inazione, che appaiono modulati anche in prospettiva e finiscono col proiettare lo strumento dell’imputazione coatta quale decisivo strumento di controllo sul rispetto della regola costituzionale. Affrontata in quest’ottica, la nuova udienza preliminare sembra agire proficuamente sui poteri esperibili dal g.i.p. in sede di controllo sulla richiesta di archiviazione. Per converso, la riforma del gennaio 2000 sembra per altra via limitare l’efficacia di tali controlli, causa la rinnovata regola di giudizio di cui all’art. 425, comma 3, c.p.p. 6. Discrezionalità e offensività. — Per valutare se la discrezionalità dell’azione penale sia un dato realmente inevitabile, appare utile volgere l’attenzione ad alcuni recenti interventi legislativi, dai quali sorgono nuovi spunti di analisi in relazione ai possibili condizionamenti da essi esercitabili sull’attività di indagine del pubblico ministero e sulla possibilità che, per loro tramite, possa porsi un valido freno alle pratiche discrezionali. In particolare, l’impatto di tali interventi sulla fase di indagine consentirà di valutare in quale misura l’obbligatorietà dell’azione possa trovare nel prossimo futuro una maggiore e razionale estensione applicativa e, di riflesso, quali siano gli effetti sulla futura propensione delle indagini a svilupparsi in senso discrezionale. (48) Cfr. R. BRICCHETTI, L’impedimento del difensore, cit., p. LII. (49) Cfr. ad esempio M. ROCA, Archiviazione, non luogo a procedere e dovere di completezza delle indagini nella sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 1991, in Giust. pen., 1992, I, p. 186, secondo cui ‘‘il controllo di legalità riservato al giudice appare poco più di un’esercitazione accademica, mentre il pubblico ministero si pone come unico, vero arbitro dell’azione o dell’inazione’’.


— 570 — La discrezionalità sarà nell’immediato prosieguo osservata nei limiti della sua conformazione pratico-economica, mentre verrà sottaciuto ogni riferimento alla discrezionalità derivante dalle inclinazioni o ideologie personali del magistrato o, ancora, dalle scelte politiche o dalle ‘‘passioni’’ per certi tipi di reato presenti ai vertici di certe procure, trattandosi in tali casi di valutazioni orbitanti entro un ordine di natura soggettivo. Mentre in quest’ultima prospettiva l’elemento fondamentale delle valutazioni del pubblico ministero è ancorato a personali considerazioni e interessi, vi sono dunque, e in senso più generalizzato, obblighi di selezione e di scelta imposti dall’impossibilità di perseguire tutto (50). Ed è per tale motivo che all’interno dell’ordinamento si sono recentemente insinuate soluzioni intese a redistribuire al meglio le risorse disponibili, che paiono porsi — come diremo — come alternative all’istituzione dei criteri di priorità. Restando per un attimo all’area soggettiva della discrezionalità, tra gli indici che vengono assunti a criteri-guida di comportamento v’è senza dubbio la valutazione sull’offensività del fatto. Dovendo scegliere, in altre parole, è possibile che il singolo magistrato, dinanzi a notizie di reato relative alla medesima tipologia di reato, opti per il pronto perseguimento di quei fatti che abbiano un maggiore portato offensivo, inteso — come vedremo — in senso lato, ed accantoni quelle notitiae criminis che contengano effetti offensivi inferiori. La necessità di selezione può dunque trovare nell’offensività del fatto un parametro oggettivo valido e condivisibile sia dalle procure sia, in mancanza di definiti criteri (51), dai singoli pubblici ministeri, sempre però attraverso simmetriche valutazioni di ordine esclusivamente pragmatico. Vi sono infatti situazioni di offensività minima, tali che il loro inserimento nel complesso circuito processuale determinerebbe un ‘dispendio di energie’ eccessivo, inconciliabile con le pressanti esigenze di deflazione del lavoro in carico ad ogni procura. È per tale motivo che la valutazione intorno alla concreta offensività del fatto assume un’importanza peculiare non solo nell’ottica soggettiva del pubblico ministero, ma anche in un’ottica prospettiva ed oggettiva, che presti attenzione al possibile divenire normativo. (50) ‘‘Si pensi, infine, alla vera e propria necessità, per certi uffici, oberati da una mole di lavoro disumana, di operare determinate scelte anche al di là delle inclinazioni personali del magistrato, della politica criminale scelta da quella procura, dalle crociate più o meno valide contro questo o quel tipo di crimine. Tutto non si può fare; ed allora si sceglie cosa fare, magari secondo criteri validi ed equi: ma si sceglie comunque’’; così, F. CORBI, Obbligatorietà dell’azione penale ed esigenze di razionalizzazione del processo, in questa Rivista, 1980, p. 1060. (51) Cfr. gli artt. 227 d.lgs. n. 51 del 1998 e 15 d.m. n. 204 del 2001, che proprio nell’offensività identificano uno dei criteri da utilizzare per la rapida definizione dei processi.


— 571 — In effetti, da tempo circolano proposte intese ad estendere previsioni già presenti nell’ordinamento ma di scarsa effettività pratica, che consentano la non promozione dell’azione penale per concreta inidoneità offensiva del fatto (52), in relazione alle modalità della condotta e al peso delle sue conseguenze. E tali proposte hanno trovato pronta sponda nel Parlamento, sia in seno alla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali (53), sia in quella per la riforma del codice penale. I motivi originanti questo recente interesse per l’offensività del fatto sono dunque da ascrivere alla necessità oggettiva di vagliare nuove strade deflattive, idonee a riassegnare funzionalità al sistema attraverso l’estromissione dall’ambito processuale di quelle ipotesi ritenute di minor rilevanza sociale. Perseguendo la strada dell’inoffensività attraverso l’istituzionalizzazione di nuove regole di punibilità o procedibilità, la impellente necessità di stornare le notizie di reato di scarso impatto sociale — al fine di consentire un più fattivo perseguimento delle notizie di maggior rilievo — verrebbe normativamente legittimata e quindi realizzata al di fuori dell’odierno ambito pratico della discrezionalità. Ammettendo ciò che è apparso sinora un dato ineliminabile, ovvero l’impossibilità di condurre a processo ogni notizia di reato, si vorrebbero introdurre nell’ordinamento strumenti deflattivi nuovi rispetto, ad esempio, alla classica strada della depenalizzazione, ancora recentemente perseguita (54). I richiami alla ‘‘necessaria offensività del fatto’’ e alla ‘‘particolare tenuità del fatto’’ si inseriscono quali ultimi tasselli di un’opera complessiva, in cui il termine ‘‘deflazione’’ assume una posizione ormai centrale all’interno del vocabolario giuridico. Non solo la nuova depenalizzazione attuata con il d.lgs. n. 507 del 1999, ma altresì la nuova legge sulla competenza penale del giudice di pace e diversi interventi correttivi presenti nella l. n. 479 del 1999 hanno inteso ridurre il numero delle fattispecie penalmente perseguibili o, ancora, ampliare le possibilità di una conclusione anticipata dei procedimenti (55). (52) V. M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 2669; v. anche V. ZAGREBELSKY, L’obbligatorietà dell’azione penale. Un punto fermo, una discussione mancata, un problema attuale, cit., p. 3186; V. GREVI, Pubblico ministero e azione penale, cit., p. 495. (53) Questo il testo dell’art. 129, comma 2, Cost., come riformulato dalla Commissione: ‘‘Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività’’. (54) Su cui v., recentemente, M. DONINI, Per un codice penale di mille incriminazioni: progetto di depenalizzazione in un quadro del ‘‘sistema’’, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1652 ss. (55) Si consideri ad esempio la modifica dell’art. 459 c.p.p., che consente l’applica-


— 572 — Discorrere di offensività, trattando di tematiche processualistiche, non appare fuori luogo. Certo è infatti che il principio di necessaria offensività del fatto ha una connotazione prettamente sostanzialistica, pertenendo l’offesa alla struttura stessa del reato. Peraltro, è anche vero che sotto il profilo psicologico ed extradogmatico, l’offensività è principio complementare a quello di ‘‘irrilevanza’’ o ‘‘tenuità del fatto’’, che può ben assumere valenza processualistica. Consentendoci uno sguardo retrospettivo alla l. n. 479 del 1999 (c.d. legge Carotti), si può infatti scorgere all’interno di quei lavori parlamentari la caratterizzazione non necessariamente sostanzialistica di tale secondo principio. Ed infatti, il testo del nuovo art. 346-bis c.p.p. (56), inizialmente inserito nel corpus della riforma e poi stralciato per motivi di opportunità, prevedeva inizialmente l’irrilevanza del fatto alla stregua di una causa di improcedibilità e non quale causa di non punibilità (57). I due istituti, sebbene non intersostituibili in quanto distintamente condizionati, rispettivamente all’elemento-requisito dell’offesa, di ordine qualitativo, e a quello della rilevanza del fatto, di tipo quantitativo, appaiono sì di diversa collocazione ordinamentale (58). Mentre infatti ‘‘la sedes materiae di un’eventuale disposizione sulla necessaria offensività non può che essere ovviamente il codice penale, quella di un’eventuale disposizione sull’irrilevanza può essere il codice penale o quello di procedura a seconda della natura dei criteri legislativamente prescelti per la valutazione dell’irrilevanza e della conseguente natura di causa di non punibilità o di non procedibilità assunta dall’istituto’’ (59). zione del decreto penale di condanna anche ai reati perseguibili a querela, sebbene condizionata dalla mancanza del preventivo dissenso della persona offesa. (56) L’art. 346-bis c.p.p. era così formulato: ‘‘1. Per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, la procedibilità è esclusa quando risulta l’irrilevanza penale del fatto... 2. Il fatto è penalmente irrilevante quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché le modalità della condotta, la sua occasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a delinquere del reo, e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale. 3. L’irrilevanza penale del fatto può essere dichiarata solo se vi è stata la richiesta del pubblico ministero o dell’imputato. Se è stata esercitata l’azione penale, l’irrilevanza del fatto può essere dichiarata se l’imputato non si oppone’’. (57) Sulla questione si veda G. DIOTALLEVI, L’irrilevanza penale del fatto nelle prospettive di riforma del sitema penale: un grande avvenire dietro le spalle?, in Cass. pen., 1998, p. 2806 ss. (58) Mentre, infatti, l’inoffenvisità ‘‘connota episodi formalmente tipici ma del tutto carenti di reale offensività, l’irrilevanza [o la particolare tenuità del fatto] si riferisce a fatti non già in concreto totalmente inoffensivi ma piuttosto caratterizzati da una soglia esigua di aggressione o messa in pericolo dell’interesse protetto’’, così G. DI CHIARA, Esiguità penale e trattamento processuale della ‘‘particolare tenuità del fatto’’: frontiere e limiti di un laboratorio di deprocessualizzazione, in Il giudice di pace, un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001, p. 363. (59) Così, il documento redatto dalla Sottocommissione Grosso-Palazzo-Sicliano, nell’ambito dei lavori di riforma del codice penale.


— 573 — Devesi tuttavia considerare, in primo luogo, che entrambi gli istituti rappresentano strumenti volti a deflazionare il carico giudiziario, così assumendo analoga e centrale rilevanza sotto il profilo del comportamento discrezionale del pubblico ministero. Ma ancora si deve considerare la linearità dei due istituti proprio con riferimento alla situazione attuale in cui la discrezionalità si manifesta ed al cui interno i pubblici ministeri possono propendere per l’accantonamento di quelle notizie di reato che, nel corso dell’attività di indagine, appaiano prive di concreta offensività, ovvero di scarsa gravità complessiva. Il piano psicologico del pubblico ministero è dunque chiaramente slegato da ogni interesse sull’inquadrabilità dei due istituti all’interno del diritto sostanziale o processuale. La discrezionalità del pubblico ministero può sfociare in inerzie investigative dinanzi a notitiae criminis sia che esse, pur conformi al tipo di reato, siano del tutto ‘‘innocue’’ o inoffensive, sia che esse siano invece ‘‘tenui’’ o irrilevanti. Dal punto di vista logico, il ragionamento del pubblico ministero è chiaramente il medesimo. Ed infatti, sia che esso si relazioni allo scarso contenuto offensivo del fatto, sia che tale rapporto di relazione avvenga con un fatto di modesta gravità sociale, la discrezionalità si atteggia in maniera conforme. Il pubblico ministero, cioè, può comprensibilmente propendere per la subordinazione di tali ipotesi di reato a quelle che abbiano riflessi offensivi o incidenza sociale più gravi. I due istituti, nella logica comportamentale del pubblico ministero, si confondono e vengono assunti ad assimilabili parametri di riferimento per le determinazioni intorno all’opportunità dell’investigare e alle modalità con cui darvi sviluppo. Quanto sinora detto non esclude poi un’ulteriore considerazione. Sebbene il principio di inoffensività sicuramente e quello di irrilevanza del fatto in via di possibilità siano riconducibili al piano del diritto sostanziale, la loro funzionalizzazione processuale è obiettivamente lampante, e conduce a una nuova consapevolezza del rapporto tra diritto penale e diritto processuale. Si è visto, nel recente passato, come il processo penale sia stato deviato dalle finalità sue proprie e dalla sua posizione di luogo di risoluzione dei conflitti o delle controversie sociali (60). Privato di autonomia e indipendenza, esso è stato piegato e funzionalizzato al diritto sostanziale e agli obiettivi di politica criminale (61), attraverso interventi ispirati a ragioni emergenziali e a criteri simbolico-repressivi. L’inadeguatezza o l’in(60) Su cui si veda M. DAMASKA, I volti della giustizia e del potere, Bologna, 1991, p. 173 ss. (61) Cfr. G. FIANDACA, Modelli di processo e scopi della giustizia penale, in Foro it., 1992, p. 2023 ss.; v. altresì l’intervento di G. CAIAZZA, in Nuovo modello accusatorio o ritorno all’istruttoria sommaria? Un dibattito a più voci, in Crit. dir., n. 4/5, 1992, p. 43.


— 574 — capacità politica di dare riscontro alle esigenze della collettività, investita da una criminalità organizzata dilagante e in continua escalation, avevano condotto a una sovrapposizione tra diritto e processo penale, quest’ultimo spogliato della sua struttura di garanzie, non più confacentesi alle nuove e pressanti esigenze di repressione. Oggi si assiste al processo inverso. Dinanzi a una criminalità organizzata che sembra avere abbassato i toni della sfida allo Stato, le esigenze di repressione hanno lasciato il posto, secondo un procedimento irrazionale ciclicamente comparente nella storia della legislazione penale, al nuovo corso delle garanzie processuali, compiutosi con la riforma dell’art. 111 Cost. e con la recente legge di attuazione, di modifica del sistema probatorio (62). Peraltro, la presenza costante di una criminalità sempre più massiva, sebbene di diverso impatto ed incidenza sull’emotività sociale, rende pressanti ed urgenti nuovi interventi, che questa volta vedono il processo penale protagonista ed il diritto sostanziale in posizione subalterna. Non serve più un processo forgiato sulle esigenze della difesa sociale. Serve un diritto penale forgiato sulle esigenze di un processo sovraccarico. Oggi si assiste cioè ad un iter inverso, attraverso cui la necessità di deflazionare i processi e di rendere più agile e certa la persecuzione dei reati induce il diritto penale a mutare ruolo e a ‘‘servire’’ il processo (63). Ciò che appare dimostrato dalle proposte di modifica al codice penale, insegnate ai principi del ‘‘diritto penale minimo’’ ed aventi nell’esiguità dell’offesa e nella tenuità del fatto baricentri particolarmente eclettici, intesi a razionalizzare il sistema ‘‘attraverso la concentrazione delle risorse disponibili sugli illeciti maggiormente significativi’’ (64). Si vede in tal modo come l’introduzione di un principio di non punibilità per mancanza o irrilevanza della lesione del bene tutelato o per tenuità dello stesso vengano considerati strumenti idonei ad evitare un buon numero di processi e a frapporsi così, decisivamente, alle sirene della discrezionalità dell’azione penale. La differenza che l’istituzionalizzazione dei due principi determinerebbe, rispetto alla situazione attuale, sarebbe quella di consentire al pubblico ministero la non persecuzione delle ipotesi di reato di tipo bagatellare, con un chiaro risparmio di energie e con la conseguente possibilità di garantire un’impostazione più razionale del sistema. A dire il vero, però, il soccorso del diritto penale sostanziale non sembreberebbe in grado di sortire quegli sperati effetti di diminuzione del (62) Il riferimento è naturalmente alla l. 1o marzo 2001, n. 63, recante ‘‘modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova’’. (63) Sul punto, v. M. DONINI, Per un codice penale, cit., p. 1654. (64) Si veda il documento redatto dalla Commissione per la riforma del codice penale (Sottocommissione Grosso-Palazzo-Siciliano) nella riunione del 21 gennaio 1999.


— 575 — carico dei procedimenti. Il portato deflattivo dei due istituti, infatti, avrebbe incidenza sulla fase delle indagini, e quindi sull’esercizio dell’azione penale, solo ove tali rimedi venissero valutati alla stregua di condizioni di procedibilità. L’impossibilità di far rientrare l’inoffensività del fatto nell’ambito processualistico, ovvero tra le cause di non procedibilità, comporta dunque che gli effetti deflattivi si determinerebbero solo nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale. Essi, cioè, non inciderebbero in alcun modo sulle determinazioni del pubblico ministero in ordine all’esercizio medesimo né, dunque, sulla eventuale impostazione discrezionale delle indagini. A meno che, naturalmente, non si ampliassero i casi di archiviazione, fino all’inserimento nell’art. 411 c.p.p. di un’ipotesi archiviativa per sussistenza di una causa di non punibilità, analogamente a quanto previsto in sede di udienza preliminare (65). Un rimedio efficace, allo stato, potrebbe dunque essere offerto solo dall’inserimento di un’ipotesi impeditiva dell’esercizio dell’azione penale per irrilevanza del fatto, generalizzante la previsione di cui all’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, in materia di competenza penale del giudice di pace. Ma anche qui è necessaria la conferma della sua connotazione quale causa di non procedibilità. In caso contrario, è evidente che entrambi gli inserimenti de quibus produrrebbero effetti deflattivi ridimensionati e certo non funzionali alla razionalizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Non sembra in definitiva che l’inserimento di tali principi, nel caso fossero valutati alla stregua di cause di non punibilità, sposterebbe di molto la pressante esigenza di diminuire il carico di lavoro delle procure e di consentire in tal modo l’effettivo realizzarsi del principio di obbligatorietà. L’agognato riequilibrio tra risorse disponibili e notizie di reato da trattare sarebbe imperseguibile attraverso strumenti che, in ultima analisi, richiedessero da parte del pubblico ministero l’effettuazione di indagini, obbligandolo altresì all’esercizio dell’azione penale. Tali interventi, cioè, non avrebbero un impatto analogo a quello prodotto dal classico strumento di decongestionamento processuale che è la depenalizzazione. Soprattutto, essi non precluderebbero, per quanto qui interessa, un’impostazione dell’attività di indagine in senso discrezionale, essendo il loro impatto sul processo limitato a una fase successiva all’esercizio dell’azione penale. L’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 sembrerebbe comunque rappre(65) Sul punto, v. G. GIOSTRA, L’archiviazione, lineamenti sistematici e questioni interpretative, 2a ed., Torino, 1994, p. 20.


— 576 — sentare un buon punto di partenza. Nel sostanziare la tenuità del fatto quale causa di non procedibilità, legittima infatti il non esercizio dell’azione penale nel rispetto dell’art. 112 Cost. (66). Più in generale, però, la legge minimizza l’intervento del pubblico ministero nella fase del procedimento, relegandolo ad organo d’appoggio e demandando l’onere delle investigazioni alla polizia giudiziaria (art. 11) (67). Ed è questo l’elemento che, nella prospettiva di sensibile decongestionamento dei procedimenti, appare in realtà degno di maggior nota. L’architettura del procedimento avanti il giudice di pace consente infatti un alleggerimento del carico di lavoro del pubblico ministero, offrendo altresì — attraverso l’art. 34 — un primo esempio di temperamento del principio di obbligatorietà, nell’ottica di una più efficace e fattiva operatività del principio. Non può per vero ritenersi che la competenza penale del giudice di pace, per i limiti della sua estensione, possa rappresentare uno strumento decisivo per porre fine all’impasse operativo delle procure. Né probabilmente la situazione attuale sarebbe ribaltata ove si giungesse alla definizione di quel ‘‘diritto penale minimo’’ che, come si è detto, porterebbe effetti solo in una fase successiva all’esercizio dell’azione penale. Tuttavia, il nuovo assetto dei procedimenti rimessi alla competenza del giudice di pace rappresenta un rimedio utile per una più realistica redistribuzione delle scarse ‘energie’ di cui le procure dispongono. In particolare, il principio della particolare tenuità del fatto potrebbe determinare effetti importanti sull’operatività del principio di cui all’art. 112 Cost., ove in futuro raggiungesse un’estensione applicativa ordinaria e generalizzata (68). Trattasi di effetti, naturalmente, solo potenziali, se si considera che l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 34, diversamente dalla quasi (66) Così, sul punto, la Relazione al d.lgs. n. 274 del 2000, pubblicata in Guida dir., 2000, n. 38, p. 39 ss.: ‘‘... il sistema così prefigurato appare in perfetta sintonia con il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, proprio perché la declaratoria di improcedibilità risulta sufficientemente ‘conformata’ nei suoi presupposti applicativi e destinata a formare oggetto di un provvedimento del giudice. La violazione del principio non si verifica, giacché l’art. 112 della Costituzione non esclude che l’ordinamento possa prevedere ipotesi in cui l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale intervenga all’esito di applicazione di canoni fissati dal legislatore con carattere di generalità e astrattezza’’. (67) Sul punto, v. R. BRICCHETTI, Indagini preliminari: la polizia torna protagonista, in Guida dir., 2000, n. 38, p. 97 ss. (68) Auspicio presente nella stessa Relazione al d.lgs. n. 274 del 2000, ove si legge che ‘‘il presente decreto legislativo segna dunque l’esordio dell’istituto sul terreno della legislazione penale comune, sia pure in un’orbita piuttosto circoscritta e peculiare, quale è quella disegnata dalla giurisdizione del giudice di pace. Tuttavia, proprio questo esordio anche topograficamente prudente potrebbe avere il vantaggio di consentire un attento sondaggio sulla funzionalità dell’istituto, allo scopo di saggiare la praticabilità di eventuali, successive estensioni applicative’’.


— 577 — omologa disposizione prevista dall’art. 27 c.p.p.m., è rigidamente impostata sul decisivo volere della persona offesa. La manifestazione dell’ ‘‘interesse’’ della persona offesa alla prosecuzione del procedimento esclude automaticamente la delibazione del giudice sulla richiesta del pubblico ministero e la conseguente pronuncia della decisione archiviativa. Uno sbarramento, questo, tanto più rigido ove si consideri che l’interesse alla prosecuzione del procedimento non necessariamente dovrà essere manifestato tramite rituale opposizione, bensì attraverso qualsiasi modalità che consenta alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero di conoscere nel corso delle indagini tale intendimento. Con il che, sembrerebbe poter bastare, al fine di precludere ogni spazio applicativo all’art. 34 in esame, l’inserimento all’interno dell’atto di querela di una preventiva ‘‘clausola oppositiva’’, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 459 c.p.p. relativamente al procedimento per decreto. 7. La discrezionalità in relazione all’impatto del processo sull’imputato. — I problemi che maggiormente derivano al rispetto dell’art. 112 Cost. dalla formulazione del nuovo art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 sembrerebbero derivare peraltro dalla correlazione tra la tenuità dell’illecito, valutata in sé, e il ‘‘pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato’’. È proprio nella valutazione sull’impatto che il procedimento potrebbe avere nei confronti dell’imputato che si annidano i maggiori problemi sulla conformità dell’istituto al principio di obbligatorietà dell’azione penale. Ed infatti, una valutazione di tal fatta, afferente al piano esclusivo della soggettività dell’organo inquirente, rischia di determinare applicazioni distorte e diseguali dell’istituto. Il controllo del giudice di pace sulla richiesta archiviativa già sembra entrare in crisi al cospetto dei parametri della ‘‘tenuità’’, della ‘‘occasionalità’’ del fatto e del ‘‘grado della colpevolezza’’, stante l’ampia discrezionalità entro la quale si concede di operare le singole valutazioni. Ma ancor più problematica pare essere la effettività del controllo con riferimento agli effetti pregiudizievoli che il procedimento potrebbe provocare alla vita di relazione dell’imputato, in virtù della alternatività degli elementi ricondotti all’interno di tale ultimo parametro. V’è da porre anzitutto in rilievo come il legislatore abbia esteso la prognosi desocializzante anche ai reati di competenza del giudice di pace, sulla falsariga del procedimento minorile, in cui ‘‘il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del


— 578 — fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne’’ (art. 27) (69). Peraltro, se appare giustificabile evitare negativi etichettamenti sull’imputato minorenne, posta la peculiarità di tale tipologia di autori, ‘‘bisognosa di osservazione e di particolare trattamento’’ (70), è invece più arduo ritenere che la microconfittualità degli adulti, rimessa alla competenza del giudice di pace, possa determinare analoghi effetti di desocializzazione. Consapevole di ciò, il legislatore ha opportunamente parametrato gli istituti dell’irrilevanza e della particolare tenuità del fatto su elementi differenziati, incidenti, con riferimento al minore, sulle esigenze educative, con riferimento ai soggetti adulti, sulle condizioni di vita. Da evidenziare è ancora che i soli parametri dell’esiguità del danno o del pericolo, della sua occasionalità e del grado della colpevolezza hanno carattere cogente. Le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute hanno invece funzione integrativa, forniscono cioè ‘‘un ulteriore, ma non decisivo, contributo di chiarificazione’’ (71). Le conseguenze desocializzanti rappresentano, a ben vedere, non un elemento fondativo della causa di improcedibilità, bensì un dato accessorio, strumentale alla chiarificazione della tenuità del fatto, soprattutto ove i parametri fattuali dell’esiguità del fatto e della colpevolezza siano di non limpida evidenza. Con il che, deve notarsi il passo in avanti compiuto dal legislatore rispetto all’ipotesi di irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988. Tenuità del fatto e occasionalità del comportamento sono valutati, nel processo minorile, non quali elementi autosufficienti, ma funzionali alla decisiva prognosi sui rischi di etichettamento del minore. L’irrilevanza del fatto, cioè, si determina se il fatto è tenue e il comportamento occasionale, purché (‘‘quando’’) l’ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minore. Con il che, tenuità del fatto e condotta occasionale sono presupposti necessari ma non sufficienti per la definizione anticipata del processo. Diversa è l’impostazione dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, in cui la particolare tenuità del fatto trova nei parametri della esiguità del fatto, della occasionalità e del grado della colpevolezza elementi di per sé suffi(69) Sulle ‘‘vicende’’ dell’art. 27 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, v. G. DI CHIARA, Esiguità penale e trattamento processuale della ‘‘particolare tenuità del fatto’’: frontiere e limiti di un laboratorio di deprocessualizzazione, in Il giudice di pace, un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001, p. 317 ss. (70) Cfr. ancora la Relazione al d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. (71) Ibid. Sul punto, v. G. DI CHIARA, Esiguità penale e trattamento processuale, cit., p. 355.


— 579 — cienti per evitare il momento processuale. La loro sussistenza preclude ogni ulteriore analisi e consente l’operare del meccanismo anche in presenza di effetti desocializzanti di minima rilevanza, contrariamente a quanto avverrebbe nel processo minorile. Se tale conformazione normativa sembra consentire spazi applicativi maggiori alla nuova ipotesi di improcedibilità, è altresì da considerare che all’accessorietà del ‘‘parametro prognostico’’ consegue la minor problematicità delle questioni sollevate in punto di discrezionalità dell’azione. A tal proposito, v’è anzitutto da sottolineare come rischi di esercizio discrezionale dell’azione non siano prospettabili nel processo minorile. Infatti, la definizione anticipata del processo presuppone in questo ambito l’avvenuto esercizio dell’azione penale, essendo non il decreto di archiviazione ma la sentenza di non luogo a procedere a porre termine a un processo ormai iniziato. Soluzione, questa, chiaramente formalistica, ma certo idonea ad evitare ogni problema di linearità dell’art. 27 c.p.p.m. con l’art. 112 Cost. A dire il vero, però, nemmeno l’art. 34 del decreto istitutivo del giudice di pace determina problemi sotto il profilo del rispetto dell’art. 112 Cost. Riproponendo in cenni quanto già evidenziatosi, appare chiaro come la discrezionalità in senso psicologico trovi in tale norma un terreno fertilissimo. Soprattutto, come dettosi e pur prescindendo dalla sua natura accessoria, la relazione con la prognosi sul pregiudizio che il processo potrebbe determinare sull’imputato parrebbe ergersi a lampante esempio di astrattezza, tale da consentire decisioni e valutazioni obiettivamente disparitarie. Peraltro, la sofferenza riguarda in verità, e al limite, il principio di uguaglianza, non certo l’obbligatorietà dell’azione penale. L’art. 112 Cost. infatti appare solidamente ‘‘coperto’’ dalla presenza sia di vincolanti parametri normativi cui collegare la decisione sull’inazione, sia dal controllo giurisdizionale del giudice. Ma soprattutto, è la pluralità dei parametri a consentire una riconduzione dell’esercizio dell’opzione archiviativa entro confini di sicurezza. Se ciò già appare sufficiente a tutelare il principio costituzionale, resta da considerare come l’eventuale inerzia del pubblico ministero trovi ulteriore e decisiva impossibilità di concretizzarsi nel caso in cui la persona offesa manifesti il proprio interesse alla prosecuzione del procedimento. L’intervento della persona offesa, infatti, non è strutturato come nel procedimento ordinario, in modo da attivare il controllo del giudice, bensì è tale da sostituirsi ad esso, impedendo automaticamente la conclusione anticipata del procedimento. Paradossalmente, dunque, la nuova legge sulla competenza del giudice di pace, pur inserendo per la prima volta all’interno della legislazione


— 580 — penale comune il principio di tenuità del fatto, rischia da un lato di determinare scarsi effetti pratici sotto il profilo della deflazione dei procedimenti nella fase di indagine, dall’altro crea, proprio per le ipotesi di particolare tenuità del fatto, un insuperabile sbarramento all’istituto dell’archiviazione, la cui operatività viene rimessa alla esclusiva volontà della persona offesa. È a questo punto evidente come la discrezionalità del pubblico ministero possa essere del tutto pretermessa. Il consenso del privato alla conclusione anticipata del procedimento, conformato a criteri di assoluta rigidità, preclude ogni concessione al non esercizio dell’azione penale. Effettivamente, il minor disvalore dei reati di competenza del giudice di pace potrebbe indurre il pubblico ministero a una scriteriata indolenza investigativa e all’automaticità delle richieste archiviative per irrilevanza del fatto. È altresì plausibile ritenere che, sulle determinazioni discrezionalmente assunte dal pubblico ministero, il controllo del giudice di pace non avrebbe gli stessi effetti frenanti esercitabili dal g.i.p. La discrezionalità, sbarrata solo formalmente dal controllo giurisdizionale, sembrerebbe dunque poter trovare spazi operativi sconosciuti ai procedimenti comuni. Tuttavia, proprio la centralità assegnata al volere della persona offesa porta ad escludere scenari simili. Serrando la strada a fenomeni di denegata giustizia che potrebbero profilarsi in forma massiccia, l’impostazione prescelta finisce con l’innalzare la celebrazione del processo a percorso obbligato. Per quanto detto, sembra probabile che una estensione dell’art. 34 ai procedimenti comuni non apporterebbe alcun sensibile vantaggio alla diminuzione dei procedimenti. A meno che, naturalmente, la tenuità del fatto e le conseguenze del processo sull’imputato e sulla sua vita di relazione, fossero ricondotti a parametri normativi rientranti nell’ordinario ambito dei rapporti tra pubblico ministero e g.i.p., con la persona offesa ‘‘relegata’’ a soggetto propulsore del controllo giurisdizionale ma privato dei poteri decisori assegnatigli dal d.lgs. n. 274 del 2000. Una nuova ipotesi di archiviazione modulata su tali parametri consentirebbe dunque di allargare l’ambito lecito dell’inazione, nel rispetto della costituzione. 8. Discrezionalità e risarcimento del danno. — Si potrebbe invero sostenere che la rigidità con cui si è data forma, nell’ambito della competenza del giudice di pace, all’ipotesi di esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto, sia meno evidente di quanto appaia dalla lettura dell’art. 34. Infatti, la facoltà assegnata alla persona offesa di imporre al pubblico ministero l’esercizio dell’azione penale, è attenuata dalla possibilità per il


— 581 — giudice di pronunciare l’estinzione del reato ‘‘quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento...’’ (art. 35). In tal modo al giudice è rimessa la possibilità di definire il processo in assoluta autonomia (72), escludendo il potere interdittivo della persona offesa. Resta da considerare, tuttavia che, così operando, si sottrae al pubblico ministero, prima dell’esercizio dell’azione penale, la possibilità di effettuare analogo intervento volto ad escludere ab initio la processualizzazione della notizia di reato. Con il che, permangono i dubbi sull’incisività di tale meccanismo con riguardo alla diminuzione del carico investigativo, che non appare in verità ridotto. Tale considerazione, naturalmente, viene qui svolta nella prospettiva di un ampliamento dell’ipotesi di definizione della pendenza penale per via risarcitoria, essendo solo la prospettiva generalizzatrice ad avere potenziali effetti benefici sulla effettività del principio di obbligatorietà, che altrimenti rimarrebbe nella sostanza inalterato nell’attuale stato di latenza. V’è quindi da chiedersi se non sia il caso di attribuire analoga facoltà al pubblico ministero nella fase precedente, secondo il modus già sperimentato nel processo pretorile prima dell’inserimento del tentativo di conciliazione tra le attribuzioni del giudice (art. 564 c.p.p.). In altre parole, potrebbe essere il pubblico ministero, ‘‘anche prima di compiere atti di indagine preliminare’’, a verificare la disponibilità del querelato al risarcimento del danno, con conseguente possibilità di instaurare il procedimento archiviativo per estinzione del reato. In tal modo, ad un’ipotesi deflattiva-estintiva applicata a una fase processuale, si potrebbe anticipare la soluzione del casus in una fase precedente all’esercizio dell’azione penale. La strada sembra in effetti perseguibile, soprattutto in considerazione del fatto che essa troverebbe applicazione limitata ai reati procedibili a querela, nei limiti naturalmente delle fattispecie di reato poste a tutela di beni disponibili, ad esempio quelli di natura patrimoniale. Mentre ‘‘la violazione di un bene giuridico indisponibile costituisce comunque una fattispecie dannosa che, dunque, impone una riparazione anche se l’offeso manifesta un intento contrario prestando il suo assenso (72) In tal modo ‘‘la persistenza di una (ingiustificata) volontà punitiva dell’offeso è destinata a soccombere proprio nella fase della conciliazione, vale a dire nell’udienza di comparizione, in cui il giudice è chiamato a svolgere la mediazione e la composizione del conflitto. In questa fase, il giudice può suggellare, anche di imperio, l’equilibrata composizione del conflitto, scavalcando la volontà punitiva del privato, ritenuta non più meritevole di attenzione’’. Così la Relazione al d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.


— 582 — alla lesione’’ (73), paiono infatti legittimarsi valutazioni diverse di fronte a lesioni inflitte a beni disponibili. Soprattutto, è però chiaro che, affinché tale soluzione possa avere effetti sulla reale operatività del principio di obbligatorietà, la sua applicazione dovrebbe essere estesa al di là di ogni limite di competenza, oltrepassando gli attuali confini di ordine sperimentale. I rischi sottesi all’eccessiva privatizzazione della pendenza penale e al travaso all’interno del sistema penale del paradigma risarcitorio, sono stati ampiamente enucleati, soprattutto per la innaturale sovrapposizione del diritto penale al diritto civile che si creerebbe e per la perdita di legittimazione della pena criminale nel suo significato etico-sociale (74). Una mutazione dell’attuale interpretazione della pena come riparazione, per consentire una nuova e parallela idea della ‘‘riparazione come pena’’, necessiterebbe di una rivoluzione, implicante una redistribuzione della potestà punitiva, rimettendo alla facoltà dell’offeso la possibilità di destituire lo Stato dalle sue prerogative. Peraltro, è certo che un innalzamento del paradigma risarcitorio a causa estintiva del reato non potrebbe, se non nei casi di microconfittualità previsti dalla legge sul giudice di pace, prescindere dal consenso della persona offesa. Una soluzione di tal tipo, che certo rappresenterebbe un cambiamento culturale nemmeno ipotizzabile fino a qualche tempo fa, avrebbe certo effetti benefici sul principio di obbligatorietà. Accanto ai profili di criticità che l’eventuale generalizzazione del criterio riparatorio determinerebbe, si pongono le prementi necessità di alleggerimento della mole di procedimenti in carico alla procure, al fine di dare effettiva realizzazione al principio di obbligatorietà dell’azione penale. La sostituzione delle finalità rieducative e retributive con quella riparatoria, e la conseguente ‘‘possibilità di restituire ai protagonisti del fatto illecito il potere, la responsabilità e l’impegno nella ricostruzione dell’ordine violato’’ (75), avrebbe in questo senso un impatto importante, sebbene non risolutivo. Peraltro, non sembra che un’anticipazione alla fase di indagine di tale ipotesi estintiva, sia necessariamente in conflitto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Se, come evidenziato nella Relazione al d.lgs. n. 274 del 2000, ‘‘l’art. 112 della Costituzione non esclude che l’ordinamento possa prevedere (73) Così, P. MORO, Oltre il consenso dell’offeso, I modelli dei diritti indisponibili nella giurisprudenza, in Pena e riparazione, Padova, 2000, p. 240. (74) Cfr. in questo senso, M. ROMANO, Risarcimento del danno da reato. Diritto civile e diritto penale, in questa Rivista, 1993, p. 865. (75) Così M. BOUCHARD, La mediazione dei conflitti penalmente rilevanti, in Dir. pen. proc., 1998, p. 1572.


— 583 — ipotesi in cui l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale intervenga all’esito di applicazione di canoni fissati dal legislatore con carattere di generalità e astrattezza’’, l’estinzione del reato per avvenuto risarcimento del danno non dovrebbe comportare problemi di sostenibilità diversi ed ulteriori rispetto a quelli relativi all’ipotesi di ‘‘particolare tenuità del fatto’’, elevata a causa di improcedibilità. Tanto più che il controllo del giudice sulla richiesta di archiviazione, modellato sui parametri decisionali del giudice di pace, e quindi anche sulla idoneità del risarcimento a ‘‘soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione’’, nonché il consenso dell’offeso sull’offerta riparatoria, mantengono il loro decisivo peso sulla praticabilità di tale nuova ipotesi deflattiva. Essa, oltre a sembrare compatibile con l’art. 112 Cost., rappresenterebbe anzi una via utile per garantire una compiuta realizzazione a quel principio, ove accompagnata dal definitivo attecchimento nel processo penale degli strumenti della tenuità del fatto e della per ora astratta e accessoria valutazione sugli inutili costi del processo nei confronti dell’imputato. 9. Conclusione. — Nell’analisi del modificato assetto codicistico interessante l’azione penale, si sono dapprima evidenziati i riflessi che la nuova udienza preliminare potrà dispiegare sull’efficacia dei controlli attuati dal g.i.p. sulla richiesta di archiviazione. Attendendo i responsi della prassi sul punto, resta tuttavia pressante e viva la sensazione che l’attività discrezionale del pubblico ministero sia difficilmente arrestabile, stante l’impossibilità di imporre al pubblico ministero l’effettuazione di indagini contro la sua volontà ed il perseguimento di ipotesi d’accusa della cui titolarità abbia inteso spogliarsi. La rete normativa predisposta a tutela del principio costituzionale ha in questo senso dato prova, sinora, di scarsa funzionalità ed efficacia. L’istituto dell’avocazione viene sottoutilizzato per la carenza di risorse delle procure generali; il controllo giurisdizionale rischia sovente di tramutarsi in mera dichiarazione di intenti, in raccomandazione che trova nella volontà del destinatario l’elemento decisivo per la sua effettiva realizzazione. Comunque si voglia interpretare il concetto di discrezionalità, permane, quale dato conclusivo, l’idea di come il principio di obbligatorietà dell’azione penale, al suo contatto con la realtà del codice e della prassi, subisca una chiara trasmutazione di significato rispetto all’apparente chiarezza dell’aforistica ed invero equivoca lettera costituzionale. Ciò che soltanto il principio di obbligatorietà sembrerebbe o sembra sino ad oggi aver garantito, è che il pubblico ministero, in presenza di una notitia criminis, sia condizionato verso lo sviluppo di un’attività di indagine funzionale alla successiva determinazione in ordine all’esercizio dell’azione.


— 584 — Quanto avviene nel lasso temporale che scorre dall’iscrizione della notizia alla decisione sull’azione, è rimesso a valutazioni interne (psicologiche) del pubblico ministero ed a fattori esterni in cui propriamente si dispiega la discrezionalità in senso stretto. Tali fattori, la cui costante presenza è perfino documentata nei periodici rilievi sul tema operati dalla magistratura, non solo finiscono con l’imporre di necessità una convivenza tra i principi di obbligatorietà e discrezionalità, ma determinano a ben vedere un vero e proprio mutamento morfologico del principio di obbligatorietà, che va dunque ad identificarsi con il puro e semplice impulso ad indagare. La prassi interna delle procure, insieme alle aperture alla discrezionalità riscontrabili nelle norme del codice, conducono dunque al ripiegamento del principio costituzionale, favorendo contestualmente una preselezione delle priorità investigative, così connotando di ulteriore valenza l’impressione che vuole l’obbligatorietà emarginata ad espressione fumosa ed astratta, ancora utile per il suo significato non più che simbolico e tranquillizzante. Se questo è lo stadio attuale del rapporto obbligatorietà-discrezionalità, le prospettive di modifica al codice penale nel settore della punibilità e gli interventi operati sulla competenza penale del giudice di pace penale nascondono potenzialità utili per dispiegare effetti positivi sul più celere smaltimento delle pendenze penali (76), insieme ai positivi effetti in tal senso già prodotti dalla istituzione del giudice unico di primo grado. Non v’è infatti dubbio che con tali strumenti potranno aversi vantaggiosi effetti di ‘‘deprocessualizzazione’’, trattandosi di meccanismi che, anche ove innestati sulla fase post-procedimentale, sono intesi ad incentivare la non percorrenza di tutti i gradi della giurisdizione (77) e a realizzare i generali auspici di maggiore deflazione processuale. Impregiudicata appare tuttavia la questione relativa alla fase iniziale, in cui i pubblici ministeri restano in balia di notizie di reato da perseguire obbligatoriamente, senza possibilità alcuna di storno, secondo la lettura rigida e assolutizzata dell’art. 112 Cost., soprattutto con riguardo alla giurisdizione comune, che assorbe la gran parte dei procedimenti. Ed allora, forse è il caso di valutare la possibilità di promuovere un massiccio ampliamento delle cause di improcedibilità e delle ipotesi archi(76) Si considerino altresì, a questo proposito, l’art. 107-bis disp. att. c.p.p. ed il nuovo art. 415, comma 4, c.p.p., che, rispettivamente, consentono alla polizia giudiziaria di trasmettere al pubblico ministero, cumulativamente e con cadenza mensile, le denunce a carico di ignoti insieme agli atti di indagine eventualmente svolti, ed al pubblico ministero di trasmettere al giudice richiesta cumulativa di archiviazione con riferimento agli elenchi ricevuti ed indicazione contestuale delle denunce che intende escludere. (77) Sull’uso del termine ‘‘deprocessualizzazione’’, v. A.A. DALIA, La deprocessualizzazione come obiettivo primario delle recenti ‘‘modifiche al sistema penale’’, in questa Rivista, 1982, p. 475 ss.


— 585 — viative, che valorizzino proprio le situazioni da ultime esaminate, ovvero la particolare tenuità del fatto, la nocività del processo nei confronti dell’imputato — magari tramite il suo innalzamento a criterio autonomo di valutazione — nonché ad un più coraggioso utilizzo dello strumento risarcitorio quale mezzo di risoluzione dei conflitti. Non può sottacersi che — in particolare per quanto osservatosi in tema di risarcimento — le implicazioni dirompenti che l’indicata rivoluzione determinerebbe sono state oggetto di un’analisi solo accennata. L’intenzione per nulla nascosta di reperire soluzioni utili al fine di assegnare agli uffici dei pubblici ministeri quella funzionalità di cui ora sembrano privi, può anche aver condotto in certi casi all’utilizzo di argomentazioni forzate che, nella loro strumentaliità, potrebbero rivelarsi, agli occhi dell’attento critico, superficiali ovvero eccessivamente ardite. Nondimeno, una volta sottoposte al crivello del dubbio critico le giustificazioni addotte a sostegno dei criteri di priorità, nonché il loro impatto sull’assetto dell’azione penale, la necessità di valutare la presenza di soluzioni alternative si mostrava obbligata, ed ha condotto a valutare la perseguibilità di un percorso diverso attraverso gli strumenti su indicati. La preferibilità di una generalizzazione di soluzioni per ora sperimentalmente relegate alla giurisdizione del giudice di pace, deriva — come si è provato ad evidenziare — dalla pericolosità di un principio alternativo — quello dei criteri di priorità — carico di un simbolismo gravidico, idoneo ad esplodere col tempo nella istituzionalizzazione della discrezionalità dell’azione penale (78). Per evitare cioè che l’assuefazione all’idea di un invincibile stallo procedimentale funga da pretesto per rifugiarsi nella discrezionalità pura, è preferibile che l’esercizio indiscriminato dell’azione penale trovi il necessario e indifferibile freno attraverso meccanismi pur sempre sottoposti al controllo del giudice. Solo a quel punto, lo si dice in modo neanche tanto ironico, si potrebbe cominciare a riflettere sull’opportunità di modificare l’art. 405 c.p.p., così da imporre al pubblico ministero quell’obbligo di investigare, da cui in queste pagine si è cercato di liberarlo. IVAN FRIONI Dottorando in procedura penale e diritto delle prove Università di Milano-Bicocca

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V. nota 26.


OSSERVAZIONI IN TEMA DI ACCERTAMENTO ‘‘DUBBIOSO’’, EFFICACIA IN ALTRI GIUDIZI EX ART. 654 C.P.P. E USO COME PROVA DELLA SENTENZA PENALE IRREVOCABILE

SOMMARIO: 1. Definizione e ambito dell’accertamento penale. — 2. La soluzione del dubbio e le regole di giudizio. — 3. Significato e valore dell’accertamento dubbioso in generale. — 4. Accertamento dubbioso ed efficacia del giudicato ex art. 654 c.p.p. — 5. Accertamento dubbioso ed efficacia probatoria della sentenza ex art. 238-bis c.p.p.

1. Indipendentemente dal valore che si è inclini a conferirgli nell’ambito di ben più approfondite ricostruzioni dogmatiche, non c’è dubbio che il concetto generale di accertamento evochi, anche a un livello non più che etimologico-emozionale, il risultato di un atto che faccia constatare una situazione di certezza, cioè di corrispondenza a verità di un dato fatto, non necessariamente giuridico (1): dal che, a rigore, parrebbe discendere la contraddizione in termini che si annida nel concetto di accertamento dubbioso, atteso che il dubbio suscita situazioni nient’affatto compatibili con la pretesa certezza discendente dall’accertamento (definitivo) (2). Fuor di rigore, il termine accertamento dubbioso possiede un’e(1) Vastissima la letteratura in materia. Per citarne solo alcuni, si vedano: ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, p. 53 ss.; CRISTIANI, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, Milano, 1970, p. 15 ss.; DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963, pp. 175-198; FALZEA, Accertamento, in EdD, I, Milano, 1958, p. 206; FAZZALARI, Il cammino della sentenza e della ‘‘cosa giudicata’’, in Riv. dir. proc., 1988, p. 589 ss.; LOZZI, Profili di una indagine sui rapporti tra ‘‘ne bis in idem’’ e concorso formale di reati, Milano, 1974, p. 6 ss.; PANNAIN, La certezza della prova, in Riv. pen., 1959, p. 285; PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, Milano, 1980, pp. 12, 25 ss.; PUGLIATTI, Conoscenza, in EdD, IX, Milano, 1961, p. 71; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, Padova, 1940, p. 4. Invero al tradizionale termine ‘‘accertamento’’ (che continua a essere il più usuale), si è a volte sostituito quello — ritenuto più corretto da un punto di vista epistemologico — di ‘‘ricostruzione del fatto’’: così, per esempio, PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 38; UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 93. (2) Il carattere di definitività è conferito all’accertamento dall’istituto della cosa giudicata, che preclude ogni ulteriore ‘‘verificazione della realtà (che) in sede giurisdizionale potrebbe certo andare all’infinito’’: così FALZEA, Accertamento, cit., 214, secondo il quale il giudicato avrebbe proprio la funzione di evitare quest’evenienza facendo in modo che, oltre un certo limite, ‘‘la situazione giuridica determinata dalla sentenza acquist(i) una sua pro-


— 587 — vidente carica suggestiva se con esso si vuole alludere al risultato conoscitivo cui il giudice sia giunto all’esito di un’istruzione dibattimentale che non lo abbia messo in condizione di formulare quel giudizio in termini di certezza cui l’ordinamento fisiologicamente anela: a patto di attribuire al concetto un valore non più che descrittivo e ricognitivo di una condizione di carenza di accertamento in senso proprio, non anche quello costitutivo di una situazione diversa e ulteriore rispetto all’accertamento positivo e negativo collegabili rispettivamente alle sentenze di condanna e assoluzione. Quanto alle prime, la relativa pronuncia non può che contenere un accertamento affermativo sulla commissione del fatto da parte dell’imputato e sulla sua responsabilità penale, cui consegue di solito l’applicazione di una sanzione: da qui l’inquadramento dogmatico della condanna tra le sentenze di accertamento positivo quanto al fatto contestato (3), cui sono estranee forme incomplete o parziali del giudizio di esistenza del fattoreato, il quale non può che essere ‘‘categoricamente formulato’’ (4). Se la presenza dell’accertamento (positivo) sull’esistenza del fatto è elemento da cui la sentenza di condanna non può prescindere, lo stesso non può dirsi, quantomeno in termini così perentori, per la pronuncia di proscioglimento. Dopo aver incluso la decisione de qua tra le sentenze di accertamento negativo (5), non si è mancato di sottolineare come, rispetto a quella di condanna, la sentenza assolutoria si caratterizzi, oltre che per il dato estrinseco della previsione di diverse formule con le quali il proscioglimento può (rectius: deve, attesa la loro tassatività) essere pronunciato (6), per il fatto che, pur potendo l’innocenza procedere ‘‘da un effetpria e indipendente validità’’ (op. loc. ult. cit.). Sottolinea il fondamento convenzionale dell’istituto del giudicato CORDERO, Giudizio, in Nss. dig. it., VII, Torino, 1957, p. 886. (3) CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, Roma, 1946, p. 95 e Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, in Riv. dir. proc., 1952, II, p. 229; CORDERO, Procedura penale, Milano, 2001, p. 973; G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, I, Milano, 1965, p. 54; PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 37; MANZIONE, sub art. 533, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, V, Torino, 1991, p. 546; SIRACUSANO, Condanna (dir. proc. pen.), in EdD, VIII, Milano, 1961, pp. 729-731. (4) CORDERO, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 47 nota no 108; CARNELUTTI, Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, cit., p. 229; Cass., sez. VI, 21 settembre 1997, Angelini, in Cass. pen., 1999, p. 1904. (5) CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, cit., p. 98 e Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, cit., p. 229; CORDERO, Procedura penale, cit., p. 968; G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, I, cit., p. 54; PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., pp. 37-38; SIRACUSANO, Assoluzione (dir. proc. pen.), in EdD, III, Milano, 1958, pp. 924-925. (6) In argomento DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, Milano, 1955, pp. 28-59; LA ROCCA, Appunti in ordine all’individuazione delle formule di proscioglimento, in questa Rivista, 1965, p. 357 ss.


— 588 — tivo giudizio storico formulato in termini (...) d’inesistenza’’ (7), essa non deve essere necessariamente il risultato di un accertamento che abbia raggiunto la certezza del contrario di quanto formulato nell’addebito: infatti ‘‘la prova e la certezza devono riferirsi al fatto dedotto in accusa, non al fatto contrario; alla responsabilità, non alla non responsabilità o innocenza’’ (8), in quanto ‘‘il processo non dispensa patenti di onorabilità’’ (9). Poiché il processo tende a verificare se il fatto-reato dedotto nell’imputazione sia avvenuto e sia attribuibile a un determinato soggetto, nel caso in cui non si sia ottenuta la certezza necessaria per condannare — che dev’essere conseguita ‘‘a prezzo di un’indagine con la quale sia stato risolto senza residui il dubbio’’ (10), in modo che alla fine il giudice sia ‘‘certo del sì’’ (11) —, è previsto che l’imputato ne esca prosciolto: un tale effetto è stabilito dall’equiparazione normativa contenuta nel comma 2 dell’art. 530 c.p.p. (12) tra la situazione probatoria di certezza presupposta dal comma 1 (raggiunta prova negativa di colpevolezza ovvero positiva d’innocenza) (13) e quella di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova per condannare. (7) CORDERO, Il procedimento probatorio, cit., p. 43, il quale in Procedura penale, cit., p. 963 giudica ‘‘scolastica’’ l’ipotesi del giudice ‘‘onnisciente’’ che emette la sentenza all’esito di un’istruttoria dalla quale non residuino dubbi o rimangano aperte questioni di sorta. (8) PANNAIN, La certezza della prova, cit., p. 288. Ritiene che fare dell’innocenza l’ipotesi da provare nel giudizio costituirebbe ‘‘una pura astrazione’’ ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 87. (9) FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Torino, 1999, p. 193; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p.125. (10) CORDERO, Giudizio, cit., p. 883. (11) CARNELUTTI, Accertamento del reato e ‘‘favor rei’’, in Riv. dir. proc., 1961, p. 339. (12) Nonché nel successivo comma 3 della stessa disposizione per le scriminanti e le cause personali di non punibilità; nel comma 2 degli artt. 529 e 531 quanto al dubbio sull’esistenza di una condizione di procedibilità o di una causa di estinzione del reato. (13) Per questa equivalenza DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, cit., pp. 77, 83; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 125, secondo il quale un positivo accertamento d’innocenza esorbiterebbe dai compiti del giudice, ‘‘poiché è irrilevante, una volta che per qualsiasi ragione sia esclusa la colpevolezza, l’esatta ricostruzione del fatto storico’’; MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, in Studi in onore di G. Grosso, III, Torino, 1970, p. 592; PANNAIN, La certezza della prova, cit., p. 288. Secondo SIRACUSANO, Assoluzione, cit., p. 927, invece, una volta inquadrata la sentenza di assoluzione tra quelle caratterizzate da un accertamento negativo in ordine a un determinato episodio considerato nel processo, è necessario distinguere al suo interno la pronuncia che contiene la prova positiva d’innocenza da quella che contiene la prova negativa di responsabilità: la distinzione — irrilevante per quanto concerne l’identità ‘‘dell’iter che porta all’accertamento con risultati ora positivi e ora negativi’’ — acquisterebbe rilievo all’esterno del processo dove, come nel caso dell’art. 654 c.p.p., al fine di appurare in concreto il contenuto della sentenza di proscioglimento, l’accertamento ‘‘potrà rilevare diversamente a seconda che i risultati della prova siano stati positivi in ordine alla innocenza o soltanto negativi in ordine alla responsabilità’’.


— 589 — Invero non si è mancato di affermare, accanto ai due tipi di accertamento sottesi rispettivamente alla sentenza di condanna e proscioglimento, l’esistenza di una vera e propria forma di accertamento dubbioso, integrante anch’esso l’accertamento completo di una situazione sicura, ‘‘costituita, però, invece che dalla verità o dalla non verità della fattispecie, dalla sua dubbiosità’’ (14). L’esistenza di questo tertium genus viene per lo più dedotta dal fatto che la sua assenza dovrebbe comportare o la sospensione del processo o, in suo difetto, un ‘‘mancato giudizio e quindi mancato esaurimento del processo’’ (15): dalla constatazione del mancato verificarsi delle suddette situazioni emergerebbe, dunque, questo accertamento dubbioso al quale difetta, però, l’ineliminabile profilo di certezza connesso al concetto giuridico di accertamento, o sembra quantomeno investire, più che l’oggetto istituzionale dell’attività giudiziale, l’elemento soggettivo di chi ha condotto infruttuosamente l’indagine su di esso. Insomma, invece di concernere la negazione della regiudicanda quale atto ultimo e solenne del processo di conoscenza sviluppatosi nel giudizio, la situazione di sicurezza sarebbe costituita dalla consapevole e dichiarata dubbiosità della sua esistenza: ad uscirne cristallizzata è, quindi, una situazione afferente la psiche del giudicante e non l’oggetto del processo — che, giova ribadirlo, consiste ‘‘nell’accertamento, positivo o negativo, d’una situazione ricalcata sul paradigma d’un fatto giuridico produttivo d’una conseguenza penalistica’’ (16) —, con buona pace della teorizzata prevalenza del profilo oggettivo dell’accertamento giudiziale il quale, dovendo ‘‘rispecchiare, con la massima fedeltà possibile, il reale accadimento dei fatti in rerum natura’’ (17), ‘‘risponde ad una esigenza generale (14) G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, I, cit., p. 55; PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 38; per l’affermazione di un peculiare valore costitutivo della sentenza dubitativa cfr. pure SCANDIANI, Giudizio di verità e giudizio di non provata falsità del documento impugnato, in Riv. dir. proc. civ., 1936, p. 284 ss. Contra: G. BRICHETTI, L’‘‘evidenza’’ nel diritto processuale penale, Napoli, 1950, p. 14; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, in Nuova giur. civ. comm., 1990, p. 115; CRISTIANI, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, cit., p. 94; PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove: prospettive storicosistematiche, in Foro it., 1967, V, p. 78; PUGLIATTI, Conoscenza, cit., p. 71. (15) G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, I, cit., p. 55. (16) CORDERO, Il giudizio d’onore, Milano, 1959, p. 40. In senso conforme: DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, cit., p. 175 ss.; PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 40. (17) COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in questa Rivista, 1990, p. 131; CARLI, Fatto e verità nell’ideologia della riforma e della controriforma del codice di procedura penale (le ragioni dei pratici), ivi, 1995, pp. 240-241. Per questo motivo non sembra condivisibile l’affermazione secondo cui il dubbio investirebbe direttamente il fatto storico da accertare e non l’accertamento giudiziario (così, con riferimento alla fattispecie del dubbio inerente al fatto-reato concretamente integrato, PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 12): invero un fatto in natura o è avvenuto oppure


— 590 — dell’ordinamento giuridico’’ (18). Infatti, se il processo ha per oggetto un fatto giuridicamente rilevante, la pronuncia che lo conclude — qualsivoglia ne sia il contenuto — non può che riguardare tale fatto, anche nel caso in cui il risultato non consenta affermazioni assertive su di esso: questo orientamento rigorosamente oggettivo è imposto anche dall’art. 187 c.p.p. che, individuando nei ‘‘fatti che si riferiscono all’imputazione’’ il primo e più rilevante fra gli oggetti della prova (19), delimita al contempo l’ambito dell’accertamento giudiziale (20), perché afferma che la prova serve a stabilire l’esistenza di determinati fatti rilevanti per il diritto e no, è solo la sua ricostruzione processuale a poter essere eventualmente incerta (su questo aspetto UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 10). (18) Così FALZEA, Accertamento, cit., p. 207; PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 28. (19) In realtà è stato già da tempo messo in rilievo che la prova, più che sul fatto — che appartiene ormai a un passato non più rievocabile — verte sulla verità o falsità dell’affermazione di esistenza di un fatto giuridicamente rilevante. In questo senso, tra i tanti: CAPRIOLI, Colloqui riservati e prova penale, Torino, 2000, p. 249, nota n. 1; CARNELUTTI, La prova civile, Roma, 1947, p. 50; CORDERO, Il procedimento probatorio, cit., p. 4, nota no 4; DENTI, La verificazione delle prove documentali, Torino, 1957, p. 7; TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu-F. Messineo-L. Mengoni, III, t. 2, sez. 1, Milano, 1992, p. 91; UBERTIS, Prova (in generale), in Dig. pen., X, Torino, 1995, pp. 300-301, La ricerca della verità giudiziale, cit., pp. 9-10 e Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., p. 91. (20) Che riguarda in primo luogo l’imputazione stricto sensu intesa, che costituisce quello che viene solitamente definito, anche in altre branche del diritto, il fatto principale oggetto di prova, poiché è dall’accertamento della fattispecie legale in esso enunciata che discendono le conseguenze previste dalla legge (in questo senso, variamente: CAPRIOLI, Colloqui riservati e prova penale, cit., p. 249; CARNELUTTI, La prova civile, cit., p. 16, nota n. 2, pp. 237-238; COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 1998, p. 48; FLORIAN, Delle prove penali, Milano, 1961, pp. 41, 43, 59; IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, pp. 156-157; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, III, Torino, 1969, p. 238; PATTI, Prove Disposizioni generali (art. 26972698), in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja-G. Branca, Bologna, 1987, p. 10; RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 106, nota no 103; TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., pp. 97, 338; UBERTIS, Prova, cit., p. 300, e Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., pp. 72 e 90, che distingue ancora, all’interno del thema probandum, il fatto principale e i singoli fatti primari che ne realizzano la fattispecie; VERRINA, Valutazione probatoria e chiamata di correo, Torino, 2000, 4). Possono formare oggetto di prova ex art. 187 c.p.p., oltre ai fatti penalmente rilevanti, anche quelli ‘‘da cui uno dei predetti sia arguibile, nel senso positivo o negativo, attraverso sequele induttive più o meno lunghe’’ (CORDERO, Procedura penale, cit., p. 563) e, quindi, tutte quelle circostanze fattuali che appaiano ‘‘riconducibili — direttamente o indirettamente — ai fatti enucleati nell’imputazione’’ (SIRACUSANO, Prova III) Nel nuovo codice di procedura penale, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, p. 2) le quali, una volta ‘‘accertate come vere, possono essere impiegate come premesse di inferenze la cui conclusione riguarda l’esistenza o l’inesistenza del fatto principale’’ (TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., pp. 100, 338). In questa categoria rientra tutta una serie, non analiticamente predeterminabile, di fatti non principali (tra i quali spicca per importanza quello integrante la prova d’alibi), genericamente chiamati secondari (CAPRIOLI, Colloqui riservati e prova penale, cit., p. 250; CATA-


— 591 — chiarisce che ‘‘oggetto appropriato della prova (...) (è) il fatto che deve essere accertato, ossia il fatto che è oggetto di decisione’’ (21) (nel processo penale: l’imputazione). LANO, La prova d’alibi, Milano, 1998, pp. 12, 18-19; COMOGLIO, Le prove civili, cit., p. 49,

nota n. 85; LIBERINI, L’onere di produrre documenti nel dibattimento e il principio di acquisizione processuale, in Cass. pen., 1994, p. 3132; PATTI, Prove, cit., p. 10; RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, cit., p. 106, note n. 103-104; SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, Milano, 1959, pp. 60-61; TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., pp. 100-101; UBERTIS, Prova, cit., pp. 300, 312, e Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., pp. 72, 90, dove però i fatti secondari nell’accezione indicata nel testo sono denominati semplici, mentre viene riservato il termine ‘‘fatti secondari’’ a un contesto differente e con un diverso valore, del quale si darà di seguito conto). Vi è ancora un’altra accezione di fatto secondario, con la quale ci si riferisce non più a un evento collegabile in via inferenziale con il fatto principale, ma all’insieme dei fatti probatori, o meglio delle circostanze fattuali che ad essi si riferiscono e dalla cui disamina emerge ‘‘il grado di attendibilità della fonte e/o del mezzo di prova’’ (così UBERTIS, Prova, cit., p. 329, e Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., p. 72 nota n. 86, p. 103 nota n. 56; per non dissimili considerazioni si vedano anche CARNELUTTI, La prova civile, cit., pp. 237-238 e Nuove riflessioni sul giudizio giuridico, in Riv. dir. proc., 1956, pp. 102-103; CORDERO, Il procedimento probatorio, cit., p. 21 ss.; DENTI, La verificazione delle prove documentali, cit., p. 13 ss.; FLORIAN, Delle prove penali, cit., pp. 61-62; IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, cit., p. 157; SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova, 1995, p. 117; SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, cit., p. 37). Rispetto ai fatti secondari intesi nella prima accezione muta l’oggetto dell’inferenza, che in un caso riguarda (seppure indirettamente) il fatto principale, nell’altro non lo sfiora neppure poiché verte sulla (verifica della) prova del fatto principale: al riguardo TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 431 e UBERTIS, Prova, cit., pp. 300, 321, 329 — sull’orma di quelle che CARNELUTTI, La prova civile, cit., pp. 240-241, definiva circostanze qualificanti della fonte di prova, e cioè i ‘‘fatti dai quali risulta la identità o la attendibilità del testimone o la autenticità o comunque la qualità del documento’’ (ivi, p. 240) — adducono gli esempi di quelle scansioni della prova testimoniale che hanno per oggetto i rapporti tra il testimone, le parti e gli altri testimoni, le circostanze idonee ad accertarne la credibilità ex art. 194, comma 2 c.p.p., la capacità psico-fisica del teste ex art. 196, comma 2 c.p.p., le modalità della sua dichiarazione, ovvero, con riguardo alle prove documentali, il momento dell’ispezione delle caratteristiche del documento per verificare il valore probatorio della rappresentazione in esso contenuta. Se i fatti secondari da ultimo esaminati, al contrario di quelli precedenti, ‘‘non possono entrare in alcun modo a far parte della rappresentazione del ‘fatto’ giuridicamente rilevante’’ (UBERTIS, Prova, cit., p. 312 e Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., p. 103 nota n. 56 cui adde, sui possibili oggetti dell’accertamento che non hanno diretta attinenza con l’imputazione NOBILI, sub art. 187, in Commento al nuovo codice di procedura penale cit, II, Torino, 1990, p. 395; ORLANDI, Atti e informazioni della autorità amministrativa nel processo penale Contributo allo studio delle prove extracostituite, Milano, 1992, pp. 219-220), deve segnalarsi anche l’esistenza di fatti che, pur potendo costituire oggetto di conoscenza giudiziale, non rientrano per nessuna delle suindicate connessioni logico-giuridiche nell’area dell’imputazione: è quanto emerge dall’art. 472 comma 2 c.p.p., che consente di procedere al dibattimento a porte chiuse quando vi sono da assumere prove che possono recare pregiudizio alla riservatezza di testi o parti private in ordine ‘‘a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione’’. (21) TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 73; CARLI, Fatto e verità nell’ideologia della riforma e della controriforma del codice di procedura penale (le ragioni dei pratici),


— 592 — Quale che ne sia l’ampiezza, bisogna quindi ribadire che l’eventuale dubbio finale non può che concernere la ricostruzione fattuale (non certo quella giuridica:‘‘desterebbe l’ilarità quel giudice il quale dichiarasse l’insufficienza di prove sulla questione di diritto’’ (22)) così come emerge all’esito di un’istruzione che abbia dato fondo a tutte le sue potenzialità euristiche: deve negarsi pertanto rilievo al dubbio meramente soggettivo o a quello cui si possa sopperire con l’espletamento di altri mezzi di prova, e la decisione che lo consacrasse risulterebbe affetta da vizio logico (23). Resta da vedere se l’accertamento dubbioso — da intendersi ormai come mera situazione di stallo a livello conoscitivo, non come ipostatizzazione di una situazione psichica del giudice cui conferire un’autonoma e peculiare rilevanza nell’ambito della situazione giuridica di accertamento — sia in condizione d’integrare quelle forme di accertamento che il sistema richiede, per esempio, nei casi in cui il giudicato penale rivesta efficacia in altri giudizi ex art. 654 c.p.p., ovvero quando la sentenza irrevocabile venga utilizzata come mezzo di prova ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p.: per rispondere al quesito è però necessario prima qualche ulteriore approfondimento sulla ratio e, soprattutto, sul contenuto che caratterizza in genere quelle situazioni riconducibili a un accertamento dubbioso. cit., p. 240; COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., cit., p. 133. Per quanto suggestiva, questa impostazione sconta un certo inevitabile grado di approssimazione: deve invero evitarsi di sovrapporre perfettamente il fatto oggetto del processo (dichiarato sinteticamente nel dispositivo della sentenza) con il fatto oggetto della prova, strumentale rispetto all’accertamento del primo in quanto costituisce la base del complesso di inferenze (contenute nella motivazione) che conducono alla decisione sul fatto-reato. A impedire questa immedesimazione — a tacere di altre, tra le quali le fondamentali implicazioni in tema di correlazione tra accusa e sentenza, che involgono il primo e non il secondo profilo — milita la constatazione che la prova può vertere genericamente su fatti che si riferiscono a un reato (art. 187 c.p.p.), mentre l’atto conclusivo del processo è ancorato a un ormai ben determinato fatto-reato (artt. 530, 531, 533, 649 c.p.p.), con la conseguenza che possono riscontrarsi elementi i quali ‘‘pur assumendo una notevole importanza ai fini probatori, sono estranei al vero e proprio tema di accusa’’ (CAVALLARI, Contestazione dell’accusa, in EdD, IX, Milano, 1961, p. 638) e conducono pertanto ‘‘al di fuori dell’orbita del ‘fatto’ ’’ (CORDERO, Considerazioni sul principio d’identità del ‘‘fatto’’, in questa Rivista, 1958, p. 941, nota n. 28; cfr. pure CONSO, Accusa e sistema accusatorio, in EdD, I, Milano, 1958, p. 341; DOMINIONI, Imputazione, in EdD, XX, Milano, 1970, pp. 828-829; ORLANDI, La regiudicanda penale nelle fasi preistruttoria e istruttoria, in questa Rivista, 1982, pp. 560-565). Ne discende la non perfetta coincidenza tra gli oggetti della prova e il thema probandum, sulla quale si veda UBERTIS, Prova, cit., 301 cui adde, sulle caratteristiche della fattispecie sostanziale oggetto del processo e i suoi rapporti con la prova MENNA, Il thema probandum, in AA.VV., Oralità e contraddittorio nei processi di criminalità organizzata, Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Trapani, 26-28 settembre 1997), Milano, 1999, p. 167 ss. (22) SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., p. 6. (23) MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, cit., p. 593; SIRACUSANO, Assoluzione, cit., pp. 927-928 e Studio sulla prova delle esimenti, cit., pp. 220-222.


— 593 — 2. È noto come ‘‘i costosi strumenti del processo non ammettono d’essere usati a vuoto, e rifiutano ogni scettica conclusione d’impotenza a giudicare: si sia acquisita o no la prova, quale che sia il risultato a cui si è pervenuti nella ricostruzione del frammento di realtà sul quale si incardina la controversia, in ogni caso s’impone una pronuncia che appaghi il fine istituzionale a cui il processo è preordinato: ossia, accerti con efficacia di giudicato se un dato effetto giuridico si è o no prodotto’’ (24). Il fenomeno è stato oggetto di approfondite analisi soprattutto da parte della dottrina, che è giunta però a risultati non del tutto uniformi, anche per il continuo campeggiare, sul suo sfondo, dell’antico problema dell’onere della prova, istituto di stampo prettamente civilistico (25), la cui trasposizione nel campo del processo penale è stata ora affermata ora negata, ma in entrambi i casi con una varietà di sfumature determinate in gran parte da diverse premesse di teoria generale del processo (26). La questione ha continuato a riproporsi più o meno nei medesimi termini sia dopo l’avvenuta costituzionalizzazione della presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2 cost.) — la cui presenza comporta che l’imputazione, per il giudice, dovrebbe essere ‘‘una mera ipotesi convertibile in un giudizio categorico di reità solo se i suoi presupposti siano compiutamente accertati e che, in mancanza di ciò, è dovere del giudice confermare con una statuizione assolutoria l’originario, e sino a quel punto mai convertito, status d’innocenza’’ (27) — sia successivamente all’entrata in vi(24) CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., p. 82; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 92 nota n. 39, ritiene il dovere del giudice di pronunciarsi in ogni caso ‘‘connaturato alla stessa funzione giurisdizionale, come intesa dalla Costituzione (art. 24)’’; IRTI, Dubbio e decisione, in Riv. dir. proc., 2001, p. 65, per il quale ‘‘gli uomini indecisi, i naufraghi del dubbio, non sono contemplati dal diritto. (25) Da questo angolo visuale si consulti per tutti PATTI, Prove, cit., passim. (26) Si vedano gli esatti termini del dibattito sotto la vigenza del codice abrogato in: CONSO, I fatti giuridici processuali penali Perfezione ed efficacia, Milano, 1955, p. 25; CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., pp. 12, 128-135; DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, cit., pp. 111-115; A. FOSCHINI, Il dubbio sulla prova delle eccezioni nel processo penale, in Arch. pen., 1946, p. 195 ss.; GAITO, Onere della prova e processo penale Prospettive di indagine, in Giust. pen., 1975, III, p. 513 ss.; GUARNERI, Autorità della cosa giudicata penale nel giudizio civile, Milano, 1942, pp. 43-48; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 101 ss.; LOZZI, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, pp. 17-21; MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, cit., p. 561 ss.; PISAPIA, Il problema della ‘‘insufficienza di prove’’, in Riv. pen., 1968, pp. 176-177; QUAGLIERINI, In tema di onere della prova nel processo penale, in questa Rivista, 1998, pp. 1260-1262; Gius SABATINI, Sull’onere della prova nel processo penale, in Giust. pen., 1952, III, p. 404; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., pp. 66-70; SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, cit., p. 228 ss. (27) DOMINIONI, Le parti nel processo penale, Milano, 1985, p. 256. Trattasi dell’effetto discendente dal valore di regola di giudizio unanimemente riconosciuto alla presunzione di non colpevolezza: CHIAVARIO, Assoluzione con formula dubitativa e presunzione di non colpevolezza al vaglio della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1972, p. 1331; DOMI-


— 594 — gore del vigente codice di procedura penale (28): sembra comunque da condividere l’opinione secondo cui il metodo processuale è ininfluente sulla questione concernente ‘‘il ‘che cosa’ il giudice debba statuire in presenza di una lacuna probatoria’’, e il concetto di onere nel processo penale — una volta ‘‘depurato (...) dalle intrusioni metagiuridiche’’ — rappresenta ‘‘anticipatamente ciò che accadrebbe sul piano della decisione, se la prova di un certo fatto non fosse acquisita’’ (29). Inteso come regola di giudizio, l’onere della prova finisce per assumere la medesima latitudine contenutistica della presunzione di non colpevolezza cui, non a caso, è stato conferito il ruolo di ‘‘criterio basilare di gnoseologia giudiziaria’’ (30): insomma, quale che sia il riferimento — normativo-costituzionale ovvero squisitamente teorico — la conclusione è che all’assenza di un positivo accertamento di responsabilità, dato dall’incapacità delle prove a carico di fondare un giudizio assertivo di colpevolezza, consegue il proscioglimento dell’imputato, non essendosi superata la presunzione di innocenza (id est: non avendo l’accusa soddisfatto appieno l’onere di provare la colpevolezza) (31). Poiché anche nei casi in cui le risultanze probatorie non siano state in grado di condurre a conclusioni categoriche del tipo di quelle richieste per NIONI, Le parti nel processo penale, cit., pp. 205, 235, 251-257; GAITO, Onere della prova e

processo penale Prospettive di indagine, cit., p. 521; GHIARA, Presunzione di innocenza, presunzione di ‘‘non colpevolezza’’ e formula dubitativa, anche alla luce degli interventi della corte costituzionale, in questa Rivista, 1974, p. 72; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., pp. 28, 30, 91, 120; MELCHIONDA, Prova (dir. proc. pen.), in EdD, XXXVII, Milano, 1988, p. 662; PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove: prospettive storico-sistematiche, cit., pp. 76-77 e Sulla presunzione di non colpevolezza, in Foro pen., 1965, p. 3; SCAPARONE, Elementi di procedura penale, Milano, 1999, p. 133; UBERTIS, Prova, cit., p. 338. (28) Evento che, dal canto suo, ha favorito — non senza critiche, come quelle avanzate da CHIAVARIO, Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale, in Cass. pen., 1996, pp. 2011-2013 — un certo rifiorire della tesi positiva sull’esistenza dell’onere della prova sulla base del supposto principio dispositivo delle prove che — nonostante la decisa opinione contraria di Corte cost., sent. 26 marzo 1993 n. 111, in Giur. cost., 1993, p. 901 — informerebbe il nuovo rito: AMODIO, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in Commento del nuovo codice di procedura penale diretto da E. Amodio-O. Dominioni, I, Milano, 1989, XXXVII-XXXIX e Rovistando tra le macerie della procedura penale, in Cass. pen., 1993, p. 2942; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 117; FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, cit., p. 193; QUAGLIERINI, In tema di onere della prova nel processo penale, cit., p. 1266 ss.; SIRACUSANO, Prova, cit., p. 6. Ritiene all’opposto che l’onere della prova si riduca attualmente a una ‘‘formula evocativa, eco di un dibattito ormai spento’’ UBERTIS, Prova, cit., p. 338. (29) Tutte le citazioni sono tratte da CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., rispettivamente pp. 135, 133 nota n. 177 e 133. (30) ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 79. (31) In questo senso sostanzialmente FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1994, p. 1071.


— 595 — condannare — situazione che, da un punto di vista puramente gnoseologico, dovrebbe sfociare in un non liquet (32) — un giudizio deve comunque esserci, la legge prevede dei criteri prefissati concernenti non solo l’an decideatur (impedendo così al giudice di non pronunciarsi), ma anche l’uti decideatur (predeterminando altresì il contenuto della sua decisione nel caso di incertezza sul fatto): questo complesso di regole stabilisce che la decisione assuma la medesima formula di proscioglimento che il giudice utilizzerebbe nel caso in cui la sua indagine conoscitiva lo abbia condotto a conclusioni certe, in conseguenza dell’avvenuta abolizione della formula terminativa di assoluzione per insufficienza di prove prevista dall’art. 479, comma 3 c.p.p. abr. (33) 3. La presenza di ‘‘trame logiche diverse e dispositivo uniforme’’ (34) non giunge ovviamente ad escludere l’eventualità che la ricerca giudiziale ristagni in quello stato (di per sé ‘‘ineliminabile’’ (35)) di dubbio, ‘‘che rappresenta una delle poche certezze del pensiero umano’’ (36): a non essere ammessa, quindi, è solo l’eventualità che una situazione del genere possa emergere dal dispositivo della sentenza (37), sebbene la di(32) CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., pp. 80-83, 139, Giudizio, cit., p. 884, e Procedura penale, cit., p. 964; IRTI, Dubbio e decisione, cit., p. 70; LOZZI, Favor rei e processo penale, cit., p. 36; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., p. 15 ss.; TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 223. (33) ANCA, Insufficienza di prove, in Dig. pen., VII, Torino, 1993, p. 170 ss.; BARGIS, In tema di sostituzione della formula piena alla formula dubitativa da parte della corte di cassazione, in Giur. it., 1990, II, p. 349; BETTIOL, Note in tema di prova insufficiente e contraddittoria e limiti alla revisione, in Arch. Nuova proc. pen., 1990, p. 289; CHIAVARIO, Appunti sul processo penale, Torino, 2000, p. 349; MARZADURI, sub art. 530, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, V, cit., pp. 519-520; MERCURI, Le Sezioni Unite intervengono sull’ambito applicativo della regola di giudizio ex art. 530 comma 2 c.p.p., in questa Rivista, 1996, pp. 1164-1165. (34) CORDERO, Procedura penale, cit., p. 970. (35) SIRACUSANO, Perché abolire il proscioglimento per insufficienza di prove?, in Jus, 1967, p. 371. (36) PISAPIA, Il problema della ‘‘insufficienza di prove’’, cit., p. 180. Contra PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove: prospettive storico-sistematiche, cit., p. 78, che parla al proposito di ‘‘apologia del dubbio’’. (37) Da cui derivavano, oltre a una permanente aura di sospetto sull’insufficientemente assolto, una serie di conseguenze negative che la dottrina non aveva mancato di stigmatizzare: CONSO, È da rivedere, non da eliminare l’assoluzione per insufficienza di prove, in Giur. it., 1967, IV, pp. 108-113; GUARNERI, Tipologia delle sentenze penali di proscioglimento, in Riv. dir. proc. pen., 1954, p. 54; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., pp. 129-130; JANNITTI PIROMALLO, Il proscioglimento dell’imputato con formula dubitativa, in Scritti giuridici in onore di V. Manzini, Padova, 1954, pp. 278-280; LOZZI, Favor rei e processo penale, cit., pp. 25-27; MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, cit., pp. 606-607; PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove: prospettive storicosistematiche, cit., pp. 71-73; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., pp. 318-323.


— 596 — sciplina espressa degli effetti del dubbio si occupi — attraverso la suddetta equiparazione tra prova di non colpevolezza e mancante-insufficiente-contraddittoria prova di colpevolezza — esclusivamente dell’opzione condanna/assoluzione (38), senza riferimento alcuno ad altre eventualità che possono profilarsi nella pratica. Si è affermato che la regolamentazione delle conseguenze del dubbio non comporta che ‘‘il giudice, travisando i risultati del processo, faccia passare per certezza quello che è il suo dubbio’’, né che vi sia ‘‘identità tra il fatto inesistente e il fatto non provato, bensì soltanto equiparazione ai fini della responsabilità penale tra la prova della inesistenza e il dubbio’’ (39): il che rivela la scissione esistente tra il profilo normativo del fenomeno e quello gnoseologico, tra i quali può crearsi un ‘‘divario, che può assumere proporzioni alquanto vistose, tra il risultato del processo e quello a cui si perverrebbe, seguendo gli schemi d’una rigorosa ricerca gnoseologica’’ (40). Sulla base di queste premesse resta, quindi, tutto da sondare il valore del dubbio in ipotesi diverse da quelle espressamente disciplinate, anche se deve escludersi fin d’ora l’eventualità di estendere una volta per tutte la ‘‘equiparazione tra incertezza e certezza negativa a un caso diverso da quello, per il quale l’equiparazione è statuita’’ (41): contro una tale generale assimilazione militano l’assoluta peculiarità delle istanze sottese alla soluzione del dubbio riguardante la pronuncia conclusiva del processo e il valore dell’accertamento dubitativo dal punto di vista del suo contenuto. A questo proposito, poiché ‘‘il fatto accertato, come fenomeno avente giuridica rilevanza, si realizza contestualmente alla sua definitiva ricostruzione’’ (42), una volta conclusasi col giudicato l’esperienza del processo, la presenza di un accertamento definitivo può ritenersi un dato ormai acquisito: ma quando si passa dalla mera presa d’atto dell’esistenza di una dichiarazione giudiziale dotata di efficacia normativa — perché emessa ‘‘da persona en titre, in forme corrispondenti all’esercizio del relativo po(38) Cui, dopo la L. 479/99, deve aggiungersi la medesima equiparazione ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. in alternativa al decreto che dispone il giudizio. (39) Citazioni tratte entrambe da CARNELUTTI, Insufficienza di prove della falsità del documento impugnato, in Riv. dir. proc. civ., 1936, II, pp. 50 e 51. (40) Così CORDERO, Giudizio, cit., p. 884 e Il giudizio d’onore, cit., p. 138 nota n. 189; CARNELUTTI, Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, cit., pp. 229-230 e Insufficienza di prove della falsità del documento impugnato, cit., pp. 50-51; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 115; PUGLIATTI, Conoscenza, cit., p. 102. (41) CARNELUTTI, Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, cit., p. 230; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 116; GIARDA, Assoluzione dubitativa ed operatività dell’art. 28 c.p.p., in Giur. it., 1982, I, p. 287. (42) PERCHINUNNO, L’accertamento alternativo nel processo penale, cit., p. 37.


— 597 — tere’’ (43) — ad apprezzarne il contenuto logico, emerge in tutta evidenza il tipo di accertamento racchiuso nella decisione, la sua ‘‘qualità’’ (44). Così, quando una fattispecie processuale richiede la presenza dell’accertamento per il prodursi di determinati effetti (diversi da quello preclusivo, di per sé indifferente al contenuto dell’atto irrevocabile da cui promana (45)) bisognerà, affinché questi si manifestino, saggiarne le caratteristiche attraverso la motivazione della sentenza, che rappresenta l’unico elemento in grado di far emergere il tipo di giudizio sotteso al dispositivo, e, quindi, svelare eventuali incompletezze dell’accertamento: poiché l’insufficienza di prove — a prescindere dalla maggiore o minore estensione dell’ambito di operatività che si è disposti a riconoscerle, che dipende anche dal concreto atteggiarsi dei rapporti con le limitrofe fattispecie di mancanza e contraddittorietà della prova (46) — contiene il ‘‘riconoscimento finale della permanenza del dubbio iniziale’’ (47) e ‘‘copre la zona di nessuno tra i giudizi d’esistenza e d’inesistenza’’ (48), si è escluso in tali casi di essere al cospetto, quantomeno da un punto di vista di gnoseologia giudiziaria, di una situazione di accertamento in senso proprio (49). (43) CORDERO, Guida alla procedura penale, Torino, 1986, p. 415. (44) Così ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 84, che sottolinea la primazia dell’aspetto gnoseologico-sostanziale del giudizio sulla sua funzione di controllo sociale. (45) In questo senso, ex plurimis: DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, cit., p. 124 ss. e Giudicato II) diritto processuale penale, in Enc. giur., XV, Roma, 1988, p. 3 ss.; DOMINIONI, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, Milano, 1974, p. 334 ss.; LOZZI, Giudicato (diritto penale), in EdD, XVIII, Milano, 1969, p. 913, Profili di una indagine sui rapporti tra ‘‘ne bis in idem’’ e concorso formale di reati, cit, p. 7 e Lezioni di procedura penale, Torino, 2001, p. 619. (46) Il tema esula dalla presente indagine, ma se ne vedano le implicazioni in: ANCA, Insufficienza di prove, cit., p. 155 ss.; CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale II, cit., p. 205 e Accertamento del reato e ‘‘favor rei’’, cit., pp. 341-342; CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., p. 138 ss. e Il procedimento probatorio, cit., p. 48 nota n. 108; DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, cit., pp. 102-108; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 126; LOZZI, Favor rei e processo penale, cit., pp. 29-31; MERCURI, Le Sezioni Unite intervengono sull’ambito applicativo della regola di giudizio ex artt. 530 comma 2 c.p.p., cit., p. 1169 ss.; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., pp. 327-333. (47) BELLAVISTA, Il processo come dubbio, in questa Rivista, 1967, p. 764; SIRACUSANO, Perché abolire il proscioglimento per insufficienza di prove?, cit., p. 371. (48) CORDERO, Il procedimento probatorio, cit., p. 48 nota n. 108. (49) BELLAVISTA, Il processo come dubbio, cit., pp. 770-771; CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, II, cit., p. 204, Nuove riflessioni sul giudizio giuridico, cit., p. 91 e Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, cit., p. 229; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 115; CORDERO, Giudizio, cit., pp. 884-885, Il giudizio d’onore, cit., p. 139, e Il procedimento probatorio, cit., pp. 44-48; DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, cit., p. 93; GIARDA, Assoluzione dubitativa ed operatività dell’art. 28 c.p.p., cit., p. 286; GUARNERI, Autorità della cosa giudicata penale nel giudizio civile, cit., p. 44; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p.


— 598 — Sulla base di queste premesse teoriche si è già da tempo affrontata la questione del prodursi o meno del vincolo previsto dall’art. 654 c.p.p. (id est: art. 28 c.p.p. abr.) nell’ipotesi di assoluzione per insufficienza di prove: accanto a questa problematica ormai classica deve aggiungersi quella, di più recente emersione (50), che riguarda la soluzione del medesimo quesito allorquando la sentenza venga invocata non per la sua efficacia di giudicato in giudizi extrapenali, ma come mezzo di prova in giudizi attribuiti alla stessa giurisdizione penale: in quest’ultima ipotesi, infatti, pur mancando un dato normativo del tenore di quello dell’art. 654 c.p.p. — che contiene un esplicito riferimento alle sentenze di assoluzione — deve ammettersi la possibilità di acquisire pronunce di questo tipo, anche in considerazione del carattere generico della rubrica, che si riferisce alle sentenze irrevocabili tout court. La circostanza non consente pertanto di compiere eventuali selezioni in base alla natura del dispositivo, dovendosi riconoscere la possibilità di acquisire come prova documentale sia sentenze di condanna (51) che di assoluzione (52): di conseguenza si rende necessario verificare — non 128; JANNITTI PIROMALLO, Il proscioglimento dell’imputato con formula dubitativa, cit., p. 270; JANNUZZI, Autorità nel giudizio civile del giudicato penale sul falso, assolutorio per insufficienza di prove, in Giur. it., 1952, I, 1, p. 490; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., p. 332; SIRACUSANO, Assoluzione, cit., pp. 927-928. (50) Perché provocata dall’inserimento, ad opera della legge 7 agosto 1992 n. 356, dell’art. 238-bis, a mente del quale ‘‘Fermo quanto previsto dall’art. 236, le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3’’. (51) Che l’intento del legislatore fosse proprio quello di volersi riferire soprattutto alle sentenze di condanna non sembra azzardato arguirlo dalla genesi della disposizione, sulla quale: BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, 1994, pp. 156, 163 e 173; Relazione della Commissione parlamentare antimafia, La formazione della prova nei processi di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1992, p. 484; FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, in Giur. it., 1993, IV, p. 326 nota n. 30; LORUSSO, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238-bis c.p.p. e pregiudizialità penale: una norma controversa, in Urb. e App., 1999, p. 334; RIVELLO, sub art. 238-bis, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, cit., 2o aggiornamento, Torino, 1993, p. 91, nota n. 5; VIGNA, Il processo accusatorio nell’impatto con le esigenze di lotta alla criminalità organizzata, in Giust. pen., 1991, III, p. 476. (52) La possibilità di acquisire le sentenze di assoluzione è affermata espressamente, oltre che da Cass., sez. un., 23 novembre 1995, Fachini, in Cass. pen., 1996, p. 2132 per la quale ‘‘è legittimo assumere, come elemento di giudizio autonomo, circostanze di fatto raccolte nel corso di altri procedimenti penali, pur quando questi si sono conclusi con sentenze irrevocabili di assoluzione’’ anche da: Cass., sez. I, 2 dicembre 1998, Archinà, in Cass. pen., 1999, p. 3489; Cass., sez. V, 25 novembre 1998, Pagani, ivi, 2000, p. 92; Cass., sez. I, 16 novembre 1998, Hass e Priebke, ivi, 1999, p. 2169; Cass., sez. VI, 10 febbraio 1998, Cadinu, ibidem, p. 1896; Cass., sez. I, 10 maggio 1993, Algranati, ivi, 1995, p. 90; Ass. Genova, 30 marzo 1995, Ientile, in Nuovo dir., 1997, p. 896, dalla cui motivazione emerge che nel procedimento a carico dell’esecutore materiale, la sentenza irrevocabile di assoluzione


— 599 — prima, però, di averlo fatto con riferimento all’art. 654 c.p.p., per potersi confrontare con le conclusioni lì raggiunte — l’efficacia probatoria della sentenza nel caso in cui dalla motivazione dell’atto acquisito ex art. 238-bis c.p.p. emerga la presenza di un accertamento dubbioso. 4. Con riferimento all’art. 28 c.p.p. abr., ma con una serie di argomentazioni riproposte anche sotto la vigenza dell’attuale art. 654 c.p.p. (con la sola già evidenziata differenza che l’insufficienza di prove non traspare più dal dispositivo, ma solo dalla motivazione della sentenza), è stato escluso dalla dottrina dominante (53), in contrasto con un consolidato e risalente orientamento giurisprudenziale di segno opposto (54), che il giudice civile debba conformare la propria decisione a un precepronunciata per insufficienza di prove nei confronti del mandante ed acquisita ex art. 238bis c.p.p., ha costituito il quadro probatorio di riferimento per la ricostruzione dei fatti nel processo ad quem. (53) Per gli esatti termini della questione si vedano, in questo senso, sotto il vigore dell’abrogato codice: CARNELUTTI, Riflessioni sul proscioglimento per insufficienza di prove, cit., p. 230 e Insufficienza di prove della falsità del documento impugnato, cit., p. 51; CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., p. 137 nota n. 187, e Procedura penale, Milano, ed. 1987, p. 1095; DENTI, La verificazione delle prove documentali, cit., p. 310; GIARDA, Assoluzione dubitativa ed operatività dell’art. 28 c.p.p., cit., p. 284 ss.; SIRACUSANO, Assoluzione, cit., p. 927 (contra, variamente: CIFFO BONACCORSO, Dei rapporti tra il giudizio penale e il giudizio civile, Napoli, 1958, p. 57; GUARNERI, Autorità della cosa giudicata penale nel giudizio civile, cit., p. 49; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, cit., I, Torino, 1967, p. 420; PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove: prospettive storico-sistematiche, cit., p. 72; SCANDIANI, Giudizio di verità e giudizio di non provata falsità del documento impugnato, cit., p. 285). Nello stesso senso, ma con riferimento al codice di procedura penale vigente: CHILBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 1993, p. 567; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., pp. 118-119; CORBI, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p. 106; CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, p. 744 e Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 1205; DI CHIARA, Premesse in facto nella motivazione della sentenza penale e dinamiche del vincolo extrapenale sugli ‘‘altri’’ giudizi civili od amministrativi, in Dir. fam. pers., 1995, p. 91; LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 131; POLI, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, in Riv. dir. proc., 1993, pp. 526-528; SANTAGADA, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile diverso da quello per le restituzioni ed il risarcimento del danno, in Giust. civ., 1999, pp. 258-259; SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, Atti del Convegno di Trento (18-19 giugno 1993), Milano, 1995, pp. 47, 57; TERRUSI, Rapporti tra giudicato penale e giudizio amministrativo, in Dig. pen., XI, Torino, 1996, pp. 41 e 44; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000, 288, pp. 448. (54) Per il quale l’accertamento, per quanto dubbioso, produce comunque l’efficacia del giudicato di cui agli artt. 652 e 654 c.p.p., precludendo al giudice extrapenale di procedere a ulteriori accertamenti in ordine al fatto solo dubitativamente negato dalla sentenza penale e obbligandolo a conformarvisi. In questo senso, da ultimo: Cass., 18 ottobre 2000, Arichetta c. Esso, in Orient. Giur. Lav., 2000, p. 1139; Cass., civ., sez. III, 28 ottobre 1997, Gentosi c. Generali assicurazioni, in Giur. it., 1998, p. 2273; Cass. civ., sez. III, 4 luglio 1997, Forte c. Soc. casa di cura Pierangeli, in Foro it., 1998, I, p. 2915; Cass. civ., sez. lav.,


— 600 — dente giudicato penale assolutorio motivato dal dubbio: infatti, la relativa sentenza non fa che dichiarare ‘‘l’impossibilità di accertare la realizzazione della fattispecie di reato’’ (55) e non integra così la condizione che l’art. 654 c.p.p. richiede per il prodursi del vincolo, e cioè la presenza di ‘‘un giudizio categorico affermativo o negativo’’ (56). A queste argomentazioni, basate sulla natura intrinseca del proscioglimento dubitativo, si aggiunge di solito quella, di carattere letterale, secondo cui la necessità di un accertamento pieno si dedurrebbe dalla circostanza che l’art. 654 c.p.p. (così come il precedente art. 28 c.p.p. abr.) stabilisce che, per l’esplicarsi del relativo effetto, il riconoscimento della situazione giuridica sottoposta a giudizio extrapenale dipenda ‘‘dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale’’ (57). Ebbene, se il primo ordine di motivazioni non può che suscitare adesione — quantomeno in linea generale e con le precisazioni quanto al caso di specie che si esporranno in seguito — il riferimento alla littera legis genera, invece, un non immotivato dissenso. Non sembra infatti irragionevole sostenere che l’accertamento cui si riferisce la disposizione in parola non sia quello (già) effettuato in sede penale, quanto, piuttosto, quello da effettuarsi in sede civile o amministrativa: la precisazione non risulta comunque risolutiva, atteso che la necessità di un accertamento pieno potrebbe dedursi sempre dall’art. 654 c.p.p., ma nella parte in cui 29 agosto 1995, Auricchio c. Min. Tesoro, in Giust. civ. mass., 1995, p. 1564; Cass. civ., sez. III, 30 agosto 1995, Ambra assicurazioni c. Rossi, in Giust. civ. mass., 1995, p. 1573; Cass. civ, 26 febbraio 1994, Torrieri c. Di martino, in Resp. civ. prev., 1995, p. 588; Cass. civ., sez. lav., 23 maggio 1992, Aeroporti di Roma c. Berrettini, in Giur. it., 1994, I, 1, p. 520 con nota critica di TONOLLI, Della regola di giudizio fondata sull’onere della prova nei mutati rapporti fra giudizio penale e giudizio civile; Cass. civ., sez. I, 30 aprile 1992, Ancorelli c. Assicurazioni d’Italia, in Foro it. rep., 1992, voce Giudizio (rapporto), 16; Cass., sez. lav., 13 dicembre 1991, Aeroporti di Roma c. Colucci, in Riv. it. dir. lav., 1992, p. 1007; Cass. civ., sez. I, 23 settembre 1986, Sai c. Pezzillo, in Dir. e prat. ass., 1987, p. 848; per la dottrina, PANTÈ, Efficacia e preclusione del giudicato penale nei giudizi diversi da quello di risarcimento del danno, in Resp. civ. prev., 1990, p. 1087; VETRONE, Nuovo rito penale. Sentenze assolutorie. Motivazione agli effetti del giudizio civile o amministrativo di danno, in Giur. mer., 1990, II, p. 822. A dire il vero si sta diffondendo nella giurisprudenza l’orientamento opposto, secondo il quale è necessario un accertamento pieno, non rinvenibile allorquando l’assoluzione sia motivata da un dubbio non risolvibile in sede penale: Cass. civ., sez. lav., 27 ottobre 1998, Scaglione c. Soc. Beninconf., in Giur. it., Rep. 1998, voce GIUDIZIO (RAPPORTO), 6; Cass. civ., sez. I, 30 marzo 1998, Carella c. Siciliani, in Foro it., 1998, I, p. 2913; Cass., sez. III, 13 dicembre 1996, Intercontinentale assicurazioni c. Sbano, in Giust. civ. mass., 1996, p. 1740; Cass., sez. I, 22 marzo 1994, Sodano, in Cass. pen., 1995, p. 2604; Cass., sez. V, 31 maggio 1990, Rabito, ivi, 1991, II, p. 451. (55) ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 128; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 115. (56) CORDERO, Procedura penale, ed., 1987, cit., p. 1095 e Procedura penale ed 2001, cit., p. 1205. (57) Così, per esempio, DE LUCA-MONTESANO, L’art. 28 c.p.p. e l’efficacia riflessa del giudicato penale, in AA.VV., Azione civile e processo penale, Milano, 1971, p. 61.


— 601 — stabilisce che ‘‘i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale’’ (58). Ma il problema della necessità o meno di un accertamento pieno per il prodursi dell’effetto stabilito dall’art. 654 c.p.p. non può comunque fondarsi né su un’acritica ricezione delle conclusioni assunte in tema di accertamento dubbioso in generale, né su argomenti di carattere esclusivamente letterale: appare necessario piuttosto individuare con precisione l’ambito oggettivo della disposizione, se cioè per ‘‘fatti materiali’’ debba intendersi solo il fatto dedotto nell’imputazione ovvero anche altri accadimenti. Infatti, una volta precisato l’oggetto del vincolo si potrà delineare meglio anche la cerchia entro la quale è destinato a operare il dubbio. Da un punto di vista testuale, l’uso del termine ‘‘fatto’’ al plurale e il connotato della materialità che si rinvengono nell’art. 654 c.p.p. risulterebbero incomprensibili se davvero il vincolo ‘‘andasse circoscritto all’accertamento positivo o negativo in ordine ai soli elementi costitutivi del reato’’ (59); in quest’ordine di idee, con riferimento all’art. 28 c.p.p. abr. fu autorevolmente sostenuto che il giudicato penale valeva ‘‘non solo a stabilire l’esistenza del reato sibbene altresì l’esistenza di fatti accertati per l’accertamento del reato’’ (60), e la sua efficacia investiva ‘‘non soltanto l’accerta(58) In questi termini: POLI, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, cit., pp. 526, 540; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 448. Così inteso, però, il riferimento testuale appare assai meno pregnante rispetto a quello contenuto nei tre articoli precedenti, dove è stabilito che il giudicato ha efficacia ‘‘quanto all’accertamento...’’; invero la locuzione ‘‘fatti accertati’’ sembrerebbe evocare più genericamente il risultato istruttorio così come emerge dalla sentenza irrevocabile, qualunque ne sia l’estensione e il contenuto (in modo analogo a quanto accade nell’art. 238-bis c.p.p., dove si rinviene la medesima locuzione: sul punto infra, n. 5). (59) Così CHIARLONI, In tema di rapporti fra giudicato penale e civile, in Riv. dir. proc., 1971, p. 209 per il quale però, l’uso del plurale, lungi dal dover essere interpretato quale volontà di riferirsi all’intero complesso degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice, si spiegherebbe con le ‘‘difficoltà linguistiche connesse al compito di disciplinare comprensivamente l’influenza del giudicato penale su tutte le azioni civili (e amministrative) diverse dall’azione di risarcimento del danno’’ (ivi, p. 210); l’Autore ritiene comunque di poter superare il dato letterale attraverso una serie di considerazioni di carattere sistematico, dalle quali emergerebbe una nozione di fatto ristretta ai soli elementi costitutivi della fattispecie criminosa oggetto del processo penale. Ma l’ambiguità del dato letterale ha portato GIONFRIDA, L’efficacia del giudicato penale nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1957, p. 46 a conclusioni opposte, nel senso che letteralmente la locuzione risulterebbe impropria ‘‘se riferita a fatti non integranti l’elemento oggettivo dell’imputazione’’ poiché l’uso del plurale sottende solo l’esplicarsi del vincolo su ‘‘tutti gli elementi di fatto nei quali si concreta l’oggetto dell’imputazione’’ (ivi, p. 47); secondo MANZONI, L’articolo 28 c.p.p.: un aspetto dei rapporti tra giudicato penale e giudizi civili o amministrativi, in Riv. it. dir. pen., 1956, p. 281, l’ulteriore specificazione che deve trattarsi di fatti ‘‘che furono oggetto del giudizio penale’’ porterebbe a comprendervi ‘‘l’accertamento della fattispecie concreta dedotta in giudizio, e, conseguentemente, di ogni altro fatto in essa implicito’’. (60) CARNELUTTI, Efficacia diretta e riflessa del giudicato penale, in Riv. dir. proc., 1948, p. 15. Per analoghe considerazioni, pur nell’ambito di impostazioni in parte diverse: P.


— 602 — mento conclusivo, bensì tutti gli accertamenti che costituiscono le tappe logiche percorse dal giudice per giungere al (...) decisum’’ con esclusione delle ‘‘affermazioni di fatto enunciate come semplici ipotesi’’ (61), di quelle sprovviste di ogni influenza ai fini del decidere (62) ovvero di quelle oggetto di accertamento solo incidentale (63). La tesi — cui si contrapponeva l’altra, più restrittiva, secondo la quale la rilevanza esterna dell’accertamento penale andava limitata ai soli fatti ‘‘la cui affermazione o negazione sia il tema, non una semplice premessa della decisione’’ (64) — sembra aver trovato una conferma a posteriori nell’aggiunta, al vigente art. 654 c.p.p., di una clausola autolimitativa alla stregua della quale, per avere efficacia al di fuori del processo, i fatti accertati devono essere stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale: se i ‘‘fatti materiali’’ fossero effettivamente solo quelli integranti l’imputazione, la nuova previsione non avrebbe alcun senso, data la loro rilevanza ex se, mentre si spiegherebbe ove con essa ci si potesse teoricamente riferire a una molteplicità di CALAMANDREI, La sentenza civile come mezzo di prova, in Riv. dir. proc. civ., 1938, pp. 112, 126 ss.; CHIAVARIO, Giudizio (rapporti tra giudizi), in EdD, XVIII, Milano, 1969, p. 987; COMOGLIO, L’art. 28 c.p.p. e i profili costituzionali dei limiti soggettivi del giudicato, in Riv. dir. proc., 1966, p. 658 ss.; CONSO-GUARINIELLO, L’autorità della cosa giudicata penale, in questa Rivista, 1975, p. 54; GERI, Azione civile e processo penale, Milano, 1959, p. 131; JANNUZZI, Efficacia preclusiva dell’accertamento del giudice penale sulla esistenza di un fatto materiale, in Giust. pen., 1951, III, p. 414; LIEBMAN, L’efficacia della sentenza penale nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1957, pp. 12-13; MANZONI, L’articolo 28 c.p.p.: un aspetto dei rapporti tra giudicato penale e giudizi civili o amministrativi, cit., p. 280; SCAPARONE, Rapporti tra processo civile e processo penale, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, p. 4; VANNINI-COCCIARDI, Manuale di diritto processuale penale italiano, Milano, 1986, p. 78; VARADI, La sentenza penale come mezzo di prova, in Riv. dir. proc. civ., 1943, pp. 257, 264; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., pp. 302, 437, 442. (61) Citazioni entrambe tratte da GUARNERI, Giudizio (rapporto tra il giudizio civile e il penale), in Nss. dig. it., VII, Torino, 1961, p. 893 e Autorità della cosa giudicata penale nel giudizio civile, cit., pp. 146-147. (62) GERI, Azione civile e processo penale, cit., p. 131. (63) CHIAVARIO, Giudizio, cit., pp. 987-988; CRISTIANI, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, cit., p. 56; DENTI, I giudicati sulla fattispecie, in Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei, III, Padova, 1958, p. 209. (64) Così CORDERO, Procedura penale, ed. 1987, cit., p. 1094. Nello stesso senso, variamente: AMODIO, Cognizione incidentale in sede penale della questione pregiudiziale di stato e limiti di efficacia dell’accertamento nel processo civile, in Riv. matr. pers., 1966, p. 834; CHIARLONI, In tema di rapporti fra giudicato penale e civile, cit., p. 208 ss.; CRISTIANI, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, cit., p. 56; DE LUCAMONTESANO, L’art. 28 c.p.p. e l’efficacia riflessa del giudicato penale, cit., p. 60 ss.; DENTI, I giudicati sulla fattispecie, cit., p. 210 ss. e La verificazione delle prove documentali, cit., p. 299 ss.; GIANNITI, I rapporti tra processo civile e processo penale, Milano, 1988, p. 200; GIONFRIDA, L’efficacia del giudicato penale nel processo civile, cit., pp. 46-47; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, I, Napoli, 1961, p. 302; LOZZI, Profili di una indagine sui rapporti tra ‘‘ne bis in idem’’ e concorso formale di reati, cit., p. 34 ss.; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, I, cit., p. 317; MARZADURI, Depenalizzazione ed autorità di giudicato della condanna penale, in Giust. civ., 1987, pp. 2616-2617.


— 603 — fatti oggetto di accertamento giudiziale, seppure in vista di una limitazione della loro efficacia esterna. Già da questi rilievi si può intuire come la formulazione dell’art. 654 c.p.p. non abbia risolto appieno tutti i dubbi, al punto che si è affermato al contempo e rispettivamente che: il vincolo riguarda solo i ‘‘fatti oggetto dell’imputazione, quelli, cioè, il cui riconoscimento o la cui esclusione non sia la fonte della decisione o la sua semplice premessa ma il tema oggetto della pronuncia’’ (65); ovvero che anche altre situazioni di fatto accertate dal giudice, ‘‘pur se non concorrano a costituire la condotta o l’evento previsti dalla norma incriminatrice’’ (66) risultano vincolanti. L’inserzione, all’interno dell’art. 654 c.p.p., di una serie di accorgimenti lessicali volti a restringerne il campo di applicazione, da un lato manifesta l’indubbia volontà del legislatore di limitare l’incidenza esterna dell’accertamento penale (67), dall’altra esplicita il presupposto che intende neutralizzare, e (65) Così SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, cit., p. 47. Nello stesso senso: CORDERO, Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 1204 e Codice di procedura penale commentato, cit., p. 743; CREMONESI, Pregiudizialità e rapporti tra processo penale e processo civile, in Giust. pen., 1993, III, p. 600, nota n. 75; DI CHIARA, Premesse in facto nella motivazione della sentenza penale e dinamiche del vincolo extrapenale sugli ‘‘altri’’ giudizi civili od amministrativi, cit., p. 87; GHIARA, sub art. 654, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, cit., VI, Torino, 1990, pp. 470-471; LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 133; TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, in Nuove leg. civ. comm., 1990, p. 911. (66) MONTESANO, Il ‘‘giudicato penale sui fatti’’ come vincolo parziale all’assunzione e alla valutazione delle prove civili, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, cit., p. 72. Nello stesso senso, variamente: CHILBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 579; COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 119; CONSOLO, Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, in Riv. dir. civ., 1996, pp. 248-249; CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 111; GIANNINI, La richiesta di risarcimento e il nuovo codice di procedura penale, in Dir. e prat. ass., 1989, p. 419; POLI, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, cit., pp. 548, 554; SANTAGADA, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile diverso da quello per le restituzioni ed il risarcimento del danno, cit., p. 260; TERRUSI, Rapporti tra giudicato penale e giudizio amministrativo, cit., p. 44; TRANCHINA, L’esecuzione, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, Milano, 2001, p. 577; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., pp. 303, 437. (67) Conclusione pacifica in dottrina, all’interno della quale non si concorda però sull’effettiva capacità della nuova formulazione normativa di impedire interpretazioni eccessivamente estensive del tenore di quelle sviluppatesi sotto la vigenza dell’art. 28 c.p.p. abr. in argomento COMOGLIO, nota di commento a Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1988, Solfanelli, cit., p. 117; CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 109 ss.; CORDERO, Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 1204 e Codice di procedura penale commentato, cit., p. 743; DI CHIARA, Premesse in facto nella motivazione della sentenza penale e dinamiche del vincolo extrapenale sugli ‘‘altri’’ giudizi civili od amministrativi, cit., p. 87; GAITO-RANALDI, Esecuzione penale, Milano, 2000, p. 48; GHIARA, sub art. 654, cit., pp. 470-471; POLI, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, cit., p. 525; SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, cit., pp. 59, 62; TERRUSI, Rapporti tra giudicato


— 604 — cioè l’esistenza di una moltitudine e varietà di fatti che, una volta accertati, possono teoricamente imporsi in modo cogente in altri contesti processuali: come si intuisce manca, comunque, quella auspicata ‘‘sicurezza interpretativa in ordine alle innumerevoli possibilità che ogni caso pratico può presentare in punto di restrizione o di dilatazione della nozione in esame’’ (68). Sembra ancor oggi da preferire l’interpretazione secondo la quale i fatti vincolanti in sede extrapenale non devono ritenersi limitati a quelli soli che compongono il nucleo storico dell’imputazione, ma comprendono altresì tutti quei fatti che abbiano ‘‘influito sul ragionamento del giudice, e che lo (...) (abbiano) condotto ad emettere quella pronuncia’’ (69). Ai fini del prodursi degli effetti di cui all’art. 654 c.p.p., quindi, il reato nella sua interezza ‘‘sfuma e si disperde’’ (70), e a venire in rilievo sono ‘‘gli enunciati di fatto che il giudice ha formulato sulla base della sua ricostruzione storiografica’’ (71) ‘‘presi in considerazione separatamente nel loro singolo aspetto fenomenico’’ (72), pur quando la fattispecie civile non presupponga l’accertamento del reato (73). Ulteriore e importante conseguenza ai nostri fini è che in sede di valutazione complessiva delle prove — che comporta ‘‘l’utilizzo combinato dell’intero patrimonio conoscitivo giudiziale ai fini dell’emissione della pronuncia’’ (74) — il dubbio può investire qualunque ‘‘elemento di fatto il cui accertamento sia necessario per giudicare’’ (75): ma se il giudice non riesce a convincersi appieno per penale e giudizio amministrativo, cit., p. 44; TRISORIO LIUZZI, Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, cit., p. 911; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 445 ss. (68) CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., p. 111. (69) ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., pp. 447-448. (70) GUARNERI, Autorità della cosa giudicata penale nel giudizio civile, cit., p. 146. (71) AMODIO, Cognizione incidentale in sede penale della questione pregiudiziale di stato e limiti di efficacia dell’accertamento nel processo civile, cit., p. 836. (72) GERI, Azione civile e processo penale, cit., p. 124; DENTI, I giudicati sulla fattispecie, cit., p. 210, concorda sulla possibilità di individuare, all’interno della fattispecie complessiva, singoli elementi cui conferire rilevanza ex art. 654 c.p.p., ma ritiene che essa non possa più riguardare il mero fatto, che ha ormai ‘‘perduto la sua storica individualità, per essere assunto quale elemento della fattispecie del rapporto o stato giuridico oggetto dell’accertamento’’. Contra, sull’assunto dell’unitarietà dell’oggetto dell’accertamento vincolante DE LUCA-MONTESANO, L’art. 28 c.p.p. e l’efficacia riflessa del giudicato penale, cit., p. 62; LOZZI, Profili di una indagine sui rapporti tra ‘‘ne bis in idem’’ e concorso formale di reati, cit., p. 28. (73) Per questa precisazione ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., pp. 303, 437. (74) UBERTIS, Prova, cit., p. 331; SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, cit., p. 62; Cass., sez VI, 14 marzo 1997, Calabrò, in Cass. pen., 1998, p. 2421. (75) GUARNERI, Autorità della cosa giudicata penale nel giudizio civile, cit., p. 45. L’affermazione è pacifica, si veda, nello stesso senso, tra i tanti: ANCA, Insufficienza di prove, cit., p. 160 ss.; CORDERO, Il giudizio d’onore, cit., p. 140; DOMINIONI, Le parti nel pro-


— 605 — nessuna delle ipotesi ricostruttive fornite dall’istruzione probatoria — di tal che il giudizio sul fatto-reato non è in grado di approdare a un ‘‘esito univoco, anche se — evidentemente — fondato su un criterio di attendibilità prevalente’’ (76) — egli sarà sicuramente legittimato ad emettere una pronuncia di assoluzione ex art. 530, comma 2 c.p.p. Resta da vedere se il patrimonio conoscitivo acquisito, seppure inidoneo a fondare conclusioni certe in ordine alla ricostruzione fattuale o giuridico-penale del fatto dedotto nell’imputazione, rimanga altresì sprovvisto di qualsiasi valore: se, cioè, l’incerto esito complessivo debba necessariamente inficiare ogni conclusione cui il ragionamento giudiziale sia approdato, finanche quella che, su una o più delle quaestiones sottoposte al giudizio, sia giunta ad affermazioni dotate di un soddisfacente grado di certezza, come tali integranti una situazione (per quanto parziale) di accertamento in senso proprio. Invero, la considerazione che i fatti di cui all’art. 654 c.p.p. ‘‘si presentano non nella combinazione unitaria (...), cioè non collegati fra loro, ma frazionati in ogni loro singolo aspetto di accadimento naturale’’ (77), porta a escludere che il dubbio sulla complessiva ricostruzione giuridica di un fatto come reato debba meccanicamente riverberarsi in modo negativo sulla conoscenza di tutti i fatti che hanno costituito oggetto di indagine giudiziale: ciò a maggior ragione ove si ritenga che l’effetto giuridico ex art. 654 c.p.p. sia inquadrabile, più che nell’autorità del giudicato, in un del tutto peculiare fenomeno di carattere probatorio legale, dove il ‘‘vincolo non nasce dall’assoluzione o dalla condanna ma dal giudizio di esistenza o inesistenza del fatto contenuto nell’una o nell’altra’’ (78), e al giudice civile sarebbe imposto ‘‘di credere nella verità degli accertamenti operati in sede penale’’ (79). cesso penale, cit., p. 255 e Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, cit., pp. 216-224; DOSI, La sentenza penale di proscioglimento, cit., p. 115 ss.; A. FOSCHINI, Il dubbio sulla prova delle eccezioni nel processo penale, cit., p. 210 ss.; G. FOSCHINI, Il dubbio del giudice, in Foro it., 1966, IV, p. 28; ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 131; JANNITTI PIROMALLO, Il proscioglimento dell’imputato con formula dubitativa, cit., pp. 274-277; LOZZI, Favor rei e processo penale, cit., pp. 31-37; MALINVERNI, L’assoluzione per insufficienza di prove, cit., p. 599; MARZADURI, sub art. 530, cit., p. 522; SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, cit., pp. 264-274; SIRACUSANO, Studio sulla prova delle esimenti, cit., p. 224. (76) TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 399, con particolare accento sul valore della valutazione congiunta dei vari elementi di prova. (77) GERI, Azione civile e processo penale, cit., p. 55; POLI, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, cit., pp. 538, 556. (78) CORDERO, Procedura penale, ed. 1987, cit., pp. 1094-1095 e Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 1205. (79) VARADI, La sentenza penale come mezzo di prova, cit., p. 262. Nello stesso senso: ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, I, cit., p. 409; AMODIO, Cognizione incidentale in sede penale della questione pregiudiziale di stato e limiti di efficacia dell’accertamento nel processo civile, cit., p. 835; P. CALA-


— 606 — In conclusione, i fatti potenzialmente rientranti nel campo di applicazione dell’art. 654 c.p.p. non si riducono a quelli integranti l’imputazione, ma abbracciano una varietà di fatti ulteriori, con la conseguenza che ad ognuno di essi possono corrispondere altrettanti livelli di conoscenza giudiziale: appare dunque necessario verificare caso per caso che la ricostruzione probatoria di ciascun fatto risponda a quegli standards di certezza cui è collegata la presenza di un accertamento pieno, ferma restando la situazione di insufficienza probatoria sulla sussistenza dei presupposti in fatto e diritto necessari per giungere a una pronuncia di condanna. Al fine si provvederà a dissezionare il contenuto della motivazione della sentenza per estrapolare quelle parti di essa che denotano il conseguimento di una conoscenza dotata di un apprezzabile margine di certezza, secondo un meccanismo simile a quello usato, per esempio, per individuare i singoli fatti già coperti dal giudicato nell’ipotesi di annullamento parziale con rinvio prevista dall’art. 624 c.p.p. (80). Alla luce di quanto precede può, quindi, rettificarsi l’iniziale adesione alla tesi dell’incondizionata necessità di un accertamento pieno per l’esplicarsi dell’effetto stabilito dall’art. 654 c.p.p., interpretazione che risente evidentemente dell’altra per la quale il vincolo cadrebbe solo sugli elementi integranti la fattispecie di reato, con conseguente sua generale esclusione nel caso di un accertamento nel complesso insufficiente: al contrario, l’incertezza sul fatto dedotto nell’imputazione non dovrebbe mecMANDREI, La sentenza civile come mezzo di prova, cit., p. 128; DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, cit., p. 65, nota n. 76. Più di recente si vedano, ad esempio: CONSOLO, Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, cit., p. 240; DE ROBERTO, La pregiudizialità penale tra ‘‘vecchio’’ e ‘‘nuovo’’ codice, in Giust. pen., 1989, III, pp. 248-249; DI CHIARA, Premesse in facto nella motivazione della sentenza penale e dinamiche del vincolo extrapenale sugli ‘‘altri’’ giudizi civili od amministrativi, cit., p. 90; MONTESANO, Il ‘‘giudicato penale sui fatti’’ come vincolo parziale all’assunzione e alla valutazione delle prove civili, cit., p. 72; RICCI, Le prove atipiche, Milano, 1999, p. 270; SANTAGADA, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile diverso da quello per le restituzioni ed il risarcimento del danno, cit., p. 263; SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, cit., p. 24; SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, cit., p. 60; TRANCHINA, L’esecuzione, cit., p. 593. Ma per l’affrancamento da interpretazioni legate a una visione di prova legale in senso stretto (anche per differenziare le prove legali fondate sulla fiducia attribuita dal legislatore ad alcune risultanze probatorie da quelle discendenti dall’irretrattabilità degli accertamenti penali), fino ad ammettere la possibilità, per il giudice civile, di servirsi, per una più approfondita cognizione dei medesimi fatti già oggetto di un giudicato penale, di ‘‘mezzi istruttori diversi da quelli usati nel giudizio penale’’ MONTESANO, Il ‘‘giudicato penale sui fatti’’ come vincolo parziale all’assunzione e alla valutazione delle prove civili, cit., p. 73 (conf. CONSOLO, Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, cit., p. 255; SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, cit., p. 25). (80) Su questa fattispecie, volendo, anche per i relativi riferimenti bibliografici, IAFISCO, Ennesimo intervento della Corte di cassazione in tema di formazione progressiva del giudicato penale: acquisibili ex art. 238-bis c.p.p. anche le sentenze parzialmente irrevocabili, in questa Rivista, 2001, p. 547 ss.


— 607 — canicamente estendersi a tutti gli accertamenti compiuti dal giudice, qualunque ne sia l’oggetto. Così, per esempio, se è stata compiutamente verificata nei suoi aspetti spazio-temporali e modali una certa condotta illecita, i suoi presupposti, il rapporto di causa-effetto con l’evento verificatosi, l’oggetto materiale su cui ha insistito, ma sono rimasti nell’ombra i profili soggettivi del fatto (attribuibilità a un determinato soggetto ed elemento soggettivo), sarebbe illogico escludere ogni rilevanza giuridica ai fatti accertati solo perché l’elaborazione probatoria complessiva non è riuscita ad evitare una rappresentazione incompleta della fattispecie giudiziale; e lo stesso deve ammettersi anche per quei fatti (secondari) il cui accertamento, pur esorbitando dal nucleo dell’imputazione, costituisce la base per le successive inferenze sul fatto principale o per la sua ricostruzione probatoria. 5. Resta, infine, da verificare ciò che accade quando una sentenza irrevocabile, il cui esito assolutorio sia il risultato di una situazione di insufficienza probatoria, venga utilizzata non come giudicato ex art. 654 c.p.p., ma come prova ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p. (81): se cioè anche per questo caso dall’asserita carenza di un inequivocabile accertamento sull’insussistenza del fatto-reato deve dedursi l’assenza di qualsivoglia efficacia probatoria — similmente a quanto è stato affermato con riguardo all’efficacia di giudicato — ovvero se è prospettabile una diversa soluzione, tesa a riconoscere comunque qualche valore dimostrativo all’accertamento dubbioso. Anche in questo caso è necessario primariamente circoscrivere i limiti oggettivi di operatività dell’art. 238-bis c.p.p., pur se la scarsa intelligibilità della previsione secondo la quale le sentenze irrevocabili possono essere acquisite ‘‘ai fini della prova di fatto in esse accertato’’ certo non aiuta in questo senso: presa alla lettera la costruzione della frase non regge al vaglio della sintassi poiché, anche a intendere la locuzione ‘‘di fatto’’ come attestante la prova ‘‘concretamente ed effettivamente’’ raggiunta nel giudizio e consacrata nel giudicato, rimarrebbe da spiegare (81) Per un confronto tra le due fattispecie ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., pp. 407-413 che, portando alle estreme conseguenze la già evidenziata assonanza tra la tematica del passaggio di prove tra processi diversi e quella dell’autorità extrapenale del giudicato (ORLANDI, Atti e informazioni della autorità amministrativa nel processo penale, cit., pp. 8-14), suggerisce di utilizzare le prescrizioni degli artt. 651-654 c.p.p. come utile referente interpretativo anche per la prova-sentenza: invero, attesa la difficoltà di discernere nella pratica le due ipotesi (e in assenza di altre disposizioni che facilitino in tal senso), la minuziosa specificazione dei limiti oggettivi dell’efficacia di giudicato sarebbe inutile ‘‘se le affermazioni contenute nella sentenza penale su una questione di fatto non ricompresa tra quelle del vincolo potessero acquistare rilievo ‘esclusivo’ in via probatoria’’ (ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 408 nota n. 84).


— 608 — la discordanza tra il sostantivo femminile ‘‘prova’’ e il successivo participio di genere maschile ‘‘accertato’’ (82). Non resta che prendere atto, con l’unanime dottrina (83), che ci si trova di fronte a una vera e propria svista terminologica del legislatore, onde la disposizione dovrebbe essere riscritta nei seguenti termini: ‘‘... le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato...’’; senonché anche in questo modo le difficoltà sono lungi dall’essere risolte, atteso il carattere polivalente che il termine fatto assume in ambito processualpenalistico e il contenuto eminentemente valutativo del concetto di accertamento, ‘‘determinabile solamente mediante un’operazione di tipo ideologico’’ (84). Per definire più nitidamente il concetto conviene, pertanto, rimanere ancora a un livello esegetico, chiedendosi se l’uso del sostantivo ‘‘fatto’’ al singolare comporti il riferimento alla sola imputazione: al plurale corrisponderebbe, invece, un significato ben più ampio e comprensivo di altri fatti, come si è visto avvenire per l’art. 654 c.p.p. A dispetto della littera legis, depone in quest’ultimo senso l’espresso rinvio dell’art. 238-bis (82) Volendo ciononostante continuare a riferire quest’ultimo al termine ‘‘prova’’, sorgerebbe l’ulteriore obiezione per la quale l’indagine giudiziale sul mezzo di prova, per quanto indefettibile (CARNELUTTI, Nuove riflessioni sul giudizio giuridico, cit., p. 102; CORDERO, Il procedimento probatorio, cit., p. 19 ss.; DENTI, La verificazione delle prove documentali, p. 10 ss.) non arriva a costituire — se non nei casi in cui è posta a fondamento dello stesso thema probandum, come avviene nei giudizi sulla falsità di un mezzo di prova — il contenuto primario dell’accertamento espresso nella sentenza. (83) In questo senso: BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, cit., p. 173, che sottolinea il ‘‘pessimo impiego della lingua italiana’’; BRUNO, Prova documentale, in Dig. pen., X, Torino, 1995, p. 395, nota n. 104; I. CALAMANDREI, La prova documentale, Padova, 1995, pp. 125-126; CANTONE, L’art. 238-bis c.p.p.: strumento probatorio e mezzo per la risoluzione preventiva del contrasto tra giudicati, in Cass. pen., 1999, p. 2895; CORDERO, Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 785; LODOVICI, Regime differenziato di formazione della prova nei procedimenti di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1994, p. 489; LORUSSO, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238-bis c.p.p. e pregiudizialità penale: una norma controversa, cit., p. 334; MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, in AA.VV. Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, Padova, 1996, pp. 252-253, che evidenzia la ‘‘tecnica legislativa sconcertante’’; NOBILI, sub art. 513, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chavano, 2o aggiornamento, cit., p. 272, che ritiene l’art. 238-bis c.p.p. ‘‘indecoroso nella formulazione testuale’’; PERONI, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 1383, che bolla la disposizione di ‘‘trascuratezza sintattica’’; RIVELLO, sub art. 238-bis c.p.p., cit., p. 90, nota n. 2; SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, cit., p. 129; SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, cit., p. 49; TRIGGIANI, Sulla impossibilità di acquisire come documenti le sentenze penali non irrevocabili, in Cass. pen., 1997, p. 1766. Anche la giurisprudenza non ha mancato di sottolineare la ‘‘non felice terminologia impiegata’’: così Cass., sez. I, 26 maggio 1995, Ronch, in Cass. pen., 1996, p. 3357. (84) ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 80.


— 609 — c.p.p. all’art. 187 c.p.p., che si è già visto comprendere nel proprio alveo una varietà di fatti — principali e secondari (85) —, dei quali la (motivazione della) sentenza è in grado di fornire la rappresentazione. Salvo che non si voglia ritenere inutile e superfluo il rinvio all’art. 187 c.p.p. sulla base della considerazione che, sotto il profilo di ammissibilità-pertinenza della prova, la disposizione, quale regola generale del diritto probatorio, troverebbe già autonoma applicazione (86); ovvero insinuare che, allorquando ha stabilito che le sentenze irrevocabili acquisite ‘‘sono valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3’’, il legislatore abbia omesso di considerare che la prima delle due norme richiamate attiene al momento dell’ammissione della prova e non a quello successivo della valutazione (87). Si può, al contrario, ipotizzare che con questo rinvio si sia consapevolmente voluto ‘‘delimitare l’ambito entro cui la valutazione sia esercitabile’’ (88), ribadendo che, una volta acquisito ex art. 238-bis c.p.p., il documento-sentenza è potenzialmente in grado di dimostrare ogni fatto rilevante nel processo in corso (89): ma poiché nella realtà processuale i fatti, pur presentando tratti comuni con quelli già giudicati, non (sempre) corrispondono perfettamente a questi ultimi — innumerevoli sono le implicazioni fattuali e i vari gradi di approfondimento di ciascun tema nell’ambito dei diversi processi, nei quali la rilevanza di ogni singolo fatto dipende dai criteri ‘‘che si impiegano nell’analisi e nella costruzione del ‘caso’ ’’ (90) — potrebbe ritenersi che, con il rinvio all’art. 187 c.p.p., il legislatore abbia voluto configurare un ulteriore elemento di raccordo tra le (85) Per le rispettive definizioni si rinvia supra, nota n. 20. (86) In questo senso gran parte della dottrina come, per esempio: BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, cit., p. 174; BUSETTO, Giudice penale e sentenza dichiarativa di fallimento, Milano, 2000, p. 93, nota n. 110 e 237; CANTONE, L’art. 238-bis c.p.p.: strumento probatorio e mezzo per la risoluzione preventiva del contrasto tra giudicati, cit., p. 2896; CORDERO, Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 785; FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, cit., p. 326; LORUSSO, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238-bis c.p.p. e pregiudizialità penale: una norma controversa, cit., p. 338; MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, cit., p. 253; PARLATO, Acquisizione a fini di prova di sentenze irrevocabili e utilizzazione delle risultanze di fatti emergenti dalle motivazioni, in Cass. pen., 1996, p. 3676; PERONI, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, cit., p. 1384, nota n. 13; RIVELLO, sub art. 238-bis c.p.p., cit., p. 91, nota n. 6; TRIGGIANI, Sulla impossibilità di acquisire come documenti le sentenze penali non irrevocabili, cit., p. 1767, nota n. 15. (87) Così I. CALAMANDREI, La prova documentale, cit., p. 126; KALB, Il documento nel sistema probatorio, Torino, 2000, p. 174; LORUSSO, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238-bis c.p.p. e pregiudizialità penale: una norma controversa, cit., p. 338. (88) Così TAORMINA, Diritto processuale penale, II, Torino, 1995, p. 657. (89) ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 514. (90) TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 102; UBERTIS, Prova, cit., p. 300.


— 610 — regiudicande dei diversi processi (91), consentendo così al giudice, nel momento della valutazione delle prove, di (ri)verificare ciò che, di quanto è contenuto nel documento-sentenza, risulti effettivamente utile alla ricostruzione del fatto, alla luce dell’intero complesso delle acquisizioni processuali. Sia che lo si ritenga applicabile ex se ovvero attraverso l’interpretazione proposta, il rinvio all’art. 187 c.p.p. chiarisce comunque che ‘‘l’oggetto sul quale ricade l’efficacia dimostrativa non può non essere formato da una o più proposizioni componenti il tema d’indagine nel processo ad quem’’ (92), consentendo così di includere nel termine ‘‘fatto’’ di cui all’art. 238-bis c.p.p. non la sola imputazione (93), ma anche tutta la serie di fatti secondari investiti dall’accertamento giudiziale, a condizione che ve ne sia traccia nella motivazione della sentenza (94): in caso contrario a costituire prova sarebbe, infatti, il dispositivo che, dal canto suo, pur contenendo sempre una dichiarazione sul fatto dedotto nell’imputazione, non consente di venire a conoscenza dei fatti secondari, che solo dalla parte motiva della sentenza possono emergere e successivamente essere apprezzati da un punto di vista probatorio (95). La conclusione trova, poi, un’ul(91) Come suggerito da BUSETTO, Giudice penale e sentenza dichiarativa di fallimento, cit., p. 237. (92) SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, cit., p. 130. (93) In questo senso esplicitamente: BUSETTO, Giudice penale e sentenza dichiarativa di fallimento, cit., p. 93; I. CALAMANDREI, La prova documentale, cit., p. 127; TONINI, La prova penale, Padova, 1999, p. 191 (si veda, però, anche quanto sostenuto in termini meno assertivi in nota a pag. 192); TRIGGIANI, Sulla impossibilità di acquisire come documenti le sentenze penali non irrevocabili, cit., p. 1767. (94) In questo senso, variamente: CRISTIANI, Le modifiche al nuovo processo penale, Torino, 1993, p. 184; LORUSSO, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238-bis c.p.p. e pregiudizialità penale: una norma controversa, cit., pp. 336 e 338; MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, cit., pp. 252 e 258; PARLATO, Acquisizione a fini di prova di sentenze irrevocabili e utilizzazione delle risultanze di fatti emergenti dalle motivazioni, cit., p. 3676; SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, cit., p. 130; TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., p. 657; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 513. In giurisprudenza, per l’affermazione che l’art. 238-bis c.p.p. si riferisce non al solo fatto enunciato nel dispositivo, ma al complesso delle risultanze di fatto emergenti dalla motivazione della sentenza, si vedano: Cass., sez. V, 14 aprile 2000, Vera, in Cass. pen., 2001, p. 1526; Cass., sez. I, 16 novembre 1998, Hass e Priebke, cit.; Cass., sez. I, 17 giugno 1997, Bottaro, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 824; Cass., sez. I, 26 maggio 1995, Ronch, cit., p. 3356; Trib. Marsala, 12 luglio 1995, Alfano, in Foro it., 1996, II, p. 605. (95) Fa rilevare al proposito MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, cit., p. 258, che il dispositivo potrà ‘‘essere prova soltanto in alcune situazioni specifiche, come, ad esempio, nelle già note ipotesi dell’accertamento della recidiva o del nesso di continuazione’’. Nei motivi di fatto esposti dal giudice ex art. 546 lett. e) c.p.p., invece, è dato rinvenire la presenza, oltre che del fatto principale, dei fatti secondari intesi nelle due accezioni di cui supra, nota n. 20 (sottolinea al proposito la distinta previsione del requisito dell’indicazione dell’imputazione ex art. 546 lett. c) c.p.p. e


— 611 — teriore conferma nella definizione dei limiti oggettivi cui si è giunti con riferimento all’art. 654 c.p.p.: risulterebbe infatti irrazionale un sistema disposto a riconoscere una così ampia valenza all’accertamento penale in processi celebrati in altri rami della giurisdizione (caratterizzati da concetti giuridici e metodologie d’accertamento diversi e connessi a un peculiare atteggiarsi della questione di fatto) per poi restringerla quando è destinata a manifestarsi sub specie probationis in un processo affidato alla stessa giurisdizione penale. A quest’ultimo proposito, deve sottolinearsi che la precedente ricostruzione giudiziale è destinata a entrare nell’altro processo come documento, cioè come un qualsiasi altro mezzo di prova extracostituito, il cui apprezzamento rifluisce nell’alveo del generale principio del libero convincimento del giudice (96), con esclusione di ‘‘qualsiasi presunzione iuris et de iure e/o di qualsiasi meccanismo di prova legale’’ (97): l’esclusione di vincoli del tipo di quelli che discendono dall’art. 654 c.p.p. sminuisce, pertanto, il rischio di irretire oltremodo la libertà di valutazione del secondo giudice attraverso un’autoritaria imposizione del valore logico della sentenza (98), consentendo così di delineare con minore apprensione l’ambito oggettivo in cui la disposizione dell’art. 238-bis c.p.p. è destinata a operare. Ma non è tutto: proprio per scongiurare il rischio di un surrettizio ritorno al culto degli ‘‘idola rei iudicatae’’ (99) il legislatore, attraverso il rinvio all’art. 192, comma 3 c.p.p., ha eccezionalmente degradato il valore probatorio del documento-sentenza a quello delle dichiarazioni del chiamante in correità, che impone la necessaria ricerca di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità: all’obbligatoria prescrizione delle acquisizioni istruttorie nel processo ad quem si potrebbe così affidare — oltre a quello generale di ‘‘attenuare la portata della norma’’ (100), rendi quello successivo della stesura della motivazione in facto, escludendo una loro possibile equiparazione o fungibilità reciproca AMODIO, Motivazione della sentenza penale, in EdD, XXVII, Milano, 1977, p. 206). (96) KALB, Il documento nel sistema probatorio, cit., pp. 169-170; TONINI, Problemi insoluti della prova documentale, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 484. (97) MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, cit., p. 256. (98) Contro la quale si è da tempo scagliata la più attenta dottrina: rimane esemplare di questa corrente di pensiero, per tutti, l’opera di DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, cit., passim. (99) L’efficace espressione è di CORDERO, Codice di procedura penale commentato, cit., p. 743. (100) BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, cit., p. 174; FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento: dal modello originario al modello deformato, cit., p. 326; KALB, Il documento nel sistema probatorio, cit., p. 175; LORUSSO, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238-bis c.p.p. e pregiudizialità penale: una norma controversa, cit., p. 338; RIVELLO, sub art. 238-bis c.p.p., cit., p. 91; SCALFATI, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, cit., p. 131.


— 612 — dendo così ‘‘la sentenza di per sé non decisiva’’ (101) — l’ulteriore compito, che in questa sede più interessa, di colmare la situazione di incertezza probatoria da cui la sentenza acquisita risultasse eventualmente afflitta. Al proposito non si potrebbe obiettare, sulla base che il dubbio cristallizzato nella pronuncia ex art. 530, comma 2 c.p.p. deve scaturire dall’impossibilità oggettiva di completare l’istruzione, che il giudice del processo ad quem non sarebbe mai in grado di ovviare alle precedenti lacune probatorie: è infatti plausibile che egli estrapolerà dalla sentenza quelle parti idonee a offrirgli un gnoseologicamente apprezzabile apporto conoscitivo, ovvero quelle che, seppure sprovviste di categorica certezza, appaiano suscettibili di essere completate grazie ai mezzi di prova eventualmente resisi disponibili nel processo di acquisizione (e che magari non era stato possibile esperire, per motivi giuridici o di fatto, nel giudizio di provenienza) (102). Per quanto concerne il completamento della chiamata in correità richiesto dal comma 3 dell’art. 192 c.p.p. è stato affermato che, oltre all’indefettibilità, non possono ‘‘ricavarsi ulteriori limiti circa l’astratta potenzialità di ogni altro elemento probatorio a concretare il riscontro estrinseco richiesto dalla legge’’, di tal che gli altri elementi di prova richiesti possono essere ‘‘ ‘di qualsiasi tipo e natura’, purché estranei alle dichiarazioni da corroborarsi’’ (103); di conseguenza, si è escluso che debbano sostanziarsi in un ‘‘supporto probatorio di natura esclusivamente reale o documentale o testimoniale in senso proprio, potendo (le dichiarazioni) essere sorrette ab extrinseco o da altre dichiarazioni di coimputati ovvero da argomentazioni di ordine logico’’ (104). Alla stessa conclusione deve giungersi con specifico riferimento alla corroboration ri(101) ZAZA, La predeterminazione legale del valore probatorio nella legge n. 356 del 1992, in Giust. pen., 1993, III, p. 442. Anche la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare il carattere di elemento di prova non autosufficiente dell’art. 238-bis c.p.p.: Cass., sez. I, 16 novembre 1998, Hass e Priebke, cit.; Cass., sez. VI, 24 giugno 1998, Ottaviano, in Cass. pen., 2000, p. 400; Cass., sez. VI, 2 marzo 1998, Calise, ivi, 1999, p. 2890; Cass., sez. I, 17 giugno 1997, Bottaro, cit.; Cass., sez. VI, 4 marzo 1996, Barletta, in Cass. pen., 1997, p. 2132; Cass., sez. I, 26 maggio 1995, Ronch, cit. (102) A prova di ciò sia la già citata sentenza Ass. Genova, 30 marzo 1995, Ientile: qui gli elementi che avevano portato all’assoluzione dubitativa si sono trasformati, in seguito all’integrazione della sentenza acquisita ex art. 238-bis c.p.p. con le risultanze probatorie scaturite dall’istruzione in corso, in inequivocabili elementi a carico assurti al rango di piena prova di colpevolezza anche se penalmente inidonei — stante il divieto di bis in idem — a modificare la posizione processuale dell’insufficientemente prosciolto. Contra Trib. Marsala, 12 luglio 1995, Alfano, cit. (103) Entrambe le citazioni sono tratte da GREVI, Le ‘‘dichiarazioni rese dal coimputato’’ nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, p. 1179. (104) FASSONE, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, in Cass. pen., 1986, p. 1900. Nello stesso senso, con diversi accenti, tra i tanti: BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. it., 1990, IV, p. 44; CAPRIOLI, Le Sezioni Unite e il caso Calabresi: ancora segnali confusi sul


— 613 — chiesta per la prova-sentenza, alla cui iniziale non autosufficienza si può ovviare per mezzo di elementi di prova di qualsiasi genere, nonché di deduzioni probatorie di carattere logico-argomentativo: a condizione che il riscontro al documento ex art. 238-bis c.p.p. ‘‘venga fornito da elementi acquisiti nel processo ad quem’’ (105). Infine, contro l’esclusione dell’efficacia probatoria di una sentenza cui difetti un accertamento categorico sembra militare anche un dato letterale: infatti, quando il legislatore ha voluto collegare un dato effetto giuridico al concetto di accertamento (pieno), lo ha fatto in maniera esplicita come negli artt. 651-652 c.p.p., dove l’uso della locuzione ‘‘quanto all’accertamento...’’, ponendosi come condizione per il prodursi dell’efficacia di giudicato, non consente di ‘‘far discendere il vincolo dalle pronunce a cui non corrisponde, in concreto, un accertamento esauriente’’ (106): nell’art. 238-bis c.p.p., invece, è previsto che il valore dimostrativo della sentenza discenda non dall’accertamento del fatto ma dal fatto accertato, locuzione che sembrerebbe escludere la possibilità di disquisire sulla consistenza del singolo accertamento, sancendo una volta per tutte il valore di prova del fatto così come accertato all’esito della concreta dinamica processuale e, in seguito al passaggio in giudicato della sentenza, rappresentato nel relativo documento. dott. LUCA IAFISCO tema dei riscontri alla chiamata in correità, in Giur. it., 1993, II, pp. 788-789; CORDERO, Procedura penale, ed. 2001, cit., p. 615; CRISTIANI, Il contributo probatorio dei collaboratori della giustizia, in AA.VV., Oralità e contraddittorio nei processi di criminalità organizzata, cit., p. 137 ss.; DI CHIARA, nota di commento a Cass., sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate, in Foro it., 1993, II, p. 25; FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, cit., p. 233; GREVI, Le ‘‘dichiarazioni rese dal coimputato’’ nel nuovo codice di procedura penale, cit., pp. 1179-1180; KALB, Il processo per le imputazioni connesse, Torino, 1995, p. 289 ss.; LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 196; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2001, p. 196; NOBILI, sub art. 192, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da M. Chiavario, II, cit., p. 418; RAFARACI, Chiamata in correità, riscontri e controllo della Suprema Corte nel caso Sofri, in questa Rivista, 1994, p. 674; SANNA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi, in Trattato di procedura penale diretto da G. Ubertis-G.P. Voena, Milano, 2000, p. 281 ss. (105) MARAFIOTI, Trasmissione di atti, prova ‘‘per sentenze’’ e libero convincimento del giudice, cit., p. 262. Nel senso che gli elementi corroboranti provengano dal processo in corso, variamente: BUSETTO, Giudice penale esentenza dichiarativa di fallimento, cit., p. 238; KALB, Il documento nel sistema probatorio, cit., p. 176; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, cit., pp. 200, 418; PARLATO, Acquisizione a fini di prova di sentenze irrevocabili e utilizizzazione delle risultanze di fatti emergenti dalle motivazioni, cit., pp. 3677-3678; ZAZA, La predeterminazione legale del valore probatorio nella legge n. 356 del 1992, cit., p. 441; ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 512. In giurisprudenza: Cass., sez. I, 16 novembre 1998, Hass e Priebke, cit.; Cass., sez. VI, 2 marzo 1998, Calise, cit.; Cass., sez. VI, 4 marzo 1996, Barletta, cit.; Cass., sez. I, 26 maggio 1995, Ronch, cit. (106) Così ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., p. 448.


GIUDICE DI PACE E RICORSO IMMEDIATO DELL’OFFESO: UN’ECCEZIONE AL PRINCIPIO NE PROCEDAT IUDEX EX OFFICIO

1. Il procedimento penale per i reati di competenza del giudice di pace, nei casi in cui si proceda a querela, è stato costruito in modo assai singolare dal legislatore, il quale ha previsto che, unitamente (ovvero in alternativa) alla querela, la persona offesa dal reato possa dare un incisivo impulso all’esercizio dell’azione, a mezzo del ricorso immediato al giudice di pace. Si instaura subito, senza intermediari, una forma di rapporto col giudice, la cui esatta qualificazione, però, non appare così altrettanto immediata. Ci si chiede, difatti, se così agendo sia stata instaurata una forma di azione penale privata concorrente con quella pubblica, ovvero se non si sia piuttosto derogato al divieto, che dovrebbe incombere sul giudice, di esercitare egli l’azione. È, comunque, abbastanza corretto affermare che, in tali fattispecie, è possibile che l’azione penale non faccia capo al pubblico ministero, o quanto meno non in via esclusiva. Ora, il danneggiato dal reato, nel rito ordinario, dopo un mero enunciato di sfavore in relazione alla sua presenza, e dopo avere deciso di divenire parte del processo a tutti gli effetti, a mezzo della dichiarazione di costituzione di parte civile, sembra trovare in realtà un terreno assai fertile per spiegare le sue richieste, sia in ordine alla domanda che in ordine alle facoltà probatorie di cui il processo penale è capace. La sua posizione, nel giudizio penale, appare a ragione migliore rispetto alla posizione dell’attore nel corrispondente giudizio civile in cui si avesse a conoscere della stessa domanda restitutoria e/o risarcitoria. Questo convincimento è destinato a rafforzarsi in maniera incisiva per quanto riguarda la posizione della parte civile nel rito previsto dal d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante ‘‘disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace’’ (1), a termini del quale, si è accennato, sul dan(1) Sull’argomento, oltre a quanto si vedrà in appresso, v. AMATO, Sui delitti a querela la prima via è la conciliazione, in Guida al dir., 2000, p. 113; BRICCHETTI, Indagini preliminari: la polizia giudiziaria torna protagonista, in Guida al dir., 2000, p. 100; ICHINO, La fase delle indagini preliminari nei reati di competenza del giudice di pace, in La competenza penale del giudice di pace, Giuffrè, 2000, p. 93; SCALFATI, I moduli introduttivi del giudizio,


— 615 — neggiato vengono trasferiti altresì poteri atipici, col risultato che esso non dovrà più neppure derivare le sue facoltà da altro soggetto, ovvero essere subordinato alle scelte (anche discrezionali) del pubblico ministero, potendo da solo causare la instaurazione di un rapporto col giudice di pace (dunque, funzioni più marcatamente pubblicistiche, anche se vanno più esattamente delineati i confini di siffatto rapporto), unitamente alla coltivazione di interessi invece strettamente privatistici. Norme di partenza per la verifica dell’assunto, gli artt. 21-23 d.lgs. cit., che disciplinano il ‘‘ricorso immediato al giudice’’ di pace, la successiva ‘‘presentazione del ricorso’’ presso la cancelleria del giudice di pace, nonché la ‘‘costituzione di parte civile’’. Fondamentalmente, due le conclusioni cui può giungersi. Secondo una prima posizione, potrebbe sostenersi che le norme de quibus nella sostanza hanno attribuito l’esercizio dell’azione penale alla persona offesa dal reato, con esautoramento (anche totale) del pubblico ministero. Secondo un’altra più convincente (ma sempre discutibile) posizione, invece, il vero titolare dell’azione sarebbe lo stesso giudice di pace che, come un novello pretore ante riforma, stabilisce direttamente quando sia il caso di dare corso all’azione penale innanzi a sé stesso. Su tale alternativa ci si deve brevemente soffermare. 2. Secondo una prima (un po’ forzata) interpretazione, parrebbe potersi addirittura sostenere che l’esercizio dell’azione penale sarebbe stato trasferito in capo alla persona offesa - danneggiato dal reato, in certi casi con esautoramento (tacito) del pubblico ministero. Si tratta di una lettura che, pur assai suggestiva, non si mostra condivisibile, in quanto, come si osserverà in appresso, il penetrante controllo demandato al giudice di pace sembra escludere che possa instaurarsi un procedimento innanzi a sé in assenza di verifiche dell’organo istituzionale. Punto di partenza, per un pur rapido approfondimento di questo passaggio, è la lettura del concetto stesso di azione penale, alla luce dei chiari insegnamenti della migliore dottrina, cui si aderisce integralmente, e senza alcuna pretesa di completezza, visti i limiti del presente elaborato. Sui caratteri dell’azione penale, in relazione all’art. 112 Cost., molto è stato scritto, soffermandosi sempre sul principio di obbligatorietà, di irretrattabilità e, secondo alcuni, di pubblicità dell’azione (principio che, unitamente agli artt. 30, 35 e 38, d.lgs. n. 274/2000, completa l’idea per cui il rito del giudice di pace si manifesta come ‘‘terreno di conquista’’ per il danneggiato dal reato). Senza, dunque, voler neppure toccare un argoin La competenza penale del giudice di pace, Giuffrè, 2000, p. 119; SPANGHER, Nuova disciplina per il giudice di pace e delega al governo in materia di competenza penale, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 165; TRICOMI, La parte offesa ‘‘conquista’’ il potere di citazione, in Guida al dir., 2000, p. 105.


— 616 — mento così vasto, in considerazione, come detto, dei limiti del presente elaborato e di chi scrive, non appare inutile insistere brevemente sulla pubblicità e sulla obbligatorietà dell’azione penale, per vedere come il legislatore, con le disposizioni in tema di competenza del giudice di pace, pur non pervenendo al trasferimento della titolarità dell’azione, abbia comunque gravemente intaccato i principi posti dal codice di rito del 1988. L’azione penale, intesa sia ‘‘come domanda rivolta al giudice per l’attivazione della giurisdizione sia come attività propulsiva diretta alla formazione della decisione’’ (2), viene ad esistenza con (ovverosia ha il suo momento iniziale nel) la formulazione dell’imputazione ad opera del titolare dell’azione stessa. Prima norma di riferimento, quella appartenente alla fonte di grado maggiore, ossia il cit. art. 112 Cost., per cui ‘‘il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione’’. Trattasi di prescrizione che, come rilevato in dottrina, stabilisce il principio di legalità nella persecuzione penale (3). Essa norma, inevitabilmente, pone altri principi, strettamente collegati a quello dell’obbligatorietà e della officialità, che sono quelli della irretrattabilità e della pubblicità. Deve rapidamente vedersi, allora, in che senso tali principi possano venire interpretati, e come essi sopravvivano rispetto al d.lgs. n. 274/2000. In primo luogo, dunque, la pubblicità. Con tale principio si sostiene che ‘‘la titolarità dell’azione spetta inderogabilmente ad un organo pubblico per la soddisfazione di un interesse della collettività’’ (4). Ciò, però, non significa anche la inderogabilità del principio stesso, nel senso che è pur sempre ipotizzabile una accusa sussidiaria, purché, appunto, solo sussidiaria e dunque la titolarità dell’azione (anche) in capo all’organo pubblico permanga sempre (5). (2) Cfr. UBERTIS, Azione penale (voce), cit., p. 2. Chiarisce l’Autore che l’azione non si identifica con il ‘‘ procedimento penale, considerato come esclusiva attribuzione dell’organo agente, né addirittura con l’intero ‘processo’ ’’. Ed ancora, ‘‘se l’esercizio dell’azione comporta il necessario conseguimento di una decisione di merito..., bisogna individuare con giuridica certezza il momento del suo promovimento (o ‘inizio’) allo scopo di distinguere, tra le molteplici competenze dell’organo dell’azione, i comportamenti di per sé implicanti una successiva pronuncia giurisdizionale. Una volta, allora, che sia stato acclarato come l’instaurazione del processo — considerato appunto quale serie di atti indeclinabilmente concludentesi con una pronuncia del giudice... — avviene in sede penale attraverso la formulazione dell’imputazione ad opera del titolare dell’azione (senza che occorra alcuna comunicazione all’imputato), non può non concludersi che è proprio l’atto di imputazione a definire il momento iniziale di esercizio dell’azione penale’’. (3) UBERTIS, op. cit., p. 3, con ampi riferimenti di dottrina. (4) UBERTIS, op. cit., p. 6. (5) Con estrema chiarezza, UBERTIS, op. cit., p. 4, ripercorrendo l’interpretazione, sul punto, della Consulta, specifica che l’ordinamento può ben prevedere forme di azione penali sussidiarie o concorrenti rispetto a quella obbligatoria del pubblico ministero; ‘‘invero, la ratio dell’art. 112 Cost. ‘esclude soltanto che al P.M. possa essere sottratta la titolarità dell’a-


— 617 — Orbene, da un punto di vista non solo strettamente formale, il principio sembrerebbe essere stato rispettato, in quanto la possibilità che la persona offesa dal reato abbia ad esercitare l’azione è meramente concorrente con la facoltà di un suo esercizio da parte del pubblico ministero, il quale, come rilevato, dell’iniziativa privata deve venire sempre notiziato, al fine di potere manifestare o meno il proprio consistente avallo, e dunque al fine di esercitare (anche) esso l’azione (6). Ciò che, invece, potrebbe ridondare a favore della interpretazione per cui si individua in capo al privato l’esercizio dell’azione, e che potrebbe sostenersi non essere stato totalmente soddisfatto, è l’altro requisito, zione penale in ordine a determinati reati, nel senso che l’ordinamento può conferire la titolarità dell’azione penale anche a soggetti diversi dal P.M. a condizione che non si venga con ciò a vanificare l’obbligo del P.M. medesimo di esercitarla (salvo che nelle ipotesi costituzionalmente previste)’ (C. cost., n. 114/1982, in Giur. cost., 1982, I, 1101). Viene pertanto autorivolmente riconosciuta la possibilità di esercitare l’azione penale anche a soggetti, pubblici o privati, diversi da quelli tradizionalmente considerati titolari di essa, purché la scelta all’interno della tipologia delle varie forme di azione penale astrattamente configurabili non comporti l’esclusione del suo affidamento anche al pubblico ministero. Avrebbero così modo di trovare più facilmente la strada per la loro soddisfazione pure quegli interessi collettivi o diffusi attualmente non pienamente tutelati... Inoltre, si conseguirebbe lo scopo di una almeno iniziale traduzione in concreto del principio della sovranità popolare, sancito tra quelli ‘fondamentali’ dall’art. 1, comma 2, Cost. ». Un chiarissimo Autore (DOMINIONI, Azione penale (voce), in Dig. italiano, IV ed., UTET, 1988, p. 406) parimenti critica la teoria per cui il monopolio del pubblico ministero, nell’esercizio dell’azione, avrebbe un contenuto costituzionale (così, per tutti, BETTIOL, Istituzioni di diritto e procedura penale, Cedam, 1973, p. 190; CONSO, Introduzione alla riforma, in AA.VV., Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura di Conso, Firenze, 1979, p. XVII, citati dalla dottrina in parola). Invero, l’assunto poggerebbe sull’art. 112 Cost., per il quale la qualificazione in chiave di obbligatorietà è intesa come connotato congenito per precetto costituzionale all’esercizio dell’azione penale e da ciò si trarrebbe che, essendo centro di imputazione dell’obbligo in oggetto il pubblico ministero, solo ad esso sarebbe conferibile legittimamente la titolarità dell’azione. Viceversa, completa il menzionato Autore, ‘‘una cosa del tutto diversa è... che il potere d’azione sia riconosciuto in via concorrente o addirittura sussidiaria anche ad altri soggetti: una siffatta pluralità di legittimazioni, concepita in modo che quella attribuita al pubblico ministero non sia elisa dal potere degli altri soggetti (ed anzi, nel caso di legittimazione sussidiaria, condizionando l’agire di costoro all’inerzia del pubblico ministero), non intacca la regola dell’obbligatorietà e pertanto il monopolio del potere d’azione da parte del pubblico ministero, non essendone premessa necessaria, riesce indifferente al disegno costituzionale’’. (6) Secondo TONINI, La nuova competenza penale del giudice di pace: un’alternativa alla depenalizzazione?, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 930, con la normativa de qua si è dato ampio spazio ‘‘all’offeso nel rito speciale di citazione diretta... Si tratta di una vera e propria azione penale privata, che tuttavia è ammissibile nel nostro ordinamento: l’obbligo in capo al pubblico ministero di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.) non impone che questi ne abbia il monopolio, come insegna il Giudice delle leggi... Pertanto è stato sufficiente assicurare alla pubblica accusa la mera possibilità di modificare l’addebito formulato, nel ricorso al giudice, dal difensore dell’offeso. Il pubblico ministero ha anche la possibilità di sostenere che il ricorso è inammissibile o manifestamente infondato: spetta al giudice di decidere senza essere vincolato dal parere della parte pubblica’’.


— 618 — prima indicato; quello per cui l’azione dovrebbe spettare ad un organo che abbia ad esercitarla a tutela di un interesse proprio della collettività. Nel rito disegnato per il giudice di pace, quando l’azione penale segua il ricorso della persona offesa - costituenda parte civile è ben difficile sostenere che si abbiano di mira interessi propri della collettività; e difatti, unanimemente si afferma che l’offeso è sempre portatore di un interesse personale, assimilabile alla vendetta (7), che trova compiuta esplicazione con la collegata domanda risarcitoria, e che per di più nel caso di specie è presupposta con l’atto stesso. La finalità pubblica dell’azione, ove liberamente lasciata nella disponibilità della persona offesa, verrebbe superata dall’interesse appunto privato che così potrebbe utilizzare altresì lo strumento del giudizio penale per venire rafforzata (8). Né il giusto rilievo per cui l’ordinamento già conosce altri casi in cui l’azione viene esercitata da soggetto diverso dal pubblico ministero, e perciò la fattispecie in esame può dirsi rientrare coerentemente nel nostro sistema, apparirebbe convincente, ove, si ribadisce, si aderisse all’interpretazione in parola. Difatti, seppure l’asserto è vero, si è sempre in presenza di azioni sussidiarie attribuite ad organi che non possono istituzionalmente vantare alcun interesse concorrente (o confligente che sia) con quello immediatamente rappresentato dalla violazione della norma penale (9). È vero che nel caso di specie si è in presenza di reati perseguibili a querela di parte, e per ciò stesso già dal legislatore considerati come tipicamente pertinenti alla persona offesa dal reato, ma da ciò ad estromet(7) AMODIO, Solidarietà e difesa sociale nella riparazione alle vittime del delitto, in AA.VV., Vittime del delitto e solidarietà sociale, Giuffrè, 1975, p. 70 s.: ‘‘non è un mistero che la costituzione di parte civile nel nostro processo si trasforma spesso in un’accusa privata che fa da supporto all’azione del pubblico ministero. Si potrà dire che ciò rispecchia la disfunzione profonda di un istituto concepito ben diversamente sul piano legislativo: ma questa trasformazione non è patologica, attiene alla naturale fisiologia della vittima. Una volta inserito nel processo, l’offeso dal reato coopera necessariamente alla persecuzione dell’imputato, anche solo sul piano... della ricerca delle prove’’. Nel caso in esame, invece, all’offeso sono attribuiti tutti i poteri: dare luogo egli all’azione, e così al processo; inserirsi in veste di parte; collaborare, anzi svolgere la ricerca della prova; sostenere l’accusa in giudizio; eventualmente impugnare a fini penali la decisione del giudice. (8) V., in proposito, AMODIO, L’azione penale delle associazioni dei consumatori per la repressione delle frodi alimentari, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1974, p. 529, s., il quale parla dell’opportunità che anche l’azione sussidiaria abbia sempre a tenere presente quella ufficiale concorrente, ferma la necessità di una attenta verifica nel momento della attribuzione dei poteri de quibus al soggetto non pubblico. L’Autore individua tre momenti relativi all’azione penale spettante a soggetti diversi dall’organo pubblico: ‘‘l’attribuzione soggettiva, il rapporto con il potere dell’organo istituzionale dell’accusa, il grado di partecipazione dell’‘attore non ufficiale’ al processo oltre il momento iniziale’’. (9) Per tutti, DOMINIONI, op. cit., p. 407, che analizza tali casi peculiari, e la giurisprudenza costituzionale formata sugli stessi, e l’amplissima bibliografia ivi attentamente riportata, cui ci si permette di rinviare.


— 619 — tere (in pratica così, si paventa, può avvenire) l’interesse pubblico alla persecuzione del reo sembra correrci parecchio. Ancora, l’idea dell’esercizio privato dell’azione pubblica potrebbe apparire corroborata dall’art. 30 stesso decreto, per cui ‘‘la mancata comparizione all’udienza del ricorrente... determina l’improcedibilità del ricorso’’. Infatti, nemmeno più i doverosi passaggi di remissione della querela ed accettazione sono richiesti: basta che la parte civile si ritenga soddisfatta ed eviti tout court di presentarsi all’udienza per far caducare l’intero procedimento e non la sola domanda civile. Parziale contemperamento è offerto dall’art. 35 successivo, in cui, nel caso di riparazione del danno cagionato, mediante restituzioni o risarcimento, il giudice può disporre la estinzione del reato. Va, sempre in proposito, rilevato che, in questo caso, pur se si arriva ad una pronuncia di estinzione del reato, ciò avviene solo in considerazione di una posizione strettamente privatistica: cioè a dire che una volta risarcito il danno, non v’è più interesse alla persecuzione penale del reo. L’art. 29, comma 5, stesso decreto chiuderebbe, come suol dirsi, il cerchio, in quanto il giudice di pace penale (analogamente a quello civile), deve promuovere la conciliazione fra le parti, così potendosi allora giungere alla rinuncia dell’azione (ossia del ricorso), ed alla conseguente pronuncia di non liquet. Infine, il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Come chiarito in dottrina, esso principio non deve venire considerato un ‘‘puro mito, avulso dalla concreta esperienza giuridica’’ (10); esso, invece, sembra doversi leggere anche tenendo presente che in ordine alla attività di verifica il pubblico ministero sia libero di valutare se esercitare o meno l’azione. Tale valutazione, viceversa, per il caso di ricorso della persona offesa dal reato viene completamente scavalcata: all’organo istituzionale dell’accusa si riconosce al più la facoltà di dissentire dalle scelte del privato, specificandosi peraltro che la eventuale mancanza di sue determinazioni nulla comporta, restando l’ultima parola al convincimento del giudice di pace (art. 25 s., d.lgs. n. 274/2000). V’è, poi, il problema dell’impugnazione. L’art. 38 del tessuto normativo di cui si discorre appare non curarsi più minimamente del principio di pubblicità dell’azione (intesa come obbligo di prosecuzione della stessa) (11), affidando integralmente l’iniziativa alla parte civile (rectius (10) UBERTIS, op. cit., p. 4, e la bibliografia ivi riportata. (11) DOMINIONI, op. cit., p. 405 s., chiarisce il contenuto della prosecuzione dell’azione penale, da intendersi come quell’insieme di ‘‘situazioni e atti risalenti al pubblico ministero’’, cui ‘‘si riconducono i diversi poteri con cui questo soggetto interviene nel corso del processo determinando gli effetti che condizionano l’attività del giudice’’. Ed ancora, con estrema chiarezza, (p. 411), ‘‘il dato dal quale occorre muovere è che il processo penale, nella disciplina vigente, è regolato in modo che, una volta iniziato con il promovimento dell’azione da parte del pubblico ministero, esso progredisce nel suo sviluppo successivo per un


— 620 — ricorrente), la quale ‘‘può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del giudice di pace negli stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione da parte del pubblico ministero’’. In sostanza, la rappresentazione sinora seguita, delle nuove norme de quibus, si presta a sostenere l’idea di un sistema che, in relazione come detto ai reati procedibili a querela, ed attribuiti alla competenza del giudice di pace, autorizza l’impulso per l’esercizio dell’azione in capo alla persona offesa dal reato, la quale può suscitare la citazione diretta a giudizio della persona cui il reato è da essa attribuito, al fine poi di chiedere la applicazione, nei suoi confronti, della sanzione prevista dalla norma penale; contestualmente, essa persona offesa, a pena di decadenza nel medesimo atto, può costituirsi parte civile per i danni asseritamente subiti. Ora, è vero che il sistema, come si insisterà, si presenta fortemente discutibile; tuttavia, anche se in presenza di consistenti sollecitazioni e riserve, non si riesce a condividere la detta interpretazione per cui la persona offesa dal reato diverrebbe titolare dell’azione penale. Essa, in realtà, dovrebbe avere la facoltà di giocare un ruolo determinante sia in tema di azione penale che di contestuale azione civile, usufruendo di diritti e facoltà che non le sono riconosciuti nel rito ordinario, e men che mai nella sede tipica; ciò, tuttavia e per quanto ora si osserverà, non può condurre ad un completo snaturamento dell’esercizio stesso dell’azione penale. L’azione così viene ‘‘addomesticata’’ per fini non naturalmente suoi, consentendo una ampia manovra al danneggiato. Tutto, dunque, viene concesso al danneggiato, anche utilizzare il processo penale per il perseguimento delle proprie istanze risarcitorie, così enormemente tutelate, in quanto il reo, senza effettivo controllo pubblico, si vedrà domandare un certo petitum con la minaccia della spada di Damocle che, in caso di mancato soddisfacimento delle ragioni del privato, esso potrà incorrere in una eventuale decisione sfavorevole emessa da un giudice penale. Un aspetto di primario rilievo, e che di primo acchito colpisce il lettore, è quello per cui (art. 21) col d.lgs. n. 274/2000, ‘‘per i reati procedibili a querela è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace meccanismo che trae impulso non più da iniziative del pubblico ministero, ma dal potere-dovere di procedere del quale è investito il giudice. Cosicché di irretrattabilità dell’azione penale come di dovere del pubblico ministero di non desistere dal suo esercizio sino alla pronuncia della sentenza non vi è nemmeno modo di parlare: il processo, dopo l’impulso iniziale, procede nella serie di atti prefigurata dal modello normativo e perviene al suo tipico atto finale costituito dalla decisione giurisdizionale per l’attivarsi successivo di situazioni facenti capo al giudice ed indipendenti dal pubblico ministero. Per questo soggetto, dunque, obbligo di proseguire l’azione penale significa dovere di operare nel corso del processo, nella dialettica delle parti, in modo da propiziare l’accertamento della fondatezza dell’accusa e più in generale, data la sua natura non necessariamente persecutoria della sua funzione, richiedendo al giudice i provvedimenti endoprocessuali e la decisione conclusiva che le risultanze processuali dimostrino conformi alla legge’’.


— 621 — della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa... La presentazione del ricorso produce gli stessi effetti della presentazione della querela’’. Della disposizione è possibile offrire una duplice interpretazione: una, quella (qui non condivisa) per cui sarebbe sostenibile che, così ragionando, come detto, la titolarità dell’azione penale verrebbe (concorrentemente) trasferita sull’offeso; l’altra (come si dirà più convincente) quella per cui è possibile sostenere che, invece, titolare dell’azione penale divenga lo stesso giudice di pace. In ambo i casi, comunque, v’è una certa discutibile e criticabile ambiguità del sistema. Orbene, venendo all’aspetto più pregnante, ma certo non meno censurabile, del problema, l’offeso dal reato, nel caso in cui sia prevista la nota condizione di procedibilità, ha la facoltà, ove così ritenga, di instare egli per ottenere la citazione del reo innanzi il giudice di pace per il vero e proprio giudizio penale (così, secondo la ricordata posizione, esercitando addirittura l’azione). Non solo. Poiché il menzionato comma 5 della stessa disposizione prevede che il ricorso produce gli stessi effetti della querela, sembra corretto affermare che già con la notitia criminis la fattispecie sarebbe perfetta, potendosi allora procedere a giudizio, saltando integralmente la fase delle indagini preliminari, ed il suo caratterizzante momento fondamentale della ‘‘verifica’’ della notizia di reato (12). Nessuna verifica sulla fondatezza o meno della querela presentata dalla persona offesa dal reato che, per il solo fatto di dichiararsi tale, può incisivamente concorrere ad instaurare il complesso meccanismo del processo penale (13). È vero che il successivo art. 25 prevede una sorta di (12) SIRACUSANO, La polivalenza delle indagini preliminari, in AA.VV., Diritto processuale penale, Giuffrè, 2001, vol. II, passim. (13) Se il presente scritto si connota per un certo scetticismo nei confronti del rito di cui si discorre, va data contezza di opinioni assai entusiaste sulla scelta normativa, ed anzi rammaricate del fatto che non siano stati dati poteri ancora più incisivi alla persona offesa dal reato. Cfr. CARLI, Il ‘‘ricorso immediato’’ innanzi al giudice di pace, in Giur. it., 2001, p. 1534 s., per cui con la nuova disciplina nella quale ‘‘si riconosce alla persona offesa il potere di evocare direttamente in giudizio il presunto autore di un reato perpetrato a proprio danno, tali limiti’’ (trattasi dei limiti che l’offeso, secondo l’Autore, incontrerebbe nel non potere esercitare direttamente e pienamente l’accusa) ‘‘parrebbero in qualche modo superati. Ispirata, infatti, al regime di instaurazione dei ‘procedimenti sommari’ in sede civile..., la prevista possibilità per l’offeso di prendere direttamente contatto col giudice allo scopo di instaurare il giudizio penale contro l’imputato, sembrerebbe d’acchito riprodurre, infatti, gli stilemi di un’azione penale privata... Ma che si tratti davvero dell’introduzione nell’ordinamento di una azione penale, in qualche modo concorrente o sussidiaria rispetto a quella che oggi compete al pubblico ministero, parrebbe doversi escludere’’. L’istanza ex art. 21, d.lgs. n. 274/2000 ‘‘appare all’evidenza destinata nella mens legis, infatti, ad incrementare (ma non a completare) i poteri processuali dell’offeso... Ma null’altro. Per svolgere appieno il proprio ruolo d’accusa (‘privata’) nel giudizio, è all’uopo ancora necessario al ricorrente, infatti, costituirsi ‘parte civile’ ovvero avanzare una pretesa risarcitoria’’. Appare, allora, legittimo chiedersi, tuttavia, perché mai dovrebbe arrivarsi a disegnare,


— 622 — controllo postumo del pubblico ministero, il quale, ove ritenga manifestamente infondato il ricorso, esprime parere contrario alla citazione; ma è altresì sostenibile che ormai il rapporto col giudice, per l’ottenimento della citazione, è stato instaurato; che anche per il caso in cui il pubblico ministero non si pronunci il procedimento viene parimenti instaurato; che, per non darsi corso al decreto di convocazione, si chiede, tanto all’organo dell’accusa quanto al giudice di pace, un controllo in chiave diametralmente opposta rispetto all’esercizio dell’azione tipico (14) (in relazione all’art. 125 disp. att. c.p.p.). Potrebbe, in altri termini, forse meno dirompenti e più vicini all’esercizio dell’azione in capo all’organo pubblico, sostenersi che in realtà, per il caso in cui il pubblico ministero non abbia manifestato la sua posizione, il giudice di pace non possa procedere, e debba restituire gli atti, in tali termini interpretandosi l’art. 27, comma 1, d.lgs. n. 274/2000. In effetti, ove così fosse, non si lederebbe in alcun modo la titolarità dell’azione in capo al pubblico ministero. Tuttavia, siffatta interpretazione rischierebbe di cozzare con l’espressa volontà del legislatore in almeno due punti. In primo luogo, con la rubrica dell’art. 21 dello stesso decreto, che si intitola ‘‘ricorso immediato al giudice’’, così suggerendo una sorta di ricorso omisso medio, ossia omesso il passaggio per il pubblico ministero, a meno che esso, una volta notiziato dell’iniziativa presa dalla persona offesa dal reato, non eserciti le in modo compiuto, il ruolo della persona offesa dal reato coincidente ‘‘appieno’’ con una accusa. Altro è dire che, in fin dei conti, la persona offesa dal reato si risolve in una forma di accusa sussidiaria, altro è dire che la si dovrebbe dotare di ogni potere più idoneo a costituire appieno un’accusa. E su tale ultima affermazione sembra fondato potersi dissentire; segnatamente in relazione al fatto che ex adverso ci si rifà ad un enunciato basato su un retaggio storico che, in realtà, non prevedeva la totale commistione fra interesse privato ed interesse pubblico, come, invece, nel caso in esame, inevitabilmente si verrebbe ad avere. (14) Cfr. ampiamente CAPRIOLI, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia, controlli, in AA.VV., Il giudizio innanzi al giudice di pace, Cedam, 2001, p. 176, nota 41: ‘‘non va dimenticato che la regola di giudizio risultante dal combinato disposto degli artt. 408 c.p.p. e 125 norme att. c.p.p. (e ribadita nell’art. 17 comma 1 del decreto legislativo...) è imperniata sulla prevedibile idoneità degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari a sostenere l’accusa in giudizio, mentre nell’ipotesi considerata il giudizio prognostico del pubblico ministero deve necessariamente fondarsi — esclusi i documenti allegati al ricorso a norma dell’art. 21 lett. g) del decreto, nonché, deve ritenersi, i materiali investigativi raccolti successivamente alla querela poi ‘convertita’ in ricorso... — sulla prevedibile sufficienza o insufficienza di un materiale probatorio ‘indicato’ dalla parte (art. 21 lett. b) ma non ancora ‘acquisito’ neppure in via unilaterale, e, dunque, maggiormente imprevedibile nei suoi effettivi contenuti. Con l’aggettivo ‘manifesta’, il legislatore ha, dunque, inteso sottolineare l’ontologica difformità delle due operazioni valutative, attenuando la severità del giudizio affidato al pubblico ministero. Se così non fosse, del resto, l’azione penale potrebbe venire esercitata solo in presenza di un ricorso della persona offesa corredato di elementi probatori idonei a svolgere la funzione assegnata dall’art. 125 norme att. c.p.p. alle attività investigative della parte pubblica’’.


— 623 — sue prerogative. In secondo luogo, il combinato disposto degli artt. 25, comma 1, e 26, comma 1, stesso provvedimento legislativo, in cui si ha riguardo alle ‘‘richieste’’ dell’accusa pubblica, con ciò, dunque, avendosi riguardo a tutte le possibili iniziative che il pubblico ministero potrebbe adottare ai sensi dell’art. 25 cit. Ciò nel senso che, ove si volesse ritenere che il giudice, in assenza di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, non potrebbe procedere solo per l’iniziativa dell’offeso, ci si scontrerebbe con l’art. 26, comma 1, cit., che non riguarda la formulazione dell’imputazione, ma tutte le richieste. Altrimenti detto, l’art. 27 successivo impone al giudice di pace di procedere, nei venti giorni dal deposito del ricorso della persona offesa dal reato, non solo se il pubblico ministero abbia formulato l’imputazione, ma altresì se nulla abbia fatto. Anzi, proprio ciò non solo smentirebbe il tentativo, ma potrebbe corroborare la tesi per cui si sarebbe in presenza dell’azione esercitata dall’offeso. Del resto, l’art. 27, comma 3, lett. d), d.lgs. in parola, prevede che il giudice di pace abbia a trascrivere l’imputazione nel decreto di convocazione. Orbene, l’uso del verbo trascrivere potrebbe suggerire che l’organo pubblico debba riportare (magari adeguandola alle forme imposte dal rito) l’imputazione che un altro soggetto abbia già formulato. Ed allora, poiché è possibile che si stia procedendo in assenza di iniziative del pubblico ministero, ma solo a seguito del ricorso dell’offeso, l’unica conclusione logica dovrebbe essere che tale imputazione è quella dell’offeso stesso. Dunque, se potesse dirsi che un soggetto ha bene formulato l’imputazione, dovrebbe concludersi che esso soggetto avrebbe altresì esercitato l’azione (15). Ancora due rilievi, forse empirici, che però potrebbero suffragare l’e(15) In dottrina, con costruzione assai attenta, si è osservato, in merito, che ‘‘in sede di pubblicazione del d.lgs. n. 274/2000 si è avuta una diversa stesura dell’art. 27 comma 3 lett. d), dove si allude semplicemente alla ‘trascrizione dell’imputazione’, che non deve essere per forza di cose quella ‘formulata dal pubblico ministero’. Difatti, se quest’ultimo non si pronuncia, l’addebito enunciato dalla persona offesa, una volta che il giudice non ha ritenuto il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, diventa imputazione. Tuttavia, sino a che non viene emesso il decreto di convocazione delle parti, non potrà correttamente alludersi ad un’imputazione, per cui risulta quantomeno improprio utilizzare una trascrizione dell’imputazione nell’atto in cui essa, invece, viene ad essere individuata per la prima volta. Anche in questa prospettiva non può ritenersi esercitata un’azione penale privata: è il giudice a sostituirsi al pubblico ministero; ed i profili di incompatibilità che parrebbero emergere in capo al giudice di pace potrebbero non essere fugati del tutto in considerazione del fatto che gli si chiede solo un sindacato sulla verosimiglianza, non sulla fondatezza, della notizia di reato... La possibilità così riconosciuta al giudice di pace di formulare l’imputazione, recependo l’ipotesi accusatoria della persona offesa, potrebbe comunque permettere di dare risposta all’interrogativo sui poteri del giudice, allorché lo stesso ritenga che si debba procedere, nonostante la valutazione di manifesta infondatezza o di inammissibilità del ricorso espressa dal pubblico ministero (MARZADURI, in AA.VV., Compendio di procedura penale, appendice di aggiornamento, a cura di Conso e Grevi, Cedam, 2001, p. 159).


— 624 — sposto convincimento. In primo luogo, ove si dovesse ritenere che la convocazione delle parti (art. 27, co. 1, cit.) possa seguire solo alla formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero (16), potrebbe aversi una insanabile posizione di stallo nel caso di inattività dell’organo dell’accusa (a meno di non pensare alla disciplina dell’avocazione, che, nel rito in esame, appare davvero fuori luogo (17)), in evidente contrasto con la volontà del legislatore di agire in tempi assai rapidi, e su ricorso L’unica perplessità che può riscontrarsi nella perfetta ricostruzione è quella per cui pur, di fronte al fatto che l’imputazione che viene trascritta è quella dell’offeso, tale atto non potrebbe inquadrarsi nell’esercizio dell’azione. Perplessità peraltro comprensibilissima, ed apparentemente dettata dall’intento di salvare la norma che, interpretata come qui si sostiene, comporterebbe appunto l’esercizio dell’azione penale in capo alla persona offesa dal reato. Ebbene, anche se discutibilissima in linea di principio, questa sembra proprio la volontà del legislatore, anche alla luce dell’asserto (difficilmente confutabile) per cui comunemente si dice che sia ‘‘proprio l’atto di imputazione a definire il momento iniziale di esercizio dell’azione’’; nonché l’asserto per cui ‘‘l’instaurazione del processo... avviene in sede penale attraverso la formulazione dell’imputazione’’ (cfr. UBERTIS, Azione penale (voce), in Enc. giuridica, Treccani, 1988, vol. IV, p. 2. Ordunque, nel caso di specie si assiste ad una delega ad altro soggetto della potestà di formulare l’imputazione che, secondo il già menzionato dettato legislativo, il giudice di pace andrà a trascrivere nella propria citazione; delega ammissibile nel nostro ordinamento, come si vedrà discorrendo del concetto di azione, per il quale, è bene subito segnalarlo, ci si rifarà ad opere assolutamente consolidate nel panorama letterario giuridico, visti i limiti del presente elaborato. (16) Ciò dovrebbe dedursi dal fatto che la lett. d) della norma de qua, parla di trascrizione dell’imputazione, così, si dice, volendo suggerire il fatto che una formale imputazione del pubblico ministero debba essere stata previamente formulata. In merito, LAVARINI, La tutela della vittima del reato nel procedimento di fronte al giudice di pace, in Giust. pen., 2001, III, c. 613, afferma: « l’art. 26 comma 1 d.lgs. cit. precisa... che il giudice « se il pubblico ministero non ha presentato richieste » può provvedere solo « a norma dei commi 2, 3 e 4 » del medesimo articolo... non anche a norma dell’art. 27: ne discende che il decreto di convocazione delle parti previsto da quest’ultima disposizione non può venire emesso senza la « richiesta » del pubblico ministero, cioè senza che costui, ex art. 25 commi 1 e 2 ult. Parte d.lgs. cit., depositi nella cancelleria del giudice di pace un proprio atto formale contenente l’imputazione... Nell’attesa di un auspicabile chiarimento legislativo ci pare, quindi, che a fronte dell’inerzia dell’accusa il giudice non possa che restituire gli atti alla medesima « come se » questa avesse espresso parere contrario alla citazione: dopodiché il procedimento seguirà l’iter ordinario, spettando al pubblico ministero la scelta fra l’esercizio dell’azione penale, con la citazione diretta ad opera della polizia giudiziaria, e la richiesta di archiviazione ». Ora, seguendo una tale interpretazione, è vero che si « salva » la norma, nel senso di una sua totale conformità rispetto al sistema vigente, ma è altresì vero che si fa dire alla legge probabilmente plus quam voluti, in quanto si deve arrivare ad ipotizzare addirittura una forma di silenzio-dissenso in capo al pubblico ministero, nonché a ritenere esaustivo l’art. 26 in parola, anche in ordine a fattispecie non da esso contemplate. Invero, il detto art. 26 non sembra contemplare proprio l’ipotesi di una posizione del pubblico ministero conforme alla persona offesa dal reato, limitandosi a prevedere solo la posizione negativa. (17) Secondo LAVARINI, La tutela della vittima del reato nel procedimento di fronte al giudice di pace, cit., c. 613, per evitare la posizione di stallo, potrebbe ipotizzarsi ad una forma di imputazione coatta da parte del giudice di pace. Tuttavia, la stessa Autrice mostra


— 625 — dell’offeso. Oltre al fatto che, comunque, tratterebbesi di una interpretazione davvero estensiva, in quanto il legislatore sul punto tacuit. In secondo luogo, l’art. 3 del d.lgs. n. 274/2000 appare assai difforme rispetto all’art. 60 c.p.p., e prevede l’acquisizione della qualità di imputato in capo a colui che venga individuato come tale nella citazione a giudizio da parte della polizia giudiziaria o nel decreto di comparizione delle parti ad opera del giudice di pace, così astraendo interamente dall’iniziativa in tal senso del p.m., ed anzi espressamente prevedendo l’unica alternativa rispetto alla citazione da parte della polizia giudiziaria (qui essa organo dell’accusa). Come si dirà in appresso, forse la deroga al principio ne procedat index ex officio appare la soluzione meno dirompente e più confacente al nostro ordinamento, visto che essa non è ad esso ignota. A tacere, poi, del rilievo per cui la persona offesa - parte civile, appellando la decisione di primo grado, devolve alla piena cognizione del giudice togato la regiudicanda, senza alcun intervento del pubblico ministero. In sostanza, pure se in fase di impugnazione, una questione di origine presumibilmente più strettamente civile viene rimessa alla cognizione del giudice penale esclusivamente in ragione della valutazione che della questione abbia fatto il danneggiato, naturalmente e necessariamente interessato alla decisione in un senso o nell’altro; il danneggiato, per il mero perseguimento di suoi interessi privatistici, avrà la possibilità di utilizzare a pieno la struttura del processo penale, intuitivamente ben più incisiva di quella ordinaria. Ciò che, infine, ci si deve chiedere è se il ricorso della parte civile, ove si aderisca alla tesi per cui esso equivarrebbe ad esercizio dell’azione, comporti altresì gli effetti della irretrattabilità in ordine ad una successiva eventuale richiesta di archiviazione. In questa prospettiva, la conclusione cui sembrerebbe doversi approdare è quella per cui, in effetti, col ricorso, ascrivendosi la responsabilità di un certo fatto ad un determinato soggetto, e suscitando in merito la decisione di un organo giudicante, anche se nelle forme della manifesta infondatezza o meno, sarebbero integrati i requisiti propri del contenuto tipico dell’azione (18). Invero, l’atto di impulso, rimesso al privato, anche serie perplessità di fronte a siffatta soluzione, per la quale, inoltre, dovrebbe arrivarsi a far prevedere al d.lgs. n. 274/2000 tutto un istituto che esso non contempla in alcun modo. (18) DOMINIONI, op. cit., p. 403 spiega che ‘‘gli atti di promovimento dell’azione si fanno identificare come tali perché recano la prima enunciazione dell’imputazione. L’atto in cui si svolge il potere d’azione ha dunque questo contenuto, che si tratta ora di fissare nella sua esatta tipicità. L’imputazione, come ascrizione della responsabilità di un fatto di reato a un soggetto, si compone di tre giudizi: l’affermazione di un fatto, l’individuazione di un dato soggetto come suo autore, la qualificazione giuridica del fatto alla stregua di una norma penale’’. Ebbene, nel momento in cui si esautora il pubblico ministero, consentendo che la ‘‘domanda’’ arrivi alla cognizione del giudice anche in assenza di determinazioni dell’organo pubblico, su


— 626 — senza (o addirittura contro) l’attività del pubblico ministero, ove così classificabile potrebbe pervenire alla cognizione del giudice, per far scaturire una pronuncia purché sia. I requisiti, dunque, vi sarebbero. In sostanza, ed ancora insistendo sulla posizione dell’esercizio dell’azione penale da parte dell’offeso, il privato danneggiato dal reato potrebbe attivare il processo penale a danno di colui che egli indichi autore del fatto di reato; consequenzialmente, il presunto reo, privo di rimedi di sorta, potrebbe venire trascinato innanzi un giudice non togato; inoltre, senza che un organo della magistratura abbia mai preso realmente visione del procedimento, si potrebbe arrivare ad una vera e propria condanna penale. Ovviamente, in questi secchi termini ogni perplessità avrebbe buon albergo. Non si può fare a meno di riportare le datate parole di un chiaro Autore, che sembrano scritte apposta per la fattispecie qui resistita: ‘‘l’intervento della parte civile altera quasi sempre l’atmosfera del processo... Il processo penale, che dovrebbe esaurirsi in una ricerca serena e pacata, diventa quasi sempre, quando vi agisce la parte civile, una accanita contesa. C’è di peggio, purtroppo. Non bisogna dimenticare che il processo penale, di per sé, e tanto più... nel clima moderno, impone una grave, spesso gravissima sofferenza all’imputato...; come la pena si risolve nel processo, il processo si risolve nella pena; ...basta il fatto, innegabile, che il processo penale importa, di per sé, un rischio e un danno assai più grave che il processo civile. Di qui la tentazione... di servirsi del processo penale, anzi che o oltre che del processo civile, per ottenere dall’altra parte ciò che pretende... Il processo penale diventa così uno strumento di pressione con una inversione di quello che dovrebbe essere l’ordine delle iniziative: anzi che la parte civile intervenire in un processo promosso dal pubblico ministero, è la parte civile che opera in realtà da forza motrice del processo attraverso l’azione del pubblico ministero opportunamente e spesso inopportunamente sollecitata’’ (19). 3. Insomma, l’idea dell’azione penale esercitata dalla persona offesa dal reato, pure suggerita da una strana normativa sul giudice di pace, e sisola istanza del privato, è difficile non riconoscere contenuto di esercizio dell’azione in capo a tale soggetto. (19) Così CARNELUTTI, Crisi della giustizia penale, in Riv. dir. proc., 1958, p. 338. Ed ancora (p. 343): ‘‘Della posizione di inferiorità dell’imputato tutti i pratici del processo sono consapevoli... ora, se tale posizione è inevitabile in confronto con il pubblico ministero al quale lo Stato ha commesso la funzione punitiva, non è giusto che ne approfitti l’offeso per il regolamento del suo rapporto civile con l’offensore. Quando, pertanto, con la costituzione di parte civile si inserisce nel processo penale un processo civile, l’equilibrio di quest’ultimo è gravemente alterato. Il meccanismo del processo civile è equilibrato sul principio di parità tra le parti; ma tale parità sparisce per effetto della celebrazione del processo civile insieme con il processo penale. Anche se non la pretende, la parte civile fruisce di una posizione di superiorità rispetto all’imputato... la parte civile nel processo penale gode di una specie di privilegio immeritato’’.


— 627 — curamente suggestiva, non convince, sia per una evidente contrarietà con le scelte di fondo del sistema processuale, che ha contraddistinto la svolta del 1988, sia per una meditata lettura delle norme medesime. Ed è una con-clusione cui, tutto sommato, si giunge volentieri, per l’assurdo, altrimenti, di una azione penale pubblica asservita alle spinte utilitaristiche degli interessi privati di parte, cui dovrebbe giungersi in caso opposto. Depositato il ricorso, allora, le scelte passano per le posizioni del pubblico ministero ed arrivano alle determinazioni del giudice di pace. L’azione penale (esercitata su decisivo impulso della persona offesa dal reato) sembra allora del tutto libera di procedere, essendo espressamente previsto il silenzio dell’organo istituzionale dell’accusa come del tutto ininfluente: dunque, nessuna determinazione del titolare dell’azione nel rito ordinario. Invero, considerata la tendenza del nostro sistema di percorrere la via dello ‘‘spauracchio’’ penale in ogni fattispecie in cui si voglia prescrivere un qualche comportamento (anche se di minore importanza, e, in tal caso, specie se sia dovuto nei confronti della p.a.), e la pedissequa tendenza dell’interessato ad utilizzare lo strumento del processo penale per il perseguimento di fini strettamente civili, non è difficile prevedere che, a fronte di un numero elevato di ricorsi immediati dell’offeso dal reato, il controllo successivo del pubblico ministero andrà ad adagiarsi su un mero silenzio (sia esso assenso o dissenso poco importa), così come il controllo del giudice di pace, in chiave di manifesta infondatezza del ricorso, e perciò della notizia di reato, potrà presumibilmente adagiarsi sulla opportunità di una successiva piena verifica dibattimentale. A tacere, poi, del rilievo per cui il giudice di pace, che si sia pronunciato negativamente in tema di manifesta infondatezza del ricorso della persona offesa, sembra versare in situazione non dissimile da quella del giudice delle indagini preliminari che abbia a rigettare la richiesta di archiviazione ed a disporre la c.d. imputazione coatta: inevitabile, allora, l’applicazione analogica del nuovo art. 34, comma 2-bis, c.p.p., ovvero il sospetto di illegittimità costituzionale. A meno di ritenere che, nella realtà, il controllo che il giudice di pace deve eseguire non sia in alcun modo un controllo di merito, e riguardi la mera regolarità formale del ricorso dell’offeso: certo, però, che una simile lettura sembra destinata a scontrarsi con la dizione letterale dell’art. 26, comma 2, d.lgs. n. 274/2000, per il quale ‘‘se ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, il giudice di pace ne dispone la trasmissione al pubblico ministero per l’ulteriore corso del procedimento’’; e del successivo art. 27, comma 1, per cui ‘‘se non deve procedere ai sensi dell’art. 26, il giudice di pace... convoca le parti in udienza con decreto’’. Francamente, l’interpretazione più verosimile sembra quella per cui se il giudice di pace ritiene che il ricorso sia ammissibile e non manifestamente infondato (con valutazione non difforme da una valutazione di me-


— 628 — rito), emette il decreto di convocazione a giudizio (20) (come si vede, dunque, la fattispecie non è lontana da quella dell’art. 409, comma 5, c.p.p.). Ecco, allora, che se queste mere (negative) previsioni (massiccia presenza di iniziative da parte dell’offeso; inazione del pubblico ministero; controllo assai lieve da parte del giudice) dovessero verificarsi, ed anche rifiutando la tesi (come detto, non agevolmente sostenibile) di un vero e proprio esercizio dell’azione in capo al privato, potrebbe essersi di fronte ad una posizione parimenti contraria al sistema stesso instaurato dal legislatore del 1988, ma meno dirompente. Orbene, l’interpretazione che sembra potersi attagliare alla complicata fattispecie in maniera accettabile sembra essere un’altra. Può, ossia, affermarsi che, ai sensi del menzionato art. 26, solo l’atto di convocazione delle parti, ad opera del giudice di pace, integri l’atto con cui si formula l’imputazione. In questa diversa (ma più convincente) prospettiva, il rimedio co(20) In dottrina la situazione è stata posta autorevolmente nei termini che seguono. Per una completa rassegna, CAPRIOLI, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia, controlli, cit., p. 175 ss., secondo il quale, nel caso di formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero, non si è di fronte a problemi di particolare complessità. ‘‘Il quadro si complica allorché il pubblico ministero esprima parere contrario alla citazione in giudizio, o lasci scadere il termine per la presentazione delle sue richieste. Qui le possibili varianti sono due. La prima è che il giudice di pace, ritenendo il ricorso della persona offesa inammissibile o manifestamente infondato, provveda... trasmettendo gli atti al pubblico ministero per il corso ulteriore del procedimento’’. Su tale prima soluzione può notarsi che così facendo il giudice di pace andrebbe a trasmettere gli atti, per l’eventuale prosieguo, ad un organo che ha già dimostrato, almeno per facta concludentia, di non volersene occupare. ‘‘La seconda variante si ha invece quando il giudice — ricevuto dal pubblico ministero il parere contrario alla citazione o preso atto dell’assenza di richieste — consideri il ricorso dell’offeso ammissibile e non manifestamente infondato. Quid iuris in una simile evenienza? Può il giudice convocare ugualmente le parti, sostituendosi, di fatto, al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale? A nostro avviso la risposta non può che essere positiva allorché il pubblico ministero esprima parere sfavorevole all’instaurazione del processo. Nulla, infatti, autorizza a ritenere tale parere vincolante per il giudice: tanto più che l’art. 26 comma 2 d.lgs. n. 274/2000... subordina la trasmissione del ricorso alla circostanza (di carattere sostanziale) che il pubblico ministero abbia espresso parere contrario alla citazione. Ciò posto, riesce difficile negare al giudice di pace il potere di surrogarsi al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale allorché la parte pubblica ometta di presentare tempestivamente le proprie richieste, non foss’altro perché quest’ultima potrebbe, tacendo, determinare un’irrimediabile situazione di stallo processuale, e sottrarsi a qualunque sindacato sulla legittimità della propria scelta abdicativa’’. Come si insisterà in appresso, tuttavia, il requisito della domanda rivolta al giudice appare già contenuto nel ricorso della persona offesa dal reato; la convocazione da parte del giudice di pace è un atto che deve seguire la valutazione di ammissibilità e non manifesta infondatezza dell’atto del privato, che, dunque, sembrerebbe l’atto contenente l’esercizio dell’azione. A meno di non voler sostenere che anche per il caso di imputazione coatta l’azione sia esercitata dal giudice per le indagini preliminari.


— 629 — munque si presenta non peggiore ma almeno assai vicino al male (21), in quanto si va incontro alla violazione del noto principio ne procedat iudex ex officio. Anche chi (22) si è mostrato contrario (pure nel senso diametralmente opposto a quanto qui sostenuto) alle disposizioni sul rito innanzi il giudice di pace, ritiene in effetti che nel caso di specie si sia di fronte ad una accusa penale sussidiaria, da cui però si arriverebbe ad una attività successiva in capo al giudice, ovviamente causata dal significativo atto di iniziativa della parte lesa. E dunque, l’altra chiave (sempre discutibile) di lettura che potrebbe essere offerta della complessa fattispecie è quella per cui, a seguito del ricorso immediato dell’offeso, della inazione del pubblico ministero e delle iniziative del giudice di pace in ordine alla citazione, si sarebbe in presenza della violazione del brocardo ne procedat iudex ex officio. Invero, ove si sostenesse, come pure si sostiene (23), che la dizione dell’art. 27, lett. g), d.lgs. n. 274/2000, in cui si fa riferimento alla trascrizione dell’imputazione, non debba intendersi in senso rigorosamente letterale, ma piuttosto come formulazione da parte dello stesso giudice di pace dell’imputazione (magari correggendo le indicazioni fornitegli dalla persona offesa dal reato nel ricorso), imputazione che poi nel decreto di citazione andrebbe trascritta, non si assisterebbe ad una forma di azione penale privata. Si tratta di una posizione effettivamente fondata, per almeno due considerazioni. Da un lato, saremmo di fronte (nuovamente) ad una fatti(21) Secondo CAPRIOLI, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia, controlli, cit., p. 179 s., nella fattispecie ‘‘il vero problema... è il verificarsi di situazioni di potenziale incompatibilità dell’organo giudicante: non si vede, infatti, come possa sottrarsi al dubbio di parzialità il giudice di pace dibattimentale che abbia provocato l’instaurazione del processo ritenendo non manifestamente infondato... il ricorso della persona offesa; o che, all’inverso, abbia provveduto... esprimendo un giudizio... di manifesta infondatezza del ricorso, quando il pubblico ministero decida successivamente di esercitare l’azione penale o vi sia costretto dal giudice di pace circondariale all’esito della procedura di archiviazione’’. V. altresì MARZADURI, in AA.VV., Compendio di procedura penale, cit., p. 195. (22) CARLI, Il ‘‘ricorso immediato’’ innanzi al giudice di pace, cit., p. 1534: il complesso delle disposizioni integra un vero e proprio potere di accusa; ‘‘sia pure... in forma ‘antecedente’ e ‘sussidiaria’ rispetto al pubblico ministero, alle cui determinazioni sarà peraltro formalmente riconducibile, invece, il definitivo thema decidendum destinato a costituire il nucleo essenziale di quella ‘udienza di convocazione delle parti’... che apre la via... alla fase dibattimentale. E, in tal senso, che il potere di impulso processuale non integri così pure un potere di azione. Se in estrema sintesi secondo gli accennati principi l’azione può essere individuata nel ‘potere di attivare il processo onde conseguire la decisione cui il promovente ha interesse’, siffatta prerogativa sembrerebbe dover competere alla persona offesa che abbia attivato il ricorso anche al solo scopo di conseguire un’affermazione di mera responsabilità del reo. Introducendo all’uopo il giudizio a prescindere dall’eventuale contrarietà del pubblico ministero che, nel caso, ex lege conserva solo un limitato potere di opposizione’’. (23) La ricostruzione in questi termini, si è visto, è di MARZADURI, op. loc. cit.


— 630 — specie analoga al rito pretorile (24) vigente il codice Rocco, e dunque non sconosciuta al nostro ordinamento (25), e proprio per ciò, allora, percorribile ancora una volta, pure se, almeno come scelta di fondo, contraria alla innovazione del codice vigente ed alla c.d. svolta tendenzialmente accusatoria. Da altro lato, è vero che col ricorso l’offeso trasmette al giudice un atto astrattamente parificabile all’esercizio dell’azione, ma è altresì vero che, anche indipendentemente dalle determinazioni dell’organo naturalmente deputato, ove il pubblico ministero ritenga il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, si pronuncerà nei confronti del giudice in tal senso, così virtualmente impedendo che si dia corso all’azione. Dunque, v’è comunque un controllo del giudicante in ordine alla possibilità di procedere e pervenire in ogni caso ad una sentenza; cosa che, viceversa, si verifica sempre per il caso in cui sia il pubblico ministero ad esercitare l’azione, ed a suscitare il controllo del giudice preposto. Il giudice, a seguito della richiesta dell’organo pubblico dell’accusa, non potrà che provvedere con una sentenza, ove abbia a rigettare la domanda, ovvero schiudendo le porte ad una successiva sentenza dibattimentale, ove ritenga di accogliere la richiesta di rinvio a giudizio. Dunque, esercitata ritualmente l’azione, si arriva in ogni caso ad una sentenza; non così nel caso di cui si discorre, in cui il giudice di pace ha la possibilità di rigettare il ricorso della persona offesa; né sembra che ciò possa avvenire con sentenza, dovendosi, piuttosto e visto l’intero art. 26 stesso decreto (26), seguire la via dell’ordinanza. (24) LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, 2000, p. 96, afferma come, nel vecchio codice, il rito pretorile costituisse una deroga al principio ne procedat iudex ex officio, posto che in quel rito ‘‘mancava il pubblico ministero nella fase precedente il dibattimento mentre nella fase dibattimentale vi era soltanto un rappresentante del pubblico ministero. Non v’è dubbio, quindi, che il pretore organo giurisdizionale iniziasse d’ufficio il processo penale’’. (25) La miglior dottrina così illustrava il fenomeno: ‘‘non esiste un ufficio del pubblico ministero presso il pretore. L’art. 72 ord. giud. stabilisce in proposito che ‘il pretore inizia ed eservita l’azione penale per i reati di sua competenza... e provvede a quant’altro rientra nella funzione del pubblico ministero’. Frasi del genere hanno suggerito la sorprendente idea di una duplice e successiva configurazione organica del pretore: pubblico ministero sino a un dato istante, poi giudice; e di qui la conclusione che anche nel procedimento di pretura sia rispettato il canone ‘ne procedat iudex ex officio’. Quasi patetica la fiducia dei giuristi nell’onnipotenza delle parole: convinti di poter truccare anche i fatti più ribelli, architettano formula bizzarre per nascondere la realtà; nel caso in esame dovremmo descriverla così: il pretore è una sopravvivenza del processo inquisitorio ossia un organo nel quale coesistono le funzioni di accusatore e giudice, figura bivalente malgrado l’apparizione nel dibattimento di una pallida larva di pubblico ministero, i cui esemplari sono identificati dal già citato art. 72 commi 2 e 3 ... Basti pensare che la contestazione suppletiva prevista dall’art. 445 nel procedimento di pretura può essere formulata d’ufficio’’. (26) Stranamente, il legislatore, per il caso in cui il giudice di pace ritenga la propria incompetenza (per materia o per territorio, come si desume dai commi 3 e 4 dell’art. 26 in parola), ha stabilito espressamente che vengano trasmetti (al pubblico ministero) o restituiti (al ricorrente) gli atti per l’ulteriore corso del procedimento. Viceversa, per il caso discipli-


— 631 — Tuttavia e come già fatto presente, anche così più correttamente interpretata, la norma non sfugge ad evidenti censure, segnatamente in relazione ai principi che il codice vigente, tendenzialmente accusatorio, intendeva perseguire, e che nel caso di un giudice che abbia ad esercitare l’azione penale direttamente innanzi a sé non sembrano punto rispettati (27). In sostanza, la lettura delle norme in parola conduce all’affermazione per cui, nelle ipotesi di ricorso immediato della persona offesa, e nel silenzio del pubblico ministero, l’azione viene esercitata dal giudice di pace, con patente violazione del principio ne procedat iudex ex officio. Del resto, così argomentando ci si potrà sì dolere di una scelta atipica del legislatore (che si è discostato dai principi del codice vigente), ma almeno non si arriverà integralmente a consentire la strumentalizzazione del processo penale per il perseguimento di fini del tutto privatistici, che, come visto, rischierebbe altrimenti di verificarsi, a vantaggio del leso e ad ingiusto discapito della persona sottoposta alle indagini. In conclusione, e con la dovuta specifica che quanto sinora tratteggiato può accadere solo nel caso di reato perseguibile a querela, restando, per il resto, il rito disciplinato in modo analogo a quello ordinario, appare opportuno domandarsi se, in luogo di un sistema quanto meno discutibile quale quello dell’esercizio dell’azione da parte del giudice, non sarebbe stata iniziativa migliore quella di una depenalizzazione (28) almeno pari, come quantità di reati, a questa ibrida creazione di azione penale essenzialmente privata (recte anche senza iniziativa del pubblico ministero). Un ulteriore rilievo, in chiusura, appare dovuto. Il rito di cui si discorre rafforza il convincimento, già espresso, che parte civile possa divenire solo il danneggiato che sia altresì persona offesa dal reato. Invero, l’art. 23 cit., pur relativo ai soli reati perseguibili a querela (ma non però ciò solo limitato a tale categoria), recita: « la costituzione di parte civile deve avvenire, a pena di decadenza, con la presentazione del ricorso. La richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno contenuta nel ricorso è equiparata a tutti gli effetti alla costituzione di parte civile ». nato dal comma 2, in cui il giudice ritenga il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, non viene indicato il tipo di provvedimento da adottare, che però non sembra difforme degli altri due. (27) LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 96 s., specifica che le eccezioni al brocardo non sono più ravvisabili nel nuovo codice: ‘‘non v’è dubbio che l’importanza del principio ‘ne procedat iudex ex officio’ sia ulteriormente accentuata in un processo di parti, nel quale inevitabilmente la posizione di terzietà del giudice acquista un significato di estremo rilievo di modo che appare contraddittoria una instaurazione d’ufficio da parte del giudice del processo penale’’ (così, per tutti, CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, IX ed., 1987, p. 27). (28) Sul tema, per tutti cfr. AA.VV., Depenalizzazione e nuova disciplina dell’illecito amministrativo, a cura di Lattanzi e Lupo, Giuffrè, 2001, passim.


— 632 — Ora, il legislatore, così disponendo, sembra che neppure si ponga il problema della mancanza di coincidenza fra offeso e danneggiato (ovviamente in sede penale), in quanto da un lato prevede che la costituzione di parte civile debba essere contenuta nel ricorso; ma da altro lato, addirittura, prevede che ogni forma di richiesta civile, contenuta nel ricorso (penale) venga equiparata alla costituzione stessa. Ebbene, poiché il ricorso espressamente può essere presentato solo dalla persona offesa dal reato; e poiché quanto ivi contenuto (in tema di domande privatistiche) viene equiparato alla dichiarazione di costituzione di parte civile; e poiché ancora è prevista la decadenza dalla possibilità di perseguire domande restitutorie e/o risarcitorie se non congiuntamente al ricorso stesso, sembra potersene far discendere la coincidenza fra tali due soggetti, altrimenti incorrendosi in una forma di vuoto legislativo per l’ipotesi di una costituzione di parte civile da soggetto diverso dall’offeso. Vuoto, peraltro, difficilmente colmabile, coincidendo esso con la c.d. voluntas legis. Del resto, l’art. 28 successivo sembra confermare, ancora una volta, il ragionamento qui seguito, completando il discorso. Infatti, per il caso di pluralità di persone offese dal reato, e di ricorso presentato da alcuna di esse, nulla impedisce alle altre (ritualmente notiziate, giusta il precetto del precedente art. 27, co. 4) di intervenire e, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di costituirsi parte civile. Sempre la costituzione, allora, dell’offeso. Le censure espresse in relazione alla incisiva novità introdotta col rito innanzi il giudice di pace, e con l’iniziativa (in senso ampio, ossia come atto di impulso) punitiva rimessa al privato, possono chiudersi con le parole di un chiarissimo Autore (29), per cui ‘‘non può... disconoscersi (29) Così, LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., 2000, p. 91. Deve peraltro darsi contezza di una segnalazione opposta, e sicuramente autorevole, per cui il perseguire il cammino della « penalizzazione » di qualsivoglia fattispecie comunque offensiva, ha finito col rendere impossibile per il pubblico ministero esercitare l’azione penale in relazione ad ogni notizia criminis gli pervenga, e così si rischia di rendere inattuato il precetto di cui all’art. 112 Cost., violandosi anche (e peggio) gli artt. 2 e 3 Cost. Allora, per fronteggiare una situazione del genere... l’idea di una azione penale privata surrogatoria potrebbe profilarsi non solo opportuna, ma indispensabile ». Del resto, TONINI, La nuova competenza penale del giudice di pace: un’alternativa alla depenalizzazione?, cit., p. 929 s., proprio in relazione all’offeso ed all’esercizio dell’azione penale, afferma: ‘‘tra i rimedi tesi a ridurre la lentezza del processo penale italiano il più recente consiste nell’attribuzione della competenza penale al giudice di pace. In comune con la depenalizzazione vi è lo scopo perseguito: diminuire il carico di lavoro del giudice professionale, sottraendo a quest’ultimo un consistente numero di procedimenti. Si spera che, in tal modo, potendosi concentrare su una quantità inferiore di reati, il tribunale collegiale e monocratico possa recuperare una qualche produttività... La necessità di rendere Giustizia ristabilendo la pace sociale ha imposto di ampliare la presenza della persona offesa dal reato’’. In modo assai più critico, CAPRIOLI, Esercizio dell’azione penale: soggetti, morfologia,


— 633 — come l’enorme numero di processi (determinato anche dalla creazione di nuove fattispecie criminose) combinato alle gravissime carenze strutturali possa in concreto vanificare l’obbligatorietà dell’azione penale e con essa il principio di legalità ed eguaglianza. Invero, se in una sede gravata da un pesantissimo lavoro giudiziario, certi processi concernenti reati di minore gravità non vengono instaurati (rendendo in tal modo possibile la prescrizione), in quanto si dà la precedenza ad altri processi aventi per oggetto reati più gravi, la vanificazione predetta indubbiamente si realizza. Da qui la necessità di individuare soluzioni che non solo mantengano il principio di obbligatorietà dell’azione penale ma ne rendano sempre in concreto possibile la applicazione. In quest’ordine di idee si rende, in primo luogo, necessaria una seria e coraggiosa depenalizzazione che diminuisca il numero delle fattispecie criminose. Affinché la sanzione penale non sia solo minacciata ma effettivamente irrogata bisogna evitare una legislazione che, al pari delle gride manzoniane, preveda con grande facilità sanzioni penali, le quali, invece, debbono essere comminate unicamente per illeciti per cui la sanzione penale appare indispensabile. Non sembra davvero che il suggerimento, così efficacemente offerto, sia stato tenuto nella minima considerazione del legislatore, che ha preferito lasciare inalterato l’effetto deterrente della pena, delegando la relativa azione al privato. A tacere dell’empirico rilievo per cui, presumibilmente, almeno nei primi tempi, il giudice di pace, non ancora eccessivamente carico di lavoro, e sollecitato dal privato (per definizione non carico di procedimenti) avrà modo di funzionare in modo assai più rapido ed efficiente che non il giudice ordinario, col risultato che se persecuzione penale vi sarà, questa riguarderà proprio i reati che, anche nell’intento della riforma, sono quelli per cui la stessa azione penale poteva, in astratto, venire evitata. Nonché dell’ulteriore rilievo per cui le impugnazioni sulle decisioni del giudice di pace ridonderanno al tribunale, quale giudice di secondo grado, tutte quelle fattispecie che, onde smaltirne il ruolo, gli erano state sottratte. dott. EMANUELE SQUARCIA

controlli, cit., p. 172: ‘‘nel procedimento davanti al giudice di pace, l’interesse dell’imputato a evitare il rinvio a giudizio sembra... destinato a soccombere alle esigenze di ‘massima semplificazione’ richiamate dall’art. 17 della legge-delega’’.


LO STATUTO EPISTEMOLOGICO DELLA CAUSALITÀ PENALE TRA CAUSE SUFFICIENTI E CONDIZIONI NECESSARIE Quell’ombra che l’immagine, direi, getta sul mondo: Come afferrarla esattamente? Ecco un mistero profondo. È il mistero della negazione: Le cose non stan così, eppure possiamo dire come le cose non stanno. WITTGENSTEIN, Quaderni 1914-1916 16.11.14

SOMMARIO: SEZIONE I. Cenni introduttivi. — 1. Premessa. — 2. Necessitarismo e causalità nelle scienze. — 3. Modello nomologico e argomento deduttivo; il necessitarismo nel diritto penale. — SEZIONE II. La causa sufficiente. — 4. Critica: modello nomologico e argomento induttivo. — 5. Conferma. Il c.d. evento hic et nunc. — 6. Modello nomologico e causabilità nel diritto penale. — 7. Modello nomologico e scienza debole. — SEZIONE III. La condizione necessaria. 8. I rapporti tra causalità scientifica e conditio sine qua non. La condizione INUS. — 9. Conditio sine qua non ed esclusione di decorsi alternativi. — 10. Breve excursus: responsabilità medica e ragionamento causale. Verso un diritto penale fuzzy? — 11. Secondo breve excursus: c.d. causalità psicologica ed aumento del rischio. — 12. Terzo breve excursus: la tenuta della conditio sine qua non nelle organizzazioni complesse. — 13. Il capoverso dell’art. 41 c.p. come porta d’ingresso di decorsi causali alternativi e ‘‘controprova’’ in negativo della condizione INUS.

SEZIONE I CENNI INTRODUTTIVI

1. Premessa. — Agli inizi del secolo scorso una buona parte del mondo filosofico si trovava concorde nel celebrare la morte del concetto


— 635 — di causa (1). Poco tempo dopo, lo stesso concetto veniva ciò nondimeno importato nella scienza giuridica penale italiana che, con il codice del 1930, ne tentava la definizione attraverso un complesso articolato di norme. Le ragioni per cui, di fronte allo scetticismo imperante nell’ambito della filosofia e delle scienze naturali, il diritto rimaneva tuttavia ancorato alla nozione di causa (al punto da cimentarsi nell’impresa di definirlo), sono per lo meno due. In primo luogo, una sorta di antropomorfizzazione dell’idea penalistica di causa ne lasciava supporre la distanza concettuale dalle altre ‘‘forze’’ suscettibili del pari di innovare la realtà, ed appartenenti — sotto il profilo gnoseologico — al mondo delle scienze naturali. Da ciò, l’idea che il diritto fosse autosufficiente, vale a dire idoneo, in virtù della sua ritenuta autonomia, a spiegare da solo le sue ragioni. Come noto, fu Engisch ad invertire tale prospettiva, quando — molto tempo dopo — sostituì all’idea, assorbente, di causa come dominio umano sulla realtà, un’impostazione fondata sull’equivalenza (parificazione) delle condizioni (tutte rilevanti): fossero di origine umana o meramente naturali (2). In secondo luogo, anche in quella versione ‘‘povera’’, la nozione di causa non era priva di qualsiasi efficacia tipizzante; dovette quindi sembrare utile ai codificatori che, nella parte generale del codice, si sono fatti portatori di un ideale di stampo liberal-garantista (3).

Da allora, la giurisprudenza ha prevalentemente difeso una visione endosistematica della causalità, da piegare alle esigenze peculiari del processo penale (4). (1) Ricorrente la citazione di Russell, che proponeva di sostituire con il concetto di causa con quello di relazione funzionale. ‘‘Secondo me, la legge di causalità [...] è il relitto di un’età tramontata e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si suppone erroneamente che non rechi danno’’ (B. RUSSELL, Sul concetto di causa, in Misticismo e logica e altri saggi, Milano, 1964 (or. 1912), p. 227 s.). (2) Ci si riferisce ovviamente al fondamentale Die Kausalität als Merkmal der Strafrechtichen Tatbestand, Tübingen, 1931. In particolare, M. MAIWALD (Causalità e diritto penale, Milano, 1999, p. 9) sostiene che spetta a K. ENGISCH il merito di aver chiarito ‘‘il problema del rapporto di causalità prescindendo dalla questione dell’imputazione’’; mentre, ancora secondo il v. BURI, la volontà umana poteva essere considerata ‘‘una componente del collegamento causale, solo in quanto in essa si riconosce l’agens che ha messo in movimento le forze corporee’’. (3) Il legislatore del 1930 riteneva invero di aderire alla teoria dell’adeguatezza causale cui, sebbene implicitamente, riconosceva natura normativa, come risulta dalla sua contrapposizione alla ‘‘causa efficiente’’. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. IV, parte I, Roma, 1929, n. 44. Per un’esposizione del dibattito che accompagnò la scelta di codificazione nella parte generale, A.A. DALIA, Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Napoli, 1974, p. 74 ss. (4) E ciò, anche quando si appella formalmente alle moderne concezioni in tema di causalità. Così, di recente, il giudice di legittimità, in materia di omissione ha compiuto un’improvvisa virata rispetto ai suoi precedenti e ha declamato adesione alle indicazioni fornite nell’articolato della commissione ministeriale presieduta dal prof. Grosso (art. 14).


— 636 — Dal canto suo, invece, la letteratura giuridica — agitando il vessillo della tassatività — ha sempre cercato di recuperare al concetto di causa maggior pregnanza ‘‘sostanziale’’ rincorrendo i portati gnoseologici che si sono avvicendati nel pensiero filosofico, a ciò legittimata dalla formulazione aperta delle norme che il codice penale ha dedicato alla causalità (5). Ci si chiede se davvero giurisprudenza e dottrina corrano su binari paralleli o se per caso questi binari non siano ad un certo punto (neanche troppo lontano) destinati ad incontrarsi, quanto meno in relazione alle soluzioni proposte per tipologie di casi. Per dar corpo a questa intuizione, occorre analizzare la ricostruzione penalistica della causalità nei suoi rapporti con altre branche del sapere, evidentemente a partire dalla formulazione dell’art. 40, comma 1, c.p. 2. Necessitarismo e causalità nelle scienze. — Come è noto, il risultato dello sforzo definitorio legislativo è stato ritenuto da molti autori inappagante: il legislatore artefice di questa norma avrebbe finto di descrivere il rapporto di causalità, limitandosi a richiedere la mera consequenzialità temporale tra fenomeni (6). Maggiori indicazioni sul modello di riferimento sono state invece desunte dal comma 1 dell’articolo successivo che, nel porre sul medesimo piano ‘‘cause preesistenti’’, ‘‘simultanee’’ e ‘‘sopravvenute’’, ha fornito indizi sufficienti a ricostruire il paradigma in termini di c.d. equivalenza causale. Esiste unanimità di opinioni in dottrina riguardo alla possibilità di conciliare la teoria dell’equivalenza causale con la conditio sine qua non, pervenendo di fatto all’assimilazione tra le due costruzioni (alle quali si riferisce indistintamente il gergo penalistico) (7). Vale la pena di richiamare questo punto per sottolineare che, sotto le sembianze di un giudizio di natura eminentemente logica (risolvibile per intero in un condizionale conCass., sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, Baltrocchi; Cass., sez. IV, 29 novembre 2000, n. 2139, Musto; Cass., sez. IV, 28 novembre 2000, n. 2123, Di Cintio, tutte e tre le sentenze sono pubblicate in questa Rivista, 2001, p. 277 ss., con nota di F. CENTONZE, Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità. La prima sentenza si legge anche in Foro it., 2001, II, p. 420 ss., con nota di E. NICOSIA. L’articolato della Commissione Grosso è in www@giustizia.it. (5) Strana sorte, solo che si consideri che filosofi quali Carnap (cui la letteratura penalistica in tema di causalità deve molto) evidenziano come il termine ‘‘causa’’ trovi i suoi natali proprio in campo giuridico, e cita a questo proposito il greco ‘‘aitìa’’ nonché l’uso che del termine faceva H. Kelsen. R. CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica, Milano, 1981, p. 254 s. (6) Per tutti, G. AZZALI, Contributo alla teoria della causalità in diritto penale, Milano, 1954, p. 128 s. (7) Sulle ragioni a favore e contrarie all’assimilazione, per tutti, F. ANTOLISEI, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Torino, 1960 (ristampa, 1a ed., Padova, 1934), p. 38 ss.


— 637 — trofattuale: se non si fosse verificato A, allora non si sarebbe verificato B), il codice Rocco cela la volontà di aderire ad una precisa opzione filosofica: di abbracciare, cioè, un modello ontologico di tipo determinista, ispirato alla successione necessitata di fenomeni (8). Troppo nota è la matrice della teoria condizionalistica (9), perché vi si debba accennare. Anche a questo proposito, appare peraltro opportuno evidenziare come, in questa « prima fase » del pensiero filosofico, al pari che nella lettura recepita dal codice penale, il concetto di causa possedesse ancora una valenza duplice: innanzitutto, ambiva a costituire un fattore causale oggettivo (forza fisica che innova la realtà) (10); in secondo luogo, rappresentava un modello di spiegazione. Come si avrà modo di verificare, solo di recente l’epistemologia ha portato a conseguenza le scoperte delle scienze fisiche (11) che avevano da tempo segnato la morte di ogni impostazione deterministica e riconosciuto piuttosto l’esistenza di (8) Sulla contrapposizione tra visione deterministica ed indeterministica della causalità, vd., per tutti, S. AMSTERDAMSKY, voce Caso-probabilità, in Enc. Einaudi, Torino, 1977, II, p. 668 ss.; di recente, cfr. anche F. LAUDISA, Causalità. Storia di un modello di conoscenza, Roma, 1999, p. 17 ss.; E. AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in questa Rivista, 1999, p. 393 ss. (9) La formulazione più famosa della teoria (in certa misura ascrivibile già al pensiero aristotelico) è in J.S. MILL, Sistema di logica deduttiva e induttiva, Torino, 1988 (or. 1843), I, p. 457 ss. Afferma l’autore: « La legge di causazione, il cui riconoscimento è il pilastro fondamentale della scienza induttiva, non è altro che questa familiare verità: grazie all’osservazione si trova che tra ogni fatto della natura e un certo altro fatto che l’ha preceduto, vige l’invariabilità della successione indipendentemente da tutte le considerazioni sul modo ultimo in cui si producono i fenomeni e da ogni altra questione riguardante la natura delle ‘‘cose in sé’’ » (J.S. MILL, Sistema, cit., p. 458). È appunto contro tale visione che si appuntarono gli strali critici di B. RUSSELL, Sul concetto di causa, cit., p. 235 ss. (10) Vale a dire, ‘‘causa motrice’’ di aristotelica memoria (‘‘è detto causa ciò da cui è dato l’inizio del cambiamento o della quiete: per esempio [...] ciò che produce di ciò che è prodotto e che fa cambiare di ciò che cambia’’ (ARISTOTELE, Fisica, II, 3, 194b pp. 25-35), cui hanno continuato ad ispirarsi talune risalenti impostazioni penalistiche in tema di causa efficiente, peraltro non ancora del tutto abbandonate dalla giurisprudenza. Così, STOPPATO, Evento punibile, Padova-Verona, 1898, p. 60 ss. Vd. anche V. MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 5a ed., vol. I, § 244; A. SANTORO, Il caso fortuito nel diritto penale, 2a ed., Torino, 1956, p. 285 ss.; E. BATTAGLINI, L’interruzione del nesso causale, Milano, 1954, p. 34 ss.; PUNZO, Il problema della causalità materiale, Padova, 1951, p. 46; E. ALTAVILLA, La colpa, Roma, 1950, p. 124 ss.; F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto penale, I, Milano, 1943, p. 187 ss. In questa prospettiva, può essere interessante notare come la scienza penalistica qualifichi talvolta la causalità come ‘‘principio’’ (di recente, ancora R.A. CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, p. 9 ss. il quale opera però poi una ricostruzione critica della dimensione ontologica del concetto). (11) Quasi di stile è il rinvio alla scoperta della meccanica quantistica ed al principio di indeterminazione formulato da Heisemberg nel 1927 (in base al quale esiste un limite oltre il quale non è possibile misurare con precisione coppie di variabili dinamiche come posizione e velocità di un sistema microfisico).


— 638 — processi fisici intrinsecamente aleatori (12), negando dunque dignità al concetto ontologico di causalità (si definisce questa, convenzionalmente, la « terza fase »). Nel lungo periodo intermedio, che si potrebbe ascrivere alla « seconda fase », gli sviluppi della filosofia hanno invece mantenuto le due nozioni di causalità, nonostante il disagio generato dalla scissione tra il concetto ontologico, che voleva la causa ancora necessitata, ed il significato epistemico di quest’ultima, sviluppatosi invece su base probabilistica, quale inevitabile riverbero dei limiti dell’osservazione (per sua natura finita) (13). Il merito di aver suturato insieme le due accezioni è generalmente attribuito a filosofi della generazione di Carnap, Nagel ed Hempel i quali, pur rivendicando l’importanza dell’esperienza, contrastarono gli atteggiamenti ‘‘rinunciatari’’ dei loro predecessori, attraverso la valorizzazione del ‘‘metodo probabilistico’’ (la corrente va sotto il nome di positivismo logico o neoempirismo) (14). In sintesi, al di là delle differenze di accento e di terminologia, gli esponenti di questo indirizzo sono stati accomunati dallo sforzo di spingersi oltre la mai rinnegata premessa delle correnti empiristiche (di origine humeana), consistente nel ricondurre la conoscenza scientifica esclusivamente all’osservazione dei dati sensibili (15); costoro tentarono, per contro, di comporre la contrapposizione tra (12) Tra i primi a denunciare la rinuncia da parte della scienza alla validità ineccepibile del principio di causalità (la cui applicazione rigorosa presuppone una misurazione precisa, in sé non realizzabile), M. SCHLICK, Lineamenti di filosofia della natura, in Tra realismo e neopositivismo, Bologna, 1974, p. 278 s. Per la ricostruzione dei rapporti tra scienza giuridica penale e filosofia della scienza, si rinvia all’ormai classica trattazione di M. MAIWALD, Causalità e diritto penale, cit. (13) Tracce di siffatto disagio, secondo alcuni, sarebbe peraltro rinvenibile già in Hume. Questi, pur essendo generalmente ritenuto il padre dell’empirismo (ha evidenziato, per primo, con assoluta chiarezza la natura empirica e finita della conoscenza) non avrebbe comunque rinunciato del tutto all’idea deterministica di causa. Sul punto, F. LAUDISA, Causalità, cit., p. 59 ss. (14) Fondamentali le trattazioni di E. NAGEL, La struttura della scienza, Milano, 1981 (or. 1961); C.G. HEMPEL, Filosofia delle scienze naturali, Bologna, 1968 (or. 1966); R. CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica, Milano, 1971 (or. 1966); ID., The Logical Foundations of Probability, Chicago, 1950 (2a ed. 1962). Ancor prima, si era distaccato dalle premesse empiriste H. REICHENBACH, Causalità e probabilità, in La nuova filosofia della scienza (a cura di M. REICHENBACH), Milano, 1974 (or. 1930), il quale sostenne la necessità di legare la ‘‘verificazione’’, piuttosto che all’osservazione empirica dei fenomeni, al grado di probabilità oggettiva, intesa come frequenza relativa con cui accade l’evento, frequenza da calcolare attraverso la considerazione della classe — indefinitamente numerosa — degli eventi simili causalmente possibili. Infine, è doveroso un rinvio a D.K. LEWIS, il quale in Causation, in Journal of Philosophy, 1973, e quindi in Postscript to Causation, in Philosophical Papers, Oxford, 1986. Questi cercò di superare l’ostacolo rappresentato dalla irripetibilità ed unicità dell’evento determinatosi, e di legare dunque il giudizio controfattuale al probabilismo causale (inteso come dipendenza causale e non come causazione), coniando la nota (e di lì in poi ricorrente) immagine dei ‘‘mondi possibili’’: oggetti popolati da ‘‘controparti’’, cioè dotati di caratteristiche simili a quelle del mondo attuale. Per una critica, C. PIZZI, Eventi e cause. Una prospettiva condizionalista, Milano, 1997, in particolare p. 70 ss. (15) Così, ancora P. DUHEM, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, Bologna, 1978 (or. 1906), che riconosceva nel controllo empirico l’unico criterio attendibile per


— 639 — ‘‘leggi empiriche’’ e ‘‘leggi teoriche’’: le prime, incapaci di prescindere dall’osservazione e di assicurare la certezza (16); le seconde, idonee a conseguire tale obiettivo (perché fondate sul ragionamento deduttivo), ma solo a costo di rinunciare ad oggetti o processi osservabili (17). Ad esempio Carnap, pur riconoscendo l’impossibilità di fondare il concetto di verità sulla piena corrispondenza tra enunciati teorici e realtà (che avrebbe significato, secondo l’autore, affidarsi ad una ‘‘concezione magica del linguaggio’’) (18), cercò di tracciare un legame tra i due tipi di leggi (19); a tal fine sostenne la possibilità e l’utilità di ricorrere a quelle teoriche per ‘‘spiegare’’ le leggi empiriche, vale a dire per trovare le cause delle regolarità osservative, e viceversa (20). Analogamente, Hempel giunse ad unificare in un unico schema concettuale le due categorie, sino ad allora tenute distinte, della « predizione » e della « spiegazione »; ciò fece valorizzando lo schema logico sotteso ad entrambe (21). Con il positivismo logico, ‘‘la certezza viene [...] trasferita dalla scienza del reale alla meta scienza del possibile che, a sua volta, fornisce una teoria dimostrata della conferma per la scienza’’ (22). Causalità come necessità logica degli eventi, dunque (23). stabilire la verità della struttura teorica e specularmente negava alle leggi teoriche la natura di ‘‘spiegazione’’. (16) Sulle leggi empiriche, R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., p. 248. (17) Sulle leggi teoriche, R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., p. 279 ss. (18) R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., p. 148 ss. (19) In realtà, è bene specificare sin d’ora come anche Carnap neghi che al concetto di causa sia essenziale la componente della ‘‘necessità’’ (R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., p. 233 ss.). ‘‘La relazione causale significa prevedibilità’’ (ID., op. cit., p. 240). Sul versante, poi, delle leggi usate per la spiegazione causale, l’autore esclude che la necessità delle leggi di natura sia una necessità logica. ‘‘« Necessità logica » significa « validità logica »: un enunciato è logicamente valido, solo se non ci dice nulla attorno al mondo; è vero semplicemente in virtù dei significati dei termini che compaiono in esso. Ma le leggi di natura sono contingenti, ossia per ogni legge è abbastanza facile descrivere senza contraddizioni una sequenza di processi che la violerebbero’’ (R. CARNAP, op. cit., p. 247 s. L’autore, quasi di seguito, prosegue osservando che: ‘‘Le leggi della logica possono essere scoperte da un logico seduto al suo tavolo, facendo segni sulla carta o anche solo pensando a occhi chiusi. Nessuna legge di natura può essere scoperta in questo modo; le leggi di natura possono esser scoperte solo osservando il mondo e descrivendo le sue regolarità. Poiché una legge asserisce che una regolarità vale per tutti i tempi, dev’essere un’asserzione che ha la natura di un’ipotesi: può sempre essere riconosciuta falsa per mezzo di una futura osservazione. Le leggi della logica, al contrario, valgono sotto tutte le condizioni possibili’’. ID., op. cit., p. 248). Sulla distinzione tra leggi sperimentali e teoria, anche E. NAGEL, La struttura, cit., p. 86 ss. (20) R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., p. 287 ss. (21) C.G. HEMPEL, Filosofia, cit. Vd. inoltre, ID., La formulazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, Milano, 1970 (or. 1952); ID., Oltre il positivismo logico. Saggi e ricordi, Roma, 1989. Si avrà ancora modo, di seguito, di constatare il fascino esercitato dal pensiero di quest’autore sulla letteratura penalistica in tema di causalità. In senso non lontano da Hempel, E. NAGEL, La struttura, cit., p. 35. (22) Testualmente, I. LAKATOS, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Milano, 2001, p. 203. (23) ‘‘Esiste una relazione logica fra la descrizione completa delle condizioni precedenti, le leggi pertinenti e la previsione dell’evento’’. R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit.,


— 640 — Quest’ambizioso tentativo di raccordo può dirsi in via di superamento (e per ragioni ‘‘di fondo’’), da parte dell’epistemologia. Anche se non mancano, a tutt’oggi, esperimenti nel senso di una rifondazione filosofica del determinismo. I pochi contemporanei che non intendono rinunciare alla compatibilità tra l’idea di un universo regolato da leggi deterministiche ed il carattere soltanto statistico di queste ultime, si vedono tuttavia costretti a ricorrere a concetti non nuovi quando, nel proporre una nozione di legge scientifica, fanno leva sulla differenza tra proprietà disposizionali e proprietà occorrenti: le prime sono meramente potenziali, e cioè sono possedute dagli oggetti a prescindere dal fatto che si manifestino o meno, ma per manifestarsi (e cioè per divenire le seconde: proprietà occorrenti) necessitano di circostanze appropriate (clausola ceteris paribus) (24). Secondo tale impostazione (25), le leggi non perderebbero il loro carattere scientifico soltanto perché esprimono proprietà disposizionali dei corpi; ed è chiaro che ciò possono fare in forma graduata, vale a dire con l’ausilio della statistica: quanto più alto è il grado, tanto maggiore sarà l’adeguatezza della legge, la sua efficacia nell’assolvere il ‘‘compito descrittivo’’ (26).

3. Modello nomologico e argomento deduttivo; il necessitarismo nel diritto penale. — La scienza penalistica non si è mostrata insensibile alle concezioni epistemologiche, ascrivibili alla ‘‘seconda fase’’, che si sono impegnate nel tentativo di salvare il concetto di causa immolando un ormai irrecuperabile determinismo ontologico sull’altare di quello logico. Di fronte alla minaccia rappresentata dall’affermazione, nella teoria come nella prassi, di modelli che dichiaratamente si disinteressavano del concetto ontologico di causalità (e che quindi sono più propriamente riconducibili allo schema assiologico dell’imputazione oggettiva: causalità adeguata, umana, ecc.); di fronte all’affermazione di spiegazioni che, in nome delle esigenze proprie dell’accertamento penale, lasciavano filtrare preoccupanti sedimenti di discrezionalità interpretativa, la dottrina non ha voluto rinunciare alla portata tipizzante del rapporto di causalità (la cui esistenza non viene quindi revocata in dubbio). Però, nel tentativo di recupep. 240. Da ciò, un concetto di necessità in senso logico. Sulla causalità come relazione logica tra gli eventi, anche E. NAGEL, La struttura, cit., p. 332 ss. (24) ‘‘Proprietà disposizionali tipiche nella scienza, come la solubilità di una sostanza o la conduttività di un filo metallico, sono possedute dallo zucchero o da un conduttore anche quando, rispettivamente, lo zucchero non è ancora sciolto e il filo non è attraversato da corrente elettrica’’. Così, da ultimo, M. DORATO, Il software dell’universo, Milano, 2000, p. 215. (25) Si tratta di un concetto di ascendenza aristotelica, che (privato della sua connotazione deterministica) ha trovato diffusione anche attraverso K. POPPER, La logica della scoperta scientifica, Milano, 1970 (or. 1934), il quale vi ricorre in pratica per distinguere il concetto ontologico di probabilità, da quello di ‘‘frequenza relativa’’, semplice manifestazione osservabile del primo. (26) M. DORATO, Il sofwtare, cit., p. 220. In verità, anche quest’artifizio non sembra riesca a diradare la coltre di dubbi che già sul piano puramente logico, si addensa sulla visione deterministica della causa.


— 641 — rare quest’ultima, si è vista costretta a riformularne il contenuto cercando, appunto, di adeguarlo ai nuovi insegnamenti in termini di maggior realismo. Il che spiega l’interesse che in tempi ancora recenti la letteratura ha dedicato al c.d. nesso di condizionamento, di cui si opera una dichiarata riabilitazione (27) nell’intento — tra l’altro — di dimostrare l’inutilità dei criteri di imputazione sul piano oggettivo (28). Nella nuova versione proposta da Stella, il nesso di condizionamento resterebbe invariato nell’impalcatura logica esteriore di giudizio controfattuale, ma sembrerebbe forgiato diversamente quanto all’essenza, laddove si ammette la possibilità di sostituire, nelle premesse del sillogismo causale, al nomos universale, una spiegazione degli eventi sulla base di generalizzazioni probabilistiche (c.d. teoria della causalità scientifica), purché — insiste l’autore — di elevato contenuto statistico (29). Ora, la dottrina in esame, quando richiama le leggi scientifiche a contenuto statistico (explanans), fa riferimento ad un concetto di probabilità di tipo empirico (fondato, cioè sull’osservazione della regolarità statitistica, frequentista, di dati fenomeni; si potrebbe dire, tipi di eventi) (30), e rinuncia espressamente all’impresa disperata di indagare l’essenza ontologica del singolo nesso causale (31). Ciò nondimeno, almeno in apparenza, la visione deterministica della causalità non viene abbandonata; al contrario, si trova condensata nel concetto di ‘‘causa contingentemente necessaria’’, e cioè necessaria in presenza di date assunzioni tacite (32). Peraltro, come sarà spiegato più diffusamente di seguito, sembra possibile dubitare della bontà di tali conclusioni, già in questo primo stadio. La ‘‘necessità contingente’’ presuppone che entrambi i relata causali siano rappresentati da (27) Si allude al fondamentale lavoro di F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1990 (ristampa integrata), il quale, a p. 18, sottolinea come per lungo tempo si sia concentrata l’attenzione prevalentemente sull’art. 41, comma 2. A tal proposito, l’A. richiama anche le osservazioni svolte in proposito da A. CRESPI, Riforme ardite e riforme ordite: le progettate modifiche al libro primo del codice penale, in questa Rivista, 1973, p. 819. (28) La critica analitica alle impostazioni allora dominanti in tema di imputazione oggettiva, è in F. STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in Leggi scientifiche, cit., Appendice, p. 388 ss. (l’articolo è pubblicato anche in questa Rivista, 1988, p. 1217). (29) Salva la specificazione, particolarmente ricorrente soprattutto negli scritti successivi dell’autore, che deve trattarsi di una probabilità assai qualificata, e cioè vicina alla certezza. Vd. da ultimo, F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2001, II pt., passim (in particolare, vd. p. 306 ss.). (30) Sul concetto di probabilità empirica e probabilità logica, infra, § 4. (31) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 95 ss., il quale si pone, d’altra parte, nel solco di una tesi che accomuna il pensiero moderno e che affonda riconoscibilmente le sue radici nella filosofia di Kant. (32) Si tratta di una posizione più di recente ribadita dallo stesso Stella (F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 157 ss. nonché, con riguardo alla ‘‘prova particolaristica’’, p. 292 ss.).


— 642 — eventi concreti; non funziona più, invece, se in una premessa del sillogismo si ricorre a eventi generici.

Fin qui, la letteratura penalistica sembrerebbe comunque muoversi all’interno delle coordinate tracciate dall’epistemologia moderna (33). Ma è davvero così? A ben vedere, frizioni emergono non appena si approfondisca il discorso nella pretesa di operare una perfetta trasposizione delle acquisizioni di questa branca della conoscenza. In particolare, è bene anticipare sin d’ora che, quand’anche sia possibile salvare, nell’ambito delle scienze formali e forse anche di quelle empiriche, un concetto di causa ‘‘in senso forte’’, altrettanto non si può fare nel diritto penale, dove il concetto di causa rifugge ogni impostazione di tipo deterministico. Sembra tuttavia opportuno far precedere l’indagine da alcune precisazioni che potrebbero rivelarsi utili per una migliore comprensione del discorso.

SEZIONE II LA CAUSA SUFFICIENTE

4. Critica: modello nomologico e argomento induttivo. — La prima puntualizzazione investe la differenza tra inferenze deduttive ed inferenze induttive. ‘‘Un argomento deduttivo è quello secondo cui la conclusione segue dalle premesse con necessità assoluta, questa necessità non essendo questione di grado, né dipendendo in alcun modo da qualunque altro dato di fatto; in netto contrasto, un argomento induttivo è quello secondo cui la conclusione che si afferma segue dalle premesse solo con probabilità, questa probabilità essendo questione di grado e dipendente da eventuali altre circostanze’’ (34). Si aggiunga sin da ora che, nelle in(33) Si veda, specificamente, F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 123 dove, al fine di atteggiare il nesso causale in termini di necessità, mutua le osservazioni di Carnap sulla inferenza, attraverso il metodo deduttivo, di conseguenze certe dalle premesse, vere o false che siano (R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., pp. 259-265. Analogamente, Nagel osserva che ‘‘Una spiegazione deduttiva scientifica, il cui explicandum sia il verificarsi di qualche evento o il fatto che un dato oggetto possieda una data proprietà, deve dunque soddisfare due condizioni logiche. Le premesse devono contenere almeno una legge universale, la cui inclusione nelle premesse stesse sia essenziale per la deduzione dell’explicandum; e debbono contenere inoltre un numero convenzionale di condizioni iniziali’’ (E. NAGEL, La struttura, cit., p. 38. Il corsivo è nostro). Per ‘‘condizioni iniziali’’, l’autore intende ‘‘le circostanze speciali a cui sono applicate le leggi incluse nelle premesse esplicative’’ (ID., op. cit., p. 37). Come si avrà modo di verificare di seguito, il punctum dolens riguarda proprio la (im)possibilità di ricorrere al ragionamento deduttivo in diritto penale. (34) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 43 (il testo originale è tutto in grassetto).


— 643 — ferenze deduttive, tutte le informazioni sono in un certo senso già contenute nelle premesse (la conclusione non dice nulla di più e nulla di nuovo rispetto alle premesse) e non traggono la loro validità da fattori conoscitivi estranei alle premesse stesse. Viceversa, nelle inferenze induttive, il contenuto informativo della conclusione non è interamente compreso nelle premesse (35). A voler comparare sin da ora relativi pregi e difetti, si potrebbe dire che il ragionamento induttivo, proprio perché implica che la conclusione contenga qualcosa in più delle premesse, presenta una più spiccata utilità per alcune branche della conoscenza; d’altro canto, consente di raggiungere la conoscenza soltanto in termini di probabilità e mai di necessità. Il concetto di certezza esula, quindi, dalle applicazioni del procedimento induttivo; tale procedimento può essere, al massimo, segnato da un certo grado di probabilità logica (36). Non esprimendo un rapporto di derivazione necessaria, in prima approssimazione, è possibile affermare che l’induzione non fornisce un concetto di causa necessitata.

Con ciò si passa alla seconda precisazione. Essa investe appunto la duplice accezione in cui il termine ‘‘probabilità’’ ricorre nel linguaggio della logica, dove si fronteggiano una teoria frequentista e una teoria a priori (37). La teoria frequentista, anche detta ‘‘della probabilità empirica’’, intende la probabilità come ‘‘misura della frequenza relativa’’ (38) con cui gli appartenenti ad una classe di riferimento presentano determinate proprietà (39) ed è ‘‘particolarmente adatta quando si tratti di considerare valutazioni di probabilità che derivano dalle indagini statistiche’’ (40). La teoria ‘‘della probabilità logica’’ considera invece la probabilità come una (35) Così, già J.S. MILL, Sistema di logica, cit., p. 245. Di recente, su questi aspetti, per tutti, R. FESTA, Induzione, probabilità e verisimilitudine, in G. GIORELLO (a cura di), Introduzione alla filosofia della scienza, Milano (Bompiani), 1994, p. 284 ss. (36) Le condizioni richieste per la validità di un argomento deduttivo sono soltanto due: 1) le premesse devono fornire ragioni conclusive per la verità della conclusione; le premesse devono essere vere (I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, Bologna, 1999, p. 39). ‘‘In ogni argomento deduttivo, o le premesse riescono a fornire ragioni decisive per la verità della conclusione oppure non ci riescono. Pertanto, ogni argomento deduttivo è valido o invalido’’ (p. 40). Sul metodo necessario a stabilire qual è la probabilità di un’ipotesi in presenza di una certa evidenza, R. CARNAP, Analiticità, significanza, induzione, Bologna, 1971, p. 355 ss. (37) Il primo a tratteggiare in termini chiari la distinzione è stato R. CARNAP, Logical Foundations of Probability, Chicago, 1950, § 41 A. Vd. anche ID., Analiticità, significanza, cit., p. 476 ss. Il concetto matematico di probabilità è ormai ampiamente invalso nella letteratura penalistica. Si è dunque lontani dai tempi in cui una illustre dottrina ne rilevava l’inutilità, a causa dell’impossibilità di accertare il grado numerico di possibilità con certezza in relazione agli avvenimenti umani, oltre che per la distanza del concetto dal linguaggio comune, cui il sistema giuridico è opportuno si uniformi (così, F. ANTOLISEI, L’azione e l’evento nel reato, S.A. Istituto editoriale Scientifico, 1928, p. 127). (38) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 573. (39) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 574. (40) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 573 s.


— 644 — ‘‘misura del grado di credenza razionale’’ (41); essa è detta anche a priori ‘‘perché non occorre fare nessuna prova prima di assegnare la probabilità, né prendere in esame nessuna distribuzione’’ (42). In base all’una come all’altra costruzione, ‘‘nessun evento ha una probabilità in se stesso. [...] Le due versioni della probabilità [...] concordano nell’ammettere che la probabilità è relativa all’evidenza’’ disponibile (43). In altre parole, sembra di poter affermare che la prima nozione di probabilità costituisce il frutto di una generalizzazione fondata sull’osservazione della regolarità che in una certa percentuale di casi si verifica tra due fenomeni e riguarda, per questo, tipi di eventi (evento generico). La probabilità a priori sarebbe invece un concetto legato solo ed esclusivamente all’evento specifico e non immaginabile senza di esso.

Tanto precisato sui metodi del ragionamento e sul concetto di probabilità, appare opportuno distinguere all’interno delle correnti epistemologiche cui invece la dottrina penalistica usa far indifferentemente richiamo. In particolare, premesso che — come si è già detto — tutte le posizioni della « seconda fase » (empirismo logico) prendono atto delle difficoltà che si riscontrano nell’individuazione di leggi universali e concordano nel sottolineare l’irrinunciabilità dell’approccio empirico nella ricerca scientifica, la differenza consiste in ciò: secondo alcuni autori, l’utilizzazione del paradigma deduttivo si assocerebbe sempre all’impiego di leggi universali, e cioè di leggi che non tollerano eccezioni (44); altri, invece, pur senza negare questo binomio, cercano di separare più (41) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 572. (42) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 573. (43) I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 575. (44) Paradigmatica la posizione di Hempel il quale, nella sua teoria sulla ‘‘sistematizzazione deduttiva e induttiva’’ (volta a dimostrare la necessità di ricorrere a leggi teoriche generali per la spiegazione degli eventi), affermava l’indissolubilità dei binomi: ‘‘legge universale-deduzione’’ e ‘‘legge probabilistica-induzione’’. Esempi, ormai classicamente tramandati di legge generale universale sono ‘‘tutti i corvi sono neri’’, e la prima legge della dinamica di Newton, secondo la quale ogni corpo materiale, se non subisce l’azione di qualche forza esterna, persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. È invece una legge generale statistica quella che esprime nel 92% la probabilità che una persona mai colpita in precedenza da rosolia e rimasta accanto ad un’altra affettane, si ammali a sua volta. Facendo applicazione di leggi del primo tipo per la spiegazione dell’evento concreto, la conclusione sarebbe sempre desumibile in termini di certezza; viceversa, ricorrendo alle sistematizzazioni induttive, l’evento potrebbe essere predetto soltanto in termini di probabilità. C.G. HEMPEL, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, Milano, 1970, p. 99 ss. [l’autore ritiene l’utilizzabilità del paradigma nomologico anche in storia. Sul punto, specificamente, ID., Explanation in Science and History, in AA.VV. (a cura di H. DRAY), Philosophical Analysis and History, New York, 1966, p. 95 ss.]. A questa concezione sembra riconducibile anche il pensiero di G.H. VON WRIGHT, Spiegazione e comprensione, Bologna, 1988 (or. 1971), e di W. STEGMÜLLER, Probleme und Resultate der Wissenschaftstheorie und analytischen Philosophie, I, Wissenschaftliche Erklärung und Begründung, 1974, p. 153 ss. Vd. anche E. AGAZZI, La spiegazione causale, cit., p. 401 ss., il quale, pur ritenendo che soltanto le leggi scientifiche universali assicurino la certezza del ragionamento deduttivo, ammette la possibilità di ricorrere a leggi statistiche, purché rappresentino


— 645 — chiaramente il piano formale della validità da quello sostanziale della fondatezza, e ritengono ammissibile la ‘‘previsione’’ causale dell’evento anche a seguito dell’applicazione di leggi che esprimono mere probabilità (empiriche) (45).

È chiaro che, data la rarità di leggi universali poste a disciplina di fenomeni naturalistici, è soprattutto al secondo filone che la letteratura penalistica attinge spunti utili per rifondare il concetto di causa in senso forte (46). La dottrina in considerazione, infatti, individua ovviamente l’optimum nel ricorso alle leggi universali, ma quando ciò (come spesso accade) non sia possibile, non si scoraggia, ed affida le chances di successo dell’indagine sul fenomeno causale alla mediazione di un processo mentale di tipo deduttivo (tale considerazione, che ricorre più o meno esplicitamente nei lavori sulla causalità (47), si evince anche dall’uso della locuzione ‘‘sussunzione sotto leggi scientifiche’’, la quale allude evidentemente ad un procedimento di tipo classificatorio con natura, appunto, deduttiva). Il pensiero dominante sulla causalità penalistica sembra dunque esemplificabile nel modo che segue: è stato generalmente osservato come dagli eventi della classe A, (date certe condizioni C), derivano gli eventi della classe B; A’ appartiene alla classe A; (in presenza delle condizioni C’) è altamente credibile che da A’ derivi un evento B’. L’ ‘‘altamente credibile’’ si lega, in questa stringa, alla presenza, in premessa maggiore, di una legge che esprime una data probabilità empirica; ma sarebbe un ‘‘sempre’’ se la legge recasse, invece, una regolarità senza eccezioni. In altre parole, secondo l’impostazione riferita, le leggi sono sì formulate a seguito di un procedimento empirico e quindi, nella migliore delle ipotesi (vale a dire, se esprimono una regolarità senza eccezioni), scontano almeno il rischio di non essere confermate da un’osservazione futura (irrealizzabile nella sua completezza) (48); tuttavia, l’argomento logico-deduttivo, pur in presenza di premesse non universali, consentirebbe di continuare a leggere il rapporto causale in chiave di necessità, poiché lo schema del ragionamento dovrebbe assicurare la certezza (in termini, beninteso, di validità logica: a prescindere cioè dalla verità delle premesse e, quindi) della conclusione. Non altrimenti sembrano interpretabili alcune affermazioni, pure ricorrenti nella dottrina penalistica, per cui sarebbe causa la ‘‘condizione necessaria’’ con certezza o con probabilità vicina alla certezza. regolarità fenomeniche in una percentuale estremamente elevata, e confinante con la certezza. (45) Per tutti, ancora R. CARNAP, I fondamenti filosofici, cit., p. 31 s. Cfr. anche p. 259 ss. (46) Il riferimento è sempre, ovviamente, a F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., specialmente p. 172 ss. Più esplicitamente, ID., Giustizia e modernità, cit., p. 180 s. (47) Nel senso della possibilità di utilizzare il metodo deduttivo, si esprime, F. STELLA, in termini più o meno espressi, rispettivamente, in Giustizia e modernità, cit., p. 180 s. ed in Leggi scientifiche, cit., p. 121 ss. (48) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 153 ss.


— 646 — Sia lecito tuttavia dubitare che le cose stiano davvero in questi termini. Prima ipotesi. È quella apparentemente più semplice (anche se quasi meramente ipotetica): la premessa del ragionamento contiene una legge che esprime una regolarità nella successione di fenomeni senza eccezioni (legge universale). Si tratta di un caso in cui la ‘‘necessità’’ del rapporto di causalità è pacifica per la dottrina penalistica, ma anche — è bene dirlo — per gli empiristi logici. Tuttavia, una corrente epistemologica dubita che si possa parlare di causazione necessaria, mettendo in discussione la stessa utilità del modello deduttivo. Anche in questi casi, si dubita cioè della possibilità di far discendere la necessità del singolo evento dallo schema logico usato e cioè dal fatto che ‘‘una legge universale esprima un nesso causale (quindi necessario) tra fenomeni’’ (49). Semplificando, a costo di inesattezze, un discorso complesso, l’essenza delle obiezioni da tempo mosse nei confronti di ogni concezione deterministica di causa risiede nella constatazione che la nozione di causa necessitata non può prescindere dalla seguente relazione transitiva: alla proposizione: ‘‘A è causa di B’’ corrisponde sempre l’altra: ‘‘B è effetto di A’’ (ossia: ‘‘l’assunzione dell’aspirina ha fatto cessare l’emicrania di Tizio’’; ‘‘la guarigione di Tizio dall’emicrania è effetto dell’assunzione dell’aspirina da parte dello stesso’’). Questa proprietà transitiva è possibile rinvenirla quando si sia di fronte ad eventi singolari (c.d. eventi-token); smette invece di funzionare se, come relata causali, si assumono invece tipi di evento, ciò che per definizione fa il modello nomologico in materia penale (né potrebbe essere diversamente, essendo l’evento concreto in sé irripetibile) (50). Infatti, se si impiega — mutatis mutandis — lo stesso esempio, un conto è dire: ‘‘l’aspirina causa la guarigione dall’emicrania’’; altro è dire che ‘‘la guarigione dall’emicrania è effetto dell’aspirina’’, essendo evidente che l’emicrania può cessare anche in conseguenza dell’assunzione di altri medicinali ovvero senza previa assunzione di alcun farmaco. In altri termini, ‘‘affermazioni come « il fumo è causa del cancro », ammesso che siano vere, sono appropriate purché vengano intese come meta-affermazioni della forma « alcuni casi di fumo sono stati causa di alcuni casi di cancro »’’ (51). (49) E. AGAZZI, La spiegazione, cit., p. 398. (50) D’altro canto, già Russell aveva constatato l’impossibilità di considerare l’evento concreto come momento del giudizio causale: « infatti, l’ ‘‘evento’’ si verificherebbe al massimo una volta, e la legge cesserebbe di fornirci alcuna informazione. Un ‘‘evento’’, dunque, è un universale definito in modo tanto ampio da ammettere che molti diversi accadimenti nel tempo ne siano altrettanti esempi » (B. RUSSELL, Sul concetto di causa, cit., p. 235). (51) B. VOGELSTEIN, So, Smoking Causes Cancer. This is News?, in New York Times, 27 ottobre 1996, citato da I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 463; C. PIZZI, Eventi e cause, cit., p. 106 ss., da cui sono state attinte le considerazioni che precedono. Si tratta, come ricordato, di osservazioni ormai generalmente condivise (per tutti, COSTANTINI-GEYMONAT, Filosofia della probabilità, Milano, 1982, p. 151 ss. D’altro canto, anche Wittgenstein osservava: ‘‘... « Leggi di inferenza » che [...] giustificano le conclusioni,


— 647 — Da una legge necessaria non si può, dunque, far discendere un evento necessario. Nell’uso ‘‘penalistico’’ dello schema nomologico-deduttivo si annida dunque un equivoco, e cioè una confusione tra necessitas consequentis e necessitas consequentiae. In altri termini, si fa discendere dalla necessità della legge (o proposizione), da intendere come verità analitica della stessa (verità, cioè, in tutti i mondi possibili), la necessità dell’evento. Necessità dell’evento che — per contro — è assai problematica, se non altro perché l’evento concreto occupa una porzione finita di tempo e di spazio. Si comprende allora chi lamenta che, nel caso di ricorso a leggi che esprimono regolarità senza eccezioni, ‘‘il ruolo della necessità viene interamente scaricato sul requisito della universalità’’ (52). La questione potrebbe apparire di lana caprina a chi (giustamente) rivendichi una nozione ‘‘profana’’ di causa, l’unica confacente ad una scienza sociale qual è il diritto in cui — conviene specificarlo — è bene difendere la convenzione di ‘‘causa necessaria’’, nonostante la sua eventuale fallacia sul piano filosofico (53). Tuttavia, si avrà presto modo di spiegare come, anche a restare nelle coordinate giuridiche tradizionali, il risultato appare difficilmente conseguibile applicando i postulati della c.d. causalità scientifica. sono prive di senso, e sarebbero superflue. Ogni inferenza avviene a priori [...]. In nessun modo può concludersi dal sussistere d’una qualsiasi situazione al sussistere d’una situazione affatto diversa da essa. Un nesso causale, che giustifichi una tale conclusione, non v’è. Gli eventi del futuro non possiamo arguirli dagli eventi presenti. La credenza del nesso causale è la superstizione’’ L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, 1998 (or. 1961), da 5.132 a 5.1361 (p. 67). Sul punto, chiaramente, anche E. AGAZZI, La spiegazione causale, cit., p. 397 s., il quale esclude dunque che si sia in presenza di una necessità logica ed aggiunge come, ovviamente, neppure la mera universalità di fatto sia idonea (di per sé) a produrre una necessità logica: ‘‘Se stabilisco con assoluta certezza che tutte le monete contenute ora nel mio borsellino sono pezzi da 100 lire, posso correttamente dedurre che, se estraggo una moneta dal borsellino, questa sarà un pezzo da 100 lire; ma chi vorrà sostenere che la ‘‘causa’’ del suo essere una moneta da 100 lire è il fatto di esser stata estratta dal mio borsellino? In altri termini, come distinguere una universalità nomica (quelle che si esige dalle leggi) da una universalità statistica?’’ (ID., La spiegazione, cit., p. 398.). Sull’universalità de facto, E. NAGEL, La struttura, cit., p. 56 ss., il quale chiarisce che il tratto distintivo dell’universale di legge rispetto all’universale accidentale consiste nel fatto che solo il primo regge un condizionale congiuntivo (in particolare, p. 58). Cfr., tuttavia, le considerazioni di C. PIZZI, Eventi e cause, cit., p. 17. Si segnala il seguente circolo vizioso: ‘‘A reasonable counterfactual is one wich is supported by a law, while a generalization is a law provided it can lend support to counterfactual assertions » (W. SALMON, Laws, modalities and counterfactuals, in AA.VV., Hans Reichenbach: logical empiricist, London, 1979, p. 664). (52) Così, E. AGAZZI, La spiegazione, cit., p. 398. In questo senso ‘‘la legge universale esprime un nesso causale (quindi necessario) tra fenomeni’’ (ID., op. cit., ibidem). (53) La fedeltà al concetto di condizione necessaria rappresenta un momento irrinunciabile di garanzia nelle fattispecie orientate verso la produzione di un danno, e dunque più gravemente punite. In questo senso, la tendenziale immutabilità del paradigma penale della causalità, è da considerare positivamente.


— 648 — Seconda ipotesi, meno lineare ma più ricorrente (54): si faccia il caso che l’explanans contenga leggi statistiche. Per quanto ci consta, neppure i ‘‘positivisti logici’’ hanno mai sostenuto la possibilità di applicare direttamente il metodo deduttivo alle leggi empiriche. Con le semplificazioni del caso, può infatti osservarsi che la probabilità del verificarsi dell’evento concreto è una probabilità logica, diversa rispetto a quella frequentista espressa nella legge contenuta in premessa. In quest’ipotesi, dunque il modello deduttivo, prima ancora che inidoneo allo scopo, sarebbe addirittura inconcepibile (55). Tuttavia, deve darsi atto che, secondo una corrente, anche in queste ipotesi si può continuare a parlare di necessità della conseguenza (evocando pertanto un ragionamento di tipo deduttivo) (56). In tale ottica, sarebbero ipotizzabili due diverse versioni del modello nomologico a base statistica: 1) modello puro: secondo il quale, una volta assunta in premessa una legge contrassegnata da certo un grado di probabilità empirica, in assenza di ulteriori condizioni, la probabilità logica di un evento sarà identica alla probabilità empirica espressa dalla legge. Tale modello può forse esistere nella logica (salve, cioè, le precisazioni che si sono fatte precedere sul relatum del giudizio, a proposito della prima ipotesi); sicuramente non esiste nel regno delle scienze sperimentali; 2) modello spurio: per cui, in presenza di particolari condizioni iniziali o di contorno conosciute, la probabilità logica corrisponderà invece in proporzione al grado di probabilità empirica espresso dalla legge (con una tolleranza determinabile in base al calcolo delle probabilità). Questo, come si vedrà meglio di seguito, è il paradigma ricorrente nell’ambito delle scienze sperimentali. In altri termini utilizzando argomenti analoghi a quelli della dominante dottrina penalistica, alcuni studiosi ammettono la plausibilità di uno schema deterministico anche nelle applicazioni del secondo tipo. A questo proposito, osservano che ‘‘dalla legge statistico-frequentista segue logicamente in modo necessario una conseguenza che è essa pure statistico-frequentista e che, come tale, deve risultare vera se l’ipotesi è vera’’ (57). Il carattere obbligato della conclusione non verrebbe meno perché questa deriva da una legge probabilistica, né implicherebbe che anche la verificazione dell’evento debba dirsi necessitata; si è già sottolineato che il (54) ‘‘È ragionevole presumere che, per quanto la nostra conoscenza possa accrescersi notevolmente, si continuerà ad usare leggi statistiche come le premesse per la spiegazione e la previsione di numerosi fenomeni’’ (E. NAGEL, La struttura, cit., p. 83). (55) ‘‘Quando la legge è universale, nell’inferire fatti incogniti ci serviamo della logica deduttiva elementare, ma se la legge è statistica, dobbiamo usare una logica diversa, la logica della probabilità’’ (R. CARNAP, I fondamenti, cit., p. 32) (cfr. anche ibidem, p. 58 ss.). Ancora più chiaramente, E. NAGEL, La struttura, cit., p. 83, secondo il quale le leggi statistiche ‘‘non affermano che il presentarsi di un evento è invariabilmente accompagnato dal presentarsi di un altro. Asseriscono solo che, in una serie di prove sufficientemente grandi, il verificarsi di un certo evento è accompagnato dal verificarsi di un altro con una frequenza relativa invariabile. Simili leggi sono evidentemente non causali, anche se non incompatibili con una giustificazione causale dei fatti interno a cui si pronunciano’’. (56) E. AGAZZI, La spiegazione causale, cit., p. 400 s. (57) E. AGAZZI, La spiegazione causale, cit., p. 400 ss.


— 649 — determinismo rappresenta, in quest’ottica, semplicemente la conseguenza del fatto che la conclusione è già contenuta nella premessa; è dunque proprio del ragionamento deduttivo che si pretende sotteso al controfattuale della conditio sine qua non (58).

Sia nella prima, che nella seconda ipotesi (leggi universali e leggi statistiche, rispettivamente), il presupposto esplicito della conclusione ‘‘deterministica’’ è tuttavia che siano date ‘‘certe condizioni iniziali’’: un presupposto difficilmente realizzabile nel diritto penale. Andando infatti a verificare più da vicino quale sia il ruolo e la tenuta delle inferenze deduttive nelle diverse branche del sapere in cui ricorre il concetto di causalità, si muova dalla banale osservazione che, mentre la matematica e la logica (tradizionale) esauriscono la portata del loro linguaggio sul piano formale (vale a dire, della validità) (59), e consacrano pertanto il ragionamento deduttivo come uno strumento di indagine indispensabile (60), diversamente, altre branche del sapere misurano la capacità predittiva dei loro giudizi anche, se non in prevalenza, sul piano sostanziale (della verità come corrispondenza) (61). In queste, se valido, l’argomento deduttivo sarebbe astrattamente l’unico suscettibile di aspirare alla verità, ma soltanto a condizione che sia vero (rectius: fondato) (62) tutto ciò che è posto nelle premesse. Ciò nondimeno, sembra potersi affermare che, nella misura in cui si basi su ipotesi (63), la tecnica argomentativa in esame sia utile per (= utilizzabile da) (58) Così Agazzi, il quale peraltro conclude osservando la difficoltà di pervenire comunque alla conoscenza della causa del singolo evento, dal momento che questo — proprio perché singolo — non può essere ‘‘immerso nelle prove’’, con la conseguenza che ‘‘non siamo in grado di attribuirgli come causa quella che la legge statistica prevederebbe, se non con un grado di fiducia proporzionale alla probabilità insita nella legge di copertura’’. Da ciò l’opportunità di usare come parametro leggi statistiche che esprimano una probabilità vicina ad 1 (e cioè, alla certezza). E. AGAZZI, La spiegazione causale, cit., p. 401. (59) ‘‘Le proposizioni della logica sono tautologie’’. ‘‘Le proposizioni della logica non dicono dunque nulla. (Esse sono le proposizioni analitiche)’’ (L. WITTGENSTEIN, Tractatus, cit., 6.1 e 6.11, p. 91). (60) Per tutti, D. HILBERT, Fondamenti della geometria, Milano, 1970 (or. 1899). (61) È scoperto l’uso della terminologia di Wittgenstein che, come noto, distingue i giudizi analitici da quelli sintetici: i primi sarebbero mere « tautologie », veri in ragione della loro struttura formale; ad essi appartengono le proposizioni della logica e della matematica; i secondi invece raffigurano il mondo e sono veri se corrispondono ai fatti che vi appartengono (salve le difficoltà insite nella verifica di tale corrispondenza). L. WITTGENSTEIN, Tractatus, cit., da 4.46 a 6.36311 (p. 61 ss.). (62) Sulla differenza tra verità e fondatezza, per tutti, St. E. TOULMIN, Usi dell’argomentazione, Torino, 1975 (or. 1958). Quanto ai riflessi della teoria di Toulmin sull’interpretazione del diritto, R. ALEXY, Teoria dell’argomentazione giuridica, Milano, 1998 (or. 1978), p. 63 ss. (in part., p. 66 ss.). (63) O ‘‘congetture’’, secondo il linguaggio del falsificazionismo popperiano, al cui pensiero si allude dichiaratamente in queste righe, e che rappresenta la logica continuazione delle tesi del positivismo logico. Sullo specifico problema della ‘‘falsificazione’’ di teorie che


— 650 — le scienze naturali. Qui, infatti, i metodi usuali (64) consentono di integrare la ricerca verificando (65) (anche se a posteriori) le ipotesi; permettono, cioè, di scartare quelle che risultino false in base all’osservazione, e di raggiungere progressivamente esiti conoscitivi nuovi, seppure — è chiaro — giammai definitivi (66). A differenza che in questi settori del sapere, dove l’argomento deduttivo sembra ancora proficuo perché supportato dalla ricerca sperimentale, lo stesso strumento non riesce ad assicurare una conoscenza in termini di ‘‘necessità’’ in materia penale. L’impasse è qui determinata dalla base di conoscenza disponibile, essendo ovvio che l’accertamento processuale non condivide i tempi e la natura in progress della ricerca scientifica (67), e che — a differenza di questa — si deve quindi ‘‘accontentare’’ di postulati dati già per acquisiti (68). ricorrono alla clausola ceteris paribus nella spiegazione di fenomeni osservabili, I. LAKATOS, La metodologia, cit., p. 36 ss., che anche a questo fine ha proposto la sostituzione del suo falsificazionismo sofisticato a quello ingenuo di Popper (in particolare, vd. op. cit., p. 47 ss.). (64) Primi tra tutti, i famosi cinque metodi di Stuart Mill che vale qui soltanto citare: metodo dell’accordo; metodo della differenza; metodo congiunto dell’accordo e della differenza; metodo dei residui; metodo delle variazioni concomitanti. J.S. MILL, Sistema di logica, cit., I, p. 536 ss. (65) A rigore, più che di verifica, si dovrebbe parlare di conferma. Infatti, una verifica in senso stretto non è possibile: anche i principali avversari dell’empirismo riconoscono che le osservazioni successive potrebbero sempre smentire le ipotesi. (66) Questa era invero già l’essenza del tentativo, esperito dai ‘‘probabilisti’’, di recuperare il concetto di verità. Si precisa che tale esperimento, consistente nel conciliare due realtà (quella logica e quella empirica) tra loro così eterogenee, ha lasciato molti insoddisfatti. Sempre più frequenti sono infatti le critiche opposte a questo modo di procedere, mosse nell’ambito delle scienze empiriche. In particolare, viene contestata l’universalità o, comunque, la polivalenza, che quegli autori pretenderebbero di assegnare al loro metodo di indagine: così, dopo aver premesso che è stato prevalentemente Carnap a ‘‘dimostrare che la probabilità logica può essere trattata come una relazione « deduttiva » o analitica tra proposizioni’’, P. VINEIS (Il crepuscolo della probabilità, Torino, 1999, p. 29) giudica di dubbia utilità pratica la conclusione cui lo stesso si giunge per tal via: ‘‘una predizione probabilistica intesa come relazione logica (...) non è verificabile perché è indifferente a ciò che realmente accadrà. Dire che « le probabilità che domani piova sono una su cinque » è una previsione che non può essere né verificata né falsificata, in quanto ciò che accadrà domani è indifferente alla relazione logica tra proposizioni [...]. Riguardo a Carnap, non si può pensare che la probabilità non abbia nulla a che fare con la predizione e con una successiva verifica o falsificazione delle ipotesi. (ID., Il crepuscolo, cit., p. 29 s.; il corsivo è nostro). Vineis si rifà espressamente al già citato insegnamento di Toulmin (vd. retro, nota n. 62), in particolare dove questi distingue tra argomentazioni valide (in esse la conclusione è vera se le premesse sono vere) e argomentazioni fondate (quella al contempo valida e le cui premesse sono vere), per concludere richiamando l’attenzione sull’opportunità di ‘‘spostare l’attenzione dalla validità intrinseca della forma logica delle proposizioni [...] alla fondatezza e alla pertinenza dei sostegni alla nostra inferenza’’. (P. VINEIS, op. cit., p. 34. Il corsivo è nostro). (67) Esemplarmente fotografata nella prosa di F.L. CELINE, Il dottor Semmelweis, Milano, 1988 (or. 1818-1865). (68) La caratteristica delle enunciazioni causali ‘‘is not to discover connexions be-


— 651 — Da questa prima osservazione, in apparenza non dirimente (69), discendono alcuni approfondimenti. È stato appena osservato come l’argomento deduttivo sia utilmente impiegabile dalle scienze empiriche se ed in quanto (nella premessa maggiore sia contenuta una legge universale, ed inoltre) si ipotizzino talune condizioni iniziali tacite, ancora da verificare. Si sa anche che lo strumento usato per dare ingresso alle suddette condizioni è la clausola ceteris paribus: un concetto di evidente matrice filosofica, ma che ha svolto un ruolo fondamentale altresì nella letteratura penalistica, dove se ne è fatto uso, appunto, per elaborare la nozione di causa contingentemente necessaria (70). L’aspetto debole è che, in diritto penale, le assunzioni tacite finiscono sovente degradate a mero artifizio, volto a celare lo snaturamento del ragionamento usato per l’inferenza causale. Infatti, mentre la clausola ceteris paribus nulla toglie, nel linguaggio integralmente artificiale della matematica o della logica, alla portata conoscitiva del ragionamento deduttivo, posto che questa coincide e quindi si esaurisce nella sua validità formale (su cui l’assunzione tacita non incide), il discorso muta già guardando a discipline che pretendano di interpretare il mondo reale ‘‘più da vicino’’, e cioè alle c.d. scienze empiriche. Qui, e in particolare nelle scienze naturali (prima tra tutte la biologia), segnate dall’autonomia concettuale della validità formale dalla fondatezza sostanziale, l’idoneità del modello esige, ai fini della sua stessa capacità euristica, che le condizioni, sebbene non ancora verificate, siano comunque verificabili (e che, quindi, le conclusioni siano ancora modificabili). Tanto non accade per definizione nell’ambito della conoscenza giudiziale, dove le assunzioni tacite cristallizzano la realtà nella parte che risulta visibile attraverso una specifica, delimitata, lente di osservazione, in tween types of events, and so not to formulate laws or generalizations, but is often to apply generalizations, which are already known as true and even platitudinous, to particolar concrete cases’’, H.L.A. HART and A.M. HONORÉ, Causal Judgment in History and in the Law, in AA.VV. (a cura di H. DRAY), Philosophical Analysis and History, New York, 1966, p. 214, i quali peraltro, come noto, sostengono l’esistenza di diversi concetti di causa (funzionali alle diverse branche del sapere), ed escludono la necessità per il diritto di mutuare la nozione scientifica. (69) Non possono essere le ragione della prassi processuale a legittimare dal punto di vista teorico un concetto diminuito di causa. (70) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 302. Specifica l’autore che ‘‘l’evento può essere imputato all’agente solo quando l’asserzione relativa all’esistenza del nesso di condizionamento soddisfa il requisito dell’alto grado di « conferma » o di « credibilità », e tale requisito può considerarsi soddisfatto in tutte le ipotesi in cui il giudice, dopo aver enunciato le leggi universali o statistiche pertinenti [...] abbia accertato che si sono verificate le « relative » condizioni iniziali, sempreché, sulla base dell’« evidenza » disponibile, risulti improbabile (= poco credibile) che l’evento si sia realizzato per l’intervento di « altri » processi causali’’ (F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 316. Il corsivo è nostro).


— 652 — un dato momento. Nel processo, passaggio obbligato ed esaustivo della conoscenza penale, la clausola ceteris paribus è infatti quasi sempre destinata a nascondere l’impossibilità di esplicitare tutte assunzioni contenute nelle premesse del ragionamento, dal momento che il giudice, se non è (né potrebbe venire) a conoscenza di tutte le leggi causali, tantomeno conosce la totalità delle condizioni empiriche contigue nello spazio e continue nel tempo (come può pertanto accertare che i cetera siano davvero pares?) (71). La fondamentale ricostruzione della causalità scientifica più volte citata, invero, sottolinea ampiamente questo punto laddove, in diverse parti, rivendica alla spiegazione causale una natura meramente probabilistica: e ciò, come conseguenza non soltanto del carattere statistico della legge contenuta nella premessa maggiore, ma anche della necessità di ricorrere ad assunzioni tacite nella premessa minore (72). Si è aggiunto, ora, che nel processo penale le assunzioni tacite — a differenza che nelle scienze naturali — sono, per ovvie ragioni, destinate a rimanere tali. Si tratta davvero di una precisazione trascurabile? Alla luce di quanto premesso, la necessità di fare ampio ricorso alla clausola per indicare condizioni iniziali ‘‘spesso non conosciute o soltanto azzardate’’ (73) e di colmare così le lacune nella ricostruzione dell’intero procedimento causale (74), non si limita ad inficiare la bontà sostanziale dell’argomento. Sembra piuttosto snaturarlo: e ciò — si noti — non solo in presenza di un explicans statistico, ma anche di leggi universali (75). (71) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 278 ss.; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 365 ss. Su posizioni, di maggior rigore, ID., Giustizia e modernità, cit. (72) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 280 ss., il quale oltretutto giustamente osservava: ‘‘Ciò che si vuole sostenere, insomma, è che, essendo le leggi naturali... delle asserzioni probabilistiche (...), l’aspirazione a raggiungere una certezza « deduttiva » sarebbe, per definizione, destinata a restare insoddisfatta: la spiegazione scientifica sarebbe sempre una spiegazione statistica, e ciò starebbe a dimostrare la pretestuosità dell’idea che le conclusioni fondate su ipotesi statistiche non consentano una spiegazione causale adeguata’’ ; vd. anche p. 315; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 343 ss. (73) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 285, il quale sembra di recente aver avuto tuttavia un ripensamento sul punto laddove insiste sulla necessità di una prova particolaristica e di mostrare l’esistenza di tutti gli antecedenti che assurgono a condizioni iniziali. F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., in particolare p. 299. (74) In proposito, sono riportate le considerazioni di Nagel, il quale osserva che le spiegazioni storiche di azioni individuali ‘‘adducono solo alcune delle condizioni contingentemente necessarie’’ (E. NAGEL, La struttura, cit., p. 576). (75) Si ‘‘attualizzano’’ le critiche che si sono viste investire il problema del relatum causale. L’impossibilità di prescindere, in diritto penale, dalle assunzioni tacite, induce quindi a discostarsi anche dal modello hempeliano, che sembra invece far discendere sempre dall’impiego di leggi universali, conclusioni certe. A tale modello si richiama sovente la letteratura penalistica. Per tutti, M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in questa Rivista, 1999, p. 47.


— 653 — Più chiaramente, nella misura in cui le assunzioni tacite siano suscettibili di comprendere fattori causali alternativi che — già si sa — resteranno probabilmente ignoti, esse finiscono con il trasfigurare il modello, mutandolo da deduttivo in induttivo (76). In questi casi (che sono la regola), il ragionamento non regge l’impatto con l’evento concreto e, pur mantenendo una struttura sillogistica, non riesce ad assicurare che la conclusione derivi soltanto dalla premessa (77). Non si sarà forse al cospetto dello schema ‘‘basico’’ di induzione, il quale assume quale primo momento dell’indagine l’evento verificatosi, e poi cerca di spiegare quest’ultimo procedendo in senso ascendente attraverso generalizzazioni progressive (ché, anzi, le leggi espressione di una regolarità nella successione di fenomeni continuano in questo caso a collocarsi nella premessa maggiore del sillogismo giudiziario). Nondimeno, l’induzione non si estrinseca esclusivamente nel modello dinanzi riferito (78), potendo avvalersi di una varietà di strutture conoscitive, la più frequentemente utilizzata delle quali è quella ‘‘analogica’’ (79); a questa, in ultima analisi, appare riconducibile anche l’applicazione penalistica del modello nomologico.

Ad ogni modo, a prescindere dalle classificazioni, una volta riconosciuta la difficoltà di definire in positivo quale sia il tratto caratterizzante dei ragionamenti induttivi (di certo si sa solo che, in essi, le conclusioni contengono qualcosa di ulteriore rispetto alle premesse) (80), preme ricordare ciò che si è già sottolineato in precedenza: il modello induttivo, a Una variante della coppia concettuale hempeliana, anch’essa particolarmente diffusa nel gergo penalistico, è quella che contrappone il paradigma ‘‘nomologico-deduttivo’’ (cui si riconduce, nell’interpretazione postuma la causalità scientifica) a quello ‘‘stocastico-induttivo’’). Per tutti, C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. med. leg., 1992, p. 821 ss. (76) Come, d’altronde, meno o più esplicitamente ammesso dallo stesso Stella, in alcuni passaggi dei suoi fondamentali scritti (così, F. STELLA in Leggi scientifiche, cit., pp. 280, 315, nonché in La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 365). (77) Sulla conoscenza giudiziale induttiva, vd. le considerazioni di F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2001, p. 580 ss. (78) Per tutti, I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 42. (79) Sul punto, sempre I.M. COPI-C. COHEN, Introduzione alla logica, cit., p. 463 ss. Per una rassegna delle diverse forme di induzione, C. PIZZI, Teorie della probabilità e teorie della causa, Bologna, 1983, p. 59 ss. (80) Si tratta di un aspetto favorevolmente apprezzabile: come si è già avuto modo di evidenziare, sono infatti sempre più numerosi i detrattori del modello nomologico-deduttivo puro, che ne lamentano la scarsa capacità euristica nelle scienza. ‘‘Per convincersi che la deducibilità da enunciati nomici non è sufficiente a spiegare, ci si domandi che cosa aggiunge alla nostra comprensione del perché questo particolare corvo è nero, o questo corpo cade al suolo, l’affermazione che tutti i corvi sono neri o tutti i gravi cadono al suolo. In quest’ultimo caso poi, e persino in quello della legge gravitazionale di Newton, il fatto che si abbia una descrizione quantitativa del fenomeno non aggiunge molto alla nostra comprensione del perché avviene, anche se la descrizione matematica ci fornisce informazioni di fondamentale importanza sul come avviene’’ (M. DORATO, Il software, cit., p. 166). Per converso, ad esempio in biologia, si sono affermate, con grande profitto sotto l’a-


— 654 — differenza del suo antagonista, non reca mai con sé la certezza logica della conclusione, bensì soltanto un (più o meno alto) grado di probabilità logica, il quale si aggiunge — secondo un calcolo oltretutto complicato alla probabilità empirica delle premesse. Risulta, così, come il ragionamento causale penalistico fondato sul paradigma nomologico non consenta di conseguire la certezza (neanche quella logica, del ragionamento), e svelato, dunque, l’equivoco in cui pare incorrere la parafrasi giuridica del neoempirismo (81). D’altro canto, forse perché in fondo consapevoli di questa realtà, la dottrina e la giurisprudenza che aderiscono al modello nomologico insistono nel richiedere sempre che le leggi scientifiche di riferimento esprimano una probabilità molto alta, vicina alla certezza (82): laddove è invece intuitivo, oltre che esatto (ma il punto sarà affrontato di seguito), ricorrere, per la spiegazione causale, anche a leggi statistiche dotate di un contenuto bassissimo di probabilità, laddove si possieda la certezza che nel concreto decorso accadimentale non siano intervenuti fattori causali alternativi, e cioè nelle rarissime ipotesi in cui il giudice riesca a sciogliere le riserve, avendo previamente verificato la presenza di tutti i cetera assunti come pares. Per fare un esempio elementare, una legge secondo cui un certo alimento produce avvelenamento nel 5% delle persone che lo ingeriscono, nonostante esprima una percentuale piuttosto bassa, può dirsi dotata di capacità predittiva adeguata se il soggetto che accusa i sintomi dell’avvelenamento non abbia ingerito altra sostanza che quell’alimento. L’atteggiamento di rigore di cui si è detto cela, allora, una preoccupazione di valore (in senso garantista) che poco ha a che fare con i postulati epistemologici cui asserisce di attingere. Anticipando quel che sarà più diffusamente spiegato di seguito, il recupero di un grado elevato di probabilità empirica nella premessa del ragionamento mira piuttosto a compensare l’impossibilità di garantire la certezza logica della conclusione, in conseguenza dell’inutilizzabilità — causa, evidentespetto del progresso conoscitivo, ‘‘teorie a medio raggio’’, e cioè segnate da ‘‘leggi che sono intermedie tra la semplice osservazione di regolarità empiriche e affermazioni universali sulla natura. Queste teorie a medio raggio hanno la peculiarità di essere fortemente basate su un rafforzamento reciproco tra diversi tipi di osservazioni, a diversi livelli della realtà e includendo un riferimento alle leggi di base della natura’’ (P. VINEIS, Il crepuscolo della probabilità, cit., p. 81). (81) Sono queste le ragioni per cui lo schema nomologico rischia a volte di rivelarsi insoddisfacente proprio in relazione ai fenomeni naturali in vista della cui spiegazione era stato immaginato e a tal fine trapiantato dal suo habitat (a ciò si aggiunga che su di esso vanno addensandosi le minacciose nubi del fuzzy sets. Sul punto, tuttavia, infra, § 7). Ritiene che, in diritto penale, non possa esigersi più che una probabilità in ordine alla presenza di tutte le condizioni marginali, l’assenza di fattori di disturbo, ecc. K. VOLK, Sulla causalità nel diritto penale, in Sistema penale e criminalità economica, Napoli, 1998, p. 98. (82) In tal modo, si finisce con il richiedere sempre l’adeguatezza degli atti. Sul punto, peraltro, le eloquenti parole di Antolisei (citate anche da F. STELLA, La descrizione dell’evento. I. L’offesa. Il nesso causale, Milano, 1970, p. 27, nota 37). ‘‘L’idoneità astratta (in sostanza, la probabilità, il pericolo) è un quid che non ha nulla a che vedere con la connessione reale dei fenomeni, la quale sussiste incontestabilmente anche quando quella manca’’ (F. ANTOLISEI, Il rapporto di causalità, cit., p. 127).


— 655 — mente, la lacunosa conoscenza delle premesse — dell’unico paradigma conoscitivo suscettivo di assicurare tale certezza nel ragionamento, e cioè del modello deduttivo.

Si giunge allora ad una prima, parziale, conclusione. Anche quando attinge alla ‘‘seconda fase’’ del pensiero epistemologico, la conoscenza penale rinuncia a conoscere le assunzioni tacite ed ammette la possibilità di includere altre condizioni eventualmente inficianti la legge; ma così facendo, non si avvede che, pur continuando ad evocare il concetto di condizione contingentemente necessaria (83), fa piuttosto riferimento ad una nozione di causa strutturalmente sufficiente (84). Né — si teme — potrebbe essere diversamente. 5. Conferma. Il c.d. evento hic et nunc. — Abbandonando poi la ‘‘struttura’’ per considerare i ‘‘requisiti’’ della spiegazione (85), un’insidia ancora maggiore si annida nel rapporto tra la selezione degli aspetti ripetibili dell’evento e quella delle leggi rilevanti ai fini della sua spiegazione. In proposito, la dottrina penalistica suggerisce di prendere le mosse dalla verificazione di un evento concreto conforme all’evento astratto previsto dalla norma. Propone quindi di ridescrivere l’evento inserendovi ‘‘quegli accadimenti ed aspetti ripetibili, mancando i quali si dovrebbe dire che un evento del tipo previsto dalla norma non si sarebbe verificato hic o non si sarebbe verificato nunc’’ (86). Infine, all’evidente scopo di (83) Espressamente nel senso della sua necessità contingente, F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 112 ss.; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 349 ss. (84) In questo primo stadio dell’indagine, non sembra possibile distinguere il piano del diritto sostanziale da quello del diritto processuale. In termini più espliciti, i limiti del concetto penalistico di causa coincidono (o dovrebbero coincidere) con i limiti insiti nella prova di quest’ultima. Cfr., tuttavia, sul tema, K. VOLK, Sulla causalità, cit., p. 85 ss. (85) Si replica qui la terminologia utilizzata nell’intitolazione dei suoi capitoli da F. STELLA, Leggi scientifiche, cit. (86) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 264 s. Come noto, in diritto penale, la necessità di una più puntuale descrizione degli eventi si è posta in relazione a problemi assimilabili a quelli che in epistemologia sono definiti ‘‘sovradeterminazione’’ e ‘‘sopravanzamento’’ causale. Su questi, come anche sulla contrapposizione tra indirizzi moltiplicatori ed indirizzi unificatori, C. PIZZI, Pluralità di cause e formula della ‘‘condicio’’, in Dir. pen. proc., 1997, p. 750 ss., il quale rileva peraltro un apparente paradosso, legato all’uso del controfattuale ed alla teoria dei ‘‘moltiplicatori’’: nell’ipotesi di sopravanzamento (due killer i quali sparano contemporaneamente due colpi mortali nei confronti di Tizio), attraverso la concretizzazione dell’evento (che è diverso dall’evento astratto solo perché speciale rispetto a questo), si finisce con il ritenere causale rispetto all’evento ‘‘speciale’’ (morte di Tizio con due proiettili in corpo) un’azione che non sarebbe causale nei confronti dell’evento ‘‘generale’’ (morte di Tizio). In questi termini, C. PIZZI, Pluralità di cause, cit., p. 751, il quale tuttavia propone di risolvere il problema ricostruendo le due cause come concorrenti (attraverso l’uso di ‘‘controfattuali con antecedenti inseriti uno nell’altro’’; p. 752 ss.). Sullo stesso tema, ID., Oggettività e relativismo nella ricostruzione


— 656 — contenere il momento di libertà (o, se si vuole, di arbitrarietà) insito nella selezione degli aspetti rilevanti, avverte che ‘‘le modalità e gli accadimenti rilevanti sono selezionati anche sulla base del « tentativo di soluzione » che il giudice prende in considerazione sotto forma di « congettura esplicativa »’’ (87). Così facendo, tuttavia, il ragionamento si involge in un circolo vizioso. L’evento viene spiegato verificandone l’accadimento in base ad una successione regolare di fenomeni definita in una legge scientifica; il che significa che la legge dovrebbe essere selezionata sulla base delle caratteristiche dell’evento. D’altro canto, le caratteristiche dell’explanandum sono modellate ad hoc su quelle dell’explanans che si reputa di dover utilizzare, e cioè, sono a loro volta isolate sulla base della legge cui si presume di far ricorso. Sia chiaro: non si intende affermare che la scienza penalistica incorre in un errore metodologico. La descrizione dell’evento rappresenta uno dei punti nevralgici su cui si spaccano pure le ricostruzioni epistemologiche del rapporto causale (88). Preme piuttosto evidenziare come, anche sotto questo aspetto, sia lecito domandarsi che cosa rimane del carattere necessitato del giudizio deduttivo. Il modello proposto in diritto penale non muove dalle premesse (anche se formulate come ipotesi) per desumerne (attraverso un meccanismo di derivazione necessitata) la conclusione; e questo per la banalissima ragione che il paradigma deduttivo — come si è visto — è usato, tutt’al più, dalla ricerca scientifica per produrre leggi che poi vengono eventualmente prestate — bell’e pronte — al processo penale, il quale le usa per soddisfare i suoi bisogni, attraverso ragionamenti di tipo inferenziale-induttivo. Dal canto suo, il ragionamento giuridico, come si sa, non può accontentarsi di un evento astratto (o generico), perché questo non permetterebbe di selezionare gli antecedenti causali rilevanti. Tale ragionamento, dunque, deve partire da quello che in epistemologia è definito un event-token (contrapposto all’event-type, l’altro nome dell’evento generico), vale a dire, da un fatto storico con tutte le caratterizzazioni che presenta nel suo del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale (a cura di G. UBERTIS), Milano, 1992, p. 199 ss., nonché ID., Eventi e cause, cit., p. 125 ss. (87) F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 265. Più ampiamente, infra, p. 257 ss. Sulla difficoltà di selezionare le caratteristiche rilevanti dell’evento, già, ID., La descrizione dell’evento, cit., p. 87 ss. (88) Per l’esposizione e la critica delle teorie più importanti sul punto (come quelle di Kim e di Lewis), si rinvia ancora a C. PIZZI, Eventi, cit., capitolo III, in particolare, p. 124 ss. Sul problema, cfr. altresì A.C. VARZI, Parole, oggetti, eventi, Roma, 2001, p. 39 ss.


— 657 — verificarsi concreto (l’unico dato disponibile) (89), e quindi verificare, vuoi anche attraverso intuizioni progressive, la possibilità di sussumere quest’ultimo al di sotto (= spiegarlo alla luce) di una legge scientifica (preesistente) (90), in modo da indurre una (più o meno) probabile conclusione. Il che non dovrebbe stupire, una volta che ci si intenda sull’impossibilità di reperire per quel dato evento, così copiosamente caratterizzato (91), una spiegazione desunta con logica certezza e si convenga, invece, sulla necessità di una euristica, eventualmente anche per approssimazione che, attraverso la supposizione di vari, successivi explanantes, tenti di fornire la giustificazione dell’accaduto con il maggior grado possibile di attendibilità. Concludendo, se si vuole insistere nel parallelismo con i protocolli gnoseologici della scienza, l’argomento utilizzato in diritto penale dovrebbe ascriversi, tutt’al più, a quello induttivo, e scontare i limiti di questo propri, discendenti dalla conoscenza incompleta (e non colmabile) di tutte le condizioni eventualmente presenti. Diversamente detto, il diritto penale, ai fini dell’individuazione di un complesso di condizioni (all’interno delle quali si colloca poi la condotta umana) va alla ricerca e si accontenta di cause sufficienti. Non ne richiede di necessarie, neppure contingentemente. Con l’argomento logico-deduttivo cade, nel diritto penale, l’ultimo baluardo eretto dalla filosofia a sostegno del necessitarismo e quindi anche l’ultimo ‘‘concetto forte’’ di causa (92). (89) Nei limiti, ovviamente in cui sia tale. Sulla necessaria ‘‘selettività’’ del giudizio che assiste la ricostruzione del fatto, per tutti, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1997 (1a ed. 1989), p. 27 ss. (90) In ciò il grandissimo pregio dell’impostazione, messo più volte in evidenza da F. STELLA quando ripete che il giudice è consumatore, e non produttore di leggi scientifiche. Vd., ad esempio, ID., Leggi scientifiche, cit., p. 153. (91) Un evento — dice Varzi — che non può ricorrere, bensì soltanto occorrere (A.C. VARZI, Parole, cit., p. 44). (92) Non convince il tentativo di esportare il concetto di legge alle scienze sociali e con esso una visione deterministica (da ultimo, M. DORATO, Il software, cit., p. 227 ss.). È vero che in quest’ambito si ricorre a leggi probabilistiche non diversamente che nell’ambito della fisica: ma il valore delle assunzioni tacite nei due settori sembra sensibilmente incidere sul tipo di ragionamento logico utilizzato. L’aspirazione da una visione unitaria, utilizzabile anche nello studio dei comportamenti umani, non è comunque nuova: essa ha già trovato espressione, tra gli altri, in E. NAGEL, Nuove riflessioni sul naturalismo, in AA.VV., La filosofia contemporanea in USA, Torino, 1958, p. 375 ss., nonché Determinism in History, in, AA.VV. (a cura di H. DRAY), Philosophical Analysis and History, New York, 1966, p. 347 ss.). Nel senso della insussistenza di un concetto unitario di legge, valevole sia per le scienze formali che per le scienze empiriche (concetto comprensivo di quelle sociali), R. CARNAP, I fondamenti logici dell’unità della scienza, ibidem, p. 71 ss. L’autore peraltro sostiene che la riducibilità del linguaggio delle differenti branche della scienza alla ‘‘ristretta ed omogenea classe dei termini del linguaggio cosale fisico’’ rappresenti un’utile base di partenza per il conseguimento di tale obiettivo.


— 658 — 6. Modello nomologico e causabilità nel diritto penale. — Dunque, la spiegazione penale mostra affanno già quante volte (in pratica, quasi sempre) si imbatta in una pluralità di fattori condizionanti, siano essi reali o presunti. Riepilogando. In queste ipotesi, l’analisi fin qui svolta ha evidenziato, salve le specificazioni che saranno fatte di seguito, che: A) il ricorso ad assunzioni tacite riesce ad assicurare un grado di conoscenza di gran lunga inferiore rispetto a quello raggiungibile in altre branche: in pratica, mai la certezza, come invece i giudizi deduttivi con premessa universale (propri della logica), ma soltanto un grado di probabilità, e molto più bassa di quella propria dei giudizi (c.d.) deduttivi con premessa statistica. Il tentativo di recuperare un concetto ‘‘forte’’ di causa sfocia, in fondo, nella negazione di se stesso (93), lasciando sussistere forse più di un ‘‘ragionevole dubbio’’ (94). La discendenza della causalità scientifica dalle teorie epistemologiche si riduce al fatto di mutuare da queste (peraltro ‘‘già previamente confezionato’’) il parametro esterno del giudizio di probabilità (95); B) il riferimento alla mera ‘‘sufficienza’’ (= probabilità) della causa spinge verso (rectius: equivale ad) una nozione di ‘‘adeguatezza’’ (in base ad assunzioni nomologiche) e, come questa, esaurisce la sua portata ex ante. In tal modo, è noto, si finisce con il negare uno dei caratteri essenziali al concetto di causa, avvicinando la nozione di quest’ultima al concetto di pericolo. Dalla causalità — dunque — il modello nomologico conduce alla mera causabilità. L’espressione è mutuata dalla letteratura in tema di pericolo (96), e in effetti non può sfuggire la vicinanza di questo concetto di causalità con la nozione di pericolo, oltre che con l’idoneità degli atti nel tentativo. D’altro canto, vale la pena (93) Il recupero di un concetto forte di causa come riflesso delle acquisizioni epistemologiche appare d’altro canto una sorta di contraddizione in termini, solo che ci si soffermi per un attimo sulla assoluta varietà (e spesso contraddittorietà) di posizioni che agitano l’ambiente della filosofia. (94) Il riferimento per parafrasi è ad un’espressione ricorrente nell’ultimo lavoro di F. STELLA, già più volte citato: Giustizia e modernità. D’altro canto, mutuando le osservazioni svolte ad altro fine da una nota (quanto garantista) dottrina, ‘‘l’idea di un perfetto sillogismo giudiziario che consenta la verificazione assoluta dei fatti legalmente punibili corrisponde [...] a un’illusione metafisica: infatti, sia le condizioni di uso del termine « vero » che i criteri di accettazione della « verità » nel processo richiedono inevitabilmente decisioni dotate di margini più o meno estesi di discrezionalità’’ (L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 10. (95) D’altra parte, è lo stesso Stella a rivendicare in più punti della sua trattazione sulla causalità l’imprescindibilità dello « specifico punto di vista del giurista ». Così, per esempio, in La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 334 s. Sulla natura funzionale del concetto di causa che ‘‘muta, al variare del punto di vista di volta in volta prescelto’’, per tutti, G. FIANDACA, Causalità (rapporto di), voce Dig., disc. pen., II, Milano, 1988, p. 120. (96) F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Milano, 1994 (1a ed., Sassari, 1981 e 1984), p. 24. L’autore riferisce come il primo ad usare il termine ‘‘causabilità’’ a proposito del pericolo sia stato in realtà, ROCCO, Oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Torino, 1913, p. 298.


— 659 — di ricordare che la stessa dottrina ha già messo in luce l’identità strutturale tra il pericolo e la causalità: entrambi fondati su una relazione di derivazione; la differenza poggerebbe allora esclusivamente sul dato seguente: nel condizionale della causalità, entrambi i termini del giudizio (azione ed evento) si sono verificati; nel pericolo, ‘‘il secondo fatto è assunto come soltanto possibile’’ (97). C) Quale sviluppo di tale connotazione prognostica, sotto il profilo degli effetti pratici — che più interessa —, il paradigma si mostra incapace, in sé di chiarire il legame causale con il singolo evento, e lascia insoluto il problema della c.d. ‘‘causalità alternativa’’. E si è già evidenziato come l’inattitudine a spiegare i legami con l’evento singolo generi un’apparente asimmetria: la legge che esprime la certezza o — più realisticamente — un’elevata probabilità è spesso surrettiziamente utilizzata per mascherare l’impossibilità pratica di dimostrare il mancato intervento di fattori causali alternativi e quindi l’esistenza di un vero e proprio nesso di derivazione causale; viceversa, questo può dirsi senz’altro esistente nelle ipotesi in cui la legge utilizzata esprime probabilità anche molto basse, ma si riesca a provare che l’evento non poteva scaturire da alcun altro fattore (98). Una conferma che l’argomentazione causale segue un incedere induttivo.

Prendendo in prestito la terminologia epistemologica, ci muoviamo fin qui nel campo della previsione. Le leggi scientifiche servono, cioè, alla rappresentazione di un risultato futuro ritenuto probabile o seriamente possibile, ma non consentono di spiegare il singolo nesso causale (99) (il quale non potrebbe non essere necessario). La causalità individuale, nella sua accezione deterministica, resta allora appannaggio esclusivo della logica; mentre, al di fuori di questa, sembra una chimera inafferrabile (100). Il richiamo alle leggi causali, spogliato dell’enfasi a cui si affida la funzione di antidoto delle sovversioni giurisprudenziali, si riduce a strumento che consente la previsione di eventi del tipo di quello verificatosi (causalità — inevitabilmente — generale). Ed allora, il modello nomologico viene finalmente allo scoperto per quel che è e, soprattutto, per quello a cui serve: più che a spiegare, a surrogare sul piano probatorio una spiegazione causale che, per essere tale in (97) F. ANGIONI, Il pericolo, cit., pp. 22-24. (98) M. DONINI, La causalità omissiva, cit., pp. 73, 74 e 81. In presenza di una legge ancora scientificamente non riconosciuta, ammette la plausibilità di un’indagine induttiva condotta attraverso l’eliminazione di altre possibili concause, W. HASSEMER, Produktverantwortung im modern Strafrecht, Heidelberg, 1994, pp. 33 ss., 38 ss., 41 ss. (99) Tra gli altri, S. AMSTERDAMSKY, Caso/probabilità, cit., p. 669 ss.; ID., Causa/effetto, ibidem, p. 826 ss. (100) ‘‘La causa e l’effetto non sono enunciati, ma eventi, e, di conseguenza, la loro relazione non può avere carattere logico. È stata proprio la difficoltà di spiegare in che cosa possa consistere questa specie di necessità a spingere molti autori a identificare la relazione causa/effetto con la deducibilità logica delle conclusioni dalle premesse’’ (S. AMSTERDAMSKY, Causa/effetto, cit., p. 830.


— 660 — senso stretto, dovrebbe invece essere fornita a posteriori. È evidente che il modello può assolvere a tale scopo indiziario tanto meglio quanto più alto è il grado di probabilità di cui la legge è portatrice. Nelle funzioni e nei limiti della causalità scientifica sembrerebbe dunque ravvisabile una continuità rispetto ad impostazioni che si pensavano ormai abbandonate; prime tra tutte, la causalità adeguata. Di questa il modello nomologico rappresenterebbe, a prima vista, un affinamento concettuale, che l’immunizza da tentazioni soggettivizzanti fissando il parametro al quale ancorare — pur con tutte le precisazioni che si sono fatte — la valutazione probabilistica (101). In realtà, c’è dell’altro. Dall’analisi degli scopi e dei limiti del modello nomologico, è emerso come la ‘‘causa sufficiente’’ non sia dalla dottrina inequivocabilmente riferita alla (sola) condotta umana. Al contrario, ben maggiore utilità essa rivela se applicata al complesso delle circostanze che portano alla verificazione dell’evento, e questo perché è proprio in relazione agli aspetti di complessità della realtà naturalistica e biologica che nasce l’esigenza di adottare paradigmi flessibili, i quali consentano di aggirare le difficoltà insite nella conoscibilità di tutte le circostanze di contorno. Il che, evidentemente, segna un ulteriore punto di distacco rispetto alle altre impostazioni generalizzanti in tema di causalità, dalle quali, pertanto, può ritenersi che il paradigma differisca, oltre che per il già citato profilo inerente all’oggettivizzazione del giudizio di probabilità, altresì in rapporto ai relata di cui tale giudizio intende predicare (in pratica si attaglia al comma 1, piuttosto che al capoverso dell’art. 41 c.p., come invece l’adeguatezza causale). Anche sotto quest’aspetto, la c.d. causalità scientifica, pur con tutti i limiti derivanti dall’essere plasmata su un argomento di tipo induttivo piuttosto che deduttivo, si conferma, in diritto penale, un momento irrinunciabile per l’individuazione della responsabilità quando si abbia a che fare con fenomeni naturali, fisici o biologici.

Una volta abbandonato il ‘‘dogma della causalità’’ e legittimato in sua vece un modello di spiegazione induttivo (ovvero, si vedrà subito di seguito — in casi limite — di tipo ‘‘sintomatico’’), quelli che sono stati finora ritenuti in senso critico i limiti del paradigma nomologico appariranno, in una luce diversa, come i confini strutturali già assegnati, con straordinaria lungimiranza, dall’impianto positivo del nostro ordinamento al concetto di causalità: un concetto che rinuncia in questa fase al suo fondamento filosofico in termini di determinismo, si rivela fortemente debitore rispetto al momento di accertamento processuale (con cui tende ad identificarsi), ma mantiene comunque una sua indubitabile utilità. Una precisazione doverosa. (101) Il ricorso a nomoi più o meno scientificamente validi consente di reperire parametri oggettivi di riferimento e di correggere, quindi, l’inclinazione della causalità adeguata (e di quella umana) a fondarsi sulla mera prevedibilità dell’evento, con tutte le conseguenze che ciò comporta in chiave di indeterminatezza del giudizio.


— 661 — L’aver ammesso la possibilità che il ragionamento causale consenta il ricorso ad assunzioni tacite (e che ciò sia inevitabile), ancora non significa che, in ogni caso in cui positivamente consti l’esistenza di una circostanza in grado di smentire la clausola ceteris paribus, l’uso della legge scientifica sia ancora legittimo. Al contrario, quando risulti l’esistenza di una condizione diversa da quelle tacitamente assunte nella premessa che contiene la legge di copertura, è evidente che la legge, seppur ancora valida, diviene inutilizzabile perché perde capacità predittiva in relazione alle circostanze concrete. Allora, si sarà di fronte ad una causa insufficiente.

7. Modello nomologico e scienza debole. — Spostandoci ora su un piano diverso da quello della struttura logica del ragionamento, il vero tarlo che rode la causalità scientifica si annida (non nella struttura induttiva del ragionamento su cui si fonda, bensì) nel rischio che le leggi scientifiche perdano capacità predittiva in rapporto ai fenomeni naturalistici che entrano nell’orbita penalistica; il che potrebbe accadere ove la scienza ‘‘forte’’ pervenga ad una resa incondizionata (102). È infatti evidente che il difetto della tanto paventata ‘‘incertezza’’ del giudizio è caratteristico di tutte le dogmatiche della causalità impostate su modelli generalizzanti, e — come si è appena finito di dire — in certa misura inevitabile; esso si aggrava, tuttavia, fino a divenire ‘‘penalisticamente’’ intollerabile, nei casi in cui la causalità scientifica segua la sua naturale tendenza a scivolare verso protocolli di tipo meramente indiziario, del tipo di quelli utilizzati da alcune discipline contemporanee (103). La scienza tradizionale ha fino ad oggi prodotto, infatti, pur con tutte le approssimazioni derivanti dalla pluralità di modelli conoscitivi e dalle dispute sul metodo (104), leggi ad uso e consumo anche del diritto penale; ora però si trova insolitamente compatta nel denunciare la sua incapacità di perseverare in questa impresa (105). E — si badi — non solleva più soltanto una questione di metodo: di conoscenza, cioè, del fenomeno. Prescindendo da posizioni rinunciatarie (106), la terza fase del pensiero scientifico, quella attuale, ha infatti complessivamente preso atto della esistenza (102) Ritiene che questo dato abbia contribuito in modo determinante all’affermazione dell’aumento del rischio, in surroga della causalità, M. DONINI, La causalità omissiva, cit., p. 39. (103) Sul punto, cfr. § successivo. Le considerazioni svolte si prestano ad essere lette come una chiara indicazione contro l’utilizzazione, nel diritto penale, di tutti i modelli conoscitivi in tema di causalità che prescindono dal giudizio controfattuale della conditio. (104) Classica è la controversia tra l’approccio probabilistico di Carnap, Nagel, ecc. e la metodologia falsificazionista di Popper, Lakatos, ecc. (105) Sulla crisi della scienza neopositivista e del ‘‘monismo metodologico’’ su cui si basava, cfr. ampiamente G. LICCI, Teorie causali e rapporto di imputazione, Napoli, 1996, capitoli II e IV. (106) Ci si riferisce a chi nega in radice ‘‘ogni legittimazione al concetto di legge di natura’’. B. VAN FRAASSEN, Laws and Symmetry, Oxford University Press, Oxford, 1989.


— 662 — della c.d. causazione multipla: nello spazio, l’evento insorge cioè come conseguenza di una ‘‘rete di causazione (web of causation) in cui non è isolabile il ruolo determinante ed esclusivo di un unico agente’’ (107). A ciò si aggiunge, sotto il profilo dei rapporti con il tempo (finora assunto nella sua ‘‘invarianza’’), l’affermazione di un’idea circolare di causa (il c.d. feedback) che rinnega la necessaria antecedenza cronologica della causa rispetto all’effetto, ed in cui, pertanto, le diverse catene causali si intersecano tra loro dando luogo a combinazioni stocastiche (108), per questo, non predicibili (109). Nell’una come nell’altra ipotesi, il limite sembra, in primo luogo, consistere nell’eccesso di assunzioni tacite che finirebbero con l’infirmare anche la legge di copertura. Tuttavia, si vedrà come in relazione ad esse sia ancora possibile trovare una soluzione, forse non del tutto appagante sotto il profilo delle esigenze di generalprevenzione, ma che rimane all’interno delle coordinate della causalità ‘‘penalistica’’. Il modello diverrebbe invece affatto inutilizzabile ove sul piano scientifico dovessero avere la meglio impostazioni di tipo radicale. Ancora più in profondità, sta infatti tuttavia assumendo consistenza l’idea (non nuova, invero) (110) che l’impossibilità di fornire definizioni epistemologicamente appaganti non dipenda dai limiti della conoscenza, bensì dalla stessa natura — chiaroscurale — delle cose. Questa fase è stata efficacemente definita come ‘‘il crepuscolo delle probabilità’’ (111), intendendosi con questa espressione il tramonto definitivo della logica binaria: si noti, infatti, che ‘‘la probabilità non intacca e neppure mette minimamente in discussione la rappresentazione senza sfumature, dicotomica, del mondo, anzi vi fa conto, limitandosi a mostrare come scommettere su e in un mondo siffatto. In teoria della probabilità vale sempre la legge aristotelica del A o nonA’’ (112). Ebbene, i fautori della nuova ‘‘logica’’ prendono in prestito la nota metafora kantiana per sostenere che la probabilità, nel reale, non esiste: ‘‘vediamo (107) P. VINEIS, Modelli di rischio, Torino, 1990, p. 22. Più ampiamente, p. 49 ss. (108) Sul punto, nella logica, G.H. VON WRIGHT, Spiegazione e comprensione, cit., p. 98 ss.; F. HALBWACHS, Causalità lineare e causalità circolare in fisica, in AA.VV., Le teorie della causalità, Torino, 1974 (or. 1971), p. 71 ss., il quale supporta la sua indagine con esempi attinti dalla fisica. Ma il fenomeno trova applicazioni interessanti anche nella biologia: con riferimento ai processi di cancerogenesi, si rinvia ancora a P. VINEIS, Modelli di rischio, cit., p. 53 ss. Più in generale, si pensi ai meccanismi legati al DNA ed alle modifiche inevitabilmente casuali nella trasmissione di informazioni genetiche. Un campo su cui più di recente si è impegnata l’indagine scientifica è poi quello relativo alla trasmissibilità agli uomini dell’encefalopatia spongiforme bovina (BSE, c.d. ‘‘mucca pazza’’). (109) Riemerge e deflagra la contraddizione insita nello scarto tra modello conoscitivo (su base empirista e probabilistica) e quello ontologico (su base deterministica) della causalità, da Carnap e dagli altri probabilisti, a lungo sospinta al di sotto della superficie. Il risultato — come si vedrà immediatamente di seguito — è la disgregazione della nozione ontologica della causalità. Si esprime contro la retrocausazione C. PIZZI, Eventi, cit., p. 161 ss. (110) Risalente, come noto, a Max Plank ed alla teoria dei quanti. (111) È il titolo evocativo dell’ultimo, già citato, scritto di P. VINEIS, Torino, 1999. (112) B. KOSKO, Il fuzzy-pensiero, Milano, 1999, p. 27. Non è un caso che la probabilità sia convenzionalmente valutata in decimi di unità.


— 663 — ovunque la probabilità perché sta nei nostri occhiali’’; essa « costituisce uno dei nostri presupposti mentali, ossia una parte dello schermo di visualizzazione della nostra mente’’ (113). Alla probabilità viene pertanto idealmente contrapposta la indefinitezza, la vaghezza propria della ‘‘natura delle cose o delle non-cose in cui le cose trapassano’’ o delle ‘‘relazioni che intercorrano fra di esse’’ (114): una proprietà reale (piuttosto che mentale). Va da sé la confutazione della validità scientifica anche delle teorie che, pur avendo rinunciato ad un modello di conoscenza universale, per un verso o per l’altro, cercavano comunque conforto nella probabilità come strumento per la conoscenza del singolo evento (115) ovvero nella falsificabilità delle ipotesi (116). Al contrario, si affermano modelli conoscitivi improntati alla flessibilizzazione delle categorie classiche ed al sovvertimento delle ‘‘logiche forti’’ (intendendo per tali — come si è visto — anche le spiegazioni su base probabilistica), i quali trovano la loro più consapevole affermazione nella teoria dei fuzzy sets (espressione con cui appunto si designa la natura indefinita delle singole realtà) (117). E se tale impostazione ha avuto da tempo importanti applicazioni in Oriente (ad esempio, in Giappone), dove ha contribuito in misura considerevole allo sviluppo industriale (dando il via alla c.d. ‘‘automazione intelligente’’) (118), viceversa non ha riscosso altrettale successo nell’ambito delle scienze naturali, le quali si sono dimostrate più restie ad abbandonare le logiche « tradizionali ». Da tempo vanno però emergendo i segnali di un’inversione di rotta. Così, si osserva: ‘‘Tutti i sistemi reali sono sottoposti a input a caso, che sono parzialmente assorbiti piuttosto che essere convertiti fedelmente in output a caso. Molti sistemi esibiscono fluttuazioni spontanee, o rumori, in alcune proprietà, anche in assenza di eccitazione esterna’’ (119). Dunque, non stupisce che alcuni, dopo aver negato la possibilità di giustificare una teoria scientifica in base ad una « corrispondenza » con i fatti, propongono di adottare un criterio di verità quale « coerenza interna » alla teoria stessa (120). Ma, su questa strada, ‘‘vero’’ finisce (113) B. KOSKO, Il fuzzy-pensiero, cit., p. 76, il quale a riprova adduce il dato, generalmente condiviso, che la probabilità diminuisce quanto maggiori sono le evidenze disponibili. Viceversa, l’impostazione fuzzy opera in modo opposto: « più informazione, più emerge la natura fuzzy delle cose’’. B. KOSKO, Il fuzzy-pensiero, cit., p. 75. Ampiamente sul rapporto tra fuzzy e probabilità, p. 65 ss. (114) B. KOSKO, Il fuzzy-pensiero, cit., p. 28. (115) Ci si riferisce alla scuola di pensiero di cui Carnap fu il massimo esponente. (116) Altrettanto esplicito, il richiamo è qui invece a K. POPPER, Logica delle scoperte scientifiche. Il carattere autocorrettivo della scienza, Torino, 1995 (or. 1934). (117) In francese, logica flou. Non esiste invece un termine corrispondente italiano. (118) B. KOSKO, Il fuzzy-pensiero, cit., p. 34 ss. (119) M. BUNGE, Congiunzione, successione, determinazione, causalità, in AA.VV., Le teorie sulla causalità, cit., p. 136. (120) L. WITTGENSTEIN, Tractatus, cit. Celebre è la teoria pittografica (o raffigurativa) del linguaggio con cui il filosofo esprime l’idea di verità o falsità come maggiore o minore corrispondenza alla realtà (vd. Tractatus, cit., 2.1 ss., p. 31 ss.) che, però, in sé non è conoscibile (Quaderni 1914-1916, in Tractatus, cit., 16.11.14, p. 164, citato in epigrafe del presente lavoro). Per completezza, si ricorda che, nella seconda fase del suo pensiero, Wittgenstein sviluppò l’idea di una connessione tra pratiche sociali e strutture linguistiche, come ‘‘giochi’’ caratterizzati da regole loro proprie. Vd., per esempio, ID., Della certezza, Torino,


— 664 — con l’essere semplicemente ciò cui viene per convenzione attribuito tale stato sociale da una collettività (qualificata) (121).

Deve peraltro essere chiaro che, pur con queste, doverose, specificazioni, la scienza, ad oggi, sembra ancora in grado di fornire al diritto penale i supporti adeguati per la soluzione della maggior parte dei casi, anche complessi (122). E dunque, l’incapacità di attingere alla ‘‘certezza’’, sotto il duplice profilo della struttura della conoscenza e della struttura della realtà, continua a rappresentare un ostacolo superabile; con la conseguenza che, sotto questo profilo, è del tutto apprezzabile la scelta della giurisprudenza di conformarsi alla causalità scientifica, sebbene, a volte, soltanto a livello terminologico (123). Quel che, invece, dalla lettura delle sentenze in tema di causalità non emerge in modo chiaro è il momento in cui il ricorso ai nomoi scientifici espleta le sue potenzialità esplicative: tale momento coincide, come si è detto, con la prima ed eventuale fase dell’accertamento giudiziario, volta alla ‘‘decodificazione’’ degli sviluppi causali. Premesso poi che sarebbe invero peculiare trovare ancora oggi qualcuno che non concordi, almeno in linea astratta, sull’esigenza di richiedere un livello (il più 1999 (or. 1969) 14.4.521 ss. (p. 84 ss.). Una posizione senza dubbio scettica in ordine alla possibilità di giungere a conoscenze assolute è altresì espressa da il quale, proseguendo il discorso popperiano, propone — in luogo della irrealizzabile verità — un falsificazionismo metodologico sofisticato, e cioè il ricorso a mere congetture fondate su regole di accettabilità razionale. I. LAKATOS, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifica, in Critica e crescita della conoscenza (a cura di I. LAKATOS, A.E. MUSGRAVE), Milano, 1976 (or. 1970), ed ora anche in La metodologia dei programmi, cit., p. 19 ss.; ID., Regresso infinito e fondamenti della matematica, in Matematica, scienza e epistemologia. Scritti filosofici, II, Milano, 1985 (or. 1962). Nella stessa direzione, D. BLOOR, La dimensione sociale della conoscenza, Milano, 1994 (or. 1976); A. TARSKI, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in LINSKY (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano (Il Saggiatore), 1969, pp. 27-68 (or. 1944); O. NEURATH, Physicalismus, in « Scientia », 50, 1931, p. 299. Si spingono ancora oltre, T.S. KHUN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Torino, 1999 (or. 1962), in particolare, p. 65 ss. sui c.d. ‘‘paradigmi’’ come ipotesi congetturali che precedono le regole, nonché P.K. FEYERABEND, Contro il metodo, Milano, 1991 (or. 1975). (121) D. BLOOR, Attacchi al programma forte, appendice a La dimensione sociale della conoscenza, cit. A tale approccio è in qualche misura riconducibile la teoria della ‘‘conoscenza come metafora’’ sviluppata da MACCORMAC, A Cognitive Theory of Metaphor, Cambridge (Mass.), 1988. (122) D’altro canto, anche sul piano della logica semantica non mancano reazioni che, senza negare l’idea di fondo delle nuove impostazioni, cercano ad essa alcuni correttivi. Vd., ad esempio, A.C. VARZI, Parole, cit., il quale, pur riconoscendo l’esistenza di una vaghezza de re, sostiene la possibilità di ricorrere a quella che definisce la ‘‘scappatoia epistemica’’ della vaghezza de dicto (p. 135 ss.). (123) Come noto, il ricorso al concetto di probabilità ha consentito alla giurisprudenza — soprattutto quella in tema di responsabilità medica — di sostituire al modello nomologico il ben meno garantito criterio dell’aumento del rischio. Sul punto, infra, § 10.


— 665 — possibile) alto di probabilità (ogni discorso sulla portata tipizzante del rapporto di causalità, al presente livello dell’elaborazione dottrinale, risulterebbe quanto meno scontato) (124), quanto alla connessa questione, assai di moda, riassumibile nella domanda ‘‘qual è il grado di probabilità richiesto?’’, ebbene, francamente sembra che il problema impegni forze ben maggiori di quelle, modeste, a disposizione del giurista. Prima ancora, il problema non sembra dotato dell’importanza che vi si vorrebbe assegnare. Se non sembra condivisibile la più o meno consapevole tendenza giurisprudenziale ad attestarsi su standard meno rigorosi in considerazione della peculiarità di alcuni settori (oltretutto a parità di bene tutelato con altri) (125) e/o del titolo di reato (colposo, piuttosto che doloso) e della conseguente risposta sanzionatoria (colpa, piuttosto che nel dolo), non è sensato cristallizzare in precise (?) entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare — ad insistere nell’uso di un linguaggio ‘‘formalizzato’’ — considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle premesse del ragionamento causale: senza che con ciò si possa giungere a lamentare alcun vulnus della tassatività-determinatezza (126). Fortunatamente è infatti ormai pacifico che la libera valutazione del giudice rappresenta un momento ineludibile (e positivo) della dinamica decisionale (127).

SEZIONE III LA CONDIZIONE NECESSARIA

8. I rapporti tra causalità scientifica e conditio sine qua non. La condizione INUS. — Alla stregua delle osservazioni svolte sul metodo sot(124) Tra i primi a sottolineare quest’aspetto, in una recensione al libro di Stella, C.E. PALIERO, Le fattispecie « causalmente orientate » sono davvero « a forma libera »? (tipicità e accertamento del nesso di causalità), in questa Rivista, 1977, p. 1502. (125) Si esprimono in senso critico, I. GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, nota a Cass., sez. IV, 12 luglio 1991, in Foro it., 1992, p. 365 s.; M. DONINI, La causalità omissiva, cit., p. 62 ss. Occorre tuttavia far presente che, con riferimento al diverso problema dell’idoneità nei delitti di pericolo e nel tentativo, molti autori abbracciano una prospettiva assiologica, e propongono di adattare il grado di probabilità: chi al solo rango del bene tutelato (M. PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, p. 199 ss.; G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 455 ss); chi congiuntamente a quest’ultimo ed alle modalità di aggressione (I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, 2000, p. 118); chi, infine, agli eventuali rapporti tra fattispecie (F. ANGIONI, Il pericolo concreto, Milano, 1994, p. 265). (126) Ciò, a prescindere dal rilievo che se, ‘‘nelle scienze naturali la spiegazione statistica ha spesso un carattere quantitativo (è possibile stimare la probabilità dell’accadere dell’evento denotato dall’explanandum nella spiegazione descritta dall’explanans), in storiografia, in diritto, o nella vita di ogni giorno, il grado di corroborazione dell’explanandum da parte dell’explanans può di solito essere enunciato soltanto in termini qualitativi’’. Così, S. AMSTERDAMSKY, Causa/effetto, cit., p. 844. (127) K. ENGISCH, Die Kausalität als Merkmal, cit., pp. 46 ss.; 62 ss.


— 666 — teso al modello nomologico, sembrerebbe nel giusto Engisch quando proponeva di sostituire la causalità scientifica alla conditio sine qua non (128). I due approcci si fondano su argomenti segnati da una diversità irriducibile: l’uno è di tipo induttivo, l’altro consiste in un controfattuale; l’uno è ex ante, l’altro è ex post. Andrebbe invece valutata cum grano salis la proposta della dottrina italiana, consistente nel supportare il giudizio controfattuale attraverso il ricorso a leggi scientifiche. Ferma restando la plausibilità dell’operazione, essa può rivelarsi utile, a patto però di tenerne sempre ben presenti i limiti: vale a dire, il fatto che il modello nomologico non riesce ad assicurare la certezza della conclusione. E — sia detto per inciso — parlare di ‘‘necessità’’ in presenza di una probabilità (per quanto alta) ha il sapore di una contraddizione in termini. Come si è visto, la certezza presupporrebbe quanto meno, oltre all’uso di leggi universali, altresì che, nel caso concreto, manchino circostanze di contorno (prime tra queste, decorsi causali alternativi) ovvero che tali circostanze siano conosciute o conoscibili. Ma, quand’anche tale condizione fosse realizzabile per la scienza, di certo non lo sarebbe per il diritto penale, dove nel procedimento causale si inseriscono fattori assai vari (sotto il profilo numerico) e complessi (sotto il profilo qualitativo), come tali difficilmente trasponibili in proposizioni che possano essere verificate dal punto di vista empirico e per converso destinati ad essere assunti (per sempre) in modo tacito. Sicché, lo schema ascendente-induttivo proprio del modello nomologico assorbe e di fatto soppianta il controfattuale che dovrebbe limitarsi a supportare.

Tale constatazione, tuttavia, ancora non esclude che la conditio sine qua non possa mantenere integra la sua funzione: ma ciò, soltanto quando si tratti di indagare, in seconda battuta, se alla verificazione di una causa — si è visto — sufficiente sia per caso necessaria (quella particolare condizione, che è) la condotta dell’agente (129). Niente di eclatante: si tratta di una semplice precisazione che tuttavia mira a semplificare un discorso spesso complesso, in cui non si è sempre specificato in modo chiaro quale sia il relatum causale, e cioè il referente del giudizio controfattuale (questo è a volte individuato nella condotta umana; altre volte — soprattutto (128) K. ENGISCH, Die Kausalität, cit., p. 21 ss. Contra, F. STELLA, definisce la sussunzione al di sotto di leggi scientifiche e la conditio sine qua non, come ‘‘facce della stessa medaglia’’ (Leggi scientifiche, cit., p. 112), in ciò prendendo le distanze dalle posizioni di ENGISCH, riassunte a p. 107 ss. In realtà Stella utilizza la conditio sine qua non proprio al fine di recuperare una versione (parzialmente) deterministica, facendone lo strumento logico che gli consente di qualificare la condotta dell’agente come contingentemente necessaria (p. 112). Più di recente, ID., Giustizia e modernità, cit., p. 211 ss. (129) Intesa ovviamente come relatum causale singolare. In senso parzialmente analogo, ‘‘il secondo’’ F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 210 ss., ove valorizza la conditio sine qua non come metodo irrinunciabile per selezionare la condizione iniziale rappresentata dalla condotta umana.


— 667 — nel contesto delle critiche sulla sua inesistente portata euristica — viene invece riferito al complesso causale nella sua interezza), con l’effetto di incoraggiare la convivenza promiscua di impostazioni che in realtà appaiono profondamente diverse. Così, nella prima (eventuale) fase, la conditio si appoggia al modello nomologico nella ricerca del perché di un certo fenomeno dal punto di vista naturalistico, dovendo a tal fine accontentarsi di una causa sufficiente ma non necessaria (intesa come previsione astratta, generale ed ex ante) (130); la medesima se ne può (meglio, deve) invece emancipare in seconda battuta, quando si interroga sul ruolo che in questo contesto ha concretamente svolto la singola condotta umana. La ragione del recupero del modello condizionalistico è intuibile e condivisa dalla generalità della dottrina. Se in relazione al complesso causale un accertamento a posteriori si rivela in sé impraticabile in tutti i (molti) casi in cui si interpongono le ormai note difficoltà probatorie di escludere l’intervento di fattori causali alternativi, tale ostacolo in linea di massima (salvo, cioè, quanto sarà specificato di seguito) viene meno quando la verifica si semplifica perché lo spettro di indagine si stringe sulla condotta umana; in questo momento, le esigenze di determinatezza, fino ad allora compresse in nome della generalprevenzione, possono finalmente riespandersi.

I due paradigmi, una volta affiancati, potrebbero quindi integrare un concetto ‘‘bifasico’’ di causa che parte dal dato naturalistico, conosciuto attraverso induzione (‘‘causabilità’’), per approdare a quello più schiettamente giuridico: dimostrato dal punto di vista logico attraverso un giudizio ipotetico della irrealtà (il controfattuale) e provato sotto il profilo empirico per esclusione. D’altro canto, l’idea non è nuova, ma si ritrova — tanto per cambiare — già negli insegnamenti dell’epistemologia; in particolare, non sarà sfuggita l’assonanza con il pensiero di Mackie, che si rivela in proposito assai calzante (131). Premesso che l’ipotesi assolutamente normale concerne la verificazione di una pluralità di condizioni, sarà definibile conditio sine qua non di un certo evento quella che l’autore chiama ‘‘condizione INUS’’, dall’acronimo dei suoi attributi. Nel caso di condotta umana, potrà cioè considerarsi penalmente rilevante la condizione insufficiente ma necessaria alla verificazione di una condizione in sé sufficiente, ma non necessaria alla verificazione dell’evento: e non v’è chi non veda come questa (130) Anzi, si può a ragione affermare che il modello nomologico assorba e quindi, di fatto, privi di utilità il giudizio ipotetico controfattuale della conditio. Che, d’altro canto, il merito della causalità scientifica consista nell’utilizzazione di una modello generalizzante, è messo in luce anche nella manualistica. Per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 208. (131) J.L. MACKIE, Causes and conditions, in American Philosophical Quarterly, 2/4, pp. 245-255, 261-264; Sosa, Tooley (eds), 1993 (or. 1962), pp. 33-55. Reputa la condizione INUS inidonea a selezionare la causa rilevante tra le varie ipotizzabili, C. PIZZI, Teorie della probabilità, cit., p. 131 ss.


— 668 — sia ai nostri fini agevolmente identificabile nella causa scientifica, nel senso fino ad ora illustrato (132). Prendendo a prestito l’esempio addotto dallo stesso Mackie, allora, ai fini della responsabilità per il delitto di incendio, sul piano oggettivo basta aver acceso un cerino: tale condotta rappresenta infatti una condizione necessaria, sebbene (in sé) insufficiente in quanto destinata ad operare soltanto nella compresenza di altre condizioni (quali la presenza di ossigeno e di sostanze infiammabili) che insieme danno luogo ad una causa: questa di per sé non necessaria, ma sufficiente (in base ad una legge generale) a provocare la combustione (la combustione può infatti derivare anche da altri fattori) (133). Ancora, spostandosi su un piano fin troppo familiare al penalista (con il quale pertanto ci si scusa), è agevole verificare la tenuta del concetto attingendo ai casi che classicamente si tramandano come esempi di c.d. cause preesistenti, e che invece andrebbero meglio qualificati come esempi di condizioni preesistenti (134). Così, una volta trovata una legge scientifica la quale spieghi come, in relazione all’evento concreto ‘‘morte del soggetto emofiliaco ovvero affetto da cardiopatia’’, la probabilità di un esito letale conseguente ad una ferita anche lieve è particolarmente alta (135), si sarà evidentemente rinvenuta una causa (complesso eziologico) non necessaria, ma sufficiente nell’ambito della quale, tuttavia la natura necessaria della condizione preesistente non vale — come evidente — ad escludere un altrettale carattere in capo al comportamento dell’agente (136). (132) Il percorso conoscitivo del giudice è, in sintesi, raffigurabile con il seguente schema: ‘‘Evento concreto → Causa sufficiente (da stabilire in base al paradigma nomologico-induttivo) → Comportamento umano come condizione necessaria della causa sufficiente (da stabilire in base alla conditio sine qua non’’). La legge di sussunzione consente di ricollegare all’evento concreto una causa; la conditio sine qua non consente invece ricollegare quest’ultima al comportamento umano concreto. Nell’ambito della letteratura penalistica tedesca, per una prospettiva di recupero della distinzione tra condizione necessaria e condizione sufficiente nell’ambito della quale, precisamente, la singola condotta umana viene considerata parte necessaria ad una condizione minima sufficiente secondo leggi empiriche generali, I. PUPPE, Der Erfolg und siene kausale Erklärung im Strafrecht, in Ztw, 1980, p. 863 ss.; EAD., Kausalität, in SchwZFtrR, 1990, p. 141 ss. (133) ‘‘Filosoficamente parlando [...] la causa è la somma totale delle condizioni, positive e negative, prese insieme: la totalità delle contingenze di ogni tipo, realizzate le quali segue immediatamente il conseguente’’. Così, già J.S. MILL, Sistema, cit., p. 465. (134) Si tratta di casi che risalgono quanto meno a G. MAGGIORE, Diritto penale, vol. I, tomo I, 5a ed., 1949, p. 253. (135) Facendo più correttamente riferimento ai ‘‘sotto-anelli’’ causali, esistono generalizzazioni sulla base delle quali affermare, per un verso, che la mancata coagulazione del sangue determina perdite ematiche consistenti e porta quindi in una percentuale elevata di casi alla morte del soggetto emofiliaco ferito; per altro verso e mutatis mutandis, che con alta probabilità lo spavento inferto a persona sofferente di cuore determina un’alterazione delle sue funzioni cardiache che può avere esiti letali. (136) Ovvero — se si preferisce invertire i termini del discorso — emofilia e cardiopatia infirmano la clausola ceteris paribus che assiste la generalizzazione in virtù della quale escludere che piccole perdite di sangue ovvero forti spaventi producano con elevata probabilità l’evento letale.


— 669 — Infine, attualizzando l’indagine attraverso il riferimento ad un recente caso di ‘‘cronaca sanitaria’’, si ipotizzi che certe dosi di un tale principio attivo (per esempio, la cerivastasina) di un medicinale (anticolesterolo), in sé condizione insufficiente della malattia, provochino un effetto negativo sulla salute, quando vengano associate ad altra sostanza farmacologica (si faccia il caso del genfibrozil).

In conclusione sul punto, è appena poi il caso di osservare come l’ipotesi ricostruttiva trovi una copertura sorprendentemente puntuale nel testo dell’art. 41, comma 1, c.p. il cui richiamo alle ‘‘cause preesistenti o simultanee o sopravvenute’’ (che non escludono il rapporto di causalità tra l’azione o l’omissione e l’evento) andrebbe riferito, appunto, alle altre condizioni insufficienti ma necessarie che si accompagnano alla condotta umana (137). 9. Conditio sine qua non ed esclusione di decorsi alternativi. — Tanto premesso, si è già più volte sottolineato come, questa volta, il giudizio causale si atteggerebbe in termini di necessità (il che recupera in diritto penale l’impostazione deterministica che la causalità scientifica finisce invece per tradire): ciò accade proprio perché il ragionamento si dipana seguendo il classico schema del giudizio controfattuale. È comunque opportuno specificare — anche se a questo punto dovrebbe essere chiaro — che tale necessità evoca la certezza sul piano logico, del metodo di ragionamento, mentre resta impregiudicata, sul piano empirico, la sua dimostrazione, che può essere fornita soltanto escludendo l’intervento, in concreto, di fattori causali alternativi. Lo stesso Mackie, d’altronde, difende l’idea di una successione causale singolare attraverso la validità del connettivo inferenziale, ma poi colloca la sua teoria nell’ambito di quelle regolariste, poiché il controfattuale rinvia, a sua volta, all’esistenza di leggi universali (138). Sembrerebbe dunque riproporsi l’impasse in cui incorre la causalità scientifica.

Né si nascondono le difficoltà in cui ci si può imbattere nella spiegazione di fenomeni naturali più complessi di quello esemplificato (il settore della responsabilità medica e della biologia in generale, come si vedrà, è (137) Pertanto, nell’esempio appena addotto, la presenza di particolari affezioni nella vittima configurerebbe in una ‘‘concausa’’ ai sensi del comma 1 dell’art. 41 ed impedirebbe un esito assolutorio: beninteso almeno sul piano della tipicità oggettiva. È dunque possibile concordare con quella dottrina la quale esclude che il mancato riferimento testuale dell’art. 41, capoverso, anche alle cause preesistenti e concomitanti costituisca una dimenticanza legislativa; o meglio: sarà fors’anche un lapsus, ma coincide con la soluzione preferibile dal punto di vista razionale, e la avalla testualmente. Per un quadro delle diverse posizioni della dottrina sul punto, vd. infra, nota 193. (138) J.L. MACKIE, Causes, cit., p. 52. Per una critica, J. KIM, Causes and Events: Mackie on Causation, 1971.


— 670 — paradigmatico), laddove si tratti di assegnare ad una condotta il carattere di necessità. Ciò non toglie, peraltro, che, al di fuori del settore propriamente biologico-naturalistico, dovrebbe risultare molto più agevole escludere il ricorso ad assunzioni tacite e quindi evitare l’uso di ragionamenti di tipo induttivo. Qui, la dimostrazione del mancato intervento di fattori alternativi (139) tornerebbe ad assumere un ruolo chiave nell’indagine; sicché, in definitiva, le paventate difficoltà si ridurrebbero a quelle ben note, relative alla prova, non riguardando più la logica dimostrazione del rapporto di causalità, e dunque la sua nozione sostanzialistico-penale. Una volta distinti i due piani della dimostrazione e della prova, con riguardo a quest’ultimo, è chiaro che sarà imprescindibile la ricostruzione, quanto più esatta, del fatto storico, e dunque della c.d. ‘‘verità fattuale’’ (140). In merito, si richiamano gli insegnamenti di una dottrina che non può certamente essere tacciata di ammiccare ad approcci di tipo ‘‘efficientista’’; questa — una volta precisato come nel processo penale non sia possibile, ovviamente, una ‘‘osservazione diretta’’ di dati storici in sé irripetibili — ammonisce sulla natura meramente probabilistica della ricostruzione cui è chiamato il giudice, che raffigura come ‘‘un’inferenza induttiva recante nelle premesse la descrizione dell’evento da spiegare e delle prove esperite nonché generalizzazioni di solito sottintese (entimematiche) sull’attendibilità di esperienze analoghe, e nella conclusione l’enunciazione del fatto che si assume provato dalle premesse e che equivale a una loro ipotesi di spiegazione’’ (141). Pur con queste precisazioni, che tendono verso il raggiungimento della ‘‘maggior approssimazione possibile’’, la dottrina in esame difende comunque il significato di verità processuale come wittgenstiana ‘‘corrispondenza’’ (secondo la maggior approssimazione possibile) (142). (139) Sul punto, per tutti, M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’, cit., pp. 57 ss. e 72 ss. Si tralascia qui volontariamente il complesso discorso su quello che gli epistemologi chiamano il problema della ‘‘sovradeterminazione causale’’, sempre inerente alle condizioni ceteris paribus. Sul punto, ci si limita a rinviare alle proposte di soluzione di C. PIZZI, Pluralità di cause, cit., p. 752 ss.; ID., Oggettività e relativismo, cit., p. 203 ss. (già riassunte nella nota 86). (140) Per la cui formulazione occorrerà pur sempre ricorrere a ragionamenti di tipo induttivo. Sulla verità processuale fattuale, per tutti, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 24 ss.; FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, vol. II, Torino, 1992, p. 20 ss.; G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, p. 57 ss. Vd. anche, più in generale, gli scritti raccolti nel già citato AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale (a cura di G. UBERTIS), Milano, 1992. (141) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 26. (142) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 40 ss., il quale, sebbene a proposito del problema, parzialmente diverso, della ‘‘verità giuridica’’ e del c.d. procedimento di sussunzione del fatto nella norma osserva: ‘‘La coerenza e l’accettabilità giustificata sono [...] i criteri soggettivi in base ai quali il giudice valuta e decide sulla verità o l’attendibilità delle pre-


— 671 — Tuttavia, una volta ricostruita la verità storica dell’accadimento con una certa probabilità, questa non è destinata ad innalzarsi come effetto del ricorso ad uno schema inferenziale di tipo induttivo, dal momento che qui la conditio assicura, viceversa, la necessità logica della conclusione: l’incertezza della prova, in questa fase, è bilanciata dalla certezza della dimostrazione. Sintetizzando a costo di apparire banali, mentre il perito potrà essere fortemente impegnato nel primo momento dell’indagine, vale a dire, quando si tratti di verificare se si sia in presenza di una causa sufficiente, il giudice non avrà bisogno di supportare il controfattuale della conditio nella seconda fase del giudizio, quella relativa al ruolo svolto dal singolo. E, una cosa è stabilire se ‘‘causa’’ possa essere ritenuta una vicenda complessiva di cui si ignora aprioristicamente la ‘‘sufficienza’’ a cagionare un dato evento; altra cosa è, in presenza di una causa già accertata nella sua adeguatezza causale (quella che si è prima definita ‘‘causabilità’’), ricorrere al procedimento di eliminazione per verificare se l’evento si sarebbe o meno concretamente realizzato, supportando tale giudizio con la prova a contrario che l’evento non avrebbe potuto essere determinato da altra condizione. Non per niente, il secondo passaggio resta in linea di massima implicito nelle argomentazioni delle sentenze (un entimema!); emerge invece, ed assume una sua sfera di autonomia soltanto laddove, nel caso concreto, la dinamica della decisione giudiziale si imbatta in problemi di tipo probatorio. Così precisata la ‘‘contestualizzazione’’ della conditio umana necessaria all’interno di una pluralità di conditiones (siano necessarie o meno) che insieme delineano la causabilità dell’evento, risulta sdrammatizzato l’atavico problema della sua limitata efficacia euristica (143). Per meglio dire, la struttura ‘‘bifasica’’ dell’indagine spoglia il secondo momento, della pretesa conoscitiva, concentrandola tutta nella prima fase. Ancora, l’articolazione del giudizio in due distinti momenti (1: qual è la causa messe probatorie dell’induzione del fatto e di quelle interpretative della sua qualificazione giuridica’’. Ma il solo significato della parola « vero » — come delle parole « attendibile », « probabile », « verosimile », « plausibile » o simili — è la corrispondenza più o meno argomentata e approssimativa delle proposizioni di cui è predicata alla realtà oggettiva, che nel processo è costituita dai fatti giudicati e dalle norme applicate’’ (p. 41). (143) La critica risale ad K. ENGISCH, Die Kausalität als Merkmal, cit., p. 21. Nella manualistica italiana, per tutti, vd. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, pt. gen., cit., p. 204 ss. Sull’inadeguatezza del giudizio controfattuale, di recente, anche G. LICCI, Teorie causali, cit., p. 100 ss. Tale autore illustra altresì la diversa matrice semantica dei termini conditio (da condere) e condicio (da cum dicere), che si rifletterebbe sull’uso che i vari autori ne fanno nel gergo penalistico: conditio, ad indicare un ‘‘nesso ontico oggetto di ri-costruzione da parte dell’intelletto’’; condicio riferito invece a mere regolarità costanti (p. 107 ss.). In senso parzialmente analogo, F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 210 ss., ove valorizza la conditio sine qua non come metodo irrinunciabile per selezionare la condizione iniziale rappresentata dalla condotta umana.


— 672 — sufficiente?; 2: Il comportamento di Tizio è stato sua condizione necessaria?) fuga le perplessità che potrebbero insinuarsi sulla scia del vecchio post hoc, propter hoc (stante il decorso causale effettivamente verificatosi, se l’evento si è verificato, è perché non poteva non verificarsi). In sede di giudizio, non sarà infatti possibile prescindere dalla verifica sull’esistenza di una causa sufficiente. Quanto poi al ruolo del relatum: ‘‘condotta umana = conditio’’, è appena il caso di ribadire che certezza logica ancora non vuol dire ascrizione sicura della responsabilità sul piano causale, dal momento che — lo si ripete — nei casi ‘‘complessi’’ residueranno, in funzione ostativa, non pochi dubbi sul piano probatorio. Ad un problema di prova in ordine alla sussistenza della conditio sembrano riducibili, ad esempio, alcune ipotesi di causalità alternativa legate alla presenza di una web of causation in relazione alle quali la letteratura scientifica lamenta invece un deficit del paradigma nomologico (144). Così, a poco varrà che l’esposizione prolungata ad amianto determini patologie tumorali in una percentuale alta di ipotesi, se il soggetto esposto era un accanito fumatore di sigarette, essendo scientificamente provato che anche il fumo provoca tumori. Pur se statisticamente supportata in termini forti, la citata legge scientifica non potrà costituire la premessa di alcun ragionamento causale perché, in presenza di una pluralità di condizioni, non è ancora provato che l’esposizione prolungata ad amianto abbia rappresentato in concreto quella necessaria alla produzione del cancro (145). In questi casi, il giurista dovrà chiedersi se sia davvero opportuno riconoscere un’imputazione causale. La funzionalizzazione penalistica della conditio consente poi, se non di superare, quanto meno di stemperare la classica obiezione mossa dai filosofi nei confronti dei giudizi controfattuali che — si osserva — non sempre ‘‘implicano proposizioni causali’’ e la cui analisi, anche per questo, viene ritenuta ‘‘troppo debole per conseguire un’esplicazione esaustiva della causalità’’ (146). Qui si propone, sommessamente, di ribaltare il giudizio. Ricordato una volta ancora che una cosa è una legge necessaria (che esprime una successione universale), mentre cosa diversa è un evento necessario (che deve necessariamente verificarsi), la lamentata (144) Vd. paragrafo precedente. (145) In senso conforme, tra gli altri, K. VOLK, Sulla causalità, cit., p. 100 s., il quale cita il famoso caso giurisprudenziale tedesco della vendita di prodotti per il legno, al cui uso erano seguiti disturbi alla salute (congiuntiviti, irritazioni cutanee, ecc.): lo stesso quadro patologico che potrebbe astrattamente conseguire ad una serie di altri fattori tra cui, ad esempio, otturazioni eseguite con amalgama. Stante l’impossibilità, allo stato delle conoscenze scientifiche, di provare ‘‘in positivo’’ l’esistenza di un nesso di causalità tra gli eventi lesivi e l’uso del prodotto, il Bundesgerichtshof non ritenne nemmeno necessaria la dimostrazione compiuta in ordine alla mancanza di fattori alternativi (BGH, in NStZ, 1995, p. 592). Volk critica il ricorso al procedimento di falsificazione come strumento di accertamento della causalità, quando esso venga basato — come appunto fece il Bundesgerichtshof — sulla verifica dell’inesistenza di alternative meramente plausibili (e non possibili ovvero pensabili), con conseguente modificazione (diremmo: ‘‘destrutturazione’’) della stessa essenza del concetto di causa (K. VOLK, Sulla causalità, ibidem). (146) C. PIZZI, Teorie della probabilità, cit., p. 138. L’autore cita il seguente esempio: la proposizione: « ‘‘se il mio orologio ora non segnasse le 13 tra un’ora non segnerebbe le 14’’ non implica ‘‘il fatto che il mio orologio ora segna le 13 è causa del fatto che tra un’ora segnerà le 14’’. Osservazioni che in certa misura sembrano riconducibili quelle, già citate, svolte da Agazzi a proposito delle c.d. universalità de facto (vd. retro, nota 51).


— 673 — incapacità di fornire una spiegazione causale non necessariamente appare riferibile al giudizio controfattuale, potendo anche essere, invece, un predicato del nomos sotteso al suo periodo ipotetico; nomos che consente, per l’appunto, soltanto una previsione (ex ante) e non anche una spiegazione (ex post). Il discorso tuttavia cambia se si assume come relatum del giudizio controfattuale un comportamento umano, perché qui non sarà più giocoforza ricorrere all’indizio della regolarità fenomenica, potendosi (anzi: dovendosi, in diritto penale) precedere alla prova per esclusione (147). Riacquista così forza — nel diritto penale — l’idea di causa necessitata. Soprattutto, infine, l’accertamento sul ruolo che il comportamento del soggetto agente gioca all’interno del concorso di condizioni permette di mantenere fermo il carattere ex post che qualifica per tradizione la verifica sulla causalità, e che il modello nomologico da solo non è riuscito a salvaguardare (148).

Per tutte queste ragioni, la conditio si conferma un passaggio importante dell’indagine penalistica ai fini dell’ascrizione della responsabilità (149) nonché l’unica spiegazione cui può plausibilmente assegnarsi il nomen di (vera e propria) causalità. La ricostruzione potrebbe apparire suggestiva, e soprattutto utile a scandire i passaggi argomentativi nella gran parte dei casi in cui l’interprete si imbatta nel problema della causalità: a condizione, però, di aver presente che essa traccia un concetto molto ristretto di causa, destinato ad esser messo alla frusta in alcuni settori, e a creare non pochi problemi in altri. L’ipotesi in cui un siffatto concetto di causalità si mostra esemplarmente destinato a fallire è suggerita dall’inquinamento ambientale. Qui, l’eventuale costruzione di una fattispecie causalmente orientata (150) non consentirebbe di identificare il singolo apporto causale, dal momento che, quand’anche si riesca a delineare la causa complessiva sufficiente dell’inquinamento (attraverso la fissazione più o meno convenzionale di soglie), l’effetto sinergico prodotto dall’incontro — al suo interno — di diversi fattori condizionanti si sottrae al comune calcolo e produce, per converso, un effetto moltiplicatore del tutto imponderabile allo stato delle cono(147) La precisazione, fondamentale nell’economia di questo lavoro, sarà sviluppata nel paragrafo che segue. (148) Tolta questa seconda fase del giudizio, in nulla il paradigma nomologico utilizzato in materia di causalità differirebbe da quello che fonda il giudizio prognostico sull’idoneità degli atti nell’art. 56 c.p., nonché nelle ipotesi tipizzate di reati di pericolo concreto. Per un’approfondita ricostruzione del concetto epistemico di probabilità e delle modalità d’uso dello stesso da parte del diritto penale, di recente, I. GIACONA, Il concetto d’idoneità, cit., p. 63 ss. (149) Con vigore, in questo senso, F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., in particolare, p. 197 ss. (150) Come pure proposto in alcune iniziative legislative. Si veda AC/239, Realacci ed altri. Nel corso della precedente legislatura, vd. AS/3960, di iniziativa governativa.


— 674 — scenze (151). Il deficit di conoscenza impedirebbe di dipanare la rete causale, così verificando il carattere necessario della condotta individuale attraverso il citato metodo euristico negativo. Accanto a casi come questo, in cui l’indagine si rivelerebbe impraticabile, vi sono poi settori dove, sebbene possibile, essa appare comunque insidiosa: campi in cui finiscono con il confondersi aspetti concettualmente diversi per l’intrinseca difficoltà di attingere la prova in negativo ‘‘dall’esterno’’. In questi settori, il dramma non attinge alle caratteristiche logico-strutturali della causalità, e tuttavia l’ombra dell’immagine non si lascia afferrare neanche attraverso la prova per esclusione di cui parlava Wittgenstein. ‘‘Salta’’, dunque, il secondo momento dell’indagine e riaffiora il contrasto tra le due ‘‘anime’’ del diritto penale, mettendo il giurista di fronte alla seguente alternativa: a) privilegiare le istanze general-preventive ed accontentarsi anche qui di criteri di idoneità ex ante, quali quelli assicurati dal ricorso alla sola legge scientifica, inidonei ad assicurare la certezza nel caso concreto quand’anche — si è detto — espressione di una regolarità senza eccezioni; il che, oltretutto, è piuttosto raro. È questa la strada prescelta nella maggior parte dei casi dalla giurisprudenza, che ha finito con il ritagliare alcuni ‘‘sottosistemi’’ a causalità destrutturata in causabilità. Come è noto, peraltro, tale operazione ermeneutica contrasta, per un verso, con le esigenze di tassatività del diritto penale; per altro verso, nelle sue applicazioni si palesa spesso in contrasto con il principio di eguaglianza, dal momento che privilegia alcuni ambiti applicativi piuttosto che altri in cui pure viene in gioco il medesimo oggetto di tutela. Soprattutto, sacrifica il principio della responsabilità penale personale, già nella sua accezione basilare di ‘‘divieto di responsabilità per fatto altrui’’; b) valorizzare la funzione ascrittiva dell’imputazione causale; porla al riparo dal rischio di uno sconfinamento nell’incostituzionale terreno della responsabilità per fatto altrui, difendendo l’impostazione legalistica del sistema e con essa un concetto monistico di ‘‘causalità’’, con la consapevolezza, tuttavia, che la sua tenuta si allenta in alcune materie caratterizzate da una particolare complessità. In tali campi, sulla scia di quanto già accaduto in materia di ambiente attraverso la costruzione di fattispecie di pericolo (152), spetterebbe allora al legislatore ‘‘ripiegare’’ su fattispecie o strumenti che evitino l’accertamento ex post, ma che ovviamente scontino tale amputazione (e quindi i rischi derivanti dal ricorso a schemi (151) Da ultimo, con specifico riguardo al problema causale, C. PIERGALLINI, Danno da prodotto, cit., p. 216 ss. (152) Sulla rivalutazione dello schema del pericolo astratto, ormai tradizionale è il richiamo a G. FIANDACA, Note sui reati di pericolo, in Il Tommaso Natale, Milano, 1977; ID., La tipizzazione del pericolo, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, p. 49 ss. Specificamente sulle tecniche normative in materia di ambiente, G. FIANDACA-G. TESSITORE, Diritto penale e tutela dell’ambiente, in AAVV., Materiale per una riforma del sistema penale, Roma, 1984, p. 30 ss.; M. CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente, Padova, 1996; R. BAJNO, La tutela dell’ambiente nel diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 341; S. PANAGIA, La tutela dell’ambiente naturale nel diritto penale d’impresa, Padova, 1993. Per una critica nei confronti del ricorso alle fattispecie di pericolo astratto, di recente, F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 417 ss.


— 675 — di natura meramente presuntiva) a livello di ‘‘tipo’’ di risposta punitiva e sul piano sanzionatorio del quantum. Si impone, a questo punto, una breve e parziale rassegna dei settori nevralgici cui si allude.

10. Breve excursus: responsabilità medica e ragionamento causale. Verso un diritto penale fuzzy? — In campo medico, per esempio, si sta registrando un importante sviluppo la ricerca epidemiologica (153). Interiorizzato il fallimento della spiegazione nomologica (universale) della causalità; abbandonata la nozione di causa efficiente di aristotelica memoria, gli epidemiologi ‘‘ripiegano’’ su un concetto formale, ottenuto ‘‘attraverso una matematizzazione delle relazioni causa-effetto osservate’’ (154). Se il primato della statistica non è cosa nuova, certamente lo è invece il fatto che sia venuta meno la pretesa di far discendere conseguenze certe, in relazione al particolare rapporto causale, da leggi dotate di un più o meno elevato grado di efficacia predittiva. In sintesi, il nuovo approccio si caratterizza perché non tenta neanche più di spiegare il singolo nesso eziologico (155) in termini di necessitazione logica, ma lo considera di per sé irrimediabilmente stocastico; l’indagine viene concentrata su intere classi (di oggetti, di eventi, di processi) al fine di desumerne, in termini di regolarità, criteri idonei ad indirizzare nella identificazione dei rischi. Scompare così dal linguaggio degli epidemiologi il concetto di probabilità logica: l’unica probabilità che essi riconoscono è ‘‘empirica’’, e cioè discende dall’osservazione dei fenomeni simili. È chiaro, peraltro, che tanto non esclude l’opportunità di rinvenire una relazione, sebbene non necessitata, con il singolo evento. Non manca chi cerca di adattare alla scienza medica concetti elaborati nell’ambito della filosofia del linguaggio. È stato così proposto di accantonare l’analisi classica, e di sviluppare una nuova nozione di causa partendo dalla logica dei vettori e delle somiglianze di famiglia (156): ‘‘benché non sia possibile identificare delle regole che consentano di definire in modo incontrovertibile che cosa è un gioco (linguistico e non), è possibile evidenziare somiglianze tra diversi giochi e costituire delle famiglie di essi’’ (157). ‘‘Al termine di questo processo induttivo verrà reperito un nucleo centrale, un singolo elemento che garantisce l’apparte(153) L’epidemiologia è appunto quella branca della scienza medica che si concentra sullo studio dei sintomi, e che quindi si contrappone in particolare alla anatomia. (154) P. VINEIS, Modelli di rischio, cit., p. 23. (155) Sul punto, anche E. AGAZZI, La spiegazione causale, cit., p. 404 ss. (156) Elaborata sulla scia dell’insegnamento di L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Torino, 1999 (or. 1953), Parte I, § 7 ss.; in particolare, sulle ‘‘somiglianze di famiglia’’, § 67 (p. 47). (157) P. VINEIS, Modelli di rischio cit., p. 116. Il termine ‘‘gioco linguistico’’ è di evidente derivazione wittgensteiana. Vd. retro, nota 122.


— 676 — nenza univoca alla categoria. Si tratta di quella che i filosofi chiamano « Merkmaldefinizione » (158). La Merkmal-definizione sarebbe raffigurabile, come un nucleo prototipale dai confini indistinti; nello spazio semantico di questa metafora si muoverebbero i diversi vocaboli legati tra loro ed al nucleo da vettori, la cui lunghezza rappresenta il collegamento con il nucleo medesimo (159). La natura elastica del fuzzy set mostrerebbe il pregio di assicurare una conoscenza graduale che, rinunciando alla classica logica binaria (vero-falso), permette di quantificare il grado di verosimiglianza (160).

Al determinismo del procedimento logico deduttivo (in cui — lo si ripete — le premesse già contengono le conclusioni) anche le scienze hanno dunque sostituito uno statuto epistemologico diverso e non assimilabile, fondato sulla analogia tra fenomeni. Come si comporta in tutto ciò il diritto penale? Nonostante le reciproche incomprensioni e divergenze, sembra che uno strano destino lo accomuni alla scienza. La vita filosofica e quella penale della causalità continuano più o meno consapevolmente il loro corso parallelo (161). Già in relazione a fenomeni naturali (162), si colgono, infatti, i segni di un progressivo allontanamento dalla rassicurante impostazione che negava ingresso al diritto penale in ogni caso in cui non potesse darsi una spiegazione certa della relazione ‘‘causa-effetto’’. La letteratura giuridica che si occupa di tali fenomeni chiede aiuto ai nuovi modelli conoscitivi e, pur ribadendo la necessità di ricorrere in prima battuta al paradigma nomologico - (c.d. impropriamente) deduttivo (163), non esclude che (soltanto) nelle ipotesi di maggiore complessità, il giudice possa proficuamente avvalersi dei risultati dell’indagine epidemiologica (164). (158) P. VINEIS, Il crepuscolo della probabilità, cit., p. 60. (159) MACCORMAC, A Cognitive Theory, cit., la cui impostazione è riportata in P. VINEIS, Il crepuscolo, cit., p. 55 ss. (160) ‘‘Verità e falsità in senso stretto divengono i limiti del continuum di verità che si esprime nella metafora; precisamente: assolutamente vera è una proposizione entrata nel linguaggio ordinario (un’epifora spenta), mentre assolutamente falsa è una proposizione empiricamente falsificata e/o incoerente con il restante bagaglio delle nostre conoscenze (una diafora abbandonata)’’ (P. VINEIS, Il crepuscolo della probabilità, cit., p. 63). (161) Un segnale chiaro della perdita di fiducia nei modelli forti di causalità è rappresentato dal crescente interesse nei confronti delle moderne teorie sull’imputazione oggettiva dell’evento che la giurisprudenza tende a sostituire alle indagini sul nesso eziologico, soprattutto in alcuni settori del diritto penale. Sul punto, per tutti, M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’, cit., p. 32 ss. (162) Esemplificazioni classiche si trovano nell’ambito della responsabilità medica, ma anche in materia di ambiente e — settore di crescente interesse scientifico — a proposito dei ‘‘danni da prodotto’’. (163) Che peraltro si è visto essere impraticabile in diritto penale. (164) C. PIERGALLINI, Danno da prodotto e responsabilità penale, Ascoli Piceno,


— 677 — Invero, tuttavia, secondo la ricostruzione qui proposta, nelle ipotesi di tal fatta non sarebbe tanto questione di modello nomologico: certo, la bontà della legge potrebbe essere inficiata dal fatto che essa è ricostruita esclusivamente in via empirico-sperimentale, e non gode per converso anche della conferma a livello di credibilità razionale, ma ciò ancora non toglie che, se adeguatamente supportato dalla verifica, il nomos ben possa comunque essere ritenuto valido, ed espletare la sua capacità di spiegazione dal punto di vista del diritto penale. D’altro canto, si è già detto che quest’ultimo è sempre, in certa misura, costretto ad accollarsi il rischio della fallacia di una legge. Nei casi in esame, però, non sarebbe possibile neppure ripiegare sulla verifica ex post rappresentata dall’esclusione di ‘‘cause alternative’’. Ed allora, ciò su cui ci si comincia ad interrogare è se, in relazione al singolo evento, si possa rinunciare all’accertamento a posteriori in concreto. È sottinteso infatti che, in tali casi, il tipo di giudizio svolto dall’interprete in relazione al singolo evento non potrà che essere anch’esso analogico (d’altronde — si potrebbe affermare — la conoscenza stessa è ormai sempre scopertamente analogica). Disperando di poter conoscere la causa specifica di un determinato evento (causalità individuale), a volte, neanche si tentano i ripidi sentieri della logica classica; ci si accontenta, invece, di predizioni legate alla precedente osservazioni di fenomeni simili, muovendo alla ricerca di ‘‘semplici’’ corrispondenze di tipo analogico tra queste predizioni e lo svolgimento fenomenico del caso concreto (causalità generale): il massimo che si possa ottenere senza rinunciare del tutto al ruolo tipizzante della (si fa per dire) causalità. Lo si ripete. Se il richiamo a semplici predizioni non stupisce più di tanto, rappresentando in fondo l’essenza stessa del ricorso a leggi scientifiche (più che un corollario della graduale decomposizione del modello nomologico) (165), quel che merita di essere sottolineato è, piuttosto, il fatto che questo approccio perde per strada il secondo momento della verifica causale. Il giudizio controfattuale si avvia cioè ad essere estromesso definitivamente dall’indagine, dal momento che questa si arresta (tutt’al più) al momento della valutazione ex ante dell’idoneità, con il risultato di trasformare l’evento di danno in un mero evento di peri2000, p. 291 ss. D’altro canto, è noto che nella dottrina tedesca hanno cominciato a farsi strada impostazioni che, per un verso, ripiegano su criteri meramente indiziari (L. KUHLEN, Fragen einer strafrechtlichen Produkhaftung, Heidelberg, 1989, p. 72 ss.; I. PUPPE, « Naturgesetze » vor Gericht, in Juristichen Zeitung, 1994, p. 1151 ss.), per altro verso, affermano l’equivalenza funzionale tra spiegazione causale ed imputazione per aumento del rischio (N. LUHMANN, Illuminismo sociologico, Milano, 1983, p. 3 ss., orig. 1970); R. WOLF, Zur Antiquierheit del Rechts in der Risikogesellschaft, 1987, p. 357 ss.). Su posizioni chiuse, F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 225 ss., il quale esclude recisamente la conciliabilità delle posizioni epidemiologiche con lo schema deterministico su cui deve fondarsi la causalità in materia penale. Egualmente poco incline ad assecondare la flessibilizzazione delle categorie giuridiche in funzione dell’alleggerimento dell’onere probatorio, è Hassemer, il quale ha fotografato il nuovo concetto di causalità, come luogo di possibile incontro di fattori non sempre decifrabili, ricorrendo alla suggestiva immagine della black box, W. HASSEMER, Produktverartwortung, cit., rispettivamente, pp. 49 e 33. (165) Ancora, S. AMSTERDAMSKY. Vd. retro, nota n. 99.


— 678 — colo (166). Di fronte a relazioni ‘‘antecedente-susseguente’’ che sfuggono a spiegazioni in termini di regolarità statistica apprezzabile e/o che non risultino riconosciute sotto il profilo della credibilità scientifica, il deficit di informazione di tali statistiche raramente potrà essere aggirato facendo ricorso ad un approccio empirico, un approccio, cioè, che faccia uso del metodo dell’esclusione e ravvisi la ‘‘necessità’’ del legame causale quando siano da escludere ‘‘con certezza’’ fattori causali alternativi (167). È chiaro infatti che tale operazione, in rapporto a fenomeni biologicamente complessi, avrà una probabilità di successo piuttosto scarna.

Se questo è, dunque, quel che rimane della vecchia causalità, o — se si preferisce — il germe di un nuovo concetto, fortemente destrutturato, di causalità penale, si noti che esso non differisce poi tanto da quello propugnato nella giurisprudenza e basato sulla mera verosimiglianza delle ipotesi. Viene allora da interrogarsi sull’opportunità — ovviamente legislativa — di abbandonare lo schema tradizionale di responsabilità per le lesioni o l’omicidio colposo e di potenziare il modello dei reati di pericolo ovvero addirittura quello, tanto vituperato, dei reati formali (è probabile in forma contravvenzionale), creando fattispecie che comminino pene più blande rispetto agli editti degli attuali reati di evento, per l’inosservanza di protocolli deontologici (la cui bontà sia stata previamente riconosciuta a livello ufficiale).

11. Secondo breve excursus: c.d. causalità psicologica ed aumento del rischio. — Che dire poi della possibilità di esportare il modello, che mostra segni di invecchiamento nel settore in cui è nato, al di fuori delle situazioni in cui il secondo termine di relazione è comunque rappresentato da un evento in senso naturalistico? Ci si chiede se il paradigma causale possa ancora essere utilmente utilizzato per spiegare il rapporto tra fenomeni di tipo immateriale e, all’interno di questa categoria, fenomeni psichici, oppure se dietro una terminologia rassicurante (poiché nota), si celi, già oggi, il ricorso a criteri di diversa natura (168). (166) Sul punto, ampiamente, F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., ad esempio, p. 182 ss. (167) Un’applicazione del principio è stata fatta nella sent. Tribunale di Cremona, 14 ottobre 1999, cit., Foro it., 2000, II, c. 348, con nota di E. NICOSIA, Contagio di Aids tra marito e moglie e omicidio doloso. La sentenza è stata successivamente riformata in punto di elemento soggettivo, da C. App. Brescia, 26 settembre 2000, Lucini, Foro it., 2001, II, c. 285, con nota di E. NICOSIA, Contagio di Aids tra marito e moglie riqualificato come omicidio colposo nel giudizio di secondo grado; G. FORTE, Morte come conseguenza di contagio da Hiv: profili soggettivi. Assai più problematiche si rivelano le ipotesi, ancora non adeguatamente studiate, di trasmissione alle persone del BSE, dove la difficoltà di ipotizzare fattori causali alternativi potenzialmente rilevanti rende difficile la prova del loro mancato intervento. (168) Secondo Carnap, non ci sarebbe contraddizione tra libera scelta e determinismo, poiché la prima è ‘‘una decisione presa da qualcuno capace di prevedere le conseguenze di serie alternative di azioni e di scegliere quelle che preferisce’’ (R. CARNAP, I fonda-


— 679 — Sul punto, soltanto pochi cenni. È ben vero che sono reperibili generalizzazioni su modalità comportamentali, ma tanto non consente di ravvisare l’operatività di meccanismi causali veri e propri (169). In primo luogo, il tasso di verificabilità empirica delle leggi è, in relazione ai meccanismi psichici, più basso che altrove. Il che di per sé inficia il tasso di scientificità della legge, declassandola a criterio meramente indiziario. In secondo luogo, il ricorso ad assunzioni tacite deve essere abbondante, e quindi tale da svilire ulteriormente la bontà del metodo logico, gettando ombre sulla possibilità stessa di chiarire il singolo fenomeno di condizionamento psicologico. Per un verso, infatti, è appena il caso di ricordare che in relazione alle dinamiche psicologiche la prova, più che difficile, è addirittura giuridicamente impossibile (fatto salvo, ovviamente, il caso della confessione). Per altro verso, in questo campo non può operare nel modo che si è detto la condizione umana all’interno di una pluralità di cause: difficilmente essa avrà il carattere della necessità (salta il secondo momento dello schema quadripartito della condizione insufficiente, ma necessaria al verificarsi di una causa sufficiente ma non necessaria), dal momento che qui si interpone il fondamentale postulato di tutto il diritto punitivo, e cioè la libera determinazione dell’agente (170). Se è così, in queste applicazioni, il ricorso alla (c.d.) legge sembra esaurire tutto il giudizio, dismettendo il ruolo tradizionale di premessa maggiore da cui desumere la conclusione in rapporto al caso concreto. L’impossibilità di utilizzare, come chiusura, la conditio nei rinnovati termini che si sono indicati impedisce, quindi, di recuperare l’ultimo momento della causalità: quello cui viene affidata la valutazione ex post, essenziale al concetto stesso di causa.

Di tali difficoltà è ben consapevole la dottrina, da sempre impegnata a sciogliere il nodo della causalità, in generale, nel concorso di persone menti filosofici, cit., p. 276). Parzialmente in termini, anche G.H. VON WRIGHT, Spiegazione e comprensione, p. 169 ss., il quale ascrive il meccanismo motivazionale affidato alle norme allo schema teleologico, piuttosto che causale. Nel senso dell’inutilizzabilità delle leggi, che potrebbero tutt’al più assumere un valore di tipo probatorio, H.L.A. HART-A.M. HONORÉ, Causation in the Law, Oxford, 1962, p. 48 ss. Contra, K. ENGISCH, Das Problem der psychischen Kausalität beim Betrung, in Festschrift für Hellmut von Weber, Bonn, 1963, p. 247 ss., alla cui posizione aderisce F. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 104 ss. Nella letteratura penalistica, vd. anche M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1995, p. 343. (169) Nell’ambito della letteratura filosofica si è recentemente espresso in senso positivo, M. DORATO, Il software, cit., p. 240 ss.; contra, C. PIZZI, Teorie della probabilità, cit., p. 147 ss. In senso negativo, nella dottrina penalistica, F. ANGIONI, Il pericolo concreto, cit., p. 114 ss.; M. BERTOLINO, La crisi del concetto di imputabilità, in Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 249 ss.; sebbene meno in termini, cfr. anche EAD., L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, p. 123 ss. (170) In ordine alle dinamiche interrelazionali della responsabilità penale, è oramai quasi di stile il rinvio alla trattazione di H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handungsunrecht und das Prinzip der Selbstverantwortung des Anderen, Tübingen, 1986. Più in generale, sul principio di autodeterminazione, la letteratura è vasta; ci si limita quindi a citare, per tutti, A. ROSS, Determinismo e morale, in Colpa, responsabilità e pena, Milano, 1972, p. 111 ss.


— 680 — (dove il secondo termine della relazione non è un singolo evento naturalistico, ma il fatto di reato) (171) e, più in particolare, all’interno del contributo causale, con riferimento alla determinazione ed alla istigazione. In questo specifico settore, anche chi, impegnandosi in una improbabile quadratura del cerchio, ostenta attaccamento al paradigma causale, finisce in verità con il ripiegare su schemi di valutazione ex ante (facendo applicazione di criteri di imputazione) e, nella difficoltà di operare una verifica del singolo caso, insiste sull’utilità di indici meramente sintomatici, come lo stato di incapacità o di particolare disadattamento dell’istigato (in cui difetterebbe la normale autoresponsabilità) o, per converso, l’utilizzazione di mezzi qualificati (minacce, promesse), da parte dell’istigatore (172). Non sembra necessario spingersi oltre. Preme soltanto esprimere solidarietà con la giurisprudenza la quale, in mancanza, in questo settore, di risultanze anche solo di tipo sintomatico (come quelle della epidemiologia, in medicina) ‘‘ripiega’’, come noto, su criteri di imputazione oggettiva e, primo tra questi, sul c.d. aumento del rischio. Non potrebbe essere diversamente, dato che la peculiarità dei fenomeni di natura psicologica consente tutt’al più, come si è visto, l’utilizzazione di schemi presuntivi (173). Sicché, in conclusione, nell’impossibilità di disattendere le esigenze di difesa sociale e di ‘‘espellere’’ dall’ambito applicativo dell’art. 110 le forme del concorso morale (oltretutto si tratterebbe di un’operazione non (171) Il concorso di persone in generale rappresenta notoriamente uno dei settori in cui il concetto di causalità è stato messo da tempo alla frusta. Per tutti, A. PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, p. 792. Cfr., la ricostruzione ‘‘alternativa’’ alla conditio proposta da F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984. Altri settori in cui si riconosce l’infungibilità del modello nomologico puro e l’esigenza di ricorrere a suoi ‘‘equivalenti normativi’’, sono l’omissione e l’impedimento di azioni di salvataggio altrui: nella letteratura italiana, per tutti, A.R. CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit., p. 49 ss. (172) A. SERENI, Istigazione al reato e autoresponsabilità, Padova, 2000, p. 141 ss. Più coerente è la posizione di L. VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, p. 1358 ss. L’autrice esclude expressis verbis la riconducibilità di tutte le forme di partecipazione al contributo causale inteso come conditio sine qua non (accertabile ex post), desumendo tale conclusione, tra l’altro, proprio dall’indicazione legislativa dell’art. 115 c.p. che — in negativo — attribuirebbe rilievo anche all’accordo ed all’istigazione tout court (se seguiti dal reato, ovviamente). Sul punto, in particolare, p. 1401 ss. Analogamente, valorizza anche nell’ambito del concorso morale il dato dell’organizzazione, sul presupposto dell’inadeguatezza del paradigma eziologico, G. INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, p. 59 ss. Difende invece anche nel concorso morale l’uso irrinunciabile del criterio causale, G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico al codice penale, Milano, 1996, p. 163 ss. (173) Si noti inoltre come detti criteri abbiano debordato i lidi della tipicità colposa (monosoggetiva), per approdare in un settore fortemente connotato in termini di tipicità dolosa. D’altro canto, ci si chiede se possa mai ravvisarsi una reale dipendenza causale tra fattori psicologici nei reati colposi dove — in più — le condotte nelle quali i suddetti fattori si estrinsecano difettano per definizione di ogni finalismo.


— 681 — consentita dal dato positivo dell’art. 115, che espressamente le contempla, sebbene in negativo), ci si limita a constatare come dalle valutazioni svolte escano rinforzate le ragioni di quanti invocano l’adozione di un paradigma differenziato, con l’effetto di introdurre anche una diversificazione del regime sanzionatorio tra le diverse ipotesi (174).

12. Terzo breve excursus: la tenuta della conditio sine qua non nelle organizzazioni complesse. — Un’altra classe di ipotesi in cui invece sempre più di frequente fallisce il secondo momento dell’indagine causale è legata alla tematica, di dirompente attualità, della causalità nelle organizzazioni complesse. Premesso infatti che in queste ipotesi non si pone un vero e proprio problema di causalità scientifica (non ha senso cercare generalizzazioni relative ai meccanismi decisionali nell’ambito dell’azienda!), quanto invece al ‘‘classico’’ accertamento della conditio, si assiste alla frammentazione puntiforme delle competenze all’interno ed all’esterno della struttura, sino ad ingenerare serie difficoltà già in ordine all’identificazione del centro decisionale cui viene addebitata la condotta causalmente rilevante, con conseguente riverbero sull’individuazione della sua efficacia condizionante. Se a ciò si aggiungono le difficoltà concettuali che da sempre insidiano la materia della delega (175), diviene facile comprendere l’atteggiamento della giurisprudenza. Questa, a fronte di quella che è spesso agevole definire una vera e propria politica d’impresa volta alla commissione di reati (176), ‘‘improvvisa’’ posizioni di garanzia, allo scopo di appiattirvi responsabilità di posizione che discendono dalla ricostruzione di improbabili ipotesi omissive, al fine di prescindere (sa(174) Per tutti, S. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, p. 255 ss. (175) Su cui, come si sa, seppur con diversità di accenti al loro interno, si distinguono impostazioni ‘‘oggettiviste’’ (in dottrina, per tutti, G. FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 199 ss.; G. GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 438 ss.; A. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale d’impresa, Firenze, 1985, p. 175 ss.; più specificamente, sulle figure del garante e del sorvegliante, p. 199 ss.) ed impostazioni ‘‘soggettiviste’’ (per tutti, T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro. Profili generali, Milano, 1976, p. 80 ss.; A. ALESSANDRI, Art. 27, in BRANCA-PIZZORUSSO (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1991, p. 146; D. PULITANÒ, Igiene e sicurezza sul lavoro (voce), in Dig., disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 106 ss.; M. MANTOVANI, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 245 ss.). (176) Si pensi, per tutti, al caso della Ford Motor Pinto, citato, tra gli altri, da F. STELLA, Criminalità d’impresa: Lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 467 e da M. ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, 306 s. Il caso riguardò la morte di alcuni automobilisti a seguito dell’incendio verificatosi per lo scontro di due autovetture, di cui una (appunto la Ford) aveva il serbatoio della benzina collocato nel cofano anteriore piuttosto che dietro. Nel corso dell’indagine, si accertò che la società era a perfetta conoscenza dei maggior rischi che tale scelta comportava, e che aveva altresì preventivato i costi per gli eventuali risarcimenti dei danni in un ammontare comunque inferiore ai risparmi di spesa.


— 682 — rebbe un’impresa disperata!) dalla ricostruzione degli anelli causali-decisionali (177); altre volte, più di rado, aggira l’imbarazzante difficoltà di una tale, onerosa, dimostrazione, ed attribuisce, a monte, un rilievo forse immeritato all’autodeterminazione della vittima, facendola assurgere a capro espiatorio di un’insufficienza probatoria che con il diritto sostantivo (cui si dovrebbero ispirare le ragioni della punizione) ha invero poco a che fare (178). La verità è che, nel confronto con le nuove realtà , il diritto penale incentrato sull’autore-persona fisica non ha molto da offrire (179); ed è giunta l’ora che ceda il campo a strumenti di tutela, pensati direttamente attorno a realtà diverse da quelle fisiche individuali (180).

13. Il capoverso dell’art. 41 c.p. come porta d’ingresso di decorsi causali alternativi e ‘‘controprova’’ in negativo della condizione INUS. — Passando ad esplicitare i rapporti del comma 1 degli artt. 40 e 41 con il capoverso dell’art. 41 c.p. in vista di un reciproco coordinamento, si distinguano i diversi angoli visuali da cui è stata guardata la norma: a) una prospettiva interna, che ne fa un giudizio riferito alla condotta umana; b) una prospettiva esterna, che la vede come requisito di una condizione diversa dalla condotta umana su cui si incentra il giudizio. Quanto alla prima accezione (a), lato sensu riconducibile all’adegua(177) Sulla delega, dopo l’intervento del d.lgs. n. 626 del 1996, per tutti, A. GULLO, La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto, nota a Cass., sez. III, 29 gennaio 1999, Celino, in questa Rivista, 1999, p. 1508 ss.; F. CENTONZE, Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica e organizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, nota a Cass., sez. IV, 3 marzo 1998, n. 548, Brambilla, e Cass., sez. III, 26 febbraio 1998, n. 681, Caron, in questa Rivista, 2000, 369 ss. Con riguardo alle problematiche della successione nelle posizioni di garanzia, A. GARGANI, Ubi culpa, ibi omissio. La successione di garanti in attività inosservanti, in Ind. pen., 2000, p. 581 ss. (178) Così, nell’ambito della responsabilità del produttore (settore per lo più segnato da un alto tasso di complessità aziendale), si segnala Cass., sez. IV, 16 aprile 1993, Puskas, in questa Rivista, 1996, p. 352 ss. con nota di C. PIERGALLINI, La responsabilità del produttore: avamposto o Sackgasse del diritto penale? (179) Tra i primi, in Italia a segnalare il problema, C.E. PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1245, il quale suggerisce una soluzione sul fronte della tipizzazione del concorso di persone, e cioè una ‘‘parcellizzazione formalizzata della responsabilità penale, fondata, quel che più conta, su sfere obiettive di attività o di funzioni’’. Sul diverso fronte degli obblighi giuridici in materia di responsabilità omissiva, si vedano ora gli artt. 22 e 23 dell’articolato della Commissione ministeriale presieduta dal prof. Grosso (artt. 22 e 23), in www@giustizia.it. (180) Ci si riferisce ovviamente all’opportunità di estendere l’ambito applicativo del d.lgs. n. 231 del 2001 anche alla materia dell’infortunistica lavorativa (come peraltro originariamente fatto negli schemi preparatori del decreto, in ottemperanza dei criteri di delega legislativa). Ampia oramai la letteratura sulla responsabilità degli enti. Per tutti, C. DE MAGLIE, Societas delinquere potest (ed. provv.), Padova, 1999; DE SIMONE, Societas delinquere et puniri potest (ed. provv.), Como, 2000.


— 683 — tezza causale, è bene muovere dalla constatazione che le letture incentrate o comunque riconducibili (181) alla causalità adeguata sottintendono, nella loro formulazione più evoluta (182), ancora una volta quel concetto di probabilità che si è visto riempire (e talvolta esaurire), il contenuto della causalità scientifica condizionale (183). Così, nella lettura tradizionale (per intenderci, quella di Stella), una volta ‘‘normativizzato’’ il nesso di condizionamento mediante il ricorso al modello nomologico, si appannano sino a svanire la differenza tra il comma 1 e 2 dell’art. 41 c.p.; le due disposizioni si sovrappongono dal punto di vista dell’essenza, con ciò negandosi, almeno in parte, reciproca utilità, e sembrerebbero coincidere anche sotto il profilo del telos che le caratterizza. In proposito, basti ricordare come il pensiero dominante individua nel capoverso dell’art. 41 l’unica sede dove collocare le impostazioni riconducibili alla categoria dell’imputazione oggettiva (184), e che questa nasceva storicamente come limite di natura normativa, anche se orientato non secondo criteri di valore, bensì in termini meramente quantitativi (185), operante sul piano della tipicità oggettiva e volto a rimediare agli eccessi della (visione allora naturalistica della) condi(181) Il richiamo è, scopertamente, alla causalità umana di ANTOLISEI, Il rapporto di causalità, cit., p. 199 ss. Si deve a G. LICCI, Teorie causali, cit., una recente rivalutazione della teoria dell’imputazione antoliseiana, fondata sul concetto di ‘‘dominabilità-esigibilità’’, anche alla luce del principio costituzionale di personalità della responsabilità penale (cfr., in particolare, da p. 169). (182) Fin troppo note le critiche alla ‘‘prima versione’’ della causalità adeguata (v. KRIES, Die Prinzipien der Wahrscheinlichkeitszurechnung, 1886; ID, Über den Begriff der objektiven Möglichkeit und einige Anwendungen desselben, in VfWPh, 12 (1988), pp. 179, 287, 393; ID., Über die Begriffe der Wahrscheinlichkeit und Möglichkeit und ihre Bedeutung im Strafrecht, in ZStW, 9 (1889), p. 528 ss.). Il rischio della soggettivizzazione del giudizio, già denunciato da G. RADBRUCH, Die Lehre von der adäquaten Verursachung, 1902, p. 24 ss., è stato in Italia rilevato per primo da P. TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967, p. 33 s.; vd. anche G. FIANDACA, Causalità (rapporto di), cit., p. 125. Sulle origini della causalità adeguata, E. DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in questa Rivista, 1979, p. 779 ss. (183) Anzi, pur nella sua non perfetta formulazione, l’art. 41 capoverso pare piegarsi meglio della vuota formula dell’art. 40, comma 1, ad una spiegazione che faccia leva su modelli nomologici. (184) Tra gli altri, G. FIANDACA, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 2001, p. 221; ID., Causalità (rapporto di), cit., p. 129 s.; M. ROMANO, Commentario sistematico, cit., p. 374 ss.; A.R. CASTALDO, L’imputazione oggettiva, cit., p. 45. Esplicitamente, sulla causalità adeguata come dottrina dell’imputazione anche C. ROXIN, La problematica dell’imputazione oggettiva, in Politica criminale e sistema del diritto penale, Napoli, 1998, p. 89. (185) È stato osservato come, una volta superate le critiche sull’eccesso di soggettivizzazione attraverso il recupero della dimensione nomologica del giudizio, il limite dell’adeguatezza comunque permarrebbe, essendo legato proprio alla valorizzazione del solo suo aspetto statistico. Così, se l’adeguatezza può essere utilmente invocata per escludere la responsabilità di chi convince taluno ad andare in crociera, confidando che muoia (come puntualmente si verifica) a causa di un naufragio, incontra per converso già grosse difficoltà quando debba sostenere la stessa conclusione in rapporto al ferimento seguito da un trasporto in ambulanza, da cui derivi un incidente e quindi la morte della persona ferita. M.


— 684 — tio (186). Nella memoria degli intenti della causalità adeguata, si rinviene, dunque, il completamento e la chiusura del modello causale, non la duplicazione di quest’ultimo (187). Ebbene, siffatta funzione risulta abdicata, nel momento stesso in cui il modello condizionalistico, nella sua rilettura ‘‘scientifica’’, si riempie di un contenuto nomologico-quantitativo e, grazie a tale ‘‘autolimitazione’’, di fatto rende pleonastiche le teorie sull’imputazione oggettiva (188). Si pensi a casi di scuola, ritenuti oramai di agevolissima soluzione, come quello della persona ferita con arma da fuoco che trova la morte a seguito dell’incendio scoppiato nel nosocomio dove viene ricoverata (189) (causa alternativa reale ovvero — in un linguaggio epistemologicamente corretto — causalità sorpassante). È chiaro che ci si trova in presenza di un evento concreto diverso da quello ‘‘causato’’ dal comportamento umano ed in relazione al quale non può essere usata la legge scientifica che informa riguardo alla potenza di sparo dell’arma, ecc., appunto perché priva di attinenza con esso. Il che equivarrebbe a dire che nel giudizio usato per accertare la causalità, si ravvisa, nella premessa minore una condizione difforme che inficia la clausola ceteris paribus e nega capacità predittiva alla legge. Comunque la si metta, l’art. 41, comma 2, non avrebbe alcuna pratica utilità. DONINI, Lettura sistematica, cit., p. 603. L’autore osserva, quindi, come ‘‘le teorie dell’adeguatezza evidenzino qui un limite culturale di fondo, che consiste nella ristrettezza del punto di vista statistico rispetto alla molteplicità delle ragioni « normative » per cui una condotta probabilisticamente orientata all’evento, può non essere « oggettivamente » rilevante sul piano della tipicità (ibidem). Necessario, dunque, inserire nella valutazione un momento ulteriore, di natura squisitamente normativa: ciò hanno fatto le impostazioni che sono succedute alla teoria dell’adeguatezza, valorizzando la prospettiva teleologica insita nel concetto di imputazione (Lettura sistematica, cit., p. 605 s.). (186) È fin troppo noto che l’impostazione si sviluppò sul finire del IX secolo, come correttivo della conditio per contenere l’ambito della responsabilità nei reati in cui l’ascrizione dell’evento non conosceva il filtro dell’elemento soggettivo; in particolare trovò la sua prima formulazione in rapporto ai reati aggravati dall’evento. VON KRIES, Die Prinzipien der Wahrscheinlichkeitsrechnung, 1886; ID., Über den Begriff der objectiven Möglichkeit und einige Anwendungen desselben, in Vierteljahresschrift für wissenschaftliche Philosophie, 1988, pp. 179 s., 287 s., 393 s.; ID., Über die Begriffe der Wahrscheinlichkeit und ihre Bedeutung im Strafrecht, in ZStW, 9, 1889, p. 528. La teoria mirava a selezionare, all’interno delle diverse conditiones, alcune meno equivalenti di altre, cui ascrivere tutto il giudizio di rimprovero penale e, nel far ciò, ricorreva al criterio della idoneità causale (per tutti, BOCKELMANN, Strafrecht, A.T., 1973, p. 67). Nasce per rispondere a (diverse) istanze di ‘‘giustizia sostanziale’’ anche la teoria dell’aumento del rischio-scopo della norma violata (su cui infra), la quale ha trovato le sue più proficue applicazioni nelle ipotesi segnate da un contesto lecito di base (vd. il caso di scuola del nipote) ed in quelle di c.d. condotta alternativa lecita. (187) Sulle differenti interpretazioni degli elementi fondanti la teoria, per tutti, E. DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in questa Rivista, 1979, p. 779 ss. (188) Sostiene coerentemente l’inutilità dei criteri di imputazione oggettiva, F. STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 392 ss. Nel senso dell’inutilità del capoverso dell’art. 41 c.p., in passato, per tutti, O. VANNINI, Ancora sul problema della causalità, in Annali di dir. e proc. pen., 1934, p. 1335. (189) Relazione ministeriale sul progetto definitivo del codice penale, cit., n. 44.


— 685 — Non si richiamano ancora una volta le ragioni per cui l’idoneità non può essere ritenuta un attributo della condotta umana indispensabile affinché questa possa assumere un rilievo eziologico (190). E ci si limita ad osservare che, peraltro, il discorso non muta neppure ove si abbracci la prospettiva sostenuta in queste pagine, e si muova alla ricerca di una causa ‘‘sufficiente’’ alla produzione dell’evento (secondo una lettura oltretutto più conforme al dato testuale). Anche nell’accezione b), il capoverso dell’art. 41 non si riferirebbe più alla condotta umana, ma diventerebbe un attributo di altra causa che, sopravvenendo, produca l’evento. Ciò non di meno, come da sempre sottolineato in dottrina, la norma in esame non acquisterebbe alcun valore additivo. Anzi. Si sa che nella direzione di un recupero del dato normativo, non è sufficiente individuare il significato delle ‘‘cause da sole sufficienti a determinare l’evento’’ muovendo dalla considerazione, in sé banale, che mentre il comma 1 dell’art. 40 c.p. guarda alla causalità ‘‘dal punto di vista’’ dell’agente, il capoverso dell’art. 41 riflette tale lettura nella diversa prospettiva delle forze esterne e diverse dalla condotta del soggetto attivo (quand’anche — ovviamente — rappresentate da altre condotte umane: art. 41, ult. comma, c.p.) (accezione b). Nel richiamo, a questo punto esplicito, alla verificazione di ‘‘decorsi causali alternativi’’, — si dice — sarebbe opportuno spingersi oltre una conferma dell’antica tesi secondo cui il capoverso dell’art. 41 c.p. farebbe un banale quanto inutile riferimento alle « interferenze di serie autonome meramente occasionali » (191), essendo ormai acquisito che ragioni di interpretazione sistematica impongono di inserire le ‘‘cause da sole sufficienti’’ comunque nel tema delle ‘‘concause’’ del comma 1 (192). Dunque, deve assumersi che il capoverso in esame venga in ballo solo quando si sia in presenza del medesimo evento (concreto). La considerazione riporta a quella che abbiamo qualificato come la ‘‘seconda fase’’ dell’indagine causale, ed induce a verificare se, almeno con riferimento ad essa, il capoverso dell’art. 41 possa vantare una sua autonoma ragion d’essere. Così, potrebbe ritenersi che, all’interno della complessiva causa sufficiente, impe(190) Sul punto, retro, § 6. (191) Sul punto si rinvia alle note diverse impostazioni che si contrapposero al momento della redazione della norma e che si trovano documentate nella Relazione ministeriale sul progetto definitivo del codice penale, cit., n. 58. Può peraltro essere interessante notare come, nel definire le possibili nozioni di ‘‘caso’’, E. Nagel faccia riferimento ‘‘all’intersezione di due serie causali indipendenti’’ (E. NAGEL, La struttura, cit., p. 335). (192) Su questo punto, diffusamente, A.A. DALIA, Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Napoli, 1974, cui si deve un originale contributo sulla ricostruzione interpretativa del rapporto tra le disposizioni di cui all’art. 41. Secondo l’autore, infatti, il criterio dell’equivalenza delle condizioni, accolto dal codice in generale e quindi con riferimento anche alle concause preesistenti e concomitanti (A.A. DALIA, Le cause sopravvenute, cit., p. 42 ss. con riguardo ai soliti casi dell’emofiliaco e del cardiopatico), sarebbe invece derogato nell’ipotesi di intervento di fattori sopravvenuti, a favore dell’adeguatezza (intesa come normale prevedibilità) della condotta umana; più esattamente, quando la condotta umana risulti adeguata alla produzione dell’evento, non si avrebbe interruzione del rapporto causale nonostante l’intervento di ulteriori condizioni determinanti (op. cit., p. 47 ss.).


— 686 — disce l’ascrizione di responsabilità all’agente l’intervento di una condizione successiva. Quando tuttavia ci si interroga su quali debbano essere le caratteristiche di tale condizione ‘‘invalidante’’, non si trovano risposte esaustive: l’aspetto qualificante questa tipologia di condizioni non consiste nell’occasionalità e neppure nell’autonomia, ma, a rigore, non è rinvenibile neanche — come pure usualmente si ritiene — in una sua particolare efficacia eziologica, del tutto eventuale (anzi, se ci si trovasse di fronte ad una vera e propria causa sufficiente — accertabile mediante il modello nomologico — si tornerebbe alla causa autonoma di cui è appena detto).

Quindi, l’unica conclusione plausibile, e molto riduttiva, porta a ritenere che, con il comma 2 dell’art. 41, l’accertamento del nesso causale conosca solo in apparenza un passaggio ulteriore: verificata, dapprima, la presenza di una condizione senza la quale non si sarebbe realizzato l’evento, ci si chiederà se si versi in una di quelle ipotesi in cui la condotta umana cessa dunque di essere necessaria, in base alla nuova versione (per intendersi, quella INUS!) della conditio. In altri termini, se consta la riconducibilità dell’evento ad una condizione cronologicamente successiva, questa getta retrospettivamente luce sulla ‘‘non necessità’’ della conditio umana alla verificazione dell’evento e la sospinge, quindi, nel buio del penalmente irrilevante. Lo si ripete: gli accertamenti sono speculari (l’uno serve ad ascrivere la responsabilità, l’altro a negarla), ma identici nella sostanza (193). (193) Ciò chiarisce il richiamo compiuto nel testo alle sole cause « sopravvenute ». Stando infatti agli esempi, che si tramandano nella manualistica, di c.d. cause preesistenti, quali l’emofilia soggetto leso ovvero la cardiopatia del percosso, e premessa la necessità di guardare all’evento nella sua riconfigurazione hic et nunc, la natura eccezionale del decorso causale appare in queste ipotesi dubbia. Al contrario, come si è già dimostrato, sarà agevole reperire generalizzazioni sulla base delle quali affermare che la mancata coagulazione del sangue determina consistenti perdite ematiche e porta quindi in una percentuale alta di casi alla morte dell’emofiliaco ferito, nonché — mutatis mutandis — che, con alta probabilità, lo spavento inferto a persona sofferente di cuore determina un’alterazione delle sue funzioni cardiache che può portare al decesso. Di conseguenza, all’interno della causa sufficiente (anche se non necessaria), la condotta umana svolge sempre il ruolo di condizione necessaria (sebbene non sufficiente) in relazione alla morte dell’emofiliaco o del cardiopatico. Dunque, non vi è modo di escludere l’imputazione dell’evento sul piano oggettivo. Tale consapevolezza non dovette essere estranea alle scelte legislative in materia di causalità. Nelle ricostruzioni del tema, infatti, spesso si omette di ricordare come già il codice Zanardelli del 1889 riconoscesse alle condizioni preesistenti esclusivamente il rilievo di concausa quando, all’art. 367, diminuiva la pena dell’omicidio se « la morte non sarebbe avvenuta senza il concorso di condizioni preesistenti ignote al colpevole, o di cause sopravvenute e indipendenti dal suo fatto » (il corsivo è nostro). Né il codice Rocco intese distaccarsi da questa soluzione, avendola riproposta, sebbene in termini meno espliciti, in via generale nel capoverso dell’art. 41, ed essendosi limitato ad escludere l’attenuante per l’omicidio. D’altro canto, il dubbio che le cause preesistenti e concomitanti fossero state escluse a ragione dalla disciplina dell’art. 41, comma 2, ha da tempo iniziato a farsi strada in dottrina. Vd. G. FIANDACA, Causalità (rapporto di), cit., p. 130; M. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 377 (nota 119); F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza


— 687 — In qualunque accezione lo si voglia assumere, l’art. 41, comma 2 diviene così una semplice ‘‘prova del nove’’ rispetto all’accertamento già compiuto o, se si preferisce, una formulazione ‘‘in negativo’’ di quanto espresso nelle norme del codice che precedono. Ciò precisato, si ribadisce che la presenza di una causa alternativa vanifica il (momento ultimo del) modello condizionalistico anche quando la legge su cui quest’ultimo si fonda esprima il suo contenuto in termini di alta probabilità (194), se la presenza di una diversa evenienza prova che il comportamento umano potrebbe non essere necessario alla verificazione della causa stessa. Così accade nelle esemplificazioni ricorrenti nella ‘‘nuova’’ tradizione penalistica, e cioè nei casi di latenza dell’agente patogeno: quando cioè, in considerazione del lungo tempo di incubazione della malattia, non sia possibile ascrivere con certezza un evento ad un fattore causale piuttosto che ad un altro nel frattempo intervenuto. Riprendendo l’esempio dell’operaio lungamente esposto a polveri di amianto, si consideri il caso in cui i fattori causali non siano più tra loro contemporanei, ma che ad esempio l’operaio divenga un fumatore accanito molto tempo dopo l’esposizione (causa alternativa presunta) (195). In quest’ipotesi, la presenza di una possibile causalità alternativa determina l’insufficienza probatoria dell’accertamento condizionale. Ancora, e viceversa rispetto al caso precedente, ove si riesca ad escludere con certezza la presenza di decorsi causali alternativi, sarà possibile ascrivere la responsabilità anche sulla base di generalizzazioni causali a basso contenuto statistico. Ad esempio, un giudice di merito ha giustamente affermato la sussistenza del rapporto di causalità e quindi (una volta ravvisato l’elemento soggettivo) la responsabilità per omicidio di un uomo, sieropositivo, che aveva avuto rapporti non protetti con la moglie, in seguito defunta, dopo aver escluso la possibilità che la stessa avesse contratto il virus con altri partner a seguito di trasfusione, ecc. (196). E ciò — si legge nella sentenza — nonostante la percentuale di contanella responsabilità colposa, Padova, 1993, p. 400 ss. e, sebbene con riferimento all’aumento del rischio, A. PAGLIARO, Diritto penale, pt. gen., Milano, 2000, p. 371; F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., p. 143 s. Nel senso, come noto, che si tratti di una mera dimenticanza legislativa, colmabile attraverso l’estensione in via analogica del capoverso dell’art. 41, ovvero mediante il ricorso alla disciplina del caso fortuito (art. 45 c.p.), rispettivamente, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, 2000, p. 252 s.; F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2001, p. 162. (194) Sul punto, sono già state richiamate le puntuali osservazioni di M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’, cit., pp. 57 ss. e 72 ss. (195) È chiaro peraltro che, quando la causa è definita « presunta », tale attributo si riferisce all’impossibilità di verificare in concreto (attraverso la conditio sine qua non) l’operatività di un fattore pur sempre esistente (e che si presta alla spiegazione attraverso una legge dotata di capacità predittiva), e non già alla presenza ‘‘immaginaria’’, meramente supposta, di quest’ultimo. Tale ipotesi rientrerebbe nel diverso tema della c.d. causalità alternativa ipotetica. (196) Trib. Cremona, 14 ottobre 1999, cit. Celebre è il precedente del Bundesgerichtshof, 4 novembre 1988, in Foro it., 1981, IV, p. 148, con nota di S. CANESTRARI, La rilevanza penale del rapporto sessuale non protetto dell’infetto-Hiv nell’orientamento del Bundesgerichtshof. Su quest’argomento, anche ID., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, p. 320 ss. Specificamente sul rapporto di causalità, p. 324 ss.


— 688 — gio dell’HIV nel caso di rapporto sessuale non protetto sia decisamente bassa, non superando il 3-4%. Infine, una rigorosa applicazione dei principi in tema di conditio sine qua non dovrebbe condurre a ritenere che in ogni caso in cui non sia possibile rinvenire ma neppure escludere con certezza la presenza di un decorso causale alternativo, non siano sufficienti generalizzazioni statistiche, quand’anche espressione di probabilità assai elevate. La condizione è necessaria o non lo è. Tertium non datur. OMBRETTA DI GIOVINE Ricercatrice di Diritto Penale presso l’Università di Roma II-Tor Vergata


COMMENTI E DIBATTITI

INCONTRO CON L’AUTORE FEDERICO STELLA: ‘‘GIUSTIZIA E MODERNITÀ - LA PROTEZIONE DELL’INNOCENTE E LA TUTELA DELLE VITTIME’’

Nell’ambito degli incontri con l’Autore organizzati dalla Cattedra di Diritto processuale penale e, in quest’occasione, con l’aiuto della Cattedra di Diritto penale si è svolta nell’aula magna della facoltà di giurisprudenza il giorno 6 luglio 2001 la cerimonia di presentazione dell’opera di Federico Stella (prof. ordinario di Diritto penale - Università Cattolica di Milano) su ‘‘Giustizia e modernità - La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime’’ (Giuffrè 2001). La presentazione è stata curata dal prof. Vincenzo Garofoli (prof. ordinario di Diritto processuale penale) e dal prof. Adelmo Manna (prof. straordinario di Diritto penale). Il libro di Stella movendo dalla considerazione che i lunghi anni di tangentopoli hanno rappresentato i problemi della Giustizia in una prospettiva mediatica non contribuendo certo alla creazione di un’avvertita consapevolezza, ma semmai esasperando l’approccio popolare alla strumentalizzazione ed alla spettacolarizzazione del processo, rappresenta una lettura necessaria per la comprensione avvertita del problema ‘‘giustizia’’ nei suoi aspetti tecnici come nelle implicazioni politiche nel senso ampio della parola. Stella spiega che il diritto penale sta al cuore di una democrazia giacché nel processo si verifica l’effettività delle connotazioni democratiche e liberali di uno Stato. L’Autore svolge un attento ‘‘excursus’’ del processo penale negli ordinamenti antidemocratici sia quelli definiti ‘‘autoritari’’ quali il fascismo in Italia e sia quelli ‘‘totalitari’’ della Germania nazista e della Unione Sovietica. La lettura della funzione attribuita al processo penale nel periodo stalinista, ad esempio, pone nella sua drammaticità storica l’assunto dell’Autore della centralità del processo penale laddove riferisce del programma del ‘‘grande accusatore’’ secondo il quale ‘‘le finezze giuridiche non occorrono perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente, il concetto di colpevolezza vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato’’. Come pure sintomatico è l’esame che l’Autore svolge del concetto di presunzione di colpevolezza nei codici della Repubblica Popolare Cinese negli anni cinquanta. Non appaia inutile l’excursus dell’Autore delle mostruosità disumane del processo penale degli Stati totalitari giacché il loro esame fa pervenire, per contrasto naturale e logico ad un tempo, al concetto di ‘‘protezione dell’innocente nelle società democratiche’’. Un’aura pura apprezzata adeguatamente dopo il passaggio attraverso l’inferno dell’ingiustizia quale braccio armato della illibertà e della dittatura. L’Autore sviluppa il concetto secondo il quale per essere il diritto punitivo dello Stato al cuore della democrazia, l’affermazione della responsabilità penale deve giungere rispettando il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio’’, principio fondante della common law americana, ritenuto comune al nostro ordinamento giuridico quale regola di giudizio sancita anche da pronunce del giudice di legittimità italiano. Il prof. Stella si sofferma poi con grande acutezza sulle problematiche del ‘‘rischio’’ conseguente alla concezione del giudice ‘‘burocrate’’ del dramma umano dell’imputato, della dinamica della decisione giungendo a ritenere necessaria nella stesura della sentenza l’esplicitazione del dissenso qualora il Collegio non si sia espresso unanimemente.


— 690 — Nella formazione del ‘‘giudizio’’ e quindi della decisione l’Autore interpone la problematica della distanza che nella metodologia degli studi giuridici corre tra diritto penale e diritto processuale penale dottrine che andrebbero studiate nell’ottica della unicità della scienza. In fondo la regola del processo non soddisfa l’esigenza della ‘‘regola probatoria e di giudizio’’. Stella avverte la necessità che la regola del processo si concretizzi in quella del giudizio entrambe garanzie per il cittadino-imputato sottoposto al processo penale (che è già una pena afferma l’Autore ricordando Carnelutti). La regola in uno stato liberale non può che essere quella dell’‘‘oltre il ragionevole dubbio’’ che ‘‘per la società di uomini liberi è un canone di ragione più che una scelta normativa contingente’’ come afferma il Paulesu, canone di assoluta ragione scrive Stella che richiama l’espressione del Carrara secondo la quale la presunzione di innocenza va presa in mano come una bandiera. Stella rafforza il suo concetto richiamando il lavoro di Garofoli in tema di: ‘‘Presunzione di innocenza e considerazione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni’’ ove si afferma che il processo penale ‘‘vive... nel ragionevole dubbio che l’approdo finale sia ineluttabilmente fallace; un dubbio che diventa atroce, quando il predicato finale è la colpevolezza dell’imputato’’ sicché ‘‘è coerente che quando il dubbio non sia già in itinere risolvibile, prevalga l’ipotesi più favorevole all’imputato perché l’errore giudiziario non è mai fecondo’’. Dunque secondo Stella il concetto dell’‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’ deve passare attraverso la proporzione tra il minor rischio di errore e le conseguenze drammatiche dell’errore. Il percorso logico-giuridico si arricchisce con l’esame approfondito di numerose decisioni della Suprema Corte degli Stati Uniti d’America che affermano il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. E, dunque, come va inteso il principio del nostro diritto penale del libero convincimento del Giudice? L’esercizio della funzione repressiva — sostiene il prof. Stella — non appartiene al Giudice ma all’accusa. Il Giudice deve esercitare il libero convincimento al fine di ricercare non già una impossibile verità ma una ‘‘verità giudiziale che per il giudice è ciò che l’accusa è riuscita a dimostrare al di là del ragionevole dubbio sicché è verità l’innocenza dell’imputato quando l’accusa non abbia adempiuto al suo onere probatorio’’. Accertamento della verità che deve avvenire nella dialettica processuale nella quale si sia esplicata l’attività di persuasione dell’accusa e della difesa in una condizione di parità. Ma potrebbe chiedersi il lettore quale tutela abbia la vittima in un ordinamento di garanzie per il cittadino ispirate a quello che il novellato art. 111 della nostra Costituzione definisce il giusto processo. Può l’ordinamento sacrificare al principio di garanzia il dovere della tutela della vittima? L’Autore non sfugge al problema ma, anzi, lo pone a momento centrale e diremmo speculare dei diritti dell’imputato. L’Autore sviluppa il concetto secondo il quale il diritto penale rappresenta l’‘‘extrema ratio’’ della tutela della vittima valorizzando il ricorso a rimedi posti dall’ordinamento attraverso il diritto amministrativo e civile. Acute riflessioni vengono svolte sulle problematiche della responsabilità penale nella moderna società industriale ed alla necessità che il rischio delle nuove tecnologie sia garantito e ripartito tra i soggetti protagonisti dello sviluppo industriale così da tutelare le vittime future nella società di rischio. Fermiamo qui gli spunti che abbiamo tratto dalla lettura del libro giacché la loro molteplicità e la necessità di non trascurarne nessuno in ragione dell’acutezza di ciascuno di essi è contraddetta dalla necessità della sintesi. Rimandiamo ovviamente alla lettura del testo che rappresenta una meravigliosa ed affascinante sintesi di scienza giuridica, esperienza dell’avvocato dei grandi processi, profonda avvertenza dei diritti di libertà dell’uomo e compren-


— 691 — sione appassionata della complessità delle problematiche di un processo che voglia ‘‘a pieno titolo’’ rispondere alle ineludibili esigenze di uno Stato democratico e liberale. Quale distanza dal bocero dibattito urlato in televisione, quale equilibrio nella valutazione degli interessi e dei beni protetti dall’ordinamento soprattutto quando essi sono in un contrasto da dover necessariamente dirimere. Il prof. Stella a conclusione dell’incontro promise di impegnarsi ad avviare il suo prossimo corso di Diritto penale chiedendo ai giovani studenti se avessero preferito che vi fosse un innocente condannato ovvero un colpevole ingiustamente ritenuto innocente; aggiungendo di ritenere il mondo giuridico responsabile di non aver adeguatamente contribuito a creare nella coscienza civile del Paese consapevolezza sui principi di garanzia. Domande di grande attualità e di una profondità impressionante. Di quanto il mondo accademico e il mondo forense hanno accresciuto la coscienza civile degli italiani di questi concetti? A nostro sommesso avviso la lettura del libro di Stella aggiunge al valore giuridico un messaggio. Esso va — a nostro avviso — sia all’Italia giustizialista del popolo dei fax che all’Italia garantista a due velocità. Entrambe dovrebbero comprendere che il sentimento comune è apparso in questi anni pendere più verso un giustizialismo sommario che verso una piena adesione al principio dell’oltre il ragionevole dubbio, sia pure tra ondeggiamenti e mutamenti. Ed il sistema Giustizia, con tutti i suoi difetti ed errori, ha tuttavia mostrato di saper resistere o quanto meno superare nel tempo la suggestione dei vari ‘‘popoli dei fax’’. Dunque ha ragione Stella: il processo penale è al cuore della democrazia e l’ordinamento deve porsi a tutela dei principi di libertà e di garanzia nell’auspicio che una riflessione pacata ed una diffusione adeguata dei principi possa portare la sensibilità e la coscienza civile del Paese ad un maggiore equilibrio e ad una adeguata comprensione della gravità del compito di cercare la verità degli uomini da parte di altri uomini. avv. LUCIO MIRANDA Presidente dell’associazione di avvocati Impegno Forense


GIURISPRUDENZA

c)

Giudizi di Cassazione

CORTE DI CASSAZIONE — Sez. un. pen. — 28 novembre 2001-11 gennaio 2002 Pres. Vessia — Rel. Nappi P.M. conforme — Ric. Cremonese Procedimento penale - Cause di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare - Incidenza sul decorso della prescrizione del reato - Sussistenza della sospensione ai sensi dell’art. 159 c.p. - Diversificazione delle ipotesi in cui la sospensione della prescrizione opera. Prescrizione penale - Sospensione - Casi - Sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento su richiesta o per impedimento dell’imputato o del difensore - Necessità che sia adottato un provvedimento di sospensione dei termini della custodia cautelare in atto - Esclusione (C.p. art. 159, comma 1; C.p.p. art. 304). Prescrizione penale - Sospensione - Casi - Situazioni diverse dalla presentazione di richiesta di autorizzazione a procedere, dal deferimento di questione ad altro giudizio e dalla sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale - Necessità che sia adottato un provvedimento di sospensione dei termini della custodia cautelare in atto - Sussistenza (C.p. art. 159, comma 1; C.p.p. art. 304). L’art. 159 comma 1 c.p. deve essere interpretato nel senso che la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l’imputato non è detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di un termine a difesa. L’art. 159 comma 1 c.p. deve essere interpretato nel senso che, quando non consegua a un provvedimento di sospensione o di rinvio del procedimento ovvero alla presentazione di una richiesta di autorizzazione a procedere, la sospensione del corso della prescrizione si verifica solo se venga effettivamente adottato un provvedimento di sospensione dei termini di una custodia cautelare in corso di esecuzione (1). (Omissis). — 1. In seguito a decreto di citazione a giudizio del 25 marzo 1993, il 7 giugno 1994 M.C. comparve innanzi al Pretore di Latina, Sezione distaccata di Minturno, perché imputato del delitto di lesioni personali colpose com-


— 693 — messo in occasione di un incidente stradale avvenuto l’8 agosto 1992, allorché aveva cagionato a C.S. una malattia guarita nei successivi quaranta giorni. Dopo numerosi rinvii, variamente giustificati, all’udienza del 13 gennaio 1999 il pretore, dichiarata l’assenza dell’imputato, provvide alla istruzione dibattimentale e rinviò ad altra udienza per la sola discussione. Tuttavia altri rinvii furono disposti, in accoglimento di richieste del difensore dell’imputato, nel convincimento espresso dal pretore che tali rinvii determinassero la sospensione del termine di prescrizione a norma degli artt. 159 c.p. e 304 c.p.p. Solo all’udienza del 2 febbraio 2000 il giudice unico del Tribunale di Latina, sezione distaccata di Gaeta, succeduto al pretore di tale sede distaccata, nella quale peraltro il giudizio si era già trasferito da Minturno, rilevò che una parte della giurisprudenza escludeva la sospensione della prescrizione nei confronti di imputati non detenuti e, disattesa un’ennesima richiesta di rinvio, si pronunciò nel merito dell’imputazione, dichiarando la colpevolezza dell’imputato sia in ordine al delitto colposo sia in ordine al connesso illecito amministrativo di violazione dell’art. 104 codice della strada. 2. Contro la sentenza pronunciata all’udienza del 2 febbraio 2000 ricorre ora per cassazione M.C., che propone sei motivi d’impugnazione. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 222 d.lgs. n. 51/1998, lamentando che non sia stato emesso un nuovo decreto di citazione a giudizio dopo il trasferimento della competenza dal Pretore di Minturno al Tribunale monocratico di Gaeta. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli art. 484 e 420 quater c.p.p., lamentando che il tribunale abbia omesso di dichiararne la contumacia e, conseguentemente, di notificargli la sentenza per estratto. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che il giudice del merito non gli abbia preventivamente comunicato il cambiamento di orientamento circa la sospensione del termine di prescrizione quale conseguenza del rinvio dell’udienza per impedimento del difensore. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta che all’udienza del 2 febbraio 2000 il Tribunale di Gaeta abbia, senza il consenso delle parti, disposto la lettura dei verbali delle prove escusse dinanzi al Pretore di Minturno, anziché rinnovarne l’escussione. Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 157 c.p., sostenendo che il reato era già estinto per il decorso del termine quinquennale di prescrizione alla data in cui fu pronunciata la sentenza impugnata; e chiede comunque dichiararsi l’estinzione per decorso del termine massimo di prescrizione previsto dall’art. 160 comma 3 c.p. Con il sesto motivo, infine, il ricorrente lamenta che il giudice del merito, nell’irrogargli la sanzione amministrativa prevista dal codice della strada, abbia illegittimamente esercitato un potere estraneo alla giurisdizione penale. 3. La quarta sezione penale di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, ne ha rimesso la decisione alle Sezioni unite penali, avendo rilevato un contrasto di giurisprudenza nell’interpretazione dell’art. 159 comma 1 c.p., rilevante ai fini della decisione sul quinto motivo, con il quale viene dedotta l’estinzione per prescrizione del reato contestato. E in realtà il quinto motivo del ricorso assume rilevanza preliminare, dovendo condividersi il prevalente orientamento giurispru-


— 694 — denziale secondo il quale, ‘‘qualora già risulti una causa di estinzione del reato, la sussistenza di una nullità di ordine generale non è rilevabile nel giudizio di cassazione, in quanto l’inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva’’ (Cass., sez. VI, 22 gennaio 1991, Bonzagni, m. 187431, Cass., sez. IV, 5 giugno 1984, Fumo, m. 167074, Cass., sez. IV, 10 aprile 1981, Criscuolo, m. 149230). L’estinzione del reato preclude, invero, l’acquisizione di ulteriori prove e impone di decidere allo stato degli atti; sicché in sede di rinvio il giudice del merito non potrebbe esimersi dal pronunciare immediatamente sentenza di non doversi procedere. Occorre, pertanto, accertare preliminarmente se sussista la causa estintiva dedotta dal ricorrente, perché solo se il reato contestato a M. C. non è estinto, è possibile affrontare le questioni di nullità dedotte con gli altri motivi del suo ricorso. E ai fini di questo accertamento è necessario risolvere il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla quarta sezione penale di questa Corte. Il contrasto giurisprudenziale riguarda la interpretazione dell’art. 159 comma 1 c.p., laddove prevede che ‘‘il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio e in ogni altro caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge’’. Si discute, più specificamente, circa il significato del riferimento alla sospensione dei termini di custodia cautelare, interpolato nel testo originario della norma dall’art. 15 l. 8 agosto 1995, n. 332. L’art. 304 c.p.p. prevede, infatti, che i termini di custodia cautelare siano sospesi con provvedimento del giudice in determinati casi, tra i quali assume specifica rilevanza, ai fini dell’attuale decisione, quello del differimento del dibattimento per astensione collettiva dei difensori dalle udienze. E in giurisprudenza è controverso se il richiamo dell’art. 159 comma 1 c.p. ai casi di sospensione dei termini di custodia cautelare valga a integrare sempre il novero delle ipotesi di sospensione dei termini di prescrizione ovvero solo quando una custodia cautelare sia effettivamente in corso. 4. Secondo la giurisprudenza prevalente di questa Corte, ‘‘il differimento dell’udienza dibattimentale dovuto ad astensione conseguente a deliberazione assunta dagli organi rappresentativi degli avvocati o ad altro impedimento del difensore non determina la sospensione del corso della prescrizione se non nei casi in cui, essendo stata applicata una misura cautelare personale, siano sospesi i termini di durata della custodia cautelare a norma dell’art. 304, comma 1, lett. b) c.p.p.’’ (Cass., sez. V, 22 ottobre 1998, Chiarinelli, m. 211963, Cass., sez. V, 9 febbraio 1999, Gramiccia, Cass., sez. IV, 26 gennaio 1999, Cassese). E questa interpretazione dell’art. 159 c.p. viene sostenuta con tre distinti argomenti: a) la sospensione del termine di prescrizione opera solo se ‘‘esista effettivamente un provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia, e non già nella astratta ipotesi di ricorrenza di taluna delle cause di sospensione previste dall’art. 304 c.p.p., anche indipendentemente dall’esistenza di un provvedimento di sospensione’’ (Cass., sez. VI, 6 novembre 1998, Nascivera, m. 211964); b) ‘‘ritenere diversamente richiederebbe una interpretazione analogica dell’art. 304 che, invece, in quanto norma eccezionale, può trovare applicazione soltanto nei processi celebrati contro detenuti’’ (Cass., sez. III, 19 giugno 1998, Auricchio, m. 211863);


— 695 — c) ‘‘il menzionato primo comma dell’art. 159 c.p. è norma che fa eccezione alla regola generale riguardante il decorso della prescrizione e, come tale, non è suscettibile di applicazione analogica in danno dell’imputato, tale risultando, nella sostanza, quella che vede l’art. 159, comma 1, ultima parte, c.p. fare riferimento non al complesso procedimento di cui all’art. 304, comma 1, c.p.p., che prevede un’ordinanza appellabile al tribunale del riesame, ma soltanto alla parte dell’art. 304, comma 1, c.p.p., che indica il presupposto per la sospensione’’ (Cass., sez. V, 21 settembre 1999, Becattini, m. 214889). 5. Un diverso orientamento giurisprudenziale è stato invece espresso in altre pronunce di questa Corte, secondo le quali ‘‘nell’ipotesi di sospensione del procedimento per cause ascrivibili a impedimento dell’imputato o del suo difensore, anche se si tratta di fattispecie con imputato non detenuto, è applicabile la novellata disposizione di cui all’art. 159 c.p., in relazione all’art. 304 c.p.p., e deve conseguentemente sospendersi il corso della prescrizione’’ (Cass., sez. VI, 2 luglio 1998, Pozzi, Cass., sez. VI, 9 novembre 1998, Mancuso, Cass., sez. fer., 17 agosto 2001, Fantini). Si sostiene infatti che il nuovo testo dell’art. 159 comma 1 c. p. non rinvii all’intera disciplina della sospensione dei termini di custodia cautelare, ma ne richiami solo i presupposti, per ancorarvi anche l’effetto sospensivo della prescrizione. E si ritiene che un tale orientamento interpretativo abbia trovato avallo in una recente decisione della Corte costituzionale, che ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli art. 3 e 25 cost., dell’art. 159 c.p., ‘‘nella parte in cui non prevede, per tutti i reati a prescindere dallo stato detentivo dell’imputato, la sospensione del corso della prescrizione, ove si verifichino cause di sospensione dei termini di custodia cautelare, in quanto — posto che, ove siano prospettabili diverse interpretazioni della norma censurata, di cui una ritenuta conforme a Costituzione, il giudice ha il dovere di farla propria, dovendo sollevare questione di legittimità solo quando risulti impossibile seguire un’interpretazione costituzionalmente corretta — la questione stessa risulta sollevata al fine di ottenere un avallo all’interpretazione propugnata, attribuendo alla Corte un compito che rientra tra quelli tipici del giudice ordinario’’ (C. cost., 22 giugno 2000, ord. n. 233). Già con una precedente sentenza, del resto, la Corte costituzionale aveva auspicato che il legislatore intervenisse a sanare le situazioni di paralisi dell’esercizio della funzione giurisdizionale che potevano derivare dall’esercizio del diritto dei difensori di astenersi collettivamente dalle udienze (C. cost., 31 marzo 1994, n. 114) . E proprio in adesione a quell’auspicio l’art. 15 della legge n. 332 del 1995 aveva inserito nell’art. 159 comma 1 c.p. il riferimento all’art, 304 c.p.p. sul quale verte il denunciato contrasto interpretativo. 6. Il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla quarta sezione di questa Corte attiene certamente, come s’è detto, al problema del significato normativo che assume, nel contesto dell’art. 159 comma 1 c.p., il riferimento all’art. 304 c.p.p. aggiunto dall’art. 15 della legge n. 332 del 1995. Va tuttavia considerato che la maggior parte delle ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare previste dall’art. 304 c.p.p. sono di per sé connesse a provvedimenti di sospensione o di rinvio del procedimento. Sono indubbiamente minori, e per di più solo marginali nella prospettiva dell’attuale disputa giurispru-


— 696 — denziale, le ipotesi in cui si ha sospensione dei termini di custodia cautelare senza che vi sia stata sospensione del procedimento. Si pongono, perciò, due problemi interpretativi ben distinti. Occorre innanzitutto stabilire se le ipotesi di sospensione del procedimento evocate dall’art. 304 c.p.p. siano di per sé idonee a determinare anche una sospensione dei termini di prescrizione. E in questa prospettiva la questione interpretativa rimane tutta nell’ambito dello stesso art. 159 comma 1 c.p., non pone il problema dei limiti di una sua possibile integrazione per via del richiamo all’art. 304 c.p.p. È solo con riferimento alle ipotesi di sospensione dei termini di custodia non connesse a sospensioni del procedimento che si pone l’esigenza di chiarire se esse comportino una sospensione dei termini di prescrizione e se lo stato di custodia sia condizione necessaria perché l’effetto sospensivo della prescrizione si produca. 7. Il primo problema interpretativo, quindi, non riguarda specificamente il rapporto tra l’art. 159 comma 1 c.p. e l’art. 304 c.p.p., ma attiene più in generale all’ambito di applicabilità dell’art. 159 comma 1 c.p., anche con riferimento alle modifiche subite dalla disciplina della sospensione del procedimento con il sopravvenuto codice di procedura penale del 1988. Già con il codice del 1930, in realtà, era risultata ardua l’individuazione dei casi in cui la sospensione del procedimento comportasse anche la sospensione dei termini di prescrizione, pur essendo indiscussa la rilevanza a tali fini di ogni caso di deferimento di una questione ad altro giudizio, stante il tenore della prima parte dell’art. 159 comma 1 c.p., certamente non equivoca in proposito. La dottrina prevalente e la giurisprudenza, pur ammettendo che fosse indefinito lo stesso concetto di sospensione del procedimento (Cass., sez. V, 17 luglio 1973, Zani, m. 125731), a causa della ‘‘atecnicità del linguaggio legislativo’’, erano tuttavia concordi nel richiedere che la sospensione dei termini della prescrizione non potesse dipendere da una sospensione o da un rinvio o, comunque, da una ‘‘pausa temporanea del procedimento’’ affidati a una scelta arbitraria del giudice, ma dovesse sempre derivare da una decisione doverosa, assunta ‘‘in presenza di specifici presupposti’’. Sicché si richiedeva non solo che la sospensione del procedimento fosse imposta dalla legge, nel senso che la pur necessaria valutazione giudiziale fosse vincolata, ma si richiedeva altresì che fosse ‘‘particolare’’ la disposizione di legge che la prevedesse. Ed emblematicamente si escludeva, così, che comportasse la sospensione dei termini di prescrizione la sospensione del dibattimento consentita in via generale dall’art. 431 comma 2 codice abrogato in tutti i casi di assoluta necessità. Ma si ammetteva che la sospensione dei termini di prescrizione potesse derivare dalla concessione di un termine a difesa nei casi di contestazione suppletiva prevista dall’art. 446 codice abrogato, che pure all’art. 431 si richiamava. Nel codice del 1988, che riproduce nell’art. 477 comma 2 la disposizione generale sulla sospensione del dibattimento già dettata dall’art. 431 comma 2 codice abrogato, permane anche l’uso di un linguaggio non univoco per indicare le diverse occasioni di stasi temporanea del procedimento. Vi si parla di sospensione del processo (art. 3) e di sospensione del dibattimento (art. 479) con riferimento a fenomeni del tutto simili di stasi del procedimento dovuta alla rimessione ad altro giudice di questioni pregiudiziali. Sebbene poi di sospensione del dibattimento si parli anche a proposito di rinvii dovuti a esigenze istruttorie (artt. 508, 509, 603


— 697 — comma 6) ovvero di integrazione dell’accusa (artt. 519 e 520) o della difesa (art. 451 comma 6) e anche ai fini della decisione della domanda di oblazione in appello (art. 604). Né è possibile ricostruire una chiara distinzione tra sospensione e rinvio, perché, se è vero che si tende a definire rinvio la stasi dei procedimenti camerali (artt. 127, 401, 402, 420 ter, 599), è anche vero che per il dibattimento, pur dopo l’abrogazione degli artt. 486 e 487, si continua a parlare indifferentemente di ‘‘sospensione o rinvio’’, come per l’udienza preliminare e con riferimento agli stessi fenomeni (art. 304). Si deve, perciò, concludere che, come il codice del 1930, anche il codice del 1988 adopera un linguaggio non connotativo, bensì meramente denotativo, per riferirsi ai diversi casi di stasi temporanea del procedimento, che vanno poi distinti dall’interprete in relazione ai rispettivi specifici presupposti. Tuttavia, nonostante la sostanziale identità al riguardo del linguaggio dei due codici di rito, l’interpretazione dell’art. 159 comma 1 c.p. connessa al codice di procedura penale del 1930 è palesemente incompatibile con l’idea di un processo di parti introdotta nel nostro sistema e, gradualmente, nella nostra stessa cultura processuale con l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988. In realtà, in applicazione dei criteri tradizionali, si può certamente ammettere, e senza problemi, che comporti sospensione dei termini della prescrizione la stasi del procedimento prevista dall’art. 420 ter comma 5 c.p.p., che impone al giudice di rinviare il dibattimento quando sia prontamente comunicato l’impedimento dell’unico difensore che non abbia designato un sostituto. La previsione in una particolare disposizione di presupposti specifici, che legittimano l’adozione del provvedimento di sospensione o di rinvio, esclude, infatti, che il giudice debba compiere un’ulteriore valutazione di opportunità, che si aggiunga all’accertamento di quei presupposti: se il presupposto c’è, il giudice è tenuto senz’altro all’adozione del provvedimento. Ma se si applicassero solo i criteri di obbligatorietà e particolarità della previsione ricavati dal codice di rito abrogato, occorrerebbe anche ammettere, ad esempio, che una sospensione dei termini della prescrizione consegua pure alle sospensioni del procedimento previste dagli artt. 508 e 509 c.p.p. per esigenze istruttorie, pur quando riconosciute solo dal giudice d’ufficio. E analogamente dovrebbe continuare ad ammettersi che rilevi ai fini della sospensione dei termini di prescrizione il riconoscimento di un termine a difesa a norma dell’art. 519 c.p.p. nei casi di contestazione suppletiva. Mentre dal rinvio dell’art. 159 comma 1 c.p. all’art. 304 comma 1 c.p.p. risulta escluso esplicitamente che possano mai assumere rilevanza ai fini della sospensione dei termini di prescrizione sia la sospensione del procedimento disposta per esigenze di acquisizione della prova sia la sospensione del procedimento conseguente alla concessione di termini per la difesa. Le incoerenze sistematiche che deriverebbero dalla applicazione di criteri interpretativi superati sarebbero, perciò, ben più gravi di quanto risulti dalla stessa contrapposizione tra gli orientamenti giurisprudenziali che disputano sulla riferibilità anche agli imputati liberi del rinvio all’art. 304 c.p.p. contenuto nell’art. 159 comma 1 c.p. In realtà l’interpretazione dell’art. 159 comma 1 c.p. affermatasi nel vigore del codice di rito abrogato era coerente con un sistema processuale che per un verso affidava alla prevalente iniziativa del giudice le sorti del processo, per altro


— 698 — verso tendeva a limitarne il potere, rendendo possibile un controllo, peraltro quasi esclusivamente passivo, delle parti. Oggi il processo vive prevalentemente delle iniziative non solo istruttorie delle parti anche private, che hanno il potere di contribuire autonomamente a determinare tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le parti non hanno più solo poteri limitativi dell’autorità del giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell’andamento del processo. E debbono assumersi conseguentemente gli oneri connessi all’esercizio dei loro poteri; ma con il riconoscimento altresì dell’essenzialità del loro contributo al contraddittorio, cui si ritiene affidata l’attendibilità della giurisdizione. A questa logica risponde evidentemente l’art. 304 comma 1 c.p.p., laddove prevede alle lettere a) e b) che possano essere esclusi dal computo dei termini massimi della custodia cautelare i tempi delle sospensioni o dei rinvii del procedimento imputabili all’esercizio dei poteri dell’imputato non immediatamente riconducibili alla funzione cognitiva del processo. E l’aggiunta nell’art. 159 comma 1 c.p. del rinvio all’art. 304 c.p.p. non può essere intesa come l’inserimento di un corpo estraneo in un contesto normativo immutabile, perennemente ancorato ai parametri interpretativi imposti dal codice abrogato. La riforma del 1995 è, invece, il segno della forza espansiva del nuovo sistema processuale, i cui criteri ispiratori non possono non ripercuotersi anche sull’interpretazione dell’art. 159 comma 1 c.p. Sicché, nella individuazione dei casi in cui la sospensione del procedimento è rilevante ai fini della prescrizione, rimane tuttora valida l’esigenza che le valutazioni del giudice siano vincolate a criteri predeterminati. E perciò deve ritenersi, ad esempio, che non comportino sospensioni dei termini della prescrizione le sospensioni del procedimento previste dall’art. 41 comma 2 c.p.p., con riferimento alla ricusazione, o dall’art. 47 comma 2 c.p.p., con riferimento alla rimessione, trattandosi di ipotesi di sospensione meramente facoltativa, disancorate da qualsiasi predeterminazione dei criteri di decisione. Deve invece considerarsi ormai insufficiente nel contesto del nuovo codice di rito il criterio della particolarità della previsione delle ipotesi di sospensione rilevanti ai fini della prescrizione. Questo criterio, evidentemente legato a un raccordo strettamente testuale tra i due coevi codici del 1930, certamente vale ancora a escludere l’incidenza sulla prescrizione delle sospensioni consentite in via generale dall’art. 477 comma 2 c.p.p., come di quelle previste dall’analogo art. 431 comma 2 codice abrogato. Ma deve essere integrato, in funzione garantistica, con il criterio della imputabilità del rinvio, ricavabile da una interpretazione sistematica del richiamo all’art. 304 c.p.p. contenuto nel nuovo testo dell’art. 159 comma 1 c.p. E questa integrazione, oltre a permettere la necessaria esclusione della rilevanza di ipotesi di rinvio per esigenze istruttorie, come quelle previste dagli art. 508 e 509 c.p.p., accresce altresì la specificità del concetto di sospensione rilevante ai fini della prescrizione. Sicché può essere soddisfatta in termini meno casuali di quelli ‘‘topografici’’, ricevuti dal codice abrogato, l’esigenza di ‘‘particolarità’’, posta dall’art. 159 comma 1 c.p., della previsione delle ipotesi sospensione o di rinvio del procedimento cui consegue l’effetto sostanziale della sospensione dei termini della prescrizione. In particolare deve ritenersi che escludano l’imputabilità della sospensione o del rinvio sia l’esercizio del diritto alla prova sia, più in generale, l’esercizio del di-


— 699 — ritto alla difesa, inteso quest’ultimo nel senso delle disposizioni che impongono di riconoscere al difensore un termine ‘‘per prendere cognizione degli atti o per informarsi sui fatti oggetto del procedimento’’ (art. 108 c.p.p.) o, in generale, alla parte un termine per approntare la difesa (artt. 184, 451, 519 c.p.p.). Sicché deve escludersi la addebitabilità all’imputato o al suo difensore della sospensione o del rinvio destinati ad assecondare la funzione cognitiva del processo: secondo l’esemplificazione contenuta nell’art. 304 comma 1 lettere a) e b) c.p.p., che peraltro non è esaustiva (v. ad es. art. 71 c.p.p.); e in una prospettiva già in parte anticipata, sia pure in un contesto meramente emergenziale, dall’art. 16 della legge 22 maggio 1975, n.152. A questo principio di garanzia deroga, confermandone peraltro la validità sul piano generale, la disposizione transitoria dettata dall’art. 18 comma 5 l. 5 ottobre 2001, n. 367, che in via eccezionale prevede la sospensione dei termini di prescrizione anche quando la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento derivi dall’esigenza di rinnovare acquisizioni probatorie, ma solo in quanto la rinnovazione sia resa necessaria dalla sopravvenuta nullità o inutilizzabilità di commissioni rogatorie che erano conformi alla disciplina vigente all’epoca del loro espletamento. In applicazione dell’art. 173 comma 3 disp. att. c.p.p., va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: l’art. 159 comma 1 c.p. deve essere interpretato nel senso che la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l’imputato non è detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di un termine a difesa. 8. Così definita l’interpretazione dell’art. 159 comma 1 c.p., rimane da chiarire se e in quali limiti possa aversi una sospensione dei termini di prescrizione in pendenza dei termini per la redazione della motivazione delle sentenze dibattimentali (art. 304 comma 1, lettera c c.p.p.) e durante il tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza in procedimenti particolarmente complessi per taluno dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lettera a) c.p.p. (art. 304 comma 2 c.p.p.). Sono questi, invero, i due casi in cui la sospensione dei termini di custodia cautelare può essere disposta senza che vi sia sospensione del procedimento. Non è qui in discussione se in entrambi i casi il provvedimento di sospensione dei termini di custodia possa considerarsi imposto dalla legge e comporti perciò anche la sospensione dei termini di prescrizione. Ciò che rileva nella prospettiva del contrasto giurisprudenziale in discussione è che la sospensione dei termini di prescrizione risulta prevista come possibile effetto ulteriore sia di un provvedimento di sospensione o di rinvio del procedimento o del dibattimento sia di un provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare. Ma in entrambi i casi un tale ulteriore effetto richiede che un provvedimento di sospensione, del procedimento o dei termini di custodia cautelare, sia stato effettivamente adottato: come si desume, del resto, anche dal terzo comma dell’art. 159 c.p., che, nei casi di autorizzazione a procedere, fa decorrere la sospensione dei termini di prescrizione dal momento in cui il pubblico ministero ha effettivamente presentato la relativa richiesta. Non sarebbe ragionevole, perciò, considerare sospesi i termini di prescrizione durante il tempo in cui ricorrevano i presupposti per una sospensione


— 700 — dei termini di custodia cautelare, che in realtà non era stata disposta. In tal senso deve essere, quindi, risolto il secondo dei due distinti problemi interpretativi su individuati. Va pertanto enunciato, in conclusione, il seguente principio di diritto: l’art. 159 comma 1 c.p. deve essere interpretato nel senso che, quando non consegua a un provvedimento di sospensione o di rinvio del dibattimento ovvero alla presentazione di una richiesta di autorizzazione a procedere, la sospensione del corso della prescrizione si verifica solo se venga effettivamente adottato un provvedimento di sospensione dei termini di una custodia cautelare in corso di esecuzione. 9. La soluzione adottata per il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla quarta sezione comporta il rigetto del quinto motivo del ricorso. Come la stessa sezione rimettente ha accertato, invero, le sospensioni del procedimento disposte su richiesta dell’imputato o del suo difensore si protrassero per complessivi due anni, sette mesi e cinque giorni. In particolare risulta dai verbali di udienza che il procedimento fu a più riprese sospeso o rinviato su mera richiesta del difensore dell’imputato dal 16 marzo 1994 all’1 marzo 1995, dal 28 maggio 1997 al 25 novembre 1998, dal 15 dicembre 1999 al 2 febbraio 2000. Sicché alla data del 2 febbraio 2000, in cui fu pronunciata la sentenza impugnata, non era decorso il termine quinquennale di prescrizione; né risulta a oggi decorso il termine massimo di sette anni e sei mesi dalla data del commesso reato. Quanto agli altri motivi del ricorso, essi sono tutti manifestamente infondati. Secondo quanto prevedono gli art. 219 e 220 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, invero, l’attuale procedimento, essendo già in corso nella fase dibattimentale alla data del 2 giugno 1999, proseguì regolarmente in applicazione delle norme anteriormente vigenti e il suo trasferimento da Minturno a Gaeta non richiedeva l’emissione di un nuovo decreto di citazione a giudizio (Cass., sez. I, 9 maggio 2001, Corso, m. 219281). Ne consegue la manifesta infondatezza non solo del primo motivo del ricorso, ma anche del secondo, perché l’imputato, essendo comparso all’udienza del 7 giugno 1994, non doveva essere dichiarato contumace nelle successive udienze alle quali si era astenuto dal partecipare senza addurre impedimenti (Cass., sez. VI, 11 gennaio 1996, Zini) e, con la proposizione del ricorso, si è comunque avvalso del diritto al cui esercizio sarebbe stata destinata la omessa notifica dell’estratto contumaciale della sentenza (art. 183 c.p.p.). Inoltre è vero che nel caso in esame la sentenza fu pronunciata dal Tribunale monocratico anziché dal pretore dinanzi al quale il dibattimento aveva avuto inizio. Ma, essendo rimasta immutata la persona del giudice, dr. B.R., che all’udienza del 13 gennaio 1999 aveva assistito all’istruzione dibattimentale, non vi fu alcuna violazione dell’art. 525 c.p.p. allorché quelle prove furono utilizzate ai fini della decisione. Comunque dal verbale d’udienza non risulta che il ricorrente avesse richiesto una nuova escussione delle prove; e nella giurisprudenza di questa Corte è indiscusso che, nel caso di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per mutamento della persona del giudice, può essere data lettura anche d’ufficio delle prove di cui le parti non abbiano richiesto una nuova escussione (Cass., sez. un., 15 gennaio 1999 Iannasso). D’altro canto, quanto al terzo motivo del ricorso, la giurisprudenza prevalente riconosce che il cosiddetto ‘‘sciopero’’ degli avvocati costituisce legittimo impedimento del difensore che abbia tempestivamente comunicato la sua adesione


— 701 — all’astensione proclamata dalle associazioni di categoria (Cass., sez. IV, 5 aprile 1996, Chillocci). Tuttavia, nel presupposto che il rinvio non fosse rilevante ai fini dell’art. 159 c.p., una parte della giurisprudenza faceva salvo il limite dell’interesse pubblico a evitare che, in conseguenza della stasi del procedimento, il reato contestato si estinguesse per prescrizione (Cass., sez. II, 3 febbraio 1997, Quintini). Sicché la richiesta di rinvio poteva essere disattesa anche quando la proclamazione dell’astensione rispettasse il codice di autoregolamentazione professionale (Cass., sez. V, 21 gennaio 1999, Nava); e quindi non poteva costituire un’eventualità del tutto inattesa per il difensore del ricorrente il rigetto della sua ennesima richiesta di rinvio in un caso in cui la prescrizione del reato era comunque prossima. Infine è indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che ‘‘in caso di connessione obiettiva tra reato e violazione non costituente reato, il giudice competente a conoscere del reato è anche competente a decidere sulla violazione non costituente reato e ad applicare la sanzione per essa stabilita dalla legge, salvo che il procedimento penale si chiuda per estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità’’ (Cass., sez. un., 21 giugno 2000, Cerboni, m. 217018); sicché è manifestamente infondato anche il sesto motivo del ricorso. (Omissis).

A commento della decisione pubblichiamo le osservazioni del dott. Gaetano Ruta e del dott. Antonio Barbieri.

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Stasi del processo e sospensione della prescrizione del reato: un lodevole tentativo di arginare manovre dilatorie.

1. La questione non è delle più semplici, presentando profili tecnici di particolare complessità. E tuttavia vale la pena affrontarla, perché, nell’intreccio di disposizioni di legge prese in considerazione, le Sezioni Unite offrono degli spunti di riflessione estremamente significativi rispetto a quello che è considerato uno dei mali endemici del nostro sistema processuale: l’enorme dispendio di tempi che esso richiede, contro il quale si invoca da tempo l’esigenza di una ragionevole durata (1), e che ha dei costi estremamente alti anche sul piano del diritto penale sostanziale. La lungaggine dei processi ha infatti un prezzo che la collettività è chiamata a pagare, costituito dalla prescrizione dei reati. Se infatti l’istituto della prescrizione rappresenta un principio di civiltà giuridica di estrema rilevanza a tutela dell’individuo, non potendosi ammettere una indiscriminata perseguibilità sine die di tutti i reati, esso, combinato con l’attuale assetto processuale, è divenuto il congegno attraverso cui gli imputati meno sprovveduti riescono a giungere ad una sentenza di proscioglimento. Da qui l’esigenza di arginare in via interpretativa gli (1) Sul principio della ragionevole durata del processo, ora enunciato nel corpo dell’art. 111 Cost., cfr. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, 1213; LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, 16: entrambi gli autori rilevano peraltro come l’esigenza di una ragionevole durata del processo sia contenuta nelle Convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito e cui si richiama la legge delega al codice di procedura penale, in tal modo ridimensionando la portata innovativa di una previsione già interna al sistema.


— 702 — effetti dirompenti che derivano da un così frequente naufragio dei processi legato al decorso del tempo. L’esame delle Sezioni Unite investe, in questa prospettiva, la disciplina della prescrizione del reato, cercando di accertarne le cause di sospensione. In particolare mira a verificare quali conseguenze derivano sul piano della sospensione della prescrizione dall’applicazione di disposizioni in tema di custodia cautelare. La sospensione determina uno stallo nel corso della prescrizione, nel senso che, una volta verificatasi la causa di sospensione, la prescrizione resta ferma, riprendendo a decorrere al momento in cui tale causa viene a cessare: in tal caso il tempo decorso anteriormente al verificarsi della causa sospensiva si somma con il tempo decorso dopo che tale causa è venuta meno (2). Il contrasto giurisprudenziale che le Sezioni Unite sono chiamate a dirimere, trae origine dalla necessità di coordinare due norme, l’art. 159 c.p. e l’art. 304 c.p.p. L’art. 159 comma 1 c.p. prescrive che: ‘‘Il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio e in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge’’. Il riferimento alla sospensione dei termini di custodia cautelare, inserito nel tessuto della norma dall’art. 15 comma 2 della l. 332/95, richiama la disposizione del codice di rito che disciplina appunto tale materia. Ecco allora che si pone il problema di definire i limiti entro cui opera la sospensione della prescrizione quando abbia come presupposto la sospensione dei termini di custodia cautelare. In altre parole, che rapporto intercorre tra sospensione della prescrizione e sospensione dei termini di custodia cautelare? Come si riflette una vicenda schiettamente procedurale su di un fenomeno di diritto sostanziale che involge una fattispecie estintiva del reato? La questione interpretativa oscillava tra due possibili soluzioni: applicare l’art. 159 c.p. alle sole ipotesi in cui nell’ambito di una vicenda cautelare in atto sia stata disposta la sospensione del decorso dei termini, ovvero riconoscere all’art. 304 c.p.p. la funzione di definire in astratto i presupposti che legittimano la sospensione della prescrizione indipendentemente dal ricorrere in concreto di una vicenda cautelare. 2. La sentenza ripercorre i diversi orientamenti giurisprudenziali. Secondo l’impostazione maggioritaria, la sospensione della prescrizione ex art. 159 c.p. opererebbe nei soli casi in cui sia in atto la sospensione dei termini di custodia cautelare disposta con ordinanza ai sensi dell’art. 304 c.p.p. Tale interpretazione trae giustificazione essenzialmente da due considerazioni: — l’art. 304 c.p.p. è norma eccezionale e può trovare applicazione soltanto nei processi celebrati contro detenuti; — la disposizione che prevede la sospensione del corso della prescrizione incide negativamente sulla posizione dell’imputato e pertanto non è suscettibile di applicazione analogica in malam partem (3). (2) Sulla disciplina della sospensione della prescrizione e sulle differenze tra sospensione ed interruzione della prescrizione cfr. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, 829. (3) Le pronunce in cui è sostenuto questo principio sono richiamate nella sentenza (Cass., sez. V, 21 settembre 1999, Becattini, CED 214889; Cass., sez. VI, 6 novembre 1998, Nascivera, CED 211964; Cass., sez. V, 22 ottobre 1998, Chiarinelli, CED 211963; Cass., sez. III, 19 giugno 1998, Auricchio, CED 211863). Va peraltro segnalata la presenza di un orientamento minoritario ancora più rigido, che nega in radice l’effetto sospensivo della prescrizione anche in presenza di un provvedimento di sospensione dei


— 703 — Un secondo orientamento interpretativo perviene di converso alla conclusione che l’art. 304 c.p.p. definisce in astratto i presupposti che legittimano la sospensione della prescrizione, indipendentemente dal fatto che vi sia una vicenda cautelare in atto. L’attuale versione dell’art. 159 c.p. non si limiterebbe a circoscrivere la propria portata applicativa alle ipotesi in cui vi siano imputati in vinculis, per i quali è stata disposta la sospensione del decorso dei termini di custodia cautelare: vi sarebbe al contrario un richiamo a determinati fatti giuridicamente rilevanti, ai quali la legge riconduce come effetto la sospensione della prescrizione (4). Tale impostazione troverebbe avallo, secondo questa giurisprudenza, in due pronunce della Corte costituzionale (5): pur trattandosi di sentenze di inammissibilità, nelle motivazioni sono enunciate delle indicazioni estremamente precise rispetto alle termini di custodia cautelare ex art. 304 c.p.p. (Cass., sez. II, 12 marzo 1998, Calderola, CED 211103: ‘‘La sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare disposta ai sensi dell’art. 304 c.p.p. non comporta la sospensione del corso della prescrizione del reato, non essendo imposta da una particolare disposizione di legge ai sensi dell’art. 159 c.p., che rinvia ai casi in cui la sospensione è disposta per legge e si verifica automaticamente e non già a seguito di provvedimento dell’autorità giudiziaria procedente’’). Per una completa panoramica in dottrina e giurisprudenza: GIARDA-SPANGHER, sub art. 304 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, Milano, 2001; DIOTALLEVI, sub art. 159 c.p., in LATTANZI-LUPO, Codice penale Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, 2000. (4) Cass., sez. VI, 2 luglio 1998, Pozzi, in Cass. Pen., 1999, 1462, con nota di SEMERARO: ‘‘Nell’ipotesi di sospensione del procedimento per cause ascrivibili ad impedimento dell’imputato o del suo difensore, anche se si tratta di fattispecie con imputato non detenuto, è applicabile la novellata disposizione di cui all’art. 159 c.p., in relazione all’art. 304 c.p.p., e deve conseguentemente sospendersi il corso della prescrizione’’. (5) Corte Cost., sent. n. 114, 23-31 marzo 1994, in Leg. Pen., 1994, 466 e in Cass. pen., 1994, 2006: ‘‘Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 159 comma 1 c.p. sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non è prevista la sospensione della prescrizione nel caso in cui il dibattimento sia sospeso o rinviato a causa della astensione dalle udienze dei difensori deliberata dagli organismi professionali ovvero, in subordine, nella parte in cui non è prevista per la medesima ipotesi l’adozione di un provvedimento impugnabile di sospensione della prescrizione per la durata della sospensione o del rinvio del dibattimento (la Corte ha osservato che nella specie il giudice a quo sollecita una pronuncia additiva in malam partem che fuoriesce dai poteri spettanti alla Corte medesima, ostandovi il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost.)’’. Con questa pronuncia la Consulta, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale, prendeva tuttavia posizione in maniera molto netta su di un fenomeno, l’astensione dalle udienze dei difensori, che può avere delle ripercussioni estremamente gravi sull’andamento del processo: nella parte conclusiva della motivazione, infatti, si auspica un intervento legislativo che ponga rimedio a questa situazione. Tale intervento si è effettivamente realizzato con la l. 332/95 che, inserendo nel testo dell’art. 159 c.p. l’inciso sospensione dei termini di custodia cautelare, avrebbe consentito di superare l’impasse derivante dallo stallo del processo dovuto all’astensione dei difensori: se infatti, in base all’art. 304 comma 1 lett. b), l’astensione dalle udienze importa come conseguenza la sospensione dei termini di custodia cautelare, il collegamento tra sospensione dei termini di custodia cautelare e sospensione della prescrizione fa sì che l’astensione dalle udienze degli avvocati abbia come effetto finale sul decorso della prescrizione quello della sua sospensione. Corte Cost., sent. n. 233, 22 giugno 2000, in Cass. pen., 2000, 2933, con nota di GREVI: ‘‘È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., nei confronti dell’art. 159 c.p., nella parte in cui questa disposizione non prevede, per tutti i reati e a prescindere dallo stato detentivo dell’imputato, la sospensione del corso della prescrizione ove si verifichino cause di sospensione dei termini della custodia cautelare (la Corte ha osservato che il giudice a quo aveva mostrato di considerare più corretto interpretare l’art. 159 comma 1 c.p. nel senso che, in ipotesi del genere, la sospensione del corso della prescrizione debba operare anche nei procedimenti con imputato non detenuto, precisando che quando è possibile interpretare una disposizione in modo conforme alla Costituzione il giudice deve adottare l’interpretazione costituzionalmente corretta, senza sollevare una questione di legittimità costituzionale’’. Nel commento a questa sentenza GREVI, pur stigmatizzando la posizione eccessivamente ‘‘neutra’’ assunta dalla Corte, posto che essa avrebbe potuto fornire, nell’ambito di una interpretazione adeguatrice della norma, una chiave di lettura in grado di dissipare ogni dubbio, rileva come dalla motivazione si possa agevolmente desumere quale sia la soluzione più corretta del problema: dinanzi alla possibilità di operare una interpretazione conforme a Costituzione il giudice è tenuto ad adeguarvisi e, nel caso di specie, non par dubbio che l’interpretazione più corretta sia quella di affermare la sospensione della prescrizione tutte le volte in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 304 c.p.p., indipendentemente dal fatto che vi siano o meno imputati detenuti; diversamente opinando, sostiene l’autore della nota, si verrebbe a creare un trattamento differenziato in base ad una variabile, lo stato di detenzione, che darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento tra imputati, con inevitabili ricadute sulla tenuta del sistema.


— 704 — modalità con cui deve essere definito l’ambito applicativo dell’art. 159 c.p., tali da legittimare una interpretazione lata della norma, che ne ponga in risalto i profili più spiccatamente sostanziali e non si arresti ad un collegamento meccanico con l’art. 304 c.p.p. 3. Se questo era il panorama della giurisprudenza al momento dell’intervento delle Sezioni Unite, occorre evidenziare come la decisione in esame si spinga molto al di là dei confini segnati dai contrasti interpretativi preesistenti. Anzitutto, osserva la Corte come la sospensione dei termini di custodia cautelare sia riferibile a due distinte situazioni: le ipotesi in cui discende dalla sospensione o dal rinvio del procedimento (e sono la maggior parte) e quelle in cui prescinde da tali evenienze. Esaminando il contenuto dell’art. 304 c.p.p. emerge infatti come le ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare abbiano a fondamento diversi presupposti. La norma, più volte interpolata nel corso degli anni, presenta una fisionomia multiforme, enunciando cause di sospensione dei termini di custodia cautelare tra loro eterogenee, attivabili secondo meccanismi differenti e riconducibili a diverse fasi processuali. Osservando i soli profili rilevanti ai fini della presente questione, e limitando l’analisi alla tipologia delle cause di sospensione, occorre evidenziare come le Sezioni Unite abbiano individuato un denominatore comune proprio nella circostanza che la sospensione dei termini di custodia cautelare sia o meno accompagnata da una stasi del procedimento. L’art. 304 comma 1 c.p.p. prevede infatti alla lett. a e alla lett. b i casi di sospensione o rinvio del dibattimento che determinano la sospensione dei termini di custodia cautelare (la relativa disciplina è poi richiamata dall’art. 304 comma 1 lett. c bis) e comma 4 per le fasi rispettivamente del giudizio abbreviato e dell’udienza preliminare). L’art. 304 comma 1 lett. c e comma 2 (pendenza dei termini per la redazione della motivazione e procedimenti particolarmente complessi) prevede invece dei casi di sospensione dei termini di custodia cautelare che non hanno a fondamento un previo provvedimento di sospensione o rinvio del processo. Orbene, nella trama della sentenza queste ipotesi sono esaminate distintamente: lo sforzo argomentativo della Corte è indirizzato infatti a determinare la disciplina della sospensione della prescrizione nei due casi in esame. 4. Si considera in primo luogo il caso della sospensione della prescrizione per sospensione o rinvio del procedimento. Le Sezioni Unite riconoscono l’impossibilità di pervenire ad una precisa definizione dei termini ‘‘sospensione’’ e ‘‘rinvio’’: l’assenza di un criterio di distinzione appagante non consente una individuazione univoca dei casi di ‘‘stasi’’ del procedimento, con la conseguenza che è rimesso all’opera dell’interprete valutarne la diversa portata (non a caso la motivazione parla di ‘‘linguaggio non connotativo, bensì meramente denotativo per riferirsi ai diversi casi di stasi temporanea del procedimento, che vanno poi distinti dall’interprete in relazione ai rispettivi specifici presupposti’’) (6). (6) La sentenza, sulla base di un esame delle diverse disposizioni del codice di rito, riconosce come non sia possibile pervenire ad una distinzione delle ipotesi di sospensione da quelle di rinvio, non ricorrendo un sistema definitorio preciso. In dottrina sono stati prospettati alcuni criteri per pervenire ad una distinzione tra sospensione e rinvio: secondo SIRACUSANO in ipotesi del genere si ha una deroga al principio generale di concentrazione del dibattimento e, ferma restando la difficoltà di pervenire ad una linea di demarcazione sufficientemente


— 705 — Da qui la necessità di chiedersi: in quali casi la sospensione ed il rinvio del procedimento possono produrre come conseguenza la sospensione della prescrizione del reato? A fondamento delle argomentazioni della sentenza vi è una considerazione di carattere generale: se nel vigente sistema le iniziative rispetto a tempi, modalità e contenuti delle attività processuali sono rimesse non solo al giudice ma anche alle parti, che contribuiscono attivamente attraverso le proprie strategie a definire lo svolgimento del processo, è sulle parti medesime che deve ricadere la responsabilità delle scelte effettuate. Se pertanto le parti, nell’esercizio dei propri poteri di iniziativa, determinano uno stallo nel regolare corso del procedimento, di tale situazione sono chiamate ad assumere il peso. Un simile principio contribuisce a definire i termini del problema. La sospensione del corso della prescrizione, pur costituendo un’evenienza pregiudizievole per l’imputato, perché dilata i tempi della punibilità, rappresenta la conseguenza di una scelta scientemente compiuta dalla parte. Se ciò è vero, ecco arrivare da subito al cuore del problema: sarebbe contraria alla logica del sistema, oltre che idonea a creare disparità di trattamento, una situazione in cui un fatto generato da scelte processuali dell’imputato, quale la sospensione del processo, abbia sul piano del diritto sostanziale delle diverse ricadute a seconda che l’imputato sia o meno sottoposto a custodia cautelare. Non si tratta di stabilire se la sospensione del corso della prescrizione dipenda o meno da una vicenda cautelare in atto, ché tale questione è ormai assorbita dal rilievo per il quale assume preminente importanza il profilo della imputabilità alla parte della stasi del procedimento: non vi è più dubbio che, in un sistema ispirato al principio accusatorio, nel quale l’andamento del processo dipende dai poteri di iniziativa e controllo delle parti, la stasi del procedimento che sia conseguenza dell’esercizio di tali poteri debba ricadere su chi tali poteri ha esercitato. Senza volere evocare un linguaggio eticheggiante, si può riconoscere che la sentenza abbia voluto affermare l’esigenza di un principio di responsabilizzazione delle parti di fronte alle proprie strategie processuali. È un monito rivolto a queste affinché non sfruttino in funzione dilatoria gli strumenti che la legge accorda loro. La prescrizione del reato, vuole affermare la sentenza, matura solo nel momento in cui l’inerzia dell’autorità giudiziaria determina il mancato accertamento del reato nei tempi previsti dalla legge, non anche nell’ipotesi in cui la dilatazione dei tempi processuali è dovuta ad un fatto imputabile all’imputato od al suo difensore. Ecco, allora, ritornare alla domanda che accompagna gli snodi più problematici della sentenza: in quali ipotesi in concreto la sospensione del procedimento determina la sospensione della prescrizione? Quali sono cioè i casi nei quali può sostenersi che un’iniziativa della parte che ha come conseguenza la sospensione del processo possa determinare al contempo la sospensione del decorso della prescrizione? La sentenza offre degli spunti di riflessione particolarmente significativi. Non tutte le volte in cui la stasi del processo dipende da una iniziativa della parte può prodursi come effetto la sospensione della prescrizione. Del resto è lo precisa, si avrebbe rinvio quando la stasi si verifica prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (argomento desunto dall’art. 487 c.p.p., abrogato dalla l. n. 479 del 1999, in base al quale, quando risulta la nullità dell’atto di citazione o della sua notificazione il giudice pronuncia ordinanza con cui rinvia il dibattimento e dispone la rinnovazione degli atti nulli: attualmente la disciplina relativa alla contumacia è stata anticipata alla fase dell’udienza preliminare, con la conseguenza che le ipotesi di rinvio sono ricondotte agli atti introduttivi dell’udienza preliminare), mentre la sospensione si produrrebbe in una serie di ipotesi previste dalla legge, interne e non già antecedenti alla fase dibattimentale (AA.VV., Diritto processuale penale, Vol. Il, Milano, 1995, 301).


— 706 — stesso art. 304 comma 1 lett. a) ad escludere che possano incidere sulla prescrizione la sospensione od il rinvio quando siano stati disposti per esigenze di acquisizione della prova o a seguito di concessione di termini per la difesa. Occorre contemperare due distinte esigenze: la necessità, da un lato, di ancorare la sospensione della prescrizione a criteri predeterminati (7), l’insufficienza, dall’altro, del criterio della particolarità della previsione delle ipotesi di sospensione rilevanti ai fini della prescrizione, proprio del codice del 1930. Se si seguisse questo secondo criterio finirebbero infatti per essere ricomprese tra le cause di sospensione della prescrizione anche le ipotesi di sospensione del dibattimento dipendenti da esigenze di acquisizione della prova di cui agli artt. 508 e 509 c.p.p., ciò che risulta espressamente escluso proprio dall’art. 304 c.p.p. La soluzione cui perviene la Corte è quella di affermare, accanto alla particolarità della previsione normativa (che sgombra il campo da parametri non sufficientemente precisi), il criterio della imputabilità della stasi all’imputato o al suo difensore: è proprio il concetto di imputabilità che ricorre incessantemente nella trama della motivazione e che fa da sfondo alla decisione della Corte. Profilo che riveste una importanza determinante sotto una duplice prospettiva: di metodo, imponendo alla parte di assumere responsabilmente le proprie determinazioni in ordine alle strategie processuali da perseguire, di sistema, posto che in un processo accusatorio, di parti, le ricadute delle scelte processuali gravano proprio su chi tali scelte ha effettuato (8). 5. Chiarita l’interpretazione dell’art. 159 c.p. in presenza di una causa di sospensione o di rinvio del processo, resta da verificare come si atteggi la diversa ipotesi di sospensione della prescrizione non dovuta ad uno stallo nella fase processuale: si potrà verificare anche in questa diversa evenienza una sospensione ex se del decorso della prescrizione o sarà necessario che un provvedimento applicativo di custodia cautelare effettivamente sussista? I casi cui si fa riferimento sono quelli contemplati dall’art. 304 comma 1 lett. c) (pendenza dei termini per la redazione delle sentenze dibattimentali) e dall’art. 304 comma 2 c.p.p. (procedimenti per i reati di cui all’art. 407 comma 2 lett. a), nel caso di dibattimenti particolarmente complessi, durante il tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza). Nell’economia della motivazione questo secondo profilo assume una veste marginale. Le Sezioni Unite pervengono alla conclusione che in tali casi la sospensione della prescrizione segua quale effetto del provvedimento applicativo di misura cautelare. La sospensione del corso della prescrizione richiede necessariamente un provvedimento a monte al quale fare seguito, sia esso di sospensione del procedimento, sia esso di sospensione dei termini di custodia cautelare: in assenza di qualsivoglia provvedimento non può darsi sospensione della prescrizione. È ne(7) È la ragione per la quale, sostiene la Corte, non possano essere causa di sospensione della prescrizione le sospensioni del procedimento previste dall’art. 41 comma 2 c.p.p. con riferimento alla ricusazione, o dall’art. 47 comma 2 c.p.p. con riferimento alla rimessione, trattandosi di ipotesi di sospensione meramente facoltativa, disancorate da qualsiasi predeterminazione dei criteri di decisione. Allo stesso modo non può essere causa di sospensione della prescrizione la stasi dibattimentale ex art. 477 c.p.p., trovando fondamento in una situazione non definibile in base a criteri predeterminati. (8) I primi commenti a questa sentenza, nell’accogliere favorevolmente i principi ivi affermati, si soffermano proprio sul principio di imputabilità: tale concetto non presuppone una forma di abuso, e non deve essere letto in chiave afflittiva o sanzionatoria nei confronti dell’imputato che vede dilatarsi i tempi della prescrizione. È la ratio dell’istituto della prescrizione che giustifica una decisione di questo tenore, poiché essa è riconducibile soltanto ai casi di stasi del processo imputabili all’inerzia degli organismi giudiziari e che quindi priva di qualsiasi rilevanza, ai fini della sospensione della prescrizione, le circostanze afferenti esclusivamente le parti private. Cfr. CIARAVOLO-TRANQUILLO, Anche la richiesta di rinvio del dibattimento congela i termini di estinzione del reato, in Guida al diritto, n. 4 del 2002, 63; MONTAGNA, Sospensione o rinvio del procedimento ed effetti sui termini di prescrizione, in Dir. Pen. e Proc., 2002, 192.


— 707 — cessario cioè un provvedimento presupposto affinché possa operare il meccanismo della sospensione della prescrizione, mancando il quale non ha alcun effetto la circostanza che si versi in particolari situazioni processuali, quali possono essere appunto la pendenza dei termini per la redazione della motivazione o la sussistenza di processi particolarmente complessi in relazione a determinate categorie di reati. 6. L’impatto che questo indirizzo giurisprudenziale avrà nella prassi applicativa non può che essere accolto positivamente: si è affermato in termini perentori un principio di ‘‘moralizzazione processuale’’ con il quale dovranno fare i conti quanti sperano di trarre profitto dalle lungaggini processuali. Il vecchio adagio dum pendet rendet, che con una buona dose di autoironia ripetono taluni, rischia di uscire fortemente ridimensionato da questa sentenza. Non vi è dubbio che nelle maglie di queste disposizioni si apriranno nuove falle (9), alcune peraltro già individuate dalla dottrina, ma ciò che è veramente lodevole di questa sentenza è lo sforzo ricostruttivo volto a definire, in termini tecnicamente corretti e con una seria ispirazione di giustizia sostanziale, questioni interpretative estremamente complesse. GAETANO RUTA

Astensione collettiva degli avvocati dalle udienze e sospensione del corso della prescrizione. 1. Con la sentenza in epigrafe le Sezioni unite penali della Corte di cassazione risolvono chiaramente il contrasto giurisprudenziale in ordine alla sospensione del corso della prescrizione del reato (1) nell’ipotesi in cui il difensore dell’imputato abbia aderito all’astensione collettiva dalle udienze deliberata da organi rappresentativi dell’avvocatura (2). (9) A titolo meramente esemplificativo si possono segnalare due casi: — il primo, affrontato dalla Corte Cost. con ordinanza n. 199 del 2001 (in Cass. pen., 2001, 3294, con nota di GREVI), ha ad oggetto la questione della concessione dei termini a difesa: l’art. 304 comma 1 lett. a) esclude infatti dal novero delle ipotesi in cui la sospensione o il rinvio del dibattimento possa determinare la sospensione dei termini di custodia cautelare (e, correlativamente, la sospensione della prescrizione del reato) i casi in cui siano concessi termini a difesa; orbene, il problema sollevato nei processi di criminalità organizzata riguarda i casi di revoca ‘‘di massa’’ dei difensori da parte degli imputati, accompagnata dalla richiesta da parte dei difensori che subentrano di un termine a difesa ai sensi dell’art. 108 c.p.p. La Corte Cost., nel dichiarare l’inammissibilità della questione, ha peraltro lasciato aperti degli spazi di manovra per un’interpretazione che eviti possibili abusi, ben evidenziata da GREVI, che nella sua nota sostiene come il fenomeno della revoca di massa dei difensori debba essere inquadrato nell’ipotesi di cui alla lett. b) dell’art. 304 e.p.p., come manifestazione della ‘‘mancata partecipazione’’ dei difensori al dibattimento, con la conseguenza che il profilo della concessione dei termini a difesa resterebbe comunque assorbito dalla diversa disciplina di questa seconda disposizione; — il secondo riguarda la possibilità che gli imputati ai quali non si riferisce la causa di sospensione si avvalgano della facoltà prevista dall’art. 304 comma 5 c.p.p., chiedendo che si proceda nei loro confronti previa separazione dei processi: orbene, se il giudice dovesse ritenere la riunione assolutamente necessaria, in tal modo non accogliendo l’istanza di separazione, a tali imputati non potrebbe applicarsi il regime di sospensione dei termini di custodia cautelare (e quindi anche della sospensione della prescrizione del reato); il rischio, paventato in dottrina, è quello di richieste ‘‘a singhiozzo’’ da parte dei vari imputati in processi cumulativi, nei quali, secondo un ben congegnato meccanismo di rotazione, si finirebbe per dilatare i tempi processuali senza risentire della sospensione dei termini di custodia cautelare e della prescrizione (cfr. GIARDA-SPANGHER, sub art. 304 c.p.p., cit.). (1) In argomento v., per tutti, BARTOLO, voce ‘‘Prescrizione del reato’’, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, p. 7 ss.; PANAGIA, voce ‘‘Prescrizione del reato e della pena’’, in Digesto pen., Torino, 1995, IX, p. 664. (2) In tema di astensione collettiva degli avvocati dalle udienze v. R. BETTIOL, Astensione dalle


— 708 — Il contrasto giurisprudenziale riguarda l’interpretazione dell’art. 159, comma 1, c.p., che, in virtù della novella di cui all’art. 15 della l. 8 agosto 1995, n. 332, prevede che ‘‘il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio e in ogni altro caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge’’ (3). In particolare, si discute intorno al significato da attribuire al riferimento contenuto nell’art. 159, comma 1, c.p., per come modificato dalla citata l. n. 332/1995, alle ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare (art. 304 c.p.p.) e, tra queste, al differimento del dibattimento per adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze, non essendo chiaro se quel riferimento valga ad integrare il novero delle ipotesi di sospensione dei termini di prescrizione ovvero se, nei casi descritti dall’art. 304 c.p.p., il corso della prescrizione rimanga sospeso soltanto se sia stato adottato un provvedimento di sospensione dei termini di durata di una custodia cautelare in atto. Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità (4), il differimento dell’udienza dibattimentale per adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze deliberata dagli organi rappresentativi degli avvocati o per altro impedimento del difensore ha effetti sospensivi del corso della prescrizione soltanto nei casi in cui sia stato adottato un provvedimento di sospensione dei termini di durata di una custodia cautelare in corso di esecuzione, osservandosi che la diversa interpretazione, tendente ad affermare che, per effetto della novella di cui all’art. 15 della l. n. 332/1995, le ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare costituiscono altrettante cause di sospensione del corso della prescrizione, com-

udienze: liceità penale?, in Arch. pen., 1987, p. 7 ss.; PANNUCCIO, Solidarietà negli ‘‘scioperi’’ degli avvocati, in Rass. Forense, 1991, p. 109 ss.; NUNZIATA, Sulla necessità e urgenza di regolamentare l’astensione collettiva dalle udienze di avvocati e procuratori legali, in Arch. nuova proc. pen., 1995, p. 555 ss.; TOPO, L’astensione dei difensori dalle udienze come esercizio del diritto di sciopero, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 691 ss.; PULITANÒ, Lo sciopero degli avvocati: se, come, quando, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 6 ss.; DI NICOLA e GUZZETTA, Esercizio del diritto e suo abuso. L’astensione degli avvocati tra disciplina costituzionale ed ordinamento penale, in Cass. pen., 1998, p. 456 ss.; VELARDO, Brevi appunti in tema di astensione degli avvocati, in Giur. mer., 1999, p. 803 ss. (3) V. Corte cost., 31 marzo 1994, n. 114, in Giur. cost., 1994, p. 970, che, prima della riforma operata dall’art. 15 della l. n. 332/1995, aveva dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 1, c.p. sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva la sospensione del corso della prescrizione per il tempo di durata della sospensione e del rinvio del dibattimento conseguenti all’assenza del difensore dell’imputato per la sua adesione all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria e, in subordine, nella parte in cui non prevedeva l’adozione di un provvedimento impugnabile di sospensione dei termini di prescrizione del reato per il tempo corrispondente alla sospensione o al rinvio del dibattimento. La Corte, dichiarando l’inammissibilità della questione in quanto tendente ad ottenere una sentenza additiva in malam partem, aveva auspicato un intervento del legislatore. Sulla necessità di un intervento legislativo v., in dottrina, NUNZIATA, Sciopero degli avvocati e mancata sospensione dei termini di prescrizione dei reati: rilevante presa di posizione del ‘‘giudice delle leggi’’, in Nuovo dir., 1994, p. 624. In conseguenza della suddetta pronuncia sull’art. 159, comma 1, c.p. interveniva il legislatore con l’art. 15 della citata l. n. 332/1995, stabilendo l’attuale disciplina normativa, che, a causa della non chiara formulazione letterale e della mancanza di ogni riferimento nella relazione alla legge, ha, però, posto non pochi dubbi interpretativi. (4) Cfr. Cass., Sez. III, 20 febbraio 1997, Basileo, in Cass. pen., 1999, p. 1461; Id., Sez. V, 16 marzo 1998, Pipolo, in Riv. pen., 1998, p. 766; Id., Sez. III, 19 giugno 1998, Auricchio, in Cass. pen., 1999, p. 2538; Id., Sez. V, 22 ottobre 1998, Chiarinelli, in CED Cass., 211963; Id., Sez VI, 6 novembre 1998, Nascivera, in CED Cass., 211964; Id., Sez. IV, 26 gennaio 1999, Cassese, in Arch. nuova proc. pen., 1999, p. 153; Id., Sez. V, 9 febbraio 1999, Gramiccia, in Cass. pen., 2000, p. 937; Id., Sez. V, 21 settembre 1999, Becattini, in Gazz. giur., 1999, p. 46, p. 90; e, in dottrina, criticamente, GREVI, Misure cautelari, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, Padova, 2000, p. 405-406. Dello stesso A. v., successivamente, Sui rapporti tra sospensione del corso della prescrizione e sospensione dei termini di custodia cautelare ecc., in Cass. pen., 2000, p. 2935 ss., e, più in generale, Prescrizione del reato ed effettività del processo tra sistema delle impugnazioni e prospettive di riforma, in Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, Milano, 2002, p. 189 ss.


— 709 — porterebbe un’interpretazione analogica dell’art. 159, comma 1, c.p. inammissibile nel nostro ordinamento penale. Viceversa, una giurisprudenza minoritaria (5) ritiene che, in ipotesi del genere, il corso della prescrizione rimanga sospeso anche se l’imputato non è detenuto, osservando che il nuovo testo dell’art. 159, comma 1, c.p. non rinvia all’intera disciplina della sospensione dei termini di custodia cautelare ma ne richiama soltanto i presupposti per ancorarvi l’effetto sospensivo della prescrizione (6). 2. La sentenza in epigrafe si segnala per l’approccio completamente nuovo alla questione. Sarebbero due i problemi posti dall’art. 159, comma 1, c.p. successivamente alla novella di cui all’art. 15 della l. n. 332/1995. Il primo rimarrebbe tutto nell’ambito dell’art. 159, comma 1, c.p., considerando che tale disposizione, analogamente all’art. 304 c.p.p., cui fa implicito rinvio e che a sua volta prevede ipotesi di sospensione dei termini di custodia connesse a cause di sospensione del procedimento penale, prevede come cause di sospensione del corso della prescrizione le sospensioni del procedimento penale imposte da particolari disposizioni di legge. In tale prospettiva, non ponendosi un problema di raccordo — per come sinora inteso — tra l’art. 159, comma 1, c.p. e l’art. 304 c.p.p., si tratterebbe di stabilire quali sospensioni del procedimento penale siano di per sé idonee a determinare la sospensione del corso della prescrizione. In secondo luogo, considerando che l’art. 304 c.p.p. contempla anche ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare non connesse a sospensioni del procedimento penale (7), occorrerebbe stabilire se anche in questi casi, in virtù del richiamo operato dall’art. 159, comma 1, c.p., si determini la sospensione del corso della prescrizione ovvero se l’adozione di un provvedimento di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare in atto costituisca condizione necessaria affinché l’effetto sospensivo della prescrizione si produca. Questo modo di intendere il rapporto tra l’art. 159, comma 1, c.p. e l’art. 304 c.p.p. costituisce una novità: sino alla sentenza in commento si era discusso unicamente del significato da attribuire, nel contesto dell’art. 159, comma 1, c.p., al riferimento alle ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare, ma non si era mai adeguatamente chiarito quali ipotesi di sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale fossero di per sé idonee, e cioè indipendente(5) Cfr. Cass., Sez. VI, 2 luglio 1998, Pozzi, in Cass. pen., 1999, p. 1462; Id., Sez. VI, 9 novembre 1998, Mancuso, ivi, 2001, p. 2704; Id., Sez. Fer., 17 agosto 2001, Fantini, in Dir. Giust., 2001, p. 2, e, in dottrina, FRIGO, La riforma della custodia cautelare, in Il Sole 24 Ore, inserto del 4 agosto 1995, 16, secondo cui ‘‘di notevole rilievo è la previsione del comma 2 di questo art. 15 della legge che, attraverso la modifica del comma 1 dell’art. 159 del c.p., trasforma le cause di sospensione dei termini di custodia cautelare in altrettante cause di sospensione di prescrizione dei reati’’; SEMERARO, La sospensione della prescrizione e l’astensione dei difensori dalle udienze, in Cass. pen., 1999, p. 1463 ss. (6) Tale orientamento troverebbe avallo in una recente ordinanza della Corte costituzionale (v. Corte cost., 28 giugno 2000, n. 233, in Foro it., I, p. 47), la quale, nel dichiarare manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., dell’art. 159, comma 1, c.p. nella parte in cui non prevede, per tutti i reati a prescindere dallo stato detentivo dell’imputato, la sospensione del corso della prescrizione, ove si verifichino cause di sospensione dei termini di custodia cautelare, in quanto ‘‘tendente ad ottenere un avallo all’interpretazione propugnata, attribuendo alla Corte un compito che rientra tra quelli tipici del giudice ordinado’’, afferma che ‘‘ove siano prospettabili diverse interpretazioni della norma censurata, di cui una ritenuta conforme a Costituzione, il giudice ha il dovere di farla propria, dovendo sollevare questione di legittimità solo quando risulti impossibile seguire un’interpretazione costituzionalmente corretta’’. (7) In argomento v., per tutti, GREVI, Misure cautelari, cit., p. 401 ss.


— 710 — mente dal riferimento ai casi di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, a determinare la sospensione del corso della prescrizione. In proposito, conviene precisare che la questione relativa alla possibilità di considerare l’adesione all’astensione collettiva dalle udienze come legittimo impedimento del difensore ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, c.p.p., con conseguente rinvio del dibattimento (8), si pone su di un piano diverso e pregiudiziale rispetto alla disputa giurisprudenziale in discussione. Infatti, soltanto nell’ipotesi in cui sia concesso il rinvio a norma dell’art. 420-ter, comma 5, c.p.p., si pone il problema di stabilire se per effetto del differimento dell’udienza preliminare o dibattimentale si determino o meno effetti sospensivi del corso della prescrizione del reato (9). 3. Quanto alla prima delle questioni prospettate, le Sezioni unite ritengono che l’art. 159, comma 1, c.p. debba essere interpretato nel senso che la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l’imputato non è detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di un termine a difesa. Nell’affermazione di tale principio è decisivo il principio della imputabilità del rinvio, ricavabile, ad avviso della pronuncia annotata, dall’impostazione del nuovo codice di procedura penale e, coerentemente con tale impostazione, dalla novella apportata all’art. 159, comma 1, c.p. dall’art. 15 della l. n. 332/1995. In proposito, si ritiene che, al fine di individuare le ipotesi di sospensione del procedimento penale che hanno effetti sospensivi della prescrizione, il criterio della particolarità della previsione legislativa, elaborato quando era in vigore il codice di rito abrogato, non può valere con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale caratterizzato da una partecipazione attiva delle parti allo svolgimento del processo. Segnatamente, nell’ottica del codice di rito abrogato, caratterizzato dall’impulso del giudice allo svolgimento del processo, era necessario circoscrivere i poteri del giudice e limitarne eventuali abusi e, pertanto, l’art. 159, comma 1, c.p. veniva interpretato nel senso che la sospensione del corso della prescrizione potesse determinarsi unicamente nelle ipotesi di sospensione del procedimento previste da specifiche disposizioni di legge, con ciò intendendosi non soltanto che il caso di sospensione dovesse essere previsto dalla legge ma anche che la previsione legislativa dovesse essere particolare. Conseguentemente, giurisprudenza e dottrina mentre escludevano che il corso della prescrizione rimanesse sospeso nel caso di sospensione del dibattimento consentita in via generale dall’art. 431, comma 2, del vecchio codice di rito in tutti i casi di assoluta necessità considerando troppo ampia tale previsione legislativa, invece, ammettevano che il corso della prescrizione rimanesse sospeso in (8) Nel senso che l’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze deliberata dagli organi rappresentativi degli avvocati, purché tempestivamente comunicata, costituisce legittimo impedimento del difensore ai sensi dell’art. 486, comma 5, c.p.p. con conseguente rinvio del dibattimento (v., dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, l’art. 420-ter, comma 5, c.p.p.) v. Cass., Sez. I, 8 luglio 1991, Lo Iacono, in CED Cass., 188390; Id., Sez. III, 24 agosto 1993, Capaci, in Cass. pen., 1995, p. 94; Id., Sez. I, 29 novembre 1995, Milano, in CED Cass., 203501; Id., Sez. IV, 5 aprile 1996, Chilocci, in CED Cass., 204958. In senso contrario v. Cass., Sez. I, 26 aprile 1996, Di Paolo, in CED Cass., 205175; Id., Sez. V, 23 maggio 1997, Scurto, in CED Cass., 208611; Id., Sez. III, 13 maggio 1999, Tartaglia Polcini, in CED Cass., 214313. (9) Sul punto v. postea.


— 711 — caso di concessione di un termine a difesa nei casi di contestazione suppletiva prevista dall’art. 446 dello stesso codice (10). Considerando che con il nuovo codice di procedura penale permane il carattere non univoco del linguaggio legislativo per indicare le diverse ipotesi di stasi (sospensione o rinvio) del procedimento o del dibattimento penale, la pronuncia in commento ritiene che il criterio letterale non possa essere decisivo per individuare le ipotesi di sospensione del procedimento penale che determinano la sospensione del corso della prescrizione. Ciò posto, pur rimanendo ferma l’esigenza che la sospensione del corso della prescrizione sia ancorata a criteri predeterminati con esclusione di ogni effetto sospensivo subordinato a valutazioni discrezionali del giudice (11), si osserva che il criterio della particolarità della previsione legislativa, elaborato quando era in vigore il vecchio codice di rito caratterizzato dall’impulso del giudice all’incedere procedimentale, debba essere integrato con il criterio della imputabilità del rinvio, ricavabile da un’interpretazione sistematica del richiamo all’art. 304 c.p.p. contenuto nel nuovo testo dell’art. 159, comma 1, c.p. Più precisamente, considerando che, in ossequio al principio del contraddittorio, le parti non hanno, a differenza di quanto previsto nel codice di rito abrogato, soltanto poteri limitativi dell’autorità del giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell’andamento del processo, si ritiene che esclude l’imputabilità della sospensione o del rinvio l’esercizio del diritto di prova e, in generale, del diritto di difesa da intendersi quest’ultimo come esercizio delle facoltà previste da quelle disposizioni che impongono di riconoscere al difensore un termine per prendere cognizione degli atti e per informarsi sui fatti oggetto del procedimento (art. 108 c.p.p.). In definitiva, nell’ottica del nuovo codice di procedura penale caratterizzato dalla partecipazione attiva delle parti in contraddittorio allo svolgimento del processo, escluderebbe l’imputabilità del rinvio o della sospensione l’esercizio dei poteri destinati a realizzare la funzione cognitiva del processo e, quindi, tutti i rinvii del dibattimento disposti per esigenze istruttorie o in conseguenza del riconoscimento di un termine a difesa. In tale prospettiva, non si determina una sospensione del corso della prescrizione nelle ipotesi in cui sia concesso al difensore un termine a difesa ai sensi dell’art. 108 c.p.p. o, in generale, sia concesso alla parte un termine per approntare la difesa (artt. 184, 451 e 519 c.p.p.). Invece, in caso di adesione del difensore nominato all’astensione collettiva dalle udienze deliberata dagli organi rappresentativi degli avvocati, determinandosi un rinvio o sospensione del procedimento o del dibattimento su richiesta del difensore e non trattandosi di rinvio o sospensione disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito a riconoscimento di un termine a difesa, il corso della prescrizione rimane sospeso ai sensi dell’art. 159, comma 1, c.p. E rimane sospeso anche se l’imputato non è in stato di detenzione e, precisamente, indipendentemente dall’adozione di un provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare in corso di esecuzione. Ciò posto, la sentenza in commento è tale da offrire anche una via per superare quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (12), secondo cui è a (10) Cfr., per tutti, MANZINI, Diritto penale italiano, III, Torino, 1948, p. 507 ss.; MOLARI, voce ‘‘Prescrizione del reato e della pena (Diritto penale)’’, in Noviss. Dig. it., XIII, Torino, 1966, p. 699 ss.; PISA, voce ‘‘Prescrizione (diritto penale)’’, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, p. 90-91. (11) In tal senso cfr. Cass., Sez. III, 19 giugno 1998, Auricchio, cit. (12) Cfr. Cass., Sez. III, 29 novembre 1995, Granariello, in CED Cass., 203907; Id., Sez. II, 3 febbraio 1997, Quintini, in CED Cass., 207558; Id., Sez. III, 29 settembre 1997, Fagiano, in CED Cass.,


— 712 — discrezione del giudice considerare come legittimo impedimento del difensore l’adesione dello stesso all’astensione collettiva dalle udienze e di concedere, perciò, un rinvio del dibattimento ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, c.p.p. a seconda che i termini di prescrizione del reato siano o meno prossimi a scadere. Invero, posto che, in ipotesi del genere, ad avviso della pronuncia annotata, si determina, ai sensi dell’art. 159, comma 1, c.p.p., l’effetto sospensivo del corso della prescrizione con conseguente esclusione dell’eventuale pericolo di maturazione dei termini di prescrizione del reato, non dovrebbe esservi alcuna preclusione alla possibilità di considerare l’adesione all’astensione collettiva dalle udienze come legittimo impedimento del difensore e di concedere un rinvio dell’udienza preliminare o dibattimentale. 4. Chiarito in questo modo quali ipotesi di sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale abbiano effetti sospensivi del corso della prescrizione, rimane da chiarire se negli altri casi di sospensione dei termini di custodia cautelare e, cioè, se in pendenza dei termini per la redazione della motivazione delle sentenze dibattimentali (art. 304, comma 1, lett. c), c.p.p.) e durante il tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza in procedimenti particolarmente complessi per taluni dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p. (art. 304, comma 2, c.p.p.) si determini la sospensione del corso della prescrizione. In proposito, le Sezioni unite ritengono che, fuori dalle ipotesi di sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento ovvero dai casi di presentazione di una richiesta di autorizzazione a procedere, il corso della prescrizione rimanga sospeso soltanto se venga effettivamente adottato un provvedimento di sospensione dei termini di una custodia cautelare in corso di esecuzione. A sostegno dell’assunto, si osserva che l’art. 159, comma 1, c.p. ancora l’effetto sospensivo della prescrizione sia ad un provvedimento di sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale sia ad un provvedimento di sospensione dei termini di una custodia cautelare in atto. Così, nei due soli casi previsti dall’art. 304 c.p.p. in cui la sospensione dei termini di custodia cautelare può essere disposta per causa diversa dalla sospensione o dal rinvio del procedimento o del dibattimento penale, affinché si determini l’effetto sospensivo del corso della prescrizione, in virtù dell’implicito richiamo all’art. 304 c.p.p. operato dall’art. 159, comma 1, c.p., è necessario che sia effettivamente adottato un provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare in corso di esecuzione. 5. La sentenza in commento ha l’innegabile pregio di individuare con adeguato supporto argomentativo le ipotesi di sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale che determinano effetti sospensivi del corso della prescrizione del reato, diverse dalla trasmissione di richiesta di autorizzazione a procedere, dalla rimessione alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale e dal deferimento di questione ad altro giudizio a norma dell’art. 3 c.p.p. ovvero a norma dell’art. 479 c.p.p. (13). Tuttavia, questa interpretazione dell’art. 159, comma 1, c.p. costituisce il risultato dell’applicazione del criterio della imputabilità del rinvio, di cui non vi è esplicita traccia nel codice di rito ed a cui si fa riferimento per la prima volta nella sentenza annotata. Criterio di valore, peraltro, che, seppure coerente con l’impostazione accusatoria del nuovo codice di procedura penale e con il principio del 209483; Id., Sez. V, 22 aprile 1998, Sereni, in CED Cass., 210539; Id., Sez. III, 3 dicembre 1998, Liccardo, in Giust. pen., 2000, III, p. 85. (13) In argomento v. BARTOLO, op. cit., p. 8-9.


— 713 — giusto processo recentemente reso di rango costituzionale con la modifica dell’art. 111 Cost., è suscettibile di essere diversamente valutato alla stregua della ratio della prescrizione del reato e dei principi propri del diritto penale sostanziale. L’istituto della prescrizione del reato trova il proprio fondamento nella considerazione che con il decorso del tempo appare inutile e inopportuno l’esercizio della funzione repressiva per il venir meno delle esigenze di prevenzione generale e speciale che presiedono alla repressione dei reati, essendo dimostrato dall’esperienza che con il passare del tempo le esigenze di prevenzione si affievoliscono sino a spegnersi del tutto (14). A questa realtà si adegua l’ordinamento che prevede termini di prescrizione differenti proporzionati alla gravità dei reati (15). Alla generale previsione dei termini di prescrizione dei reati lo stesso ordinamento pone dei temperamenti attraverso la disciplina della sospensione o dell’interruzione del corso della prescrizione (16). In particolare, nell’applicazione dell’art. 159, comma 1, c.p., che dà rilievo sostanziale, quali cause di sospensione del corso della prescrizione del reato, a situazioni tipicamente processuali, è necessario considerare primariamente i principi propri del diritto penale sostanziale. Ciò posto, l’art. 159, comma 1, c.p., individuando le ipotesi che temperano la generale regola secondo cui il decorso del tempo estingue il reato, non è suscettibile, neppure attraverso il richiamo a principi di natura processuale, di applicazione analogica in malam partem (17), né nel dubbio tra due possibili interpretazioni può essere applicato nel senso più sfavorevole all’imputato, né in definitiva può essere interpretato in modo tale da derogare, più o meno surrettiziamente, ai principi di legalità (18) e tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale (19). Il principio della imputabilità del rinvio elaborato dalla pronuncia annotata è di natura processuale e, in mancanza di una netta presa di posizione da parte del legislatore, non può condurre, se non al costo di una violazione del divieto di analogia in materia penale, ad una determinazione giurisprudenziale delle ipotesi di sospensione dei termini di prescrizione. In modo più pregnante, il principio della imputabilità del rinvio, proprio perché costituisce il frutto di un’elaborazione giurisprudenziale dalla quale si fa discendere la determinazione delle ipotesi di sospensione o rinvio del procedimento o del dibattimento penale che hanno effetti sospensivi del corso della prescrizione, si pone in aperto e insanabile contrasto con i principi di legalità (20) e tassatività nell’applicazione della legge penale (21). Principi questi ultimi che governano non soltanto l’interpretazione delle norme incriminatrici, ma anche l’interpretazione delle norme, come quella sulla (14) Così MOLARI, op. cit., p. 694 ss. (15) Così FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 742. (16) Cfr. FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 744. (17) In argomento v., per tutti, VASSALLI, voce ‘‘Analogia nel diritto penale’’, in Noviss. Dig. it., I, Torino, 1957, p. 607 ss.; ID., ‘‘Analogia nel diritto penale’’, in Digesto pen., I, Torino, 1985, p. 158 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 3a ed., 1992, p. 108 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 92 ss. (18) In argomento v., per tutti, VASSALLI, voce ‘‘Nullum crimen sine lege’’, in Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, p. 493 ss.; MARINI, voce ‘‘Nullum crimen sine lege’’, in Enc. dir., XXVIII, Roma, 1978, p. 950 ss.; MANTOVANI, op. cit., p. 41-42, p. 79 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 47 ss. (19) In argomento v., per tutti, MANTOVANI, op. cit., p. 97 ss.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 65 ss. (20) Sul punto v. MANTOVANI, op. cit., p. 79, che individua la primaria funzione del principio di legalità nell’esigenza di escludere dalle fonti del diritto penale le fonti non scritte. (21) Sul punto v. MANTOVANI, op. cit., p. 98, secondo il quale ‘‘il principio di tassatività assicura innanzitutto la certezza della legge per evitare l’arbitrio del giudice, precludendogli la possibilità di punire i casi non espressamente previsti dalla legge: tanto maggiore è la certezza, tanto minore è il soggettivismo, ideologico e caratteriale, del giudice’’.


— 714 — sospensione del corso della prescrizione del reato, che concorrono all’applicazione delle fattispecie incriminatrici. Il richiamo al principio della imputabilità del rinvio, elaborato nella sentenza in commento alla luce di un’interpretazione sistematica dell’art. 159, comma 1, c.p. e dell’art. 304 c.p.p., è suscettibile di essere diversamente valutato anche sotto altro profilo. L’art. 304 c.p.p., infatti, accomuna situazioni processuali completamente diverse nei presupposti sotto l’unico effetto della sospensione dei termini di durata della custodia cautelare in atto ed all’unico scopo di impedire che le esigenze cautelari siano vanificate dal decorso dei termini di durata massima della custodia in carcere (22). Il richiamo al criterio della imputabilità del rinvio non è di sicuro ed univoco affidamento allo scopo di determinare le ipotesi di sospensione o rinvio del procedimento penale che hanno effetti sospensivi del corso della presctizione, avendo il legislatore previsto nell’unica disciplina della sospensione dei termini di custodia cautelare in carcere anche situazioni in cui detto criterio non ha alcuna rilevanza e, soprattutto, non essendo la ratio dell’art. 304 c.p.p. l’imputabilità del rinvio ma l’esigenza di evitare che le esigenze cautelari siano vanificate dalla scadenza dei termini di durata massima della custodia cautelare in situazioni che, per diversità di presupposti e fondamento, sono ostative di una tempestiva definizione del giudizio. Infine, il richiamo sistematico all’art. 304 c.p.p. operato dalle Sezioni unite per giungere all’affermazione del primo principio di diritto affermato nella pronuncia annotata è fortemente indebolito dall’affermazione del secondo principio di diritto, in base al quale il riferimento alle ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare contenuto nell’art. 159, comma 1, c.p. viene interpretato come causa autonoma di sospensione del corso della prescrizione del reato conseguente alla effettiva adozione di un provvedimento di sospensione di una custodia cautelare in corso di esecuzione. Infatti, non è possibile se non al costo di una palese contraddizione far discendere dall’implicito rinvio all’art. 304 c.p.p. l’elaborazione del criterio (l’imputabilità del rinvio) alla cui stregua interpretare il riferimento alle ipotesi di sospensione del procedimento penale contenuto nell’art. 159, comma 1, c.p. e, nello stesso tempo, limitare l’operatività del rinvio all’art. 304 c.p.p. soltanto ad alcune delle ipotesi ivi previste. Pur essendo apprezzabile lo sforzo interpretativo profuso nella sentenza in commento allo scopo di dare definitiva soluzione al problema degli effetti che può determinare l’astensione dalle udienze degli avvocati sul decorso dei termini di prescrizione, è auspicabile, in armonia con i fondamentali principi di legalità e tassatività della legge penale, un intervento legislativo che stabilisca con precisione quali ipotesi di sospensione del procedimento penale producano effetti sospensivi del corso della prescrizione e, quanto alla disputa giurisprudenziale in discussione, se il corso della prescrizione rimanga sospeso in caso di rinvio o sospensione del procedimento o del dibattimento penale in conseguenza dell’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle udienze deliberata da organi rappresentativi dell’avvocatura come di qualsiasi altro impedimento. dott. ANTONIO BARBIERI

(22)

Sul punto cfr. GREVI, Misure cautelari, cit., p. 401 ss.


— 715 — CORTE DI CASSAZIONE — Sez. IV — 23 giugno 2000, n. 11626 Pres. Frangini — Est. Marzano — Ric. Stillitano Prova - Chiamata di correo - Elementi di riscontro costituiti da dichiarazioni del coimputato o di imputato in procedimento connesso o collegato - Utilizzabilità - Acquisizione secondo il principio del contraddittorio nella formazione della prova ex art. 111 comma 4 Cost. - Necessità - Esclusione - Ragioni. Il legislatore costituzionale, con la riforma dell’art. 111 Cost., ha voluto rendere inattaccabile la prevalenza del principio del contraddittorio nella formazione della prova rispetto ad ogni altro principio, ma non ha imposto un trattamento parimenti rigoroso a ciò che non costituisce prova fondamentale della responsabilità dell’imputato ma soltanto elemento di prova di conferma, fattuale o logica, delle accuse. Ne consegue che legittimamente sfuggono all’acquisizione secondo il metodo del contraddittorio i riscontri costituiti da dichiarazioni del coimputato o di un imputato in procedimento connesso o collegato, in quanto essi non sono elementi di prova autosufficienti, ma hanno mera funzione di riscontro di una chiamata in correità assunta in dibattimento. (Fattispecie in tema di acquisizione ex art. 513 c.p.p. di dichiarazioni di riscontro ad una chiamata in correità dibattimentale, rese durante le indagini preliminari da un coindagato del chiamato in correità) (1). (Omissis). — III) Più ampio esame richiede la seconda parte del secondo motivo di ricorso. A) Il ragionamento del ricorrente si sviluppa secondo questo percorso: — poiché Stillitano Rocco si è avvalso, in dibattimento, della facoltà di non rispondere, le dichiarazioni in precedenza rese sono state utilizzate per le contestazioni (in applicazione di quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 361 del 1998) secondo il disposto dell’art. 500 commi 2-bis e 4 c.p.p.; — le dichiarazioni di Stillitano Rocco avevano pertanto, ai sensi del comma 4 dell’art. 500 citato una più limitata valenza probatoria e non potevano costituire riscontro di altre dichiarazioni che necessitano di riscontro; — i giudici di merito hanno riscontrato reciprocamente dichiarazioni insufficienti, sotto il profilo probatorio, a fondare l’affermazione di responsabilità dell’imputato; — cosa facendo i giudici di merito hanno violato gli artt. 192 e 500 c.p.p. perché ne hanno eluso il significato; — questa conclusione sarebbe confermata dal tenore dell’art. 2 del d.l. n. 2/2000 che escluderebbe la possibilità di utilizzare come riscontro le dichiarazioni di chi si è sottratto, per libera scelta, all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore. Con memoria ritualmente depositata e alla pubblica udienza il difensore del ricorrente ha completato il percorso indicato sollevando, nel caso in cui non venisse accolta la ricostruzione sopra riportata, la questione di legattimità costituzionale: — dell’art. 513 comma 22 c.p.p. per contrasto con il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione;


— 716 — — dell’art. 1 del d.l. 7 gennaio 2000, n. 2 e dell’art. 1 comma 2, della legge di conversione 25 febbraio 2000, n. 35 per violazione degli artt. 77 comma 2, 138, 111 e 3 della Costituzione. A sostegno di tali eccezioni si afferma che la possibilità, prevista dall’art. 513 comma 2 c.p.p., che le dichiarazioni di chi si sia sottratto all’esame possano comunque (e quindi anche nel caso in cui svolgano funzione di elemento di riscontro) essere utilizzate a fini probatori, con le contestazioni e l’allegazione al fascicolo per il dibattimento, contrasterebbe con il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione. Gli altri articoli della normativa indicati vengono invece censurati perché avrebbero posposto nel tempo l’efficacia del ricordato e innovativo principio costituzionale. In sintesi, quindi, la tesi del ricorrente è la seguente: i riscontri delle dichiarazioni di accusa rese da persona coimputata o coindagata nel medesimo procedimento, ovvero coimputata o coindagata in procedimento connesso o collegato, non possono essere costituiti da dichiarazioni di persona che rivesta la medesima qualità soggettiva e che abbia rifiutato di sottoporsi all’esame del difensore dell’imputato raggiunto da tali accuse. Se ciò fosse consentito dalla normativa processuale vigente questo assetto si porrebbe in contrasto con il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione. B) La complessa censura va esaminata alla luce della tormentata vicenda dell’art. 513 c.p.p. che, nell’originaria formulazione del nuovo codice di rito, prevedeva, al primo comma, nel caso di imputato contumace assente o che si fosse rifiutato di sottoporsi all’esame, che venisse, a richiesta di parte, data lettura delle dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare (o alla polizia giudiziaria su delega del p.m.: v. sentenza della Corte costituzionale, 24 febbraio 1995, n. 60). Il comma 2 dell’art. 513 regolava invece le dichiarazioni che qui interessano, rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ma consentiva esplicitamente la lettura dei verbali (e quindi l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento: art. 514 c.p.p.) solo nel caso in cui non fosse stato possibile ottenere la presenza del dichiarante. La norma non risolveva esplicitamente il problema relativo alla possibilità di utilizzare le dichiarazioni delle persone indicate, nel caso fossero comparse in dibattimento e si fossero avvalse della facoltà di non rispondere. Sia in dottrina che in giurisprudenza si formarono orientamenti diversi poi risolti dalla Corte di cassazione (v. Sez. VI, 22 aprile 1991, Casula; Sez. III, 26 settembre 1991, Cerra) che ritenne non ricompresa nell’art. 513 comma 2 l’ipotesi in questione e che quindi non potesse darsi lettura (con conseguente divieto di acquisizione al fascicolo per il dibanimento) delle dichiarazioni della persona che si era avvalsa della più volte ricordata facoltà. Su questo assetto normativo intervenne la Corte costituzionale che, preso atto dell’interpretazione ormai costante data dalla giurisprudenza di legittimità, con sentenza 3 giugno 1992, n. 254, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 513 comma 2 del codice di rito nella parte in cui non prevedeva che venisse data lettura delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., che si fossero avvalse della facoltà di non rispondere. Ritenne, il giudice delle leggi che la disciplina ricordata presentasse aspetti di palese irragionevolezza sia per la diversità di disciplina dettata, rispettivamente, nei commi 1 e 2 dell’art. 513 in esame;


— 717 — sia per la diversità di trattamento riservata alle medesime dichiarazioni a seconda che il processo si celebrasse unitariamente ovvero le singole posizioni venissero trattate separatamente. L’art. 513 è stato poi completamente riformulato con l’approvazione della l. 7 agosto 1997, n. 267 il cui art. 1 ha, in modo innovativo, così disciplinato la materia. a) ha eliminato la irragionevole disparità di trattamento prevista dal comma 1, posta alla base della pronunzia della Corte costituzionale del 1992, equiparando l’utilizzabilità delle dichiarazioni del contumace, ecc. a quella della persona che si avvale della facoltà di non rispondere e prevedendo, per tutte, che non possano essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso; b) ha escluso la possibilità di utilizzare le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. che non sia possibile esaminare salvo il caso di impossibilità dipendente da fatti imprevedibili al momento dell’assunzione; c) ha previsto la possibilità di lettura delle dichiarazioni di persona che si sia avvalsa della facoltà di non rispondere soltanto con l’accordo delle parti. d) ha esteso la possibilità di ricorrere all’incidente probatorio anche per assumere le dichiarazioni delle persone in questione; e) ha poi previsto una complessa disciplina transitoria che non è necessario riassumere. Questa disciplina, com’è noto, ha formato oggetto di altra decisione della Corte costituzionale (sentenza 2 novembre 1998, n. 361) che ha così statuito: a) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 513, nella nuova formulazione, nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta, in tutto o in parte, di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura, si applichi l’art. 500 commi 2-bis e 4 del c.p.p. (contestazione delle precedenti dichiarazioni e inserimento di esse nel fascicolo per il dibattimento). b) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 210 c.p.p. nella parte in cui non ne era prevista l’applicazione anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concementi la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni. c) ha infine analogamente pronunziato sull’art. 238 comma 4 c.p.p. in tema di utilizzazione di verbali di prove di altri procedimenti. C) L’assetto normativo derivante dalla legge del 1997 e dall’ultimo intervento del giudice delle leggi è ancora formalmente vigente ma, successivamente, è stata approvata la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione) che ha aggiunto, all’art. 111 della Costituzione, cinque commi iniziali e, per quanto interessa l’argomento in esame, ha previsto: — che ‘‘la persona accusata di un reato... abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico’’ (comma 3). — che ‘‘il processo penale è regolato dal principio del contradditorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta, si è sempre volontaria-


— 718 — mente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore’’ (comma 4). L’art. 2 della legge costituzionale ha poi rimesso al legislatore ordinario di regolare l’applicazione dei princìpi indicati ai procedimenti penali in corso e, in attuazione di questa norma, è stato approvato il d.l. 7 gennaio 2000, n. 2 convertito, con modificazioni nella l. 25 febbraio 2000, n. 35. Il problema oggi posto all’attenzione di questa Corte attiene alla possibilità che la tutela, divenuta di carattere costituzionale, che il legislatore ha attribuito alla c.d. confrontation clause, come viene chiamata negli ordinamenti di common law (e che, negli U.S.A. ha parimenti valore costituzionale: VI emendamento) cui il nostro processo penale esplicitamente si ispira, riguardi non soltanto le dichiarazioni di accusa vere e proprie ma anche la possibilità di acquisire riscontri di esse da dichuarazioni di persone che si siano avvalse della facoltà di non rispondere all’interrogatorio o di sottoporsi all’esame. D) A parere della Corte la risposta al quesito deve essere negativa. E ciò per le seguenti ragioni. a) La VI sezione penale di questa Corte ha già dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 4 del d.l. 7 gennaio 2000, nel testo risultante dopo la conversione avvenuta con la l. 25 febbraio 2000, n. 35, nella parte in cui consente l’utilizzazione a fini probatori delle dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art. 513 c.p.p. da parte di chi si sia contratto all’esame (v. sentenza 11 maggio 2000, Francica). Questa decisione ha rilevato come la successione di leggi costituzionali si ponga in termini di abrogazione; dal che consegue che la legge costituzionale successiva non incide, per il passato, sulle leggi conformi alla precedente norma costituzionale che potranno eventualmente, essere dichiarate incostituzionali se confliggenti con la nuova norma costituzionale, solo per il periodo successivo all’entrata in vigore di quest’ultima Secondo il giudice di legittimità, quindi la l. n. 35/2000 non avrebbe illegittimamente limitato l’efficacia nel tempo del nuovo art. 111 ma al contrario, ne avrebbe previsto una limitata efficacia retroattiva (nel caso di giudizio pendente davanti alla Corte di cassazione) che, in mancanza di una norma di questo tenore, non si sarebbe prodotta. La premessa di questa impostazione è costituita dal rilievo che, nel caso di successione di leggi che riguardano l’utilizzabilità probatoria il momento cui occorre far riferimento per stabilire quale sia la legge applicabile è quello della assunzione della prova e non quello della sua valutazione (sempreché, nel giudizio di legittimità, possa ritenersi ancora in discussione la valutazione della prova), con la conseguenza che, anche se non fosse stata approvata la l. n. 35/2000 (ed in particolare il comma 4 dell’art. 1) nel giudizio di legittimità sarebbe comunque esclusa l’applicabilità dei nuovi principi costituzionali in tema di formazione della prova. La medesima VI sezione penale con una sentenza (28 Bennaio 2000, Ibrahimi e altri) deliberata quando la l. n. 35/2000, di conversione del d.l. n. 2/2000, era stata già approvata ma non ancora pubblicata (la pubblicazione sulla G.U. è del 1o marzo 2000) aveva parimenti dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della normativa transitoria nella primitiva formulazione. b) Accogliendo questa impostazione la questione proposta nel presente giudizio dovrebbe essere dtchiarata a maggior ragione, manifestamente infondata non


— 719 — riguardando le dichiarazioni di accusa ma quelle di riscontro (che, oltre tutto, nel caso in esame, non sono affatto dichiarazioni di accusa ma dichiarazioni difensive di carattere neutro che i giudici di merito hanno utilizzato per trovare conferma delle dichiarazioni principali di accusa). Ma ritiene la Corte che la questione debba invece essere dichiarata non rilevante in quanto le dichiarazioni in questione non possono farsi rientrare nel complessivo impianto dell’art. 111 della Costituzione novellato. Dall’esame della successione, in precedenza descritta, di interventi legislativi e della Corte costituzionale può ricavarsi con sufficiente chiarezza, come i medesimi interventi in questa delicata materia, abbiano sempre riguardato (con l’esclusione, per gli interventi normativi delle iniziative relative ai periodi transitori di cui si parlerà più avanti) gli aspetti formali relativi alla possibilità di lettura al conseguente inserimento nel fascicolo per il dibattimento e alla (astratta) possibilità di utilizzazione, a fini probatori, delle dichiarazioni di persona coimputata (o coindagata) o coimputata (o coindagata) in procedimento connesso (o collegato) e giammai i criteri di valutazione di una prova e tanto meno i criteri di valutazione, a fini probatori dei riscontri. Il problema, più volte postosi all’attenzione del legislatore e del giudice delle leggi è sempre stato quello di disciplinare l’utilizzabilità delle ricordate dichiarazioni tutte le volte che non fosse stato possibile sottoporle al vaglio del contraddittorio evidenziandosi di volta in volta, i rischi della dispersione del materiale probatorio acquisito ovvero l’impossibilità, per l’imputato e il suo difensore, di esaminare il dichiarante per contestargli quanto ritenuto necessario a fini difensivi. Insomma questa problematica ha sempre riguardato (lo si ripete: con le eccezioni che si vedranno) le ‘‘regole di esclusione’’ della prova e non le ‘‘regole di valutazione’’ della prova. Né contrasta con questa ricostruzione l’esplicito richiamo fatto dalla Corte costituzionale, nella sentenza del 1998, al comma 4 dell’art. 500 c.p.p. (riformulato dall’art. 7 comma 4 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356) — che prevede un criterio di valutazione della prova modellato sul tenore dell’art. 192 comma 3 c.p.p. — apparendo evidente, dalla lettura della sentenza, che la statuizione si riferisce al dichiarante, per così dire principale, e non alle dichiarazioni di riscontro. Solo così si spiega, d’altro canto, la motivata esclusione (da parte della Corte) del richiamo al comma 5 dell’art. 500 (efficacia di piena prova nel caso di testimone sottoposto a violenza, minaccia ecc.) avendo la Corte rilevato l’inutilità di tale richiamo in quanto le dichiarazioni in questione sono sottoposte, una volta acquisite a seguito delle contestazioni, ai criteri di valutazione previsti dall’art. 192 comma 3 c.p.p.; ragionamento privo di significato ove si fosse inteso far riferimento alle dichiarazioni di riscontro (che non necessitano a loro volta, di riscontri). Appare evidente come la modifica costituzionale, direttamente (e dichiaratamente) ricollegabile alla sentenza n. 361/98 della Corte costituzionale, abbia espressamente privilegiato il secondo degli interessi ricordati (attuazione del principio del contradditorio nella formazione della prova), rispetto agli altri venuti in considerazione nelle decisioni della Corte costituzionale, e sia stata approvata al fine di non consentire ulteriori interventi idonei ad interferire sulle scelte legislative; ma ciò non significa, proprio per il diverso livello su cui operano i criteri di


— 720 — valutazione della prova, che debba ritenersi ricompresa nell’ambito di tutela del nuovo art. 111 anche la tematica sollevata nel presente giudizio. c) In realtà la lettura del nuovo testo dell’art. 111 della Costinuzione non consente una precisa presa di posizione sul problema se le nuove disposizioni costituzionali riguardino l’acquisizione e l’utilizzazione astratta delle dichiarazioni ovvero interferiscano (o riguardino esclusivamente) anche sul valore probatorio delle medesime. Anche perché, verosimilmente, il legislatore questo problema non l’ha proprio tenuto in considerazione. Occorre quindi rifarsi a princìpi più generali in base ai quali può affermarsi che mentre è consentita un’interpretazione (estensiva se non analogica) dei divieti di utilizzazione del materiale a valenza probatoria i medesimi princìpi fanno invece propendere per un’interpretazione restrittiva dei criteri normativi che influenzano i poteri di valutazione delle prove da parte del giudice. In difetto di una norma processuale che esplicitamente escluda l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento e la conseguente utilizzabilità a fini probatori delle dichiarazioni in questione, qualora vengano utilizzate come elementi di riscontro e non come prova principale, un intervento della Corte costituzionale avente il contenuto invocato dal ricorrente si tradurrebbe nell’introduzione di un nuovo criterio legale di valutazione della prova con una modifica dell’art. 192 comma 3 nel senso che ‘‘gli altri elementi di prova’’ non possono essere costituiti da dichiarazioni non confermate in giudizio. Ma è stato osservato da un punto di vista teorico, come ‘‘in un processo fondato sul contraddinorio tocca al legislatore stabilire precise regole di esclusione probatoria, volte ad estromettere dal quadro decisorio materiali ritenuti inaffidabili (come le dichiarazioni unilateralmente raccolte nell’indagine preliminare)’’; e questo compito il legislatore l’ha svolto appieno con la legge del 1997 (pur con i vizi censurati dalla Corte costituzionale) e con la modifica dell’art. 111 della Costituzione. Ma lo stesso Autore soggiunge che ‘‘per quanto riguarda la valutazione delle prove, la legge deve essenzialmente tacere. Qual è il valore delle prove legittimamente acquisite al processo lo può dire solo il giudice, secondo i non codificabili criteri della logica, della scienza, dell’esperienza corrente’’; ciò perché la metodologia per la valutazione delle prove, pur esistente, ‘‘è troppo complessa, troppo sofisticata per essere tradotta in formule legali’’. Accogliendo la tesi del ricorrente si perviene invece a questo risultato: che si individua (nella Costituzione) una norma che stabilisce di quali possibili riscontri possa il giudice tener conto per ritenere corroborata un’accusa proveniente da un teno, sottoposta al vaglio del contraddittorio e legittimamente acquisita al processo. È vero che l’elemento di riscontro non è stato formato con il medesimo livello di garanzie ma è pur sempre vero che, in questo caso, da tali dichiarazioni non si raggiunge la prova della responsabilità ma la conferma di una prova ritenuta certa (perché già sottoposta ad un rigoroso scrutinio di attendibilità) ma a rischio di inquinamento. Insomma il riscontro serve non per valutare l’attendibilità della prova (che deve essere già stata accertata per altra via) ma per escludere questo rischio. d) Questa valutazione è confermata dalla verifica della natura del valore probatorio delle dichiarazioni di accusa e degli elementi di riscontro. Le dichiarazioni di accusa (principali) di cui si parla costituiscono una vera e propria prova alla quale il legislatore (ma in ciò anticipato dalla giurisprudenza sul vecchio co-


— 721 — dice di rito: v. per es. Sez. un., 18 febbraio 1988, Rabito e altri) ha ritenuto di attribuire, per le note ragioni attinenti all’elevato rischio di inquinamento, valore non di piena prova ma di c.d. semiplena probatio (art. 192 commi 3 e 4). Ciò comporta non soltanto la necessità di una rigorosissima (tanto più se si tratti non di chiamata in correità ma di chiamata in reità) valutazione preventiva dell’attendibilità intrinseca del dichiarante (anche in relazione alle singole dichiarazioni) ma altresi la verifica dell’esistenza di riscontri estemi cioè di ulteriori elementi di prova non autosufficienti — costituiti da fatti o argomenti di carattere logico, da prove reali o dichiarazioni ecc. — che consentano di acquisire conferma dell’accusa (corroboration, per restare alla terminologia anglosassone). È stato, inoltre, più volte messo in rilievo, ma l’argomento ha carattere di ovvietà, che non è richiesto che i riscontri abbiano carattere probatorio sufficiente a dimostrare la responsabilità dell’imputato perché se così fosse, la disposizione contenuta nell’art. 192 comma 3 sarebbe del tutto pleonastica. Ma allora si comprende anche perché il legislatore abbia voluto, con la riforma costituzionale rendere inattaccabile la prevalenza del principio del contraddittorio nella formazione della prova su ogni altro principio, pur meritevole di tutela (tanto da essere posto a fondamento di dichiarazioni di incostituzionalità), ma non abbia ritenuto di imporre un trattamento parimenti rigoroso a ciò che non costituisce la prova fondamentale della responsabilità dell’imputato ma soltanto elemento di prova di conferma, fattuale o logica, delle accuse. Insomma il legislatore costituzionale (e prima ancora, quello della modifica del 1997) ha voluto dettare più rigorosi criteri di utilizzazione delle dichiarazioni di accusa in questione ma non ha introdotto criteri diversi di valutazione per quanto riguarda gli elementi di conferma di tali accuse. Tutto ciò comporta due importanti conseguenze che valgono ad evitare che si ritorni a superati sistemi di prova legale: che le norme che introducono questi criteri di valutazione della prova vengano interpretati in modo non estensivo e (ma si tratta di una conseguenza) che il legislatore, ove ritenga (impropriamente, secondo la dottrina ricordata) di intervenire sui criteri di valutazione della prova, chiarisca in modo inequivoco l’intenzione di dettare questi criteri, come ha fatto con gli artt. 192 comma 3 e 500 comma 4 c.p.p. e come è avvenuto (nell’arco di tempo in cui si sono svolti i lavori preparatori della legge costituzionale che ha modificato l’art. 111 della Costituzione) con la presentazione di vari progetti di legge di riforma dell’art. 192 c.p.p., alcuni dei quali vietavano esplicitamente che potessero costituire riscontro oggettivo delle dichiarazioni in discorso dichiarazioni di analogo tenore (si vedano i disegni di legge nn. 463, 5360 e 5391 presentati alla Camera dei deputati e il disegno di legge n. 3664 presentato al Senato della Repubblica). e) A questa ricostruzione potrebbe essere formulata una ragionevole obiezione. Il comma 4 dell’art. 111 novellato si apre con l’affermazione che ‘‘il processo penale è regolato dal principio del contraddinorio nella formazione della prova’’ e il comma successivo indica i casi nei quali la formazione della prova può avvenire senza il rispetto di questo principio, tra i quali non rientra il caso in esame, salvo che il silenzio costituisca’’ effetto di provata condotta illeita’’. Se questo costituisse il complessivo assetto normativo si potrebbe affermare che rientra nella previsione di carattere generale anche la formazione di quella prova (per-


— 722 — ché tale deve considerarsi anche se di efficacia probatoria insufficiente) costituita da dichiarazioni che svolgono funzioni di riscontro. Ma in realtà l’affermazione di principio di carattere generale va letta unitariamente con la proposizione che segue e che, costituendo una specificazione, ne limita, implicitamente ma inequivocabilmente, la portata. La proposizione che segue è quella, già riportata, secondo cui ‘‘la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta...’’. La precisazione per un verso gioca a favore dell’imputato (nel senso che solo la colpevolezza non può essere provata sulla base delle dichiarazioni di chi si è sottratto all’interrogatorio; ma questa regola non vale, anche in assenza di contraddittorio se è l’innocenza a dover essere provata). Per altro verso la specificazione, per la lettera e il contesto in cui si presenta, non sembra estendersi oltre le dichiarazioni principali di accusa; del resto si tratta di una norma inserita come ostacolo insuperabile ad un ulteriore intervento additivo della Corte costituzionale e quindi va letta anche nel contesto dei problemi affrontati dal giudice delle leggi con la sentenza del 1998 alla quale erano estranei i problemi attinenti alla valutazione dei riscontri. È vero, come è stato osservato, che la collocazione di questa precisazione (‘‘la colpevolezza dell’imputato non può essere provata...’) è impropria in quanto, riferendosi alla tutela soggettiva del contraddittorio (che riguarda quindi i diritti di difesa dell’imputato) — e non alla tutela oggettiva del processo (regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova) — avrebbe dovuto trovare una più corretta collocazione nel comma 3 laddove è previsto che la persona accusata di un reato debba avere ‘‘la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico’’. Ma questa impropria collocazione non fa venir meno, sul versante soggettivo, la descritta attenuazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova. f) Si è in precedenza accennato come il legislatore e la Corte costituzionale si siano astenuti nella riforma dell’art. 513 e negli interventi additivi su di esso, ad interferire sui criteri di valutazione della prova, salvo quanto riguarda il periodo transitorio. Ma anche dall’esame di queste normative si trae conferma della tesi accolta da questa Corte. L’art. 6 della citata l. 7 agosto 1997, n. 267, nel disciplinare il periodo transitorio della riforma, prevedeva la possibilità di utilizzare le precedenti dichiarazioni rese da persona che si era avvalsa della facolta di non rispondere, purché gli elementi di riscontro fossero costituiti da elementi di prova di diversa natura. Ma non vietava affatto il procedimento inverso. E questo schema logico lo si ritrova nel disegno di legge, predisposto dal Governo a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale del 1998, per disciplinare la materia, aderendo all’invito della Corte costituzionale che aveva sottolineato, pur nell’accoglimento dell’eccezione di legittimità costituzionale, come il legislatore potesse e dovesse disciplinare, con diverso rigore, le dichiarazioni raccolte in contraddittorio e quelle che a questo vaglio non erano state sottoposte. Pertanto, anche nei testi normativi (uno in vigore e uno mai approvato) che hanno disciplinato, o intendevano disciplinare, la materia interferendo sui criteri di valutazione della prova previsti dall’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p., il divieto di utilizzare a fini probatori di riscontro le dichiarazioni in questione è stato sempre limitato al caso in cui l’autore delle principali dichiarazioni di accusa si fosse av-


— 723 — valso della facoltà di non rispondere e non anche al caso, come quello in esame, nel quale l’autore delle accuse le avesse confermate in dibattimento. g) Questo orientamento legislativo, anteriore alla modifica dell’art. 111 della Costituzione, ha trovato piena conferma nell’approvazione della l. n. 35/2000, che ha convertito il d.l. n. 2/2000; il comma 2 dell’art. 1 della legge di conversione, innovando al testo del d.l., ha introdotto un meccanismo di valutazione (per le dichiarazioni già acquisite al fascicolo per a dibattimento) analogo a quello in precedenza ricordato e con esclusivo riferimento alle dichiarazioni di accusa e non a quelle di conferma. Questa previsione assume particolare rilievo perché conferma come il legislatore, anche dopo l’approvazione del nuovo testo dell’art. 111, abbia inteso disciplinare il periodo transitorio di applicazione della nuova norma senza alcun rifrimento al riscontro della prova. h) La conseguenza che si deve trarre dalle argomentazioni che precedono è che il nuovo art. 111 della Costituzione non ricomprende le dichiarazioni di riscontro di quelle (per così dire principali) di accusa e che, solo per queste ultime, valgono i meccanismi delineati nella medesima norma e, per il periodo transitorio, dal d.l. n. 2/2000 e dalla legge di conversione n. 35/2000. Ne consegue ancora che, nel presente giudizio, la questione di costituzionalità della disciplina transitoria non è rilevante perché non disciplina la possibilità di utilizzazione a fini probatori delle dichiarazioni di riscontro; l’analoga questione di costituzionalità dell’art. 513 comma 2 cp.p., quale risultante dopo la parziale dichiarazione di incostituzionalità del 1998, non è parimenti rilevante perche il parametro di riferimento costituzionale (il nuovo testo dell’art. 111) non disciplina i riscontri delle dichiarazioni di accusa. Va invece ribadito che la questione in esame continua ad essere disciplinata dall’art. 192 commi 3 e 4 del codice di rito che non sono stati interessati dalla riforma dell’art. 111 della Costituzione. Anche questo motivo di ricorso deve pertanto ritenersi infondato. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. (Omissis).

—————— (1)

Acquisizione e criteri di valutazione del riscontro incrociato fra chiamate di correo alla luce dell’art. 111, comma 4, Cost.

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova. — 3. Il criterio di valutazione di cui all’art. 111, comma 4, Cost. secondo periodo. — 4. Deroghe alla formazione della prova in contraddittorio e natura del riscontro incrociato. — 5. Oggetto del riscontro. — 6. Conclusioni.

1. Premessa. — La sentenza in commento (1) offre lo spunto per riflettere sulle modalità acquisitive e sui criteri valutativi degli elementi di riscontro nell’ipotesi di chiamate in correità incrociate. La prospettiva è data dal principio del « contraddittorio nella formazione

(1) Cfr. S. BUZZELLI, Il criterio di valutazione probatoria ex art. 192 comma 3 c.p.p. in rapporto al nuovo art. 111 comma 4 Cost., in Cass. pen., 2001, p. 2154 e G. CONTI, Dichiarazioni principali e di conferma: una distinzione estranea al codice, in Dir. giust., 2000, n. 45, p. 10.


— 724 — della prova » (2), che — riaffermando la tendenziale separazione della fase delle indagini preliminari rispetto al dibattimento in merito all’uso probatorio dei contributi narrativi assunti nel corso dell’investigazione — ha altresì comportato ripercussioni sull’atteggiarsi del criterio di valutazione di cui all’art. 192 comma 3 c.p.p. (3). Sono note le vicende che hanno indotto il legislatore ad intervenire sulla Carta costituzionale: la Consulta — nel 1992 (4), prima, e nel 1998 (5), poi — aveva largamente legittimato il recupero degli atti d’indagine a fini probatori (6). Da qui discendeva, oltre allo svilimento del contraddittorio (7) — inteso nel suo significato, più pregnante, di metodo di ac-

(2) Da diverse angolazioni, S. BUZZELLI, La riforma dell’art. 111 Cost. e il problema aperto della legislazione attuativa con particolare riguardo alle regole di formazione e valutazione della prova, in Cass. pen., 2000, p. 3179; M. CHIAVARIO, Un ‘‘giusto processo’’ dal futuro ancora incerto, in Corr. giur., 2000, p. 5; ID., Nelle Carte europee garanzie più equilibrate, in Dir. giust., 2000, n. 1, p. 5; G. CONSO, Introduzione, in AA.VV., Compendio di procedura penale, a cura di V. GREVI-G. CONSO, Cedam, 2000, p. XX; F. CORDERO, Procedura penale, V ed., Giuffré, 2000, p. 1210 ss.; P. FERRUA, Il ‘‘giusto processo’’ in Costituzione, in Dir. giust., 2000, n. 1, p. 5; V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di ‘‘giusto processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole durata’’, diritti dell’imputato e garanzia del contraddittorio), in Pol. dir., 2000, p. 423; ID., Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, facoltà di non rispondere e garanzia del contraddittorio, in AA.VV., Studi in ricordo di Gian Domenico Pisapia, vol. II, Giuffrè, 2000, p. 327; G. ILLUMINATI, Giudizio, in AA.VV., Compendio, cit., p. 656 ss.; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, IV ed., Giappichelli, 2001, p. 16; E. MARZADURI, Sub art. 1, in AA.VV., Commento alla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in Leg. pen., 2000, p. 754; ID., Giusto processo: un’attuazione da calibrare per evitare un possibile effetto boomerang, in Guida dir., 2000, n. 1, p. 6; A. NAPPI, Il codice di procedura penale torna alle origini, ivi, 6; ID., Guida al codice di procedura penale, VIII ed., Giuffrè, 2001, p. 16; G. SPANGHER, Il ‘‘giusto processo’’ penale, in Studium Iuris, 2000, p. 255; P. TONINI, ‘‘Giusto processo’’: riemerge l’iniziativa del parlamento, in Dir. pen. proc., 2000, p. 137; ID., Il contraddittorio: diritto individuale e metodo di accertamento, ivi, p. 1388; ID., La prova penale, III ed., Cedam, 1999, p. 4; ID., ‘‘Giusto processo’’: modifiche costituzionali e regime transitorio, in Studium Iuris, 2000, p. 639. (3) Da ultimo, M. DEGANELLO, La valutazione della prova, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, a cura di M. CHIAVARIO-E. MARZADURI, Le prove, Tomo I, Utet, 1999, p. 96; F. M. IACOVIELLO, La questione probatoria: c) le contestazioni e le letture, relazione all’Incontro di studi sul tema ‘‘Linee di tendenza del processo penale alla luce d’oltre un decennio di sperimentazione’’, Frascati, 27-31 marzo 2000, p. 15 (datt.); A. SANNA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi, Giuffrè, 2000, p. 259; N. SCAPINI, La prova per indizi nel vigente sistema del processo penale, Giuffrè, 2000, p. 147; P.A. SIRENA, La valutazione delle prove tra regime legale e libero convincimento de giudice, in Giust. pen., 2000, III, c. 559; G.L. VERRINA, Valutazione probatoria e chiamata di correo, Utet, 1999, p. 69. (4) Cfr. Sent. n. 25 del 3 febbraio 1992 e nn. 254 e 255 del 3 giugno 1992. In prospettiva fortemente critica, P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in ID., Studi sul processo penale, vol. II, Giappichelli, 1992, p. 157; G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte Costituzionale nella motivazione della sent. n. 255 del 1992, in Giur. cost., 1992, p. 1975. Contra, P. TONINI, Cade la concezione massimalistica del principio di immediatezza, in questa Rivista, 1992, p. 1137. (5) Cfr. Sent. n. 361 del 26 ottobre 1998. Per le conseguenze applicative, Cass., Sez. I Pen., 13 gennaio 1999, Di Cuonzo, in Giust. pen., 2000, III, c. 175. Il recupero delle dichiarazioni predibattimentali aveva vanificato il tentativo — di cui alla l. n. 267/97 — di riequilibrare, almeno in parte, il sistema: per tutti, G. GIOSTRA, Ritorna la ‘‘cultura della prova’’ nel processo penale, in Gazz. giur., 1997, n. 43, p. 10. Dopo la riforma dell’art. 513 c.p.p., sarebbe però stato nuovamente elevato il rischio di questioni di legittimità costituzionale sollevate per la violazione del principio della « non dispersione dei mezzi di prova »: così G. SPANGHER, Dichiarazioni dei collaboranti, una riforma in equilibrio tra tutela dell’imputato e non dispersione della prova, in Corr. giur., 1997, p. 1121. Più in generale, P. TONINI, Diritto dell’imputato a interrogare colui che lo accusa e diritto di non rispondere, in Dir. pen. proc., 1997, p. 353. (6) Ne derivava uno snaturamento delle indagini preliminari, divenute momento di ‘‘acquisizione’’ probatoria e non più solo contesto di ricerca: così G.P. VOENA, (voce) Investigazioni ed indagini preliminari, in Dig. disc. pen., vol. VII, Utet, 1993, p. 267. (7) La Consulta ha recepito un’accezione ‘‘in tono minore’’ del principio in esame, in quanto « il diritto dell’accusato al contraddittorio va correttamente inteso come diritto a contestare [le] dichiarazioni [predibattimentali] in contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice »: così C. Cost., Sent. n. 361 del 26 ottobre 1998. Ne sottolinea la concezione « riduttiva, limitata alla ‘critica’ di una prova già formata in segreto » P. TONINI, Appendice di aggiornamento al Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2001, p. 23. Sul tema, R. ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in AA.Vv., La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 1999, p. 39, nonché già M. CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, vol. II, Giuffrè, 1982, p. 157 e G. GIOSTRA, (voce) Contraddittorio (principio del), in Enc. giur.


— 725 — certamento (8) —, dell’oralità processuale (9) e del diritto di difesa del soggetto chiamato in correità (10), un sensibile mutamento dell’ambito applicativo proprio dell’art. 192 comma 3. In origine, infatti, le modalità ordinarie di acquisizione delle c.d. ‘‘chiamate in correità’’ o ‘‘in reità’’ (11) si risolvevano in quelle previste dagli artt. 210, 392 e 503 c.p.p. (12): il rigoroso regime acquisitivo si coniugava alle cautele dettate sul piano valutativo, così da rafforzare l’attendibilità dell’accertamento basato su fonti ‘‘infide’’ (13) e garantire, al contempo, il diritto al controesame del dichiarante. Dopo gli interventi della Consulta, viceversa, naturale alveo di operatività del canone ex art. 192 comma 3 era rappresentato dai verbali formati nel corso delle indagini preliminari contenenti quelle dichiarazioni (14). Così, una ‘‘chiamata in correità’’ resa in interrogatorio poteva essere riscontrata da altra chiamata resa anch’essa in segreto (15). Oggi lo scenario muta radicalmente. In forza delle modifiche al sistema probatorio at-

Treccani, 1988, p. 5. In prospettiva storica, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 1996 e M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Giuffrè, 1974. (8) P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in ID., Studi sul processo penale, vol. II, Giappichelli, 1992, p. 47. (9) Pur non essendo principio assoluto ed inderogabile — cfr. P. FERRUA, Anamorfosi, cit., p. 167 e G. ILLUMINATI, Principio di oralità, cit., p. 1975 — l’oralità rappresenta guide-line essenziale per un codice di rito ispirato al modello accusatorio: cfr. G. LOZZI, I principi dell’oralità e del contraddittorio nel processo penale, in questa Rivista, 1997, p. 609. (10) A poco serviva il controesame, in quanto il dichiarante ben avrebbe potuto esercitare, di fronte al giudice, il diritto al silenzio: cfr. M. SCAPARONE, Diritto al silenzio e diritto al controesame del coimputato, in Giur. cost., 1998, p. 3151. Contra P.P. RIVELLO, La possibilità di procedere al controesame salva il principio del contraddittorio, in Guida dir., 1998, n. 44, p. 65. Più in generale, L. MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Giappichelli, 2000, p. 353 e 361. (11) Sulla loro differenza, Cass., Sez. V Pen., 8 ottobre 1999, Cervellione, in Cass. pen., 2001, p. 590; Cass., Sez. VI Pen., 22 gennaio 1997, Dominante, ivi, 1999, p. 1573; Cass., Sez. II Pen., 1 ottobre 1996, Pagano, in Giust. pen., 1997, III, c. 275; Cass., Sez. V Pen., 30 luglio 1996, Alleruzzo, in Riv. pen., 1997, p. 530-531. Dunque, anche rispetto alle c.d. dichiarazioni ‘‘incrociate’’ il sistema garantiva, tendenzialmente, la formazione di entrambe in contraddittorio. Sull’ammissibilità della prassi del c.d. ‘‘riscontro incrociato’’, da ultimo, Cass., Sez. V Pen., 8 novembre 2000, Alfano, in Guida dir., 2001, n. 10, p. 97 e Cass., Sez. VI Pen., 2 settembre 1997, Sanfilippo, in Riv. pen., 1998, p. 198. In senso favorevole, V. GREVI, Le ‘‘dichiarazioni rese dal coimputato’’ nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, p. 1179 e G. FIANDACA, La ‘‘chiamata di correo’’ fra tradizione, emergenza e nuovo garantismo, in Foro it., 1986, II, c. 533. Contra P. CORSO, Non si può sopprimere il diritto al silenzio, in Italia oggi, 18 novembre 1998, p. 1; G.L. VERRINA, Approccio riduttivo della giurisprudenza di merito in tema di mutual corroboration e profili di illegittimità costituzionale, in Giur. it., 2000, p. 2354. (12) Al di fuori di esse, il contributo narrativo del correo reso nelle indagini preliminari era acquisibile solo in presenza dei presupposti per la lettura ovvero, nel caso di separati procedimenti, per il recupero ex art. 238 c.p.p. (13) Cfr. Relazione al progetto preliminare del Codice di procedura penale, in Supplemento ordinario n. 2 alla Gazzetta Ufficiale, n. 250 del 24 ottobre 1988, p. 61. Cass., Sez. VI Pen., 1o febbraio 1994, Greganti, in Cass. pen., 1995, p. 999 parla di una loro « relativa presunzione di inattendibilità ». Nel medesimo senso V. GREVI, Prove, in AA.VV., Compendio, cit., p. 299. Per una massima antifrastica, Cass., Sez. VI Pen., 26 febbraio 1991, Basile, in Cass. pen., 1992, p. 1293. (14) Le cui risultanze erano state inevitabilmente influenzate dal metodo imposto da chi aveva condotto l’interrogatorio: cfr. P. FERRUA, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo: la difficile ricerca dei nuovi equilibri processuali, in ID., Studi sul processo penale, vol. III, Giappichelli, 1997, p. 43; D. MANZIONE, L’attività del pubblico ministero, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, a cura di M. CHIAVARIO-E. MARZADURI, Indagini preliminari ed instaurazione del processo, Utet, 1999, p. 240. In tal senso, già C.J.A. MITTERMAIER, Teoria della prova nel processo penale, Libreria di Francesco Sanvito, Milano, 1858, p. 427. (15) Caso « non certo di scuola »: così F. CAPRIOLI, Le Sezioni Unite e il caso Calabresi: ancora segnali confusi sul tema dei riscontri alle chiamate di correità, in Giur. it., 1993, II, c. 799, n. 41. Reale tutela non era data dal canone di cui all’art. 192 comma 3: (cfr. O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in questa Rivista, 1997, p. 762 e A. SANNA, Il contributo dell’imputato in un procedimento diverso: forme acquisitive e garanzie di attendibilità, ivi, 1995, p. 497. Nemmeno era garanzia per il chiamato in correità l’art. 500 comma 4, che — a differenza dell’art. 192 comma 3 — concretava una regola di esclusione nei confronti delle dichiarazioni predibattimentali non assistite da riscontri: poiché la chiamata predibattimentale deve essere sempre valutata alla luce di tutto il materiale probatorio acquisito, « l’inutilizzabilità ex art. 500 comma 4 tende a coincidere, di fatto, con l’obbligo di motivare »: così F.M. GRIFANTINI, Utilizzabilità degli atti provenienti dalle fasi anteriori, in AA.VV., La prova, cit., p. 140.


— 726 — tuate dalla l. n. 63/2001 (16), è inutilizzabile il riscontro costituito da una dichiarazione non formata nel contraddittorio (17), se non nei limiti che ci si appresta ad evidenziare. Inoltre, sembrerebbe da ‘‘rimeditare’’ la stessa opportunità di mantenere in vita — quanto meno per il giudizio dibattimentale (18) — il criterio della corroboration. 2. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova. — L’inutilizzabilità quali prove dibattimentali dei contributi narrativi assunti in segreto deriva dal dettato della Carta fondamentale. L’affermazione secondo cui il « processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova » comporta che tutte le ‘‘dichiarazioni di prova’’ devono passare attraverso un effettivo contraddittorio dibattimentale (19), ossia attraverso esame diretto e controesame del dichiarante (20).

(16) Cfr. E. AMODIO, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3587; D. CARCANO-D. MANZIONE, Il giusto processo, Giuffré, 2001, p. 3; G. CASCINI, Contraddizioni e limiti del diritto al silenzio (Prime note a margine della legge 1o marzo 2001 n. 63), in Quest. giust., 2001, p. 302; C. CONTI, Principio del contraddittorio e utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni, in Dir. pen. proc., 2001, p. 592; G. CONTI, Un freno alla facoltà di non rispondere per non vanificare il contraddittorio, in Dir. giust., 2001, n. 10-11, p. 24; F. CORDERO, Procedura penale, VI ed., Giuffrè, 2001; G. LOZZI, Lezioni, cit., p. 225; E. MARZADURI-D. MANZIONE, Nuove contestazioni per un reale contraddittorio, in Guida dir., 2001, n. 13, p. 49; P. FERRUA, Introduzione, in Dir. pen. proc., 2001, n. 5, p. 586; ID., L’indagine entra in dibattimento solo attraverso il contraddittorio, in Dir. giust., 2001, n. 7, p. 8; G. FRIGO, Con la nuova valutazione della prova i principi di civiltà tornano nel processo, in Guida dir., 2001, n. 8, p. 10; ID., La rinascita del modello accusatorio figlia dello scandalo di un codice ripudiato, ivi, 2001, n. 13, p. 32; V. GREVI-G. ILLUMINATI, Le modifiche in tema di formazione e valutazione della prova, in AA.VV., Compendio di procedura penale, II Agg., Cedam, 2001, p. 99; M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 5; P. TONINI, Riforma del sistema probatorio, cit., 269. Sulle diverse stesure dei relativi d.d.l., F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 1217; M. CHIAVARIO, Dietro i primi passi del giusto processo: ritorno al futuro o svolta decisiva?, in Guida dir., 2000, n. 42, p. 10; P. FERRUA, Effettività del contraddittorio. Nell’inerzia del legislatore la palla torna alla Corte Costituzionale, in Quest. giust., 2000, p. 988; ID., Gl’incerti confini dell’‘‘impumone’’, in Dir. giust., 2000, n. 43-44, p. 8; ID., Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio, ivi, n. 37, p. 9; ID., Dalla Camera soluzione equilibrata sui limiti all’utilizzo delle dichiarazioni, ivi, n. 40, p. 10; ID., La dialettica Camera-Senato migliora il ‘‘giusto processo’’, ivi, 2001, n. 1, p. 8; ID., L’avvenire del contraddittorio, in Crit. dir., 2000, p. 21; G. FRIGO, Con la proposta della Camera per un nuovo 513 un passo verso il recupero del contraddittorio, in Guida dir., 2000, n. 38, p. 5; E. MARZADURI, Sul diritto al silenzio degli imputati il giusto processo vive di contraddizioni, in Guida dir., 2000, n. 43, p. 13; D. SIRACUSANO, Il contraddittorio fra Costituzione e legge ordinaria, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1425; P. TONINI, L’attuazione del contraddittorio nell’esame di imputati e testimoni, in Cass. pen., 2001, p. 688. (17) All’inutilizzabilità delle narrazioni segrete fa da contraltare la riduzione in dibattimento del diritto al silenzio dell’imputato di reato connesso ex art. 12 lett. c) c.p.p. o collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., onde garantire il right of confrontation dell’imputato con chi lo avesse accusato. Sul tema, P. FERRUA, Contraddittorio forte per ridurre il silenzio, in Il Sole-24 Ore, 23 novembre 2000, p. 27; V. GREVI, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio e garanzia del contraddittorio, in questa Rivista, 1999, p. 856; P. TONINI, Riforma del sistema probatorio: un’attuazione parziale del ‘‘giusto processo’’, in Dir. pen. proc., 2001, p. 269. Per la valorizzazione del diritto al silenzio, la cui compressione non pare necessaria rispetto alla tutela del contraddittorio, P. CORSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?, in AA.VV., Studi, cit., p. 167; M.L. DI BITONTO, Diritto al silenzio: evoluzione o involuazione?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1027; A. SANNA, L’esame dell’imputato sul fatto altrui, fra diritto al silenzio e dovere di collaborazione, in questa Rivista, 2001, p. 462. (18) Diverso il discorso rispetto al procedimento de libertate: gli apporti eteroaccusatori, sfuggendo al contraddittorio — salva l’assunzione ex art. 392 c.p.p. — non appaiono sufficienti, da soli, a legittimare l’adozione del provvedimento cautelare. La l. n. 63/2001 ha modificato in tal senso l’art. 273 c.p.p. che ora espressamente richiama il 3o e 4o comma dell’art. 192. Sul tema, per tutti, G. SPANGHER, Più rigore — e legalità — nella valutazione dei gravi indizi per l’applicazione delle misure cautelari personali, in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (a cura di P. TONINI), Cedam, 2001, p. 413. (19) Invero, « contraddittorio (...) se riferito alla prova, non significa dialettica tra le parti sul contenuto delle dichiarazioni raccolte unilateralmente da una di esse fuori del dibattimento, bensì partecipazione paritaria alla elaborazione davanti al giudice dei dati da valutare »: così G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 655; su posizione analoga G. GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza 361/1998 della Corte costituzionale?, in Quest. giust., 1999, p. 198. V. già F. CORDERO, Diatribe sul processo accusatorio, in ID., Ideologie del processo penale, Giuffrè, 1966, p. 220. Sulla querelle che in quegli anni animava i processualpenalisti in merito all’attuazione del contraddittorio e, dunque, al valore probatorio delle di-


— 727 — La postulata effettività del contraddittorio non sarebbe osservata se — previa contestazione — fossero acquisibili, quali ‘‘prova’’ dei fatti, le precedenti dichiarazioni, sia nel caso di rifiuto della persona a deporre, sia nel caso difformità della narrazione dibattimentale rispetto a quella rese nel segreto delle indagini (21). Il principio costituzionale del contraddittorio opera, infatti, quale regola di esclusione rispetto ai materiali probatori non assunti secondo quelle modalità acquisitive e quindi la sua mancata osservanza comporta l’inutilizzabilità della prova. Rispetto ai contributi narrativi predibattimentali rientranti nell’art. 192 commi 3 e 4, la disciplina in discorso si applica a prescindere dalla circostanza che la dichiarazione concreti una chiamata in correità ovvero ne costituisca un mero riscontro. Innanzitutto, non è dato distinguere fra le due tipologie di dichiarazioni al momento della loro formazione. Non vale il mero criterio dell’anteriorità temporale nella genesi dell’una rispetto all’altra, a prescindere dalla verifica del loro oggetto. Né è decisiva l’individuazione preventiva delle circostanze ex art. 468 c.p.p. su cui verterà l’esame del dichiarante (22): l’indicazione de qua, infatti, non deve spingersi ad un livello di analiticità tale da enunciare tutti gli aspetti che si vogliono far emergere al dibattimento (23); inoltre, l’esame — per sua stessa natura — potrà svilupparsi secondo direttrici non necessariamente preventivabili ex ante (24). Non coglie nel segno, dunque, la Suprema Corte, nell’affermare che il dettato costituzionale permetta di distinguere a seconda delle modalità di ingresso delle dichiarazioni nel fascicolo dibattimentale. Non si devono, infatti, confondere i principi contenuti nell’incipit del comma 4 dell’art. 111 Cost. con i criteri di valutazione delle prove imposti dalla normativa ordinaria: i primi impediscono che gli apporti narrativi non formati in contraddittorio possano assurgere al rango di prova, dettando, quindi, una regola di esclusione implicita nei confronti di quanto non venga acquisito tramite il metodo dialettico; i secondi guidano il formarsi del convincimento giudiziale alla luce degli elementi probatori legittimamente acquisiti. In altri termini, la verifica della persuasività ed attendibilità delle dichiarazioni rese dai soggetti di cui all’art. 192 commi 3 e 4 è operazione successiva rispetto alla loro legittima acquisizione al fascicolo dibattimentale e non può in alcun modo influire sul relativo regime acquisitivo (25). 3. Il criterio di valutazione di cui all’art. 111 comma 4 Cost. secondo periodo. — Rispetto all’inequivoco dettato del primo periodo dell’art. 111 comma 4 Cost., appare problematica la lettura del secondo periodo (26).

chiarazioni acquisite durante le indagini, M. NOBILI, Timeo Danaos: risalenti profezie, in ID., Scenari e trasformazioni del processo penale, Cedam, 1998, p. 68; nonché ID., L’accusatorio sulle labbra l’inquisitorio nel cuore, in Crit. dir., 1992, nn. 4-5, p. 11. (20) Il controesame, quale diritto della parte, potrebbe non essere esercitato: sarebbe, quindi, più corretto parlare di sua ‘‘potenzialità’’. Comunque, la volontà di non esercitarlo non comporta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ex art. 500 comma 3 c.p.p. (21) Cfr. P. FERRUA, Il contraddittorio è salvo, cit., p. 9; E. MARZADURI, Sul diritto al silenzio, cit., p. 13. Contra C. CONTI, ‘‘Giusto processo’’, cit., p. 1477; P. TONINI, Il contraddittorio, cit., p. 1390; ID., Riforma del sistema probatorio, cit., p. 272-273. (22) Indicazione, invece, utile per distinguere fra dichiarazione sul ‘‘fatto proprio’’ e sul ‘‘fatto altrui’’: così S. CORBETTA, Si può restituire pienezza al diritto alla difesa, in Italia oggi, 21 novembre 1998, p. 43. (23) Avendo l’elencazione di cui all’art. 468 c.p.p. funzione prevalente di discovery: così G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 611. (24) Lo sottolineano — non senza preoccupazione — P. FERRUA, L’indagine, cit., p. 80-81; M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 7-8; P. TONINI, Riforma del sistema probatorio, cit., p. 271-272. (25) Note le distorsioni dell’avere frammisto il regime acquisitivo degli elementi probatori a quello della valutazione: attribuendo predominanza al principio del libero convincimento del giudice, concepito quale « vorace potenza superlogica » — come limpidamente definito da F. CORDERO, Diatribe, cit., p. 230 — si consentiva, in nome della ricerca della verità, l’uso ai fini del giudizio anche di prove illegittimamente acquisite: cfr. F. CORDERO, ivi, p. 212 e M. NOBILI, Il principio, cit., passim. (26) Dettata in polemica con la sent. 361/98 della Consulta: così M. CHIAVARIO, Appunti sul pro-


— 728 — Il legislatore costituzionale ben avrebbe operato, limitandosi al primo (27): il contraddittorio quale metodo di accertamento ne sarebbe uscito rafforzato e sarebbe stato più arduo circoscrivere la sua portata attraverso esegesi riduttive. Invece, la giustapposizione delle due norme è suscettibile di indebolire, paradossalmente, la valenza del ‘‘contraddittorio per la prova’’. Il secondo periodo dovrebbe intendersi come mera specificazione del primo (28), ancorché non sfugga la sua ambiguità (29): non si discute solo in merito alla natura, a cavallo fra regola di esclusione e criterio di valutazione (30); bensì, anche in ordine alla possibilità che esso consenta un uso probatorio dibattimentale delle dichiarazioni segrete, purché il dichiarante non si sottragga al contraddittorio (31). La clausola in parola esclude il recupero delle narrazioni predibattimentali al fascicolo del dibattimento se l’esaminando si sottrae al controesame della difesa dell’imputato. Al contempo, essa attenua la radicale inutilizzabilità quale prova delle dichiarazioni unilateralmente raccolte. Qualora il dato conoscitivo acquisito nel corso delle indagini sia legittimamente confluito nel fascicolo dibattimentale, la clausola ne ammette l’uso solo in funzione di riscontro, e non di ‘‘prova unica’’ della colpevolezza dell’imputato (32). Il dato non formato in contraddittorio, ma acquisibile, è certamente elemento valutabile dal giudice ai fini del convincimento, ma ha un’efficacia ridotta, predeterminata dalla Costituzione: non è utilizzabile, da solo, per fondare il giudizio, ma può concorre con altri elementi. Il legislatore costituzionale ha in tal modo impedito che l’imputato possa essere condannato esclusivamente « sulla base » delle dichiarazioni predibattimentali di chi in giudizio si è sottratto al contraddittorio (33). Dunque, nella seconda parte dell’art. 111 comma 4 — più che una regola di esclusione — è codificato un criterio legale di valutazione. L’esegesi proposta poggia sul significato della locuzione « sulla base di... » (34). Essa ri-

cesso penale, Giappichelli, 2000, p. 353; E. MARZADURI, Sub art. 1, cit., p. 794. Più in generale, E. FASSONE, Le insidie in agguato dietro il Giusto processo, in Il Sole-24 Ore, 14 gennaio 1999, p. 23; G. FIANDACA, Il legislatore non deve ridursi al livello della Consulta, in Italia oggi, 22 dicembre 1998, p. 59; V. GAROFOLI, Giudizio, regole, Giusto processo: i tormentati cammini della cognizione penale, in questa Rivista, 2000, p. 250; V. GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 3317; G. RICCIO, Diritto al contraddittorio e riforme costituzionali, in AA.VV., Studi, cit., p. 641. (27) Cfr. P. FERRUA, L’avvenire, cit., p. 24. (28) Cfr. F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 1216-1217; P. FERRUA, L’avvenire, cit., p. 25. (29) Cfr. P. FERRUA, L’avvenire, cit., p. 24. La norma « non è eccezione e neppure chiarimento della regola generale [del contraddittorio nella formazione della prova], tanto si differenzia da essa »: così M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 6. Sottolinea la « dubbia omogeneità » della previsione rispetto al principio formulato in incipit del comma 4 dell’art. 111 Cost., G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 657. (30) Vi ravvisano una regola di esclusione M. CHIAVARIO, Appunti, cit., p. 353 e F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 1216; propende per la sua riconducibilità ai criteri di valutazione A. NAPPI, Guida, cit., p. 173. (31) Così S. CORBETTA, La Consulta sarà l’arbitro del futuro processo penale, in Italia oggi, 21 agosto 2001, p. 43; V. GREVI, Spunti problematici, cit., p. 442; P. MOROSINI, Contraddittorio nella formazione della prova e criminalità organizzata, in Dir. pen. proc., 2000, p. 336-337; D. SIRACUSANO, Il contraddittorio, cit., p. 1426; P. TONINI, La prova penale, cit., passim. Su quella premessa Trib. Firenze, Sez. II Pen., Ord. 6 aprile 2001, in Dir giust., 2001, n. 16, p. 66, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del neonato art. 500 comma 2 c.p.p. Recisamente critici, E. AMODIO, Giusto processo, cit., p. 3599; P. FERRUA, Giusto processo: i primi dubbi, in Dir. giust., 2001, n. 16, p. 8; G. FRIGO, Così le scelte sulla valutazione delle prove vanificano le conquiste del Giusto processo, in Guida dir., 1999, n. 48, p. 15-16; A. NAPPI, Guida, cit., p. 125; M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 11. (32) Problematicamente M. DANIELE, Primi contrasti sull’applicazione dell’art. 111 Cost. e sul principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2000, p. 2453. (33) In questo senso è orientata la Corte di Strasburgo. La violazione della garanzia riconosciuta all’accusato nell’art. 6 par. 3 lett. d) C.E.D.U. emerge qualora la « condanna si bas(i), unicamente od in misura determinante, sulle deposizioni di un testimone che l’accusato ha avuto la possibilità di interrogare o di fare interrogare, né nella fase dell’istruttoria né durante il dibattimento »: così C. Eur., Sez. II, 14 dicembre 2000, Bonsignore c. Italia, in Cass. pen., 2001, p. 2832, nonché, C. Eur., Sez. I, 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, ivi, p. 2836, che ha precisato come il righit to confrontation valga, per l’accusato, anche rispetto ai coimputati le cui dichiarazioni siano state acquisite ex art. 513 c.p.p. (34) Non ha rilievo decisivo, invece, il richiamo alla prova della « colpevolezza ». Il termine rimanda all’accertamento giudiziale nella sua globalità e, quindi, al quesito se l’affermazione dei fatti penalmente rilevanti ascritti all’imputato possa dirsi o meno « corrispondente al vero », ossia « più probabile


— 729 — manda ad un’utilizzazione pregnante di quelle dichiarazioni, vero e proprio fondamento della motivazione in merito alla responsabilità dell’imputato. Venuta meno quella ‘‘prova’’, crolla la concatenazione dei dati conoscitivi che hanno concorso a fondare la sentenza di condanna; e, dunque, viene meno la possibilità di pronunciare un giudizio di colpevolezza in base ai restanti elementi. In altre parole, l’espressione « sulla base di... » non può essere intesa come sinonimica del ‘‘tenere conto di’’ quelle dichiarazioni (35). L’interpretazione proposta si attaglia ai connotati tipici della dichiarazione di riscontro (36). Il quadro suggerito avvalora il principio in forza del quale costituiscono prova in senso epistemologicamente forte solo le dichiarazioni formate nel rispetto del metodo dialettico, relegando al rango di mero riscontro quelle rese in segreto. Inoltre, si conferisce autonoma valenza alla seconda parte dell’art. 111 comma 4 rispetto alla prima parte, respingendo, al contempo, i tentativi di sminuire il valore esclusivamente critico del precedente difforme quando il dichiarante non si sottragga al contraddittorio. Non persuade, invece, la tesi secondo cui la seconda parte dell’art. 111 comma 4 individuerebbe un’ipotesi di inutilizzabilità relativa, seppure nella logica del favor rei. La prospettiva delle regole di esclusione soggettivamente orientate induce a ritenere che dati non vagliati attraverso il metodo dialettico possano, anche da soli, fungere da prova dell’innocenza, sminuendo la forza euristica del metodo imposto dalla Costituzione. Non solo. Si lascia aperta la via ad interpretazioni che indeboliscono l’integrale formula dell’art. 111 comma 4, quasi che esistano ambiti ulteriori rispetto al comma 5 dell’art. 111 in cui un atto unilateralmente formato sia legittimamente utilizzabile. Senza contare che l’esclusione delle pregresse narrazioni del coimputato dal novero degli atti utilizzabili a fini decisori può derivare direttamente dalla mancata osservanza dell’art. 111 comma 3 Cost., laddove individua per l’imputato la « facoltà, davanti al giudice, di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico »: una lesione del right of confrontation dell’imputato dovrebbe, di per sé, far scattare la exclusionary rule. Sarebbe, dunque, superflua l’esplicitazione della medesima regola nel comma 4. Invece, se si individua nella norma in esame un criterio di valutazione — operante solo sugli atti legittimamente acquisiti — non paiono residuare spazi per un ulteriore recupero dibattimentale di dichiarazioni rese in segreto. 4. Deroghe alla formazione della prova in contraddittorio e natura del riscontro. — Se nessuna particolare difficoltà si pone nel caso in cui una chiamata di correo formata in contraddittorio trovi riscontro in una dichiarazione proveniente da altro soggetto in posizione analoga al primo, anch’essa formata in contraddittorio (37), il discorso è diverso ove la chia-

allo stato delle conoscenze », come precisato da P. FERRUA, Contraddittorio e verità, cit., p. 60. A sua conferma o confutazione, giocano un ruolo essenziale tutte le prove pertinenti e rilevanti, a prescindere dal fatto che abbiano per oggetto direttamente il fatto-reato — la « colpevolezza » — oppure fatti secondari, che consentono di risalire induttivamente al primo. Del resto, nemmeno potrebbe venire accettata un’interpretazione riduttiva del termine « colpevolezza », quale sinonimo di condotta penalmente rilevante. Se così fosse, una dichiarazione probatoria potrebbe dirsi ‘‘prova della colpevolezza’’ solo quando avesse per oggetto proprio quella condotta: ed « è caso raro », nota F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 559, essendo il processo tipicamente luogo in cui i fatti vengono provati attraverso meccanismi induttivi. (35) Diversamente, sarebbe preclusa una loro utilizzabilità, anche in funzione di mero riscontro: il ‘‘tener conto’’ della dichiarazione implica che la stessa sia comunque usata al fine del convincimento. (36) Questa — per natura ed oggetto — non potrebbe essere qualificata come prova « sulla base » della quale è stata positivamente affermata la responsabilità penale dell’imputato. Funzione del riscontro estrinseco non è provare direttamente ed in modo esclusivo il fatto addebitato al chiamato in correità, bensì avvalorare ulteriormente l’attendibilità del dichiarante sotto il profilo della veridicità dell’oggetto della narrazione, una volta che essa fosse già stata intrinsecamente verificata con esito positivo. Potrebbe, pertanto, essere utilizzata a fini decisori senza che sia violata la regola di esclusione imposta dalla Costituzione. (37) Il vaglio attraverso il metodo dialettico di tutti gli elementi conoscitivi cui rimanda la fattispecie dell’art. 192 comma 3 ne amplifica la forza probante, a maggior ragione se si pensa che chi depone ex art. 197-bis ha l’obbligo penalmente sanzionato di verità. I dubbi, semmai, concernono l’applicabilità del criterio della convergenza delle dichiarazioni provenienti da soggetti diversi quali indice di maggiore at-


— 730 — mata di riscontro sia contenuta in un verbale: il grado di persuasività del materiale probatorio sarebbe — in linea tendenziale — inferiore, poiché un elemento decisorio è sfuggito al metodo che meglio garantisce l’accertamento dei fatti. Peraltro, rispetto ad una chiamata di correo predibattimentale, non sono del tutto chiari i rapporti fra la seconda parte del comma 4 ed il comma 5 dell’art. 111. Data la formulazione letterale, la clausola di cui alla seconda parte dell’art. 111 comma 4 sarà applicabile esclusivamente sul presupposto che il soggetto si sia sottratto al contraddittorio per libera e volontaria scelta, situazione limitata — se non ci si inganna — all’ipotesi in cui i pregressi contributi eteroaccusatori siano leggibili ex artt. 512 e 513 c.p.p.; fuori dai casi di operatività del criterio di valutazione dell’art. 526 comma 1-bis (38), dovrà, invece, applicarsi quello ex art. 192 comma 3. a) ‘‘Consenso’’ dell’imputato all’acquisizione. Le norme ispirate alla logica negoziale in merito alla prova — introdotta dalla l. n. 479/1999 (39) e ribadita dalla l. n. 63/2001 (40) — trovano diretto impiego rispetto agli apporti narrativi eteroaccusatori resi nel corso delle indagini. Il potere di acquisire — su accordo delle parti — le dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, rilasciate ex art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., non è revocabile in dubbio. Da un lato, perché il comma 3 dell’art. 493 è applicabile a qualunque atto legittimamente contenuto nel fascicolo del p.m. (41), tra cui i verbali degl’interrogatori di cui all’art. 64, da leggersi in corrispondenza agli artt. 500 comma 7 e 513 comma 2 (42). Dall’altro, perché l’imputato contro cui saranno utilizzate le dichiarazioni ha prestato il ‘‘consenso’’ all’acquisizione. Quanto all’apprezzamento degli atti sfuggiti al contraddittorio — a meno di ricorrere ad un’interpretazione analogica in bonam partem — non entra in gioco il criterio di cui all’art. 526 comma 1-bis: il dichiarante non si è volontariamente sottratto all’esame, anzi, è stato proprio l’imputato a chiedere l’acquisizione dell’atto formato in segreto oppure ad acconsentirvi (43). Il consenso dell’imputato assume valore del tutto peculiare, talché sembra legittimo

tendibilità. Qualora i vari dichiaranti erga alios si ritrovino tutti nella veste di imputati nel processo cumulativo, hanno ovviamente il diritto di partecipare al dibattimento e certamente non ne potrebbero essere esclusi mentre stia deponendo uno dei chiamanti in correità, essendo inapplicabile l’art. 149 disp. att. c.p.p. Con il che, ciascuno di loro — quand’anche non avesse concordato la versione dei fatti con altri — potrebbe facilmente conformare la propria deposizione a quelle precedenti su aspetti che involgano la responsabilità altrui. Sulla necessità di autonomia delle dichiarazioni accusatorie convergenti cfr. Cass., Sez. I Pen., 2 dicembre 1998, Archinà, in Cass. pen., 1999, p. 2518. (38) Così P. FERRUA, Una garanzia ‘‘finale’’ a tutela del contraddittorio: il nuovo 526 comma 1bis c.p.p., cit., p. 525 e A. NAPPI, Guida., cit., 173. Nel senso che la norma è da ricondurre al novero delle regole di esclusione, G. ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 671; E. MARZADURI-D. MANZIONE, Nuove contestazioni, cit., p. 58; M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 12. La sua riconducibilità ai criteri di valutazione — ancorché miglior collocazione sarebbe stata l’art. 192 c.p.p. — sembra confermata dal topos normativo: l’art. 526 prima individua quali siano le prove su cui il giudice può fondare il proprio convincimento; poi lo vincola sul come valutare gli elementi sfuggiti al contraddittorio. Non sono coinvolte, quindi, le dichiarazioni del correo ‘‘testimone sul fatto altrui’’ oggetto di contestazione dibattimentale: rispetto ad esse sono vietate acquisizione ex art. 500 c.p.p. ed uso probatorio. (39) Il riferimento è all’accordo di cui all’art. 493 comma 3 c.p.p.. Peraltro, già il comma 2 dell’art. 513 c.p.p. — come modificato dalla L. 267/1997 — prevedeva che, su accordo delle parti, fossero acquisiti i verbali delle dichiarazioni rese durante le indagini qualora il dichiarante si fosse avvalso in dibattimento della facoltà di non rispondere. Confuta la compatibilità di quest’ultima previsione rispetto ai principi costituzionali, S. BUZZELLI, Le letture dibattimentali, Giuffrè, 2000, p. 182. M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 5, sottolinea che la « concezione negoziale della prova [...] prosegue ad urtare contro la dimensione epistemologica del contraddittorio ». (40) Secondo M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 12, sarebbe stato opportuno « dare organicità a (queste) varie disposizioni, immesse a strati, senza coordinamento ». Più in generale, S. BUZZELLI, Fascicolo dibattimentale ‘‘negoziale’’ e acquisizione probatoria, in Ind. pen., 2001, p. 389. (41) Così A. SCELLA, La formazione in contraddittorio del fascicolo per il dibattimento, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico (a cura di F. PERONI), Cedam, 2000, p. 438. (42) Ipotesi « fiabesca », nota F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 1222. (43) Ovviamente, il consenso non equivale ad automatica rinuncia od opposizione all’escussione


— 731 — chiedersi se la volontà a che la prova non si formi in contraddittorio valga anche a permettere che dette dichiarazioni siano utilizzate da sole nell’accertamento della colpevolezza. La risposta positiva è confortata dal rilievo che il consenso evidenzia il mancato interesse delle parti a che la prova sia formata in contraddittorio (44). Il contenuto informativo del verbale è da ritenere attendibile: pertanto, il giudice potrebbe usarlo quale prova, con il limite di ben motivare in merito alle ragioni del convincimento, in conformità agli artt. 192 comma 1 e 546 comma 1 lett. e) c.p.p.. Ad ostacolare l’assunto, però, è l’inequivoca lettera dell’art. 192 comma 3, il quale impedisce che la dichiarazione dell’imputato connesso o collegato valga da sola quale prova dei fatti affermati. Nessun indice normativo, al contrario, autorizza ad attribuire una portata tanto dirompente al consenso dell’imputato, sino al punto di ritenere che il fondamentale elemento di colpevolezza sia desumibile da chiamate in correità rese in segreto. La norma costituzionale rende utilizzabili a fini decisori gli atti di indagine, ma lascia intatte le norme ordinarie in tema di valutazione: diversamente opinando, si renderebbe disponibile l’oggetto dell’accertamento da parte dell’imputato attraverso il mero consenso (45). A differenza del contraddittorio quale right of confrontation, l’attuazione del contraddittorio quale metodo epistemico non può essere integralmente rimessa alla volontà delle parti (46). b) ‘‘Provata condotta illecita’’. Tra le deroghe alla formazione della prova in contraddittorio è stata opportunamente inserita l’ipotesi della condotta illecita realizzata nei confronti del dichiarante finalizzata alla sua ritrattazione o, più in generale, ad indurlo a rendere una deposizione difforme in dibattimento. La condicio iuris per integrare la fattispecie derogatoria è la ‘‘prova’’ di quella condotta (47): dunque, la disciplina ruoterà intorno alle modalità di verifica del fattore ‘‘inquinante’’ ed allo spessore probatorio ‘‘minimo’’ per ritenerlo sussistente (48). Sul piano valutativo, ferma l’inapplicabilità del secondo periodo dell’art. 111 comma 4, non è dato affermare che la dichiarazione predibattimentale acquisita possa anche essere considerata prova piena a carico dell’imputato. Il legislatore ordinario è libero di optare per simile scelta, senza incorrere nella scure della declaratoria dell’illegittimità costituzionale, ma essa non può dirsi imposta dalla Costituzione. L’attuazione dei principi del ‘‘giusto processo’’ si è, invece, mossa su terreno diverso. Secondo il regime contenuto nella normativa previgente alla novella del 2001, quando il testimone — dopo aver reso dichiarazioni agli organi inquirenti — fosse stato ‘‘intimidito’’ o ‘‘subornato’’, e in dibattimento non avesse risposto o avesse reso deposizione difforme, si sarebbe applicato l’art. 500 comma 5 (49): le sommarie informazioni potevano essere piena-

dibattimentale del dichiarante: nell’ipotesi in cui essa avrà luogo il giudice potrà utilizzare ai fini della prova entrambe le dichiarazioni, quella segreta e quella resa in giudizio. (44) In quanto i « portatori di interessi contrapposti ritengono che la elaborazione dialettica della medesima prova non sarebbe [...] in grado di produrre risultati apprezzabilmente diversi »: così G. GIOSTRA, Quale contraddittorio, cit., p. 199. (45) Cfr. S. CARNEVALE, Dichiarazioni del coimputato, diritto di difesa ed esigenze di non dispersione della prova: nuovo assetto di un difficile equilibrio, in Cass. pen., 1997, p. 3642. (46) Conferma viene dal novellato art. 507 c.p.p. che consente al giudice di ‘‘ri-assumere’’ d’ufficio le prove oggetto di accordo, onde evitare che l’accertamento dei fatti possa essere pregiudicato, confermandosi l’idea che il contraddittorio « è finalizzato ad ottenere contributi probatori genuini »: così P. TONINI, L’attuazione del contraddittorio, cit., p. 688-689. (47) Non necessariamente ascrivibile all’imputato: Cass., Sez. VI Pen., 9 giugno 1997, Satanassi, in Giust. pen., 1998, III, 708. (48) Cfr. P. FERRUA, L’indagine, cit., p. 78-79 e E. MARZADURI, Sub art. 1, cit., p. 803-804. Alla luce della formula, per cui la condotta illecita deve essere « provata », si esclude che la deroga possa operare nel caso di dubbio circa la sua sussistenza: così F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 1217, nonché G. SPANGHER, Il ‘‘Giusto processo’’, cit., p. 257. (49) Introdotto dalla l. n. 325/92 e di cui la Consulta aveva sancito la compatibilità con i principi costituzionali, poiché sua ratio era evitare la perdita di quegli elementi probatori alla cui ‘‘soppressione’’ era finalizzata la condotta illecita: cfr. C. Cost., Sent. 16 giugno 1994 n. 241. Più in generale, S. CORBETTA, Coimputati più loquaci, in Italia oggi, 15 febbraio 2001, p. 26 e P. TONINI, La prova resta garantita e somiglia ai riti europei, in Il Sole- 24 Ore, 12 giugno 1992, p. 17.


— 732 — mente usate come prova della colpevolezza, valendo come « prova dei fatti in esse affermati », se dalle « circostanze » indicate nella norma fosse risultata la condotta illecita nei confronti del teste. Ad analoga conclusione non era dato pervenire nell’ipotesi in cui la condotta illecita fosse stata esercitata sull’imputato chiamante in correità (50). La situazione sembra modificata a seguito della l. n. 63/2001: si è realizzato un sensibile avvicinamento fra la disciplina relativa ai casi di condotta illecita esercitata sul testimone o sull’imputato chiamante in correità. Se nel corso dell’esame dibattimentale emergono « elementi concreti » (51) tali da far ritenere che il deponente sia stato minacciato o abbia ricevuto promessa o offerta di denaro perché non deponga o deponga il falso, l’art. 500 comma 4 ammette il recupero integrale al fascicolo delle dichiarazioni rese durante le indagini (52). Quid iuris, però, rispetto alla loro valutazione ove siano soggette all’art. 192 comma 3, anche in forza del rinvio dell’art. 197bis comma 6? Il nuovo art. 500 comma 4 non riproduce la formula del suo ‘‘omologo’’ precedente, secondo cui le dichiarazioni acquisite erano valutate quale « prova dei fatti in esse affermati ». Sembrerebbe, quindi, che intervenga esclusivamente nel senso di rendere legittima l’acquisizione dell’atto senza predeterminarne l’efficacia probatoria. Allorché il giudice vagli una chiamata in correità resa in segreto ed acquisita sul presupposto della minaccia al dichiarante sarà, dunque, tenuto ad una duplice verifica: rispetto alla convergenza delle circostanze che avvalorano l’ipotesi della condotta illecita e rispetto alla sussistenza degli elementi di riscontro ‘‘individualizzanti’’ imposti dall’art. 192 comma 3. Il quadro descritto suscita perplessità se si pone mente alla ratio della previsione costituzionale: se un soggetto — dopo aver reso dichiarazioni agli organi inquirenti — ritratta, resta silente o muta versione e, al contempo, emergano elementi tali da far apparire altamente probabile un’indebita pressione, è ragionevole ritenere (53) che quanto narrato in segreto corrisponda al vero (54). Non ci si trova semplicemente di fronte ad un soggetto che rende

(50) Sul tema F.M. GRIFANTINI, Utilizzabilità, cit., p. 168 e p. 174-175. (51) Per un confronto fra ‘‘vecchio’’ e ‘‘nuovo’’ testo dell’art. 500, D. CARCANO-D. MANZIONE, Il giusto processo, cit., p. 56. Per le prime applicazioni cfr. S. CORBETTA, Le prime ordinanze sulla nuova disciplina dell’acquisizione della prova, in AA.VV., Giusto processo e prove penali, Ipsoa, 2001, p. 339. (52) La norma pare autorizzare l’acquisizione dei verbali a prescindere da una specifica contestazione ai sensi dell’art. 500 comma 2. In primo luogo, il comma 4 non richiama — in funzione derogatoria — il comma 2, che postula la contestazione, ma il comma 3, che individua solo i limiti di utilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi si sia rifiutato di sottoporsi al controesame di una delle parti. In secondo luogo, le « circostanze emerse dal dibattimento » o quelle ad esse parificabili si possono concretare in una difformità nelle dichiarazioni, ma non è detto che assumano necessariamente quella forma — si pensi al valore del silenzio in unione ad altri elementi quale frutto di ‘‘pressioni’’ — con la conseguenza che non sempre sussiste la condicio iuris per procedere a contestazione. In tal senso, A. NAPPI, Guida, cit., p. 128. Per vero, il silenzio dibattimentale del testimone equivale a difformità di contenuto rispetto alla precedente dichiarazione segreta, con la conseguente ammissibilità della contestazione, pur in assenza di elementi che facciano ritenere il silenzio frutto di condotta illecita. Infatti, anche il contegno silenzioso del teste concreta una forma di comunicazione, non verbale, dalla quale emerge discrasia di contenuto rispetto alle narrazioni pregresse. Non è, dunque, condivisibile la scelta del legislatore di non avere ammesso la contestazione qualora il teste si rifiuti di rispondere ad una o più domande: infatti, anche in dette ipotesi — al di fuori dei casi di condotta illecita — si verte sull’attendibilità del dichiarante. Resta fermo, peraltro, che la contestazione con allegazione ex art. 500 comma 4 non sarà ammissibile a fronte del silenzio non dipendente da condotta illecita. (53) Pur sulla base di una presunzione relativa: così A.A. SAMMARCO, Considerazioni sul riscontro delle dichiarazioni testimoniali oggetto di contestazione, in Cass. pen., 1995, p. 2023. (54) In senso critico, F. M. GRIFANTINI, Utilizzabilità, cit., p. 142-143. La giurisprudenza aveva affermato che anche nell’ipotesi di elementi idonei a far emergere la minaccia ai danni del teste « le dichiarazioni precedenti [...] non sono mai, di per sé, prova dei fatti in esse affermati, potendo solo concorrere a formare il legittimo convincimento del giudice, se desunto anche da altri elementi di riscontro »: così Cass., Sez. V Pen., 5 maggio 1997, Gangi, in Giust. pen., 1998, III, c. 426. Il dictum non coglie nel segno, in quanto contrastante con la ratio della norma: in caso di indebite pressioni sul teste, gli elementi di riscontro non devono convergere sul contenuto della dichiarazione predibattimentale, ma propriamente far emergere il tentativo di subornazione; se così non fosse, non vi sarebbe alcuna differenza rispetto alla fat-


— 733 — in aula una deposizione difforme (55): gli « elementi concreti » che evidenziano l’intimidazione o la subornazione del dichiarante susseguente all’aver colloquiato con gli organi inquirenti connotano in modo del tutto peculiare il dichiarato. L’esame dibattimentale si rivelerebbe improduttivo, in quanto il contraddittorio è già stato ‘‘inquinato’’ a monte; occorre, quindi, « rassegnarsi al recupero del materiale raccolto in precedenza » (56). Ma se così è, l’aspetto centrale della disciplina non è consentire l’ingresso al fascicolo del giudice delle dichiarazioni segretamente rese, bensì ammetterne l’uso anche a fini di prova piena (57). c) ‘‘Impossibilità di natura oggettiva’’. Si ammette, infine, l’acquisizione mediante lettura delle precedenti dichiarazioni se l’esame divenga impossibile per cause di natura oggettiva sopravvenute e non prevedibili (58). L’ipotesi rappresenta una ‘‘concessione’’ alle istanze di ‘‘ricerca della verità’’ il cui anelito aveva ispirato la Corte Costituzionale: è opportuno che, in presenza di situazioni eccezionali — non estensibili, pertanto, in via analogica (59) — di assoluta impossibilità di formazione in contraddittorio della prova dichiarativa, siano utilizzabili i contributi narrativi resi in segreto. Rispetto alle chiamate in correità, tale disciplina è applicabile expressis verbis ex art. 513 comma 2, quando il dichiarante — di cui sia divenuto impossibile l’esame — sia imputato ex art. 210 comma 1 c.p.p., vale a dire imputato di reato connesso ex art. 12 lett. a) c.p.p., indipendentemente dall’avvenuta conclusione del procedimento penale nei suoi confronti (60). Circa il loro valore probatorio, le chiamate in correità predibattimentali acquisite tramite lettura si differenziano in modo rilevante rispetto a quelle acquisite sulla base del consenso o sul presupposto dell’avvenuta condotta illecita. Il consenso e la minaccia et similia attribuiscono efficacia probatoria piena alla chiamata di correo: vi aggiungono, cioè, un quid pluris, fondato su massime di esperienza, che consentirebbe di ritenere attendibile la dichiarazione segreta. Non così nel caso dell’impossibilità di ripetizione sopravvenuta. I concetti di ‘‘irripetibilità’’ ed ‘‘attendibilità’’, infatti, non possono dirsi correlati, operando su piani diversi (61). L’impossibilità di ripetizione si atteggia come dato ‘‘neutro’’ nelle ipotesi in cui il soggetto non possa comparire in dibattimento perché morto, divenuto invalido o, semplicemente, irreperibile; o, addirittura, come un dato ‘‘sospetto’’ quando la decisione di non presenziare al dibattimento o di non sottostare al controesame è dovuta a libera scelta del soggetto. A rigore, solo l’ipotesi descritta si attaglia all’art. 526 comma 1-bis. Qui, il giudice do-

tispecie allora disciplinata nel precedente comma 4 del medesimo articolo. In questo senso sembra orientato D. SIRACUSANO, Le prove, in AA.VV., Diritto processuale penale, vol. I, Giuffrè, 2001, p. 344. (55) Qui la contestazione ex art. 500 non ha altro fine che evidenziare l’inattendibilità della deposizione dibattimentale; giudizio di inattendibilità che però non si fonda sul presupposto della veridicità della versione precedente e, in fin dei conti, nemmeno sulla difformità rispetto a quella dibattimentale, bensì sulla incapacità del teste di spiegare in modo convincente le ragioni del mutamento di versione. (56) P. FERRUA, Dalla Camera soluzione equilibrata, cit., p. 12. (57) Ove il dichiarante sia minacciato, non vi è spazio per soluzioni intermedie, ammettendo il recupero degli atti di indagine, ma subordinandone l’efficacia probatoria alla presenza di riscontri: se si teme per la genuinità della dichiarazione resa durante la fase investigativa, la conseguenza dovrebbe essere la radicale esclusione dagli atti utilizzabili a fini decisori. Ove, invece, se ne ammetta il recupero, dovrebbero esserne tratte le conclusioni sotto il profilo valutativo. (58) Cfr. Cass., Sez. II Pen., 11 novembre 1998, Bajrami, in Giust. pen., 1999, III, c. 342; Cass., Sez. VI Pen., 28 aprile 1997, Tecca, ivi, 1999, III, c. 186; Cass., Sez. VI Pen., 20 settembre 1993, Capodicasa, ivi, 1994, III, c. 607 e Cass., Sez. I Pen., 11 novembre 1992, Betancor, in Riv. pen., 1994, p. 84. Da ultimo, C. CESARI, ‘‘Giusto processo’’ contraddittorio ed irripetibilità degli atti di indagine, in questa Rivista, 2001, p. 56. (59) Non a caso la Consulta, mutando indirizzo esegetico, ha affermato che l’irripetibilità non può più dipendere dalla scelta del dichiarante di astenersi dal deporre: cfr. C. Cost., Sent. n. 440 del 25 ottobre 2000. (60) La norma pare frutto di un difetto di coordinamento in sede di novella al codice di rito penale: non vi sono ragioni per cui l’art. 512 non sia applicabile anche rispetto all’imputato, chiamante in correità, potenziale ‘‘testimone’’ ex art. 197-bis. (61) Cfr. G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie, cit., p. 1976.


— 734 — vrà sciogliere il dubbio relativo all’attendibilità del dichiarante: potrà non ritenere attendibile la dichiarazione acquisita ex art. 512, cossicché la sua forza probante equivarrà a zero; come potrà ritenerla attendibile, ma in tal caso non potrà valutarla quale unica prova della colpevolezza o, comunque, quale elemento al riguardo decisivo, in quanto il massimo grado di efficacia probatoria — normativamente predeterminato — è quello tipico del ‘‘riscontro’’. Malgrado ciò, anche il caso di chi non compaia per causa di forza maggiore estranea alla sua volontà deve esser ricondotto all’ambito applicativo dell’art. 526 comma 1-bis, proprio perché l’impossibilità di ripetizione sopravvenuta non fornisce alcun elemento che induca a ritenere attendibile il contenuto dell’interrogatorio reso in segreto. 5. L’oggetto del riscontro. — La riforma del sistema probatorio offre un’ulteriore spunto utile a rafforzare l’attendibilità dell’accertamento fondato sulle dichiarazioni del coimputato: dall’ordinamento, infatti, sembra emergere la necessità che i riscontri alla chiamata di correo siano ‘‘individualizzanti’’ (62). Il riscontro dovrebbe concernere direttamente il fatto riferito dal chiamante in correità: il giudice è tenuto a verificare se all’interno del materiale probatorio utilizzabile sussistano elementi che avvalorino la tesi del coinvolgimento del chiamato nei fatti penalmente rilevanti; diversamente, non potrebbe ritenersi raggiunta la prova della sua responsabilità. Sennonché, l’ambigua formula dell’art. 192 comma 3 aveva lasciato margini per opinare che il vaglio della chiamata in correità dovesse concernere anche solo l’attendibilità soggettiva del chiamante, desumibile da elementi diversi da quelli che impingono la penale responsabilità del chiamato (63). Quest’ultimo orientamento sarebbe superato dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, poiché esso deve trovare coerente applicazione anche in ordine ai fatti oggetto di accertamento. Infatti, il confronto dialettico deve vertere su tutti i fatti pertinenti e rilevanti, dai quali emergano conferme o smentite all’ipotesi accusatoria. Dunque, non ci si può accontentare della sola verifica dell’attendibilità soggettiva del dichiarante: il diritto delle parti a che la prova venga acquisita tramite il metodo dialettico, salvi i casi di cui al comma 5 dell’art. 111, copre anche l’oggetto della prova; e oggetto della prova costituita da una chiamata di correo è proprio la penale responsabilità del chiamato. Non a caso l’art. 194 comma 3 c.p.p. impone che l’esame testimoniale avvenga « su fatti determinati »: la regola acquista significato pregante, rispetto al tema della chiamata in correità, in quanto l’art. 194 individua — unitamente all’art. 187 c.p.p. — l’ambito fattuale in ordine al quale l’imputato dichiarante erga alios dovrà fornire il proprio contributo narrativo. Queste indicazioni sono oggi avvalorate dalla riforma del sistema probatorio: oltre al citato art. 194 comma 3, l’art. 64 comma 3 lett. c) sembra esplicitare la necessità di un riscontro ‘‘individualizzante’’ (64). L’imputato di reato connesso o collegato assume coattivamente la qualità di testimone allorché renda « dichiarazioni su fatti che concernono la responsabi-

(62) Cfr. G. LOZZI, I principi del dibattimento, in ID., Riflessioni sul nuovo processo penale, Giappichelli, 1990, p. 110 e A. SANNA, L’interrogatorio, cit., p. 284; nonché, Cass., Sez. I Pen., 21 ottobre 1999, Castelluccia, in Cass. pen., 2000, p. 2766; Cass., Sez. V Pen., 22 ottobre 1997, Clemente, in Riv. Polizia, 1999, p. 111; Cass., Sez. I Pen., 26 aprile 1996, Sergi, in Cass. pen., 1998, p. 209; Cass., Sez. II Pen., 1o marzo 1996, Pizzata, ivi, 1997, p. 1452. (63) Cfr. Cass., Sez. II Pen., 8 luglio 1997, Granchi, in Guida dir., 1999, n. 1, p. 81-82; Cass., Sez. III Pen., 21 agosto 1993, Villelli, in C.E.D. 195988; Cass., Sez. V Pen., 14 maggio 1992, Santori, in Riv. pen., 1994, p. 285; Cass., Sez. V Pen., 19 marzo 1991, Memmo, in Cass. pen., 1992, p. 2794; Cass., Sez. VI Pen., 11 gennaio 1991, Teresi, in Cass. pen., 1991, 983; nonché, Trib. Salerno, 26 luglio 1995, Conte, in Giur. merito, 1996, p. 297 e Ass. Caltanissetta, 22 dicembre 1993, Antonuccio, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 71. (64) Il discorso non muta in ordine alle narrazioni del coimputato favorevoli al terzo, poiché l’art. 64 comma 3 lett. c) non allude a fatti ‘‘a carico’’ di altri: tipicamente, esse faranno emergere un coinvolgimento di terzi nel fatto penalmente rilevante; ma non si può escludere l’opposta eventualità. Che rientrino sotto la previsione dell’art. 192 comma 3 anche le dichiarazioni favorevoli all’imputato è affermato da Cass., Sez. II Pen., 6 dicembre 1996, Arena, in Riv. pen., 1997, p. 531 e Cass., Sez. I Pen., 2 maggio


— 735 — lità di altri ». La previsione circoscrive l’oggetto della prova all’altrui responsabilità, individuando anche lo specifico thema probandum rilevante ex art. 468 c.p.p., in ossequio ai dettami espressi dalla Consulta con la sent. 361/98. Logico concludere che gli elementi di riscontro debbano convergere proprio sui fatti riferiti dal chiamante (65). A conforto della tesi sta, poi, l’art. 194 comma 2 c.p.p.: quei ‘‘fatti’’, su cui si svolgeranno l’esame ed il controesame dibattimentale, si ‘‘arricchiranno’’ delle « circostanze il cui accertamento è necessario per valutar[e] la credibilità » del dichiarante. La norma verte su di un piano diverso — soggettivo, perché riferito alla credibilità del narrante — rispetto agli artt. 64 comma 3 lett. c) e 192 comma 3, che involgono il profilo oggettivo della credibilità della narrazione: si concreta una bipartizione dell’accertamento giudiziale in ordine alla chiamata di correo (66). La duplice verifica risulta funzionale al rafforzamento della razionalità della decisione nella prospettiva imposta dall’art. 192. 6. Conclusioni. — Il legislatore, costituzionale e ordinario, ha codificato nelle ‘‘norme gemelle’’ di cui all’art. 111 comma 4 Cost. e 526 comma 1-bis c.p.p. un criterio di valutazione delle dichiarazioni rese in segreto e legittimamente acquisite: ricondurle al piano valutativo — diverso e sottostante rispetto a quello delle exclusionary rules — permette di rafforzare il valore del contraddittorio nelle sue proprie connotazioni, di metodo conoscitivo e di diritto dell’imputato, senza che l’una prevalga sull’altra. Al contempo, si riduce il rischio di smarrire apporti probatori utili per il corretto accertamento dei fatti. Il mero valore di ‘‘riscontro’’ della narrazione segreta riafferma il valore epistemologico del contraddittorio: infatti, solo il vaglio della fonte attraverso il metodo dialettico garantisce quel grado di attendibilità del risultato imposto dalla Costituzione. Specularmente, senza obliterare del tutto il valore degli atti formati in segreto, l’imputato riceve precipua tutela dal divieto di essere condannato sulla sola base di quelle prove. La tesi proposta impone notevole rigore nella motivazione. Malgrado la difficoltà di discriminare in modo netto l’elemento ‘‘riscontrante’’ da quello che deve essere ‘‘riscontrato’’ — essendo ‘‘sfumato’’ lo stesso concetto di ‘‘riscontro’’ —, spetterà al giudice compiutamente ‘‘dare conto’’ dei criteri sulla base dei quali ha ritenuto che l’elemento conoscitivo sfuggito al contraddittorio si limiti a rimarcare un orizzonte probatorio già delineato (67). Se così è, si espone a critiche la scelta del legislatore di non esser intervenuto in modo più incisivo sul versante della valutazione della prova. Il rafforzamento della razionalità del

1996, D’Agostino, in Giust. pen., 1997, III, c. 152. In senso critico, valorizzando la regola di giudizio di cui all’art. 27 comma 2 Cost., A. SANNA, L’interrogatorio, cit., p. 271. (65) Non si può escludere che la narrazione del correo concerna fatti ‘‘secondari’’ attraverso i quali risalire induttivamente alla responsabilità del chiamato — come notato da P. FERRUA, L’indagine, cit., p. 80-81 — non sussistendo indici normativi in forza dei quali ritenere inammissibile questa modalità di verifica. Ma ciò non implica che il riscontro rilevante per induzione ai fini della prova della colpevolezza non verta su fatti sensibili, ma solo sull’attendibilità del dichiarante. Cfr. M. MADDALENA, Riforma del sistema probatorio e ruolo del pubblico ministero, in AA.VV., Giusto processo e prove penali, cit., p. 23 e P. TONINI, Diritto al silenzio e tipologia dei dichiaranti, ivi, p. 71. Richiede che la dichiarazione segreta ex art. 64 comma 3 lett. c) si riferisca in modo specifico ad una « figura processuale, assumendo[sene] i relativi rischi », F. CORDERO, Procedura (2001), cit., p. 740. (66) Cfr. Cass., Sez. un. pen., 21 ottobre 1992, Marino, in Giur. it., 1993, II, c. 817. (67) Pena la riforma della sentenza in appello o l’annullamento in cassazione, ove emerga che la prova ‘‘mascherata’’ da riscontro abbia peso decisivo. Tramite un meccanismo logico simile a quello della ‘‘prova di resistenza’’ o dell’harmless error, occorrerebbe vagliare la reale incidenza dell’elemento di riscontro sul convincimento del giudicante, eliminandolo idealmente dal substrato probatorio complessivo. Se il dictum giurisdizionale permane congruamente motivato circa la colpevolezza del chiamato in correità — essendo il riscontro fornito anche da elementi aliunde acquisiti — nulla quaestio: l’elemento pretermesso non ha carattere determinante sul convincimento giudiziale e non si potrebbe affermare che esso sia elemento ‘‘sulla base’’ del quale è stata ritenuta provata la colpevolezza. Ciò, però, non implica che l’elemento di prova ‘‘in riscontro’’ sia ‘‘irrilevante’’: il riscontro, infatti, rafforza un quadro già orientato nel senso della probabile colpevolezza del chiamato in correità. Il modello di ragionamento prospettato non è dissimile da quello diretto a verificare l’incidenza di una prova inutilizzabile sulla decisione: sul tema, P. FERRUA, Processo penale, contraddittorio e indagini difensive, in ID., Studi sul processo penale, vol. III, Giappichelli, 1997, p. 97.


— 736 — giudizio avrebbe imposto adeguati interventi anche su tale disciplina. Non sembrano, invece, essere state tratte dal legislatore tutte le implicazioni addotte dal mutato contesto costituzionale e dalla conseguente novella al sistema probatorio. Consapevole della difficoltà — per non dire impossibilità — di cristallizzare normativamente canoni di valutazione probatoria (68), si sarebbe dovuto, se non espungere dal sistema il canone imposto dall’art. 192 comma 3, quanto meno chiarirne il contenuto (69) in merito all’oggetto del riscontro (70). Più in generale, induce a riserve la scelta del legislatore di equiparare il valore probatorio delle dichiarazioni accusatorie provenienti da un imputato di reato connesso o collegato vagliate in un effettivo contraddittorio dibattimentale con quelle segretamente rese e poi acquisite secondo le modalità sopra illustrate, applicando per entrambe il criterio di cui all’art. 192 comma 3. Perplessità, poi, suscita il rinvio all’art. 192 comma 3 dell’art. 197-bis comma 6 c.p.p., che estende quel canone di valutazione anche ai contributi resi, quale ‘‘testimone assistito’’, dal soggetto irrevocabilmente prosciolto (71). Quest’ultimo non è accomunabile all’imputato che parli sul fatto altrui e che non abbia ancora risolto in via definitiva la propria vicenda processuale: l’imputato in itinere non può dirsi, per definizione, ‘‘disinteressato’’ rispetto ai fatti oggetto della deposizione da lui resa, alla luce delle eventuali incidenze negative sul terreno dell’accertamento penale a suo danno. Il criterio di valutazione dell’art. 192 impone al giudice un’identica modalità di verifica per fonti ontologicamente differenti, realizzando un sensibile distacco rispetto al passato. Appare illogico che l’art. 192 comma 3, nato per controbilanciare la scarsa affidabilità di accuse — utilizzabili, stante la pregressa disciplina, quale prova della colpevolezza dell’imputato anche in assenza di un confronto con chi lo aveva accusato — venga ora richiamato anche nell’apprezzamento di prove assunte nel contraddittorio, parificate a quelle la cui formazione sfugge al metodo dialettico. Inoltre, non è condivisibile la scelta di far ricadere sotto il criterio valutativo de quo tanto le dichiarazioni dibattimentali rese da chi, ancora oggi, può essere esaminato senza sottostare all’obbligo di verità — ex art. 210 comma 1 — quanto da chi, viceversa, deponga vincolato da simile obbligo e dalle correlative conseguenze penali. Da ciò deriva un appiattimento che occulta le peculiarità di ogni elemento di prova, quasi ad adombrare un’indifferenza del metodo acquisitivo sull’efficacia del risultato. Si è persa l’occasione di riconoscere — e, perciò, esplicitare — il valore epistemico del contraddittorio, valorizzandone le implicazioni ultime sul piano dell’efficacia probatoria degli elementi così acquisiti. FABIO CASSIBBA

(68) Cfr. F. CORDERO, Procedura (2000), cit., passim. (69) Sottolinea la vaghezza della norma V. GREVI, Le ‘‘dichiarazioni del coimputato’’, cit., p. 1177-1178, Ne deriva la sua applicabilità « nei due sensi, dalla bulimia inquisitoria al garantismo perverso », come rilevato da F. CORDERO, Procedura (2000), cit., p. 610. (70) La via era già stata tracciata, se si pone mente ai progetti di modifica dell’art. 192 all’esame del Parlamento, miranti a rendere più rigoroso il criterio valutativo di cui al 3o comma: 1) vietando il ricorso alla prassi della mutual corroboration fra dichiarazioni (d.d.l. 463/C, 1863/C, 1870/C e 1976/S. Allo stesso modo, la normativa transitoria della l. n. 35/2000 e dell’art. 26 l. n. 63/2001 stabilisce che la chiamata di correo acquisita senza essere stata filtrata dal metodo dialettico di formazione avrebbe dovuto essere riscontrata sulla base di elementi diversamente formati: salvi i casi di violenza, minaccia o subornazione, i ‘‘riscontri’’ non avrebbero potuto consistere in elementi probatori unilateralmente acquisiti. Dunque, appare singolare che la disciplina scaturita dalla l. n. 63/2001 mantenga, in riferimento agli « altri elementi di prova » di cui all’art. 192, un regime acquisitivo meno rigoroso. Analoga la ratio dell’odierno d.d.l. 1234/C); 2) individuando nel fatto penalmente rilevante attribuito al chiamato l’oggetto del riscontro (d.d.l. 2681/S, 5630/C, 5391/C e 5545/C); 3) o, ancora, sancendo l’inammissibilità delle chiamate di correo de relato (d.d.l. 3364/S). (71) Criticano l’opzione, F. CORDERO, Procedura (2001), cit., p. 742; P. FERRUA, L’indagine, cit., 82; A. GIARDA, Giusto processo, prove penali e diritto di difesa, in AA.VV., Giusto processo e prove penali, cit., p. 14-15. Vi ravvisa un contrasto con l’art. 101 comma 2 Cost., P. MOROSINI, Il dibattimento come luogo ‘‘privilegiato’’ per la ricostruzione dei fatti, ivi, p. 64.


— 737 — I CORTE DI CASSAZIONE — Sez. IV — 25 settembre 2001-16 gennaio 2002, n. 1585 Pres. Lisciotto — Est. Battisti Ric. Sgarbi e altro Reato in genere - Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche Giudizio di elevata credibilità razionale come probabilità confinante con la certezza - Necessità di accertamento del fatto in termini di assoluta certezza Insufficienza di una probabilità anche del 90%. Il giudice penale deve accertare il fatto, contestato come reato, in termini di assoluta certezza, il che significa che il giudice deve poter pervenire ad una ricostruzione logica in termini di certezza anche se a quella ricostruzione ne sia opponibile altra, altrettanto logica, con diverso approdo. Poiché neppure la scienza conosce certezze, ma soltanto probabilità confinanti con la certezza, può parlarsi di elevata probabilità soltanto se la si intende come probabilità confinante con la certezza. Se elevata probabilità significa, invece, probabilità al 70%, all’80% o anche al 90%, il fatto non può ritenersi accertato, sicché la sentenza che lo ritenesse accertato non potrebbe non essere annullata perché darebbe per accertato ciò che, alle condizioni date, non può dirsi logicamente che lo sia (1).

II CORTE DI CASSAZIONE — Sez. IV — 25 settembre 2001-13 febbraio 2002, n. 1652 Pres. Lisciotto — Est. Battisti Ric. Covili e altri Reato in genere - Nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento - Identità tra causalità attiva e causalità omissiva - Sussunzione sotto leggi scientifiche Giudizio di elevata credibilità razionale come probabilità confinante con la certezza - Necessità di accertamento del nesso di causalità oltre ogni ragionevole dubbio - Insufficienza di una probabilità anche del 90% - Insufficienza del semplice aumento della probabilità dell’evento lesivo. Compito del giudice, in tema di rapporto di causalità, è accertare se l’evento lesivo possa essere considerato opera dell’uomo, se possa essergli oggettivamente imputato; è accertare, quindi, se l’uomo ha posto in essere una condotta che possa definirsi — grazie al giudizio controfattuale effettuato servendosi di generalizzazioni causali, sia di forma universale che di forma statistica — condizione e condizione contingentemente necessaria dell’evento. Può dirsi che la probabilità sia quasi certezza se la non conoscenza delle ulteriori condizioni che determinano un evento e, soprattutto, la legge di copertura,


— 738 — siano tali da consentire di non allontanarsi dall’unum oltre una certa percentuale. Neanche una probabilità del 90% può bastare per affermare la sussistenza del rapporto di causalità: trasferito nei grandi numeri, infatti, il restante 10% fa constatare grandezze tali da far legittimamente dubitare dell’esistenza del rapporto di causalità fondato sul corrispondente 90%. Solo dimostrando che la legge di copertura assicura un coefficiente percentualistico vicino alla certezza, il giudice può dire di avere accertato il rapporto di causalità con alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale o, se si vuole, oltre ogni ragionevole dubbio (2).

I (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — 2.I. La Corte d’appello, allorché affronta il problema della ricostruzione del fatto, afferma, dopo aver sottolineato che la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa appariva fondata su presupposti di fatto ipotizzati e su circostanze non riferite dai testi, che ‘‘assolutamente coerente al materiale probatorio acquisito risulta, invece, la ricostruzione della dinamica dell’infortunio operata dal consulente tecnico dell’accusa, aggiungendo che ‘la chiara esposizione di tutti i rilevati dati e delle assegnate conclusioni è stata oggetto di accurata disamina da parte del pretore e può dunque, farsi rinvio a quanto si legge nella sentenza di primo grado’ ’’. II. Per cogliere la motivazione della sentenza sul punto occorre, quindi, prestare attenzione alla sentenza di primo grado. Il pretore, dopo avere posto in evidenza, descrivendole, le condizioni in cui il consulente tecnico del pubblico ministero aveva trovato la macchina, dice che costui ‘‘affermava che il motivo della discesa improvvisa dello stampo era da rinvenirsi, in termini di elevata probabilità, in un guasto elettrico su di un fine corsa che, diseccitando le elettrovalvole preposte alla salita, consentiva la caduta libera della mazza; il sistema elettrico avrebbe sentito il raggiungimento del punto morto superiore, malgrado questo fosse ancora da raggiungere, per cattivo funzionamento del fine corsa a ciò preposto. Più avanti il pretore precisa, poi, che, ‘‘quanto alla ricostruzione tecnica dell’infortunio, la relazione del consulente tecnico del pubblico ministero si esprime correttamente in termini di elevata probabilità e non di certezza sulle cause della ripetizione del colpo, anche — e queste ragioni sono ripetute dalla Corte — per la carenza di documentazione relativa alla macchina, costruita da società fallita da tempo, senza schemi oleodinamici, priva di un protocollo manutentivo chiaro, prescritto dalla Usl dopo l’evento’’. III. Queste affermazioni non possono essere condivise e quanto ai principi in tema di accertamento del fatto e quanto al rigore logico. È da mettere in risalto, anzitutto, che il giudice penale deve accertare il fatto, contestato come reato, in termini di assoluta certezza, il che non significa, ovviamente, che il giudice deve essere scientificamente, sperimentalmente, certo che il fatto si è verificato in un determinato modo, ma significa che il giudice, ove ricostruisca il fatto vagliando criticamente i relativi atti del processo, deve poter per-


— 739 — venire ad una ricostruzione logica in termini di certezza anche se a quella ricostruzione ne sia opponibile altra, altrettanto logica, con diverso approdo. Ora, se elevata probabilità significa probabilità vicina alla certezza, confinante con la certezza, non v’è dubbio che la elevata probabilità altro non sarebbe che certezza, ché la dottrina che, in tema di rapporto di causalità, si è occupata dell’elevata probabilità per metterne in evidenza gli equivoci ai quali si presta, ha dimostrato, peraltro, che neppure la scienza conosce certezze, ma soltanto probabilità confinanti con la certezza, sicché di elevata probabilità può parlarsi soltanto se la si intende come probabilità confinante con la certezza. Se elevata probabilità significa, invece, certezza al 70%, all’80% o anche al 90% — e ciò perché neppure dieci distanze sono, e non lo sono neanche per la citata dottrina, qualcosa che confini con la certezza — il fatto non può ritenersi accertato, sicché la sentenza che lo ritenesse accertato non potrebbe non essere annullata per difetto di motivazione o, se si vuole, per illogicità manifesta perché darebbe per accertato ciò che, alle condizioni date, non si può dire che lo sia. E il pretore ha espressamente escluso che elevata probabilità significasse, per il consulente tecnico del pubblico ministero, certezza, avendo detto, come si è visto, che egli si era espresso correttamente in termini di probabilità e non di certezza. Il pretore, peraltro, ha spiegato che quella elevata probabilità — l’elevata probabilità che ‘‘il motivo della discesa improvvisa dello stampo fosse da rinvenirsi, in termini di elevata probabilità, appunto, in un guasto elettrico su di un fine corsa — era stata ricondotta dalla consulenza, con dovizia di argomenti tecnici e solida logica intrinseca, a difetti di manutenzione generale e a modalità d’uso intrinsecamente pericolose, tali da giustificare il malfunzionamento della macchina’’. ‘‘È pertanto provato — dice il pretore nell’elencare quei difetti di manutenzione e quelle modalità d’uso della macchina — che l’infortunio è da ricollegare al complessivo deficit di sicurezza della pressa cui era addetto il lavoratore, per le modalità di lavoro imposte, addebitabili anche a colpa generica, nonché alla violazione specifica delle disposizioni antinfortunistiche fissate dall’art. 4 del d.P.R. n. 547/1955, per la mancata attuazione effettiva delle misure di sicurezza in relazione alle concrete modalità lavorative, per il carente addestramento dei lavoratori, per la mancata vigilanza sull’uso effettivo delle misure di sicurezza, per il provato disinserimento abituale del dispositivo di fermomacchina durante la fase di introduzione delle mani in zona pericolosa, per la carenza di manutenzione, anche in relazione alla necessità di dispositivo antiripetitore del colpo prescritta dall’art. 118 del d.P.R. n. 547/1955’’. Ebbene, è da escludere che, con questo elenco di carenze di manutenzione e con questa indicazione delle riprovevoli modalità d’uso della macchina, il pretore — e, con lui, la Corte d’appello — siano riusciti a dimostrare il nesso tra quelle carenze e quelle non confacenti modalità e il guasto elettrico, il quale, con elevata probabilità, è il fatto che avrebbe — il condizionale, ad un certo punto, lo usa anche il pretore — determinato la discesa improvvisa dello stampo. Ma, dato e non concesso che quell’elenco di carenze e quella indicazione di riprovevoli modalità d’uso siano tali da dimostrare il nesso tra le stesse e il guasto elettrico, questo guasto sarebbe stato, pur sempre, accertato dal consulente in termini di elevata probabilità, con tutte le conseguenze che si sono viste quanto all’accertamento del fatto o, meglio, quanto al non accertamento certo del fatto. (Omissis).


— 740 — II (Omissis). — MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — 1.III. La sentenza impugnata, mentre afferma che ‘‘la correlazione causale che sussiste tra gli eventi lesivi di cui si discute e il loro antecedente storico, ovverosia il permanere dei lavoratori in una situazione di esposizione all’asbesto caratterizzata dall’assenza delle doverose e pur possibili cautele, può ritenersi dimostrata con un elevato grado di probabilità razionale’’, allorché, dopo aver premesso che era certo che gli imputati non avessero adottato le cautele previste e possibili, formula il giudizio controfattuale afferma che, se quelle cautele fossero state adottate, gli eventimorte non si sarebbero verificati con apprezzabile probabilità. In altri termini, secondo la Corte d’appello, è quasi certo — è questo, secondo la migliore dottrina e secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass., sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti ed altri; Cass., sez. IV, 27 settembre 2000, Baltrocchi), come si vedrà meglio tra poco, il significato dell’espressione elevato grado di credibilità razionale e della equivalente espressione alto grado di probabilità — che il mesotelioma sia da ricondurre, nella specie, al permanere, per un cospicuo intervallo temporale, dell’esposizione dei lavoratori all’asbesto, mentre può definirsi soltanto apprezzabile la probabilità che, qualora gli imputati avessero adottate le dovute cautele, i due eventi non si sarebbero verificati. IV. Ebbene, compito del giudice in tema di rapporto di causalità, è, secondo la dottrina e la giurisprudenza appena citate, accertare se l’evento lesivo possa essere considerato opera dell’uomo, se possa essergli oggettivamente imputato; è accertare, quindi, se l’uomo ha posto in essere una condotta che possa definirsi — grazie al giudizio controfattuale effettuato servendosi di generalizzazioni causali, sia di forma universale che di forma statistica — condizione e condizione contingentemente necessaria dell’evento. Quella dottrina e la giurisprudenza precisano, poi, che quelle generalizzazioni causali o leggi di copertura debbono consentire al giudice di affermare che l’uomo, quel dato uomo, è stato, in quel caso, causa contingentemente necessaria dell’evento con alto grado di probabilità o con elevato grado di credibilità razionale, nel senso che non è credibile che quell’evento possa aver avuto cause diverse dall’uomo, credibilità, dunque, che se si esprime, come ha fatto la Corte, in termini di apprezzabile probabilità, è da escludere categoricamente che possa essere la credibilità richiesta per ritenere accertato il rapporto di causalità. E, approfondendo con la migliore dottrina, deve porsi in evidenza che le due espressioni alto grado di probabilità ed elevato grado di credibilità razionale stanno a significare che il giudice ha accertato che è stato l’uomo, quell’uomo, in quel caso, a cagionare l’evento e a cagionarlo, appunto, ‘‘con alto grado di probabilità o con elevato grado di credibilità razionale’’ tenendo conto non solo delle leggi scientifiche o statistiche di copertura, ma anche, doverosamente, che egli, il giudice, non può conoscere la condizione sufficiente, vale a dire la totalità delle condizioni che determinano un evento, ma soltanto la condizione contingentemente necessaria, della quale prende atto, pertanto, coeteris paribus, assumendo, cioè, che le altre condizioni che non conosce si sarebbero mosse nella stessa direzione. Si può cogliere, allora, perché la probabilità delle espressioni ‘‘alto grado di


— 741 — probabilità o elevato grado di probabilità razionale’’ sia solo probabilità e non, evidentemente, certezza, anche se probabilità prossima alla certezza. I giudizi del giudice, invero, sono, per loro natura, induttivi e non deduttivi e ciò proprio perché, per un verso, il giudice non è in grado di conoscere la totalità delle condizioni di un evento e, per altro verso, le leggi, di cui si avvale, specialmente le leggi statistiche, sono ontologicamente probabilistiche. Giudizi induttivi, peraltro, dei quali è consentito al giudice avvalersi, per concludere per l’esistenza del nesso causale — e in termini non meno logicamente corretti che se potesse avvalersi di giudizi deduttivi — alla condizione, però, che conducano all’alto grado di probabilità o all’elevato grado di credibilità razionale, cioè alla quasi certezza. V. Nel caso di specie, invece, il giudizio controfattuale — o processo di astrazione o processo di eliminazione mentale — che è il procedimento logico grazie al quale il giudice, sulla base della legge di copertura e della clausola coeteris paribus, accerta se, senza la condotta dell’uomo, astraendo dalla condotta, pensandola assente, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato, ha fatto constatare alla Corte d’appello che l’evento non si sarebbe verificato soltanto con apprezzabile probabilità. Ed è sufficiente scorrere un dizionario per rendersi conto che ‘‘l’apprezzabile probabilità’’ è ben altro rispetto ‘‘all’alto grado di probabilità o all’elevato grado di credibilità razionale’’. Apprezzare, infatti, vuol dire valutare, stimare, fare il prezzo anche se con interesse, dove, però, non è per nulla certo che l’interesse, da uno a cento, non sia più vicino all’uno che al cento e, come questa Suprema Corte ha affermato nella citata sentenza ‘‘Baltrocchi’’, facendo propria una sottolineatura della dottrina, ‘‘un’adeguata spiegazione statistica di un singolo evento presuppone una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a cento e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina, appunto, ‘al massimo’, alla certezza’’. Né deve meravigliare — è il caso di puntualizzarlo — se la scienza, prima, la dottrina e la giurisprudenza, poi, usino esprimere in percentuale il grado di probabilità in presenza del quale è da ritenere che un evento sia riconducibile all’uomo. La certezza è, di per sé, la totalità, l’unum, e la probabilità non può essere, di per sé, la totalità, l’unum. Ma, ai fini dell’accertamento del rapporto di causalità, la probabilità è, ugualmente, causalmente attendibile se conduce logicamente nei pressi dell’unum, se consente di escludere, allo stato delle leggi di copertura, appunto, e coeteris paribus, che altre possano essere state le cause dell’evento. E può dirsi che la probabilità si collochi nei pressi dell’unum, sia quasi certezza, che non siano state altre, diverse, le cause dell’evento se la non conoscenza delle ulteriori condizioni che determinano un evento e, soprattutto, la legge di copertura siano tali da consentire di allontanarsi dall’unum non oltre una certa percentuale che viene ravvisata intorno al 90%, dato che soltanto una lettura superficiale può far giudicare eccessivo, ove si rifletta, semplicemente, sul fatto che, trasferito nei grandi numeri, il 10%, pur restando, ovviamente, tale, fa constatare dimensioni, grandezze, tali che potrebbero far legittimamente dubitare dell’esistenza del rapporto di causalità fondato sul corrispondente 90%.


— 742 — Solo percentualizzando — e le leggi statistiche, delle quali soprattutto il giudice si serve, essendo probabilistiche, sono, per natura, leggi percentualistiche — e solo dimostrando che è quello il livello di percentuale assicurato dalla legge di copertura, il giudice può dire, qualora sorgano questioni o dubbi sul grado di certezza raggiunto e, quindi, sull’uso appropriato delle espressioni alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale, di avere accertato il rapporto di causalità con alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale o, se si vuole, oltre ogni ragionevole dubbio. Queste espressioni, invece, correrebbero il grave rischio di essere usate in termini scientificamente e giuridicamente scorretti se il giudice non fosse in grado di avallarle, nel caso sorgesse questione sul punto, con quel determinato retroterra percentualistico. VI. È, però doveroso porsi il quesito se la Corte di merito abbia utilizzato l’espressione apprezzabile probabilità volendo intendere alto grado di probabilità. È da rispondere, anzitutto, che l’espressione alto grado di probabilità e l’espressione elevato grado di credibilità razionale hanno un valore tecnico o, quanto meno, convenzionale, nel senso che, usandole, si dà atto che il rapporto di causalità è stato accertato, nella fattispecie all’esame, in misura — e in una determinata misura — prossima alla certezza, con la conseguenza che l’uso di altre espressioni, come l’espressione apprezzabile probabilità, fa escludere, di per sé, che si sia raggiunto quel dato livello di certezza. È da rispondere, in secondo luogo, che è la stessa Corte d’appello che ha dimostrato di aver adoperato l’espressione apprezzabile probabilità per quella che è, cioè per probabilità senz’altro stimabile, ma lontana dalla certezza, avendo detto, appena poco prima, che ‘‘poteva ritenersi dimostrata con un elevato grado di credibilità razionale la correlazione tra gli eventi lesivi e il loro antecedente storico consistito nel permanere esposte all’asbesto le parti lese, per un cospicuo intervallo di tempo’’. Si intende dire che la Corte di merito, mentre ha ricondotto i due eventimorte alla protratta esposizione all’asbesto con un elevato grado di credibilità razionale, usando l’espressione che viene usata per porre in evidenza che la legge di copertura, pur nella sua ontologica probabilità, è fonte di probabilità seriamente credibile, nel momento in cui ha dovuto compiere l’ulteriore, imprescindibile passo, consistente nell’imputare oggettivamente agli imputati l’evento-morte, nel collegare, grazie al giudizio controfattuale, gli imputati a quell’evento, dovuto al protrarsi dell’esposizione delle vittime all’asbesto, ha detto che gli imputati erano stati causa dell’evento, non con elevato grado di probabilità, ma con apprezzabile probabilità, usando, quindi, un’espressione che, filologicamente, è radicalmente diversa dall’altra e alla diversità filologica corrisponde, come si è visto, una sostanza, un contenuto, altrettanto radicalmente diversi. VII. Deve peraltro rilevarsi che, a ben vedere, la proposizione-conclusione per ‘‘l’elevato grado di probabilità razionale’’ sul tema del rapporto tra la lunga esposizione all’asbesto e le due morti mal si concilia, sul piano logico, come hanno notato anche i ricorrenti, con le proposizioni che la precedono, proposizioni che, nella struttura della sentenza, costituiscono, rispetto a quella, le indispensabili premesse. La sentenza non nega che ‘‘vi siano statistiche sul fatto che lavoratori esposti


— 743 — anche soltanto per brevi periodi hanno comunque sviluppato il mesotelioma dopo un certo numero di anni’’; ma, aggiunge, come sottolineano i ricorrenti, che ‘‘non vi sono tuttavia dati noti che conducano ad affermare che il protrarsi dell’esposizione ad asbesto non avrebbe in nessun caso aumentato e la probabilità di sviluppare la malattia e l’anticipazione delle sue manifestazioni patologiche’’. Nei ricorsi si è correttamente osservato che non ha molto senso ammettere che è possibile che dopo brevi periodi di esposizione all’asbesto si sviluppi il mesotelioma dopo un certo numero di anni e aggiungere, subito dopo, che non vi sono dati per escludere che, per quei lavoratori, se l’esposizione si protrae, aumenti la probabilità di sviluppare la malattia: se la malattia — si oppone — si è sviluppata, è insorta dopo brevi periodi di esposizione, non ha davvero senso o valore porsi il problema se una più prolungata esposizione ne avrebbe determinato lo sviluppo, visto che sviluppo v’era già stato. Ma, prescindendo da ciò, quel che preme mettere in risalto è che la Corte parla di probabilità di sviluppo della malattia e, poco più avanti, insiste nel dire che ‘‘il perdurare dell’esposizione a sostanze mutagene non può essere privo di influenza sulla probabilità che il tumore si sviluppi o addirittura progredisca e — aggiunge — è siffatta adesione ad un modello di causazione multipla della patologia degenerativa in esame che porta il perito a concludere che, più che parlare di aggravamento di essa dopo l’innesco biologico, causato dal protrarsi dell’esposizione e penalmente rilevante, si debba, invece, più correttamente parlare di aumento delle probabilità che la patologia progredisca’’. Come può notarsi, nulla di più del semplice aumento delle probabilità che il protrarsi dell’esposizione faccia progredire la patologia e questa semplice probabilità è molto lontana sia dall’apprezzabile probabilità sulla quale la sentenza si attesta nel concludere sul tema, sia, soprattutto, da quel giudizio di elevato grado di credibilità razionale che la Corte formula nel momento in cui collega gli eventimorte — quanto meno in termini di aggravamento della malattia — alla permanente esposizione delle vittime alle polveri d’asbesto. Se le premesse sono, tutte, soltanto probabili, la conclusione, scaturente dalle stesse, non può essere espressa, sul piano logico, in termini di elevato grado di credibilità razionale, ché tra la semplice probabilità e l’elevato grado di credibilità razionale v’è tutta la differenza che corre tra l’incertezza e la pressoché certezza, ed è solo quest’ultima — va ribadito — che consente di ritenere, in termini scientificamente e giuridicamente corretti, il rapporto di causalità. (Omissis).

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La certezza del nesso causale: la lezione ‘‘antica’’ di Carrara e la lezione ‘‘moderna’’ della Corte di cassazione sull’ ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’.

1. Le lezioni dei grandi maestri non dovrebbero mai essere dimenticate. Nel 1860, Francesco Carrara scriveva: ‘‘vi sono di quelle verità che potrebbero dirsi piuttosto scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio, anziché derivare da umane convenienze o da logiche deduzioni. Una di queste verità eterne è quella che tutti


— 744 — i filosofi ripeterono, tutti i codici rispettarono, tutte le genti venerarono nell’aurea massima in dubio pro reo’’ (1). Ma la coscienza del ‘‘dito di Dio’’ spesso scompare dal cuore dell’uomo: ‘‘se avverso codesto sacrosanto presidio della umanità — ammoniva Carrara — nessuno mai osò levar parola, neppure di sospetto, avvenne però troppo sovente che per vizio logico si manomettesse il principio nella sua pratica applicazione’’. Carrara si riferiva al caso di una levatrice accusata e condannata per omicidio colposo, per non aver chiamato in tempo il chirurgo a prestare soccorso in un parto trigemino, in cui la partoriente era stata sorpresa da ‘‘una terribile emorragia già all’eiezione del primo feto’’. La condanna era stata così motivata: ‘‘si disse, in diritto, che l’imputata era in colpa perché era venuta esercitando un ufficio del quale le facevano divieto i regolamenti. Si disse, in fatto, che essa era stata causa probabile di quella morte, perché non aveva chiamato il chirurgo’’. In altre parole, ‘‘se un esperto fosse stato tempestivamente chiamato’’, la vita della partoriente sarebbe ‘‘con molta probabilità, stata salvata’’. Ed ecco le riflessioni di Carrara. L’imputata ‘‘era in colpa: ma ognuno che è in colpa dovrà egli essere responsabile di tutti gli eventi che sorgono intorno a lui? La colpa non basta a ciò, se contemporaneamente non possa, con positiva certezza, affermarsi che la colpa sia stata causa dell’evento sinistro. Nessuno, per principio assoluto di diritto penale, nessuno può essere punito per un evento del quale non sia stato cagione. [...] La essenza del delitto sta nella causa della morte, non nella morte, né nella colpa’’ (2). Orbene, si chiede Carrara, ‘‘quando il giudice dichiara tenere come probabile che la mia omissione sia stata causa della morte, ritiene come probabile che il delitto fosse commesso’’. Senonché, prosegue il grande maestro, ‘‘sente ognuno che la probabilità non è certezza; che la probabilità ammette il possibile in contrario, e che perciò il giudice che dichiara probabile il delitto nel suo materiale, ammette che possa ancora non esservi stato delitto nessuno. E se intanto condanna, ci condanna quantunque non liquido constet del corpo del delitto; e conculca così la regola più sicura del diritto penale... La L. 1, § 24, ff. ad oenatusc. — Sylarianum insegna — sciendum est, nisi constet aliquem esse occisum, non haberi quaestionem: ed è intuitivo che col solo mostrare che alcuno morì, non si mostra che fu ucciso; potendo morirsi, e tutto il giorno morendo gli uomini, senza essere uccisi’’ (3). La verità, conclude Carrara, è che ‘‘per dar plauso’’ ad una sentenza di condanna ‘‘bisogna ammettere una di queste due proposizioni: o che si possa condannare un cittadino, ancorché sia rimasto incerto se il delitto fu o no commesso, o che la probabilità e la certezza siano la stessa cosa. La prima è una bestemmia giuridica, la seconda è una bestemmia logica. [...] Finché si dice probabile una conseguenza, si ammette che possa anche non essere vera: e la sentenza che implicitamente dichiara poter essere ancora che io sia innocente, se mi condanna, accoppia con mostruosa congiunzione l’innocenza alla pena’’. A ragione può dunque dirsi ‘‘violata la L. 25C. de probationibus - Sciant cuncti accusatores (così scrissero gli imperatori Graziano e Valentiniano) eam se rem deferre in publicam notionem debere, quae sit instructa apertissimis documentis; vel indiciis ad probationem indubitatis, et luce clarioribus expedita. Ora, chi sarà che ardisca seriamente (1) CARRARA, Opuscoli di diritto criminale, 6a ed., III, Firenze, 1910, p. 53 ss. Su questa massima e sulla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, cfr. STELLA, Giustizia e modernità, 2a ed., Milano, 2002, pp. 60 ss., 332 ss. (2) CARRARA, op. cit., pp. 57, 59. (3) CARRARA, op. cit., p. 59.


— 745 — affermare che una prova, il cui ultimo risultato è una semplice probabilità, possa dirsi apertissima, e chiara più della luce?’’ (4). Morale: ‘‘la legge, la scienza e l’umanità furono manomesse col dannare alla carcere una donna della quale si ammette sia possibile l’innocenza’’. E per riparare a questa manomissione della legge, della scienza e dell’umanità, la Corte di cassazione di Firenze annullò senza rinvio ‘‘la denunziata sentenza’’ (5). E non vi erano altre alternative, per la Suprema Corte di Firenze: ‘‘Voi casserete l’ingiusta sentenza — aveva scritto Carrara nel ricorso —, me ne sono garanti i principi del diritto, che a noi tutti giornalmente si insegnano dal fonte inesausto della Vostra sapienza: me ne sono garanti gli oracoli Vostri... Voi foste così costanti nel lanciare l’anatema contro le condanne adottate a dichiarazioni perplesse od incerte, che vanità sarebbe il riporvi oggi sott’occhio le vostre parole. Chiuderò piuttosto il mio ragionamento col rammentarvi che, secondo lo spirito del sistema che ci governa, i giudici criminali nelle dichiarazioni di fatto funzionano come giurì. E vi domanderò: che cosa direbbe una corte di Francia, se dopo aver posto ai giurati la questione se consta dell’omicidio, ne ottenesse questa soluzione: sì, è molto probabile che l’uomo fosse ucciso?’’ (6). 2. La nostra Corte Suprema non ha smarrito la consapevolezza delle ‘‘massime scolpite dal dito di Dio’’, ed è oggi ‘‘costante’’ nel lanciare l’anatema contro le condanne ‘‘adottate a dichiarazioni perplesse od incerte’’. Un chiaro esempio di questo indirizzo giurisprudenziale è rappresentato proprio dalle due sentenze che qui si commentano, in cui la Cassazione ritorna ad esaminare il fondamentale problema dell’accertamento del nesso di causalità, proseguendo nell’opera di rimeditazione dell’intera tematica causale, avviata nel 1990 con la famosa pronuncia sul disastro di Stava (7). In quell’occasione, i giudici di legittimità realizzarono una vera e propria ‘‘svolta copernicana’’ (8), segnando l’inizio di una nuova stagione nella storia, tortuosa e complessa, delle pronunce della Corte regolatrice in materia di causalità. Prima di allora, vale a dire nel periodo che va all’incirca dagli anni ’50 al 1990, il paradigma dominante era quello dell’accertamento del rapporto causale affidato all’intuizione, al fiuto, all’imperscrutabile apprezzamento soggettivo del singolo giudice. È il periodo delle elaborazioni non tanto — per usare le parole di Carrara — ‘‘perplesse ed incerte’’, ma compiute, a ben vedere, nel vuoto costituito dall’assoluta mancanza di criteri oggettivi e razionali. Di conseguenza, quelle verità ‘‘che potrebbero dirsi scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio’’ ed espresse innanzi tutto dalla regola in dubio pro reo (o dell’oltre il ragionevole dubbio), restano completamente al di fuori, per quanto ciò possa risultare sorprendente, dell’orizzonte giurisprudenziale (9). Con la sentenza sul disastro di Stava, la Corte di cassazione abbandona l’orientamento consolidato per accogliere le istanze segnalate in dottrina dalla fondamentale opera di Stella del 1975, che aveva espresso la necessità di ricorrere al(4) CARRARA, op. cit., p. 63. (5) CARRARA, op. cit., p. 65. (6) CARRARA, op. cit., p. 66. (7) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, in Foro it., 1992, II, c. 36 ss. ed in Cass. pen., 1992, p. 2726 ss. Questa pronuncia è riconosciuta come paradigmatica dalla stessa Corte di cassazione, che ad essa fa esplicito riferimento nella motivazione di una delle sentenze qui esaminate: cfr. Cass., 25 settembre 2001-13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili e altri. (8) Così STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1999, sub art. 40, p. 139. (9) Per un panorama della giurisprudenza, in questo periodo, cfr. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 2a ed., Milano, 2000, pp. 39 ss., 47 ss.


— 746 — l’oggettivo sapere scientifico nell’accertamento della conditio sine qua non (10). Nell’affermare l’imprescindibilità del ricorso al modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, i giudici di legittimità stabiliscono che il processo di eliminazione mentale, attraverso il quale accertare il nesso di condizionamento, può essere condotto soltanto ‘‘facendo ricorso non ad individualizzazioni, alla ricerca, cioè, della causa caso per caso, senza riferimenti a criteri di generalizzazioni, sibbene, in ossequio al principio di stretta legalità o tassatività, facendo ricorso al modello, generalizzante, della sussunzione sotto leggi scientifiche’’. In base a questo schema, come ben precisa la Corte, ‘‘prima viene in considerazione una legge, come tale costruita su generalizzazioni (comportamenti-tipo, situazioni-tipo, conseguenze-tipo), poi si controlla se il singolo comportamento storico, la singola situazione storica, possono essere inseriti nello schema previamente ottenuto’’. Di conseguenza, un determinato comportamento (X) potrà essere considerato la causa di un determinato evento (Y) ‘‘solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica — la cosiddetta legge generale di copertura — portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto’’ (11). Ma la portata della pronuncia sul disastro di Stava non si esaurisce in queste affermazioni. La Suprema Corte, infatti, si sofferma nell’analisi della distinzione tra leggi universali e leggi statistiche, dedicando importanti riflessioni anche all’inevitabilità delle assunzioni tacite (12) e ai fondamentali concetti di probabilità logica e credibilità razionale (13). Per quanto riguarda, in particolare, le leggi di copertura utilizzabili da parte del giudice penale, la Corte regolatrice sottolinea che ‘‘queste sono sia le leggi universali, che sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento, sia le leggi statistiche, che si limitano invece ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento soltanto in una certa percentuale di casi, con la conseguenza che queste ultime sono tanto più dotate di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili’’ (14). (10) Cfr. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, in questa Rivista, 1988, p. 1217 ss., entrambi i lavori oggi in ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit.; ID., Rapporto di causalità (voce), in Enc. giur., v. XV, 1991; ID., in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 132 ss.; ID., Clinica medica e processo penale: la spiegazione causale di singole malattie, in Riv. it. med. leg., 1999, p. 475 ss. (11) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit., c. 45. (12) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit., c. 45. Il tema delle ‘‘assunzioni tacite’’ costituisce uno dei pilastri che consentono alla Corte di affermare la ‘‘struttura probabilistica della spiegazione causale’’, sulla scia delle riflessioni svolte da STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 280 ss., il quale osserva che ‘‘oggi gli scienziati ne sanno molto più di quanto sapessero cent’anni fa, e molto meno di quanto sapranno fra mille anni. Ora, una spiegazione vera, col requisito della certezza, dovrebbe far riferimento al sistema completo delle leggi della scienza (cioè a quelle che conosceremo tra mille anni), e dovrebbe altresì far riferimento a tutte le c.d. condizioni iniziali, cioè a tutte le situazioni di fatto, sussumibili sotto quel sistema di leggi, condizioni oggi non conosciute e non conoscibili. Ecco la ragione dell’assunzione tacita di leggi scientifiche e condizioni iniziali che caratterizza ogni spiegazione di eventi singoli, ed ecco il significato dell’espressione ‘‘struttura probabilistica della spiegazione causale’’ (così STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 332). (13) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit. c. 45 ss. Sulla distinzione tra probabilità logica e probabilità statistica si veda ampiamente STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 366 ss. e la letteratura ivi citata. Sull’argomento cfr. anche l’importante contributo di AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in questa Rivista, 1999, p. 400 ss. (14) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit., c. 45. La Corte, con queste affermazioni, dimostra di avere piena consapevolezza della distinzione tra il modello di spiegazione nomologico-deduttivo e


— 747 — Infatti, come osserva la stessa Corte, l’impiego delle leggi statistiche nella spiegazione causale, da parte del giudice penale, ‘‘è più che legittimo, perché il modello della sussunzione sotto leggi in campo penale sottintende, il più delle volte, il distacco da una spiegazione causale deduttiva, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti’’. Sulla base di queste considerazioni, i giudici di legittimità possono allora formulare il nuovo orientamento da seguire nell’interpretazione dell’art. 40 c.p.: ‘‘il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche — ove non disponga di leggi universali — dirà che è probabile che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell’evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità’’ (15). 3. La ‘‘svolta copernicana’’ realizzata dalla sentenza sul disastro di Stava ha costituito, per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 40 c.p., un modello al quale la giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, non ha tardato ad uniformarsi. Negli anni che vanno dal 1990 al 2000, infatti, una serie ininterrotta di pronunce giurisdizionali ha definitivamente sancito l’inammissibilità delle sentenze di condanna non sorrette da una rigorosa ricostruzione scientifica del nesso di causalità (16). Questa seconda stagione della giurisprudenza italiana sul tema causale ha segnato un indubbio passo in avanti per la riaffermazione di quelle ‘‘verità eterne, scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio’’, di cui parlava Carrara. Ciononostante, alcune importanti questioni sono rimaste fondamentalmente irrisolte ancora per diversi anni, come non ha mancato di rimarcare, accogliendo le osservazioni di Stella, la stessa Corte di cassazione, ritornando sull’argomento in tre ‘‘rivoluzionarie sentenze’’ emanate sul finire del 2000 (17). La pronuncia sul disastro di Stava, infatti, non aveva affrontato esplicitamente due spinosi problemi: da un lato, non aveva precisato il coefficiente percentualistico necessario per poter attribuire ad una legge scientifica la patente di utilizzabilità nel processo penale; dall’altro, non si era espressa sull’applicabilità delle conclusioni raggiunte, pacifiche per quanto riguarda la causalità attiva, anche sul terreno della causalità omissiva. Intervenendo su questi due profili, la Suprema Corte ha dato inizio ad una terza fase della sua elaborazione in materia di causalità, che si presenta come la prosecuzione ‘‘moderna’’ della ‘‘lezione antica’’ di Carrara, e che trova la sua punta più avanzata proprio nelle due sentenze che qui si commentano (18). Per quanto riguarda la dicotomia tra la causalità attiva e la causalità omisquello statistico-induttivo, su cui STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 380 ss., nonché, con ulteriori approfondimenti, ID., Giustizia e modernità, cit., p. 332 ss. Peraltro, va segnalato come la Corte incorra in un fraintendimento, poiché confonde il concetto di potere esplicativo di una legge con quello della validità scientifica della legge stessa: per questi rilievi, cfr., approfonditamente, STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 216 ss. (15) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit., c. 45. (16) Una rassegna delle sentenze più significative dell’ultimo decennio può essere letta nella postfazione alla 2a edizione di STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 415 ss. (17) Cass., 28 settembre 2000, n. 1688, ric. Baltrocchi; Cass., 29 novembre 2000 n. 2139, ric. Musto; Cass., 28 novembre 2000, n. 2123, ric. Di Cintio, con nota di CENTONZE, Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità, tutte pubblicate in questa Rivista, 2001, p. 277 ss. (18) La possibilità di individuare tre fasi distinte, nella giurisprudenza della Suprema Corte sul tema della causalità, è evidenziata a chiare lettere da STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, sub art. 40, 4a ed., di prossima pubblicazione.


— 748 — siva, è noto come la dottrina maggioritaria ritenga che essa sia caratterizzata da una fondamentale ed insuperabile differenza: solo nei reati commissivi sarebbe possibile individuare un nesso di condizionamento reale tra entità tangibili del mondo esterno (vale a dire l’azione dell’uomo e l’evento concretamente verificatosi), mentre nei reati omissivi non sarebbe ravvisabile un impiego di forze e di energie materiali (19). Questa radicale diversità non potrebbe non riflettersi, secondo questi autori, sul criterio attraverso il quale accertare la sussistenza del nesso causale: in particolare, l’accertamento assumerebbe un valore ipotetico e prognostico, relativo al modo in cui l’azione doverosa e omessa avrebbe potuto, se compiuta, scongiurare l’evento lesivo. Per effettuare questa verifica, al giudice non resterebbe che ricorrere ad un giudizio controfattuale, diversamente da quanto sarebbe richiesto per l’accertamento della causalità attiva (20). La conclusione da trarre, partendo dalle premesse appena illustrate, sarebbe allora la seguente: nell’accertare il rapporto di causalità tra omissione ed evento, non sarebbe possibile ‘‘raggiungere lo stesso livello di rigore’’ conseguibile, viceversa, nella verifica della causalità attiva (21). Fino alle richiamate sentenze emanate nell’anno 2000, che hanno segnato l’inizio del terzo periodo della riflessione della Suprema Corte in materia di causalità, le suggestioni derivanti dall’indirizzo dottrinale appena illustrato si sono però rivelate una fonte di grave incertezza per la giurisprudenza. Soprattutto sul terreno dell’attività medico-chirurgica (22) e su quello della prevenzione delle malattie professionali (23), si è infatti assistito alla progressiva affermazione di ben quattro orientamenti giurisprudenziali diversi, che non hanno fatto altro che aumentare la confusione già esistente sul tema del nesso di condizionamento tra omissione ed evento lesivo. Seguendo una prima impostazione, caratterizzata da una vera e propria ‘‘volatilizzazione’’ del nesso di condizionamento (24), alcune sentenze hanno affermato l’esistenza del rapporto di causalità sulla base della semplice esistenza di una posizione di garanzia, determinando così una sostanziale elusione dello spinoso problema relativo alla prova del nesso causale (25). Un secondo filone giurisprudenziale, invece, si è orientato verso il criterio della possibilità o della probabilità, delineando una gamma di soluzioni talmente vasta da risultare quanto meno sorprendente: in alcuni casi ci si è accontentati, (19) Con diversità di sfumature si richiamano a questa conclusione GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 384 ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 4a ed., 2001, p. 162 ss.; FIANDACA, Causalità (rapporto di), in Dig. disc. pen., 1988, v. III, p. 126 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 4a ed., 2001, p. 564 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 7a ed., 2000, p. 361 ss.; CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 2a ed., 1995, v. II, p. 82 ss.; PADOVANI, Diritto penale, 6a ed., 2002, p. 123 ss. (20) GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 387. (21) FIANDACA, Causalità (rapporto di), cit., p. 127. (22) Cfr. STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 144 ss.; PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 821 ss.; FIORI, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 1999, p. 598 ss.; PARODI-NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Torino, 1996, p. 172 ss.; BARNI, Il giudizio medico-legale della condotta sanitaria omissiva, in Riv. it. med. leg., 1994, p. 3 ss.; ID., Dalla valorizzazione scientifica alla vaporizzazione giurisprudenziale del nesso causale, ivi, 1995, p. 1021 ss.; ID., Consulenza medico-legale e responsabilità medica, Milano, 2002, con Prefazione di STELLA, La costruzione giuridica della scienza medica: la medicina legale. (23) GUARINIELLO, Sicurezza del lavoro e Corte di cassazione. Il repertorio, 1988-1994, Milano, 1994, p. 204, su cui v. STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 144 ss.; ID., Giustizia e modernità, cit., p. 218 ss. (24) PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, cit., p. 848. (25) Cfr. Cass., 5 maggio 1987, ric. Bondioli, in Cass. pen., 1988, p. 839 ss.; Cass., 7 novembre 1988, ric. Servadio, in Riv. pen., 1989, p. 1147 ss.


— 749 — per affermare l’esistenza del rapporto causale, anche di ‘‘poche probabilità di successo dell’azione doverosa’’, mentre in altre occasioni si è richiesta una ‘‘seria ed apprezzabile possibilità di successo’’ della condotta omessa (26). All’interno di questo secondo orientamento vanno poi ricondotte quelle pronunce in cui, per considerare accertato il nesso di condizionamento, si è ritenuto di dover quantificare il coefficiente di probabilità di impedimento dell’evento lesivo, ottenibile con l’azione dovuta e non eseguita. Anche in questo caso la giurisprudenza ha mostrato con chiarezza il suo disorientamento, ritenendo sufficiente, in alcune situazioni, un tasso di probabilità pari al 30%, e richiedendo invece, in altre occasioni, un coefficiente vicino almeno al 70-80% (27). Ad aumentare l’incertezza hanno poi contribuito anche gli altri due indirizzi fatti propri, in alcune circostanze, dai giudici di legittimità. Per completare il panorama appena delineato, infatti, bisogna tenere conto anche delle pronunce in cui è stata richiesta la certezza del nesso di causalità tra l’omissione e l’evento (28), nonché delle sentenze che hanno fatto ricorso al criterio dell’aumento del rischio, ritenendo sussistente il legame causale già quando l’omissione abbia ‘‘rappresentato una condicio senza la quale la probabilità naturale di quell’evento sarebbe rimasta ad un livello tanto basso da rendere molto poco probabile o addirittura quasi improbabile il verificarsi dell’evento’’ (29). Di fronte ad un quadro giurisprudenziale così gravemente frastagliato, la Suprema Corte ha opportunamente deciso di affrontare compiutamente anche il tema della causalità dell’omissione, portando così a compimento la ‘‘svolta copernicana’’ già realizzata sul terreno della causalità attiva. Con l’emanazione delle citate sentenze pronunciate sul finire del 2000, la Corte regolatrice ha infatti ribaltato il modo stesso d’intendere la natura dell’omissione, respingendo proprio la ricostruzione della causalità omissiva come ‘‘mera’’ causalità ipotetica. Richiamandosi, ancora una volta, all’elaborazione sviluppata da Stella, e dopo aver dato conto dell’impostazione tradizionalmente seguita dalla dottrina, i giudici di legittimità affermano che la causalità omissiva, lungi dall’essere causalità ipotetica, è a tutti gli effetti causalità reale, poiché ‘‘in una visione moderna della causalità, le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze o energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici [...] con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l’omissione, il non fare, ché una condizione statica è pur sempre una condizione’’ (30). Compiuto questo fondamentale passo nella direzione indicata da alcuni tra i (26) Cfr. Cass., 12 maggio 1983, ric. Melis, in Foro it., 1986, II, c. 351 ss.; Cass., 12 maggio 1989, ric. Prinzivalli, in Riv. pen., 1990, p. 119 ss.; Cass., 7 luglio 1993, ric. De Giovanni, in Giust. pen., 1994, II, c. 269 ss. (27) Cfr. Cass., 12 giugno 1991, ric. Silvestri, in Riv. pen., 1992, p. 454 ss.; Cass., 10 luglio 1987, ivi, 1988, p. 91, citate da STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 145. (28) Cfr. App. Roma, 9 novembre 1985, imp. Patriarca, in Riv. it. med. leg., 1987, p. 611 ss.; Cass., 2 marzo 1990, ric. Papini, in Cass. pen., 1991, p. 1826 ss. (29) Cfr. Pretura di Torino, 9 febbraio 1995, imp. Barbotto Beraud, in Foro it., 1996, II, c. 107 ss.; App. Torino, 15 ottobre 1996, imp. Barbotto Beraud, in questa Rivista, 1997, p. 1448 ss.; Pretura di Padova, 3 giugno 1998, imp. Macola, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, p. 720 ss.; Cass., 2 luglio 1999, n. 12333, ric. Giannitrapani, in Foro it., 2000, c. 260 ss., tutte riportate da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 211 ss. ed ivi ulteriori riferimenti. (30) Cass., 28 settembre 2000, n. 1688, ric. Baltrocchi, in questa Rivista, con nota di CENTONZE, cit., p. 279. La conclusione della Corte, frutto dell’insegnamento del filosofo CARNAP, riprende testualmente le parole di STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., pp. 143144; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, cit., p. 1249. Sulla scia di STELLA, analoghe osservazioni sono svolte da ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., 2a ed., 1995, sub art. 40,


— 750 — più grandi filosofi della scienza (31), la Corte Suprema non esita a trarre tutte le conclusioni che derivano dall’impostazione prescelta. Se, infatti, ‘‘anche il non fare deve considerarsi causale quando risulti che, senza lo stato della persona costituito dal non compiere l’azione dovuta, l’evento lesivo non si sarebbe verificato’’, viene allora meno ogni appiglio per continuare a sostenere la diversità strutturale tra la causalità attiva e quella omissiva. Consapevole dell’inevitabilità di tale risultato, la Corte può allora affermare che ‘‘il procedimento utilizzato per stabilire se l’omissione è condizione statica necessaria non è diverso, ma è identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell’azione’’. In particolare, è ‘‘identico l’oggetto della spiegazione: un evento del passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all’oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l’evento lesivo ad una serie di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico, perciò, il carattere probabilistico dell’enunciato esplicativo’’ (32). 4. Tra i risultati raggiunti dalla Corte regolatrice durante il terzo periodo della sua giurisprudenza in tema di causalità non va annoverato, peraltro, soltanto il superamento della presunta diversità strutturale tra la causalità attiva e quella omissiva. I giudici di legittimità, infatti, hanno affrontato anche il problema relativo al coefficiente percentualistico necessario per considerare accettabile, ai fini della spiegazione richiesta nel processo penale, una determinata legge scientifica di forma statistica. La sentenza sul disastro di Stava, infatti, non aveva indicato esplicitamente uno specifico tasso percentuale, limitandosi a raccomandare l’impiego di leggi capaci di ‘‘trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili’’ (33). Ricorrendo a questa formula, dunque, la Corte di cassazione aveva deciso di non individuare un parametro quantitativo rigoroso, sebbene, come osserva opportunamente Stella, si potesse ‘‘agevolmente desumere, dal tenore complessivo delle argomentazioni impiegate nella motivazione, che l’espressione numero sufficientemente alto di casi’’ si sarebbe dovuta intendere come ‘‘indicativa di un coefficiente quanto più possibile vicino al 100%’’ (34). Eppure, a dispetto dell’inequivocabile indicazione di contenuto fornita dalla Corte regolatrice, una numerosa giurisprudenza di merito ha continuato, per lungo tempo, a non recepirne le conclusioni: pur mantenendosi apparentemente p. 350, nonché da PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, cit., p. 839. (31) CARNAP, I fondamenti filosofici della fisica, trad. it., Milano, 1971, p. 235 ss., le cui riflessioni costituiscono la base della elaborazione di STELLA. (32) Cass., 28 settembre 2000, n. 1688, ric. Baltrocchi, in questa Rivista, con nota di CENTONZE, cit., p. 279; STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 144; ID., La nozione penalmente rilevante di causa, p. 1255. Concordano con l’impostazione illustrata ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., 2a ed., sub art. 40, p. 350, il quale afferma che, nonostante ‘‘l’innegabile diversità della condizione iniziale’’, l’accertamento del nesso causale nei reati omissivi si conforma alle ‘‘medesime regole fondamentali viste per la causalità attiva’’, e PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, cit., p. 839 ss., che tuttavia mette in luce, quale parziale distinzione, il fatto che ‘‘la formula euristica della causalità omissiva è doppiamente ipotetica’’. (33) Cass., 6 dicembre 1990, ric. Bonetti, cit., c. 45. (34) Così STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, sub art. 40, 4a ed., di prossima pubblicazione.


— 751 — fedele al nuovo indirizzo adottato dal Supremo Collegio, infatti, la citata giurisprudenza ne ha tradito le motivazioni più profonde, riuscendo a sterilizzarne completamente la dirompente portata innovativa (35). Il risultato di questo travisamento interpretativo si è allora manifestato in una moltitudine di sentenze in cui si è affermata l’esistenza di elevate o addirittura elevatissime percentuali — e quindi del nesso di causalità — senza però aggiungere, come sarebbe stato doveroso, che si trattava di percentuali comunque lontanissime dal 100%, e quindi insufficienti, alla luce della giurisprudenza di Stava, per giustificare una pronuncia di condanna (36). In questa situazione, era inevitabile che la Corte Suprema ritornasse ad affrontare l’argomento, come infatti è puntualmente avvenuto con le sentenze che hanno inaugurato il terzo periodo della giurisprudenza della Cassazione in tema di causalità. In quelle pronunce, la Corte regolatrice prende con decisione le distanze dagli espedienti adoperati per emanare delle condanne ‘‘a dichiarazioni perplesse od incerte’’, e stabilisce con chiarezza che ‘‘in tanto il giudice può affermare che un’azione od un’omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o di una proposizione scientifica che enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento’’ (37). Facendo proprie le conclusioni raggiunte dal pensiero epistemologico contemporaneo, la Suprema Corte specifica poi che ‘‘il problema del significato da attribuire all’espressione con alto grado di probabilità [...] non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il significato, appunto, che le attribuisce la scienza, e prima ancora la logica, cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirle il diritto’’: di conseguenza, ‘‘si può dire che una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con coefficiente percentualistico vicino a 100, e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo alla certezza’’ (38). Con queste affermazioni, che fanno definitivamente giustizia delle varie interpretazioni del nesso di causalità in termini di possibilità, di seria o apprezzabile probabilità, di aumento del rischio, la Corte regolatrice ha dimostrato di non aver dimenticato la grande lezione di Carrara, e di nutrire ancora grande rispetto per le massime ‘‘scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio’’. Ancora tre aspetti, peraltro, aspettavano di essere ulteriormente chiariti: in primo luogo, era necessario sciogliere i dubbi relativi all’effettivo raggio di applicazione delle conclusioni raggiunte dalla Cassazione, che erano state enunciate, con le sentenze del 2000, sempre in relazione ad eventi lesivi a seguito di trattamenti medico-chirurgici colposamente omessi; secondariamente, restava da quantificare con precisione il concetto di coefficiente percentualistico vicino a 100, per evitare ulteriori fraintendimenti ed inaccettabili manipolazioni interpretative; infine, bisognava ancorare la nuova interpretazione della causalità omissiva ad una regola ancora più salda della semplice esigenza di salvaguardia dei principi di le(35) Per una rapida panoramica su questa giurisprudenza, si rinvia alle pronunce citate alle note 26 e 27 e all’esame compiuto da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 211 ss. (36) Cfr., sul punto, l’approfondita analisi di STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 216 ss. (37) Cass., 28 settembre 2000, n. 1688, ric. Baltrocchi, in questa Rivista, con nota di CENTONZE, cit., p. 280. Ancora una volta, la Corte riprende in toto le parole di STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 143. Sul tema della spiegazione degli eventi, le stesse conclusioni possono essere lette in STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 332 ss., che riporta il pensiero di alcuni tra i più autorevoli filosofi della scienza (HEMPEL, POPPER, NAGEL, JEFFREY, SALMON, AGAZZI, PASQUINELLI, ANTISERI, STEGMÜLLER). (38) Cass., 28 settembre 2000, n. 1688, ric. Baltrocchi, in questa Rivista, con nota di CENTONZE, cit., pp. 280-281.


— 752 — galità e tassatività, in modo da poter scongiurare, una volta per tutte, il rischio di inammissibili condanne di innocenti. 5. Con le due sentenze che qui si commentano, la Suprema Corte ha provveduto a fare luce su questi angoli ancora bui, chiudendo il cerchio della riflessione sull’art. 40 c.p. anche sul terreno della causalità omissiva. Le pronunce in esame, infatti, costituiscono l’espressione più avanzata di un orientamento che può ritenersi ormai consolidato, considerando la frequenza e la linearità con cui, negli ultimi due anni, il Supremo organo giurisdizionale ha ribadito la propria opinione (39). L’insegnamento della Cassazione, è bene chiarirlo fin da subito, riveste ormai una portata di carattere generale: dopo averlo elaborato in una serie di fattispecie relative ad omissioni in campo medico, il Supremo Collegio lo ha applicato anche in contesti tutt’affatto diversi, come l’omissione di cautele volte a prevenire gli infortuni sul lavoro, o l’insorgenza di malattie professionali dovute all’esposizione a sostanze tossiche (40). Si tratta di settori che catalizzano enormi attese di giustizia, le quali però corrono il rischio, se affrontate con strumenti inadeguati, di restare gravemente frustrate. E l’inadeguatezza del diritto penale, di fronte a tematiche contraddistinte ancora da una sostanziale incertezza scientifica, emerge con chiarezza non appena ci si opponga, come fa la Corte Suprema, ai ‘‘tentativi di flessibilizzazione’’ dello schema classico del diritto penale d’evento e della causalità individuale (41). In quest’ottica, le pronunce che qui si analizzano costituiscono un chiaro esempio dell’atteggiamento fatto proprio dalla Corte regolatrice, che ribadisce come ‘‘il giudice penale deve accertare il fatto, contestato come reato, in termini di assoluta certezza, il che non significa, ovviamente, che il giudice deve essere scientificamente, sperimentalmente certo che il fatto si è verificato in un determinato modo’’. La Corte, come si vede, non cade nella pretesa utopistica di richiedere una certezza sperimentale, ma si dimostra consapevole, richiamandosi ancora alle conclusioni di Stella, del fatto che ‘‘neppure la scienza conosce certezze, ma soltanto probabilità confinanti con la certezza, sicché di elevata probabilità può parlarsi soltanto se la si intende come probabilità confinante con la certezza’’ (42). Con questa precisazione, può allora comprendersi fino in fondo il monito con cui la Suprema Corte, per evitare fraintendimenti sul concetto di probabilità, richiama i giudici alla necessità di ‘‘pervenire ad una ricostruzione logica in termini di certezza’’. Pur essendo consapevole che ‘‘la certezza è, di per sé, la totalità, l’unum, e la probabilità non può essere, di per sé, la totalità, l’unum’’, la Corte ricorda, infatti, che ‘‘ai fini dell’accertamento del rapporto di causalità, la probabilità è, ugualmente, causalmente attendibile se conduce logicamente nei pressi del(39) In aggiunta alle già citate Cass., 28 settembre 2000, n. 1688, ric. Baltrocchi; Cass., 29 novembre 2000, n. 2139, ric. Musto; Cass., 28 novembre 2000, n. 2123, ric. Di Cintio, si vedano anche Cass., 6 febbraio 2001, n. 683, ric. Camposano; Cass., 18 ottobre 2001, n. 37629, ric. Pacini, in Riv. pen., 2002, p. 135 ss.; Cass., 27 novembre 2001, n. 1957, ric. Mirenghi; Cass., 16 gennaio 2002, n. 1586, ric. Ambrosio, in Dir. e giust., 7, p. 22 ss. (40) Oltre alle due sentenze che qui si commentano, relative proprio ad un caso di infortunio sul lavoro (Cass., 16 gennaio 2002, n. 1585, ric. Sgarbi) e ad una fattispecie di malattia professionale da esposizione a sostanze tossiche (Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili), anche Cass., 6 febbraio 2001, n. 683, ric. Camposano, afferma gli stessi principi in un contesto estraneo a quello della responsabilità medica. (41) Cfr., sul tema, le penetranti pagine di STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 185 ss. (42) Cass., 16 gennaio 2002, n. 1585, ric. Sgarbi; STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 341 ss.; ID., in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 137.


— 753 — l’unum, se consente di escludere, allo stato delle leggi di copertura e coeteris paribus, che altre possano essere state le cause dell’evento’’ (43). Anche per la causalità omissiva, dunque, resta confermato il principio secondo cui la nozione penalmente rilevante di causa è quella della condizione contingentemente necessaria: ‘‘i giudizi del giudice — scrive la Corte nella seconda sentenza (ric. Covili) — sono, per loro natura induttivi e non deduttivi, e ciò proprio perché, per un verso, il giudice non è in grado di conoscere la totalità delle condizioni di un evento e, per altro verso, le leggi di cui si avvale, specialmente le leggi statistiche, sono ontologicamente probabilistiche’’. Il ricorso ai giudizi induttivi, peraltro, non inficia in alcun modo la bontà della spiegazione: il giudice può avvalersene, ‘‘per concludere per l’esistenza del nesso causale — e in termini non meno logicamente corretti che se potesse avvalersi di giudizi deduttivi — alla condizione, però, che conducano all’alto grado di credibilità razionale, cioè alla quasi certezza’’ (44). Se questa affermazione può essere senz’altro condivisa, è però opportuno precisare, sulla scia delle considerazioni formulate da Stella, che tutti i più insigni studiosi di epistemologia sono concordi nel ritenere che non siano disponibili, al di fuori di contesti particolari come quelli della meccanica quantistica e del decadimento radioattivo, esempi di leggi statistiche che ‘‘garantendo la pratica certezza, siano utilizzabili nella vita quotidiana o in un processo penale’’ (45); di conseguenza, per dimostrare la causalità individuale ed evitare ogni rischio di condanne di innocenti, il giudice penale può fare ricorso, in pratica, soltanto alle leggi universali (46). Anche alla luce di questa puntualizzazione, dopo aver ribadito la necessità di pervenire a spiegazioni che assicurino la pratica certezza, i giudici di legittimità possono allora precisare che se per elevata probabilità si intende, invece, probabilità ‘‘al 70%, all’80% o anche al 90% [...] il fatto non può ritenersi accertato, sicché la sentenza che lo ritenesse accertato non potrebbe non essere annullata per difetto di motivazione o, se si vuole, per illogicità manifesta, perché darebbe per accertato ciò che, alle condizioni date, non può dirsi che lo sia’’ (47). Non rimane perciò alcuna possibilità, dopo questa limpida affermazione, per quelle sentenze che hanno contrabbandato, quale numero sufficientemente alto di casi, anche delle percentuali del 30% o attorno al 70-80%. E per chiarire ancora meglio il proprio pensiero, la Corte regolatrice rincara ulteriormente la dose: un coefficiente percentualistico del 90% è un ‘‘dato che solo una lettura superficiale (43) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili; STELLA, in CRESPI, STELLA, ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, cit., p. 145; AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), cit., p. 402. (44) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili; STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 370 ss. (45) Così STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 337 ss. (46) Diversa questione, come rileva STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 338, è quella della probabilità logica, che attiene al grado di affidabilità razionale di un’ipotesi scientifica e dipende tanto dal grado di conferma (secondo il modello di HEMPEL) quanto da quello di corroborazione (legato, secondo il modello di POPPER, ai tentativi di falsificazione effettuati) dell’ipotesi stessa. Solo se la probabilità logica di una legge (universale) della scienza è molto elevata, se ne può accettare l’impiego nel processo penale: la perenne fallibilità della scienza, infatti, implica sempre un certo rischio che le sentenze di condanna si rivelino, con l’incremento della conoscenza scientifica, delle condanne adottate ‘‘a dichiarazioni perplesse o incerte’’. Sulla base di queste riflessioni, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha fornito, nella celebre sentenza Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 U.S. 579, 113 S.Ct. 2786, 125 L.Ed.2d469 (1993), un ‘‘saggio eccellente di costruzione giuridica del sapere scientifico’’, enunciando la regola secondo cui ‘‘il giudice deve considerare affidabili solo le ipotesi scientifiche che abbiano ricevuto il grado di conferma richiesto dalla concezione induttivistica del metodo scientifico e che, per di più, posseggano i requisiti illustrati dalla concezione falsificazionista, eventualmente integrati dal consenso generale’’ della comunità scientifica (così STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 351). (47) Cass., 16 gennaio 2002, n. 1585, ric. Sgarbi.


— 754 — può far giudicare eccessivo’’, e per convincersene basta riflettere ‘‘semplicemente, sul fatto che, trasferito nei grandi numeri, il 10%, pur restando, ovviamente, tale, fa constatare dimensioni, grandezze tali che potrebbero far legittimamente dubitare dell’esistenza del rapporto di causalità fondato sul corrispondente 90%’’ (48): di conseguenza, neanche una probabilità del 90% può bastare per affermare la sussistenza del nesso di condizionamento. Vale la pena di notare che questo criterio di quantificazione probabilistica, finalmente rispettoso del richiamo di Carrara a ‘‘non accoppiare con mostruosa congiunzione l’innocenza alla pena’’, consente alla giurisprudenza della Suprema Corte di porsi sullo stesso livello raggiunto dalla giurisprudenza e dalla dottrina dei Paesi di common law. Se per la Cassazione non è sufficiente, per affermare l’esistenza del nesso di condizionamento, neppure un coefficiente percentualistico del 90%, secondo gli studiosi americani ‘‘c’è qualcosa di intimamente immorale nel condannare un uomo quale criminale’’ sulla base di una probabilità di colpevolezza del 95% (49). Con questo ulteriore chiarimento, la Suprema Corte può allora prendere definitivamente le distanze da quella giurisprudenza che si era accontentata del raggiungimento di una seria, apprezzabile probabilità: ‘‘è sufficiente scorrere un dizionario — scrive la Corte — per rendersi conto che l’apprezzabile probabilità è ben altro rispetto all’alto grado di probabilità o all’elevato grado di credibilità razionale. Apprezzare, infatti, vuol dire valutare, stimare, fare il prezzo anche se con interesse, dove, però, non è per nulla certo, che l’interesse, da uno a cento, non sia più vicino all’uno che al cento’’ (50). Anche alla giurisprudenza attestatasi sul criterio dell’aumento del rischio non spetta, nell’ottica adottata dal Supremo Collegio, miglior sorte. Nella sentenza del 13 febbraio 2002 (ric. Covili), pronunciata in una fattispecie relativa alla morte per mesotelioma pleurico di due lavoratori esposti all’asbesto, la Corte regolatrice stigmatizza l’interpretazione fornita dai giudici di merito, dichiarando l’inettitudine, ai fini dell’affermazione del nesso causale, del semplice incremento delle probabilità di sviluppo o progressione della patologia (51). Riportando le parole dell’impugnata sentenza d’appello, la Corte osserva che essa ‘‘non nega che ‘vi siano statistiche sul fatto che lavoratori esposti anche soltanto per brevi periodi hanno comunque sviluppato il mesotelioma dopo un certo numero di anni’; ma aggiunge che ‘non vi sono, tuttavia, dati noti che conducano ad affermare che il protrarsi dell’esposizione all’asbesto non avrebbe in nessun caso (48) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili. (49) TRIBE, Trial by Mathematics: Precision and ritual in the Legal process, in Harvard Law Review, 1971, p. 1372, citato da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 308 ss. Nel celebre articolo dello studioso americano si legge che ‘‘c’è qualcosa di intimamente immorale nel condannare un uomo quale criminale dicendo a sé stessi, nello stesso tempo, ‘credo che ci sia una possibilità su venti che quest’imputato sia innocente, ma il rischio di sacrificare erroneamente costui in un caso su venti è un rischio che sono disposto a correre nell’interesse della pubblica — nonché della mia stessa — sicurezza’ ’’. Come osserva TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 309, lo scritto di TRIBE è una critica a FINKELSTEINFAIRLEY, A Bayesian Approach to Identification Evidence, ivi, 1970, p. 484 ss., ed innesca un dibattito di notevole interesse, per il quale v. anche FINKELSTEIN-FAIRLEY, A Comment on Trial by Mathematics, ivi, 1971, p. 1801 ss., e TRIBE, A Further Critique on Mathematical Proof, ivi, 1971, p. 1810 ss. Sulla teoria bayesiana della probabilità e sul suo influsso sulla teoria delle prove, cfr. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 171 ss.; STELLA, Giustizia e modernità, cit., pp. 161 ss., 305 ss.; nonché la recentissima opera di FROSINI, Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano, 2002, p. 105 ss. (50) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili. (51) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili. La Corte ribalta, con questa pronuncia, l’indirizzo sostenuto in Cass., 2 luglio 1999, n. 12333, ric. Giannitrapani, cit., in cui si affermava che ‘‘in tema di malattie professionali, [...] affinché sussista il rapporto eziologico, è sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea a produrre la malattia, da cui consegue l’evento’’. Per un approfondito esame critico di questa pronuncia si veda STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 210 ss.


— 755 — aumentato e la probabilità di sviluppare la malattia e l’anticipazione delle sue manifestazioni patologiche’ ’’. Di fronte a queste affermazioni, arrivano puntuali le critiche dei giudici di legittimità, che rimarcano come ‘‘non ha molto senso ammettere che è possibile che, dopo brevi periodi di esposizione all’asbesto, si sviluppi il mesotelioma dopo un certo numero di anni e aggiungere, subito dopo, che non vi sono dati per escludere che, per quei lavoratori, se l’esposizione si protrae, aumenti la probabilità di sviluppare la malattia’’. Infatti, se la malattia ‘‘si è sviluppata, è insorta dopo brevi periodi di esposizione, non ha davvero senso o valore porsi il problema se una più prolungata esposizione ne avrebbe determinato lo sviluppo, visto che sviluppo v’era già stato’’ (52). Anche per la possibilità di progressione della patologia, poi, il Supremo Collegio dichiara l’insufficienza del mero aumento delle probabilità: approfondendo l’esame della sentenza di secondo grado, la Corte rileva come in essa si ‘‘insiste nel dire che ‘il perdurare dell’esposizione a sostanze mutagene non può essere privo di influenza sulla probabilità che il tumore si sviluppi o addirittura progredisca’ ’’, sicché, più che parlare di aggravamento della patologia ‘‘dopo l’innesco biologico, causato dal protrarsi dell’esposizione e penalmente rilevante, si dovrebbe, più correttamente, parlare di aumento delle probabilità che la patologia progredisca’’. Ancora una volta, le censure della Suprema Corte portano allo scoperto i vizi insiti in questo tipo d’impostazione: la sentenza impugnata, rileva giustamente la Corte, non adduce ‘‘nulla di più del semplice aumento delle probabilità che il protrarsi dell’esposizione faccia progredire la patologia, e questa semplice probabilità è molto lontana sia dall’apprezzabile probabilità, sulla quale la sentenza si attesta nel concludere sul tema’’, sia, soprattutto, da quel coefficiente percentualistico vicinissimo al 100% che consente di concludere per la sussistenza del nesso di condizionamento. ‘‘Se le premesse — prosegue la Corte — sono, tutte soltanto probabili, la conclusione scaturente dalle stesse non può essere espressa, sul piano logico, in termini di elevato grado di credibilità razionale, poiché tra la semplice probabilità e l’elevato grado di credibilità razionale v’è tutta la differenza che corre tra l’incertezza e la pressoché certezza, ed è solo quest’ultima [...] che consente di ritenere, in termini scientificamente e giuridicamente corretti, il rapporto di causalità’’ (53). 6. L’insegnamento fornito dalla Suprema Corte, sul terreno della causalità omissiva, basterebbe senz’altro a giustificare la definizione delle sentenze in commento quali autentiche ‘‘stelle-guida’’ della giurisprudenza italiana. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che queste pronunce si rivelano straordinariamente importanti anche per un altra, fondamentale, caratteristica: l’introduzione, nel panorama della giurisprudenza della Suprema Corte, della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio (54). Se nella sentenza del 16 gennaio 2002 (ric. Sgarbi) questa regola, pur chiaramente tenuta in considerazione dal Supremo Collegio, non ha trovato esplicita consacrazione, nella pronuncia del 13 febbraio 2002 (ric. Covili) è stata finalmente enunciata, per la prima volta, a chiare lettere. Dopo aver riaffermato la necessità di un coefficiente probabilistico quanto più possibile vicino al 100%, la (52) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili. Sulla ‘‘crisi irreversibile’’ dei processi penali per esposizione ad amianto cfr., diffusamente, STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 296 ss. (53) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili. (54) Sull’oltre il ragionevole dubbio, quale regola probatoria e di giudizio nel processo penale, indispensabile per assicurare la protezione degli innocenti e il rispetto dei fondamenti costituzionali delle democrazie occidentali, è d’obbligo il rinvio alla fondamentale opera di STELLA, Giustizia e modernità, cit., pp. 26 ss., 60 ss., 98 ss., 138 ss.


— 756 — Corte, infatti, dichiara che ‘‘solo dimostrando che è quello il livello di percentuale assicurato dalla legge di copertura, il giudice può dire, qualora sorgano questioni o dubbi sul grado di certezza raggiunto e, quindi, sull’uso appropriato delle espressioni alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale, di aver accertato il rapporto di causalità con alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale o, se si vuole, oltre ogni ragionevole dubbio’’ (55). Non deve ingannare il fatto che il richiamo della Corte sia compiuto quasi ad abundantiam, perché esso costituisce il vero cuore concettuale dell’intera elaborazione sviluppata dai giudici di legittimità: la formale menzione di quella che deve essere, immancabilmente, la regola di giudizio nel processo penale, rappresenta infatti il segno con cui il Supremo organo di giurisdizione italiano ha dimostrato di condividere le riflessioni e i suggerimenti provenienti dalla migliore dottrina. Si tratta di riflessioni che i grandi maestri del passato, come dimostra la lezione di Carrara, avevano già formulato, in nome della ‘‘protezione dell’innocente’’ e dei ‘‘valori di immensa portata posti in gioco nel processo penale’’ (56). La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, infatti, costituisce il fondamento più genuino della giustizia penale delle grandi democrazie, nelle quali è incrollabile la consapevolezza che ‘‘è molto peggio condannare un innocente che lasciare in libertà un colpevole’’. Quando questa consapevolezza viene meno, come è accaduto in larga parte d’Europa con l’affermazione dei regimi autoritari e totalitari, crolla anche la forza morale del diritto penale, perché si insinua, nella comunità, il lacerante sospetto che i giudici condannino degli innocenti. Risulta del tutto evidente, allora, come la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio si dimostri irrinunciabile ‘‘per ragioni potenti’’ (57). Sorprendentemente, però, la dottrina processualistica italiana, spalleggiata dall’ostinato silenzio del legislatore e della giurisprudenza, ha contribuito a rendere sostanzialmente privo di effettività questo principio, ripetendo stancamente la formula secondo cui, una volta abbandonato il regime delle prove legali, il processo penale rimane fondato sul libero convincimento del giudice (58). Come ha recentemente rilevato Stella, ‘‘colpisce che gli studi degli ultimi 40 anni sulla presunzione di innocenza e sull’oltre il ragionevole dubbio non facciano cenno alcuno ai rapporti tra l’oltre il ragionevole dubbio e il principio del libero convincimento’’: tali rapporti, infatti, sono strettissimi, in quanto ‘‘se l’oltre il ragionevole dubbio è la regola probatoria e di giudizio del processo penale, è impossibile negare che esso costituisca la vera grande barriera al libero convincimento del giudice’’. Si tratta di una conclusione ben nota alla giurisprudenza dei Paesi di common law, che vede, nella regola dell’oltre il ragionevole dubbio, ‘‘la grande (55) Cass., 13 febbraio 2002, n. 1652, ric. Covili. (56) Si vedano, sul punto, le belle pagine di CARRARA, LUCCHINI, CARMIGNANI, STOPPATO, CARNELUTTI e SARACENO, riportate da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 60 ss. (57) Un richiamo alle ‘‘ragioni potenti’’ che supportano la regola dell’oltre il ragionevole dubbio è compiuto dalla sentenza In re Winship, pronunciata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, nel 1970, e stesa per mano del giudice BRENNAN. Il riferimento a questa pronuncia, unanimemente riconosciuta come la ‘‘stella polare della giurisprudenza americana’’ per la chiarezza con cui indica quale deve essere la giustizia nella ‘‘società degli uomini liberi’’, costituisce uno dei pilastri attorno ai quali si sviluppa l’analisi di STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 101 ss. (58) Anche gli autori che si sono occupati dell’oltre il ragionevole dubbio, nell’ambito dell’analisi della presunzione di non colpevolezza, (tra gli altri PISANI, DOMINIONI, AMODIO, MALINVERNI, PAULESU, GAROFOLI, tutti citati da STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 78 ss.), non sono riusciti a far penetrare questa regola nella prassi, sicché può ben dirsi che essa rappresenti, nel nostro sistema, un ‘‘valore fortemente marginalizzato’’ (così PAULESU, Presunzione di non colpevolezza, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 671).


— 757 — barricata contro l’intime convinction del giudice, il filo d’oro nel manto della protezione dell’innocente, il vanto dell’ordinamento’’ (59). Con le sentenze in esame, la Corte di cassazione colloca il suo insegnamento nel solco tracciato da questa giurisprudenza e fa sue, pur senza svilupparle compiutamente, tutte le conclusioni da essa raggiunte. Così facendo, la nostra Corte Suprema erge un baluardo contro i rischi di condanne errate, di condanne di innocenti, e si dimostra finalmente consapevole, come auspicato da Carrara, di quelle verità che, ‘‘anziché derivare da umane convenienze o da logiche deduzioni’’, potrebbero ‘‘ dirsi piuttosto scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio’’. FRANCESCO D’ALESSANDRO Assegnista di Diritto penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

(59) Così STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 99 ss., e la giurisprudenza delle Corti americane ivi citata (Johnson v. Louisiana, 406 U.S. 356, 1972; Woolmington v. DPP, A.C. 462, 473-481 (1935) per Lord Sankey). Si vedano inoltre, nella 2a edizione dell’opera di Stella, le riflessioni sull’impossibilità di ravvisare delle barriere al libero convincimento nella logica del probabile, nella scienza e nelle massime di esperienza, allorché logica, scienza ed esperienza siano utilizzate senza il riferimento al parametro dell’oltre il ragionevole dubbio.


RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)

Cooperazione giudiziaria e armonizzazioni comunitarie. ‘‘... Un ulteriore aspetto, strettamente legato alle nuove situazioni appena rappresentate, è quello della cooperazione giudiziaria internazionale, che richiede riforme normative ma anche di strutture e di mezzi per poter adeguatamente affrontare i problemi di coordinamento e di tutela di uno spazio giuridico che supera i confini della territorialità statuale. Le iniziative al riguardo, che trovano un preciso collegamento normativo nell’art. K.3 del Trattato di Amsterdam, vanno sicuramente incentivate e rafforzate. In quest’ottica, deve auspicarsi che, come già avvenuto per il settore della cooperazione giudiziaria in materia civile, anche il settore della cooperazione giudiziaria in campo penale venga progressivamente ‘comunitarizzato’, così agevolando i necessari processi di armonizzazione dei diversi sistemi nazionali e contribuendo al superamento degli ostacoli che il principio della territorialità pone all’esercizio dei diritti ed alle forme di una loro adeguata tutela. La conservazione del ruolo degli organi di giustizia interni richiede peraltro l’attivazione di un processo di effettiva armonizzazione delle legislazioni nazionali e degli stessi sistemi giudiziari; la strada della cooperazione giudiziaria trova infatti un limite strutturale nella diversità delle legislazioni nazionali, sia per quanto riguarda l’enucleazione delle fattispecie sostanziali, che per i profili processuali e, infine, per la stessa collocazione istituzionale degli organi giudiziari’’. (Dalla Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia - 2001: Tutela dei diritti, efficacia e tempi della giurisdizione, pp. 23-24; testo approvato nella seduta del C.S.M. 2 ottobre 2001).

Criminalità organizzata internazionale e cooperazione giudiziaria. ‘‘A.1. La cooperazione con autorità giudiziarie estere. — Nel periodo in esame, questo Ufficio ha continuato a svolgere un’opera incessante di sollecitazione e di stimolo ai diversi organi istituzionali per richiamare l’attenzione sulla specificità del problema criminale dei traffici illeciti nella Puglia la quale, per la sua valenza geopolitica, deve ritenersi la Regione di frontiera d’Europa più esposta alla aggressione da parte delle organizzazioni criminali, nazionali ed internazionali, non soltanto per motivi di traffico commerciale e per le forti correnti migratorie, ma anche per rilevanza politica e militare. La specificità del problema criminale dei traffici illeciti, nella Regione Puglia, è stata oggetto di attenzione costante, vigile e preoccupata da parte del Presidente della Repubblica il quale, con nota del 26 settembre 2001, tramite il Segretario Generale, ha rilevato che: ‘quanto accade in regioni, quale la Puglia, esposte per la specifica collocazione geografica a traffici illeciti di particolare gravità, accresce la consapevolezza che ogni strategia di contrasto sarà tanto più efficace, quanto maggiore sarà il coordinamento tra la magistratura e le forze dell’ordine. All’apprezzamento

(*)

A cura di MARIO PISANI.


— 759 — per quanto già operano in Puglia come altrove, in questa direzione, si aggiunge l’auspicio che tale azione anticrimine possa dispiegare al meglio i suoi effetti’. L’interesse delle organizzazioni criminali per il nostro paese non è più, soltanto, in funzione delle sue caratteristiche di mercato di consumo, ma anche quale possibile area di transito verso altre nazioni del continente europeo. La liberalizzazione delle frontiere, grazie al trattato di Schengen, rappresenta la più grande occasione che la storia politica europea abbia offerto alla criminalità economica. La delinquenza organizzata, qualunque sia il settore impegnato (tabacchi lavorati esteri, sostanze stupefacenti, prostituzione, gioco d’azzardo, armi, immigrazione, trasporto di vite umane, rifiuti, attentati terroristici), obbedisce ad un minimo comune denominatore: il movimento dei flussi finanziari e la realizzazione del profitto economico. I consistenti flussi di denaro, di cui dispongono le organizzazioni criminali, hanno anche alimentato fenomeni di riciclaggio e favorito la diffusione di altre fenomenologie illecite in settori economici, originariamente meno contaminati. Sono indubbi i guasti che lo sviluppo di una economia criminale crea nel circuito dell’economia legale, in quanto vengono distrutte le regole della società civile, si generano insicurezze e si producono costi crescenti a carico della collettività, anche per l’attività di contrasto. L’imprenditore criminale impone alla società civile un comportamento basato sul sovraprofitto, sullo sfruttamento della posizione dominante, sulla sottrazione di fattori produttivi e di beni al circuito legale, sull’imposizione di estorsioni e, soprattutto, sul ricorso alla minaccia e all’uso della violenza fisica. Viene così ‘imposto’ l’equilibrio dei mercati, impedendo ai prezzi di svolgere la loro funzione di reali indicatori dei costi di produzione e delle preferenze degli operatori economici. La fase del collocamento all’estero dei capitali illeciti è anche agevolata dal fatto che numerosi governi hanno adottato politiche di incentivazioni degli investimenti stranieri e garantito una eccessiva liberalizzazione delle operazioni commerciali, creando condizioni favorevoli, in assenza di idonee regolamentazioni, per lo sviluppo della criminalità economica. La strada che mira a colpire i flussi finanziari, derivanti da attività criminali, è molto ardua da percorrere in termini investigativi, in quanto il riciclaggio, così come definito dal nostro codice penale, è un reato particolarmente difficile da accertare e da provare in sede giudiziaria. Ciò nonostante, importanti risultati positivi sono stati conseguiti con gli accertamenti patrimoniali attraverso i quali si è teso e si tende a individuare le ricchezze accumulate dai sodalizi criminali e i canali di riciclaggio, sfruttando al massimo tutti gli strumenti previsti dalla normativa antimafia e da quella antiriciclaggio. È indispensabile il rafforzamento della cooperazione internazionale per superare le difficoltà, poste dai Governi di alcuni Paesi sia per l’assistenza di polizia, sia per quella giudiziaria. Sono in fase di realizzazione diversi programmi — finanziati dalla Comunità Europea — di potenziamento, quantitativo e tecnologico, dei mezzi e delle apparecchiature strumentali in dotazione della Polizia Giudiziaria. Non c’è dubbio, infatti, che l’efficacia dell’azione di contrasto è sempre più legata alla disponibilità di mezzi tecnologicamente all’avanguardia, in grado di supportare adeguatamente le più complesse operazioni. Per la caratterizzazione internazionale della delinquenza organizzata in Puglia, merita di essere segnalata la proficua collaborazione tra la magistratura elvetica e quella barese, che ha consentito al Procuratore Pubblico Straordinario del Canton Ticino di disporre l’arresto di due cittadini elvetici (un autorevole magistrato ed un avvocato) e di un cittadino italiano, Gerardo Cuomo, considerato uno dei maggiori fornitori di tabacchi lavorati esteri, a livello internazionale. Con sentenza del 27 giugno 2001, pronunciata dal Tribunale Correzionale di Lugano, i cittadini elvetici sono stati condannati per corruzione attiva aggravata, violazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. La Confederazione Elvetica ha già concesso l’estradizione del citato Cuomo. In data 30 ottobre 2001, vi è stato, in Bari, un incontro tra una delegazione del Ministero Pubblico della Confederazione Elvetica, guidata dal Procuratore Generale, dott. Valentin Roschacher, con i magistrati inquirenti di questo distretto. L’incontro era stato richiesto, in considerazione della nuova normativa che, a decorrere dal gennaio 2002, ha conferito al


— 760 — Ministero Pubblico Elvetico la competenza in tema di delinquenza organizzata e di riciclaggio di danaro sporco. All’esito dell’incontro, il Procuratore Generale della Repubblica Elvetica ha espresso il più vivo apprezzamento per l’ottima e proficua collaborazione, da tempo esistente, tra gli uffici giudiziari elvetici e quelli di Bari, per i positivi risultati conseguiti nello scambio di esperienze e di informazioni, per le discussioni stimolanti ed interessanti e per aver delineato un panorama della situazione attuale nella lotta alla criminalità organizzata, con speciale riguardo a quella del traffico di esseri umani e del contrabbando di tabacchi lavorati esteri con tutti i suoi effetti. (...) Anche negli anni precedenti questo Ufficio ha intrapreso un’attività di collaborazione con autorità giudiziarie estere. Nel gennaio del 1998 si sono svolti, in Bari, una serie di incontri tra il Procuratore Generale dell’Albania, i Procuratori di Tirana, Durazzo e Valona, con i magistrati inquirenti del distretto di Bari, per la predisposizione di modelli operativi comuni, agili e proficui nella lotta alla delinquenza organizzata in Italia ed in Albania. Nell’ottobre dello stesso anno, vi è stato, in Bari, un incontro tra importanti rappresentanti politici e magistrati della Repubblica del Montenegro con gli organi giudiziari baresi. All’esito dell’incontro, le autorità straniere hanno dichiarato una larga disponibilità ad iniziare una prassi collaborativa sia attraverso la formazione di teams comuni, sia con lo scambio culturale mediante seminari con Magistrati italiani ed europei, al fine di adattare e riformare la vigente normativa sulla giustizia nel Montenegro. Il Presidente della Repubblica, tramite il Consigliere per gli Affari Giuridici e le Relazioni Costituzionali, con la nota del 20 novembre 2001 ha espresso: ‘il più vivo apprezzamento per le attività di collaborazione che la Procura Generale della Repubblica di Bari svolge da diverso tempo con autorità estere al fine di fronteggiare con sempre maggiore intensità la criminalità organizzata. La collaborazione ed in particolar modo lo scambio di esperienze e di informazioni tra autorità, a livello europeo, costituisce la chiave di volta per sconfiggere la criminalità organizzata e il fenomeno ad esso collegato del riciclaggio del denaro sporco’. (...) Le dimensioni sempre più internazionali della delinquenza organizzata nella Regione Puglia, le problematiche relative alla sicurezza transfrontaliera ed agli inarrestabili flussi dell’immigrazione clandestina, pongono delicati problemi di attuazione del trattato di Schengen, relativamente al Sistema Informatico Schengen. L’accesso al S.I.S., la cui istituzione è stata prevista dagli artt. 95 e segg., che si compone di una unità centrale e di una serie di articolazioni che fanno capo ai singoli Stati membri, è attualmente consentito al personale di polizia e delle dogane. Ciò comporta l’esclusione degli organi giudiziari, italiani ed europei, [dalla possibilità] di attingere ad un patrimonio di informazioni certamente utili e talvolta decisive per il conseguimento di risultati positivi, nella lotta al crimine organizzato. Sin dal 1997, questo Ufficio ha richiesto al Ministro della giustizia di valutare l’opportunità di proporre all’Unione Europea l’accesso al S.I.S. alle autorità giudiziarie, italiane e straniere. La validità e la fondatezza di tale richiesta sono state riconosciute dalla Commissione Parlamentare Antimafia nelle sedute del 27, 28 e 29 ottobre 1997 e del 16 luglio 1999 e dal Consiglio Superiore della Magistratura, nella relazione approvata dall’Assemblea plenaria, nella seduta del 22 luglio 1999. Uguale sollecitazione alle autorità di governo è pervenuta dalla Commissione Parlamentare di Inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, nel documento approvato il 25 ottobre 2000, alla quale ha aderito lo stesso Ministro dell’interno. Sul punto è quindi opportuno insistere per una riflessione delle autorità di governo circa una modifica della Convenzione di Schengen. In questo delicato momento, che vede tutte le istituzioni dello Stato particolarmente impegnate a garantire la sicurezza dei cittadini, merita rilevante apprezzamento la sollecitudine con cui il Governo ed il Parlamento hanno predisposto ed approvato le disposizioni legislative urgenti per contrastare il terrorismo internazionale. Le drammatiche sequenze degli attentati di New York e Washington dimostrano, senz’alcun dubbio, che ogni Paese e quindi anche il nostro è raggiungibile dal fenomeno criminale del terrorismo, nazionale ed interna-


— 761 — zionale. Avendo l’Adriatico assunto il ruolo di una vera e propria frontiera d’Europa, la Regione Puglia è indubbiamente a rischio, in questo particolare momento storico, e non può essere sottovalutato il terrorismo fondamentalista. Soprattutto la criminalità albanese, stabilmente insediata in Italia, ha raggiunto modalità operative tipicamente transnazionali, mantenendo consolidati legami con formazioni balcaniche e pericolosi gruppi stranieri. È noto che la criminalità albanese rivolge la sua prevalente attenzione al mercato di cocaina e di eroina, provenienti dall’Afghanistan. Nello scorso dicembre, la decima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduta dall’avv. Gianni Di Cagno, ha disposto l’audizione dei Procuratori Generali per raccogliere informazioni in ordine agli eventuali problemi riscontrati nello svolgimento delle indagini su criminalità e terrorismo, implicanti cooperazione con autorità giudiziarie straniere. Tale iniziativa deve ritenersi molto opportuna per una decisa risposta giudiziaria italiana al terrorismo internazionale.’’ (R. DIBITONTO [Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Bari] Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002, capit. II).

Criminalità transfrontaliera e cooperazione internazionale. ‘‘... Tra le considerazioni generali occorre mettere in rilievo che la Puglia ed in misura preponderante il Salento, per la sua strategica posizione geografica, è da tempo crocevia dei traffici internazionali (in particolare quelli di armi, droga e prostituzione dall’Est all’Europa) e la sua criminalità è strettamente legata da anni agli interessi che derivano dalla vicinanza dell’area balcanica, in conseguenza delle modifiche degli assetti istituzionali nella ex Jugoslavia e in Albania. Quest’ultimo paese, in particolare per il traffico di droga e per l’immigrazione clandestina, è divenuto il terminale della nuova rotta dell’eroina turca e di quella prodotta nel Sud-Est Asiatico e nel Medio oriente nonché, in considerazione delle due ore circa di motoscafo che lo separano dalle coste salentine, il punto di arrivo di tutti i flussi migratori dall’Est all’Europa (oltre che da quelli interni dalla stessa Albania) per il successivo attraversamento clandestino del Canale d’Otranto e l’ingresso in Europa (...). Le modalità di gestione di quella che era la maggiore area criminosa, vale a dire il contrabbando di TLE (tabacchi lavorati esteri) hanno subito una ulteriore, forse definitiva, modifica dall’ottobre 1999 per effetto di una mutata politica dello Stato del Montenegro, che dando esecuzione ad accordi intervenuti con il nostro Stato, ha espulso da quel Paese oltre trenta latitanti che sono stati consegnati alle Autorità italiane ed arrestati al loro arrivo nello Stato’’. (A. STASI [Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Lecce], Relazione sulla amministrazione della giustizia nell’anno 2001, pp. 16, 28-29). ‘‘... In ordine alla collaborazione internazionale nella lotta alla criminalità transfrontaliera, fondamentale è il suo ruolo. Negli ultimi tempi è risultata notevolmente migliorata l’intesa con le Autorità giudiziarie di Albania, che, pur non potendo disporre la estradizione in Italia di loro cittadini per divieto costituzionale, provvedono ad instaurare in patria procedimenti paralleli. Strategie permanenti di ben più ampia portata sono possibili in ambito europeo dopo gli Accordi di Schengen e la libera circolazione interna. Il contrabbando di tabacchi e di stupefacenti, la prostituzione, l’immigrazione clandestina, la criminalità transfrontaliera sono diventati fenomeni che non riguardano ormai solo l’Italia, ma l’intera Unione europea delle cui frontiere esterne quelle italiane sono parte.’’ (M. MERCONE [Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Campobasso], Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte d’appello del Molise, 1o luglio 2000-30 giugno 2001, p. 20).

Corruzione e cooperazione internazionale. Il 27 gennaio 1999, a Strasburgo, la Convenzione penale sulla corruzione era stata aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, oltre che degli Stati non-membri che avevano partecipato alla sua elaborazione.


— 762 — Il capitolo IV contiene la disciplina della cooperazione internazionale, così ripartita: principi e misure di carattere generale (art. 25); assistenza (art. 26); estradizione (art. 27); ‘‘informazioni spontanee’’ fra le Parti (art. 28); istituzione di un’autorità centrale (art. 29); comunicazioni dirette fra le autorità centrali (art. 30); obbligo di informazione (art. 31). Alla data del 15 febbraio 2002 la Convenzione — a suo tempo soltanto sottoscritta dall’Italia — non è ancora entrata in vigore, mancando ancora l’intervento, dopo la tredicesima (Bosnia Erzegovina, 3 gennaio 2002), della quattordicesima ratifica.

Criminalità informatica e cooperazione internazionale. Il 23 novembre 2001, a Budapest, la Convenzione sulla criminalità informatica è stata aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, oltre che degli Stati - non membri che hanno partecipato alla sua elaborazione (Canada, Giappone, Sud Africa e Stati Uniti). Il capitolo III contiene la disciplina della cooperazione internazionale, ed è diviso in due sezioni: la sezione 1, intitolata ‘‘Princìpi generali’’, relativi alla tematica dell’estradizione (art. 24), dell’assistenza (artt. 25-26), delle richieste di assistenza in mancanza di accordi internazionali applicabili (art. 27), di confidenzialità e di specialità (art. 28); la sezione 2, intitolata ‘‘Previsioni specifiche’’, relative alla assistenza in tema di misure provvisorie (artt. 2930), all’assistenza in tema di poteri investigativi (artt. 31-34), all’istituzione (art. 35) di un idoneo punto di contatto (24/7 Network). Per l’entrata in vigore della convenzione saranno necessarie le ratifiche da parte di cinque Stati, almeno tre dei quali membri del Consiglio d’Europa.

L’estradizione e il ‘‘giusto processo’’ turco. 1. In data 4 luglio 2001 la Procura Generale di Milano presentava ricorso avverso la sentenza con la quale la Corte d’appello, in data 14 maggio, aveva emesso una sentenza contraria all’estradizione, a seguito di due richieste, nei confronti di un cittadino turco, provenienti dalla Procura Generale presso la Corte di sicurezza dello Stato n. 5 e presso la Corte di sicurezza dello Stato n. 6, di Istanbul. Più precisamente, si tratta del tipo di Corti, meglio note come DGM, la presenza e l’operatività delle quali da tempo rappresenta uno degli ostacoli opposti agli intendimenti della Turchia di accedere all’Unione Europea. In particolare, a proposito dell’addebito di associazione a delinquere insieme ad altri contestato al cittadino turco richiesto in estradizione, la corte milanese — v. in questa Rivista, 2001, p. 1078 ss. — aveva modo di chiarire (dovendosi far carico del principio della doppia incriminabilità), che esso si profilava ‘‘come nulla di più di un concorso di persone nei reati di volta in volta addebitati’’. Mentre non contestava questa conclusione, relativamente al diniego di estradizione per tale addebito, il p.m. ricorrente, con succinta motivazione, lamentava, quanto agli altri addebiti, una ‘‘errata valutazione degli elementi di fatto’’ e la ‘‘contraddittorietà di motivazione’’. 2. Ed ecco la sentenza della corte di Cassazione, sez. VI (pres. Trojano, rel. Milo) in data 12 dicembre 2001 (dep. l’11 febbraio 2002): ‘‘Sul ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Milano, nel procedimento di estradizione a carico di K.(...) S.(...), nato a (...) (Turchia), avverso la sentenza 14 maggio 2001 della Corte d’appello di Milano; Sentita la relazione del Consigliere dr. Nicola Milo; udito il Pubblico Ministero nella persona del dr. F. Consentino che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi i difensori (...), osserva in


— 763 — FATTO e DIRITTO. — La Repubblica di Turchia, con domande 14 novembre 2000 e 23 febbraio 2001, avanzava richiesta di estradizione del proprio cittadino K.(...) S.(...), colpito da due mandati di arresto, uno in data 7 luglio 2000 della Corte di Sicurezza di Istanbul e l’altro in data 22 febbraio 2001 della Presidenza del Tribunale di Sicurezza di Istanbul, perché imputato di appropriazione indebita di ingenti somme di denaro ai danni della (...), di cui era direttore generale e presidente del Consiglio di gestione, nonché di partecipazione ad un’associazione per delinquere, di truffa, di falso e di storno di fondi bancari ai danni della (...), di cui era direttore generale e membro del Consiglio di amministrazione. La Corte d’appello di Milano, con sentenza 14 maggio 2001, si pronunciava in senso contrario alla sollecitata estradizione, sottolineando che, sulla base della stessa prospettazione formulata dallo Stato richiedente, difettava di qualunque seria consistenza l’ipotizzato reato associativo e che, in ordine agli altri illeciti, non era stata offerta alcuna indicazione circa la riferibilità dei medesimi all’estradando, al quale anzi l’Autorità giudiziaria turca, in sede civile, aveva restituito il passaporto e i beni sequestratigli. Avverso tale decisione, ha proposto ricorso per cassazione il P.G. presso la stessa Corte d’appello, deducendo: a) errata valutazione degli elementi di fatto, sotto il profilo che, mentre andava condivisa la conclusione raggiunta sul reato associativo, non altrettanto poteva affermarsi in ordine agli altri illeciti descritti in ogni loro elemento strutturale e riferiti soggettivamente a ben individuati autori, tra i quali l’estradando; b) contraddittorietà della motivazione, perché pur dandosi atto dell’operatività del regime pattizio, la Corte territoriale aveva valutato nel merito gli indizi, ritenendoli non idonei a supportare l’accusa. Il ricorrente ha concluso per una pronuncia favorevole all’estradizione. La difesa dell’estradando ha prodotto memoria con la quale ha confutato le doglianze articolate dal ricorrente P.G., ha difeso l’argomento del giudice a quo secondo cui difetterebbe la ‘‘puntuale indicazione degli specifici elementi di ascrivibilità degli illeciti’’, ha sottolineato il grave rischio di violazione dei diritti fondamentali e di adozione di provvedimenti discriminatori, in caso di accoglimento della richiesta di estradizione. All’odierna udienza camerale, il P.M. e la difesa hanno concluso come da epigrafe. Il ricorso è fondato. Premesso che, in difetto di gravame, la pronuncia sfavorevole all’estradizione per il reato associativo ha assunto carattere di definitività, l’indagine va circoscritta ai residui reati indicati nelle domande avanzate dalla Repubblica di Turchia e solo in relazione ad essi va verificata la sussistenza o meno delle condizioni per farsi luogo all’estradizione. Tali condizioni sussistono. Ed invero, è applicabile, nella specie, la Convenzione Europea di estradizione del 13 dicembre 1957, resa esecutiva in Italia con l. n. 300 del 1963 e alla quale ha aderito anche la Turchia sin dal 18 aprile 1960 (1). In presenza di tale regime pattizio, il giudice deve limitarsi ad un esame formale della regolarità della documentazione, senza potere valutare in concreto la fondatezza dell’accusa, potendo tale facoltà essere riconosciuta solo in tema di estradizione extraconvenzionale. Tale conclusione trova conforto nella chiara formulazione dell’art. 705 c.p.p. che subordina la possibilità di procedere ad una valutazione dell’esistenza dei gravi indizi solo in assenza di una convenzione fra Stato richiedente e Stato richiesto, e ha una sua intrinseca razionalità, giacché, in presenza di una estradizione fra Stati che abbiano aderito alla Convenzione Europea, la adesione dello Stato richiedente alla detta convenzione postula un effettivo ricono-

(1) Sembra però il caso di precisare, che non di ‘‘adesione’’ da parte della Turchia si poteva trattare, posto che l’adesione è riservata, dall’art. 30 della pertinente Convenzione europea, agli Stati nonmembri del Consiglio d’Europa, mentre la Turchia è Stato-membro, a decorrere dal 13 aprile 1950, e che, inoltre, il 18 aprile 1960, è, se mai, la data di entrata in vigore della Convenzione per la Turchia (risalendo, invece, la firma, al 13 dicembre 1957, e il deposito dello strumento di ratifica, al 7 gennaio 1960).


— 764 — scimento dei diritti di difesa del soggetto indagato ed una adesione ai principi fondamentali del giusto processo (2). Ciò posto, non può condividersi l’argomento su cui riposa la gravata sentenza che, nello stigmatizzare la mancanza di qualunque indicazione sull’ascrivibilità degli illeciti all’estradando e nel sottolineare la sintomaticità di alcuni provvedimenti adottati dall’Autorità giudiziaria turca, sia pure in sede civile, in favore del K.(...), ha finito col valutare il quadro indiziario a carico del medesimo e con l’apprezzarne senza disporre — per altro — di sufficienti elementi di giudizio, la scarsa valenza, il che non è consentito, data l’operatività del regime convenzionale. In base a questo, è sufficiente che la richiesta sia corredata di copia autentica del provvedimento restrittivo, di una esposizione dei fatti per i quali si chiede l’estradizione, con specificazione di ogni possibile dettaglio, di copia delle disposizioni di legge applicabili (art. 12 della Convenzione). Tale documentazione è allegata alle domande di estradizione; più specificamente v’è una particolareggiata descrizione dei fatti, anche con riferimento al ruolo in essi svolto, in concorso con altri, dal K.(...) e, quindi, all’ascrivibilità soggettiva dei fatti medesimi; v’è copia delle norme di legge applicabili, nel cui paradigma vanno inquadrate le condotte incriminate e che prevedono come sanzione una pena restrittiva della libertà personale non inferiore al limite indicato nell’art. 2 della Convenzione; ricorre il criterio della doppia incriminabilità, posto che anche per il nostro ordinamento assumono rilievo penale e sono puniti con pena non inferiore al limite citato fatti riconducibili negli schemi dell’appropriazione indebita aggravata, della truffa aggravata o del falso documentale. Non si è in presenza di reati politici o di reati comuni che mascherano la finalità di perseguire o di punire la persona richiesta per considerazioni razziali, di religione, di nazionalità o di opinioni politiche. I reati per i quali si procede in Turchia non sono prescritti, né sono puniti con la pena capitale, né attengono a fatti per i quali pende procedimento in Italia. Non risulta, infine, che, in relazione ai reati per i quali è stata domandata l’estradizione, la persona è stata o sarà sottoposta a un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali, né v’è motivo di ritenere che la medesima persona verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori o a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Il contrario

(2) Con questa argomentazione la Corte affronta qui, e soltanto trasversalmente, la tematica oggetto della altrettanto ‘‘chiara formulazione’’ del comma 2 del richiamato art. 705 c.p.p.: quella concernente la casistica del diniego di estradizione nelle ipotesi distintamente enunciate nelle lett. a), b) e c). Alle lett. a) e c) aveva appunto fatto riferimento la difesa — con appropriate produzioni documentali, attinte anche alla giurisprudenza europea — per motivare l’opposizione alle richieste turche. (Opposizione alla quale, tra l’altro, aveva aderito tout court il Procuratore Generale della Cassazione in udienza). Senonché l’argomentazione della Corte non ha pregio, per due buone ragioni. In primo luogo perché solo nel caso dell’adesione (vera e propria), l’invito proveniente, a voti necessariamente unanimi (art. 30 cit.), da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, può ragionevolmente conseguire ad una previa disamina del rispetto, da parte del Paese invitato, degli standards europei. A tale riguardo la Corte parla di un ‘‘postulato’’, che però, tra l’altro, è clamorosamente smentito dal fatto che per i tredici Paesi candidati a far parte dell’Unione europea si prevede la conclusione delle trattative entro la fine del 2002, eccetto proprio per la Turchia. Anzi, i negoziati formali con questa repubblica non sono ancora stati aperti, poiché la Turchia — v. anche, in questa Rivista, 2001, p. 1080, i riferimenti di cui alla nota (9) — ‘‘non soddisfa le condizioni di base richieste in materia di rispetto dei diritti umani’’ (v. Corriere della Sera del 26 febbraio 2002, p. 11). Quand’anche, poi, di postulati — come pensa la Corte — si potesse per davvero trattare, è altrettanto logico che l’indicata disamina — compiuta, a mo’ d’esempio, all’altezza dell’aprile 1960 — non può essere destinata a durare per sempre, ed è invece necessariamente sottoposta alla clausola rebus sic stantibus, e quindi alla variabilità — nel corso degli anni, e magari dei decenni — delle concrete e diverse situazioni. E ciò è tanto vero che molti Stati-membri si sono presi cura di formulare esplicite riserve, nel senso di non concedere l’estradizione nei confronti di partners — si noti — europei, che mettano in campo tribunali ‘‘d’eccezione’’ o procedure non rispettose degli standards dei diritti dell’uomo: si vedano, ad esempio, le riserve di Francia e Portogallo e, da ultimo, di Belgio e Russia (L’indipendenza del giudice ad quem nell’estradizione europea, in questa Rivista, 2001, p. 1074).


— 765 — assunto sostenuto dalla difesa dell’estradando rappresenta una mera prospettazione teorica, non ancorata ad alcun dato di fatto concreto e specifico (3). Ricorrono, pertanto, tutte le condizioni di legge per dare corso all’estradizione verso la Turchia di K.(...) S.(...) in relazione ai reati indicati nelle corrispondenti domande, con esclusione del solo reato associativo. La concreta concessione dell’estradizione è logicamente scelta riservata alla valutazione politica del Ministro della giustizia. La cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p.’’.

La ‘‘ragion di Stato’’ della non-estradizione. ‘‘... L’irrisolta questione dei criminali di guerra costituiva la grande rimozione nei rapporti italo-germanici; la sua eventuale soluzione esigeva l’estradizione degli imputati, provvedimento sgradito sia ai governanti tedeschi sia alle autorità italiane. Nella seconda metà degli anni ’50 il procuratore generale militare Arrigo Mirabella concordò col ministero degli Affari esteri una linea di condotta di assoluta inerzia, ispirata dalla ‘‘ragion di Stato’’. Il liberale Gaetano Martino, ministro degli Esteri, e il democristiano Emilio Paolo Taviani, ministro della Difesa, stabilirono di lasciare impregiudicata la questione dei crimini di guerra. Conseguentemente, essi ignorarono l’istanza di estradizione dalla Repubblica Federale Tedesca prospettata dal giudice istruttore del Tribunale militare di Roma per una trentina di militari germanici indiziati di strage. L’onorevole Martino scrisse il 10 ottobre 1956 una lettera ‘‘riservata personale’’ al ministro della Difesa, motivando il suo orientamento negativo: ‘‘Sono convinto che coloro i quali presero parte a così barbare azioni non meritino personalmente alcuna clemenza. Non posso tuttavia nascondermi, come responsabile della nostra politica estera, la sfavorevole impressione che produrrebbe sull’opinione pubblica tedesca e internazionale una richiesta di estradizione da noi avanzata al governo di Bonn alla distanza di ben 13 anni da quando i dolorosi incidenti surriferiti ebbero luogo, tanto più che una buona parte dei militari incriminati risulterebbero già stati giudicati e condannati dalle corti alleate al momento opportuno e cioè nell’immediato dopoguerra. Ma a parte le considerazioni negative che potrebbero farsi su questo nostro tardivo risveglio, non ho bisogno di sottolineare a te, che segui da vicino i problemi della collaborazione atlantica ed europea, quali interrogativi potrebbe far sorgere da parte del Governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo momento infatti tale Governo si vede costretto a compiere, presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo, allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze Armate, di cui la Nato reclama con impazienza l’allestimento’’. Una postilla alla lettera, di una decina di giorni successiva, indica la posizione di Taviani: ‘‘Concordo pienamente con il ministro Martino’’ (4). Il giudice istruttore militare della

(3) Cfr. App. Torino, 2 luglio 1993, in Riv. dir. int., 1994, p. 197, secondo cui l’applicabilità, e l’applicazione, dell’art. 705, comma 2, lett. c), conseguono alla ‘‘logica e prudente deduzione a priori da fatti storici della concreta e prevedibile possibilità’’, da parte dello Stato richiedente, di adottare i comportamenti ipotizzati dalla norma, mentre poi — per denegare l’estradizione — è sufficiente anche ‘‘un solo motivo’’. (4) « ... Sabato, 20 ottobre 1956, Roma. Gaetano Martino [ministro degli Esteri] mi scrive che non è opportuno chiedere alla Germania l’estradizione di Speidel, ritenuto (ma ci sono dubbi) uno dei responsabili della strage di Cefalonia. I russi stanno per invadere l’Ungheria. Il riarmo tedesco è più che mai indispensabile. Moro [ministro della Giustizia] mi aveva detto che la competenza non è sua, ma è mia e degli Esteri. Mi ero imposto, contro il parere di Mancinelli, per iniziare la pratica di estradizione. Ma ora non ci penso neppure a insistere per questo Speidel. Martino ha ragione. Mercoledì, 24 ottobre 1956, Roma. Alle ore 17 di ieri i carri armati russi sono entrati in Ungheria ».


— 766 — Repubblica ricevette pertanto dal ministero degli Esteri una nota nella quale l’estradizione veniva ritenuta improponibile. Il magistrato ne prese atto, pur rilevando l’esigenza di ottenere dalle autorità tedesche le generalità complete dei militari implicati negli eccidi del 1944 e l’indicazione di quanti tra gli indiziati fossero nel frattempo deceduti; il ministro Martino bloccò anche questa iniziativa’’. (M. FRANZINELLI, Le stragi nascoste, Milano, Arnoldo Mondadori ed., 2002, p. 127) (5).

P.E. TAVIANI, Politica a memoria di uomo, Bologna, ed. il Mulino, 2002, p. 146). (5) Da ultimo — v. M. BREDA, Silenzio su 695 stragi nazifasciste, il Parlamento ora vuole indagare, in Corriere della Sera del 16 giugno 2002, p. 9 — è stato avviato l’iter per il varo di una commissione parlamentare d’inchiesta.


DOTTRINA

ETICA E RAZIONALITÀ DEL PROCESSO PENALE NELLA RECENTE SENTENZA SULLA CAUSALITÀ DELLE SEZIONI UNITE DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SOMMARIO: 1. I capisaldi della sentenza: il congedo dalla concezione autoritaria del processo penale. — 2. La condizione sine qua non come minimum assoluto per l’imputazione causale, la sussunzione sotto leggi e il ripudio della condizione idonea e del criterio dell’aumento del rischio. — 3. Il ruolo cruciale svolto dall’oltre il ragionevole dubbio come regola probatoria e regola di giudizio. — 4. L’oltre il ragionevole dubbio, l’incertezza scientifica e l’incertezza del sapere comune. — 5. Il tema dei coefficienti di probabilità, nella successione di eventi, richiesti per l’uso di una legge statistica nel processo penale. — 6. La ricostruzione degli anelli causali intermedi. — 7. Spiegazioni deboli e spiegazioni forti dell’evento lesivo. — 8. Le nude statistiche, le probabilità causali ex ante, la concretizzazione della legge di copertura. — 9. Le probabilità causali ex post. — 10. La prova particolaristica del nesso di condizionamento. — 11. Una visione d’insieme della sentenza delle Sezioni Unite.

1. I capisaldi della sentenza: il congedo dalla concezione autoritaria del processo penale. — Considerata nel suo complesso, la recente sentenza delle Sezioni Unite penali sulla causalità (1) costituisce un passo importante nel processo di sviluppo di un pensiero giuridico tutto teso — a partire dal 1990, anno di pubblicazione della sentenza sul disastro di Stava — al riconoscimento dei grandi valori della democrazia, incarnati dai principi costituzionali. I capisaldi della sentenza che vale la pena di illustrare sono quattro: a) il riconoscimento del ruolo svolto dalla condizione necessaria, come minimum assoluto per l’attribuzione individualizzante dell’evento lesivo nella ‘‘quasi generalità dei sistemi giuridici europei (condizione sine qua non) e dei Paesi anglosassoni (causa but for)’’ (2); b) l’affermazione che lo schema condizionalistico deve essere integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche per la ‘‘portata tipizzante’’ di quest’ultimo, ‘‘in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost. art. 25, comma (1) La sentenza è pubblicata integralmente in questa Rivista, p. 1133 ss. (2) Sul punto, cfr. STELLA, Giustizia e modernità, 2a ed., Milano, 2002, p. 224 ss.; ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 2a ed., Milano, 2000, p. 3 ss.


— 768 — 2, e 27, comma 1), e per la funzione selettiva delle condotte rilevanti e perciò delimitativa dell’area dell’illecito penale’’; c) l’asserzione che le Sezioni Unite condividono il rifiuto, già ripetutamente espresso dalla Suprema Corte — soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (Sez. fer. VII, CASACCIO; Sez. IV, BALTROCCHI, MUSTO, DI CINTIO, TURCO, TRUNFIO, ORLANDO), delle malattie professionali (Sez. IV, COVILI) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, SGARBI) — del criterio di imputazione costituito dall’ ‘‘aumento — o mancata diminuzione — del rischio di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente)’’ (3): il rifiuto, cioè, dell’idea che la responsabilità penale possa essere dichiarata ‘‘pur in assenza dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta, da parte dell’agente, la condotta doverosa e diligente... il singolo evento di danno non si sarebbe verificato’’. In altre parole: ‘‘è stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo..., ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare una attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con esso, una nozione debole della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria (dell’aumento del rischio), ripudiata dal vigente sistema penale, finirebbe per comportare un’abnorme estensione della responsabilità..., in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio’’ (4); d) l’enunciazione della regola probatoria e di giudizio dell’oltre il ragionevole dubbio: proprio perché lo snodo fondamentale, in tema di causalità, è costituito dalla prova di quest’ultima, ‘‘l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante... rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio’’. In altre parole, ‘‘il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, perciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530, comma 2, c.p.p. secondo il canone di garanzia in dubio pro reo’’ (5). Con questo insegnamento vengono rinsaldate le basi del fondamento (3) Cfr. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 210 ss. (4) STELLA, op. loc. citt. (5) Cfr. STELLA, op. cit., p. 60 ss., 88 ss.


— 769 — granitico dell’amministrazione della giustizia penale in una democrazia come quella italiana, costituito dalla netta separazione tra colpevoli e innocenti, e al tempo stesso vengono ripudiate, con estrema determinazione, le ideologie giuridiche degli stati autoritari e totalitari. Ho già avuto modo di occuparmi di queste ideologie in ‘‘Giustizia e modernità’’, mettendone in luce il risvolto più significativo sul terreno del processo penale: la messa al bando e la derisione dell’idea della protezione dell’innocente. Per rendersi conto dell’impressionante asservimento di non pochi giuristi di peso alla ideologia dello stato autoritario fascista degli anni ’20 e ’30, basta ricordare che, secondo ALFREDO ROCCO, la protezione dell’innocente doveva essere vista come ‘‘una stravagante derivazione da quei vieti concetti, germogliati dai principi della Rivoluzione francese, per cui si portano ai più esagerati e incoerenti eccessi le garanzie individuali’’; e basta ancora ricordare che per MANZINI (sotto la cui guida furono redatti i Codici del 1930) nel pensiero penalistico liberale si doveva scorgere ‘‘l’espressione di una pseudo democrazia superficiale, parolaia e confusionaria’’: con le regole sulla protezione dell’innocente ‘‘si verrebbe ad affermare quel che in pratica è assolutamente falso e in teoria assurdo, che cioè, di regola, siano destituiti di fondamento ed arbitrari i sospetti di colpevolezza che dal pubblico ministero si levano contro gli indiziati. Sono idee antiquate, fallaci e ingiuste, che più o meno coscientemente provengono da quel modo demagogico di pensare per cui nella pubblica autorità si ravvisa una perfida e sfrenata insidiatrice dell’interesse individuale’’; nulla di più incongruente e paradossale, dunque, delle regole a protezione dell’innocente: ‘‘l’imputazione si fonda sempre, necessariamente, sopra indizi di colpevolezza epperò se una presunzione dovesse aversi, in relazione all’imputato, non potrebbe essere evidentemente che una presunzione di reità’’; né va dimenticato che per MORTARA il codice di procedura penale non è ‘‘la legge che tutela l’innocenza’’, ma è ‘‘uno strumento di difesa sociale contro il delitto’’; poco importa dunque se degli innocenti vengono sacrificati, tanto più se si considera che ‘‘il delitto è crescente in progressione spaventosa’’ (6). Ancora peggiore, ovviamente, è la situazione degli stati totalitari: in Germania, il posto del diritto positivo viene preso dal terrore totale, e l’arma più efficace con cui viene esercitato il terrore è il massacro degli innocenti; e in Russia viene elaborato il principio per cui ‘‘le finezze giuridiche non occorrono perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente’’. Ecco perciò il dominio incontrastato della dottrina di VYS̆INSKIJ: le ricerche di prove sono una inutile perdita di tempo, le prove di colpevolezza possono essere trovate dal giudice senza accertamenti, (6)

Cfr. STELLA, op. cit., p. 10 ss.


— 770 — ‘‘senza uscire dal suo ufficio, basandosi non solo sulla propria intelligenza, ma anche sull’intuito di partito, sulle sue forze morali e sul suo carattere’’ (7). È pur vero che, nel nostro codice penale, MANZINI ha fatto inserire le disposizioni degli artt. 40 e 41, dalle quali si ricava che la condotta dell’imputato deve essere condizione sine qua non dell’evento lesivo; ed è anche vero che, da un punto di vista formale, i principi enunciati in quelle norme risultano apparentemente salvaguardati se i tribunali fondano le loro decisioni sull’asserzione dell’esistenza del nesso di condizionamento. Ma l’osservanza formale — a parole — dei criteri codificati di imputazione non basta: quando resta incerto, sul piano processuale, se un determinato comportamento possa essere realmente condizione sine qua non dell’evento, ‘‘vi è il rischio che l’imputato subisca un biasimo morale che egli non merita affatto’’ (8). Proprio qui sta il punto, sottolineato anche dalle Sezioni Unite: le norme di diritto sostanziale sono inutili se non si precisa come istituti sostanziali quali la causalità (il dolo, la colpa) debbano essere provati, se non si enunciano, cioè, le regole probatorie e di giudizio. È proprio la mancata osservanza di queste regole che consente al giudice — come diceva VYS̆INSKIJ — di decidere senza uscire dal suo ufficio, basandosi solo sulla propria intelligenza, sulle sue forze morali, sull’intuito di partito o — come sosteneva MORTARA — di nutrire la convinzione che il codice di procedura penale sia un mero strumento di difesa sociale contro il delitto e non la legge che tutela l’innocenza: se ‘‘non occorre’’ — sono parole del ‘‘grande accusatore’’ KRYLENKO — ‘‘chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente’’, ben si capisce come i giudici possano trincerarsi dietro un formale e del tutto apparente ossequio alle norme sostanziali. È quel che è accaduto in Italia per un lungo periodo successivo all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. La dottrina del dopoguerra, fino al 1965, tenta sostanzialmente di realizzare il proposito di disfarsi della regola a protezione dell’innocente. Ciò avviene ‘‘senza i toni da crociata dei decenni precedenti: non ci si imponeva più il compito espresso di affermare un valore, un’ideologia ma, più sommessamente, quello di mantenere intatto lo status quo e cioè la legislazione penale fascista già elaborata e interpretata nel senso voluto dal regime da molti dei giuristi ancora sulla breccia nel dopoguerra’’ (9). Secondo la stessa chiave di lettura, può essere ravvisata l’impronta indiscutibilmente autoritaria dell’amministrazione della giustizia penale sul terreno della causalità. In Germania, in un processo degli anni ’60-’70 (7) STELLA, op. cit., p. 15 ss., 95 ss. (8) L’espressione di STREE è riportata in STELLA, op. cit., p. 91. (9) GAROFOLI, Presunzione di innocenza e presunzione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni, in questa Rivista, 1998, p. 1182.


— 771 — che ebbe grande risonanza (il processo sul talidomide), i giudici sostennero: noi usiamo nel processo penale un metodo del tutto particolare, il metodo delle scienze dello spirito, che ci consente di comprendere e di intuire ‘‘l’essenza delle cose’’ al di là e anche contro quanto può dirci il sapere scientifico, che utilizza il metodo proprio delle scienze naturali. Traducendo: ‘‘noi giudici siamo l’autorità, e perciò decidiamo tenendo conto esclusivamente della nostra intuizione’’ (10). Ancora più visibile l’impronta autoritaria in una serie di sentenze dei giudici italiani: nessuno può negare — dissero i giudici del processo sul disastro del Vajont — che ‘‘i fenomeni franosi non possono essere catalogati in schemi assoluti perché non obbediscono a leggi precise o, meglio, perché la scienza non ne conosce ancora appieno il mistero’’; (‘‘ogni frana sembra fare storia a sé, nel senso che non è possibile determinare l’esatta evoluzione dei fenomeni neppure attraverso l’esame dei casi similari’’; ‘‘non si può negare l’incapacità della scienza di sciogliere il dubbio sulla natura e la portata del fenomeno franoso’’; ‘‘i numerosi scienziati che hanno studiato il fenomeno sono stati tutt’altro che concordi nell’identificarne le cause naturali e nel ricostruirne le modalità di svolgimento’’); ciononostante deve considerarsi ‘‘del tutto pacifica’’ la circostanza che ‘‘dal punto di vista naturalistico’’, l’azione dell’uomo sia stata condizione necessaria della frana (11). Sulla stessa lunghezza d’onda, altri giudici e altre sentenze: così, i giudici del tribunale di Rovereto, nel processo su un’epidemia di macchie blu comparse sulla pelle degli abitanti della zona, non ebbero esitazione ad affermare che ‘‘la prova giuridica del rapporto di causalità è nello stesso accadimento dei fatti... che rende superflua ogni esplicativa indagine tecnica’’ (12). Ancora una volta è l’idea dell’autorità che si avvale esclusivamente del suo fiuto nella comprensione e interpretazione dei fatti, per asserire il nesso di condizionamento. È su questi frutti perversi e tardivi di una visione autoritaria dello Stato, sprezzante nella sostanza della cultura democratica legata alla protezione dell’innocente, fatta propria dalla nostra Costituzione, che interviene la Suprema Corte con la basilare sentenza sul disastro di Stava del 1990, e con un profluvio di sentenze emanate nell’ultimo decennio del secolo scorso e in questi primi anni del 2000; ed è per recidere quei frutti che intervengono oggi le Sezioni Unite: sono gli anticorpi della democrazia che entrano in funzione, per stroncare alle radici i residui vischiosi delle idee incarnate dalle dottrine di KRYLENKO e VYS̆INSKIJ, nonché delle idee dei giuristi asserviti all’ideologia dello Stato fascista e nazionalsocialista. (10) Cfr. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 77 ss. (11) Cfr. STELLA, op. ult. cit., p. 40 ss. (12) STELLA, op. ult. cit., p. 47 ss.


— 772 — In ciò sta il grande pregio della pronunzia delle Sezioni Unite. Il rischio di profonde involuzioni è il grande pericolo, sempre incombente anche sulle democrazie. Come osserva HANNAH ARENDT, il totalitarismo non è un’anomalia, un accidente storico, ma è intrinsecamente connaturato allo sviluppo della società moderna; nessun regime politico contemporaneo è immune da questo rischio degenerativo e la vigilanza in difesa della democrazia e della libertà deve essere costante (13). 2. La condizione sine qua non come minimum assoluto per l’imputazione causale, la sussunzione sotto leggi e il ripudio della condizione idonea e del criterio dell’aumento del rischio. — Hanno fatto bene dunque le Sezioni Unite — in coerenza con l’insegnamento da sempre seguito dalla Corte Suprema — a ribadire che la condizione necessaria costituisce un minimum assoluto per l’imputazione causale degli eventi lesivi in quasi tutti i Paesi del mondo. Essa rappresenta l’espressione del valore altissimo che noi tutti attribuiamo alla libertà, al buon nome, alla reputazione di ciascun individuo: non è pensabile che qualcuno venga dichiarato, di fronte alla collettività, responsabile di eventi drammatici, dolorosi, di eventi che creano sofferenza se non si prova che ‘‘è stato proprio lui’’ a cagionarli, e la prova che è stato proprio lui si raggiunge solo dimostrando che il suo comportamento è stato condizione sine qua non dell’evento lesivo. Ed hanno fatto bene altresì a ribadire — in conformità ad un insegnamento consolidato dalla Corte Suprema a partire dalla sentenza del 1990 sul disastro di Stava (14) — che il criterio della condizione sine qua non deve essere integrato dal modello della sussunzione sotto leggi. Il rischio degenerativo del nostro sistema democratico si celava infatti nella tendenza dei giudici ad utilizzare la condizione sine qua non come formula vuota, come formula magica, sotto l’uso della quale si annidava l’arbitrio più assoluto. Di fronte al principio di legalità-tassatività, la formula della condizione necessaria non può essere riempita di contenuto dall’arbitrio del giudice ‘‘senza uscire dal suo ufficio’’; i criteri per dare contenuto al requisito della causalità debbono preesistere al giudizio ed il principio del libero convincimento deve perdere la sua connotazione autoritaria per l’insuperabilità della barriera costituita dall’oggettivo sapere scientifico. Con queste premesse, le Sezioni Unite hanno potuto far scendere una scure demolitrice sulle tendenze presenti in un’area giurisprudenziale e dottrinale sempre più vasta che, di fronte ai più importanti temi della modernità, quali le malattie professionali, gli infortuni sul lavoro, i danni da (13) HANNAH ARENDT, The Origin of Totalitarism, New York, 1966, trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, 1996. (14) La sentenza è commentata e parzialmente riportata in STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 415 ss.


— 773 — prodotto, l’attività medico-chirurgica, i disastri ambientali, rivendicavano per il giudice i compiti del legislatore, attribuendogli il potere di assegnare il ruolo di causa penalmente rilevante alla condizione idonea (15) oppure alla condizione necessaria dell’aumento (o mancata diminuzione) del rischio (16). a) L’idea che la causa debba essere intesa nel senso di condizione idonea, individuabile con un giudizio ex ante, è nata e si è diffusa soprattutto nella medicina legale e viene quotidianamente utilizzata nei processi penali dagli esperti medico-legali dell’accusa (17); è questo il modo attraverso il quale i giudici, proprio sulla base delle perizie medico-legali, approdano alla conclusione sull’esistenza del nesso causale. Siamo di fronte ad un’autentica tara d’origine della medicina legale, risalente all’inizio del secolo, cioè all’impostazione data al problema causale dal CAZZANIGA. È stato infatti proprio il CAZZANIGA a rivendicare, con grande decisione, l’autonomia del concetto di causa della medicina legale: dichiarando apertamente che la medicina legale non può e non deve utilizzare la concezione condizionalistica (‘‘tanto meno giustificata appare la concezione del VERWORN’’ — cioè la condizione condizionalistica — ‘‘secondo il quale tutti i fenomeni sono determinati da condizioni di pari valore ed insostituibili, quando si entri nel campo medico-legale, dove si è obbligati a fare distinzione tra le diverse condizioni per isolare quelle che si devono definire come cause’’); precisando che, per la medicina legale, ‘‘causa è ciò che modifica’’, ‘‘intendendo questa capacità modificatrice come idoneità ad apportare variazioni quantitative o qualitative’’; ed illustrando la metodologia per accertare la causa così intesa, metodologia cui venne dato il nome di criteriologia (18). È quanto mai evidente che se la medicina legale opera con concetti e metodi suoi propri, che non hanno nulla a che vedere con i concetti e i metodi del diritto — pretendendo quindi di definirsi come sistema autopoietico chiuso (19) — il meno che ci si possa attendere è un travisamento profondo delle funzioni del diritto, cioè proprio di quelle funzioni che la medicina, in quanto legale, dovrebbe realizzare. La verità è che il diritto, quando interagisce con la scienza medica, non può essere pensato come un corpus di norme che recepisca acriticamente conoscenze accertate altrove. La qualificazione giuridica non è (15) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 242. (16) STELLA, op. cit., p. 247 ss. (17) STELLA, op. cit., p. 242 ss. (18) CAZZANIGA, Sopra i concetti di ‘‘causa’’, ‘‘concausa’’, ‘‘occasione’’ in medicina legale, in Med. leg., 1919, p. 1 ss. (19) Sul sistema autopoietico, cfr., per tutti, TEUBNER, Rechts als autopoietisches system, Frankfurt am Main, 1988, trad. it. Il diritto come sistema autopoietico, Milano, 1996 e le opere di VARELA, MATURANA e LUHMANN citate da questo studioso.


— 774 — un’operazione neutrale, consistente nell’assunzione del sapere della scienza ufficiale a contenuto delle norme: il sistema giuridico, quando utilizza la scienza medica, deve definire in via normativa il sapere che essa esprime. Se dunque l’ordinamento definisce causa penalmente rilevante la condizione necessaria, agli esperti medico-legali non è consentito allargare smisuratamente il campo della responsabilità penale, sostituendosi al diritto e inventando la condizione idonea come criterio di attribuzione della responsabilità: la medicina legale è, appunto, legale e il suo compito è quello, e soltanto quello, di una costruzione giuridica della scienza medica, compiuta secondo i criteri fissati dall’ordinamento, cioè secondo il criterio della condizione necessaria. Va registrato con grande sollievo che proprio quest’anno la medicina legale ha dimostrato di rendersi pienamente conto del significato della parola ‘‘legale’’: mi riferisco all’ultima opera di BARNI, sul tema ‘‘Consulenza medico-legale e responsabilità medica’’ e all’editoriale di FIORI sull’ultimo numero della Rivista Italiana di Medicina Legale. Il colpo inferto da questi due grandi maestri della medicina legale è di quelli destinati a lasciare il segno: non più una medicina legale che determina con criteri suoi propri le conoscenze da ritenersi valide, ma l’aperto riconoscimento del primato del diritto nella definizione dei criteri di valutazione delle conoscenze scientifiche, soprattutto delle conoscenze dominate dall’incertezza. È in questa prospettiva di costruzione giuridica della scienza medica che si colloca il cuore del pensiero dei due studiosi sul capitolo — giustamente definito uno dei più fondamentali della medicina legale — della causalità. Per BARNI e per FIORI, infatti, il medico-legale deve decidere ‘‘se l’azione o l’omissione fu condizione necessaria al verificarsi dell’evento’’. Di qui il suggerimento, alla medicina legale ‘‘di rinunciare ad una malintesa specificità nella definizione del rapporto causale per cui, sulla base del concetto autonomistico, rispetto alle metodologie di giudizio in ambito forense, si può finire col misconoscere il concetto di condizione necessaria, pacificamente usato dall’ordinamento (primo peccato capitale) e col difendere come pigramente affidanti formali criteri di accertamento del rapporto causale (la criteriologia) che nulla hanno a che vedere, se non come richiamo didattico, con l’accertamento del nesso di condizionamento’’ (20); ‘‘il compito dello studioso di medicina legale deve essere rigorosamente condizionato dalle norme esistenti e anche dalle interpretazioni di esse elaborate dai giuristi. Non può sussistere dunque alcun dubbio, nell’ambito della medicina forense, sul fatto, di cui il medico legale deve (20) 57 ss.

BARNI, Consulenza medico-legale e responsabilità medica, Milano, 2002, p.


— 775 — prendere atto operando in conseguenza, che la teoria condizionalistica della causalità... è quella che sta alla base del nostro attuale ordinamento e lo sarà probabilmente anche, e forse con maggiore evidenza, nel futuro codice penale’’ (21). Ecco un primo e importante effetto benefico dell’insegnamento della Corte Suprema, relativo alla condizione necessaria: l’allineamento della medicina legale — che si auspica d’ora in poi operante anche nella prassi — con le funzioni proprie del diritto penale, oggi ribadite dalle Sezioni Unite. b) Il rasoio di OCKHAM delle Sezioni Unite cala pesantemente anche sulle numerose sentenze (22), che hanno utilizzato l’idea della condizione sine qua non come condizione necessaria non dell’evento ma dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio. Le Sezioni Unite prendono qui posizione su un tema che ha fatto ingresso nelle aule giudiziarie negli ultimi trent’anni, per l’impulso di giovani scienze quali l’epidemiologia. L’epidemiologia, come si sa, è scienza di popolazioni: le sue ipotesi non enunciano mai una regolarità nella successione di eventi singoli, ma registrano gli eccessi di rischio di malattie nelle popolazioni indagate, rispetto al rischio atteso. In tutto il mondo è pacifico il riconoscimento che le valutazioni epidemiologiche, essendo appunto relative a popolazioni, sono mute rispetto al caso singolo: in base ai loro risultati, è impossibile attribuire l’evento lesivo ad un determinato comportamento. Le ragioni di questa conclusione sono molteplici: a) le statistiche espresse dalle ipotesi epidemiologiche non dicono nulla su ciò che è realmente accaduto nel caso concreto; b) quando si dice con un’indagine epidemiologica che il ‘‘tanto per cento’’ delle malattie è dovuto a cause professionali o ad altre cause, il numeratore della proporzione (casi attesi) non deriva da un censimento di casi provatamente causati da esposizione, bensì dalla differenza tra il numero dei casi osservati e il numero dei casi attesi; c) non c’è quindi alcuna possibilità di distinguere, fra i casi esposti, chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione, e chi si sarebbe ammalato ugualmente. Se, ad esempio, in una certa provincia si sono verificati ‘‘3000 casi di cancro al polmone, e circa 2000 di questi pazienti hanno avuto contatti, nel corso della loro attività professionale, con una o più sostanze cancerogene per l’apparato respiratorio, sappiamo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che circa 1000 di questi casi non si sarebbero manifestati in assenza di questi speci(21) FIORI, Il nesso causale e la medicina legale: un chiarimento indifferibile, in Riv. it. med. leg., 2002, p. 247 ss. (22) Cfr. STELLA, op. cit., p. 210 ss.


— 776 — fici fattori professionali, ma non sappiamo quali’’ (23). L’epidemiologo BERRINO conclude: per dichiarare qualcuno responsabile, il magistrato dovrebbe ‘‘tirare a sorte’’. Ecco le ragioni per le quali le Sezioni Unite sono così perentorie nel dichiarare ripudiata dal vigente sistema penale l’idea della condizione necessaria dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio. La verità è che le sentenze che si sono ispirate al criterio dell’aumento del rischio segnano, ancora una volta, un ritorno ad una marcata visione autoritaria delle funzioni del giudice, che non può trovare cittadinanza in una democrazia e sulla quale le Sezioni Unite non risparmiano i propri anatemi. A ben vedere, sottintesa a questi vi è la constatazione che oggi lo Stato non esercita più attraverso i giudici la pretesa punitiva in nome di una sua autonoma ragione. Come osserva LÜDERSSEN: ‘‘all’anacronistica ragione di Stato sono subentrate le persone, quelle stesse persone in nome delle quali e per le quali lo Stato agisce’’ (24). Il severo monito lanciato anche dalle Sezione Unite vuole rafforzare e rendere definitivo il congedo da un’amministrazione della giustizia penale nella quale è ancora operante l’idea del giudice funzionario, chiamato a dar corpo burocraticamente alle concezioni autoritarie dello Stato (bisogna punire a tutti i costi, perché ciò che conta è la difesa sociale e non la separazione tra innocenti e colpevoli). ‘‘Voi non potete più — dicono in sostanza le Sezioni Unite, rivolte ai giudici — tentare una inammissibile opera di flessibilizzazione dello schema classico del diritto penale d’evento, proprio degli ordinamenti democratici, attraverso l’espediente della sostituzione della condizione necessaria dell’evento con la condizione dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio, della condizione necessaria dell’evento con la condizione idonea’’ (25). Il monito, ovviamente, riguarda il futuro: le sentenze che, anche sui grandi temi della modernità, intendono dar vita a quell’opera di flessibilizzazione, saranno inesorabilmente annullate. Quanto al passato, il monito assume il significato di un esplicito riconoscimento che numerose sentenze che hanno tentato di erodere il paradigma del nesso di condizionamento tra azione ed evento costituiscono, per il nostro ordinamento, delle autentiche condanne di innocenti, in una prospettiva che continua a dare spazio alle già ricordate indifferenza, de(23) BERRINO, Candido atteggiamento o denuncia di comportamenti inadeguati?, in La medicina del lavoro, 1988, p. 167 ss., al quale si può aggiungere un lungo elenco di epidemiologi, studiosi di medicina del lavoro e giuristi: cfr. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 258 ss. (24) Sul punto, vd. STELLA, op. cit., pp. 185 ss., 210 ss. (25) Cfr. STELLA, op. cit., pp. 242, 247.


— 777 — risione e disprezzo, manifestati per la protezione dell’innocente dai giuristi degli Stati autoritari e totalitari. 3. Il ruolo cruciale svolto dall’oltre il ragionevole dubbio come regola probatoria e regola di giudizio. — Un commento a parte merita il riferimento della sentenza delle Sezioni Unite al ruolo cruciale svolto dall’oltre il ragionevole dubbio, come regola probatoria (il pubblico ministero deve dare la prova oltre il ragionevole dubbio) e come regola di giudizio (compito del giudice è di verificare, nell’interesse della comunità, se l’accusa ha dato la prova oltre il ragionevole dubbio): un riferimento che ribadisce peraltro l’insegnamento racchiuso in due precedenti belle sentenze della Sez. IV della Corte Suprema: la sentenza 25 settembre 200113 febbraio 2002 n. 1652, estensore Battisti (26) e la sentenza 10 giugno 2002 n. 22568, estensore Brusco (27). C’è qualcosa di intimamente immorale — scrivono studiosi italiani ed americani (28) — nel condannare un uomo come criminale anche con una probabilità di colpevolezza misurata quantitativamente — poniamo dello 0,95 per semplicità di esposizione — che comprende marcatamente un misurabile margine di dubbio, cioè un margine di 0,05 e quindi di 1 su 20. L’intima immoralità consiste nel pensare: ‘‘credo che ci sia una probabilità di 1 su 20 che questo accusato sia innocente, ma sono disposto a correre il rischio di 1 su 20 di sacrificarlo erroneamente, nell’interesse della sicurezza pubblica e mia personale’’. Ecco perciò l’intima moralità dell’insegnamento delle Sezioni Unite: i giudici sono chiamati ad adottare la loro decisione rispettando il principio che qualsiasi ragionevole dubbio, di qualunque entità, debba risolversi a favore dell’imputato. Questa insistenza sulla maggiore certezza ragionevolmente ottenibile serve, al momento della decisione, per affermare la dignità dell’imputato ed affermare i suoi diritti come persona. Ho già avuto modo di illustrare la portata e le potenti ragioni che stanno alla base della regola dell’oltre il ragionevole dubbio; qui mi limito ad un breve riepilogo, volto a sottolineare che quella regola non è — come spesso si ritiene — una ‘‘invenzione’’ americana e che, al contrario, essa rientra nella più pura tradizione della democrazia giuridica italiana, negli insegnamenti dei più grandi giuristi dell’Italia liberale dell’800 e del ’900. (26) La sentenza è annotata da D’ALESSANDRO, La certezza del nesso causale: la lezione ‘‘antica’’ di Carrara e la lezione ‘‘moderna’’ della Corte di cassazione sull’ ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’, in questa Rivista, 2002, p. 737 ss. (27) La sentenza è pubblicata in Riv. pen., 2002, p. 671 ss. (28) FROSINI, Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano, 2002, p. 121; TRIBE, Trial by Mathematics: Precision and Ritual in the Legal Process, in Harv. L. Rev., 1971, p. 1372.


— 778 — A proposito dell’esigenza di non essere intimamente immorali, va segnalato che, già nel 1860, il grandissimo CARRARA scriveva: ‘‘vi sono di quelle verità che potrebbero dirsi piuttosto scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio, anziché derivare da umane convenienze o da logiche deduzioni. Una di queste verità eterne è quella che tutti i filosofi ripeterono, tutti i codici rispettarono, tutte le genti venerarono nell’aurea massima in dubio pro reo’’. Questa aurea massima appartiene a quei principi ‘‘di eterna giustizia’’, a quei principi etici che si oppongono alle decisioni di condanna basate sulla probabilità: ‘‘quando il giudice dichiara tenere come probabile che la mia omissione sia stata causa della morte, ritiene probabile che il delitto fosse commesso’’. Senonché, ‘‘sente ognuno che la probabilità non è certezza, che la probabilità ammette il possibile in contrario e che perciò il giudice che ritiene probabile il delitto nel suo materiale, ammette che possa ancora non esservi stato delitto nessuno’’. La verità — conclude CARRARA — è che ‘‘per dar plauso’’ ad una sentenza di condanna basata sulla probabilità, ‘‘bisogna ammettere una di queste proposizioni: o che si possa condannare un cittadino, ancorché sia rimasto incerto se il delitto fu o no commesso, o che la probabilità e la certezza siano la stessa cosa; la prima è una bestemmia giuridica, la seconda è una bestemmia logica. Finché si dice probabile una conseguenza, si ammette che possa anche non essere vera: e la sentenza che implicitamente dichiara poter essere ancora che io sia innocente, se mi condanna, accoppia con mostruosa congiunzione l’innocenza alla pena’’ (29). Ecco l’intima moralità di cui parlano studiosi moderni come TRIBE e FROSINI: coefficienti probabilistici, anche molto elevati, di colpevolezza rendono possibile la mostruosa congiunzione dell’innocenza con la pena, perché ammettere che la colpevolezza è probabile o molto probabile significa dire che la probabilità e la certezza sono la stessa cosa; ed ecco la profonda moralità delle sentenze che, respingendo opinabili quantificazioni probabilistiche, preferiscono richiedere la certezza che si ottiene utilizzando la regola dell’oltre il ragionevole dubbio. Quest’ordine di idee è condiviso da tutta la scuola classica. L’oltre il ragionevole dubbio — dice LUCCHINI — deve diventare regola probatoria e regola di giudizio: la sapienza romana ci ammonisce a ‘‘dirimere ogni conflitto’’ con il principio in dubio pro reo; e se ne capisce la ragione: la mancata protezione dell’innocente è ineluttabilmente accompagnata dal venir meno del rispetto e della fiducia della comunità nella legge penale e dall’allarme dei consociati legato alla scomparsa della certezza dell’azione individuale, da un vero e proprio sovvertimento delle (29) CARRARA, Opuscoli di diritto criminale, 6a ed., III, Firenze, 1910, pp. 53 ss., 57 ss., citato da D’ALESSANDRO, La certezza del nesso causale, cit., p. 744.


— 779 — funzioni dello Stato ‘‘istituite per la tutela del buon diritto e convertite in strumento di onta e di nocumento’’. L’ossequio alle eterne verità, scolpite nel cuore dell’uomo dal dito di Dio, diventa così ossequio a incontrovertibili principi di ragione che spiegano perché, tra l’obiettivo della repressione e l’obiettivo della protezione dell’innocente, debba prevalere quest’ultimo. Quanto alla rauca voce che spesso si leva per asserire che la regola in dubio pro reo deve essere una abile invenzione di un astuto delinquente, camuffato da legislatore, si tratta — conclude LUCCHINI — dello stesso linguaggio con il quale, un secolo fa, si impugnavano le dottrine di BECCARIA e FILANGIERI (30). Le regole a protezione dell’innocente costituiscono d’altra parte, per STOPPATO, ‘‘un principio di eterna giustizia e una forma di valore politico di protezione della libertà, tale da realizzare una delle forme più sicure di ricerca processuale’’: ‘‘la coscienza comune ha suggerito il criterio di giustizia che nel dubbio non si condanni’’ (31). Nel 1900 si leva alta la voce di CARNELUTTI, ‘‘la legge — scrive il grande maestro — considera la condanna ingiusta come un danno sociale, più grave dell’ingiusto proscioglimento e perciò esige dal giudice maggior cautela per condannare che non per prosciogliere’’: è un ‘‘sentimento comune dalle radici profonde per cui apparisce meno intollerabile l’ingiustizia cagionata dall’assoluzione di un colpevole, che quella concretata nella condanna di innocenti’’ (32). E si leva alta la voce anche di SARACENO, altro grandissimo studioso del processo penale. Nell’opera ‘‘La decisione sul fatto incerto’’, si legge: ‘‘l’affermazione che l’interesse all’assoluzione dell’innocente supera l’interesse alla condanna del reo si presenta con la perentorietà e la categoricità di un dato immediato della coscienza’’. Di nuovo dunque gli eterni principi etici, i quali fanno sì che ‘‘tra le due possibilità di errore giudiziario — assoluzione di un reo, condanna di un innocente — lo Stato preferisca la prima’’. E questa preferenza è tale che prevale anche se tra le due ipotesi, reità e innocenza, la prima appare più probabile della seconda (33). La profonda moralità di questi principi, negata dall’esperienza autoritaria, resta silente fino al 1965, quando un saggio di PISANI (34) dà il via a (30) LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze, 1820, sul quale vd. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 62 ss. (31) STOPPATO, Relazione della Commissione della Camera dei Deputati, in Commento al codice di procedura penale, a cura di Mortara e altri, vol. III, 1815. (32) CARNELUTTI, Prove civili e prove penali, Padova, 1925, p. 13 ss. (33) SARACENO, La decisione sul fatto incerto nel processo penale, Padova, 1940, p. 237. (34) PISANI, Sulla presunzione di non colpevolezza, in Foro pen., 1965, p. 1 ss.


— 780 — tutta una serie di approfondimenti dottrinali, susseguitisi fino ai nostri giorni e tutti concordi nel riconoscere che l’oltre il ragionevole dubbio è la regola che definisce l’onere probatorio dell’accusa e il criterio cui debbono ispirarsi i giudici nelle loro decisioni, giacché proprio l’oltre il ragionevole dubbio costituisce la sostanza concreta del principio di non colpevolezza, sancito dall’art. 27 della Costituzione, e dei principi estraibili dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Il riconoscimento delle potenti ragioni che impongono l’oltre il ragionevole dubbio come regola probatoria e di giudizio si estende a macchia d’olio in tutta l’Europa: sul piano dottrinale, l’opera del processualista STREE (35) dimostra, in Germania nel 1962, che in una democrazia non ci sono alternative all’oltre il ragionevole dubbio; sul piano legislativo, questa regola viene codificata in non pochi Stati: l’Ungheria e la Polonia la inseriscono nei codici di procedura penale; la Russia la inserisce addirittura nella Nuova Costituzione del 1993 e la Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite, tenutasi a Roma il 17 luglio 1998, la inserisce nello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato dall’Italia con la l. 17 luglio 1999 (36). Tirando le somme, è impossibile negare che l’oltre il ragionevole dubbio, oltre ad essere presente nella cultura giuridica dell’Italia democratica e liberale, a partire dall’800 (salvo il periodo dello Stato fascista), sia oggi un principio costituzionale che dà sostanza concreta alla protezione dell’innocente sul piano delle prove che incombono sull’accusa e su quello della regola di giudizio; come è impossibile negare — come dimostra anche la ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale — che quel principio costituzionale debba ormai — a più di 50 anni dalla fine della tragica esperienza autoritaria — diventare diritto vivente nella amministrazione quotidiana della giustizia penale. Occorre però capire bene il fondamento e la portata della regola oggi riconosciuta dalle Sezioni Unite come regola probatoria e di giudizio del processo italiano. Quanto al suo fondamento, esso riposa sulla ‘‘verità eterna’’, su un principio di ragione, sul sentimento comune dalle radici molto profonde, su indicazioni che si presentano con la perentorietà e la categoricità di un dato della coscienza che inducono ad asserire che ‘‘è molto peggio condannare un innocente che lasciar libero un colpevole’’. Molto peggio perché? Molto peggio, innanzitutto, per i valori di portata immensa posti in gioco dal processo penale: non solo la libertà personale, ma anche il buon (35) STREE, In dubio pro reo, Tübingen, 1962. (36) Cfr. STELLA, op. cit., p. 154 ss.


— 781 — nome e la reputazione del cittadino, la possibilità di sfruttare le opportunità di lavoro e di vivere la propria vita tranquillamente con i propri cari, cioè un insieme di valori che costituiscono una parte essenziale del sistema di diritti sul quale si basa l’organizzazione giuridica di ogni Stato democratico (37). Tutti sanno, in effetti, che il biasimo morale, legato ad una sentenza di condanna, ha sull’innocente effetti devastanti: ‘‘così violenta, così improvvisa — scrive un innocente la cui vita è stata profanata da un processo penale — così ridicola (di un ridicolo che attimo dopo attimo diventa orrore, strazio, vergogna, infamia) è arrivata questa avventura. L’ultima, certo. Ma non potevano scegliermi croce più dura (...). Sapessi che significa vivere (...) sapendo che non sarà, fino all’epilogo, più vita e non trovare pace nemmeno nelle cose e nelle persone che ti davano pace, e non poter riposare su una sicurezza, mai, mai, mai (...). È uno stravolgimento totale della tua vita, interruzione di una partita procrastinandone il risultato fino al momento in cui il protagonista sia sepolto dall’oblio, se non dalla terra (...). L’idea che la vita, questa cosa preziosissima, sacra, irrepetibile se ne vada così, nell’umiliazione ingiusta mi fa stringere i pugni e i denti in un accesso di rabbia terribile’’ (38). È proprio la spaventosa drammaticità della situazione dell’innocente, così ben scolpita da queste parole, che ha fatto dire al filosofo BERGSON: ‘‘poniamoci la famosa questione: che faremmo noi se apprendessimo che per la salute del popolo, per l’esistenza stessa dell’umanità, ci fosse in qualche luogo un uomo, un innocente, che è condannato ad eterne torture? Noi vi consentiremmo, forse, a patto che un filtro magico ce lo facesse dimenticare, a patto che non ne sapessimo più nulla: ma se noi dovessimo saperlo, pensarci, dirci che quest’uomo è sottoposto ad atroci supplizi perché noi potessimo esistere, che questa è una condizione dell’esistenza in generale, ah no, piuttosto accettare che nulla più esista, piuttosto lasciar saltare il pianeta’’ (39). Ed è la stessa spaventosa drammaticità che ha generato — in studiosi come CARRARA, LUCCHINI, STOPPATO, CARNELUTTI, CALAMANDREI —, in sintonia con gli insegnamenti del diritto romano, la convinzione che il principio per cui è molto peggio condannare un innocente che lasciar libero un colpevole debba costituire la base granitica dell’edificio del processo penale in una ‘‘città di uomini liberi’’ (40). L’altro fondamento, sul quale insistono i grandi giuristi che ho menzionato, è costituito dalla profonda disutilità sociale della condanna del(37) DWORKIN, Taking Rights Seriously, Cambridge (Mass.), trad. it. I diritti presi sul serio, Bologna, 1977. (38) TORTORA, Fratello segreto: la storia di un uomo nel diario di un processo, Milano, 1996, p. 28 ss. (39) BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1951, p. 76. (40) L’espressione di CALAMANDREI, Processo e democrazia, Padova, 1954, p. 63 ss., è riportata da STELLA, op. cit., p. 35.


— 782 — l’innocente. La massima per cui è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole trova infatti la sua ragione nel danno sociale provocato dall’ingiusta condanna. È in gioco la forza morale del diritto penale che — secondo i maestri della scuola classica, CARNELUTTI, SARACENO e tutti gli altri studiosi del processo dell’ultimo trentennio — rischia di disgregarsi e di scomparire dalla coscienza dei consociati, se nella comunità si insinua il dubbio che vengano condannati degli innocenti. La portata della regola dell’oltre il ragionevole dubbio è quanto mai evidente, se si considera che si tratta di una regola molto stringente e severa per l’accusa, che non trova cittadinanza nel processo civile dove, essendo in gioco valori meno importanti, si applica la regola probatoria e di giudizio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che no. Questo è un punto al quale i commentatori italiani, ancora oggi, dedicano scarsa attenzione. Eppure, per chi, come SARACENO, ha condotto uno studio approfondito sulla decisione sul fatto incerto, il giudice deve assolvere ‘‘anche se tra le due ipotesi, reità e innocenza, la prima appare più probabile della seconda, lasciando però residuare dei dubbi sulla colpevolezza’’. La verità — precisava SARACENO — è che la preponderanza dell’evidenza è una regola tipica del processo civile, mentre lo standard probatorio richiesto dal processo penale deve essere tale da eliminare ogni dubbio (41). Quasi con le stesse parole, ai giorni nostri, TARUFFO — uno dei più grandi studiosi italiani delle prove nel processo civile —, illustrando la teoria della decisione giusta, afferma: ‘‘si può dire che il nucleo essenziale del giudizio di fatto verte sulla scelta dell’ipotesi sostenuta da prove preponderanti, dovendosi... stabilire se la probabilità logica sia in favore dell’ipotesi positiva o dell’ipotesi negativa, o dell’una o dell’altra ipotesi positiva. In questo contesto, il limite minimo è rappresentato, appunto, dalla prevalenza dell’ipotesi positiva su quella negativa, in termini di conferma probatoria. Può accadere peraltro che vengano usati criteri di riferimento più elevati in particolari contesti: così, ad esempio, il criterio della prova della colpevolezza... oltre ogni dubbio ragionevole... usato nel processo penale, implica il riferimento ad un livello minimo di conferma probatoria che è assai più elevato di quello della prevalenza di conferma logica di una ipotesi rispetto alle altre’’ (42). Verrà il giorno in cui si scriverà la storia della resistenza opposta dalla prassi al recepimento di queste idee fondamentali sulla decisione giusta: sapremo allora perché, ancora oggi, molto spesso i tribunali penali emanino sentenze di condanna fondate sulla preponderanza dell’evidenza (41) SARACENO, La decisione sul fatto incerto, cit., p. 247 ss. (42) TARUFFO, Idee per una teoria della decisione giusta, in Interpretazione e diritto giudiziale, a cura di Bessone, Torino, 1999, p. 296 ss.


— 783 — fornita dall’accusa, adottando, in sostanza, la regola del più probabile che no. Quella storia sarà, con tutta probabilità, la storia di un libero convincimento senza la barriera costituita dal ‘‘criterio di riferimento’’ delle regole probatorie e di giudizio proprie del processo penale e del processo civile. Sentenze di condanna, dunque, basate su una patente violazione della legge e tali da determinare una distorsione nell’opinione pubblica del modo con cui il nostro sistema può correttamente soddisfare tante ‘‘attese di giustizia’’. Al solo scopo di far toccare con mano le decisioni giuste adottate in alcuni clamorosi processi, ricordo il caso di O.J. Simpson, accusato di aver ucciso la moglie e l’amante: la sentenza fu di assoluzione nel processo penale e una giurata dichiarò che, pur essendo intimamente convinta della colpevolezza dell’imputato, aveva votato a favore dell’assoluzione perché così le imponeva la legge: l’accusa non aveva dato la prova oltre il ragionevole dubbio. Nel processo civile O.J. Simpson fu invece condannato perché, nuovamente, la legge così imponeva: gli attori avevano fornito la prova della colpevolezza secondo il criterio del ‘‘più probabile che no’’ o della preponderanza dell’evidenza (43). Morale. Nelle democrazie moderne, i diritti individuali stanno al centro del sistema giuridico; la loro importanza è tale da richiedere l’intervento della legge; ciò che conta, nel processo penale, non è dunque il libero convincimento, l’intima convinzione del giudice: il compito primario di quest’ultimo è, infatti, il rispetto della legge. Per usare una espressione cara a CALAMANDREI (44), come potranno ‘‘dormire sonni tranquilli’’ quei giudici che hanno ignorato la legge dell’oltre il ragionevole dubbio e si sono lasciati guidare dalla propria intime convinction? Stando alle cronache, non pochi sono i tribunali italiani destinati a non dormire sonni tranquilli: secondo il Presidente del tribunale di Roma, in recenti processi che hanno avuto ampia risonanza sulla stampa, se fosse stata applicata la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, gli imputati sarebbero stati da tempo assolti (una loro condanna sarebbe dunque apparsa nella sua vera sostanza: la condanna di innocenti) (45). Nell’applicazione della regola occorre peraltro evitare i gravi fraintendimenti in cui incorre chi sostiene che ‘‘l’accusa va accolta’’ se ‘‘le prove che rimangono (cioè quelle non confutate) assicurano un alto grado di probabilità logica’’ (46). L’espressione ‘‘alto grado di probabilità logica’’ è (43) Cfr. STELLA, op. cit., p. 143 ss. (44) Sul punto cfr. STELLA, op. cit., p. 33 ss. (45) BIANCONI, Riforma ‘‘all’americana’’, niente condanne se c’è un ‘‘ragionevole dubbio’’, Corsera 6 settembre 2002. (46) IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 219 ss., sul quale vd. STELLA, op. cit., p. 166 ss.


— 784 — qui intesa nel senso di ‘‘alto grado di conferma dell’ipotesi accusatoria’’. Ora, se non si precisa che, per la legge, il grado di conferma dell’ipotesi accusatoria deve essere tanto alto da assicurare la ‘‘certezza processuale’’ richiesta dalla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, sarà difficile sottrarsi al rischio di un abbassamento dello standard imposto dall’ordinamento: l’alto grado di conferma o di probabilità logica può servire nel processo civile per dimostrare che ‘‘è più probabile che no’’ (che sono cioè preponderanti le prove a favore dell’attore o del convenuto); nel processo penale il grado di conferma deve essere tanto alto da assicurare la ‘‘certezza induttiva’’, richiesta dalla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, e quindi va respinta con forza l’idea che alla base della decisione possa essere assunta l’ipotesi dell’accusa quando ‘‘appaia l’unica veramente realistica e ragionevole... l’unica ipotesi prospettabile’’ (47). Che l’ipotesi della accusa sia provvista di un alto grado di conferma, che sia l’unica ipotesi prospettabile è del tutto irrilevante ai fini della decisione: ciò che conta è quel che impone la legge, e dunque che ‘‘l’unica ragionevole ipotesi’’ dell’accusa resista al vaglio dell’oltre il ragionevole dubbio e che il grado di conferma sia talmente elevato da non consentire dubbi ragionevoli. E che dire dell’affermazione che l’art. 530, comma 2 stabilisce ‘‘una vera e propria regola per giudicare... una regola sostanziale del decidere’’? (48). È evidente che l’interpretazione della norma esige di individuare il criterio alla cui stregua stabilire se le prove sono insufficienti e contraddittorie: insufficienti rispetto alla regola della preponderanza dell’evidenza, del più probabile che no o rispetto all’oltre il ragionevole dubbio? Come osserva TARUFFO, nel processo civile la valutazione di sufficienza e insufficienza delle prove è impossibile sulla base di un criterio puro di razionalità o al di fuori della regola di giudizio della preponderanza dall’evidenza: sono insufficienti le prove che non consentono, nel loro insieme, di attribuire all’ipotesi considerata un grado di conferma dello 0,51 o superiore. Diversa la situazione nel processo penale: sono insufficienti le prove che, complessivamente considerate, lasciano spazio a ‘‘dubbi ragionevoli’’ (49). L’oltre il ragionevole dubbio costituisce dunque un criterio non esplicitamente enunciato, ma chiaramente sottinteso, che consente, fra l’altro, di interpretare l’art. 530, comma 2. E in ciò consiste, a mio giudizio, l’insegnamento impartito oggi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, quando affermano che ‘‘l’insufficienza, la contraddittorietà, l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio... sulla reale efficacia (47) IACOVIELLO, op. cit., p. 222. (48) IACOVIELLO, op. loc. citt. (49) TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 395, sul quale vd. STELLA, op. cit., p. 167 ss.


— 785 — condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530, comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia ‘in dubio pro reo’ ’’. In altre parole, ‘‘l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, comportano... l’esito assolutorio del giudizio’’: non dunque insufficienza e contraddittorietà rispetto alla regola della preponderanza dell’evidenza, ma insufficienza e contraddittorietà rispetto alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio. Le conclusioni non cambiano rispetto al tema dei rapporti tra diritto e sapere scientifico, tra diritto e massime comuni di esperienza. 4. L’oltre il ragionevole dubbio, l’incertezza scientifica e l’incertezza del sapere comune. — In una società democratica, tecnologicamente sempre più complessa, la scienza è destinata ad occupare spazi sempre più ampi nelle aule giudiziarie. I giudici, abbandonata ormai ogni pretesa di risolvere, con la propria intuizione, i problemi della scienza e della tecnica, si trovano a dover ridefinire i rapporti tra scienza e diritto. Caduti i miti del pensiero tecnocratico sul recepimento di un sapere neutrale ed oggettivo da parte del diritto, si va facendo strada, nella giurisprudenza, un atteggiamento più critico e riflessivo nel pensare le interconnessioni tra sapere scientifico e attività giurisdizionale. a) Queste interconnessioni sono visibili già nel processo a struttura antagonistica: ‘‘ai fini del diritto, la scienza non è altro che la risultanza delle testimonianze, presentate nel corso del processo, in merito ai fatti di causa, e la qualità di tale scelta dipende moltissimo dall’abilità e dagli scopi delle parti che sollecitano tali testimonianze’’. È la stessa struttura antagonistica del processo a dar vita ad una autentica ‘‘cultura’’ della testimonianza degli esperti, la quale rende assai difficile separare i fatti dalle opinioni scientifiche, le opinioni dalle pure congetture, le questioni di fatto dalle scelte di valore. Il sistema del controinterrogatorio, lodato come il ‘‘miglior meccanismo che il diritto abbia mai inventato per scoprire la verità’’, conduce inevitabilmente ad una ‘‘decostruzione delle ipotesi scientifiche’’ e a mettere in luce ‘‘aree di incertezza e interpretazioni contrastanti’’. In questa situazione, il giudice dovrà inevitabilmente procedere ad una opera di costruzione giuridica della scienza (50). Con quali criteri? Nel processo penale, la regola dell’oltre il ragionevole dubbio costi(50) JASANOFF, Science at the Bar: Law Science and Technology in America, 1995, trad. it. La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001, pp. 23 ss., 80, 88; vd. anche STELLA, op. cit., p. 171.


— 786 — tuisce lo strumento più potente per portare alla luce i valori, i pregiudizi, gli assunti di natura non scientifica, ma politica, gli errori metodologici che si celano dietro molte affermazioni di esperti: è con quella regola che viene animato il contraddittorio, è con quella regola che viene condotto il controesame degli esperti, è con quella regola che viene decostruito il sapere di cui gli esperti sono portatori: ciò che conta è che la decisione del giudice penale non lasci adito a dubbi. b) Qual è il metodo che i giudici devono utilizzare per rendere operante la regola dell’oltre il ragionevole dubbio? È il metodo scientifico, di cui i giudici sono esclusivi custodi. La Corte Suprema italiana l’ha detto chiaramente: le opinioni espresse dagli esperti nei processi non sono risolutive, giacché le ipotesi scientifiche enunciate devono essere provviste di un alto grado di affidabilità (51). Sono queste le premesse per uno sviluppo dei principi enunciati in America dalla sentenza Daubert del 1993 (52): ‘‘nella scienza non vi sono certezze’’ — dice quella Corte —, perché il problema della verità o falsità di un’ipotesi scientifica è un problema destinato a rimanere sempre aperto. Di qui l’esigenza di individuare non già le ipotesi vere, ma le ipotesi scientifiche affidabili; e la massima affidabilità si ottiene applicando due concezioni antagoniste del metodo scientifico: il giudice deve cioè verificare se le ipotesi prospettate dall’accusa e dalla difesa godono di un alto grado di conferma empirica, secondo la concezione induttivistica di HEMPEL, e inoltre verificare che quelle ipotesi siano dotate di un alto grado di corroborazione, ottenuto — secondo la concezione popperiana — attraverso il superamento dei tentativi di falsificazione. Ecco la regola giuridica per risolvere le controversie scientifiche sul metodo, una regola che, se applicata, consente di ritenere o escludere che la decisione giudiziaria adottata sia indenne da dubbi ragionevoli. c) Il compito del giudice nell’opera di sussunzione sotto leggi e di individuazione delle leggi di copertura affidabili appare allora molto difficile e complesso, ma è un’opera indispensabile, ritenuta tale anche dalla nostra Corte Suprema, a partire almeno dalla sentenza sul disastro di Stava del 1990, la quale esige che le ipotesi scientifiche enunciate siano sottoposte a controlli razionali, che mettano in luce il loro grado di affidabilità. d) L’oltre il ragionevole dubbio consente di risolvere anche i problemi legati alle massime di esperienza e al senso comune. (51) Cass. pen., Sez. IV, 6 dicembre 1990, sulla quale vd. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 414 ss. (52) Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 U.S. 579, 113 S. ct. 2786, 125 L. Ed. 2d 469 (1993): la sentenza è riportata per esteso in STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 424; vd. pure ID., Giustizia e modernità, cit., p. 349 ss.


— 787 — È difficile, se non impossibile, fare affidamento sul senso comune o sulla cultura media di una collettività, non solo perché è impossibile stabilire rigorosamente in che cosa essi consistano, ma perché è noto che ‘‘essi contengono un repertorio assai ampio e variegato di errori di metodo’’ (53). Le massime di esperienza, o le generalizzazioni del senso comune si rivelano assai spesso ‘‘massime di inesperienza’’ (54); il loro grado di inaffidabilità razionale è impressionante: lo dimostrano i risultati delle più moderne ricerche (55). Come dovrà dunque comportarsi il giudice, di fronte agli errori profondi, sistematici e fondamentali che caratterizzano le generalizzazioni del senso comune? Come farà ad individuare le massime di esperienza attendibili e quelle inattendibili? Come ho già dimostrato in ‘‘Leggi scientifiche e spiegazione causale’’, l’unico criterio razionale è quello di utilizzare le generalizzazioni del senso comune solo quando, dietro ad esse, possa essere individuato un ben definito sapere scientifico, con le sue ipotesi da sottoporre al controllo della conferma e della falsificazione (56). Solo in questo modo il giudice potrà rendere una decisione che rispetti la regola dell’oltre il ragionevole dubbio. È per questi motivi che non posso condividere quella prassi giurisprudenziale, richiamata oggi anche dalla sentenza delle Sezioni Unite, dalla quale ‘‘emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente (!) generalizzazioni del senso comune, massime di esperienza’’. Perfino HART e HONORÉ nel loro lavoro sulla causalità (57), tutto basato sull’analisi del senso comune, riconoscono che una generalizzazione può essere usata solo se non esistono dei controesempi, che ‘‘le scienze applicate rappresentano un ampio magazzino di controesempi’’ e che ‘‘la spiegazione scientifica dei più piccoli dettagli dei diversi processi causali spesso determina la scelta tra spiegazioni causali opposte’’. Ma se le generalizzazioni del senso comune debbono — nei casi dubbi (nei casi cioè nei quali si deve scegliere tra spiegazioni causali diverse) — cedere il passo alle leggi scientifiche, ciò significa che le prime non sono provviste di potere esplicativo autonomo: in altre parole, che le generalizzazioni del senso comune (53) TARUFFO, op. ult. cit., p. 308. (54) La definizione è di FORTI, L’immane concretezza, Milano, 2000, p. 173. (55) Si veda, per tutti, NISBETT-ROSS, Human Inference: Strategies and Shortcomings of Social Judgement, Englewood Cliff, 1980, trad. it. L’inferenza umana. Strategie e lacune del giudizio sociale, Bologna, 1989; LANZAVECCHIA-NEGROTTI, In difesa della scienza. Etica della razionalità e senso comune, Milano, 2002, p. 19 ss. (56) Cfr. STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 126 ss. (57) HART e HONORÉ, Causation in the Law, Oxford, 1962.


— 788 — possono essere usate solo quando, dietro ad esse, sia possibile scoprire una legge scientifica (58). La verità è che le generalizzazioni del senso comune difettano del requisito del ‘‘controllo critico’’. Può così accadere che si formino delle credenze del tutto erronee e prive di rilevanza esplicativa. Ma come fa il giudice a distinguere le generalizzazioni erronee da quelle non erronee? È un compito impossibile se dietro alla generalizzazione del senso comune invocata non si cela una legge della scienza: di qui il rischio che il ricorso da parte del giudice al senso comune, del tutto sganciato dal sapere scientifico, finisca per compromettere la funzione di garanzia della fattispecie (59). Ben si capisce, dunque, il ruolo che viene a svolgere l’oltre il ragionevole dubbio: nel processo a struttura antagonistica sarà facile far emergere i dubbi più che ragionevoli legati all’uso delle massime di esperienza, utilizzate dall’accusa o da quest’ultima tacitamente assunte. 5. Il tema dei coefficienti di probabilità, nella successione di eventi, richiesti per l’uso di una legge statistica nel processo penale. — La riflessione sui quattro capisaldi della sentenza delle Sezioni Unite ne mette in luce, come si vede, il grande significato per l’amministrazione della giustizia italiana. Si tratta di decidere in quale mondo vogliamo vivere, e per chi vuole vivere nel mondo della democrazia e non in un mondo autoritario, la sentenza segna un punto di non ritorno nel processo di democratizzazione del nostro Paese. In questo contesto si inserisce il problema se le leggi di copertura, richieste dal modello della sussunzione sotto leggi, possano essere anche leggi di forma statistica e se il coefficiente probabilistico, enunciato nella legge statistica, relativo alla frequenza nella successione di eventi di un certo tipo, debba essere un coefficiente prossimo a 100, cioè alla certezza, o possa essere, invece, anche un coefficiente medio-basso di probabilità. Le Sezioni Unite, discostandosi dalle ben note sentenze della IV Sezione le quali esigono la quasi certezza, assicurata da coefficienti molto elevati, vicinissimi a 100 (60), sostengono che possono essere utilizzati anche ‘‘coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista’’. La premessa da cui muovono i giudici delle Sezioni Unite è che ‘‘il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l’explanans è portatore, ma non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi (58) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 144. (59) STELLA, op. ult. cit., p. 146. (60) Vd. sentenze citate in STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 216 ss.


— 789 — scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘prossimo ad 1’, cioè alla ‘certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento’’. Perché non è sostenibile? Non è sostenibile — dicono le Sezioni Unite — ‘‘soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s’innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costituisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità’’. Bisognerebbe perciò sostenere — concludono le Sezioni Unite — che ‘‘è indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento’’. Il problema sollevato dalle Sezioni Unite è molto serio: l’ho già affrontato in ‘‘Leggi scientifiche e spiegazione causale’’ (61) e in ‘‘Giustizia e modernità’’ (62), ma, considerata l’autorevolezza dell’organo giurisdizionale da cui provengono quelle affermazioni, mi riprometto di affrontarlo nuovamente in modo adeguato in un prossimo lavoro: qui mi limito solo ad alcuni spunti di riflessione. È certo, innanzitutto, che ogni conclusione sul nesso di condizionamento e sulla spiegazione causale dell’evento ha inevitabilmente una struttura probabilistica. Ed infatti — come ho già sottolineato più volte — oggi gli scienziati ne sanno molto di più di quanto ne sapessero cent’anni fa, e molto di meno di quanto sapranno tra mille anni. Ora, una spiegazione vera, col requisito della certezza assoluta, dovrebbe fare riferimento al sistema completo delle leggi della scienza (cioè anche a quelle leggi che conosceremo tra migliaia di anni) e dovrebbe altresì far riferimento a tutte le c.d. condizioni iniziali, cioè a tutte le situazioni di fatto sussumibili sotto quel sistema di leggi, condizioni oggi non conosciute e non conoscibili. Per di più, ‘‘nella scienza non vi sono certezze’’ giacché la verità o fal(61) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 275 ss. (62) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 353 ss.


— 790 — sità di un’ipotesi scientifica è un problema destinato a rimanere sempre aperto: siamo perciò costretti ad esprimere un giudizio di mera affidabilità, più o meno elevata, sulle leggi scientifiche che utilizziamo, affidabilità legata dal canto suo a determinati canoni del metodo scientifico, che costituisce il tema più discusso e controverso della filosofia della scienza del ’900 (ricordo che il titolo dell’opera principale di FEYERABEND è ‘‘Contro il metodo’’). Ecco la ragione delle assunzioni tacite di leggi scientifiche e condizioni iniziali che caratterizza ogni spiegazione di eventi singoli; ed ecco la ragione della ‘‘relatività’’ del giudizio dell’affidabilità dell’ipotesi scientifica utilizzata: proprio in ciò sta il significato dell’espressione ‘‘struttura probabilistica della spiegazione causale’’ e ‘‘probabilità dell’esistenza del nesso di condizionamento’’. Di fronte a questa situazione ‘‘globale’’ di mancanza di certezza, ho sempre ritenuto che la certezza assoluta resti un ideale per ora irraggiungibile e che ciò a cui debbono mirare i giudici sia una certezza tra virgolette, cioè la certezza umanamente ottenibile con gli strumenti che oggi sono a loro disposizione. Niente di più, ma neppure niente di meno. In altre parole, ho ritenuto e ritengo che il meno che si possa chiedere, per escludere errori esiziali per l’innocente, sia una spiegazione certa, nel senso di una spiegazione basata sulla sussunzione sotto leggi causali universali o sulla spiegazione degli anelli causali intermedi. Le leggi universali non sono così rare come le Sezioni Unite sostengono; anzi, sono leggi applicate quotidianamente nel mondo in cui viviamo. Così, le leggi di Newton (legge di gravità, principi della termodinamica, meccanica classica, ecc.) — e il rilievo potrebbe ripetersi per molte altre leggi — ‘‘funzionano ancora oggi eccezionalmente bene per il mondo comune di edifici e di aerei, sono ammirevolmente utili per quasi tutti i compiti dell’ingegneria, dai voli nello spazio al disegno degli orologi meccanici’’ (63). È vero che la meccanica di Newton è stata superata due volte nel corso del ventesimo secolo in due rivoluzioni indipendenti della scienza, quella della relatività e quella della meccanica quantistica; ma è anche vero — come scrivono i giudici americani nella sentenza Daubert — che ‘‘la validità scientifica per uno scopo non è necessariamente validità scientifica per altri scopi’’, e ‘‘per molti scopi le leggi di Newton rimangono adeguate: nessun fisico e certamente nessun ingegnere userebbe la meccanica quantistica per disegnare un ponte’’. La verità è che la maggior parte degli scienziati ‘‘considera ancora oggi valide le leggi di Newton perché sono coerenti dal punto di vista logico e all’interno del loro raggio di validità riescono a predire le osservazioni con molta accuratezza, non sono però valide se le si applica su scala atomica o cosmica’’ (64). (63) FOSTER-HUBER, Judging Science, Sabon, 1997, p. 139 ss. (64) FOSTER-HUBER, op. loc. citt.


— 791 — Questa è la ragione per la quale MAIWALD, il più accreditato studioso tedesco della causalità, ritiene che il nesso di condizionamento possa essere spiegato solo attraverso la sussunzione sotto leggi causali universali di tipo newtoniano: il giurista — scrive MAIWALD — ‘‘può avvalersi tranquillamente dei calcoli basati sulle teorie di Newton, e deve impiegare leggi universali’’ (65). Le leggi causali universali e la ricostruzione degli anelli causali intermedi (essa pure basata sulla visione newtoniana) costituiscono dunque gli strumenti per raggiungere la certezza umanamente ottenibile nel processo penale. Non si può tuttavia ignorare che esistono e si sono sviluppate delle discipline come la medicina, dominate da cima a fondo dalla probabilità: è rispetto a discipline di questo tipo che nasce il problema dell’impiego di leggi statistiche. Ora, una legge statistica, proprio perché ammette delle eccezioni, non consente sempre di giungere a quelle conclusioni umanamente certe richieste dal processo penale: il minimo che si possa esigere è che essa sia vicinissima all’universalità, ossia che la frequenza relativa che essa esprime sia vicinissima ad 1 (66), in modo da approdare ad una conclusione quasi certa (67) o di pratica certezza (68) o accettabile al di là di ogni ragionevole dubbio. 6. La ricostruzione degli anelli causali intermedi. — Con queste precisazioni, va affrontato il commento alla sentenza delle Sezioni Unite nella parte in cui si inoltra sul terreno fin qui descritto, a cominciare dal riferimento alla ‘‘dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena eziopatogenetica’’: è evidente che, se è dubbia la ricostruzione degli anelli causali intermedi, la ricostruzione del ‘‘meccanismo di produzione’’ dell’evento lesivo, la conseguenza dovrebbe essere, in assenza di spiegazioni basate su leggi universali o su leggi statistiche con coefficiente vicinissimo ad 1, il proscioglimento dell’imputato. La ricostruzione degli anelli causali intermedi, sia pure non in tutti i loro dettagli, è, come si sa, uno dei pilastri della prova particolaristica, ne(65) MAIWALD, Kausalität und Strafrecht, 1980, trad. it. Causalità e diritto penale, Milano, 1999, p. 91. (66) Cfr. AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), in questa Rivista, 1999, p. 393 ss., sul quale vd. infra, p. 796 ss.; in questo senso, vd. Cass. pen., Sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688; Cass. pen., Sez. IV, 29 novembre 2000, n. 2139; Cass. pen., Sez. IV, 28 novembre 2000, n. 2123, sulle quali vd. nota di CENTONZE, Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità, in questa Rivista, 2001, p. 277 ss.; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001-16 gennaio 2002, n. 1585; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001-13 febbraio 2002, n. 1652, sulle quali vd. nota di D’ALESSANDRO, La certezza del nesso causale, cit., p. 752 ss. (67) STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 304 ss. (68) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 332 ss.


— 792 — cessaria per l’imputazione causale (69). Proprio nella medicina clinica, richiamata dalla sentenza, è unanime il riconoscimento che, senza la ricostruzione degli anelli causali, non si va oltre l’enunciazione di ipotesi non controllate. Ecco cosa dice FEDERSPIL, forse il più grande studioso italiano di epistemologia della medicina: ‘‘immaginiamo, ad esempio, un soggetto affetto da epatite virale al quale sia stata praticata una trasfusione di sangue un mese prima; poiché è noto che le trasfusioni di sangue possono trasmettere il virus epatico, si concluderà che quel paziente si è ammalato a causa della trasfusione. Tuttavia, questa asserzione, parlando in termini rigorosi, è, e resterà, un’ipotesi non controllata fino a che non sarà dimostrato che quel flacone di sangue, che è stato trasfuso, è stato prelevato da un soggetto portatore del virus. In pratica, questi accertamenti non sono spesso effettuabili e le conclusioni cliniche restano allora allo stato di ipotesi non controllate’’. Infine, prosegue FEDERSPIL, ‘‘a volte le ipotesi non vengono controllate perché non sono controllabili di fatto, anche se sono controllabili di principio. Immaginiamo due situazioni diverse: un soggetto che abbia mangiato una certa quantità di funghi velenosi e che presenti una serie di sintomi, ed un soggetto che sia stato a contatto con un coleroso e che presenti anch’egli sintomi preoccupanti. In ambedue i casi si faranno due diagnosi di tipo causale ed i sintomi verranno addebitati al veleno contenuto nei funghi e al vibrione del colera, rispettivamente; tuttavia le due situazioni differiscono, poiché mentre ambedue sono controllabili di principio, soltanto la seconda è controllabile di fatto, identificando il vibrione nelle feci ed eventualmente iniettandolo in un animale. Per la prima situazione, poiché non disponiamo al momento attuale di metodi correnti per la misura della tossina, cioè di mezzi per controllare la nostra ipotesi, si potrà ipotizzare soltanto che la tossina, presente nei funghi ingeriti, sia stata assorbita e circoli nel sangue provocando alterazione dei visceri’’. Queste banali esemplificazioni ‘‘mostrano come nella realtà quotidiana la clinica trovi dei limiti notevoli, a volte invalicabili, a divenire una scienza in cui le asserzioni teoriche siano di fatto controllabili, e quindi una scienza veramente oggettiva’’: l’impossibilità di realizzare un controllo completo delle ipotesi è ‘‘un elemento importantissimo che dà, sul piano pratico, un particolare carattere alla medicina pratica’’ (70). È proprio per assicurare il controllo delle ipotesi che è nato e si è sviluppato il paradigma della microbiologia, sul quale inizialmente si sono appoggiati gli stessi epidemiologi. Un grande studioso di epidemiologia (69) STELLA, op. cit., p. 301 ss. (70) FEDERSPIL, I fondamenti del metodo in medicina clinica e sperimentale, Padova, 1980, p. 79.


— 793 — come COMBA lo riconosce apertamente: ‘‘per dire che un microorganismo causava una malattia, si doveva verificare che il microorganismo era ritrovato in tutti i casi della malattia, doveva essere isolato nei pazienti, coltivato nell’apposito terreno di coltura e, quando reimmesso in un animale da laboratorio, riprodurre la malattia; questa era una griglia di causalità precisa che ha dato degli ottimi risultati dalla fine del secolo scorso fino al dopoguerra’’ (71). Bisogna dunque distinguere, nell’ambito della medicina clinica, tra ipotesi controllate e mere ipotesi, ipotesi non controllate; e se è vero che nella realtà quotidiana la clinica utilizza abitualmente ipotesi non controllate, è altrettanto vero che ciò non può accadere nel processo penale: qui bisogna trovare il vibrione, il microorganismo, la sostanza che consenta di individuare l’anello causale che, nella realtà, collega il comportamento dell’uomo con l’affezione morbosa. Ecco perché, se la ricostruzione degli anelli causali fosse l’unico strumento per dimostrare l’esistenza del nesso di condizionamento, nei casi dubbi ricordati dalla sentenza non vi sarebbero alternative al proscioglimento. 7. Spiegazioni deboli e spiegazioni forti dell’evento lesivo. — Come si sa, però, l’altra strada che il giudice può seguire è l’utilizzazione di generalizzazioni causali che leghino e riconnettano gli eventi ‘‘iniziali’’ con l’ ‘‘evento finale’’: queste generalizzazioni potrebbero, secondo la Corte, essere costituite, oltre che da leggi universali, da leggi di forma statistica con coefficienti probabilistici medi o bassi. È proprio questa l’affermazione che va esaminata con grande attenzione. Esaminandola sotto un primo profilo — il profilo della spiegazione dell’evento — si può anche accettare l’idea che quella raggiunta impiegando coefficienti probabilistici bassi o medi sia una spiegazione, ma non si può certo mettere in dubbio che si tratti di una spiegazione estremamente debole o debole. La domanda allora è: può il giudice accontentarsi di una spiegazione purchessia, anche debole o estremamente debole? Non può. Il processo penale ha bisogno di spiegazioni forti, che assicurino la protezione dell’innocente. Sentiamo cosa dice, fra i tanti, e proprio sul terreno al quale la Corte Suprema ha dedicato una specifica attenzione, il terreno della medicina, il grande filosofo CARNAP: ‘‘nel caso di talune spiegazioni le uniche leggi note cui possiamo far ricorso sono statistiche piuttosto che universali. Ad esempio, possiamo sapere che una data specie di funghi è leggermente ve(71) Procedimento avanti il Tribunale di Venezia relativo al Petrolchimico, ud. 1o luglio 1998, pp. 142-143.


— 794 — lenosa e causa determinati sintomi di avvelenamento nel 90% delle persone che li mangiano. Se un medico riscontra questi sintomi, visitando un paziente, e questi lo informa che ieri ha mangiato funghi di quella specie, il medico considererà ciò una spiegazione dei sintomi, anche se la legge implicata è solo statistica. E in effetti, anche questa è una spiegazione. Anche se una legge statistica fornisce una spiegazione estremamente debole, si tratta pur sempre di una spiegazione. Ad esempio, in medicina, una legge statistica può affermare che il 5% delle persone che mangiano un dato cibo presenterà determinati sintomi. Se un medico cita questa legge come spiegazione a un paziente che presenta quei sintomi, il paziente può rimanere insoddisfatto. Perché — egli chiede — proprio io cado entro questo 5%? In certi casi, il medico può essere in grado di dare ulteriori spiegazioni. Può fare su quel paziente opportune analisi e constatare che egli è allergico a quel particolare cibo: ‘se avessi saputo questo’, dirà al paziente, ‘l’avrei messa in guardia contro questo cibo. Sappiamo che se un soggetto con questa allergia mangia questo cibo, nel 97% dei casi presenta sintomi come i suoi’. Questa spiegazione più forte può soddisfare il paziente’’ (72). Spiegazioni deboli, o estremamente deboli, e spiegazioni forti possono essere tutte intese, secondo CARNAP, come spiegazioni, ma solo le spiegazioni forti possono ‘‘soddisfare il paziente’’; solo spiegazioni forti, basate su leggi statistiche con coefficiente percentualistico molto elevato, vicino a 100, possono giustificare decisioni vitali per il paziente, quale quella di effettuare un intervento chirurgico con un elevato rischio di morte. In altre parole, ‘‘se le conseguenze sono gravi, la probabilità su cui si basa la diagnosi dovrà essere elevata: tanto più elevata quanto più gravi siano le conseguenze, fino a raggiungere una probabilità vicina a 1, quando le conseguenze siano molto gravi’’ (73). Tutto dipende, insomma, dai valori posti in gioco: se questi valori sono di portata immensa, come nel processo penale e nello svolgimento dell’attività medico-chirurgica, la base della decisione dovrà essere una spiegazione forte. Altri filosofi della scienza, come HEMPEL, preferiscono usare il concetto di ‘‘spiegazione adeguata’’: ‘‘i due tipi di spiegazione mediante leggi di copertura (universali e statistiche, n.d.a.) hanno questa caratteristica in comune: essi spiegano un evento mostrando che, in relazione a certe circostanze e leggi generali, il suo verificarsi era da attendersi (in senso puramente logico) o con certezza deduttiva o con probabilità induttiva. In virtù di questa caratteristica, i due tipi di spiegazione soddisfano pienamente ciò che, io sostengo, è un requisito di adeguatezza per ogni argo(72) CARNAP, Philosophical Foundations of Physics, 1966, trad. it. I fondamenti filosofici della fisica, Milano, 1971, p. 19 ss. (73) STELLA, Clinica medica e processo penale, in Riv. it. med. leg., 1999, pp. 475 ss., 478 ss.


— 795 — mentazione che è da qualificare come una spiegazione razionalmente accettabile di un dato evento’’, ma la soddisfano a certe condizioni. Così, nel caso di una legge di forma statistica si ha ‘‘una proposizione stabilente che, sotto condizioni di tipo più o meno complesso F, si avrà l’occorrenza dell’evento o esito di tipo C, con probabilità statistica (cioè, in parole povere: con una frequenza relativa su lunghe serie) Q... Se la probabilità Q si avvicina ad 1, una legge di questo tipo può venire invocata per spiegare l’occorrenza di G in un dato particolare caso in cui sono realizzate le condizioni F’’ (74). Questa concezione delle condizioni di adeguatezza è stata presa molto sul serio da SCRIVEN, il quale adduce la seguente esemplificazione, a supporto della sua concezione: ‘‘la paralisi si dà in persone che hanno precedentemente sofferto di sifilide; e lo sviluppo della paralisi, in un dato paziente, può perciò essere propriamente spiegato ad opera di una precedente infezione sifilitica e perciò con il riferirsi ad un antecedente che costituisce una condizione necessaria, ma lungi dall’essere sufficiente: poiché, in realtà, solo una piccolissima percentuale di sifilitici sviluppa la paresi. Questa spiegazione viola chiaramente la condizione di adeguatezza sopra proposta. In effetti, come SCRIVEN osserva per primo, ‘‘sulla base dell’affermazione che una persona ha avuto la sifilide ‘noi dovremmo predire che la paresi non si darà’. Ma precisamente poiché la probabilità statistica per la sifilide è così piccola, e poiché di conseguenza, in base all’informazione data, noi dobbiamo razionalmente aspettarci che la persona in questione non avrà la paresi, l’informazione che il paziente ha avuto la sifilide chiaramente spiega l’effettivo darsi della paresi in questo caso, non più che la vittoria del primo premio di un qualche individuo alla lotteria di Irlanda è spiegato dall’informazione che egli aveva comprato il biglietto’’ (75). In un’altra opera, HEMPEL ribadisce questo ordine di idee: se — egli osserva — si formula l’ipotesi della ‘‘probabilità = pratica certezza’’ e se la frequenza di un certo risultato in una lunga serie non è vicina alla probabilità così ipotizzata, ‘‘allora è molto verosimile che questa ipotesi sia falsa. In tale caso, i dati frequenziali contano come dati che sconfermano l’ipotesi...’’ (76). In altre parole, ‘‘la spiegazione probabilistica di un evento particolare condivide certe caratteristiche fondamentali con il corrispondente tipo di spiegazione nomologico-deduttiva. In entrambi i casi, l’evento dato è spiegato facendo riferimento ad altri eventi, con i quali l’explanandum è connesso mediante leggi. Ma nell’un caso le leggi sono di forma universale, (74) HEMPEL, Reasons and Covering Laws in Historical Explanation, New York, 1993; trad. it. HEMPEL-ANTISERI, Come lavora uno storico, Roma, 1997, p. 85. (75) HEMPEL-ANTISERI, op. cit., p. 91. (76) HEMPEL, Philosophy of natural science, Englewood Cliffs, 1966, trad. it. Filosofia delle scienze naturali, Bologna, 1968, p. 101.


— 796 — nell’altro hanno forma probabilistica. E mentre una spiegazione deduttiva mostra che in base all’informazione contenuta nell’explanans, l’explanandum doveva aspettarsi con ‘certezza deduttiva’, una spiegazione induttiva mostra soltanto che, in base all’informazione contenuta nell’explanans, ci si doveva aspettare l’explanandum con alto grado di probabilità e forse con pratica certezza’’ (77). Ed ecco le conseguenze che HEMPEL trae per l’azione pratica: ‘‘per l’azione pratica, per le decisioni da adottare, se le ipotesi probabilistiche devono essere accettate o respinte, in base ai dati statistici concernenti le frequenze osservate, allora si pone l’esigenza di opportuni criteri... Il rigore dei criteri prescelti varierà normalmente secondo il contesto... In generale esso dipenderà dall’importanza attribuita, nel contesto dato, alla preclusione di due generi di errori che potrebbero venir commessi: respingere l’ipotesi in esame, sebbene sia vera; e accettarla sebbene sia falsa. L’importanza di questo punto è particolarmente evidente quando la ripulsa o l’accettazione dell’ipotesi deve servire come base per l’azione pratica. Così, se l’ipotesi riguarda la probabile efficacia e sicurezza di un nuovo vaccino, allora la decisione circa la sua approvazione dovrà tener conto non soltanto del grado di corrispondenza tra i risultati dei controlli statistici e le probabilità specificate dall’ipotesi, bensì anche di quanto potrebbero essere serie le conseguenze del fatto di accettare l’ipotesi e di agire in conformità ad essa (per esempio inoculando il vaccino ai bambini) quando, di fatto, essa fosse falsa’’ (78). Questo passo di HEMPEL è veramente cruciale: le decisioni da adottare, sulla base dei ‘‘coefficienti probabilistici’’, dipendono dal contesto: se l’ipotesi dell’esistenza del nesso di condizionamento si basa su coefficienti ‘‘medi o bassi’’, e risulta falsa, le conseguenze sono devastanti (condanna dell’innocente), in qualche modo assimilabili a quelle dell’inoculazione del vaccino. Ecco perché la probabilità deve essere vicinissima a 100. Secondo la Corte Suprema, sarebbe corretta o sbagliata la decisione, basata su una probabilità medio-bassa di riuscita, di inoculare un certo vaccino ai bambini? La risposta a questa domanda era la risposta che doveva essere data al quesito del grado di probabilità richiesto per condannare un imputato. Potrei continuare riportando il pensiero dei molti studiosi che individuano nella probabilità frequentista espressa dalla legge di copertura una probabilità assai prossima ad 1, perché si possa raggiungere una spiegazione adeguata. Mi limito qui a ricordare il pensiero di un importante studioso della teoria della conoscenza, EVANDRO AGAZZI, Presidente de l’Académie Internationale de Philosophie des Sciences. Il pensiero di AGAZZI si basa su queste premesse: la diffusa diffidenza verso la metafisica che ca(77) HEMPEL, op. cit., pp. 93-94. (78) HEMPEL, op. cit., p. 102.


— 797 — ratterizzò il positivismo dell’800 condusse ad una specie di eliminazione del concetto di causa nelle scienze. A partire da COMTE, lo scopo della scienza fu ridotto alla constatazione di una regolarità tra fenomeni, regolarità che non veniva concepita come esprimente una necessità. Il ’900 non tardò a cambiare il modo di considerare la scienza: il neo-positivismo, detto anche positivismo logico o empirismo logico, diede vita alla concezione che consiste nell’attribuire alle leggi scientifiche la caratteristica di esprimere il massimo grado di oggettività e attendibilità, conseguibile dall’uomo: emerge allora con forza, soprattutto ad opera di autori come CARNAP e HEMPEL, la tematica della spiegazione scientifica, che riprende, approfondendole, le prospettive già avanzate da ARISTOTELE e LEIBNIZ. È da questa concezione che nasce il modello nomologico-deduttivo di spiegazione, con il quale l’epistemologia contemporanea identifica la spiegazione causale. Con questo modello, il rapporto causale viene inteso come una regolarità, ma si accetta l’idea che ‘‘la causalità debba aggiungere alla regolarità anche la caratteristica della necessità... La richiesta che fra le premesse figurino leggi universali si fonda proprio sul presupposto che tale universalità sia l’espressione di una qualche necessità’’. E le leggi statistiche? La risposta di AGAZZI è molto chiara e persuasiva: si vede subito — egli osserva — ‘‘come l’applicazione della spiegazione statistica alla ricerca delle cause dell’evento singolo sia molto problematica. Infatti è solo per una sorta di estensione del linguaggio che noi parliamo (dal punto di vista frequentista) di probabilità dell’evento singolo. È un modo di dire che sottintende questo: se effettuassimo un numero adeguato di prove, l’evento dovrebbe presentarsi con una frequenza Q. Il fatto è, però, che quando siamo di fronte all’evento E che si è prodotto, ossia quando non possiamo immergerlo in una serie di prove perché è appunto singolo, non siamo in grado di attribuirgli, come causa, quella che la legge statistica prevederebbe, se non con un grado di fiducia proporzionale alla probabilità insita nella legge di copertura. Ecco perché... gli autori che trattano questo tema sono concordi nell’esigere che la probabilità frequentista, espressa nella legge di copertura, sia molto prossima ad 1, ossia alla certezza.... Non si tratta di una semplice misura di cautela, bensì del fatto che si può parlare di causalità solo in presenza di un nesso necessario; già il fatto di far coincidere tale necessità con una universalità non è esente da problemi, ma almeno questa deve essere assicurata. Ora, una legge statistica, proprio perché ammette eccezioni, già indica di per sé l’assenza di necessità e il minimo che si possa esigere è che essa sia vicinissima all’universalità, ossia che la frequenza relativa che essa esprime sia vicinissima a 1’’. Pertanto, conclude AGAZZI, ‘‘perfino un’elevata probabilità statistica, interpretata come sintomo di una dipendenza causale, non garantisce la spiegazione causale dell’evento singolo. Ad esempio, si considera statisticamente provato che il fumo può produrre il cancro al polmone, tuttavia


— 798 — non soltanto ci sono accaniti fumatori che non contraggono il cancro al polmone, ma ci sono anche persone che contraggono tale cancro senza aver mai fumato; pertanto, perfino se riscontriamo un cancro al polmone in un fumatore non possiamo concludere con certezza che il fumo ne è stato la causa. A fortiori una regolarità statistica di bassa frequenza non è assolutamente in grado di stabilire l’imputazione causale dell’evento singolo’’ (79). Sulla stessa lunghezza d’onda, l’odierna medicina legale: recenti sentenze della Cassazione — scrive FIORI — stanno riconducendo il criterio di probabilità ‘‘a livelli vicini alla certezza, allontanandosi così dal pericoloso e inaccettabile criterio adottato in un non lontano periodo dalla giurisprudenza di legittimità: che era giunta a riconoscere il nesso causale, perlomeno nei casi di responsabilità medica, perfino con probabilità pari al 30%, equivalente ad una improbabilità del 70%’’ (80). Ancora più esplicito BARNI: bisogna agganciare — scrive il medico senese — ‘‘i giudizi sul nesso causale ad un sapere giuridico oggettivo, basato su leggi di copertura di forma universale o statistica: ...sapere che consente... delle conclusioni... certe, quando siano disponibili leggi statistiche che consentano una spiegazione forte (forte perché basata sui coefficienti percentuali vicino a 100) oppure si basino su una teoria sufficientemente confermata, relativa al meccanismo di produzione della malattia’’. Potrei fermarmi qui, prendendo atto che, per i massimi studiosi di filosofia della scienza, i coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista danno luogo a spiegazioni deboli (coefficienti medi) o estremamente deboli (coefficienti bassi), spiegazioni che non sono soddisfacenti per ‘‘il paziente’’ — e dunque per il giudice —, a differenza delle spiegazioni forti con coefficiente probabilistico vicino a 100 (CARNAP), oppure sono coefficienti che non consentono alcuna spiegazione, in quanto privi del requisito dell’adeguatezza (HEMPEL), o in quanto troppo lontani dal requisito della necessità causale (AGAZZI). 8. Le nude statistiche, le probabilità causali ex ante, la concretizzazione della legge di copertura. — A completare il quadro, vi sono altre importanti argomentazioni, formulate da giuristi o da studiosi di matematica applicata al processo: l’invito a tener conto di questo tipo di argomentazioni è implicitamente contenuto nella sentenza delle Sezioni Unite, quando osserva che ‘‘coefficienti medio-bassi di probabilità impongono verifiche della specifica applicabilità nella fattispecie concreta’’. Se non capisco male, in questo modo viene richiamata l’esigenza del riscontro di un’evidenza personalizzata. Penso che su queste esigenze pos(79) AGAZZI, La spiegazione causale di eventi individuali (o singoli), cit., p. 401 ss. (80) FIORI, op. cit., p. 262.


— 799 — siamo essere tutti d’accordo: come osserva la THOMSON, professore di filosofia al Massachusetts Institute of Technology (MIT) ‘‘ciò che preoccupa i sostenitori dell’evidenza personalizzata è precisamente la convinzione che un’imposizione di responsabilità giusta richiede che venga rispettato questo requisito più forte’’. Essi credono che ‘‘le possibilità matematiche’’ o le ‘‘probabilità quantitative non siano, di per sé, sufficienti; ciò perché essi pensano, giustamente, che se un tribunale dichiara che una persona è colpevole sulla base soltanto di un’evidenza non personalizzata, allora è pura fortuna per il tribunale se ciò che dichiara è vero; e perché pensano, non senza ragione, che è ingiusto imporre la responsabilità puntando sulla fortuna’’ (81). E che cosa farebbe sì che non sia solo fortuna, o un caso, per il tribunale, se ciò che dichiara vero è vero? La risposta della THOMSON è: ‘‘una garanzia’’, costituita da una evidenza che correli il caso singolo con la responsabilità (82). Sull’evidenza personalizzata e sulla ‘‘garanzia’’ si può discutere a lungo, ma nella discussione non si possono mai perdere di vista alcuni punti fermi. Per individuare questi punti fermi, per potare il ‘‘cespuglio di rovi’’ (83) che ci troviamo di fronte, è indispensabile che ci chiariamo le idee sulla distinzione tra nude statistiche, probabilità ex ante e probabilità ex post, prova particolaristica e concretizzazione della generalizzazione causale. a) Le nude statistiche. Una nuda statistica è una cronaca di un raggruppamento accidentale, ‘‘che non concretizza un elemento astratto di una generalizzazione causale, né una probabilità causale ex post o ex ante associata a qualsiasi generalizzazione’’ (84). Delle nude statistiche mi sono già occupato in Giustizia e Modernità, commentando un celebre caso-guida, il caso Summers v. Tice (85). Summers, Tice e Simonson vanno a caccia di quaglie; una quaglia prende il volo e Tice e Simonson sparano contemporaneamente tutte le pallottole del loro fucile, e Summers, che si trova nel luogo dove la quaglia prende il volo, viene colpito ad un occhio; il fucile di Simonson aveva 99 pallottole, quello di Tice una sola; nel corpo di Summers viene trovata una sola pallottola. Chi ha ferito Summers? (81) THOMSON, Rights, Restitution and Risk, Cambridge (Mass.), 1986, p. 241 ss., sulla quale cfr. STELLA, op. cit., p. 314 ss. (82) THOMSON, op. loc. citt. (83) Si allude al titolo dell’opera di WRIGHT, Causation, Responsibility, Risk, Probability, Naked Statistics, and Proof: Pruning the Bramble Bush by Clarifying the Concepts, in Iowa L. Rev., 1988, p. 1001 ss. (84) WRIGHT, op. cit., p. 1053 ss. (85) Vd. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 302 ss.


— 800 — Di primo acchito si potrebbe pensare che vi siano 99 probabilità su 100 che lo abbia ferito Simonson. In questo modo, però, si cadrebbe in una confusione esiziale: per dire che Simonson ha ferito Summers c’è bisogno infatti, come in tutti i casi di causalità, di una generalizzazione causale; ma la circostanza che Simonson abbia sparato 99 proiettili non è la concretizzazione di alcuna generalizzazione causale, è una ‘‘nuda statistica’’ che, come tale, è del tutto muta rispetto alla spiegazione dell’evento (ferita di Summers). Molto eloquente invece è la prova balistica sulle scanalature del proiettile che ha colpito Summers: se queste scanalature sono quelle del proiettile sparato da Tice, questa sarà la prova particolaristica che inchioda il responsabile dell’accaduto. Anche GLANVILLE WILLIAMS riconosce che è sbagliato ritenere il convenuto responsabile se c’è una nuda statistica pari al 95% che abbia causato volutamente il danno all’attore: ‘‘le nude statistiche — dice WILLIAMS — non delimitano il convenuto da altri (...). L’esigenza che la prova sia centrata sull’imputato deve essere considerata come una regola di legge, correlata alla dimostrazione’’ (86). In effetti — precisa WRIGHT — ‘‘le nude statistiche, che sono semplicemente raggruppamenti accidentali, non contano per niente come prova di cosa sia realmente accaduto, in una particolare occasione. Per determinare cosa sia realmente accaduto ‘‘dobbiamo dare una dimostrazione particolaristica della concretizzazione della legge causale di fondo, nel caso particolare. Le nude statistiche non sono probanti perché non sono la prova della concretizzazione di un elemento di una generalizzazione causale’’ (87). In altre parole, si tratta di formulare un giudizio ex post, legato alla prova particolaristica di concretizzazione, e non un giudizio ex post su nude statistiche. Per tornare all’esempio fatto, le nude statistiche sul numero di proiettili sparati da Simonson e da Tice riportano semplicemente un raggruppamento accidentale. Non esiste generalizzazione causale che possa spiegare la ferita di Summers in termini di ‘‘tasso di proiettili’’ sparati da Simonson e da Tice. WRIGHT prevede un’obiezione: ‘‘si potrebbe, egli osserva, sostenere che esiste una generalizzazione causale che include, come uno dei suoi elementi astratti, il numero di proiettili sparati da una persona, o dall’altra (...) La generalizzazione causale stabilita sarebbe: ‘più proiettili si sparano a qualcuno, più probabilmente lo si ucciderà’; coloro che sostengono tale generalizzazione causale potrebbero anche sottolineare che una persona (...) che spara 99 colpi è quasi certa di uccidere la vittima designata, men(86) WILLLIAMS, The Mathematics of Proof, in Criminal L. Rev., 1979, p. 297 ss. (87) WRIGHT, Causation, Responsibility, Risk, cit., p. 1056 ss.


— 801 — tre è molto meno probabile che l’autore dell’uccisione sia chi spara un solo colpo’’. Ma ecco la convincente risposta dello studioso americano: ‘‘quella indicata non è un’autentica generalizzazione causale esplicativa, perché non è in grado di essere concretizzata’’. ‘‘Quale dimostrazione particolaristica — si chiede WRIGHT — concretizzerebbe l’evento astratto descritto come ‘i proiettili che uno spara in più?’ Forse dovremmo immaginare una infinita sequenza di generalizzazioni causali: ognuna con una probabilità causale ex ante di morte diversa, basata sulla circostanza ‘di sparare’ un proiettile, due proiettili, (...) n proiettili. Ma ciò implicherebbe che, quando n proiettili vengono sparati, e solo uno colpisce, come nella nostra ipotesi, tutti gli n proiettili hanno causato la morte, dato che sono richiesti tutti per concretizzare l’invocata generalizzazione causale multi-colpi’’. Ma solo un proiettile ha colpito il corpo di Summers: come possono gli altri proiettili essere causa? Lo dicono gli stessi probabilisti matematici: il numero di proiettili sparati non riguarda la probabilità causale ex ante che ogni particolare proiettile colpisca, trattandosi di probabilità uguale per ciascun proiettile sparato (88). La verità — aggiunge WRIGHT — è che ciò che si può fare è solo ‘‘l’applicazione di regole di probabilità matematica standard alla probabilità causale ex ante, associata alla sola generalizzazione causale che sia rilevante per la nostra ipotesi, e cioè alla generalizzazione secondo la quale ‘sparare un proiettile a qualcuno, è una attività che spesso uccide o ferisce’. È quest’ultima generalizzazione causale che è stata concretizzata da un singolo proiettile, piuttosto che da molti’’. Ma ecco il punto: questa generalizzazione ‘‘a colpo singolo’’ non fornisce alcuna base per distinguere il singolo proiettile di Tice da ciascuno dei 99 proiettili di Simonson. E proprio in ciò sta la dimostrazione che le probabilità ex ante, se sono rilevanti per la predizione di cosa accadrà, ‘‘sono irrilevanti per la spiegazione causale di cosa è realmente accaduto (...) nella nostra ipotetica sparatoria’’: anche se si ipotizza che Tice sia uno scarso tiratore, cosicché la probabilità causale ex ante che Tice uccidesse Summers è stata ‘‘al massimo dell’1%’’, mentre quella che Simonson uccidesse Summers è stata ‘‘al massimo del 63%’’, la grande differenza delle probabilità ex ante ‘‘non ci dice nulla su ciò che si è realmente verificato, in questa particolare occasione. Per determinare cosa realmente è accaduto, dobbiamo stabilire se sia stata la legge causale sottostante alla generalizzazione che interessa Simonson o quella sottostante alla generalizzazione che interessa Tice ad essere stata completamente concretizzata, in questa particolare occasione’’ (89). (88) WRIGHT, op. cit., p. 1060. (89) WRIGHT, op. cit., p. 1051.


— 802 — La conclusione dunque è che solo dimostrazioni particolaristiche riescono a provare la concretizzazione. Ecco perché le probabilità derivanti dai test balistici sono basate su dimostrazioni particolari che hanno elevato valore probatorio: ogni fucile ha irregolarità uniche sul calcio e sulla canna, che provocano segni distintivi su ciascun proiettile che viene sparato. Nella nostra ipotesi, i segni sul particolare proiettile che ha ucciso sono stati confrontati con quelli su proiettili noti per essere stati sparati da Simonson e da Tice. I segni sui proiettili sono prova particolare che il proiettile che ha ucciso Summers era stato sparato dal fucile di Tice e non da quello di Simonson’’ (90). Anche accettando il rilievo che assegna ai test balistici un’accuratezza dell’80% (91), quei test balistici in entrambi i fucili, nell’ipotesi considerata, portano ad una probabilità ex post del 94% che il proiettile che ha ucciso Summers sia venuto dal fucile di Tice, rispetto alla probabilità ex post del 6% che sia venuto da quello di Simonson. E ciò sarebbe sufficiente a giustificare l’applicazione della regola, propria del processo civile, della preponderanza dell’evidenza (92). b) Le nude statistiche e il teorema di BAYES. Le nude statistiche o raggruppamenti numerici accidentali non possono dunque offrire la prova particolaristica della causalità individuale. Non possono farlo neppure nella prospettiva dell’applicazione del teorema di BAYES. Il teorema di BAYES è stato enunciato alla fine del 1700 e ha dato luogo ad un dibattito ininterrotto nell’ambito della teoria della probabilità: secondo il teorema, l’affidabilità di un’ipotesi può essere dimostrata matematicamente, attraverso l’attribuzione iniziale ‘‘a priori’’ di un valore matematico, ad esempio 50%, che riflette il convincimento di chi formula l’ipotesi; la probabilità ‘‘a priori’’ deve essere poi modificata, sulla base delle nuove evidenze che si rendono disponibili nel corso della ricerca, ed il risultato finale sarà una probabilità oggettiva, ad es. dell’80%, dell’ipotesi, del tutto affidabile proprio perché oggettiva (93). Orbene, l’utilizzabilità della probabilità bayesiana è esclusa, come dimostrazione della prova particolaristica, sia nel processo civile che nel processo penale per una molteplicità di motivi, convincentemente enunciati, come vedremo meglio più avanti, da giuristi, giudici, studiosi di matematica e di teoria della conoscenza (94). Pensiamo — dice lo studioso americano WRIGHT — al caso in cui su (90) WRIGHT, op. cit., p. 1058 s. (91) KELMAN, The Necessary Myth of Objective Causation Judgments in Liberal Political Theory, in Chicago-Kent L. Rev., 1987, p. 579 ss. (92) WRIGHT, op. cit., p. 1059. (93) FOSTER-HUBER, op. cit., p. 115 ss. (94) Il fallimento delle dottrine bayesiane e delle altre concezioni quantitative della


— 803 — 1000 spettatori ad una partita di calcio, 999 non abbiano pagato il biglietto, siano cioè degli scrocconi, che solo A abbia pagato, e che l’addetto alla biglietteria lo identifichi come il solo che ha pagato, con una probabilità del 2% che egli si sbagli: ‘‘usando le nude statistiche che il 99,9% degli spettatori era senza biglietto, come probabilità iniziale del teorema di BAYES, la probabilità corretta che A sia uno scroccone, anche dopo l’identificazione da parte dell’addetto alla biglietteria, sarebbe ancora superiore al 95%. I bayesiani concluderebbero testardamente che A è stato di sicuro uno spettatore senza biglietto, malgrado la testimonianza dell’addetto alla biglietteria’’ (95). Senonché, ‘‘questa conclusione non solo va contro l’intuito, ma è anche evidentemente scorretta. Il problema non è il teorema di BAYES in sé, che è un valido teorema matematico di probabilità, ma l’uso che si fa dei tassi astratti di base, e cioè l’applicazione di nude statistiche, o probabilità ex ante, per contestare probabilità ex post basate su prove particolaristiche. I bayesiani stanno mescolando mele ed arance. Infatti, i tassi di base descrivono semplicemente la distribuzione globale di avvenimenti in una categoria, e non danno informazioni su nessun caso in particolare’’. In conclusione, secondo WRIGHT, ‘‘il fatto che giudici, giurati e studiosi di diritto ignorino i tassi di base e si concentrino invece sulla prova particolaristica è, contrariamente a quanto sostenuto dai bayesiani, altamente razionale’’ (96). Altri giuristi di peso condividono le conclusioni di WRIGHT. Ho già ricordato GLANVILLE WILLIAMS; ora, fra i tanti altri studiosi americani, ricordo DERSHOWITZ. Professore ad Harvard, racconta di aver fatto il seguente esempio ai suoi studenti: una persona è stata investita da un autobus; il 90% degli autobus circolanti in città è blu, mentre gli altri sono gialli. Alla domanda se l’azienda che gestisce gli autobus blu possa essere ritenuta responsabile, sulla base della nuda statistica del 90%, gli studenti hanno risposto ‘‘no’’, e alla successiva domanda se possa essere ritenuta responsabile l’azienda che gestisce gli autobus gialli, perché un testimone ha dichiarato di aver visto un autobus giallo investire il passante, gli studenti hanno risposto di sì, anche di fronte alla constatazione che i test sulla vista del testimone davano a quest’ultimo un’attendibilità non superiore all’80% (97). Questo è un bell’esempio di ciò che anche la gente comune pensa sulle nude statistiche dei bayesiani e sulla prova particolaristica. probabilità è in Italia ampiamente illustrato, con un quadro imponente di riferimenti bibliografici, da TARUFFO, La prova, cit., p. 168 ss. (95) L’esempio è ripreso da COHEN, The Probable and the Provable, Oxford, 1977, p. 75 ss. (96) WRIGHT, op. cit., p. 1062. (97) DERSHOWITZ, Reasonable Doubts. The O.J. Simpson Case and the Criminal Justice System, cit. p. 38. Cfr. anche COHEN, op. cit., p. 75 ss.


— 804 — Ma, come dicevo, sull’esigenza della prova particolaristica, offerta nel giudizio civile attraverso un calcolo delle probabilità ex post, concordano non solo giuristi come WRIGHT, GLANVILLE WILLIAMS e DERSHOWITZ, ma anche studiosi della probabilità matematica e della teoria della conoscenza. Nell’ambito delle teorie della probabilità applicata al processo, merita di essere ricordato il pensiero di JONATHAN COHEN. COHEN ipotizza una situazione che costituisce una variante dell’esempio dell’unico spettatore che ha pagato il biglietto: 1.000 persone assistono ad un rodeo, ma solo 499 pagano il biglietto, cosicché 501 sono scrocconi; i biglietti non sono stati distribuiti e non c’è modo di stabilire chi realmente abbia pagato e chi no. Considerata la circostanza che oltre la metà degli spettatori non ha pagato, c’è una ‘‘nuda probabilità matematica’’ del 50,1% che ogni singolo spettatore sia stato uno scroccone. Se si accetta questa nuda statistica come prova, e se si utilizza il criterio della preponderanza dell’evidenza proprio dei processi civili (inteso come criterio che richiede una probabilità matematica superiore al 50%), allora ciascuno dei 1.000 spettatori può essere considerato civilmente responsabile per essere entrato senza pagare. Poiché questo risultato appare scorretto e ingiusto per ciascuno spettatore, ed è certamente scorretto ed ingiusto per i 1.000 spettatori nell’insieme, COHEN conclude nel senso che l’interpretazione probabilistica matematica del criterio della preponderanza dell’evidenza è scorretta e va respinta (98). c) La probabilità causale ex ante. Una probabilità causale ex ante è una probabilità astratta, basata su classi di tipi di eventi (è probabile che un sifilitico abbia la paresi, che chi manifesta certi sintomi abbia il colera, che chi è sieropositivo trasmetta l’AIDS al partner attraverso il rapporto sessuale, e via discorrendo). Queste probabilità, ‘‘rilevanti per la predizione causale di cosa accadrà o possa accadere, sono irrilevanti per la spiegazione causale di cosa è realmente accaduto’’. ‘‘Al massimo, probabilità causali ex ante o nude statistiche associate a probabilità causali ex ante possono essere usate per piazzare una scommessa su cosa sia realmente accaduto, una predizione causale o ‘postdizione’. Non possono essere usate per risolvere le scommesse determinando cosa sia realmente accaduto. Per fare ciò noi dobbiamo fornire una spiegazione causale del caso particolare e fornire una spiegazione causale richiede la prova — attraverso una dimostrazione particolaristica — della concretizzazione della generalizzazione causale che si sostiene sia applicabile e della legge causale sottostante’’ (99). ‘‘Esistono, d’altra parte, probabilità non particolareggiate, basate su (98) COHEN, op. loc. citt. (99) WRIGHT, op. cit., pp. 1060, 1062.


— 805 — una classe, che non forniscono nessuna informazione su quale generalizzazione causale competente si sia realmente concretizzata nel caso particolare’’. Quindi, supponiamo che Simonson sia un tiratore molto scarso, che sbaglia perlomeno nel 99% dei casi; per lui la probabilità causale ex ante è data dall’affermazione ‘‘Simonson che spara un colpo a qualcuno lo uccide al massimo nell’1% dei casi’’. La probabilità causale ex ante sarebbe ancora più bassa, dato che tutti i 99 proiettili possono avere mancato Summers. ‘‘Applicando regole standard di probabilità matematica le probabilità causali ex ante che tutti i 99 proiettili abbiano mancato Summers sarebbero perlomeno di 0,37 (0,99 alla 99a potenza). Così la probabilità causale ex ante che perlomeno 1 dei 99 proiettili abbia colpito Summers è stata al massimo solo del 63%. Questo è un dato insufficiente per valutare l’efficacia del colpo di Simonson, che potrebbe essere stato altamente efficace (uno su uno). Così, se confrontiamo le probabilità causali ex ante, derivate dal rispettivo numero di proiettili esplosi, non c’è base per una predizione o ‘postdizione’ causale che Summers sia stato più probabilmente ucciso dai 99 proiettili di Tice, invece che dall’unico colpo di Simonson’’ (100). Allo stesso modo, se le probabilità causali ex ante che un sifilitico resti paralizzato sono — poniamo — del 5%, e le probabilità che non contragga la paralisi sono del 95%, questa grande differenza tra le probabilità ex ante non ci dice nulla su ciò che è realmente accaduto. Le stesse considerazioni, ovviamente, valgono per chi contragga il colera o trasmetta al partner l’AIDS con il rapporto sessuale: le probabilità causali ex ante sono sempre mute rispetto a ciò che è realmente accaduto nel caso concreto (101). Ecco perché i giudici sono spesso indotti a dichiarare esplicitamente l’irrilevanza delle probabilità causali ex ante. Così, nel caso Day v. Boston e Me.R.R. la Corte dichiarò: ‘‘la probabilità quantitativa (ex ante) è tuttavia solo frutto del caso. Non è una prova, e nemmeno una evidenza che provi la proposizione che va provata. Che in un lancio di dadi ci sia una probabilità quantitativa (ex ante), o probabilità maggiore, che un numero inferiore a sei appaia sulla faccia del dado rivolta verso l’alto non è affatto una prova che in un dato lancio ciò sia realmente accaduto. Senza qualcosa di più, il risultato effettivo del lancio resterebbe del tutto sconosciuto. La più piccola prova concreta (particolaristica) che il sei sia realmente apparso sulla faccia del dado rivolta all’insù peserebbe d’altro canto di più di tutta la probabilità ex ante’’ (102). d) Concretizzazione della legge di copertura. L’unica prova che con(100) WRIGHT, op. cit., p. 1060. (101) WRIGHT, op. cit., p. 1049 ss. (102) WRIGHT, op. cit., p. 1052.


— 806 — sente di stabilire ciò che è realmente accaduto è la dimostrazione ex post della concretizzazione della legge di copertura: questa prova particolaristica è la prova di una spiegazione di ciò che è realmente accaduto. Proprio in ciò sta l’essenza del modello della sussunzione sotto leggi ‘‘codificata’’ dalla giurisprudenza della Suprema Corte degli ultimi 12 anni e dalle Sezioni Unite nella sentenza qui commentata. Cosa è la concretizzazione? È un giudizio ‘‘da cui risulta che la generalizzazione causale si è completamente concretizzata nel caso particolare’’. La dimostrazione particolaristica collega una generalizzazione causale al caso particolare, concretizzando gli elementi astratti della generalizzazione, e con ciò convertendo la generalizzazione astratta in una generalizzazione concretizzata. Senza questa prova particolaristica, non vi è base per applicare la generalizzazione causale al caso particolare. Qualche esempio, da me già formulato in ‘‘Giustizia e modernità’’. Analizzando il processo del Vajont, ho rilevato che il giudice penale si era sottratto al compito di individuare la legge scientifica, esplicativa dell’evento; e che, sulla base degli atti, questa antidoverosa omissione era facilmente evitabile: per spiegare perché il terribile evento della morte di duemila persone si fosse verificata hic et nunc, sarebbe bastato spiegare l’elevatissima velocità della frana, invocando la legge scientifica secondo la quale ‘‘una frana scende velocissima, se scivola su uno strato d’argilla imbevuto d’acqua’’. Perché poteva essere invocata questa legge scientifica? Perché si poteva dare la prova che essa si era concretizzata in quel caso particolare: i periti avevano infatti trovato uno strato di argilla umidificato dall’acqua, sul quale era scivolata, come sopra un cuscino sdrucciolevole, la frana, che era così diventata velocissima. Ecco il punto. I periti avevano trovato l’argilla, ed avevano perciò individuato la circostanza concreta, responsabile della particolare velocità della frana: era la dimostrazione della ‘‘concretizzazione’’ della legge scientifica di copertura; era la ‘‘garanzia’’ (103). Sulla necessità della ‘‘concretizzazione’’ concordano gli studiosi della spiegazione scientifica dell’evento, primi fra tutti POPPER ed HEMPEL. Cosa dicono POPPER ed HEMPEL? POPPER illustra il concetto di spiegazione causale con l’esempio della rottura di un filo a cui sia stato attaccato un peso: ‘‘poiché questo filo di rame ha un limite di rottura di un chilogrammo, e poiché il peso che gli era stato attaccato era di due chilogrammi, il filo si è spezzato’’ (104). (103) STELLA, op. cit., p. 323. (104) Cfr. POPPER, The Logic of Scientific Discovery, 1934, tr. it. Logica della scoperta scientifica, Torino, 1970, ristampa 1995, p. 44 ss.


— 807 — Questa è la concretizzazione della legge scientifica di copertura (cioè di una legge che dice ‘‘ogni qualvolta ad un filo di rame, che ha un limite di rottura di 1/2 chilogrammo, viene attaccato un peso di un chilogrammo, il filo si spezza’’); è una concretizzazione perché si è dimostrato che, nel caso singolo concreto, il peso attaccato al filo era superiore ad un chilogrammo. Nello stesso ordine di idee, HEMPEL illustra la spiegazione scientifica della rottura del radiatore di un’automobile. Supponiamo — dice HEMPEL — di dover spiegare il fatto per cui, durante una notte fredda, il radiatore di una automobile si è spaccato. La spiegazione viene ottenuta se si dimostra la concretizzazione, nel caso singolo, della legge di copertura, e cioè se si dimostra che: ‘‘la macchina è stata lasciata sulla strada per tutta la notte; il suo radiatore, che è fatto di ferro, era riempito completamente d’acqua; il coperchio del radiatore era stato saldamente avvitato; la temperatura è scesa durante la notte dai 39oF della sera ai 25oF del mattino; la pressione dell’aria era normale; la pressione di rottura del materiale del radiatore raggiunge un certo grado’’. Questa prova particolaristica costituisce — precisa HEMPEL — la dimostrazione della concretizzazione delle seguenti leggi scientifiche di copertura: ‘‘al di sotto di 32oF, a normale pressione atmosferica, l’acqua gela; al di sotto di 39oF, la pressione di una massa d’acqua cresce col decrescere della temperatura, se il volume rimane costante o decresce; se l’acqua gela, la pressione di nuovo aumenta; e infine, questo gruppo di asserzioni includerà una legge quantitativa, concernente il mutamento della pressione dell’acqua, come funzione della sua temperatura e del suo volume’’. Da questi due insiemi di tipi di asserzione — conclude HEMPEL —, ‘‘si deduce, attraverso un ragionamento logico, l’asserto che descrive l’evento da spiegare, e cioè il fatto che il radiatore si è spaccato durante la notte’’ (105). Altro esempio. ‘‘Il coperchio metallico a vite di un vaso di vetro è strettamente avvitato; dopo essere stato immerso nell’acqua calda per un po’ può essere facilmente rimosso’’: ‘‘la spiegazione familiare di questo fenomeno — osserva HEMPEL — è, in poche parole, che il metallo ha un coefficiente di espansione termica più alto di quello del vetro, cosicché un certo rialzo termico risulterà in una dilatazione del coperchio maggiore di quella del collo del vaso e che, per di più, poiché il metallo è un buon conduttore di calore, la temperatura del coperchio sarà per un certo tempo più alta di quella del vetro, fatto questo che aumenterà ancor più la differenza tra i due perimetri. Perciò l’allentamento del coperchio viene qui spiegato illustrando il modo in cui avviene, in virtù di determinate circostanze antecedenti e in accordo con alcune leggi della fisica’’ (106). (105) HEMPEL-ANTISERI, op. cit., p. 14 ss. (106) HEMPEL, Deductive-Nomological vs. Statistical Explanation, in Minnesota Studies in the Philosophy of Science, III, Minneapolis, 1962, p. 99 ss.


— 808 — La spiegazione può qui ‘‘venir vista come un’argomentazione nella quale il verificarsi dell’evento viene inferito da alcune informazioni espresse da proposizioni di due tipi: a) leggi generali come quelle sulla conduzione termica dei metalli o quella sui coefficienti di espansione del metallo e del vetro, oltre alla legge per la quale il calore si trasmette da un corpo ad un altro con il quale sia a contatto; b) affermazioni che descrivono circostanze specifiche, come il fatto che il vaso è di vetro e il coperchio è di metallo e che inizialmente, a temperatura ambiente, il coperchio era ben avvitato sul collo del vaso e che poi l’estremità col coperchio è stata immersa nell’acqua calda’’ (107). Come si vede, lo schema argomentativo è sempre lo stesso: la spiegazione del ‘‘perché’’ di un evento concreto si ottiene dimostrando l’avvenuta concretizzazione della legge scientifica pertinente. Ma non sono solo HEMPEL e POPPER a sostenere l’esigenza di una concretizzazione della legge di copertura per la dimostrazione dell’efficacia causale di un certo antecedente: lo sostengono molti altri filosofi della scienza contemporanei. Ecco, ad esempio, cosa dice NAGEL: ‘‘perché ieri si è formata dell’umidità sulla superficie esterna del bicchiere, quando lo si è riempito d’acqua ghiacciata? Qui il fatto da spiegare è il verificarsi di un singolo evento. La sua spiegazione, per sommi capi, può essere di questo tipo: la temperatura del bicchiere dopo che lo si è riempito di acqua ghiacciata era considerevolmente più bassa della temperatura dell’ambiente; l’aria conteneva vapore acqueo; e il vapore acqueo si condensa generalmente in liquido ogni qualvolta l’aria venga a contatto con una superficie sufficientemente fredda. In questo esempio (...) lo schema formale della spiegazione sembra essere quello della deduzione’’ (108). Quanto agli studiosi di epistemologia italiani, basta citare ANTISERI e PASQUINELLI. ANTISERI, come NAGEL, mette bene in evidenza l’esigenza della concretizzazione, cioè della prova particolaristica, osservando: ‘‘John Dewey descrive un’osservazione da lui fatta un giorno in cui, mentre lavava i piatti, tolse fuori dall’acqua calda insaponata dei bicchieri di vetro e li depose, rovesciati, su di un vassoio: ebbene, osservò che dall’orlo dei bicchieri uscivano delle bollicine di sapone, le quali crescevano per un po’, arrivavano ad un punto morto, e poi si sgonfiavano fino a scomparire. Ecco, dunque, un fenomeno da spiegare (un explanandum). che possiamo simbolizzare con (E). E la spiegazione non è difficile. Difatti, rovesciando un bicchiere su di un vassoio, vi si imprigiona dell’aria fredda; quest’aria, (107) HEMPEL, op. loc. citt. (108) NAGEL, The Structure of Science, 1961, tr. it. La struttura della scienza, Milano, 1968, p. 36 ss.


— 809 — a poco a poco, viene riscaldata dal vetro che, inizialmente, ha la stessa temperatura dell’acqua calda insaponata. Ma il riscaldamento dell’aria all’interno del bicchiere è accompagnato dall’aumento della sua pressione. Quest’ultimo fatto, dato il volume costante del bicchiere, provoca una espansione della pellicola di sapone tra la superficie e l’orlo. Poi, pian piano, il bicchiere si raffredda e così anche l’aria al suo interno, per cui diminuisce la pressione, con il risultato che le bollicine si sgonfiano sino a scomparire’’ (109). La spiegazione — osserva ANTISERI — ‘‘funziona: essa ci convince. Ma cosa fa il fisico allorché ci offre una siffatta argomentazione? Bene, abbiamo un fatto da spiegare e questo è: il formarsi e la successiva comparsa di bollicine di sapone tra i bordi del bicchiere e il vassoio. Abbiamo, pertanto, un asserto che descrive un fatto da spiegare, un explanandum (E). Ora, per spiegare questo fatto, il fisico adduce quelle che sono le condizioni iniziali o cause, vale a dire altri fatti — descritti da altri asserti, e simbolizzabili con C1, C2, C3, ..., Ck — che rendono conto del fatto da spiegare, che cioè hanno, nei confronti di questo, forza esplicativa. Questi altri fatti (o condizioni iniziali o cause) sono, nel nostro caso, i seguenti: (C1): i bicchieri sono stati immersi per qualche tempo in acqua saponata, ad una temperatura notevolmente più alta di quella dell’aria circostante; (C2): i bicchieri sono stati deposti rovesciati su una superficie piana sulla quale si era formata una piccola pozza di acqua insaponata; (C3): dell’aria fredda è stata imprigionata nei bicchieri rovesciati; (C4): l’aria fredda all’interno dei bicchieri si è progressivamente riscaldata, ecc. ... Questo insieme di asserti (C1, C2, C3, ..., Ck) descrive le condizioni iniziali o cause del fatto da spiegare (E). Il fisico, insomma, ha scelto tra gli infiniti fatti del mondo, alcuni di questi fatti e ha imputato ad essi (l’imputazione causale) di essere responsabili (di essere cioè la causa) del fatto da spiegare’’ (110). Ma come fa il fisico — si chiede ANTISERI — a dire che tra gli infiniti fatti solo quelli enumerati sono causa del fatto da spiegare? Cosa lo guida in questa scelta? La risposta a tale interrogativo non è difficile: ‘‘il fisico sceglie questi fatti in base a leggi, in base alle leggi della fisica, nel nostro caso in base alle leggi dei gas e varie altre leggi relative alla trasmissione di calore tra corpi che si trovano a temperature diverse, al comportamento elastico delle bolle di sapone ecc. ...’’ (111). Un altro notissimo epistemologo italiano, PASQUINELLI, non è meno chiaro nel sottolineare l’esigenza della concretizzazione e della prova particolaristica. (109) ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Torino, 1996, p. 285 ss. (110) ANTISERI, op. cit., p. 299. (111) ANTISERI, op. loc. citt.


— 810 — PASQUINELLI fa l’esempio del picrato di potassio ed enuncia innanzitutto le leggi scientifiche pertinenti: (L1 ) ‘‘tutte le cariche di picrato di potassio costituiscono dei corpi contenenti gas molto compressi’’; (L2) ‘‘tutti i corpi contenenti gas molto compressi, una volta sottoposti a stimoli esplosivi adeguati, detonano’’; (L3) ‘‘tutte le cariche di picrato di potassio, se non sussistono condizioni ambientali anormali e se i fattori operativi attingono rapidamente una temperatura n (tale da riscaldare all’improvviso il picrato di potassio fino a 300oC), risultano sottoposte a stimoli esplosivi adeguati’’; l’esigenza della concretizzazione viene poi così spiegata dallo studioso: ‘‘l’esempio stesso include l’enunciazione di alcune condizioni iniziali e antecedenti, costituite da circostanze o fatti specifici (con determinazioni spazio temporali, che qui vengono lasciate parzialmente implicite), come: (C1) ‘vi era del picrato di potassio’; (C2) ‘non vi erano delle condizioni iniziali anormali’; (C3) ‘vi erano dei fattori operativi che hanno attinto rapidamente la temperatura n’; (C4) ‘vi erano dei fattori operativi che hanno esercitato un’azione d’urto abbastanza sensibile’; (C5) ‘vi erano dei fattori operativi che hanno dato luogo a conflagrazione mediante contatto con un corpo igneo’ ’’. Infine — conclude PASQUINELLI — nell’esempio considerato ‘‘figura, ovviamente, la descrizione del fatto da spiegare (anch’esso rispondente a determinazioni spazio temporali, che vengono lasciate parzialmente implicite), come: (E) ‘è avvenuta una detonazione’ ’’ (112). L’esigenza della prova particolaristica, a questo punto, non potrebbe essere più evidente: il modello della sussunzione sotto leggi resta un’espressione vuota, buona per tutti gli usi, se non si prova che si sono verificati gli antecedenti concreti — compreso l’antecedente concreto sine qua non — che possano essere sussunti sotto gli antecedenti astratti, previsti dalla legge di copertura. Perché il modello funzioni, è necessario provare che ‘‘c’era l’argilla’’, che ‘‘c’era il vibrione’’, che ‘‘la temperatura del bicchiere era più bassa della temperatura dell’ambiente’’, che ‘‘l’acqua nel radiatore era gelata’’, che ‘‘i bicchieri sono stati immersi in acqua saponata’’ e che ‘‘l’aria fredda, all’interno dei bicchieri, si è progressivamente riscaldata’’, che ‘‘il picrato di potassio è stato messo a contatto con un corpo igneo’’, e via discorrendo: in altre parole, bisogna dare la prova particolaristica (113). Ha dunque le idee ben chiare quella giurisprudenza che, dopo essersi richiamata al modello della sussunzione sotto leggi, sottolinea che è ‘‘necessario disporre delle condizioni iniziali, quegli antecedenti indispensabili per esprimere un giudizio di derivazione causale’’, e che ‘‘le condizioni (112) PASQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Milano, 1964, ristampa 1987, Bologna, p. 86. (113) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 302 ss.


— 811 — iniziali che (...) determinano il funzionamento’’ della legge di copertura ‘‘devono essere certe’’ (114). 9. Le probabilità causali ex post. — Il giudizio in cui sfocia la concretizzazione è pur sempre un giudizio probabilistico: la prova particolaristica ottenuta enuncia una causalità probabilistica ex post. È possibile quantificare questa probabilità? Per i seguaci delle concezioni quantitative della probabilità — che trovano espressione nel teorema di Bayes e in altre teorie che, pur tenendo conto della dottrina bayesiana, cercano di evitarne gli inconvenienti, proponendo modelli meno rozzi — la risposta dovrebbe essere positiva: la probabilità per una sentenza di condanna dovrebbe essere molto elevata; tanto elevata da superare per alcuni autori (115) lo 0,95 e per altri autori (116) da raggiungere una soglia molto vicina ad 1 (0,999). Ma la versione bayesiana del calcolo delle probabilità, come ho già avuto modo di osservare, è ‘‘per un verso controproducente e pericolosa, perché implica rischi elevati di errori e di fraintendimenti e, per altro verso, è scarsamente funzionale al contesto processuale, perché ha la peculiare caratteristica di trascurare il dato più importante, ossia il peso e il significato degli elementi di prova disponibili nel caso concreto’’ (117); e rilievi non dissimili si possono formulare nei confronti delle concezioni quantitative della probabilità che hanno cercato di eliminare gli inconvenienti del teorema di Bayes (118). Si spiega così il rifiuto della giurisprudenza penalistica di applicare il teorema di Bayes, le prove matematiche e ogni concezione quantitativa della probabilità: in ‘‘Giustizia e modernità’’ illustro i motivi di questo rifiuto in non pochi casi giurisprudenziali in cui i giudici concludono nel senso che nessuna equazione matematica può provare al di là del ragionevole dubbio la colpevolezza dell’imputato, che la storia giudiziaria è piena di esempi di statistiche mal applicate ai casi penali e che ‘‘c’è un accordo pressoché universale sulla non applicabilità del teorema di Bayes in sede forense’’ (119). Peraltro, il fallimento della probabilità quantitativa o pascaliana come teoria di valutazione della prova, ha indotto la dottrina moderna — (114) Trib. Ravenna, 23 luglio 1990, in Cass. pen., 1992, p. 1617 ss. (115) ALLEN, On the Significance of Batting Averages and Strikeout Totals: A Clarification on the ‘‘Naked Statistical Evidence’’ Debate, the Meaning of ‘‘Evidence’’, and the Requirement of Proof Beyond a Reasonable Doubt, in Tulane L. Rev., 1991, p. 1093 ss.; sul quale vd. FROSINI, op. cit., p. 125. (116) KAYE, Do We Need a Calculus of Weight to Understand Proof Beyond a Reasonable Doubt?, in Boston Un. L. Rev., 1986, p. 657 ss.; FROSINI, op. cit., p. 124 ss. (117) TARUFFO, La prova, cit. p. 168 ss. (118) TARUFFO, op. ult. cit., p. 172 ss. (119) STELLA, op. cit., p. 315 ss.


— 812 — soprattutto sotto l’impulso dell’opera di JONATHAN COHEN (120) — a seguire la strada della probabilità baconiana o logica, cioè della probabilità intesa come grado di conferma che gli elementi di prova attribuiscono all’ipotesi. Le Sezioni Unite manifestano una piena adesione proprio a questo ordine di idee. Esse osservano: ‘‘la moderna dottrina che ha approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha precisato che, mentre la probabilità statistica attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa alla successione degli eventi, la probabilità logica, seguendo l’incedere induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell’ipotesi formulata in ordine allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base delle intere evidenze disponibili, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale... sì da attingere quel risultato di certezza processuale che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi la doverosa azione omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato’’. Il presupposto da cui muove la Corte Suprema nel parlare di certezza processuale è ben noto (su di esso ho già indugiato): ‘‘la verità come corrispondenza assoluta di una descrizione allo stato di cose del mondo reale non è conseguibile con procedimenti conoscitivi concreti, perché è soltanto il valore limite teorico della verità della descrizione; l’impossibilità della verità assoluta, d’altra parte, non dimostra affatto l’impossibilità di un accertamento veritiero nel processo, ma comporta soltanto che si possa parlare di ‘verità relativa’ con un certo grado di approssimazione alla verità assoluta, intesa come limite ideale’’ (121). L’esclusione della certezza assoluta dal novero degli obiettivi conseguibili per mezzo dell’accertamento giudiziale dei fatti, fa dunque capire che la verità raggiungibile è una verità soltanto ‘‘probabile’’ che nel processo penale deve avere il massimo grado di conferma: a questa verità si dà il nome di certezza processuale. Ma qual è il massimo grado di conferma, di probabilità logica, attribuibile all’ipotesi sul nesso di condizionamento, richiesto dal processo penale? Non mi sembrano necessarie lunghe riflessioni per concludere che la probabilità logica non riesce, da sola, ad individuare il grado di conferma richiesto: essa è muta rispetto al grado di conferma per una decisione giusta del giudice civile e penale. Ciò dipende dal fatto che, mentre è chiaro un estremo, perché ‘‘un’ipotesi con un grado di conferma uguale a 0 è cer(120) COHEN, op. cit., p. 172 ss. (121) TARUFFO, op. loc. citt.


— 813 — tamente inattendibile’’, non è determinato ‘‘l’altro estremo, sicché non è possibile stabilire una scala quantitativa generalmente applicabile per la valutazione dei gradi di probabilità logica in termini di applicabilità dell’ipotesi’’ (122). La scelta dell’ipotesi non può dunque avvenire in base alla razionalità in sé della ‘‘logica del probabile’’: a questa logica sono estranee le valutazioni che impongono di decidere in un modo o nell’altro. Decisive sono invece le ‘‘valutazioni complessive’’ del giudice, richieste dall’ordinamento, in relazione alle funzioni svolte dal processo civile e dal processo penale, e in una prospettiva che tenga conto dei valori posti in gioco nell’uno e nell’altro tipo di processo, degli argomenti ‘‘orientati alle conseguenze’’. Ecco perché nel processo civile ‘‘un valore di 0,51 definisce una attendibilità appena sufficiente per porre l’ipotesi a base della decisione’’ (123); ed ecco perché nel processo penale una regola giuridica individua il grado di conferma richiesto in un livello di conferma tanto elevato da escludere dubbi ragionevoli. In altre parole, nell’indagine relativa alla teoria della decisione giusta, tutto dipende dalle regole di riferimento. Se la regola è costituita dall’oltre il ragionevole dubbio, ciò significa che è richiesto un livello di conferma probatoria che è assai più elevato di quello, proprio del processo civile, della prevalenza di conferma logica di un’ipotesi rispetto alle altre (124): deve essere un livello di conferma (probabilità logica) incompatibile con dubbi ragionevoli. Le affermazioni della Corte Suprema, poc’anzi citate, vanno dunque lette collegandole all’affermazione della stessa Corte che nel nostro sistema vige la regola dell’oltre il ragionevole dubbio: è questa regola che individua il grado di conferma richiesto, ed è questa regola che deve guidare la ‘‘verifica aggiuntiva’’ di cui parla la Corte Suprema. È appena il caso di aggiungere che secondo l’interpretazione più diffusa e più convincente, il dubbio, per essere ragionevole, non deve essere un dubbio effettivo e sostanziale, non deve essere un dubbio forte e ben fondato o un dubbio argomentato. Basta che non sia fatto coincidere con un’ombra di dubbio, con una possibilità remota, con una speculazione immaginaria: deve essere cioè un dubbio che lascia la mente dei giudici ‘‘nella condizione in cui non possono dire di provare una convinzione incrollabile nella verità dell’accusa’’ (125). (122) TARUFFO, op. cit., p. 163. (123) TARUFFO, op. cit., p. 164. (124) TARUFFO, op. cit., p. 164 ss. (125) Così recita il paragrafo 1096 del Codice Penale della California, indicato da KADISH come la formulazione più completa del ragionevole dubbio: cfr. KADISH-SCHULHOFER, Criminal Law and its Processes, Aspen, 1995, p. 37 ss.


— 814 — 10. La prova particolaristica del nesso di condizionamento. — E in che cosa può consistere ‘‘la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il per il singolo evento’’? Non certo, come abbiamo visto, nel riferimento a ‘‘nude statistiche’’ o a probabilità causali ex ante: la verifica aggiuntiva può consistere solo nella concretizzazione delle leggi di copertura, quando non sia possibile ricostruire gli anelli causali intermedi. Ma può, la legge di copertura, essere costituita da una legge statistica con il coefficiente medio-basso? E che cosa si intende con una simile espressione? Le Sezioni Unite non lo precisano. Precisano però di non condividere l’orientamento per il quale dovrebbe riconoscersi l’appagante valenza persuasiva a ‘‘serie ed apprezzabili probabilità di successo (anche se limitate e con ridotti coefficienti talora indicati in misura inferiore al 50%) dell’ipotetico comportamento doveroso’’; se ne dovrebbe dunque dedurre che, per coefficienti medio-bassi, le Sezioni Unite intendano riferirsi a coefficienti comunque superiori al 50%. Ma proprio qui sta il punto. Se il supporto induttivo offerto dall’explanans non è forte, forte come quello garantito da una legge statistica con coefficiente percentualistico vicino a 100, il giudizio finale di probabilità causale ex post non potrà mai raggiungere il grado di conferma richiesto dall’oltre il ragionevole dubbio per una sentenza di condanna. Si capisce perciò la ragione per la quale gli studiosi di statistica applicata al processo giungono alla conclusione che le sentenze della Corte Suprema, le quali richiedono un coefficiente percentualistico vicino a 100, aderiscono ‘‘pienamente alla moderna impostazione del processo penale secondo la quale un giudizio di condanna deve essere conseguito con pratica certezza (ovvero con una probabilità logica o soggettiva molto elevata, prossima al 100%)’’ (126). Ma che dire, in ogni caso — al di là dell’insegnamento delle Sezioni Unite — dei coefficienti di frequenza statistica inferiori o anche molto inferiori al 50%? Che dire, ad esempio, di coefficienti del 5% o del 2%? Dovremmo dire con CARNAP che si tratta di spiegazioni estremamente deboli e insoddisfacenti, con HEMPEL che siamo di fronte ad una spiegazione non adeguata, con AGAZZI che non è proprio il caso di parlare di causalità. Per limitarci alla clinica medica dovremmo affermare, con FEDERSPIL, che siamo in presenza di una delle tante ipotesi formulate nell’ambito della medicina: ma, si badi, di ipotesi non controllate, quantomeno fino a quando non si trovi il corrispondente del vibrione o del flacone di sangue infetto che è stato trasfuso (o per cambiare esempio, fino a quando non si accerti l’effettiva provenienza del virus nel caso di rapporto sessuale tra il (126)

FROSINI, op. cit., p. 8.


— 815 — marito sieropositivo e la moglie). In altre parole: l’enunciazione di leggi statistiche con coefficienti molto bassi, bassi o medi non potrà mai essere assunta a base di una sentenza di condanna, a meno che essa sia accompagnata da una ricostruzione degli anelli causali intermedi e da una trasformazione dell’ipotesi medica in ipotesi controllata. Un’ultima annotazione. Le Sezioni Unite ritengono che la ‘‘verifica aggiuntiva’’ diretta a provare la ‘‘specifica applicabilità’’ nella fattispecie concreta della legge statistica enunciata possa essere condotta ‘‘secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale’’. Purtroppo, la più aggiornata criteriologia medico-legale non esiste; esiste la vecchia criteriologia, già dissolta dalle critiche (127) ed oggi inapplicabile, perché elaborata per la prova della condizione idonea. La nuova criteriologia — ma perché non diciamo il nuovo metodo? — della medicina legale non è ancora all’orizzonte. Le sue funzioni saranno molto complesse e molto importanti, come sono le funzioni di spiegare i metodi per ricostruire gli anelli causali, per verificare la concretizzazione della legge di copertura, e per risolvere il problema della perenne mutabilità della scienza, individuando i criteri per distinguere le ipotesi scientifiche affidabili da quelle non affidabili. 11. Una visione d’insieme della sentenza delle Sezioni Unite. — In una visione d’insieme, si può dire che oggi si chiude un ciclo importante sul terreno del riconoscimento dei grandi valori della democrazia e del congedo definitivo, sul terreno della causalità, dalle concezioni autoritarie del processo penale: non è più vero che il giudice penale può decidere ‘‘senza uscire dal suo ufficio’’, e non è più vero che per l’imputato valga una presunzione di reità. L’autostrada aperta nel 1990 dal ‘‘Justice’’ Battisti ha dato frutti copiosi: un profluvio di sentenze della Sezione IV (128), (127) BARNI, Il rapporto di causalità materiale in medicina legale, Milano, 1995, p. 21 ss.; ID., Sull’obsolescenza dei classici criteri medico-legali in tema di causalità materiale, in La causalità tra diritto e medicina, Atti del convegno di Medicina Legale, Pavia, 1991, p. 115 ss. (128) Cass. pen., Sez. IV, 6 dicembre 1990, est. BATTISTI, in Foro it., 1992, II, p. 36 ss. e Cass. pen., 1992, p. 2726 ss.; Cass. pen., Sez. IV, 27 maggio 1993, est. LOSAPIO, in Cass. pen., 1995, p. 2898; Cass. pen., Sez. IV, 17 dicembre 1993, est. BATTISTI, in Riv. pen. ec., 1996, p. 56 ss.; Cass. pen., Sez. IV, 28 febbraio 1995, est. LOSAPIO; Cass. pen., Sez. IV, 8 marzo 1995, est. LOSAPIO; Cass. pen., Sez. IV, 4 febbraio 1997, est. BATTISTI; Cass. pen., Sez. IV, 26 gennaio 1998, est. LOSAPIO; Cass. pen., Sez. IV, 11 gennaio 1999, est. LOSAPIO; Cass. pen., Sez. IV, 20 gennaio 1999, est. DE MAIO; tutte riportate in STELLA, Leggi scientifiche, cit., p. 419 ss.; Cass. pen., Sez. IV, 5 febbraio 1999, est. LOSAPIO, in Arch. giur. circ. sin. strad., 1999, 11, p. 890 ss.; Cass. pen., Sez. IV, 28 settembre 2000, est. BATTISTI; Cass. pen., Sez. IV, 29 novembre 2000, est. BATTISTI; Cass. pen., Sez. IV, 28 novembre 2000, est. BATTISTI; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001-16 gennaio 2002, est. BATTISTI; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001-13 febbraio 2002, est. BATTISTI; Cass. pen., Sez. IV, 10 giugno 2002, est. BRUSCO, in Riv. pen., 2002, p. 671 ss.


— 816 — ed una feconda discussione tra i giudici delle sezioni penali della Suprema Corte che ha dato vita all’odierna sentenza, redatta dall’estensore Canzio. Poiché la causalità si situa nel cuore della teoria della conoscenza, è prevedibile che la discussione continuerà con affinamenti sempre più precisi e utili per la prassi. Continuerà, soprattutto, la discussione sui criteri di affidabilità delle ipotesi scientifiche perché, senza importanti chiarimenti su questo tema, il rischio di un ritorno all’idea autoritaria che il giudice decida secondo la sua intuizione, la sua intelligenza, e sulla base di improprie attese di giustizia sarà sempre immanente nel processo penale. La scienza giuridica condivide il destino di tutte le altre scienze, che è quello di progredire attraverso tentativi sottoposti a falsificazioni, nella faticosa strada dell’approssimazione alla verità. Tutti ci aspettiamo che la Suprema Corte, in questa faticosa strada, continui ad essere un autentico anticorpo della democrazia, in un’opera di difesa granitica del sistema dei diritti che costituiscono il cuore di quest’ultima, nella tessitura di quel ‘‘filo d’oro’’ che rappresenta il vanto di ogni ordinamento democratico (129). FEDERICO STELLA

(129)

STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 100 ss.


IL CONCORSO DI PERSONE NEI REATI FALLIMENTARI (*)

SOMMARIO: 1. I reati fallimentari come reati propri. Il concorso nei reati propri. — 2. Reati fallimentari e società di capitali. — 3. Il concorso commissivo. — 4. Il concorso omissivo. - 4.1. L’amministratore inerte. - 4.2. Il sindaco inerte. - 4.3. Amministratore di fatto e amministratore di diritto. - 4.4. L’amministratore della controllante. — 5. I problemi del concorso omissivo. - 5.1. Individuazione, contenuto e delegabilità della posizione di garanzia. - 5.2. La causalità. - 5.3. L’elemento soggettivo. — 6. Il concorso di persone omissivo nei reati fallimentari. - 6.1. Le posizioni di garanzia. 6.1.2. Amministrazione collegiale e amministratore ‘‘testa di legno’’. - 6.1.3. L’amministratore della controllante. - 6.1.4. I sindaci. - 6.2. La causalità. - 6.2.1. Accertamento e suo grado di certezza. - 6.2.2. Le massime di esperienza. - 6.2.3. Alcune sentenze. - 6.2.4. Conclusioni sul nesso causale. - 6.3. L’elemento soggettivo. — 7. Conclusioni. - 7.1. L’esigenza di una codificazione. - 7.2. La pluralità di tecniche di tutela.

Le questioni che mi propongo di esaminare riguardano la natura di reato proprio dell’imprenditore della bancarotta, nel fallimento delle società di capitali, la responsabilità concorsuale dei componenti del consiglio di amministrazione e la rilevanza delle deleghe di gestione, la responsabilità dei sindaci, le situazioni che si determinano in presenza di un amministratore di fatto, il concorso dell’amministratore della controllante nella bancarotta dell’amministratore della controllata. 1. Nell’affrontare l’argomento del concorso di persone nei reati fallimentari, il primo aspetto da porre in evidenza è costituito dalla prevalente natura di reati propri delle fattispecie incriminatrici previste dalla legge fallimentare. Alla qualifica base dell’imprenditore fallito di cui all’art. 216 e ss., si affiancano quelle dell’art. 223, pertinenti alla bancarotta societaria. In ciò il diritto penale fallimentare condivide una caratteristica più generale, peculiare del diritto penale dell’impresa: in prevalenza la qualificazione degli autori discende da una fonte normativa e ciò in quanto i (*) Testo ampliato della relazione all’incontro di studio ‘‘I reati fallimentari’’ - Consiglio superiore della magistratura. Roma 14 febbraio 2002.


— 818 — vari settori penalistici intervengono su materie già disciplinate o, addirittura, ‘‘create’’ in sede extrapenale (1). Tale caratteristica, assolutamente dominante anche nei reati fallimentari, non si ritiene ostativa, nel nostro sistema, alla configurabilità del concorso di soggetti estranei, quando ricorrano tutti gli elementi, di natura oggettiva e soggettiva, caratterizzanti la compartecipazione criminosa. Ad operare sarà l’ordinario meccanismo di dilatazione della responsabilità apprestato dall’art. 110 c.p.: è infatti prevalente l’opinione che riconduce alla norma generale in tema di concorso di persone anche il caso di concorso nei reati propri, mentre l’art. 117 costituirebbe un residuo caso di responsabilità oggettiva riguardante l’ipotesi in cui, da un lato, difetti nell’extraneus la consapevolezza della qualifica soggettiva propria, dall’altro vi sia una base di illiceità penale comune, su cui si innesta il mutamento del nomen juris determinato dal concorso del soggetto qualificato. Di recente, per altro, si è segnalata criticamente la tendenza ad una eccessiva dilatazione della responsabilità concorsuale dell’extraneus conseguente all’assegnazione sempre più frequente al diritto e al processo penale fallimentare di funzioni ‘‘infra legem’’ di natura risarcitoria (2). 2. Un ventaglio di problemi si pone quando di società di capitali si ragioni. I reati fallimentari sono suscettibili di imputazione ai soggetti normativamente determinati che gestiscono o controllano l’impresa societaria. La tematica della compartecipazione criminosa può quindi porsi nei seguenti termini: a) concorso dell’extraneus in un reato proprio dei soggetti richiamati dall’art. 223; b) nel caso di organismi collegiali, sia di amministrazione, sia di controllo, concorso dei componenti, tutti dotati di qualifica soggettiva, nel rato proprio; c) per quello che concerne organismi collegiali amministrativi, ulteriore questione quella della capacità della delega di escludere la responsabilità. Tutti i problemi enunciati nel sommario sono riconducibili a questa griglia tematica: a) l’attuazione di deliberazioni criminose da parte del consiglio di amministrazione e l’eventuale rilevanza di deleghe di gestione; b) il concorso dei componenti il collegio sindacale nella commissione di reati fallimentari sia come soggetti dotati di qualifica autonomamente rilevante, sia quali concorrenti nei reati commessi dagli organi amministrativi; c) l’amministratore di fatto. Dal punto di vista delle problematiche concorsuali, non rileva tanto la vexata questio della autonomia penalistica del concetto di amministratore (questa controversia può forse ritenersi in via di solu(1) C. PEDRAZZI, voce Società commerciali (disciplina penale), in Dig. pen., XIII, Torino, 1998, p. 347. (2) F. SGUBBI, Le nuove regole penali, in AA.VV., Nuove regole per la crisi dell’impresa, Milano, 2001, p. 133.


— 819 — zione considerato il recente allineamento della giurisprudenza civilistica ai criteri sostanzialistici elaborati in sede penale (3), ma, soprattutto, l’art. 2639 c.c. elaborato dalla commissione incaricata di redigere il testo della legge delegata sulle società non quotate), quanto il problema del concorso dell’amministratore di diritto, testa di legno, nei reati commessi da chi effettivamente gestisca; d) nei gruppi di imprese, limiti e caratteristiche della partecipazione degli amministratori della controllante nei reati commessi dagli amministratori della controllata. È evidente, per altro, come tutte le questioni poste siano suscettibili di combinazioni e intersezioni. 3. Le situazioni concorsuali prospettate non presentano particolari profili problematici da un punto di vista sostanziale quando se ne ipotizzi la configurazione commissiva. Questa affermazione ha tuttavia un limite, importante, quando si passi ad esaminare i criteri di accertamento. Ad esempio, a proposito della responsabilità degli amministratori della capogruppo per i reati commessi da quelli delle controllate, muovendosi disinvoltamente su un terreno che, come vedremo, è marcato da incerti confini — quello del concorso morale e del concorso omissivo — in giurisprudenza si è sostanzialmente costruita una responsabilità per il mancato ‘‘agire contro’’ (4). A mero titolo esemplificativo: a) l’assunzione di una delibera criminosa da parte dell’organismo collegiale amministrativo con la consapevole partecipazione dei suoi membri, ovvero casi di ingerenza o di istigazione, pur in presenza di deleghe di gestione; b) la relazione del collegio sindacale a supporto di un bilancio falso o di una operazione distrattiva realizzata dagli amministratori; c) la pedissequa collaborazione, prestata dell’amministratore ‘‘di diritto’’, alle attività criminose dell’effettivo gestore; d) gli ‘‘ordini criminosi’’ impartiti dall’amministratore della controllante ed eseguiti da quello della controllata. 4.

A ben vedere i casi difficili riscontrabili nelle quattro situazioni

(3) Cass. civ., sez. I, 6 marzo 1999, n. 1925, in Corr. giur., 1999, p. 1396. (4) GUP. Trib. Torino, 9 aprile 1997, Romiti e Mattioli in Giur. it., 1998, p. 1691. In proposito A. SERENI, Istigazione al reato e autoresponsabilità. Sugli incerti confini del concorso morale, Padova, 2000, p. 54: ‘‘Mancando una prova certa della ‘direzione unitaria’, sfuma nei comportamenti tolleranti di compiacenza o di avallo: la mancata rimozione dell’amministratore colpevole, la mancata adozione di provvedimenti disciplinari o di blocco della carriera, il mancato intervento di rettifica delle false informazioni ricevute’’. Per una opposta definizione dei criteri di accertamento, Cass. pen., 16 aprile-17 giugno 1998, Craxi in Guida al dir., 1998, n. 26, parimenti commentata da Sereni, p. 55 ss. Sull’analogia con i temi riguardanti la command responsibility nel diritto penale internazionale, E. AMATI, Il giudice e lo storico: La command responsibility tra diritto penale interno ed internazionale, di prossima pubblicazione.


— 820 — evocate sono sempre riconducibili ad un unico profilo problematico: quello del concorso omissivo. 4.1. Anzitutto il caso in cui taluno degli amministratori non abbia preso parte alla deliberazione criminosa, né l’abbia attuata. La questione riguarda allora una eventuale responsabilità omissiva ex art. 40 cpv. c.p. per l’assenza di una doverosa vigilanza sull’operato degli altri amministratori (i contenuti dell’obbligo sono desunti dall’art. 2392 c.c.) e, conseguentemente, per l’omesso impedimento del reato da questi ultimi commissivamente realizzato. Il tema dell’amministratore inerte entra in gioco anche nel caso di delega di gestione ex art. 2381 c.c. Rilevano gli argomenti che, in via generale, interessano il campo della delega di funzioni: in particolare quelli riguardanti un perdurante obbligo di sorveglianza. 4.2. Da un punto di vista strutturale, analoghe le problematiche riguardanti i sindaci, quando se ne debba valutare l’inerzia a fronte di condotte degli amministratori sintomatiche (i segnali di allarme), rispetto a taluna delle ipotesi criminose previste dalla Legge fallimentare. In questo caso, da un lato, non si pongono problemi di delega, dall’altro, gli obblighi di vigilanza, controllo, accertamento e di impedimento sono definiti, sul piano civilistico, rispettivamente dagli artt. 2403 e 2407 c.c. e, per le società quotate, dall’art. 149 d.lgs. n. 58/1998. 4.3. Anche la questione dell’amministratore di fatto si riconnette alla più generale tematica del concorso omissivo. La prevalente opinione che fa coincidere l’assunzione della carica con quella della relativa posizione di garanzia, alimenta conseguentemente la configurabilità di una partecipazione ex art. 40 cpv. dell’amministratore ‘‘testa di legno’’ che consenta la realizzazione di illeciti fallimentari da parte dell’effettivo gestore. 4.4. La ipotizzabilità di una posizione di garanzia in capo agli amministratori della controllante per gli illeciti fallimentari commessi nella gestione della controllata, apre ancora una volta la strada a questioni connesse al concorso ex art. 40 cpv. c.p. Tutti i riferimenti normativi extrapenali fino ad ora fatti dovranno essere rivisitati, con ogni conseguenza, alla luce delle imminenti riforme del diritto societario. In estrema sintesi, quanto alla legge delega 3 ottobre 2001, n. 366: art. 2, comma 1, lett. b) sui compiti e le responsabilità degli organi sociali; lett. h) disciplina dei gruppi di società secondo i principi di trasparenza e di contemperamento degli interessi coinvolti. Nelle s.p.a., art. 4, comma 8, lett. a) per organo amministrativo, comitati esecutivi e deleghe, lett. d) per i modelli di amministrazione e controllo. 5. Si può quindi fissare un primo punto: i casi difficili in tema di concorso di persone nei reati fallimentari sono, nella assoluta prevalenza,


— 821 — accomunati da quella particolare modalità esplicativa della compartecipazione criminosa costituita dal concorso mediante omissione. Ciò comporta, in via generale, l’assommarsi di due profili problematici: quelli propri della responsabilità omissiva cd. impropria, consentita dalla clausola di equivalenza dell’art. 40 cpv. e quelli riguardanti il suo combinarsi con altra clausola espansiva del penalmente rilevante, l’art. 110 c.p. Sempre in termini generali le questioni che si pongono investono i principi di determinatezza, di causalità e di personalità della responsabilità penale (5). 5.1. Da un punto di vista strutturale il primo problema dei reati commissivi mediante omissione è costituito dalla precisa individuazione delle posizioni di garanzia, del loro contenuto, della loro delegabilità. 5.2. La questione dell’operare del paradigma causale in campo omissivo, già foriero di molteplici questioni nel caso di esecuzione monosoggettiva, si complica ulteriormente quando l’omissione penalmente rilevante consista nel non impedimento dell’azione criminosa di terzi. Anche volendo prescindere dalla impostazione che limita l’operare dell’art. 40 cpv. ai soli reati causali puri o da quelle, più radicali, che escludono una cumulabilità tra le due clausole estensive della punibilità (6), resta la necessità di nettamente distinguere le conseguenze proprie dell’omesso adempimento di doveri di controllo e quelle riguardanti l’omesso impedimento del reato. 5.3. Sul piano dell’elemento soggettivo la sopra detta necessità distintiva si colloca sul confine tra dolo e colpa, laddove il concorso omissivo doloso tende a strutturarsi su posizioni di garanzia che la legge extrapenale definisce fondamentalmente sullo schema della colpa. La ricchezze dei profili problematici posti dall’esperienza applicativa è testimoniata anche dalla centralità che l’argomento (quello di reati commissivi mediante omissione e quello del concorso omissivo, con particolare attenzione per le posizioni di garanzia nell’ambito di organizzazioni complesse) ha assunto nell’ambito dei lavori dell’ultima commissione di riforma del codice penale. 6.

La dimensione unitaria del problema consente di affrontare tra-

(5) In tema di recente, diffusamente, F. MANTOVANI, L’ obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in questa Rivista, 2001, p. 337 ss.; I. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 353 ss.; L. BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in questa Rivista, 1997, p. 1339 ss. (6) Per una rassegna delle varie posizioni, I. LEONCINI, op. cit., p. 356 ss.


— 822 — sversalmente i quattro profili individuati a proposito del concorso di persone nei reati fallimentari. 6.1. In tutti i casi si tratta anzitutto di individuare la sussistenza di una posizione di garanzia penalmente rilevante ex art. 40 cpv., le sue condizioni e i suoi limiti, definibili alla stregua della disciplina civilistica di riferimento. 6.1.2. Mi sembra che possano essere affrontate congiuntamente le situazioni di inerzia dell’amministratore nell’ambito di un collegio e quella dell’amministratore di diritto ‘‘testa di legno’’. Lo schema su cui si costruisce la posizione di garanzia è evidentemente quello dell’art. 2392 c.p. (7): obblighi di adempiere ai doveri che discendono dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza del mandatario; di vigilare sul generale andamento della gestione; di operare per impedire atti pregiudizievoli essendone a conoscenza o di eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. In questo caso è sufficientemente chiara la sussistenza di obblighi di agire, controllare e impedire con la conseguente attivazione del meccanismo ascrittivo previsto dall’art. 40 cpv. c.p. ‘‘...è correttamente configurabile il concorso ex art. 40 cpv. c.p. tutte le volte in cui l’amministratore di una società violando l’obbligo di vigilanza e quello di attivarsi in presenza di atti pregiudizievoli, abbia consentito ad altri amministratori (o comunque a soggetti che di fatto abbiano compiuto atti di gestione) di perpetrare veri e propri delitti’’ (8). Questo primo livello, che definirei statico e oggettivo, di definizione normativa della posizione di garanzia degli amministratori, parrebbe vedere una sovrapposizione tra obbligo di controllo ed obbligo impeditivo, coerente con la simmetria di poteri e doveri riconducibili agli amministratori, che, come già detto, travolge anche il valore di eventuali deleghe di gestione ex art. 2381 c.c. Si è per altro sottolineato di recente come l’insieme di poteri/doveri debba essere riferito al collegio, criticando quelle prospettazioni civilistiche che riconducono ai singoli amministratori un permanente obbligo di analitica vigilanza (9). 6.1.3. La questione si pone diversamente a proposito della responsabilità dell’amministratore della controllante. Ipotizzare una posizione di garanzia significherebbe adottare criteri sostanziali ed extralegali che confliggano anzitutto con il principio di stretta legalità, fermo restando, come detto, che le dinamiche di gruppo caratterizzate dalla ingerenza possano portare a configurare ipotesi concorsuali di tipo commissivo. Inoltre l’esclusione di una posizione gestoria connotata da obblighi di (7) Di recente, F. MANTOVANI, op. cit., p. 352. (8) Tra le tante decisioni, così Cass. pen., 26 giugno 1990, in Cass. pen., 1991, p. 828. (9) A. CRESPI, La giustizia penale nei confronti dei membri degli organi collegiali, in questa Rivista, 1999, p. 1147 ss.


— 823 — controllo e di impedimento nei gruppi di società parrebbe imposta da quell’orientamento giurisprudenziale consolidato che, in tema di bancarotta per distrazione, non dà alcun rilievo alla sostanziale unità economica del gruppo. Breve, l’adozione di una rigida concezione atomistica che nega la realtà economica dei gruppi non è seriamente conciliabile con la costruzione di obblighi impeditivi trasversali alle varie entità giuridiche. Occorre però prendere atto del progressivo recepimento, anche sul piano normativo, della realtà economica del gruppo di imprese: oltre alla disciplina del bilancio consolidato e la già citata disposizione della legge delega n. 366/2001, nell’articolato già elaborato è significativa la causa di non punibilità, di cui all’art. 2633, comma 3, che esclude, a determinate condizioni, l’ingiustizia del profitto dell’infedeltà patrimoniale nell’ambito del gruppo. 6.1.4. Già al livello della definizione di limiti e condizioni della posizione di garanzia più problematica è la posizione dei membri del collegio sindacale. La disciplina civilistica consentirebbe di ricostruire il sistema di poteri-doveri di controllo riferibili ai sindaci così che ‘‘il dovere di impedimento non potrà ritenersi adempiuto, se non quando siano stati esercitati tutti i poteri inerenti al ruolo di garante, che possano servire ad evitare l’evento’’. ‘‘Il limite dei poteri segna anche il limite della garanzia dovuta dai sindaci’’ (10). Vero è tuttavia che, a differenza di quanto accade per gli amministratori, i poteri-doveri di controllo non presentano un perimetro sovrapponibile a quelli gestori. Di qui la mancanza di coincidenza tra oggetto dei doveri di controllo e quello dei doveri di impedimento. Come si è osservato solo nel caso di collocazione della omissione nell’ambito di procedure tipiche coinvolgenti il passaggio (valutazione/approvazione) dall’organo di controllo è possibile ricomporre il binomio controllo/impedimento. In tutti gli altri casi manca una griglia normativa che consenta di ricostruire quel ‘‘nesso tra dati rilevabili in sede di controllo e il verificarsi dell’evento futuro da impedire’’ (11). Un nesso che, a ben vedere, prima della tematica dell’elemento soggettivo, coinvolge la stessa definibilità di una posizione di garanzia. Opportunamente, a questo proposito, si è dissociata la riflessione penalistica da quella che connota invece prevalentemente l’intervento civilistico, orientato ad apprezzare la penetrazione del controllo imposto ai sindaci in funzione di un giudizio sulla loro diligenza congeniale anche al rimprovero colposo (cd. controllo di legalità sostanziale, per quello che ci interessa, rispetto alla bancarotta patrimoniale, cd. (10) F. STELLA-D. PULITANÒ, La responsabilità penale dei sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1990, p. 563 ss.; in tema, di recente A. MELCHIONDA, La responsabilità penale dei sindaci di società commerciali: problemi attuali e prospettive di soluzione, in Ind. pen., 2000, p. 54 ss. e V. TORRE, Posizione di garanzia e obblighi di vigilanza nell’attività del collegio sindacale, Ibidem, p. 269 ss. (11) F. STELLA-D. PULITANÒ, op. cit., p. 567.


— 824 — controllo legale dei conti quanto al concorso in quella documentale). Un clinamen in cui è collocabile anzitutto e proprio il completo inadempimento dell’obbligo di controllo che, invece, varrebbe ad escludere in radice il mancato doloso impedimento, penalmente rilevante. Un paradosso solo apparente se si è chiarito che ‘‘fra la violazione dei doveri di vigilanza e controllo, di cui alla legge civile, e la responsabilità per delitto doloso omissivo, non vi è dunque necessaria corrispondenza: l’ambito della responsabilità penale si ritaglia dentro l’ambito della responsabilità civile, secondo propri criteri’’ (12). Vero è tuttavia che, anche all’interno di queste utili coordinate, lo spazio per individuare il fondamento della responsabilità omissiva dei sindaci resta in molti casi assai vago, considerando inoltre come il collegamento tra omesso controllo e impedimento dell’evento/reato altrui, debba cogliersi in una proiezione in divenire, se pur postuma. È da escludersi infatti una qualifica pubblicistica che imponga obblighi di denuncia, mentre un concursus subsequens potrà dar luogo, forse, ad ipotesi di favoreggiamento (13). Concludendo sul punto, già al livello del contenuto e dei limiti della posizione di garanzia rivestita dai sindaci — e, quindi, prima ancora di esaminare il problema della causalità e dell’elemento soggettivo — occorre delimitare la sovrapposizione tra obbligo di vigilanza ed obbligo impeditivo a quelle sole situazioni nelle quali vi sia un preciso nesso funzionale tra i due momenti (14). Fino alla prospettiva, più radicale, che, distinguendo tra obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, esclude un obbligo di impedimento dei sindaci, in quanto privi nel nostro ordinamento dei corrispondenti poteri (15). A prescindere dai modelli punitivi ipotizzabili, in una prospettiva di riforma indubbiamente sollecitata proprio dalla insoddisfazione per le tendenze del diritto penale giurisprudenziale in questo campo, (fattispecie omissive proprie tipizzanti la violazione di specifici doveri di agire, reati di agevolazione colposa, norme che colgano espressamente il collegamento tra inosservanza dei doveri ed evento lesivo), già a livello interpretativo, de lege lata, questa delimitazione costituisce operazione coerente con il criterio della determinatezza e di personalità della responsabilità penale. 6.2. Le situazioni in esame possono essere affrontate congiunta(12) F. STELLA-D. PULITANÒ, op. cit., p. 567. (13) T. PADOVANI, I soggetti responsabili per i reati tributari commessi nell’esercizio dell’impresa, in questa Rivista, 1985, p. 394. (14) GA. DE FRANCESCO, Il concorso di persone nel reato, in AA.VV. Introduzione al sistema penale, vol. II, Torino, 2001, p. 340 ss. (15) F. MANTOVANI, op. cit., p. 343; I. LEONCINI, op. cit., p. 371 ss.


— 825 — mente per quello che concerne altro topos della responsabilità commissiva mediante omissione nella particolare forma concorsuale, quello della causalità. Si tratta, evidentemente, di un ulteriore, e diverso, passo nella ricostruzione del fatto tipico. Anche laddove infatti non sia discutibile la sovrapposizione tra obbligo di controllo e di impedimento, lo schema dell’art. 40 cpv. c.p., rimanda comunque ad una necessità di accertamento della causazione dell’evento. Come detto, in questo caso identificato con l’altrui agire illecito. 6.2.1. Anche su questo terreno le insoddisfazioni per le modalità con cui la questione è risolta dalla giurisprudenza sono testimoniate dalla iniziale proposta dalla Commissione Grosso, a proposito dell’illecito commissivo mediante omissione, di aggiungere all’attuale formula dell’art. 40 ‘‘...se il compimento dell’attività omessa avrebbe impedito con certezza l’evento’’. Il problema fondamentale, come è noto, è perciò costituito dalla ricostruzione della causalità omissiva e dal suo ‘‘grado di certezza’’. Altrettanto conosciuto è infatti il fenomeno del suo ‘‘assottigliamento’’ a fronte di quella commissiva, generalmente giustificato dalla natura normativo/ipotetico della prima, che consentirebbe di accontentarsi di una relazione probabilistica (16). La tesi, anche di recente, è stata sottoposta a critiche: anzitutto considerando la struttura probabilistica determinata dall’utilizzo anche di leggi statistiche per la individuazione della c.s.q.n. negli stessi reati commissivi, ma soprattutto ponendo in evidenza come l’adozione in campo omissivo di criteri di mero aumento del rischio (o di mancata diminuzione del rischio), da un lato, costituisca un ben decifrabile, e forse anche comprensibile, superamento, sul piano sostanziale, di difficoltà probatorie ... dall’altro, tuttavia, implichi il compimento di operazioni ‘‘illegali’’ (rispetto ai vigenti artt. 25 cpv. e 27 comma 1 Cost.; 1, 40, 41, 42, 43, 45, 47 c.p.) (17)! Una critica alla ‘‘modernità’’ di talune soluzioni in punto causalità omissiva, che si coglie in un recente lavoro in cui, da un lato, è posta in evidenza la funzione di scorciatoia processuale dell’assottigliamento della causalità, dall’altro, la questione complessiva è declinata sullo spettro delle tecniche di tutela e delle regole probatorie proprie del diritto penale e del diritto civile (18). Tema questo su cui tornerò nelle conclusioni. Ancora un rilievo. L’ormai ampia riflessione sul deperimento della (16)

Tendenza, di recente, ricordata e criticata da GA. DE FRANCESCO, op. cit., p.

340. (17) M. DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per aumento del rischio’’. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici. In Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 83. (18) F. STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2001, in particolare p. 270 ss.


— 826 — causalità omissiva nella giurisprudenza, si è costruita principalmente sul tema della responsabilità medica (19). Si è osservato come tale orientamento sia stato ‘‘giustificato dalla considerazione che ‘quando è in gioco la vita umana’, ‘al criterio della certezza degli effetti si può sostituire quello della probabilità di tali effetti (e della idoneità della condotta a produrli)’ Cass. pen., 7 gennaio 1983, in Cass. pen., 1984, p. 1942 ss.’’ (20). La considerazione mette in evidenza una sorta di paradosso posto che, da un lato, è l’importanza degli interessi in gioco a giustificare la struttura causale pura, con la evidente carenza di tipicizzazione normativa della condotta, dall’altro, tuttavia, proprio e ancora per l’importanza degli interessi in gioco, si può rinunciare alla funzione tipizzante della causalità! Ma a noi interessa un altro aspetto: la causalità dell’inerzia per concorso omissivo di amministratori e sindaci nelle situazioni esaminate non può certo essere soppiantata da ‘‘modelli di rischio’’ supportati dalla ricerca scientifica e ‘‘tematizzati dalla scienza medica più recente’’ come si è prospettato a proposito delle linee giurisprudenziali elaborate in tema di responsabilità colposa del medico (21). Anche nel caso del consigliere di amministrazione (o dell’amministratore ‘‘di diritto’’ inerte rispetto a quello di fatto), in cui l’obbligo di impedimento del reato altrui sia predicabile a seguito della effettiva conoscenza, il problema dell’accertamento della natura condizionale (sia pure negativa, ipotetica, mentale, logica) in quanto controfattuale, dell’intervento omesso (effettiva impedibilità dell’evento pregiudizievole), appare in realtà difficilmente risolvibile. La delibera collegiale o gli atti di gestione dell’amministratore di fatto penalmente illeciti o si sono già verificati o ne è di problematica dimostrazione la conseguente inibizione qualora vi fosse stato un tempestivo intervento di fronte ai ‘‘segnali di allarme’’, alla percezione di una situazione di pericolo per gli interessi affidati al garante, coerente con gli obblighi dettati dall’art. 2932 c.c. Scartiamo la prima ipotesi, riconducibile alla responsabilità civile di cui all’ultima parte dell’art. 2392, comma 2, ma evidentemente estranea al concorso e non corrispondente ad un obbligo di denuncia. Tuttalpiù la ‘‘causalità’’ sarà accertata, anche in questo caso, sulla base di valutazioni probabilistiche, di diminuzione del rischio, qualora fosse stato, ad esempio, esplicitato il dissenso o informato il collegio sindacale (art. 2392, comma 3). Ma, a differenza di altri settori del ‘‘diritto penale della modernità’’ in cui la rinuncia a paradigmi di ‘‘certezza’’ nell’accertamento della causalità si basa comunque su valutazioni di rischio dotate del supporto di ricerche (19) M. DONINI, op. cit.; C.E. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. med. legale, 1992, p. 821 ss. (20) Richiamata da F. STELLA, op. ult. cit., p. 272. (21) C.E. PALIERO, op. cit., p. 854.


— 827 — scientifiche, nel nostro caso riferimenti di questo tipo non sono seriamente pensabili! Ecco che dietro il rifluire dell’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di impedire, nella semplice violazione di quello di conoscere, altro non c’è che la fittizietà della causalità omissiva (22). Certo, anche in questo campo, pertinente alla relazione tra comportamenti umani volontari, l’accertamento della causalità non è impensabile in assoluto. È questo un terreno che condivide i problemi che, più in generale caratterizzano, la c.d. causalità psichica nel concorso di persone nel reato (23) e che, più radicalmente, hanno condotto a ritenere impossibile un nesso di collegamento sul piano causale tra le condotte umane (24). L’opinione prevalente, tuttavia, è nel senso che, l’accertamento della causalità psichica, caratterizzata dalla irregolarità delle relazioni interpersonali, non potendosi reggere su leggi scientifiche (di tipo universale o statistico) è comunque realizzabile con l’utilizzo di massime di esperienza (25). Vale la pena soffermarsi su questo luogo che condivide una caratteristica, per altro non infrequente, nei rapporti tra le riflessioni di diritto penale sostanziale e processuale: l’argomento delle massime di esperienza, quasi sempre evocato solo en passant dai sostanzialisti (nel nostro caso a proposito delle relazioni interpersonali), è dominio incontrastato degli studiosi del diritto processuale che affrontino il complesso ed affascinante tema della prova (centrale, oggi, il dato positivo dell’art. 192, comma 1 c.p.p.) (26). 6.2.2. In realtà la questione delle massime di esperienze, che riguarda, in termini generali, il formarsi del sapere del giudice e del suo convincimento, in taluni casi assume un assorbente rilievo di diritto pe(22) L. BISORI, op. cit., p. 1384; a proposito dei sindaci, A. MELCHIONDA, op. cit., p. 55. (23) Mi permetto di rinviare ad osservazioni di G. INSOLERA, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. pen. Aggiornamento, Torino, 2000, p. 71 ss. dell’estratto. (24) GA. DE FRANCESCO, op. cit., p. 332. Per un quadro completo ed efficace delle riflessioni in argomento, di recente L. CORNACCHIA, Il problema della cd. causalità psichica rispetto ai condizionamenti umani, in AA.VV. Nuove esigenze di tutela nell’ambito dei reati contro la persona (a cura di Canestrari e Fornasari), Bologna, 2001, p. 198 ss. L’autore, al termine della sua rassegna, così, condivisibilmente, conclude: ‘‘La categoria della ‘causalità psichica’ appare alla fine esangue, incapace di esprimere una criteriologia autonoma; o più spesso diventa il paravento, il comodo escamotage per giustificare nella prassi applicativa qualsiasi soluzione evitando il problema del reale accertamento (spesso impossibile) del nesso eziologico’’. (25) In argomento F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 2000, p. 126 ss. (e, in particolare nota 92, 128); L. CORNACCHIA, op. cit., p. 198 ss. (26) Per una recente rivisitazione dell’argomento e per la completa bibliografia, P. MAGGIO, Le massime di esperienza nei processi di criminalità organizzata, in AA.VV., Le strategie di contrasto alla criminalità organizzata nella prospettiva di diritto comparato, (a cura di G. Fornasari), Padova, 2002.


— 828 — nale sostanziale (27). Ciò avviene ogni volta che la struttura fattuale dell’incriminazione consista in interazioni. Un esempio assai efficace è offerto dall’importanza del controllo delle massime di esperienza nel verificare la corretta applicazione dell’art. 416-bis c.p., e, più in generale, nei processi di criminalità organizzata (28). Non diversamente vanno le cose a proposito della ricostruzione della causalità psichica, nel concorso morale, o della capacità impeditiva dell’altrui comportamento illecito nel concorso omissivo. In entrambi i casi l’accertamento della causalità — naturalistica od ipotetica — abbiamo visto come proceda per massime di esperienza, con una epistemologia, per così dire, parallela rispetto a quanto avviene, dove ciò è possibile, con la sussunzione sotto leggi scientifiche (di carattere universale o statistico). Come in quest’ultimo caso, la configurabilità di un elemento di fattispecie è determinata dalla affidabilità (non scientifica) della regola di esperienza invocata nell’affermare una determinata sequenza di fenomeni: è il paradigma dell’omnimodo facturus che nel caso del concorso morale, si reggerà su massime capaci di fornire risposte su quale sarebbe stato l’agire dell’autore in mancanza del contributo psichico, nel concorso mediante omissione su massime che ne ipotizzino il comportamento laddove il garante avesse adempiuto a tutti i doveri impostigli. La necessità di provare, ed argomentare, in questi termini il nesso causale dovrebbe percorrere il procedimento dalle sue prime fasi, orientando dal principio le indagini del pubblico ministero, fino all’essenziale controllo esercitato dalla cassazione sulla motivazione (29). In questo percorso le massime serviranno a fornire risposte probabilistiche, non si riferiranno a certezze, ma a ragionevoli gradi di sicurezza, come del resto avviene anche quando possiamo invocare paradigmi scientifici. Comunque, e alla stessa maniera, esse devono dar corpo ad un discorso che non affidi la determinazione del nesso di condizionamento, requisito di fattispecie, ‘‘al libero apprezzamento soggettivo del giudice’’ (30). Anzitutto una questione di determinatezza e tassatività, quindi, come è noto, quella della spiegazione causale nel diritto penale. Che si specchia fedelmente nella tematica processuale del libero convincimento, del suo significato e dei suoi limiti. ‘‘Senza le massime di esperienza, di cui gli osservatori meno accorti parlano come di inutili anticaglie, il giudice non potrebbe ragionare; se non ragionasse, la soluzione della questione di fatto sarebbe molto simile ad un gioco d’azzardo. Insomma, l’opera del giudice non è soltanto logica (27) In questa direzione F. STELLA, op. ult. cit., p. 152, nota 129. (28) P. MAGGIO, op. cit., per la vasta bibliografia. (29) F. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano, 1997, p. 183 ss. (30) F. STELLA, op. ult. cit., p. 101.


— 829 — ma lo è in misura ragguardevole; laddove non lo è non soltanto sfugge al controllo ma neppure si può descrivere...’’ (31). Come detto, l’indagine dei processualisti in argomento è cospicua, è un classico. Nelle prospettive critiche verso tesi irrazionalistiche (32), alla riaffermata essenzialità delle massime di esperienza nello strumentario a supporto delle regole del decidere, si accompagna la costante riflessione sulle modalità della loro elaborazione. Tratto distintivo essenziale dalle, parallelamente operanti, leggi scientifiche, quello che le vede ‘‘prodotte’’, e non reperite, dal giudice (33), pur tuttavia con una costante dialettica argomentativa tra empiria del caso concreto ed esperienza passata (34). Torniamo alla questione della impedibilità dell’altrui reato (e alla contigua tematica del concorso morale), per fissare alcuni punti: a) se, contro le tesi radicalmente scettiche, si ritiene in questi casi effettivamente praticabile l’accertamento della causalità, esso deve sostenersi su credibili ed esplicite massime di esperienza. Ciò conferma un nesso strettissimo, da tempo messo in luce, tra requisito di determinatezza/tassatività e prova, o probabilità, del fatto (35); b) anche l’argomentazione per regole di esperienza deve esprimere, pur nell’ambito di una logica ipotetico-congetturale, un ragionevole grado di certezza. 6.2.3. È a questo punto necessario soffermarsi, necessariamente in termini meramente esemplificativi, sull’esame di alcune decisioni in punto accertamento della causalità nel concorso omissivo e riguardanti la materia di cui ci occupiamo. Si tratterà solo di qualche esempio, anche perché l’interesse maggiore è offerto dalle sentenze di merito in cui trova compiuta esplicitazione il passaggio dalla ricostruzione dei fatti all’assegnazione ad essi di un determinato valore probatorio, alla luce di una regola esperienziale. Percorso raramente ripreso dalle sentenze di legittimità, nonostante il controllo sulla motivazione consentito alla Cassazione. Si (31) F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1971, p. 632; Idem, Procedura penale, Milano, 2001, p. 592, sugli abusi del libero convincimento. (32) F. CORDERO, citato nella nota precedente; NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette ‘‘massime d’esperienza’’, in questa Rivista, 1969, p. 123 ss.; Idem, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, p. 283 ss.; G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979; Idem, voce, Prova, in Dig. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 308. (33) G. UBERTIS, op. cit., 1979, p. 133; 1995, p. 310. (34) G. UBERTIS, op. cit., 1979, p. 61: ‘‘per il loro carattere e per le modalità della loro formazione, le massime di esperienza non possono che avere una natura argomentativa ed una funzione topico-euristica: restano comunque loro caratteristiche quelle della problematicità e della ipoteticità congetturale’’ (133). Sul conseguente, fondamento dialettico-argomentativo della conoscenza del giudice M. NOBILI, op. cit., 1969, p. 192; Idem, 1974, p. 456; con un po’ di scetticismo, F. IACOVIELLO, op. cit., p. 183 ss. (35) Ricorda di recente questo valore già attribuito alla determinatezza da Feuerbach, S. MOCCIA, La ‘‘promessa non mantenuta’’, Napoli, 2001, p. 14.


— 830 — tratta di un limite della ricerca, in parte attenuato da dati di esperienza operativa. Nella sentenza 16 aprile 1992 del Tribunale di Milano (riguardante il Banco Ambrosiano) (36), vediamo trattati i due problemi degli effetti della delega nell’ambito del consiglio di amministrazione e quello della responsabilità dei sindaci. Quanto al primo punto, questo lo schema della decisione. Permane un inderogabile obbligo di vigilanza sugli amministratori deleganti, presupposto della loro responsabilità penale. Nella vicenda, a parte un campo di attività indelegabili a norma dello statuto e del regolamento, anche negli altri casi si trattava di operazioni talmente straordinarie da attivare l’attenzione anche del membro più sonnolento dell’organo amministrativo. Si è provato il fatto che la discussione di delibere di quella importanza si riduceva alla lettura del verbale già predisposto. ‘‘Patente, sistemica è la violazione dei doveri di informazione, controllo, vigilanza, censura, esplicitamente o implicitamente desumibili dalla normativa societaria, generale e speciale, di diritto comune o convenzionale’’. L’atteggiamento ‘‘positivamente connivente’’ degli amministratori è oggettivamente collegato da adeguato nesso causale all’attività illecita dell’amministratore delegato, quale momento di rafforzamento della volontà criminosa del suddetto organo sociale. In questo caso quindi la soluzione adottata, non è quella del concorso omissivo, ma quella del concorso morale nella forma minima del rafforzamento. Volendo sintetizzare la struttura sillogistica propria dell’utilizzo della regola di esperienza, la premessa maggiore è la seguente: la costante inerzia dei deleganti rispetto all’attività di informazione, vigilanza, e censura, loro imposta dalla legge, anche in presenza di deleghe, rafforza i propositi criminosi del delegato. Quanto alla posizione dei sindaci, nella motivazione si contesta la tesi della ‘‘impotenza’’ dell’organo interno di controllo, con l’evidenziazione dei ‘‘controlli penetranti e sostanziali dei quali i sindaci possono essere capaci’’. L’istituto non è quindi di per sé inefficiente, ma tale diventa nel caso di suo ‘‘appiattimento’’ sul gruppo di potere responsabile della indicazione del sindaco stesso. Dal capoverso dell’art. 2407 si ricava che ‘‘i sindaci per evitare la responsabilità devono attivarsi per impedire che si producano gli effetti di certi atti, se li ritengono pregiudizievoli, o invece perché siano posti in essere quelli dovuti’’ ‘‘il controllo dei sindaci deve tendere ad evitare ... che venga violata nella gestione qualsiasi norma giuridica’’, questa attività di riscontro deve riguardare qualsiasi atto pertinente alla gestione sociale. Da una serie di elementi probatori si può affermare che ‘‘non si sindacò al Banco Ambrosiano’’. Quindi ‘‘non è discuti(36)

Per stralci in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 1477.


— 831 — bile, rispetto al formarsi e all’aggravarsi del dissesto, il nesso di causalità con l’assoluta inerzia dei contollori’’. In questo caso, anche se non esplicitamente, si resta nell’ambito del concorso omissivo. La premessa maggiore del ragionamento è assai sintetica: il mancato assolvimento dei compiti e il mancato esercizio dei poteri da parte dei sindaci causa il comportamento illecito dei controllati. Argomentare assai sbrigativo che, come vedremo analizzando tra poco altra decisione (Trib. Lecce), non può che alludere ad un contributo agevolatorio, soglia minima del concorso materiale, mancando qualsiasi spunto riguardante una verificata controfattualità ipotetica. Procedere argomentativo, sostanzialmente ripreso dalla Corte d’appello e da quella di Cassazione (37) che, sia rispetto agli amministratori deleganti, sia rispetto ai sindaci, mi sembra valorizzi, indifferentemente, entrambe le modalità di concorso: l’inerzia dinanzi ad anomalie che dovevano richiamare la loro attenzione ‘‘senza mai un voto contrario, un intervento, una richiesta di chiarimenti ... non aver mai i sindaci fatto osservazioni, rilievi o proposte, nonostante l’importanza delle delibere stesse’’ testimonia insieme un’adesione sistematica e continuativa e un incentivo alla gestione illecita. Nel medesimo contesto argomentativo si colloca la già citata sentenza del GUP di Torino (38), concernente la responsabilità degli amministratori della capogruppo per i falsi in bilancio commessi da quelli delle controllate. L’ingannevolezza delle massime giurisprudenziali, rispetto alla quale dovrebbe ormai essere avvertito l’interprete minimamente esperto, trova conferma in una decisione del Tribunale Milano (39) (II sezione 24 novembre 1999, in Giur. it., 2000, 2368). La decisione è correttamente massimata (nel senso che l’affermazione è fedelmente ricavata dalla motivazione): ‘‘Per giungere all’affermazione della responsabilità omissiva sul piano penale, occorre accertare se anche con riferimento al precetto dell’art. 40, comma 2, c.p. sussista un nesso di causalità tra omissione e realizzazione del falso da parte dell’amministratore. Tale nesso di causalità si atteggia come giudizio prognostico incentrato sul fatto che senza il comportamento omissivo e con il concreto esercizio dell’attività doverosa l’evento non si sarebbe verificato; tale giudizio non può che esprimersi in una valutazione di probabilità, ma la stessa deve essere tale da avvicinarsi al massimo alla certezza’’. Ma se si passa ad esaminare la motivazione è facile rendersi conto di (37) Rispettivamente e per stralci in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, p. 571 e Guida dir., 1998, n. 33, p. 91. (38) 9 aprile 1997, Romiti e Mattioli, in Giur. it., 1998, p. 1691, vedi supra, nota 4. (39) II Sezione, 24 novembre 1999, in Giur. it., 2000, p. 2368.


— 832 — come l’argomentare non corrisponda affatto alla, ineccepibile, affermazione in diritto sopra riportata. Se i sindaci ‘‘anziché limitarsi ad effettuare un superficiale controllo sui dati contabili che apparentemente corrispondevano tra di loro, ne avessero rilevata la sostanziale fittizietà, l’irregolarità sarebbe emersa’’. La genericità della classificazione delle poste non poteva sfuggire a soggetti professionalmente attrezzati così da indurre allo svolgimento di indagini suggerite anche dall’ammontare rilevante dei movimenti riportati. Sul piano testimoniale risultava ‘‘un ruolo del tutto vago o inesistente dei collegi sindacali che in concreto si limitava ad avallare quanto veniva predisposto da altri non già nell’interesse della società, sul quale avrebbero dovuto vigilare, ma in quello di chi la utilizzava per le proprie esclusive esigenze’’. Ciò che questa decisione mostra in modo esemplare è la asimmetria tra affermazione in diritto, pienamente conforme ai ‘‘principi’’ e svolgimento argomentativo. È evidente infatti che la massima di esperienza utilizzata e la premessa minore riportata non si riferiscano affatto alla applicazione della regola giuridica affermata. Questa ultima implicherebbe infatti che si fosse dimostrato, in termini tali da ‘‘avvicinarsi al massimo alla certezza’’, che se i sindaci si fossero attivati, gli amministratori avrebbero tenuto un diverso comportamento. Al contrario, come è evidente, l’argomentare concerne solo, e dimostra solo, l’inerzia dei sindaci e la loro possibilità di conoscenza. Non diversamente dalle sentenze in precedenza richiamate, che per altro, non si sono espresse in affermazioni di diritto tanto nette, quanto disattese nello svolgimento della motivazione. Ciò che ho cercato di dire fino ad ora può trovare una ulteriore conferma dall’esame di un caso, sempre colto con valore meramente esemplificativo, nel quale l’argomentazione sembra effettivamente pertinente all’oggetto della dimostrazione. Il Tribunale di Lecce (40) esamina un caso di ipotizzato concorso omissivo dei sindaci in reati fallimentari, nelle premesse richiama ‘‘autorevole dottrina’’ che ritiene configurabile la responsabilità a titolo di concorso per omissione in un reato commissivo posto in essere da altri ‘‘purché la sua inazione sia stata condizione necessaria o agevolatrice del reato, nel senso che senza quell’inerzia la commissione di quel reato non sarebbe stata possibile o comunque sarebbe risultata più difficoltosa e si sarebbe perciò realizzata con modalità differenti...’’, in queste situazioni, verificata la sussistenza di una posizione di garanzia ‘‘occorre accertare se vi sia stato un ... contributo causale o agevolatore rispetto alla azione criminosa altrui’’. Già in questo la sentenza merita apprezzamento in quanto contrappone al riferimento causale quello all’agevolazione, avversativa(40)

30 novembre 1993, in Foro it., 1995, II, p. 653.


— 833 — mente estraneo al primo (41). Ma, nello svolgimento della motivazione, è dato riscontrare un percorso funzionale alla dimostrazione della effettività di un contributo, in termini di controfattualità ipotetica (e ciò nonostante l’affermazione di una ‘‘causalità agevolatrice’’!). ‘‘Alla luce dei principi di diritto esposti nel precedente paragrafo va detto che il Longo ed il Gianfreda tennero un atteggiamento di deliberata inerzia e, pur consapevoli dell’esistenza di numerose irregolarità commesse dal Calabro nella gestione della ‘Medio Fin’, accettarono il rischio — di cui essi ebbero una chiara rappresentazione — che questi potesse compiere atti pregiudizievoli per i creditori sociali, distraendo danaro della società mediante l’artefazione delle scritture contabili, e così sostanzialmente assicurarono al prevenuto la loro compiacente (ed interessata, atteso che essi percepivano un lauto compenso per il mandato ricevuto) acquiescenza; tra gli effetti antigiuridici di quegli atti ed il loro silenzio vi fu perciò un nesso di causalità, in quanto il secondo costituì una condizione agevolatrice per la realizzazione dei primi. Appare, in tal senso, di fondamentale importanza la circostanza che il Longo ed il Gianfreda vennero nominati all’inizio del 1987 in sostituzione dei precedenti sindaci Dell’Atti e Agrifani: ed invero, la lettura del testo dei verbali delle riunioni del collegio sindacale chiarisce che non si trattò di un normale avvicendamento, bensì di una ‘epurazione’ attuata dal Calabro il quale volle in tale maniera ‘liberarsi’ di due sindaci che gli stavano impedendo di realizzare liberamente i suoi propositi criminosi, sostituendoli con persone che evidentemente erano di ‘fiducia’ e che gli avrebbero garantito la piena e svincolata indipendenza nell’esercizio dell’amministrazione della società. Nell’anno 1986, infatti, il collegio sindacale composto dal Dell’Atti e dalla Agrifani (il terzo membro, Petrucci Mario, rimase invece costantemente assente) — che già negli anni precedenti aveva mosso alcune critiche all’amministrazione del Calabro (con censure alla gestione dei ‘sospesi di cassa’ ed alle movimentazioni dei conti affidamento Lippolis e Circolo ippico Sabatini; si vedano i verbali dell’11 settembre 1984, 15 aprile 1985 e 4 ottobre 1985) — iniziò ad avanzare una serie di sempre più incisive osservazioni critiche alla modalità di amministrazione della società, sia sollecitando il Calabro a dare spiegazioni circa alcune operazioni quanto meno ‘strane’, sia imponendo all’amministratore dei termini entro i quali avrebbe dovuto regolarizzare delle anomale situazioni contabili. E che quel collegio sindacale stesse praticamente cogliendo nel segno, lo si evince dal fatto che i suoi componenti accertarono l’esistenza di ritardi e gravi scorrettezze nella tenuta del libro giornale, chiedendo che lo (41)

Sull’estraneità dell’agevolazione al criterio condizionalistico, chiaramente T. PA-

DOVANI, Diritto penale, 1998, p. 376.


— 834 — stesso venisse aggiornato per permettere di controllare le operazioni realmente effettuate (v. verbali del 23 aprile 1986 e 23 giugno 1986); verificarono che il capitale sociale era stato completamente eroso dalle perdite di esercizio, sì da rendere necessario un suo azzeramento e una sua ricostituzione (v. verbale del 14 aprile 1986); richiesero ripetutamente il ripianamento delle passività e l’estinzione dei due suddetti conti affidamento (v. verbali del 23 aprile 1986, 8 settembre 1986); tornarono a criticare l’impiego spregiudicato ed inammissibile del sistema dei ‘sospesi di cassa’; rilevarono l’esistenza di insoluti a fronte dei quali l’amministrazione non aveva iniziato alcuna azione per tentare di recuperare quanto dovuto dai debitori; domandarono di controllare il ‘portafoglio’ cambiario della società. A tale intensa attività svolta da quei due membri del collegio sindacale, il Calabro (o, in sua vece, il Petrarchi) ‘rispose’ inosservando i termini prescrittigli per la regolarizzazione delle scritture contabili, impedendo ai sindaci di visionare i titoli cambiari in possesso della società, ostacolando la visione di tutti i libri contabili con la scusa che gli stessi non fossero stati ancora aggiornati; né va dimenticato che sono proprio di questo periodo gli accrediti fittiziamente effettuati dal Calabro su quei conti affidamento, evidentemente finalizzati solo a prendere tempo ed a sviare le indagini approfondite dei sindaci. Sta di fatto che il 20 novembre 1986, allorquando il contrasto tra l’amministratore ed i due sindaci era divenuto ormai insanabile, il Dell’Atti e l’Agrifani — che si avvidero della concreta impossibilità di esercitare i loro poteri — si dimisero, giustificando eufemisticamente la loro scelta con non meglio identificati ‘motivi di lavoro’. Al posto dei dimissionari il Calabro nominò i due odierni imputati: la scelta non fu casuale ma voluta dall’amministratore, poiché certamente egli individuò due soggetti che, componendo il collegio sindacale (unitamente al Petrucci, che però continuò a rimanere assente a tutte le riunioni del collegio), gli avrebbero assicurato piena libertà di iniziativa. E la conferma che il Longo ed il Gianfreda accettarono consapevolmente quella intesa criminosa, decidendo di asservire il collegio di controllo alla volontà dell’organo amministrativo, lo si desume dal fatto che nei verbali delle riunioni del rinnovato collegio sindacale non si fece neppure la minima menzione a tutte quelle numerose questioni che i predecessori avevano sollevato, all’uopo compilando decine di pagine di verbali. A tal proposito, non si può seriamente sostenere che i due sindaci non seppero nulla di quelle accese critiche che il precedente collegio sindacale aveva mosso all’amministratore, in quanto tali critiche erano riportate nei verbali redatti materialmente sullo stesso registro sul quale il Longo ed il Gianfreda proseguirono la stesura dei verbali delle riunioni di quell’organo, sicché deve ritenersi provato che essi furono in perfetta condizione di conoscere quali erano state le ragioni delle dimissioni del Dell’Atti e della Agrifani’’.


— 835 — Proviamo a tradurre gli elementi a disposizione in una massima di esperienza in tema di causalità omissiva nel concorso. Questo fine sperimentale ci farà perdonare dal paziente lettore per la lunga citazione giurisprudenziale inserita nel testo. Nella premessa maggiore inseriremo, accanto al consueto riferimento all’inerzia del garante e alla sussistenza di campanelli d’ allarme tali da non potere non essere avvertiti da un soggetto qualificato etc. (come visto di solito ritenuti sufficienti), ulteriori dati: l’attività del precedente collegio, la sua verbalizzazione e, quindi, rilevabilità, la sostituzione dell’organo di controllo con la cessazione dei rilievi e degli interventi etc. Breve, la massima di esperienza formulabile potrebbere essere la seguente: l’inerzia di un collegio sindacale in presenza di segnali di allarme percepibili in ragione delle competenze dei suoi membri e già evidenziati dal precedente organo di controllo sostituito proprio in ragione del corretto adempimento degli obblighi su di esso gravanti rende ragionevolmente probabile che se i nuovi sindaci fossero tempestivamente intervenuti al pari dei precedenti, gli amministratori si sarebbero astenuti dai comportamenti illeciti che invece hanno realizzato. 6.2.3. Fissiamo alcuni punti. a) È riscontrabile nella giurisprudenza un facile passaggio dalla ricostruzione del concorso omissivo in termini di agevolazione (concorso materiale), a quella per rafforzamento (concorso morale). Le due categorie suscettibili di una definizione teorica sufficientemente precisa, sono, però, confondibili e sovrapponibili in quanto accomunate dalla loro estraneità al paradigma causale condizionalistico; b) A ben vedere, nella prevalenza dei casi di mancato impedimento del reato altrui, è il concorso morale per rafforzamento dell’altrui proposito criminoso ad apparire prospettabile, ferma restando l’assenza di una effettiva verifica in termini di controfattualità. Rispetto all’evento — l’altrui reato doloso — la nozione di facilitazione/agevolazione sfuma in quella, mediata dalla volontà dell’autore, di rafforzamento. La consapevolezza della inerzia del controllore o di chi comunque è obbligato ad una perdurante vigilanza, non necessariamente frutto di un previo accordo, ma, ad esempio, maturata osservando la metodica negligenza nell’adempimento dei doveri, incide sulla risoluzione criminosa in termini di maggiori chances di riuscita e di impunità. Il concetto di agevolazione avrà un residuo, e minimo, campo di azione nel caso, in vero molto teorico, in cui l’autore agisca non confidando sull’altrui inerzia; c) In base alle osservazioni che precedono mi sembra che siano prospettabili diverse situazioni. Anzitutto quella in cui al perimetro dei poteri e doveri di controllo e vigilanza corrisponda un più diretto potere di impedimento del garante. Quelle situazioni nelle quali il controllo è inserito all’interno di procedure tipiche e l’atto illegittimo è


— 836 — sottoposto alla preventiva valutazione/approvazione dei controllori (42). È ad esempio il caso concernente l’intervento dei sindaci ex art. 2429 c.c. La sua tempestività ha una capacità impeditiva del falso commesso dagli amministratori confinante con la certezza. Ancora quello riconducibile all’art. 2408, comma 2 c.c., nel quale, tuttavia, l’apprezzamento della impedibilità può mutare di molto a secondo delle dinamiche concrete degli specifici rapporti tra soci ed organo amministrativo. Quando manchi siffatta corrispondenza tra gli obblighi e i poteri di controllo e quelli di impedimento, possono profilarsi situazioni in cui la ricostruzione della causalità, per essere effettiva, necessita della individuazione di ulteriori elementi, da affiancare a quelli dell’inerzia e della rilevabilità dei segnali di allarme: è in questo modo che si dà corpo a quella formulazione di massime di esperienza che dovrebbero esprimere anche il grado di probabilità di impedimento dell’altrui comportamento illecito. Come dicevo questo tipo di prospettiva non mi sembra sia quella seguita nella maggioranza dei casi e ciò può dipendere dalla stessa impostazione di indagini che si appaghino della rilevata inerzia dei controllori e della significatività — per altro valutata ex post! — dei segnali di allarme. In altri casi, ma le conclusioni finiscono col coincidere, penso che difetti fattualmente la stessa possibilità di ricostruire la causalità. Ecco allora che la ricostruzione del nesso con l’altrui illecito doloso manca completamente e ci si arresta a quella della condotta inosservante. Come vedremo tra poco, la evanescenza delle massime di esperienza che dovrebbero sorreggere l’accertamento del dolo (43), altro non è che il riverbero opaco di una indimostrata impedibilità. Un ‘‘contrabbandare come dolo ciò che in realtà è soltanto applicazione non richiesta di una non prevista responsabilità oggettiva per fatto altrui’’ (44). Quindi rifluire dell’accertamento della impedibilità nella mera violazione dell’obbligo di conoscere: questo implica che, al di là delle clausole di stile, a volte anche esse completamente assenti, nelle decisioni manchi qualsiasi riferimento alla accertata causalità, al suo ‘‘grado’’ di certezza sufficiente. Breve: da un lato, l’indagine sul fatto tipico si limita all’individuazione della posizione di garanzia e dell’inadempimento degli obblighi ad essa connessi, dall’altro, come vedremo tra poco, la questione rifluisce nell’elemento soggettivo. 6.3. Quando si mette in rilievo il problema della natura dolosa di tutte le ipotesi di concorso omissivo che stiamo esaminando e si sottopone a severa critica quell’orientamento giurisprudenziale che assottiglia a tal (42) F. STELLA-D. PULITANÒ, op. cit., p. 566. (43) Per un analitico esame critico delle massime di esperienza sul dolo nelle decisioni concernenti il Banco Ambrosiano, A. CRESPI, op. cit., p. 1157 ss. (44) A. CRESPI, op. cit., p. 1154.


— 837 — punto la componente volitiva del dolo eventuale da pervenire, di fatto, ad un sostanziale addebito per colpa (45). Quando si individua la ‘‘causa’’ di queste torsioni interpretative nel modello civilistico della posizione di garanzia, riguardi essa i sindaci o gli amministratori, viene in luce un ulteriore aspetto. Prima ancora di una incompatibilità tra reato omissivo improprio e dolo eventuale, pertinente ‘‘alla logica interna della realizzazione del volere’’ (46), per cui una omissione non orientata ad uno scopo può rilevare solo in quanto tale (47), a conclusioni restrittive, che coinvolgono necessariamente l’ipotesi del concorso mediante omissione si perviene anzitutto considerando proprio il carattere solo apparente dell’accertamento della causalità che, come visto, domina la materia di cui ci occupiamo. Si tratta di una incompatibilità che presenta analogie con quella tra dolo eventuale e delitto tentato in quanto ‘‘il dolo eventuale è destinato ad assumere rilevanza soltanto nella prospettiva di un effettivo ruolo ‘causale’ della condotta accompagnata dalla previsione dell’evento’’ (48): in entrambe le ipotesi è carente quel substrato fattuale (in un caso lo stesso ‘‘effetto’’ della condotta, nell’altro un nesso credibilmente accertato) che comunque deve riflettersi nel dolo. Perché possa affermarsi che si è previsto ed accettato il rischio di qualcosa (e ciò vale qualsiasi concezione del dolo eventuale si accolga), occorre anzitutto identificare e attribuire materialmente l’oggetto della previsione e dell’accettazione del rischio. Torniamo comunque all’approccio dominante nella letteratura penalistica. Quello che critica, in questi casi, la frequente configurazione giurisprudenziale della colpevolezza in chiave di dolo eventuale, vedendovi spesso una semplificazione concettuale che sacrifica l’accertamento di una effettiva previsione di una definita classe di eventi, necessaria anche in quella forma attenuata di dolo (49). ‘‘Una sciatta prassi giurisprudenziale’’ che confonde la reale conoscenza del fatto con la doverosa possibilità di acquisirla, così accertando la colpa e non il dolo (50). ‘‘L’inadempimento di doveri di diligente vigilanza, non può, di per sé, essere considerato indizio del dolo in quanto fatto psicologico. Ciò equivarrebbe a pre(45) È osservazione ricorrente cfr., senza alcuna pretesa di completezza, F. STELLAD. PULITANÒ, op. cit., p. 567 ss.; A. ALESSANDRI, op. cit., p. 92; A. CRESPI, op. cit., passim; C. PEDRAZZI, Tramonto del dolo?, in questa Rivista, 2000, passim. (46) A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, p.g., Milano, 2000, p. 367. (47) L. EUSEBI, Appunti sui confitra dolo e colpa nella teoria del reato, in questa Rivista, 2000, p. 1094. (48) GA. DE FRANCESCO, Fatto e colpevolezza nel tentativo, in questa Rivista, 1992, p. 723. (49) Rinvio ancora ad A. ALESSANDRI, op. cit., p. 92. (50) Così, in termini generali G. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, p. 430.


— 838 — tendere di desumere il dolo dalla colpa’’ (51). Un tramonto del dolo che è stato recentemente fotografato, sulla materia di cui ci occupiamo, da un grande maestro (52). Conseguentemente, in letteratura, in prospettiva di riforma, mi sembra che prevalga assolutamente l’ipotesi di un necessario contenimento della irresistibile espansione della responsabilità concorsuale omissiva, attraverso la previsione di ipotesi tipiche di agevolazione colposa, ma, soprattutto, di incriminazioni che sanzionino a titolo di colpa la violazione di specifici obblighi di agire. Ed è predicabile anche nel nostro scenario quella prospettiva, di spettanza legislativa, che consiste ‘‘nella costruzione di mirate ipotesi di mera condotta omissiva pericolosa ... con la previsione dell’evento-condizione non voluto come circostanza aggravante ’’ (53). Per altro, e proprio nel nostro campo, si è da tempo sottolineata la desuetudine applicativa dell’art. 224 n. 2 l. fall. in cui, alla non necessarietà di un’attribuzione dolosa, si associa l’accertamento di un nesso causale tra dissesto e inadempimento di doveri funzionali. A quest’ultimo proposito è importante rilevare come proprio nello specifico campo della riforma della legge fallimentare si punti ad un generale ricupero del nesso causale nella bancarotta prefallimentare (54), operazione già compiutasi per la bancarotta societaria con la modifica dell’art. 223, comma 2 n. 1 l. fall., licenziata dalla commissione a cui è affidata l’elaborazione della legge delegata in materia penale societaria. È evidente come si tratti di novità che dovranno influire fortemente sulla configurazione degli elementi del concorso mediante omissione, sia nella componente oggettiva, sia rispetto a quella soggettiva. Sempre sul piano delle futuribili innovazioni, la commissione Grosso, dopo aver scartato, già nella relazione del 1999, le tesi restrittive in tema di concorso omissivo (applicabilità ai soli reati causali puri, incompatibilità con il dolo eventuale, necessità di un previo accordo), nell’articolato del giugno 2001, all’art. 44, comma 2, prevedeva una diminuente facoltativa ‘‘fuori dai casi di previo accordo’’. Sempre in quell’ultimo elaborato si rivedeva, in tema di causalità omissiva, il requisito del certo impedimento dell’evento, sostituito dalla ‘‘probabilità confinante con la certezza’’. 7. Come concludere, in questo contesto caratterizzato dalla quotidiana esperienza applicativa degli strumenti normativi a cui sono state dedicate le precedenti riflessioni? 7.1. Anzitutto abbiamo ancora una volta potuto constatare come nel(51) F. STELLA-D. PULITANÒ, op. cit., p. 571. (52) C. PEDRAZZI, op. ult. cit. (53) M. DONINI, op. cit., p. 86. (54) F. SGUBBI, op. cit., p. 135; L. FOFFANI, La riforma delle procedure concorsuali: profili penali (in margine alla proposta di l. n. 7497 del 14 dicembre 2000, per la riforma delle procedure della crisi della impresa), in Crit. dir., 2001, p. 100 ss.


— 839 — l’ambito di taluni settori del diritto complementare si verifichi la ‘‘produzione’’ di sostanziose modificazioni di categorie portanti della parte generale del codice penale. In attesa di una ricodificazione che, a mio parere, trova una delle principali ragioni proprio nella necessità di una armonizzazione in questo campo, credo che già in sede interpretativa l’operazione possa essere compiuta senza difficoltà. È una convinzione che riposa sulla evidente conflittualità che gli ‘‘strappi’’ rinvenibili nel ‘‘diritto penale giurisprudenziale’’ esprimono verso alcuni canoni costituzionali riguardanti la materia (determinatezza/tassatività, materialità, colpevolezza). 7.2. In sede di riforma della legislazione di settore (reati societari e fallimentari) è riscontrabile una tendenza al restringimento dell’area del penalmente rilevante a vantaggio delle altre tecniche, amministrative e civili, di tutela. È coerente con questa prospettiva quella analisi che ha colto l’intreccio tra diverse tecniche di tutela e diverse regole probatorie che le supportano (55). Anche a questo proposito ritengo che ancor prime delle modifiche normative, un ricupero della legalità, senza pregiudizio per esigenze di difesa sociale, possa ottenersi attraverso l’utilizzo appropriato, ma spesso trascurato a vantaggio dell’impatto certamente più simbolico dell’illecito penale doloso, di tutti gli strumenti punitivi e sanzionatori già esistenti. GAETANO INSOLERA Straordinario di diritto penale nell’Università di Macerata

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F. STELLA, Giustizia e modernità, cit.


PROFILI PENALISTICI DELLA TESTIMONIANZA ASSISTITA: L’ESIMENTE DELL’ART. 384 C.P. TRA DIRITTO AL SILENZIO E DIRITTO A CONFRONTARSI CON L’ACCUSATORE (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Il comma 2 dell’art. 384 c.p.: un difetto di tipicità del fatto. — 3. Necessità scusante e beni giuridici tutelati dal delitto di falsa testimonianza. — 4. Profili di teoria generale. La distinzione tra testimonianza volontaria e coatta. — 5. Il privilegio contro l’autoincriminazione riconosciuto al testimone assistito. — 6. L’esigenza di nuove sinergie tra diritto penale e processo.

1. Premessa. — La l. n. 63 del 2001 di attuazione dell’art. 111 Cost. ha in larga parte ridisegnato gli status dei dichiaranti nel processo penale. La nota caratterizzante è stata la riduzione dell’incompatibilità a testimoniare e l’introduzione nel nostro ordinamento della figura del testimone assistito. Tuttavia, l’opera del legislatore potrebbe essere messa in crisi dalle dinamiche della disciplina penalistica posta a presidio dell’obbligo di rispondere secondo verità. Come è noto, il codice penale prevede una causa di non punibilità in relazione ad una serie di reati contro l’amministrazione della Giustizia. Ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p., non è punibile chi ha commesso il fatto perché vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore. Con particolare riferimento alla falsa testimonianza, l’art. 384 c.p. viene a stabilire che non è punibile il testimone che tace o mente per non incriminare se stesso o un prossimo congiunto. Tradizionalmente si afferma che questa norma tutela il principio nemo tenetur se detegere. Ebbene, così come interpretata dalla dottrina maggioritaria la disposizione in oggetto potrebbe costituire una sorta di un grimaldello capace di scardinare l’obbligo di verità imposto dalle norme processuali. C’è il rischio che in alcuni casi il codice di procedura ponga l’obbligo di rispondere secondo verità in capo ad un dichiarante e poi la falsa testimonianza (*) Testo rielaborato della Relazione svolta all’Incontro di studio organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura sul tema La tutela penale del processo, Roma, 29 novembre-1o dicembre 2001. Il presente lavoro costituisce un ulteriore approfondimento dell’articolo L’esimente prevista dall’art. 384 c.p. tra diritto al silenzio e diritto a confrontarsi con l’accusatore, in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, a cura di P. TONINI, Padova, 2001, p. 127 ss.


— 841 — non sia punibile perché interviene l’art. 384 c.p. Eppure, all’evidenza, senza il presidio dalla sanzione penale l’allargamento del novero dei testimoni potrebbe rivelarsi inutile. In questo quadro, soprattutto nell’ottica del processualista, appare indispensabile pervenire ad una interpretazione che restringa l’operatività dell’art. 384, comma 1, fermo restando che la soluzione preferibile sarebbe una modifica parallela e coordinata sia del sistema processuale, sia delle norme sostanziali (1). Ci corre obbligo di precisare che il presente studio ha una funzione in qualche modo provocatoria, perché mira a scoprire le falle celate nelle pieghe della disciplina recentemente introdotta. E si tratta di brecce particolarmente insidiose perché in molti casi potrebbero vanificare l’apparato sanzionatorio dell’obbligo di verità. 2. Il comma 2 dell’art. 384 c.p.: un difetto di tipicità del fatto. — La complessità dell’analisi, che ci siamo proposti, impone di procedere per gradi, mediante approfondimenti successivi. Anzitutto, è necessario esaminare la struttura dell’art. 384 c.p. Il primo dato, che si impone all’attenzione dell’interprete, è la differenza tra le ipotesi che sono considerate nei due commi della norma in oggetto. L’art. 384, comma 1, c.p. prevede una causa di non punibilità in favore di chi ha commesso il reato in una determinata situazione; l’art. 384, comma 2, c.p. stabilisce, in sintesi, che non è punibile per falsa testimonianza chi non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astensione. Il comma 1 postula che la deposizione sia stata assunta legittimamente. In tale ipotesi, il delitto di falsa testimonianza sussiste nei suoi elementi oggettivi e soggettivi e la discussione verte sulla punibilità dell’agente. Il comma 2, viceversa, concerne quelle ipotesi nelle quali la testimonianza è stata assunta illegittimamente. L’escussione è stata svolta non iure, perché l’autorità procedente ha omesso di informare la persona della facoltà di non deporre o comunque la ha costretta a testimoniare violando la legge. In tal caso, l’art. 384, comma 2, c.p. sancisce che la falsa testimonianza non è punibile. Non occorre verificare lo stato di coazione psicologica del dichiarante: è sufficiente accertare la violazione della legge. Invero, nell’ipotesi in oggetto, piuttosto che una causa di non punibilità, è (1) Ad avviso di P. PISA, Il modello italiano: frammentazione delle fattispecie ed esigenze di ricomposizione nell’ottica di un’armonizzazione europea, Relazione svolta all’Incontro di studio su I diversi modelli di tutela dell’amministrazione della Giustizia. Legislazioni penali europee a confronto, Genova, 23-24 novembre 2001, p. 2 del dattiloscritto, una delle ragioni della parziale ineffettività della tutela penale dell’amministrazione della Giustizia deve essere ravvisata proprio nella previsione di ‘‘cause di non punibilità troppo generose e prive di riscontro in questi termini nelle altre legislazioni europee’’.


— 842 — riscontrabile un difetto di tipicità del fatto (2). Quando il dichiarante non ha legittimamente acquisito la qualifica di teste il delitto di falsa testimonianza, che è un reato proprio, non sussiste (3). Pertanto, anche in assenza di un’apposita previsione come quella in esame, l’agente avrebbe dovuto essere prosciolto perché il fatto non sussiste. Nel codice di procedura penale si rinvengono molte ipotesi nelle quali può trovare applicazione l’art. 384, comma 2, c.p. L’esempio più evidente è quello del prossimo congiunto dell’imputato che non è stato avvertito della facoltà di astenersi dal deporre (art. 199 c.p.p.). Egli non è punibile se in tale situazione depone il falso. Ancora, si faccia il caso di un testimone che nel corso della deposizione abbia eccepito fondatamente il privilegio contro l’autoincriminazione (art. 198, comma 2, c.p.p.). Se il giudice erroneamente ritiene che la deposizione non verta su fatti autoincriminanti e costringe il teste a parlare (art. 207 c.p.p.), ne deriva che un’eventuale falsità non è punibile; infatti il teste ‘‘non avrebbe potuto essere obbligato (...) a rispondere’’ (art. 384, comma 2, c.p.). Del tutto analoga è l’ipotesi nella quale il teste eccepisca l’esistenza di un segreto professionale o d’ufficio (artt. 200-203 c.p.p.) e il giudice, andando di contrario avviso, obblighi il teste a deporre. Infine, si pensi all’ipotesi nella quale l’autorità giudiziaria senta come testimone una persona incompatibile con tale qualifica ai sensi dell’art. 197 c.p.p. Quest’ultimo è un esempio tutt’altro che peregrino, ove si ponga mente alla complessità con la quale è oggi regolamentato l’istituto dell’incompatibilità a testimoniare degli imputati in procedimenti connessi o collegati (sulla questione torneremo infra). Potrebbe accadere che l’autorità giudiziaria per errore ritenga inesistente il legame di connessione o di collegamento probatorio tra i procedimenti e senta l’imputato connesso come un comune testimone. Anche in tal caso, una eventuale falsità non è (2) In tal senso G. VASSALLI, Cause di non punibilità, in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, p. 631; M. GIANNOTTA, A proposito della non esigibilità nella falsa testimonianza, in Riv. it. dir. pen., 1953, p. 27. In senso contrario E. GALLO, Il falso processuale, Padova, 1973, p. 265. L’Autore con riferimento ai titolari del segreto politico e militare e del segreto professionale affermava che in relazione ad essi non esisteva alcun divieto di assunzione a testimonio ‘‘ma solo il divieto di obbligarli a deporre su quelle materie’’ e inoltre che ‘‘non [era] prescritto che essi [fossero] avvertiti della facoltà di astensione’’. Di conseguenza riteneva che non fosse loro applicabile l’art. 384, comma 2, c.p. (3) Invero, specie nelle ipotesi di omesso avvertimento della facoltà di astenersi dal deporre, potrebbe affermarsi che faccia difetto un presupposto della condotta del delitto di falsa testimonianza. Secondo F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 4a ed., Padova, 2001, p. 140, ‘‘presupposti della condotta sono gli antecedenti logici della stessa, cioè le situazioni di fatto o di diritto, che preesistono alla condotta e da cui questa deve prendere le mosse perché il reato possa sussistere’’. Merita ricordare che ad avviso di G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2a ed., Bologna, 1997, rist. agg., p. 190, anche la qualità del soggetto attivo nell’ambito dei reati propri costituisce un presupposto della condotta. Contra, F. MANTOVANI, loc. ult. cit.


— 843 — punibile. Merita soffermarsi ancora su questo punto. Ai sensi dell’art. 197, lett. b), l’imputato connesso teleologicamente o collegato, che ha reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, è obbligato a deporre come testimone limitatamente a tali fatti (art. 64, comma 3, lett. c). L’assunzione della qualifica di teste consegue, dunque, alla valutazione effettuata dall’autorità inquirente o dal giudice circa l’altruità dei fatti dichiarati (4). I margini di opinabilità che circondano il discrimine tra la qualifica di imputato e quella di testimone assistito rischiano di rendere evanescente l’ambito applicativo del delitto di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), trasformando l’art. 384, comma 2, c.p. in una sorta di norma penale in bianco nella parte in cui limita la tipicità del reato di falsa testimonianza (5). 3. Necessità scusante e beni giuridici tutelati dal delitto di falsa testimonianza. — Una volta esaurita la questione relativa all’ambito applicativo del comma 2, possiamo concentrare l’attenzione sull’analisi della fattispecie prevista dal comma 1. Prima di scendere nel merito della problematica, che involve questioni assai controverse e tocca il nervo scoperto del principio di colpevolezza, occorre effettuare una precisazione metodologica. L’angolo visuale del presente lavoro è di matrice processual penalistica. Il risultato al quale ci proponiamo di pervenire è una interpretazione dell’art. 384 c.p. che, senza incrinare i princìpi fondamentali del diritto penale sostanziale, sia in grado di salvaguardare le esigenze fondamentali del processo. Come sempre avviene nell’esegesi delle norme di diritto penale, anche nell’ipotesi in oggetto è fondamentale individuare quali sono i beni giuridici che vengono in giuoco. Siamo convinti che, nell’interpretazione dell’art. 384 c.p., debba essere attuata una sorta di inversione metodologica: per individuare i beni giuridici interessati occorre prendere le mosse dalla disciplina processuale; in un simile quadro è il diritto penale che, eccezionalmente, riveste una funzione ‘‘strumentale’’ (6). L’art. 384, comma 1 tutela il diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere) e costituisce un limite all’applicazione del delitto di falsa testimo(4) Per un esame più ampio della problematica, volendo, C. CONTI, Le nuove norme sull’interrogatorio dell’indagato (art. 64 c.p.p.), in AA.VV., Giusto processo: nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, a cura di P. TONINI, Padova, 2001, p. 192. (5) In argomento, G. PIFFER, Modifiche al codice penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 694; ID., Le modifiche ai delitti contro l’amministrazione della Giustizia, in AA.VV., Giusto processo e prove penali. L. 1o marzo 2001, n. 63, Milano, 2001, p. 222 ss. (6) Come è noto, di regola, il rapporto è inverso. Sul punto, si veda P. TONINI, Manuale di procedura penale, 3a ed., Milano, 2001, p. 3. Considerazioni sulla inversione del rapporto di strumentalità tra diritto penale sostanziale e processuale sono svolte, pur ad altro proposito, da T. PADOVANI, La disintegrazione del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p. 436.


— 844 — nianza. Occorre allora esaminare quali sono i beni giuridici tutelati dalla falsa testimonianza. E a tal fine occorre muovere dalla procedura penale. Il cuore del processo penale risiede nella formazione della prova. Il principio del contraddittorio è considerato il miglior metodo di formazione della prova perché è idoneo a presidiare contemporaneamente l’accertamento dei fatti e il diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore. Tuttavia, una attuazione del contraddittorio in senso sostanziale postula che, nel processo penale, siano riversati contributi probatori autentici. Pertanto, occorre che l’obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità abbia la massima estensione possibile. Le considerazioni appena svolte inducono a concludere che il delitto di falsa testimonianza assicura tutela penale al principio del contraddittorio. Ecco allora i beni giuridici tutelati dal reato di falsa testimonianza: il principio del contraddittorio in senso oggettivo (contraddittorio come metodo di conoscenza) ed il principio del contraddittorio in senso soggettivo (diritto a confrontarsi con l’accusatore) (7). Se si accolgono tali premesse, è possibile affermare che, nell’ottica del processualista, la scusante in oggetto costituisce il punto sul quale si scarica il bilanciamento tra beni giuridici in conflitto: da un lato, il diritto a non essere costretto ad incriminare o disonorare se stesso o un prossimo congiunto; da un altro lato, il principio del contraddittorio nell’accertamento dei fatti ed il diritto a confrontarsi con l’accusatore. (7) In giurisprudenza non vi è uniformità di vedute in merito all’individuazione dei beni giuridici tutelati dai reati contro l’amministrazione della Giustizia. Da un lato, vi sono sentenze orientate a ritenere che tali delitti offendano esclusivamente lo Stato: Cass., sez. VI, 28 luglio 1999, Gervanoni, in Giur. it., II, 2000, p. 2351, secondo cui ‘‘nel reato di falsa testimonianza, poiché il bene giuridico protetto è il normale svolgimento dell’attività giudiziaria, soggetto passivo del reato è la collettività e non già la persona che per la violazione della norma penale subisca danni rilevanti e risarcibili esclusivamente sul piano civile; con la conseguenza che quest’ultima, in quanto eventualmente persona soltanto danneggiata dal reato, non ha il diritto di essere informata della richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero con riguardo a denuncia per il suddetto delitto’’. Da un altro lato, vi sono pronunce più aperte che inquadrano i predetti delitti nella categoria dei reati plurioffensivi. In tal senso, Cass., sez. VI, 1o giugno 1999, Gandolfo, in Cass. pen., 2000, p. 1230: nei delitti contro l’amministrazione della Giustizia, la persona offesa dal reato è lo Stato, e a questo può aggiungersi un’altra vittima quando nella struttura della fattispecie astratta vi sia anche la descrizione dell’aggressione alla sfera giuridica di questa, la cui posizione viene così a differenziarsi da quella di qualsiasi ulteriore danneggiato’’; Cass., sez. VI, 8 ottobre 1997, Bosio, in Cass. pen., 1998, p. 1627: ‘‘il delitto di falsa testimonianza è reato contro l’amministrazione della Giustizia e pertanto parte offesa principale va considerato innanzitutto lo Stato. La norma contenuta nell’art. 372 c.p. tutela però anche l’interesse del privato leso dalla falsa testimonianza. Ne consegue che il richiedente interessato riveste la posizione di persona offesa (secondaria) del reato in parola, tutelata come tale dalle garanzie procedimentali previste dagli artt. 408-410 c.p.p., a cominciare dal diritto alla notifica dell’avviso della richiesta di archiviazione del pubblico ministero’’; ancora in termini analoghi, con riferimento al reato di falsa perizia, si veda Cass., sez. VI, 21 aprile 1999, Poletti G., in Cass. pen., 2000, p. 1958.


— 845 — Alla luce di una siffatta impostazione, il diritto di difesa del dichiarante (nemo tenetur se detegere) può costituire un limite nei confronti della potestà punitiva dello Stato se e nella misura in cui tale diritto venga esercitato in un modo che non aggredisca il diritto a confrontarsi con l’accusatore, e cioè lo stesso diritto di difesa in capo ad un altro soggetto, inteso stavolta come bene giuridico oggetto di tutela (8). L’art. 384, comma 1, c.p. dovrebbe operare soltanto nelle ipotesi nelle quali il teste è stato ‘‘costretto’’ a deporre con obbligo di verità (testimonianza coatta). Quando, viceversa, il dichiarante ha scelto ‘‘liberamente’’ di deporre, egli non può successivamente invocare la scusante (9). Infatti, in tal caso, prevalgono il diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore ed il principio del contraddittorio nella formazione della prova. La dottrina maggioritaria, tuttavia, sembra non condividere la ricostruzione appena prospettata. Essa sostiene che l’art. 384, comma 1, c.p. sia una vera e propria scusante riconosciuta in ragione dell’inesigibilità del comportamento conforme alla legge. Il fatto non è scriminato; il reato sussiste nei suoi elementi oggettivi e soggettivi ed è antigiuridico; tuttavia la particolare situazione psicologica dell’agente rende irragionevole l’applicazione della sanzione (10). L’ordinamento stabilisce un limite alla imperatività della norma penale perché ‘‘non se la sente’’ di punire il sog(8) Se vogliamo, tutta la problematica è sintetizzabile nella seguente espressione: la supertutela del diritto di difesa dell’imputato (sub specie di diritto al silenzio) non può arrivare a ledere lo stesso diritto in capo ad un altro imputato (sub specie di diritto a confrontarsi con l’accusatore). Così, P. TONINI, Imputato ‘‘accusatore’’ e ‘‘accusato’’ nei principali ordinamenti processuali dell’Unione Europea, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1998, p. 270. Per una impostazione analoga, nella dottrina sostanzialista, si veda D. PULITANÒ, Nemo tenetur se detegere: quali profili di diritto sostanziale?, in questa Rivista, 1999, pp. 1271-1272. (9) In tal senso, già M. GIANNOTTA, A proposito, cit., p. 28: ‘‘se (...) la norma dell’art. 384 non avesse il suo fulcro nel dovere di testimoniare non si saprebbe spiegare come mai al funzionamento dell’esimente non sia necessario che il soggetto non abbia dato causa volontariamente al pericolo. Perché non si riuscirebbe a scorgere che la causa del pericolo, quella che la norma ritiene sufficiente a mandare impunito l’agente, è proprio nella legge, nell’obbligo di deporre’’. (10) Si veda D. ZOTTA, Casi di non punibilità, in AA.VV., Delitti contro l’amministrazione della Giustizia, a cura di F. COPPI, Torino, 1996, p. 530: ‘‘l’inesigibilità, quando è oggetto di un’apposita clausola normativa, si pone come un vero e proprio limite oltre il quale la norma giuridica non è più osservabile, cosicché l’obbligatorietà, che la norma esprime, si traduce in una semplice facoltà. in tal modo, quindi, viene a delimitarsi la misura dello sforzo che l’ordinamento richiede per l’adempimento dell’obbligo di condotta imposto dalla norma’’. ‘‘L’inesigibilità, quindi, più che guardare al destinatario, ponendosi quale strumento nelle mani di questi per eludere l’obbligo giuridico, attiene al contenuto della norma stessa, determinando un ‘non potere’ rispetto alla sua imperatività: non può essere chiesto l’adempimento di un certo obbligo da parte dell’ordinamento’’. Sull’art. 384 c.p., si veda anche l’opera monografica di A. MAZZONE, Lineamenti della non punibilità ai sensi dell’art. 384 c.p., Napoli, 1992.


— 846 — getto che ha trasgredito il comando, quando costui vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile pregiudizio nell’onore o nella libertà. Nell’ipotesi in oggetto l’agente è preda di un conflitto motivazionale che gli impedisce di rispettare la legge. In questo quadro, si ritiene che non abbia alcuna rilevanza il fatto che il rischio di nuocere a se stesso o ad un prossimo congiunto sia stato creato volontariamente dal teste, che poteva tacere ma ha accettato di deporre con obbligo di verità. A conferma di tale tesi, la dottrina mette l’art. 384, comma 1, c.p. a confronto con la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.). Quest’ultima è una norma complessa, che tuttavia presenta la struttura tradizionale delle cause scriminanti. Essa si fonda sul bilanciamento tra interessi in conflitto (quello del terzo innocente e quello dell’agente) e prevede una serie di condizioni che consentono di far ritenere prevalente o equivalente l’interesse di chi commette il reato perché versa in stato di necessità (11). Uno di tali requisiti consiste nel fatto che il pericolo non sia stato volontariamente causato dall’agente. Viceversa, il presupposto in parola non è richiamato dall’art. 384, comma 1, c.p., che ha come unico referente la situazione psicologica dell’agente nel momento in cui compie l’azione criminosa (12). Da ciò si desume che la disposizione in oggetto sia applicabile anche allorché il pericolo sia stato volontariamente causato (es. teste che ha accettato liberamente di deporre) (13). (11) Invero, l’art. 54 c.p. presenta una sorta di ‘‘doppia anima’’. Infatti sancisce la non punibilità sia del fatto commesso per salvare sé medesimo, sia del fatto commesso per salvare un terzo (senza distinguere a seconda che si tratti di un congiunto o di un estraneo). In proposito la dottrina afferma che l’idea dell’inesigibilità psicologica di una condotta diversa può indubbiamente giustificare la non punibilità di chi agisca mosso dall’istinto egoistico di mettere in salvo sé o un congiunto, ma non sarebbe in grado di spiegare perché debba andare esente da pena colui il quale agisce in modo necessitato per salvaguardare un estraneo o uno sconosciuto. È proprio tale rilievo che induce a spostare l’art. 54 c.p. dal terreno delle scusanti a quello delle vere e proprie scriminanti basate sul bilanciamento tra interessi in conflitto. Quando vi è stato necessità, si afferma, l’ordinamento non ha più interesse a salvaguardare l’uno o l’altro dei beni in frizione posto che uno di essi è in ogni caso destinato a soccombere. Per questi rilievi, cfr. G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 259. (12) Merita precisare, tuttavia, come vedremo meglio infra, che il requisito dell’inevitabilità è presente anche nella norma in esame in relazione al ‘‘nocumento’’. (13) In tal senso, G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, p. 355; P. SUCHAN, Stato di necessità e cause di non punibilità previste dall’art. 384 c.p., in Cass. pen., 1977, p. 67; M. ZANOTTI, Nemo tenetur se detegere: profili sostanziali, in questa Rivista, 1989, p. 192; D. ZOTTA, Casi, cit., p. 537. L’Autore citato da ultimo sottolinea altresì che tra l’art. 54 e l’art. 384 non è ravvisabile un rapporto di specialità neppure dal punto di vista tecnico-giuridico. Infatti ‘‘la norma speciale, anziché presentare gli stessi elementi della norma generale con l’aggiunta di un quid pluris specializzante, risulterebbe rispetto alla norma generale deficitaria di alcuni elementi’’. Viceversa, la Relazione del Guardasigilli al codice del 1930 (Roma, 1929, parte II, p.


— 847 — Una simile interpretazione appare la conseguenza della impostazione fatta propria dal codice del 1930, approvato in una temperie nella quale lo Stato prevaleva sulla persona. Nell’impianto originario del codice Rocco la falsa testimonianza era un reato che ledeva un interesse super-individuale e cioè l’amministrazione della Giustizia. All’evidenza, all’epoca non appariva neppure astrattamente prospettabile un bilanciamento tra tale bene giuridico e l’interesse individuale a sottrarsi all’obbligo di verità per non incriminare se stesso o un prossimo congiunto. Si trattava di beni giuridici eterogenei e non componibili. Tuttavia, in considerazione della difficile situazione psicologica dell’agente, lo Stato limitava paternalisticamente la propria pretesa punitiva e riconosceva la scusante prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. Del resto, nel codice di procedura penale del 1930 al teste non era riconosciuto il privilegio contro l’autoincriminazione. L’ampia area operativa riconosciuta alla scusante appariva un chiaro segno della ‘‘cattiva coscienza’’ del legislatore. A nostro avviso, alla luce dei nuovi princìpi sanciti all’art. 111 Cost. e dell’ispirazione personalistica della Carta fondamentale, non è più possibile affermare tout-court che la falsa testimonianza è un reato che offende esclusivamente l’amministrazione della Giustizia. Una simile affermazione appare riduttiva e costituisce un retaggio di quella ‘‘pubblicizzazione dell’oggetto della tutela’’, che era tipica del codice Rocco, ma è inaccettabile nel sistema attuale (14). Pertanto, riteniamo che si possa fondatamente prospettare un bilanciamento tra il principio nemo tenetur se detegere ed i beni sottesi all’ ‘‘amministrazione della Giustizia’’, e cioè il principio del contradditto179) affermava che l’art. 384 costituiva una ipotesi speciale di stato di necessità. Ad avviso di F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Milano, 1997, p. 487, la specialità dell’art. 384 c.p. rispetto allo stato di necessità consiste proprio nel fatto che la scusante trova applicazione ‘‘anche allorché è stato l’agente stesso, commettendo un reato, a determinare la situazione in cui si trova’’. La giurisprudenza maggioritaria considera l’esimente in oggetto un’ipotesi speciale di stato di necessità. Si veda Cass., sez. I, 15 febbraio 1984, Jelusich, in Giust. pen., 1984, II, p. 709, secondo cui ‘‘l’esimente di cui all’art. 384 c.p. postula come condizione, che allo stesso tempo ne costituisce anche la ragione giustificatrice, lo stato di necessità, ossia una situazione non determinata dal soggetto attivo. Ne consegue che essa non può essere invocata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente posta in essere dallo stesso agente’’; in senso conforme, Cass., sez. VI, 15 dicembre 1998, Mocerino, in Cass. pen., 2000, p. 2264; Cass., sez. VI, 23 maggio 1995, Nizzola, ivi, 1996, p. 3654; Cass, sez. VI, 13 novembre 1989, Spaziani, ivi, 1991, I, p. 1214; Cass., sez. VI, 25 ottobre 1989, Milioto, ivi, 1991, I, p. 2000; Cass., sez. II, 7 aprile 1988, Raidich, ivi, 1990, I, p. 237; Cass., sez. I, 8 novembre 1984, Parisi, in Giust. pen., 1985, II, p. 628; Cass., sez. I, 3 luglio 1980, Mastini, ivi, 1981, II, p. 344. Contra, Cass., sez. IV, 26 aprile 1985, Caricci, ivi, 1986, II, p. 643; Cass., sez. VI, 15 dicembre 1982, Tomba, in Cass. pen., 1984, p. 875. (14) L’espressione è di T. PADOVANI e L. STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, 2a ed., Bologna, 1996, p. 51.


— 848 — rio come metodo di accertamento e come diritto individuale (diritto a confrontarsi con l’accusatore). Un siffatto bilanciamento, per un verso, dà maggiore caratura al diritto al silenzio, perché esso è posto sullo stesso livello del bene giuridico tutelato dal delitto di falsa testimonianza. Per un altro verso, responsabilizza i dichiaranti, perché impone di interpretare in modo più severo l’art. 384, comma 1, c.p., riconoscendo la scusante soltanto allorché il teste sia stato costretto a deporre. Solo in tal caso, infatti, può dirsi che il pericolo di ledere onore e libertà è stato causato in modo non volontario e, pertanto, può prevalere sugli interessi contrapposti. Le considerazioni teoriche appena esposte emergono in tutta la loro rilevanza ove si ponga mente all’ipotesi nella quale il teste, ritualmente avvertito della facoltà di astenersi, si risolva a rendere la deposizione. La maggior parte degli studiosi ritiene che tale soggetto, se mente per salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore, possa ancora invocare a sua discolpa la scusante prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. e quindi sia non punibile. Infatti — si sostiene — ai fini dell’applicabilità della scusante non assume rilievo la volontaria causazione del pericolo. A nostro avviso, conclusioni siffatte appaiono in qualche misura apodittiche. Per risolvere la questione non occorre invocare un improbabile rapporto di specialità con lo stato di necessità. È sufficiente esaminare in modo analitico la struttura delle due disposizioni che, a ben vedere, appare identica. L’art. 54 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto quando questo era l’unico strumento per evitare un danno che sarebbe conseguito ad una situazione di pericolo non volontariamente posta in essere dall’agente. Una soluzione del tutto analoga si ricava ricostruendo i passaggi impliciti dell’art. 384 c.p. Non è punibile chi ha commesso falsa testimonianza per evitare quel nocumento nella libertà o nell’onore che sarebbe derivato dal pericolo costituito dall’obbligo di deporre secondo verità. È chiaro che il punto fondamentale consiste nell’identificazione della causa che ha dato luogo al pericolo, e cioè all’obbligo testimoniale. Se tale obbligo è imposto dalla legge senza possibilità di astensione, nulla quaestio. In questa ipotesi non è punibile chi mente per non incriminare o per non disonorare se stesso o un prossimo congiunto (15). Viceversa, quando il dichiarante è avvertito che può non deporre, appare arduo sostenere che una successiva menzogna sia non punibile perché è inesigibile una risposta veritiera. Nella scelta di sottoporsi all’esame è implicita una accettazione dei relativi obblighi qualunque cosa accada. (15) L’esigenza di mentire per proteggere un prossimo congiunto è indipendente dal fatto che l’agente sia chiamato a deporre nel processo a carico di quest’ultimo. In qualunque processo si può mentire in relazione ad un fatto dal quale potrebbe emergere una responsabilità penale o un grave disonore per un proprio prossimo congiunto.


— 849 — A tale conclusione giungiamo perché riteniamo che la condotta rilevante sia non soltanto quella tenuta ‘‘nel momento’’ in cui è commessa la falsa testimonianza, ma anche quella che ha ‘‘determinato’’ l’assunzione della qualifica di teste. Il conflitto motivazionale tra l’adempimento del dovere testimoniale e la tutela contro il rischio di ledere l’onore o la libertà propri o del prossimo congiunto, non può essere ravvisato soltanto allorché il teste si trova già investito di tale qualifica. Il conflitto deve considerarsi anticipato e risolto nel momento in cui il soggetto ha deciso di deporre, nonostante sia stato avvisato della sua facoltà di astenersi (16). Si tratta di una questione che presenta un collegamento descrittivo con la tematica dell’actio libera in causa (17). È possibile affermare che, nel momento in cui si è sottoposto all’obbligo testimoniale, il soggetto poteva e doveva prevedere tutti i rischi che ne scaturivano. Merita precisare che l’interpretazione, da noi prospettata, è tutta interna alla ratio dell’art. 384 c.p., pertanto non costituisce un’estensione analogica in malam partem dei requisiti previsti dall’art. 54 c.p. (18). Si potrebbe obiettare che il prossimo congiunto, ritualmente avvertito della facoltà di astenersi (art. 199 c.p.p.) spesso accetta di deporre perché è convinto dell’innocenza del familiare. Se questi, poi, nel corso della deposizione mutasse avviso e, messo alle strette, si trovasse a tacere o mentire per proteggere l’imputato, potrebbe essere ingiusto negargli l’e(16) In senso contrario, in dottrina F. ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 491; A. PAGLIARO, p. 136: ‘‘l’inevitabilità del nocumento va riferita al momento in cui il fatto è commesso, di guisa che non conta che, in un tempo precedente, il soggetto abbia dato causa alla situazione di pericolo: come nel caso della madre che prima abbia denunciato il proprio figlio e poi commetta falsa testimonianza nell’intento di salvarlo’’. Ritiene applicabile la scusante anche D. ZOTTA, Casi, cit., p. 545, ma l’Autore sembra riferirsi ad un’ipotesi differente: ‘‘nel caso in cui l’unica via per evitare tale nocumento sia quella di non astenersi dal testimoniare ma di testimoniare il falso, non vi è ragione di non applicare l’art. 384’’. Sostengono che l’art. 384 c.p. non è applicabile al teste che non si è astenuto M. GIANNOTTA, A proposito, cit., in questa Rivista, 1953, p. 25; A.M. BENENATI, Dichiarazioni autoindizianti e tutela della difesa, in Giur. it., 1999, II, p. 1280. (17) Merita ricordare che il codice penale tedesco, al par. 34, prevede una causa di giustificazione, analoga al nostro art. 54 c.p., fondata sul bilanciamento degli interessi. Al par. 35, lo stesso codice prevede una scusante in favore di chi ha commesso il fatto per salvare sé medesimo, un congiunto o altra persona a lui prossima. Tuttavia, la scusabilità è esclusa quando lo stesso soggetto è stato causa del pericolo. In giurisprudenza, BGH, 7 febbraio 2001, in NJW, 2001, 1802. (18) Cfr. G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, 2a ed., Bologna, 1997, rist. agg., p. 407: ‘‘per quanto sia difficile negare una sostanziale analogia tra le ragioni di fondo che giustificano tanto la causa di non punibilità in parola che lo stato di necessità, non è consentito trasferire all’art. 384 requisiti esplicitamente previsti soltanto dall’art. 54: posto che tale operazione interpretativa ha per effetto di restringere la portata dell’art. 384, essa finisce oltretutto con l’incorrere nel divieto di interpretazione analogica in malam partem’’.


— 850 — simente prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. Ci corre obbligo di riconoscere che quella in oggetto è un’ipotesi assai delicata che meriterebbe una apposita regolamentazione. Tuttavia, all’evidenza, anche in tal caso è possibile affermare che il pericolo è stato volontariamente causato dal dichiarante che si è offerto di deporre in buona fede. Sotto questo profilo, occorre ricordare le conclusioni alle quali perviene autorevole dottrina nell’interpretazione dello stato di necessità (art. 54 c.p.). Si afferma che ‘‘non c’è ragione per scriminare, quando il pericolo, anche se non è stato né voluto, né previsto dal soggetto, è pur sempre imputabile ad una sua condotta colposa’’ (19). La tendenza della dottrina a limitare l’ambito applicativo dello stato di necessità è motivata dalla volontà di tutelare la posizione del terzo innocente che subisce il danno derivante dalla condotta necessitata (20). Considerazioni analoghe dovrebbero valere in relazione all’art. 384, comma 1, c.p., ove si ponga mente all’ipotesi, qui oggetto di precipua analisi, nella quale il teste non si astenga dal deporre, renda dichiarazioni contro l’imputato e poi menta per proteggere se stesso. La necessità di restringere l’operatività dell’esimente deriva dall’esigenza di tutelare l’accusato, che subisce un danno dalla falsa testimonianza e non può confrontarsi con l’accusatore (21). Del resto, a tale conclusione è possibile pervenire anche interpretando il concetto di ‘‘nocumento inevitabile’’. Il requisito della ‘‘inevitabilità’’ non deve essere riferito alla situazione psicologica del soggetto nel momento in cui trasgredisce la norma, bensì alla condotta che consiste nella spontanea assunzione dell’obbligo testimoniale. L’agente aveva un’alternativa che gli avrebbe consentito di evitare lo stesso insorgere del conflitto motivazionale: egli poteva tacere. Se parla, non può mentire adducendo la necessità di salvarsi da un nocumento ‘‘inevitabile’’ (22). (19) Così F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 278; G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 261; C.F. GROSSO, voce Necessità (dir. pen), in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 888. (20) G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 261. (21) ‘‘Perché la non esigibilità non è un fantomatico principio, a carattere psicologico, capace di ridurre le esigenze normative alle istanze soggettive dell’agente, ma è un criterio di valutazione, caratteristico delle c.d. cause di esclusione della colpevolezza, che assume a volta a volta coloriti particolari in relazione alle particolari situazioni di interessi su cui viene a reagire’’. Così M. GIANNOTTA, A proposito, cit., p. 31. (22) Considerazioni analoghe sono svolte da G. RUGGIERO, Profilo sistematico delle falsità in giudizio, Napoli, 1974, p. 275, che prospetta una interpretazione letterale dell’art. 384 c.p. in base alla quale il requisito dell’inevitabilità del nocumento è perfettamente equivalente a quello della ‘‘non altrimenti evitabilità’’ del pericolo, presente nell’art. 54 c.p. Infatti, in entrambi i casi, ‘‘inevitabile’’ significa ‘‘non evitabile con mezzi diversi da quello usato’’. Posta tale premessa, l’Autore così conclude: ‘‘non ha importanza che il nocumento appaia astrattamente come conseguenza inevitabile del comportamento se la causa di esso, ossia l’attestazione veritiera, si può evitare mediante l’esercizio della facoltà di astensione, potendo un effetto ‘inevitabile’ diventare ‘evitabile’, ove ne sia evitabile la ‘causa’ ’’.


— 851 — D’altro canto, non pare convincente l’affermazione che la norma in oggetto prescinda da qualunque bilanciamento tra interessi contrapposti. Ne è prova il fatto stesso che l’art. 384 c.p. ricomprende, nell’area applicativa della scusante, soltanto alcuni tra i delitti contro l’amministrazione della Giustizia. Evidentemente, i reati ai quali l’esimente non si applica (es. calunnia e simulazione di reato) offendono interessi di tale rilevanza che, in relazione ad essi, non è giustificabile una rinuncia alla punizione (23). Ma se il legislatore ha potuto applicare la logica del bilanciamento nello stabilire l’ambito applicativo della scusante (an), anche l’interprete può invocare la stessa logica nello stabilire le modalità operative della stessa (quomodo). Nell’ipotesi di falsa testimonianza commessa da colui, che aveva la facoltà di astenersi dal deporre, vi è una contrapposizione tra il diritto al silenzio, da un lato, ed il diritto a confrontarsi e il principio del contraddittorio nella formazione della prova, dall’altro lato. I due princìpi da ultimo ricordati consigliano di non ridurre la scusante ad un mero stato psicologico; essi impongono di valutare l’esigibilità del comportamento alternativo corretto, tenendo conto del fatto che è stato il dichiarante a ‘‘scegliere’’ di parlare. Si tratta di una ricostruzione conforme anche alla concezione normativa del principio di colpevolezza (24). Un’eccessiva dilatazione dell’ambito applicativo della scusante potrebbe indurre ad una totale deresponsabilizzazione del dichiarante. Del resto, anche sul piano dei rapporti tra libertà e autorità è possibile affermare che lo Stato ha già tutelato il diritto al silenzio nel momento in cui ha riconosciuto al dichiarante la facoltà di astenersi. Se l’agente non si avvale della facoltà, che gli è riconosciuta, non c’è più motivo di limitare (23) ‘‘Bisogna badare, tuttavia, che, anche se il fondamento soggettivo è prevalente, non mancano profili oggettivi, riconducibili a un (parziale) bilanciamento degli interessi in conflitto. Già questi profili emergono nella scelta di includere o escludere alcune incriminazioni tra quelle nei confronti delle quali la causa di discolpa può operare’’. In tal senso A. PAGLIARO, Princìpi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro l’amministrazione della Giustizia, Milano, 2000, p. 135. Nel senso che l’esenzione da pena debba essere il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, si veda C. cost., sent. n. 148 del 1983, in Foro it., 1983, I, spec. p. 1820, con nota D. PULITANÒ, La non punibilità di fronte alla Corte costituzionale. In tal senso appare orientato anche G. RUGGIERO, Profili, cit., p. 278, che ritiene implicito nell’art. 384 c.p. anche il requisito della proporzione tra l’offesa posta in essere dall’agente e il nocumento che egli mirava ad evitare: ‘‘se si considera, infatti, che il nocumento deve concernere l’onore e la libertà, e che il falso non può che offendere l’attività giudiziaria e, solo secondariamente altri beni, ci si accorge che il legislatore, tra i beni così individuati, postula un immancabile rapporto di proporzione’’. Contra G. FIANDACA e E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, cit., p. 407. (24) Sul punto, si veda M. ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, p. 57: in base alla concezione normativa della colpevolezza ‘‘dolo e colpa sono soltanto elementi della colpevolezza, ai quali si aggiunge un giudizio negativo di riprovevolezza misurato sul potere individuale dell’autore del reato’’.


— 852 — la pretesa punitiva, in ragione dell’inesigibilità del comportamento conforme alla legge. A questo punto occorre svolgere un passaggio concettuale ulteriore. Se si accetta la tesi in base alla quale la decisione di deporre comporta l’impossibilità di invocare la scusante, è necessario concentrare l’attenzione sulla situazione psicologica del soggetto nel momento in cui effettua tale scelta. Soltanto se la scelta possiede le tre caratteristiche classiche, e cioè se è volontaria, libera e consapevole, è possibile affermare che il deponente si è spontaneamente sottoposto all’obbligo di rispondere secondo verità (25). In particolare, può dirsi che la libertà di autodeterminazione del dichiarante è pienamente rispettata soltanto se ricorrono simultaneamente tre condizioni: 1) è necessario che sia garantita la libertà morale del soggetto nel momento in cui si risolve a deporre. Egli deve essere libero di autodeterminarsi senza subire influenze di sorta (minacce o lusinghe); 2) è necessario che l’interessato conosca i presupposti di diritto che fanno scattare l’obbligo testimoniale: egli deve essere a conoscenza della sua facoltà di astensione e degli oneri che conseguono alla scelta di non avvalersene; 3) occorre, infine, che sia in grado di riconoscere oggettivamente gli eventuali presupposti di fatto ai quali è subordinato l’obbligo di deporre. Come vedremo meglio infra, se la legge obbliga a deporre colui, che si sia liberamente risolto a rendere dichiarazioni sul fatto altrui, occorre che la ‘‘altruità’’ del fatto sia riconoscibile per il soggetto. Altrimenti, non potrà sostenersi che la sua scelta è stata libera. Dobbiamo ammettere, con onestà intellettuale, che la norma qui oggetto di analisi è estremamente ermetica e si presta ad interpretazioni contrastanti. Sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che chiarisse la natura dell’istituto e prevedesse ipotesi differenziate seguendo le cadenze della disciplina processuale. In particolare, non sfugge una certa discrasia tra la regolamentazione della testimonianza dell’imputato accusatore, che ha un interesse contrapposto a quello dell’accusato, e la testimonianza del prossimo congiunto, che ha un interesse omogeneo a quello dell’imputato, suo familiare. Noi abbiamo prospettato una ricostruzione teorica, partendo dalle esigenze processuali che vengono in rilievo nell’analisi della fattispecie. In ogni caso, è necessario reperire una soluzione ermeneutica compatibile con un ordinamento liberale, che voglia garantire l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale (obbligo di deporre secondo verità) senza ledere la libertà individuale (diritto al silenzio). (25) A ben vedere, l’intento di circondare di garanzie il momento in cui il soggetto è chiamato a decidere se astenersi o meno può sdrammatizzare il contrasto tra la tesi che riconosce la scusante anche a chi non si è astenuto dal deporre e l’opinione (da noi sostenuta) che in tal caso ne esclude l’operatività.


— 853 — 4. Profili di teoria generale. La distinzione tra testimonianza volontaria e coatta. — Dalle considerazioni che precedono, si desume che l’art. 384 c.p., così come da noi ricostruito, costituisce il fondamento normativo della distinzione concettuale tra ‘‘testimonianza coatta’’ e ‘‘testimonianza volontaria’’. Si ha ‘‘testimonianza coatta’’ ogni qual volta il teste è obbligato a deporre e non ha facoltà di astenersi. Si ha ‘‘testimonianza volontaria’’ quando al soggetto è riconosciuta la facoltà di astenersi dal deporre. È bene chiarire fin da ora che può parlarsi di testimonianza autenticamente ‘‘volontaria’’ soltanto allorché la scelta di deporre è effettuata in presenza delle tre condizioni esposte supra: 1) libertà morale; 2) conoscenza dei presupposti di diritto; 3) conoscenza dei presupposti di fatto. Proviamo a tracciare qualche breve cenno di teoria generale del processo, prescindendo, per un attimo, dalla disciplina positiva vigente. Quando la testimonianza è ‘‘coatta’’, non è punibile il testimone che mente perché vi è costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore (26). Per evitare una costante neutralizzazione della sanzione penale, nell’ipotesi in oggetto occorre riconoscere al teste il privilegio contro l’autoincriminazione, onde evitare che si trovi costretto a mentire per evitare di pregiudicare se stesso. Pertanto il privilegio contro l’autoincriminazione deve essere riconosciuto in tutte quelle ipotesi nelle quali la testimonianza è coatta. Infatti, l’ordinamento non può costringere un soggetto a deporre con l’obbligo penalmente sanzionato di verità anche sui fatti oggetto della propria responsabilità. Se il privilegio non esistesse, il teste si troverebbe nell’alternativa tra mentire o accusare se stesso e potrebbe sicuramente invocare la scusante dell’art. 384, comma 1, c.p. La facoltà di eccepire il predetto privilegio, con il previo avvertimento della stessa, è equiparabile ad una parziale facoltà di astenersi dal deporre. Pertanto, se il teste, ritualmente preavvisato, sceglie di non eccepire il privilegio e di rendere dichiarazioni, egli deve rispondere secondo verità e, se mente, è punibile. Quando la testimonianza è ‘‘volontaria’’, il testimone non può più invocare alcuna scusante perché la rilevanza del conflitto motivazionale è (26) La questione della non sanzionabilità della testimonianza coatta era già stata anticipata in dottrina da O. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in questa Rivista, 1997, p. 759. L’Autore ipotizzava un sistema nel quale, per il solo fatto di avere accusato altri in segreto anche dinanzi al pubblico ministero, l’imputato connesso in dibattimento sarebbe stato gravato dall’obbligo di rispondere secondo verità sui fatti oggetto delle precedenti dichiarazioni, senza poter eccepire il privilegio contro l’autoincriminazione. Una simile ricostruzione crollava sul semplice rilievo che, in caso di menzogna, non sarebbe stato possibile applicare alcuna sanzione. Infatti, il soggetto sarebbe stato comunque coperto dalla causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. È evidente che la tesi in esame si scontrava con l’applicazione dell’esimente proprio perché costruiva un’ipotesi di testimonianza coatta e non riconosceva il privilegio contro l’autoincriminazione.


— 854 — esclusa dalla libera scelta di deporre. In tale situazione, se egli tace o mente, la pretesa punitiva dello Stato può e deve esercitarsi. Come abbiamo precisato in precedenza, l’aspetto doveroso è una conseguenza della necessità di tutelare quei valori costituzionali che sono offesi dalla falsa testimonianza. Una volta tracciato, sul piano dogmatico, lo schema concettuale che a nostro avviso dovrebbe orientare l’interprete, sarà adesso più agevole esaminare la disciplina processuale della testimonianza così come risulta a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 63 del 2001. Il volto dialettico del processo penale, oggi costituzionalizzato all’art. 111 nei due princìpi del diritto a confrontarsi con l’accusatore e del contraddittorio nella formazione della prova, richiede il massimo ampliamento dell’area dei dichiaranti che sono obbligati a deporre secondo verità. Il nodo centrale del problema sta nella possibilità di imporre l’obbligo di rispondere secondo verità a quei soggetti che rivestano anch’essi lo status di imputati. All’uopo è necessario reperire un contemperamento soddisfacente tra il diritto al silenzio dell’accusatore ed il diritto al confronto spettante all’accusato. La l. n. 63 del 2001 ha allargato il novero delle ipotesi nelle quali l’imputato è compatibile con la qualifica di teste. In primo luogo, tutti gli imputati connessi o collegati divengono compatibili quando nei loro confronti sia stata emessa sentenza irrevocabile di proscioglimento, condanna o patteggiamento (art. 197, lett. a) e b) c.p.p.). Vi è poi un’ipotesi di compatibilità, che potremmo definire speciale e con oggetto limitato: anche prima che sia stata emessa una sentenza irrevocabile nei loro confronti, gli imputati connessi teleologicamente (art. 12, lett. c) c.p.p.) e gli imputati collegati probatoriamente (art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p.) possono deporre come testimoni se hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui legato al proprio dai vincoli appena menzionati. La compatibilità con la qualifica di teste è limitata alla deposizione sui fatti altrui già dichiarati. Si tratta, a ben vedere, di una compatibilità parziale e condizionata (art. 197, lett. b) c.p.p.). Il meccanismo predisposto per far scattare tale compatibilità rinviene la sua norma-base nell’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. Il legislatore ha introdotto una clausola generale nella disposizione che disciplina l’interrogatorio dell’indagato nel proprio procedimento. Tutti gli indagati sono avvertiti che, se rendono dichiarazioni su fatti altrui, diventeranno testimoni limitatamente a tali fatti, sempre che non rientrino tra i soggetti radicalmente incompatibili con la qualifica di teste, e cioè gli imputati del medesimo reato (art. 12, lett. a) c.p.p.). L’art. 64 c.p.p. impone che tutti gli indagati siano avvertiti, perché la natura del legame che intercorre tra il loro procedimento e quello a carico di altri dovrà essere verificata di volta in volta in concreto. L’autorità pro-


— 855 — cedente (pubblico ministero o polizia giudiziaria) dovrà poi accertare se sussiste un’ipotesi di connessione in senso stretto (art. 12, lett. a) c.p.p.), di connessione teleologica (art. 12, lett. c) c.p.p.) o di collegamento probatorio (art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p.). Gli imputati connessi teleologicamente (o collegati), che non abbiano reso dichiarazioni sul fatto altrui, in dibattimento sono sentiti ai sensi dell’art. 210, comma 6, c.p.p. Essi sono avvertiti che hanno la facoltà di non rispondere (art. 210, comma 4, c.p.p.) e sono altresì avvisati che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno la qualifica di teste limitatamente a tali fatti (art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p.). A quel punto vengono loro rivolte le domande. Come ‘‘imputati connessi’’, essi hanno facoltà di tacere e, se parlano, non hanno un obbligo di verità. Tuttavia, se rendono dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, da quel momento assumono la qualifica di testimone assistito limitatamente ai fatti dichiarati e devono rispondere su di essi con l’obbligo di verità. In relazione ai fatti diversi, l’imputato mantiene il suo status originario che consiste nella facoltà di tacere e di mentire impunemente; tuttavia, se nel prosieguo dell’esame il predetto soggetto rende dichiarazioni che concernono fatti altrui, egli assume la qualifica di teste in relazione a tali fatti. Nel concetto di ‘‘fatti diversi’’, da noi utilizzato, rientrano sia quei fatti che non concernono la responsabilità altrui, perché sono propri o riguardano accadimenti ‘‘neutri’’, sia quei fatti altrui sui quali la persona escussa non abbia ancora reso dichiarazioni (27). Dunque, il legislatore ha previsto la testimonianza coatta per gli imputati giudicati irrevocabilmente ed un obbligo testimoniale subordinato ad un comportamento per gli imputati collegati o connessi teleologicamente. Quel che occorre acclarare è se, in quest’ultimo caso, sia possibile parlare di testimonianza ‘‘volontaria’’. Al quesito si può agevolmente rispondere effettuando un rapido test sulla base dei tre indici che abbiamo elaborato supra. 1) Libertà morale del dichiarante nel momento in cui effettua la (27) La disciplina appena esposta deve ritenersi applicabile anche a quei soggetti che nel corso delle indagini, abbiano reso dichiarazioni sul fatto altrui ai sensi dell’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. Sui fatti oggetto delle precedenti dichiarazioni essi sono compatibili con la qualifica di teste (art. 197, lett. b) c.p.p.), pertanto possono essere citati per deporre ai sensi dell’art. 197-bis c.p.p. Sui fatti diversi, sono ancora incompatibili con il testimone e, conseguentemente, sono sentiti come imputati connessi (art. 210, comma 6 c.p.p.). Per indicare sinteticamente lo status delle predette persone, in dottrina si è coniata l’espressione ‘‘testimone ad intermittenza’’. Così P. TONINI, Garanzie al palo con il testimone ‘‘a intermittenza’’, in Il Sole-24 Ore, 13 febbraio 2001, p. 26: ‘‘questi, nel corso del medesimo esame a volte è teste e altre volte è imputato. Ne consegue che risulterà tutelato a intermittenza anche il diritto dell’accusato a confrontarsi con l’accusatore’’. ID., Riforma del sistema probatorio: un’attuazione parziale del ‘‘giusto processo’’, in Dir. pen. proc., 2001, p. 271.


— 856 — scelta di deporre. Tale condizione ricorre quando l’imputato connesso o collegato è sentito in dibattimento ai sensi dell’art. 210, comma 6, c.p.p. e si risolve a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità dell’imputato. Infatti egli si trova di fronte al giudice che è garante della sua libertà di autodeterminazione. Viceversa, la predetta situazione psicologica non ricorre in sede di interrogatorio svolto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria. Come è noto, nel corso di tale atto non è raro che l’autorità inquirente metta ‘‘sotto torchio’’ il dichiarante, per indurlo a confessare (28). Pertanto, quando l’obbligo testimoniale matura nel corso dell’interrogatorio, è senz’altro possibile parlare di testimonianza ‘‘coatta’’. 2) Conoscenza dei presupposti di diritto che fanno scattare l’obbligo testimoniale. Questo requisito ricorre tutte le volte in cui l’imputato è previamente avvertito della facoltà di non deporre e delle conseguenze che sortisce la sua decisione di rendere dichiarazioni. Come abbiamo accennato, la l. n. 63 del 2001 ha espressamente disciplinato all’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. l’avvertimento che deve essere rivolto agli imputati. La predetta norma è poi richiamata in tutte quelle sedi nelle quali può scattare l’obbligo testimoniale. Pertanto è possibile affermare che la conoscenza dei presupposti di diritto è stata assicurata. 3) Conoscenza dei presupposti di fatto. È questo l’elemento decisivo che fa comprendere come in realtà la l. n. 63 del 2001 non abbia affatto creato un’ipotesi di testimonianza volontaria neppure quando l’imputato connesso o collegato si risolve a rendere dichiarazioni in dibattimento di fronte al giudice. Il presupposto fattuale per l’assunzione della qualifica di teste consiste nell’aver reso dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità altrui. Il primo dato, che si impone all’attenzione dell’interprete, è l’indeterminatezza dell’espressione ‘‘fatti concernenti la responsabilità di altri’’. Si tratta di una locuzione generica in un duplice senso. Anzitutto, perché la determinazione dell’effettiva pertinenza delle dichiarazioni alla responsabilità altrui è rimessa alla discrezionalità del(28) M. CERESA GASTALDO, Premesse allo studio delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta alle indagini, in questa Rivista, 2000, p. 549, richiama l’attenzione sulla ‘‘posizione di soggezione psicologica (se non anche fisica) della persona e la facilità con cui nei suoi confronti sono esercitabili pressioni volte ad indurne l’atteggiamento collaborativo’’. Si vedano le considerazioni di E. MARZADURI, Quale rimedio è invocabile dinanzi a prove costituite da dichiarazioni rese sotto la pressione della custodia in carcere in atto o annunciata da inequivoci precedenti giudiziari?, in Crit. dir., 1995, 1, p. 58 ss.; L. LAMI, Omnis tenetur se detegere. L’abolizione del diritto al silenzio nelle indagini su affari e politica, in Cass. pen., 1995, p. 2437; L. MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000, spec. pp. 140-141. In giurisprudenza, si veda Ass. Roma, 1o giugno 1999, Scattone e altri, in Guida dir., Dossier, 1999, 9, p. 45: ‘‘Gli è che ogni inchiesta penale non procede all’insegna di una cena conviviale o di piacevoli conversari, e spesso la connotano pressioni incalzanti — nell’ambito del lecito — tese al raggiungimento della verità’’.


— 857 — l’autorità inquirente o giudicante, che deciderà di sentire l’imputato come testimone assistito. Non sempre la persona interrogata è in grado di prevedere ex ante la ‘‘altruità’’ dei fatti che sta per esporre. Inoltre, la narrazione di circostanze del tutto estrinseche e apparentemente ‘‘neutre’’ può rilevare come fatto concernente la responsabilità altrui, laddove l’autorità inquirente ravvisi un legame con l’oggetto dell’indagine. Pertanto nel novero delle dichiarazioni, che possono far assumere la qualifica di teste, rientrano altresì quelle inerenti a fatti concernenti la responsabilità altrui anche solo indirettamente (29). Del resto, da sempre è pacifico che la classificazione dei fatti nel fluire della realtà non è una questione gnoseologica, ma valutativa. Il problema in queste ipotesi è che l’imputato potrebbe avere difficoltà a calibrare le proprie dichiarazioni, perché l’ ‘‘altruità’’ del fatto non è un parametro oggettivo, ma un discrimine rimesso alla discrezionalità dell’inquirente o del giudice (30). Occorre poi chiarire che le dichiarazioni su fatti ‘‘concernenti la responsabilità di altri’’ costituiscono una categoria ben più ampia delle dichiarazioni ‘‘accusatorie’’ stricto sensu. Queste ultime sono soltanto un’ulteriore ripartizione, assieme alle dichiarazioni liberatorie ed a quelle genericamente probatorie in merito ad elementi esterni al fatto di reato. Tutto ciò premesso, è evidente che la conoscenza del presupposto di fatto, che fa scattare l’obbligo di deporre, e cioè la consapevolezza dell’ ‘‘altruità’’ delle circostanze dichiarate, è meramente teorica. L’obbligo di deporre non scatta a seguito di una libera scelta del soggetto, bensì a seguito di una qualificazione rimessa all’apprezzamento discrezionale dell’autorità inquirente (pubblico ministero o polizia) o del giudice. In tutte le predette ipotesi il dichiarante, che vada di contrario avviso rispetto all’autorità giudiziaria in merito alla valutazione dell’ ‘‘altruità’’ del fatto, potrebbe continuare a tacere ed a mentire; egli correttamente potrebbe invocare l’art. 384 c.p. a titolo di scusante quanto meno putativa (31). Taluno sostiene che la natura fluida del concetto di ‘‘fatto altrui’’ non (29) P. FERRUA, La dialettica Camera-Senato migliora il ‘‘giusto processo’’, in Dir. giust., 2001, 1, p. 81. (30) Si veda M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 6: ‘‘Quanto libero, volontario, consapevole sarà l’atto medesimo dell’interrogato, così da autorizzare compiacimento per virili, responsabili determinazioni? E quanto sarà poggiato, quel semper (semper loquens), su un’accusa già chiara, stabilizzata? E quanto la persona sarà conscia in concreto, d’implicazioni e ricadute su una materia pur sempre in fieri? E quanto, rituali d’avvertimenti attuati con clausole generali inserite in moduli e nell’incipit di ogni verbalizzazione, ci autorizza a qualificare come una scelta, quella di chi, nel difendersi, può trovarsi senza alcuna scienza concreta, dentro a quegli obblighi?’’. (31) Se poi si accertasse che aveva ragione il dichiarante, e cioè che i fatti non erano altrui, ma propri, dovrebbe applicarsi addirittura il comma 2 dell’art. 384. Il delitto di falsa


— 858 — consente comunque di affermare che la testimonianza assistita è coatta. Infatti — si afferma — l’esimente prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. opera soltanto se il pregiudizio, che potrebbe derivare dalla deposizione, è ‘‘inevitabile’’ e tale connotato di inevitabilità non sussiste nel corso dell’interrogatorio: l’indagato potrebbe sempre tacere anziché rendere dichiarazioni su fatti che rischiano di essere qualificati come ‘‘altrui’’. A simili considerazioni si può replicare rilevando che il meccanismo delle dichiarazioni sul fatto altrui (art. 64, comma 3, lett. c) è applicato nel corso dell’interrogatorio dell’indagato nel proprio procedimento. Come è da sempre pacifico in dottrina, si tratta di un atto che ha una funzione eminentemente difensiva; l’indagato deve essere libero di rendere dichiarazioni su qualunque potenziale oggetto (32). Nel corso dell’interrogatorio svolto dall’inquirente la strategia difensiva dell’imputato non tollera limiti; egli deve essere libero di parlare e di tacere sia sul fatto proprio sia sul fatto altrui, senza subire conseguenze sul proprio status. All’evidenza, la scelta di tacere e quella di rendere dichiarazioni non sono equivalenti. Pertanto è errato affermare che l’indagato, il quale diventa testimone perché ha reso dichiarazioni sul fatto altrui, non si trova in uno stato di costrizione, in quanto aveva comunque quell’alternativa che consisteva nel tacere. In proposito, merita ricordare l’interpretazione che la dottrina penalistica propone in relazione al requisito della necessità nell’ambito della scriminante della legittima difesa. Per affermare che il soggetto poteva difendersi con una condotta diversa dalla commissione del reato, non è sufficiente rilevare che esisteva una qualsiasi possibilità materiale di evitare l’aggressione (es. la fuga). La problematica viene risolta attraverso il bilanciamento degli interessi. Si afferma che la fuga costituisce commodus discessus (alternativa praticabile) soltanto quando il soggetto, fuggendo, non rischia di compromettere interessi (propri o altrui) superiori, equivalenti o anche ragionevolmente inferiori a quello che viene leso mediante la difesa attiva (33). Applicando tale criterio all’ipotesi che ci occupa, si può testimonianza non sarebbe stato integrato perché egli era ancora incompatibile con la qualifica di teste. (32) Si veda quanto affermato da O. DOMINIONI, sub artt. 64-65, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. AMODIO e O. DOMINIONI, Milano, 1989, p. 405: ‘‘l’interrogato può rispondere a una domanda solo parzialmente, può limitarsi a negare o ad asserire circostanze rispettivamente vere o false propostegli con una domanda e può anche contrapporre ai fatti contestatigli dall’interrogante la narrazione di altri fatti non veri’’. Ad avviso di G. UBERTIS, Nemo tenetur se detegere e dialettica processuale, in Giust. pen., 1994, III, p. 98: ‘‘il diritto al silenzio salvaguarda pure la libertà di scelta della strategia difensiva, in base alla quale si può ritenere utile confessare alcune cose su di sé, ma non parlare dei complici: magari per evitare di essere implicato in altri reati, diversi da quello per cui si procede’’. (33) Così F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 272.


— 859 — affermare che l’imputato, nel corso dell’interrogatorio, ha sempre un’alternativa alla condotta che consiste nel rendere dichiarazioni sul fatto altrui: egli può tacere. Tuttavia, tacendo, egli può compromettere la propria strategia difensiva e, quindi, ledere un bene giuridico che ha pari rilevanza rispetto al diritto a confrontarsi, e cioè il diritto di difesa. In sintesi, è possibile affermare che la compatibilità a testimoniare condizionata, introdotta dalla l. n. 63, se considerata alla luce dei parametri teorici ricavabili dall’analisi dell’art. 384 c.p., è in realtà una testimonianza ‘‘coatta’’. La testimonianza volontaria è un istituto molto più semplice e lineare di quello delineato dal legislatore. Essa richiede che l’imputato, di fronte al giudice, sia avvertito che può astenersi dal deporre ma che, se parla, deve farlo con obbligo di verità. Una soluzione del genere assicura la libertà morale della scelta e la conoscenza dei presupposti di diritto. Nessun problema sussiste poi in relazione ai presupposti di fatto, perché essi sono del tutto assenti, giacché l’assunzione della qualifica testimoniale consegue alla mera dichiarazione di voler deporre. 5. Il privilegio contro l’autoincriminazione riconosciuto al testimone assistito. — Come abbiamo accennato, quando la testimonianza è coatta, l’unico modo per evitare che l’art. 384, comma 1, c.p. neutralizzi l’obbligo di verità è riconoscere al teste il privilegio contro l’autoincriminazione. È evidente, allora, che il legislatore ha avuto ben presente la natura obbligatoria delle nuove ipotesi di testimonianza di persone imputate. Infatti egli ha riconosciuto in loro favore alcune garanzie contro l’autoincriminazione (art. 197-bis c.p.p.). Anzitutto, gli imputati che depongono come testimoni sono assistiti da un difensore in ragione della delicatezza della loro situazione. Nel corso della deposizione essi godono del normale privilegio contro l’autoicriminazione, predisposto dall’art. 198, comma 2, c.p.p., in relazione ad ulteriori reati che abbiano commesso. Tale norma è loro applicabile in quanto rientra nella disciplina generale relativa alla testimonianza. Inoltre, gli imputati condannati con sentenza irrevocabile possono non rispondere sui fatti giudicati, purché nel procedimento a loro carico avessero negato la propria responsabilità o non avessero reso dichiarazioni. Si tratta, all’evidenza, di un privilegio che è posto a tutela dell’onore della persona escussa. Infatti, il principio del ne bis in idem esclude che eventuali dichiarazioni autoincriminanti sul giudicato possano sortire effetti pregiudizievoli sulla posizione processuale del teste (art. 649 c.p.p.). Un privilegio particolare è predisposto in favore degli imputati connessi teleologicamente (art. 12, lett. c), c.p.p.) o collegati i quali, mentre il loro processo è pendente, depongono come testi assistiti sui fatti altrui che siano oggetto delle precedenti dichiarazioni. Essi possono non rispondere sui fatti per i quali si procede o si è proceduto nei loro confronti.


— 860 — L’ambito applicativo di tale facoltà richiede qualche precisazione. Poiché l’obbligo testimoniale è limitato ai fatti altrui già dichiarati (artt. 197, lett. b), c.p.p. e 64, comma 3, lett. c), c.p.p.), l’unico caso in cui l’escussione del teste assistito può inerire alla propria responsabilità è l’ipotesi nella quale le precedenti dichiarazioni vertano su fatti inscindibili (34). È proprio in relazione a tale ipotesi peculiare che il legislatore ha riconosciuto al teste assistito la facoltà di non rispondere sul fatto proprio. Occorre concludere, allora, che quando i fatti sono inscindibili, la facoltà di non rispondere si estende inevitabilmente anche al fatto altrui (35). Quale ulteriore garanzia, riconosciuta a tutti coloro che depongono come testimoni assistiti, l’art. 197-bis, comma 5, c.p.p. stabilisce che le dichiarazioni rese da costoro non sono utilizzabili nel procedimento a loro carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo alla loro responsabilità. Tuttavia, a nostro avviso, l’inutilizzabilità non vale a neutralizzare qualunque pregiudizio possa derivare dall’aver reso dichiarazioni contra se. È di tutta evidenza che affermazioni in qualche modo autoincriminanti potrebbero compromettere l’onore della persona escussa. E ciò è già di per sé sufficiente a far scattare l’art. 384, comma 1, c.p. (36). (34) Sul concetto di ‘‘fatto inscindibile’’ e sulla disciplina ricavabile a seguito della sentenza n. 361 del 1998, si vedano P. TONINI e C. CONTI, Imputato ‘‘accusatore’’ ed ‘‘accusato’’ dopo la sentenza costituzionale n. 361 del 1998, Appendice di Aggiornamento ad AA.VV., Le nuove leggi penali, Collana diretta da A GIARDA, G. SPANGHER, P. TONINI, Padova, 2000, p. 28. (35) Ad avviso di D. PULITANÒ, L’oggetto giuridico dei reati contro l’amministrazione della Giustizia, Relazione svolta all’Incontro di studio organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura sul tema La tutela penale del processo, Roma, 29 novembre-1o dicembre 2001, p. 14 del dattiloscritto, ‘‘L’idea di poter separare in modo netto le dichiarazioni sul fatto altrui dal fatto proprio si rivela illusoria: qualsiasi dichiarazione sul fatto altrui implica necessariamente, sul piano di una seria e controllabile verifica probatoria, la verifica del contesto in cui l’affermata conoscenza del fatto altrui sia stata ottenuta dal dichiarante’’. (36) Oltre a recare pregiudizio nell’onore, le dichiarazioni potrebbero precludere al soggetto la possibilità di ottenere l’apertura di un giudizio di revisione; potrebbero essere utilizzabili in eventuali nuovi procedimenti relativi a fatti connessi (si pensi alle ipotesi di connessione monosoggettiva disciplinate dall’art. 12, lett. b) c.p.p.: è frequente, nell’area della criminalità organizzata, che alla medesima persona siano attribuiti più reati in continuazione); le dichiarazioni, inoltre potrebbero essere utilizzate come punto di partenza per la ricerca di nuove prove; infine, potrebbero indurre il giudice a far pressione su altre risultanze probatorie utilizzabili, al fine di pervenire comunque ad una sentenza di condanna conforme al suo intimo convincimento. Di nuovo si richiama M. NOBILI, Giusto processo, cit., p. 7: ‘‘anche le clausole d’inutilizzabilità contro il dichiarante non giungono risolutive. Il pur lineare rilievo per cui conta solo ciò che si può usare nella motivazione, con irrilevanza, perciò, d’introspezioni psichiche sulle vie interne del decidere (CORDERO), non basta per farci dimenticare le conseguenze di un edere contra se, seppure coperto (...) da un’inutilizzabilità soggettiva. Tanti sono i canali e gli effetti, magari inavvertiti: sviluppi probatori ulteriori; atti e provvedimenti della fase preliminare; il soppesare diversamente — nell’attimo in


— 861 — Una volta analizzata la disciplina predisposta dal legislatore, occorre verificare se essa è veramente idonea a neutralizzare l’operatività dell’esimente in oggetto. Occorre, cioè, controllare se le garanzie processuali riconosciute ai testimoni assistiti costituiscono una tutela sufficiente ad evitare che essi commettano falsa testimonianza perché costretti dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore. a) Imputati prosciolti o patteggiati. Tali soggetti godono del privilegio contro l’autoincriminazione sui fatti dai quali possa emergere una loro responsabilità penale (art. 198, comma 2, c.p.p.). Tuttavia non hanno alcun privilegio in relazione ai fatti oggetto del giudicato. La disciplina in esame non si fa carico di tutelare l’onore dell’imputato prosciolto o patteggiato. Essi potrebbero trovarsi obbligati ad ammettere la propria responsabilità in ordine a fatti oggetto del giudicato. Da un punto di vista formale, le predette persone non potranno subire alcuna conseguenza stante l’operatività del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.) e l’inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni che l’art. 197-bis, comma 5 c.p.p. riconosce in favore di tutti i testimoni assistiti. Tuttavia, essi ben potrebbero ricevere un pregiudizio sostanziale nella loro reputazione e nel loro onore. Pertanto se restassero reticenti o rendessero false dichiarazioni, i prosciolti ed i patteggiati potrebbero invocare a loro discolpa l’art. 384, comma 1, c.p. (37). b) Imputati condannati. Come abbiamo visto, gli imputati condannati, oltre a godere del normale privilegio contro l’autoincriminazione su fatti ulteriori (art. 198, comma 2, c.p.p.), possono eccepire anche il privilegio sul giudicato, purché nel procedimento a loro carico non abbiano reso dichiarazioni o si siano limitati a negare la propria responsabilità. Se ne desume, a contrario, che il condannato non può più invocare il privilegio sul giudicato se nel processo a proprio carico aveva reso dichiarazioni o aveva ammesso la propria responsabilità. La legge equipara tale comdecomponibile e talora indecifrabile della sententia — un residuo quadro probatorio incerto, ecc.’’. In sintesi, l’inutilizzabilità contra se garantita dall’art. 197-bis, comma 5, c.p.p., appare inidonea ad assicurare al teste assistito un’immunità totale. (37) Così Trib. Genova, 14 ottobre 1997, Fortunato, in Cass. pen., 1998, p. 3419: ‘‘non è punibile per il delitto di falsa testimonianza, ai sensi dell’art. 384 c.p., la persona chiamata a testimoniare sulla propria corresponsabilità per un delitto dal quale era stata assolta con sentenza passata in giudicato: deve infatti ritenersi che in tale caso ricorra una situazione di necessità, costituita da un evento di danno, e non di pericolo, per l’effettivo nocumento all’onore — restituito alla persona dalla sentenza assolutoria passata in giudicato — evitabile solo con la commissione del reato di falsa testimonianza; nocumento concreto e reale, e non soltanto possibile od opinabile’’. Nella specie si pretendeva che la persona imputata di falsa testimonianza, già formalmente assolta dall’accusa di omicidio in concorso con persona inizialmente ignota, ammettesse invece di avere commissionato a detta persona, poi identificata ed imputata in un successivo procedimento, l’omicidio del proprio marito.


— 862 — portamento ad una rinuncia per fatti concludenti al privilegio contro l’autoincriminazione. Occorre domandarci se tale rinuncia, effettuata nel processo chiuso con la condanna, possa considerarsi libera; se non lo fosse, infatti, il teste potrebbe affermare di essere costretto a deporre contro di sé e, conseguentemente, invocare la scusante ex art. 384, comma 1, c.p. È chiaro che la strategia difensiva dell’imputato nel proprio processo è mossa da considerazioni che prescindono in toto dalla prognosi di una futura deposizione come teste assistito. Pertanto, è possibile affermare che gli imputati condannati, che abbiano reso dichiarazioni nel loro procedimento, non hanno ‘‘liberamente’’ scelto di rinunciare a quel privilegio contro l’autoincriminazione che spetterebbe loro dopo la condanna. Se essi, nel corso della deposizione come testimoni assistiti, mentono sul giudicato per tutelare il proprio onore, possono invocare a loro discolpa la scusante prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. c) Imputati collegati o connessi teleologicamente, che hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui. Come abbiamo accennato, tali soggetti non possono essere costretti a deporre sui fatti oggetto del procedimento a loro carico. Pertanto, in questa ipotesi, il legislatore ha riconosciuto un ampio privilegio contro l’autoincriminazione. A noi preme verificare se l’esistenza di tale privilegio sia sufficiente a neutralizzare l’operatività dell’art. 384, comma 1, c.p. All’uopo occorre richiamare i tre parametri delineati supra (38). 1) Libertà morale. Quando il dichiarante si trova di fronte al giudice la sua libertà morale è assicurata. Non lo è altrettanto, per i motivi già esposti, quando egli è sentito dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria come ‘‘possibile testimone assistito’’ ai sensi degli artt. 362 c.p.p. e 351 c.p.p. 2) Conoscenza dei presupposti di diritto. Nessuna delle norme, che riconoscono il privilegio contro l’autoincriminazione, impone che il titolare ne sia previamente avvertito (artt. 198, comma 2 e 197-bis, comma 4, c.p.p.). Una disciplina del genere potrebbe essere fonte di problemi, perché il dichiarante, che non si è astenuto dal deporre ed ha reso falsa testimonianza, potrebbe affermare che lo ha fatto perché ignorava di avere il privilegio contro l’autoincriminazione e, quindi, si riteneva costretto a deporre (39). Si tratta, peraltro, di un problema meramente teorico, giacché (38) Mentre nelle pagine precedenti abbiamo utilizzato il test per stabilire se la testimonianza degli imputati connessi o collegati fosse volontaria o coatta, adesso utilizziamo i medesimi criteri per verificare se il privilegio contro l’autoincriminazione sia equiparabile ad una facoltà di astensione libera e consapevole. (39) In tale situazione la menzogna potrebbe essere ritenuta scusabile ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p. perché il testimone non sapeva di avere quella alternativa lecita alla falsa testimonianza, che consiste nella facoltà di non deporre sui fatti incriminanti. Pertanto


— 863 — il testimone assistito è affiancato da un difensore il quale, senza dubbio, ha il compito di renderlo edotto delle sue facoltà (40). In ogni caso, sarebbe stato preferibile che il legislatore avesse imposto di avvisare il teste del privilegio a lui riconosciuto. 3) Conoscenza dei presupposti di fatto. È soprattutto su questo fronte che la dinamica del privilegio contro l’autoincriminazione crea problemi. Infatti la natura autoincriminante dei fatti, che siano oggetto della deposizione, non ha evidenza oggettiva, bensì è subordinata ad una valutazione. Se il dichiarante rifiuta di rispondere e asserisce che la domanda è autoincriminante, egli potrebbe invocare l’art. 384, comma 1, c.p. a titolo di scusante putativa. Lo stesso può accadere se il giudice gli impone di deporre ed egli mente, perché reputa che le circostanze oggetto delle domande possono recare pregiudizio alla sua posizione processuale (41). La giurisprudenza sembra orientata a non ritenere applicabile l’art. 384 c.p. a titolo di mera scusante putativa. La Cassazione richiede che il pregiudizio abbia carattere effettivo ed oggettivamente verificabile e non derivi da una mera percezione soggettiva (42). È questa, a nostro avviso, l’unica interpretazione accettabile della norma. Occorre, tuttavia, prendere atto che qualche decisione ha applicato in modo più blando l’esimente in discorso: essa è stata concessa pure quando il pregiudizio costituiva una mera prospettazione soggettiva dell’agente (43). In ogni caso potrebbe risultare utile che, di fronte ad una domanda si versa in una ipotesi di obbligo testimoniale putativo al quale pare senz’altro applicabile la scusante in esame. Il processo di motivazione del soggetto è identico a quello che l’ordinamento, se ve ne fossero gli elementi, valuterebbe a suo favore e non vi è perciò ragione di trattarlo diversamente. Così M. ROMANO, Cause di giustificazione, cit., p. 70. Sui rapporti tra inesigibilità ed error iuris, si veda G. FORNASARI, Il principio, cit., p. 361. (40) Il problema assume maggiore rilevanza in relazione al teste comune, il quale non è avvisato del privilegio e non è neppure assistito dal difensore. (41) Non si deve, poi, dimenticare il secondo comma dell’art. 384. Quando risulta che il privilegio sussisteva davvero (perché si trattava di fatti effettivamente oggetto del procedimento a carico del dichiarante) e invece non è stato riconosciuto, un’eventuale falsità è addirittura fuori dal delitto di falsa testimonianza. (42) Cass., sez. VI, 4 febbraio 1997, n. 1908, Brocca, in Riv. pen., 1997, p. 375: ‘‘la situazione di necessità prevista dall’art. 384 c.p. non è costituita dalla probabilità di un evento temuto, come nella scriminante dello stato di necessità prevista dall’art. 54 c.p., ma dalla certezza del verificarsi dell’evento di danno e, quindi, trattandosi pur sempre di una prognosi, dalla previsione del verificarsi dell’evento assistita dal più alto grado di probabilità’’; Cass., sez. VI, 26 aprile 1999, n. 8638, Aprano, in Cass. pen., 2000, p. 1587: ‘‘ai fini dell’integrazione dell’esimente di cui all’art. 384 comma 1, c.p. (necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore) è necessario che il pericolo non sia genericamente temuto ma sia collegato a circostanze obiettive, attuali e concrete che ne delimitino con precisione contenuto ed effetti’’. (43) Uff. indagini preliminari Milano, 8 giugno 1999, in Foro ambrosiano, 2000, p. 145: ‘‘in tema di favoreggiamento personale l’esimente di cui all’art. 384 c.p. opera anche sotto il profilo meramente putativo, ovvero quando l’agente agisca nell’erronea convinzione


— 864 — autoincriminante, la controparte si attivi per segnalare al testimone che egli può non rispondere. In tal modo, per un verso, si neutralizzerebbe l’invocabilità dell’art. 384 c.p. da parte del teste che ignorava di avere il privilegio, assicurando così la conoscenza del presupposto di diritto; per un altro verso, il contraddittorio tra le parti potrebbe contribuire a sondare la natura effettivamente autoincriminante della domanda (conoscenza del presupposto di fatto), coadiuvando il giudice nella decisione sull’opportunità di esercitare il potere sollecitatorio riconosciutogli dall’art. 207 c.p.p. Vi sono poi problemi anche in relazione all’effettività dell’obbligo di verità sul fatto altrui. Il dichiarante potrebbe ritenere che la deposizione veritiera su determinate circostanze possa compromettere la strategia difensiva nel proprio procedimento. È vero che le dichiarazioni sono inutilizzabili contra se ai sensi dell’art. 197-bis, comma 5, c.p.p. Tuttavia è chiaro che il fatto di aver reso una versione differente sulle stesse circostanze, che sono rilevanti nel proprio e nell’altrui procedimento, potrebbe far perdere credibilità al dichiarante e pregiudicare il suo onore. Pertanto il teste assistito, che dica il falso per non discostarsi dalla versione già resa come imputato nel proprio processo, potrebbe invocare la scusante dell’art. 384 c.p. 6. L’esigenza di nuove sinergie tra diritto penale e processo. — È bene ricordare che le nostre osservazioni hanno una funzione, in certo qual modo, provocatoria. Tuttavia dall’analisi finora svolta si ricava la seguente conclusione: quando il dichiarante riveste anch’egli la qualifica di imputato, l’istituto della testimonianza coatta non funziona, perché scarica gli interessi contrapposti sulla dinamica del privilegio contro l’autoincriminazione. Il predetto privilegio opera senza difficoltà in relazione al comune testimone, perché costituisce una tutela che scatta in ipotesi teoricamente eccezionali: di regola si presume che il testimone non abbia commesso reati. Viceversa, il presupposto della testimonianza assistita è proprio il fatto che nei confronti del dichiarante penda un procedimento connesso a quello, nel quale egli è chiamato a deporre. Pertanto il rischio di ricevere un pregiudizio dalla testimonianza è in re ipsa e non può essere neutralizdi essere coinvolto nella stessa indagine o in indagini connesse’’. Si veda anche Cass., sez. VI, 10 febbraio 1997, n. 3285, Puzone, in Riv. pen., 1997, p. 580: ‘‘con riferimento all’esimente di cui all’art. 384, comma 1, c.p., il requisito della ‘inevitabilità’ non può essere riferito al momento del definitivo accertamento giudiziale, ma deve necessariamente porsi in relazione con la situazione che si prospetta all’agente nel momento in cui pone in essere una condotta oggettivamente qualificabile come reato contro l’amministrazione della Giustizia, così da renderla inesigibile. È in tal modo che è, infatti, possibile verificare la gravità del pericolo alla libertà o all’onore, del soggetto, lato sensu, favorito’’.


— 865 — zato dal solo privilegio contro l’autoincriminazione unito all’inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni. Il legislatore non ha voluto recepire l’istituto della testimonianza volontaria, che nel sistema inglese si è affermato già con il Criminal Evidence Act del 1898 e di recente è stato riproposto nel nostro Paese in un progetto di matrice accademica (44). In base a tale ricostruzione teorica, le persone che rivestono la qualifica di imputato sono avvertite che hanno facoltà di astenersi dal deporre. Tuttavia, se di fronte al giudice decidono di non avvalersene, rinunciano al privilegio sul reato loro addebitato. Inoltre, se portano prove a carico di altre persone, esse assumono l’obbligo di rispondere secondo verità anche su ulteriori reati che abbiano commesso. Un sistema del genere, da un lato, assicura il diritto al silenzio mediante il riconoscimento della facoltà di astenersi dal deporre. Da un altro lato, tutela il diritto dell’accusato a confrontarsi con l’accusatore. Chi per scelta libera e consapevole dà prove nei confronti dell’imputato non può più sottrarsi al confronto con lui, neppure invocando il rischio di autoincriminarsi. Poteva tacere, ma ha parlato. Su tutto prevale il diritto a confrontarsi con l’accusatore ed il principio del contraddittorio nella formazione della prova. Al tempo stesso l’obbligo di verità è presidiato da sanzioni penali, l’operatività delle quali non può essere elusa invocando l’inesigibilità del comportamento conforme alla legge (art. 384 c.p.). Infatti, il dichiarante ha scelto liberamente e consapevolmente di rinunciare alla facoltà di tacere e di sottoporsi all’esame come teste. In questo quadro, non vi è motivo di riconoscere il privilegio contro l’autoincriminazione nel corso della deposizione. Esso ha ragione di essere se e nella misura in cui tuteli un soggetto che sia ‘‘costretto’’ ad assumere la qualità di testimone. Per contro, quando la testimonianza sul fatto altrui è volontaria e scaturisce da una scelta ‘‘libera’’ (id est effettuata di fronte ad un giudice), il diritto a confrontarsi, spettante all’altro imputato, non tollera alcun limite. Il privilegio contro l’autoincriminazione, a ben vedere, ha mutato natura ed è assorbito nella facoltà di astensione. Una volta che il dichiarante-imputato ha scelto liberamente di deporre, il privilegio si è consumato e non può essere riconosciuto sul fatto che a costui viene addebitato. Di fronte al sistema attuale l’auspicio non può che essere quello di un ritorno alla semplicità, sia sul piano processuale, sia sul piano sostanziale. Occorre procedere ad una rilettura delle norme penali alla luce dei valori processuali che esse debbono tutelare. Nei reati contro l’amministrazione della Giustizia l’oggetto della tu(44) Cfr. P. FERRUA e P. TONINI, Testimonianza volontaria dell’imputato e tutela del contraddittorio, in Cass. pen., 2000, p. 2868.


— 866 — tela è il processo penale; quest’ultimo non è un monolite ma la sede nella quale convivono una pluralità di interessi contrapposti. È necessario prima attuare negli istituti processuali un soddisfacente contemperamento delle esigenze contrapposte e poi munire di una tutela penale adeguata questo bilanciamento. Si tratta di una operazione complessa e delicata, che involve istanze di altissimo livello come il diritto al silenzio, il diritto a confrontarsi con l’accusatore, il contraddittorio nella formazione della prova (45). Soltanto un bilanciamento di interessi effettuato con la semplice e lineare applicazione dei princìpi può consentire di attuare i nuovi canoni del giusto processo in un’indispensabile sinergia tra norme processuali e sostanziali. CARLOTTA CONTI Dottoranda di ricerca in Procedura penale Università di Firenze

(45) Si vedano le parole di D. PULITANÒ, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 1286: ‘‘Il bene tutelato è costituito non da una generica istanza repressiva, ma da un modello di funzionamento della Giustizia penale, conformato dalla legge processuale, del quale fanno parte le garanzie e le legittime estrinsecazioni del diritto di difesa, ed anche, ovviamente, il principio del contraddittorio’’.


LA RIFORMA DEL CODICE PENALE

OSSERVAZIONI SULLA DISCIPLINA DELL’IMPUTABILITÀ NEL PROGETTO GROSSO (*)

SOMMARIO: I. Crisi del concetto di imputabilità e prospettive di riforma codicistica. — II. Proposte di nuova disciplina dei casi di incapacità autoprocurata.

Nell’affrontare il tema dell’imputabilità alla stregua delle proposte della Commissione Grosso, concentrerò in particolare l’attenzione su due questioni problematiche: in primo luogo, sulla crisi del concetto di imputabilità, anche quale riflesso dell’attuale modo d’atteggiarsi del rapporto tra giustizia penale e scienze empirico-sociali; in secondo luogo, sui limiti di compatibilità tra il principio di colpevolezza e le forme di responsabilità penale riconducibili — direttamente o indirettamente — all’antico paradigma dell’actio libera in causa. I. Crisi del concetto di imputabilità e prospettive di riforma codicistica. — 1. Cominciando dal primo punto, do per scontata la conoscenza sia delle ragioni che hanno negli ultimi anni indotto a parlare di ‘‘crisi’’ del concetto di imputabilità, sia dello stato della giurisprudenza italiana in materia. Piuttosto, mi preme in questa sede fare qualche rilievo sui problemi di comunicazione e scambio scientifico che oggi rendono poco agevole il rapporto di collaborazione che in teoria dovrebbe continuare a instaurarsi tra giuristi ed esperti (psichiatri e psicologi). Ciò nel presupposto, difficilmente contestabile, che quello di imputabilità è e rimane un concetto di natura sia empirica, sia normativa: e che il problema consiste — appunto — nel modo di combinare questa duplice dimensione. L’approccio più ovvio sembra, invero, suggerire una forma di divisione del lavoro: nel senso che gli esperti dovrebbero limitarsi ad accertare le condizioni biologiche e psicologiche dell’imputato, mentre i giudici dovrebbero, sulla base di un autonomo procedimento valutativo, trarne le conseguenze sotto il profilo più specifico della capacità di colpevolezza e di pena. Sviluppando un tale ordine di idee, osserva ad esempio Roxin nel suo bel manuale che, da un lato, il giudice non può delegare completa(*) Il testo riproduce una relazione tenuta al Convegno su ‘‘Verso un codice penale modello per l’Europa: La parte generale II: Imputabilità e misure di sicurezza’’ (Università degli studi di Foggia 10-11 novembre 2000).


— 868 — mente all’esperto la determinazione dei presupposti del giudizio di imputabilità, essendo tale determinazione caratterizzata anche da momenti valutativo-normativi. Dall’altro, lo stesso esperto è chiamato ad accertare non se l’imputato sia o meno ammalato in senso medico-clinico, ma se l’imputato stesso sia capace nel senso specifico che interessa al diritto penale: cioè se egli sia al momento del fatto normativamente motivabile. E questo è un accertamento innanzitutto di tipo empirico, rispetto al quale la moderna psichiatria e la psicologia hanno qualcosa da dire. ‘‘Se psichiatria e psicologia non avessero qualcosa da dire sulla motivabilità normativa dell’autore del fatto, ci troveremmo di fronte ad una dichiarazione di incapacità scientifica che rende privo di senso, inutile lo stesso principio di colpevolezza. Anche in questo caso, come in altri, rimane decisivo il convincimento del giudice, che non può essere sostituito da quello dell’esperto. Ma ciò non muta nulla rispetto al fatto che (...) la cooperazione tra giudici ed esperti deve svolgersi secondo le medesime regole’’ (1). Orbene: cosa vuol dire in realtà che giudici ed esperti devono cooperare secondo le ‘‘medesime regole’’? Significa che la collaborazione tra i due versanti deve muovere dalla condivisione di concezioni e punti di vista comuni? Se così è, non sembra che oggi le cose si mettano al meglio: almeno con riferimento alla situazione italiana, nel cui ambito il rapporto tra giustizia penale e scienze empirico-sociali è divenuto sempre più complesso, se non fortemente conflittuale. Com’è noto, ciò a causa del fatto che la psichiatria ha sottoposto a revisione critica i suoi stessi paradigmi, mettendo in crisi le sue tradizionali verità e accentuando un pluralismo interpretativo ‘‘autorelativizzante’’. Da qui una accresciuta autonomia valutativa e decisionale dei fruitori dello stesso sapere scientifico: nel nostro caso, il giudice e prima ancora il legislatore, i quali si trovano nella non facile condizione di dovere ‘‘scegliere’’ tra i diversi orientamenti scientifici compresenti nell’attuale contesto di ‘‘convenzionalizzazione metodologica’’ del sapere psichiatrico. Ecco che, a ben vedere, il problema del rapporto tra diritto penale e psichiatria finisce anch’esso con l’evocare, costituendone una significativa esemplificazione, un ‘‘paradosso’’ della nostra epoca ben evidenziato da uno dei massimi teorici della cosiddetta ‘‘società del rischio’’, il sociologo Ulrich Beck: ‘‘Mentre prima la scienza convinceva in quanto scienza, oggi, di fronte alle molte voci contraddittorie delle lingue scientifiche diventa sempre più decisiva la fede nella scienza o la fede nella scienza alternativa (oppure in questo metodo, in questo approccio, in questo orientamento’’ (2). Sono facilmente intuibili i possibili riflessi di questo paradosso. Se il (1) ROXIN, Strafrecht, AT, Bd. I, Muenchen, 1992, p. 567 s. (2) BECK, La società del rischio, trad. it., Roma, 2000, p. 237.


— 869 — magistrato si trova a dovere scegliere tra più orientamenti scientifici, in un orizzonte epistemologico che ne relativizza la rispettiva pretesa di scientificità, egli sarà a maggior ragione indotto a prendere partito anche (se non soprattutto) sulla base di preferenze culturali ‘‘personali’’: con il rischio di prescegliersi come proprio perito o consulente quell’esperto, le cui concezioni risultano in partenza più funzionali a un esito decisorio (in termini di condanna o assoluzione o mitigazione della responsabilità) intuitivamente perseguito in via pregiudiziale. D’altra parte, così stando le cose, non sorprende che proprio sul versante della psichiatria siano andate crescendo le voci critiche inclini a denunciare l’eccessiva discrezionalità insita nell’accertamento dell’imputabilità penale (discrezionalità che rasenterebbe addirittura l’‘‘arbitrio’’ nel caso di verifica della ‘‘seminfermità’’). Né sorprende che da parte di qualificati psichiatri provenga crescente consenso alla ricorrente proposta legislativa di abolire l’istituto dell’imputabilità e di sottoporre anche gli incapaci a punizione, circoscrivendo la rilevanza dell’infermità soltanto nell’ambito dell’esecuzione della pena, che si vorrebbe improntata a prevalenti finalità terapeutiche (3). 2. Come interpretare questa posizione ‘‘abolizionistica’’ di una parte della psichiatria contemporanea? Essa può in realtà avere più motivazioni, non necessariamente alternative ma concorrenti. Da un lato, sotto un profilo ideologico o relativo alla percezione di ruolo, ci troviamo di fronte all’emergere del rifiuto dello psichiatra forense di operare quale strumento collocato in posizione di collaborazione subalterna rispetto alla giustizia penale: rifiuto dello psichiatra-esperto di farsi carico delle esigenze punitive e di difesa sociale, rifiuto della ‘‘delega’’ del controllo sociale, in nome di una rivendicata (per dir così) purezza terapeutica della funzione psichiatrica. Riproponendo con adattamenti un passo del celeberrimo romanzo L’uomo senza qualità di Robert Musil, potremmo dire che in questo modo l’‘‘angelo della medicina’’ recupererebbe la propria missione e cesserebbe così di fungere nei tribunali da ‘‘angelo di complemento della giurisprudenza’’. Nello stesso tempo, a prescindere dalla suddetta motivazione ideologica, potrebbe esservi una sincera dichiarazione di impotenza scientifica (quell’impotenza, come abbiamo visto sopra, paventata da Claus Roxin): vale a dire, la rassegnata presa d’atto che la psichiatria odierna è incapace ‘‘di identificare l’infermità e di valutare esattamente la capacità di intendere e di volere dei portatori di disturbo mentale’’ (4). (3) Per riferimenti alle tendenze abolizionistiche presenti nella psichiatria italiana, e per un quadro ricostruttivo dei diversi orientamenti cfr. INTRONA, Se e come siano da modificare le vigenti norme sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1999, p. 657 ss. (4) PONTI e MERZAGORA, Psichiatria e giustizia, Milano, 1993.


— 870 — Ora, di fronte a dichiarazioni di resa come questa che precede, non riaffiora o si aggrava soltanto un problema teorico: si ripropone la questione pratica del ‘‘che fare’’ sul piano del trattamento punitivo del malato di mente e dei soggetti assimilabili. Ed è qui che ci troviamo di fronte ad un ulteriore paradosso: cioè, nello stesso momento in cui la psichiatria forense manifesta la propria indisponibilità a essere coinvolta nella soluzione del dilemma imputabilità-inimputabilità, essa rischia (volontariamente o involontariamente) di avallare il predominio di una tradizionale logica punitiva. ‘‘Involontariamente’’, se sul fronte degli psichiatri ci si limita a non volere collaborare, restituendo la ‘‘delega’’ al giurista e dicendogli che è soltanto compito suo risolvere il problema della punibilità o no del soggetto psicologicamente disturbato. ‘‘Volontariamente’’, se si accede invece al convincimento — come alcuni psichiatri oggi ritengono — che la pena (sia pure in qualche modo riadattata) possa fungere da strumento reattivo utile anche per i rei affetti da disturbi psichici, contribuendo a promuoverne il senso di responsabilità. In presenza di una situazione così ambigua e complessa, come dovrebbe comportarsi un saggio e avveduto legislatore riformista? Fuori discussione il punto di partenza: è proprio la compresenza di orientamenti scientifici tutt’altro che univoci ad accentuare la discrezionalità politicovalutativa e la responsabilità decisionale dei soggetti titolari della funzione legislativa. Di conseguenza, sottolineare che le nuove scelte politico-criminali in tema di imputabilità vanno effettuate con attenta ponderazione e ragionevole prudenza, è una avvertenza obbligata ma non sufficiente. A ben guardare, il legislatore futuro dovrebbe evitare una doppia tentazione: per un verso, quella del conservatorismo preconcetto e, per altro verso, quella del cedimento all’ultima moda. Per richiamare anche a questo proposito L’uomo senza qualità, nella parte del romanzo in cui Musil descrive una immaginaria Commissione di studio di riforma del codice penale, uno dei cui componenti per l’appunto osserva: ‘‘la statica istituzionale del diritto non può seguire tutte le capriole della moda spirituale regnante’’. 3. Fatte queste premesse, entriamo adesso nel merito delle proposte della Commissione Grosso. La prima scelta fondamentale, favorevole al mantenimento della distinzione tra soggetti imputabili e inimputabili, appare ragionevole e condivisibile. Essa corrisponde all’orientamento di gran lunga dominante nell’ambito delle codificazioni contemporanee, anche in quelle più recentemente riformate. E, specie in un’epoca come la nostra caratterizzata da una crescente tendenza all’armonizzazione legislativa sul piano sovranazionale, il non discostarsi da discipline diffuse in altri paesi è cosa molto opportuna. In linea di principio non solleva obiezioni, sul piano della tecnica le-


— 871 — gislativa, neppure la scelta di rinunciare a definire in positivo il concetto di imputabilità, limitandosi a disciplinarne le condizioni che la escludono. Apprezzabile, altresì, la preoccupazione di specificare l’effetto penalisticamente rilevante della mancanza di imputabilità, cioè l’esclusione della possibilità di comprendere l’‘‘illiceità’’ del fatto. Si tratta di una proposta di esplicitazione normativa ripresa in verità dal codice tedesco, a sua volta imitato ad esempio dai codici portoghese, spagnolo, croato. V’è tuttavia da chiedersi se sia davvero necessario fare riferimento alla ‘‘illiceità’’ del fatto (traduzione approssimativa del termine tedesco ‘‘Unrecht’’), che evoca il contrasto tra fatto e norma violata; o se sul terreno dell’imputabilità sia preferibile piuttosto richiedere qualche cosa di meno sofisticato sotto il profilo giuridico, e cioè la possibilità di comprendere il ‘‘significato’’ o le conseguenze dannose del comportamento realizzato. Questa seconda soluzione, che richiama la dimensione naturalistica e socio-culturale dell’imputabilità, sembrerebbe più pertinente tenuto conto che l’accertamento della capacità di intendere e di volere implica valutazioni di tipo più sostanziale che giuridico-formale. (In effetti, l’ultima versione del progetto, mostrando di tenere conto di rilievi come quelli che precedono, utilizza l’espressione ‘‘significato del fatto’’). Sul duplice piano della scelta di principio e della tecnica normativa, sembra inoltre ben comprensibile — tanto più in questo momento storico — la proposta di indicare i substrati fattuali della non imputabilità in forma di concetti aperti: tali cioè da contemperare il rispetto del principio di legalità e, nello stesso tempo, l’esigenza di un ‘‘flessibile adeguamento’’ dei concetti utilizzati al progredire delle conoscenze scientifiche. Ovviamente, la comprensibilità di principio della scelta non impedisce di metterne in evidenza i possibili inconvenienti: quanto più aperto è un concetto normativo, tanto minore risulta la sua potenziale efficacia orientativa, con la conseguenza che un ruolo ancora più determinante spetta alla concretizzazione giudiziaria. Il ruolo decisivo — volenti o nolenti — affidato alla prassi applicativa risalta ancora di più se si considera che la Commissione (in conformità alle aspettative della dottrina penalistica più recente e al precedente progetto Pagliaro) propone di allargare i presupposti dell’incapacità di intendere e di volere, affiancando al tradizionale riferimento all’infermità di mente la espressa menzione di ‘‘altro grave disturbo della personalità’’. Questa scelta estensiva, oltre ad essere in linea con l’orientamento dei codici più recenti, ben riflette la consapevolezza proprio di quel pluralismo metodologico che oggi connota il sapere psichiatrico, una volta entrato in crisi il paradigma medico-nosografico quale unico o prevalente criterio selettivo dei disturbi psichici atti a incidere sulla capacità di colpevolezza e di pena. Una ricodificazione che voglia essere al passo coi tempi non potrebbe, ovviamente, pretendere di imporre concezioni o modelli che risul-


— 872 — tano obsoleti alla stregua dell’evoluzione del sapere scientifico. Il punto è un altro: la nuova opzione codificatoria, se ambisce a guidare in qualche modo la prassi applicativa futura, deve riuscire a contemperare apertura all’evoluzione scientifica e capacità orientativa dei giudici. Ed occorre, altresì, che il modello di disciplina proposto rifletta soluzioni capaci di riscuotere il consenso della grande maggioranza degli esperti in materie psichiatriche e psicologiche: è ovvio che sarebbe priva di plausibilità, e destinata a sicuro rigetto, una ridisciplina dell’imputabilità che contraddicesse (per dir così) il senso comune oggi dominante nel ceto degli psichiatri. A ben vedere, è sotto quest’ultimo punto di vista che la proposta estensiva della Commissone Grosso non appare del tutto tranquillizzante: nell’universo della psichiatria, in particolare di quella italiana, sono andate crescendo — e ne costituisce riprova l’andamento della discussione in questo convegno — le prese di posizione favorevoli più a una restrizione che a un allargamento dei presupposti dell’inimputabilità; anzi, come si è visto, esiste una parte consistente dell’attuale mondo psichiatrico (significativa, in ogni caso, per il rango scientifico di quanti ne sono portavoce) che propende persino per l’abolizione della stessa categoria dell’imputabilità. Il che, a mio avviso, non può non fare riflettere. Probabilmente, in prospettiva ricodificatoria sarebbe opportuno vagliare con attenzione ancora maggiore le ragioni di tale orientamento restrittivo: tanto più che in una materia come questa il legislatore ha come interlocutori gli psichiatri prima ancora che i giuristi. In effetti, prima di avallare in via definitiva la soluzione allargatrice, dovremmo sforzarci di pronosticarne il possibile impatto sulla prassi giurisprudenziale: tenendo peraltro conto delle forme di criminalità che attualmente più occupano la scena. Penso ad esempio, per un verso, a fenomeni come la pedofilia: secondo molti psicologi e psichiatri, i pedofili avrebbero una personalità immatura e molto disturbata, tale da renderli più simili a malati che a soggetti sani (5). Orbene: v’è da chiedersi in termini pronostici se il concetto generico di ‘‘altro grave disturbo psichico’’, quale nuova causa di incapacità, possa nella giurisprudenza futura essere considerato comprensivo delle anomalie psichiche ravvisabili nel comportamento di non pochi autori di atti pedofilici. E penso, per altro verso (e in forma ancora più provocatoria!), a certe specifiche psicopatologie identificabili — secondo alcuni psicologi che hanno studiato il c.d. psichismo mafioso — negli associati di mafia: i quali avrebbero una personalità psicopatologica in quanto aderenti ad un universo totalizzante che abolisce ogni autonomia di pensiero individuale, vieta qualsiasi forma di comunicazione interpersonale autentica, accentua la logica della contrapposizione (5) 69 ss.

Cfr. FERRARIS e GRAZIOSI, Pedofilia. Per saperne di più, Roma-Bari, 2001, p.


— 873 — amico-nemico, impone una ideologia fondamentalista che induce a considerare come meritevoli di rispetto i soli valori mafiosi e, di conseguenza, neutralizza o comunque attutisce fortemente la consapevolezza dell’‘‘illecito’’ tutte le volte in cui la vittima del reato è un soggetto estraneo alla comunità mafiosa (6). Ciò premesso, non sembri una provocazione eccessiva sollevare questo conseguente interrogativo: ove una simile interpretazione psicologica dovesse prendere piede in futuro, la tesi dell’anomalia psichica dei mafiosi potrebbe essere enfatizzata sino al punto di tentarne applicazioni strumentali ai fini di un riconoscimento di inimputabilità o di semimputabilità favorito da una disciplina codicistica a maglie più larghe? Anche se esiti di questo tipo sembrano realisticamente da escludere, è indubbio che la gestione giudiziaria di una disciplina estensiva della non imputabilità potrebbe sortire qualche effetto imprevedibile, frutto del contingentemente mutevole bilanciamento del conflitto tra garanzie individuali ed esigenze preventivo-repressive all’interno di un quadro normativo che in ogni caso concede ai giudici amplissima libertà di manovra. Beninteso, non necessariamente nel senso di una discutibile dilatazione dei casi di disconosciuta capacità di intendere e di volere. Emblematico quanto accaduto nell’ambito del diritto giurisprudenziale tedesco, a seguito dell’allargamento dei presupposti dell’incapacità con la riforma codicistica del 1975: la giurisprudenza, facendosi carico di sopravvenute preoccupazioni generalpreventive, ha finito con l’interpretare restrittivamente il concetto di ‘‘anomalia psichica grave’’ quale nuova causa di non colpevolezza introdotta dalla riforma (7). Morale della favola: l’utilizzo di concetti legislativi aperti consente ai giudici di sabotare o ridimensionare anche quelle riforme normative che la giurisprudenza stessa, in forza di precedenti orientamenti, ha contribuito a incoraggiare. Una ulteriore riprova, ove ve ne fosse bisogno, del fatto che non basta riscrivere un codice per riuscire con certezza a modificare la prassi applicativa. II. Proposte di nuova disciplina dei casi di incapacità autoprocurata. — 1. L’attuale disciplina codicistica dei casi di incapacità autoprocurata è, com’è noto, caratterizzata da un accentuato rigore repressivo, dovuto da un lato a preoccupazioni generalpreventive e, dall’altro, a supposte difficoltà di ordine probatorio. Non da oggi, come sappiamo, le critiche mosse dalla dottrina più sensibile hanno per oggetto le finzioni di imputabilità introdotte dal legisla(6) Cfr. AA.VV., La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, a cura di G. Lo Verso, Milano, 1998. (7) Si veda MANNA, Il diritto giurisprudenziale nel sistema penale: il caso dell’infermità di mente, in AA.VV., Sistema penale in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale, a cura di G. Fiandaca, Padova, 1997, p. 81.


— 874 — tore del 1930: finzioni che cozzano col principio di colpevolezza, dando luogo a ipotesi di responsabilità oggettiva peraltro non proprio occulta o mascherata. Com’è altrettanto noto, per fornire una giustificazione dogmatica di queste forme di responsabilità anomala la dottrina suole da decenni — in realtà anche fuori dallo specifico contesto italiano — fare ricorso all’antico modello di imputazione dell’actio libera in causa: modello sempre più studiato, dibattuto e affinato nel corso del tempo. Tradizionalmente, in applicazione di tale modello, si è discusso soprattutto in ordine ai seguenti tre punti: i) se lo schema dell’actio libera introduca una eccezione o deroga al principio della necessaria coincidenza tra fatto tipico ed elemento soggettivo, ovvero implichi una anticipazione della tipicità; ii) se lo schema abbia portata generale ovvero sia inapplicabile ai casi di colpa; iii) se, ai fini dell’individuazione dell’elemento soggettivo in termini di dolo o colpa, debba assumersi a punto di osservazione il momento nel quale il soggetto si autoprocura lo stato di incapacità, ovvero quello in cui compie il reato in questione (questa seconda soluzione è diventata quella dominante nel contesto italiano). La problematica dell’actio libera in causa è in realtà divenuta ancora più complessa e sofisticata sul piano dogmatico, da quando si è nel corso dell’evoluzione dottrinale evidenziata la doppia funzione del dolo e della colpa: nel senso di concepire dolo e colpa in un primo momento come elementi del fatto tipico, e in un secondo momento come elementi della colpevolezza. E la ragione è evidente: a voler seguire questa nuova sistematica, occorrerebbe infatti individuare in ogni caso un doppio coefficiente psicologico, uno relativo alla fase anteriore della messa in stato di incapacità ed un altro relativo alla fase successiva dell’esecuzione del reato (8). 2. Come si sa, nel contesto dottrinale italiano non ci si è limitati a muovere critiche alle tradizionali finzioni di imputabilità: si sono anche via via suggerite possibili direttrici di riforma, per vero lungo direzioni non sempre convergenti. Schematizzando, nell’ambito delle elaborazioni che hanno preceduto il lavoro della Commissione Grosso ci si imbatte in un ventaglio di proposte che vanno dalla ipotesi di completa abolizione delle finzioni in parola (accompagnata dall’eventuale introduzione di misure di tipo amministrativistico o civilistico) (9) a quella del progetto Pagliaro volta a valorizzare una sorta di ‘‘pre-colpevolezza’’ rapportata all’azione precedente (nel senso che il soggetto risponde per dolo se al momento in cui si è posto in stato di incapacità egli ha agito almeno con dolo eventuale rispetto al fatto (8) Per una sintesi aggiornata delle varie posizioni dogmatiche al riguardo cfr. KINDHAEUSER, Strafrecht, AT, Baden-Baden, 2000, p. 319 ss. (9) Si vedano MARINUCCI e DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, p. 105 ss.


— 875 — di reato, oppure per colpa se il reato era da lui in tale momento prevedibile), inclusi ulteriori modelli di soluzione di matrice dottrinale connotati da un maggior grado di complessità che ne renderebbe verosimilmente poco agevole l’applicabilità nella concreta prassi giudiziaria (10). Dal canto suo, la Commissione Grosso muove in proposito da una premessa metodologica a nostro avviso ineccepibile: prima di riproporre discipline in qualche modo ‘‘derogatrici’’ rispetto ai principi generali dell’imputazione penale, occorre verificarne la effettiva necessità dal punto di vista delle esigenze di prevenzione. Necessità che appare, invero, quantomeno dubbia se si considera che nei repertori giurisprudenziali la casistica relativa ai casi concreti di imputabilità fittizia non può dirsi veramente significativa: per cui sembra fondata l’impressione che vi sia un sensibile divario tra gli sforzi dogmatici tradizionalmente profusi in materia e l’effettiva importanza pratica di tutta la problematica. In base all’accennata premessa, la Commissione ritiene che senza reali deroghe al principio di colpevolezza possa essere confermata e ribadita la responsabilità penale nel caso di incapacità preordinata, quando il reato venga commesso nel modo programmato; ma si suggerisce, nel contempo, di eliminare la specifica circostanza aggravante prevista dal codice vigente, non ravvisandosi per essa alcun serio fondamento politico-criminale (nella motivazione della proposta si esclude, infatti, che la preordinazione di per sé fondi una maggiore gravità del fatto ovvero una maggiore colpevolezza). Si tratta di una opzione condivisibile. La preordinazione, in quanto implica una volontà intenzionalmente diretta alla realizzazione del successivo reato, è in effetti compatibile col principio di colpevolezza: beninteso, purché vi sia fondamentale corrispondenza tra illecito programmato e illecito realizzato. L’unica particolarità che residua si riferisce alla inversione, rispetto alle ipotesi normali, tra imputabilità e colpevolezza (cioè non, come nei casi abituali, imputabile e quindi colpevole, bensì ‘‘colpevole’’ e quindi ‘‘imputabile’’). Ma l’aspetto più innovativo della disciplina proposta si riferisce ai casi di incapacità colposa, rispetto ai quali nel progetto si legge: ‘‘L’imputabilità non è altresì esclusa quando l’agente si è messo in stato di incapacità con inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto realizzato, e questo si sia realizzato a causa dello stato di incapacità procurato’’. A ben vedere, questa sobria formulazione testuale pone qualche problema inter(10) Ci si riferisce in particolare al modello di soluzione proposto da MILITELLO, Imputabilità ed assunzione di stupefacenti fra codice e riforma, in AA.VV., La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, a cura di F. Bricola e G. Insolera, Padova, 1991, 139 ss.; per un esame critico di tale modello si veda S. FIORE, Prospettive dommatiche e fondamento politico-criminale della responsabilità ex art. 91, comma 1, c.p., in questa Rivista, 1994, p. 145 ss.


— 876 — pretativo, per la cui soluzione può essere di giovamento la lettura dei rilievi contenuti nella relazione. Nelle intenzioni dei proponenti, si tratta sempre di una forma di imputazione per colpa (inclusi i casi in cui il fatto sia poi, in stato di incapacità, commesso eventualmente con volontà): il titolo della responsabilità risiede in ogni caso, infatti, nella inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto illecito successivamente realizzato. 3. A questo punto, dobbiamo chiederci: cosa vuol dire violazione di una regola cautelare rispetto a un fatto commesso in stato di autoprocurata incapacità? In linea teorica, si può ipotizzare che mettersi in stato di incapacità mediante assunzione di alcool o droghe sia pressoché sempre imprudente o pericoloso: e ciò perché in generale e in astratto non è da escludere che la perdita (o la diminuzione) della capacità di autocontrollo possa dar luogo ad azioni inconsulte o a loro volta imprudenti. In questo senso, sarebbe in sé stesso comportamento contrario a una regola cautelare il semplice fatto di ubriacarsi o drogarsi: la regola cautelare che consiglia, appunto, di non perdere il dominio di sé per evitare che ne possano derivare danni a terzi. Ma, se ravvisassimo una forma di colpa penalmente rilevante nella pericolosità astratta sempre insita nell’assumere sostanze droganti, finiremmo di fatto col riproporre — anche al di là delle intenzioni — una ipotesi di resposabilità oggettiva non tanto mascherata. E non è un caso, infatti, che nella stessa relazione della Commissione Grosso si affermi espressamente che sarebbe irragionevole muovere dalla presunzione assoluta che mettersi nella stato di incapacità integri comunque la inosservanza di una regola cautelare penalmente rilevante. Occorre, piuttosto, qualche cosa di più: parlerei in proposito di uno specifico nesso di colposità, da accertare in concreto, tra la precedente azione di autoincapacitazione e l’illecito poi commesso; in altri termini, è necessario dimostrare che il porsi in stato di incapacità contrasti con una norma cautelare proprio in relazione allo specifico fatto successivamente realizzato. È realisticamente possibile cogliere questo nesso di colposità in concreto — o si tratta, ancora una volta, di una soluzione apparente del problema, sfociante pur sempre in una sostanziale forma di responsabilità oggettiva? Cercando di affrontare l’interrogativo facendo riferimento a possibili tipologie di casi concreti, vien subito da osservare che il nesso suddetto potrà essere tanto più facilmente individuato quanto minore risulti l’intervallo temporale tra la condotta incapacitante e il commesso reato, specie nel caso in cui vengano in rilievo tipi di attività la cui esecuzione richiede capacità di autocontrollo o implica l’uso di mezzi pericolosi. Ad esempio, chi tracanna grandi quantità di vino durante un pranzo, sapendo di dover rimettersi presto alla guida dell’automobile per riprendere il viaggio, viola


— 877 — certamente una regola cautelare rispetto alla possibilità di provocare colposamente incidenti: se un incidente poi davvero si verifica, sussisteranno i normali requisiti della responsabilità per omicidio o lesioni colpose. Peraltro, in casi come questo non è neppure necessario ricorrere allo schema dogmatico dell’actio libera in causa. Come ritiene una parte qualificata della dottrina (non solo italiana), tale schema sul terreno del reato colposo si rivela superfluo: la situazione testé esemplificata dell’automobilista che beve smodatamente non è molto diversa, in effetti, da quella del celebre caso di scuola della madre che porta il neonato a dormire nel proprio letto, pur sapendo di avere un sonno agitato e di potere con un movimento incontrollato nel sonno provocarne la morte. Ma non tutti i contesti situazionali consentono con altrettanta facilità e immediatezza di cogliere la pericolosità dell’ubriachezza (o della stupefazione) rispetto alla possibile realizzazione di successivi reati: è questo il caso quando vengono in questione azioni o attività, rientranti nel variegato scenario della vita quotidiana, che di per sé non richiedono affatto speciali forme di controllo (o autocontrollo). Immaginiamo ad esempio che Tizio si ubriachi in un bar e che poco dopo, nell’attraversare a piedi un giardino pubblico, sia colto dall’impulso di lanciare pietre per aria che finiscono col colpire altri passanti: si può dire che l’essersi posti in stato di ubriachezza costituisce, in casi come questo, violazione di una regola cautelare rispetto al passeggiare lanciando oggetti pericolosi? Oppure, si pensi all’ipotesi di Caio che, nel corso di una cena in un ristorante elegante in compagnia di amici e belle donne, si lasci influenzare dall’atmosfera allegra e beva una quantità smodata di vini e liquori: e si ipotizzi altresì che, colto dalla voglia di fare l’amore con una delle donne presenti, successivamente la inviti a trascorrere la notte nel proprio appartamento e che, di fronte all’imprevedibile rifiuto di costei, anche a causa dell’ubriachezza le usi violenza. Si potrebbe sostenere che l’essersi ubriacato al ristorante rappresenti per Caio una violazione di regola cautelare rispetto alla possibilità della successiva violenza carnale (11)? In entrambi i casi, a rigore non si può parlare dell’esistenza di un nesso di colposità radicato nella violazione di una vera e propria norma cautelare, essendo la precedente condotta di messa in stato di ubriachezza realizzata in contesti di vita che non implicano la necessità di adottare misure precauzionali in rapporto alle possibili azioni susseguenti, in sé prive di apprezzabile pericolosità (come, appunto, il passeggiare nel giardino pubblico o il condurre l’amica nell’appartamento con l’intento di fare l’amore). Esclusa la violazione di una regola cautelare in senso stretto, conce(11) Per una problematizzazione esemplificativa alla stregua di casi in parte simili cfr. S. FIORE, op. cit., p. 148 s.


— 878 — pita — secondo la più moderna teoria del reato colposo — già come elemento costitutivo del fatto tipico, potrebbe tuttavia residuare in casi del genere qualche cosa di pur sempre riconducibile all’idea di colpa ma in forma più ridotta o attenuata: cioè una forma di prevedibilità soggettiva, da parte dello stesso soggetto agente, della possibilità che la perdita del proprio autocontrollo (dovuta ad ubriachezza o stupefazione) sfoci in azioni lesive ai danni di terzi. Ma tale prevedibilità in senso soggettivo sarebbe seriamente ipotizzabile soltanto in quei casi particolari in cui l’agente concreto fosse o dovesse essere consapevole, sulla base della pregressa personale esperienza di vita, di possedere una specifica inclinazione a commettere illeciti di un certo tipo come effetto dello stato di incapacità (così, ad esempio, per il soggetto dei due casi di sopra sarebbe soggettivamente prevedibile la possibilità di lanciare oggetti passeggiando o di usare violenza nei confronti dell’amica se, sulla base di precedenti esperienze, l’ubriacarsi avesse dato luogo a condotte aggressive analoghe). Ora, ove si fosse dell’avviso che in casi del genere residuano esigenze di prevenzione generale, si potrebbe pensare di integrare la proposta di disciplina della Commissione Grosso nel seguente modo: ‘‘L’imputabilità non è altresì esclusa quando l’agente si è messo in stato di incapacità con inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto realizzato, o questo era comunque da lui prevedibile, e il fatto stesso si sia realizzato a causa dello stato di incapacità procurato’’ (12). GIOVANNI FIANDACA Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo

(12) Comunque sia, un modello di disciplina come quello in questione (anche se mantenuto nella formulazione originaria) solleva un duplice problema rispetto: a) da un lato, al tipo di trattamento penale da riservare ai delitti commessi in stato di (colposa) incapacità, dei quali però sia prevista la punibilità soltanto a titolo di dolo; b) dall’altro, al punto se la pena prevista per i reati colposi risulti adeguata nei casi in cui il fatto lesivo venga dal soggetto incapace commesso ‘‘volontariamente’’. Nella prima relazione della Commissione, si suggerisce sub a) di introdurre una disciplina specifica, con la previsione di pene meno severe di quelle applicabili per la realizzazione propriamente dolosa; e sub b) di stabilire un aumento di pena commisurato alla pena edittale del reato colposo. Si tratta di proposte a prima vista non prive di plausibilità, ma che richiederebbero maggiori verifiche sotto il profilo della loro fondatezza politico-criminale.


PROSPETTIVE DI RIFORMA DELL’IMPUTABILITÀ NEL ‘‘PROGETTO GROSSO’’

SOMMARIO: 1. La rinuncia ad una definizione positiva dell’imputabilità. — 2. L’opzione a favore di un ‘‘modello aperto’’ di individuazione delle condizioni inabilitanti. L’esigenza di un intervento correttivo. - 2.1. (Segue): ‘‘modello aperto’’ ed esperienza straniera. — 3. Il secondo piano del giudizio sull’imputabilità: la comprensione dell’illiceità del fatto. — 4. Il trattamento sanzionatorio dei non imputabili. - 4.1. (Segue): il superamento del doppio binario. — 5. La disciplina della capacità ridotta. — 6. L’eliminazione delle ‘‘finzioni di imputabilità’’.

1. La rinuncia ad una definizione positiva dell’imputabilità. — L’imputabilità costituisce tutt’oggi uno dei punti più controversi del diritto penale, con cui prima o poi ogni ordinamento, italiano o straniero, ha dovuto fronteggiarsi. Si tratta di una componente del reato tra le più discusse, la cui disciplina presuppone una delicata presa di posizione tra esigenze opposte: la prevenzione, da un lato, e il garantismo, dall’altro. Il tema ritorna di grande attualità alla luce delle recenti prospettive di riforma; da ultima quella offerta dal progetto Grosso (1), che nell’ambizioso tentativo di ridefinire la parte generale del codice penale, propone una disciplina dell’imputabilità con molti aspetti innovativi, inevitabilmente destinata a rianimare il dibattito dottrinale in materia. A differenza del codice vigente, che notoriamente definisce l’imputabilità all’art. 85 c.p. come la ‘‘capacità di intendere e di volere’’, il progetto richiamato rinuncia a darne una spiegazione in positivo, limitandosi a disciplinare le cause che la escludono o la diminuiscono (2). La scelta nasce dalla constatazione del carattere meramente pleona(1) Si tratta del progetto preliminare di riforma del codice penale, parte generale, ad opera della Commissione ministeriale, presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso e istituita con d.m. 1 ottobre 1998 dall’allora Guardasigilli Giovanni Maria Flick con l’incarico di elaborare un documento d’indirizzo (v. questa Rivista, 1999, p. 600 ss.). Successivamente la Commissione ha avuto l’incarico dal ministro Diliberto, poi confermato dal ministro Fassino, di predisporre un progetto di riforma della parte generale il cui articolato, insieme alla relazione illustrativa di accompagnamento, approvati dalla stessa Commissione nella seduta del 12 settembre 2000 e modificati con quella del 26 maggio 2001, sono consultabili sul sito ufficiale del ministero: www. giustizia.it e in questa Rivista, 2001, p. 575 ss. (2) Sottolinea al riguardo la BERTOLINO, Fughe in avanti e spinte regressive in tema di imputabilità penale, in questa Rivista, 2001, p. 850, come l’imputabilità diventi per questa via un ‘‘riflesso positivo di un concetto negativo’’.


— 880 — stico della formula adoperata dal legislatore del ’30, oltre che dall’incertezza che fin dalle origini aleggia sui suoi confini. La menzione separata delle due capacità suscita riserve, tenuto conto che, alla luce delle moderne conoscenze psicologiche, intelligenza e volontà appaiono come funzioni influenzantesi vicendevolmente. Parallelamente, si è avviato un processo di ampliamento dell’imputabilità anche alla sfera affettiva, poiché la tradizionale separazione della personalità psichica in tre elementi distinti — sentimento, intelligenza e volontà — ha ceduto il passo di fronte all’affermazione, sempre più diffusa, del principio di indivisibilità della psiche umana (3). La disciplina proposta nell’Articolato sembra, quindi, aver dato giustamente credito alle critiche, da tempo manifestate, sull’opportunità del mantenimento di una formula così generica per indicare l’imputabilità, che, come tutti i concetti ‘‘disposizionali’’, è più facilmente individuabile in negativo (4). Sono rimaste, invece, deluse le speranze di quanti avevano suggerito che, in sede di riforma, si desse all’imputabilità una collocazione all’interno del reato, superando la sistematica del codice attuale (5). Il progetto ministeriale richiamato ne ha inserito la disciplina nel titolo IV dedicato alla pena (6), mentre sarebbe stato più opportuno ricondurla nel titolo II, (3) In tal senso già DE MARSICO, Sui rapporti tra psicopatia e diritto penale, in La Scuola positiva, 1956, p. 16 ss. Conf. FILASTRÒ, Vizio parziale di mente ed infermità psichica, in Giust. pen., 1969, p. 487 ss.; BARCELLONA, La valutazione giudiziaria delle personalità psicopatiche, in Giust. pen., 1979, p. 499; TAGLIARINI, L’imputabilità nel progetto di nuovo codice penale, in Ind. pen., 1994, p. 465. (4) Così, tra gli altri, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p.te generale, Bologna, 2001, p. 296. (5) V., ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1996, Pre-Art. 85/5. Sulla problematica della collocazione sistematica dell’imputabilità v. pure BEROLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, p. 159 ss., p. 505 ss.; ID., Fughe, cit., p. 854 s.; TAGLIARINI, L’imputabilità, cit., p. 463; MILITELLO, L’errore del non imputabile fra esegesi, dogmatica e politica criminale, in questa Rivista, 1996, p. 547 ss.; MANNA, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzioni. Dalle ‘‘finzioni giuridiche’’ alla ‘‘terapia sociale’’, Torino, 1997, p. 210 ss.; ROTONDO, Riflessioni su responsabilità personale e imputabilità nel sistema penale dello stato sociale di diritto, in questa Rivista, 1997, p. 485 ss.; CANESTRARI, La responsabilità colpevole nell’articolato della parte generale del progetto Grosso, in questa Rivista, 2001, p. 898 s. (6) La tesi dell’imputabilità come capacità di pena è sostenuta in dottrina, fra gli altri, da ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, p.te generale, Milano 2000, p. 324 ss.; GRISPIGNI, La sistematica della parte generale del diritto penale, in Riv. dir. penit., 1934, p. 1226 ss. Particolarmente critico sulla scelta sistematica della Commissione, MOCCIA, Considerazioni sul sistema sanzionatorio nel Progetto preliminare di un nuovo codice penale, comunicazione scritta alla Conferenza nazionale sul Progetto preliminare di riforma del codice penale, organizzata dall’I.S.I.S.C. a Siracusa, dal 3 al 5 novembre 2000, 13 datt., per il quale ‘‘Ciò potrebbe significare l’accoglimento dell’idea di una rilevanza della non imputabilità soltanto ai fini della predisposizione di un’offerta particolare di recupero sociale; tuttavia, una tale soluzione presupporrebbe il superamento del concetto di colpevolezza, [...] la scelta di


— 881 — relativo alla colpevolezza (7). La soluzione iniziale è stata mantenuta anche dopo le ultime modificazioni apportate al progetto preliminare dalla Commissione ministeriale, nella seduta del 26 maggio 2001, le quali hanno fatto seguito all’animato dibattito sollevatosi dopo la pubblicazione dell’articolato originario (8). Innanzitutto, pare opportuno precisare che la definizione dell’imputabilità come capacità di pena può ritenersi esatta, sebbene ancora su un piano formale. Certamente, lo scopo giuridico della categoria è quello di non consentire l’applicazione della pena all’incapace. Sulle motivazioni atte a giustificare tale esenzione occorre però fare maggiore chiarezza. Prima ancora di essere considerato inidoneo destinatario della pena, il non imputabile non è capace di colpevolezza. Non ha senso muovere un rimprovero ad un soggetto del tutto privo della possibilità di agire diversamente al momento del fatto e che non sia in grado di esprimere un giudizio sul significato del proprio comportamento, né di conformarsi a tale comprensione. Un decisivo avallo per la ricostruzione dell’imputabilità in termini di capacità di colpevolezza è fornito dalla ormai ‘‘storica’’ (9) sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 (10), che, com’è noto, ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 5 c.p. relativamente alla non ammissibilità della scusabilità dell’errore inevitabile sul precetto. La Consulta ha, in quell’occasione, recepito i migliori spunti dottrinali in materia, riconoestromettere la considerazione dell’imputabilità dal Titolo relativo al reato rivela una grave ambiguità nell’individuazione dei rapporti tra imputabilità, colpevolezza e prevenzione’’. (7) I due precedenti progetti di riforma del codice penale italiano, quello offerto dallo Schema di disegno di legge delega al Governo del 1992 e il disegno di legge di iniziativa dei senatori Riz e altri, dell’agosto del 1995, inquadravano l’imputabilità nel libro relativo al reo e alla persona offesa dal reato, ricalcando l’impostazione tradizionale che ne esclude la riconducibilità nell’alveo della colpevolezza. Critici su questa scelta, in particolare con riferimento alla proposta del 1992, TAGLIARINI, L’imputabilità, cit., p. 465 s.; MANNA, L’imputabilità, cit., p. 210. Ridimensiona, invece, il problema BRICOLA, Le definizioni normative nell’esperienza dei codici penali contemporanei e nel progetto di legge delega italiano, in CADOPPI (a cura di), Il problema delle definizioni legali nel diritto penale, 1999, p. 180, specificando come quella dell’imputabilità non sia una definizione in senso stretto, poiché non contiene un criterio di disciplina, ma è meramente espressiva di una certa visione dogmatica, che non ha impedito alla dottrina di configurarla nell’ambito della colpevolezza. (8) Fra i numerosi convegni che ne sono seguiti merita di essere ricordato quello organizzato dall’I.S.I.S.C. a Siracusa, dal 3 al 5 novembre 2000; nonché quelli organizzati dalle Università di Firenze, di Pisa, di Foggia dal 10 all’11 novembre 2000 (quest’ultimo, in particolare, proprio sull’imputabilità) e di Pavia, dal 10 al 12 maggio 2001. (9) L’espressione è di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 720, cui si rinvia anche per la bibliografia di riferimento. (10) C. Cost., 24 maggio 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686, con nota di PULITANÒ, Una storica, cit. e in Foro it., 1988, I, p. 1385 ss., con nota di FIANDACA, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: ‘‘prima lettura’’ della sentenza n. 364/88.


— 882 — scendo al principio della personalità della responsabilità penale, di cui all’art. 27, comma 1, Cost., il meritato ruolo centrale del sistema penale. La sentenza richiamata ponendo, inoltre, a fondamento della colpevolezza la garanzia per il cittadino della ‘‘certezza di libere scelte d’azione’’, consente una reinterpretazione del reato come l’illecito commesso da un soggetto potenzialmente libero, donde la necessità di una compenetrazione psicologica tra fatto e autore. Questa esigenza emerge ancora maggiormente alla luce del terzo comma dello stesso articolo, che sancisce la finalità rieducativa della pena, poiché il carattere specialpreventivo della sanzione penale acquista un senso solo se rapportato alla possibilità della sua percezione. L’espletamento del finalismo rieducativo della pena presuppone, dunque, che l’autore del reato abbia manifestato ribellione o, quantomeno, indifferenza verso il bene giuridico tutelato e perciò la consapevolezza di commettere un fatto penalmente illecito. La stessa Commissione Grosso, del resto, chiarisce nella Relazione di accompagnamento del progetto preliminare che l’inimputabilità, prima ancora di rendere irragionevole il ricorso alla pena, determina l’impossibilità di muovere ‘‘un rimprovero di colpevolezza’’ (11): sarebbe stato, pertanto, coerente con tali premesse, oltre che preferibile per i motivi appena espressi, l’esplicazione di questa ricostruzione interpretativa anche in chiave sistematica, sulla scia di quanto è accaduto in altri ordinamenti (12). In verità, l’inserimento della disciplina dell’imputabilità nella parte dedicata alla colpevolezza è stato proposto in seno alla Commissione di studio, ma non realizzato, sul rilievo che costituisse un problema di carattere secondario. Si è ritenuto eccessivo, in altri termini, ricercare a tutti i costi un parallelo tra la teoria giuridica e la topografia del codice (13), sul presupposto della non problematicità della natura dell’istituto in (11) V. Relazione di accompagnamento all’articolato preliminare, 4.1, punto 1 in www.giustizia.it. e in questa Rivista, 2001, 574. (12) La riconduzione dell’imputabilità nell’alveo della colpevolezza è stata suggellata normativamente nel 1975 nel codice penale tedesco. Il vecchio § 51, sull’infermità mentale, è stato allora trasferito dalla parte relativa alle cause di esclusione o riduzione della pena, a quella dedicata ai fondamenti della punibilità. Ma, soprattutto, si è sostituita alla definizione dell’imputabilità, quale Zurechnungsfähigkeit (capacità di imputazione), quella di Schuldfähigkeit (capacità di colpevolezza). Più di recente, il legislatore spagnolo e quello portoghese del 1995 hanno disciplinato l’imputabilità nella parte relativa alle cause che esimono dalla responsabilità e il codice francese del 1993 fra quelle di irresponsabilità o di attenuazione della responsabilità. (13) Ritiene che tale ‘‘questione non ha la dignità di questione ‘dogmatica’’’ ma è solo ‘‘questione di mera ‘estetica’ del codice penale, del tutto irrilevante’’, PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del codice penale, in questa Rivista, 2001, p. 13.


— 883 — esame e della sufficiente chiarezza del messaggio normativo (14). Ad una radicale presa di posizione sistematica, si è preferito, quindi, un approccio dichiaratamente ‘‘soft’’ (15). Tuttavia, sebbene si riconosca la maggiore delicatezza della sostanza della disciplina rispetto alla sua forma e sia comunque chiaro, attraverso una ‘‘lettura intelligente’’ del Progetto, come l’imputabilità abbia ‘‘a che fare’’ con la colpevolezza (16), non si capisce perché teoria giuridica e topografia del codice non possano corrispondere. D’altronde, a non scemare le riserve sul punto contribuisce la relazione esplicativa delle ultime modificazioni al progetto preliminare di riforma, laddove motiva la decisione di confermare l’attuale sistematica rilevando che ‘‘la collocazione prescelta dell’imputabilità lascia in realtà libero l’interprete di ricostruire dogmaticamente gli istituti nel modo che ritiene più opportuno’’ (17). Per questa via, come è stato opportunamente sottolineato, si genera ‘‘una non spiegabile difformità tra articolato e Relazione, nel momento in cui quest’ultima [...] ha accolto l’idea dell’imputabilità-colpevolezza’’ (18). 2. L’opzione a favore di un ‘‘modello aperto’’ di individuazione delle condizioni inabilitanti. L’esigenza di un intervento correttivo. — Il testo originario del progetto Grosso del 2000 prevedeva, fra le cause di esclusione dell’imputabilità, accanto all’infermità, la sola ad essere attualmente richiamata dal vigente art. 88, un’‘‘altra grave anomalia’’. La Commissione ministeriale avrebbe quindi optato per l’adozione di una formula elastica del vizio di mente, mirando a garantire un giusto collegamento tra l’operato del giudice e l’indispensabile attività ausiliaria degli esperti. L’impiego di una clausola definitoria aperta avrebbe il dichiarato fine di realizzare ‘‘un flessibile adeguamento al mutare (al progresso) delle conoscenze scientifiche e in genere delle concezioni pertinenti’’ (19), cosic(14) Queste, in sintesi, le giustificazioni espresse dallo stesso PULITANÒ nelle osservazioni conclusive del Convegno: Verso un codice penale Modello per L’Europa, la parte generale, II, ‘‘Imputabilità e misure di sicurezza’’, Foggia, 10 e 11 novembre 2000. (15) Così, esplicitamente, PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 17. (16) L’invito ad operare una lettura intelligente dell’articolato è rivolto da PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 16. (17) V. www.giustizia.it, il punto 5.1 della relazione illustrativa delle modifiche apportate all’articolato con la seduta del 12 maggio 2001. (18) BERTOLINO, Fughe, cit., p. 854 s. (19) V. Relazione di accompagnamento al progetto preliminare, 4.1, punto 1, cit., p. 634. L’importanza di garantire un nesso tra diritto penale e sapere scientifico, in relazione ad alcuni fondamentali istituti di parte generale, tra cui, naturalmente anche l’imputabilità, è stata ribadita di recente da PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 13.


— 884 — ché si aprirebbe la strada alla rilevanza dei diversi paradigmi della malattia mentale prospettati dalla scienza psichiatrica (20). È risaputo che nelle intenzioni dei compilatori del codice penale del ’30 il richiamo all’infermità avrebbe dovuto circoscrivere l’ambito di applicabilità della norma ai soli casi in cui il vizio di mente afferisse ad una forma patologica, riconducibile, in base alla sintomatologia presentata, a ben precise tavole nosografiche. Sennonché, la scelta operata a quel tempo, incentrata su un modello c.d. medico o biologico della malattia mentale, ha via via perduto il monopolio nell’ambito della psichiatria, per lasciare spazio ad un paradigma di tipo psicologico prima e di tipo sociologico successivamente. Più in particolare, la nozione di infermità di carattere medico, che risale all’ottocento ed è espressione dell’avvento dello Stato borghese-liberale, ha segnato il passaggio da una concezione mistica della follia, con una sorta di immunità del folle (21), ad un’idea della devianza come pericolo dal quale difendersi. Il compito di controllo e di cura dei delinquenti infermi di mente veniva così affidato alla scienza psichiatrica, che offriva allora requisiti di stabilità e di certezza (22), identificando l’infermità in una malattia che colpisce il cervello e della quale risulterebbero sempre verificabili l’eziologia, i sintomi e gli esiti (23). In pieno positivismo, richiedere il riscontro clinico di un’origine organica del disturbo mentale rispondeva al valore delle garanzie caratterizzanti l’Illuminismo penalistico. L’assoluta incapacità dell’infermo di mente, la sua pericolosità e la necessità del suo isolamento in un manicomio erano, allora, convinzioni diffuse e comuni alla psichiatria, alla società e al diritto (24). (20) Sui diversi paradigmi della malattia mentale v. BERTOLINO, La crisi del concetto di imputabilità, in questa Rivista, 1981, p. 190 ss.; ID., Il nuovo volto dell’imputabilità penale dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzionale-garantista, in Ind. pen., 1998, p. 367 ss. (21) V., sul punto, BALBI, Infermità di mente ed imputabilità, in questa Rivista, 1991, p. 853, ma già ALIMURA, I limiti ed i modificatori dell’imputabilità, 1896. (22) Riferimenti in BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 369; per un’analisi storica sulla nascita e l’evoluzione della psichiatria forense, v. CARRIERI-CATANESI, La perizia psichiatrica sull’autore di reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 15 ss. e, più ampiamente, FORNARI, Trattato di psichiatria forense, Torino, 1997. (23) La concezione medico-positivista spiegava ogni comportamento umano come un problema di fisiologia neuromuscolare e i disturbi mentali come malattie del cervello. Ad oltre un secolo di distanza dalle sue origini questa impostazione della psichiatria, di tipo scientifico-naturalistico, non può ritenersi del tutto abbandonata, come dimostrerebbero, tra l’altro, la fondazione nel 1978 della Società italiana di Psichiatria Biologica, o gli studi del prof. Kety, dell’Harvard Medical School, che individua una base organica anche nei disturbi dell’affettività. Per più ampi riferimenti, SMIGLIANI, Imputabilità e anomalie della personalità e del carattere, in Giust. pen., 1986, p. 152. (24) PONTI, Il dibattito sull’imputabilità, in CERETTI-MERZAGORA (a cura di), Que-


— 885 — Nel ’900, tuttavia, la ricostruzione della malattia mentale ha subìto le influenze della Psicoanalisi di Freud e delle sue successive elaborazioni; è da quel momento che la iniziale sintonia tra psichiatria e giustizia sul concetto di infermità mentale ha iniziato a vacillare. Secondo tale innovativo orientamento sarebbe fondamentale, nello studio del fenomeno, individuare le leggi che regolano gli avvenimenti psicologici nella vita della psiche, donde la valorizzazione di fattori interpersonali, di carattere dinamico, più che di quelli biologici, di tipo statico. In quest’ottica il concetto di infermità si allarga fino a comprendere non solo, né in termini di stretta necessità (25), le psicosi organiche, bensì anche, almeno potenzialmente, qualsiasi disturbo morboso dell’attività psichica (psicopatie, nevrosi, ecc.). L’accertamento dell’imputabilità andrebbe, pertanto, condotto caso per caso, ed i parametri da seguire in questa operazione sarebbero quelli della compromissione dell’Io, del suo legame con le dinamiche psicologiche alla base del delitto, e della quantificazione dell’alterazione del rapporto con la realtà (26). L’interesse si sposta, così, dalla persona-corpo alla persona-psiche, consentendo un recupero di quella soggettività dell’uomo che nel precedente modello medico, fautore di una concezione oggettivizzante del malato, era venuta meno (27). Intorno agli anni ’60-’70 si è, infine, affermato un terzo paradigma della malattia mentale, c.d. sociologico, che l’ha considerata come disturbo psicologico avente una origine sociale, dovuto, cioè, non più ad una causa individuale di natura organica o psicologica, bensì a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive ed opera (28). stioni sull’imputabilità, Padova, 1994, p. 2 ss.; MERZAGORA, Scene da un matrimonio. I rapporti fra psichiatria e diritto, in CERETTI-MERZAGORA (a cura di), Questioni, cit., p. 97 ss. (25) È convinzione sempre più diffusa che anche chi soffra di disturbi conclamati come le psicosi possa avere dei momenti di lucidità. Si tratta di un’idea che deriva anche dalla nota l. 180 del 1978, che ha fatto emergere la c.d. ‘‘quota di responsabilità’’. (26) Riesaminate in chiave psico-dinamica le malattie mentali vengono ad essere unitariamente considerate come ‘‘disarmonie dell’apparato psichico, in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa per il soggetto più significante della realtà esterna. Quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale si manifesta la malattia mentale’’, così BERTOLINO, La crisi del concetto di imputabilità, in questa Rivista, 1981, p. 201. (27) GRECO-CATANESEI, La malattia mentale e la giustizia penale, Milano, 1988, p. 6. (28) Da questo originario nucleo della psichiatria sociale hanno tratto origine indirizzi più radicali che hanno estremizzato il ruolo dei fattori sociali, fino alla corrente c.d. dell’‘‘antipsichiatria’’, la quale, come denota la sua stessa denominazione, si è posta in netta polemica con la psichiatria tradizionale. L’antipsichiatria rifiuta di ammettere le malattie mentali come fenomeno psicopatologico, ravvisandone alla base un disadattamento biologico giustificato dalle disfunzioni della società. Si finisce così per innescare un processo di liberalizzazione che, aspirando ad una parificazione del malato di mente autore di reato, quale soggetto di diritto, agli altri soggetti imputabili, porterà alla nota l. 180 del 1978, che ha abolito i manicomi comuni, e, in termini ancora più radicali, al d.d.l. n. 177 del 29 marzo 1983, seguito dal progetto dell’on. Corleone del 4 luglio 1996; dal d.d.l. n. 3668 del 15 di-


— 886 — I mutamenti intervenuti sulla nozione dell’infermità mentale nella scienza psichiatrica (29), qui brevemente sintetizzati, si sono ripercossi in seno alla giurisprudenza, trascinandola, inevitabilmente, in direzioni a volte anche diametralmente opposte, pertanto il giurista che si trovi ad affrontare questa materia vive un profondo disorientamento. Un indirizzo giurisprudenziale, del tutto prevalente nel passato, ma ancora oggi molto diffuso, rimane ancorato ad una nozione di tipo medico-organico della malattia mentale (30). Diversamente, nelle pronunce più recenti, si registra una limitata apertura verso il paradigma psicologico (31), che consente di annoverare tra gli incapaci di intendere e di volere anche i soggetti affetti da nevrosi o psicopatie, qualora queste si manifestino in modo particolarmente intenso (32). Nessun riscontro nella prassi ha, invece, il modello sociologico cembre 1998, di iniziativa del sen. Milio e dal Progetto di legge n. 5503 del 1o febbraio 1999 dell’on. Biondi, tutti a favore dell’abolizione della distinzione tra soggetti imputabili e non imputabili. Su questi aspetti e per le relative critiche, v. BERTOLINO, Il nuovo volto, p. 378 ss.; CARRIERI-CATANESI, Psichiatria e giustizia: una crisi di ‘‘crescita’’, in CERETTI-MERZAGORA (a cura di), Questioni, cit., p. 89 ss.; SELMINI, L’origine, lo sviluppo e gli esiti del processo di responsabilizzazione dei malati di mente autori di reato, in Dei delitti e delle pene, 1994, 2, p. 29 ss.; MANNA, L’imputabilità, cit., p. 198 ss.; PULITANÒ, L’imputabilità come problema giuridico, in DE LEONARDIS-GALLIO-MAURI-PITCH (a cura di), Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, Milano, 1988, p. 137 ss.; CARRIERI-CATANESI, La perizia psichiatrica, cit., p. 24. (29) Per un panorama della psichiatria attuale, definito dalla stessa autrice ‘‘drammaticamente proteiforme’’, si rinvia a BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 378 ss. e, meno recentemente, a FIORAVANTI, Le infermità psichiche nella giurisprudenza penale, Padova, 1988. (30) V., ad es., Cass., 9 maggio 1983, in Giust. pen., 1984, p. 539, per la quale ‘‘le semplici anomalie della personalità, del carattere e del sentimento, non derivanti da tare psicologiche, i disturbi del sistema nervoso privi di substrato organico o non aventi origine da lesioni organiche non costituiscono infermità mentale’’. Conf. Cass., 10 gennaio 1984, in Cass. pen., 1985, p. 881; Cass., 26 novembre 1984, in Riv. pen., 1986, p. 101; Cass., 29 novembre 1984, ivi, 1985, p. 1127; Cass., 13 febbraio 1998, in Cass. pen., 1999, p. 1451; Cass., 7 dicembre 2000, in Guida al dir., 2001, 19, p. 91. Pur richiedendo l’origine organica dell’infermità mentale, non pretendono una precisa classificazione clinica del disturbo, fra le altre, Cass., 11 maggio 1987, in Riv. pen., 1988, p. 729; Cass., 6 aprile 1987, ivi, 1988, p. 400; Cass., 4 luglio 1996, ivi, 1988, p. 1367; Cass., 17 aprile 1997, in Cass. pen., 1999, p. 2531. (31) Cass., 22 aprile 1997, in CED Cassazione, 207825; Cass., 4 marzo 1997, in Ind. pen., 1998, p. 362; Cass., 25 febbraio 1991, in CED Cassazione, 185322; Cass., 7 luglio 1989, in CED Cassazione, 182181 e in Giust. pen., 1990, II, p. 430; Cass., 28 aprile 1986, in Cass. pen., 1987, p. 2127; Cass., 15 dicembre 1986, n. 14722. (32) Davvero emblematico di queste diverse impostazioni interpretative del vizio di mente appare il caso Chiatti, per il quale, mentre la sentenza di primo grado ha escluso la non imputabilità, poiché pur riconoscendolo affetto da numerosi disturbi della personalità, non sono stati ritenuti tali da raggiungere il ‘‘rango’’ di vere e proprie psicosi, con una chiara adesione al paradigma c.d. medico della malattia mentale, la Corte d’Assise d’appello di Perugia (sent. 11 aprile 1996, in Ind. pen., 1998, p. 359), confermata dalla Suprema Corte (Cass., 4 marzo 1997, in Ind. pen., 1998, p. 362), aderendo al più evoluto indirizzo psicolo-


— 887 — della infermità, per l’ovvia ragione che il suo accoglimento finirebbe per allargare smisuratamente l’ambito della inimputabilità (33). La malattia mentale, in definitiva, non si presta a rigide classificazioni, per cui si tende oggi a riconoscerle un’origine plurifattoriale (34). Lo sforzo compiuto dal progetto ministeriale a favore di una soluzione aperta merita, quindi, un sicuro apprezzamento, ma è sull’adeguatezza della tecnica di estensione adoperata che si sono da subito sollevate perplessità. Da un lato, il riferimento alla ‘‘grave anomalia’’ non ha riscontrato il favore di una parte della moderna scienza psichiatrica (35), che rivendica al suo posto l’impiego del concetto più ristretto e scientifico di ‘‘disturbo mentale’’, quale modello comportamentale o psicologico clinicamente significativo (36). Dall’altro, anche in campo strettamente penale si è notato come, a differenza di molti codici penali stranieri, in cui il richiamo all’anomalia come clausola di chiusura del sistema assume carattere residuale, comprendendo solo casi non riconducibili ad altre ipotesi dettagliatamente previste (37), la soluzione del progetto italiano sarebbe chiaragico, ha riconosciuto la seminfermità mentale del Chiatti, facendo leva sulla sua ‘‘devastante immaturità di fondo’’. (33) Nega la sufficienza del disadattamento sociale ai fini del riconoscimento dell’infermità mentale, ad esempio, Cass., 24 marzo 1986, in Cass. pen., 1987, n. 1068; Cass., 19 aprile 1985, in Riv. pen., 1986, p. 324; Cass., 21 giugno 1979, in Giust. pen., 1980, p. 1045; Cass., 27 novembre 1978, in Giust. pen., 1979, II, p. 693. Discorso diverso è, ovviamente, quello del rilievo che i fattori sociali possono assumere ai fini della commisurazione della pena, ex art. 133 c.p. V., sul punto, DOLCINI, La commisurazione della pena, Padova, 1979. (34) PONTI-MERZAGORA, Psichiatria e giustizia, cit., p. 60. (35) La locuzione ‘‘anomalia’’, usata nel progetto preliminare, in effetti, si presta a ricomprendere non soltanto le nevrosi, ma anche i disturbi psicopatologici, come quelli di ansia, del controllo degli impulsi, della personalità, quali la cleptomania, le parafilie o la pedofilia, ecc. Critici a riguardo MERZAGORA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit.; CANEPA, in Per un nuovo ‘‘Libro del codice penale. Pareri medico-legali sul disegno di legge n. 2038/s del 1995, in Ind. pen., 1996, p. 810; FORNARI, in Per un nuovo, cit., p. 812. (36) Così chiaramente FORNARI-ROSSO, Problemi metodologici e scopi della psichiatria sull’imputato, in Riv. it. med. leg., 1992, p. 508; TRAVERSO-CIAPPI, Disegno di legge di riforma del codice penale: note critiche a margine della nuova disciplina sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1997, p. 671; MERZAGORA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., richiamando la definizione di ‘‘disturbo mentale’’ contenuta nel DSM-III e da ultimo nel DSM-IV (Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali), la quale ha, tuttavia, sottolineato come la richiesta di un nesso eziologico tra la malattia ed il reato commesso potrebbe comunque fungere da freno ad un allargamento eccessivo dell’infermità mentale. Non manca chi, nel recupero del tanto criticato criterio nosografico, propone uno schema della malattia mentale da adottare in ambito forense ancora più riduttivo di quello offerto dal DSM, v. FORNARI, Psicopatologia e psichiatria forense, Torino, 1989, p. 129 ss. (37) Si pensi, ad esempio, al § 20 del StGB tedesco che contiene un’elencazione molto specifica dei disturbi psichici rilevanti, richiamando: i profondi disturbi della co-


— 888 — mente diversa. La ‘‘grave anomalia’’ risulta, difatti, affiancata ad un concetto altrettanto generico, qual è l’infermità, assumendo un valore uguale e simmetrico ad essa, col rischio di eccessive aperture (38). Né il riferimento alla ‘‘gravità’’ della stessa costituirebbe un argine efficace, poiché negli ordinamenti che già lo hanno recepito, si è rivelato quanto mai vago. Nessuno dei criteri elaborati per esplicarlo è riuscito pienamente nel suo intento chiarificatore (39). Così, ad esempio, è apparso insufficiente a comparare la gravità il c.d. ‘‘valore di malattia’’ (40), che ha sollevato problemi proprio in relazione ai disturbi di natura psicotica, come le anomalie della personalità e del carattere o, ancora, dell’affettività (41). Recependo le indicazioni emerse nel corso del dibattito scaturito dopo la presentazione dell’Articolato del progetto preliminare, la Commissione ha pensato bene, allora, di sostituire l’espressione ‘‘per infermità o altra grave anomalia’’ con quella ‘‘per infermità o altro grave disturbo della personalità’’. L’intento è chiaramente quello di limitare la scelta di fondo di un’apertura delle malattie mentali idonee ad incidere sull’imputabilità. Tale sostituzione, con tutta probabilità, sopirà le polemiche sollevate dalla precedente formula, che appaiono comunque eccessive. Contro quanti hanno paventato che la locuzione ‘‘altra grave anomalia’’, adoperata nel testo originario, rischiasse di estendere troppo il concetto, è, infatti, possibile replicare che l’operazione compiuta, pur se discienza; i disturbi psichici di natura patologica; la debolezza mentale e solo in chiusura, appunto, le altre gravi anomalie. Molto dettagliato è pure il § 11 StGB austriaco, che prevede accanto alla malattia mentale, la debolezza mentale, il disturbo profondo della coscienza e gli altri gravi disturbi psichici. (38) L’osservazione è di BERTOLINO, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., e adesso in Fughe, cit., p. 865 s. (39) Per una rassegna dei criteri utilizzati ai fini dell’individuazione della malattia mentale nella scienza psichiatrica v. PONTI, La perizia sull’imputabilità, in GULOTTA (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Milano, 1987, p. 640 ss. (40) Il criterio del valore di malattia è stato adoperato per la prima volta nella dottrina tedesca da MÜLLER SUUR, Zur Frage der strafrechtlichen Beurteilung von Neurosen, ma è stato recepito normativamente dal codice penale austriaco, il cui § 11 chiude l’elenco dei disturbi psichici rilevanti con l’inciso ‘‘altri gravi disturbi... equivalenti ad uno degli stati psichici’’ prima indicati. Particolarmente critico verso questo criterio, ritenuto addirittura ‘‘irreale’’, LACKNER, Prävention und Schuldunfähigkeit, in Festschr. Kleinknecht, München, 1985, p. 263 ss. Per più ampi riferimenti BERTOLINO, L’imputabilità, cit. p. 596 ss. (41) Per una recezione del criterio del valore di malattia nella giurisprudenza italiana v. Corte Ass. Milano, 26 maggio 1987, in Foro it., 1989, II, p. 28, in cui si riconosce che gli abnormi psichici, specie i nevrastenici e gli psicopatici, se normalmente non consentono di individuare gli estremi del vizio parziale di mente, possono, nei casi estremi, presentare ‘‘valore di malattia’’. Conf. Cass., 15 dicembre 1986, in Riv. pen., 1987, p. 881; Cass., 2 ottobre 1989, in CED Cassazione, 1821181; Cass., 14 settembre 1990, in CED Cassazione, 185322; Cass., 4 marzo 1997, cit.


— 889 — retta ad un ampliamento dell’infermità di mente, avrebbe comunque comportato una decisa restrizione rispetto alla precedente proposta per un nuovo codice penale del 1992, nota come Progetto Vassalli-Pagliaro (42). L’art. 34 del progetto da ultimo citato, nel processo di estensione delle cause di esclusione dell’imputabilità, è persino sembrato andare oltre gli insegnamenti degli ordinamenti stranieri, affiancando all’infermità, ‘‘l’altra anomalia’’, ma non richiedendone la gravità e prevedendo, addirittura, una disposizione di chiusura relativa ad ‘‘altre cause’’ (43). La mancata riproduzione nell’articolato Grosso di quest’ultimo inciso e la precisazione della necessità della gravità (44) dell’anomalia penalmente rilevante, attraverso la quale, si specifica nella Relazione di accompagnamento del progetto del 2000, ‘‘si intende comunque dare un preciso segnale di cautela’’ (45), erano già indicative di una apertura limitata. In secondo luogo, avverso quella parte della scienza psichiatrica che, come si è detto, contrasta l’impiego del concetto di ‘‘anomalia’’, per il suo carattere non prettamente scientifico, è bene considerare come l’uso di un termine meno ‘‘tecnico’’ non sarebbe poi così svantaggioso, considerando che neanche l’accezione di ‘‘disturbo della personalità’’, suggerita dai più al suo posto, e adesso fatta propria dalla Commissione, può dirsi piena(42) Si tratta del progetto elaborato da una commissione di giuristi istituita nel 1988 dall’allora Guardasigilli Vassalli, pubblicato su Documenti giustizia, 1992, n. 3, p. 325. Per un commento della disciplina sull’imputabilità da esso proposta v. FIORAVANTI, Ancora sul trattamento penale del sofferente psichico. Prospettive di riforma, in Pol. dir., 1993, p. 253; PONTI, L’infermità nel progetto di legge-delega per la riforma del codice penale, in Rass. it. crimin., 1993, p. 1019; MANNA, L’imputabilità, cit., p. 205 ss.; BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 404 ss. (43) L’art. 34 del Progetto Vassalli-Pagliaro elenca per esteso fra le cause scusanti: a) la minore età; b) l’infermità o altra anomalia o cronica intossicazione da alcool ovvero da sostanze stupefacenti; c) l’ubriachezza o l’azione di sostanze stupefacenti derivata da caso fortuito o forza maggiore; d) qualsiasi altra causa, sempreché abbiano escluso o grandemente scemata la capacità di intendere e di volere. Particolarmente critici verso l’impiego di una clausola troppo aperta come quella che fa riferimento ad ogni ‘‘altra causa’’, per l’eccessiva discrezionalità dei giudici e dei periti che ne conseguirebbe, e perché di fatto porterebbe al metodo di giudizio normativo puro, BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 406 ss.; TAGLIARINI, L’imputabilità, cit., p. 466 s.; MANNA, Imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza, verso quale riforma, in questa Rivista, 1994, p. 1320; FIORAVANTI, Nuove prospettive di riforma del trattamento penale del sofferente psichico. A proposito del recente schema di disegno di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, in BANDINI E ALTRI (a cura di), La tutela del sofferente psichico, Milano, 1993, p. 423. (44) Ancora più restrittivamente il progetto Riz, del 1995, richiede per aversi vizio totale che l’anomalia sia ‘‘gravissima’’, ma si tratta di una qualificazione che rischia all’opposto di restringere troppo, oltre ad incorrere nell’insuperabile empasse di differenziare il disturbo grave, comportante solo il vizio parziale, da quello gravissimo. V., sul punto, MERZAGORA, L’imputabilità nel disegno di legge n. 2038 (Libro primo del codice penale), in Rass. it. crim., 1996, p. 235 s.; TRAVERSO-CIAPPI, Disegno di legge, cit., p. 671 s. (45) V. Relazione di accompagnamento al progetto preliminare, 4.1, punto 2, cit., p. 635.


— 890 — mente condivisibile (46). Non manca chi (47) ha sottolineato che si tratti di un termine riduttivo e ampliativo al tempo stesso, essendo limitato da un lato alle sole psicopatie, per cui resterebbero fuori le nevrosi, e valendo dall’altro a ricomprendere una serie di anomalie psichiche non altrimenti classificabili. Quanto, infine, alla criticata inidoneità del requisito della gravità ad arginare un’interpretazione troppo lata dell’anomalia psichica, dovrebbe essere ormai chiaro come qualsiasi formula terminologica, sia essa la ‘‘gravità’’ o il ‘‘valore di malattia’’ o simili, si presti in concreto a facili manipolazioni. 2.1. (Segue): ‘‘modello aperto’’ ed esperienza straniera. — A ben vedere, non sembra in effetti che le preoccupazioni per le conseguenze di un allargamento delle cause di esclusione dell’imputabilità, le quali potrebbero giustificare le esposte riserve, abbiano un reale fondamento. Negli ordinamenti in cui l’apertura è stata già realizzata, come ad esempio quello tedesco, non si è infatti registrato un aumento spropositato di casi di proscioglimento per totale inimputabilità. Non si è verificata, cioè, la paventata ‘‘rottura dell’argine’’ (Dammbruch) a seguito delle troppe assoluzioni per incapacità di colpevolezza che ne sarebbero potute seguire e che, si temeva, avrebbero finito per sfaldare le esigenze generalpreventive del sistema penale e la sua efficacia (48). La situazione non cambia neppure guardando alla più recente modifica del codice penale spagnolo del 1995 (49), posto che, nonostante l’adozione di una formula generale di infermità (50), il problema rimane (46) In senso analogo FIANDACA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., il quale ha aggiunto come sarebbe stato forse preferibile precisare, a scanso di equivoci, che l’anomalia rilevante debba essere ‘‘psichica’’. La mancanza di questo inciso nell’art. 96 dell’articolato, presente invece nella relazione, potrebbe far sorgere il dubbio nell’interprete sulla possibile rilevanza di anomalie di carattere non psichico. Si è compiaciuto dell’utilizzo di un termine non strettamente tecnico nella legislazione spagnola MORALES PRATS, Realzione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. Nelle scienze psichiatriche critici, fra gli altri, FORNARI-ROSSO, Disturbi di personalità e imputabilità, in Riv. sper. freniatria, 1988, p. 1277. (47) BERTOLINO, Fughe, cit., p. 863 s., per la quale sarebbe stato meglio semmai l’utilizzo dell’espressione ‘‘altro grave disturbo mentale’’ o ‘‘altro grave disturbo psichico’’. (48) Paventava questo rischio, in Germania, KRÜMPELMANN, Die Neugestaltung der Vorschriften über die Schuldfähigkeit durch das Zweite Strafrechtsreformgesetz vom 4 Juli 1969, in ZStW, 1976, p. 6 ss. Sottolineano come i casi di proscioglimento sulla base dei § 20 e 21 StGB tedesco non abbiano, in realtà, subito alcuna variazione, tra gli altri, SCHREIBER, Bedeutung und Auswirkugen der neugefassten Bestimmungen über die Schuldfähigkeit, in NStZ, 1981, p. 49 ss.; BLAU, Prolegomena zur strafrechtlichen Schuldfähigkeit, in Jura, 1982, p. 401 ss. (49) Il nuovo Còdigo penal spagnolo è stato promulgato con la Ley Organica 10/1995 del 23 novembre 1995 ed è entrato in vigore il 24 maggio 1996. (50) Gli artt. 20 e 21 del nuovo codice penale spagnolo richiamano rispettivamente


— 891 — quello di superarne una interpretazione troppo restrittiva, tutt’oggi dominante (51). Sebbene sotto il profilo dogmatico possa, dunque, affermarsi, una volta per tutte, che nei codici richiamati anche le psicopatie, le nevrosi e persino i disturbi dell’affettività siano idonei ad assumere rilevanza sull’imputabilità, è solo la valutazione in concreto del grado di incidenza sulla capacità di comprensione dell’illecito che fa loro acquisire efficacia scusante. Ciò ha consentito che nell’applicazione pratica delle nuove normative prevalessero esigenze di politica criminale, addirittura ‘‘al di qua dei confini consentiti dal principio di colpevolezza’’ (52). Non ha allora molto senso aggrovigliarsi dialetticamente sulla scelta dell’espressione ‘‘anomalie psichiche’’ o ‘‘disturbi della personalità’’ e simili (53), poiché il vero problema non è tanto quello di stabilire la loro rilevanza in astratto, quanto quello di capire quando in concreto ciò possa avvenire. Il rigoroso principio dell’irrilevanza tout court di certe anomalie deve allora essere sostituito da una valutazione caso per caso della loro intensità rispetto al fatto commesso. Alla luce di queste considerazioni non è possibile illudersi che né la formula impiegata originariamente nel progetto Grosso, né quella proposta a seguito delle ultime modifiche dello stesso, possano avere di per sé una capacità risolutiva, ma resta decisamente valida la scelta compiuta a favore di un orientamento aperto della malattia mentale penalmente rilevante, che viene così legata alle più aggiornate acquisizioni scientifiche (54). L’allargamento delle cause di esclusione dell’imputabilità per infermità, tra l’altro, permette di allineare il nostro progetto di riforma alle più moderne codificazioni, che sembrano abbandonare un rigido modello definitorio, a favore di formule elastiche. È il codice penale tedesco del 1975 ad aver aperto la strada alla rile‘‘cualquier anomalia o alteración psichica’’, compreso il ‘‘trastorno mental transitorio’’ e il ‘‘miedo insuperable’’. (51) MORALES PRATS, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. (52) È quanto viene fatto rilevare, in relazione all’esperienza tedesca, da KRÜMPELMANN, Die Neugestaltung, cit., p. 23. (53) Cfr. INTRONA, Il progetto del nuovo codice penale: problematiche medico-legali, in Riv. it. med. leg., 1997, p. 109. (54) Nonostante le denunciate antinomie all’interno della moderna psichiatria, è solo garantendo il collegamento a questa scienza che si fa salva la base empirica della nozione dell’imputabilità, altrimenti si finisce per creare un concetto meramente normativo e, come tale, astratto. Cfr. BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 393. Sottolineano l’importanza della collaborazione del perito nell’opera di ridefinizione dell’imputabilità anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. P.te gen., cit., p. 295; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., Art. 85/5 ss.; PULITANÒ, L’imputabilità come problema giuridico, in DE LEONARDIS, (a cura di), Curare e punire, Milano, 1988, p. 134; MANNA, L’imputabilità, cit., p. 21.


— 892 — vanza dell’altra ‘‘grave anomalia psichica’’ e ad aver costituito, di conseguenza, il modello ispiratore principe delle legislazioni successive. Questa soluzione, come anticipato, è stata recepita, ad esempio, nel recente còdigo penal spagnolo del 1995, il quale a differenza del precedente, non definisce l’imputabilità e si limita a prevedere una clausola generale di infermità, che annovera anche ‘‘qualunque anomalia o alterazione psicologica’’ (55). L’inimputabilità, inoltre, non risulta più collegata automaticamente all’accertamento di una ‘‘alienazione di mente’’ (enajenaciòn) o di un ‘‘turbamento mentale transitorio’’ (trastorno mentale transitorio), ma si ha solo qualora il disturbo abbia reso impossibile la percezione dell’illiceità della condotta e l’uniformità del proprio comportamento a tale comprensione. Nello stesso senso, seppure meno dettagliatamente, si era mosso già il codice penale portoghese del 1982 (56), che qualifica non imputabile chi, al momento del fatto, a causa di un’ ‘‘anomalia psichica’’ sia incapace di comprendere l’illiceità del fatto e di determinarsi di conseguenza (57). Anche il nuovo codice penale francese del 1994, all’art. 122-1, parla genericamente di ‘‘disturbo psichico o neuropsichico che abbia annullato il discernimento della persona o il controllo dei suoi atti’’. E sorte analoga ha subìto il Nuevo Codigo Penal peruviano, promulgato il 3 aprile 1991 che, nell’art. 20, esclude la responsabilità penale di chi, a causa di anomalia psichica, grave alterazione della coscienza o per il soffrire di modificazioni della percezione, che incidono grandemente sul concetto di realtà, non possieda la facoltà di comprendere il carattere delittuoso del suo atto, o di determinarsi secondo tale valutazione. Similmente, nel codice penale sloveno del 1995, è prevista come causa di esclusione dell’imputabilità anche ‘‘l’altra anomalia psichica’’, che sia però ‘‘permanente e grave’’ (58). Poste queste premesse, si riafferma l’importanza di precisare meglio per l’avvenire il parametro in base al quale giudicare la gravità del disturbo. A tal fine sarebbe, però, preferibile che venisse accantonato l’uso di formule vuote come quella di ‘‘valore di malattia’’ o simili, per prestare, invece, maggiore attenzione alla capacità di disgregazione delle fun(55) Evidenzia come lo scopo di politica criminale perseguito dalla nuova disciplina del codice penale spagnolo in tema di imputabilità, sia analogo a quello che sottende al progetto Grosso, da ultimo, MORALES PRATS, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. (56) V. sul punto, FIGUEIREDO DIAS, Presuppostos da punicao e causas que excluema ilicitude e a culpa, in Jornadas de Direito Criminal o Novo Codigo Penal Portuguès e Legislacao Complementar, Lisboa, 1983, p. 75 ss. La legge del 1995 ha poi mutato il trattamento sanzionatorio dell’incapace. (57) Riferimenti in BERNARDIN-RENUCCI, in Legisl. pen., 1994, p. 521. (58) Senza questi requisiti l’anomalia psichica può essere causa del vizio parziale di mente, v. Il codice penale sloveno, Padova, 1998, trad. FISER-FOLLA-UKMAR.


— 893 — zioni psichiche, sì da individuare criteri specifici per ciascuna categoria di disturbi (59). E qui l’apporto della psicopatologia, che si occupa del trattamento e dell’osservazione pratica dei comportamenti dei malati di mente, potrebbe rivelarsi decisivo, soprattutto considerato che dispone, oggi, di un internazionale schema di riferimento: il DSM IV (60). Quel che soprattutto sembrerebbe in grado di garantire un utile delimitazione delle alterazioni psichiche rilevanti potrebbe essere la richiesta di un nesso eziologico tra disturbo psichico e specie di reato commesso (61). Porre il tipo di anomalia in relazione al determinarsi dell’azione delittuosa, tra l’altro, si rivelerebbe utile anche rispetto agli psicotici, considerata — lo si ribadisce — la non automaticità nei loro confronti del giudizio di non imputabilità, potendo anche costoro essere a volte dotati di una ‘‘quota di responsabilità’’ (62). L’accertamento del nesso eziologico imposto dal c.d. criterio causale dell’imputabilità (63), adottato in alcuni paesi (64), non è però dai più ritenuto necessario nel nostro ordinamento (65), alla luce del tenore lette(59) Per un analogo auspicio nella dottrina tedesca v. WITTER, Die Grundlagen für die Beurteilung der Schuldfähigkeit im Strafrecht, in Forensia, 1985, p. 37 ss. (60) Il riferimento al DSM vale ovviamente solo ai fini dell’impiego di un linguaggio comune e per la individuazione dei criteri generali per la diagnosi della malattia mentale, mentre si pone in guardia dalla sua adozione automatica in ambito forense. Nello stesso senso INTRONA, Se e come siano da modificare le vigenti norme sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1999, p. 694 s. e già ID., Il progetto, cit., p. 111. (61) Il rapporto con i crimini, in effetti, fungerebbe da argine delle malattie mentali rilevanti, essendo quasi assente in certe tipologie di disturbi, come ad esempio quelli d’ansia, e riscontrabile in altri, si pensi ai disturbi della personalità. In senso analogo, MANNA, L’imputabilità, cit, p. 209 ss.; ID., intervento al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. (62) È questa l’espressione usata da BRICOLA, La responsabilità penale dell’operatore della salute mentale: profili penalistici generali, in MANACORDA (a cura di), Tutela della salute mentale e responsabilità degli operatori, Perugia, 1989, p. 140. (63) V., DALGARD, Les problèmes posés par l’evalutation au moye de l’espertise psychiatrique de l’atténuation ou de l’exclusion de la responsabilité pénale, Relazione presentata al Settimo Colloquio di Criminologia del Consiglio d’Europa, tenutosi a Strasburgo il 25 agosto 1985, pp. 5 e 6 datt.; riferimenti già in ROMANESE, Lezioni di medicina legale e delle assicurazioni, Torino, 1945, p. 135. (64) Il Model Penal Code, elaborato dall’American Law Institute, ad esempio, stabilisce che ‘‘la condotta illecita deve essere il risultato di una malattia mentale o di un vizio che toglie la capacità sostanziale sia di apprezzare la illiceità della condotta che di adeguare la propria condotta alla legge’’. (65) CRESPI, voce Imputabilità, in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 774; PORTIGLIATTI-BARBOS-MARINI, La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, Milano, 1966, p. 58 ss. Manifestano invece giustificate riserve verso l’orientamento dominante FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 303. In giurisprudenza si riscontrano alcune pronunce più recenti in cui si è ritenuto necessario individuare il settore della personalità psichica deviato dal disturbo mentale per valutare l’incidenza, nel caso concreto, sul procedimento di determinazione e di attuazione del reato, v., ad es., Cass., 25 settembre 1984, n. 10386. Si tratta, tuttavia, di un varco limitato alle sole forme di ‘‘abnormità psichica’’, poi-


— 894 — rale del vigente art. 88 c.p., che collega l’incapacità alla condizione del soggetto nel momento del fatto, e non allo specifico reato commesso. In realtà, nonostante il silenzio della norma sul punto, sempre più spesso i periti, nel corso delle loro indagini, si soffermano sulla presenza di questo requisito, in virtù della frequente richiesta, da parte della magistratura, di evidenziare il percorso mentale che ha condotto alla commissione del delitto, per cercare di comprendere se e in quale misura il disturbo abbia avuto un ruolo nella scelta dell’agente (66). 3. Il secondo piano del giudizio sull’imputabilità: la comprensione dell’illiceità del fatto. — Diversamente dalla disciplina vigente, quella suggerita dall’originario progetto Grosso collega la non imputabilità alla impossibilità di ‘‘comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione’’. L’imputabilità sarebbe, quindi, definita in negativo e in chiave strettamente intellettualistica (67). Si tratta di una formula richiamata dal codice penale tedesco del 1975, e che è stata poi ripresa in molte legislazioni successive, fino ai più recenti codici spagnolo e portoghese. Nei §§ 20 e 21 del StGB tedesco, in particolare, si parla di incapacità di comprendere ‘‘das Unrecht’’ del fatto e di agire in conformità a tale rappresentazione (68), per cui il soggetto imputabile deve avere la consapevolezza del contenuto illecito del fatto commesso. Con ciò, naturalmente, non deve intendersi la coscienza dell’antigiuché nei casi di malattie conclamate questa ulteriore indagine non viene condotta. Interessante, però, una sentenza di merito del Trib. Bolzano, 21 gennaio 1982, in questa Rivista, 1983, p. 761, che ha riconosciuto lo stesso soggetto totalmente inimputabile in relazione ad alcuni fatti di reato, che risultavano collegati al disturbo psichico riscontrato (nel caso di specie trattavasi di una psicosi paranoica), e seminfermo rispetto ad un altro fatto non rapportabile alla devianza. (66) Su questa tendenza v. CARRIERI-CATANESI, La perizia psichiatrica, cit., p. 26 s. Per alcune pronunce che richiedono un ‘‘rapporto diretto’’ tra reato commesso e specifica anomalia del soggetto, v., ad es., Trib. mil. di Roma, 26 novembre 1964, in Temi Romana, 1964, III, p. 140; App. Roma, 15 marzo 1966, in Foro it., 1967, p. 57; Cass., 15 dicembre 1986, cit. (67) DONINI, La sintassi del rapporto fatto/autore nel ‘‘progetto Grosso’’, relazione alla Conferenza Nazionale sul Progetto preliminare di riforma del codice penale, organizzata dall’I.S.I.S.C a Siracusa, dal 3 al 5 novembre 2000, 12 del datt., che ritiene la formula adoperata nel progetto ‘‘un pò imprudente [...] così intellettualistica da compromettere la capacità di orientamento del dato’’ e lamenta la mancanza di un analogo richiamo nella definizione del dolo o dell’errore sugli elementi normativi. (68) Riferimenti alla disposizione del codice penale tedesco si ritrovano anche nella Relazione di accompagnamento all’articolato della Commissione Grosso. Il nuovo codice penale spagnolo, riprendendo la formula del codice tedesco, attribuisce rilevanza all’anomalia e alle altre alterazioni psicologiche solo nei casi in cui il soggetto ‘‘no pueda comprender la illicitud del hecho o actuar conforme a esa comprensiòn’’.


— 895 — ridicità del fatto, valutata alla stregua della norma incriminatrice, la cui ignoranza, com’è noto, è irrilevante ai sensi dell’attuale art. 5 c.p., bensì il suo significato offensivo, nella dimensione fattuale concreta, pregiuridica (69). Ecco perché, sin dai primi commenti della formula proposta è emersa la preferenza per una traduzione dell’espressione tedesca, anziché con il controverso concetto di ‘‘illiceità del fatto’’, recepito dal progetto italiano, con la locuzione di ‘‘contenuto antisociale del fatto’’ (70) o, ancora meglio, di ‘‘significato offensivo del fatto’’. Da qui l’opportuna scelta della Commissione di sostituire, con le ultime modifiche, l’inciso contestato con quello preferibile, perché meno equivoco, di ‘‘capacità di comprendere il significato del fatto’’. In realtà, anche se la norma vigente tace sul punto, è prevalsa già oggi l’interpretazione favorevole alla presenza della consapevolezza della dimensione offensiva del fatto, ma il Progetto, attraverso il riferimento espresso contenuto nell’art. 94 (originario art. 96), ha il merito di renderla imprescindibile (71). Il criterio di giudizio sull’imputabilità recepito dal legislatore della riforma è, dunque, di tipo misto o biologico-psicologico, non rinunciando, da un lato, alla diagnosi della malattia mentale e richiedendo, dall’altro, la valutazione del grado di incidenza del disturbo sulla comprensione del significato del fatto (72). Si tratta, del resto, del metodo di giudizio preferibile. Per un verso, infatti, il sistema psicopatologico o biologico puro, che lega la non imputabilità automaticamente alla diagnosi della malattia mentale, rischia comunque di sfociare in affermazioni presuntive (73). Per altro verso, il modello c.d. normativo puro, che, invece, prescinde dalla diagnosi della ma(69) Sono, infatti, logicamente prospettabili ipotesi in cui il soggetto agente si renda conto di realizzare un fatto vietato, ma non che sia realmente dannoso. (70) Ha suggerito questa formula, fra gli altri, DONINI, La sintassi, cit., 12 del datt. La consapevolezza del carattere sociale, tuttavia, si presta ad alcune critiche incontrovertibili, coinvolgendo nel giudizio di disvalore penale valutazioni di tipo etico-sociale, che dovrebbero, invece, esulare da un diritto penale laico. Critici verso questa formula, tra gli altri, PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 139; GALLO, Il dolo oggetto dell’accertamento, in Studium Urbinati, 1951-52, p. 253 ss. (71) Sembra, tra l’altro, che allorché la giurisprudenza vi abbia fatto richiamo, si sia trattato di affermazioni teoriche, ininfluenti rispetto alla soluzione dei casi concreti. (72) Sulla ricostruzione a due piani dell’imputabilità, l’uno c.d. psicopatologico, relativo alla diagnosi della malattia mentale e, l’altro, di tipo normativo, concernente l’accertamento del grado di incidenza del disturbo sulle capacità conoscitive e volitive del soggetto al momento del fatto, v. PULITANÒ, L’imputabilità, cit., p. 127 ss. (73) Questo metodo era applicato nel codice spagnolo, contro il dibattito dottrinale, anche dopo la riforma del 1982, ma non lo è più nel nuovo codice del 1995; vigeva inoltre in quello portoghese fino al 1982; infine, rimane tuttora, ma solo per alcuni disturbi, negli ordinamenti norvegese, finlandese, greco, e danese, peraltro anch’essi in via di riforma. Esso è recepito in pochissimi paesi essendo diffusa l’idea dell’irrinunciabilità del riferimento alla malattia mentale, mentre, il più delle volte, vi ricorre la prassi per sopperire alla genericità


— 896 — lattia mentale, valutando solo l’incidenza del disturbo sulla psiche del soggetto, ha sicuramente il merito di guardare al piano più interessante del giudizio di imputabilità, ma, concentrandosi unicamente sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, appare complicato ed arbitrario (74). Il metodo misto di giudizio, in definitiva, sembra la soluzione migliore, compensando l’esigenza di certezza del diritto con quella di una migliore tutela dell’infermo (75). In una prospettiva de iure condendo è, pertanto, condivisibile la scelta della Commissione di ricalcare la via già seguita dal codice Rocco, i cui vantaggi sono invero al momento traditi dalla genericità della formula utilizzata dall’art. 88 c.p. per definire il dato clinico. Occorre, a questo punto, valutare se la disposizione suggerita dal progetto Grosso per esprimere il doppio piano dell’imputabilità risulti meglio determinata di quella vigente. Nel tentativo di trovare un collegamento tra mondo normativo e quello dell’empiria — è stato acutamente osservato (76) —, bisogna evitare due estremi: cedere alla moda del momento o utilizzare formule così generiche da non riuscire a fornire alcuna indicazione. Ora, vero che il riferimento iniziale del progetto all’‘‘infermità o altra grave anomalia’’ paventava forse il secondo rischio, è pur vero che si trattava di un pericolo meno grave del primo. Se, dunque, una valutazione sostanzialmente positiva può esprimersi sull’inciso ‘‘grave disturbo della personalità’’, un’adesione convinta meritava già la formula inizialmente adottata dalla Commissione, pur sottintendendosi che in questo quadro il secondo piano di giudizio sull’imputabilità sembra, in ogni caso, destinato a mantenere un ruolo determinante (77). con cui è indicato dal legislatore il dato clinico. Così è accaduto, ad esempio, nel sistema francese prima della riforma del 1994, a causa dell’estrema genericità del termine usato di ‘‘demence’’. Analoga situazione si ha in Belgio, laddove l’art. 71 del codice penale fa riferimento allo ‘‘stato di demenza’’ o di ‘‘impulso a cui’’ il soggetto ‘‘non ha potuto resistere’’. (74) Il metodo normativo puro si sottrae, infatti, ad una verifica empirica per affidarsi prevalentemente a parametri di natura normativo-valutativa rischiando di sconfinare nella metafisica e, conseguentemente, di compromettere la stessa certezza del diritto. (75) Il sistema misto di giudizio è diffuso oltre che in Italia, anche nei paesi di Common Law, quali Inghilterra, Irlanda e U.S.A., e ancora nei paesi di lingua tedesca come Germania, Austria e Svizzera, inoltre è stato recepito, come si è detto, anche in Portogallo, Spagna e Perù. (76) Così PULITANÒ, nelle osservazioni conclusive al Convegno sull’Imputabilità e misure di sicurezza, cit. (77) La maggiore importanza dell’oggetto del giudizio d’imputabilità rispetto alla diagnosi dell’infermità mentale nel codice penale spagnolo è stata segnalata da MORALES PRATS, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit.


— 897 — 4. Il trattamento sanzionatorio dei non imputabili. — Una riforma della disciplina delle cause di esclusione dell’imputabilità per vizio di mente che possa dirsi davvero soddisfacente deve mirare, oltre alla specificazione del giudizio d’imputabilità, anche al perfezionamento del trattamento dei non imputabili (78). Occorre, in definitiva, recuperare quel deficit di certezza che, come si è potuto constatare, caratterizza inevitabilmente la diagnosi dell’infermità mentale, attraverso la logica del c.d. programma di scopo (79), tenendo conto, cioè, delle conseguenze sanzionatorie che ne scaturiscono. A tal fine, è necessario delineare forme di intervento consone agli scopi di prevenzione generale e speciale, e che siano il più possibile articolate (80). La precisa elencazione dei disturbi psichici rilevanti deve, in altri termini, essere coronata da un’altrettanto dettagliata alternativa di soluzioni sanzionatorie possibili; solo così è dato applicare, nel caso concreto, la misura più adeguata alle specifiche esigenze di cura e di controllo, nonché, ma solo in seconda istanza, di tipo generalpreventivo. Il progetto Grosso sembra aver compiuto un chiaro sforzo in questa direzione, da un lato, mantenendo un sistema di misure alternative alla pena vera e propria e, dall’altro, arrivando al superamento dell’ormai tanto criticato doppio binario. La Commissione di studio ha proposto, limitatamente al soggetto dichiarato totalmente non imputabile, una serie di misure ‘‘non punitive’’, individuate ai fini di prevenzione speciale e denominate di ‘‘sicurezza e riabilitative’’ (81). Nell’art. 96, comma 3 (originario art. 98, comma 4), dell’articolato si precisa poi che non si fa luogo all’applicazione e la misura viene revocata quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico. A differenza degli istituti orientati alla risocializzazione o alla terapia e simili, dunque, le misure di sicurezza e riabilitative costituirebbero l’extrema ratio, intervenendo solo allorché si riscontrino ‘‘esigenze comprovate e prioritarie di prevenzione dei delitti più gravi’’ (82). (78) Si tratta, nella scansione del giudizio dell’imputabilità, del c.d. terzo piano di valutazione. (79) Riferimenti al programma di scopo in BERTOLINO, L’imputabilità, cit., p. 668 ss.; ID., Il nuovo volto, cit., p. 411 ss.; ID., Fughe, cit., p. 868 ss. (80) Antesignano di questa tendenza è stato il codice penale spagnolo del 1983, che all’art. 8.1 aveva previsto la possibilità per il tribunale di sostituire il tradizionale internamento in un centro psichiatrico con una pluralità di misure alternative, tra cui il trattamento ambulatoriale. Su questi aspetti v. QUINTERO OLIVARES-MUÑOZ CONDE, La reforma penal de 1983, Barcellona, 1983, p. 71 ss. (81) Chiara la derivazione della denominazione di tali misure dalla categoria tedesca delle ‘‘Sicherung und Besserung’’, come, del resto, è riportato nella relazione di accompagnamento dell’articolato. (82) V. Relazione al progetto preliminare, cit., 4.1, punto 5, cit., p. 636.


— 898 — In questo quadro, l’art. 96, comma 1 (originario art. 98, comma 1), fissa il presupposto basilare dell’applicazione delle misure di sicurezza nel ‘‘bisogno di trattamento e controllo’’, che se, per un verso, rischia di attribuire alle misure medesime un carico di difesa sociale, per l’altro, è sicuramente meno evanescente dell’ambigua ‘‘pericolosità sociale’’ dell’incapace, attualmente richiesta. Rispetto al progetto Pagliaro il passo avanti compiuto dalla Commissione Grosso sembrerebbe evidente (83). L’art. 49 della proposta del 1992 prevedeva per l’infermo di mente ‘‘pericoloso’’ il ricovero in una struttura psichiatrica, sostituibile con un trattamento in libertà sorvegliata, quando questi potesse ‘‘ritenersi sufficiente a prevenire la commissione di reati’’, ovvero allorché le misure detentive apparissero ‘‘proporzionate alla gravità dei reati commessi e di quelli presumibili realizzati dal soggetto’’. A fondamento delle richiamate misure di sicurezza si era così mantenuta la dichiarazione di pericolosità sociale, nonostante da tempo i periti avessero esternato una certa resistenza a pronunciare questo tipo di giudizio, di carattere prettamente intuitivo (84) e, per di più, poco adatto alla mutata natura delle misure medesime. Se, infatti, la vaghezza del concetto di pericolosità si giustifica appieno in una concezione delle misure di sicurezza che si ‘‘aggiungono’’ alle pene, è, invece, destinata inevitabilmente a mostrare i suoi limiti allorché si pensi ad esse come ‘‘alternativa’’ alla pena tradizionale, con chiare tendenze rieducative (85). L’art. 36 del progetto Pagliaro aveva, comunque, radicalmente rinnovato il contenuto sostanziale della pericolosità in senso bio-patolo(83) Favorevoli all’adozione del solo e ‘‘reale bisogno di trattamento’’, in sostituzione del criticatissimo presupposto della ‘‘pericolosità sociale’’, BERTOLINO, L’imputabilità, cit., p. 668 ss.; ID., Il nuovo volto, cit., p. 412; MANNA, L’imputabilità, cit., p. 75, p. 230 ss., il quale propone come presupposto fondamentale delle misure di sicurezza, il ‘‘bisogno di terapia’’. (84) Sull’estrema vaghezza del concetto di pericolosità sociale v., MARINUCCI-DOLa CINI, Corso di diritto penale, 3 ed., Milano, 2001, p. 241 ss., i quali parlano di ‘‘giudizio prognostico intrinsecamente insicuro’’ e di ‘‘profonda crisi’’ della categoria, per cui ne auspicano una ridefinizione che, da un lato, la riferisca a classi ben determinate di reati e, dall’altro, innesti il giudizio relativo su una serie di elementi sintomatici, ossia su una base empirica di riferimento. Nella letteratura specialistica cfr. BANDINI-LAGAZZI, La pericolosità, cit., p. 76; ID., Nuove tendenze in tema di valutazione critica della imputabilità, in FERRACUTI (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologia e psichiatria forense, XIII, Milano, 1990, p. 1151 ss.; PETRINI, La prevenzione inutile, Napoli, 1996, p. 294 s.; MANNA, Imputabilità, pericolosità e misure di sicurezza: verso quale riforma?, in questa Rivista, 1994, p. 1426 ss.; GATTI, L’accertamento dell’imputabilità e della pericolosità sociale alla luce della situazione esistente in alcuni Paesi europei, in CANEPA-MARUGO (a cura di), Imputabilità e trattamento del malato di mente autore di reato, Padova, p. 55 ss. (85) Cfr. MANNA, L’imputabilità, cit., p. 3.


— 899 — gico (86), rendendone più accettabile il mantenimento. Quanto, poi, al suo accertamento, il secondo comma dello stesso articolo, in linea con l’avvenuta abrogazione dell’art. 204 c.p., aveva escluso ogni presunzione di esistenza o di persistenza della pericolosità. Nondimeno, la disciplina sanzionatoria prospettata nello schema di legge delega appariva nel complesso ‘‘esigua e lacunosa’’ (87). La funzione di recupero sociale dell’infermo rimaneva, ancora una volta, eccessivamente sacrificata dalla natura prettamente retributiva delle sanzioni previste (88). A ben vedere, tuttavia, neanche nel progetto Grosso il riferimento alla pericolosità scompare del tutto. Stando all’art. 99, comma 1, lett. a) e b), del testo originario dell’articolato, l’applicazione del ricovero in una struttura chiusa, ma anche delle altre misure di sicurezza, era subordinata oltre che al bisogno di trattamento o di controllo, al pericolo di reiterazione di delitti di aggressione in assenza di una di tali misure. Nel nuovo testo il richiamo alla pericolosità è stato invece mantenuto solo per il ricovero in una struttura chiusa. Quanto alla tipologia delle misure di sicurezza, il progetto Grosso, pur non essendo, sotto il profilo delle soluzioni sanzionatorie, particolarmente articolato, lo è sicuramente più del precedente ed è, anche sotto questo aspetto, preferibile. L’art. 97, comma 1 (originario art. 98, comma 2), della recente proposta, relativamente al non imputabile per infermità o altro grave disturbo della personalità (89), contempla: il ricovero in una struttura, con finalità terapeutiche (90); l’obbligo di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie, nonché quello di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie o di presentazione periodica ai servizi sociali (91). Si tratta di modalità di intervento sulla falsariga della misura del ricovero in un istituto di terapia sociale, che è stata introdotta in Germania (86) In particolare, si prevedeva un’unica forma di dichiarazione di pericolosità sociale ‘‘nei confronti dei soggetti totalmente non imputabili autori di reati o di un unico reato di particolare gravità, sempre che tali reati siano manifestazione della causa di non imputabilità’’. (87) Così, FIORAVANTI, Ancora sul trattamento, cit., p. 253 ss. (88) L’art. 48, comma 2, del progetto Pagliaro parlava di ‘‘strutture psichiatriche’’, sia giudiziarie che civili, ma non le definiva, per cui nulla impediva al legislatore delegato di continuare a ricorrere alla tradizionale misura dell’OPG. (89) La previsione vale anche per il non imputabile a causa dell’ubriachezza o dell’intossicazione da stupefacenti. (90) Per i non imputabili per ubriachezza o intossicazione da stupefacenti valgono, naturalmente anche le finalità di disintossicazione. (91) Ritiene quest’ultima misura particolarmente adatta nelle ipotesi in cui il riconoscimento dell’inimputabilità è dovuto a un disturbo mentale transitorio, atipico e non patologico, BERTOLINO, Fughe, cit., p. 876.


— 900 — con la riforma del 1975 (92), e poi ripresa dai più recenti ordinamenti. Si pensi, ad esempio, al codice penale sloveno del 1995 (93), che all’art. 64 stabilisce il ricovero in un istituto di cure psichiatriche obbligatorie dei soggetti in libertà, o a quello spagnolo, dello stesso anno, che, proseguendo la strada aperta con la riforma del 1983, prevede l’internamento in un centro ‘‘adeguato al tipo di anomalia, di alterazione psichica, di cui si soffre’’ (94), nonché agli altri istituti di terapia sociale da tempo presenti nei paesi del Nord dell’Europa (95). Stando alla tipologia delle misure di sicurezza, con spiccate tendenze risocializzanti, previste dal progetto Grosso, anche per il giudice italiano si aprirebbe un ampio ventaglio di soluzioni, né si potrebbe temere l’attribuzione di un’eccessiva discrezionalità, poiché in questa scelta egli sarebbe coadiuvato da un perito, peraltro sicuramente più propenso a prescrivere il ‘‘bisogno di trattamento e controllo’’, piuttosto che a rilevare la ‘‘pericolosità’’ del soggetto. Il vero problema resta, semmai, quello della realizzabilità pratica di tali interventi, dovendosi accertare la reale esistenza e capacità degli istituti richiamati ad accogliere i soggetti in questione (96). Sarebbe, infatti, ancora eccessivamente riduttiva una riforma che, pur riconoscendo sul piano astratto nobili principi, non trovasse poi nel mondo reale le condizioni per realizzarli. (92) Sulla riforma in generale v. ROXIN-STREE-ZIPF-JUNG, Einführung in das neue Strafrecht, 2. Aufl., München, 1975. Sull’importanza della terapia sociale in Germania, dove, tuttavia essa ha finito, meno ambiziosamente di quanto si auspicava con la seconda legge di riforma del diritto penale dell’1 gennaio 1975, per svolgere un ruolo di integrazione nell’esecuzione della pena, v. LACKNER-KÜHL, in StGB, 23a ed., 1999, vor § 63, Rn. 1,2; VOLK, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., p. 2 ss. del datt. Precursore del ricorso agli istituiti di terapia è stato, invero, il codice penale danese del 1933. (93) In relazione al mantenimento, in vero non incontestato, delle misure di sicurezza a forte valenza medico-terapeutica nel codice penale sloveno del 1995, v., FOLLA, Riflessioni sul nuovo sistema penale sloveno, in questa Rivista, 2000, p. 682 s. (94) È inoltre previsto l’internamento in un ‘‘centro educativo especial’’ per i minori con gravi alterazioni della coscienza, e in un ‘‘centro de deshabituaciòn’’ per gli alcolisti ed i tossicomani, oltre alla possibilità dell’applicazione di altre misure alternative alla detenzione. (95) Per un quadro puntuale e ricco di riferimenti comparatistici degli istituti di terapia sociale v. MANNA, L’imputabilità, cit., p. 115 ss. (96) L’allarme è sottolineato da MANNA, intervento al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., il quale ricorda anche quante difficoltà abbia riscontrato in Italia la concreta applicazione della nota l. 180/78 e aggiunge che il richiamo alle ‘‘strutture chiuse o aperte’’, presente nell’Articolato originario, rischia di apparire una clausola vuota, sicché sarebbe preferibile che il legislatore lo specificasse ulteriormente. Sul punto, inoltre, BERTOLINO, Relazione al convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., e adesso ID., Fughe, cit., p. 875, la quale richiama, a tale proposito, un importante orientamento della giurisprudenza, espresso peraltro in una pronuncia della Cassazione, che nell’emettere il giudizio di pericolosità sociale, specie per i seminfermi di mente, lo ha subordinato alla ‘‘situazione obiettiva’’ e, quindi, fra le altre cose, anche alla presenza e all’affidabilità dei presidi territoriali socio-sanitari in cui il trattamento conseguente possa essere espletato.


— 901 — 4.1. (Segue): il superamento del doppio binario. — Le insufficienze del doppio binario, elaborato ai tempi del positivismo giuridico e legato essenzialmente all’idea della funzione retributiva della pena, sono state segnalate da tempo (97). La crisi del sistema è legata inevitabilmente al riconoscimento tra gli scopi della sanzione, anche di quello specialpreventivo, suggellato dall’art. 27, comma 3, Cost. Sicché non è più possibile mantener fede alla tradizionale distinzione per la quale la pena guarderebbe indietro, verso il fatto, compensando la colpevolezza con uno scopo di mera repressione, mentre le misure di sicurezza si rivolgerebbero al futuro, mirando ad una funzione preventiva, in presenza della pericolosità dell’autore di un reato. L’antinomia tra il principio costituzionale e la normativa penalistica basata sul cumulo tra pena e misura di sicurezza è stata resa ancora più palese, tra l’altro, dal significato ulteriormente repressivo che queste ultime hanno finito per assumere per il reo-infermo (98). Era naturale, di conseguenza, che in sede di riforma del codice penale dovesse essere messa in discussione anche l’opportunità del mantenimento di questo modello. Già lo Schema di delega legislativa del 1992 aveva costituito un tentativo di superamento del sistema del doppio binario, limitando l’applicazione delle misure di sicurezza ai soli soggetti pericolosi totalmente inimputabili. La proposta Pagliaro è, però, risultata carente, come si è detto, nella mancata trasformazione delle misure medesime in interventi di contenuto terapeutico (99). L’esclusione della possibilità di applicare in aggiunta alla pena una misura di sicurezza è stata riproposta nel progetto Grosso, che, quanto agli imputabili, prospetta una risposta in forma di pena, ma con finalità rieducative; per i semimputabili una pena diminuita e orientata in senso (97) Sulla inopportunità del cumulo tra pena e misura di sicurezza, v., DELITALA, Prevenzione e repressione nella riforma penale, in questa Rivista, 1950, p. 709; MUSCO, La misura di sicurezza detentiva, 1978, p. 127 ss.; FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario un declino inarrestabile?, in questa Rivista, 1993, p. 569 ss. (98) MUSCO, op. loc. ult. cit. (99) Così BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 416; MANNA, L’imputabilità, cit., p. 191 ss., per il quale sarebbe stata preferibile una precisazione più puntuale delle misure di sicurezza utilizzabili, chiarendo, ad esempio, se nel generico riferimento al ‘‘ricovero in una struttura psichiatrica’’ ovvero al ‘‘trattamento psichiatrico in libertà vigilata’’, di cui all’art. 48, comma 1, lett. a), dovesse ancora farsi rientrare la tradizionale misura dell’O.P.G., o se, invece, occorressero, quanto meno a livello integrativo, gli istituti di terapia sociale. Ancora maggiori riserve devono essere mosse verso il trattamento riservato agli infermi di mente nel disegno di legge Riz del 1995, che su questo punto non innova in nulla la disciplina vigente, mantenendo la tradizionale misura di sicurezza detentiva della casa di cura e di custodia, nonché dell’O.P.G. Per una critica verso questa soluzione v., anche per la bibliografia richiamata, BERTOLINO, Il nuovo volto, cit., p. 420 ss.


— 902 — socializzante; mentre destinerebbe agli autori di reato prosciolti per non imputabilità, la misura di sicurezza come unica conseguenza sanzionatoria. Così facendo si è cercato di uniformare la disciplina delle misure di sicurezza e riabilitative al principio di proporzionalità. In questo senso ne sono stati fissati i limiti edittali, anche se solo nel minimo (100), oltre ad alcuni presupposti oggettivi legati alla tipologia del reato commesso (101). Lo sforzo compiuto è sicuramente apprezzabile, anche se con qualche riserva. Non appare condivisibile, ad esempio, la scelta generale di delimitare la durata delle misure di sicurezza solo nel minimo (102), cui farebbe eccezione il solo caso, stabilito al punto sette dell’art. 101 del testo originario (ora art. 99), relativo alle misure da eseguire nei confronti dei non imputabili per infermità o altro grave disturbo della personalità, per i quali è stabilito che esse non possano superare i cinque anni, divenuti nel nuovo testo dieci (103). La critica pare ancor più fondata se si tenga conto come pure quest’ultimo limite possa, di fatto, divenire lettera morta dato che il comma successivo ne consente il superamento ‘‘per il tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto (104) e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone’’ (105). Il rischio è allora duplice: da un lato il riferimento al pericolo concreto potrebbe far riemergere nell’applicazione delle misure di sicurezza la tanto criticata ‘‘pericolosità sociale’’ (106) e, (100) Di regola nel progetto preliminare la durata delle misure di sicurezza era stata compresa tra i sei mesi e un anno o fino a due anni nei casi più gravi in cui l’infermo di mente abbia commesso delitti di aggressione. Il nuovo art. 99 dell’articolato, successivo alle modifiche del 26 maggio 2001, riproduce il limite minimo generale del testo originario, mentre innalza il limite minimo per i casi più gravi da 1 a 5 anni, limitando tuttavia tale previsione alla sola misura del ricovero in una struttura. Si compiace in generale per la fissazione della misura minima, definendola addirittura una ‘‘rivoluzione copernicana’’, MANNA, intervento al Convegno su: Infermità e misure di sicurezza, cit. Conf. DOLCINI, nella Relazione al Convegno su La riforma del codice penale. La parte generale, tenutosi a Pavia, 10-12 maggio 2001; MOCCIA, Considerazioni, cit., 25 datt. Critici sulla indeterminatezza della durata delle misure di sicurezza nella legislazione vigente, che rende ancora più grave il difetto di precisione del giudizio iniziale sulla pericolosità sociale, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 247. (101) In caso di ubriachezza o intossicazione da stupefacenti le misure di sicurezza di cui all’art. 97 sono subordinate anche all’abitualità. Per alcune osservazioni critiche in merito a questa scelta v. BERTOLINO, Fughe, cit., p. 871, in nota. (102) Sull’importanza di fissare limiti massimi di durata predeterminati per le misure di sicurezza, v. MUSCO, La misura, cit., p. 282. (103) Fortemente critica per l’inasprimento del limite massimo di durata delle misure di sicurezza in questa ipotesi, BERTOLINO, Fughe, cit., p. 872 s. (104) Il corsivo è nostro. (105) Così dispone l’art. 101 punto 7, comma 2. (106) Ritengono, tuttavia, che il richiamo al pericolo concreto, e di conseguenza alla pericolosità, contenuto nell’art. 101 sia in questo caso tollerabile, in quanto collegati a specifiche classi di reati, MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., 243 in nota.


— 903 — dall’altro, la genericità dell’inciso ‘‘per il tempo strettamente necessario’’ consentirebbe il rilascio di misure, ancora una volta, indeterminate (107). In definitiva, stando al testo originario del progetto Grosso del 12 settembre 2000 l’aggancio al principio di proporzione non poteva dirsi ancora perfettamente compiuto, sia per la mancata predeterminazione della durata massima della misura di sicurezza, sia perché nell’unico caso in cui un limite massimo era stato previsto, veniva fissato a prescindere dalla gravità del fatto commesso (108). Il rispetto della generale esigenza di proporzione, irrinunciabile in uno Stato di diritto, impone, invece, che per la determinazione della durata delle misure di sicurezza si debba considerare, ancor prima del bisogno di trattamento, la gravità del fatto commesso. Guardando solo al primo si rischia di dover protrarre la loro esecuzione anche oltre il tetto massimo stabilito per il reato commesso, o di prevedere una durata molto inferiore rispetto alla pena. Posto ciò, assume grande importanza tanto la precisazione operata, a seguito delle modifiche del 26 maggio 2001, al punto due del nuovo art. 96, secondo la quale ‘‘Le misure non possono comportare restrizioni sproporzionate rispetto alla gravità del fatto’’, quanto l’avere limitato il possibile superamento della durata massima delle misure di sicurezza nel caso di ricovero in una struttura chiusa, ex art. 97, punto 4, alle ipotesi in cui il soggetto commetta un delitto doloso o colposo contro la vita, la integrità fisica, la libertà personale, la libertà sessuale o l’incolumità pubblica, o comunque con violenza o minaccia contro la persona. Resta indubbio, tuttavia, che esauritasi la risposta sanzionatoria, in caso di permanenza del bisogno di cura, non si possa abbandonare il soggetto al suo destino, e si debba ricorrere a rimedi di tipo extrapenale, i quali pongono d’altra parte il problema del consenso dell’interessato (109). Dispiace, invece, che non si sia colta l’occasione anche per delimitare nel massimo la durata di tutte le misure di sicurezza, piuttosto si è proceduto ad un innalzamento della cornice edittale minima per la misura del ricovero in una struttura (110), nonché addirittura al raddoppio del limite massimo di durata delle misure dei non imputabili per infermità o altro grave disturbo della personalità (111). Nonostante il passo avanti, non può dunque tacersi come neppure il progetto Grosso del 2001 sia a pieno rispettoso del principio di propor(107) Paventano questo rischio BERTOLINO e MANNA, nei loro interventi al Convegno su Infermità e misure di sicurezza, cit. L’osservazione è stata mossa anche da MOCCIA, Considerazioni, cit., p. 25 datt. (108) Cfr. MOCCIA, Considerazioni, cit., p. 25 datt. (109) Auspica l’organizzazione di strutture di accoglienza post-detentiva, ‘‘magari sotto l’egida del servizio sociale’’, MANNA, L’imputabilità, cit., p. 231. (110) Compresa adesso da 1 a 5 anni anziché da 1 a 2 anni. (111) Il limite è adesso, come si è detto, di 10 anni.


— 904 — zione. Se da un lato, infatti, si è subordinata la deroga al limite massimo di durata delle misure di sicurezza nel caso di cui all’art. 99, punto 7, al presupposto oggettivo della commissione di delitti di aggressione, dall’altro si proceduto ad una generalizzazione dell’accesso alle misure di sicurezza, compreso il ricovero in una struttura chiusa, non richiedendosi più la specificità del delitto commesso. 5. La disciplina della capacità ridotta. — Nonostante le note perplessità di ordine concettuale attinenti alla capacità ridotta (112), il progetto Grosso, analogamente, del resto, alle proposte di riforma precedenti, ha optato per il mantenimento della categoria. La scelta si inserisce nel più ampio disegno volto ad offrire la possibilità di valutare in modo differenziato le condizioni psichiche degli autori di reato, ma al contempo conserva una valenza simbolica, mirante ad arginare le preoccupazioni di tenuta del sistema, di fronte all’allargamento delle cause di esclusione dell’imputabilità (113). Eliminato il paradigma del doppio binario, la recente riforma prevede per i semimputabili un modello unitario di risposta, che, pur conservando la forma della pena commisurata al fatto, quanto a contenuto e modalità di esecuzione, ‘‘assume su di sé le funzioni assegnate dal codice Rocco alle misure di sicurezza, ed è strutturato in modo più flessibile, in vista del miglior perseguimento degli obiettivi di prevenzione speciale’’ (114). È tenendo conto di queste finalità che vanno letti gli artt. 100, comma 3 (originario 102, comma 3), 100 comma 4 (originario 102 comma 4), 101 e 102 (originari 103 e 104) dell’Articolato, i quali prevedono, rispettivamente: la finalizzazione di qualsiasi provvedimento al ‘‘superamento delle condizioni di ridotta capacità esistenti al tempo del commesso delitto’’; la diminuzione della pena da un terzo alla metà (115), così da proporzionarla alla minore colpevolezza del semimputabile; l’applicazione della sospensione condizionale della pena e di un trattamento terapeutico o riabilitativo, nei casi in cui ciò sia possibile e opportuno e sempreché sia accettato dal condannato un programma di trattamento in libertà e la possibilità di pronunciare sentenze di condanna ‘‘con rinuncia alla pena’’, qualora ‘‘per la modesta gravità del fatto e per essere venute (112) V., ad es., FILASTRÒ, Vizio parziale di mente ed infermità psichica, in Giust. pen., 1969, I, p. 485; SABATINI, Biologia e diritto nel concetto di imputabilità, in Giust. pen., 1965, I, p. 1 ss. (113) Sottolinea il carattere simbolico del mantenimento della semimputabilità, PULITANÒ, nelle Osservazioni conclusive al Convegno: Infermità e misure di sicurezza, cit. (114) Relazione di accompagnamento al progetto preliminare, 4.2, punto 1, cit., p. 637 s. (115) L’originario art. 102, comma 4 prevedeva genericamente la diminuzione della pena, mentre la specificazione della sua riduzione da un terzo alle metà è stata aggiunta a seguito delle modifiche del maggio 2001.


— 905 — meno le condizioni di ridotta capacità che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell’autore del reato’’. Si tratta del primo serio passo verso un sistema articolato di soluzioni sanzionatorie, tenuto conto che la sola riduzione della pena, prevista nei precedenti progetti di riforma (116), non può essere ritenuta coerente con le evidenti esigenze terapeutiche (117). In particolare, l’opzione dell’istituto della rinuncia alla pena (118), finora conosciuto solo nel diritto penale minorile, non ha riscontrato unanimità di consensi in seno alla commissione ministeriale (119), ma la scelta definitiva a suo favore lo rende principio generale del diritto penale degli adulti. Si tratta di una misura orientata al principio di esiguità del fatto, che, com’è noto, è espressione del più generale principio di offensività, inteso in un’accezione estensiva e graduabile (120). Alla base della misura, di cui all’art. 102 del nuovo testo, sono individuabili, invero, anche altre istanze (121): dal principio di extrema ratio della pena detentiva, ad esigenze meramente deflattive. Resta indubbio, tuttavia, come in una comparazione delle motivazioni che sottendono alla rinuncia alla pena prevalgano quelle di prevenzione speciale (122). In un’analisi costi-benefici della risposta penale il legislatore ha, in definitiva, legittimato il mancato (116) V., l’art. 34, comma 2, del Progetto Pagliaro. (117) Analogamente BORTONE, Semimputabilità e sistema del doppio binario, in Ind. pen., 1998, p. 439. Né il suggerimento della Commissione Pagliaro al legislatore delegato di ‘‘adeguare il trattamento penale con l’esclusione dell’attuale doppio binario’’, poteva ritenersi felice, dato che fra le misure attualmente previste pochissime si presterebbero ad essere destinate a tale trattamento sussidiario. Cfr. FIORAVANTI, Ancora sul trattamento, cit., p. 276 ss. (118) Per più ampi riferimenti, v. BERTOLINO, Fughe, cit., p. 878 ss., che sottolinea il carattere sostanziale di quest’istituto formalmente costruito come processuale. (119) La mancata uniformità di giudizio sulla possibilità di pronunciare sentenza di condanna con rinuncia alla pena è segnalata nella Relazione di accompagnamento al progetto preliminare, 4.2, cit., p. 638. (120) Sull’opportunità di interpretare il principio offensività come concetto comparativo, cioè quantitativamente graduabile, anziché circoscritto ‘‘all’alternativa binaria offesa presente-offesa (totalmente) mancante’’, si rinvia a FIANDACA, L’offensività è un principio codificabile?, relazione alla Conferenza Nazionale sul Progetto preliminare di riforma del codice penale, cit., p. 7 ss. del datt. (121) Cfr. BERTOLINO, Fughe, cit., p. 878. (122) Tenuto conto di ciò esprime qualche perplessità per il riferimento alla ‘‘mancanza di esigenze di prevenzione generale’’ tra i parametri di valutazione discrezionale ai fini della concessione della rinuncia alla pena, BERTOLINO, Fughe, cit., p. 879, per la quale si corre il rischio ancora di pene esemplari. Aggiunge l’A., tuttavia, come il richiamo trovi giustificazione semmai solo attribuendo a questo tipo di condanna una funzione deflattiva, che, com’è noto, mai potrebbe essere perseguita a scapito della tenuta generalpreventiva del sistema penale stesso.


— 906 — intervento nel caso in cui quest’ultimo sarebbe giustificato soltanto da pretese retributive. Parimenti efficace potrebbe risultare la misura della sospensione condizionale della pena, prevista dall’art. 101, per un periodo non superiore a tre anni, subordinata all’accettazione da parte del soggetto agente di un programma di trattamento in libertà, in aggiunta o in sostituzione degli altri obblighi, di cui agli artt. 81 e 82. Analogamente alla condanna con rinuncia alla pena, la sospensione non avrebbe, in questo contesto, natura meramente sanzionatoria, bensì assumerebbe una connotazione sostanziale (123). In base al testo riveduto (124) la durata degli obblighi è rimessa alla discrezionalità del giudice, mentre la sospensione non può comunque superare il termine generale di cinque anni (125). Al di là delle misure specifiche per i semincapaci, di particolare interesse appare, infine, l’estensione stabilita dall’art. 103 (originario 105) di alcuni degli istituti richiamati (126), anche indipendentemente dall’incidenza sulla capacità di intendere e di volere, al caso di ‘‘condanna per reati commessi da persona in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale, o da persona in grave difetto di socializzazione o di istruzione’’ (127). Quest’ultima previsione costituisce, probabilmente, l’aspetto più innovativo del trattamento penale proposto, rappresentando una risposta efficace per quei casi in cui, pur accertandosi l’esistenza di un disturbo psichico, non si possa al contempo arrivare a riconoscere la totale inimputabilità o la capacità ridotta. La scelta si pone, tra l’altro, in linea con l’orientamento, sempre più consolidato, che, favorevole al potenziamento delle misure di sicurezza per i soggetti disturbati anche se non seminfermi, ha già spinto molti ordinamenti a contemplare una disciplina apposita (128). 6.

L’eliminazione delle ‘‘finzioni di imputabilità’’. — La riformula-

(123) Su questa distinzione delle funzioni della sospensione condizionale, v. ancora BERTOLINO, Fughe, cit., p. 881. (124) Il testo originale dell’articolato prevedeva, invece, l’estensione della durata degli obblighi al programma riabilitativo, il quale poteva anche durare tutto il tempo della sospensione condizionale, stabilita in 7 anni per delitto doloso e da 3 a 5 anni per delitto colposo. (125) I 5 anni sono comunque innalzabili a 7, se ciò appare utile per gli adempimenti degli obblighi relativi alla riparazione delle conseguenze del reato, ex art. 81. (126) Si tratta degli istituti della condanna con rinuncia alla pena e della sospensione condizionale della pena con sottoposizione a un programma di trattamento. (127) In queste ipotesi, è precisato nell’art. 103 che i programmi di trattamento sono rivolti al superamento della specifica condizione deficitaria. (128) Si pensi, ad esempio agli hospital order o alla probation orders con prescrizione di trattamento psichiatrico nei paesi di Common Law. Su questi aspetti v., più diffusamente BERTOLINO, L’imputabilità, cit., p. 219 ss.


— 907 — zione della disciplina sull’imputabilità contemplata nel progetto Grosso tocca, in maniera sostanziale, anche la normativa dell’ubriachezza o intossicazione da stupefacenti, riconducendola, opportunamente, nel solco del principio di colpevolezza (129). È noto come il codice del ’30, sulla scorta delle accentuate preoccupazioni di carattere generalpreventivo (130) al tempo dominanti, abbia espresso sul punto una normativa particolarmente rigorosa, che ha sollevato seri problemi di costituzionalità. Cosicché solo l’assunzione per caso fortuito o forza maggiore, da un lato, e la cronica intossicazione, dall’altro, hanno l’efficacia di escludere o di diminuire l’imputabilità, mentre nelle altre ipotesi, di assunzione volontaria o colposa, preordinata e abituale, ciò non accade, anzi per le ultime due è previsto persino un aumento di pena. L’art. 94 n. 2 e 3 (originario 96 n. 2 e 3) dell’Articolato mantiene giustamente una disciplina derogatoria del rispetto del principio di colpevolezza, non escludendo l’imputabilità nell’ipotesi di incapacità preordinata (131), sempreché il fatto realizzato corrisponda a quello programmato; ma, rispetto alla normativa in vigore, elimina l’aggravante (132). L’aspetto più innovativo della disciplina proposta riguarda l’ipotesi di ‘‘incapacità colposa’’. L’art. 94 n. 3 (originario art. 96 n. 3), a differenza del vigente art. 92, comma 1, non fa riferimento alla ubriachezza volontaria o colposa negandone categoricamente ogni incidenza sulla capacità di intendere e di volere, ma stabilisce che ‘‘l’imputabilità non è altresì esclusa quando l’agente si è messo in stato di incapacità con inosservanza di una regola cautelare rispetto al fatto realizzato, e questo si sia realizzato a causa dello stato di incapacità procurato’’. Il nuovo art. 100, comma 2, prevede, inoltre, che in caso di capacità grandemente scemata, la violazione di una regola cautelare rispetto al (129) Il progetto elimina anche la finzione di imputabilità prevista dal vigente art. 90 c.p. sugli stati emotivi e passionali. (130) Le ragioni perseguite dal codice Rocco erano principalmente di certezza probatoria, risultando difficile la prova della non ebrietà e si giustificano con la visione, allora imperante, dell’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti come ‘‘vizio’’ pericoloso per la ‘‘maggiore elevazione morale e materiale della stirpe’’, v. Relazione del Guardasigilli, in Lavori Preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, p. 78. Evidenziano come questa disciplina risponda ad un ‘‘malinteso mito della salute pubblica’’, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 305. (131) L’art. 94, n. 2 stabilisce che ‘‘L’imputabilità non è esclusa quando l’agente si è messo in condizioni di incapacità al fine di commettere il reato o di predisporsi una scusa’’. (132) Riscontra, tuttavia, una curiosa inversione tra imputabilità e colpevolezza, arrivando ad affermare la prima constatata la seconda, FIANDACA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. Auspica invece l’eliminazione anche della disciplina dell’ubriachezza e della stupefazione preordinata, MANNA, L’imputabilità, cit., p. 22 s., rilevando come i pochi casi giurisprudenziali di questo tipo hanno riguardato soggetti di per sé o immaturi o psichicamente disturbati.


— 908 — fatto realizzato, come la preordinazione, esclude la disciplina della capacità ridotta (133). Fuori dai casi di incapacità preordinata, quindi, la responsabilità permane nelle ipotesi in cui l’essersi messi, non accidentalmente, nello stato d’incapacità possa considerarsi comportamento inosservante di una regola cautelare, ossia, appunto, colposo. La soluzione accolta dalla Commissione Grosso trova precedenti analoghi nel progetto Pagliaro, così come nel codice penale sloveno e in quello spagnolo (134). Nel progetto italiano del 1992, in particolare, spariva la presunzione normativa di capacità prevista dal vigente art. 92 c.p. sull’ubriachezza volontaria o colposa e si stabiliva che le alterazioni mentali aventi origine dall’ubriachezza, nel caso in cui questa non fosse dipesa da caso fortuito o forza maggiore comportassero la punibilità dell’agente solo se avesse agito, al momento di ubriacarsi, quanto meno con dolo eventuale rispetto al fatto di reato, ovvero per colpa, ‘‘se il fatto era da lui prevedibile ed evitabile come conseguenza della condizione di ebrietà’’ (135). Si era, così, aderito agli auspici di quella parte della dottrina che da tempo aveva segnalato l’importanza di valutare il dolo e la colpa con riguardo non tanto al momento in cui l’agente si era posto antidoverosamente in condizione di incapacità (136), né al tempo del fatto commesso in stato di ubriachezza, quanto a quello in cui il soggetto si era indotto in tale stato, seppure in relazione al reato commesso, sì da evitare sconfinamenti in un caso di responsabilità oggettiva (137). Questa soluzione, sicuramente apprezzabile per il tentativo di superare l’attuale contrasto tra la disciplina del vigente art. 92, comma 1 e il principio di colpevolezza, non è tuttavia esente da critiche, dovute alla difficoltà di stabilire quali debbano essere ‘‘i parametri probatori per l’accertamento dell’atteggiamento soggettivo dell’agente rispetto alla commissione di un fatto, i cui elementi costitutivi potrebbero essere lontanissimi’’ per poter formare oggetto di un giudizio di previsione o di prevedibilità (138). (133) Si è così colmato il vuoto normativo presente nell’articolato originario per l’ipotesi di incapacità ridotta derivante dall’inosservanza di una regola di condotta. (134) Riscontra una certa ‘‘area di famiglia’’ tra le normative richiamate FIANDACA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. (135) Si tratta di una soluzione seguita da MANTOVANI, Diritto penale, p.te gen., 2001, p. 687; e con alcune differenze da PADOVANI, Diritto penale, p.te gen., 1999, p. 241, ma che non è esente da critiche, per la difficoltà di accertare in giudizio un dolo eventuale o una colpa rispetto alla futura commissione di fatti criminosi che possono essere anche lontani e determinati da circostanze non prevedibili. (136) Così, invece, LEONE, Il titolo della responsabilità per i reati commessi in stato di ubriachezza volontaria o colposa, in Giust. pen., 1935, II, p. 1332. (137) V. per tutti ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., Art. 92/15, 16, 17. (138) Così FIORE, Prospettive dommatiche e fondamento politico-criminale della responsabilità ex art. 92, comma 1, c.p., in questa Rivista, 1994, p. 149.


— 909 — Anche nel codice penale spagnolo le actiones liberae in causa ‘‘imprudentes’’ trovano oggi una espressa previsione all’art. 10, n. 1 e 2, ‘‘sempre que... no se hubiese previsto o debido prever su comisìon’’. Il riferimento alla ‘‘inosservanza di una regola cautelare’’ è però contenuto esclusivamente nel progetto Grosso, costituendone una nota di specificità. Fuori dai casi di preordinazione, quindi, quando il fatto sia stato commesso involontariamente, per mera violazione di una regola cautelare, l’imputazione non potrà che essere colposa. Cosa, tuttavia, significhi inosservanza di ‘‘una regola cautelare rispetto al fatto realizzato’’ in uno stato di procurata incapacità, non è del tutto chiaro. Si potrebbe forse ritenere che l’ubriachezza o l’intossicazione da stupefacenti con perdita della capacità di comprensione dell’antisocialità del fatto costituisca sempre un atto imprudente. Sarebbe, in altre parole, come se il legislatore ammonisse a non ubriacarsi o drogarsi, affinché non si corra il rischio di rimanere coinvolti in possibili reati. In tal modo, però, si finirebbe col generare un diritto penale moralistico, che punirebbe un ‘‘crimen culpae generico’’, senza riferirsi ad azioni specifiche, col pericolo, ancora una volta, di incorrere in un’ipotesi di responsabilità oggettiva (139). Ecco perché occorre pretendere un nesso tra l’azione di autodeterminazione dello stato di incapacità e l’evento commesso. Naturalmente, un rapporto di causalità sarà tanto più facilmente individuabile quanto più stretto risulti lo spazio logico-temporale tra il momento dello stato di procurata incapacità e quello di produzione dell’evento, e, ancora, quanto più si abbia a che fare con attività che richiedano, quale presupposto, l’osservanza di norme cautelari di autocontrollo dell’agente, come, ad esempio, la circolazione stradale (140). Non sempre, tuttavia, è possibile riscontrare attività che impongono il rispetto di una regola cautelare, per cui ci si chiede se sia comunque ipotizzabile, in questi casi, un rimprovero qualora l’evento risulti prevedibile (141). Sarebbe forse preferibile che, ai fini della rimproverabilità per colpa, si tenesse conto nella disposizione definitiva sulle ipotesi di procu(139) In questi termini FIANDACA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit. (140) È emblematico l’esempio dell’automobilista che deve affrontare un lungo viaggio e si mette alla guida dopo aver mangiato e bevuto tanto, elaborato dalla stessa commissione ministeriale nella relazione di accompagnamento dell’articolato. (141) A favore di questa possibilità, FIANDACA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., il quale utilizza, a tale proposito, l’esempio del passeggiatore, che sotto l’effetto dell’alcool, inizi a lanciare oggetti per aria, ferendo un passante. In un caso come questo non sarebbe riscontrabile la violazione di una regola cautelare, non essendo tale l’ubriacarsi rispetto al passeggiare, ma sarebbe, comunque, possibile muovere un rimprovero all’agente qualora sapesse che ubriacandosi sia solito perdere il controllo e compiere atti del tipo lanciare oggetti per aria. In questi casi, quindi, il rimprovero poggerebbe sulla prevedi-


— 910 — rata incapacità, alternativamente, della violazione della regola cautelare e della prevedibilità dell’evento (142). Alla ‘‘previsione o prevedibilità della commissione di un reato’’ fa riferimento, ad esempio, il codice penale spagnolo (143). Resta peraltro valido l’interrogativo circa l’opportunità, in una revisione legislativa del trattamento dell’alcoolismo e della stupefazione occasionale, della indicazione di rimedi di natura sociale e amministrativa, anziché di tipo penale (144). Nel processo di eliminazione delle finzioni di imputabilità il progetto Grosso ha espunto la problematica distinzione tra ubriachezza o intossicazione da stupefacenti abituale e cronica. La questione appare particolarmente delicata poiché, a fronte di un labile discrimine tra le due forme di assunzione, il codice Rocco prevede una disciplina diversa, comportante addirittura un aggravamento di pena nel primo caso (art. 94, comma 3, c.p.) (145), e l’esclusione dell’imputabilità nel secondo (art. 95 c.p.) (146). Alla luce delle conoscenze scientifiche più recenti, la differenza richiamata appare quanto mai artificiosa, ma soprattutto, desta perplessità l’equiparazione legislativa tra cronica intossicazione da alcool e quella da sostanze stupefacenti, data la peculiarità del problema dell’imputabilità del tossicodipendente (147). In quest’ultimo caso, infatti, risulta difficile bilità del comportamento tenuto, anche mancando a monte la violazione di una regola cautelare. (142) È questo il suggerimento di FIANDACA, Relazione al Convegno: Imputabilità e misure di sicurezza, cit., che è stato ritenuto ‘‘ragionevole’’ da PULITANÒ nelle osservazioni conclusive dello stesso convegno. (143) Di avviso contrario, invece, MORALES PRATS, al quale piace di più la proposta italiana perché basata su un criterio legale e non dogmatico come la prevedibilità. La disciplina della intossicazione piena o assoluta da alcool o da stupefacenti nel codice penale spagnolo è molto simile a quella inserita nel progetto Grosso, anche se con alcune note di specificità. Innanzitutto, il nuovo codice spagnolo contempla, accanto all’intossicazione da alcool o da stupefacenti, la c.d. ‘‘sindrome di astinenza’’, che costituisce lo stato in cui è più frequente la commissione di reati. In secondo luogo, il codice spagnolo esclude l’actio libera in causa anche nel caso di infermità o altre anomalie ‘‘permanenti’’, aprendo così la strada ad una terza possibilità: accanto all’inimputabilità totale e a quella parziale è individuabile la situazione di chi soffra di un’alterazione nella percezione, che ha l’effetto di mutare grandemente la coscienza della realtà. Non si tratta di una causa di non imputabilità di origine biologica o psichica, ma di tipo socio-culturale, prettamente normativa, che ha soppiantato il riferimento del vecchio codice al sordomutismo, e che vale a ricomprendere qualsiasi situazione in cui la persona non mostri la possibilità di cognizione della realtà giuridico-penale. (144) Così anche MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 483; ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., art. 92/16. A favore di questa soluzione anche MANNA, L’imputabilità, cit., p. 219 s. (145) L’art. 94 c.p., subordina l’aggravante a due requisiti: la commissione del delitto sotto l’influenza dell’alcool o della droga e la dedizione all’uso di essi. (146) Il caso di intossicazione da alcool o da stupefacenti cronica è, dunque, attualmente equiparato al vizio totale o parziale di mente. (147) AA.VV., Uso di sostanze stupefacenti e imputabilità, Parma, 1983; MANTO-


— 911 — individuare un quadro clinico e psichiatrico parallelo a quello della ubriachezza e, specie in relazione ad alcune sostanze stupefacenti, la sindrome carenziale può raggiungere livelli tali da apparire come un’autentica infermità. Per siffatte ragioni l’inadeguatezza delle finzioni d’imputabilità rispetto alla tossicodipendenza emerge in modo ancora più netto che per l’ubriachezza (148). L’esigenza di prevenzione, assecondata dalla disciplina vigente ha trovato invero il sostegno, con qualche eccezione, della giurisprudenza (149), che, a differenza di quanto è accaduto per la nozione di infermità mentale, è rimasta fortemente ancorata alla concezione organicistica della tossicodipendenza, nonostante da tempo gli studiosi ne abbiano riconosciuto la natura psicopatologica (150). L’incongruenza è ulteriormente evidenziata dal mutato atteggiamento del legislatore più recente nei confronti del tossicodipendente, mirante più alla cura e al reinserimento del medesimo nella società che non alle esigenze di difesa sociale (151). Nonostante il registrato cambiamento, l’interpretazione giurisprudenziale, facendo leva sull’equiparazione legislativa del trattamento ai fini dell’imputabilità, continua a considerare identici gli effetti dell’ubriachezza e dell’intossicazione da stupefacenti ‘‘cronica’’ (152), richiedendo per entrambe i requisiti della ‘‘permanenza’’, intesa come condizione stabile e duratura, nonché della ‘‘irreversibilità’’ (153). In verità, la legittimità della vigente distinzione tra ubriachezza o inVANI, Ideologia della droga e politica antidroga, in questa Rivista, 1986, p. 369 ss.; VASSALLI, L’imputabilità dei tossicodipendenti, in Ind. pen., 1986, p. 537 ss.; BARTONE, Intossicazione da stupefacenti; imputabilità e trattamento penale, in Ind. pen., 1971, p. 567; MANNA, L’imputabilità del tossicodipendente: rilievi critici, in Riv. it. med. leg., 1986, cit., p. 1031; LEONI-MARCHETTI-FATIGANTE, L’imputabilità del tossicodipendente, Milano, 1992. (148) ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., Art. 93/7. (149) Per un quadro della giurisprudenza sul tema si rinvia a LEONI-MARCHETTI-FATIGANTE, L’imputabilità, cit., p. 289 ss. (150) La maggioranza degli psichiatri nega, ad esempio, che la intossicazione cronica da stupefacenti sia caratterizzata, come quella da alcool, dall’esistenza di ‘‘sindromi psicotiche’’ o dalla compromissione di apparati ed organi della persona. Non solo, ma per altro verso gravi stati di alterazione si riscontrano anche nel tossicodipendente abituale, nel quale la sindrome di astinenza può apparire clinicamente come un’autentica infermità. Cfr., fra gli altri, BINI-BAZZI, Trattato di psichiatria, Milano, 1959, II, I, p. 327 ss.; BLEULER, Trattato di psichiatria, Milano, 1967, p. 317 ss.; DE VINCENTIIS-BAZZI, La valutazione medico-legale e l’inquadramento clinico della tossicomania, Milano, 1960, p. 121 ss. (151) Riferimenti in PORTIGLIATTI BARBOS, L’imputabilità del tossicodipendente, in Dir. pen. proc., 1999, p. 181. (152) È chiaro che al tempo della redazione del codice le minori conoscenze sul fenomeno della tossicodipendenza, oltre alla sua, almeno iniziale marginale, diffusione, giustificavano tale accostamento, che appare oggi del tutto anacronistico. (153) Per alcune pronunce che parlano di ‘‘stato patologico’’ ‘‘irreversibile’’, Cass., 24 maggio 1996, in CED Cassazione 205097; Cass., 18 gennaio 1995, in CED Cassazione 201497; Cass., 9 marzo 1994, in CED Cassazione 197188; Cass., 22 novembre 1983, in Cass. pen., 1985, p. 1388.


— 912 — tossicazione da stupefacenti ‘‘abituale’’ e ‘‘cronica’’, è stata di recente fatta salva dalla Corte Costituzionale (154), che, in attesa di un adeguamento del quadro normativo alle nuove conoscenze della scienza medica (155), ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 94 e 95 c.p. rispetto alla presunta violazione del principio di ragionevolezza e dell’art. 111 Cost. (156). Ma è bene notare come la Corte abbia, al contempo, preso le distanze dall’interpretazione diffusa in giurisprudenza sul concetto di ‘‘cronicità’’. Il discrimine tra intossicazione abituale e cronica, stante l’interpretazione suggerita, in definitiva, non dovrebbe poggiare sul riscontro o meno della permanenza e della irreversibilità delle stesse, bensì sulla colpevolezza o meno del soggetto. Per cui: si avrebbe la prima, qualora il tossicodipendente (o l’ubriaco), nonostante le sue condizioni, abbia comunque agito colpevolmente, ovvero con la piena consapevolezza del significato del proprio comportamento; la seconda, allorché le sostanze stupefacenti (o l’alcool) abbiano influito sulla capacità di intendere e di volere dell’agente, fino ad escluderla o grandemente scemarla (157). La distinzione tra queste due forme di ubriachezza o intossicazione da stupefacenti, dunque, non sarebbe più ‘‘meramente nominale, priva di ogni riscontro concettuale, bensì un problema, sia pure di ardua soluzione, che il perito dovrà affrontare’’ (158), avvalendosi degli insegnamenti dell’epistemologia e avendo specifico riguardo al momento della commissione del reato (159). (154) V., C. Cost., n. 111/98, in Cass. pen., 1998, p. 1909, con nota di AMATO, ‘‘Cronica intossicazione’’ e imputabilità del tossicodipendente, 1913; in Dir. pen. proc., 1998, p. 181, con nota di PORTIGLIATTI BARBOS, L’imputabilità, cit., p. 181, e in Guida dir., 1998, 17, p. 54, con commenti di AMATO, Il tossicodipendente incapace di intendere e di volere deve essere considerato un soggetto non punibile, p. 58 e di UMANI RONCHI, L’esistenza del vizio totale o parziale di mente non può discendere solo da alterazioni irreversibili, p. 62. (155) La Corte ha auspicato una ‘‘profonda revisione della materia ad opera del legislatore’’, prendendo atto di alcune incongruenze dell’attuale disciplina, quali: l’assenza di una corrispondenza con la dottrina psichiatrica e medico-legale, oltre che penalistica; la criticabile parificazione tra gli effetti dell’alcoolismo e quelli della tossicodipendenza; il mancato coordinamento con i trattamenti previsti nelle normative più recenti. Ciò nonostante ha ritenuto che il sistema vigente non presenti il carattere di palese irragionevolezza ipotizzato dal giudice a quo. (156) In particolare, si è contestato che l’impossibilità di una distinzione tra l’abitualità e la cronica intossicazione da alcool e da stupefacenti rendesse la disciplina degli artt. 94 e 95 c.p. irragionevole e, di conseguenza, impossibile la motivazione del provvedimento giurisdizionale, necessaria ai sensi dell’art. 111 Cost. (157) Il richiamo operato dall’art. 95 c.p. agli artt. 88 e 89 c.p., dovrebbe, pertanto, intendersi non come riconducibilità della tossicodipendenza alla malattia mentale, bensì più semplicemente come assimilazione ad essa nel trattamento penale. Critico su questo punto UMANI RONCHI, L’esistenza, cit., p. 62. (158) Così la stessa C. Cost. n. 114/98, cit. (159) Posto ciò non sembra fondato il clamore suscitato dalla sentenza della Corte


— 913 — Per quanto la lettura degli artt. 94 e 95 c.p. formulata dalla Corte Costituzionale sia sicuramente preferibile a quella affermatasi in giurisprudenza non possono tuttavia considerarsi sopite le resistenze opposte all’attuale disciplina, solo che a fronte dell’accordo unanime circa la necessità di superarla, si riscontrano divergenze di opinioni sulla strada da seguire. I rilievi critici sulla distinzione suddetta trovano peraltro conferma, oltre che nel progetto Grosso, anche nelle proposte immediatamente precedenti. La proposta Pagliaro, in particolare, inseriva la ‘‘cronica intossicazione da alcool ovvero da stupefacenti’’ tra le cause di esclusione dell’imputabilità, accanto all’infermità e all’altra anomalia (160). Analogamente il progetto Riz applicava ai fatti commessi in stato di ‘‘cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti’’, la disciplina del vizio totale o parziale di mente. La normativa elaborata dall’Articolato Grosso appare ancora più innovativa, affiancando all’infermità o altra grave anomalia la mera ‘‘ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti’’, per rinunciare una volta per tutte alla distinzione tra intossicazione cronica e abituale, resa inutile, come si precisa nella relazione, dall’opera di eliminazione delle finzioni di imputabilità. Rimane da chiarire come questi stati vadano accertati. Non manca chi suggerisce una riformulazione delle norme in questione facente leva sulla ‘‘dipendenza dalla sostanze’’, il cui grado determinerebbe la sussistenza del vizio totale o parziale di mente (161). Questa proposta segue l’autorevole definizione di tossicodipendenza data dall’Organizzazione Costituzionale, accusata da alcuni addirittura di costituire una condizione di privilegio per il delinquente tossicodipendente, tanto da potersi parlare per quest’ultimo di ‘‘totale irresponsabilità penale’’. Ritengono eccessivo questo giudizio negativo, AMATO, Il tossicodipendente, cit., p. 60; PORTIGLIATTI BARBOS, L’imputabilità, cit., p. 183, per il quale, al contrario, la sentenza ‘‘contribuisce a riavvicinare la disciplina normativa alle opinioni della scienza medicolegale, evitando, nel contempo, nell’applicazione della legge, il ricorso a nozioni scientifiche o non unanimemente condivise o addirittura apertamente contestate’’. (160) Nei casi di reati commessi sotto l’influenza di queste sostanze, ma al di fuori di una situazione di cronica intossicazione, stabiliva, come si è detto, la responsabilità del soggetto ‘‘per dolo se, quando si è posto nello stato di incapacità, egli ha agito almeno con dolo eventuale rispetto al fatto di reato, oppure per colpa, se il fatto era da lui, in tale momento, concretamente prevedibile come conseguenza di tale stato’’. (161) MANNA, L’imputabilità, cit., p. 220 ss.; ID., L’imputabilità del, cit., p. 1032 ss. Lo stesso A. ricorda, tra l’altro, come il concetto di ‘‘tossicodipendenza’’ abbia trovato una felice applicazione nella BtMG tedesca, sin dal 1981, consentendo l’irrogazione della pena non superiore a due anni nel caso in cui il reato commesso trovi la sua origine, appunto, nello stato di ‘‘dipendenza’’, nonché la possibilità che l’ufficio esecuzione, in accordo con il giudice, la sostituisca con la misura di sicurezza del ricovero in un istituto di disintossicazione per un periodo di tempo corrispondente. Nella letteratura specialistica v. BENINI-DELL’OSSO, Orientamenti giurisprudenziali in tema di imputabilità del tossicodipendente, in Atti del XXVII Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina legale e delle Assicura-


— 914 — Mondiale della Sanità, che tiene conto: ‘‘a) della dipendenza, psichica, e talvolta fisica, dalla sostanza; b) della ‘tolleranza’, cioè della tendenza ad aumentare la dose; c) del desiderio incontrollabile di continuare ad assumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo’’ (162). Allo stesso modo tale forma di dipendenza, connessa alla c.d. sindrome di astinenza (163), potrebbe valere per le intossicazioni alcoliche, senza con ciò voler far coincidere i due fenomeni, che — come si è detto — presentano, comunque, rilevanti elementi di differenziazione. MARIA TERESA COLLICA Università di Messina

zioni, Parma, 3-7 ottobre 1983, I, p. 107; DE FAZIO, L’imputabilità del tossicodipendente — Problematica medico-legale e linee di politica penale, in Atti, cit., p. 83 ss. (162) V., al riguardo ISBELL-WHITE, Clinical characteristics of addicitioni, in Americ. J. Med, 14, 1953, pp. 558-565. (163) Alla sindrome di astinenza, come già detto, fa espresso riferimento, ma affiancandola all’intossicazione da alcool o da stupefacenti, il nuovo codice penale spagnolo. Sotto il codice previgente si discuteva se questo stato potesse comportare un ‘‘trastorno mental transitorio’’ o se costituisse una infermità inquadrabile nell’‘‘enajenación’’. L’attuale art. 20, comma 2, c.p. spagnolo prevede invece, espressamente in questo caso l’esclusione della responsabilità, qualora ‘‘la impida comprender la illicitud del hecho o actuar conforme a esa comprención’’. Del resto, è stato fatto notare come la crisi di astinenza non lasci spazio ad una responsabilità colposa, a meno di ritenere che il legislatore ammonisca ad usare l’alcool o la droga in modo prudente, il che ovviamente appare un’assurdità, ovvero di rapportarla al momento in cui si è violata la regola cautelare di smettere con l’alcool o la droga, ma in questo caso il giudizio si dovrebbe arretrare eccessivamente nel tempo. Né si presterebbe a spiegare questa ipotesi l’actio libera in causa. Il nuovo codice penale spagnolo ha previsto però una gradualità di questo stato, che solo se considerato ‘‘pleno’’ comporta la totale inimputabilità. Nel progetto italiano la situazione di astinenza è stata, purtroppo, tralasciata.


BREVI CONSIDERAZIONI SULL’ELEMENTO OGGETTIVO DEL DELITTO TENTATO IN UNA PROSPETTIVA DE LEGE FERENDA

SOMMARIO: 1. Questioni aperte e questioni chiuse in tema di delitto tentato. — 2. La questione della soglia dell’attività punibile: il modello della idoneità-univocità degli atti... — 2.1. ...versus il modello dell’inizio dell’esecuzione. — 3. La questione del delitto tentato inidoneo-non pericoloso (non punibile): la non pericolosità oggettiva... — 3.1. ...versus la non pericolosità oggettiva dovuta all’ignoranza nomologica del soggetto agente. — 4. La corrispondenza tra concezione oggettiva del reato e favor rei: un mito destinato a dissolversi.

1. Questioni aperte e questioni chiuse in tema di delitto tentato. — In ordine alla struttura oggettiva del delitto tentato, non sembra del tutto azzardato affermare che, a fronte di due problemi già da tempo risolti, sussistono ancora due questioni decisamente aperte. Ormai risolto risulta essere, infatti, il problema del se punire il delitto tentato, così come assolutamente pacifica è l’idea secondo cui il delitto tentato inidoneo-non pericoloso non deve essere punito (1). E mentre sotto il primo profilo, la disciplina del sistema penale italiano non si differenzia da quella degli altri ordinamenti europei, non esistendo codici appartenenti alla nostra tradizione giuridica che lasciano impunito il delitto tentato, circa il secondo aspetto, si deve registrare una posizione che, se da un lato non risulta isolata (2), dall’altro si contrappone in modo deciso a quei codici in cui, in ossequio ad una concezione rigorosamente soggettivistica del delitto tentato, non solo si prevede la possibilità di punire il delitto tentato inidoneonon pericoloso, ma, a volte, addirittura la facoltà di punirlo alla stregua del delitto perfetto di parte speciale (3). (1) Sulle ragioni della punibilità del delitto tentato, pur muovendo da prospettive diverse, cfr. per tutti G. MONTANARA, voce Tentativo (Diritto vigente), in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992, p. 118 ss.; E. MORSELLI, Condotta ed evento nella disciplina del tentativo, in questa Rivista, 1998, p. 36 ss.; ID., voce Tentativo, in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 185 ss. Nella manualistica v. F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 2001, pp. 448-449; T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 2002, pp. 250-251. (2) Si veda, ad esempio, l’art. 23, comma 3 del codice penale portoghese, dove si sancisce che ‘‘il tentativo non è punibile quando sia manifesta l’inidoneità del mezzo utilizzato dall’agente o l’inesistenza dell’oggetto essenziale per la consumazione del delitto’’. (3) In questa prospettiva si muove il codice penale tedesco dove, al § 23, comma 3,


— 916 — Al contrario, non sembrano ancora aver trovato una soluzione definitiva due problemi a volte confusi, ma senza dubbio distinti. Da un lato, sempre aperta è la questione del modello di tipizzazione della soglia dell’attività punibile, dove, com’è notissimo, si fronteggiano la soluzione basata sulla idoneità-univocità degli atti e quella imperniata sull’inizio dell’esecuzione (4); dall’altro lato, posto che, in un certo senso, tutti i delitti tentati sono inidonei rispetto alla fattispecie perfetta di parte speciale, si pone la problematica della individuazione del delitto tentato inidoneo non pericoloso e, quindi, (nel nostro sistema) non punibile, dove, come vedremo in seguito, il ventaglio delle soluzioni prospettate e prospettabili è molto più ampio e articolato di quanto si creda (5). Entrambe le questioni rappresentano senza dubbio un terreno di confronto-scontro tra le esigenze preventive di difesa sociale e quelle di garanzia del singolo individuo. Tuttavia, ad una più attenta analisi, queste ultime sembrano diversificarsi per ciò che concerne il principio di garanzia che viene in gioco. Più precisamente, per quanto riguarda la questione relativa alla individuazione della soglia dell’attività punibile, alle esigenze preventive che spingono verso un’anticipazione della tutela, si contrappone non solo — e non tanto — una concezione oggettiva del reato e quindi, in sostanza, il principio di materialità-offensività del fatto, ma anche — e soprattutto — il principio di legalità, e più precisamente i princìpi di determinatezza e di tipicità. E infatti, una volta optato, in perfetta coerenza con una visione oggettivistica del diritto penale, per la irrilevanza degli atti preparatori, la distinzione tra attività preparatoria non punibile e attività esecutiva meritevole di tutela penale può essere individuata soltanto dando piena attuazione a quei princìpi che contribuiscono ad una precisa e chiara formulazione della norma, quali per l’appunto i princìpi di determinatezza e di tipicità. Diversamente, all’interno della questione relativa alla determinazione del delitto tentato inidoneo-non pericoloso, la contrapposizione tra le esisi stabilisce che ‘‘se l’autore per la grossolana incomprensione non si è reso conto che il tentativo, per il tipo di oggetto contro cui il fatto avrebbe dovuto essere commesso o per il mezzo con cui avrebbe dovuto essere commesso, non poteva condurre in alcun caso alla consumazione, il giudice può non infliggere la pena o diminuirla secondo la sua discrezionalità’’. (4) Una riprova dell’attualità di questa problematica è data dalle recenti iniziative di riforma del codice penale, visto che, mentre il Progetto Pagliaro, all’art. 19, adotta, con qualche correttivo, la soluzione della idoneità-univocità degli atti, l’art. 43 del Progetto Grosso, sempre con qualche aggiustamento, recepisce la soluzione dell’inizio dell’esecuzione. In argomento cfr. anche GIULIANO-BALESTRINO, Sull’inizio della punibilità a titolo di delitto tentato, in Indice pen., 2000, p. 487 ss.; G.A. DE FRANCESCO, Brevi spunti sulla riforma del tentativo, in questa Rivista, 2001, p. 716 ss.; F. ANGIONI, Un modello di tentativo per il codice penale, ivi, 2001, p. 1097 ss. (5) V. infra §§ 3 e 3.1.


— 917 — genze preventive e quelle di garanzia prende la forma di un confronto tra due modi diversi di concepire il reato e, ancor prima, il delitto tentato. 2. La questione della soglia dell’attività punibile: il modello della idoneità-univocità degli atti... — Il modello di tipizzazione del delitto tentato basato sui requisiti della idoneità e della univocità degli atti, se, da un lato, soddisfa senza dubbio le esigenze preventive, dall’altro, non sembra essere in grado di raggiungere un sufficiente livello di determinatezza, potendosi, anzi, senz’altro dire che è proprio grazie all’ambiguità ed alla vaghezza della formula di cui all’art. 56 c.p. che si possono affermare orientamenti ispirati da inequivocabili intenti repressivi e quindi volti ad anticipare notevolmente la soglia dell’attività punibile (6). Del modello in esame, com’è noto, sono state date diverse interpretazioni, che possono essere riunite in due gruppi a seconda che il ruolo effettivamente tipizzante della condotta punibile sia assegnato alla idoneità oppure alla univocità. Più precisamente, per un primo orientamento interpretativo, è senza dubbio il requisito della idoneità a svolgere un ruolo fondamentale nella tipizzazione dell’elemento oggettivo del delitto tentato, mentre l’univocità svolge una funzione correttiva del tutto secondaria. All’interno di questa direttrice si possono poi distinguere addirittura quattro orientamenti ulteriori che si differenziano per la diversa concezione del requisito della univocità (7): secondo alcuni autori, infatti, l’univocità indica già sul piano oggettivo la direzione della condotta verso un determinato fatto criminoso (8); per altri tale requisito deve coincidere con la prova dell’intento criminoso (9); per altri ancora, invece, l’univocità deve esprimere, al fine di valutare la direzione degli atti, la necessità di un termine di relazione da ricavarsi dall’elemento psicologico del soggetto agente (10); di recente, infine, è stata prospettata l’idea che il giudizio dell’univocità è strutturalmente identico a quello della idoneità, diffe(6) Sul punto v. anche F. PALAZZO, Se e come riformare il tentativo, relazione al Convegno su La riforma del codice penale (Pavia, 10-12 maggio 2001), pp. 3-4 del dattiloscritto, il quale precisa che ‘‘il ricorso all’idoneità come reale perno della figura del tentativo rispondeva all’esigenza di superare le inadeguatezze repressive del vecchio articolo 61 del codice Zanardelli’’ (p. 4). (7) Sul requisito della univocità, v. di recente l’ampia e approfondita ricostruzione, anche storica, di I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, Torino, 2000, p. 389 ss. (8) V. quanto riportato da M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 1995, p. 557 e da I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 417 ss. (9) In questo senso si esprime di recente G. AZZALI, Idoneità ed univocità degli atti. Offesa di pericolo, in questa Rivista, 2001, p. 1186. (10) M. SINISCALCO, voce Tentativo, in Enc. giur. Treccani, vol. XXX, Roma, 1993, p. 3; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2001, p. 428; T. PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 255-256.


— 918 — renziandosi da questo esclusivamente in ordine alla base, visto che ‘‘mentre nel giudizio di idoneità occorrerebbe utilizzare una base totale di circostanze, in quello di univocità verrebbero in rilievo soltanto quelle normalmente conoscibili da un osservatore esterno mediamente avveduto. Inoltre, nella base del giudizio occorrerà includere non soltanto le conoscenze di un osservatore mediamente avveduto, ma anche quelle maggiori eventualmente possedute dall’agente concreto’’ (11). A ben vedere, tali ricostruzioni suscitano non poche perplessità, in quanto, da un lato, un’interpretazione che attribuisce un ruolo tipizzante di primo piano alla idoneità immiserisce ulteriormente il contenuto e la funzione già di per sé poveri del requisito della univocità; dall’altro lato, nel momento in cui il requisito della idoneità risulta essere l’unico effettivamente impiegato ed impiegabile nella ricostruzione dell’elemento oggettivo del delitto tentato, si finisce per dar vita a un modello capace di creare enormi sperequazioni in ambito applicativo. In particolare, sotto il primo profilo, quale che sia, tra le quattro, l’interpretazione adottata, il requisito della univocità non è in grado di offrire alcun contributo alla tipizzazione della fattispecie oggettiva di delitto tentato: se, infatti, si opta per la concezione oggettivistica, è agevole obiettare che su un piano meramente materiale gli atti non possono che essere pluridirezionali (12); se si opta per la prova dell’intento criminoso, l’univocità viene esplicitamente identificata con l’elemento psicologico; se, invece, si ritiene che l’univocità esprime la necessità di un termine di relazione per misurare la direzione degli atti, non solo si finisce, ancora una volta, per farla coincidere, ancorché in modo implicito, con il dolo (13), ma si compie anche un’affermazione, a nostro parere, addirittura erronea. Più precisamente, per quanto riguarda quest’ultima interpretazione, ciò che non convince è soprattutto l’impianto concettuale che presuppone. Essa, infatti, a ben vedere, come si può ricavare dalle elaborazioni più compiute, sembra basarsi sull’idea che l’accertamento dell’elemento oggettivo del delitto tentato si articola essenzialmente in due fasi: una prima fase, concernente l’idoneità, in cui si accerta una sorta di tipicità — per così dire — generica dell’atto, in cui cioè si stabilisce se l’atto posto in essere dal soggetto agente assume ‘‘rilevanza penale’’, non tanto rispetto ad una fattispecie ben individuata, bensì rispetto ad una sorta di fattispecie generica di delitto tentato; e una seconda fase, relativa all’univocità, in cui, invece, si accerta la tipicità specifica, vale a dire si precisa, mediante (11) I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 439. (12) In questo senso v. per tutti G.A. DE FRANCESCO, Forme del dolo e principio di colpevolezza nel delitto tentato, in questa Rivista, 1988, pp. 971-972; G. MONTANARA, voce Tentativo (Diritto vigente), cit., p. 124. (13) In argomento cfr. anche G.A. DE FRANCESCO, Sul tentativo punibile, in Studium Iuris, 1999, p. 256.


— 919 — per l’appunto il criterio dell’univocità (che poi non è altro che l’elemento soggettivo), il peculiare delitto tentato che il soggetto intendeva effettivamente commettere e per il quale deve rispondere. Così, ad esempio, l’atto di introdursi nell’abitazione risulta idoneo e quindi genericamente tipico rispetto ad un certo numero di fattispecie, quali il furto, la minaccia, la violenza sessuale, l’omicidio etc.; l’univocità, vale a dire l’elemento psicologico, interviene per precisare che il soggetto debba rispondere, ad esempio, di furto tentato e non per gli altri delitti tentati. Tuttavia, una ricostruzione del genere non può essere accolta per due ragioni molto semplici: anzitutto, la prima fase vìola il principio di tipicità, poiché si finisce per delineare, quanto meno in un primo momento, una fattispecie di delitto tentato assolutamente generica ed indeterminata; inoltre, già su un piano meramente logico, l’accertamento di una tipicità generica non sembra avere alcun senso, visto che un ‘‘tentativo’’ sussiste o, meglio, può essere pensato sempre e solo rispetto a qualcosa di ben individuato, con la conseguenza che anche il requisito della idoneità presuppone l’individuazione della fattispecie che il soggetto intendeva effettivamente realizzare, e con la conseguenza ulteriore che il requisito della univocità non svolge alcuna funzione correttiva. In sostanza, e detto in altri termini, ciò che non convince della ricostruzione in esame è soprattutto l’idea che l’accertamento dell’elemento psicologico non deve intervenire prima della ricostruzione dell’elemento materiale, bensì durante la fase di accertamento della tipicità oggettiva, quando, cioè, una volta accertata l’idoneità, vale a dire la tipicità generica, occorre passare ad accertare l’univocità, e cioè la tipicità specifica. A nostro parere, invece, l’accertamento dell’elemento soggettivo deve interamente precedere l’accertamento dell’elemento oggettivo (14), in quanto — è bene ripeterlo — soltanto se si ha presente la fattispecie incriminatrice perfetta di parte speciale che il soggetto intendeva effettivamente realizzare è possibile ricostruire la tipicità del delitto tentato. Senza considerare poi che anche il giudizio di idoneità, soprattutto se ricostruito come giudizio probabilistico ex ante, necessita, a ben vedere, di un termine di relazione predefinito. Né, infine, ci sembra accettabile la soluzione di recente conio che, come accennato, ricostruisce l’univocità come giudizio ex ante a base parziale, e questo perché, se, da un lato, ha l’indubbio merito di dare una consistenza oggettiva al requisito in esame, dall’altro lato, cogliendo la differenza tra l’idoneità e l’univocità soltanto sul piano ‘‘quantitativo’’, finisce per creare una vera e propria sovrapposizione tra i due criteri, con la conseguenza che il criterio — per così dire — maggiore finirà per fagocitare l’ambito di applicazione del criterio ‘‘minore’’: ragion per cui, se si (14) 457.

In questo senso v. per tutti F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p.


— 920 — muoverà da una prospettiva oggettivistica, sarà il criterio della idoneità ad assorbire quello della univocità, mentre se si adotterà un’ottica soggettivistica, sarà quest’ultimo a ricomprendere il primo. Per quanto riguarda il secondo profilo, poi, e cioè quello attinente agli effetti sperequati dell’interpretazione in esame, occorre notare come, una volta rimasto soltanto il requisito della idoneità, il suo impiego possa portare a difformità applicative molto rilevanti. E questo non solo a causa del fatto che, com’è noto e come vedremo meglio in seguito, il requisito della idoneità può essere ricostruito facendo riferimento a basi di giudizio alquanto differenti (totale o parziale); ma anche perché è lo stesso oggetto del giudizio ed il parametro che possono mutare (15), visto che, secondo alcuni occorre fare riferimento all’evento naturalistico e quindi alla causalità (16); per altri occorre distinguere a seconda che si tratti di reati a condotta libera o a condotta vincolata e quindi riferirsi rispettivamente all’evento e alla adeguatezza causale oppure all’atto successivo e alla adeguatezza alla prosecuzione dell’iter criminoso (17); per altri ancora, infine, si deve aver riguardo all’interesse tutelato oppure alla fattispecie incriminatrice nel suo complesso (18). E il tipo di oggetto e di parametro incidono a loro volta in modo considerevole sulle leggi probabilistiche da impiegare. Con la conseguenza che il criterio della idoneità utilizzato in una prospettiva tipizzante non è assolutamente in grado di soddisfare quelle esigenze di certezza e garanzia a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio. Passando adesso ad analizzare il secondo orientamento interpretativo, per una parte più recente della dottrina, non è tanto l’idoneità a giocare un ruolo nella tipizzazione della condotta punibile, quanto piuttosto l’univocità (19). In particolare, secondo alcuni autori, da un lato, l’univocità indica un avanzato grado di sviluppo dell’iter criminis; dall’altro lato, l’idoneità costituisce, in modo più o meno esplicito, un requisito che deve (15) V. ampiamente S. DEL CORSO, Commento all’art. 56, in AA.VV., Codice penale, a cura di T. Padovani, Milano, 2000, pp. 322-323. (16) V. per tutti A. SANTORO, voce Tentativo, in Noviss. dig. it., vol. XVIII, Torino, 1971, p. 1146. (17) Cfr. I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 40 ss.; T. PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 254-255. (18) Nel primo senso v. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 555. Nel secondo senso si esprimono G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 424; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 457-458. (19) Cfr. per tutti G. MONTANARA, voce Tentativo (Diritto vigente), cit., pp. 124-125; G.A. DE FRANCESCO, Sul tentativo punibile, cit., p. 256; L. RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Un contributo ad una teoria delle clausole generali di incriminazione suppletiva, Milano, 2001, pp. 195-196. Nella manualistica v. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 557 ss.; A. GAMBERINI, Il tentativo, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. II, Torino, 2001, p. 311 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 463-464.


— 921 — essere interpretato negativamente, e cioè al fine di stabilire se si sia in presenza di un delitto tentato inidoneo-non pericoloso e quindi non punibile. Attraverso questa interpretazione si deve tuttavia riconoscere che il modello fondato sulla idoneità e sulla univocità degli atti finisce in verità per essere di fatto trasformato in quello basato sull’inizio della esecuzione (20). In particolare, se è vero che la ricostruzione in esame presuppone correttamente l’inversione del procedimento di accertamento dell’elemento soggettivo, e che il riferimento allo sviluppo dell’iter criminis è in grado di dare un contenuto oggettivo al requisito della univocità, è anche vero che tale riferimento continua, di per sé solo, a lasciare del tutto insoddisfatte le esigenze di precisione e determinatezza. A meno che, per valutare lo sviluppo dell’iter criminis, non si faccia riferimento alla tipicità della singola fattispecie incriminatrice c.d. perfetta: ma, così operando, il criterio della univocità degli atti, pur acquistando una funzione selettiva e tipizzante, finisce per trasformarsi in quello dell’inizio dell’esecuzione c.d. formale (21). 2.1. ... versus il modello dell’inizio dell’esecuzione. — Ecco allora che, a nostro avviso, soltanto quest’ultimo modello è in grado di soddisfare quelle esigenze di determinatezza che, come abbiamo accennato all’inizio, sono alla base della tipizzazione dell’elemento oggettivo del delitto tentato. Contro di esso, tuttavia, anche di recente, sono state avanzate due obiezioni di fondo (22). Per quanto riguarda le fattispecie a condotta vincolata, si è detto che il requisito in esame comporta un’eccessiva restrizione dell’ambito di punibilità del tentativo, in quanto risultano penalmente rilevanti solo le ipotesi in cui sono state poste in essere le modalità della condotta: con la conseguenza che si possono punire solo fatti già prossimi all’offesa. Per quanto riguarda i delitti a condotta libera o causalmente orientati, si è detto che il requisito in esame rischia di dilatare eccessivamente l’ambito del penalmente rilevante: rispetto a tali reati anche un atto preparatorio può risultare esecutivo, e questo perché, ricostruendo la tipicità in funzione della idoneità causale dell’atto, lo stesso acquisto del veleno, ad (20) Negli stessi termini, pur stemperando siffatta affermazione, cfr. A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 2000, p. 521. (21) Sulla distinzione tra criterio della esecutività in senso formale ed in senso sostanziale v. per tutti F. ANGIONI, Un modello di tentativo per il codice penale, cit., 1099 ss.; F. PALAZZO, Se e come riformare il tentativo, cit., pp. 7-8 del dattiloscritto. (22) Di recente cfr. I. GIACONA, Il problema dell’accertamento della idoneità degli atti ex art. 56 c.p., con particolare riferimento a un caso di tentativo di congiunzione carnale, in questa Rivista, 1998, pp. 904-907; ID., Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., pp. 375-376 e p. 384 ss.; U. GIULIANO-BALESTRINO, Sull’inizio della punibilità a titolo di delitto tentato, cit., p. 488 ss.; F. ANGIONI, Un modello di tentativo per il codice penale, cit., pp. 1099-1110. Nella manualistica v. per tutti G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 421.


— 922 — esempio, può risultare adeguato. Questa obiezione, tuttavia, così impostata, non sembra essere del tutto pertinente. Nelle fattispecie a condotta libera, infatti, ‘‘è la fedeltà all’istanza legalitaria che impone di considerare esecutivo l’ultimo degli atti diretti alla produzione dell’evento’’ (23). In tale prospettiva, l’inizio dell’esecuzione non può che coincidere con la realizzazione della condotta dalla quale scaturisce il nesso causale che cagiona l’evento, con la conseguenza che atto esecutivo è quello adeguato non tanto al successivo sviluppo dell’azione, bensì alla materiale produzione dell’evento naturalistico. Detto in altri termini, posto che nei reati a condotta libera la tipicità della condotta si determina sulla base della sua adeguatezza causale, l’obiezione in esame, identificando la causalità con la conditio sine qua non, finisce non tanto per misurare l’adeguatezza causale della condotta, quanto piuttosto l’adeguatezza al successivo sviluppo dell’azione. Ma se, diversamente, la causalità viene concepita sulla base delle leggi scientifiche, si deve concludere che è esecutivo solo l’ultimo degli atti diretti alla produzione dell’evento. Con la conseguenza che anche nei confronti delle fattispecie a condotta libera si può muovere (soltanto) l’obiezione secondo cui il requisito dell’inizio dell’esecuzione restringe troppo l’ambito di punibilità del tentativo. Tuttavia, questa osservazione critica può essere agevolmente superata attribuendo rilevanza penale agli atti immediatamente antecedenti alla esecuzione. Ed in questa direzione si è mosso proprio il Progetto Grosso, dove all’art. 43 si punisce a titolo di tentativo ‘‘chi intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto tentato, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti’’. Così, ad esempio, per quanto riguarda i reati a condotta vincolata, punibile per delitto tentato non è soltanto il ladro che ha sottratto la cosa mobile altrui senza essersene ancora impossessato, ma anche il soggetto che si sta arrampicando sul balcone per entrare nell’abitazione che intende svaligiare; parimenti deve ritenersi punibile il soggetto che si trova davanti all’ingresso della banca ed è sul punto di entrare per compiere una rapina. Per quanto riguarda i reati a condotta libera, poi, condotta tipica rispetto alla fattispecie di tentato omicidio non è l’acquisto dell’arma o del veleno, visto che esso non è causalmente adeguato alla produzione dell’evento (quanto piuttosto al successivo sviluppo dell’azione), bensì lo sparare o il propinare il veleno, ovvero, nel caso di più atti, il propinare la dose letale, potendosi anticipare la punibilità soltanto nei confronti degli atti immediatamente precedenti come, ad esempio, quello di appostarsi o di accingersi a propinare il veleno ovvero, nel caso di più atti, quello immediatamente precedente all’atto letale. E secondo il criterio dell’inizio dell’esecuzione trovano a nostro avviso agevole soluzione anche il caso (23)

Così F. PALAZZO, Se e come riformare il tentativo, cit., p. 7 del dattiloscritto.


— 923 — dell’apposizione di un marchio di garanzia su un prodotto scadente al fine di ingannare il consegnatario e quello della preparazione della torta avvelenata che si conserva nel frigorifero: entrambe le ipotesi, infatti, non possono di per sé essere punite, trattandosi di atti meramente preparatori. Esse tuttavia assumono rilevanza penale nel momento in cui il prodotto contraffatto oppure la torta avvelenata sono collocati in modo tale da poter entrare — per così dire — a contatto con la vittima, attualizzando l’intento criminoso manifestato con la precedente contraffazione. Con la conseguenza che risulta punibile non tanto chi si limita a contraffare il prodotto o a preparare la torta, né chi si limita a conservarli, quanto piuttosto chi pone consapevolmente tali oggetti in un luogo in cui la vittima può accedere. In conclusione, per quanto riguarda la ricostruzione della tipicità oggettiva del delitto tentato, posto che la maggior parte dei problemi ha origine dalla mancanza di chiarezza sul fatto che tale ricostruzione presuppone l’accertamento del dolo, vale a dire l’individuazione del delitto di parte speciale che l’agente intendeva effettivamente realizzare, allora c’è da chiedersi se, all’interno della norma che punisce il delitto tentato, non sia opportuno aggiungere un inciso che indichi, quanto meno implicitamente, la necessità di una tale inversione. In questa prospettiva, la disposizione sul delitto tentato potrebbe essere formulata nel seguente modo: ‘‘chi, volendo commettere un delitto, ne intraprende l’esecuzione, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica’’. 3. La questione del delitto tentato inidoneo-non pericoloso (non punibile): la non pericolosità oggettiva... — Passando adesso ad analizzare la questione del delitto tentato inidoneo-non pericoloso e quindi non punibile, occorre preliminarmente notare come il requisito della idoneità possa essere formulato in due modi diversi, o in positivo, richiedendo che l’atto risulti per l’appunto idoneo, oppure in negativo, specificando che la punibilità del delitto tentato è esclusa quando l’atto risulta inidoneo (24). Dietro queste due tecniche di tipizzazione esiste per la verità una certa e tendenziale differenza. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, infatti, alla idoneità formulata in positivo viene di regola attribuita una funzione tipizzante dell’attività punibile, mentre all’idoneità prevista in negativo si tende ad attribuire il compito di individuare il tentativo inidoneo non pericoloso e quindi non punibile, vale a dire un compito non solo cronologicamente successivo alla individuazione dell’attività tipica, ma anche concettualmente e funzionalmente differente, visto che, sotto il (24) Sulla configurazione in negativo del requisito della idoneità si vedano anche le considerazioni di G.A. DE FRANCESCO, Brevi spunti sulla riforma del tentativo, cit., p. 719 ss.


— 924 — primo profilo, l’inidoneità può essere accertata solo se l’atto risulta essere quanto meno immediatamente precedente all’inizio dell’esecuzione e, sotto il secondo, è ben possibile ipotizzare un atto tipico rispetto alla fattispecie di delitto tentato, ma inidoneo, in quanto non pericoloso, e quindi svincolare la tipicità dalla pericolosità. A ben vedere, tuttavia, la differenza tra queste due tecniche di tipizzazione si rivela meramente tendenziale, in quanto alla idoneità costruita positivamente può essere attribuita anche una funzione diversa da quella tipizzante, come accade allorquando si ritiene che a svolgere un ruolo determinante nella individuazione dell’attività punibile è l’univocità e non l’idoneità. Per converso, è ben possibile che, pur prospettandosi una formulazione in negativo del requisito della idoneità, questa continui ad avere una funzione tipizzante, come accade allorquando si afferma la non punibilità del tentativo impossibile per inidoneità della condotta o inesistenza dell’oggetto, senza specificare ulteriormente le cause di tale inidoneità ed il tipo di inesistenza (assoluta o relativa) (25). Tutto ciò precisato, entrando adesso nel vivo della questione, occorre notare che la non pericolosità del delitto tentato può essere apprezzata o sotto il profilo oggettivo oppure in ordine al profilo soggettivo. Da un lato, infatti, esiste una tendenza secondo cui il delitto tentato deve essere punito in quanto e allorquando crea un pericolo oggettivo e concreto per il bene tutelato. Dall’altro lato, esiste una prospettiva soggettivistica secondo cui il delitto tentato deve essere punito perché e allorché costituisce manifestazione di una volontà criminosa. In particolare, all’interno del primo orientamento — oggettivistico — si possono distinguere due soluzioni, a seconda che si faccia riferimento al mezzo utilizzato o all’oggetto materiale rispetto al quale era diretta la condotta oppure all’atto posto in essere (26). Entrambe le soluzioni, tuttavia, suscitano delle perplessità. Più precisamente, iniziando dalla prima soluzione basata sull’inesistenza assoluta dell’oggetto e sulla inidoneità assoluta del mezzo, si deve ricordare come soprattutto nei confronti di quest’ultima valutazione siano state avanzate alcune obiezioni. Sul punto, infatti, si è notato che un giudizio sulla idoneità-pericolosità del mezzo sarebbe un giudizio in astratto, che, tuttavia, non può essere accolto, in quanto, com’è notissimo, un mezzo astrattamente inidoneo può risultare in concreto idoneo e viceversa (27). (25) Come rileva F. ANGIONI, Un modello di tentativo per il codice penale, cit., p. 1117, ciò è accaduto nel Progetto Grosso, dove ‘‘l’idoneità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, anche se travestita in forma ‘negativa’’’. (26) Sulle diverse interpretazioni del requisito della idoneità degli atti cfr. ampiamente I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 21 ss. e p. 213 ss. (27) V. per tutti T. PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 253.


— 925 — A nostro avviso, però, questa obiezione, ad una più attenta analisi, non pare del tutto convincente. Essa, infatti, muove dall’idea che un giudizio sul mezzo sia necessariamente un giudizio in astratto, e che, al contrario, un giudizio sugli atti sia per forza di cose un giudizio in concreto, venendosi così ad instaurare una sorta di necessaria corrispondenza tra oggetto del giudizio (mezzo o atto) e tipo di giudizio (in astratto o in concreto). Tuttavia, a ben vedere, una siffatta corrispondenza non sussiste, in quanto, come vedremo subito, non solo il giudizio sulla idoneità del mezzo può essere compiuto anche in concreto, ma addirittura questa diversa prospettiva non comporta che il giudizio sul mezzo si trasformi in un giudizio sull’atto. Con la conseguenza che, a nostro avviso, come rispetto all’atto è possibile distinguere tra un giudizio in astratto (a base parziale) e un giudizio in concreto (a base totale), anche rispetto al mezzo sembra possibile distinguere tra giudizio in concreto e giudizio in astratto. Così, ad esempio, un giudizio in astratto sul mezzo venne elaborato dalla dottrina penalistica del tempo in cui vigeva il codice Zanardelli (28): il soggetto che propinava zucchero o quello che non uccideva la vittima perché scoppiava l’arma non si ritenevano punibili in quanto i mezzi dello zucchero e dell’arma risultavano inidonei-non pericolosi in astratto, cioè sulla base di un giudizio in cui si prescindeva dalle circostanze eccezionali (es. malattia del diabete presente in chi assumeva lo zucchero; scoppio dell’arma). Allo stesso modo, è possibile formulare un giudizio avente sempre ad oggetto il mezzo, ma in concreto, vale a dire facendo riferimento a tutte le circostanze presenti durante la vicenda criminosa, senza con questo poter affermare che il giudizio si è trasformato da giudizio sul mezzo a giudizio sull’atto: anche lo zucchero può essere considerato un mezzo idoneo nel momento in cui tra le circostanze si assume anche quella eccezionale della vittima affetta da diabete, così come la pistola può risultare inidonea se prendo in considerazione la circostanza eccezionale dello scoppio. Tutto ciò precisato, posto che il giudizio sul mezzo a base parziale (in astratto) non può essere adottato per le ragioni notissime già menzionate, occorre rilevare che anche quello a base totale (in concreto) può entrare in crisi. Si pensi, infatti, all’esempio di chi, volendo uccidere un proprio nemico, tenta di sparargli con un fucile che predispone in precedenza, ma che poi viene di nascosto scaricato dalla vittima (29). In questa ipotesi, appare evidente come, adottando un giudizio a base totale, si debba concludere per la non punibilità: il mezzo in concreto non era idoneo. Non solo, ma ad una più attenta analisi ci si rende conto che il giudi(28) Sul punto si veda quanto riportato da I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., pp. 23-24. (29) L’esempio è tratto da I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 229.


— 926 — zio sul mezzo non è sufficiente, in quanto esistono ipotesi in cui o il reato viene realizzato senza alcun strumento oppure, pur essendo stato utilizzato un determinato mezzo, ciò che risulta essere decisivo è l’atto posto in essere dal soggetto agente. Così, sotto il primo profilo, si pensi, ad esempio, al caso del furto, in cui ciò che deve essere valutato è soltanto l’atto di chi introduce la mano nella borsa, oppure si pensi alla condotta di strangolamento; sotto il secondo profilo, si consideri il soggetto che sbaglia la mira, vale a dire preme il grilletto in un momento inesatto, oppure spara ad una distanza superiore a quella della portata di tiro, e, comunque, si pensi a tutte le ipotesi in cui il soggetto agente non realizza il reato a causa di un suo errore, come nel caso di chi impugna la pistola scarica al posto di quella carica oppure porge la tazzina non avvelenata al posto di quella contenente il cianuro. Quanto appena osservato ci consente anche di notare come la soluzione basata sul giudizio sul mezzo e quella incentrata sul giudizio sull’atto, pur essendo presentate spesso come soluzioni antitetiche e alternative, a ben vedere, si trovino in una posizione concordante, venendo spesso utilizzate, ancorché in modo non sempre consapevole, cumulativamente. In una prospettiva assolutamente diversa da quella appena esaminata si muove l’altra soluzione oggettivistica che, come accennato, si basa su un giudizio di idoneità avente ad oggetto l’atto. In questa ottica la struttura del delitto tentato viene ricostruita sulla base dei reati di pericolo (30). Al suo interno, poi, si possono distinguere due orientamenti ulteriori a seconda che la base del giudizio sia totale, facente riferimento cioè a tutte le circostanze effettivamente esistenti al momento dell’azione, oppure parziale, con esclusione, cioè, delle circostanze non verosimilmente esistenti e quindi eccezionali (31). In particolare, la soluzione fondata sul giudizio ex ante a base totale (32), se, per un verso, ha il merito di rispondere ad una concezione rigorosamente oggettiva del delitto tentato, in perfetta sintonia con la tradizione penalistica italiana, per altro verso, rischia di creare dei veri e propri vuoti di tutela. Sotto il primo profilo, infatti, sicuramente apprezzabile è l’idea secondo cui la punibilità del delitto tentato deve fondarsi sulla og(30) In questo senso cfr. di recente G. AZZALI, Idoneità ed univocità degli atti, cit., p. 1168 ss.; F. ANGIONI, Un modello di tentativo per il codice penale, cit., p. 1114 ss. (31) In argomento v. ampiamente I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 215 ss.; F. ANGIONI, Un modello di tentativo per il codice penale, cit., p. 1109 ss. Nella manualistica cfr. per tutti F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., pp. 460-461. (32) Cfr. per tutti I. GIACONA, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, cit., p. 264 ss. e gli Autori ivi citati. Nella manualistica v. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, cit., p. 555; G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, cit., p. 424.


— 927 — gettiva e concreta messa in pericolo del bene tutelato, con la conseguenza che, là dove l’atto risulta non idoneo, il delitto tentato non può essere punito proprio perché il bene non ha corso alcun pericolo. Sotto il secondo profilo, tuttavia, non si può nascondere che, così operando, si finisce per punire il delitto tentato soltanto nell’ipotesi in cui il fattore impeditivo non solo è intervenuto in un momento successivo alla realizzazione degli atti, ma addirittura quando si era veramente prossimi alla realizzazione della fattispecie incriminatrice di parte speciale. Così, ad esempio, sicuramente punibile per tentato omicidio è chi spara alla vittima, la colpisce, ma la morte non si verifica per la cura tempestiva ed efficace che gli viene apprestata; parimenti, risulta punibile per delitto tentato chi infila la mano nella borsa della signora, ma, essendo stato sorpreso, non riesce a sottrarre il portafoglio. Al contrario, non risulta a rigore punibile chi spara e non uccide la vittima perché protetta da un giubbetto antiproiettile oppure chi infila la mano nella borsa in cui occasionalmente non si trova l’oggetto materiale del furto. Ma anche nel caso in cui la vittima non sia stata colpita perché il soggetto agente ha sbagliato la mira ci sembra difficilmente prospettabile la punibilità, visto che, a rigore, la vita di chi si voleva uccidere non è stata posta in pericolo. In sostanza, in questa prospettiva la punibilità dipende, a ben vedere, dal momento in cui il fattore impeditivo interviene, con la conseguenza che se tale fattore è antecedente o concomitante alla realizzazione dell’atto, la punibilità è esclusa, mentre se è successivo, la punibilità deve essere ammessa. Secondo un’altra parte della dottrina, muovendo per la verità da preoccupazioni preventive e quindi da considerazioni soggettivistiche, proprio al fine di far fronte a eventuali vuoti di tutela, il giudizio di idoneità sull’atto deve essere compiuto adottando una base parziale, con esclusione, pertanto, delle circostanze non verosimili e quindi eccezionali (33). Siffatta soluzione ha senza dubbio il merito si estendere l’ambito della punibilità del delitto tentato, ricomprendendo anche le ipotesi in cui il fattore impeditivo è concomitante. Essa tuttavia porta a risultati non accettabili sotto altri profili. Anzitutto, si potrebbe notare che nel caso di inesistenza assoluta dell’oggetto si dovrebbe comunque punire: in queste ipotesi, infatti, la mancanza dell’oggetto, proprio perché assoluta, non può essere considerata una circostanza verosimile, ma eccezionale. Questa obiezione, però, non sembra essere del tutto calzante, in quanto, a ben vedere, è la stessa inesistenza del bene giuridico tutelato che porta senza dubbio a concludere per la non punibilità. (33)

Nella manualistica cfr. T. PADOVANI, Diritto penale, cit., pp. 253-254; F. MAN-

TOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 461.


— 928 — D’altra parte, esistono ulteriori ipotesi in cui la distinzione tra fattori eccezionali e fattori verosimili è alquanto problematica. Si pensi, anzitutto, al classico esempio di chi propina zucchero al diabetico: in questo caso l’impiego della base parziale dovrebbe portare a concludere per la non punibilità, e questo perché il diabete è un fattore eccezionale. (Ed è proprio per risolvere questi casi che si è elaborato il criterio secondo cui il soggetto che possiede conoscenze ‘‘superiori’’ deve essere punito (34), aprendo in questo modo a considerazione soggettive che, come vedremo, sembrano rappresentare l’unica via di uscita coerente). Inoltre, si pensi all’ipotesi del soggetto che spara e manca la vittima perché prende male la mira a causa della scarsa visibilità dovuta alla pioggia oppure all’ipotesi del soggetto che spara senza aver tolto la sicura: la pioggia o la sicura possono essere considerati fattori eccezionali? Non solo, ma oggi, la presenza ad esempio di un vetro o di un giubbetto antiproiettile può essere considerata un fattore eccezionale? Come è facile notare, ancora una volta i maggiori problemi si pongono rispetto ai fattori concomitanti e, più precisamente, non tanto rispetto ai fattori concomitanti — per così dire — esterni al soggetto agente (es. mancanza occasionale del portafoglio nella borsa della vittima; presenza del corpetto antiproiettile; arrivo tempestivo della polizia), quanto piuttosto rispetto ai fattori concomitanti ‘‘interni’’ all’atto posto in essere dal soggetto. Ma al di là delle obiezioni che possono essere mosse alle singole soluzioni appena esaminate, la ricostruzione oggettivista sembra entrare in crisi soprattutto nelle ipotesi che potremmo definire di errore, come ad esempio quelle di chi spara con la pistola che non ha il colpo in canna credendo che sia carica. Ebbene, in tutti questi casi appare evidente come, se da un punto di vista oggettivo, quale che sia la soluzione adottata, l’atto non può essere considerato pericoloso, da un punto di vista soggettivo, esso acquista un notevole disvalore sicuramente meritevole di sanzione penale. In particolare, sotto il primo profilo, il delitto tentato non è pericoloso in quanto, se si adotta un giudizio sul mezzo in astratto, essendo la pistola scarica, il mezzo è assolutamente inidoneo; ma anche nel caso di giudizio sul mezzo in concreto, si deve concludere per la assoluta inidoneità, visto che mancava il proiettile; allo stesso modo l’atto risulta inidoneo se adotto un giudizio a base totale, così come devo considerarlo inidoneo se adotto una base parziale, posto che il non avere il colpo in canna è la regola e non l’eccezione. Sotto il secondo profilo, però, appare evidente come, nonostante la mancanza di una pericolosità oggettiva, la non realizzazione del delitto perfetto sia dovuta essenzialmente a un caso, ad una circostanza del tutto estemporanea, ad un fattore impeditivo per l’ap(34)

V. sul punto A. GAMBERINI, Il tentativo, cit., p. 314.


— 929 — punto estraneo alla condotta e alla volontà del soggetto agente. Ecco allora che le perplessità suscitate dalla ricostruzione oggettivistica nascono proprio da questa indifferenza rispetto al disvalore soggettivo. L’orientamento oggettivistico, cioè, trascura il fatto che la fattispecie di delitto tentato non costituisce una pura e semplice anticipazione della tutela da valutare su un piano oggettivo, ma l’incriminazione di un fatto che pur essendo atipico rispetto alla fattispecie incriminatrice di parte speciale, e nella maggior parte delle ipotesi oggettivamente non pericoloso, si rivela comunque dotato di un disvalore soggettivo meritevole di tutela penale, e questo sia perché il soggetto voleva realizzare la fattispecie criminosa, sia perché la mancata realizzazione è dovuta a fattori del tutto indipendenti dalla sua volontà. Non solo. Andando ancora più a fondo, le soluzioni fondate su un giudizio di idoneità avente ad oggetto gli atti non convincono soprattutto per la premessa da cui muovono, e cioè per l’idea che l’inidoneità può essere apprezzata su un piano oggettivo. Contro tale convinzione, tuttavia, ci sembra possibile affermare che, a ben vedere, il delitto tentato nasce — per così dire — in partenza non consumato, nel senso che su un piano oggettivo tutti i delitti tentati risultano inidonei, con la conseguenza che su tale piano è praticamente impossibile distinguere tra ipotesi di inidoneità non pericolose ed ipotesi di inidoneità pericolose. Concludendo, la concezione oggettivistica è in grado di offrire un importante contributo soltanto nelle ipotesi di inesistenza del bene giuridico tutelato, in quanto solo in quel caso sembra possibile affermare che effettivamente l’atto non era oggettivamente pericoloso. Così, ad esempio, non ci sembra punibile il soggetto che introduce la mano nella borsetta vuota, né il soggetto che spara da una distanza maggiore rispetto alla portata di tiro del fucile: in entrambe le ipotesi, infatti, è lo stesso bene giuridico offendibile che manca. 3.1. ... versus la non pericolosità oggettiva dovuta all’ignoranza nomologica del soggetto agente. — Anche all’interno della direttrice c.d. soggettivista si è soliti distinguere quanto meno due soluzioni di fondo (35). Secondo un primo orientamento, infatti, il delitto tentato deve essere punito in quanto costituisce la manifestazione di una volontà criminosa (teoria c.d. soggettivistica). Tale punto di vista, tuttavia, suscita alcune perplessità, ma non tanto perché riconosce rilevanza al disvalore soggettivo, quanto piuttosto perché considera punibile qualsiasi manifestazione di una volontà criminosa, con la conseguenza che, da un lato, il fondamento (35) V. per tutti H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, Berlin, 1996, p. 512 ss. Per un’ampia ed aggiornata ricostruzione delle numerose concezioni soggettivistiche cfr. anche R. ALCÀCER GUIRAO, La tentativa inidónea. Fondamento de punición y configuración del injusto, Granada, 2000, p. 17 ss. e p. 247 ss.


— 930 — del delitto tentato finisce per risiedere nel mero atteggiamento di disobbedienza, e, dall’altro, si può ritenere sanzionabile qualsiasi delitto tentato inidoneo, con esclusione soltanto del delitto tentato c.d. superstizioso (36), potendo, a dire il vero, spingersi fino al punto di ritenere punibile addirittura anche quest’ultimo. Per un altro orientamento, invece, la ratio del tentativo non deve essere ravvisata nella sola (e semplice) manifestazione della volontà criminosa, quanto piuttosto nella manifestazione di una volontà criminosa che, pur rivelandosi oggettivamente non pericolosa, suscita un certo allarme sociale (teoria c.d. dell’impressione) (37). In questa prospettiva, diventa allora possibile compiere una distinzione all’interno dei delitti tentati inidonei e considerare non punibili quelli che per l’appunto non creano alcun ‘‘allarme sociale’’, ovvero quelli che, non essendo possibile una distinzione sul piano meramente oggettivo, risultano oggettivamente inidonei a causa dell’ignoranza nomologica del soggetto agente. Così, ad esempio, il soggetto, che volendo uccidere somministra farina nella convinzione che tale sostanza sia in grado di cagionare la morte, non può essere punito in quanto l’inidoneità del fatto dipende dalla sua ignoranza. La stessa cosa accade quando il soggetto somministra zucchero. Tuttavia, se lo zucchero è somministrato nei confronti di un soggetto diabetico e il soggetto agente è a conoscenza della malattia, non si può più dire che il delitto tentato non è punibile, in quanto tale fatto, accompagnato dalla volontà di uccidere, si rivela idoneo a causa delle conoscenze superiori possedute dal soggetto agente. E ancora, il soggetto che spara con la pistola scarica non può che essere punito, a meno che non si dimostri che il soggetto non ritenesse necessario utilizzare i proiettili a causa della sua ignoranza. E forse anche il soggetto che spara ignorando (in modo assoluto) la necessità di togliere la sicura oppure di mettere il colpo in canna può essere non punito, visto che anche in queste ipotesi l’inidoneità dipende dalla non conoscenza del mezzo utilizzato. E si badi, le ipotesi di ignoranza non devono essere confuse con quelle di errore: un conto, infatti, è il caso di chi propina farina credendo che essa possa uccidere, un conto è il caso di chi propina farina ritenendo che sia cianuro. Inoltre, e questo ci sembra essere un punto di fondamentale importanza, legare la mancanza di pericolosità del delitto tentato alla inidoneità oggettiva derivante dalla mancanza di conoscenze nomologiche non significa negare necessariamente una concezione oggettivistica del delitto ten(36) Per una recente rivalutazione di siffatta concezione v. R. BLOY, Unrechtsgehalt und Strafbarkeit des grob unverständigen Versuchs, in ZStW, 2001, p. 76 ss. In senso critico v. E. MORSELLI, voce Tentativo, cit., p. 186. (37) Cfr. H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p. 514 e gli Autori ivi citati. Nella dottrina italiana v. E. MORSELLI, voce Tentativo, cit., p. 187.


— 931 — tato: l’adesione a quest’ultima concezione, infatti, si esprime in modo più opportuno e coerente nel trattamento sanzionatorio, allorquando si stabilisce che, da un lato, la pena per il delitto tentato (idoneo-pericoloso) deve essere necessariamente inferiore a quella del delitto perfetto di parte speciale e, dall’altro, che il delitto tentato inidoneo-non pericoloso non deve essere punito. Infine, si deve precisare che la soluzione qui prospettata è compatibile non solo — come spesso si afferma — con un concezione del diritto penale come strumento di controllo sociale e quindi con la funzione di prevenzione generale integratrice della pena (38), ma anche con una concezione del diritto punitivo come strumento di tutela dei beni giuridici e pertanto con una funzione svolta dalla pena di prevenzione generale negativa. Da un lato, infatti, non ci sembra del tutto corretto ritenere che sussista una necessaria corrispondenza tra concezione oggettiva del diritto penale e funzione di prevenzione generale negativa, e quindi, per converso, tra soggettivismo e prevenzione generale integratrice, visto che una tutela del bene giuridico sussiste anche quando si punisce dando particolare rilievo al disvalore soggettivo manifestato. Dall’altro lato, e soprattutto, si deve notare che la soluzione in esame non è, a bene vedere, una vera e propria concezione soggettiva, in quanto continua ad attribuire rilevanza alla inidoneità oggettiva, la quale, tuttavia, deve essere ‘‘misurata’’ sulla base (del profilo soggettivo) delle conoscenze o dell’ignoranza dell’autore, con la conseguenza che la non punizione del delitto tentato inidoneo deriva dal fatto che ‘‘fin dall’inizio’’, proprio a causa dell’ignoranza del soggetto, il bene giuridico non poteva essere offeso, non sussistendo, quindi, particolari esigenze di prevenzione generale (negativa). Concludendo, per quanto riguarda l’individuazione del tentativo inidoneo non punibile, occorre notare come la maggior parte dei problemi abbia avuto origine proprio dal fatto che si sia seguita una impostazione rigorosamente oggettiva. Stando così le cose, allora c’è da chiedersi se la disposizione sulla non punibilità non debba essere formulata in modo tale da dare rilevanza alle ipotesi di mancanza di pericolosità oggettiva consistenti nella assenza del bene giuridico tutelato e anche a quelle di mancanza di ‘‘pericolosità soggettiva’’. In questa prospettiva, la disposizione sul delitto tentato potrebbe avere il seguente tenore: ‘‘la punibilità per delitto tentato è esclusa quando, per l’inesistenza o l’assenza del bene giuridico tutelato o per l’ignoranza nomologica del soggetto agente, è impossibile la consumazione del delitto’’. (38) In questo senso cfr. ancora H.H. JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p. 514, secondo i quali ‘‘la meritevolezza di pena della condotta diretta al fatto viene affermata soltanto quando attraverso essa si può turbare la fedeltà della collettività alla vigenza dell’ordinamento giuridico e compromettere il sentimento di sicurezza giuridica e con ciò la pace giuridica’’; E. MORSELLI, voce Tentativo, cit., p. 187.


— 932 — 4. La corrispondenza tra concezione oggettiva del reato e favor rei: un mito destinato a dissolversi. — A questo punto dell’indagine, ci sembra opportuno estendere brevissimamente la nostra riflessione su una questione particolare che, essendo sottostante al tema del delitto tentato ed a molti altri istituti penalistici, ci sembra di capitale importanza: si tratta della questione concernente i rapporti tra concezione oggettiva del reato ed istanze di garanzia. Più precisamente, a noi pare che la cultura penalistica italiana sia ancora oggi imperniata sull’idea che l’adozione di una concezione oggettiva del reato, vale a dire privilegiante le componenti non psicologiche, ma materiali del reato, comporti la massima tutela garantista per il soggetto che ha commesso il reato. Tale punto di vista, però, ad un’analisi più approfondita, si rileva un vero e proprio mito, una sorta di ideologia, come tale destinata inevitabilmente a cadere, in quanto, come abbiamo tentato di dimostrare anche nelle pagine precedenti, non solo il risalto dei profili soggettivi può portare a soluzioni — per così dire — più favorevoli al reo, ma addirittura l’ancoraggio ad una visione rigorosamente oggettivistica può condurre addirittura a soluzioni repressive, irragionevoli, se non addirittura sperequate. Così, sotto il primo profilo, si pensi al concorso di reati, e più precisamente alla previsione del cumulo giuridico per il concorso formale ed il reato continuato: com’è stato osservato di recente, il trattamento più favorevole del cumulo giuridico non discende dal minore disvalore oggettivo, quanto piuttosto da quello soggettivo (39), visto che, nel concorso formale, la deliberazione del soggetto è stata manifestata in un solo momento, mentre nel reato continuato, pur essendo manifestata in più tempi, essa è stata presa una sola volta. Sotto il secondo profilo, si pensi invece alla operatività oggettiva delle scriminanti: non punire Caio che non percepisce la situazione scriminante, ma punire Tizio perché si ritiene l’aggressore, significa, a ben vedere, compiere una disparità di trattamento, visto che anche nei confronti di Tizio, ritenuto l’aggressore, sussiste una scriminante, la quale, dovendo operare oggettivamente, dovrebbe portare alla sua impunità. Con la conseguenza che, in una prospettiva oggettiva, o, al fine di non creare sperequazioni, si giunge al risultato assurdo della non punizione di entrambi i soggetti, oppure, al fine di evitare tale conseguenza, si punisce colui che per mere ragioni di fatto si ritiene l’aggressore (es. ha iniziato per primo la condotta criminosa), dando così luogo ad una vera e propria disparità di trattamento. In sostanza, e concludendo, a noi pare che la contrapposizione tra oggettivismo e soggettivismo non abbia tutta quella rilevanza che da sempre (39) Cfr. A. VALLINI, Concorso di norme e di reati, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. II, cit., pp. 383-384.


— 933 — si è soliti attribuirle, nel senso che non sempre dietro ad una concezione oggettivistica si nasconde necessariamente una visione garantista o favorevole al reo, così come dietro a scelte volte a dare rilevanza a profili soggettivi e psicologici non si nasconde necessariamente una volontà repressiva. ROBERTO BARTOLI Ricercatore nell’Università di Firenze


LA RIFORMA DEL DIRITTO PENALE SOCIETARIO

LA RIFORMA DEL DIRITTO PENALE SOCIETARIO, FRA DICTUM DEL LEGISLATORE E RAGIONI DEL DIRITTO

SOMMARIO: 1. L’impianto della riforma. - 1.1. Dallo schema Mirone al d.lgs. n. 61/2002. 1.2. La retorica dei buoni principi. - 1.3. Problemi e tecniche di tutela. - 1.4. La riforma, fra continuità e svolta di sistema. — 2. Che cosa resta del delitto di false comunicazioni sociali? - 2.1. La riformulazione e lo smembramento della fattispecie. 2.2. Quale tutela della trasparenza dell’informazione societaria? - 2.3. Il falso come ‘‘alterazione sensibile’’. La questione delle soglie. - 2.4. La questione delle valutazioni. - 2.5. La frantumazione delle fattispecie. - 2.6. Un’anomala ipotesi di perseguibilità a querela. - 2.7. Il dolo specifico fra ideologia e logoramento interpretativo. — 3. L’inserimento sistematico. - 3.1. Problemi di concorso di reati. - 3.2. Le politiche sanzionatorie e della non punibilità. - 3.3. Il rischio di incrinatura delle basi etiche del mercato. - 3.4. Verso una politica penale a doppio binario?

1.

L’impianto della riforma.

1.1. Dallo schema Mirone al d.lgs. n. 61/2002. — ‘‘Ma perché frode è dell’uom proprio male / più spiace a Dio, e però stan di sotto / li frodolenti, e più dolor li assale’’ (DANTE, Inferno, XI, 25-27). Propongo questi celebri versi — per il giudizio morale ch’essi sottendono, non per nostalgia giustizialista di malebolge carcerarie — come epigrafe ironica della riforma del diritto penale societario. Hanno a che fare con la frode i problemi di tutela degli interessi implicati in rapporti societari e ‘‘di mercato’’, che hanno bisogno di poggiare su affidamenti solidi. La frode è modalità tipica di frustrazione degli affidamenti; il concetto di frode è talvolta usato anche per indicare il risultato ingiustamente ottenuto con l’inganno. Prevenire e reprimere frodi, commesse abusando di poteri e strumenti ‘‘societari’’, è la finalità che il penale societario può ragionevolmente assumere come fine ultimo. Se esaminiamo in quest’ottica l’iter della riforma del diritto penale societario, sfociata nel d.lgs. n. 61 del 2002, possiamo distinguere due fasi. Il cammino della riforma andava comunque intrapreso, ribadiscono anche severi critici della riforma realizzata (1). Punto di partenza sono (1)

FOFFANI-VELLA, ‘‘Nuovo’’ falso in bilancio: un passo indietro nel cammino verso


— 935 — stati i lavori della c.d. Commissione Mirone, che hanno portato ad uno schema di legge delega per la riforma del diritto societario, elaborato in un ampio e argomentato confronto in sede tecnica e politica. Dal diritto penale societario è stato eliminato il troppo e il vano (le molte incriminazioni per irregolarità puramente formali), e sono state ritagliate figure pregnanti di illeciti, spesso caratterizzati da modalità e finalità fraudolente. Lo schema Mirone è stato trasfuso, nella XIII legislatura, in un disegno di legge governativo, riproposto nella XIV legislatura da uno dei partiti della precedente maggioranza, e ripresentato anche in un disegno di legge del nuovo governo. Dopo di che, nel corso di un rapido iter parlamentare, una maggioranza numericamente forte, non disponibile ad alcun confronto, ha introdotto modifiche circoscritte ma penetranti, che, inserendosi nell’impianto originario, ne hanno trasfigurato il senso. La riforma, nata vitale da un equilibrato apporto di ‘‘ragioni’’ tecniche, è stata ‘‘politicizzata’’ al massimo, al punto che un suo apologeta ha cominciato il suo discorso osservando che le leggi le scrivono i vincitori (2). Le modifiche apportate al disegno originario consistono, tutte, in un’ulteriore restrizione dell’area del penalmente rilevante e in una revisione delle politiche sanzionatorie, che si risolvono in una bagatellizzazione della frode. La legge delega n. 366/2001, a maglie strettissime, ha prefigurato pressoché interamente i contenuti del decreto d’attuazione, lasciando tuttavia al legislatore delegato, a proposito delle false comunicazioni sociali, la previsione (eventuale) di soglie quantitative, e la previsione di ‘‘idonei parametri per i casi di valutazioni estimative’’. Questo spazio di discrezionalità è stato usato dal legislatore delegato per introdurre soluzioni di ulteriore forte restrizione dell’intervento penale, che sono fra i punti più controversi della riforma. Il decreto legislativo, che attua la legge delega, reca nel bene e nel male — in un esito ‘‘assolutamente contraddittorio’’ (3) — segni della prima e della seconda fase della gestazione della riforma. Molti fantasmi del vecchio, pletorico diritto penale societario sono stati spazzati via. Ma nuovi problemi si pongono, e, temo, più gravi. l’Europa, in Mercato, concorrenza, regole, 2002, p. 126. L’opinione che una riforma fosse necessaria è generalmente condivisa, sia fra i giuristi (per es. ALESSANDRI, Simbolico e reale nella riforma del diritto penale societario, ivi, p. 146 s.; G.E. COLOMBO, Il falso in bilancio e le oscillazioni del pendolo, in Riv. dottori commercialisti, 2002, p. 205 s.) sia fra i commercialisti (per es. REBOA, Aspetti critici del nuovo falso in bilancio, ivi, p. 242. (2) LANZI, La riforma sceglie una risposta ‘‘civile’’ contro l’uso distorto dei reati societari, in Guida al diritto, 2002, n. 16, p. 9. (3) FOFFANI-VELLA, op. cit., p. 127. Valutazioni critiche anche da parte del coordinatore della Commissione che ha elaborato la bozza di decreto legislativo: E. MUSCO, I nuovi reati societari, Milano, 2002.


— 936 — 1.2. La retorica dei buoni principi. — I padri, o, per meglio dire, i trasformatori della riforma nella XIV legislatura, hanno cercato di presentarla sotto un segno di continuità con l’ispirazione originaria (4), come migliore esplicitazione dei principi direttivi già enunciati nella relazione di accompagnamento del disegno di legge n. 7123 nella 13a legislatura. La retorica dei buoni principi (sussidiarietà, offensività, precisione) attraversa tutti gli interventi a sostegno delle innovazioni più dirompenti, nel senso del ritrarsi del diritto penale. Come interessi tutelati si indicano il patrimonio (della società, dei soci, di terzi), la regolarità ed affidabilità dei mercati finanziari, la correttezza dell’amministrazione dell’impresa. Sulla ‘‘bontà, in astratto’’, di questi principi, c’è il generale consenso cui il relatore sul disegno di legge si è richiamato. Ma alla retorica dei principi non ha corrisposto una loro reale utilizzazione in argomenti razionalmente sviluppati. Di fatto, i buoni principi del diritto penale liberale sono stati invocati a copertura di qualsiasi proposta di restrizione dell’intervento penale, senza una seria discussione sulle ragioni e sui presupposti dell’opzione effettuata. Il principio di tutela di beni giuridici, l’offensività quale criterio di tipizzazione dei reati, la sussidiarietà quale criterio di restrizione e di controllo dell’opzione penalistica, sono criteri, tutti, che impongono di confrontarsi con positive ragioni di tutela. Prendere sul serio il principio d’offensività, significa individuare interessi da tutelare, modalità di offesa da contrastare, e costruire soluzioni normative adeguate. Prendere sul serio l’idea della ‘‘sussidiarietà’’ dell’intervento penale, significa riflettere su diverse possibili soluzioni tecniche d’un problema di tutela, assegnando allo strumento penale un ruolo di chiusura o di extrema ratio, là dove altri strumenti non bastino. Proprio con l’esigere che l’intervento penale sia agganciato (delimitato) a ragioni di tutela non altrimenti soddisfacibili, le idee regolative liberali richiedono un’attenta considerazione delle ragioni di tutela, dell’eventuale esistenza e sufficienza di forme di tutela non penale, e comunque delle condizioni di una tutela ‘‘razionale rispetto allo scopo’’. Un approccio solo ‘‘in negativo’’, comunque etichettato, rischia di lasciare nell’ombra il momento (il problema) della positiva giustificazione di quel tanto o poco di penale che sia opportuno (o necessario?) conservare o, eventualmente, introdurre a tutela di interessi importanti. Come gli altri principi fondamentali del sistema, anche offensività e sussidiarietà sono criteri, ad un tempo, di delimitazione e di positiva conformazione del sistema penale. L’idea illuministica del diritto penale come extrema ratio riconnette (4) Esplicita in questo senso la relazione dell’on. Pecorella alle Commissioni riunite della Camera, pubblicata in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001, p. 674 s. (a questa relazione si riferiscono le citazioni che seguono).


— 937 — razionalmente l’aspetto delimitativo o garantista, con il vincolo a ragioni positive di tutela del deposito della salute pubblica (5), con le quali occorre fare i conti nelle scelte relative ai modi della tutela. Senza una positiva considerazione delle ragioni di tutela, e delle condizioni di una tutela possibile, l’invocazione della sussidiarietà del diritto penale, o di consimili ‘‘buoni principi’’, si riduce a retorica atta a motivare (illusoriamente) qualsiasi restrizione dell’intervento penale, sol perché tale. Non è questo, ovviamente, il senso di principi che intendono essere, ad un tempo, liberali e razionali, volti a tutelare al meglio — anche, se necessario, con lo strumento penale — gli interessi dei quali è intessuta una convivenza di uomini liberi. 1.3. Problemi e tecniche di tutela. — Quali problemi di tutela, in materia societaria, richiedono una riflessione sull’eventuale ricorso a strumenti penali? Quali ‘‘beni giuridici’’ vengono in rilievo, quali offese si tratta di prevenire? Il senso della domanda sul bene giuridico ha appunto a che fare con l’individuazione di un problema di tutela: tutela di beni o interessi preesistenti e indipendenti dal diritto penale, che proprio per questo possono additare al diritto penale indirizzi e vincoli. Nel diritto penale positivo troviamo le risposte che il legislatore ha dato, e che cerchiamo di comprendere e ricostruire (anche) alla luce del bene o interesse (del problema di tutela) con cui intendono porsi in relazione. Partendo dal problema, e non da sue contingenti soluzioni, possiamo meglio lumeggiare le ragioni che fondano l’eventuale bisogno di tutela penale, e quindi controllare il senso, la legittimità, la razionalità delle soluzioni che il legislatore abbia dato, in termini vuoi di idoneità allo scopo di tutela, vuoi di interna coerenza. Sullo sfondo del ‘‘vecchio’’ diritto penale societario, il più autorevole studioso della materia ha individuato come ‘‘oggetto immediato di tutela penale’’ le ‘‘istituzioni societarie’’: ‘‘nuclei normativi omogenei come l’informazione societaria, il capitale sociale, l’interesse sociale, le prerogative degli organi assembleari e di controllo’’; elementi, dunque, ‘‘di creazione legislativa, cristallizzati negli aspetti normativi del fenomeno societario’’. Creazione, si noti, non del legislatore penale, ma dell’ordinamento giuridico complessivo, entro il quale ‘‘il margine di autonomia della norma penale si esprime nella cernita e delimitazione dei profili di rilevanza’’ (6). Gli interessi ‘‘finali’’, cui guardano gli strumenti del diritto societario, sono interessi patrimoniali. La cornice costituzionale è segnata dalla libertà dell’iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost.: il compito del legislatore è di costruire e rendere effettivo un sistema di regole del gioco, (5) L’espressione è di BECCARIA, Dei delitti e delle pene, par. II (p. 12 dell’edizione a cura di F. Venturi, Torino 1994). (6) PEDRAZZI, Società commerciali (disciplina penale), in Dig. pen., XIII, p. 348.


— 938 — che funzionino come promozione e garanzia di libertà di tutti i partecipanti al gioco economico (al mercato, al ‘‘traffico giuridico’’), e non come lacci e lacciuoli ingiustificati: istituzioni di libertà, anche là dove la loro costruzione e difesa richieda il ricorso a precetti e sanzioni che per loro natura costituiscono limitazioni di libertà. Insomma: il problema di tutela, per il quale il ‘‘penale societario’’ si candida come eventuale risposta, si colloca nella medesima prospettiva in cui è costruito il diritto societario. In ultima analisi, un problema di sostegno e salvaguardia di interessi patrimoniali; in via immediata, eventuali esigenze di tutela di strumenti che il diritto societario abbia apprestato per il perseguimento dei suoi obiettivi. I problemi del ‘‘penale societario’’ hanno dunque a che fare con esigenze di tutela ‘‘anticipata’’ di interessi patrimoniali dei partecipanti al ‘‘traffico giuridico’’, legate a pericoli specifici connessi ad utilizzazioni abusive o distorte di strumenti societari. Il modello tradizionale di tutela anticipata poggia su ragioni ampiamente argomentate nella dottrina penalistica. ‘‘Una repressione ancorata all’accertamento concreto di un danno o pericolo di danno rischierebbe la paralisi... Di fronte a realtà troppo complesse, sovraccariche di intrecci e di interconnessioni difficilmente districabili, al legislatore non resta che prescindere dal momento effettuale; che astrarre da una rilevazione concreta delle conseguenze dannose o pericolose, per concentrare l’incriminazione su schemi di comportamento che l’esperienza segnala come atti a incidere negativamente sugli interessi che si intendono tutelare. È un procedimento di astrazione legislativa che risponde a un bisogno di semplificazione e, al tempo stesso, di certezza’’ (7). Sul piano della tecnica di formulazione delle fattispecie, anticipazione della tutela significa costruzione di fattispecie che strutturalmente sono di mera condotta (attiva od omissiva), e contenutisticamente di pericolo rispetto agli interessi ‘‘finali’’, con i ben noti problemi che una tale anticipazione dell’intervento penale comporta. La scelta di ricorrere a strumenti penali può derivare dall’insufficienza di strumenti d’altra natura, e in particolare degli strumenti civilistici tradizionali (poteri dei soci, impugnative, e simili). Per quanto consistenti possano essere i poteri legali di autotutela, il loro esercizio poggia su condizioni (in particolare, conoscenze delle situazioni contro cui reagire) di non facile realizzazione; può essere tardivo rispetto alla prevenzione di danni; inoltre, sono in gioco anche interessi ed affidamenti di soggetti esterni alla società, di un pubblico indifferenziato di partecipanti al mercato, non titolari di poteri qualificati. Non risolve il problema nemmeno la predisposizione di reti istituzio(7)

PEDRAZZI, in Comportamenti economici e legslazione penale, 1978, pp. 33-34.


— 939 — nali di regolazione e di controllo. Queste sono, certo, essenziali per un’efficace prevenzione e scoperta di comportamenti illeciti, non diversamente da come i corpi di polizia sono necessari per la prevenzione e repressione dei reati in genere. Istituzioni efficienti possono ridurre la criminalità in the facts, ma anche il loro funzionamento presuppone criteri sostanziali di definizione dell’illecito, e sanzioni di tipo pubblicistico. Pertanto, per la tutela di interessi in gioco nella materia societaria, la necessità di strumenti che vadano oltre quelli civilistici non sembra seriamente in discussione. Le questioni aperte attengono al come e al quanto di una tale tutela. L’opzione per sanzioni penali è una, non l’unica possibile, fra alternative comunque caratterizzate da incisività e significato stigmatizzante (poniamo, incidenza su requisiti di onorabilità necessari per ricoprire date cariche societarie), e perciò bisognose di garanzie forti. Il penale trova uno spazio legittimo, là dove si tratti di prevenire e coprire comportamenti di spiccato e ben profilato carattere illecito, rendendo tangibile, in un settore così delicato, il principio di responsabilità. 1.4. La riforma, fra continuità e svolta di sistema. — Nell’insieme, il nuovo diritto penale societario comprende le figure di reato selezionate dallo schema Mirone. Il legislatore della XIV legislatura ha apportato modifiche significative, talora stravolgenti, su singoli punti, ma non ha alterato l’impianto della riforma. Il ‘‘vecchio’’ diritto penale societario comprendeva una pletora di fattispecie di pericolo astratto, spesso costruite in chiave pedissequamente sanzionatoria di disposizioni civilistiche. Norme vaghe e pervasive, risultate di poca effettività, non senza però occasionali applicazioni formalistiche. La riforma è nata sotto il segno dei classici principi di garanzia. Il contenuto ‘‘liberale’’ del principio di offensività è stato preso in adeguata considerazione nello schema Mirone, da un lato con la drastica potatura delle fattispecie di pericolo astratto o presunto del ‘‘vecchio’’ diritto penale societario, e dall’altro lato con l’inserzione di elementi di danno o di pericolo concreto nelle figure di reato conservate o introdotte. Le modifiche apportate nella XIV legislatura hanno determinato un ulteriore ritrarsi del ‘‘penale’’ (sia dei precetti che delle sanzioni). Espunte le violazioni meramente formali o procedurali, le figure (poche) del nuovo sistema consistono per lo più in violazioni ‘‘sostanziali’’, di per sé incidenti su assetti patrimoniali o sull’integrità sostanziale del capitale (così i nuovi artt. 2626, 2627, 2628, 2633), o comunque arricchite dalla previsione di un evento di danno (artt. 2629, 2633, 2634, 2635), o caratterizzate da una forte distorsione nel funzionamento della società (art. 2636) o del mercato (art. 2637) o del sistema dei controlli (art. 2638). Quanto alla disciplina dell’informazione societaria, che ha sempre costituito (in teoria e in pratica) il nucleo centrale del diritto penale socie-


— 940 — tario, la riforma mantiene, degradate a contravvenzioni, alcune fattispecie ‘‘di pericolo’’, e introduce fattispecie speciali caratterizzate dal danno patrimoniale. Il sottosistema rimodellato dal d.lgs. 61/2002 è divenuto, per così dire, meno societario, e più vicino al diritto penale comune, in particolare ai delitti contro il patrimonio. Questo slittamento sistematico emerge sia nella selezione delle fattispecie del vecchio diritto penale societario, sia nelle figure di nuovo conio (8). Può ancora parlarsi, dopo questa svolta, di tutela (anche) di istituzioni societarie? I beni giuridici tutelati sono gli stessi, o v’è stato un mutamento nella direzione della tutela? Considerando la riforma nel suo insieme, possono essere agevolmente rintracciati elementi sia di continuità che di discontinuità, di volta in volta enfatizzati dai diversi commentatori. L’area del penalmente rilevante, dopo la riforma, è quasi tutta interna al sistema previgente; le nuove figure si differenziano dalle precedenti per l’inserzione di elementi di specialità (per lo più, un evento di danno) che ne restringono l’ambito di applicazione. I problemi di tutela, cui il nuovo diritto penale societario dà le sue risposte, riguardano situazioni cui già il vecchio sistema dava risposte penali (tendenzialmente più severe). La nuova rilevanza, che è stata attribuita a interessi patrimoniali, ha un significato di delimitazione dell’intervento penale, e non di fondazione di una tutela che prima mancasse. La direzione della tutela è dunque la medesima: le nuove norme non tutelano interessi ‘‘nuovi’’, nel senso di non tutelati nel sistema previgente. Lo spostamento, rilevante, attiene alle soglie di tutela, che erano attestate, nel sistema previgente, a livelli assai più anticipati, attorno a interessi ‘‘strumentali’’, mentre nel nuovo sistema sono attestate attorno ad interessi ‘‘finali’’ di contenuto patrimoniale. Il ritrarsi del penale lascia scoperta un’area, nella quale taluni interessi strumentali non sono più tutelati penalmente. Significa, questo, che interessi prima tutelati sono usciti dall’orizzonte del nuovo diritto penale societario? Una risposta esauriente dovrebbe passare per l’analisi delle diverse fattispecie. Ad uno sguardo d’insieme, anche il nuovo sistema appare incentrato su talune fondamentali istituzioni societarie (9), apprestando sanzione per talune violazioni di (8) Ci si riferisce alla sostituzione della figura del conflitto d’interessi con il nuovo reato di infedeltà patrimoniale (art. 2634), e all’unica figura di reato interamente nuova, quella della ‘‘infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità’’ (art. 2635): la prima (nell’ordinamento italiano) fattispecie di corruzione nei confronti di soggetti privati (amministratori ecc.), costruita come delitto con evento di danno al pari degli altri reati societari. Per un primo commento, MILITELLO, I reati di infedeltà, in Diritto penale e processo, 2002, p. 698 s. (9) GIUNTA, La riforma dei reati societari ai blocchi di partenza, in Studium juris, 2002, p. 698.


— 941 — loro regole di funzionamento, spesso, ma non sempre, selezionate col riferimento a profili di danno. Entrambi gli aspetti, in uno o altro mix, concorrono a definire il piano di tutela e le soglie di tutela. Tutte costruite su istituti del diritto societario, e quindi su interessi strumentali, sono le figure base (contravvenzionali) in materia di false comunicazioni. Il nesso con delitti di danno addita la direzione fondamentale della tutela, ma non espunge dall’orizzonte né l’interesse strumentale, né la confermata esigenza d’una sua qualche tutela autonoma. La scopertura di taluni ambiti significa, non già esclusione della trasparenza e correttezza dell’informazione dal novero dei beni giuridici, ma riduzione dell’ambito di tutela (10). Una tutela diretta di istituti societari mi sembra teoricamente mantenuta, là dove il profilo sostanziale di danno sia per così dire incorporato nella violazione della regola di diritto societario (per es., art. 2628). Non così, invece, là dove il riferimento al danno si aggiunga, come evento del reato, alla condotta violatrice di disposizioni civilistiche. In questi casi, la legalità societaria non è più tutelata in sé e per sé, in chiave di anticipazione della tutela di interessi finali, ma finisce per essere ristretta e assorbita dalla tutela di interessi patrimoniali, rispetto ad eventi di danno il cui contenuto non è ben chiaro. Soprattutto là dove il riferimento è al danno per i creditori, la tutela sembra (forse) appiattirsi sul rischio insolvenza e divenire troppo tardiva (11), appiattendo il penale societario sul penale fallimentare. Per un giudizio meno affrettato, occorrerà attendere la riforma del diritto societario, della quale la riforma penale è stata una parziale anticipazione, mentre dal punto di vista sistematico ne costituirebbe il tassello ‘‘di chiusura’’. Il ritrarsi del penale, che caratterizza la riforma, riguarda non solo i precetti, ma anche le sanzioni, soprattutto dopo le modifiche apportate nella XIV legislatura. Mentre lo schema di base sembrava avere un ampio consenso, il punto d’approdo è stato oggetto d’un coro di critiche, espresse talora in forma singolarmente aspra, che denunciano un commiato dal ‘‘penale’’ nella materia societaria (12). Attente analisi critiche (10) Per una diversa impostazione, che accentua i profili di discontinuità pervenendo a conseguenze a mio avviso inaccettabili, cfr. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali dopo il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen., 2002, p. 1240 s. (11) Cfr. A. ROSSI, La nuova tutela penale del capitale sociale, in Diritto penale e processo, 2002, p. 690. (12) Cfr. ALESSANDRI, La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto penale societario, in Corriere giuridico, n. 12, 2001, p. 1545 s.; CRESPI, Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, in Riv. soc., 2001, p. 1355 s.; PEDRAZZI, In memoria del falso in bilancio, ivi, p. 1369 s.; MARINUCCI, ‘‘Depenalizzazione’’ del falso in bilancio con l’avallo della SEC: ma è proprio così?, in Diritto penale e processo, 2002, p. 138; SANDRELLI, Il


— 942 — sono state fatte anche da aziendalisti e studiosi dei fatti economici (13). Condivido molte delle critiche, ma credo che il compito del giurista non sia quello di celebrare con troppa fretta il funerale dei reati societari. Piacciano o non piacciano, le nuove norme sono legge dello Stato, e vanno interpretate e applicate (o eventualmente denunciate per sospetta illegittimità costituzionale) come parte di un più ampio sistema normativo, nel quale sono ormai inglobate. Le ragioni dell’ordinamento, in primis quelle attinenti alla tutela dei beni giuridici, retoricamente invocate nei lavori parlamentari, per l’interprete sono comunque un punto fondamentale di riferimento, da prendere sul serio sotto tutti gli aspetti. È possibile, nella doverosa fedeltà alla legge, col paziente esercizio della ragione, ricavare significati coerenti (o meno incoerenti) con le ragioni del diritto, facendo dei principi un uso non retorico, bensì razionale? 2.

Che cosa resta del delitto di false comunicazioni sociali?

2.1. La riformulazione e lo smembramento della fattispecie. — Emblema della ‘‘riforma’’, ed argomento centrale nel dibattito dottrinale, la disciplina delle false comunicazioni sociali. La riforma si caratterizza per lo smembramento della materia in una pluralità di fattispecie, per una drastica restrizione dell’area dell’illecito penale, per una differenziazione e riduzione delle sanzioni. Vediamo, in sintesi, i punti essenziali. Lo schema Mirone aveva già proposto una riscrittura della fattispecie in termini più restrittivi che non il testo originario dell’art. 2621 c.c. (14): il falso punibile è stato espressamente ancorato all’idoneità ad ingannare su aspetti rilevanti per le valutazioni e determinazioni dei destinatari della comunicazione (i soci e il ‘‘pubblico’’, con esclusione delle comunicazioni a destinatario individuale). Sono state in tal modo recepite soluzioni che una parte della dottrina (non senza riflessi in giurisprudenza) riteneva già sostenibili per via di interpretazione razionale (15). Considerazioni critiche sono venute in particolare da parte magistrati inquirenti (16), per la nuovo falso in bilancio, in Questione giustizia, 2001, p. 845 s.; FOFFANI-VELLA, op. cit. Per una prima lettura del decreto legislativo, cfr. gli interventi di PALIERO-BRICHETTI-PISTORELLITARGETTI-ORSI-SANDRELLI, in Guida al diritto, 2002, n. 16; SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni dell’autorità di vigilanza, in Diritto penale e processo, 2002, p. 676. (13) Per es. REBOA, op. cit.; BELCREDI, A rebours, ovvero: la riforma del ‘‘falso in bilancio’’, in Mercato, concorrenza, regole, 2002, p. 152 s. (14) È stata peraltro opportunamente inclusa nella fattispecie l’informazione relativa a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. (15) Cfr. per tutti PEDRAZZI, Società commerciali, cit., p. 347 s.; dopo la riforma, SEMINARA, op. cit., p. 676. (16) Cfr. SANDRELLI, in Micromega, 2000, n. 1, p. 215 s. Cfr. anche l’intervista a Di Pietro, pubblicata col titolo ‘‘Così si cancella Tangentopoli’’ sul Corriere della sera del 29 maggio 2000.


— 943 — preoccupazione che ne risulti indebolito l’intervento giudiziario. La dottrina si è attestata, nel complesso, in difesa della scelta dello schema Mirone, con argomenti che ritengo persuasivi. Il criterio dell’idoneità ad ingannare (17), quale requisito del falso punibile, pone un solido argine contro applicazioni eccessivamente formaliste, quali in passato non sono mancate. L’intervento penale, lungi dal risultare indebolito, viene meglio orientato e reso più credibile, concentrandosi sui casi in cui l’informazione falsa (in particolare il bilancio falso) sia tale da mettere in pericolo la possibilità di informata partecipazione allo scambio economico. L’esclusione delle comunicazioni a destinatario individuale è coerente con la distinzione del piano di tutela, su cui si colloca la figura del delitto societario, rispetto alla tutela apprestata dai delitti contro il patrimonio. Per la falsa comunicazione rivolta a destinatari ‘‘nominati’’, qualificazione penalistica sufficiente è quella di artificio o raggiro truffaldino. La figura di false comunicazioni, ristretta a comunicazioni rivolte al pubblico, intende rispondere a bisogni di tutela che involgono in qualche modo una dimensione pubblica, non esaurentesi nella tutela del patrimonio di singoli soggetti. La riscrittura della fattispecie di false comunicazioni sociali, nello schema Mirone, poteva dunque essere valutata (ed è stata valutata) come un ragionevole punto d’equilibrio fra contrapposte esigenze. Rispetto alla prassi applicativa, giusta o sbagliata che fosse, imponeva l’abbandono di interpretazioni in chiave di pericolo astratto o presunto, con migliore aderenza ai principi di offensività e di extrema ratio. Nella legge delega, il punto d’equilibrio che lo schema Mirone aveva raggiunto è stato drasticamente spostato, con ulteriori restrizioni dell’area della punibilità (18). Inoltre, la figura delle false comunicazioni sociali è stata scissa in una pluralità di figure autonome, secondo due distinti cri(17) Da ‘‘valutare nei confronti di soggetti ‘non estranei ai lavori’, persone cioè che siano in qualche misura confidenti con le convenzioni contabili su cui si fonda il modello di bilancio’’: REBOA, op. cit., p. 244. (18) Le comunicazioni sociali tutelate sono solo quelle ‘‘previste dalla legge’’ (dirette, s’intende, ai soci o al pubblico). In luogo di ‘‘false informazioni’’, si parla di esposizione di ‘‘fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni’’. Restano invariati il riferimento alla ‘‘situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società’’, e all’idoneità ad ingannare. Relativamente all’ipotesi ‘‘omissiva’’, viene precisato che deve riguardare informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge. Il dolo specifico d’ingiusto profitto è stato ulteriormente caratterizzato dalla ‘‘intenzione di ingannare i soci o il pubblico’’. L’innovazione più consistente è la delimitazione obiettiva del falso punibile, che si caratterizza come ‘‘alterazione sensibile’’ della rappresentazione della situazione economica. In tale prospettiva, il legislatore delegato è stato facoltizzato a introdurre soglie quantitative, come poi ha fatto. Per i casi di valutazioni estimative, la legge delega chiedeva di introdurre idonei parametri, e anche qui il legislatore delegato ha provveduto con una ulteriore soglia.


— 944 — teri di differenziazione: l’essersi o non essersi verificato un danno per taluno, e l’inerenza della comunicazione a società quotate o non quotate. Come figura speciale era già stata enucleata quella del falso in prospetto. Differenze di trattamento attengono alla misura della pena, alla perseguibilità, e persino alla qualificazione come delitto o contravvenzione. 2.2. Quale tutela della trasparenza dell’informazione societaria? — Gli interessi in gioco nella disciplina delle false comunicazioni sociali sono indicati nella relazione al decreto legislativo (19): la fattispecie di base configura un ‘‘falso tout court per tutelare la trasparenza’’. Vi è poi una fattispecie ‘‘di danno’’ ‘‘che riguarda la posizione patrimoniale dei soci o dei creditori’’. Al di là della prevedibile ‘‘debolezza’’ del funzionamento della fattispecie contravvenzionale, è da essa che l’interprete deve partire per la ricognizione dell’impianto di tutela, prendendo sul serio la scelta di penalizzazione e i suoi significati. Il problema di tutela della ‘‘trasparenza’’ dell’informazione societaria, da sempre leit motiv nelle discussioni sulla disciplina dei mercati, non è sfuggito al legislatore; la trasparenza viene richiamata come ‘‘bene giuridico’’, sia pure strumentale ad interessi ‘‘finali’’ di natura patrimoniale, ed è assunta a punto di riferimento della fattispecie di base, quella di contenuto più ampio. Rispetto ai beni finali, la fattispecie contravvenzionale del ‘‘nuovo’’ art. 2621 è un reato di pericolo, caratterizzato dalla concreta insidiosità e rilevanza della falsa comunicazione. Rispetto al bene strumentale della trasparenza dell’informazione societaria (20), possiamo parlare di reato di danno. Perché una tutela penale autonoma della trasparenza dell’informazione societaria? Il senso della tutela può essere colto nella selezione, che il legislatore ha operato, delle comunicazioni sociali tutelate. La tutela penale è apprestata alle sole comunicazioni sociali ‘‘previste dalla legge’’, aventi dati requisiti contenutistici (comunicazioni sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo, o relative a beni posseduti o amministrati dalla società per conto terzi) e destinate ai soci o al pubblico. È tutelata, dunque, la veridicità e completezza (21) di tipi di comunicazione che lo stesso legislatore ha previsto come importanti (o addirittura come obbligatorie) per la vita delle società e/o per il pubblico che opera nel ‘‘mercato’’. Le comunicazioni sociali, oggetto di (19) La si può leggere in Guida al diritto, 2002, n. 16, p. 28 s. (20) E. MUSCO, op. cit., p. 39, ipotizza che la contravvenzione di pericolo sia frutto di un ‘‘tardivo pentimento’’ del legislatore. Ciò sminuisce affatto, e anzi sottolinea il significato dell’opzione di tutela della trasparenza; la relazione al decreto, nel sottolinearla, riflette il dato normativo, e non ‘‘ragioni propagandistiche’’, come invece scrive DONINI, op. cit., p. 1251. (21) PEDRAZZI, Società commerciali, cit., p. 352.


— 945 — disciplina, fanno parte, per così dire, delle normali ‘‘regole del gioco’’ giocato dagli operatori economici; la loro affidabilità è condizione ritenuta essenziale perché il gioco economico possa essere giocato. Sotto questo profilo, la trasparenza delle comunicazioni sociali tipiche è strumentale ad interessi non meramente individuali, ma aventi una dimensione istituzionale: le ‘‘istituzioni societarie’’, e soprattutto il mercato come istituzione o spazio pubblico, ‘‘regolato’’, dei rapporti economici. È questa dimensione pubblica e collettiva che distingue dalla dimensione strettamente privata e individualistica, caratterizzante i delitti contro il patrimonio, il piano di tutela apprestato dal ‘‘penale societario’’ a strumenti del diritto societario. Il pericolo, che l’incriminazione delle false comunicazioni sociali intende prevenire, è un pericolo che tocca non semplicemente posizioni individuali, ma alcune condizioni essenziali del normale andamento del mercato. E lo stesso è a dirsi per le altre figure di falso, che il diritto penale societario prevede in separate disposizioni. Il danno di singoli soci o creditori, che caratterizza le figure speciali di cui all’art. 2622, è uno, non l’unico, degli esiti di danno che l’incriminazione delle false comunicazioni sociali intende prevenire. Il fatto incriminato dall’art. 2621 è già di per sé un incrinamento di condizioni tipiche, previste dalla legge, del normale svolgersi di rapporti societari o di mercato. È degno di nota che il dolo specifico, di cui all’art. 2621, non sia di danno di terzi, ma di ‘‘ingiusto profitto’’: perseguito, certo, tramite l’inganno a terzi, potrebbe però non essere necessariamente correlato ad un danno patrimoniale misurabile di terzi. Il dato normativo è qui coerente con la realtà criminologica: i reati societari ‘‘non vengono solitamente commessi per danneggiare terzi, ma per conseguire profitti ingiusti’’, a costo di ‘‘mettere a rischio gli interessi dei terzi’’ (22). L’ingiustizia del profitto potrebbe derivare già dalla rottura delle regole del gioco (dall’aver dato un’informazione fuorviante) della quale il giocatore scorretto possa approfittare. La stessa restrizione delle comunicazioni tutelate, rispetto alla disciplina previgente, sottolinea con forza la dimensione pubblica, di rottura di regole di un gioco collettivo. L’esclusione delle comunicazioni a destinatario individuale, che toglie base ad un discutibile indirizzo giurisprudenziale, sottolinea l’autonomia del piano di tutela apprestato dal penale societario, rispetto al comune delitto di truffa. La restrizione alle sole comunicazioni previste dalla legge conferma che la tutela penale ha a che fare con situazioni già altrimenti regolate, meritevoli e bisognose di adeguata tutela. (22)

DONINI, op. cit., p. 1253.


— 946 — Per inciso: questa restrizione, pur aprendo teorici vuoti di tutela (restano sicuramente scoperte le comunicazioni effettuate su base volontaria) (23), non comporta restrizioni reali rispetto all’esperienza applicativa delle vecchie norme, che di fatto ha sempre avuto ad oggetto comunicazioni tipiche. Restano in ogni caso comprese nella tutela penale tutte le comunicazioni ricollegate a presupposti legalmente tipizzati, ancorché non obbligatorie in senso stretto (per es., comunicazioni conseguenti a raccomandazioni della Consob, o risposte degli amministratori in Assemblea). 2.3. Il falso come ‘‘alterazione sensibile’’. La questione delle soglie. — 2.3.1. L’innovazione più forte, e più controversa, sta nei modi in cui è stato ristretto l’ambito del falso punibile. La riforma è partita, con lo schema Mirone, da posizioni che sembravano largamente condivise: escludere chiaramente la rilevanza penale di scarti dalla disciplina civilistica, che non comportino un reale pericolo di distorsione dell’informazione (24). Nell’iter parlamentare sono state introdotte ulteriori restrizioni, articolate in una clausola generale e in una pluralità di soglie quantitative. Il falso punibile, in base alla legge delega, deve essere non solo insidioso, per capacità decettiva, ma anche significativo, tale da alterare in modo sensibile la rappresentazione della situazione. Questa disciplina è stata inserita nel nuovo art. 2621 con la formula ‘‘la punibilità è esclusa se...’’. Non è però una causa di non punibilità in senso proprio: l’alterazione sensibile della rappresentazione è il contenuto offensivo tipico del fatto di reato, così come prefigurato nella legge delega. L’esigenza di delimitare il falso punibile secondo un criterio di significatività, corrisponde alla funzione di tutela assegnata alla norma penale. L’alterazione del vero può considerarsi pericolosa per i destinatari della comunicazione, in quanto sia rilevante, per oggetto e per entità, rispetto a determinazioni dei destinatari. Il concetto di alterazione sensibile va interpretato in questo senso: ‘‘sensibile’’ = rilevante per i destinatari (25). Il nuovo testo dà dunque un chiarimento opportuno, su un requisito della fattispecie comunque implicito in un’interpretazione razionale, orientata al principio d’offensività. Complica il quadro la previsione aggiuntiva di soglie quantitative, pur introdotte al dichiarato scopo di assicurare alla fattispecie confini (23) BELCREDI, op. cit., p. 144. (24) Secondo l’interpretazione prevalente in giurisprudenza, qualsiasi scarto dal vero legale, da ricostruire sulla base della disciplina civilistica, integrerebbe l’elemento obiettivo del ‘‘vecchio’’ art. 2621, 379. Cfr. per tutti Cass., 19 giugno 1991, Farina, in Cass. pen., 1994, p. 403 s. (25) PROVASOLI-COMOLI, La nuova disciplina del reato di falso in bilancio, in Riv. dottori commercialisti, 2002, p. 190.


— 947 — certi. I primi interventi della dottrina, durante la fase di attuazione della legge delega (26) e poi a prima lettura del decreto legislativo (27), hanno dato per scontato (senza farne oggetto di approfondimento) che la soglia quantitativa indicata nello schema di decreto legislativo (reso noto fin dal dicembre 2001) segnasse uno sbarramento rigido: al di sotto della soglia (variazione del 5% del risultato d’esercizio al lordo delle imposte) il reato di false comunicazioni sociali non sarebbe configurabile in nessun caso, con esclusione, dunque, di ipotesi di falso ‘‘qualitativo’’. In un’analisi critica di un testo ancora da approvare, è ragionevole evidenziare tutte le potenzialità negative, anche sulla base di interpretazioni a prima lettura non implausibili. Di fronte alla legge approvata, è doveroso andare in profondità, utilizzando tutte le risorse dell’ermeneutica giuridica. Il senso delle soglie quantitative, introdotte dal legislatore del 2002, abbisogna di essere coordinato con gli altri pezzi del sistema: le soglie concorrono a ridisegnare il fatto tipico, o introducono cause di non punibilità in senso proprio? E quali gli ambiti di non punibilità, scaturenti dall’insieme delle soglie? Leggiamo nella relazione al decreto che l’introduzione di una seconda soglia (quella dell’1% del patrimonio netto), nella fase finale dei lavori, avrebbe ‘‘inteso garantire l’applicabilità della norma anche a quelle società per le quali il riferimento al risultato economico di esercizio non era sufficiente allo scopo’’; che le due soglie ‘‘operano in alternativa tra loro’’; che ‘‘per tutte le ipotesi in cui non è possibile utilizzare tali soglie’’ vale il criterio generale della non alterazione sensibile. Che cosa significa operare ‘‘in alternativa’’? Malgrado l’infelice formulazione letterale della legge, l’unico significato ragionevole è che basta il superamento di una o dell’altra soglia, per potere affermare il falso ‘‘quantitativo’’. Il rispetto di una soglia non può togliere rilievo a ‘‘splafonamenti’’ dell’altra, che lo stesso legislatore considera attingere il livello di ‘‘alterazione sensibile’’ (28). Il criterio generale della alterazione sensibile, nella dichiarata intenzione del legislatore, opera in tutte le ipotesi in cui non è possibile utilizzare le soglie numeriche. Quali siano tali ipotesi, la relazione al decreto non lo dice; si pone, dunque, il problema di determinare il significato delle soglie, e le condizioni di una loro possibile utilizzazione, nel contesto della nuova normativa. A tal fine occorre partire dalla legge delega, i cui criteri direttivi, vin(26) MARINUCCI-ALESSANDRI, op. cit. (27) SEMINARA, op. cit. (28) CARACCIOLI, in Guida al diritto, 2001, 36, p. 10, ha sostenuto che potrebbe in concreto essere non punibile uno scostamento superiore alla soglia. Il ‘‘notevole ottimismo’’ (così SEMINARA, op. cit., p. 678) di questa tesi non appare giustificato, proprio alla luce del significato ‘‘presuntivo’’ che il legislatore ha attribuito alle soglie.


— 948 — colanti per il legislatore delegato, costituiscono anche per l’interpretazione delle nuove norme un punto di riferimento fondamentale. È da preferire, dovunque possibile, l’interpretazione più coerente con la legge delega. 2.3.2. Nel sistema della legge delega, il fatto tipico delle false comunicazioni sociali è definito come alterazione sensibile della rappresentazione della situazione economica. Può dunque venire in rilievo, in via di principio, l’alterazione di qualsiasi tipo di informazione rilevante per i destinatari. Potrà essere (come nei bilanci) una informazione espressa in dati numerici; ma anche su dati diversi da quelli cui si riferiscono le soglie, e muniti di autonoma rilevanza. Potrà anche essere una informazione di altra natura, su fatti di significato economico. Chiaramente si riferisce a questi profili dell’informazione (e della possibile sua falsità) la relazione al decreto là dove parla di ipotesi in cui non è possibile utilizzare le soglie numeriche introdotte dal legislatore delegato. Dentro un sistema, come quello della legge delega, che lascia spazio a forme di falso — sia numerico che qualitativo — diverse dall’alterazione dei dati cui si riferiscano le soglie di legge, che senso può avere la previsione di date soglie quantitative, come modalità tecnica di delimitazione della punibilità del falso? Il problema, per la cui soluzione la legge delega ammette l’introduzione di soglie quantitative, è di specificazione del criterio generale, entro un sistema che mantiene come criterio sostanziale di definizione del tipo di reato l’alterazione sensibile della rappresentazione. Di questo criterio, le soglie quantitative vorrebbero essere una non irragionevole concretizzazione: non pedissequa, ma per approssimazione, finalizzata alla certezza applicativa. Il fondamento delle soglie è, manifestamente, di tipo ‘‘presuntivo’’: il legislatore, sulla base di una valutazione di ordine generale, valuta che uno scarto quantitativo al di sotto d’una certa soglia non giustifichi la reazione penale. In senso critico, si è osservato che qualsiasi soglia è arbitraria; che una soglia espressa in termini relativi e non in valori assoluti può generare effetti perversi sulle imprese di maggiori dimensioni (29), istituendo ‘‘una fascia di impunità di estensione direttamente proporzionale alla redditualità o alle dimensioni dell’ente’’ (30); che il significato dello scarto quantitativo dipende anche dalla natura dei valori cui si riferisce (deviazioni in valori determinabili in entità certa possono assumere rilievo indipendentemente dall’entità) (31). (29) BELCREDI, op. cit., p. 139. (30) SEMINARA, op. cit., p. 678. (31) PROVASOLI-COMOLI, loco ult. cit.


— 949 — Nell’ottica del sistema penale, si può discutere se l’indicazione di ‘‘soglie’’ costituisca una applicazione del criterio generale dell’alterazione sensibile (la soglia quantitativa come ‘‘limite esegetico’’) ovvero una parziale deroga in chiave di non punibilità di fatti conformi al tipo di reato (alterazione sensibile, ma non punibile perché sotto la soglia). Quale che sia l’inquadramento corretto, sta di fatto che ‘‘attraverso la previsione di soglie quantitative’’ (questa la formula della legge delega) il legislatore delegante ha ritenuto possa essere posto un limite certo alla punibilità del falso. Di quali tipi di falso? Certamente del falso ‘‘quantitativo’’ nell’indicazione dei dati cui si riferiscono le soglie. Ma quid juris, nel caso di sensibili distorsioni di altri aspetti dell’informazione, nel rispetto delle soglie quantitative? È possibile, o no, interpretare le soglie come criterio di esclusione della rilevanza di qualsiasi tipo di falso? La formula adoperata dal legislatore delegato (‘‘la punibilità è comunque esclusa se...’’) sembra voler sancire una non punibilità comunque, senza distinzioni, con elisione, dunque, anche della rilevanza di eventuali elementi di falso qualitativo. Se questa è, come sembra essere, la ‘‘volontà storica’’ del legislatore delegato, dubito che essa sia compatibile con la legge delega, e comunque porrebbe ulteriori delicati problemi. La previsione di soglie quantitative di non punibilità può considerarsi una concretizzazione non incoerente del criterio generale della legge delega, se riferita al falso quantitativo sui dati cui attiene la soglia, o su dati che comunque esauriscano la loro rilevanza informativa nel concorrere a quantificare il reddito o il patrimonio. La misura dello scarto quantitativo ha rilievo ai fini della valutazione di quello scarto; ma di per sé nulla dice sulla rilevanza di eventuali altre distorsioni dell’informazione, rispetto ai profili d’interesse dei destinatari dell’informazione (e della tutela penale). Su questo punto, la relazione al decreto poggia su un presupposto falso, sostenendo che la soglia del 5% sarebbe ritenuta corretta dalla SEC (in questo senso, già la relazione alla prima bozza di decreto). È vero il contrario: il documento che lo staff tecnico della la SEC ha dedicato alla questione delle ‘‘soglie’’, datato 12 agosto 1999 (32), enuncia il principio che misstatements are not immaterial simply because they fall into a numerical threshold: il fare affidamento esclusivo su una soglia numerica ‘‘non ha fondamento né sulla letteratura sulla revisione contabile né sulla legge’’; decisioni delle Corti, regole della Commissione, letteratura in materia di accounting e auditing hanno sempre considerato, in diversi contesti, fattori qualitativi. Ed invero, qualitative factors may cause misstatements of quantitatively small amounts to be material. Su alcuni esempi torneremo fra poco. (32)

Reperibile in Internet, www.sec.gov./interps/account/sab99.htm.


— 950 — Da questi rilievi (33) un autorevole giurista, in un articolo pubblicato prima della acquisizione dei pareri delle due camere (34), ha tratto la conseguenza che vi sarebbe un vizio procedurale nella attuazione della delega, ove i pareri fossero stati acquisiti sulla base dell’informazione mendace circa l’orientamento della SEC. È poi avvenuto che, ancora nella discussione nella Commissione giustizia del Senato, quell’indicazione è stata presa per buona perfino dal rappresentante del Governo (35). A me pare che, sulla base della legge delega, possa essere rimessa in discussione la stessa interpretazione del decreto legislativo: le soglie quantitative non possono valere a delimitare la rilevanza di altri profili di ‘‘alterazione sensibile’’ di informazioni significative, in quanto ciò si risolverebbe in scardinamento del sistema della legge delega. Non si tratta di interpretare la legge delega alla luce della SEC. Si tratta, semplicemente, di riconoscere la logica interna della delega, là dove introduce la possibile previsione di soglie quantitative come mera modalità tecnica di specificazione del criterio generale. La base ‘‘presuntiva’’, su cui poggia tale scelta tecnica, vale per il falso quantitativo, e solo per esso. Per altre ipotesi di falso, le soglie quantitative sono concettualmente inutilizzabili. L’unica possibile obiezione — certo, assai pesante — potrebbe invocare la formula letterale del decreto legislativo, che parla di punibilità comunque esclusa. Potrebbe non ritenersi un ostacolo insormontabile a una ragionevole interpretazione restrittiva: il ‘‘comunque’’ sarebbe da intendere come riferito a tutti i casi in cui sia ‘‘possibile utilizzare le soglie’’, non, dunque, al falso qualitativo. L’esistenza di ‘‘ipotesi in cui non è possibile utilizzare’’ le soglie di legge è espressamente considerata nella relazione al decreto. Anche in tali ipotesi può esservi un’alterazione sensibile, e perciò punibile, della rappresentazione della situazione, evidentemente sotto aspetti per i quali il problema delle soglie non si pone proprio. Tutto questo vale sicuramente (quanto meno) per comunicazioni sociali diverse dal bilancio, che non contengano informazioni sul patrimonio netto o sul risultato economico d’esercizio: il falso qualitativo, in tali casi, può avere rilievo (come fatto punibile) secondo il criterio generale. Ma se così è, non si vede perché mai il medesimo falso qualitativo, comportante un’alterazione sensibile, debba perdere rilievo sol perché inserito in una comunicazione sociale che contenga informazioni quantitative sul risultato d’esercizio o sul patrimonio netto, senza che eventuali variazioni superino le famose soglie. Considerazioni di coerenza intrasistematica (cioè di rispetto del principio d’uguaglianza) orientano dunque verso un’interpretazione che ricol(33) Puntualmente espressi nella dottrina commercialistica: REBOA, op. cit., p. 251. (34) MARINUCCI, op. cit. (35) Interventi del sen. Zancan e del sottosegretario on. Vietti nella seduta del 19 marzo 2002.


— 951 — leghi le soglie quantitative esclusivamente alla questione del falso quantitativo sui valori soglia. Sotto ogni altro aspetto, varrebbe il criterio generale della non alterazione sensibile. L’alternativa (l’unica) sarebbe la denuncia di un eccesso di delega (36). 2.3.3. Quale che sia, nel nuovo sistema, l’ambito di rilevanza del falso qualitativo, non v’è dubbio che la riforma ha messo al bando indirizzi sostenuti, a ragione o a torto (37), con riguardo alle disciplina previgente. È certamente da escludere che siano punibili una qualsivoglia irregolarità rispetto a schemi civilistici, o un difetto di chiarezza che non si risolva in rappresentazione di fatti falsi. Interpretazioni del genere, sostenute (e ragionevolmente contrastate) nella vigenza del vecchio art. 2621, sono proprio ciò che la riforma (fin dallo schema Mirone) ha inteso superare. L’interpretazione qui proposta, nel relativizzare il significato delle soglie quantitative, riporta in primo piano — come elemento centrale della fattispecie — il requisito dell’alterazione sensibile: non necessariamente in valori quantitativi, sì invece per l’incidenza sulla funzione della comunicazione sociale e sulle valutazioni dei destinatari. Anche a ritenerlo relativizzato, il ruolo delle soglie è comunque centrale nell’applicazione del nuovo sistema. Al di sotto delle soglie, è irrilevante qualsiasi distorsione quantitativa dell’informazione, il cui significato si esaurisca nel concorrere a quantificare il valore soglia. Resta aperto il problema, se e quali ulteriori elementi dell’informazione abbiano un significato autonomo tale da poter costituire oggetto di alterazione sensibile, indipendentemente da soglie quantitative. Il documento della SEC propone alcuni esempi (non esaustivi) di falsità da ritenere material, indipendentemente dallo scarto quantitativo dal ‘‘vero’’: se il misstatement maschera un cambiamento di trend, o altera dati rilevanti in vista del consenso degli analisti, se trasforma una perdita in guadagno o viceversa, se riguarda un settore significativo, se concerne la compliance with regulatory requirements, o se copre transazioni illecite. Ciò che fonda il giudizio di rilevanza del falso è il mascheramento di un significato rilevante per i destinatari delle comunicazione, autonomo e in(36) SEMINARA, op. cit., p. 687, parla anche di ‘‘macroscopica violazione dell’art. 76 Cost.’’, da parte della legge delega, per mancata specificazione del criterio delle soglie. (37) Largamente condivisibili, sotto questo aspetto, sono i rilievi su una serie di discutibili applicazioni giurisprudenziali, svolti da G.E. COLOMBO, op. cit., a nota 1, e già prima in La moda dell’accusa di falso in bilancio nelle indagini delle Procure della Repubblica, in Riv. soc., 1996. Un esempio per tutti: l’incriminazione di bilanci che espongano fatti economici così come si sono verificati, laddove l’operazione registrata sia illecita. Sul ‘‘principio dell’effettività’’, in forza del quale bilancio deve riflettere fatti reali, la dottrina e la giurisprudenza civile sono unanimi. Per tutti, SALAFIA, in Società, 1989, p. 930 s.; Cass., 13 febbraio 1969, n. 484, in Foro it., 1969, I, c. 1158; Trib. Milano, 8 aprile 1992, in Società, p. 1278 s.; App. Milano, 26 giugno 1987 e Trib. Milano, 9 luglio 1987, in Società, 1987, p. 1040 s.


— 952 — dipendente da soglie quantitative. In questa prospettiva, riterrei senz’altro ‘‘sensibile’’ una falsa informazione incidente sui presupposti di discipline legali quali la riduzione del capitale per perdite. Del pari, potrebbe essere valutata come ‘‘alterazione sensibile’’, anche al di sotto delle soglie del d.lgs. n. 61, una rappresentazione distorta di componenti significative della situazione economica della società (poniamo, il classificare certe componenti dell’attivo o del passivo sotto voci ‘‘false’’: magazzino invece di crediti) (38). Non basterebbe invece — secondo un’indicazione chiaramente leggibile nella nuova legge — il carattere doloso della comunicazione. L’aggancio della punibilità a soglie quantitative significa non punibilità di alterazioni quantitative nella rappresentazione dell’utile netto o del patrimonio che, pur dolose, si siano mantenute entro la soglia. V’è qui uno strappo, e non da poco, con la cultura aziendalistica, con i principi contabili e con le indicazioni della SEC: una cosa è l’irregolarità, della quale si discute se e a quali condizioni sia rilevante, e altra cosa il carattere doloso della comunicazione (39). In questo contesto va esaminata anche la questione del falso finalizzato alla creazione di fondi extracontabili (di riserve ‘‘liquide’’, a disposizione degli amministratori o di loro fiduciari, al di fuori dei controlli legali). Malgrado la diversa opinione espressa nella relazione Pecorella (che è opinione di un parlamentare, per quanto autorevole, e non può essere identificata con la ‘‘volontà del legislatore’’), mi pare sostenibile che l’introduzione delle soglie quantitative non precluda la considerazione del profilo qualitativo specifico che contrassegna la situazione in esame, e che ha acquisito, nella più recente evoluzione dell’ordinamento, una rilevanza normativa specifica. Mi riferisco alla disciplina della responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti (d.lgs. n. 231 del 2001), in base alla quale l’ente risponde di delitti (corruzione in primis) dei quali la formazione di ‘‘fondi neri’’ è strumento normale e tendenzialmente necessario. Prevenire la formazione di fondi extracontabili è contenuto essenziale dei modelli organizzativi di cui agli artt. 5 e 6 del d.lgs. n. 231; un presupposto ovvio di quanto richiesto specificamente nell’art. 5, comma 2, lett. c): ‘‘individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati’’. La distorsione quantitativa, finalizzata alla formazione di fondi neri, incide dunque in ogni caso su un profilo qualitativo normativamente rilevante, che riguarda direttamente la situazione economica e la gestione della so(38) PROVASOLI-COMOLI, op. cit., p. 191, dopo avere escluso che dal novero delle ipotesi di falso il mero difetto di chiarezza, opportunamente sottolineano che, sotto il profilo aziendale, la classificazione dei valori ‘‘ha effetti determinanti per il corretto apprezzamento degli aspetti patrimoniali, reddituali e finanziari d’impresa’’. (39) REBOA, op. cit., p. 265; SEMINARA, op. cit., p. 679.


— 953 — cietà, e che interessa non soltanto lo Stato quale tutore della legalità. È un profilo che interessa anche i soci e i partecipanti al mercato, se si ritiene (ed è questo il punto di vista dell’ordinamento giuridico) che il fatto dell’esistenza di gestioni ‘‘in nero’’, fuori controllo, tocca i diritti e gli interessi dei soci, e le aspettative che i terzi possano avere nei confronti dell’ente che usi tali sistemi (40). Rispetto alla strada imboccata dall’ordinamento giuridico, anche sulla base di vincoli internazionali (41), nella disciplina della responsabilità degli enti, l’impunità del falso finalizzato alla costituzione di fondi neri sarebbe una vistosa inversione di tendenza, deprecata anche da autori che, sul piano sistematico, ritengono non applicabile la figura delle false comunicazioni sociali, e necessaria l’introduzione di una specifica figura di reato con appropriate sanzioni (42). 2.3.4. Ove mai si ritenga che il decreto legislativo, forzando la delega, abbia proclamato non punibile qualsiasi falsità, sol che le due soglie quantitative siano rispettate, si porrebbe il problema dell’inquadramento sistematico di una siffatta disciplina. La situazione da considerare sarebbe questa: un’esposizione di fatti non rispondenti al vero, finalizzata e idonea a ingannare in vista di un ingiusto profitto, che altera in modo sensibile la rappresentazione di aspetti della situazione rilevanti per le valutazioni e determinazioni dei destinatari, ma non comporta una variazione del risultato d’esercizio né del patrimonio netto al di sopra delle soglie. Avremmo, in questa situazione, un falso qualitativo che presenta il contenuto offensivo di cui alla clausola generale dell’alterazione rilevante, di per sé sufficiente (quanto meno là dove sia impossibile utilizzare le soglie) a fondare la responsabilità penale. In questo contesto, il rispetto delle soglie potrebbe essere tutt’al più una causa di non punibilità, ‘‘estrinseca’’ al suo disvalore oggettivo e soggettivo (43). Per una siffatta causa di non punibilità si porrebbe — oltre alla que(40) La questione è venuta in rilievo, in periodo recente, in una nota vicenda giudiziaria, decisa da Trib. Torino, 9 aprile 1977, in Foro it., 1998, II, c. 701 s.; App. Torino, 28 maggio 1999, ivi, 2000, II, p. 119 s.; Cass., 19 ottobre 2000, in Cass. pen., 2001, p. 2494 s., con nota di JACOVIELLO. (41) La convenzione OCSE sulla lotta contro la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e nelle transazioni commerciali internazionali, firmata a Parigi il 17 dicembre 1997 (si veda il testo in questa Rivista, 1998, p. 1358 s., preceduto da un commento di SACERDOTI, p. 1349 s.), contiene, fra l’altro, ‘‘disposizioni in materia di contabilità’’ (art. 8) che vincolano gli Stati ad adottare le misure necessarie per vietare l’istituzione di contabilità fuori bilancio e l’iscrizione di passività il cui oggetto sia indicato in modo scorretto, allo scopo di corrompere pubblici ufficiali stranieri e di occultare tale corruzione; il tutto con la previsione di sanzioni anche penali. A questa convenzione è stata data attuazione in Italia con la legge n. 300 del 2000. (42) PROVASOLI-COMOLI, op. cit., p. 192. (43) In questo senso SEMINARA, op. cit., p. 679, che parla di ‘‘creazione di fasce di irrilevanza penale pur riferibili a condotte intenzionalmente offfensive degli interessi protetti’’.


— 954 — stione dell’eccesso di delega — anche la questione di compatibilità col principio d’uguaglianza, per le ragioni già accennate: le varie tipologie del falso qualitativo, di per sé ingannevole e offensivo dell’interesse dei destinatari della comunicazione, sarebbero coperte dalla causa di non punibilità, qualora fossero inserite in una comunicazione sociale contenente informazioni ‘‘quantitative’’ sul patrimonio netto o sul risultato d’esercizio, rispettose delle soglie relative a ciascuna di esse. Rispetto all’utilizzazione in malam partem del principio d’uguaglianza, per invalidare cause di non punibilità, le posizioni dottrinali sono diversificate (44); nella giurisprudenza costituzionale, il sindacato su cause di non punibilità è stato ritenuto ammissibile. Previsioni di cause di non punibilità ‘‘abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali’’, non necessariamente con disposizione espressa, purché l’esenzione da pena sia il frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, così da giustificare la differenziazione di trattamento rispetto alla regola generale che al reato fa seguire la pena (45). È ravvisabile un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, nella causa di non punibilità per il falso qualitativo? Francamente non vedo nemmeno i presupposti di un bilanciamento di valori: agli interessi legati alla trasparenza dell’informazione si contrapporrebbe una pura pretesa di impunità di pratiche contabili obiettivamente illecite, soggettivamente dolose, e tendenzialmente strumentali a ulteriori illeciti. Un’impunità del falso qualitativo, ritagliata secondo il criterio delle soglie, del tutto estrinseco rispetto al disvalore del fatto (del falso qualitativo), non mi sembra abbia alcuna base razionale. Se quella è l’interpretazione da dare al decreto, alla questione di difformità dalla legge delega si aggiungerebbe quella di violazione del principio di uguaglianza-ragionevolezza. 2.4. La questione delle valutazioni. — A proposito di valutazioni, il decreto legislativo ha introdotto negli artt. 2621 e 2622 una soluzione (46) apparentemente accostabile a quella delle soglie, e spesso preIn senso diverso, in un commento a prima lettura, BRICCHETTI-PISTORELLI, in Guida al diritto, cit., p. 53, affermano, senza darne motivazione, che anche le soglie ‘‘concorrono a tipizzare le condotte penalmente rilevanti’’. (44) Per la tesi più restrittiva, cfr. DOLCINI-MARINUCCI, Corso di diritto penale, 1999, p. 201. (45) Corte cost., n. 83/148, in Foro it., 1983, I, c. 1800 s., con note di GIRONI e PULITANÒ. Sottolinea l’esigenza di non lasciare aperta la strada ad odiose forme di privilegio BRICOLA, Quest. crim., 1980, p. 229. Più ampiamente sul tema, PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Studi in memoria di Delitala, II, 1984, p. 1291 s. (46) ‘‘Il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta’’.


— 955 — sentata come terza soglia (47) ma che ha un significato diverso. La legge delega chiedeva di ‘‘prevedere idonei parametri per i casi di valutazioni estimative’’: criteri di valutazione, dunque, e non già la posizione di soglie o limiti di punibilità per valutazioni scorrette. La norma sulle valutazioni deve perciò essere interpretata in questa chiave. Affermando la rilevanza del tema dei criteri di valutazione, la legge delega contiene l’esplicito riconoscimento che anche le valutazioni di bilancio debbono (e possono) essere oggetto di valutazione secondo il criterio della verità-falsità. In tal senso era già l’indirizzo assolutamente dominante, sia in dottrina (ancorché non incontroverso) sia in giurisprudenza. È dunque contraria al senso manifesto della delega, oltre che alla ragion d’essere di una tutela della correttezza dell’informazione, la tesi che, argomentando dall’espressione ‘‘fatti materiali’’, ritiene rilevante soltanto il falso ricadente su dati di realtà, e non la componente valutativa (48). L’aspetto peculiare del problema delle valutazioni, che la riforma ha espressamente tematizzato, attiene non alla base fattuale (che è ovvio debba essere veridicamente individuata nella sua materialità), ma al criterio di valutazione, che può non condurre ad una misura puntuale di un ‘‘valore vero’’, bensì additare uno spazio più o meno ampio di valutazioni ‘‘non irragionevoli’’, entro il quale non si può parlare di falsità (49). La ‘‘logica’’ del parametro di cui al d.lgs. n. 61/2002 è (come quella delle ‘‘soglie’’ in senso proprio) di tipo presuntivo. Scarti di valutazione non superiori del 10%, rispetto alla valutazione corretta, si considerano come rientranti nel margine di accettabilità, ‘‘non punibili’’ nel senso che non si ritengono costituire un falso quantitativo. L’interpretazione di questo parametro come ‘‘soglia’’, affine alle altre indicate dal decreto, rivela quanto debole sia la rispondenza fra la direttiva della legge delega (prevedere idonei parametri di valutazione) e la soluzione del legislatore delegato, modellata su una disposizione della di poco anteriore riforma penale tributaria (art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 74/2000) interpretata come ‘‘franchigia’’ (50). Il decreto legislativo, invece di indicare un criterio per le valutazioni estimative di competenza degli amministratori, ha recepito dal diritto penale tributario la previsione di un margine di tolleranza attorno alla valutazione teoricamente corretta. Può la legge delega dirsi rispettata? Sullo sfondo di questo interrogativo, una difesa dalla censura di eccesso di delega dipende dalla possibilità (quanto mai dubbia) di interpre(47) Cfr. per es. GIUNTA, op. cit., 2002, p. 704. (48) CARACCIOLI, La riforma del falso in bilancio e i rapporti con i reati tributari, in Il fisco, 2002, p. 2656 s. Nel senso qui sostenuto, E. MUSCO, op. cit., p. 44. (49) In questo senso SEMINARA, op. cit., p. 677; GIUNTA, op. ult. cit., p. 703. (50) MANGIONE, in Diritto penale tributario, a cura di E. Musco, Milano, 2002, p. 138.


— 956 — tare la regola del ‘‘fino al 10%’’ come parametro di valutazione, in senso lato. La soluzione adottata dal d.lgs. n. 61/2002 avrebbe inteso sostituire al criterio vago della ‘‘stima non irragionevole’’ un range di valori quantificato, apparentemente ‘‘più tassativo’’. Ma solo apparentemente: la nuova regola, centrando attorno alla stima corretta il range di valori ammessi, poggia su una premessa che la scienza e l’esperienza escludono, cioè, per l’appunto, la possibilità di individuare in modo puntuale la valutazione corretta. Se si vuole evitare che il parametro del 10% si risolva in un’abnorme dilatazione della soglia di tolleranza di stime aleatorie, molto al di fuori dell’ambito del ragionevole, occorrerà poter disporre di criteri che restringano quanto più possibile l’area delle valutazioni ‘‘senz’altro corrette’’, onde costruire la fascia di sicurezza del 10% attorno a quest’area più ristretta, e non attorno all’intera area del ‘‘non irragionevole’’. Soltanto a queste condizioni, la regola del ‘‘non oltre il 10%’’ potrebbe essere, con un po’ di buona volontà, considerata un criterio, assai grossolano, per valutazioni estimative. Temo che le applicazioni risentiranno dell’ambiguità concettuale della premessa su cui poggia il testo legislativo. I primi commenti hanno rivolto l’attenzione ad un problema diverso: che rapporto c’è fra la ‘‘soglia’’ del 10% relativa alle valutazioni, e le altre previste dal decreto? Il senso della disciplina è che le valutazioni che rientrano nel margine ammesso non possono in nessun modo concorrere a fondare la punibilità. Esse sono perciò da non considerare ai fini delle due soglie quantitative previste dal decreto. Introdotto come parametro di valutazione, lo scarto del 10% andrà in ogni caso misurato non con riguardo ad una voce o aggregato di voci, ma con riguardo a ciascun dato di fatto, cui si riferisca ciascuna valutazione. Il margine di tolleranza, in tal modo consentito, può teoricamente arrivare fino al 10% dell’insieme delle valutazioni estimative, ma in concreto non si estenderà oltre il 10% delle stime ipotizzate come devianti. Solo su questa premessa può avere senso la regola che neutralizza, ai fini della punibilità, l’insieme delle valutazioni rientranti nel margine consentito. 2.5. La frantumazione delle fattispecie. — Altro carattere saliente della riforma delle false comunicazioni sociali, frutto dei lavori parlamentari, è la frantumazione della fattispecie (51). Lasciando per un momento fra parentesi i criteri di differenziazione adottati, consideriamo gli effetti. (51) La figura base di reato di pericolo è configurata come contravvenzione, punita con l’arresto fino a un anno e sei mesi. Nel caso vi sia stato un danno, si tratta di delitto, e acquista rilievo la distinzione fra società ‘‘quotate’’ e non quotate (più esattamente: fra società soggette o meno alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II del d.lgs. n. 58/1998). Nel caso di società non quotate la pena è la reclusione da sei mesi a tre anni, e il


— 957 — L’effetto più vistoso, sia sul piano simbolico che per le conseguenze che ne derivano, è la degradazione da delitto a contravvenzione della figura base, intitolata tout court come ‘‘false comunicazioni sociali’’ nella rubrica del nuovo art. 2621. Pure degradati a contravvenzione (pena massima, un anno) sono il falso in prospetto ex art. 2623 e l’illegale ripartizione di utili (art. 2627). Sul piano simbolico, il messaggio è di bagatellizzazione del falso. Formare un bilancio falso o un falso prospetto idonei a ingannare, con la falsificazione o omissione di informazioni rilevanti, al fine di ingannare i destinatari della comunicazione e di conseguire un ingiusto profitto, non sarebbe più valutato come un illecito grave (un delitto) ma come una semplice contravvenzione. Figure di reato fortemente caratterizzate da modalità fraudolente e da fini di frode, trovano una qualificazione scolorita, non stigmatizzante. Altrettanto scolorite le conseguenze: pena dell’arresto fino a 12 o 18 mesi, destinata facilmente a prescriversi. Per quanto concerne la graduazione delle pene, che è stata addotta a ragione della riforma, troviamo negli artt. 2621 e 2622 tre diverse cornici edittali, differenziate nel massimo e nel minimo, mentre il vecchio art. 2621 prevedeva una cornice edittale unitaria. In via di principio, siamo in un campo in cui diverse soluzioni tecniche possono essere adoperate: il problema è di apprestare cornici edittali ragionevoli, atte a contemperare diverse esigenze: la costruzione di un sistema coerente di delitti e di pene, non troppo schematico né casuisticamente pletorico; il rispetto dei principi di legalità e di eguaglianza; la possibilità di una ragionevole commisurazione della pena. L’arte di differenziare (di ritagliare uguaglianze e differenze) è qui un aspetto importante della politica legislativa (rilevante anche sotto il profilo del principio d’uguaglianza). Quali ragioni, necessità, o semplici opportunità sono ravvisabili, nelle differenziazioni di cornici edittali introdotte dal legislatore della XIV legislatura? Non, per quanto mi consta, ragioni di contrasto verso prassi eccessivamente repressive. Soltanto in casi di particolare gravità (52) sono state applicate pene severe. La fascia bassa della cornice edittale del vecchio art. 2621 è quella prevalentemente adoperata. In ogni caso, una ragionevole graduazione delle pene, in funzione (anche) dell’esistenza o meno di effetti dannosi, e della loro gravità e diffusività, può essere assicurata anche da una cornice edittale unitaria. Si sarebbe anche potuto pensare a circostanze aggravanti o attenuanti di una figura delittuosa mantenuta reato è perseguibile a querela. Nel caso di società quotate, si procede d’ufficio, e la pena è da uno a quattro anni. (52) Vicenda Cusani: Trib. Milano, 28 aprile 1994, in Foro it., 1995, II, c. 24; Cass., 21 gennaio 1998, ivi, 1998, II, c. 517 s.


— 958 — unitaria: una tecnica che sarebbe stata più coerente con l’unicità della prospettiva di tutela, sia quanto agli interessi in gioco che alle modalità di offesa. L’unico reale effetto pratico, che la graduazione delle cornici edittali comporta, è — come ha riconosciuto apertis verbis uno dei padri della riforma (53) — la riduzione (molto marcata) dei termini di prescrizione, derivante dall’abbassamento dei massimi edittali (54). Un effetto voluto, imposto dalla maggioranza con piena cognizione di causa. Riprendiamo, a questo punto, il discorso sui criteri di differenziazione delle fattispecie, che il legislatore ha introdotto. Prescindendo dalle conseguenze più dirompenti che vi sono state ricollegate, potrebbero essere criteri di graduazione ragionevole della gravità dei fatti di falsa comunicazione sociale, e quindi di graduazione della sanzione? Possono esserlo, ma non sempre: il loro irrigidimento in fattispecie differenziate rischia di produrre (in parte) effetti distorcenti, evitabili invece con l’affidare le valutazioni di gravità dei fatti concreti alla discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena. Il criterio del danno cagionato non è né solido né decisivo. Incerti sono i parametri di determinazione (55). Insufficiente l’individuazione dei soggetti, il cui danno viene in rilievo: i soci e i creditori non esauriscono le categorie di stakeholders che abbisognano tutela (56); men che meno ove si accetti l’interpretazione secondo cui il riferimento è ai soci e creditori attuali, con esclusione di quelli futuri (57), e comunque degli altri appartenenti al ‘‘pubblico’’ dei destinatari della comunicazione sociale. Non vengono considerati gli effetti della falsa comunicazione sul complesso degli interessi in gioco: che non sono semplicemente la tutela di interessi patrimoniali di singoli destinatari della comunicazione, ma in genere gli interessi legati al rispetto delle regole del gioco, poste dall’ordinamento giuridico a tutela del mercato (58). (53) G. PECORELLA, in un dialogo con Guido Rossi pubblicato su Micromega, 2001, n. 4, p. 190 s.: ‘‘Diciamo la verità, fra una condanna a tre anni e una condanna a cinque anni l’unica differenza vera è la prescrizione’’ (p. 192). (54) Sul punto si diffonde ampiamente CRESPI, op. cit., p. 1358 s. L’effetto sulla prescrizione è particolarmente vistoso per le fattispecie degradate a contravvenzione, ma è presente anche nel caso dei delitti, che i nuovi limiti edittali spostano nella fascia della prescrizione in 5 anni, con possibile prolungamento fino a sette anni e mezzo. Un risultato che ieri poteva essere ottenuto in presenza di circostanze attenuanti, oggi diviene automatico nell’ipotesi di delitto non circostanziato. E anche un’eventuale unica circostanza aggravante non basta a fondare termini più lunghi di prescrizione, nell’ipotesi di società non quotata. (55) BELCREDI, op. cit., p. 141. (56) L’inadeguata considerazione del complesso degli stakeholders è rilevata da REBOA, op. cit., p. 265 s. (57) In questo senso SEMINARA, op. cit., p. 282. (58) ‘‘L’ipotesi del falso senza danno non esiste in natura. Qualcuno è sempre dan-


— 959 — Pensiamo ad ipotesi in cui, senza cagionare alcun danno patrimoniale immediato ad alcuno, il falso sia stato lo strumento per la realizzazione di quel fine di ingiusto profitto, che nella norma penale affiora come dolo specifico. Potrebbe essere il caso della formazione, mascherata dal falso, di riserve extracontabili (‘‘fondi neri’’). Che in tali ipotesi il fatto sia senz’altro meno grave che in presenza di effetti di danno a terzi, è una valutazione ‘‘discutibile’’. Decisivi, nella graduazione secondo una scala di gravità, possono risultare elementi diversi: non solo l’esistenza e consistenza di un danno per persone individuate, ma anche l’ingiusto profitto, o l’entità, diffusività, probabilità del pericolo derivante dalla falsa comunicazione. L’assumere il danno di singoli a criterio di discrimine fra fattispecie più e meno gravi introduce, nel nostro contesto, una rigidità non giustificata. A ciò si aggiungano le difficoltà, sia concettuali che probatorie, relative all’individuazione dei danni patrimoniali ricollegabili alla falsa comunicazione. La stessa scoperta del danno e della sua fonte, da parte dei danneggiati, può risultare difficile; la cifra oscura, conseguentemente, elevata. Non è buona tecnica normativa fare dipendere la configurabilità di uno od altro tipo di reato da elementi così sfuggenti. Lungi dal giovare alla certezza del diritto, il criterio del danno rischia di produrre effetti di inutile complicazione, di incompletezza, di aleatorietà della tutela. Per quanto concerne infine la distinzione fra società quotate e non quotate, sotteso alla riforma è un giudizio di minore gravità del falso entro società non quotate, come se esso interessasse solo la ristretta cerchia dei soci. Non è così: anche comunicazioni sociali (i bilanci in primis) di società ‘‘non quotate’’ possono avere grande e grandissima importanza per il mercato, avuto riguardo all’attività, alle dimensioni, al tipo di rapporti con terzi interessati, e in particolare con i creditori presenti e futuri. Fra le società quotate non rientrano le SGR, le SIM, le società di gestione di fondi comuni e fondi pensione e tutti gli enti ai quali è affidato il risparmio; e nemmeno le società che partecipano, in posizione dominante, in società ‘‘quotate’’ (59). Anche con riguardo alla diffusività e gravità del danno, il trattarsi di società quotata è un elemento rilevante sì, ma non decisivo. Le complicazioni del sistema uscito dalla riforma appaiono dunque fortemente ‘‘discutibili’’: non poggiano su ragioni forti, non sono necessarie a ottenere differenziazioni ragionevoli in punto di pena (altre e migliori tecniche avrebbero potuto essere adottate), ed anzi introducono rigidità distorcenti. neggiato, se non altro il mercato’’: G. ROSSI, in Micromega, cit., p. 196. Cfr. anche BELCREDI, loco ult. cit. (59) Cfr. R. TARGETTI, Le ‘‘non quotate’’ senza tutela, in Il Sole-24 Ore, del 29 marzo 2002.


— 960 — 2.6. Un’anomala ipotesi di perseguibilità a querela. — Nel caso delle false comunicazioni ‘‘in danno dei soci o dei creditori’’, un secondo effetto concreto ed immediato deriva dalla differenziazione fra società quotate e non: in quest’ultimo caso, la perseguibilità è a querela. Su questo punto, l’iter della riforma è stato attraversato da una curiosa ambiguità: quid juris se, nel caso che il danno vi sia stato, la querela non sia presentata, o venga rimessa? Certamente, viene meno la procedibilità per delitto; e quella per la contravvenzione? Lo schema di decreto legislativo, approvato dal Governo nel gennaio 2002 e sottoposto all’esame delle Commissioni parlamentari, non scioglieva l’ambiguità. I pareri delle Commissioni, e la discussione che ivi si è svolta, hanno sollecitato una riscrittura volta a ‘‘evitare che, nell’ipotesi in cui non siano applicabili le disposizioni dell’art. 2622 per mancanza o remissione della querela, risulti altresì impossibile applicare la disposizione dell’art. 2621’’ (60). La modifica apportata allo schema di decreto ha inteso evitare un esito palesemente contrario al principio d’uguaglianza, quale sarebbe stato l’escludere la procedibilità per la contravvenzione proprio nei casi caratterizzati da effetti di danno. La formula adoperata non è felice, ma l’espressa volontà del legislatore storico ne dà la chiave di lettura. È stata salvata, possiamo dire, la coerenza minimale del sistema di procedibilità (61). Ma il sistema che ne risulta è, per altri aspetti, platealmente irrazionale. Perché la perseguibilità a querela? Leggiamo nella relazione dell’on. Pecorella (62): ‘‘per le società non quotate, in non pochi casi potrebbe apparire opportuna la perseguibilità a querela, posto che i soci potrebbero preferire non portare all’esterno irregolarità che avrebbero l’effetto di danneggiare l’immagine commerciale dell’impresa’’. La ‘‘privatizzazione della procedibilità’’, dunque, come strumento di migliore tutela di persone offese. Nella specie, quell’ipotetico interesse di alcuni ad evitare il processo, in nome del quale è stata introdotta la procedibilità a querela, non è affatto tutelato. Poiché il fatto integra comunque gli estremi della contravvenzione ex art. 2621, procedibile d’ufficio, la perseguibilità a querela del delitto ex art. 2622, comma 1, non ha alcun effetto sulla procedibilità per quel fatto storico. La querela non funziona come condizione di procedibilità, cioè come presupposto necessario dell’azione penale per una data comunicazione sociale falsa. Funziona, per così dire, come inusitata condi(60) La citazione è dall’intervento del rappresentante del Governo, il sottosegretario on. Vietti, in sede di Commissione giustizia del Senato il 19 marzo 2002. (61) Di fronte alla convergenza fra ragion sistematica e dichiarata volontà del legislatore, mi pare irragionevole riaprire il problema, come invece fa DONINI, op. cit., p. 1256 s. (62) In Riv. trim., cit., p. 675.


— 961 — zione di maggiore perseguibilità: per delitto, invece che per la contravvenzione (63). Siamo al di fuori, dunque, del modello normale di funzionamento della querela. L’effetto tipico di selezione della procedibilità non si ha nel nostro caso, perché l’azione penale deve essere in ogni caso esercitata per la contravvenzione. La rinuncia o la remissione della querela non comportano effetti di deflazione processuale, né di protezione dell’ipotetico interesse di alcune persone offese ad evitare il processo (64). L’esercizio della querela avrebbe effetti sulla posizione degli autori del reato, nel caso si arrivi ad una sentenza di condanna (che sarebbe per delitto, e non per contravvenzione). Oppure (è questo lo scenario più probabile) potrebbe essere strumento per avanzare pretese risarcitorie, sullo sfondo dell’aumentato rischio penale dei querelati. Il timore che ciò possa facilitare iniziative ricattatorie (65) appare tutt’altro che ingiustificato. È comunque prevedibile che, a seguito di accordi fra le parti, le eventuali querele siano rimesse nella maggior parte dei casi. Dal punto di vista degli equilibri del sistema penale, il regime di procedibilità delle false comunicazioni in società non quotate equivale praticamente a degradazione del reato a contravvenzione (destinata a prescriversi in tempi brevi). 2.7. Il dolo specifico fra ideologia e logoramento interpretativo. — La riforma ha toccato la questione dell’elemento soggettivo, recuperando e rafforzando la configurazione di figure a dolo specifico. Tale linea era già adottata nello schema Mirone, relativamente alle false comunicazioni sociali, sulla falsariga del ‘‘vecchio’’ art. 2621, ed è stata estesa dalla legge delega anche ad altre fattispecie. Risolvendo le incertezze interpretative attorno al ‘‘fraudolentemente’’ di cui al vecchio testo, il dolo specifico richiesto è il fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, e compare non solo nelle false comunicazioni sociali, ma anche nelle falsità in prospetto, nelle false relazioni della società di revisione, nell’infedeltà patrimoniale, nell’indebita influenza sull’assemblea. Nelle figure di falso è richiesta l’intenzione di ingannare i destinatari. (63) GIUNTA, op. cit., p. 699, parla di querela-commisurazione, come a voler dare etichetta (dignità?) dogmatica alla soluzione legislativa. L’etichetta adoperata, descrittivamente felice, non fa che sottolineare come si tratti di soluzione del tutto estravagante. Assegnare alla querela una funzione ‘‘commisurativa’’ (di ‘‘privatizzazione della pena’’, invece che della procedibilità) è fuori e contro la logica del sistema. (64) Anche a considerare isolatamente il delitto ‘‘in danno’’, le persone offese che preferirebbero evitare il processo sarebbero esposte all’iniziativa di altri. La pluralità dei titolari del diritto di querela (tutti i soci o creditori che abbiano subito un danno) è sufficiente a rendere aleatorio l’obiettivo indicato dal relatore di maggioranza. (65) Espresso per es. dal sen. Zancan nella citata seduta della Commissione giustizia del Senato, e certamente non escluso dalle considerazioni dell’on. Pecorella nel citato dialogo in Micromega, p. 200. Per un approfondimento del tema, BELCREDI, op. cit., p. 140.


— 962 — Nella prevalente interpretazione del ‘‘vecchio’’ art. 2621, la previsione del dolo specifico tendeva per così dire a supplire, sul piano soggettivo, al deficit di offensività della fattispecie oggettiva, appiattita sulla mera irregolarità rispetto al modello civilistico. L’evoluzione della giurisprudenza ha però mostrato un progressivo affievolirsi della capacità selettiva del dolo specifico, e non ha affatto arginato applicazioni in chiave di dolo eventuale, nei confronti di amministratori non operativi che, pur partecipi di disegni di frode, non avessero approvato il bilancio con la consapevolezza della sua possibile falsità (66). La riforma ha, chiaramente, l’intento di ribaltare quegli indirizzi applicativi, e di allargare ad altri contesti la soluzione restrittiva — tutta italiana — in punto di dolo specifico, originariamente pensata per le false comunicazioni sociali. A seguito della riscrittura della fattispecie oggettiva delle false comunicazioni sociali, nei termini pregnanti dell’alterazione sensibile e dell’idoneità ad ingannare, può ragionevolmente ritenersi venuta meno l’esigenza di recuperare sul piano del dolo la necessaria selettività dell’intervento penale. La selezione è ormai assicurata dalla pregnanza oggettiva del fatto, cui corrisponde una sufficiente pregnanza del normale dolo generico, quale consapevolezza e volontà di trasmettere informazioni false e idonee a ingannare. Le ragioni (discutibili) che portavano a richiedere un dolo specifico ne risultano quanto meno affievolite. Non è forse azzardato prevedere che, quanto più si prenderà sul serio (come è giusto) la pregnanza oggettiva del falso e la corrispondente pregnanza soggettiva del dolo generico, tanto meno spazio vi sarà per un’autonoma considerazione di una ‘‘intenzione di ingannare’’ e di un fine di profitto, ulteriori alla consapevolezza e volontà di comunicare il falso ‘‘insidioso’’. Dare rilievo ad ulteriori atteggiamenti soggettivi sarà sentito, con buone ragioni, come ultroneo sotto il profilo della garanzia, anzi come un privilegio elargito a persone che hanno comunque, in mala fede, cooperato all’illecito. Il logoramento del dolo specifico, nell’esperienza applicativa del ‘‘vecchio’’ art. 2621, riflette anche ragioni di questo tipo. Un adattamento, per via di interpretazione razionale, delle formule del dolo specifico, appare più che mai necessario con riguardo alle falsità dei revisori, per le quali il dolo specifico è stato introdotto per la prima volta dalla nuova legge. Per il diritto previgente e lo schema Mirone, era sufficiente il dolo generico, e tale è, del resto, la soluzione coerente con la natura dell’illecito in parola, consistente nella violazione di un dovere funzionale di certificazione. Ha forse inteso, il legislatore della XIV legislatura, che la violazione dolosa di un dovere funzionale di certificazione possa essere ‘‘scusata’’ (66) Per una rivisitazione dell’argomento, cfr. MANGANO, Elemento soggettivo del falso in bilancio e prossime riforme, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001, p. 649 s.


— 963 — dall’assenza di finalità di ingiusto profitto del certificatore infedele? Certamente no, visto che basta la finalità di procurare il profitto ad altri. Viene in rilievo, allora, il profitto che l’ente sottoposto a revisione potrà trarre, poniamo, da un bilancio falso che sia stato oggetto di certificazione infedele, o da altro illecito che i revisori abbiano coperto. Basterà, ad integrare il dolo specifico dei revisori, la consapevolezza di un tale profitto del cliente? Richiedere nei revisori infedeli (infedeli al dovere, ma corrivi al ‘‘cliente’’) un ‘‘dolo specifico’’ ulteriore, sarebbe incoerente con la ratio della norma. La trasposizione della formula del fine di profitto ingiusto, nella fattispecie della falsità in relazioni o comunicazioni della società di revisione, non avrà (non può avere) altro effetto che quello di esporre a logoramento, per via di interpretazione razionale, una formula linguistica usata in maniera incauta. Più in generale, condivido la previsione (67) che la capacità selettiva del dolo specifico si rivelerà incerta, perché pensata su premesse non ragionevoli. L’accentuazione legislativa di profili di intenzionalità verrà dissolta per via di interpretazione nazionale, nella consapevolezza del fatto illecito e delle sue potenzialità offensive per via di interpretazione razionale. ‘‘Ho il diritto di esigere l’ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevoli’’, disse al Piccolo Principe il re del piccolo asteroide (68). I reggitori di paesi più grandi, talora, sembrano non avere questo senso del limite. 3.

L’inserimento sistematico.

3.1. Problemi di concorso di reati. — Il nuovo diritto penale societario sollecita una riflessione anche sotto il profilo del concorso con altre figure di reato. Debbo confessare che problemi di concorso di reati o di norme non mi hanno mai appassionato, specialmente da quando, per l’ampliato ambito di applicabilità del cumulo giuridico (art. 81 c.p. novellato nel 1974), le concrete conseguenze sanzionatorie sono sdrammatizzate, e le differenze poco più che simboliche. Qui però occorre mettere a fuoco l’impatto sistematico della torsione cui il penale societario è stato sottoposto: da sistema sostanzialmente ‘‘separato’’ di tutela di interessi istituzionali, mediante fattispecie di pericolo, a strumento di tutela mirata di interessi patrimoniali, mediante fattispecie di danno. Esaminare i rapporti fra reati societari e altre figure di reato (in concreto: delitti contro il patrimonio), significa verificare se e come sia stata toccata la tutela degli interessi patrimoniali, in nome della quale la riforma è stata presentata dal legislatore della XIV legislatura. (67) SEMINARA, op. cit., p. 680. (68) SAINT-EXUPERY, Il Piccolo Principe, Milano, 2001, p. 51.


— 964 — I più delicati problemi di coordinamento si pongono per gli artt. 2622 e 2623, costruiti come delitti contro il patrimonio, incentrati su un evento di danno patrimoniale cagionato dalla falsa comunicazione o dal falso prospetto. È evidente l’affinità strutturale con la truffa, al punto da far parlare di ‘‘doppione, in definitiva, della tutela patrimoniale già assicurata dalle classiche incriminazioni del codice penale’’ (69). In realtà, la sovrapposizione delle fattispecie non è totale. Né la condotta, né l’evento delle nuove fattispecie si identificano tout court con la condotta o con l’evento della truffa o di altro delitto contro il patrimonio. Anche nelle nuove figure di falso (comprese quelle di falso ‘‘in danno’’) mantiene autonomo rilievo la dimensione istituzionale della comunicazione rivolta ai soci e/o al pubblico: del disvalore specifico del fatto fa parte anche l’offesa alla trasparenza dell’informazione, con connesso pericolo per la generalità dei destinatari. La condotta (la falsa informazione) è comunque punita come contravvenzione, ex art. 2621 o ex art. 2623, comma 1; l’autonomia del disvalore della contravvenzione è confermata dalla perseguibilità d’ufficio. Il danno patrimoniale, che costituisce l’evento dei delitti ex artt. 2622 e 2623, non necessariamente corrisponde al profitto d’una truffa. Gli elementi della complessa fattispecie di truffa non sono richiesti espressamente dall’art. 2622, e non avrebbe senso proporre di questo una interpretazione che ve li inserisca come impliciti. Interpretata in tal modo, la nuova fattispecie (quella che più caratterizza la ‘‘riforma dei vincitori’’) si risolverebbe in un doppione inutile della truffa, con effetti di indebolimento, e non già di rafforzamento, della tutela del patrimonio (70). Se la nuova figura di reato ‘‘in danno’’ vuole avere un senso, il suo spazio va cercato in contiguità, e non già in sovrapposizione con i classici delitti contro il patrimonio. Verranno dunque in rilievo, ai fini dell’art. 2622, anche danni che il socio o il creditore abbia subito, non in conseguenza di un proprio atto di disposizione indotto da un uso della comunicazione falsa come artificio, ma in conseguenza (poniamo) di effetti di un bilancio falso sul comportamento proprio e/o di altri operatori; effetti a loro volta incidenti sul valore dei diritti di partecipazione o di credito. Le nuove figure di delitto, pur da classificare come delitti contro il patrimonio, non sono dunque un puro e semplice ‘‘doppione’’ di altre figure di reato, né si riducono ad ipotesi speciali di truffa consumata o tentata. La tradizionale ricostruzione dei rapporti fra le false comunicazioni sociali e la truffa, in chiave di eventuale concorso (formale o materiale, secondo i casi), deve essere mantenuta ferma. (69) PEDRAZZI, In memoria, cit., p. 1370. Nello stesso senso SEMINARA, op. cit., p. 682. (70) Conf. GIUNTA, op. cit., p. 704.


— 965 — Ancora: le fattispecie contravvenzionali si attestano su una soglia anticipata rispetto alla truffa tentata, in funzione di autonoma tutela (anche) dell’interesse collettivo alla trasparenza dell’informazione. Per la configurabilità del tentativo di truffa, sono richiesti elementi ulteriori (l’utilizzazione della comunicazione sociale o del prospetto, come artificio, in uno specifico rapporto) non necessari ad integrare le fattispecie contravvenzionali del d.lgs. n. 61/2002. Ritenere che le nuove contravvenzioni assorbano (71) il delitto di truffa tentata, ove ne ricorrano i presupposti, si ritorcerebbe, ancora una volta, in un indebolimento della tutela del patrimonio. Più coerente con la ragion sistematica mi pare l’interpretazione che assegni alle contravvenzioni un ambito di tutela anticipata, a fronte di un atto preparatorio di particolare pregnanza. L’ambito coperto dai classici delitti contro il patrimonio — non rientrante nella delega legislativa — resta dunque invariato. Le nuove fattispecie si incastonano nel sistema preesistente, coprendo un pezzetto ulteriore, nel quale possono forse apparire meno estravaganti talune limitazioni della fattispecie (delle modalità di condotta rilevanti) che sarebbero invece platealmente irrazionali (72) rispetto alla ‘‘logica’’ del delitto di truffa. In questo contesto si inserisce la disciplina dettata dall’art. 2622, comma 2, a proposito della procedibilità (delle false comunicazioni ‘‘in danno’’ in società non quotate) nell’ipotesi in cui il fatto integra anche altro delitto contro il patrimonio. Il problema, che il legislatore ha inteso risolvere con disposizione espressa, deriva per l’appunto dalla riconosciuta configurabilità di un concorso di reati, realizzati mediante il medesimo fatto; donde l’esigenza (così la relazione al decreto) di ‘‘evitare disparità di trattamento rispetto a fattispecie di identico valore’’, in conformità a una direttiva della legge delega (art. 11, lett. i)). La soluzione data è che ‘‘si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto... salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee’’. Alcuni commenti a prima lettura hanno dato la seguente interpretazione: ‘‘la presenza ‘privilegiante’ del societario farà sì che anche i reati non societari saranno comunque perseguibili a querela’’ (73). Se tale è il significato della norma in esame, sarebbe palese lo stravolgimento del sistema: una connessione di reati non può essere una ragione di privilegio, ma caso mai concorre a definire la situazione in termini di maggior gravità. Con riguardo alla procedibilità, il significato che può essere ragionevolmente attribuito alla connessione di reati è quello che vi è attribuito (71) Come sostiene per es. DONINI, op. cit., p. 1253. (72) Come è stato osservato da BRICCHETTI-PISTORELLI, op. cit., p. 54. (73) PALIERO, op. cit., p. 37; cfr. BRICCHETTI-PISTORELLI, op. cit., p. 56.


— 966 — nella materia dei delitti sessuali: si procede d’ufficio, invece che a querela, ‘‘se il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio’’ (art. 609-septies, comma 4, n. 4). Lungi dall’evitare disparità di trattamento, sarebbe una plateale violazione del principio d’uguaglianza (per stravolgimento dell’ordine dei valori in giuoco) lo stabilire che un certo tipo di reato (poniamo, una truffa aggravata) normalmente perseguibile d’ufficio, divenga perseguibile a querela se commesso mediante la commissione di un altro reato, cioè con modalità di condotta munite di autonomo disvalore penale, in quanto tipico strumento di frode. Sia la lettera della norma, sia la spiegazione che il legislatore ha dato, sono compatibili con un’interpretazione del tutto diversa, che potrebbe assicurare appieno l’obiettivo di evitare disparità di trattamento. Il problema, che il legislatore si è posto, è di evitare che il nuovo regime di procedibilità delle false comunicazioni sociali ‘‘in danno’’ introduca disarmonie di trattamento, là dove vi sia connessione (più precisamente: concorso formale) con altri reati perseguibili d’ufficio. La formula adottata, non delle più felici, va letta in raffronto al modello reperito nel codice penale, quello dei delitti sessuali, che assume la connessione a fondamento della perseguibilità d’ufficio. Nel discostarsi da quel modello, il legislatore del penale societario lo ha rimarcato esplicitamente: la connessione con altro delitto lascia ferma, di regola, la procedibilità a querela per il reato di cui all’art. 2622, comma 1 (74). È prevista un’eccezione (‘‘salvo che...’’) legata alla natura del delitto connesso (contro lo Stato ecc.). Se la disposizione ha riguardo alla procedibilità per il reato societario, sarebbe un parziale, plausibile recupero del modello dei delitti sessuali: il reato societario sarebbe attratto, per connessione, nel regime della procedibilità d’ufficio. Nulla fa pensare che sia questa la soggettiva intenzione dei redattori del decreto legislativo. Ma sarebbe l’unica interpretazione che, senza forzarne la lettera, vi darebbe un senso razionale, conforme al principio d’uguaglianza, e non invece un effetto (fuoriuscente anche dalla delega) di abbassamento della soglia di tutela del patrimonio, là dove l’aggressione patrimoniale passi attraverso un reato societario. 3.2. Le politiche sanzionatorie e della non punibilità. — 3.2.1. Sul versante delle sanzioni, la riforma dei reati societari si caratterizza per un generale abbassamento delle cornici edittali. Un ulteriore elemento di forte mitigazione è la trasformazione in con(74) Non è senza rilievo, per l’interprete, che la disposizione sulla querela sia inserita nel contesto della disciplina del reato di false comunicazioni sociali ‘‘in danno’’. Per una disposizione relativa alla procedibilità per reati connessi, sarebbe una sede impropria ed inusuale.


— 967 — travvenzioni di talune figure delittuose, fra cui quelle che nel previgente sistema costituivano le figure chiave del penale societario. Al messaggio simbolico di bagatellizzazione si uniscono effetti pratici decisivi. In caso di condanna, non sorgerebbero i più rigorosi effetti penali conseguenti alla condanna per delitto (di particolare rilievo, il venire meno di ogni incidenza sui requisiti di onorabilità richiesti per le cariche societarie presso banche o intermediari finanziari). Ma la condanna è resa meno probabile dai termini di prescrizione, pressoché fulminanti, previsti per le contravvenzioni. Queste applicazioni del modello contravvenzionale sono il principale profilo di sfilacciamento della tutela teoricamente mantenuta, ma ridotta a un telum imbelle sine ictu (75). Sul piano sistematico, appaiono del tutto estravaganti: le nuove fattispecie contravvenzionali restano costruite secondo moduli propri delle fattispecie di delitto (dolo specifico); i livelli sanzionatori (di pena detentiva) corrispondono alla fascia di delitti di gravità medio-bassa. Sul piano delle politiche del diritto, sono in controtendenza rispetto ai più moderni indirizzi che, se conservano la categoria delle contravvenzioni, vi assegnano uno spazio ben delimitato, sostanzialmente corrispondente a precetti di natura cautelare, o sanzionatori dell’esercizio irregolare di attività disciplinate in via amministrativa, o comunque a fatti ‘‘di ridotta offensività’’ (76). Uno spazio differenziato da quello dei delitti anche nella scelta delle sanzioni, per il ritrarsi della pena detentiva, sostituita con la semidetenzione nello schema Pagliaro, ed eliminata nel progetto Grosso. L’inversione di tendenza, nel nuovo penale societario, appare chiaramente ispirata da finalità contingenti. Preludio di una svolta di sistema, le cui ragioni non è dato capire, o contingente esempio di legislazione ad hoc, incurante della razionalità di sistema? 3.2.2. L’unico elemento di rafforzamento del sistema punitivo è l’introduzione (risalente ad indicazioni dello schema Mirone) della responsabilità ‘‘amministrativa’’ delle società per i reati societari commessi nel loro interesse. Si tratta di un arricchimento importante dello smilzo catalogo di reati di cui al d.lgs. n. 231/2001, che potrebbe rivelarsi, pur nel complessivo indebolimento del penale societario, lo strumento comparativamente più efficace, in ragione della diversa disciplina della prescrizione, la quale, rinviando alla legge civile per la disciplina degli atti interruttivi (punto r) della legge delega), ha portato ad una disciplina (art. 22 del d.lgs. n. 231) tale per cui il processo può concludersi con la prescri(75) Riprendo la citazione virgiliana da SEMINARA, op. cit., p. 683. (76) Art. 55 dello schema Pagliaro (in Documenti giustizia, 1992, n. 3, p. 306 s. Cfr. anche DONINI, in La riforma del diritto penale complememtare, a cura di Donini, Padova, 2000, p. 20 s.


— 968 — zione del reato e con la condanna dell’ente, in funzione del diverso regime della prescrizione (77). Sotto ogni altro aspetto, le scelte sanzionatorie del d.lgs. n. 61/2002 sono timidissime anche nei confronti degli enti. È prevista la sola sanzione pecuniaria; non, dunque, sanzioni interdittive. Resta applicabile la confisca, secondo il criterio generale di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 231/2001; ed è questo, forse, lo strumento che potrebbe rivelarsi più incisivo, quando ne sussistano i presupposti. Ovviamente, la responsabilità degli enti sconterà tutte le limitazioni e disfunzioni connesse ai tanti punti di caduta del nuovo diritto penale societario. 3.2.3. Completano il sistema delle risposte al reato alcune rilevanti innovazioni sul fronte della non punibilità. Fra i punti introdotti nella seconda fase della riforma vi è la previsione di cause di estinzione del reato, costituite da fattispecie di risarcimento del danno o reintegrazione dell’offesa, per l’illegale ripartizione di utili (art. 2627), le operazioni in pregiudizio dei creditori (art. 2629), l’indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633). Là dove si innesta su reati perseguibili a querela (artt. 2629 e 2633), il risarcimento come causa di non punibilità non fa che esplicitare un effetto pratico che anche altrimenti verrebbe ottenuto con la remissione della querela. Oggetto di vivace critica (78) è stata invece la soluzione introdotta per la illegale ripartizione di utili: si sarebbe stabilito un ‘‘periodo franco’’ (fino alla approvazione del bilancio) in cui gli amministratori possono depauperare la società, all’unica condizione che rimettano presto le cose a posto. Condivido la valutazione negativa per il caso di specie, non solo per questo effetto di indebolimento del messaggio generalpreventivo, ma anche per ragioni di coerenza sistematica. Con un’avvertenza: non vorrei che una valutazione critica ragionevole su un caso particolare finisse per coinvolgere uno strumento tecnico (di diritto ‘‘premiale’’) suscettibile di utilizzazioni razionali. Ragioni e controindicazioni, condizioni e limiti di utilizzabilità di strumenti premiali, anche spinti fino alla non punibilità, sono stati oggetto di ampia discussione, soprattutto (ma non solo) in relazione alle norme di favore per i collaboratori di giustizia. Il collegamento di un ‘‘premio’’ a (77) Il termine di prescrizione è di cinque anni dalla consumazione del reato. Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito all’ente, ai sensi dell’art. 59. In conformità al criterio civilistico di cui all’art. 2395, comma 2, il d.lgs. n. 231 ha stabilito che, se l’interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell’illecito amministrativo, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. (78) ALESSANDRI, op. cit., p. 1551; FOFFANI-VELLA, op. cit., p. 128.


— 969 — condotte di reintegrazione dell’offesa è (mi pare) il caso meno problematico (79). La configurabilità di cause di non punibilità incentrate sulla ‘‘regressione’’ dell’offesa incontra peraltro dei limiti. Innanzi tutto soglie temporali, le quali assicurino una reintegrazione ‘‘utile’’ (perché tempestiva) dell’interesse offeso dal reato, che possa ‘‘riconnettersi alla minaccia iniziale, ed apparire quindi come osservanza, sia pur tardiva, di quello stesso precetto che è stato violato’’. A queste condizioni ‘‘risulta effettivamente salvaguardata l’esigenza di prevenzione generale’’, e ‘‘l’applicazione della disposizione premiale può ribadire l’efficacia del precetto e convalidarne ‘esemplarmente’ il significato’’ (80). È la mancanza di queste condizioni, nella disciplina dell’art. 2627, che fonda una valutazione critica. Se pure una soglia temporale vi è, manca una ulteriore soglia che, ragionevolmente, dovrebbe ritenersi essenziale là dove il premio promesso consista nell’impunità di un reato non lieve (e non in una semplice diminuzione di pena): per giustificare la rinuncia a qualsiasi reazione, la condotta ‘‘di reintegrazione’’ dovrebbe (quanto meno) essere tenuta prima dell’avvio di indagini. In assenza di questo vincolo, il messaggio legato alla causa di non punibilità non è di convalida del messaggio insito nel precetto, ma è giusto il contrario: il rispetto del precetto viene, di fatto, presentato come non obbligatorio. L’incrinatura nel tessuto della prevenzione generale mi sembra aggravata dall’utilizzazione del tutto occasionale, e perciò discriminatoria, del premio dell’impunità a fronte di condotte di reintegrazione dell’offesa. Anche a non ritenere violato il principio d’uguaglianza, il quadro non risulta coerente. Se tecniche di incentivazione di condotte di reintegrazione dell’offesa possono essere razionalmente utilizzate, occorre che siano strutturate, per l’appunto, in modo razionale rispetto agli scopi, e con una passabile coerenza sistematica. L’uso spot che ne è fatto nel penale societario riflette la medesima ottica privilegiante delle riduzioni delle cornici di pena (81). (79) Nel contesto delle discussioni degli anni ’80 sulla normativa ‘‘premiale’’, proprio uno dei più acuti avversari di tale normativa (PADOVANI, Il traffico delle indulgenze, in questa Rivista, 1986, p. 407 s.) ha evidenziato la possibile sussistenza di ragioni che consentono e suggeriscono, in certi casi e modi e limiti, di ‘‘adattare la tutela al comportamento successivo al reato, stimolando la reintegrazione di un interesse non ancora irrimediabilmente offeso’’ con la previsione di un trattamento di favore, spinto fino alla non punibilità. ‘‘Se in questo modo può forse indebolirsi la deterrenza originaria, giacché l’agente sa preventivamente che avrà comunque a disposizione un mezzo di salvataggio in extremis, si rafforza tuttavia l’aspetto della prevenzione connesso alla tutela di beni giuridici: la violazione del comando originario non è — giustamente — assunta in una mera dimensione etico-politica (come rottura di un vinculum subjectionis), ma riguardata nella sua proiezione politicosociale (come rottura di un equilibrio suscettibile di essere reintegrato)’’. (80) PADOVANI, op. cit. (81) Ancora più spinte, e di molto, nel senso dello slabbramento del sistema, le solu-


— 970 — 3.2.4. Un’analisi realistica non può trascurare, infine, la caduta degli argini di contenimento di un’altra causa di estinzione del reato, cioè la prescrizione. Nelle attuali condizioni di funzionamento della macchina processuale, una sostanziale promessa di impunità. In difesa della scelta operata dal legislatore, l’on. Pecorella ha addotto ‘‘lo scopo di non lasciare una situazione di incertezza per quindici anni in una società’’ (82), evocando l’esigenza di stanziare un fondo rischi per la sanzione pecuniaria cui la società stessa sarebbe assoggettata, ma dimenticando che il diverso regime di prescrizione delle sanzioni amministrative tiene la società nel mirino anche dopo l’eventuale prescrizione del reato. Alle società, l’abbreviazione del corso della prescrizione non giova affatto. Il favore è tutto e soltanto per gli autori di reato (83). 3.3. Il rischio di incrinatura delle basi etiche del mercato. — In un saggio recentemente tradotto in italiano, Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, trova ‘‘sorprendente che coloro che tessono le lodi del capitalismo rifiutino di vedere la qualità morale insita nel comportamento negli affari che tanto ha contribuito al successo del capitalismo: è più un successo morale di quanto non sia un trionfo di cupidigia sfrenata’’ (84). Al di là dei particolari, la critica più dura che ritengo si possa muovere alla riforma del diritto penale societario è di non essersi curata della ‘‘qualità morale insita nel comportamento negli affari’’, fondamento delzioni prospettate per il penale fallimentare. La proposta n. 2342C, primo firmatario on. Cola, propone per la bancarotta fraudolenta una pena massima di tre anni di reclusione, e l’introduzione di una causa speciale di non punibilità, consistente nella restituzione dei beni o del loro equivalente, tale da ridurre grandemente (non, dunque, necessariamente eliminare) il pregiudizio derivante dal reato. Alla minore pregnanza della fattispecie corrisponde una straordinaria pregnanza degli effetti; questa causa di non punibilità travolgerebbe anche il giudicato. (82) In Micromega, cit., p. 193. (83) Il favore per la prescrizione, che traspare in controluce nella riforma dei reati societari, emerge curiosamente anche in proposte di legge volte all’attuazione dei nuovi principi del giusto processo. Significative, in questo senso, le modifiche alla disciplina delle circostanze (in particolare, delle attenuanti generiche) contenute nel progetto di legge n. 1225C (Anedda più altri). Si direbbe che stia prendendo corpo una curiosa interpretazione del principio della ragionevole durata del processo, che viene di fatto utilizzato come fondamento di pretese ad essere liberati in tempi rapidi dal processo e dalla responsabilità, e quindi come indicazione a favore di tempi brevi di prescrizione. Mi sembra un vero e proprio capovolgimento di senso: come si legge nella relazione al progetto di riforma del codice penale, elaborato dalla Commissione Grosso (in questa Rivista, 2001, p. 574 s.), ‘‘il criterio della ragionevole durata comporta l’esigenza di evitare che la prospettiva della prescrizione, che dovrebbe essere un rimedio eccezionale, possa realisticamente essere assunta a obiettivo di strategie difensive, con effetti pratici di appesantimento e prolungamento dei processi’’. Dal punto di vista del diritto sostanziale, ‘‘occorre evitare che l’istituto della prescrizione si traduca in strumento di denegata giustizia verso interessi sia pubblici che privati, compreso quello dell’imputato innocente’’. (84) A. SEN, La ricchezza della ragione, Bologna, 2000, p. 5.


— 971 — l’economia di mercato (85). Si è preoccupata di interessi contingenti di personaggi imputati o imputandi, e non della tenuta delle condizioni del libero mercato, fra le quali la formazione e il rispetto di un’etica condivisa. Al legislatore della XIV legislatura, la frode non sembra dispiacere tanto: nel riservare a comportamenti fraudolenti un giudizio comparativamente mite, o addirittura l’impunità, il nuovo diritto penale societario rappresenta una rottura rispetto alla nostra tradizione etica. Oltre al possibile (difficilmente quantificabile) indebolimento dell’efficacia preventiva della legge penale, preoccupa l’effetto che, più facilmente, potrebbe prodursi sui partecipanti al mercato, che hanno bisogno di poter fare reciproco affidamento sulla correttezza e trasparenza dell’agire di tutti. Appunto la garanzia di questo affidamento è, al fondo, la funzione essenziale degli istituti del diritto societario, cui si connette la tutela penale. Questa tutela, là dove serve, ha a che fare con i presupposti fondamentali del mercato, con il mantenimento della fiducia necessaria a reggere affidabili rapporti intersoggettivi, con la qualità morale che costituisce un decisivo fattore di successo del modello economico liberale. Saranno ancora affidabili, e percepite come affidabili, le comunicazioni sociali dopo la riforma, che concede la non punibilità a comportamenti di autentica frode, e di quelli punibili bagatellizza il trattamento? È giustificato il timore (86) di un vantaggio competitivo concesso agli operatori più spregiudicati, e del ‘‘rischio di un downgrading del sistemapaese, in quanto la riforma ridurrà la percezione di affidabilità delle imprese italiane’’? Fare previsioni sul futuro è sempre un azzardo. Ferma la speranza di una smentita nei fatti, il senso della riforma e il modo in cui essa è stata imposta inducono a temere, da un lato, un ulteriore indebolimento del ‘‘principio responsabilità’’, già così poco sentito in un paese di furbi, e dall’altro un affievolirsi degli affidamenti su cui il mercato si regge. 3.4. Verso una politica penale a doppio binario? — Rispetto a tendenze di politica penale che, di regola, hanno puntato e puntano sulla severità punitiva come strumento di prevenzione dell’illecito, la linea della mitezza nel ‘‘penale societario’’ rappresenta uno scarto notevole. Depurata dagli eccessi che abbiamo visto, l’opzione per un diritto mite contiene spunti che potrebbero essere sviluppati in ben altro modo: evitando, certo, sacche privilegiate di impunità, ma, dove occorra intervenire con strumenti penali, evitandone un uso inutilmente vessatorio. Ciò in sintonia con indirizzi largamente condivisi in dottrina, dai quali sono nate proposte più organiche di riforma del sistema sanzionatorio secondo (85) In questo senso REBOA, op. cit., p. 271; FOFFANI-VELLA, op. cit., p. 130. (86) BELCREDI, op. cit., pp. 137, 145.


— 972 — una linea di moderazione, e di contenimento, in particolare, della pena detentiva (87). È dato leggere, nella riforma del penale societario, il preannuncio di una svolta complessiva nelle politiche penali? Nel settore limitrofo del penale fallimentare, la proposta n. 2342C ne riprende gli aspetti peggiori di lassismo. Una moderazione dell’impianto sanzionatorio, ma per precetti nuovi e fortemente controversi, è stata faticosamente raggiunta in materia di procreazione medicalmente assistita (88). Negli altri settori persistono le vecchie e abusate linee repressive. Emblematico il confronto con una legge approvata pressoché contemporaneamente alla legge delega. La pena prevista per le false comunicazioni sociali ‘‘pericolose’’, idonee a ingannare, commesse con l’intenzione di ingannare a fine di ingiusto profitto, è l’arresto fino a un anno e sei mesi. Una pena analoga (più severa nel minimo: da 3 a 18 mesi) era prevista nel d.l. 20 agosto 2001, n. 336 per il fatto del condannato per reati di violenza da stadio che contravviene alle prescrizioni imposte dal Questore (divieti di accesso e obblighi di presentazione periodica); la legge di conversione 19 ottobre 2001, n. 377, coeva alla legge delega per la riforma societaria, ha sostituito l’arresto con la reclusione e aggiunto la multa (89). Sul sistema complessivo di giustizia penale, abbiamo il contemporaneo impatto di linee divaricate. Mitezza nel penale societario, severità altrove. Proviamo a misurare gli effetti su scenari concreti. Per il falso in prospetto, nell’ipotesi (poco probabile) che non ne sia derivato danno ad alcuno, la pena massima è un anno di arresto. Potrebbe essere il caso di un’iniziativa fraudolenta tempestivamente bloccata sul nascere dall’autorità di vigilanza, come non è avvenuto nei casi dei quali l’autorità giudi(87) Progetto Grosso, cit. (88) Vedi il testo approvato in prima lettura dalla Camera il 19 giugno 2002, nel quale sono state sostituite con sanzioni amministrative le severissime sanzioni penali (reclusione da tre a dieci anni) del progetto portato all’esame dell’aula. (89) Fra gli altri segni della persistenza di linee repressive, possiamo ricordare il disegno di legge relativo al diritto penale minorile, approvato dal Consiglio dei Ministri il 1o marzo 2002, che pure si caratterizza per irrigidimenti della disciplina, talora poco più che simbolici (diminuente per l’età, per i minori che abbiano compiuto gli anni 16, fino a un quarto, invece che fino a un terzo), ma ben più concreti con riguardo ai presupposti e ai termini massimi di durata della custodia cautelare, o alla prevista esecuzione della pena per reati minorili, dopo il compimento del diciottesimo anno di età, nel carcere ‘‘degli adulti’’, o all’introduzione di consistenti preclusioni oggettive in materia di ‘‘sospensione del processo con messa alla prova’’ ex art. 28 del d.P.R. n. 448/1988. Altro esempio della tradizionale politica penale è il testo unificato del progetto di legge (C432 e altri riuniti) che, sotto il titolo dell’impiego di animali in combattimenti clandestini, inserisce nel codice penale un nuovo titolo ‘‘dei delitti contro la vita e l’incolumità degli animali’’. Per l’ipotesi più grave (organizzazione di combattimenti di animali) è prevista la reclusione da due a quatro anni, più la multa.


— 973 — ziaria ha avuto occasione di occuparsi (90). L’autore della macchinazione, colto con le mani nel sacco, se la caverebbe più a buon mercato del tifoso irriducibile che, invece di presentarsi alla polizia, sia tornato allo stadio (senza compiere atti di violenza). Quando si tratta di soggetti marginali, i principi di offensività e sussidiarietà sembrano dimenticati. Fattispecie di ‘‘illeciti ostacolo’’ diventano delitti puniti con la reclusione, nello stesso tempo in cui i riformatori del penale societario predicano contro il ‘‘pericolo astratto’’. Il risultato di queste linee divaricate e contraddittorie è lo scardinamento di una ‘‘passabile’’ coerenza intrasistematica, cioè del principio d’uguaglianza. Scriveva, un quarto di secolo fa, uno dei più autorevoli esponenti della scienza penalistica italiana: ‘‘Solo un ordinamento penale sentito come giusto nel suo insieme può portare la generalità dei destinatari a un’obbedienza giuridica volontaria; se invece si avverte che beni primordiali sono già in astratto privi di tutela o di tutela adeguata, mentre altri beni di rango assai inferiore formano oggetto di una protezione oltranzista, allora l’intero sistema penale perde la sua capacità di orientamento e di guida, e si pervertisce, sino a diventare uno dei principali fattori criminogeni’’ (91). Un simile scenario di perversione del sistema — di rottura della ragione sistematica e del principio d’uguaglianza — si sta formando nel nostro ordinamento: nella legge stessa, e non solo a livello di prassi applicative che da sempre selezionano negli strati bassi i clienti della giustizia penale. Nel quadro complessivo di una politica penale che assume spesso la parola d’ordine della ‘‘tolleranza zero’’, il mite e imbelle diritto penale societario non sembra affatto l’avvio di un auspicabile riequilibrio del sistema sanzionatorio, ma il nucleo di un’isola privilegiata per gentiluomini, autori di quelli che la letteratura giuridica tedesca definisce Kavalierdelikte. DOMENICO PULITANÒ

(90) Vedi per tutti la vicenda decisa da Cass., 28 febbraio 1991, Cultrera, in Cass. pen. 1991, p. 1849 s. (91) MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 483.


SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI E RIFORMA DEI REATI SOCIETARI

1. Il reato di false comunicazioni sociali ha conosciuto frequente applicazione nelle vicende giudiziarie degli ultimi anni, rivelandosi disposizione di particolare interesse ed attualità nel settore penale societario. L’elasticità strutturale della norma, ‘‘esaltata’’ da alcune forzature giurisprudenziali del dato codicistico (1), ha consegnato duttilità precettiva ad una disciplina che è sopravvissuta sino ad oggi nella formulazione del 1942 nonostante l’evoluzione giuridica ed economica che ha interessato il settore delle società commerciali. Con il recente d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (pubblicato su G.U. del 15 aprile 2002, n. 88) il legislatore ha, peraltro, varato una riforma radicale dei reati societari e, con essi, del falso in comunicazioni sociali. L’intervento novellistico, per certi versi opportuno perché finalizzato — tra l’altro — ad emancipare la disciplina penale dell’informazione societaria dall’ancillare applicazione dei postulati bilancistici, suscita non poche e giustificate critiche (anche sul piano della conformità al dettato costituzionale) (2) se sottoposto a sereno vaglio. Perplessità che si appuntano prevalentemente — quanto alla disciplina del falso in comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 c.c. nuova formulazione) — sull’obiettiva consistenza delle soglie quantitative di rilevanza del mendacio. Il principio di necessaria offensività dell’incriminazione — talvolta vanificato da interpretazioni giurisprudenziali ispirate ad eccessivo rigore — non pare infatti giustificare l’individuazione di soglie quantitative di valore assoluto potenzialmente elevatissimo (3) (se relazionate a realtà societarie o di gruppo di (1) Si pensi alle sortite giurisprudenziali in materia di bilancio consolidato, comunicazione di gruppo non riconducibile (se non a costo di pericolose acrobazie argomentative) al paradigma normativo ‘‘comunicazione sociale’’ di cui all’art. 2621, comma 1, n. 1, c.c. (2) In questo senso si veda il contributo di T. PADOVANI, Il cammello e la cruna dell’ago. I problemi della successione di leggi penali relativi alle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, in Cass. pen., 2002, p. 1604. (3) Interessante, a questo proposito, la ricerca pubblicata su un settimanale a diffusione nazionale (L’Espresso del 14 febbraio 2002) sui bilanci di alcune società italiane di rilevanti dimensioni secondo la sintesi proposta da A. CRESPI in un suo recente lavoro (dal titolo: Il falso in bilancio e il pendolarismo delle coscienze, in Riv. soc., 2002, p. 455 ss.): ‘‘Stando alla franchigia stabilita dalla ‘riforma’ in esame del 5% del risultato lordo, ad esem-


— 975 — rilevante consistenza) che finiscono per tradire il significato stesso della necessaria offensività, consegnando la relativa disciplina a fondate censure di ‘‘irrazionalità’’ (4). Gli effetti inquinanti e potenzialmente distorsivi conseguenti alla riforma del reato di false comunicazioni sociali sono stati, del resto, denunciati da molti commentatori: ‘‘mai nella dottrina penalistica’’, si è osservato, ‘‘era stata registrata una simile convergenza di voci contrarie’’ (5). Una riforma — vale ancora osservare — varata con infelice tempismo in un momento assai critico per l’economia internazionale (contrassegnato dal rovinoso crollo di grandi società quotate operanti nel mercato statunitense) che ha convinto le competenti autorità americane, in netta controtendenza rispetto alla filosofia che ha ispirato il nostro legislatore, della necessità di irrobustire le garanzie di trasparenza ed affidabilità dei bilanci ed inasprire le relative sanzioni. In ogni caso, a prescindere dalle critiche che possono muoversi all’intervento riformatore — varato in un ‘‘clima piuttosto surriscaldato, che in qualche modo sconta la ‘sovraesposizione applicativa’ subita dalla fattipio, l’ENI è autorizzato ad occultare 408 milioni di euro, la Pirelli & C. 241 milioni, l’ENEL 191 milioni, Unicredito 164 milioni, Intesa BCI 141 milioni, Generali 125 milioni...: complessivamente 1.755 milioni di euro (per i passatisti, poco meno di 3.500 miliardi di vecchie lirette). Lascio al cortese e ben altrimenti competente lettore immaginare con minore approssimazione quale potrebbe essere l’importo totale di quella singolare franchigia calcolata su tutte le società commerciali operanti sul territorio italiano’’. Analogo (se non più devastante) effetto inquinante deriva, poi, dall’operare della generosa soglia (pari al 10%) individuata dall’ultimo comma dell’art. 2621 c.c., nuova formulazione, per le valutazioni estimative. (4) In termini critici si pone, tra gli altri, A. ALESSANDRI, Il ruolo del danno patrimoniale nei nuovi reati societari, in Le Società, 2002, p. 803 ss.: ‘‘Certo colpisce che le soglie ‘di secondo livello’ riguardino grandezze che sono modificabili, seppur entro certi limiti, dalle politiche d’impresa e finanziarie. Il patrimonio netto può essere depresso o esaltato da una politica sugli utili, per ricorrere all’esempio più banale; il risultato d’esercizio è modificabile da operazioni di rilievo: non sono cioè dati neutri e penalizzano, irrazionalmente, le società in pareggio o di modeste dimensioni. Non è quindi, che questi elementi favoriscano le PMI o le imprese nane, al contrario. Per queste vale il messaggio di modesto rischio penale, non la formulazione della fattispecie. Quei limiti hanno senso per le imprese ‘grandi’ e l’irrazionalità riposa nell’assenza, nei principi contabili internazionali, di soglie siffatte e nella loro mancanza in altri ordinamenti. Non ci vuol molto a pensare a quale sarà il grado di affidabilità dei bilanci italiani presso operatori stranieri’’. D’altro canto, osserva ancora l’Autore, si tratta di soglie quantitative in relazione alle quali la legge delega nulla dice ‘‘circa la tipologia, i parametri di riferimento, le grandezze da assumere: un vuoto totale che ha lasciato l’esecutivo arbitro assoluto di determinare un elemento che, anche ad accantonare per il momento il problema della sua qualificazione, appare decisivo per la concreta punibilità del fatto. Impossibile negare di essere di fronte ad una chiara violazione dell’art. 76 Cost., giudizio confermato dall’arbitrarietà dei limiti quantitativi poi introdotti che non trovano riscontro... in riferimenti tecnici diffusi o in prassi consolidate’’. (5) S. SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in Dir. pen. e proc., 2002, p. 676.


— 976 — specie nel corso degli ultimi due lustri’’ (6) — la nuova normativa sul falso in comunicazioni sociali porta in sé un rilevante cambiamento di politica criminale ed una disciplina fortemente innovativa sulla quale si attendono le prime interpretazioni giurisprudenziali. L’ordinanza del Tribunale di Milano (7) rappresenta applicazione concreta delle nuove fattispecie penali societarie, sia pure in un’ottica particolare, quella della successione delle leggi penali ex art. 673 c.p.p. (revoca della sentenza in executivis per abolitio criminis). Il provvedimento — uno dei primi in materia — si segnala per un’attenta ricostruzione dei rapporti esistenti tra i reati di cui agli artt. 2621 e 2624 c.c. (vecchia formulazione) e le nuove ipotesi criminose introdotte con il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61. Con riferimento ad entrambe le incriminazioni il Tribunale di Milano conclude nel senso di una netta discontinuità di disciplina disponendo conseguentemente la revoca per intervenuta abolitio criminis delle precedenti condanne. Il ragionamento seguito dal Giudice milanese si articola su una serie di argomentazioni dedicate, in buona parte, alla rinnovata silouette normativa del reato di false comunicazioni sociali. I profili di novità (molteplici e significativi, tali da ridisegnare i contenuti dell’incriminazione) trovano manifestazione evidente — già sul piano formale — nella scelta dello ‘‘sdoppiamento’’ dell’originaria fattispecie delittuosa in due disposizioni recanti distinta regolamentazione (esclusivamente dedicate al reato di false comunicazioni sociali) (8). La disciplina contenuta nel comma 1, n. 1, dell’art. 2621 c.c. lascia, così, il posto ai novellati artt. 2621 e 2622 c.c. (rispettivamente rubricati ‘‘False comunicazioni sociali’’ e ‘‘False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori’’). Lo ‘‘sdoppiamento’’ della disciplina — che, ad un primo esame, sembrerebbe ispirato a esigenze di chiarezza — in realtà, si associa ad un’articolazione ulteriore (e complessa), che tiene conto anche delle dimensioni ‘‘giuridiche’’ dell’ente commerciale al quale pertiene la comunicazione sociale (società quotata e non) e conosce regimi differenziati ed ‘‘incrociati’’ di procedibilità (tecnica legislativa che finisce, invero, per appesantire la formulazione delle fattispecie di reato). Il dato comune ai diversi segmenti normativi è rappresentato dalla ‘‘rilevanza’’ del mendacio (‘‘materiality’’, secondo la terminologia anglosassone), il cui oggetto è rappresentato non più dalle ‘‘condizioni econo(6) T. PADOVANI, Il cammello e la cruna dell’ago. I problemi della successione di leggi penali relativi alle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, cit. p. 1598. (7) L’ordinanza è pubblicata in questa Rivista, p. 1145. (8) Sparisce, infatti, dal corpo della norma la disciplina del reato di illegale ripartizione di utili o di acconti sui dividendi.


— 977 — miche’’ della società, ma dalla ‘‘situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene’’ (9). Il requisito della ‘‘rilevanza’’ assurge ad elemento qualificante la riforma della fattispecie incriminatrice e la ‘‘materiality’’ diviene criterio selettivo delle condotte dotate di disvalore penale: la punibilità è, infatti, esclusa ‘‘se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene’’ (art. 2621 c.c., comma 2, secondo periodo, nonché, con formulazione identica, art. 2622 c.c., comma 5, secondo periodo). Il legislatore, inoltre, ha avvertito l’esigenza di specificare tale regola generale completando la previsione con una disciplina di ‘‘chiusura’’: ‘‘la punibilità è comunque esclusa’’, recita l’art. 2621 c.c. (formula analoga viene usata nell’art. 2622 c.c.), ‘‘se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%. In ogni caso’’, prosegue l’ultimo capoverso delle disposizioni in esame, ‘‘il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta’’. La disciplina che ne risulta è, quindi, fortemente innovativa rispetto alla precedente che non conosceva soglie percentuali di significatività del mendacio (risultando sganciata, più in generale, dal requisito della rilevanza) e per la quale vigeva sostanzialmente la ‘‘regola’’ dell’illiceità penale della falsità a prescindere dalla relativa consistenza (10). La normativa abrogata si ispirava — infatti — al ‘‘principio’’ della rilevanza penale tout court dell’immutatio veri, cioè anche dello scostamento ridotto, tale da esprimere ‘‘valori economici di modesta entità in termini assoluti ovvero percentuali’’ rispetto al patrimonio complessivo della compagine sociale (11). Il d.lgs. n. 61/2002 muta scenario, assoggettando a sanzione soltanto le ‘‘alterazioni sensibili’’ della rappresentazione patrimoniale, economica e finanziaria della società o del gruppo: oggi, pertanto, le appostazioni bi(9) Il ‘‘gruppo’’ di società entra, quindi, a far parte della norma, per tal via chiarendosi che anche il bilancio consolidato può costituire comunicazione sociale suscettibile di mendacio penalmente sanzionato (conclusione alla quale era già approdata, come si è detto, la giurisprudenza ante novella). (10) Principio ben espresso in alcune pronunce giurisprudenziali (si veda, ad esempio, quanto al falso in bilancio consolidato, Trib. Torino, Sez. GIP, Dott. Saluzzo, 9 aprile 1997, in Giur. it., 1998, p. 1691 ss.; in relazione alla medesima vicenda processuale cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2000-10 gennaio 2001, n. 191, Mattioli F.P. ed altri). (11) Cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 ottobre 2000-10 gennaio 2001, cit. Nel caso esaminato dalla Corte di cassazione (relativo al falso in bilancio consolidato di Fiat Auto s.p.a.), si trattava di mendacio di ammontare infinitesimale con incidenza sul patrimonio netto pari allo 0,08%.


— 978 — lancistiche mendaci che non raggiungono le soglie percentuali indicate dal legislatore (o che, comunque, non determinano un’alterazione sensibile della corretta rappresentazione) non costituiscono reato. Il cambiamento di politica criminale, sul punto, è radicale perché si accompagna all’introduzione di soglie di rilevanza assai elevate (tali da emancipare, come si è detto, lo statuto penale dell’informazione societaria dalla normativa civilistica di riferimento). Inoltre, a completamento della disciplina dell’elemento obiettivo dell’incriminazione, il già citato decreto legislativo introduce l’ulteriore requisito dell’astratta ‘‘idoneità decettiva’’ della comunicazione sociale mendace (espresso nella formula ‘‘in modo idoneo a indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione’’ economica-finanziaria della società o del gruppo, di cui all’ultima parte del comma 1 degli artt. 2621 e 2622 c.c.). Si tratta — anche in questo caso — di modifica assai consistente che consegue, quale logico corollario, alla più ampia trasformazione dell’incriminazione. Se, infatti, il delitto di false comunicazioni sociali — tradizionalmente inteso quale fattispecie plurioffensiva (a presidio di interessi anche esterni alla società, individuati nella fede pubblica documentale (12), nel regolare funzionamento delle società commerciali nell’ambito dell’economia pubblica (13), ecc.) — si riteneva tutelasse, nella formulazione precedente la novella, un fascio diffuso di interessi, spesso connotati da una dimensione pubblica, oggi si assiste sul punto ad una sensibile trasformazione della norma (particolarmente evidente nella fattispecie di danno di cui all’art. 2622 c.c., ma altrettanto apprezzabile nella figura contravvenzionale strutturata, ora, come reato di pericolo finalizzato ad apprestare una tutela anticipata degli interessi patrimoniali dei soci e del pubblico). L’immutatio veri deve, infatti, essere attuata con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e rivelarsi astrattamente idonea a conseguire il fine ingannatorio. L’introduzione di tale requisito discende, evidentemente, dalla riduzione del novero di beni giuridici tutelati e dalla contestuale maggiore definizione degli stessi. Si è inteso, infatti, procedere ad una materializzazione ed individualizzazione dei beni giuridici ritenuti meritevoli di tutela: non più categorie astratte ed impersonali (quali la fede pubblica o l’economia pubblica), ma specifiche, soggettivizzate e concretamente aggredibili dal mendacio (14). (12) Si veda, ad esempio, Cass., 13 gennaio 1981, Rigoni, in Cass. pen. Mass. annot., 1982, p. 645. (13) Cfr. Cass., 9 aprile 1991, Cultrera, in Cass. pen., 1991, I, p. 1849. (14) Esplicita, sul punto, la Relazione al d.lgs. n. 61/2002: ‘‘Le nuove fattispecie in tema di false comunicazioni sociali traducono sul piano positivo l’esigenza di polarizzare l’intervento penale attorno alla tutela di interessi ben definiti e di differenziarne il tratta-


— 979 — La materializzazione (e contestuale contrazione) dei beni giuridici tutelati ha reso — dunque — possibile il recupero di una specifica valenza offensiva della condotta (risultato perseguito attraverso l’introduzione del requisito della concreta attitudine ingannatoria), offensività in precedenza mortificata da interpretazioni inspirate (in alcuni casi) ad eccessivo rigore. Le modifiche normative non riguardano — peraltro — il solo elemento obiettivo del reato, ma abbracciano l’intera figura criminosa. Così, sul piano soggettivo, l’avverbio ‘‘fraudolentemente’’ (che contrassegnava la precedente incriminazione) lascia il posto ad una formula assai più articolata (‘‘intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto’’). Il legislatore ha ‘‘ritenuto... che la richiesta del delegante di ‘regolare i rapporti della fattispecie con i delitti tributari in materia di dichiarazione’ sia pienamente assicurata dalla direzionalità oggettiva della falsità, nonché dall’esplicitazione del vecchio ‘fraudolentemente’ nella nuova formula ‘con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico’, considerando come appaia all’evidenza indiscutibile che nel concetto espresso dal termine ‘pubblico’ non possa essere ricompreso il fisco’’ (15). La riforma dell’elemento soggettivo del reato sembra, tra l’altro, ispirata dall’intenzione di escludere la rilevanza del dolo eventuale, in passato sostenuta, non senza forzature, in giurisprudenza. La condotta decettiva deve, quindi, essere attuata, per usare le parole dell’ordinanza del Tribunale di Milano, ‘‘con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e di conseguire un profitto di natura ingiusta per sé o per altri (non integrando il reato, quindi, l’intenzione di agire nell’interesse della società, ancorché perseguito con modalità illecite: ipotesi in cui subentra la responsabilità amministrativa della società contemplata dall’art. 3 del d.lgs. n. 61/2002) secondo un’articolazione del dolo nettamente più pregnante di quella, incentrata sull’avverbio ‘fraudolentemente’, prescelta dalla norma abrogata, tutt’altro che tassativa e rivelatasi, in concreto, priva di idoneità selettiva’’. Inoltre, ‘‘in attuazione... del principio previsto alla lett. i) dell’art. 11 che impone al delegato di ‘evitare... disparità di trattamento rispetto a fattispecie di identico valore’, si è provveduto ad inserire all’art. 2622 un comma 2 in relazione alla procedibilità, facendo salva la perseguibilità mento in relazione alla diversa oggettività giuridica... Una tale opzione politico-criminale risponde all’esigenza di potenziare il ruolo del principio di offensività, attraverso una precisa individuazione dell’oggetto giuridico, al fine di porre freno a quel processo di dilatazione operato dalla giurisprudenza nella delimitazione dei confini di rilevanza penale del falso in bilancio, in un certo senso avallato dalla lettura in chiave di plurioffensività della fattispecie’’. (15) Cfr. Relazione al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61. Sulla nuova formulazione dell’elemento soggettivo del reato di false comunicazioni sociali si veda I. CARACCIOLI, Dolo multiplo nelle false comunicazioni sociali, in Il Fisco, 2002, p. 4383 ss.


— 980 — d’ufficio nell’ipotesi in cui il fatto integri un delitto commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee’’ (16). L’intervento riformatore ha toccato, infine, la tipologia e l’entità della sanzione (trasformando il reato di cui all’art. 2621 c.c. in fattispecie contravvenzionale di pericolo concreto procedibile d’ufficio ed introducendo la procedibilità a querela per il delitto di cui all’art. 2622 c.c., salvo il caso di società quotate). In conclusione, il reato di false comunicazioni sociali ha subito modifiche così significative da riuscire completamente innovato nella sua struttura, al punto da manifestare una marcata discontinuità rispetto alla precedente disciplina. 2. Restano da valutare le conseguenze giuridiche di tale trasformazione in relazione all’ipotetica, perdurante, rilevanza penale di condotte consumate vigente l’incriminazione nella precedente formulazione. Tale questione viene affrontata dall’ordinanza del Tribunale di Milano sopra citata dopo un breve richiamo ai principi giuridici (ed alla relativa elaborazione giurisprudenziale) che governano il fenomeno della successione delle leggi penali di cui all’art. 2 c.p. Il comma 2 dell’art. 2 c.p. disciplina, come noto, l’ipotesi della c.d. abolitio criminis, che ricorre nel caso in cui, in un momento successivo rispetto a quello in cui il fatto è stato commesso, intervenga una nuova normativa che, nell’abrogare la disposizione incriminatrice o nel restringerne la portata, sancisca la irrilevanza penale del fatto che in precedenza era alla stessa riconducibile. Il principio enunciato dalla citata disposizione risulta di agevole applicazione quando la normativa posteriore abroghi tout court la precedente. Più complessa si presenta, invece, la soluzione del ‘‘conflitto’’ quando la riforma normativa interessi la precedente fattispecie semplicemente riformulandola e così modificandone (in termini più o meno radicali) gli elementi costitutivi (17). In tal caso, si osserva, ‘‘la legge successiva riprende..., in qualche misura, il contenuto della precedente, ma, per conformarne il significato lesivo ad un diverso apprezzamento di valori o per caratterizzarne le finalità in rapporto a nuove esigenze di politica criminale, traduce questo contenuto in una somma di elementi non più coincidenti con quella degli elementi originari. In tutti questi casi, si tratta in sostanza di stabilire se la nuova legge detti una nuova incriminazione, ac(16) Cfr. Relazione al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61. (17) In tale ipotesi dovendosi accertare, come ripetutamente affermato in giurisprudenza, se si sia o meno in presenza di una abrogatio sine abolitione per continuità normativa.


— 981 — compagnata dall’abrogazione di quella precedente, o se succeda ad essa, mantenendo la rilevanza penale di un’incriminazione già prevista’’ (18). Si tratta di problema interpretativo che — da tempo — occupa gli interpreti e che ha condotto alla elaborazione di diversi criteri applicativi. Una delle tesi da tempo formulate in proposito individua il criterio risolutivo del ‘‘conflitto’’ nella concreta e perdurante ravvisabilità di penale rilevanza del fatto sì come disciplinato dalle normative succedutesi nel tempo (c.d. teoria del ‘‘fatto concreto’’, di matrice tedesca). Si tratta, in sostanza, di verificare se la fattispecie concreta, già rilevante per la precedente normativa, continui ad esserlo anche per quella successiva (19). Agli effetti dell’art. 2.2 c.p. non è, dunque, necessario che ‘‘la legge posteriore’’ venga ad abrogare, nella sua interezza, una fattispecie incriminatrice. ‘‘Ciò che conta è che, secondo una legge posteriore, che può essere anche legge diversa da quella penale, il fatto da qualificare non risulti più costitutivo di reato. Continuiamo a parlare, dunque, di abolitio criminis: a patto, però, di tenere presente che ciò che deve venire meno non è una figura criminosa, bensì la possibilità di qualificare, a seguito di regole posteriori, in qualunque modo incidenti sulla fattispecie qualificante, un fatto concreto come reato’’. Peraltro, si soggiunge, ‘‘deve essere, a questo punto, chiaro come successione di leggi nel tempo si dia allorquando una fattispecie concreta si riporti per intiero sotto la qualificazione discendente da due o più regole, l’una consecutiva all’altra. Sottolineiamo il riferimento alla fattispecie concreta — espressione, questa, che preferiamo a quella di fatto concreto perché pone in rilievo che l’accadimento, reale o come tale ipotizzato, deve essere conforme ad uno schema descrittivo —’’ (20). In sostanza, ai fini dell’art. 2.2 c.p., occorre verificare se la fattispecie contestata (sì come caratterizzata dall’insieme di circostanze ed elementi individualizzanti) trovi sanzione nel nuovo contesto normativo. Qualora non sia possibile ravvisare una continuità sanzionatoria della fattispecie concreta, si è di fronte ad un fenomeno di abolitio criminis (a sensi dell’art. 2, comma 2, c.p.). Orbene, l’applicazione al caso concreto di tale regola interpretativa (operata in via ‘‘residuale’’ nell’ordinanza citata) offre ulteriore conferma (21), secondo il Giudicante, della bontà delle conclusioni raggiunte facendo uso del diverso criterio della c.d. ‘‘omogeneità strutturale’’ delle (18) T. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali - La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice o della sua sfera di applicazione, nell’ambito dell’art. 2, comma 2 e 3, c.p., in questa Rivista, 1982, pp. 1354-1355. (19) Il criterio in parola trova sintetica espressione nel brocardo: ‘‘prima punibile, dopo punibile, quindi punibile’’. (20) Cfr. M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, pp. 112-113. (21) ‘‘Avendo riguardo al fatto concreto’’, si legge nell’ordinanza del Tribunale di Milano, ‘‘le condotte di false comunicazioni sociali per cui al ricorrente è stata applicata la


— 982 — fattispecie (o ‘‘raffronto strutturale tra le fattispecie’’). Come noto, secondo questa regola di valutazione (alla quale il Tribunale di Milano dichiara di aderire), ‘‘si ha successione modificativa quando: — la norma speciale viene abrogata e la precedente norma di carattere generale viene ampliata fino a ricomprendere la fattispecie considerata dalla prima (perché il legislatore non intende decriminalizzare la fattispecie speciale); — viene abrogata la norma a carattere generale e quella speciale subentra limitatamente alla fattispecie che mantiene rilevanza penale alla luce della nuova disposizione. Quando, invece, le due leggi presentano tra loro requisiti eterogenei, deve riscontrarsi una vera e propria abolizione della incriminazione precedente e l’introduzione di una nuova, autonoma figura di reato (con conseguente applicazione del comma 1 dell’art. 2 c.p.)’’ (22). pena non sono più previste dalla legge come reato. Si tratta della falsificazione dei bilanci della Publitalia 80 s.p.a. degli anni 1991, 1992 e 1993, realizzata mediante l’esposizione di costi fittizi ed attraverso l’utilizzazione di fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti, emesse per un importo di lire 205.000.000 nel 1991, di lire 620.000.000 nel 1992 e di lire 250.000.000 nel 1993 al fine di nascondere la creazione di disponibilità extracontabili che, come specificato nello stesso capo di imputazione, avrebbero dovuto rientrare per massima parte, nell’economia extracontabile della società’’. In effetti, la regola interpretativa del ‘‘fatto concreto’’ adottata (sia pure in via ‘‘sussidiaria’’) dal Tribunale di Milano, è prospettiva esegetica che, applicata alla fattispecie storica, consente di cogliere — in termini immediati — le profonde innovazioni strutturali che hanno investito la fattispecie di false comunicazioni sociali. Così, quanto alla obiettiva consistenza del mendacio, la mancanza di rilievo penale della condotta emerge dal semplice raffronto tra le poste di bilancio e le percentuali indicate dal legislatore quali soglie di non significatività. Nel bilancio di Publitalia al 31 dicembre 1991, infatti, l’importo della falsificazione (205 milioni di lire) si attesta su di una percentuale pari a circa l’1,9 per cento del risultato economico di esercizio al lordo delle imposte. Quanto al bilancio al 31 dicembre 1993, chiusosi con una perdita significativa (pari a circa 23 miliardi di lire), il valore della falsificazione scende ad una percentuale di circa l’1,2 per cento del risultato economico dell’esercizio. Anche in questa ipotesi, dunque, il mendacio si pone notevolmente al di sotto della soglia indicata dal legislatore (pari al 5%): la peculiarità dell’indagine concernente la significatività dell’immutatio veri sta — in questo caso — nel ‘‘segno’’ del risultato di esercizio, consistente (non già in un utile ante imposte, bensì) in una perdita. Senza contare, poi, che la mancanza di tipicità penale del falso si ricava, quanto ai bilanci di esercizio Publitalia relativi al 1992 e 1993, dalla comparazione tra entità del falso e quadro globale dei valori espressi in bilancio, secondo la regola generale espressa nella prima parte del comma 3 dell’art. 2621 (e dalla prima parte del comma 5 dell’art. 2622 c.c.). Il principio della materiality — sì come enunciato dalle nuove disposizioni codicistiche — autorizza, infatti, l’interprete a valutare la significatività del mendacio assumendo a referente non soltanto gli indici specificamente individuati dal legislatore al fine di stabilire — iuris et de iure — soglie numeriche prive di rilevanza penale, ma l’insieme dei valori economici-patrimoniali e finanziari espressi in bilancio. In tale ottica, l’entità del fatturato della società e, più in generale, la consistenza delle voci espresse nei bilanci della società è tale da rendere irrilevanti i falsi contestati (non idonei ad alterare ‘‘in modo sensibile’’ la rappresentazione bilancistica). (22) Cfr. Cass. pen., Sez. III, 11 settembre 2000, n. 9574, Scavroni, in La legge, DVD Rom Ipsoa, rv. n. 217574.


— 983 — Si tratta di principio interpretativo frequentemente adottato in giurisprudenza quale criterio esegetico idoneo a risolvere il conflitto tra norme succedutesi nel tempo (23). Così, in materia di reati tributari, per dirimere le numerose questioni concernenti la perdurante rilevanza penale delle fattispecie di reato già disciplinate dalla normativa del 1982 (ampiamente novellata dal d.lgs. n. 74/2000), la Cassazione ha fatto frequentemente uso del principio dell’omogeneità-disomogeneità strutturale delle fattispecie. Le massime, sul punto, si susseguono quasi identiche tra loro: ‘‘attesa la disomogeneità strutturale della contravvenzione di omessa dichiarazione in materia di imposte dirette od Iva, di cui all’abrogato art. 1, comma 1, d.l. 10 luglio 1982, n. 429, rispetto al nuovo delitto di omessa dichiarazione introdotto all’art. 5 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nonché in considerazione della più generale incompatibilità del nuovo sistema penale tributario con il vecchio modello fondato sulla criminalizzazione di violazioni meramente formali e preparatorie, deve ritenersi che l’avvento della nuova normativa ha determinato una vera e propria abolitio criminis’’ (Cass., Sez. un., 13 dicembre 2000, Sagone); ‘‘attesa la disomogeneità strutturale della fattispecie di cui all’abrogato art. 4, comma 1, lett. d), d.l. 10 luglio 1982, n. 429 rispetto alla nuova figura di reato prevista all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nonché in considerazione della più generale incompatibilità del nuovo sistema penale tributario con il vecchio modello di tutela anticipata fondato sulla repressione di violazioni strumentali e prodromiche all’evasione, deve ritenersi che, con riferimento alle condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti realizzatesi durante la vigenza della normativa oggi abrogata, è (23) In realtà, una lettura attenta dell’impianto motivazionale delle recenti pronunce della Cassazione consente di apprezzare una non infrequente combinazione di tale principio con gli altri (in precedenza richiamati) della continuità del tipo di illecito e del fatto storico. Si veda, ad esempio, Cass., Sez. un., 7 novembre 2000, n. 27, Di Mauro: ‘‘... deve invece riconoscersi un fenomeno successorio, con conseguente applicazione dell’art. 2, comma 3, c.p., quando, all’esito della comparazione e del raffronto tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle fattispecie incriminatrici, persiste, anche se mutato, il giudizio di disvalore astratto per effetto di un nesso di continuità ed omogeneità delle rispettive previsioni, e il significato lesivo del fatto storico sia riconducibile nel suo nucleo essenziale, secondo le regole proprie del concorso apparente di norme, ad una diversa e più mite categoria d’illecito, tuttora penalmente rilevante, nonostante ed anzi proprio in conseguenza dell’intervento legislativo che, benché formalmente abrogativo, di fatto modifica l’ambito di applicabilità della previgente e diversa norma incriminatrice’’ (anche se, poi, il criterio in concreto adottato dalla Cassazione si rivela alla fine quello della ‘‘comparazione organica degli elementi strutturali delle fattispecie tipiche, la cui applicazione conduce ad affermare — in materia di reati fiscali — il principio di diritto secondo il quale ‘‘le condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, supportata da tali fatture o documenti, non sono più, di per sé previste dalla legge come reato’’).


— 984 — intervenuta una vera e propria abolitio criminis’’ (Cass., Sez. un., 7 novembre 2000, n. 27, Di Mauro). Il criterio dell’omogeneità ‘‘strutturale’’ viene dunque assunto — dalla recente giurisprudenza — quale regola applicativa fondante il principio espresso dall’art. 2 c.p. (24) e ciò non solo in materia di reati tributari, ma anche (ad esempio) in tema di assunzione di lavoratori extracomunitari (l. 30 dicembre 1986, n. 943 e l. 6 marzo 1998, n. 40). Proprio con riferimento a tale ultimo settore normativo vale richiamare un passaggio motivazionale della pronuncia 11 settembre 2001 delle Sezioni unite della Corte di cassazione (25), di particolare interesse perché ricognitivo delle tesi ad oggi adottate dal Supremo Collegio: ‘‘in tema di successione di norme con le quali si attui la modificazione legislativa di uno o più elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice’’ ed in mancanza ‘‘di disposizioni transitorie per i processi in corso, il problema dell’individuazione della norma applicabile ai fatti anteriormente commessi deve essere risolto’’, osserva il Supremo Collegio, ‘‘alla stregua delle regole fondamentali del diritto intertemporale in materia penale dettate dall’art. 2 c.p.’’. Posta questa premessa, le Sezioni unite dichiarano di aderire a quell’orientamento giurisprudenziale ‘‘che nega la sussistenza della continuità normativa, facendo richiamo ed applicando, in proposito, i precedenti costituiti da Sez. un., 7 novembre 2000, n. 27, Di Mauro e 15 gennaio 2001, n. 35, Sagone. Entrambe tali decisioni’’, precisa la Cassazione, ‘‘concernono la materia dei reati tributari ma, al di là delle singole e specifiche applicazioni, vanno riaffermati i principi generali in esse contenuti in materia di accertamento della correlazione tra norma sopravvenuta e norma previgente, a seguito di ‘abrogatio’ di quest’ultima. Tali principi generali consistono nell’opzione per un criterio ermeneutico di ordine teleologico-sistematico, nell’ambito del quale è insufficiente l’abrogazione espressa... e deve piuttosto verificarsi la omogeneità o disomogeneità strutturale delle fattispecie tipiche’’. In particolare, rammentano le Sezioni unite, ‘‘è stato già affermato in sostanza che: — l’accertamento della esistenza o meno di un rapporto successorio tra le norme in raffronto è imprescindibilmente connesso all’esame delle disposizioni medesime considerate in astratto; — il raffronto deve riguardare gli elementi strutturali delle fattispecie tipiche, al fine di verificare la relazione di omogeneità o di eteroge(24) E, quasi a riprova della correttezza del risultato interpretativo raggiunto, viene inoltre valorizzato ‘‘il profilo fortemente innovativo dello ius superveniens in ordine all’identificazione della condotta criminosa meritevole di sanzione penale’’ assunto quale ulteriore elemento idoneo a selezionare le condotte (un tempo di rilievo penale, ma successivamente) incompatibili con il nuovo regime normativo. (25) Si tratta della sentenza 11 settembre 2001, n. 33539, Donatelli, in La legge, DVD Rom Ipsoa, rv. n. 219530.


— 985 — neità delle stesse: qualora gli elementi ‘tipici’ delle due fattispecie siano tra loro eterogenei, si avrà l’abrogatio; in caso contrario, e cioè ove sussista rapporto di omogeneità, si avrà successione di norme’’. In applicazione del principio enunciato in motivazione e — dunque — in conseguenza del confronto delle disposizioni incriminatrici di cui agli artt. 12, comma 2 della l. n. 943/1986 e di cui all’art. 22, comma 10, del d.lgs. n. 286/1998, la Corte conclude per l’abrogazione ‘‘secca’’ della fattispecie di reato: infatti ‘‘il proprium delle due fattispecie è assolutamente diverso, poiché del tutto eterogenei sono gli elementi che concorrono a disegnarne la tipicità: diverso è l’atto amministrativo che si inserisce nell’area della rilevanza penale...; diversi sono i procedimenti autorizzatori e gli organi ai quali spetta il rilascio dei due provvedimenti; ...diversa è la stessa ‘ratio’ dell’intervento del legislatore penale’’. In sintesi, il raffronto tra le fattispecie astratte (criterio adottato nelle sentenze sopra richiamate per risolvere il conflitto tra norme succedutesi nel tempo) impone una verifica dell’omogeneità strutturale degli elementi normativi della fattispecie. Tale indagine comporta, necessariamente, una rassegna comparata degli elementi essenziali del reato (condotta, elemento soggettivo, ecc.) (26). (26) Per un’applicazione assai estesa della regola di cui all’art. 2, comma 2, c.p. (secondo il criterio della omogeneità strutturale), si veda, in tema di oltraggio, Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2000, Aayacha (in La legge, DVD Rom Ipsoa, rv. n. 216041): ‘‘questo Collegio ritiene... di aderire al diverso orientamento (vedi Cass., Sez. V, 14 ottobre 1999, Grezzi; Sez. VI, 28 gennaio 2000, n. 518, Marini; Sez. I, 10 marzo 2000, Cannella), secondo cui la disposizione prevista dall’art. 18 della l. n. 205/1999, nel prevedere l’abrogazione del reato di oltraggio, ha operato una vera e propria ‘abolitio criminis’, nel senso che il fatto costituente reato di oltraggio non è più previsto dalla legge come reato. Tale indirizzo si fonda essenzialmente sull’assunto che la fattispecie di cui all’art. 341 c.p. proteggeva un bene giuridico diverso da quello del reato di ingiuria e, quindi, l’abrogazione di tale norma comporta automaticamente la non punibilità della condotta diretta a ledere l’onore ed il prestigio del pubblico ufficiale... Particolarmente convincente appare la sentenza n. 518/2000 (proc. Marini)’’ la quale, ‘‘dopo aver escluso che si possa parlare di continuità nella tutela del bene giuridico già protetto dall’art. 341 c.p. con la perdurante vigenza dei reati di ingiuria e minaccia, ha avanzato dubbi di contrasto con gli artt. 25 e 112 della Costituzione... Va infatti rilevato che i beni giuridici, protetti dai reati di ingiuria e di oltraggio, sono ben diversi, come si desume non solo dai rispettivi articoli..., ma anche dalla lettura dell’art. 341 c.p. data dalla Corte costituzionale con sentenze pronunciate in epoche diverse (nn. 109/1968, 51/1980, 341/1994). Nella decisione n. 341/1990 viene sottolineata l’eterogeneità delle due fattispecie criminose, riguardanti l’una l’offesa arrecata al privato cittadino e l’altra l’offesa rivolta contro chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale, mentre la n. 51/1980 evidenzia la diversità di bene giuridico tutelato dalle due norme, rilevando che ‘l’art. 341 c.p. appresta una tutela che trascende la persona fisica del titolare dell’ufficio per risolversi nella protezione del prestigio della pubblica amministrazione’. Ne consegue che la rilevata diversità ontologica e l’esistenza di condotte che possono integrare il secondo ma non il primo portano ad escludere un rapporto di specialità... ed a configurare invece il diverso criterio dell’assorbimento’’. La Corte Suprema ha ritenuto dunque sussistere — in materia di oltraggio — un’aboli-


— 986 — Orbene, tornando al caso affrontato dal Tribunale di Milano, l’applicazione del criterio dell’omogeneità strutturale porta certamente a concludere per l’abolitio dell’incriminazione di false comunicazioni sociali formulata vigente l’abrogata normativa. Non è dato, infatti, ravvisare — come già rilevato — omogeneità tra le fattispecie originariamente addebitate e la nuova disciplina (27). La diversità strutturale delle fattispecie poste a confronto è, d’altronde, significativa del mutamento della ‘‘stessa linea di confine tra lecito ed illecito; e poiché la funzione dell’irretroattività consiste proprio nel garantire la possibilità di valutare il significato della condotta tenuta nel contesto dei termini normativamente definiti, è evidente come i nuovi termini tracciati dal legislatore, diversi dai precedenti perché fondati su elementi eterogenei, non possano in alcun modo fondare la perpetuazione di rilevanza penale di un fatto che — in quanto tale — non è più previsto come reato’’ (28). Il reato di false comunicazioni sociali è stato infatti oggetto, come correttamente affermato dall’ordinanza del Tribunale di Milano, di ‘‘modifiche talmente significative da essere stato completamente innovato nella sua struttura essenziale. Il significato lesivo della condotta è stato conformato ad un diverso apprezzamento di valori, le finalità risultano rapportate a nuove esigenze di politica criminale e la discontinuità strutturale si manifesta tanto sul piano dei beni tutelati, quanto con riferimento tio criminis ‘‘secca’’, tale da non rendere praticabile il ricorso al criterio di cui all’art. 2, comma 3, c.p. Il precedente giurisprudenziale ha trovato definitiva consacrazione nella sentenza delle Sezioni unite 17 luglio 2001, n. 29023 [che rappresenta un importante approdo interpretativo in materia di successione di leggi penali stante la rilevante contiguità strutturale esistente tra le fattispecie (astratte) di cui agli artt. 594 e 341 c.p.], che conclude nel senso che la novella in materia di oltraggio ‘‘integra propriamente un’ipotesi di abolitio criminis, disciplinata dall’art. 2, comma 2, c.p.: sicché, secondo questa norma, dopo l’art. 18 della l. n. 205/1999, nessuno può essere punito per uno dei menzionati delitti di oltraggio e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. La detta vicenda legislativa, per contro, non configura un’ipotesi di successione intertemporale di leggi penali, di cui al comma 3 dell’art. 2 c.p. Infatti quest’ultima disposizione ha per presupposto una diversità di norme incriminatrici, di cui una cronologicamente precedente all’altra, o — più esattamente — presuppone una diversa vigenza temporale delle norme incriminatrici e stabilisce come conseguenza giuridica che deve applicarsi la norma più favorevole al reo (sia essa ancora o non più vigente), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile’’. (27) Degni di menzione, in questa sede, alcuni ulteriori profili di discontinuità, tra i quali — quanto al falso in comunicazioni sociali — l’oggetto del mendacio (a differenza della più recente disciplina la fattispecie abrogata limitava la riferibilità del mendacio alle sole condizioni economiche della società, sancendo inoltre la penale rilevanza del falso sulla costituzione della società) e la tipologia delle comunicazioni sociali tutelate dalla nuova incriminazione (che assegna rilievo esclusivamente al falso significativo recepito in comunicazioni sociali ‘‘previste dalla legge’’). (28) T. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali - La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice o della sua sfera di applicazione, nell’ambito dell’art. 2, comma 2 e 3, c.p., cit., p. 1370.


— 987 — agli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie: condizioni che impediscono di giudicare sussistente un fenomeno di successione di leggi penali ed impongono, piuttosto, di ritenere che all’abrogazione formale dell’art. 2621 c.c. si sia accompagnata l’abolizione della relativa fattispecie incriminatrice, avendo riguardo alla sua formale tipicità’’. Logica (e giuridicamente ineccepibile) conseguenza è, quindi, la revoca in executivis della precedente condanna per falso in bilancio e, per ragioni analoghe, della sentenza di ‘‘patteggiamento’’ resa per il reato di cui all’art. 2624 c.c. (29). La riforma delle fattispecie è stata, d’altro canto, talmente radicale da (29) L’art. 2624 c.c., nella formulazione precedente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 61 del 2002, sanzionava con la pena della reclusione e della multa gli amministratori, i direttori generali, sindaci e liquidatori che avessero contratto con la società di appartenenza (o con società controllata o controllante), sotto qualsiasi forma, prestiti o garanzie (sempreché, queste ultime, fossero state rilasciate dall’ente per debiti propri dell’esponente aziendale). Scopo della norma — secondo i compilatori dell’art. 6 l. 4 giugno 1931, n. 660, ‘‘da cui, con non rilevanti modifiche di forma, la disposizione in esame deriva’’ — era quello di ‘‘evitare ogni specie di operazioni compiute con denaro o con la garanzia della società a vantaggio personale dei titolari dei poteri di gestione o controllo sulla medesima e quindi di prevenire il conflitto che si determinerebbe tra l’interesse dell’agente, quale organo della società, e l’interesse personale dello stesso, col risultato di un prevedibile quasi costante sacrificio del primo interesse rispetto a quest’ultimo. Ma la formulazione della legge è andata anche al di là di tali intenzioni. Col proibire ogni genere di prestito o di garanzia senza imporre indagine alcuna sulla concreta consistenza dell’operazione e attribuendo rilievo a qualsivoglia modalità colla quale questa può essere realizzata, si è trascurato il requisito della presenza di un danno o di un pericolo per la società e si sono resi incriminabili anche comportamenti che, alla resa dei conti, si siano dimostrati vantaggiosi per l’ente. Per tal modo si è finito col tutelare, non tanto il patrimonio della società, quanto il rispetto scrupoloso delle forme, in rapporto all’esigenza di evitare situazioni poco chiare, capaci di ingenerare incertezze e sospetti sulla condotta di persone alle quali è affidata la gestione o il controllo dei beni altrui’’ (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, Milano, 1994, pp. 295-296). Orbene, l’art. 2624 c.c. è stato formalmente abrogato dall’art. 1 del d.lgs. n. 61/2002. Stante l’intervenuta abrogazione, occorre chiedersi se, per effetto della novella, le condotte originariamente sanzionate dall’art. 2624 c.c. abbiano perso tout court rilevanza penale o se, invece, continuino ad essere sanzionate da altra norma di legge. Per rispondere a tale interrogativo occorre verificare se sussista continuità sanzionatoria tra la disposizione oggetto di abrogatio e l’art. 2634 c.c., oggi rubricato ‘‘Infedeltà patrimoniale’’. Trattasi, quest’ultima, di fattispecie (la cui introduzione è da tempo auspicata in dottrina) che rappresenta — come correttamente osservato nella Relazione accompagnatoria — ‘‘una delle più attese novità in tema di reati societari’’, intesa a reprimere condotte di gestione ‘‘infedele’’ degli esponenti aziendali delle società commerciali. La norma sanziona, infatti, con la reclusione da sei mesi a tre anni ‘‘gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale’’. Per la procedibilità, è prevista (cfr. art 2634, ultimo comma, c.c.) la querela della persona offesa. Il raffronto tra le disposizioni citate rende evidenti, al di là di alcuni punti di contatto, le profonde differenze strutturali tra le stesse intercorrenti.


— 988 — poter essere qualificata ‘‘abolitio criminis’’ (a sensi dell’art. 2, comma 2, c.p.) qualunque sia il criterio interpretativo che si ritenga adottare come legge di copertura scientifica del fenomeno della successione di leggi penali (fatto in concreto, omogeneità strutturale, continuità del tipo di illecito) (30). La nuova fattispecie, infatti, contrariamente alla precedente disposizione (art. 2624 c.c.), assegna centrale rilievo all’evento di danno (patrimoniale) per l’ente di appartenenza e circoscrive l’ambito sanzionatorio alle (sole) condotte tenute dall’esponente aziendale della società depauperata per effetto dell’atto dispositivo. Se, dunque, la precedente disciplina poteva essere accusata di eccessivo formalismo (denunciato dalla dottrina sopra richiamata), l’odierna incriminazione — avanzando la soglia della penale rilevanza (prima attestata al pericolo presunto) — si propone di tutelare il bene giuridico ‘‘patrimonio sociale’’ da aggressioni concrete del medesimo provenienti dagli organi della società. Ulteriori, profonde differenze tra la vecchia incriminazione e l’attuale art. 2634 c.c. sussistono sul piano dell’elemento soggettivo. Mentre, infatti, il reato di illeciti rapporti patrimoniali con la società era punito a titolo di dolo generico, senza che occorresse la consapevolezza del pericolo arrecato agli interessi societari (e, tantomeno, l’intenzione di nuocere), il delitto di infedeltà patrimoniale postula oggi un dolo specifico (integrato dal fine di procurare a sé o altri un ingiusto profitto o vantaggio) intenzionalmente volto alla causazione di un danno patrimoniale alla società. A prescindere, quindi, dalle ulteriori differenze intercorrenti tra le due norme (sia sul piano della procedibilità, sia — infine — quanto al trattamento sanzionatorio), è rinvenibile una discontinuità evidente quanto al catalogo di beni giuridici tutelati ed alle modalità aggressive dei medesimi. (30) Tale ultimo criterio, come noto, ‘‘postulando il ricorso a criteri di tipo sostanzialistico... tiene conto del bene giuridico protetto dalle norme penali e delle modalità di aggressione allo stesso. Se questi elementi, che costituiscono il nocciolo offensivo della fattispecie, risultano inalterati nelle due norme che si sono succedute, si avrà modifica e non abrogazione’’ (cfr. Cass. pen., Sez. III, 11 settembre 2000, n. 9574; nello stesso senso si veda anche Cass. pen., Sez. III, 12 settembre 2000). Si tratta di tesi ‘‘largamente sostenuta dalla dottrina tedesca’’ destinata ad assumere ‘‘un significato preciso soltanto alla luce dei criteri proposti per l’accertamento in concreto di tale ‘continuità’. In tale senso, movendo dal rilievo che l’illecito penale si caratterizza come tipizzazione di un’offesa a beni giuridici, attraverso peculiari modalità di comportamento, si è ritenuto che siano appunto l’interesse protetto e le modalità di offesa a fornire i parametri per apprezzare la ‘continuità’ nella previsione normativa dell’illecito’’ (cfr. T. PADOVANI, op. cit., pp. 1360-1361). Orbene, nel caso di specie, la modifica del catalogo di beni giuridici tutelati dalle norme che qui interessano è evidente. Si è già detto di come la riforma dei reati societari recata nel d.lgs. n. 61/2002 abbia comportato la radicale riformulazione degli artt. 2621 c.c. e 2624 c.c. il cui ambito di tutela è stato riorientato secondo criteri di maggiore offensività (con specifica determinazione e contrazione degli interessi tutelati). È, infatti, proprio sul versante dell’offensività che ‘‘si registrano le novità di maggior rilievo, lì dove l’intervento penale è polarizzato attorno alla tutela di interessi ben definiti (patrimonio, integrità del capitale sociale e regolare funzionamento degli organi sociali) e si predilige la selezione di modalità comportamentali direttamente offensive di singoli beni giuridici, piuttosto che ricostruzioni in chiave di plurioffensività, le quali... recano con sé l’effetto, difficilmente arginabile, di estendere a dismisura talune fattispecie’’ (cfr. Relazione al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61).


— 989 — Di contrario avviso è, però, la Corte di cassazione (31) che, in una recente sentenza, ha ritenuto sussistere continuità normativa tra l’art. 2621, comma 1, n. 1, c.c. vecchia formulazione e l’attuale art. 2621 c.c. (32). Secondo il Supremo collegio, infatti, ‘‘le differenze fra le due fattispecie... non sono strutturali, ma attengono a modalità parzialmente diverse di difesa dello stesso interesse tutelato, riguardando le soglie di punibilità, l’intensità della pena e vari elementi circostanziali del reato’’; di qui la ritenuta ‘‘continuità normativa fra le due specie, con la conseguenza che va applicata quella più favorevole al reo’’. L’interesse tutelato dalle diverse discipline, secondo la Cassazione, sarebbe dunque il medesimo, cioè la Appare assolutamente pacifica, pertanto, anche sotto questo aspetto, la sussistenza di un’abolitio criminis rilevante ex art. 2, comma 2, c.p. (31) La posizione interpretativa assunta dalla Corte di cassazione trova alcuni precedenti nella giurisprudenza di merito. A questo proposito si veda, per tutte, l’ordinanza 23 aprile 2002 del Tribunale di Milano (pubblicata su Guida al Diritto del 18 maggio 2002, n. 19, p. 83 ss.), provvedimento dai contenuti argomentativi analoghi a quelli espressi dalla Suprema Corte, arricchiti — peraltro — da un interessante riferimento esegetico alla normativa transitoria (art. 5) contenuta nel decreto legislativo dello scorso aprile. Secondo il Giudicante, la possibilità di proporre querela in ordine ai ‘‘reati perseguibili a querela ai sensi del presente decreto legislativo, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso’’ si rivelerebbe ‘‘assolutamente incompatibile con l’introduzione di un’incriminazione nuova’’. A ben vedere, peraltro, il Giudice milanese sembra ricavare come pacifico dalla normativa transitoria un principio che la stessa non enuncia. L’art. 5 del decreto legislativo si limita, infatti, a stabilire un termine (ad oggi spirato) per la presentazione della querela per quei reati previsti dalla riforma caratterizzati da continuità normativa rispetto alle previgenti figure criminose. Non viene, cioè, superato per via legislativa il problema (che resta irrisolto) della continuità sanzionatoria; più semplicemente viene concesso un termine per rendere perseguibili quelle condotte (che già in precedenza costituivano reato secondo un apprezzamento di valori sostanzialmente immutato avuto riguardo al nuovo scenario normativo) contrassegnate da continuità normativa, oggi punibili a querela di parte. In termini più incisivi, ‘‘la normativa transitoria, proprio perché disciplina un aspetto squisitamente processuale, postula in realtà già risolto il problema sostanziale di quali fatti, precedentemente commessi, mantengano rilevanza alla stregua delle nuove fattispecie’’ (T. PADOVANI, Il cammello e la cruna dell’ago, cit. p. 1606). Senza contare, poi, che la norma transitoria potrebbe essere valorizzata — in senso opposto rispetto a quello seguito dal Tribunale di Milano — per riaffermare l’intervenuta abolitio cum abrogatione della fattispecie (già prevista dall’art. 2621, comma 1, n. 1, c.c. ed oggi transitata nell’art. 2622 c.c.) secondo il criterio del ‘‘fatto concreto’’ assunto quale regola fondante il principio enunciato dal comma 2 dell’art. 2 c.p. Certo, non ha senso far questione di querela per una comunicazione sociale decettiva che, non integrando le soglie quantitative, non raggiunge la necessaria tipicità. Al di sotto delle soglie, non c’è il reato (la perdurante illiceità penale è contrassegnata, proprio, dal superamento delle soglie). Il che significa, in questo caso, l’assenza di continuità normativa in considerazione del criterio del fatto in concreto la cui applicazione sembrerebbe preferibile proprio in considerazione della normativa transitoria che impone, necessariamente, un raffronto non già strutturale tra le diverse discipline, ma da effettuarsi in concreto dovendosi stabilire a monte, in funzione della presentazione della querela, se la condotta ipotizzata costituisca reato ‘‘perseguibile a querela ai sensi del presente decreto legislativo’’ (art. 5 cit.). (32) Si veda Cass. pen., Sez. V, 21 maggio-19 giugno 2002, n. 23449, in Il Fisco, p. 10676 ss.


— 990 — ‘‘veridicità delle scritture sociali ed in particolare dei bilanci, come bene essenziale per la correttezza dei rapporti all’interno della società e di essa nei confronti dei terzi. Entrambe le formulazioni dell’art. 2621 del codice civile, la precedente e l’attuale, indicano nella veridicità delle comunicazioni sociali un bene tutelato, e condannano, la prima, la ‘fraudolenta esposizione non veritiera’ e la seconda, l’esposizione non veritiera fatta con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico. Salva la lieve distinzione, in ordine all’elemento soggettivo del reato, entrambe le formulazioni affermano la tutela generalizzata dell’interesse alla veridicità delle comunicazioni sociali’’. La Cassazione sembra però trascurare che la previsione di soglie percentuali di significatività del mendacio caratterizza entrambe le ipotesi criminose di cui ai riformati artt. 2621 e 2622 c.c. e condiziona — pertanto — la ricostruzione per via interpretativa dell’ambito di tutela offerto dalla fattispecie contravvenzionale. Quest’ultima, analogamente alla figura delittuosa, lungi dal tutelare la trasparenza dell’informazione societaria (e, con essa, la fede pubblica documentale) non può che presidiare, in considerazione dell’operatività delle predette ‘‘soglie’’, interessi patrimoniali posti in pericolo dalla condotta decettiva. Se, infatti, l’art. 2621 c.c. intendesse tutelare ancor oggi la trasparenza dell’informazione non ‘‘sopporterebbe’’ l’introduzione di soglie percentuali tali da mettere in discussione in radice la valenza informativa del rendiconto sociale e con essa la trasparenza dei conti (anche uno scostamento dal reale dello 0,5% rende, infatti, l’informativa infedele e, dunque, ‘‘opaca’’). In sostanza, ‘‘il tracciare una linea al di sotto della quale non si registra illiceità penale, rispetto agli artt. 2621 e 2622 c.c., pone in serio dubbio che la trasparenza, la veridicità e la completezza dell’informazione siano ancora tutelate come tali dalle nuove figure incriminatrici. Non si vede infatti perché l’obbligo di veridicità possa soggiacere a strettoie numeriche, non significative rispetto alla veridicità stessa ed ai soggetti che ad essa sono interessati’’ (33). (33) A. ALESSANDRI, op. cit., p. 807, il quale, sempre in relazione al bene giuridico tutelato dall’art. 2621 c.c. nuova formulazione così conclude: ‘‘è arduo sostenere che nell’art. 2621 c.c. vi sia spazio per la tutela di interessi diversi da quelli patrimoniali dei soci e del pubblico: è un falso che ha tutte le caratteristiche, oggettive e soggettive, per essere strumentale ad un danno patrimoniale e si presenta in una forma ‘anticipata’ rispetto al danno, senza consentire la qualificazione di ‘tentativo’ per quella indecisione circa i rapporti tra falso e danno. Ed è difficile pensare che una forma anticipata, con gli stessi elementi della forma ‘completa’, possa assumere la funzione di tutelare altri interessi. La Relazione ci indica che il falso senza danno, il falso tout court come impropriamente è stato detto (com’è possibile qualificarlo ‘semplice’ con tutti quegli elementi selettivi?), sarebbe posto a presidio della trasparenza, della veridicità e completezza dell’informazione societaria: solo uno slittamento nel segno della mitezza delle pene, allora, rispetto al previgente art. 2621 c.c.


— 991 — La verità è che, in conseguenza della recente novella degli artt. 2621 e 2622 c.c., l’interesse patrimoniale dei soci e dei terzi è divenuto il vero oggetto della tutela, nel caso di condotte potenzialmente (art. 2621 c.c.) o effettivamente (art. 2622 c.c.) dannose (34). La nuova disciplina del mendacio di cui all’art. 2621 c.c. sanziona, infatti, per usare le parole del Tribunale di Milano, ‘‘solamente la condotta che, a condizioni tassativamente indicate e definite in maniera stringente, determini un pericolo concreto per gli interessi patrimoniali dei soci e di chiunque, operando sul mercato, interagisca con la società (così integrandosi la fattispecie contravvenzionale contemplata dall’art. 2621 c.c., procedibile d’ufficio); ovvero cagioni a questi stessi soggetti un danno patrimoniale, cui conseguono la qualificazione delittuosa del fatto e, in ragione dell’individualizzazione dell’interesse protetto, la procedibilità a querela previste dall’art. 2622 c.c.’’. Sotto questo primo profilo, dunque, le conclusioni raggiunte dalla Cassazione in relazione al bene giuridico tutelato (ritenuto identico nelle diverse discipline del mendacio e significativo di un’invarianza strutturale rilevante a sensi dell’art. 2, comma 3, c.p.) si rivelano inaccettabili. Il ‘‘ridimensionamento’’ delle differenze strutturali esistenti tra le diverse formulazioni normative del mendacio in comunicazioni sociali è risultato interpretativo al quale la Cassazione approda, peraltro, in virtù di percorso interpretativo che postula un passaggio ulteriore rispetto alla semplice continuità della tutela apprestata, e che passa attraverso la qualificazione delle soglie di rilevanza del mendacio alla stregua di ‘‘cause di non punibilità del fatto’’. Il dato normativo è rappresentato dai commi 3 e 4 dell’art. 2621 c.c. che prevedono, secondo il Supremo Collegio, ‘‘casi di esclusione della punibilità estranei alla vecchia fattispecie’’. Difficile accettare una simile versione. La tutela della trasparenza, per usare un termine semplificante, potrebbe in astratto anche combinarsi con elementi che agevolino l’individuazione di un livello di significatività offensiva (l’idoneità all’errore, da accertare in concreto verso soggetti indeterminati). Ma non pare compatibile con caratterizzazioni dimensionali del dato, che aprono forti discontinuità e vuoti nella immaginata tutela, selezionando assurdamente la protezione in base alla ‘capienza’ delle voci di bilancio’’. (34) In relazione all’art. 2622 c.c. (incriminazione caratterizzata da una netta ‘‘patrimonializzazione’’ dell’interesse protetto) il ragionamento seguito dalla Corte di cassazione sembra implicitamente condurre verso la discontinuità di disciplina tra le diverse normative. La nuova disposizione (art. 2622 c.c.) come efficacemente osservato in dottrina, in sé riguardata manifesta una ‘‘oggettività giuridica di stampo patrimoniale e di natura individuale. La diffusione di notizie false (semplificando così la condotta) ha una curvatura nettamente patrimoniale: soglie e alterazione sensibile in questo convergono. Le modalità ingannatorie sono rivolte a una cerchia indeterminata di soggetti, ma assumono rilevanza solo con il verificarsi di un danno in capo a uno o più tra i soci e i creditori, quale conseguenza della falsità. Ma la spia più significativa della natura ‘privatistica’ — ed esclusivamente privatistica — del bene tutelato è individuabile nella perseguibilità a querela, che appare radicalmente inconciliabile con qualsivoglia presenza, o compresenza, di interessi pubblicistici’’ (A. ALESSANDRI, op. cit., p. 809).


— 992 — Definire ‘‘cause di non punibilità’’ (35) locuzioni quali ‘‘la punibilità è esclusa’’ o ‘‘il fatto non è punibile’’ utilizzate dal legislatore per delineare la fattispecie di cui all’art. 2621 c.c. (e, con linguaggio identico, nell’art. 2622 c.c.), significa evidentemente sostenere ‘‘l’esistenza di una successione modificativa ed il carattere più favorevole di norme successive’’ (36). Riesce, peraltro, assai difficile qualificare ‘‘cause di non punibilità’’ (o, addirittura, ‘‘condizioni di punibilità’’) (37) elementi della fattispecie, quali le soglie quantitative introdotte nei novellati artt. 2621 e 2622 c.c., che operano a livello di tipicità del fatto e concorrono a definire — insieme al più ampio principio della rilevanza — ciò che deve intendersi come informazione tipica. A ben vedere i limiti stabiliti dalle soglie ‘‘esprimono in realtà, e più radicalmente, una situazione di atipicità della condotta, la quale, al di sotto delle soglie, non rientra nei ‘limiti esegetici’ della fattispecie’’ (38). In conclusione, le numerose e rilevanti modifiche strutturali che hanno interessato la disciplina del falso in comunicazioni sociali, rappresentano elementi di marcata discontinuità rispetto alla precedente fattispecie e determinano un effetto abrogativo della stessa (a sensi dell’art. 2, comma 2, c.p.) che si riverbera anche in sede di esecuzione penale. Depotenziare i contenuti della riforma attraverso interpretazioni orientate a minimizzarne le innovazioni strutturali può forse rispondere ad un comprensibile tentativo di arginarne gli effetti distorsivi da più parti denunciati — oggi particolarmente allarmanti considerata la crisi di credibilità del modello economico occidentale e la diffusa sfiducia degli investitori — ma non contribuisce a fare chiarezza su una disciplina di per sé già poco razionale e coerente. GILBERTO LOZZI

(35) Le cause di non punibilità, come noto, presuppongono l’integrazione del reato ed operano — esclusivamente — sul piano dell’applicazione della pena (si pensi alla causa di non punibilità, di cui all’art. 649 c.p. che, postulando un reato contro il patrimonio perfetto in tutti i suoi elementi, risponde ad esigenze di carattere morale che caratterizzano i rapporti fra alcune categorie di familiari). (36) T. PADOVANI, Il cammello e la cruna dell’ago, cit., p. 1603. (37) Condivisibili, sul punto, le riflessioni svolte del Tribunale di Milano quanto alla valenza di elemento costitutivo del reato attribuita alle soglie di significatività. (38) T. PADOVANI, Il cammello e la cruna dell’ago, cit., p. 1603.


LA RIFORMA DEI REATI SOCIETARI: ALCUNE CONSIDERAZIONI PROVVISORIE (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Le linee generali della riforma. - 2.1. Le critiche alla vecchia legge e le esigenze di riforma. - 2.2. I principi ‘‘nobili’’ della riforma. - 2.3. L’anticipazione della parte penalistica nella riforma. - 2.4. L’autonomia del nuovo diritto penale societario. - 2.5. Un nuovo diritto penale che non divorzia dalla tradizione. 2.6. La discutibile efficacia del diritto penale economico e le tendenze in atto. — 3. Le novità della riforma. — 4. Il danno patrimoniale. — 5. Le oggettività giuridiche. — 6. Il caso dell’informazione societaria. - 6.1. La rilevanza. - 6.2. Le soglie. — 7. La direzione della riforma.

1.

Premessa.

Nell’esame della riforma del diritto penale societario è ormai tempo di superare le angustie di una ‘‘prima lettura’’ e, del pari, le polemiche, anche vivaci, che, dai lavori sulla legge delega, si sono snodate lungo il cammino sfociato nella ‘‘sostituzione del titolo XI del libro V del codice civile’’. È il momento di affrontare i problemi interpretativi, non pochi e non lievi, che sono posti dalle nuove disposizioni, cercando soluzioni coerenti al testo di legge e, per quanto possibile, razionali rispetto al sistema complessivo e alle esigenze di tutela, così come sono assunte dalla novella legislativa. Un lavoro, comunque, di natura sicuramente provvisoria, non solo perché inevitabilmente destinato ad essere superato dai problemi che sorgeranno dalla prassi, sempre più ricca dell’immaginazione degli interpreti, quanto, e soprattutto, perché questa nuova disciplina penale ‘‘galleggia’’ precariamente rispetto ad una parimenti ‘‘nuova’’ disciplina civilistica che ancora non c’è (1), ma senza la quale la parte penalistica è difficoltosamente ‘‘pensabile’’. Ne deriva una sorta di strabismo nell’analisi, dal momento che non si può che ragionare assumendo come riferimento, anche implicito o incon(*) Si tratta di una parte del più ampio contributo pubblicato in AA.VV., Il nuovo diritto penale societario, Ipsoa, Milano, 2002. (1) È stato reso noto, quando il presente lavoro era stato già licenziato, il testo della bozza di decreto legislativo, approvata, in via preliminare, dal Consiglio dei Ministri e trasmessa al Parlamento per l’acquisizione dei pareri.


— 994 — sapevole, la vigente ed ormai ‘‘vecchia’’ disciplina civilistica. I larghi, sommari tratteggi della legge delega non offrono una bussola precisa: e le bozze ufficiose che circolano sono inattendibili e continuamente rimaneggiate. Un’osservazione incidentale. È noto che il lavoro di riforma della parte penalistica è stato svolto in maniera concitata e prescindendo, per volontà politica, da alcun dibattito: scarsissimo e compresso quello parlamentare, inesistente quello nel paese, tagliato fuori dal furore (spiace usare questa espressione, ma non mi sembra ve ne sia un’altra adeguata ai fatti) per una rapidissima approvazione. Quello che sorprende è che anche la parte civilistica, certamente meno ‘‘calda’’ ma ben più impegnativa tecnicamente, sia stata affidata ad un’elaborazione estremamente riservata, con circolazione ‘‘clandestina’’ di progetti e un tempo di dibattito, quello rituale dei pareri parlamentari, del tutto inadeguato all’importanza e alla delicatezza della riforma da attuare. La parte civilistica non si fa carico di messaggi simbolici o di risolvere controversie giudiziali per actum principis: è il complesso di regole, l’architettura istituzionale dell’attività economica. Sarebbe conforme a canoni, non solo democratici, ma di intelligenza legislativa stimolare una riflessione ampia e approfondita sulle modifiche. Le scelte governative sembrano però ignorare tali esigenze. Riprendendo il filo delle riflessioni iniziali, appare, tuttavia, utile un primo sforzo di riflessione, anche con questi pesanti limiti, in ragione dell’intrinseca importanza della materia e della delicatezza dei problemi sollevati, che incidono su aree ben più vaste di quella specifica interessata dalla novella. La lettura dei contributi fin qui apparsi mostra una grande diversità di impostazioni e di risultati interpretativi, su temi cruciali: la sensazione è di una diversificazione profonda all’interno della letteratura specifica, che supera di gran lunga la distinzione, pur chiaramente percepibile, tra coloro che apprezzano la riforma e coloro che la criticano, anche con vivacità. Si corre così il rischio di disorientare il lettore e di venir meno ai compiti di ‘‘chiarimento’’ e ‘‘sistemazione’’ che la dottrina, a torto o a ragione, usualmente si attribuisce? Credo, per la verità, che esisti interpretativi differenziati (magari accentuati per effetto della prossima riforma civilistica) siano il segno caratteristico della nuova disciplina. Nel senso che la frettolosa redazione delle norme, quasi sempre appena una mera parafrasi del testo della legge delega — che certo doveva essere precisa e vincolante nei contenuti, ma lasciava ampi spazi al legislatore delegato per formulazioni tecnicamente appaganti — costituisce terreno di coltura per una nutrita serie di interpretazioni divergenti, come si può agevolmente rilevare leggendo i contributi già editi, anche solo quelli più seri, che si caratterizzano per percorsi ed approdi nettamente diversi: sia sul piano ermeneutico, sia su quello


— 995 — delle classificazioni dogmatiche degli elementi, sia, infine, nelle ricostruzioni sistematiche. Non credo si tratti, almeno integralmente, del fenomeno consueto di fronte ad una (qualsiasi) nuova legislazione, che sfida le capacità di lettura e le visioni sistematiche dell’interprete, mutando l’orizzonte e gli oggetti di analisi ai quali era abituato. Ho invece l’impressione, ricavata soprattutto dalla lettura delle pagine altrui, anche le più lucide, che i ‘‘nodi’’ interpretativi trovino alimento in contraddizioni annidate nel testo normativo e refrattarie a soluzioni convincenti, se non con interventi ‘‘correttivi’’ che faticano a trovare legittimazione razionale. Il diritto non è certo disciplina esatta che consente eleganti soluzioni formali, tali da imporsi per una forza logica che annichilisce le critiche: ma può ambire, se la ‘‘materia prima’’ lo consente, a soluzioni argomentate, nelle quali motivate e ragionevoli letture delle norme possono trarre conferma e rafforzamento da considerazioni sistematiche. Qui, invece, almeno in molti punti, e di non poco momento, le soluzioni contrapposte, ad immaginarne almeno due, sono inappaganti: qualche anticipo lo si è visto, a tratti, nelle questioni del regime transitorio. Credo si debba onestamente ammettere questa ‘‘insoddisfazione’’ intellettuale, la quale ha le sue radici nel fatto che gli argomenti, nei casi dubbi, non appaiono quasi mai decisivi e sufficientemente confermati dagli ambigui dati testuali, che legittimano sovente una vasta gamma di soluzioni. Il legislatore penale ci ha abituato, con rare eccezioni, alla modestia tecnica delle sue creazioni: il diritto penale, si direbbe, è materia nella quale non vale la pena di spendere molta fatica; non regola direttamente l’azione dei soggetti, taglia rozzamente nodi gordiani o proietta simbologie ‘‘tranquillizzanti’’ per l’opinione pubblica o i suoi interpreti (creatori?) mediatici. Tuttavia, senza un minimo di precisione, di dettato e di intenti, la macchina penalistica, della quale così tanto in questi tempi si parla, rischia di incepparsi e di produrre abnormità cartacee cui seguiranno mostruosità applicative. Un segnale è ben visibile, in questo senso. Il vecchio schema della Commissione Mirone (2), frutto di altra stagione, è stato assunto come ‘‘modello’’ (e non lo era: richiedeva molti aggiustamenti), caricandolo di aggiunte in misura tale da snaturarne il profilo ed il senso, sostanzialmente trasformando la legge delega in legge delegata, per l’evidente preoccupazione sui tempi. Dunque i dissidi sulla portata, la natura e il senso delle nuove norme sono il frutto forse non (da tutti) voluto, ma sicuramente accettato dai registi della riforma, immemori (o indifferenti al fatto) che ‘‘il buon suc(2)

In Riv. soc., 2000, pp. 14 ss. e 25 ss.


— 996 — cesso di ogni riforma dipende in pari misura dall’ispirazione politica e dal supporto di adeguato tecnicismo’’ (3). 2.

Le linee generali della riforma.

2.1. Le critiche alla vecchia legge e le esigenze di riforma. — Sul nuovo diritto penale societario, fin dalla discussione sulla legge delega (4), sono state espresse molteplici opinioni con differenze di impostazioni e di giudizi. (3) PEDRAZZI C., Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1979, p. 17, spec. p. 27. (4) AA.VV., Verso un nuovo diritto societario (Associazione Disiano Preite), Bologna, 2002; AA.VV., La riforma del falso in bilancio, in Dir. pratica soc., 2, 2002 (e ivi interventi di Alessandri, Cerqua, Targetti, Lanzi, Sacchi, Bricchetti, Colaianni, Sebaste, Aldrovandi, Putinati); ABRIANI N., Riforma del diritto societario e responsabilità dell’amministratore di fatto: verso una nozione unitaria dell’istituto?, in Le Società, 2000, p. 212 ss.; ALESSANDRI A., I nuovi reati societari: irrazionalità e arretramenti della politica penale nel settore economico, in Quest. giust., n. 1, 2002, p. 1 ss.; ID., Il ruolo del danno patrimoniale nei reati societari, in Le Società, n. 7, 2002, p. 797 ss.; ID., Simbolico e reale nella riforma del diritto penale societario, in Mercato, concorrenza, regole, n. 1, 2002, p. 146 ss.; ID., La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto penale societario, in Corr. giur., n. 12, 2001, p. 1545 ss.; ANELLO P., Valutazione delle partecipazioni ‘‘immobilizzate’’: rilevanza penale prima e dopo la riforma dei reati societari, in Le Società, n. 6, 2002, p. 667 ss.; BELCREDI M., À rebours, ovvero: la riforma del ‘‘Falso in bilancio’’, in Mercato, concorrenza, regole, n. 1, 2002, p. 132 ss.; BOLOGNINI S.-BUSSON E.-D’AVIRRO A., I reati di false comunicazioni sociali, Milano, 2002; BRICCHETTI R., Analisi dei ‘‘nuovi’’ reati nella riforma del diritto societario, in Dir. pratica soc., n. 14/15, 2000, p. 15 ss.; ID., Bancarotta impropria: a rischio i fatti del passato, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 83 ss.; ID., Bloccata la revoca delle sentenze di condanna anche per le fattispecie non più punibili, ivi, n. 27, 2002, p. 70 ss.; ID., Falso in bilancio: ‘‘doppio binario’’ sul danno, ivi, n. 40, 2001, p. 46 ss.; ID., Solo se il dissesto è causato dall’illecito l’imputato risponde secondo la nuova norma, ivi, n. 29, 2002, p. 77 ss.; ID., Linee ispiratrici della riforma del sistema penale societario, in Dir. pratica soc., n. 13, 2000, p. 7 ss.; BRICCHETTI R.-PISTORELLI L., Il patrimonio nel mirino delle società di revisione, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 61 ss.; ID., Punibili solo le ‘‘notizie’’ verso il pubblico o i soci, ivi, n. 16, 2002, p. 46 ss.; CARACCIOLI I., Sotto la lente d’ingrandimento la nuova disciplina del falso in bilancio, in Dir. pratica soc., n. 9, 2002, p. 21 ss.; ID., Una riforma in linea con la realtà economica - La tavola rotonda, in Legisl. pen., n. 1/2, 2002, p. 531 ss.; CHIUSANO V., Gli illeciti penali, in AA.VV., La riforma del diritto societario, Atti del Convegno di Torino, 29 ottobre 2001, Torino, 2001, p. 121; CICCIA A., I nuovi reati societari. Dal falso in bilancio all’aggiotaggio, Napoli, 2002; COLOMBO G., Il falso in bilancio e le oscillazioni del pendolo, in Riv. dott. commercialisti, n. 2, 2002, p. 205 ss.; anche in Riv. soc., n. 2-3, 2002, p. 421 ss.; COMOLI M., Il falso in bilancio. Principi di ragioneria ed evoluzione del quadro normativo, Milano, 2002; COMOLI M.-PROVASOLI A., La nuova disciplina del reato di falso in bilancio, in Riv. dott. commercialisti, 2002, p. 173; CRESPI A., Il falso in bilancio e il pendolarismo delle coscienze, in Riv. soc., n. 2/3, 2002, p. 449 ss.; ID., Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, ivi, 2001, p. 1345 ss.; D’ALFONSO G., I nuovi reati societari e le sanzioni per responsabilità amministrativa, in Dir. pratica soc., n. 14/15, 2002, p. 38 ss.; D’ANDREA S., Reati societari: via libera al ‘‘nuovo’’ falso in bilancio, in ivi, n. 9, 2002, p. 10 ss.; DEZZANI F., La disciplina del bilancio, in AA.VV., La riforma del diritto so-


— 997 — L’unico tratto che può dirsi comune è la pressoché unanime convincietario, Atti del Convegno di Torino, 29 ottobre 2001, Torino, 2001; DI SABATO F., Riforma societaria e norme comunitarie per un diritto contabile uniforme, in Dir. pratica soc., n. 14/15, 2002, p. 6 ss.; DONINI M., Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 c.c.) dopo il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen., 2002, p. 1240; FANELLI G.-ARDUINI E., Tavola rotonda ‘‘La riforma del falso in bilancio’’ (Bologna, 26 ottobre 2001), in Ind. pen., 2001, p. 1475 ss.; FLORA G., Ossessione della legalità e insensibilità sistematica alle radici di una doverosa riforma - La tavola rotonda, in Legisl. pen., n. 1/2, 2002, p. 533 ss.; FOFFANI L.-VELLA F., ‘‘Nuovo’’ falso in bilancio: un passo indietro nel cammino verso l’Europa, in Mercato, concorrenza, regole, n. 1, 2002, p. 125 ss.; FOFFANI L., Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1193; ID., Verso un nuovo diritto penale societario: i punti critici della legge delega, in Cass. pen., n. 11, 2001, p. 1544.1; ID., Riforma dei reati societari e tutela penale dell’informazione: dalla ‘‘lunga marcia verso la trasparenza’’ alla rapida corsa verso l’opacità, in AA.VV., Verso un nuovo diritto societario (Associazione Disiano Preite), Bologna, 2002; FOGLIA MANZILLO F., Falso in bilancio: abrogazione o successione di norme?, in Dir. pratica soc., n. 13, 2002, p. 69 ss.; GIUNTA F., Quale futuro per le false comunicazioni sociali?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 929; ID., Dal doveroso recupero della legalità ai rischi di una trasfigurazione del bene giuridico - La tavola rotonda, in Legisl. pen., n. 1/2, 2002, p. 538 ss.; ID., La riforma dei reati societari ai blocchi di partenza. Prima lettura del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (I parte), in Studium Juris, 2002, p. 695; ID., La riforma dei reati societari ai blocchi di partenza. Prima lettura del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (II parte), ivi, 2002, p. 833; LANZI A., La nuova bancarotta fraudolenta per precedente reato societario, in Dir. pratica soc., n. 10, 2002, p. 18 ss.; ID., La riforma sceglie una risposta ‘‘civile’’ contro l’uso distorto dei reati societari, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 9 ss.; LETTIERI N., La riforma del diritto societario lascia irrisolto il nodo della tutela dei terzi, in Dir. giust., 2002, 29, p. 66; LIGUORO A., Riforma del falso in bilancio, al via le prime incertezze applicative, in ivi, 2002, 23, p. 42; LOZZI G., Successioni di leggi penali e riforma dei reati societari, in questa Rivista, 2002; LUNGHINI G., La nuova disciplina penale delle false comunicazioni sociali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001, p. 993 ss.; MANGANO P., Elemento soggettivo del falso in bilancio e prossime riforme, ivi, 2001, p. 649 ss.; MANNA A., La riforma dei reati societari: dal pericolo al danno, in Foro it., 2002, V, c. 111 ss.; MARINUCCI G., ‘‘Depenalizzazione’’ del falso in bilancio con l’avallo della SEC: ma è proprio così?, in Dir. pen. e proc., n. 2, 2002, p. 1 ss.; ID., Falso in bilancio: con la nuova delega avviata una depenalizzazione di fatto, in Guida dir., n. 45, 2001, p. 10 ss.; MAZZACUVA N., False comunicazioni sociali e fallimento: un rapporto controverso tra normativa vigente, interpretazione e prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001, p. 660 ss.; MILITELLO V., I reati di infedeltà, in Dir. pen. proc., n. 6, 2002, p. 698 ss.; ID., Infedeltà patrimoniale e corruzione nel futuro del diritto societario, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p. 905; MONTALENTI P., Le linee della riforma, in AA.VV., La riforma del diritto societario, Atti del Convegno di Torino, 29 ottobre 2001, Torino, 2001, p. 25; MUSCO E., I nuovi reati societari, Milano, 2002; NORDIO C., Novella necessaria e doverosa per riportare certezza nel diritto, in Guida dir., n. 45, 2001, p. 12 ss.; ONESTI T., Sanzioni ‘‘variabili’’ per le false comunicazioni sociali, in Dir. pratica soc., n. 7, 2002, p. 6 ss.; ORSI L., Aggiotaggio: tutelata solo l’economia pubblica, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 80 ss.; ORSI L., Assemblea: omessa convocazione dopo trenta giorni, in ivi, n. 16, 2002, p. 74 ss.; ID., Passa per il codice la vigilanza di Consob e Bankitalia, ivi, n. 16, 2002, p. 77 ss.; PADOVANI T., Il cammello e la cruna dell’ago. I problemi della successione di leggi penali relativi alle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, in Cass. pen., 2002, p. 1598; ID., Una riforma difficile - La tavola rotonda, in Legisl. pen., n. 1/2, 2002, p. 542 ss.; PALIERO C.E., Nasce il sistema delle soglie quantitative: pronto l’argine alle incriminazioni, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 37 ss.;


— 998 — zione in merito alla necessità di una riforma (5). Conclusione cui non era difficile giungere né accedere: bastava solo l’evidente vecchiezza del testo normativo, aggravata dalla stratificazione di interventi occasionali e disparati. Alle ragioni di insoddisfazione della legislazione in the books si aggiungevano le questioni poste da mutamenti impetuosi e colossali dei soggetti economici, dalle modalità del loro agire e dalle ricadute sulla massa dei cittadini. Era dunque facile consentire sull’urgenza di una riforma: assai più arduo orientarla e costruirla. Visto che così spesso è stata invocata l’esperienza straniera, non sarebbe stato male ricordare la lunga, vasta preparazione di altri paesi: i lavori della Law Commission inglese; o della Commissione Marini in Francia, per esempio. La rapidità dello statunitense PALMIERI R., Punibilità a maglie larghe per i ‘‘nuovi’’ reati societari, in Dir. pratica soc., n. 10, 2002, p. 7 ss.; ID., Il falso in bilancio nel progetto di legge-delega, in ivi, n. 17, 1999, p. 8 ss.; ID., Falso in bilancio: il pericolo concreto è il danno degli investitori, ivi, n. 12, 2000, p. 7 ss.; PECORELLA G., Relazione sul disegno di legge n. 1137, in materia di reati societari, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001, p. 674; PEDRAZZI C., In memoria del ‘‘falso in bilancio’’, in Riv. soc., 2001, p. 1369 ss.; PISTORELLI L., Risparmio: sui prospetti Consob decisivo il danno, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 58 ss.; PULITANÒ D., La riforma del diritto penale societario tra dictum del legislatore e ragioni del diritto, in questa Rivista, 2002, p. 934 ss.; PUTINATI S., La nuova bancarotta ‘‘societaria’’: imputazione oggettiva e soggettiva, in Dir. pratica soc., n. 11, 2002, p. 12 ss.; REBOA M., Aspetti critici del nuovo falso in bilancio, in Riv. dott. commercialisti, n. 2, 2002, p. 241 ss.; ROCCHI A., L’amministratore di fatto diviene soggetto passibile di reato ‘‘ex lege’’, in Dir. pratica soc., n. 13, 2002, p. 12 ss.; ROSSI A., La nuova tutela penale del capitale sociale, in Dir. pen. proc., n. 6, 2002, p. 688 ss.; ROSSI G.PECORELLA G., Italia, paradiso off-shore?, in MicroMega, 2001, 4, p. 190; SALAFIA V., Bilancio falso e bilancio irregolare, in Le Società, n. 5, 2002, p. 533 ss.; ID., Lo schema di disegno di legge delega per la riforma del diritto societario, in Le Società, n. 1, 2000, p. 7 ss.; SANDRELLI G., Entra in scena la corruzione privata, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 68 ss.; ID., Il nuovo falso in bilancio: una (discutibile) inversione di tendenza nella normativa penale societaria, in Quest. giust., n. 5, 2001, 845 ss.; ID., II (nuovo) testo della ‘‘Commissione Mirone’’ sul delitto di false comunicazioni sociali, in Le Società, 2000, n. 2, p. 195 ss.; SASSO G.P., False comunicazioni sociali: continuità tra vecchia e nuova fattispecie, in Dir. pratica soc., n. 12, 2002, p. 76 ss.; SEMINARA S., I nuovi reati di false comunicazioni sociali, falso in prospetto, falso nell’attività di revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in Dir. pen. proc., n. 6, 2002, p. 676 ss.; ID., I reati dei revisori dei conti nel d.lgs. n. 58 del 1998 e nel ‘‘Progetto Mirone’’, in Banca, borsa e tit. cred., 2000, n. 3, p. 428 ss.; SOTIS C., Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in questa Rivista, 2002, p. 171; TADINI A., Il nuovo reato di falso in bilancio previsto dalla legge delega in materia societaria, in Il Fisco, n. 31, 2000, p. 9828 ss.; TARGETTI R., Il capitale reintegrato estingue la punibilità, in Guida dir., n. 16, 2002, p. 64 ss.; ID., Reati societari, La riforma del falso aziendale, Milano, 2002; TINTI B., La legge ‘‘forza ladri’’, in MicroMega, 2001, n. 4, p. 173; ZACCONE C., Osservazioni all’art. 11 n. 1 lett. a) della l. 3 ottobre 2001, n. 366, in AA.VV., La riforma del diritto societario, Atti del Convegno di Torino, 29 ottobre 2001, Torino, 2001, p. 139; ZANNOTTI R., Il futuro del diritto penale societario nella bozza del decreto legislativo, in Dir. giust., 2002, n. 1, p. 16 ss. (5) Già MUSCO E., Diritto penale societario, Milano, 1999; ora COMOLI M.-PROVASOLI A., La nuova disciplina del reato di falso in bilancio, cit., p. 173; COLOMBO G., Il falso in bilancio e le oscillazioni del pendolo, cit., p. 205 ss.


— 999 — Sarbanes-Oxley Act è frutto solo della drammatica emergenza aperta dal caso Enron, che ha visto la convergenza di democratici e (più riluttanti) repubblicani nel segno del rigore: nulla a che vedere con le nostre vicende, anche perché negli USA si è svolto un dibattito parlamentare ampio, con l’impegno ad una riflessione successiva, apprestandone gli strumenti (commissioni e organi ad hoc). Ho già in altre occasioni osservato, enunciando un’ovvietà, che la riforma in parola non poteva essere settoriale, se non correndo il rischio concreto di una prematura sterilità. Non tanto per il fatto di giungere in separazione e anteriormente alla parte civilistica, ipotesi che nessuno aveva mai preso in considerazione. Quanto per il necessario collegamento con la riforma del codice penale nella parte generale e con l’indispensabile revisione della sua parte speciale (riformulazione dei delitti contro il patrimonio e l’economia pubblica; inserimento di fattispecie omissive per colmare eventuali vuoti di tutela derivanti dall’abbandono di reati commissivi di pericolo astratto e così via). La modifica della parte generale appariva indispensabile sul fronte sanzionatorio, anzitutto. Si pensi alla pena pecuniaria: non c’è dubbio che potrebbe essere un utile strumento, insieme ad altri, nella repressione della criminalità d’affari che appunto con il denaro ha a che fare primariamente. Ma non certo questa pena pecuniaria fornita dal vigente codice, del tutto inefficace rispetto alle esigenze odierne. È tanto vero che nell’introdurre la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (6), il legislatore, quella volta attento e ferrato, aveva dovuto costruire una figura speciale di pena pecuniaria, per poterle sensatamente affidare potenzialità dissuasive e di prevenzione. L’attuale multa (o ammenda) è vistosamente imbelle e interferisce negativamente, finché non ne saranno recisi i legami, con la sospensione condizionale della pena (7). Istituto a sua volta che si rivela del tutto vuoto di contenuti e che, per la sua diffusissima applicazione in materia di reati d’impresa, dovrebbe inserirsi nella strumentazione sanzionatoria, non più come mera indulgenza che devitalizza la sanzione e ne oscura le ragioni, bensì come richiamo efficace al significato negativo del fatto commesso, pur senza mettere in gioco la libertà personale. (6) D.lgs. n. 231 del 2001: per un primo commento, v. AA.VV. La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002; ID., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di Garuti G., Padova, 2002; GENNAI S.-TRAVERSI A., La responsabilità degli enti, Milano, 2001; per alcune attente riflessioni sulla natura della responsabilità, vedi DE VERO G., Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato, in questa Rivista, 2001, p. 1126; PULITANÒ D., La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri d’imputazione, ivi, 2002, p. 415. In una prospettiva ben più ampia che riguarda l’impiego del diritto penale nei confronti della criminalità d’impresa, v. STELLA F., Giustizia e modernità, 2a ed., Milano, 2002. (7) V. ora sul tema, in generale, MARTINI A., La pena sospesa, Torino, 2001.


— 1000 — Nulla avrebbe guadagnato (8) la riforma dall’inserimento di pene pecuniarie tradizionali. Era stata una scelta della Commissione Mirone, che il nuovo legislatore ha fatto propria, senza alcuna particolare riflessione (almeno non ve ne è traccia nella Relazione), forse trascinato dal programma di ‘‘mitezza’’. La scelta, quella della Mirone, si riallacciava alle più moderne riflessioni sull’impiego delle pene, trasfuse anche nelle indicazioni contenute nella circolare sulla costruzione degli illeciti penali (9), e voleva scongiurare gli effetti perversi di uno strumento comunque inefficace e assente nella prassi effettiva: è noto che la sanzione pecuniaria — in generale — non è eseguita se non in percentuali così irrisorie da far pensare ad una sua sostanziale disapplicazione, salvo casuali episodi (10) che allora assumono il sapore dell’arbitrarietà. Anche la modifica di altri istituti appare indispensabile per una ‘‘buona’’ riforma del diritto penale dell’economia. Molte discussioni in materia di dolo sarebbero notevolmente ridimensionate da un chiarimento nella sede propria; lo stesso si può dire a proposito delle posizioni di garanzia (11), fin qui affidate alla sola costruzione giurisprudenziale, che ha non di rado compiuto incontrollate scorrerie specie nel contatto con la tematica del concorso di persone. La stessa causalità (12), che a molti appariva marginale nel diritto dell’impresa, si riaffaccia con la sua mole di interrogativi e di straordinarie difficoltà non appena il legislatore confeziona, come adesso, una serie di reati di danno, rispetto ai quali saranno (8) V. invece le critiche di CICCIA A., I nuovi reati societari, cit.; GIUNTA F., La riforma dei reati societari, cit., p. 844. (9) Circolare 5 febbraio 1986 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Cass. pen., 1988, p. 624. (10) V. su questi temi, di recente, AA.VV., Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena, Milano, 2002. (11) Il tema è stato invece affrontato con piena consapevolezza dal Progetto Grosso di riforma del codice penale (artt. 16-24), in questa Rivista, 2001, p. 575 (Relazione) e p. 661 (Articolato). (12) Per tutti STELLA F., Leggi scientifiche e spiegazione del nesso causale, 2a ed., Milano, 2000; ID., Giustizia e modernità, cit., anche per la vasta bibliografia; di recente v. le importanti sentenze della Corte di cassazione, Sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, Baltrocchi; 29 novembre 2000, n. 2139, Musto; 28 novembre 2000, n. 2123, Di Cintio, in questa Rivista, 2001, p. 277 ss. con nota di CENTONZE F., Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità, p. 277; 25 settembre 2001, n. 1585, Sgarbi; 25 settembre 2001, n. 1652, Covili, con nota di D’ALESSANDRO F., La certezza del nesso causale: la lezione ‘‘antica’’ di Carrara e la lezione ‘‘moderna’’ della Corte di cassazione sull’ ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’, in questa Rivista, 2002, p. 743; diversamente impostata DI GIOVINE O., Lo statuto epistemologico della causalità penale tra cause sufficienti e condizioni necessarie, ivi, 2002, p. 634; vedi però ora l’importante pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione, 10 luglio 2002, n. 27, Franzese, in questa Rivista, 2002, p. 1133, con ampio commento di STELLA F., Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione (pp. 767 ss.).


— 1001 — da ricostruire con precisione (ma sarà possibile?) i decorsi causali immersi nelle fittissime dinamiche economiche. Tuttavia, per riprendere quanto prima accennato, non si andava oltre questa diffusa e generica condivisione della ‘‘necessità’’ della riforma. Le divisioni e le polemiche iniziavano subito dopo, sui contenuti e sulle modalità di protezione; sui beni giuridici e sulle tecniche di tutela. 2.2. I principi ‘‘nobili’’ della riforma. — La riforma che ci accingiamo ad esaminare ha posto in campo parole d’ordine impegnative e riassuntive di principi fondamentali di un razionale diritto penale moderno: sussidiarietà, extrema ratio, certezza del diritto, offensività, mitezza delle pene. Nessun penalista, credo, può manifestare contrarietà a indicazioni di questo tipo. Al solito, si tratterà di vedere se il dettato normativo mantiene fede a queste parole d’ordine nel loro significato compiuto, che non si riduce, semplicisticamente, ad un generico arretramento del diritto penale da una certa materia. In ogni caso sorge subito un interrogativo: perché ora e qui? Ossia, scontato che questi principi debbano al più presto trovare finalmente applicazione nell’ordinamento, qual è la ragione di anticiparne scampoli nel diritto penale delle società? Non si può dire che ciò corrisponda ad una logica diffusa in altri ordinamenti, come si vedrà, dove il problema è impostato in termini assai più complessi. È anche difficile sostenere che si tratti di un assaggio, di una prima applicazione, dal momento che in altri settori il legislatore è contemporaneamente intervenuto con moduli del tutto consueti (13). L’unico argomento esplicitato è quello della certezza (14), che a sua volta è stato combinato con la mitezza. La certezza di dettato, allo scopo di impedire il protrarsi di ‘‘scorribande’’ giurisprudenziali; e la certezza dei tempi, affidata alla prescrizione, che ridurrebbe l’attesa delle imprese. La certezza della prescrizione, nella nuova tessitura normativa, non appare, peraltro, sempre a portata di mano, né sempre sottratta alla discrezionalità giudiziale, tranne nel caso delle contravvenzioni: nei delitti basta in alcuni casi la contestazione di circostanze aggravanti per ritornare alla situazione di prima (ad esempio nell’ipotesi dell’art. 2622 c.c.), almeno sotto la forma di esercizio della discrezionalità nella gran voragine del ‘‘bilanciamento’’. Non vi sono però dubbi che il nuovo testo assicuri un maggior tasso di certezza rispetto all’ampiezza temporale del rischio penale (seppur in (13) V. l. 30 luglio 2002, n. 189, ‘‘Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo’’, artt. 9 e 11. (14) PECORELLA G., Relazione sul disegno di legge n. 1137, in materia di reati societari, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001, p. 674.


— 1002 — alcuni casi la trasformazioni in reati di danno sospinge la consumazione verso aree indefinite: v. infra). Alla fine, l’abbassamento delle pene, combinata alla ben nota durata dei nostri processi, sicuramente un effetto l’avrà in termini di definizione ‘‘certa’’ del processo. Non pare, tuttavia, che i provvedimenti di cui si discute — ed altri di cui si dibatte in questi tempi — abbiano per obiettivo la ‘‘ragionevolezza’’ della durata del processo; né questa preoccupazione spira nelle norme, complessivamente intese, del nuovo ‘‘penale societario’’. La costruzione vistosamente stratificata delle norme e l’inserimento di corposi elementi ‘‘normativi’’ che rimandano ad un complesso sapere ‘‘tecnico’’ (specie contabile e aziendale) fanno piuttosto pensare ad un effetto au ralenti. Ammessa questa maggior certezza dell’arco temporale del ‘‘rischio penale’’, si dovrebbe ancora spiegare — e la risposta non è esplicita negli atti della riforma — perché una tale esigenza dovrebbe esser vissuta più dalle imprese (15) che dai singoli e sarebbe più meritevole di sollecita risposta. La giustificazione fornita — l’economia non tollera incertezze che permangono nel tempo — è da un lato un truismo, dall’altro non centra l’argomento. Nello specifico, i tempi, lunghi o brevi, riguardano pur sempre i singoli e paradossalmente nella riforma sono più lunghi quelli che riguardano proprio la responsabilità amministrativa delle imprese, per il peculiare regime della prescrizione disposto dal d.lgs. n. 231 del 2001 (art. 22). Quelle ‘‘parole d’ordine’’ hanno peraltro concretamente perseguito e in parte, forse, raggiunto un diverso obiettivo. A chi non concorda con le scelte compiute, oltre alla contestazione ‘‘tecnica’’, si attribuiscono le sembianze sospette di un amante del passato, nostalgico di un diritto penale ferrigno e rancoroso verso i potenti. Dissentire dalle linee di politica criminale (o relative alla giustizia penale) adottate dal nuovo legislatore è da tempo additato come esercizio di opposizione politica mascherata, e quindi più insidiosa: il sapere penalistico sarebbe posto al servizio del sabotaggio delle leggi ‘‘dei vincitori’’ (16). 2.3. L’anticipazione della parte penalistica nella riforma. — Abbiamo dunque una parte penalistica, tipicamente di estremo presidio, che è stata eretta prima che fosse edificata la nuova cittadella da difendere. Inversione metodologica giustificata, è stato detto, dall’urgenza di rimediare ai guasti del passato. È emblematico, di questo atteggiamento, il preludio ‘‘casistico’’ apre l’intervento di uno tra i più autorevoli laudatores (seppur con molti ‘‘di(15) Ancora testualmente PECORELLA G., op. cit., p. 675. (16) LANZI A., La riforma sceglie una risposta ‘‘civile’’, cit., p. 9 (‘‘... i vincitori, oltre alla storia, scrivono, quantomeno, anche le leggi’’).


— 1003 — stinguo’’) della riforma (17). C’è un vizio in questa impostazione. La sciocchezza di alcuni giudici (una caratteristica diffusa equamente nella popolazione), o anche di molti, non ha proprietà transitive, non si comunica al tema discusso né allo strumento normativo maneggiato e, per questo, deformato: non sollecita, di per sé, interventi abolitivi. È questione assai più delicata quella che è suscitata dall’uso distorto di uno strumento repressivo, né risulta da qualsivoglia ricerca o impressione che il fenomeno sia più grave in questo settore piuttosto che altrove: nella gran provincia del diritto penale, l’ignoranza e la superficialità dei giudici e dei chierici fanno gran danni, sicuramente più estesi e profondi nei confronti dei ‘‘soliti’’ clienti del giure penale. Se gli istituti si pervertono nelle mani della giurisprudenza, il guasto, esclusa la statisticamente prevedibile diffusione della modestia di intelletto, va cercato altrove, con pazienza. Se l’intenzionalità del dolo appassisce in un astratto dover essere che richiama invece la colpa, questo può esser segno di più vasta portata (18); se la causalità ha rapporti intermittenti con la razionalità scientifica, il problema non è che solo in parte nelle norme, riposa piuttosto nella mancata riflessione razionale sugli strumenti penalistici, i loro fini ed i rapporti con altri campi del sapere. Sarà anche vero che la giurisprudenza ha agito, in anni recenti, talora guidata da un’etica del risultato (19): ma si vede solo una parte del fenomeno se lo si isola da un orizzonte di diffusa illegalità, molto spesso annidato nell’attività d’impresa, e da una più che mediocre tutela di interessi diffusi da parte dello Stato amministrazione. Anche in Francia è stato segnalato l’incremento di sei volte della repressione degli illeciti d’impresa (20): il dato evidentemente rimanda a qualcosa che percorre la società e che non ammette tacitazioni forzate. 2.4. L’autonomia del nuovo diritto penale societario. — Un diritto penale societario senza un ‘‘diritto societario’’, o con uno già ‘‘licenziato’’ da un legislatore affaccendato a confezionare il suo sostituto, è davvero singolare. Basta ricordare la difficile intelligibilità dei nuovi precetti, continuamente intessuti di richiami a ‘‘quanto prevede la legge’’ (l’esempio più banale per tutti: le informazioni ‘‘imposte dalla legge’’ negli artt. 2621 e 2622). È accettabile solo in parte la risposta in termini di ‘‘autonomia’’ del diritto penale societario: valore sacrosanto, da rafforzare, ma che non (17) COLOMBO G., Il falso in bilancio e le oscillazioni del pendolo, cit., p. 205 ss. (18) PALIERO C.E., La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la parte generale di un codice penale dell’Unione europea, in questa Rivista, 2000, p. 466. (19) CONTENTO G., Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale, ora in Scritti 1964-2000, Bari, 2002, p. 225. (20) MARINI P., La modernisation du droit des sociétés, Parigi, 1996; vedi ora Rapp. Sénat n. 5, Session ordinaire de 2000-2001 Annexe au procès-verbal de la séance du 4 octobre 2000.


— 1004 — può respingere l’antica e inconfutabile osservazione che il diritto penale delle società non si esercita su beni che trova pre-formati nella realtà sociale, rispetto ai quali elementi normativi assumono funzione selettivamente elastica della punibilità, raccordando la repressione penale al resto dell’ordinamento. Altrove ho già usurpato la metafora belinghiana dei beni giuridici raccolti dalle onde ‘‘con mano pigra’’ dal legislatore. Nel campo economico e d’impresa, i beni sono tutti di pretta formazione normativa: sia quando è già definita, e sanzionata, la soluzione del conflitto, sia quando la si voglia affidare ad altri meccanismi, ed allora si presidiano i modi per la sua corretta composizione (21). Anzi il rischio è che malintese ispirazioni naturalistiche, o di ‘‘realismo’’, compromettano la linearità degli istituti, inducendo il legislatore a intervenire: è il caso dell’amministratore di fatto (v. infra). Questa spiccata autonomia del ‘‘penale’’ si esprime nella riforma anche in una fitta tessitura delle figure incriminatrici: l’obiettivo dichiarato è quello della certezza e dell’equilibrio (lo si è detto anche per l’aggiunta finale della seconda soglia, sul patrimonio netto, in tema di falso in bilancio). Ma suona anche come restrizione della discrezionalità giudiziale, rinserrata quanto più possibile in schemi irrigiditi: e se discrezionalità deve esserci, si preferisce sia di natura tecnica, tratta dalla disciplina aziendalistica. Comunque si voglia risolvere il tormentato tema delle soglie di rilevanza, credo non si possano nutrire dubbi almeno sulla ‘‘intenzione’’ fortemente limitativa che le hanno ispirate. La polemica non meriterebbe di essere, qui, ripresa se non per un dato. Nei paesi nei quali ci si interroga seriamente sulla disciplina più adeguata da fornire ai soggetti economici, una volta scartato l’estremismo del solo ricorso al mercato, al market for corporate control, ispirato dalla scuola economica di Chicago (22), si ammette che un ruolo — più o meno importante — sia da lasciare ai ‘‘giudici’’. Ma si ha cura di precisare che, se si vuole far funzionare il meccanismo, il giudice deve avere sì un campo preciso ma in questo sia circondato di rispetto e di alta considerazione, quale sensibile esperto dei valori condivisi e distillatore dell’etica degli affari. Un abisso ci separa da quelle esperienze, con le quali ci si deve pur tuttavia confrontare; ma questo inizio non appare promettente, nella sua visibile venatura polemica verso la magistratura. 2.5. Un nuovo diritto penale che non divorzia dalla tradizione. — Ad uno sguardo complessivo colpisce la scarsa innovatività dell’impianto (21) PADOVANI T., Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, in questa Rivista, 1995, pp. 635 (641). (22) BARCA F., La riforma incompiuta del governo societario italiano: un’introduzione, in Stato e mercato, 2001, p. 108.


— 1005 — sistematico, il cui asse ruota sensibilmente solo per la diffusa introduzione del ‘‘danno patrimoniale’’ e istituti affini. Ma lo schema è del tutto tradizionale. Non vi sono percorsi sanzionatori alternativi o nuovi modelli di incriminazione e le novità al centro delle polemiche sono ottenute selezionando le condotte e diminuendo la minaccia sanzionatoria: fatti più gravi puniti più blandamente di prima, quando non espulsi dal circuito penale, come l’impedito controllo, previsto dal comma 1 dell’art. 2625 c.c. Le sanzioni per le persone giuridiche, previste all’art. 3 del d.lgs. n. 61, sono diluite, poiché le si prevede solo nella forma di sanzioni pecuniarie, dopo l’esclusione, all’ultimo momento, delle sanzioni interdittive. Un inciso sulla responsabilità delle persone giuridiche. È ovvio che il legislatore può abbandonare impostazioni in precedenza adottate, se esse hanno dato cattiva prova. Il banco è, teoricamente, quello dell’efficacia nel controllo del fenomeno. E non pare che le applicazioni, tra l’altro fino ad ora sconosciute, dell’istituto della responsabilità amministrativa possano legittimare quell’amputazione. Sembra piuttosto che non sia stato voluto un certo tipo di sanzione, senza dubbio invasiva, per la criminalità societaria, confermando quell’impostazione di mitezza selettiva. Nel contempo l’esempio più illustre, gli Stati Uniti, hanno sposato, di recente, un ben diverso approccio, segnato da un ritorno clamoroso alla severità della sanzione penale. Una severità che già era presente, nella legislazione federale, ma che è stata ancora accentuata dal recente Sarbanes-Oxley Act 2002. Sarebbe superficiale non vedere anche in questo una manifestazione delle capacità simboliche del diritto penale, sia nella nuova rigoristica impostazione sanzionatoria, che nell’evidenza mediatica del diritto penale ‘‘agito’’, nella forma degli arresti dei dirigenti accusati di frode sulle prime pagine dei giornali. Vi è qualcosa di più, nella recente legge americana, del mero inasprimento delle pene, che potrebbe essere letto come puramente declamatorio (ed in parte lo è). A parte la serietà dei progettati impegni di monitoraggio e di controllo dell’efficienza, la tessitura è più complessa. Sarebbe inconcepibile fuori da una visione pragmatica e puritana dell’agire umano la richiesta di attestazione, ai CEO, della veridicità dei bilanci e della conformità dei medesimi agli schemi contabili. Meccanismo significativo, al di là della semplificazione probatoria derivante dall’esplicita assunzione della responsabilità al livello massimo della gerarchia aziendale, della percezione di un’esigenza insopprimibile: recuperare terreno sul piano dell’etica degli affari, spesso sbandierata, ma erosa e svuotata dalla ‘‘diffusa avidità’’, per citare Greenspan. Non importa qui valutare se quello strumento sia efficace o meno: il salto culturale, rispetto a prima e rispetto a noi, è enorme. Esso segnala che nel momento di una vistosa serie di ‘‘fallimenti del mercato’’ (nella regolazione delle attività economiche), da un


— 1006 — lato gli interessi collettivi della platea degli investitori sono confermati come centrali, dall’altro si fa appello ad una rinnovata tensione etica (23), per la quale non si esita a ricorrere alla coercizione penale. Quale può essere, allora, l’efficacia di un diritto penale societario mite? 2.6. La discutibile efficacia del diritto penale economico e le tendenze in atto. — È ben noto che da tempo ci si interroga sulla crisi di legittimazione del diritto penale. Al di là delle etichette apposte a riflessioni dogmatiche eterogenee, non c’è bisogno di ricordare che l’abnorme dilatazione del penalmente rilevante, assunto come rimedio costante ai comportamenti disfunzionali, unito all’arbitrarietà della selezione ed alla lunghezza dell’accertamento, hanno logorato la funzione, socialmente percepibile, del diritto penale; ne hanno anche abbassato il livello di temibilità. L’analisi economica del diritto si è interessata assai poco del diritto penale. Non si va molto oltre Beccaria nello scoprire, magari formalizzandolo con l’esoterica eleganza degli studi di law and economics, che la deterrenza è espressa dal bilancio tra il beneficio atteso dalla condotta vietata a fronte del costo atteso, a sua volta integrato dal prodotto della sanzione per la probabilità della sua applicazione (24). Il cammino è comunque da percorrere e correttamente ci si interroga se e in che misura l’enforcement penalistico possa davvero contribuire al controllo dei white collars crime (25), rilevando che la deterrenza è legata più alla percezione del rischio che alla sua realtà effettuale. In altri contesti, ma con suggestioni di vivo interesse, sono stati esplorati, anche nella dottrina italiana, i livelli di efficiente deterrenza delle sanzioni pecuniarie. Giungendo alla conclusione che essa potrebbe essere assicurata solo da pene estremamente più elevate, in un’analisi costi-benefici, di quelle attualmente previste nella normativa antitrust comunitaria (26). Se è vero che la sanzione penale è ‘‘popolare’’ (27), nel senso di possedere, per antica stratificazione culturale, una facilità comunicativa imparagonabile, è altrettanto vero che essa non si basa su attendibili studi empirici. Le modifiche che subisce avvengono per effetto di ragioni ideali (sovente ideologiche) o per i fallimenti riscontrati. Consapevolezza che ormai non si può più eludere e che porta, almeno e per il momento, ad un (23) SIMPSONS S.S., Corporate Crime, Law, and Social Control, Cambridge U.P., 2002, p. 151. (24) BELCREDI M., À rebours, ovvero la riforma del ‘‘falso in bilancio’’, in Merc. conc. reg., 2002, pp. 132 (137 ss.) e ivi ulteriori rif. (25) SIMPSONS S.S., Corporate Crime, cit. (26) GHEZZI F., Clemenza e deterrenza nel diritto antitrust: l’utilizzo dei leniency programs nella lotta contro cartelli e intese hard core, in corso di pubblicazione. (27) SIMPSONS S.S., Corporate Crime, cit., p. 154.


— 1007 — affinamento della tecnica che collochi la repressione penale, specie in materia economica, all’interno di un mix di interventi, che spaziano dall’autodisciplina quale strumento attuativo di una migliore corporate governance, all’inserimento nel momento sanzionatorio di compliance programs (28) o di istituti premiali, come al fondo sono quelli etichettati come leniency programs. Se spodestare il rozzo guardiano penalistico del suo solitario predominio è concettualmente facile, assai più laborioso, delicato e impegnativo è sostituire un nuovo sistema di ‘‘guardie’’. Come nelle società commerciali ci si avvia all’organizzazione del controllo, così nel fronteggiare la patologia bisogna passare, sembra, ad un’organizzazione composita di momenti regolatori e sanzionatori, la cui modulazione dipende dall’assetto istituzionale, dalla storia dell’ordinamento, dalla cultura diffusa. I trapianti da un ordinamento all’altro sono preclusi dalla path dependence (29). Quel rozzo guardiano non va, non deve andare, però, in esilio. Resta, più affinato e più affilato, a presidiare gli snodi cruciali e comunque fino a quando gli altri controlli non si siano ragionevolmente sviluppati, mettendo salde radici. Anche in paesi lontanissimi da noi per assetti societari e realtà istituzionale, come gli Stati Uniti o l’Inghilterra, la sanzione penale è di questi tempi recuperata, oltre che nei casi già visti di ‘‘fallimento del mercato’’, quando le alternative sono ancora esili o addirittura inesistenti (30), appunto per supplire, magari temporaneamente, alla loro mancanza: grandi paesi il cui assetto capitalistico si è edificato in assenza di una legislazione ad hoc riscoprono (USA), o pensano di incrementare (Gran Bretagna), l’arsenale penalistico in ragione della diffusività senza confronti dei guasti societari. La nostra nuova disciplina penale-societaria si pone in evidente controtendenza (31) rispetto all’attuale panorama, coerente nel segnalare che rispetto ad abbandoni che sembravano irrimediabili, almeno in alcuni paesi, ritorna ora in considerazione un uso del diritto penale nella vita degli affari. Il Final Report del Modern Company Law for a competitive Economy inglese dà conto espressamente di un ripensamento e segna un ritorno alle originarie convinzioni della Law Commission, che si era dichiarata contraria ad una sistematica decriminalizzazione. Il punto delicato è (28) Per un primo sommario esame degli intrecci tra questi temi, ALESSANDRI A., Corporate Governance nelle società quotate: riflessi penalistici e nuovi reati societari, in corso di pubblicazione su Giur. comm., 2002. (29) ROSSI G., Le c.d. regole di ‘‘corporate governance’’ sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, in Riv. soc., 2001, p. 6. (30) CHEFFINS B.R., Il diritto societario e la separazione di proprietà e controllo, in Banca, imp. soc., 2001, p. 181. (31) BELCREDI M., À rebours, ovvero la riforma del ‘‘falso in bilancio’’, cit., p. 145.


— 1008 — quello di orientare il ripensamento e impiegare le sanzioni penali sui criteri di ‘‘proporzionalità ed efficienza’’ (32), si dice. E si è già ricordato che ad analoga conclusione giungeva il Rapporto Marini, ponendo al primo posto il falso in bilancio, come ‘‘luogo’’ meritevole del massimo presidio. D’altro canto i casi di ‘‘frode’’ americani (da Enron a World Com e via di seguito) hanno scosso, a ragione e finalmente, le convinzioni sulle virtù regolative del mercato, rispetto alle quali nulla di imperativo — si diceva — sarebbe mai dovuto intervenire. Ad un osservatore nostrano potrebbe apparire scontato che il ‘‘buco’’ regolamentare si è aperto proprio sul fronte delle manipolazioni bilancistiche e dei conflitti di interesse. Una conferma che lì sono i nodi reali dai quali possono germinare, nelle congiunture più diverse (lo sgonfiamento della bolla speculativa) o per i dati ‘‘antropologici’’ di fondo (la diffusa avidità), le aggressioni più devastanti nei confronti di soggetti meta-individuali o collettivi: dal mercato alle borse, e non di un solo paese, a sterminate platee di investitori o dipendenti, che a nessuno viene in mente di evocare singulatim, come invece sembra avere avuto in mente il legislatore della riforma. Il pendolo (33) della nostra legislazione va decisamente dall’altra parte, nel senso di un ‘‘ammorbidimento’’ del penale societario, come si vedrà più in dettaglio, anche se arricchito da nuove figure e istituti. Vale la pena di considerare, in sintesi, in quale scenario di deterrenza e controllo si inscrive questo nuovo diritto, dal momento che così numerose sono le incertezze o i dubbi sull’efficacia del diritto penale: abbandoni e riscoperte punteggiano un rapporto difficile tra ragioni del diritto (tutela degli interessi ritenuti meritevoli) ed esigenze dell’economia. Difficile pensare che la patologia societaria sia diminuita o abbia spento alcuni focolai. Le analisi, ancorché grezze, suscitate dai fatti statunitensi, non hanno mai lanciato segnali di immunizzazione o di riconquistate virtù del capitalismo nostrano. Le inchieste sulla corruzione (34) sono pressoché spente, ma la cronaca registra l’incessante serpeggiare del fenomeno, alimentato, per forza, da fondi extracontabili. Né si può dire che misure alternative siano state approntate: il raggio di governo delle Authority non sembra affatto in fase espansiva e semmai sono in discussione provvedimenti di contenimento. Nulla, soprattutto, (32) Modern Company Law for a Competitive Economy, Final Report, The Company Law Review Steering Group, London, 2002: in particolare v. Ch. 15, pp. 305-6, che rinvia a Ch. 13 del precedente Report Completing the structure; vedi altresì Modernising Company Law, Presented to Parliament by the Secretary of State for Trade and Industry by Command of Her Majesty, July 2002. (33) COLOMBO, G., Il falso in bilancio e le oscillazioni del pendolo, cit.; per una vivace critica, CRESPI A., Il falso in bilancio e il pendolarismo delle coscienze, cit. (34) Sul tema, per tutti v. FORTI G., La corruzione del pubblico amministratore. Linee di un’indagine interdisciplinare, Milano, 1992.


— 1009 — avvicina a quella meta di dotare le autorità — in primo luogo la Consob — di adeguati poteri, non solo ispettivi (attentamente coordinati con quelli dell’autorità giudiziaria), ma soprattutto sanzionatori. 3.

Le novità della riforma.

In questo quadro, di sostanziale immobilismo dei rimedi alternativi (si vedrà cosa sfornerà la cucina del legislatore civilistico), il nuovo diritto penale presenta elementi di continuità e di consistente discontinuità. La continuità è nelle linee generali dell’impianto, che ricopia il Progetto Mirone; a sua volta di mera razionalizzazione dell’esistente, con qualche aggiunta, per vero ampiamente collaudata altrove (infedeltà, corruzione privata, responsabilità delle società). Nulla di quanto vi era nel Progetto Mirone è stato scartato: ma ne è mutata l’ispirazione di fondo. Ciò è avvenuto per aggiunte e sottrazioni. Le aggiunte sono chiaramente visibili: le fattispecie di reato hanno mutato aspetto e sostanza appunto per l’inserimento di una serie di elementi ulteriori, che hanno, contemporaneamente, innalzato la gravità dei fatti punibili e selezionato, limitandola, l’applicazione delle fattispecie. È sufficiente l’esempio, sempre proposto, delle false comunicazioni sociali. Aver richiesto per l’integrazione della fattispecie, oltre a quanto era già stato selezionato dalla Mirone, che le comunicazioni siano previste se false, o imposte se omesse; che le falsità alterino in modo sensibile la situazione economica, patrimoniale o finanziaria; che le valutazioni estimative eccedano il 10% del valore corretto; che le falsità o le omissioni determinino variazioni superiori a determinate soglie percentuali; aver previsto tutto ciò, indipendentemente dalla collocazione e interazione dei nuovi elementi, ha necessariamente l’effetto di ridurre il raggio operativo della norma che potrà interessare solo ‘‘falsità’’ (se è consentito il breviloquio) di particolare complessità e gravità, sia soggettivamente che oggettivamente. E siamo ancora all’ipotesi base, descritta nell’art. 2621, poiché nella successiva fa il suo ingresso il corposo elemento selettore del ‘‘danno patrimoniale’’ (sul quale infra), che costituisce il principale elemento utilizzato per l’aggravamento delle successive figure. Anche la modellistica è stata ampiamente rimaneggiata. Anzitutto nella tipologia dei reati, con l’ingresso di un cospicuo numero di contravvenzioni (artt. 2621; 2623, comma 1; 2624, comma 1; 2627) rispetto a figure che erano centrali nel vecchio disegno ed in tutti i progetti di riforma. Qui si registra un salto strutturale. Una contravvenzione, sia pure delittuosa (35) per le sue connotazioni, appare figura difficilmente giustifi(35)

DONINI M., Il delitto contravvenzionale, Milano, 1993.


— 1010 — cabile e mal si presta ad accogliere ipotesi del tipo in parola, per di più messe in progressione con figure delittuose, rispetto alle quali il passaggio è scandito dal verificarsi del danno patrimoniale. Non solo le contravvenzioni sono sempre in predicato di essere escluse dal sistema; e se vi rimangono, la loro utilità è semmai quella di consentire il presidio anticipato di regole cautelari (l’arsenale della sicurezza sul lavoro, per esempio) o di intervenire su difformità di esercizio in aree amministrativamente regolamentate (dal governo del territorio all’ambiente) (36). È ben vero che l’ordinamento societario prevedeva (e conserva) figure contravvenzionali: l’indebita gestione, dalla legge Eurosim al TUF, è di tal fatta; ed anche le discusse ipotesi di falso ‘‘colposo’’, perché contravvenzionale. Era chiaro a tutti che si trattava, però, di effetti non voluti, necessitati dalle strettoie della legge delega, non certo di scelte consapevoli dello strumento. Si potrebbe ricordare che gli obblighi contabili fanno parte delle regole di diligenza oggettiva dell’imprenditore, come si ricava dalla figura della bancarotta documentale semplice (37). Ma da ciò si ricava l’intonazione colposa della figura, limitatamente, appunto, all’omessa o irregolare tenuta: nulla a che vedere con la falsità, rispetto alla cui insidiosità opera a tutto campo la repressione delittuosa. Tutto può essere irrilevante, se rimane questione nominalistica, di etichette, anche un cambiamento di modello: ma la contravvenzione ha effetti sostanziali di grande momento, che sono diretta conseguenza della sua tradizionale natura, assunta dall’ordinamento vigente. In prima battuta si profila la perentoria delimitazione della prescrizione, insensibile a qualsivoglia contestazione o bilanciamento di circostanze: esempio perfetto di sottrazione della discrezionalità commisurativa in senso ampio, ottenuta con il cambio del modello che offre una mimesi di continuità repressiva. Non minori gli effetti sul piano dell’attività dei soggetti: si pensi ai requisiti di onorabilità, ormai diffusamente previsti, in specie per il settore finanziario, dove lo sbarramento è attestato alla soglia del delitto, con varie modulazioni; la condanna per contravvenzione non avrà alcun effetto. Si potrebbe continuare: ma qui interessa solo segnalare alcuni punti di svolta. Il falso non produttivo di danno patrimoniale rimane quasi, si direbbe, a testimoniare la permanenza di una figura di reato, svuotata però dall’interno di ogni efficacia deterrente e intimidatoria. (36) PADOVANI T., Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati tra delitti e contravvenzioni tra storia e politica criminale, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione (a cura di Marinucci G. e Dolcini E.), Milano, 1985, p. 421. (37) PEDRAZZI C., in PEDRAZZI C.-SGUBBI F., Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare, Bologna-Roma, 1995, p. 185.


— 1011 — Senza qui anticipare l’analisi di dettaglio, è arduo conciliare — nella sostanza, ovviamente — l’impiego di una figura ai limiti della depenalizzazione caricandola della tutela di un bene giuridico, come è quello dell’informazione societaria, tenendo conto che, a parte la gravità della condotta descritta, la soglia si attesta addirittura, e quanto meno, al pericolo concreto, per la presenza dell’idoneità all’inganno. Nulla a che vedere con la salvaguardia di regole cautelari, di avamposti formali, nei quali la presunzione si manifesta in una ‘‘astrattezza pietrificata nella condotta’’ (38). Anche le cornici edittali segnalano una cospicua contrazione, un abbassamento generalizzato che lascia indenne solo il delitto di aggiotaggio (art. 2637 c.c.): spunto che occorrerà riprendere. Una valutazione complessiva dei nuovi livelli sanzionatori esige un preliminare sguardo, rapido e d’insieme, delle note strutturali dei reati e, anche alla luce di queste, delle oggettività giuridiche protette. Discutere in astratto della ‘‘mitezza’’ delle pene sarebbe vano (se non fosse per il fastidioso assedio della prescrizione); è discorso complesso, che rifugge dai valori assoluti, per inerpicarsi nei difficili sentieri delle comparazioni: tra pene e beni; tra entità della sanzione e gravità della condotta; tra livello del singolo reato e utilizzo della sanzione nel resto del sistema penale. A tutto dovrebbe sovrintendere una valutazione in termini di efficienza attesa e almeno ragionevolmente fondata, tenendo conto delle caratteristiche dei comportamenti, dei benefici promessi dalla violazione e dal grado di funzionalità del sistema giudiziario. Elenco di temi, più che mappa di una loro soluzione: e credo sia un elenco approssimato per difetto. Un sollecito alla diminuzione delle pene non può che essere immediatamente sottoscritto, per una serie di ragioni che sarebbe qui inutile ricordare, tenendo conto che il nostro sistema complessivo presenta livelli medi di afflittività minacciata di norma superiori a quelli di paesi a noi affini. Ma, osservazione altrettanto ovvia ma non inutile, occorre ricordare che la mitezza di un microsistema di pene deve passare al vaglio del principio di uguaglianza, in difetto di una riforma generale, per evitare che si creino, sotto l’egida di idee nobili non confutabili in sé, aree di ingiustificato privilegio e di sperequazione che rimandino, nella sostanza, a tipologie di soggetti o di carriere criminali. 4.

Il danno patrimoniale: una premessa.

Tra le note strutturali dei nuovi illeciti spicca l’inserimento, pressoché costante, di dati effettuali e di limiti dimensionali, strettamente intrecciati ai precedenti. Il dato effettuale di maggior risalto è quello del danno patrimoniale, (38) PADOVANI T., Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, in questa Rivista, 1995, pp. 635 (638).


— 1012 — vera novità ‘‘saliente’’ della riforma (39), prospettata dal legislatore storico come elemento di ‘‘gradazione nella gravità del reato’’ (40), a proposito delle falsità, certo, ma non solo. Il panorama, ad una vista d’insieme, è frastagliato ma percorso da linee omogenee. Il requisito del danno patrimoniale ha, innanzi tutto, profondamente mutato la fisionomia della fattispecie delittuosa descritta dall’art. 2622 c.c.: l’inserimento del danno costituisce un unicum nella lettura comparata delle legislazioni e sposta gli equilibri interni della figura che ancora chiamiamo ‘‘falso in bilancio’’. Non si tratta di un caso isolato, bensì di una costante della riforma, il vero filo rosso che lega gli interventi radicalmente novellistici; un dato ‘‘di sistema’’ che evidenzia concretamente la scelta di fondo operata dal legislatore. Un breve catalogo. Troviamo lo schema falsità senza danno — contravvenzione-falsità con danno — delitto anche nel ‘‘Falso in prospetto’’ (art. 2623 c.c.); nelle ‘‘Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione’’ (art. 2624 c.c.: rispetto al quale si può rilevare l’assoluta incongruità della selezione operata con la finalità di ingiusto profitto); ancor più clamorosamente nell’ipotesi di ‘‘Impedito controllo’’, dove la coppia diviene illecito amministrativo-delitto, a seconda che sia stato o meno ‘‘cagionato un danno’’. E si noti che in questi casi la formula di sussidiarietà è esplicitamente centrata sulla verificazione del danno, come era previsto nella originaria formulazione dell’art. 2621 c.c. (che, pur sgrammaticata, recitava ‘‘salvo che il fatto non abbia cagionato danno’’): tema che si riprenderà più avanti. Il danno, quale evento della fattispecie, è ancora presente nelle ‘‘Operazioni in pregiudizio dei creditori’’ (danno ai creditori: art. 2629 c.c.); nella ‘‘Indebita ripartizione dei beni sociali’’ (danno ai creditori: art. 2633 c.c.); in altri casi il danno riguarda il capitale della società o le riserve (‘‘Illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante’’, art. 2628 c.c.); la società in generale (‘‘Infedeltà patrimoniale’’, art. 2634 c.c.); nella forma del nocumento (‘‘Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità’’, art. 2635 c.c.). La patrimonializzazione delle figure è confermata e ribadita dalla diffusa presenza, anche congiunta, di due meccanismi, che talora si intrecciano e si collegano al danno: la procedibilità a querela e l’efficacia estintiva della punibilità di talune condotte attribuita a effetti riparatori o ripristinatori. (39) SANDRELLI G., Il nuovo falso in bilancio, cit., p. 850. (40) PECORELLA G., Relazione sul disegno di legge n. 1137, cit., p. 682.


— 1013 — La querela opera, oltre che nel già considerato art. 2622 c.c., nell’art. 2629 c.c. (operazioni in pregiudizio dei creditori), nel quale interviene anche il risarcimento del danno con funzione estintiva: un doppio selettore della punibilità. Querela ancora nell’infedeltà patrimoniale (2634 c.c.) e nell’infedeltà a seguito di dazione (art. 2635 c.c.). La rimessione in pristino si incontra, appunto con efficacia estintiva, nell’illegale ripartizione degli utili (art. 2627 c.c.); nelle illecite operazioni su azioni (art. 2628 c.c.); nell’indebita ripartizione dei beni sociali (art. 2633 c.c.), in coppia con la querela. Restano, alla fine, formalmente esenti da elementi di netta impostazione ‘‘privatistica’’ (oltre al problematico art. 2621 c.c.), l’art. 2626 c.c., che riguarda l’indebita restituzione dei conferimenti (nel quale, tuttavia, la lesione patrimoniale dei creditori è implicita); l’art. 2632 c.c., a proposito della formazione fittizia del capitale (rispetto al quale, ancora, si può dire che la lesione patrimoniale agli interessi dei creditori ed anche dei soci è conseguenza necessaria dell’annacquamento del capitale); ed infine l’art. 2638 c.c. che riguarda l’ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Solo riguardo a quest’ultima figura si può dire siano del tutto assenti connotazioni individualistiche o privatistiche. Eccentrica, rispetto al panorama, la figura di aggiotaggio, che però è reato comune, non rivolto alla ristretta cerchia dei vertici aziendali. 5.

Le oggettività giuridiche.

Ad eccezione degli artt. 2637 e 2638, si profila una serie di oggettività giuridiche che, ricavate, come necessario, ‘‘dai soli connotati che illuminano la direzione e l’attitudine offensiva della condotta tipica’’ (41), presentano spiccatissimi, talora esclusivi aspetti patrimoniali, nel senso di lesioni puntuali al patrimonio del singolo. Si discuterà semmai se l’impronta patrimoniale (che deriva al reato ‘‘solo dal bilancio della vicenda: il danno’’) (42) è lasciata convivere con altri interessi di diversa natura: il dibattito riguarda, anche per le ricadute di diritto transitorio (43), soprattutto l’art. 2621, ma non solo. Per i reati con evento di danno patrimoniale patito dai singoli pare difficile sostenere che le oggettività possano superare la dimensione privatistica; un identico risultato sembra ottenuto con l’inserimento della querela, espressione di una tipica disponibilità individuale delle conseguenze (41) PEDRAZZI C., Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, in Studi Urbinati, 1955, p. 11. (42) PEDRAZZI C., Inganno ed errore, cit., p. 15. (43) V. in particolare, tra i molti, PADOVANI T., Il cammello e la cruna dell’ago, cit., p. 1598; DONINI M., Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio, cit.


— 1014 — della lesione, comprese quelle sanzionatorie. Il bilancio della vicenda è rifatto, più tardi, e spazza via, se soddisfacente per la vittima, la pretesa punitiva. Le condotte ripristinatorie e riparatorie, di per sé, sono istituti che credo meritino il massimo della valorizzazione, nella consapevolezza però dei numerosi rischi in agguato (44) quando si voglia attribuire ad esse effetti estintivi. Fuori dal più ampio e controverso tema delle condotte premiali (45), il modello è meramente sostanziale, e ha come razionale capostipite l’insolvenza fraudolenta. È una reintegrazione che colma esattamente l’area della lesione, riequilibra le partite e annulla anche la maliziosa preordinazione dell’autore. Altre forme si possono immaginare (46) e le esperienze di giustizia conciliativa o di mediazione vanno in questo senso. Non si può affatto escludere che la criminalità d’affari sia terreno propizio per esperienze di questo tipo, con tutte le salvaguardie ed attenzioni che devono circondare istituti di deflazione in sede processuale. Il problema è però diverso. Dal punto di vista ricostruttivo, quegli istituti (ad esempio in tema di illegale ripartizione degli utili) indicano una curvatura nettamente patrimoniale e individualistica della fattispecie, dato che il pareggiamento delle partite ferma la punizione: allora solo le partite esauriscono il disvalore considerato dalla norma o quel che residua è quantità infinitesima, trascurabile. Ancor più evidente appare la scelta quando proprio gli eventi della fattispecie sono mossi sulla scacchiera, ad esempio quando compaiono i danni alle vittime. Nelle operazioni in pregiudizio dei creditori, da parte degli amministratori (art. 2629) o dei liquidatori (art. 2633), al risarcimento ‘‘del danno’’ prima del giudizio è attribuita l’efficacia di estinguere il reato. Le vittime sono solo i creditori: e su di essi andrà ricostruita l’oggettività giuridica, se la loro tacitazione pecuniaria neutralizza ogni disvalore. Fin qui quanto si può ricavare in tema di oggettività giuridica, schiettamente patrimoniale del singolo. Ma le condotte premiali di natura sostanziale pongono un’altra riflessione. La loro funzionalità è ragionevolmente connessa alla neutralizzazione definitiva dell’offesa, che non dia adito al reiterarsi di condotte similari. In questo senso va letta la clausola contenuta nell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 (47), nel quale l’estinzione del reato è subordinata alla valu(44) AA.VV., Verso una giustizia penale ‘‘conciliativa’’, a cura di Picotti L. e Spangher G., Milano, 2002, p. 149. (45) V. di recente, RUGA RIVA C., Il premio per la collaborazione processuale, Milano, 2002; in generale v., per tutti, il fondamentale contributo di PADOVANI T., La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di ‘‘ravvedimento’’, in questa Rivista, 1981, p. 916. (46) DONINI M., Non punibilità e idea negoziale, in Ind. pen., 2001, p. 1035. (47) Disposizioni sulla competenza del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della l. 24 novembre 1999, n. 468.


— 1015 — tazione giudiziale dell’essere le condotte risarcitorie e riparatorie ‘‘idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione’’, prevedendo un apposito iter procedimentale. Nei nostri casi, ogni intervento dell’autorità giudiziaria è escluso, sono solo le parti a ‘‘concludere’’ e a rendere efficace la fattispecie estintiva. Dove il modello non è di danno, lo si è visto, è di pericolo concreto, affidato alle contravvenzioni, tranne il caso dell’aggiotaggio, nel quale il solo appiglio in termini di ‘‘concretezza’’ è costituito dalle ricadute sulla condotta dell’idoneità lesiva imposta dal dolo specifico. I lavori preparatori indicano a più riprese che tutto questo trova le sue ragioni nell’ossequio al principio di offensività: non si sono volute lasciare ipotesi formalistiche e oggettività evanescenti o inafferrabili. Anzi l’offensività troverebbe il suo naturale completamento nella certezza e precisione (e da qui gli elementi aggiuntivi). In una sintesi che ho già formulato, il nuovo diritto penale societario sarebbe ispirato alla precisione dell’offesa. Se di ossequio si è trattato, nessuno può pretendere di affermare che si tratti di un ossequio dovuto. Anche a voler rigorosamente rispettare il principio di offensività (48), nulla obbliga il legislatore ad optare per reati di danno: il pericolo concreto, che richiede un accertamento dell’effettiva pericolosità della condotta (49) (ma che non considera gli effetti sui soggetti passivi, magari indifferenti o immunizzati al pericolo), rispetta abbondantemente il principio di offensività. Anche la non molto risalente querelle sui reati di pericolo astratto e presunto (50) si prospetta oggi in termini più equilibrati, appunto sulla base di più attente letture del rapporto tra bisogni di tutela e tecniche di incriminazione. Il tema è ampiamente noto, grazie all’odierna consapevolezza che determinati beni, per la loro importanza (la vita) o per la loro natura (in quanto, ad es., interessi diffusi) o per il fatto di non essere beni ma luoghi giuridici (51), esigono che si prescinda dal momento effettuale della lesione. In specie, con riguardo agli interessi diffusi — che hanno concreta esistenza autonoma rispetto ad inconsistenti ed esangui richiami alla ‘‘correttezza del mercato’’, o simili, che talora filtrano nella giurispru(48) Per una nitida riflessione, MARINUCCI G.-DOLCINI E., Corso di diritto penale, 1, 3a ed., 2001, p. 525 ss. (49) Nell’ampia letteratura sui reati di pericolo v. ANGIONI F., Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, 2a ed., Milano, 1994; PARODI GIUSINO M., I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990; CANESTRARI S., Reato di pericolo, in Enc. giur., XXVI, 1991. (50) Avviata da GALLO M., I reati di pericolo, in Riv. pen., 1969, p. 1; e poi BRICOLA F., Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, 1973, p. 7; NEPPI MODONA G., Il reato impossibile, Milano, 1973. (51) PADOVANI T., Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario, cit., p. 639.


— 1016 — denza — è sovente ardua l’individuazione delle lesioni legate a precisi correlati fenomenici: ‘‘una repressione ancorata all’accertamento del danno o del pericolo di danno rischierebbe la paralisi’’ (52). Diviene indispensabile, se si vuol salvaguardare con lo strumento penalistico quel bene, articolare la tutela forgiando fattispecie centrate sui comportamenti, e nelle quali il rispetto dell’offensività si ponga all’interno del giudizio di pericolosità della condotta. Impiegare strumenti repressivi centrati sul danno o sul pericolo di danno dei singoli Stakeholders comporta l’emarginazione degli interessi non individuali, la loro sostanziale scomparsa dalla vicenda penalistica. E lo strumento civile appare radicalmente inadeguato, nel nostro ordinamento, a reggere vicariamente un peso del genere. 6.

Il caso dell’informazione societaria.

La tecnica di costruzione delle fattispecie non è neutrale sul piano dei beni garantiti; è strumento che disegna il profilo del mezzo aggressivo e quindi traccia le fondamenta dell’interesse che si vuol preservare (53). Nel nostro caso l’obiettivo è apertamente enunciato: i beni diffusi non esistono o sono fonte di perenne incertezza, pertanto questo nuovo diritto penale societario si orienta solo alla protezione di beni patrimoniali, salvo qualche fattispecie lasciata a testimoniare. Le argomentazioni a difesa della scelta non risolvono il problema, che resta di pura opzione legislativa. Dire ad esempio che l’informazione societaria non costituisce un ‘‘bene’’ o sia un ‘‘feticcio’’ o un ‘‘totem’’ (54) contrasta con un’imponente letteratura, non solo penalistica, ma anche economica e aziendalistica (55). Contrasta altresì con le finalità assegnate dalla letteratura più autorevole al bilancio delle società, inteso come rap(52) PEDRAZZI C., Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1979, p. 17 (spec. pp. 32-33). (53) Sui rapporti tra tipologia di beni giuridici e tecniche di tutela PEDRAZZI C., Tecniche di tutela, cit.; PULITANÒ D., in Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario (Atti del IV Congresso nazionale di diritto penale), Torino, 1996; di recente il tema è stato in particolare affrontato rispetto alla tutela di interessi diffusi: DEMURO G.P., Beni culturali e tecniche di tutela penale, Milano, 2002; CATENACCI M., La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura ‘‘sanzionatoria’’, Padova, 1996; AZZALI G., La tutela penale dell’ambiente. Un’indagine di diritto comparato, Padova, 2001. (54) LANZI A., Un cambiamento di prospettiva nella penalizzazione dei fenomeni societari, AA.VV., La riforma del falso in bilancio, in Dir. pratica soc., 2002; p. 24 ss.; CARACCIOLI I., Una riforma in linea con la realtà economica, cit., p. 531. (55) COMOLI M., Il falso in bilancio, cit.; REBOA M., Aspetti critici del nuovo falso in bilancio, cit., p. 241; in generale, nella vastissima bibliografia, ONIDA P., Il bilancio d’esercizio nelle imprese, Milano, 1974; di recente per un’ampia panoramica, AA.VV., La disciplina giuridica del bilancio di esercizio, a cura di Bianchi L., Milano, 2001; vedi inoltre BRUNETTI G., Contabilità e bilancio d’esercizio, Milano, 2000; COLOMBO G.E., Bilancio d’esercizio e


— 1017 — presentazione delle capacità reddituali e della situazione patrimoniale dell’ente e come rendiconto dell’operato degli amministratori (56). Naturalmente aver individuato che l’informazione societaria è un bene non significa ancora averne determinato i contenuti indispensabili in rapporto alle finalità prescelte: è questione di ambiente culturale, e quindi di regole diffuse o di cogenti regole inderogabili in rapporto agli interessi in gioco ed ai modi di tutela disponibili. Al bilancio, strumento per eccellenza di informazione e in ogni caso insostituibile, ordinamenti diversi attribuiscono finalità differentemente modulate. Se infatti è comune a tutti i paesi la considerazione dell’informazione di bilancio quale mezzo primariamente orientato a consentire ai destinatari di assumere decisioni in merito all’acquisto, detenzione o cessione delle partecipazioni, le finalità ulteriori — e in primo luogo quella di giudizio sull’operato degli amministratori — primeggiano nella tradizione italiana e tedesca e passano invece in secondo piano in quella anglo-americana (57) (ma la struttura societaria pesa notevolmente sui differenti orientamenti). Che ad ogni modo l’informazione societaria sia considerata un bene capace di svolgere funzioni di salvaguardia rispetto ad altri interessi è stato di recente sottolineato dall’High level group of Company Law Experts (58), nel cui rapporto si afferma che una più fitta e invasiva disciplina dell’informazione potrebbe soccorrere utilmente, e sostitutivamente, nella regolamentazione volta a proteggere interessi diversi. ‘‘Sapere’’, d’altro canto, è la prima forma di prevenzione, quando la conservazione di un bene è in mani altrui. La Relazione al d.lgs. n. 61 insiste sul fatto che l’informazione societaria non è stata espulsa, poiché il falso tout court starebbe nelle contravvenzioni (artt. 2621; 2622, comma 1; 2623, comma 1). Una tesi negata da alcuni (59), accolta da altri, che la estendono anche alle figure progressive di natura delittuosa (60). La discussione va rinviata all’analisi delle figure di reato coinvolte. consolidato, in AA.VV., Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo G.E e Portale G.B., 7*, Torino, 1994, p. 484; FRATTINI G., Contabilità e bilancio, Milano, 2001; PALMA A., Il bilancio di esercizio e il bilancio consolidato, Milano, 1996; QUATRARO B.-D’AMORA S., Il bilancio di esercizio e il consolidato, Milano, 1998; SANTESSO E.-SOSTERO U., I principi contabili per il bilancio d’esercizio, Milano, 1999, p. 575. (56) COLOMBO G.E., Bilancio d’esercizio e consolidato, cit. (57) VERNA G., Le nuove frontiere dell’informazione contabile in Europa, in Riv. dott. commercialisti, 2002, p. 421. (58) High level group of Company Law Experts (v. la nota di SFAMENI P. in Riv. soc., 2002, p. 764). (59) V. per tutti PEDRAZZI C., In memoria del ‘‘falso in bilancio’’, cit. (60) SEMINARA S., I nuovi reati di false comunicazioni sociali, falso in prospetto, falso nell’attività di revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, cit.; PADOVANI T., Una riforma difficile, cit.; PULITANÒ D., La riforma del diritto penale societario, cit.


— 1018 — In una prospettiva generale, anch’essa ovviamente discutibile, si possono svolgere alcune considerazioni. La focalizzazione di gran parte delle figure, come si è visto in precedenza, sul danno patrimoniale, assunto come evento del reato, rende molto difficile sostenere che a fianco di interessi patrimoniali riferiti a singoli assuma rilevanza anche il bene dell’informazione societaria (o altri beni meta-individuali). Il mezzo offensivo, il falso, comporta ovviamente la lesione di un bene meta-individuale; in questo senso si può dire che la ‘‘veridicità’’ trova una forma di protezione nel complesso della figura patrimoniale. Ma si tratta di una tutela del tutto indiretta e mediata, selezionata in base alla sua dannosità in concreto, secondo modalità che non sono mai state accolte in nessun altro ordinamento: l’informazione trova tutela solo se si attualizza l’offesa di un altro bene tipicamente individuale. Un processo inverso a quello ben noto: la costruzione dei beni diffusi — da quello capostipite: l’incolumità pubblica (61) — è avvenuta contestualmente all’emancipazione dai beni finali e dalla constatazione del loro pregiudizio rispetto a singoli individui, che è solo evocato allusivamente. Le preoccupazioni, giustamente sollevate, di inafferrabilità dei beni in discussione suscitano un problema che è di tecnica legislativa, alla quale si chiede di conciliare adeguatamente precisione e offensività: rispetto alla condotta però, o talora all’evento di pericolo, mai all’evento di danno. Rispetto alle contravvenzioni, verrebbe da dire che la modestia dello strumento rende immaterial ogni discussione. Ha senso in una lettura di sistema. È chiaro che il problema intercetta subito — rispetto all’informazione societaria — la questione dell’alterazione sensibile e delle soglie di rilevanza. Le opinioni sono ampiamente diversificate sul punto: sia per quanto attiene ai rapporti tra i due elementi, che in merito alla loro qualificazione all’interno delle figure di reato. Non è difficile ammettere, io credo, che l’informazione societaria — come altri beni non individuali, esposti a pericolo nelle vicende societarie — non abbia estensione illimitata, non sia quindi un valore in sé quanto un bene strumentale rispetto alla salvaguardia di altri beni. Una tutela indiscriminata porrebbe — e ha posto — problemi che sono stati collocati sotto il capitolo dell’offensività, ma che hanno le loro radici nei deficit di tipicità del fatto e nelle conseguenti modeste e inadeguate capacità di circoscrivere l’intervento penalistico. 6.1.

La rilevanza. — Chiarire la natura strumentale del falso signi-

(61) ZERBOGLIO A., Delitti contro la pubblica incolumità, in AA.VV., Trattato di diritto penale, vol. VIII, Milano, 1916.


— 1019 — fica porre subito il problema della significatività del dato o del comportamento, senza la quale la sanzione sarebbe collocata all’interno di un modello di stampo formalistico. Sono decisivi l’aspettativa da parte dei destinatari dell’informazione e la sua incidenza, il suo peso, sulle scelte da assumere riguardo a quella società (altri valori più ampi — l’economia pubblica, la fede pubblica ecc. — paiono decisamente oltre le possibilità praticabili). Nella cultura anglosassone il tema non suscita particolari convulsioni. I dati normativi, il dibattito e le iniziative legislative (62) accolgono pacificamente che il dato debba essere material, implicando con questo la sussistenza della ‘‘naturale tendenza a influenzare o la capacità di influire sulle decisioni’’, senza che le varie figure prevedano, né in tal senso siano interpretate, una incidenza effettiva sulle decisioni del destinatario (63). In questa direzione vanno la legislazione inglese, nella sec. 18 del Theft Act, ove si prevede un ‘‘material fact’’; nella sec. 1001 del 18 U.S. Code. I criteri contabili elaborati sia in Italia che in sede internazionale, dal CNDCR, dallo IASC, dal FASB utilizzano senza incertezze il termine significativo o material nel senso di ‘‘capace di influenzare le decisioni economiche’’. In altri paesi una giurisprudenza equilibrata, e posta nelle condizioni di svolgere serenamente il suo compito, rispettata ma soggetta al controllo dell’opinione pubblica, non risulta aver fatto un uso distorto della clausola, considerando tuttavia che il limite della significatività può vanificarsi se si riscontrano le prove di una volontà orientata alla falsificazione. Né alcuno, nel recente, serrato dibattito che è sfociato nel Sarbanes-Oxley Act ha mai accusato quella specificazione di aver consentito l’impunità di alcuni e quindi di aver diffuso germi di condotte illegali. A ben altro si è (62) The False Statement Accountability Act of 1996 (FSAA), Pub. L. No. 104 492,10 Stat. 3459 (1996); per un panorama generale, IAS, Principi contabili internazionali, Ias 2000, trad. it., Milano 2000. (63) V. tra i molti BRICKEY K.F., Corporate Criminal Liability, vol. 3, ed. Callaghan, 1984, p. 170; PIMENTEL C.B., False Statements, in American Criminal Law Review, Summer, 2001; HAZEN T.L., Materiality in Rule 10b-5 Action, in Law of Securities Regulation, 2002; COMBS T.L.-THORESAN A.M., Lying to the SEC: the basics of the false statements statute, in American Law Institute, May 1998; MONROE L.R.F., Falses Pretenses, Material fact or statement, in American Jurisprudence, 2a ed., May 2001; HEISMAN L.J. What constitutes a ‘‘material’’ fact for purposes of 18 U.S.C.A. § 100, relating to falsifying or concealing facts in matter within jurisdiction of United States department or agency, in American Law Reports, October 2000; HUBER J.J.-KIM T.J., Materiality as we know it or brave new world for securities law, in Practising Law Institute, Corporate Law Practice Course Handbook Series, November, 2001; U.S. SECURITIES AND EXCHANGE COMMISSION, DIVISION OF CORPORATION FINANCE, Current Accounting and Disclosure Issues, August 31, 2001, in http://www.sec.gov/divisions/corpfin/acctdisc.htm.


— 1020 — appuntata l’attenzione, che ha raggiunto un risultato solo parziale nel provvedimento sopra richiamato. Il tema della significatività era stato affrontato nella discussione svolta nella Commissione Mirone, ma aveva trovato ostacoli insormontabili, nel timore di ricadute lassiste che erano, all’esterno, banalizzate con lo slogan della ‘‘modica quantità’’ del falso. Indubbiamente vi era un delicato aspetto di tipizzazione dell’elemento, che lo sottraesse alla genericità, censurabile anche sul piano costituzionale, ma nel contempo lo rendesse vitale e capace di costituire un ragionevole filtro. Il problema era da svolgere sul piano oggettivo della fattispecie, ma soprattutto nel sistema delle incriminazioni, in modo da ridimensionare la portata del vecchio 2621 c.c., unico modo per scongiurare una tensione eccessiva dei suoi elementi costitutivi, per effetto del sovraccarico di attese sanzionatorie. E vi era poi l’esigenza, a mio avviso fondamentale, di regolare, ovviamente nella parte civilistica, il ricorso ai criteri di determinazione della falsità, vero nodo cruciale e terreno elettivo di scorribande da parte di consulenti poco equilibrati. L’unica risposta allora praticabile era stata quella di introdurre l’idoneità decettiva come elemento della fattispecie, orientandola per far assumere alla figura il profilo di pericolo concreto: la rilevanza rimaneva sullo sfondo, richiamata, indirettamente, dalla necessità di una decettività effettiva, che non poteva che misurarsi con le decisioni da assumere da parte dei destinatari. Nulla a che vedere con la tematica dell’art. 49, comma 2, c.p., che pure è stato improvvisamente ricordato di recente (64): era una pericolosità che riguardava la condotta, e quindi le modalità oggettive del falso, la sua insidiosità, valutata ex ante, in una prognosi a base parziale. 6.2. Le soglie. — La risposta ora formulata — mediante soglie quantitative percentuali — non ha alcuna intrinseca ragionevolezza, rispetto a nessuno dei possibili scopi selettivi immaginabili. Mi limito ad osservare che in nessun ordinamento sono previste soglie di tal natura o analoghe; che nessuna agenzia regolatrice né organo tecnico ha mai raccomandato l’impiego di limiti dimensionali. Anzi, uno sguardo panoramico mostra che il mero dato quantitativo, scartato addirittura da chi aveva per primo sollevato la questione (65), è pacificamente escluso nella valutazione della falsità da tutta la letteratura sul punto. È già stato ricordato che la SEC non ha mai accolto il criterio: basta una lettura del SAB 99, disponibile su Internet, per rendersene conto; ma (64) Trib. Ravenna, 15 maggio 2002, Sama, in Cass. pen., 2002, p. 2058; Trib. Milano, ord. 28 giugno 2002, Sez. II, Varasi, ined.; Trib. Milano, Sez. II, 11 giugno 2002, Agnelli, ined. (65) COLOMBO G., La ‘‘moda’’ dell’accusa di falso in bilancio nelle indagini delle Procure della Repubblica, in Riv. soc., 1996, p. 713 ss.


— 1021 — anche la consultazione dei principi contabili internazionali indicava da tempo con chiarezza la costante evidenza della necessità di una valutazione globale e qualitativa del ‘‘dato’’. In questo senso si erano già pronunciati sia lo IASC che il FASB (66): ‘‘The omission or misstatement of an item in a financial report is material if, in the light of surrounding circumstances, the magnitude of the item is such that it is probable that the judgement of a reasonable person relying upon report would have been changed or influenced by the inclusion or correction of the item’’; ‘‘Magnitude by itself, without regard to the nature of the item and the circumstances in which the judgement has to be made, will not generally be a sufficient basis for a material judgement’’. L’intrinseca irragionevolezza del ricorso alle soglie percentualistiche schiude ora la strada a una selva di questioni, interpretative e di organizzazione sistematica: i rapporti tra le soglie; i rapporti con il requisito dell’alterazione sensibile, che appare il nuovo focus dell’offensività; la natura delle soglie, quali elementi del fatto tipico o incidenti solo sulla punibilità, con quanto segue in punto di dolo; la metodologia di calcolo delle soglie rispetto ai diversi valori di bilancio, alle voci ed ai singoli componenti; e così via. Ho già altrove manifestato la convinzione che, qui come in molti altri luoghi della nuova legge, le soluzioni, anche quelle collocate lungo un sorvegliato e lucido percorso logico (67), siano nella sostanza inappaganti perché gli argomenti adducibili non sono decisivi o sono intrinsecamente fragili. Confermo la convinzione che si tratti di una conseguenza inevitabile che ha la sua causa nella essenziale irragionevolezza delle scelte adottate (e che non a caso nessuno ha mai compiuto), che solo forzatamente si possono ricondurre ad una ricostruzione che abbia le parvenze di un sufficiente equilibrio. Mi limito qui a rilevare la maggiore assurdità derivante dall’introduzione dalle soglie. Quelle relative all’1% del patrimonio netto e al 5% del risultato d’esercizio si possono applicare non solo ai valori stimati o congetturati (68) ma anche alle poste di bilancio che espongono i c.d. valori certi, rispetto ai quali mai nessuno ha immaginato aree di incertezza per la loro natura di valori contabili puri. Né appare meno censurabile la c.d. soglia per le valutazioni estimative, frutto di un improprio trapianto dalla normativa tributaria (69), dal momento che in materia di valori stimati (66) FASB, Statement of Financial Accounting Concepts n. 2, Qualitative Characteristics of accounting information, 125, pp. 73-76; IASC, Framework for the Preparation of Financial Statements. (67) Mi riferisco in particolare ai tentativi di una lettura razionale compiuti da PADOVANI, PULITANÒ e SEMINARA. (68) COMOLI M., Il falso in bilancio, cit. (69) NAPOLEONI F., Il nuovo sistema penale tributario, Milano, 2000, p. 117; VENE-


— 1022 — non si pone, all’analista di bilancio, una valutazione ‘‘corretta’’, che sembra far rivivere il mito della ‘‘verità oggettiva del bilancio’’ (già sconfessata dalla Relazione al d.lgs. n. 127 del 1991) (70): si osserva che esiste solo ‘‘una fascia di valori all’interno della quale le attribuzioni operate dai diversi soggetti potranno essere differenti ma non per questo false. Solo uscendo da questa fascia non si potrà più parlare di incertezza nelle valutazioni, bensì di attribuzione di valori sicuramente falsi’’ (71). Non è qui utile entrare in maggiori dettagli. È possibile invece osservare che l’eventuale ‘‘trasparenza’’ ospitata nell’art. 2621 è di ben singolare natura, non solo per la tipologia della condotta offensiva — identica a quella dell’art. 2622 — quanto e soprattutto perché è davvero difficile immaginare una ‘‘trasparenza’’ condizionata a soglie alla stessa disfunzionali. L’unico recupero possibile è quello lucidamente perseguito da Pulitanò, che fa della clausola dell’alterazione sensibile la chiave di volta della figura, capace di subordinare a sé le soglie quantitative e di aprirsi anche a ricomprendere il falso qualitativo. Operazione comprensibile per le intenzioni equitative che la animano, ma che appare difficilmente conciliabile con la secchezza del dato testuale, pur nella sua rozzezza. Sarebbe bastato poco di più nell’elaborazione delle figure per evitare discussioni e incertezze: tanto da far dubitare che la certezza della fattispecie fosse un risultato che il legislatore voleva perseguire davvero. In ogni caso, il legislatore del 2002 ha compiuto scelte nette, talora contorte e contraddittorie negli svolgimenti, ma precise nel senso complessivo: espulsione dei beni diffusi dall’area della tutela penale, con qualche eventuale residuo, lasciato alla interpretazione ‘‘correttiva’’, ma in limiti estremamente modesti; traduzione di tutte le patologie societarie in vicende di stampo nettamente patrimoniale, anche mediante l’utilizzo di modelli adeguati alla tutela dei soli beni individuali. Né si può dire che il legislatore della riforma volesse davvero espellere tutti i beni meta-individuali in adesione ad una scelta di politica criminale omogenea e compatta: la ‘‘svolta’’ vale solo per le condotte degli amministratori, considerate evidentemente meritevoli di una collocazione del tutto particolare. Tanto che, quando si fuoriesce dalla cerchia ristretta, seppur verso figure di incertissimo destino, gli interessi del mercato riappaiono: ecco l’aggiotaggio, severamente sanzionato; e, quasi sfuggito dalla penna, opera dei chierici delle commissioni (72), l’ostacolo alle funzioni di vigilanza, nella probabile sottostima delle capacità espansive della norma. ZIANI P., in CARACCIOLI I.-GIARDA A.-LANZI A., Diritto e procedura penale tributaria, Padova 2001, p. 168 ss. (70) COMOLI M., Il falso in bilancio, cit., p. 32. (71) COMOLI M., Il falso in bilancio, cit., p. 66. (72) V. sul punto, MUSCO E., I nuovi reati societari, cit., p. 185.


— 1023 — La natura patrimoniale del blocco centrale delle incriminazioni, che ha fatto pensare ad un attento interprete alla maggiore utilità di un ritocco alle figure tradizionali (73), sposta nettamente l’asse del microsistema e lo affianca alle consuete figure codicistiche, in primo luogo alla truffa, ma anche all’appropriazione indebita. Ad ammettere che vi sia spazio per interessi diversi, essi sono confinati in un limbo di inefficacia, con valore mimetico. 7.

La direzione della riforma.

Un ritorno al passato, è stato detto (74), ricordando la contiguità con la truffa delle vecchie norme del codice di commercio del 1882. L’affermazione coglie una verità parziale, probabilmente, anzitutto nel senso che la riforma non guarda affatto al futuro (il futuro immediato l’ha già sconfessata) e non considera per nulla l’inserimento dell’Italia nella competizione internazionale e nell’Europa. Rispetto a quest’ultima, non si vede in quale modo la riforma possa ambire alla coerenza con gli obiettivi di veridicità contabile che più volte sono stati riaffermati (75), e che si radicano nel terzo pilastro di Maastricht (76), tali da rendere censurabile l’apposizione di filtri selettivi sostanziati in impulsi di parte. Per tacere delle iniziative in gestazione o di prossima applicazione, che enfatizzano la veridicità dei conti aziendali. Comunque si ragioni in merito alla ‘‘competizione degli ordinamenti’’, pare difficile negare che la riforma renda ancor meno attendibili i valori contabili offerti dalle aziende italiane: un giudizio definitivo verrà dalla valutazione della parte civilistica, che dovrebbe però contenere innovazioni di notevole risalto per modificare il giudizio. Né le piccole imprese sembra possano essere avvantaggiate. La perdita di competitività (77) del tradizionale sistema delle piccole imprese non pare potrà essere avvantaggiato direttamente dalle nuove fattispecie, in quanto il meccanismo delle soglie fatalmente premia le grandi imprese, con valori assoluti di bilancio ben più significativi. Resta alla fine solo l’abbassamento sanzionatorio, l’allungamento degli accertamenti, la facilità della prescrizione. Si dovrebbe allora dire che le regole della vita degli affari non meritano per il nuovo legislatore un presidio penalistico, non perché sia stata (73) SANDRELLI G., Il nuovo falso in bilancio, cit., p. 851. (74) Così MARINUCCI G., nel corso del Convegno ‘‘I nuovi reati societari: una prima discussione’’, svoltosi nell’Università Bocconi il 18 giugno 2002. (75) Convenzione OCSE sulla corruzione 1987, in questa Rivista, 1998, p. 1349, con nota di SACERDOTI G. (76) SOTIS C., Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in questa Rivista, 2002, p. 171. (77) V. anche la Relazione del Governatore della Banca d’Italia 2001, p. 103.


— 1024 — costruita una serie di rimedi alternativi di maggiore efficienza (obiettivo sicuramente perseguibile), ma perché tutto, o quasi, è ricondotto ad una dialettica autore-vittima nell’ambito di un conflitto patrimoniale, la cui soluzione è caldeggiata in sede diversa da quella giudiziale: la conciliazione patrimoniale è l’obiettivo primario della riforma. Due osservazioni conclusive. L’etica degli affari, reclamata ora a gran voce negli USA, improvvisamente svegliati da una convinzione quasi ipnotica, non pare davvero di grana migliore in Italia, anzi: è solo questione di dimensioni. Pare difficile sostenere che la nuova tavola dei valori offerti dalla riforma costituisca un impulso in questa direzione, dal momento che il rozzo guardiano del ‘‘minimo etico’’ è stato spostato a vigilare su altre e ben diverse frontiere. La vita delle aziende rimanga al riparo da controlli penetranti e comunque non direttamente gestibili: questo il messaggio semplicistico — ma la simbologia penale è semplificatrice — che la riforma trasmette. Non da ultimo, un perentorio segnale nel senso del differente peso della repressione penalistica rispetto al tradizionale campo del diritto penale. Alla perdita di specificità del diritto penale societario, che non sembra aver ragione di esistere come ramo separato da quello tipico dei reati contro il patrimonio, si accompagna un messaggio di disuguaglianza. I livelli edittali mostrano che la vita degli affari non merita sanzioni, se non blande, infinitamente minori di quelle della criminalità comune, riconfermata quale vero pericolo sociale. Non vi sono, nella vita degli affari, valori non monetari che debbano essere salvaguardati poiché il nucleo resta quello del rischio patrimoniale: solo che ai capitani d’impresa il cammino è più agevole. ALBERTO ALESSANDRI Ordinario di Diritto penale commerciale nell’Università Bocconi di Milano


NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO

LE CIVIL RIGHTS ACTIONS COME STRUMENTO PER LA RIPARAZIONE DEGLI ERRORI GIUDIZIARI NEGLI STATI UNITI D’AMERICA: SPUNTI COMPARATISTICI

SOMMARIO: 1. Differenti approcci per un medesimo problema. — 2. Le civil rights actions e la law of torts: uno strumento polivalente. — 3. Le responsabilità individuali. — 4. Le responsabilità degli enti pubblici. — 5. Considerazioni comparatistiche. 1. Assumere il ruolo di accusati in un procedimento penale comporta intrinsecamente il rischio di poterne divenire vittime (1). Il problema di compensare queste ultime delle sofferenze patite, pertanto, si pone in tutti gli ordinamenti che abbiano raggiunto un sufficiente grado di civiltà giuridica. Inizialmente, tanto nell’area di civil law quanto in quella di common law, vigeva il principio dell’irresponsabilità sovrana per gli atti dannosi o ingiusti compiuti nell’esercizio di funzioni amministrative e giurisdizionali (2). Tale immunità si estendeva di regola a tutti gli organi e le persone che agissero in nome del sovrano stesso. L’intervento diretto del sovrano, che in genere aveva luogo solo nei casi maggiormente clamorosi di errore giudiziario, era rimesso alla sua discrezione. In tali casi, talvolta, veniva anche concessa un’elargizione monetaria con fondi provenienti dalle casse pubbliche (3). In seguito, i sistemi romanistici cominciarono a differenziarsi da quelli di common law. Dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi, nei principali paesi del continente europeo, si sono progressivamente messi a fuoco specifici rimedi giurisdizionali esclusivi del processo penale, grazie ai quali si è affermato il diritto a ottenere una riparazione equitativa da parte dello Stato (4), in (1) Anche al di là del caso classico di errore giudiziario, che vuole la condanna ‘‘definitiva’’ dell’innocente, le possibilità che il processo penale arrechi danni e sofferenze ingiuste all’accusato sono innumerevoli. Pur in assenza di una catalogazione esaustiva delle forme di errore giudiziario ‘‘in senso ampio’’, a tale riguardo si prenda quale punto di partenza G.D. PISAPIA, ‘‘Errore giudiziario (riparazione dell’), II) Diritto processuale penale’’, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, p. 1 s. Quanto alla fortunata espressione ‘‘vittime del processo’’, essa è stata recentemente utilizzata da R. VANNI, Nuovi profili della riparazione dell’errore giudiziario, Padova, 1992, e ripresa da L. LANZA, Le ‘‘vittime del processo’’, in Questione giustizia, 1998, p. 163. (2) Negli ordinamenti di derivazione romanistica, tale principio veniva fondato su un passo di ULPIANO, in D. 1, 3, 31, in cui si esprime la celeberrima massima per cui ‘‘princeps legibus solutus est’’; in Inghilterra, un analogo principio può essere fatto risalire perlomeno alla metà del XIII secolo, quando BRACTON lo inserisce nel suo Tractatus esprimendolo con la (peraltro ambigua) formulazione ‘‘The King can do no wrong’’. (3) Altre volte la riparazione era diretta esclusivamente a ridurre in pristino la reputazione del condannato, o dei suoi familiari, pubblicizzando opportunamente la decisione correttiva del provvedimento ingiusto. Per un noto caso risolto in tal senso, si veda D. GIUa RIATI, Gli errori giudiziari — diagnosi e rimedi, Bologna, 2 ed. 1932, p. 172 ss. (4) Sono numerose le fonti da cui trarre informazioni sulla storia degli istituti ripara-


— 1026 — origine solo a favore delle vittime di un errore giudiziario in senso stretto e più di recente anche di chi abbia comunque patito una detenzione ingiusta (5). Pur essendo oggi scomparsa l’elargizione ‘‘graziosa’’ del periodo precedente, tali rimedi non rappresentano peraltro gli unici strumenti disponibili, concorrendo con le azioni risarcitorie indirizzabili direttamente contro gli autori delle condotte cagionatrici del danno che la vittima lamenta (6). A tale riguardo, merita particolare segnalazione l’evoluzione estensiva degli istituti che mirano a responsabilizzare il soggetto giusdicente (7). Negli Stati Uniti, l’approccio normativo al problema di tutelare le vittime del processo ha avuto e ha tuttora una natura profondamente diversa. Da un lato, infatti, non è mai stato sviluppato, né per via legislativa né per via giurisprudenziale, uno strumento giuridico specifico del processo penale, analogo agli istituti creati in Italia per rendere possibile la riparazione dell’errore giudiziario o dell’ingiusta detenzione (8). Sono invece sopravvissuti, e vengono utilizzati ancora oggi, rimedi di tipo ‘‘grazioso’’ decisamente più vicini all’elargizione del sovrano di antica memoria (9). D’altro canto, sarebbe errato ritenere che ancora oggi tali strumenti aleatori siano gli unici che possano in qualche modo garantire le vittime del processo negli Stati Uniti. In effetti, hanno assunto sempre maggiore importanza alcuni rimedi di carattere generale che assolvono alla funzione risarcitoria colpendo direttamente i soggetti responsabili (10): tra di essi, oggi il principale e il più interessante è rappresentato dall’azione esperibile in base al Title 42 § 1983 U.S.C. (1996). Tale paragrafo prevede che ‘‘ogni persona che, in virtù di una legge, ordinanza, regolamento, costume o usanza di uno Stato o Territorio o del Distretto di Columbia, espone o provoca l’esposizione di un cittadino degli Stati Uniti o di un’altra persona sottoposta alla giurisdizione di questi alla perdita di diritti, privilegi o immunità garantiti dalla Costituzione, sarà responsabile nei confronti della persona danneggiata [...]’’ (11). Tale formulazione appare ictu oculi di una genericità estrema. Non si può pertanto apprezzarne appieno la portata senza tenere conto della copiosa giuritori in Italia e in Europa: in questa sede basti rimandare a G. TRANCHINA, ‘‘Riparazione alle vittime degli errori giudiziari’’, in Nov. Dig. it., XV, Torino, 1968, p. 1191 ss., a E. CAPALOZZA, Contributo allo studio dell’errore giudiziario in materia penale, Padova, 1962 e a D. GIURIATI, op. cit. (5) Grande impulso a tale più ampio riconoscimento è stato dato dall’art. 5 c. 5 CEDU, in base al quale ‘‘ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione’’. (6) Si tratta, in genere, di istituti riconducibili all’area delle azioni aquiliane, con cui dividono tutti gli elementi fondamentali. (7) In Italia, tale tendenza ha trovato espressione nella l. 13 aprile 1988 n. 117, recante ad oggetto ‘‘Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati’’. Per una pregevole analisi della normativa vigente in altri paesi europei, e in special modo in Francia e in Germania, si veda M. CAPPELLETTI, Giudici irresponsabili? - Studio comparativo sulla responsabilità dei giudici, Milano, 1988. (8) Sul processo penale negli Stati Uniti si vedano, in lingua italiana, R. GAMBINI MUSSO (a cura di), Il processo penale statunitense, Torino, 2a ed., 2001, e E. AMODIO e M. CHERIF BASSIOUNI, Il processo penale negli Stati Uniti d’America, Milano, 1988. (9) I soggetti titolari del potere di attribuire alla vittima una somma di denaro a spese dello Stato sono i più diversi, e variano a seconda delle giurisdizioni statali. Un tale ristoro può essere assegnato dal giudice che ha dichiarato l’errore come può essere votato dall’assemblea legislativa o, in maggiore analogia con il sistema in uso nell’ancien régime, essere attribuito dal Governatore o da un apposito Ente pubblico statale (generalmente il Pardon and Parole Board). Per un’ampia casistica di errori giudiziari riparati con tale strumento, si veda H.A. BEDAU-M.L. RADELET, Miscarriages of Justice in Potentially Capital Cases, in 40 Stan. L. Rev. 21 (1987). (10) Si tratta di rimedi che si situano tutti all’interno della law of torts. Tipiche, al riguardo, l’azione per false imprisonment (Rest. 2nd, Torts, Ch.2 § 35 ss.) e per malicious prosecution. (11) ‘‘Every person who, under color of any statute, ordinance, regulation, custom,


— 1027 — sprudenza, soprattutto della Corte Suprema federale, che si è formata sopra di essa. A tale esame sarà dedicata gran parte del presente lavoro: per ora preme solo sottolineare come la norma citata si presti a tutelare, almeno in potenza, una gamma di situazioni solo parzialmente sovrapponibili a quelle cui possono dare soddisfazione gli istituti continentali di natura riparatoria. L’evoluzione storica degli istituti riparatori, del tutto diversa in Italia e negli Stati Uniti, ha influenzato fortemente anche la dottrina dei due paesi. La dottrina italiana più attenta al problema posto dagli errori e dalle ingiustizie processuali si dedica per lo più all’esame degli istituti di riparazione presenti nell’ordinamento (12). Non è mai stato sviluppato, invece, un approccio sistematico teso a inquadrare i predetti rimedi nel più ampio contesto della responsabilità dello Stato per gli atti compiuti dai suoi organi. L’impostazione della dottrina statunitense, ancora una volta, ha caratteristiche decisamente diverse. La tendenza dominante, infatti, è quella di non dare considerazione specifica al problema: d’altro canto, mancando istituti dedicati al ristoro delle vittime del processo, è assente la stessa base giuridica di partenza (13). Quando il tema viene affrontato, ciò viene fatto in maniera indiscutibilmente stimolante anche per il lettore di area di civil law: proprio la mancanza di appositi istituti consente un approccio libero da pregiudizi normativi e quindi in grado di spaziare a volo d’uccello sull’intera problematica. Il metodo utilizzato in questi studi, come d’altronde avviene sovente nella dottrina nordamericana, non è di tipo giuridico tout court ma risulta dalla commistione di diversi saperi, senza escludere gli apporti della sociologia e della statistica (14). Resta da spiegare, a questo punto, per quali motivi pare interessante dedicare una particolare attenzione al tema della tutela delle vittime del processo negli Stati Uniti d’America, e all’utilizzo a tal fine delle civil rights actions che il Title 42 § 1983 U.S.C. assicura ai soggetti privati di un diritto costituzionalmente garantito. L’obiettivo preso di mira con l’analisi comparatistica di un sistema così diverso dal nostro non è tanto di mostrarne la maggiore o minore preferibilità, quanto piuttosto di trarne spunti per sostenere un approccio più elastico alla tematica delle ingiustizie processuali, in grado di far tesoro delle relazioni che sussistono con altre linee di sviluppo dell’ordinamento, anche in settori apparentemente molto distanti. E ciò allo scopo di accompagnare un’evoluzione del sistema che, pur restando nel solco della tradizione continentale ed italiana, sia in grado di rispondere compiutamente a quelle esigenze di giustizia sostanziale, provenienti dalle vittime del processo, che ancora oggi non sembrano trovare piena soddisfazione. 2.

Nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’ordinamento italiano era ancora privo

or usage, of any State or Territory or the District of Columbia, subjects, or causes to be subjected, any citizen of the United States or other person within the jurisdiction thereof to the deprivation of any rights, privileges, or immunities secured by the Constitution and laws, shall be liable to the party injured [...]’’. (12) I quali, come noto, sono disciplinati dalla già citata l. 13 aprile 1988 n. 117 e dagli artt. 314-315 e 643 ss. c.p.p. Per un’esaustiva elencazione della bibliografia italiana sull’argomento, attesa la natura comparatistica del presente lavoro, preferiamo rimandare a quella riportata da L. SCOMPARIN, Riparazione dell’errore giudiziario, in Dig. disc. pen., XII, Torino, 1992. (13) Gli istituti di natura graziosa difficilmente attirano l’attenzione dei giuristi, anche di common law, che nella grande discrezionalità di cui gode l’organo munito del relativo potere vedono un significativo impedimento ad affrontare l’argomento secondo canoni tipicamente giuridici. Per una breve storia dell’introduzione del pardoning power negli Stati Uniti si veda comunque A.M. STEINER, Remission of Guilt or Removal of Punishment? The Effects of A Presidential Pardon, in 46 Emory L. Rev. 959 (1997). (14) Emblematico a tale riguardo è il lavoro di C.R. HUFF, A. RATTNER e E. SAGARIN, Guilty Until Proved Innocent: Wrongful Convictions and Public Policy, in 32 Crime and Delinquency 518 (1986).


— 1028 — di istituti diretti alla riparazione degli errori giudiziari, Francesco Carrara elaborava il Foglio di lavoro per la Commissione sulla riforma carceraria (15). In tale contesto, riprendendo una tesi a lui cara, Carrara sosteneva che chiunque fosse stato detenuto, e quindi prosciolto dalle accuse, dovesse avere il diritto di ottenere un’indennità dallo Stato. Dovendo però avanzare una concreta proposta di riforma, egli desistette dal sostenere la realizzazione della propria tesi: ciò soprattutto per evitare di favorire soggetti la cui innocenza, nonostante il proscioglimento in istruttoria o l’assoluzione in seguito al dibattimento, non fosse risultata con assoluta certezza dal processo. La preoccupazione fondamentale, comunque, era quella del peso eccessivo che tale riforma avrebbe comportato per le casse dello Stato (16). Tale vicenda, a nostro avviso, è alquanto significativa: mostra infatti alcune preoccupazioni che avranno durature conseguenze sugli istituti riparatori propri dei sistemi di civil law, istituti che stavano nascendo giusto allora per evoluzione dai rimedi preesistenti ancora tipici dell’ancien régime (17). Tali nuovi strumenti di riparazione, riconoscendo istituzionalmente una forma di responsabilità pubblica nell’amministrazione della giustizia, minacciavano di rivoluzionare il tradizionale rapporto tra l’autorità e il singolo, nonché di introdurre un notevole onere finanziario per lo Stato. Di qui la delimitazione della loro operatività ai casi più gravi e più manifesti di vittimizzazione del cittadino ad opera della macchina processuale penale, delimitazione così drastica che per diversi decenni si sarebbe risolta in una sostanziale inoperatività degli istituti previsti dall’ordinamento e in un’enorme cautela nell’avanzare progetti di riforma, pur di fronte alla progressiva presa di coscienza dell’iniquità della situazione normativa. Negli stessi anni in cui Carrara scriveva il Foglio di lavoro, il quarantaduesimo Congresso degli Stati Uniti d’America elaborava una serie di provvedimenti volti ad assicurare il controllo della Federazione su eventuali nuove tendenze separatiste da parte di alcuni Stati dell’Unione. In particolare, nel 1868 il XIV Emendamento alla Costituzione federale, per mezzo delle clausole del due process e dell’equal protection of the laws, aveva predisposto un potente strumento in grado di estendere le garanzie previste dal Bill of Rights all’interno dei singoli ordinamenti statali (18). È in questo contesto che va inquadrato il Civil Rights Act del 1871, all’interno del quale veniva prevista la già ricordata disposizione normativa oggi codificata al Title 42 § 1983 U.S.C.: lo scopo ultimo perseguito da tali norme, in effetti, era di rafforzare e rendere pienamente efficace il XIV Emendamento (19). La nascita di una nuova cause of action, peraltro, si inseriva pienamente nella law of torts vigente, dando origine alla nuova categoria dei constitutional torts (20). L’azione che ne deriva, di conse(15) Pubblicato per la prima volta a Lucca nel 1872 e quindi inserito in Progresso e regresso del giure criminale nel nuovo Regno d’Italia, Lucca, 1874. (16) Commentano il Foglio di lavoro, con valutazioni divergenti, D. GIURIATI, op. cit., p. 223 ss. e G. DI CHIARA, Attualità del pensiero di Francesco Carrara in tema di riparazione dell’ingiusto ‘‘carcere preventivo’’, in questa Rivista, 1988, p. 1412. Solo nel 1913 la riparazione degli errori giudiziari, riconosciuti in sede di revisione, entrerà a far parte dell’ordinamento italiano. (17) Nella seconda metà dell’Ottocento diversi paesi dell’Europa continentale, tra cui Svezia, Danimarca e Portogallo e infine la Germania (nel 1898) si dotarono di strumenti volti a garantire la riparazione almeno dei casi più gravi di errore giudiziario. D. GIURIATI, op. cit., p. 271 ss. ci informa che il dibattito politico in Germania verteva su temi del tutto analoghi a quelli italiani. (18) Come noto, bisognerà attendere gli anni ’60 del Novecento perché la Supreme Court realizzasse appieno, per mezzo della c.d. due process revolution, le potenzialità espresse dal XIV Emendamento. Vedremo presto come anche il percorso giurisprudenziale teso all’implementazione del Title 42 § 1983 U.S.C. sia stato notevolmente lento e difficoltoso. (19) In senso conforme la giurisprudenza della Corte Suprema, per cui si veda Tenney v. Brandhove, 341 US 367, 370 (1951). L’opinione è del Justice Frankfurter. (20) Sulle origini e sullo sviluppo delle civil rights actions, con riferimento al loro


— 1029 — guenza, mira a un vero e proprio risarcimento del danno, con tutte le importanti conseguenze del caso, sia in punto di onere probatorio con riguardo all’elemento soggettivo della fault sia in punto di richiedibilità dei punitive damages (21). La nuova azione, prestandosi a essere utilizzata ogni qual volta si fosse in presenza della privazione di un diritto garantito dalla Costituzione, aveva chiaramente un obiettivo immediato più ampio e decentrato rispetto al tema del risarcimento alle ‘‘vittime del processo’’. Eppure, oggi essa è divenuta lo strumento principale con cui l’ordinamento statunitense risponde alle loro esigenze di giustizia. Una ingente quota dei ‘‘diritti, privilegi e immunità’’ che la Costituzione federale assicura ai cittadini degli Stati Uniti, in effetti, è rivolta a tutelare chi è sottoposto a procedimento penale, garantendo che la procedura mantenga un adeguato livello di fairness. La nascita dei constitutional torts, di conseguenza, corrisponde in questa area alla nascita della possibilità di agire civilmente contro chi abbia operato in modo tale da deprivare l’accusato delle garanzie previste dal Bill of Rights. Altri importanti elementi di carattere generale devono essere tenuti in considerazione prima di scendere a un livello di maggiore analisi. Innanzitutto, il diritto al risarcimento sussiste per il fatto stesso della deprivazione di una garanzia di livello costituzionale, indipendentemente dalla posteriore sussistenza di un’erronea condanna. Quindi, la gamma di fattispecie potenzialmente sanzionabili è, per questo aspetto, ben più ampia e variegata di quella cui sono applicabili gli istituti europei che disciplinano la riparazione dell’errore giudiziario. In secondo luogo, l’impostazione delle garanzie costituzionali e dell’intera common law nordamericana fa sì che l’interesse delle Corti chiamate a provvedere in merito alle civil rights actions esperite per fatti concernenti l’amministrazione della giustizia sia principalmente focalizzato sulla sussistenza di vizi di procedura, mentre trascura decisamente l’aspetto sostanziale, cioè l’effettiva innocenza o meno dell’imputato e la certezza dei criteri utilizzati per determinarla. 3. Le civil rights actions fondate sulla lamentata privazione di diritti costituzionalmente garantiti dovrebbero poter essere dirette, stando alla norma generale prevista dal Title 42 § 1983 U.S.C., contro ‘‘ogni persona’’ (22). Se di tale previsione fosse fatta un’applicazione letterale, per le violazioni commesse all’interno del processo penale sarebbero direttamente responsabili verso l’accusato giudici, giurati, prosecutors, testimoni, poliziotti e quanti altri soggetti nella fattispecie concreta avessero avuto un ruolo attivo e determinante. La realtà è però complicata dall’entrata in gioco del fattore giurisprudenziale. Il punto cruciale riguarda la titolarità, in capo a determinati soggetti, di immunities variamente giustificate che possono arrivare a eliderne totalmente (absolute immunity) o parzialmente (qualified immunity) la responsabilità. L’origine di tali immunities viene fatta risalire dall’unanime giurisprudenza della Corte Suprema direttamente alla common law anteriore alla novella statutaria del 1871. Con altrettanta costanza, la Corte ha sempre ribadito successo a livello statale, è interessante il lavoro di R.P. SENTELL, Local Government and Constitutional Torts: In the Georgia Courts, in 87 Geo. L.J., 1122 (1999). (21) Sull’odierna law of torts negli Stati Uniti si vedano per esempio, a livello istituzionale, M.F. GRADY, Cases and Materials on Torts, St. Paul, 1994, e V.R. JOHNSON e A. GUNN, Studies in American Tort Law, Columbia, 1986. Di estrema utilità è anche la consultazione del Restatement of the Law, 2nd e 3rd, nella sezione dedicata per l’appunto ai Torts. Per la somma che si può ottenere in gravi casi di errore giudiziario, riprendiamo da HUFF, RATTNER e SAGARIN, op. cit., la notizia per cui a Isidore Zimmerman, detenuta ingiustamente per 24 anni di cui 9 mesi nel braccio della morte, fu attribuita la somma di 1.000.000 di dollari. Altrettanto fu assegnato a Juan Venegas, mentre Charles Daniels ottenne in sede transattiva 600.000 dollari. (22) Nell’originale ‘‘Every person’’. Tale locuzione, come vedremo appresso, è stata ed è al centro di rilevantissime dispute interpretative.


— 1030 — che in tale innovazione legislativa non deve e non può rinvenirsi l’intento di cancellare le preesistenti immunities previste dalla common law. La formulazione letterale della norma, pertanto, viene dalla Corte interpretata in senso pesantemente restrittivo, teso a confermare tutte le immunities preesistenti al 1871. Di fronte a un’istanza di risarcimento ex Title 42 § 1983 U.S.C., pertanto, il giudice adito dovrà sempre verificare l’eventuale sussistenza di un’immunity, in capo al soggetto convenuto, alla luce della common law anteriore al 1871. Ciò, perlomeno, volendo seguire fedelmente le argomentazioni più volte riaffermate dalla Corte. La situazione normativa, però, è resa ancora più complessa dal fatto che, come è naturale attendersi, di fronte ai singoli cases portati innanzi alla loro attenzione le corti non dispongono sempre di un corpus giurisprudenziale in grado di chiarire in maniera univoca quale fosse la common law sul punto specifico prima del 1871. Di fatto, quindi, esse e soprattutto la Corte Suprema creano diritto ex nihilo determinando la sussistenza e l’estensione delle immunities di cui via via riconoscono l’esistenza. La materia delle immunities si regge ancor oggi su una trilogia di casi decisi tra il 1951 e il 1975. Ciò non toglie, però, che pur in assenza di espliciti overrulings gli sviluppi più recenti della giurisprudenza della Corte Suprema abbiano apportato elementi nuovi e di notevole interesse. L’importanza di Tenney v. Brandhove (23), il primo dei casi in cui è stata affermata la persistenza del regime delle immunities dettate dalla common law anche posteriormente al Civil Rights Act del 1871, resta comunque ancora grande. Si tratta, in realtà, di un caso il cui oggetto è esterno al processo penale, in quanto concerne la violazione dei diritti costituzionali di free speech e di petition ad opera di una Commissione parlamentare d’inchiesta dello Stato della California nota con il nome di Tenney Committee, istituita, nel clima politico del periodo maccartista, allo scopo di indagare sulle Un-American Activities dei cittadini dello Stato, specialmente se aspiranti a cariche pubbliche. La Corte, prescindendo dalla sussistenza di un’effettiva violazione dei diritti costituzionali di Brandhove, riconosce un’absolute immunity in capo ai titolari del potere legislativo statale (24). Vi è un punto nodale in Tenney, però, che è necessario avere bene in mente per comprendere gli sviluppi successivi delle civil rights actions come mezzo di tutela delle vittime del processo penale. La Corte, nel rilevare la sussistenza dell’immunità parlamentare per gli atti compiuti nel caso in esame, ne riscontra il fondamento nella storia politico-istituzionale dell’Inghilterra (25) prima e degli Stati Uniti poi, risolto infine nell’incorporazione di tale principio nella Costituzione federale e in quelle degli Stati fondatori della Federazione (26). Se il ragionamento della Corte si fosse concluso a questo punto, rimarcando la contrarietà alla Costituzione di un’interpretazione letterale della dizione ‘‘every person’’ del Title 42 § 1983 U.S.C. (27) tale da ricomprendervi anche i membri del potere legislativo statale, Tenney non avrebbe potuto porsi a fondamento di un filone giurisprudenziale teso a riconoscere una serie di immunities fondate esclusivamente sulla common law anteriore al 1871. La verità è che in Tenney la Corte vuole spingersi ben più in là: a tale scopo ammette, e non (23) Tenney v. Brandove, 341 US 367 (1951). (24) Recentemente, la Corte ha riconosciuto la medesima immunità anche ai membri del potere ‘‘legislativo’’ di contea e comunale (Bogan et al. v. Scott-Harris, No. 96-1569, 1998). Tale immunità, peraltro, è riconosciuta solo con riguardo agli atti che concretano in effetti esplicazione di tale potere. (25) Ci si riferisce in particolare al contrasto tra il re Carlo I e il Parlamento, che ebbe il suo culmine tra il 1640 e il 1642 e che sfociò nella guerra civile. (26) L’art. 1 c.6 della Costituzione federale prevede che ‘‘[...] di ogni discorso o dibattito in ciascuna delle Camere, [i Senatori e i deputati] non saranno tenuti a rispondere in alcun altro luogo’’. In Tenney, p. 374-375, la Corte cita simili disposizioni contenute in diverse Costituzioni statali. (27) Per la precisione, ai tempi della decisione Tenney v. Brandhove, cit., la disposizione del Civil Rights Act del 1871 era collocata al Title 8 § 43 U.S.C. II suo contenuto era comunque pressoché identico all’attuale.


— 1031 — concede, che una deliberazione in tal senso del Congresso potesse essere costituzionalmente accettabile per indagare se la sua effettiva volontà fosse quella di abrogare tacitamente la legislative immunity di common law. Quindi esclude che il Congresso del 1871 intendesse conseguire tale effetto in base alla considerazione per cui la politica del tempo era talmente orientata ad espandere le libertà e i poteri degli organi legislativi che una simile innovazione non sarebbe stata possibile senza un acceso dibattito, di cui però non si trova traccia nei lavori parlamentari precedenti il Civil Rights Act. Sulle conseguenze di una tale impostazione del problema avremo modo di tornare. Emerge fin d’ora, comunque, come il criterio interpretativo basato sull’analisi della volontà storica del legislatore assurga alla dignità di guida assoluta, sbarrando la strada a ogni possibile interpretazione evolutiva, anche se fondata sul tenore letterale della norma. Con Pierson v. Ray (28) entriamo invece nel vivo dell’argomento che qui ci interessa: l’utilizzo delle civil rights actions come mezzo di tutela delle vittime del processo penale. I ricorrenti, un gruppo di religiosi afro-americani, erano stati arrestati e quindi condannati per essere entrati in un’area riservata ai bianchi all’interno di una stazione di autobus. I ricorsi presentati contro la condanna avevano portato alla caduta delle imputazioni, e quindi i ricorrenti avevano agito ai sensi del Title 42 § 1983 U.S.C. contro i poliziotti che avevano operato l’arresto e contro il giudice che li aveva condannati. In Pierson, dunque, la Corte si trova a dover decidere due differenti questioni, e anche questa volta si dimostra centrale per la loro soluzione la vigenza di immunities di common law preesistenti al Civil Rights Act del 1871. Ricalcando il ragionamento svolto in Tenney, la Corte asserisce che anche i giudici godono di un’absolute immunity per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni (il giudice sarebbe quindi coperto dall’immunità anche se il ricorrente sostenesse la presenza di malice o corruption nel suo agire) e che l’assenza di un esplicito proposito abrogativo nella novella del 1871 deve farne dedurre la sopravvivenza anche contro il tenore letterale della norma. Il fondamento dell’immunity, in questo caso, non trova però ragione in norme di rango costituzionale, ma semplicemente in una dottrina di common law solidamente attestata, e a suo tempo fatta propria dalla Corte Suprema nel caso Bradley (29). Per quanto vigorosa, l’opposizione del giudice Douglas resta isolata (30); la strada verso una responsabilizzazione del giudice per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tipiche resta di conseguenza preclusa (31). Passando a esaminare la responsabilità dei poliziotti, invece, la Corte osserva come la common law non abbia mai garantito loro un’absolute immunity. In compenso, riconosce la (28) Pierson v. Ray, 386 US 547 (1967). L’opinione di maggioranza è redatta dal Chief Justice Warren. (29) Bradley v. Fischer, 13 Wall. 335 (1872); in Bradley, in ogni modo, l’azione non era fondata su alcuno dei Civil Rights Acts successivi alla Guerra Civile. (30) Pierson v. Ray, 386 US 547, 564 (DOUGLAS, dissenting): ‘‘Lo scopo della norma era di costituire un rimedio per la privazione dei civil rights. Era risaputo che certi membri della magistratura giudicante erano strumenti di oppressione ed erano in parte responsabili dei torti che dovevano essere rimediati. La serie di casi che perviene a questa Corte mostra che una simile situazione ora si verifica in alcuni Stati. Alcune Corti statali sono state lo strumento per sopprimere i civil rights. I metodi possono essere cambiati; i mezzi possono essere diventati più sottili; ma i torti che necessitano rimedio esistono ancora’’. Il giudice Douglas era stato anche l’unico a dissentire, sedici anni prima, dall’opinione della maggioranza in Tenney. Il suo dissenso in Pierson è comunque molto più forte poiché contesta sia la verità storica dell’asserzione per cui i deputati del 1871 non si sarebbero posti il problema dell’abrogazione delle preesistenti judicial immunities sia l’opportunità di mantenere una garanzia cosi forte da comprendere anche i casi in cui la violazione di diritti costituzionali sia operata dal giudice dolosamente. (31) L’unica apertura della Corte Suprema riguarda quei casi, che esulano dal nostro interesse, in cui il giudice abbia agito in veste di pubblico ufficiale ma al di fuori delle proprie funzioni giurisdizionali. In Forrester v. White, 484 US 219 (1988), è stata affermata la responsabilità civile ex Title 42 § 1983 U.S.C. per un giudice che aveva destituito dall’inca-


— 1032 — possibilità di sollevare una good faith and probable cause defense sulla traccia di quella disponibile in base alla common law per respingere le tradizionali tort actions di false arrest e false imprisonment. La Corte in Pierson non parla ancora, a questo riguardo, di qualified immunity, ma è chiaro che si è tracciato qui il cammino che condurrà alla ampia articolazione casistica delle immunities riconosciute che sarà il tratto distintivo della giurisprudenza seguente (32). Il terzo leading case, Imbler v. Pachtman (33), concerne invece la responsabilità del prosecutor. La giurisprudenza è a questo punto abbastanza consolidata da permettere alla Corte di generalizzare le argomentazioni fondate sulla preesistenza di immunities originate nella common law precedente al 1871. In realtà la questione è resa particolarmente delicata dal fatto che il prosecutor è un membro dell’executive branch dell’amministrazione statale: sotto tale aspetto è molto più vicino a un poliziotto che a un giudice. La Corte parte dall’assunto per cui secondo la common law il prosecutor era totalmente immune dalle azioni di malicious prosecution e defamation e, notando un’analogia dell’interesse tutelato in tali fattispecie rispetto a quello protetto dall’immunità riservata ai membri del potere giudiziario, ne ricava la sussistenza di una quasi-judicial immunity a favore dello stesso prosecutor. In Imbler, le considerazioni sugli interessi tutelati sostituiscono nella seconda parte dell’argomentazione l’indagine storica sul reale intento dei legislatori del 1871, tema che viene appena accennato nella concurring opinion del giudice White (34) ma completamente ignorato dalla maggioranza. La Corte sostiene, infatti, che l’absolute immunity deve essere estesa anche rispetto alle civil rights actions in quanto anche in tali casi una soluzione contaria comporterebbe il grave pericolo di impedire al prosecutor il sereno esercizio delle proprie funzioni. In questo senso Imbler rappresenta il punto di massimo vigore dell’ondata favorevole al riconoscimento delle immunities in materia di civil rights actions: sembra che semplici considerazioni di public policy, unite alla sussistenza di una qualche forma di immunity nella common law, possano essere in grado di giustificarlo. D’altro canto, la Corte si premura anche di precisare che il riconoscimento di un’absolute immunity in capo al prosecutor è limitato, in quanto si estende solo alle attività intimamente associate con la judicial phase del processo, e in particolare concerne quelle consistenti nell’esercitare l’azione penale e nel sostenere le ragioni dell’accusa in giudizio (35). Viceversa, la Corte non decide, in quanto non rilevanti nel caso di specie, le questioni della responsabilità del prosecutor per attività amministrative o investigative. Così facendo lascia aperto almeno uno spiraglio per assimilare la figura del prosecutor investigante a quella del poliziotto delineata in Pierson, e per limitare in tale circostanza la tutela concessagli ad una qualified immunity (36). La costruzione di una serie di immunities non espressamente previste dal testo del Title 42 § 1983 U.S.C. sembra quindi contenere in modo rilevante la portata di tale norma e il suo utilizzo come strumento di tutela delle vittime del processo; in assenza di espliciti (ed rico una probation officer in quanto donna, privandola così delle garanzie offerte dall’equal protection of the laws clause. (32) Il concetto di qualified immunity verrà poi precisato in due casi che esulano dal nostro campo di interesse: Scheuer v. Rhodes, 415 US 232 (1974) e Wood v. Strickland, 420 US 308 (1975). (33) Imbler v. Pachtman, 409 US 424 (1975). L’opinione della maggioranza è redatta dal giudice POWELL. (34) Con cui si trovano d’accordo altri due giudici della Corte Suprema. (35) La concurring opinion del giudice White vorrebbe restringere ulteriormente il campo di tutela concesso al prosecutor, escludendo dall’ambito di operatività dell’immunity le fattispecie di soppressione di elementi probatori. (36) Sull’applicazione del concetto di qualified immunity al nostro campo di interesse e sul suo utilizzo a livello di corti di Circuito, si veda H. MEEKER, ‘‘Clearly Established’’ Law in Qualified Immunity Analysis for Civil Rights Actions in the Tenth Circuit, in 35 Washburn L.J., 79 (1995).


— 1033 — estremamente improbabili anche in futuro) overrulings di Tenney, Pierson e Imbler tale affermazione non può essere smentita. Eppure non si possono trascurare alcune recenti pronunce della Corte Suprema che vanno nella direzione di allargare gli spiragli lasciati aperti dai tre leading cases citati. Alcune di esse costruiscono, sia pur timidamente, talune eccezioni al principio della judicial immunity. In particolare, viene oggi riconosciuto dalla Corte Suprema che di tale immunità non può giovarsi il giudice che compia un’azione dannosa di natura non giudiziaria oppure una di natura giudiziaria, ma in assenza del relativo potere (37). La situazione, comunque, non si è ancora stabilizzata: non è del tutto chiaro, infatti, se debbano considerarsi azioni di natura giudiziaria o meno i provvedimenti abnormi emessi dal giudice, se compiuti all’interno di un processo per cui il giudice è competente (38). In ogni caso, tali eccezioni non sono a tutt’oggi ancora in grado di garantire una sia pur minima tutela alle vittime del processo, in quanto coprono comportamenti eccezionali o marginali, e per lo più diretti verso soggetti diversi dall’imputato (39). Di maggiore importanza e interesse sono invece altre tendenze, concernenti casi in cui il convenuto non è un giudice: innanzitutto, quella che attribuisce al convenuto l’onere di provare la sussistenza, secondo la common law anteriore al 1871, di una consolidata immunity a suo favore; in secondo luogo, quella che consolida l’approccio funzionale già manifestatosi in Imbler, per cui ciò che rileva non è la sussistenza di un’immunità per un dato soggetto quanto per una data funzione, senza che rilevi chi la svolga (40). Inoltre, viene a piena voce affermato, fugando gli equivoci ingenerati da Imbler, che la Corte non può (e non vuole) stabilire nuove immunities fondate su considerazioni di public policy, ma che il criterio da seguire è solo quello dell’analisi storica dell’intento originario del legislatore del 1871 (41). Viene altresì modificato l’ambito della tutela offerta dalla qualified immunity, stabilendosi per il suo superamento non già il ricorso a criteri soggettivi (richiedendo cioè di provare che l’agente ha inteso arrecare danno) bensì oggettivi (essendo sufficiente dimostrare che l’agente ha violato diritti stabiliti dalla Costituzione o dalla legge di cui una persona ragionevole sarebbe dovuta essere a conoscenza) (42). (37) Tali eccezioni sono state stabilite in Stump v. Sparkman, 435 US 349 (1978) e in Forrester v. White, cit. (38) Si veda in proposito Mireles v. Waco, 502 US 9 (1991), decisa con un summary reversal nonostante il dissenso sul merito del giudice Stevens e quello tecnico, dovuto proprio alla scelta di decidere senza briefs e arguments, del giudice Scalia. Waco era un public defender che aveva omesso di presentarsi in udienza davanti al giudice Mireles. Questi, seccato, aveva allora ordinato alla polizia di condurlo da lui con la forza. Il punto cruciale (su cui la maggioranza sorvola: STEVENS, dissenting, 502 US 9, 15) è se, ammesso che il giudice avesse ordinato, o implicitamente consentito, che la polizia malmenasse pesantemente l’avvocato, egli dovesse o meno essere tenuto responsabile. La Corte si occupa solo dell’ordine di arresto in quanto tale e, considerandolo una judicial action, ritiene immune Mireles. (39) Alla luce di quanto sopra visto, appare eccessivamente ottimistica la visione di M. CAPPELLETTI, op. cit., pp. 63-64, per cui ‘‘il risultato pratico nei paesi di Common Law è [...] assai simile a quello che abbiamo trovato nei più tradizionali sistemi di Civil Law’’, dei quali viene preso come esempio paradigmatico l’Italia pre-referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Negli Stati Uniti resta ancora salda, infatti, l’immunità anche per quei casi in cui l’attore alleghi un comportamento viziato da malice o corruption. (40) Tale criterio porta sovente, come vedremo, al restringimento del campo d’azione delle immunità; a volte conduce invece al suo ampliamento. Ad esempio, Briscoe v. LaHue, 460 US 325 (1983), afferma che un poliziotto, cui nell’esercizio delle sue funzioni tipiche (quelle d’indagine) è assegnata solo una qualified immunity, allorché durante il trial assume le vesti di testimone gode dell’absolute immunity riservata a tutti i testimoni. Si tratta di una decisione presa con una maggioranza di 6 a 3. (41) Vedi specialmente Malley v. Briggs, 475 US 335, 343 (1986): ‘‘Noi sottolineiamo di nuovo che il nostro ruolo è interpretare la volontà del Congresso nell’emanare la norma 1983, non fare una scelta politica a ruota libera, e che noi siamo guidati nell’interpretare la volontà del Congresso dalla tradizione di common law’’. (42) Si veda al riguardo Harlow v. Fitzgerald, 457 US 800, 818 (1982).


— 1034 — Da queste premesse si arriva a quelle che sono con ogni probabilità le decisioni più interessanti degli ultimi anni, Burns (43) e Buckley (44). Esplicitando ciò che era rimasto in ombra in Imbler, vengono individuate alcune fattispecie nelle quali il prosecutor deve rinunciare all’immunità assoluta. In Burns, decisa nel 1991, la Corte stabilisce che allorquando, nella fase investigativa precedente all’arresto, il prosecutor dia alla polizia un parere su una questione di diritto rilevante per le indagini, egli gode solo di una qualified immunity. Burns racchiude la summa delle nuove tendenze sopra evidenziate, che vengono tutte riprese per trarne argomentazioni favorevoli alla decisione, e ne rappresenta il primo importante risultato. In Buckley, di due anni posteriore, si affronta una questione già presente da Imbler in poi, ma mai però venuta all’attenzione della Corte, stabilendo, in ossequio al principio funzionale, che per le attività investigative, tipiche della polizia, il prosecutor gode solo di una qualified immunity. Inoltre, esaminando un’ulteriore questione, la Corte in Buckley distingue rispetto alle dichiarazioni rilasciate in court, per le quali ogni soggetto gode di immunità assoluta, e stabilisce la responsabilità del prosecutor per le dichiarazioni rilasciate alla stampa, anche se successive alla formazione del grand jury. 4. Se le elevate potenzialità espresse dal Title 42 § 1983 U.S.C. quanto alla tutela delle vittime del processo sono indubbiamente limitate in modo pesante dalla rete delle immunità via via riconosciute dalla Corte Suprema, tuttavia si è sviluppato in seno alla giurisprudenza un diverso orientamento che, sempre prendendo le mosse da un’interpretazione della parte iniziale della norma, ne ha allargato notevolmente l’efficacia. Si tratta di una giurisprudenza nata ancora una volta a cavallo tra il processo penale e un diverso ambito di utilizzo delle civil rights actions: e cioè quello dei danni cagionati, in violazione di diritti costituzionali, da atti compiuti nel corso di un procedimento amministrativo. Orbene, il problema che la Corte Suprema ha a più riprese dovuto affrontare è il seguente: nella dizione ‘‘every person’’ con cui si apre la norma può intendersi compreso l’Ente pubblico cui fa capo il procedimento che ha cagionato il danno? Solo ove a tale domanda possa rispondersi affermativamente, si porranno i successivi problemi di verificare se e in che modo l’Ente sia comunque coperto, in tutto o in parte, da superstiti immunities di common law del tipo di quelle che abbiamo visto operare a favore di diverse categorie di individui e di determinare il criterio soggettivo di imputazione dell’illecito all’Ente medesimo. Fino al 1978, comunque, la risposta al primo quesito posto è stata recisamente negativa. Nel leading case Monroe v. Pape (45), in particolare, la Corte era stata netta nel negare che alla responsabilità dei poliziotti che avevano eseguito un arresto in violazione dei diritti costituzionali di un cittadino potesse aggiungersi quella dell’amministrazione comunale da cui dipendevano. Il criterio adottato dalla Corte per giungere a tale soluzione si fondava, ancora una volta, sull’esame dell’intento originario del legislatore. In effetti, nel corso dei lavori parlamentari il senatore Sherman presentò un emendamento volto a prevedere esplicitamente la responsabilità degli enti municipali per i danni arrecati a persone o cose da persone ‘‘rivoltosamente e tumultuosamente riunite’’ (46). L’emendamento Sherman venne respinto dopo un’accurata discussione che, secondo la Corte, dimostrava come il Congresso temesse di violare la Costituzione approvando una tale norma. D’altro canto, per la common law originaria, era pienamente riconosciuta solo una sovereign immunity per gli Stati e gli Enti di loro diretta emanazione; i rapporti tra questa e le municipal immunities erano sempre rimasti al(43) Burns v. Reed, 500 US 478 (1991). L’opinione della maggioranza è redatta dal giudice White. (44) Buckley v. Fitzsimmons, 509 US 259 (1993). L’opinione della maggioranza è redatta dal giudice Stevens. (45) Monroe v. Pape, 365 US 167 (1961). L’opinione di maggioranza è redatta dal giudice Douglas. Sul punto che qui interessa, comunque, la Corte si dimostrò unanime. (46) Il testo dell’emendamento Sherman è integralmente riportato in appendice alla sentenza Monell v. N.Y.C. Dept. of Social Services (vedi infra).


— 1035 — quanto oscuri (47). Nel 1978, però, una rivoluzionaria sentenza della Corte suprema (48) doveva dare al problema una soluzione del tutto diversa e cambiare radicalmente i rapporti tra cittadino ed Enti pubblici. In Monell v. N.Y.C. Dept. of Social Services (49), la Corte ebbe il coraggio di rimeditare da cima a fondo la questione e dichiarare espressamente overruled Monroe nella parte in cui asseriva che gli Enti pubblici locali non dovessero essere considerate persons agli effetti dell’esperibilità verso di loro di azioni ex § 1983 (50). Da una rilettura dei lavori preparatori, in effetti, emerge che l’emendamento Sherman non era tanto diretto alla parte della legge che sarebbe poi diventata il Title 42 § 1983 U.S.C., ma a quella successiva volta esclusivamente alla repressione delle attività del Ku Klux Klan e di altri movimenti violenti favorevoli alla segregazione razziale. Di conseguenza, la sua bocciatura da parte del Congresso non poteva in alcun modo fornire elementi utili per determinare l’intento originario del legislatore (51). La sussistenza, in capo agli Enti pubblici locali, di un’immunity sopravvissuta al Ku Klux Klan Act del 1871 non è invece approfondita dalla Corte in Monell in quanto tale questione non è venuta all’attenzione delle parti o dei giudici di istanza inferiore. Però, la Corte statuisce egualmente che essi non possono contare su un’absolute immunity. Resta impregiudicata la questione se possa essere loro riconosciuta, in base alla common law anteriore al 1871, una qualified immunity. Ma, al di là dell’operazione tecnica compiuta dalla Corte per giustificare la propria presa di posizione, qui interessa rilevare l’effetto che Monell ha avuto negli anni successivi. Il fiorire delle azioni intentate contro amministrazioni pubbliche di vario tipo e livello è stato rapido e diffuso; d’altro canto, la Corte Suprema ha creato e tenuto ben saldi numerosi limiti, i primi dei quali sono stati individuati proprio in Monell, alla responsabilità degli Enti pubblici e dei loro organi quanto alle violazioni di constitutional rights. Interessante, specialmente per l’osservatore di civil law, è notare come la natura del procedimento (penale in Monroe e amministrativo in Monell) non costituisca motivo sufficiente per un’operazione di distinguishing. In altre parole, la Corte dà per scontata l’assoluta identità di disciplina tra i due tipi di procedimento: con l’esplicito overruling di Monroe, Monell diventa automaticamente applicabile anche agli atti del processo penale. Non è difficile cogliere quali siano le enormi potenzialità discendenti da Monell nel campo del risarcimento delle vittime del processo: coinvolgendo direttamente le amministrazioni federali, statali, di contea e comunali da cui dipendono giudici, public prosecutors, poliziotti e altri pubblici ufficiali che risultino responsabili di uno sviamento processuale e del danno conseguente, si potrebbe offrire alle vittime una tutela più piena e libera da preoccupazioni inerenti la solvibilità della persona fisica responsabile, sul modello delle azioni di civil law che dirigono verso lo Stato la pretesa riparatoria della vittima del processo. Tutto ciò, (47) Al riguardo si veda per esempio V.R. JOHNSON e A. GUNN, op. cit., p. 777. (48) R. PERRY SENTELL, op. cit., definisce la sentenza ‘‘legendary setting’’. L’autore ama peraltro i toni enfatici, visto che la norma contenuta nel Title 42 § 1983 U.S.C. è per lui un’‘‘epic declaration’’. (49) Monell v. N.Y.C. Dept. of Social Services, 436 US 658 (1978). L’opinione della maggioranza è redatta dal giudice Brennan. Sulla sentenza e sulle sue conseguenze la bibliografia è molto vasta. Oltre a R. PERRY SENTELL, op. cit., si veda per esempio C.B. WHITMAN, Government Responsibility for Constitutional Torts, in 85 Michigan Law Review 225 (1986). (50) La gravità di una tale decisione deve essere messa in relazione con il costante rilievo dato dalla Corte all’importanza del principio dello ‘‘stare decisis’’. Tale rilievo è bene espresso dall’affermazione del giudice Brandeis in Burnet v. Colorado Oil & Gas Co., 285 US 393, 407 (1932), secondo cui ‘‘Stare decisis è di solito la scelta più saggia, perché nella maggior parte delle situazioni è più importante che la norma applicabile sia ben stabilita che essa sia stabilita bene’’. (51) Pare pertanto contraddittorio che proprio in Monell la Corte utilizzi nuovamente la bocciatura dello Sherman amendment per argomentare, invero succintamente, l’insostenibilità della respondeat superior theory. (Monell, 436 US 693). Ma su questo, vedi infra.


— 1036 — però, mantenendo i vantaggi dell’impostazione tradizionale di common law, slegata da ogni preoccupazione relativa alla natura dell’errore giudiziario risarcibile e del danno conseguente, alla definitività della condanna e al meccanismo della revisione processuale. Tale risultato, però, nonostante Monell non è ancora stato conseguito dall’ordinamento federale statunitense. A tutt’oggi sussistono diversi limiti normativi, fondati sugli assunti di Monell e sulla successiva giurisprudenza della Corte Suprema, che frenano l’ulteriore sviluppo di questa interessante forma di tutela per le vittime del processo. D’altro canto, vi sono anche elementi progressivi, insiti nelle stesse decisioni della Corte, che possono fare da guida nell’individuare possibili alternative di sviluppo in un sistema, come quello nordamericano, così sensibile ai continui assestamenti giurisprudenziali. In primo luogo, vi è un problema di determinazione dei possibili soggetti passivi dell’azione, dovuto alla struttura federale dello Stato. Monell, come abbiamo visto, sancisce la responsabilità ex 42 U.S.C. 1983 di enti ed organi appartenenti al potere esecutivo locale (52). Su tale fondamento, negli anni successivi è stato possibile costruire e far valere con successo alcune azioni intentate ex § 1983 per violazioni del IV Emendamento operate da poliziotti nell’ambito di procedimenti penali, ciò che costituisce il primo gradino per l’utilizzo di questo strumento come mezzo per la riparazione di errori giudiziari. L’assoggettamento degli organi amministrativi statali ad un’analoga responsabilità, invece, non è stato assolutamente considerato implicito nella decisione presa in Monell. Tale riconoscimento, ai nostri fini, sarebbe essenziale per costruire una responsabilità diretta degli Stati per gli errori giudiziari commessi dai giudici che da essi dipendono. Il punto è che l’XI Emendamento alla Costituzione americana rende immuni gli Stati dal potere giudiziario federale in ogni azione intentata contro di loro da un cittadino di un altro Stato federato o di uno Stato straniero (53). Vero è che, secondo il generale principio costituzionale della rinunciabilità dei diritti, lo Stato potrebbe accettare di essere giudicato dalla Corte federale; ma, in assenza del suo consenso, l’azione sarà considerata improcedibile. Inoltre, nella common law nordamericana, ai singoli Stati veniva riconosciuta una sovereign absolute immunity, di rango non costituzionale, cui si poteva derogare con espressa rinuncia dello Stato o con uno specifico atto del Congresso federale (54). Questi due motivi giustificano un’operazione di distinguishing tra la disciplina valevole per gli Enti locali e quella applicabile agli Stati. La questione dell’assoggettabilità degli Stati alle azioni ex § 1983 viene all’attenzione della Corte Suprema in un caso che torna a Washington in due successive circostanze, proprio a cavallo della sentenza Monell. Si tratta di una class action contro un Ente statale di pubblica assistenza, inerente la mancata concessione di aiuti. Prima in Edelman v. Jordan (55), e quindi in Quern v. Jordan (56), la Corte afferma che il Ku Klux Klan Act non ha cancellato la sovereign immunity goduta dagli Stati. Quanto alla garanzia contenuta nell’XI Emendamento, la Corte aveva più volte ammesso che il Congresso, emanando leggi attuative del XIV Emendamento, potesse derogare per loro tramite a tale disposizione. Ma in Quern la (52) Dobbiamo tradurre con questa circonlocuzione la più sintetica e definita espressione local governing bodies o local governments utilizzata dalla Corte Suprema in Monell. Nel caso di specie, l’azione era stata portata contro la città di New York, il relativo dipartimento di servizi sociali e il Board of Education comunale. (53) ‘‘Il potere giudiziario degli Stati Uniti non sarà stabilito in modo da estendersi ad alcuna azione in diritto o in equità, cominciata o proseguita contro uno degli Stati federati dai cittadini di un altro Stato, o dai cittadini o sudditi di alcuno Stato straniero’’. (54) Un caso di deroga statutaria pacificamente riconosciuto dalla Corte Suprema è l’esperibilità di azioni contro lo Stato datore di lavoro in base all’Equal opportunity Employment Act del 1972; si veda in proposito il leading case Fitzpatrick v. Bitzer, 427 US 445 (1975). (55) Edelman v. Jordan, 415 US 651 (1974). L’opinione di maggioranza è redatta dal giudice Rehnquist. (56) Quern v. Jordan, 440 US 332 (1979). Anche in questo caso l’opinione della Corte è redatta dal giudice Rehnquist.


— 1037 — Corte afferma che con il Ku Klux Klan Act, pur emesso proprio in attuazione dell’emendamento in discorso, il Congresso non intendeva esercitare tale potere di deroga. In altre parole, nonostante Monell, la Corte afferma che gli Stati non sono compresi nella dizione ‘‘every person’’ di 42 U.S.C. § 1983, sostenendo che se così fosse stato tale importante innovazione normativa sarebbe dovuta esplicitamente risultare dai lavori parlamentari (57). La ricostruzione suggerita, alquanto limitativa e discutibile, non è stata unanimemente condivisa; la tesi contraria, espressa in Edelman e in Quern dal giudice Brennan, non ha però portato, ad oggi, a un cambiamento di indirizzo. Pertanto, contro gli Stati è oggi possibile solo ottenere, a meno che essi non consentano ad assoggettarsi a una più ampia responsabilità, solo una tutela ingiuntiva e inibitoria contro comportamenti futuri, secondo il principio espresso in Ex parte Young (1908). In nessun caso si potrà invece ottenere un risarcimento per una violazione commessa, che si tradurrebbe in un’imposizione di spesa per i contribuenti dello Stato ad opera di un’autorità federale. Un secondo limite condiziona ancora fortemente la possibilità di utilizzare Monell come un grimardello per rendere le civil rights actions ex § 1983 un potente strumento di tutela delle vittime del processo. Esso concerne il criterio soggettivo di attribuzione di responsabilità agli Enti locali. A tale proposito, la Corte ha recisamente ricusato, già proprio in Monell, di adottare un criterio slegato da un’effettiva imputabilità all’Ente della violazione dei diritti costituzionali vantati dall’attore. In particolare, respingendo l’idea che l’Ente possa essere considerato responsabile sulla base di una mera respondeat superior theory, cioè per il solo fatto del rapporto organico con la persona fisica autrice della violazione, la Corte ha introdotto in Monell il policy or custom requisite (58). In base a tale dottrina, spetterà all’attore dimostrare che l’autore materiale della condotta incostituzionale ha agito sulla base di una prassi determinata dall’Ente di cui assume la responsabilità. In mancanza, l’Ente non potrà essere considerato responsabile della condotta ‘‘deviata’’ ma occasionale del suo dipendente. La posizione assunta dalla Corte Suprema in Monell con riguardo alla policy or custom theory non è mai stata abbandonata successivamente, e anzi è stata all’origine di un gran numero di decisioni, sia della stessa Corte Suprema sia di altre Corti federali e statali, aventi ad oggetto la determinazione specifica di tale requisito nei casi che di volta in volta si sono presentati. Parallelamente, però, si è anche sviluppato un movimento dottrinale e giurisprudenziale, quest’ultimo per ora solo espresso attraverso opinioni di minoranza (59), volto a supportare l’opportunità di un accoglimento proprio della dispregiata respondeat superior theory. Per comprendere appieno e il fondamento giuridico di tale impostazione alternativa e la portata di un suo eventuale accoglimento, è necessario tenere conto della disciplina generale dei torts e del relativo criterio di imputazione della responsabilità. È noto come, a tale proposito, nel corso degli anni ’60 si sia sviluppato un nuovo corso giurisprudenziale che ha rivoluzionato l’assetto precedente slegandolo dalla necessarietà di provare la colpa del tortfeasor per introdurre, perlomeno in certi ambiti della disciplina, nozioni di responsabilità oggettiva non dissimili e anzi più ancora late di quelle che di lì a poco hanno cominciato ad affermarsi anche in Italia proprio sull’onda dell’esempio nordamericano. (57) Anche per la Federazione si esclude l’assoggettabilità ad azione ex Title 42 § 1983 U.S.C. Si veda al riguardo C.B. WHITMAN, op. cit., p. 225. E ciò nonostante il Title 28 § 2674 U.S.C. equipari l’assoggettabilità della Federazione alle ordinarie tort actions a quella di un privato cittadino. (58) II fondamento normativo di tale elemento della fattispecie di responsabilità dell’Ente si situa in quella parte del 42 U.S.C. 1983 secondo cui è soggetta a responsabilità ogni persona che causa la privazione di un diritto costituzionale ‘‘under color of any statute, ordinance, regulation, custom or usage’’. (59) Particolarmente significative quelle formulate dal giudice Stevens.


— 1038 — Le correnti giurisprudenziali di cui sopra sostengono quindi che anche gli Enti pubblici debbano rispondere dell’operato colposo dei propri dipendenti senza che una colpa specifica debba essere provata anche in capo agli Enti stessi. Ciò in parziale imitazione di quanto avviene, nel settore privato, per la responsabilità del datore di lavoro con riguardo ai danni cagionati dai dipendenti nell’ambito della propria attività lavorativa. È ormai chiaro come l’azione ex § 1983, oggi, sia già utilizzata per risarcire le vittime del processo penale, ma anche come residuino forti limiti che impediscono un pieno sviluppo delle potenzialità insite nello strumento. Eppure, alcuni di questi limiti non sembrano insuperabili. 5. L’elemento maggiormente originale e interessante del sistema statunitense, ad avviso di chi scrive, consiste nell’offrire una tutela risarcitoria inquadrata nel consueto schema della law of torts a chi lamenti la lesione di un diritto assicuratogli direttamente dalla Costituzione federale, senza l’interposizione di norme intermedie. In particolare, assicurando tale tutela avverso ‘‘every person’’ che abbia agito ‘‘under color of the law’’, la norma appresta una difesa generale contro qualunque potere pubblicistico esercitato in modo difforme dai principi costituzionali. Lo strumento introdotto dal Title 42 § 1983 U.S.C., infatti, si presta a trovare indifferentemente applicazione (anche se con i limiti di natura immunitaria di cui si è detto) sia allorché i diritti costituzionali vengano violati nel corso di un procedimento amministrativo sia quando ciò invece avvenga nel processo penale, funzionando altresì come strumento di riequilibrio tra cittadino ed Ente pubblico e come garanzia del valore che in Italia è noto come ‘‘buon andamento’’ dell’Amministrazione. Le sue potenzialità espansive, ancora in larghissima parte quiescenti, sono immense, soprattutto grazie alle caratteristiche proprie del sistema dei torts negli ordinamenti di common law, e in ispecie della sussistenza dei danni punitivi (60) uniti alla responsabilità svincolata dalla colpa (61). D’altro canto, proprio perché l’azione ex § 1983 non rappresenta un rimedio specifico a tutela delle vittime del processo, queste ultime si trovano a dover scegliere tra una pluralità di rimedi giudiziari (62) per far valere i propri diritti, la cui maggiore o minore praticabilità nel caso specifico dipende da una pluralità di fattori non sempre coerenti con quello che dovrebbe essere il leit-motiv del sistema. Il modello italiano, d’altra parte, presenta una pluralità di rimedi alternativi diversi tra loro, alcuni dei quali caduti in disuso ma lasciati sopravvivere dalle scarse capacità di coordinamento del legislatore nazionale (63). Di certo, oggi, il rimedio maggiormente efficace e praticato è rappresentato dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, costruito in modo abbastanza ampio così da corrispondere all’uso tradizionalmente abbondante delle misure cautelari nel nostro processo penale. Ciò nonostante, l’equilibrio complessivo del si(60) Né è da dimenticare come negli Stati Uniti sia ordinariamente risarcibile il danno ‘‘non patrimoniale’’ per emotional distress; si vedano al riguardo, p. es., i casi citati da MARK F. GRADY, op. cit., p. 874 ss. Nel processo penale, ciò significa l’autonoma risarcibilità delle sofferenze morali patite a causa del processo stesso in quanto tale, saltando a piedi pari uno dei problemi principali che in Italia costringono a costruire, nel campo di nostro interesse, l’istituto della ‘‘riparazione’’ come autonomo e più ampio rispetto al ‘‘risarcimento’’. (61) Non potendo, in questa sede, dilungarci eccessivamente sul tema, rimandiamo per un primo approccio a C.O. GREGORY, Trespass to Negligence to Absolute Liability, in 37 Virginia L. Rev., 359 (1951) e a R.L. RABIN, Some Reflections on the Process of Tort Reform, in 25 San Diego L. Rev., 13 (1988). (62) Anche se, in realtà, la soluzione transattiva stragiudiziale è quella più praticata: al riguardo si veda quanto emerge dallo studio svolto da M. BEDAU e C. RADELET, op. cit., su più di 300 casi di errori giudiziari, oltre al già citato lavoro di HUFF, RATTNER e SAGARIN. (63) Tale aspetto è oggetto di frequenti critiche ad opera della dottrina italiana. Al riguardo si vedano, per esempio, R. VANNI, op. cit., e L. SCOMPARIN, op. cit., p. 327.


— 1039 — stema non può certo dirsi soddisfacente: un problema di vasta portata, che coinvolge i più generali rapporti tra cittadino e Stato nell’esercizio dei suoi poteri autoritativi, viene travisato e frammentato in una pluralità di istituti. Nessuno di essi, peraltro, appare in grado di fornire una risposta complessiva al problema di come stabilire un corretto rapporto tra il cittadino sottoposto ai disagi causati dal procedimento penale senza essere responsabile di alcuna violazione della legge sostanziale e lo Stato che regge le fila del procedimento medesimo. Il risultato è che un livello di tutela apparentemente elevato, che si raggiunge laddove il bene ingiustamente colpito dal processo penale sia la libertà personale dell’individuo, occulta una realtà normativa che non riconosce autonomo diritto di cittadinanza alle ‘‘semplici’’ sofferenze morali ed alle lesioni alla reputazione e finanche al patrimonio arrecate dal processo in quanto tale. Da un punto di vista sistematico, gli istituti che, nel modello italiano, assolvono allo scopo di garantire una qualche forma di tutela alle vittime del processo si trovano al crocevia tra settori diversi dell’ordinamento. Infatti, pur attenendo, per motivi funzionali, ancora alla disciplina del processo penale, vi sono strette e innegabili connessioni con la disciplina civilistica della responsabilità extracontrattuale e del conseguente obbligo risarcitorio da fatto illecito, nonché con quella parte del diritto amministrativo che si occupa della responsabilità della pubblica amministrazione verso i cittadini per violazioni di diritti soggettivi (e, ora, di interessi legittimi (64)) avvenute a causa e nel corso di un procedimento amministrativo (65). Tale circostanza può esserne tanto il limite quanto il punto di forza. Laddove la difficoltà di elaborare uno strumento giuridico sufficientemente onnicomprensivo da affrontare organicamente il problema della responsabilità dello Stato verso il cittadino per i propri atti ingiusti, unita alle sempre presenti preoccupazioni di ordine finanziario, ne impedisca, di fatto, la realizzazione, permarrà una situazione caratterizzata dall’approccio frammentario o addirittura case by case, con il risultato di rallentare per lungo tempo il cammino verso un rapporto veramente paritario e responsabile tra Stato e cittadino. Laddove invece si riescano a sintetizzare in una ricostruzione unitaria le evoluzioni in senso progressivo degli ultimi anni, dall’estensione della riparazione per ingiusta detenzione alla risarcibilità delle lesioni degli interessi legittimi all’affermarsi di una responsabilità civile slegata dalla colpa tradizionalmente intesa in capo alle persone giuridiche, ci si può porre l’obiettivo di riconoscere finalmente in modo effettivo e non più solo formale l’incomprimibilità dei diritti costituzionali del cittadino ad opera dello Stato se non quando ciò, oltre ad avvenire secondo le procedure prefissate dalla legge, sia anche effettivamente giustificato da esigenze di natura sostanziale. Il processo, diceva Carnelutti, è di per sé sofferenza: a prescindere dall’eventuale privazione della libertà personale colpisce l’accusato nell’onore, nel patrimonio, nella libertà ‘‘spicciola’’ di impiegare il proprio tempo e di dedicarsi alle attività in cui realizza la propria personalità. Per i danni cagionati dal processo, e per la compressione dei diritti fondamentali che ne deriva, lo Stato gode ancora oggi o di una legittima causa di giustificazione (nei casi in cui l’individuo subisce, prima col processo e poi con la pena che ne segue, le conseguenze della propria condotta illecita) oppure di un’immunità (nei casi in cui dallo stesso processo emerge invece che tale condotta illecita non si è verificata o non è ascrivibile all’imputato). Proprio in questo secondo caso, però, è la ridefinizione in atto dei rapporti tra Stato e cittadino a rendere necessaria una radicale messa in discussione di tale posizione di privilegio. GIULIO CATTI Cultore di Diritto processuale penale Università di Torino (64) Ciò a seguito della nota sentenza Cass. civ. S.U. 22 luglio 1999 n. 500. (65) La responsabilità dello Stato per gli errori dolosi e colposi commessi dai magistrati, affermata positivamente dalla l. 13 aprile 1988 n. 117, è del resto riconducibile al medesimo principio costituzionale (art. 28 Cost.) secondo l’opinione della Corte Costituzionale e della dottrina prevalente.


COMMENTI E DIBATTITI

IL DIRITTO PENALE MESSO IN DISCUSSIONE (*)

1. ‘‘Autore’’-’’vittima’’ è il binomio — il rapporto conflittuale — che notoriamente caratterizza, ridotto all’essenziale, il fenomeno della criminalità come oggetto del diritto penale sostanziale. Quel conflitto deve cercare di risolverlo l’amministrazione della giustizia penale, ma nel rispetto delle regole poste a garanzia del cittadino — il quale può assumere sia la veste di autore, sia la veste di vittima. Da un lato, il cittadino ha infatti interesse a non vedersi ‘bollato’ come autore di un reato fuori dei casi e dei presupposti che fondano l’attribuzione della responsabilità; ma, dall’altro lato, ha anche interesse a non diventar vittima inerme e indifesa delle altrui aggressioni penalmente rilevanti: a vedere perciò represse dallo Stato le offese ai beni propri e a quelli delle istituzioni che ha concorso e concorre a creare o a tenere in vita. In uno Stato ad alta civiltà giuridica, come lo Stato democratico-liberale, alte sono le mura giuridiche che circondano il cittadino ‘‘potenziale autore’’, a protezione della sua innocenza sempre da presumere; ma non meno elevata è la garanzia offerta al cittadino ‘‘vittima di un’aggressione’’, che infallibile sarà la punizione, magari mite ma infallibile, di chi — senza alcun dubbio — ne risulterà l’autore colpevole. In quello Stato, la bilancia della giustizia penale dovrebbe perciò trovarsi — sostenuta da mani fermissime — in equilibrio perfetto. Ma anche in quel tipo di Stato la lotta per il diritto è lotta anche per il mantenimento di quell’equilibrio. Ci si trova a dover combattere e fronteggiare spinte endogene ed esogene — ora sotterranee e durevoli, ora improvvise e virulente — che tendono a far pendere la bilancia dal lato della vittima: se ne appagano i bisogni di punizione, sbilanciando il piatto del cittadino potenziale autore, alleggerito del ‘‘fastidioso’’ peso di questa o quella garanzia. 2. Possenti e durevoli spinte alla rottura di quell’equilibrio provengono dal diritto processuale penale: dovrebbe assolvere a un ruolo solo ‘‘servente’’ rispetto al diritto penale sostanziale, come insieme di regole forgiate per l’applicazione al caso concreto della disciplina prevista dal diritto penale sostanziale. Un ruolo che, in modo eminente, compete al diritto delle prove: come provare la sussistenza di questo o quell’elemento del reato è (dovrebbe essere) compito esclusivo del legislatore e della dommatica del processo penale, oltre che della criminalistica. Le cose potevano andare diversamente solo nel passato. L’antica parola d’ordine ‘‘ne crimina maneant impunita’’, quando doveva fare i conti con la camicia di forza delle prove legali, notoriamente condusse a sfigurare, via via, la nozione romanistica del dolo (Löffler) — presumendolo, svuotandolo di contenuto, addirittura assimilandolo alla colpa. E quando uscì di scena la confessione estorta con l’antica tortura, prova legale regina, se non si riusciva a raggiungere altrimenti la prova certa della sussistenza di qualsivoglia elemento del reato, si puniva egualmente il sospetto autore con l’autrice ‘‘pena del sospetto’’ — pur di soddisfare il bisogno di punizione della vittima — (Sax) una pena ‘‘straordinaria’’, più mite dell’ordinaria, ma da infliggere infallibilmente. Perfino la Leopoldina seguitò ad appagare quel bisogno di punizione. Statuì all’art. 110 che ‘‘dove il querelato non sia o confesso o (*) A proposito del volume di FEDERICO STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, II ed., Milano, Giuffrè, 2002.


— 1041 — convinto, onde manchi la prova piena e perfetta della sua reità, sia però aggravato da sufficienti indizii, potrà il giudice condannarlo con qualche pena straordinaria...’’. Benchè influenzato largamente dagli insegnamenti di Beccaria, il legislatore toscano non seppe — meglio: non potè far proprio il sardonico veemente biasimo che Beccaria aveva manifestato verso i ‘‘principi ricevuti’’ che — per i reati di ‘‘prova difficile’’ — ‘‘ammettono le tiranniche presunzioni, le quasi-prove, le semi-prove (quasi che un uomo potesse essere semi-innocente o semi-reo, cioè semi-punibile e semi-assolvibile’’). Fu un biasimo ripetuto nel secolo successivo da Mittermaier nella sua celebrata ‘‘Teoria delle prove nel processo penale tedesco’’: accomunò Toscana Austria e Germania nel rimprovero di punire l’autore solo ‘‘probabile’’ di un reato. Si era però alle soglie dell’avvento — auspicato da Mittermaier — di un processo penale dominato in tutta Europa, a somiglianza dei paesi anglosassoni, dal convincimento del giudice finalmente ‘‘libero’’ dal peso delle ‘‘prove legali’’, ma pur sempre vincolato da (apparentemente) ferrei principi protettivi della libertà del cittadino: ‘‘presunzione di non colpevolezza’’, ‘‘nemo tenetur se accusare’’, ‘‘in dubio pro reo’’. Quell’auspicio si direbbe oggi avverato. La funzione solo servente del diritto delle prove dovrebbe essere fuori discussione: una funzione probatoria del diritto penale sostanziale dovrebbe essere impensabile. L’insegnamento dei classici moderni del pensiero penalistico liberale è stato in effetti univoco in questo senso; e quando la prassi se ne allontanava, o la dottrina forgiava schemi dommatici che mettevano in discussione quelle conquiste, la reazione fu netta: alfieri, agli inizi del secolo passato, i grandi v. Liszt e Beling. Ma negli ultimi decenni — dopo qualche avvisaglia negli anni venti e trenta — è diventata realtà l’impensabile: una dommatica del diritto penale modellata per risolvere i problemi probatori — una dichiarata ‘‘funzione probatoria del diritto penale sostanziale’’ — è oggi terreno di scontro (soprattutto nella letteratura svizzera e tedesca) fra tanti fautori, e pochi avversari. Per nobilitare la svolta, si è persino coniato il nome di una nuova disciplina: ‘‘il diritto dell’applicazione del diritto penale sostanziale’’(Peters); per darle una qualche fondazione concettuale e di principio, si è parlato di praticabilità e frammentarietà del diritto penale, possibile solo amputando dommaticamente le figure di reato degli elementi ‘‘difficili da provare’’, a cominciare dall’evento (Lüderssen). L’esito biasimato dell’‘‘iperestensione del diritto penale’’(altro che frammentarietà!) conseguente a quelle amputazioni (Arzt), non ha frenato chi ha lanciato (Naucke e Marxen) un manifesto anti-Beling (fautore principe della netta separazione tra diritto penale sostanziale e processuale), per sostenere (contro Beling) la sottrazione delle cause di giustificazione e delle scusanti dall’oggetto della presunzione di non colpevolezza, trasferendo l’onere di provarne l’assenza sulle spalle dell’imputato, come si conviene a delle (ritenute) ‘‘eccezioni’’ alla ‘‘regola’’, lette con la lente processuale. Con brutale e lucida franchezza, si è messo però a nudo il vero obbiettivo politico-criminale (magari inconsapevole) di chi predica nel cielo dei concetti la ‘‘funzione probatoria’’ del diritto penale sostanziale: ‘‘nella valutazione delle prove siamo liberi; ma alcune regole sull’assunzione delle prove, la presunzione di non colpevolezza, la regola dell’in dubio pro reo e il diritto al silenzio valgono in modo immodificabile. Ne conseguono problemi probatori, la cui soluzione all’interno del diritto processuale è difficile, se non impossibile. Perciò si ripiega sul diritto penale sostanziale’’ (Volk). Ancor più brutalmente si è soggiunto: la ‘‘funzione probatoria del diritto penale sostanziale’’ si attua ‘‘con l’aiuto di concetti con i quali possono essere attaccate strategie difensive dell’imputato, che si basano su tesi utilizzabili universalmente e difficilmente confutabili’’: ‘‘concetti che consentono di neutralizzare dommaticamente problemi probatori che il giudice non saprebbe risolvere’’ (Vest)! 3. Non è stato compiuto (anche se è in itinere, da noi) un inventario completo delle amputazioni subìte dal diritto penale sostanziale in ‘‘funzione probatoria’’. Quell’inventario andrà comunque inserito in un orizzonte più vasto di problemi e prospettive. L’attenzione dovrà infatti rivolgersi anche ai fattori esogeni — violenti come vulcani in eruzione: le varie fenomenologie della ‘‘società del rischio’’ — che negli ultimi decenni, nell’intero mondo sviluppato, hanno minacciato e minacciano tuttora di far pendere ulteriormente la bilancia


— 1042 — della giustizia, a spese del cittadino ‘‘presunto autore’’ di reati. Quella varietà di fenomenologie ha messo in discussione la stessa sopravvivenza del modello di diritto penale classico imperniato sul ‘‘danno alla società’’: su eventi lesivi di beni giuridici. Pur di appagare il bisogno di punizione reclamato dalle ‘‘vittime’’, si è mirato al cuore stesso di quel modello di diritto penale: la ‘‘causazione’’ degli eventi lesivi da parte del presunto autore corre infatti il pericolo di svuotamento dei suoi connotati imprescindibili, che pur sembravano acquisiti — anche se non da molto. A ben ricordare, la rinascita della spiegazione causale degli eventi, dopo un lungo infecondo torneo fra le tante ‘‘teorie’’ in gara, è figlia dell’esigenza di dare persuasiva risposta alla prima notissima fenomenologia della società del rischio, che coinvolgeva l’industria farmaceutica: il caso del Contergan — il medicinale sospettato di provocare nelle gestanti aborti o la procreazione di figli malformati. Stimolata da quel caso giudiziario, scoppiato in Germania, un’isolata dottrina (Armin Kaufmann) si interrogò consapevolmente sul ruolo delle leggi scientifiche nella spiegazione causale di quegli accadimenti traumatici, valorizzando il lontano dimenticato studio di Engisch sulla ‘‘causalità come connotato della fattispecie penale’’. Ma, per lo più, ci si appagò di ripetere le critiche che Engisch aveva mosso alla teoria condizionalistica, sostituendo la ‘‘formula della eliminazione mentale’’ con la formula della ‘‘condizione conforme a leggi’’. Si restava alla superficie dei problemi. Come avevano già notato i recensori di quello studio, la ‘‘eliminazione mentale di una condizione ‘‘è stata sempre compiuta e raggiunta ‘‘solo con l’aiuto delle leggi scientifiche desunte dall’esperienza’’: ‘‘nessuna meraviglia se la formula [di Engisch] fornisce regolarmente nella sua applicazione le stesse risposte della condicio sine qua non’’(v. Weber, Mezger). Innegabile, comunque, il seme gettato da Engisch con la messa in risalto delle leggi scientifiche: insostituibile strumento per affermare o negare la sussistenza del nesso condizionalistico fra una data azione e un dato evento concreto. A raccogliere quel seme — anzi: a fecondarlo con una ricerca che ha fatto scuola nella giurisprudenza oltre che nella nostra dottrina — fu il libro del 1975 di Federico Stella: rendeva omaggio a Engisch, ne confutava la pretesa di ‘‘sostituire’’ la formula della condicio sine qua non con una formula solo esplicativa della prima, ma dischiudeva all’attenzione e allo studio il mare di problemi — sin allora neppure tematizzati — che sollevava il ricorso alle leggi scientifiche per spiegare la causazione di singoli eventi concreti; fra i tanti: lo statuto delle leggi scientifiche utilizzabili; il compito del giudice nel loro impiego: come ‘‘consumatore’’ e non come ‘‘produttore; le loro assunzioni tacite; il loro apporto nel ‘‘vincolare’’ reati sempre pensati a forma ‘‘libera’’, così conquistandoli alla causa del principio di legalità; i criteri logici da impiegare per dare la preferenza a spiegazioni causali rivali; l’individuazione dei criteri spazio-temporali per selezionare e descrivere ‘‘l’evento concreto’’la cui causazione va caso per caso spiegata. La vicenda del Contergan fu d’altra parte solo uno dei banchi di prova di quell’indagine: la cucivano, capitolo per capitolo, altri casi clamorosi (Vajont, macchie blu) — altrettante prove di resistenza della teoria condizionalistica arricchita col succo e con il sangue delle leggi scientifiche. Altri test li ha forniti la giurisprudenza: in modo esemplare, la vicenda del disastro di Stava. Ma l’avvento della ‘‘società del rischio’’ ha generato ben altri, più vasti e più acuti problemi — dappertutto. Solo una parte di quei problemi ha però attirato l’attenzione degli studiosi europei. Si è ripetutamente sottolineato il cennato svuotamento del nesso di causalità, e se si è denunciato il rischio che corre il ‘‘diritto penale della protezione dei beni giuridici’’ con l’abbandono del ‘‘diritto penale dell’evento’’, sostituito da un ‘‘diritto penale del rischio’’. Sono però mancati adeguati approfondimenti dei tanti punti nodali di questa temuta svolta, e ne sono restati in ombra i molti problemi probatori: la bilancia della giustizia, violentemente scossa dai tumultuosi eventi evocati dalla società del rischio, andava riportata in equilibrio, dal lato sia del ‘‘potenziale autore’’ che della ‘‘vittima’’, costruendo mura giuridiche ancor più solide a protezione del cittadino che si trovi a indossare o l’una o l’altra veste. 4. Per guardare in profondità ai risvolti giuridici della società del rischio, riportando in equilibrio la bilancia della giustizia penale, mancava un’opera scientifica necessaria: una di


— 1043 — quelle opere che scelgono da sole la propria stagione, facendo la diagnosi del proprio tempo, dando forma, parole e lasciando vedere — letteralmente — ciò che è solo oggetto di intuizioni diffuse, ma ancora indistinte. A questo manipolo di opere necessarie appartiene il volume di Federico Stella su ‘‘Giustizia e modernità’’, che già nel sottotitolo — ‘‘la protezione dell’innocente e la tutela delle vittime’’ — indica quali siano le mura giuridiche alla cui edificazione è destinata la sua opera: mostra come sia stata pensata, consapevolmente, per abbracciare l’orizzonte vastissimo dei tanti rapporti conflittuali tra ‘‘autore’’ e ‘‘vittima’’ che scaturiscono dalle patologie di quella società. 5. Si fa presto a dire: ‘‘la protezione dell’innocente’’ è assicurata, sul terreno delle prove, dagli ‘‘immutabili’’ principi che vincolano il convincimento del giudice, una volta liberato dal peso delle prove legali. Si tratta innanzitutto di cogliere esattamente il valore ideale di quei ‘‘potenti principi’’, come li chiama Stella, esaltandoli con le parole di grandi giuristi italiani: principi che appongono insuperabili limiti a garanzia dei diritti del cittadino (libertà, onore, reputazione) al cospetto dell’onnipotente Leviatano — la potestà punitiva dello Stato —, e al contempo a tutela della vitale fiducia della società nella corretta amininistrazione della giustizia penale. Quei principi resterebbero però vuote parole, se non si traducessero in ‘‘regole di giudizio’’: senza stringenti regole, il ‘libero convincimento’ del giudice ha la sperimentata incontenibile tendenza (mostrata da Nobili) a diventare un grimaldello che apre la porta solo ad esternazioni dell’arbitraria sua ‘intima convinzione’. Ciò che fa la differenza capitale tra i sistemi di civil law e quelli di common law, è appunto l’abbondanza delle regole di giudizio negli ordinamenti e nel diritto vivente anglosassone, che avevano già entusiasmato Mittermaier nella sua opera pionieristica, e alla cui aggiornatissima illustrazione Stella riserva ampio e documentato spazio, facendo sempre parlare testualmente — con la risaputa eloquenza degli anglosassoni — autori e decisioni giurisprudenziali epocali, a cominciare dalla prima e in ogni caso più famosa decisione redatta dal giudice Brennan, emblematico dedicatario del volume. Il culmine di quelle regole è l’‘‘oltre il ragionevole dubbio’’: conquista e vanto del processo penale statunitense, pietra angolare di ogni pensabile processo penale che faccia sul serio con la ‘‘presunzione di non colpevolezza’’ — la cui idea forte sottostante, valorizzata da Stella in ogni piega, è la minimizzazione dei rischi di condanne penali errate: l’enorme effetto distruttivo della pena statuale reclama che si corazzi, entro quella ferrea regola giuridica, l’antichissimo principio di civiltà riassunto nell’adagio: ‘‘è molto peggio condannare un innocente che lasciare libero il colpevole’’, perché nessun innocente debba mai temere di essere stritolato, per errore, dalla ‘‘pena del processo’’ e dalla pena inflittagli ‘‘col processo’’. La portata di quella regola è limpidamente compendiata anche in un testo legislativo citato da Stella: ‘‘il ragionevole dubbio è quella situazione che, dopo tutte le comparazioni e considerazioni delle prove, lascia la mente dei giudici nella condizione in cui non possono dire di provare una incrollabile convinzione nella verità dell’accusa’’; e il suo oggetto è costituito da ciascuno e tutti gli elementi del reato: ‘‘nessuno può essere condannato per un reato’’ (aveva già statuito il Model penal code del 1962, ancor prima il suo Tentative Draft del 1955, sulla cui falsariga si son mosse quasi tutte le codificazioni degli Stati della confederazione) ‘‘a meno che ciascun elemento che costituisce tale reato sia provato al di là di ogni ragionevole dubbio. In mancanza di tale prova, va ritenuta l’innocenza dell’imputato’’(par.1.12.(1)). 6. Sono stupendamente e vertiginosamente alte queste mura probatorie innalzate da Stella. Le addita come modello, anche pel nostro Paese, a ‘‘protezione dell’innocente’’ contro il pur minimo rischio di condanne errate; ma è pienamente consapevole dell’arditezza della costruzione. Mostra come si muovano nella stessa direzione la filosofia politica, la teoria delle decisioni in condizioni di incertezza, la filosofia morale; indica nel nostro ordinamento la presenza esplicita della regola dell’‘‘oltre il ragionevole dubbio’’ nella legge di ratifica dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale; cerca nell’insieme dei principi costituzionali dedicati alla materia penale la base d’appoggio per ritenere quella regola già


— 1044 — ‘‘diritto vigente’’ in ogni processo penale ordinario — ma non può non sottolineare il silenzio del codice di procedura penale del 1988, e ‘‘il buco nero’’ aperto dall’‘‘assoluzione per insufficienza di prove’’ malamente camuffata dall’art. 530 co. 2 c.p.p. (la cui adozione propone di riservare ai soli casi in cui si possa dire che ‘‘sono insufficienti le prove che,complessivamente, lasciano spazio a ‘dubbi ragionevoli’’’). A edificazione di quelle mura contribuisce anche l’acquisizione legislativa delle ‘‘cause di giustificazione’’ e del restante mondo delle ‘‘cause di non punibilità’’ tra gli oggetti della prova e del dubbio, il cui superamento incombe sull’accusa, e non sulle spalle dell’imputato (art. 530, co. 3 c.p.p.): un esito frutto di una lunga battaglia, contro inquadramenti dommatici à la Naucke da parte della giurisprudenza, che neppure nascondevano l’intento di ‘‘difendere la società delle vittime’’ dai presunti autori. Stella non può però tacere, contro il ritorno ad antichissime confusioni del dolo e della colpa (il ‘‘non poteva non sapere’’, moderna riedizione del bartoliano aut ipse scivit, aut scire debuit), che solo una regola di giudizio ad hoc, come quella coniata dal legislatore inglese, può rovesciare quest’antico stravolgimento del diritto penale sostanziale ‘‘in funzione probatoria’’, lamentato già da v. Liszt alla fine dell’800. Breve: la perorazione di Stella è lotta per il diritto, per un miglior diritto: per riportare in equilibrio la bilancia della giustizia penale — lotta innanzitutto culturale, per vincere radicate resistenze (che egli evoca esplicitamente), e per promuovere una nuova cultura della prova penale, alla cui elaborazione sono chiamati processualpenalisti, ma anche avvocati solerti e non sonnacchiosi (come avverte ancora esplicitamente), al cui inizio la sua indagine ha comunque già apportato un notevole contributo di sapienza scientifica congiunta a passione teoretica e civile. 7. La ‘‘società del rischio’’ chiama però a una discussione, come si è anticipato, sul fronte di una strisciante profonda manipolazione del diritto penale sostanziale: si cerca di scrivere un nuovo capitolo del diritto penale ‘‘in funzione probatoria’’. Per fronteggiare i moderni rischi per la vita e la salute fisica (di tipo atomico,chimico,ecologico, generati dalla tecnica genetica, etc.), si tende infatti ad abbandonare il ‘‘diritto penale dell’evento’’, rimpiazzandolo con un ‘‘diritto penale del rischio’’: più o meno apertamente si sostituisce l’accertamento della causazione effettiva di un singolo evento concreto da parte di questa o quella sostanza pericolosa, con l’aumento della probabilità di causare in una data popolazione eventi del tipo di quello verificatosi in concreto. È una sostituzione resa possibile spacciando per leggi scientifiche i risultati delle indagini epidemiologiche, per loro natura incapaci di spiegare la causazione di ‘‘un singolo evento concreto’’: possono solo mostrare l’aumento dei rischi che corre una data ‘‘popolazione’’ esposta all’azione di questa o quella sostanza, con l’unica ambizione di alimentare il ‘‘principio di precauzione’’, con divieti assoluti di impiego della sostanza o del congegno sospetto di rischiosità, ovvero con obblighi di un uso entro limiti prefissati. Il preoccupante esito di questo mutamento di paradigma — la frantumazione del nesso causale: il primordiale criterio di imputazione di un dato evento a una data azione, e quindi al suo autore — è stato denunciato e registrato nell’area tedesca, in monografie e anche nel più moderno manuale di diritto penale (Roxin), ed è stato stimolato da vicende giudiziarie, così come analoghe vicende hanno richiamato l’attenzione della letteratura spagnola. Entro questo quadro problematico dei ‘‘temi della modernità’’, Stella ha calato una dettagliata messe di approfondite riflessioni, osservando la prassi giudiziaria italiana ed europea, seguitando ad allargare anche oltreoceano l’orizzonte delle fonti di cognizione: giudiziarie ed epistemologiche. Schematizzando al massimo,il primo punto fermo della sua ricerca è la riaffermazione dell’inconfondibile volto del nesso condizionalistico: un nesso da appurare ex post, tra una data azione e un singolo evento concreto — come rapporto di ‘‘causalità individuale’’ —, ma che viene letteralmente sfregiato dalla tendenza a farne a meno, per sostituirlo con la ‘‘causalità generale’’: una nuova formula, risalente ai tempi della decisione del caso Contergan, sotto cui si nasconde il concetto di idoneità — da valutare ex ante — tra una data


— 1045 — azione e un evento del tipo di quello verificatosi in concreto. Una tendenza che talora si veste di ‘‘dotta ignoranza’’, nel senso spregiativo delle parole: si evoca la teoria della causalità adeguata, che rivaleggia sì con la teoria condizionalistica, ma solo nel senso, come ricorda Stella ai dimentichi, che ne presuppone i risultati, mirando solo ad apporle un limite. Quando non si commette questo strafalcione culturale, ci si trova in presenza della già ricordata ragion pratica più classica del ‘‘diritto penale in funzione probatoria’’: si usano concetti (la causalità generale) con i quali si cerca di attaccare strategie difensive che si basano su tesi (la condicio sine qua non) universalmente accettate e difficilmente confutabili, per neutralizzare dommaticamente problemi probatori che non si saprebbe come risolvere altrimenti! Tra parentesi: è un destino stranamente contraddittorio — a prima vista — quello che via via é stato riservato alla teoria condizionalistica. Dapprima si disse: allarga troppo l’area della responsabilità penale. Fu l’accusa dei fautori di qualsiasi versione della causalità adeguata e della c.d. casualità umana, quando era in gioco la realizzazione di una fattispecie monosoggettiva, almeno nei casi in cui mancava il correttivo della colpevolezza come nei delitti aggravati dall’evento. Ma si disse al contempo: restringe troppo la responsabilità del partecipe al fatto commesso da altri, non essendo necessario appurare se la sua condotta abbia contribuito causalmente alla realizzazione del fatto principale nelle sue modalità concrete, bastando che abbia aumentato la probabilità del verificarsi di un evento del tipo astratto di quello verificatosi in concreto. Lo sostenne persino Engisch (raccogliendo critiche dai massimi studiosi anche italiani, come Pedrazzi), impaurito dalle conseguenze ‘‘nella pratica’’ di una coerente applicazione del ‘‘suo’’ nesso condizionalistico sul terreno del concorso di persone nel reato. Una paura manifestamente provocata (in Engisch e nei non pochi che lo avevano preceduto) dalla stessa preoccupazione politicocriminale di chi oggi patrocina l’abbandono generalizzato della condicio sine qua non: non si può privare di tutela penale le ‘‘vittime’’ della società del rischio, anche a costo di accollarne la responsabilità, come ‘‘autore’’, a chi non ha neppure causato i danni patiti da quelle vittime — strapazzando,così, il requisito minimo e primordiale (la responsabilità oggettiva!) della responsabilità penale ‘‘personale’’. Contro questo odierno stravolgimento del ‘‘diritto penale dell’evento’’, che passa attraverso l’incostituzionale ‘‘flessibilizzazione’’ del nesso di causalità — sempre e invariabilmente ‘‘causalità individuale’’ —, Stella muove censure implacabili, alimentate anche dalle prese di posizione della giurisprudenza anglosassone, stimolata non solo ma soprattutto dalle vicende della ‘‘società del rischio’’. Il sempre più frequente numero di vicende giudiziarie d’oltreoceano (per lo più civilistiche), ma anche di quelle tedesche e spagnole, gli consente poi di fissare un secondo punto fermo. L’inutilizzabilità delle indagini epidemiologiche come leggi scientifiche da impiegare per la spiegazione causale di un singolo evento concreto relativo a una singola persona, è il portato della loro natura e funzione, che gli assegnano gli stessi indagatori. Chiarisce riassuntivamente una delle massime autorità (fra le tante citate): ‘‘ai fini della prevenzione, ai fini della sanità pubblica, l’interesse dell’epidiemologo è quello di prevenire, completamente o parzialmente la causa, la malattia, individuando la causa componente della frazione ‘eziologica’ della patologia nella popolazione, attribuibile alla causa componente’’. Bisognerebbe perciò ‘‘tirare a sorte’’ — commenta Stella, ripetendo un’icastica osservazione di Hassemer — per sapere se un singolo evento concreto lesivo relativo a una singola persona, compresa in una data popolazione, si sia verificato come effetto di ‘‘quella’’causa piuttosto che di questa o quella tra le n ‘‘altre cause’’ che già avevano originato, in quella stessa popolazione,eventi dello stesso tipo. 8. Stella non si sottrae agli ultimi due problemi resi acutissimi dalla fenomenologia della ‘‘società del rischio’’: la prova del rapporto causale e, forse ancor più acuto, il grado di certezza che possono offrire le scienze della natura. Con l’aiuto delle indagini epidemiologiche — che mostrano l’aumento in una data popolazione del numero di certi tipi eventi lesivi — è impossibile fornire ‘‘la prova particolaristica’’ della causa di un singolo evento relativo a una singola persona appartenente a quella data popolazione: ‘‘è impossibile — esemplifica Stella — affermare che un singolo tumore è stato indotto nell’organismo da una data so-


— 1046 — stanza chimica industriale, con un certo meccanismo di azione, piuttosto che da un’altra tossina dell’ambiente naturale, o da una tossina legata allo stile di vita’’. Quale sia d’altra parte la prova del nesso causale raggiungibile con l’aiuto delle leggi scientifiche, è il successivo quesito,già oggetto di indagine nel lavoro del 1975, ma che ora viene raccordato con la regola di giudizio dell’‘‘oltre il ragionevole dubbio’’, che rappresenta il ‘‘contesto’’ ineludibile quando la prova del nesso causale va cercata nell’ambito di un processo penale. Quella regola di giudizio è predisposta per minimizzare il rischio di condanne penali errate: leggi scientifiche utilizzabili, in questo contesto, sono perciò leggi di forma universale, ma anche di forma statistica, purché assumano la forma di leggi ‘‘quasi-universali’’, con un coefficiente percentualistico vicinissimo a 1 — che spieghino l’evento come una conseguenza pressoché certa,come del resto richiede il ‘‘progetto Grosso’’. A questo modo, Stella tende ai limiti massimi l’arco della sua lotta per un diritto penale governato da regole probatorie che facciano sul serio con l’esigenza di evitare al massimo grado la condanna degli innocenti; ed è consapevole della sfida che sta lanciando: il penalista (giurista o giudice) chiamato ad affrontare lo ‘‘shock della modernità’’, può superarlo a dovere solo se è disposto a rispettare — senza arretramenti — i principi costituzionali (personalità e presunzione di non colpevolezza), che segnano l’invalicabile perimetro entro il quale può muoversi ogni singolo processo nel quale si decide della libertà e dei beni più preziosi di ogni singolo uomo. Possono d’altra parte raccogliere e discutere quella sfida quanti tornino a porsi l’interrogativo che già si poneva Armin Kaufmann ai tempi del caso Contergan (‘‘i principi che riguardano le scienze naturali possono essere addotti come scientificamente provati se sono generalmente riconosciuti?’’), consapevoli che le risposte epistemologiche a quell’interrogativo sono mutate, anche alla luce della giurisprudenza (statunitense) provocata dalla società del rischio: le odierne regole giuridiche sull’attendibilità della scienza, come mostra Stella, considerano ‘‘il consenso generale della comunità scientifica’’ come un criterio non esclusivo, essendo almeno necessario che non vi sia anche un solo ‘‘controesempio’’ che falsifichi l’ipotesi — pur corroborata da un elevato grado di conferme — alla base di una ‘‘legge scientifica’’ circondata da consenso. Si aggiunga l’altro quesito già sollevato da Armin Kaufmann (‘‘come bisogna procedere se la causalità richiesta nel caso specifico è incerta tra gli esperti’’?), per aprire la stura — come fa Stella con una folla impressionante di rilievi aggiornati — a ulteriori dubbi sulle aree di incertezza della prova ‘‘scientifica’’ del nesso causale, sempre provocate dalla struttura antagonistica del processo penale, ed esaltate nei procedimenti degli ultimi decenni, che hanno visto uno spettacolare aumento del numero e dei tipi di esperti chiamati a fronteggiarsi nei processi coinvolgenti la scienza e la tecnica — tutti portatori, come ammonisce la Suprema corte statunitense, di un alto tasso di errori. 9. Si esce quasi storditi, ma in realtà arricchiti e irrobustiti dai dubbi — ragionati, documentati, enunciati a viso aperto — che Stella ha seminato lungo il cammino della sua ricerca scientifica: si comprende appieno il perché della deformazione del diritto penale legato all’evento, trasformato in ‘‘funzione probatoria’’ in diritto penale del rischio, per superare problemi difficili, anzi impossibili da risolvere rispettando le regole del processo penale. Ecco perchè ‘‘si ripiega sul diritto penale sostanziale’’ — diceva Volk —: rectius: ecco perché si stravolge il diritto penale sostanziale. Contro quello stravolgimento, e nel segno di una intransigente ‘‘protezione dell’innocente’’, Stella ha edificato mura via via più alte e più robuste. E ‘‘la tutela della vittima’’? quale tutela apprestare alle vittime della società del rischio? È la parte della ricerca in cui Stella invita a future ricerche, tenuto conto della generale astinenza di proposte in campo, nella letteratura di ogni Paese. Stella oppone dei ‘no’, tutti ben fondati, alle alternative penalistiche sinora prospettate. La splendida enfasi che accompagna la proposta di Stratenwerth è un ancor vago modello di un ‘‘diritto penale del comportamento’’, accolto con rispettosa attesa di concretizzazioni (Roxin), ma che d’altra parte ricalca il modello dei nostri illeciti contravvenzionali in materia di ambiente, imperniati sul superamento di ‘‘limiti di soglia di tolleranza’’, sulla cui ragionevolezza Stella sparge abbon-


— 1047 — danti dubbi, con l’aiuto della contestata esperienza statunitense. Si tratterebbe in ogni caso di illeciti di pericolo astratto, senz’altro aperti alla critica (Stella la muove all’indirizzo anche di esplicite proposte in questo senso) di svincolarsi strutturalmente da ogni legame col bene giuridico, ma che sarebbero comunque un telum imbelle: sarebbero capaci di attirare — come impone il principio di proporzione — solo sanzioni penali assai blande, come documenta ancora il nostro diritto penale dell’ambiente. Tutele alternative, da cercare nel diritto amministrativo? È la via più esplicita indicata da Stella, in forma di abbozzo: propone di assoggettare a severe sanzioni amministrative le persone giuridiche che violino i compliance programs, imposti o accettati pattiziamente, per controllare — alla fonte o in itinere — i tanti pericoli generati dalla ‘‘modernità’’. Apre perciò la finestra sul tema — all’ordine del giorno anche da noi, e al cui sviluppo egli ha contribuito altrove — della responsabilità (penale? amministrativa?) delle persone giuridiche — fonte per eccellenza dei pericoli generati dalla ‘‘società del rischio’’, e quindi naturali destinatarie di penetranti controlli, anche penali. Ha così aperto un altro cantiere, enunciando un tema d’indagine, che si affianca ai tanti altri temi che ha trattato in profondità nella sua opera tanto scientificamente necessaria. Il grado di finezza dei libri scientifici — è stato detto una volta per tutte da Binding — non corrisponde del tutto al loro grado di verità: il loro pregio si commisura piuttosto alla ricchezza della vena di progresso scientifico che scaturisce da tali opere. E profonda, ricchissima, inesauribile è la vena di progresso scientifico — a beneficio dell’uomo di cultura non meno del penalista — che sgorga dalla ricerca compiuta da Federico Stella, che ha già fatto epoca. GIORGIO MARINUCCI


RASSEGNE

Giurisprudenza della Corte costituzionale CODICE DI PROCEDURA PENALE

COMPETENZA ART. 23 Incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado ART. 24 Decisioni del giudice di appello sulla competenza Sentenza 10 aprile 2001, n. 104 Non fondatezza (in G.U., 18 aprile 2001, n. 16) Ordinanza 16 novembre 2001, n. 370 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 novembre 2001, n. 45) I giudici a quibus dubitavano della legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 1, e 24, comma 1, c.p.p., nella parte in cui, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 1996, impongono al giudice che dichiari nel dibattimento di primo grado la propria incompetenza per territorio, ovvero al giudice di appello che annulli la sentenza di primo grado per incompetenza territoriale, la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente, anziché direttamente a quest’ultimo, anche nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. In queste ipotesi, infatti, ai sensi dell’art. 328, comma 1-bis c.p.p., nella fase pre-dibattimentale, il pubblico ministero e il giudice dell’udienza preliminare competenti sono quelli del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. Di conseguenza, la trasmissione degli atti al pubblico ministero provocherebbe la ripetizione di atti immuni da vizi. L’incompetenza, cioè, nell’ambito del distretto, può verificarsi solo a partire dall’apertura del dibattimento. La disposizione sarebbe lesiva del principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.), di terzietà e imparzialità del giudice e di ragionevole durata dei processi (art. 111 Cost.). La Corte dichiara infondata la questione proposta per erroneo presupposto interpretativo. Ricorda, infatti, come la ratio decidendi della sentenza n. 70 del 1996 fosse quella di fare svolgere nuovamente l’udienza preliminare, per consentire all’imputato di accedere eventualmente ai riti abbreviati di fronte al proprio giudice naturale. La sentenza, infatti, nel dispositivo, dichiarava l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate nella parte in cui prevedono ‘‘la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo’’. Questa esigenza evidentemente non rileva nell’ipotesi in cui l’incompetenza riguardi solo il giudice del dibattimento e non anche il giudice dell’udienza preliminare, come nell’ipotesi verificatasi nel giudizio a quo. In quest’ultimo caso, gli atti dovranno essere trasmessi direttamente al giudice e non al p.m. Qualora, invece, l’incompetenza territoriale riguardi il giudice di un altro distretto, gli atti dovranno essere trasmessi al p.m., poiché incompetente era anche il giudice che aveva celebrato l’udienza preliminare.


— 1049 — CONFLITTI DI GIURISDIZIONE E DI COMPETENZA ART. 28 Casi di conflitto Ordinanza 14 febbraio 2001, n. 37 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 febbraio 2001, n. 8) La questione di legittimità costituzionale risolta con la presente ordinanza ha ad oggetto l’art. 28, comma 2, c.p.p., nella parte in cui, secondo l’interpretazione fornita dal ‘‘diritto vivente’’, non consente al giudice di primo grado di sollevare conflitto di competenza in caso di dissenso dalla decisione con la quale il giudice di appello, in conseguenza di una ritenuta nullità verificatasi nel giudizio di primo grado, abbia disposto il rinvio degli atti al primo giudice per la rinnovazione del giudizio. Tale disposizione, secondo il giudice a quo, contrasterebbe con il principio di indipendenza del giudice, ricavabile dall’art. 101, comma 2, Cost., e con il principio della ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma 2, Cost. Come sottolineato dalla Corte, il giudice rimettente intendeva in realtà utilizzare impropriamente l’istituto del conflitto di competenza come strumento di impugnazione di una decisione dell’organo superiore cui non intendeva adeguarsi, con evidenti effetti distorsivi del sistema. La questione viene dichiara manifestamente infondata. La Corte, richiamando un proprio orientamento consolidato, in merito al principio di indipendenza funzionale ‘‘interna’’ del giudice, ribadisce come questo non sia violato dalla vincolatività della decisione di un giudice di grado o di fase superiore, se prevista dalla legge. Tali meccanismi di coordinamento nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali hanno lo scopo di perseguire finalità di giustizia e di pervenire ad una rapida definizione del processo. Interessante è il profilo relativo alla violazione della ragionevole durata del processo, poiché la decisione costituisce la prima pronuncia su cui la Corte affronta il tema dopo la riforma dell’art. 111 Cost. Si osserva come la funzione acceleratoria dello strumento del conflitto presupponga la fondatezza nel merito del conflitto stesso. Tuttavia, poiché tale fondatezza non può essere preventivamente stabilita, la funzione del conflitto di competenza non sarebbe affatto acceleratoria, se il conflitto venisse respinto, poiché provocherebbe un allungamento e non una riduzione dei tempi processuali.

PROVVEDIMENTI SULLA COMPOSIZIONE COLLEGIALE O MONOCRATICA DEL TRIBUNALE ART. 33-quinquies Inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale Ordinanza 11 dicembre 2001, n. 395 Manifesta inammissibilità (in G.U., 19 dicembre 2001, n. 49) Con l’ordinanza n. 395 del 2001, la Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33-quinquies, c.p.p., in combinato disposto con gli artt. 416 e 417 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la sanzione processuale della decadenza, conseguente alla mancata proposizione, prima dell’udienza preliminare, dell’eccezione concernente l’erronea attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione monocratica e collegiale, sia ‘‘correlata dallo specifico obbligo del pubblico ministero di indicazione del giudice davanti al quale si richiede il rinvio a giudizio’’. Il giudice remittente, in qualità di giudice del dibattimento, doveva infatti decidere sull’eccezione di incompetenza presentata fuori termine dalla difesa dell’imputato, la quale giustificava il


— 1050 — proprio ‘‘ritardo’’, per il fatto che il p.m., nella richiesta di rinvio a giudizio, non aveva indicato la composizione del giudice destinato a celebrare il dibattimento, composizione di cui era invece venuta a conoscenza solo con il decreto di rinvio a giudizio emesso dal g.u.p. al termine dell’udienza preliminare. Il problema sollevato dall’ordinanza di rimessione è probabilmente determinato da un mancato coordinamento legislativo in sede di riforma. Con l’introduzione del giudice monocratico, infatti, il d.lgs. n. 51 del 1998 aveva previsto che si celebrasse l’udienza preliminare solo per i reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale e che, invece, il p.m. emettesse direttamente il decreto di citazione a giudizio per i reati attribuiti al giudice in composizione monocratica. Successivamente, con la l. n. 479 del 1999, si è poi estesa la celebrazione dell’udienza preliminare anche ad alcuni reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica, facendo venire meno il rapporto biunivoco tra modalità di introduzione del giudizio e attribuzione del reato al tribunale in composizione monocratica o collegiale. In tali ipotesi, però, la difesa viene a conoscere la composizione del tribunale solo dopo la conclusione dell’udienza preliminare, con il decreto che dispone il giudizio, e, quindi, in un momento in cui è già scaduto il termine per proporre l’eccezione. Questa mancanza, secondo il giudice a quo, sarebbe, oltre che irragionevole, lesiva del diritto di difesa e del principio del giusto processo da svolgersi in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità. La Corte, tuttavia, respinge la censura proposta, dichiarandola manifestamente inammissibile, per l’inadeguatezza della soluzione proposta dal giudice, che non tiene conto che spetta comunque al g.u.p. individuare l’organo che celebrerà il dibattimento. Nel respingere la censura, ma nel sottolineare anche come effettivamente sia connaturale al sistema delle decadenze che l’onere di esercitare una facoltà entro un determinato termine possa essere imposto solo quando il presupposto di fatto cui la facoltà è collegata si sia verificato prima della decorrenza di tale termine, la Corte sembra suggerire al giudice che la stessa questione, proposta in diverso modo, ossia chiedendo un’altra addizione, potrebbe trovare una soluzione positiva. INCOMPATIBILITÀ, ASTENSIONE E RICUSAZIONE DEL GIUDICE ART. 34 Incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento Le decisioni della Corte costituzionale sull’art. 34 c.p.p. possono essere classificate in base a criteri comuni: A) Sono incostituzionali le disposizioni che non prevedono ipotesi di incompatibilità qualora il giudice abbia adottato una decisione implicante una valutazione del merito dell’accusa. Ordinanza 27 aprile 2001, n. 112 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 maggio 2001, n. 17) Sentenza 6 luglio 2001, n. 224 Illegittimità costituzionale in parte qua (in G.U., 11 luglio 2001, n. 27) Le due decisioni si occupano dell’incompatibilità derivante dall’avere svolto le funzioni di giudice per l’udienza preliminare. Con l’ordinanza n. 112 del 2001, la Corte, ribadendo il proprio orientamento giurisprudenziale sul punto, dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice per l’udienza preliminare, il quale abbia disposto il rinvio a giudizio con decreto successivamente annullato, non possa esercitare nuovamente la funzione di trattazione dell’udienza preliminare nei confronti dello stesso imputato, per il medesimo


— 1051 — reato. Il rigetto della questione viene motivato osservando che il giudice in questa fase è chiamato a determinare l’apertura della fase del giudizio e non ad esprimere valutazioni sul merito del giudizio stesso. Diversamente, con la sentenza n. 224 del 2001, la Corte dichiara l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 34, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto. Il mutamento giurisprudenziale è motivato dal fatto che, con la riforma operata con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, l’udienza preliminare ha subito una profonda trasformazione per quanto riguarda la qualità e la quantità degli elementi valutativi che vengono introdotti in questa sede e l’ampliamento dei poteri attribuiti al giudice, il quale si trova a compiere, all’esito dell’udienza, una valutazione del merito dell’accusa. L’incompatibilità ad esercitare nuovamente le funzioni di g.u.p. opera dunque nel momento in cui la valutazione compiuta ha avuto ad oggetto il merito dell’accusa (si noti che la Corte, nell’ordinanza n. 112 del 2001, si sofferma a precisare che, nei processi a quibus, le udienze preliminari da cui erano scaturiti i decreti poi annullati si erano svolte prima dell’entrata in vigore della l. n. 479 del 1999). Ordinanza 10 aprile 2001, n. 108 Manifesta inammissibilità (in G.U., 18 aprile 2001, n. 16) L’ordinanza in oggetto è particolarmente interessante, poiché la Corte viene chiamata a pronunciarsi sull’art. 34, comma 2, c.p.p., come integrato da una propria precedente sentenza. I giudici rimettenti chiedevono cioè alla Corte di ‘‘tornare indietro’’ rispetto ad una decisione, da loro stessi a suo tempo sollecitata e accolta, probabilmente per gli effetti che tale pronuncia riflette sull’organizzazione del lavoro. La Corte, chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., come integrato dalla sentenza n. 186 del 1992, nella parte in cui prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che negli atti preliminari al dibattimento abbia respinto la richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti, per violazione degli artt. 3, 24, 25, 97 Cost., respinge la questione proposta non, come avrebbe potuto, motivandola nel merito, bensì dichiarandola inammissibile, ai sensi degli artt. 136, comma 1, e 137, comma 3, Cost., i quali escludono che contro le decisioni della Corte costituzionale possa essere proposta impugnazione. B) La Corte afferma che, se il pregiudizio che si assume lesivo dell’imparzialità del giudice, deriva da attività da questi compiuta al di fuori del giudizio in cui è chiamato a decidere, si verte nell’ambito di applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione (ad eccezione, ovviamente, delle ipotesi individuate nella sentenza n. 371 del 1996). Ordinanza 28 dicembre 2001, n. 441 Manifesta inammissibilità (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) La Corte dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 24, 25 e 111 Cost., nella parte in cui tale disposizione non prevede che non possa partecipare al giudizio abbreviato nei confronti di alcuni imputati che abbiano chiesto di essere processati con tale rito il giudice che in precedenza abbia emesso, previa separazione del procedimento originariamente unitario, il decreto che dispone il giudizio nei confronti di altri imputati del medesimo fattoreato. Il giudice remittente motiva il suo dubbio sulla base della diversa funzione svolta dall’udienza preliminare, a seguito delle modifiche introdotte con la l. n. 479 del 1999, rite-


— 1052 — nendo che ora il giudice, prima di emettere il decreto che dispone il giudizio, debba svolgere un’attività di giudizio ‘‘sia pure in negativo’’. La Corte, invece, ricorda che se il pregiudizio che si assume lesivo dell’imparzialità deriva da attività, giudiziarie o non giudiziarie, compiute dal giudice al di fuori del giudizio in cui è chiamato a decidere, si verte nell’ambito di applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione, come, tra l’altro, interpretati e modificati dalla stessa Corte con le sentenze nn. 113 e 283 del 2000 [in questa Rivista, 2001, pp. 181-182], sintomatiche della tendenza della giurisprudenza costituzionale a non irrigidire eccessivamente il sistema con l’introduzione di ulteriori cause di incompatibilità. ART. 37 Ricusazione Ordinanza 10 aprile 2001, n. 109 Restituzione degli atti (in G.U., 18 aprile 2001, n. 16) La Corte d’appello di Napoli aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 37, comma 1, c.p.p., lett. a), c.p.p., nella parte in cui non prevedono che possa essere ricusato il giudice che, prima dell’apertura del dibattimento, abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato. Poiché, come risulta dall’ordinanza di rimessione, i giudici ricusati hanno presentato una dichiarazione di astensione, accolta dal Presidente del Tribunale, la Corte ordina la restituzione degli atti al giudice rimettente per un riesame della rilevanza della questione, posto che la dichiarazione di ricusazione si considera come non proposta quando il giudice, anche in un momento successivo, dichiara di astenersi e la dichiarazione è accolta.

PARTE CIVILE, RESPONSABILE CIVILE E CIVILMENTE OBBLIGATO PER LA PENA PECUNIARIA ART. 83 Citazione del responsabile civile Sentenza 23 marzo 2001, n. 75 Non fondatezza Manifesta infondatezza (in G.U., 28 marzo 2001, n. 13) Con la sentenza in oggetto la Corte costituzionale risolve due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p. La prima aveva ad oggetto, per violazione dell’art. 3 Cost., tale disposizione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato, nel caso di costituzione di parte civile, di chiamare o chiedere l’autorizzazione a chiamare, nel processo, quale responsabile civile, l’esercente l’aeromobile a norma dell’art. 878 del codice della navigazione. Il giudice rimettente rilevava una disparità di trattamento rispetto alla posizione dell’imputato che, a seguito della sentenza n. 112 del 1998, ha la possibilità di citare nel giudizio penale l’assicuratore, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla legge n. 990 del 1969, per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. La Corte, dopo aver premesso che, in linea generale, tra i principi cardine del processo penale disciplinato nel 1988, al fine di non allungare i tempi processuali, vi è quello di costringere entro margini ristretti l’ambito delle questioni pregiudiziali e di mantenere tendenzialmente separate l’azione civile da quella penale, dichiara non fondata la questione proposta, ritenendo non comparabili le due posizioni poste a raffronto. Nell’ipotesi di responsabi-


— 1053 — lità dell’esercente l’aeromobile ex art. 878 c. nav., infatti, all’azione diretta del danneggiato non corrisponde un rapporto interno di garanzia tra imputato e responsabile civile, come invece avviene nel caso dell’assicurazione obbligatoria prevista dalla legge n. 990 del 1969, dove il rapporto tra imputato e assicuratore è regolato dall’art. 1917, ultimo comma, c.c. Con la seconda questione proposta si chiedeva invece di dichiarare l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 83 c.p.p., nella parte in cui non prevede che l’imputato possa citare il proprio assicuratore della responsabilità civile facoltativa. La Corte dichiara la questione manifestamente infondata, osservando che con l’ordinario contratto di assicurazione l’assicuratore non assume alcun obbligo di risarcimento nei confronti dei terzi, ma soltanto l’obbligo di tenere indenne l’assicurato che ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 917, comma 2, c.c. Mancando, pertanto, sia il presupposto oggettivo sostanziale (obbligo di risarcimento ex lege), sia il presupposto soggettivo-processuale (destinatario del diritto all’indennizzo) per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale da parte del danneggiato, la posizione dell’assicuratore è profondamente diversa da quella del responsabile civile ex art. 185 c.p.

DIFENSORE ART. 97 Difensore d’ufficio Ordinanza 13 marzo 2001, n. 58 Restituzione degli atti (in G.U., 21 marzo 2001, n. 12) Le due questioni risolte con l’ordinanza in oggetto riflettevano la mancanza di una disciplina idonea a regolamentare l’astensione dal lavoro dei difensori, non avendo il legislatore ancora provveduto ad attuare in via legislativa il principio espresso nella sentenza della Corte costituzionale n. 171 del 1996 relativa appunto all’astensione collettiva dell’attività giudiziaria degli avvocati. La prima di esse investiva gli artt. 97, comma 4, 105, comma 5, e 484 c.p.p., per violazione degli artt. 3, 10, 24, 76, 77, 101 e 112 Cost., ‘‘nella parte in cui non consentono la prosecuzione del dibattimento in assenza del difensore dell’imputato, qualora tutti i difensori immediatamente reperibili e designati dall’autorità giudiziaria rifiutino, senza legittimo impedimento, di assumere e svolgere le funzioni di sostituto del difensore che non partecipi al dibattimento in violazione del provvedimento che ritiene non sussistenti i requisiti di cui all’art. 486, comma 5, c.p.p.’’. La seconda, invece, aveva ad oggetto, per violazione degli artt. 3, 10, 24, 76, 77, 101 e 102 Cost., gli artt. 97 e 484 c.p.p., nonché gli artt. 1 e 26 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella l. n. 36 del 1934, nella parte in cui non consentono la nomina degli aventi titolo all’iscrizione dell’albo degli avvocati quali sostituti del difensore che non partecipi al dibattimento sebbene non legittimamente impedito, qualora tutti gli iscritti agli albi degli avvocati immediatamente irreperibili abbiano opposto rifiuto. In relazione ad entrambe la questioni proposte la Corte ha ordinato la restituzione degli atti per un riesame della rilevanza della questione, posto che successivamente alle ordinanze di rimessione è stata approvata, promulgata e pubblicata la l. 11 aprile 2000, n. 83 (‘‘Modifiche ed integrazioni alla l. 12 giugno 1990, n. 146, in materia del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati’’), che consente l’applicabilità della l. n. 146 del 1990 anche ai lavoratori autonomi, ai professionisti e ai piccoli imprenditori.


— 1054 — ATTI a) Disposizioni generali ART. 122 Procura speciale per determinati atti Ordinanza 8 giugno 2001, n. 188 Manifesta inammissibilità (in G.U., 13 giugno 2001, n. 23) La questione proposta aveva ad oggetto gli artt. 76, 122 e 100 c.p.p., nella parte in cui prevedono che ‘‘la procura speciale per la costituzione di parte civile debba essere fatta per atto pubblico o scrittura privata autenticata, senza dare possibilità al difensore di certificare la genuinità della sottoscrizione dell’avente diritto, quando apposta in calce o a lato di un medesimo atto contenente sia la procura ad actum — nomina di un procuratore che si costituisca parte civile in nome e per conto del rappresentato — sia il conferimento della procura ad litem del difensore stesso’’, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. La Corte dichiara la questione inammissibile per irrilevanza, poiché, a prescindere dalle modifiche successivamente apportate all’art. 100 c.p.p. dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, il giudice a quo, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, aveva già definitivamente applicato le disposizione impugnate. PROVE a) Disposizioni generali ART. 192 Valutazione della prova Ordinanza 25 luglio 2001, n. 302 Manifesta inammissibilità (in G.U., 1o agosto 2001, n. 30) Nel sollevare la questione di legittimità dell’art. 192, comma 2, c.p.p., in base al quale l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti, il giudice rimettente contestava la conformità agli art. 2, 3, 13 e 111 Cost. della stessa prova indiziaria. La Corte — lasciando intendere di non condividere gli assunti del giudice rimettente — dichiara manifestamente inammissibile la questione, osservando che la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione impugnata non condurrebbe comunque all’eliminazione della prova indiziaria dal processo penale, bensì ad un risultato opposto a quello perseguito dal giudice, dal momento che l’art. 192, comma 2, c.p.p., costituisce un limite alla valutazione discrezionale del giudice, imponendo un parametro legale di valutazione probatoria. MEZZI DI PROVA a) Testimonianza ART. 197 Incompatibilità con l’ufficio di testimone Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 433 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1)


— 1055 — La questione risolta con l’ordinanza in oggetto riguardava l’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità con l’ufficio di testimone del difensore che svolga o abbia svolto la propria funzione nel medesimo procedimento, per violazione degli artt. 3, 24, comma 2, e 111, commi 1 e 2, e, in subordine, l’art. 13 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e difensore), convertito in l. 22 gennaio 1934, n. 36, nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione dalla difesa del legale che nel medesimo procedimento si trovi a cumulare le dette funzioni, ovvero la facoltà dell’autorità giudiziaria procedente di rilevare l’incompatibilità con modalità analoghe a quelle previste dall’art. 106, commi 2 e 3, c.p.p., per violazione dell’art. 24 Cost. Il giudice rimettente, chiamato a pronunciarsi sull’ammissibilità della testimonianza del difensore di due coimputati, dubitava della legittimità costituzionale della disciplina codicistica che non consente di risolvere il conflitto funzionale che in queste ipotesi si determina in capo al difensore, a differenza di ciò che è previsto nel caso in cui chiamato a testimoniare sia il pubblico ministero. In subordine, chiedeva alla Corte di intervenire sulla legge sull’ordinamento forense, che, seppure sede più opportuna a contenere una disciplina di tal fatta, a sua volta non regolamenta tali ipotesi in modo idoneo. La Corte dichiara entrambe le questioni manifestamente infondate. In merito alla comparabilità tra la posizione del difensore e quella del pubblico ministero, essa richiama quanto già affermato nella sentenza n. 215 del 1997. In relazione alle altre censure proposte sull’art. 197 c.p.p., ricorda che la disciplina dei rapporti tra la funzione del difensore e l’ufficio del testimone trova la sua naturale collocazione nella sfera delle regole deontologiche. Tuttavia, la Corte — con una motivazione piuttosto stringata — dichiara manifestamente infondata anche la questione proposta in subordine, che pure riguardava proprio la disciplina deontologica, non ritenendo opportuno individuare in via prescrittiva delle incompatibilità tassative, che regolino in modo rigido i rapporti tra il difensore e il suo assistito. Nel fare ciò, ricorda che anche il rimedio previsto dall’art. 106, commi 1 e 2, c.p.p., che il giudice a quo chiedeva di introdurre, secondo interpretazione ormai consolidata, non opera in via astratta e automatica, ma è attivabile dal giudice solo ove riscontri un contrasto di interessi fra coimputati che sia effettivo e reale. MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA a) Sequestri ART. 263 Procedimento per la restituzione delle cose sequestrate Ordinanza 14 dicembre 2001, n. 409 Manifesta inammissibilità (in G.U., 19 dicembre 2001, n. 49) La questione proposta aveva ad oggetto l’art. 263 c.p.p. ‘‘nella parte in cui non prevede che, dopo la chiusura delle indagini preliminari e fino al passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna, gli interessati possono proporre opposizione avanti il medesimo giudice avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza di restituzione delle cose sequestrate’’. Il giudice rimettente rilevava una violazione del principio di ragionevolezza e del diritto di difesa nell’impossibilità, per l’imputato, di impugnare il provvedimento di rigetto dell’istanza dopo la chiusura delle indagini preliminari e fino al passaggio in giudicato della sentenza. La Corte ne dichiara la manifesta inammissibilità per irrilevanza, dal momento che il giudice rimettente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dopo essere stato erroneamente investito quale giudice di appello de libertate, secondo il modello previsto per il sequestro preventivo ex art. 322-bis c.p.p., avverso ordinanze che hanno respinto istanze di


— 1056 — restituzione di beni sottoposti a sequestro probatorio. Il totale difetto di competenza funzionale del giudice rimettente rende priva di rilevanza la questione proposta. b) Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ART. 268 Esecuzione delle operazioni Ordinanza 17 luglio 2001, n. 259 Manifesta infondatezza (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) La questione di legittimità costituzionale risolta con l’ordinanza n. 259 del 2001 aveva ad oggetto l’art. 268, comma 3, c.p.p., nella parte in cui consente al pubblico ministero di disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria soltanto quando gli impianti installati nella procura della Repubblica risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni d’urgenza. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione in relazione a tutti i profili proposti. In primo luogo, viene respinta la censura relativa ad una presunta violazione dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega, attraverso la ricostruzione del significato della direttiva contenuta nella legge di delegazione, anche alla luce dell’interpretazione che la Corte stessa ha in passato dato dei limiti previsti nell’art. 15, comma 2, della Costituzione. Nel confutare, invece, il profilo relativo all’irragionevolezza della disposizione impugnata, la Corte richiama una sua recente decisione sul punto, in cui già si era soffermata sulla disciplina relativa all’utilizzazione degli impianti per le intercettazioni [cfr. sentenza n. 304 del 2000, in questa Rivista, 2001, p. 185]. Infine, viene rilevata l’inconferenza dell’art. 112 Cost., che riguarda l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, mentre la disposizione impugnata riguarda le garanzie tecniche di espletamento di un mezzo di ricerca della prova. MISURE CAUTELARI PERSONALI a) Misure coercitive ART. 280 Condizioni di applicabilità delle misure coercitive Ordinanza 8 giugno 2001, n. 187 Manifesta infondatezza (in G.U., 13 giugno 2001, n. 23) La questione sottoposta al giudizio della Corte aveva ad oggetto gli artt. 280 e 391, comma 5, c.p.p., nella parte in cui, per i reati di cui all’art. 381, comma 2, c.p.p., non consentono l’applicazione di misure cautelari coercitive fuori dei casi di arresto in flagranza di reato. Il giudice a quo si lamentava, infatti, dell’irragionevolezza di tale disposizione, nella parte in cui non consente di applicare la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di una persona indagata per truffa continuata solo perché l’indagato non è stato arrestato in flagranza di reato, nonché una violazione degli artt. 2 e 13 Cost. La Corte respinge le censure proposte con un’ordinanza di manifesta infondatezza, rilevando, in primo luogo, l’inconferenza dell’art. 2 Cost., posto che ‘‘tra i diritti inviolabili dell’uomo non rientra l’aspettativa dei consociati di vedere tutelata la propria sicurezza mediante una disciplina legislativa — ... — volta a generalizzare il ricorso alle misure cautelari limitative della libertà personale’’; in secondo luogo, l’incomparabilità tra due situazioni profondamente diverse tra loro, quali la posizione dell’indagato arrestato in flagranza e quello


— 1057 — in stato di libertà; infine, la non violazione dell’art. 13, comma 2, Cost., che rinvia al solo al legislatore il compito di individuare i casi in cui il giudice può disporre restrizioni della libertà personale. b) Estinzione delle misure ART. 299 Revoca e sostituzione delle misure Ordinanza 27 luglio 2001, n. 321 Manifesta infondatezza (in G.U., 1o agosto 2001, n. 30) Il giudice a quo, in qualità di giudice per le indagini preliminari, trovandosi a dover decidere della revoca della misura della custodia cautelare in carcere, sotto il venir meno degli indizi che la sorreggono, chiede alla Corte di valutare la conformità agli artt. 3 e 111 Cost., dell’art. 299, commi 3-ter e 4-ter, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il g.i.p. chiamato a provvedere sulla richiesta di revoca di una misura cautelare personale, allorché non sia in grado di decidere allo stato degli atti disponibili, possa acquisire informazioni e disporre accertamenti diversi e ulteriori rispetto a quelli indicati nella disposizione impugnata. Il giudice rimettente chiede dunque alla Corte un intervento di tipo additivo che gli consenta di acquisire d’ufficio altri elementi probatori. La questione viene dichiarata manifestamente infondata sotto tutti i profili dedotti. In primo luogo, non vi è alcuna violazione del principio di uguaglianza, per disomogeneità dei termini posti a raffronto. La valutazione che il giudice deve operare per disporre o mantenere la misura cautelare ex art. 273 c.p.p. non è infatti comparabile con gli accertamenti che il giudice può disporre ai sensi del comma 4-ter dell’art. 299 c.p.p., poiché questi ultimi attengono esclusivamente ad elementi soggettivi dell’indagato esterni rispetto all’oggetto del processo, né con quelli di integrazione probatoria attribuiti al giudice del dibattimento ex artt. 507 e 422 c.p.p. Il principio che sottende il giudizio cautelare de libertate non è quello — invocato dal giudice rimettente — della ricerca della verità (che trasformerebbe, tra l’altro, il giudizio cautelare in una duplicazione di quello di merito), bensì quello della decisione allo stato degli atti, al fine di adeguare costantemente lo status libertatis dell’imputato alle risultanze del procedimento. Ciò considerato, il sistema non si risolve in uno stallo decisorio, poiché, nell’alternativa tra l’accoglimento e il rigetto delle richieste delle parti, la decisione del giudice deve essere guidata dal principio del favor libertatis. Non vi è inoltre alcuna violazione dei principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 Cost. Riprendendo un’affermazione orami divenuta costante nella sua più recente giurisprudenza, la Corte osserva infatti che le modalità e i contenuti del principio del contraddittorio e del diritto di difesa sono materia di spettanza del legislatore entro i limiti della ragionevolezza e che non è una scelta costituzionalmente imposta quella di modellare il giudizio cautelare sullo schema di quello di merito. ART. 302 Estinzione della custodia per omesso interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare Sentenza 4 aprile 2001, n. 95 Illegittimità costituzionale in parte qua (in G.U., 11 aprile 2001, n. 15) La sentenza in oggetto costituisce un ulteriore tassello con cui la giurisprudenza costituzionale, in questi anni, ha contribuito a circondare di forti garanzie il sistema delle misure cautelari. La Corte accoglie infatti la questione proposta sull’art. 302 c.p.p., nella parte in cui non prevede che le misure cautelari coercitive, diverse dalla custodia cautelare, e quelle interdit-


— 1058 — tive, perdano immediatamente efficacia se il giudice non procede all’interrogatorio entro il termine previsto dall’art. 294, comma 1-bis c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. Condividendo il presupposto da cui partiva il giudice a quo, in merito all’identità della funzione che l’interrogatorio svolge in relazione a tutte le misure cautelari, per la loro incidenza sulla libertà della persona, intesa in senso ampio, la Corte individua una lesione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa nel mancato adeguamento dell’art. 302 c.p.p. alla nuova disciplina introdotta con il comma 1-bis dell’art. 294 c.p.p. L’obbligo dell’interrogatorio di garanzia entro dieci giorni per le misure cautelari coercitive non custodiali e per quelle interdittive (art. 294, comma 1-bis, c.p.p.) non può infatti che essere accompagnato dalla sanzione della perdita di efficacia della misura in caso di sua inosservanza, come già avviene qualora l’indagato sottoposto a misura coercitiva custodiale non venga interrogato entro cinque giorni dall’inizio dell’applicazione della misura stessa. ART. 304 Sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare Ordinanza 14 giugno 2001, n. 199 Manifesta inammissibilità (in G.U., 20 giugno 2001, n. 24) Con l’ordinanza n. 199 del 2001 la Corte dichiara manifestamente inammissibile la questione avente ad oggetto le disposizioni di cui all’art. 304, commi 1, lett. b), e 7, c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevedono che la sospensione dei termini di cui all’art. 303 c.p.p. segua — e così venga computata salvo che per il limite relativo alla durata complessiva della custodia cautelare — alla revoca del mandato al difensore da parte dell’imputato’’. Il giudice a quo, pur impostando la questione in termini di irragionevolezza della disciplina, non chiedeva di risolvere un dubbio di costituzionalità, ma di prendere posizione in merito ad un contrasto interpretativo, respingendo un indirizzo della Corte di cassazione. In particolare, premesso di aver già affermato in numerosi provvedimenti che la simultanea revoca dei rispettivi difensori da parte di tutti gli imputati detenuti, denotando un evidente atteggiamento ostruzionistico, non poteva rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 304, comma 1, lett. a), c.p.p., bensì in quella di cui all’art. 304, comma 1, lett. b), c.p.p., il giudice a quo chiedeva alla Corte di avallare definitivamente l’interpretazione da lui condivisa. CONDIZIONI DI PROCEDIBILITÀ ART. 340 Remissione della querela Ordinanza 13 marzo 2001, n. 59 Manifesta inammissibilità (in G.U., 21 marzo 2001, n. 12) La questione risolta con l’ordinanza n. 59 del 2001 aveva ad oggetto, per violazione dell’art. 25, comma 2, Cost., l’art. 340, comma 4, c.p.p., come modificato dalla l. n. 205 del 1999, ‘‘nella parte in cui, per l’ipotesi di mancata accettazione espressa o tacita della remissione di querela, è sufficiente la mancanza di rifiuto espresso o tacito della remissione stessa da parte del querelato’’. Il giudice a quo dubitava della legittimità di tale disposizione, ritenendo che consentisse l’accollo delle spese processuali in capo al querelato, senza che questi avesse accettato espressamente o tacitamente la remissione della querela. Rinveniva un contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost., per il fatto che, da un lato, l’accollo delle spese si sarebbe tradotto ‘‘in una statuizione sostanzialmente di condanna avente portata deteriore e negativa per il soggetto nei cui confronti è indirizzata’’ e, dall’altro, venendo tale statuizione ad incidere su una posizione soggettiva del destinatario, preliminarmente allo stesso avrebbe dovuto essere garantito l’esercizio del diritto di difesa.


— 1059 — La questione viene dichiarata manifestamente inammissibile, poiché il giudice a quo dubitava di una disposizione che in realtà non era chiamato ad applicare, visto che, nell’ipotesi, sottoposta al suo esame, di richiesta di archiviazione per estinzione del reato a seguito di remissione della querela, nessuna disposizione del codice di procedura penale conferisce al giudice il potere di provvedere sulle spese del procedimento, diversamente da ciò che è previsto per le sentenze di non luogo a procedere o di proscioglimento. In tutti i casi in cui il procedimento si arresta senza che sia stata esercitata l’azione penale da parte del pubblico ministero, non è configurabile alcuna condanna alle spese del procedimento, proprio perché nessun accertamento è stato compiuto. ARRESTO IN FLAGRANZA E FERMO ART. 390 Richiesta di convalida dell’arresto o del fermo Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 424 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Il giudice rimettente, in veste di giudice delle indagini preliminari, facendo propria un’eccezione della difesa, dubitava, in sede di convalida dell’arresto, della legittimità costituzionale degli artt. 390, comma 3-bis, e 391 c.p.p., nella parte in cui prevedono che il giudice possa acquisire ed utilizzare per il giudizio di convalida soltanto gli elementi sui quali si fonda la richiesta del pubblico ministero e quelli derivanti dall’interrogatorio dell’arrestato o del fermato. L’impossibilità di assumere ulteriori elementi di giudizio contrasterebbe con gli artt. 3 e 111 Cost. Inoltre, poiché secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, non è possibile acquisire i documenti presentati dalla difesa qualora il pubblico ministero sia assente, il giudice solleva d’ufficio anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 391 c.p.p., nella parte in cui consente al pubblico ministero di non comparire all’udienza di convalida, per violazione dell’art. 111 Cost. La Corte dichiara la manifesta infondatezza di entrambe le questioni. Quanto alla prima censura, riprendendo argomentazioni già contenute nell’ordinanza n. 412 del 1999 [in questa Rivista, 2000, p. 1035], ricorda che la funzione dell’udienza di convalida consiste esclusivamente nel valutare la legittimità dell’arresto, pena una modifica della sua natura e il rischio che non venga conclusa entro le quarantotto ore imposte dall’art. 13 Cost. Non è, inoltre, scelta costituzionalmente obbligata quella di modellare il processo cautelare a quello di merito. In relazione alla seconda questione, invece, si osserva che il carattere facoltativo della partecipazione del pubblico ministero all’udienza di convalida risponde ad esigenze di semplificazione e snellimento del processo, fermo restando che è prevista una forma di contraddittorio ‘‘cartolare’’. Infine, la Corte contesta il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo, in base al quale, assente il p.m., il giudice non potrebbe acquisire i documenti addotti dalla difesa, ricordando che la giurisprudenza di legittimità ammette la produzione di ogni tipo di contributo difensivo, a prescindere dalla partecipazione del p.m. all’udienza di convalida. INCIDENTE PROBATORIO ART. 392 Casi Ordinanza 9 maggio 2001, n. 118 Manifesta inammissibilità (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) Il giudice a quo chiedeva alla Corte di dichiarare l’incostituzionalità degli artt. 392 e 393


— 1060 — c.p.p., nella parte in cui non prevedono che, per i reati di cui all’art. 550 c.p.p. (per i quali si procede con citazione diretta in giudizio), l’incidente probatorio possa essere chiesto e ottenuto sino alla citazione diretta in giudizio. Richiamando le argomentazioni contenute nella sentenza n. 77 del 1994, con cui gli artt. 392 e 392 c.p.p. erano stati dichiarati incostituzionali nella parte in cui non consentivano che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio potesse essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare, il giudice a quo rilevava una disparità di trattamento (art. 3 Cost.) tra le persone indagate in procedimenti per i quali è prevista l’udienza preliminare — che possono, in tale fase, anche dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 405 c.p.p., chiedere ancora l’incidente probatorio — e quelle indagate in procedimenti per i quali è prevista la citazione diretta in giudizio; nonché una violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nell’impossibilità per la persona sottoposta alle indagini di accedere all’incidente probatorio, pur in presenza di una prova non rinviabile in dibattimento, durante il tempo intercorrente tra la scadenza dei termini di cui all’art. 405 c.p.p. e la citazione diretta a giudizio. La Corte, senza pregiudicare la possibilità di intervenire in futuro su un’identica questione, emette un’ordinanza di manifesta inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, poiché il giudice ha omesso di precisare quale sia la ragione dell’indifferibilità della perizia di cui è stata chiesta l’assunzione nel giudizio a quo, considerando quest’ultimo un aspetto essenziale per ottenere un’estensione degli effetti della pronuncia del 1994. ART. 393 Richiesta Ordinanza 16 marzo 2001, n. 70 Manifesta inammissibilità (in G.U., 21 marzo 2001, n. 12) Con l’ordinanza in oggetto viene dichiarata manifestamente inammissibile la questione riguardante l’art. 393, comma 4, c.p.p., nella parte in cui prescrive la necessità della richiesta di proroga del termine delle indagini preliminari per l’espletamento dell’incidente probatorio. Il giudice rimettente, premesso di essere stato investito del ‘‘problema della inutilizzabilità degli atti di indagine effettuati al di là del termine stabilito dalla legge’’, aveva individuato diversi profili di incostituzionalità nella violazione degli artt. 3, 10, 24, 76 e 111 Cost., ma la Corte non viene posta nelle condizioni di entrare nel merito della questione, poiché la lacunosità dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza non consente di capire per quale motivo, in qualità di giudice delle indagini preliminari, egli sia investito del tema dell’utilizzabilità di una prova, la cui valutazione è invece normalmente riservata al giudice del dibattimento o al giudice chiamato ad emettere una decisione sulla base di tale risultato probatorio. ART. 398 Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio Sentenza 9 maggio 2001, n. 114 Non fondatezza (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) Con la sentenza n. 185 del 2001, la Corte decide la questione di legittimità costituzionale dell’art. 398, comma 5-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’ipotesi di reato di cui all’art. 572 c.p. (Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) ‘‘fra quelli in presenza dei quali, ove fra le persone interessate all’assunzione della prova nelle forme dell’incidente probatorio vi siano minori di sedici anni, il giudice stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze del minore lo rendano necessario od opportuno’’. Il giudice rimettente chiedeva di includere anche quello di cui all’art. 572 c.p., oggetto del giudizio a quo, nell’elenco dei reati per i quali è consen-


— 1061 — tito procedere all’incidente probatorio nella forma dell’audizione protetta, ritenendo irragionevole (art. 3 Cost.) tale lacuna, dal momento che anche nell’ipotesi di cui si discute sussistono le medesime esigenze di salvaguardia della personalità del minore. La Corte dichiara non fondata la questione proposta, ritenendo non irragionevole la scelta del legislatore di differenziare i casi in cui si procede per reati sessuali dagli altri. Condividendo, però, le preoccupazioni del giudice rimettente e non escludendo che possano sussistere esigenze di protezione della personalità dei minori anche per reati diversi da quelli sessuali, la Corte ripercorre la disciplina dell’ordinamento processuale, individuando gli istituti che consentono comunque di venire incontro a tali necessità. In primo luogo, ricorda l’art. 498, comma 4, c.p.p., in base al quale l’esame testimoniale del minore è condotto dal giudice, che può avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile; l’art. 472, comma 4, c.p.p., che consente al giudice di disporre che l’esame dei minorenni avvenga a porte chiuse; e l’art. 114, comma 6, c.p.p., che vieta la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni. Inoltre — ed è questo il punto centrale della decisione — la Corte suggerisce al giudice come ottenere in via interpretativa il medesimo risultato oggetto dell’ordinanza di rimessione. Invita, infatti, a considerare che il comma 4-bis dell’art. 498 c.p.p., che disciplina le modalità dell’esame testimoniale nel dibattimento, consente al giudice di ricorrere all’art. 398, comma 5-bis, c.p.p., che è appunto la norma impugnata. Se è vero che — come ritiene la Corte — il comma 4-bis dell’art. 498 c.p.p., sia pure introdotto nel contesto della disciplina dei reati concernenti la prostituzione e la pornografia minorili, riguarda in realtà le modalità dell’esame testimoniale, a prescindere dal reato per cui si procede, grazie al rinvio operato dall’art. 401, comma 5, c.p.p., che dispone che nell’incidente probatorio le prove sono assunte con le modalità previste per il dibattimento, è allora possibile, anche nell’incidente probatorio e per qualsiasi tipo di reato, sentire il minore con le modalità di cui all’art. 398, comma 5-bis, c.p.p. CHIUSURA DELLE INDAGINI PRELIMINARI ART. 409 Provvedimenti del giudice sulla richiesta di archiviazione Ordinanza 14 dicembre 2001, n. 408 Manifesta infondatezza (in G.U., 19 dicembre 2001, n. 49) Con la presente ordinanza, la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza di due questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 409, comma 2, c.p.p. Il giudice rimettente chiedeva, infatti, di dichiarare l’incostituzionalità, in via preliminare, di tale disposizione nella sua totalità, in riferimento agli artt. 3, 76, 97, 101, 111, 112 Cost.; in subordine, ‘‘dell’obbligo di applicazione dell’art. 409, comma 2, c.p.p., anche per i reati previsti dall’art. 550 c.p.p. in quanto applicabile ai sensi dell’art. 549 c.p.p.’’, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 97, 101 e 111 Cost. Per quanto riguarda la prima questione, la Corte osserva che i dubbi esposti dal giudice a quo in ordine alla superfluità della fissazione di un’apposita udienza in camera di consiglio, nel caso in cui il giudice dissenta dalla richiesta di archiviazione, e all’aggravio che ciò può determinare sull’organizzazione degli uffici e sulla dilatazione dei tempi processuali, si fondano su una premessa basata non su un’incompatibilità tra norma oggetto e parametro costituzionale, quanto su conseguenze di mero fatto che la norma può provocare. Sono quindi insussistenti le denunciate violazioni dell’art. 97 Cost., che è del tutto estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale; dell’art. 101 Cost., poiché il meccanismo denunciato non solo non viola il principio di soggezione del giudice solo alla legge, ma ne costituisce una piena espressione; dell’art. 111 Cost., poiché la violazione della ragionevole durata del processo non è dedotta come conseguenza astratta e generale della normativa impugnata, ma


— 1062 — in quanto derivante dalla situazione particolare dell’ufficio in cui si trova il giudice rimettente. Né, infine, è riscontrabile una violazione dell’art. 3 Cost., se poste a raffronto sono il procedimento di archiviazione e quello di proroga delle indagini preliminari, dal momento che nel primo il giudice deve anche esaminare profili di merito. Anche la questione sollevata in via subordinata viene dichiarata manifestamente infondata. Non esistendo per il legislatore l’obbligo di differenziare i procedimenti in base alla maggiore o minore gravità dei reati presi in considerazione, non appare irragionevole l’aver previsto in ogni caso un adeguato spazio al contraddittorio. UDIENZA PRELIMINARE ART. 423 Modificazione dell’imputazione Ordinanza 8 giugno 2001, n. 185 Manifesta infondatezza (in G.U., 13 giugno 2001, n. 23) La Corte costituzionale è chiamata a decidere una questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 423 c.p.p., nella parte in cui non prevede che, in caso di modifica del capo di imputazione operata nel corso dell’udienza preliminare, il pubblico ministero chieda che la modificata contestazione sia inserita nel verbale d’udienza e il verbale sia notificato per estratto all’imputato contumace. Il giudice rimettente, comparando la disciplina prevista per l’udienza preliminare e quella per il dibattimento, individuava in tale lacuna una violazione dei principi di ragionevolezza, di uguaglianza (art. 3 Cost.) e del contraddittorio (art. 111 Cost.). La questione viene tuttavia dichiarata manifestamente infondata, proprio per l’incomparabilità delle due situazioni poste a raffronto. Nonostante le modifiche apportate dalla l. n. 479 del 1999 all’udienza preliminare, quest’ultima conserva la funzione di verificare l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero. L’ampiezza delle valutazioni che deve operare il giudice dell’udienza preliminare è diversa da quella di spettanza del giudice del dibattimento. In tale prospettiva, la Corte ritiene che il mutamento del quadro dell’accusa possa ricevere una disciplina difforme e più snella rispetto a quella dettata per il dibattimento. ART. 425 Sentenza di non luogo a procedere Ordinanza 13 marzo 2001, n. 63 Manifesta infondatezza (in G.U., 21 marzo 2001, n. 12) La questione risolta dalla presente ordinanza nel senso della manifesta infondatezza aveva ad oggetto l’art. 425 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice, nel pronunciare sentenza di non luogo a procedere, possa condannare l’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile — salvo che ritenga di disporne la compensazione totale o parziale per giusti motivi — qualora la mancata decisione sull’azione civile in sede penale, conseguente alla pronuncia di detta sentenza, non si ricolleghi ad una determinazione del danneggiato o non sia al medesimo addebitabile. I parametri di costituzionalità invocati erano gli artt. 3 e 24 Cost., ma il giudice rimettente aveva in realtà motivato la questione esclusivamente con riferimento al tertium comparationis costituito dalla pronuncia della sentenza dell’applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p., nella disciplina risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 443 del 1990. In quella decisione, infatti, l’art. 444 c.p.p. era stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevedeva la possibilità della condanna delle spese processuali a favore della parte civile.


— 1063 — La Corte contesta invece l’equiparazione della sentenza di non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., a quella di applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p., poiché, mentre quest’ultima, pur non potendo essere identificata come una vera e propria sentenza di condanna, è a questa equiparata, la sentenza di non luogo a procedere in nessun caso può essere equiparata ad una sentenza di condanna. Pertanto, come già nella sentenza n. 73 del 1993, relativa alla mancata previsione della condanna alle spese processuali in ipotesi di sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per oblazione, ex art. 162 c.p., la Corte pronuncia un’ordinanza di manifesta infondatezza, ricordando che al danneggiato dal reato è comunque consentito chiedere la rifusione delle spese processuali in un successivo giudizio di risarcimento del danno avanti al giudice civile. FRANCESCA BIONDI Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Ferrara


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‘‘IL COMPORTAMENTO DELLE PARTI TRA INVALIDITÀ E RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO’’ SEMINARIO DI STUDI IN RICORDO DEL PROF. ANTONINO GALATI - CATANIA, 24-25 MAGGIO 2002

1. Il 24 e 25 maggio 2002, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, si è svolto — nell’aula che per tanti anni ne ha ospitato le lezioni — un Seminario di studi in ricordo del prof. Antonino Galati prematuramente scomparso sul tema ‘‘Il comportamento delle parti tra invalidità e ragionevole durata del processo’’. Dopo gli indirizzi di saluto e i commossi ricordi del prof. Ferdinando Latteri, magnifico rettore dell’Università di Catania, del prof. Enzo Zappalà, preside della Facoltà di Giurisprudenza, del dott. Giacomo Scalzo, procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Catania, e dell’avv. Fabio Florio, presidente dell’Ordine forense di Catania, i lavori hanno avuto inizio, alla presenza della moglie e delle figlie del giurista scomparso, con la relazione introduttiva del prof. Delfino Siracusano. Evidenziato come il tema da trattare muovesse, ampliandoli, dai risultati delle indagini scientifiche svolte dal prof. Galati sui limiti derivanti dall’avere dato causa alla nullità (artt. 187 c.p.p. abr. e 182 c.p.p.) e confluite nel volume ‘‘Il comportamento delle parti nel regime delle nullità processuali penali’’ (1970), il prof. Siracusano ha messo in luce l’estremo interesse di una materia dotata ancora oggi, a oltre trent’anni di distanza, d’indiscutibile attualità. Il relatore ha illustrato, quindi, il programma del Seminario: il peculiare punto d’analisi inerente i ritardi addebitabili alla parte pubblica (prof. Amodio); gli effetti connessi all’uso strumentale delle garanzie processuali (prof. Grevi); la centralità delle tematiche relative all’inutilizzabilità della prova e all’incidenza su essa del consenso delle parti (prof. Illuminati); il ruolo preminente della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nelle elaborazioni in tema di ragionevole durata del processo, non solo penale (prof. Chiavario). Il prof. Ennio Amodio, intervenendo su ‘‘Scelte investigative del pubblico ministero e irragionevole durata del processo’’, ha messo a fuoco come, in materia di durata del processo penale, non debba aversi riguardo esclusivamente ai ritardi addebitabili alla condotta processuale del difensore, tralasciando l’incidenza del comportamento della parte pubblica (‘‘strabismo culturale’’). Ha sottolineato, infatti, come sia il contesto costituzionale con il nuovo art. 111, sia la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e l’esperienza del processo anglo-americano mostrino, invece, che nel rito accusatorio gran parte dell’attenzione è focalizzata proprio sui tempi lunghi derivanti dalla libertà investigativa di cui è dotato il pubblico ministero. Il relatore ha individuato tre diverse patologie riconducibili ad abusi del processo operati dalla parte pubblica: i processi inutili, i processi mal o non istruiti, i processi cumulativi (maxi-processi). L’indispensabile raffronto fra norme scritte e diritto vivente consente all’oratore di evidenziare come sia rinvenibile nel codice di procedura penale un principio di completezza delle indagini, ribadito anche dalla c.d. legge Carotti del 1999, che sanziona in udienza preliminare le eventuali lacune istruttorie con il potere d’ufficio di cui all’art. 421-bis c.p.p. Si tratta, però, di un dovere del pubblico ministero nella prassi non rispettato, con una conseguente ‘‘continuità investigativa’’ che costituisce causa di appesantimenti e ritardi. Pari-


— 1065 — menti, l’art. 125 att. c.p.p. impone al pubblico ministero di esercitare l’azione penale solo qualora abbia elementi sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio. In mancanza di tale corredo probatorio l’imputazione non andrebbe formulata dovendosi optare per una richiesta di archiviazione. Si assiste, invece, ad una ‘‘fluidità dell’imputazione’’ che accompagna la vita del processo, anche in questo caso con appesantimenti e ritardi. A tali fenomeni se ne aggiunge un altro connesso alla discrezionalità del pubblico ministero nel selezionare i fatti e le persone nei cui confronti esercitare l’azione penale, quello dei maxi-processi. Di ‘‘continuità investigativa’’, ha proseguito il relatore, può parlarsi anche con riferimento ai termini di durata massima delle indagini preliminari che svolgono una funzione esclusivamente sollecitatoria, essendo le richieste di proroga sottoposte soltanto a inefficaci controlli cartolari; e, comunque, anche una volta concluse le indagini non esistono termini per l’esercizio dell’azione penale. Causa di evidenti diseconomie è pure l’eventualità di una duplicazione delle indagini preliminari per uno stesso fatto ad opera di pubblici ministeri costituiti presso giudici dalla diversa competenza territoriale. In tali ipotesi, infatti, l’unico rimedio è di carattere gerarchico e non giurisdizionale (art. 54-quater c.p.p.). Né hanno maggiore efficacia in proposito gli interventi eventuali del giudice: qualora, infatti, il pubblico ministero presso il giudice territorialmente incompetente richieda l’applicazione di una misura cautelare, il giudice, rilevata la propria incompetenza, potrà rigettare la richiesta cautelare, ma non inibire le indagini in corso che proseguiranno fino all’udienza preliminare, primo momento nel quale è possibile rilevare l’incompetenza per territorio. Di ‘‘fluidità investigativa’’ può parlarsi ancora anche in udienza preliminare in merito a quello che in ambito forense è definito ‘‘il fascicolo virtuale’’. Ex art. 419 c.p.p. il pubblico ministero avrebbe, infatti, l’obbligo di depositare tutti gli atti d’indagine, anche quelli espletati dopo la richiesta di rinvio a giudizio, ma nella prassi sono frequenti le produzioni dell’ultima ora in udienza, ciò che, non comportando alcuna invalidità, consentirà al difensore di chiedere un rinvio, con evidente ritardo nell’iter processuale. Fenomeno comune, pur se con minore frequenza, anche alla fase dibattimentale, giacché, ex art. 430 c.p.p., neanche il rinvio a giudizio sospende le indagini del pubblico ministero. Tale continuità investigativa comporta, sempre più spesso, un esercizio dell’azione penale attraverso contestazioni frettolose delle quali ‘‘aggiustare il tiro’’ strada facendo: si rimodella il fatto e si dà vita così, attraverso un abuso delle nuove contestazioni — che possono aversi anche in assenza di novum sulla sola base di una semplice rilettura degli atti già acquisiti nel corso delle indagini preliminari (cfr. Cass. pen., Sez. un., 28 ottobre 1998, n. 13, Barbagallo e altro) —, ad un fenomeno di ‘‘fluidità dell’imputazione’’, causa anch’esso di notevoli ritardi del giudizio. Un processo accusatorio puro, oltretutto, non prevede modifiche dell’accusa in dibattimento. Il codice Vassalli, inoltre, era incentrato sullo slogan maxi-indagini e non maxi-processi, ma la discrezionalità attribuita al pubblico ministero in tema di modalità di esercizio dell’azione penale ha riproposto, per esigenze di rafforzamento degli impianti accusatori, proprio il fenomeno che, invece, si voleva eliminare. Ad essere irragionevoli per la durata del processo sono, allora, ad avviso del relatore, proprio tali libertà concesse al pubblico ministero. Il prof. Amodio ha ricollegato, pertanto, i tempi irragionevoli: ai processi inutili, ciò che si è verificato, ad es. nell’ambito del fenomeno di tangentopoli con indagini durate anni e conclusesi con una richiesta di rinvio a giudizio, nonostante la già maturata prescrizione avrebbe giustificato, più opportunamente, una richiesta di archiviazione; ai processi mal o non istruiti, nei quali l’azione penale viene esercitata, non nel rispetto del criterio di cui all’art. 125 att. c.p.p., ma solo perché qualcosa comunque già è stata fatta e qualcos’altro è probabile verrà fuori in seguito, grazie proprio alla libertà investigativa della quale gode il pubblico ministero; ai maxi-processi frutto della ricerca di una maggiore solidità della tesi accusatoria attraverso la riunione di più posizioni, ma dalla dubbia compatibilità con il nuovo art. 111 Cost. Il prof. Amodio, quindi, ha fornito alcune indicazioni de iure condendo. Nell’ambito di


— 1066 — un recupero della cultura della giurisdizione, sarebbe possibile, infatti, proseguendo nell’opera iniziata dalla c.d. legge Carotti, irrobustire la figura del giudice per le indagini preliminari, immaginandolo non più come un soggetto che interviene in via incidentale, quanto come un organo ‘‘stanziale’’; un giudice non dotato esclusivamente di un ‘‘diritto di affaccio’’, ma in ‘‘servizio permanente effettivo’’, che possa, ad es., dichiarare la prescrizione di un reato applicando l’art. 129 c.p.p. anche in sede di proroga dei termini delle indagini preliminari o di applicazione di una misura cautelare, ovvero inibire l’operato di un pubblico ministero il cui ufficio abbia sede presso un giudice territorialmente incompetente. Un rafforzamento dei poteri del giudice sarebbe auspicabile anche nella fase dibattimentale, attribuendogli il potere di concludere immediatamente giudizi ‘‘inutili’’ fondati su ipotesi accusatorie o corredi probatori inconsistenti, ovvero, in caso di maxi-processi, di separare, ex art. 18 c.p.p., le posizioni proprio per un eventuale contrasto con la ragionevole durata del processo. Fonte di possibili abusi, ha concluso il prof. Amodio, anche la previsione di appello e ricorso per Cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa dal giudice per le indagini preliminari, malgrado tradizionalmente nel modello accusatorio non sia previsto un potere del pubblico ministero d’impugnare la sentenza d’assoluzione. Per alcuni aspetti speculare a quella del prof. Amodio è stata la relazione del prof. Vittorio Grevi sul tema ‘‘Uso strumentale degli istituti processuali ed esigenze di effettività della giustizia penale’’. Il relatore ha concentrato la propria attenzione sulle tecniche e strategie difensive di natura esclusivamente dilatoria che determinano un ‘‘abuso del processo’’, perché strumentalmente finalizzate a rallentarne il cammino e ad eludere l’accertamento dei fatti, differendo il momento del passaggio in giudicato della sentenza fino al maturarsi dei termini di prescrizione del reato. Comportamento dal quale consegue un chiaro vantaggio per l’imputato, mentre eventuali ritardi provocati dalla parte pubblica si ripercuotono di solito contro gli interessi processuali della medesima. E questa, con riferimento a quanto sostenuto dal prof. Amodio, è una fondamentale differenza tra le strategie dilatorie ad opera dell’imputato (per lui vantaggiose) e quelle eventualmente praticate dal pubblico ministero (per lui svantaggiose). Il prof. Grevi, richiamata la nozione di effettività della giustizia penale (esigenza primaria che il giudizio raggiunga in tempi ragionevoli il suo fine ‘‘naturale’’, rappresentato non da una sentenza purchessia, ma da una sentenza definitiva di accertamento sul merito che applichi la legge sostanziale), ha sottolineato come suo presupposto sia l’efficienza processuale. Nodo fondamentale è, pertanto, il contemperamento tra efficienza del processo e garanzie dettate a tutela dell’imputato. Queste ultime rappresentano, infatti, rispetto al fine dell’accertamento, il mezzo, che in quanto tale non può prevalere sul primo. Le garanzie sarebbero moltiplicabili ad libitum verso un processo ‘‘supergarantito’’, ma, quando non strettamente necessarie o specificamente imposte a livello costituzionale (base imprescindibile), rischierebbero di appesantirlo notevolmente in termini di eccessiva complessità, rendendolo inidoneo a ben funzionare. Il relatore ha posto poi in luce come il principio della ragionevole durata si configuri oggettivamente come una sorta di ‘‘presupposto strutturale’’ del modello di ‘‘giusto processo’’ delineato dal nuovo art. 111 Cost. (quasi una costituzionalizzazione del valore dell’efficienza del processo e, quindi, della sua effettività), all’interno del quale costituisce una ‘‘cerniera’’ fra i principi generali del processo e quelli peculiari del processo penale. Pertanto, la discrezionalità del legislatore nella codificazione delle garanzie ulteriori rispetto a quelle imprescindibili sancite dalla Costituzione incontra il limite, innanzitutto logico e oggettivo, della ragionevolezza dei tempi, da garantire anche predisponendo congegni normativi tali da evitare un uso strumentale degli istituti processuali. Rilevato che l’abuso delle garanzie processuali con finalità dilatorie (fenomeno oggetto di particolare attenzione da parte dei processual-civilisti e degli studiosi di teoria generale del processo, da Calamandrei a Taruffo, ma piuttosto trascurata dai processual-penalisti) conduce a risultati contrastanti con la ragionevole durata e con le stesse esigenze di effetti-


— 1067 — vità del processo, il prof. Grevi ha sottolineato come, di fatto, si pervenga ad esiti paradossali, nel senso che l’imputato che abusa del processo strumentalizzando a fini dilatori istituti posti a tutela dei suoi diritti, viene premiato dalla sopraggiunta prescrizione del reato, conseguendo un risultato che pone in crisi la stessa indefettibilità della giurisdizione. Impegno del legislatore dovrebbe essere, quindi, attribuire al giudice poteri di interdizione delle strategie dilatorie. Emerge, invece, la tendenza opposta, come si ricava da un recente progetto di legge (derivante dall’unificazione di due disegni a firma rispettivamente dei deputati Anedda e Mormino), che prevede, fra l’altro, l’eliminazione del giudizio di manifesta superfluità o irrilevanza della prova di cui all’art. 190 c.p.p. Contro il pericolo di certe iniziative dilatorie, il prof. Grevi ha proposto, per esempio, la limitazione della deducibilità di alcune nullità assolute, qualora sia dimostrato che il vizio era già conosciuto e poteva essere eccepito in tempo. Il fine da perseguire è quello di creare istituti che colpiscano la convenienza delle parti a piegare le garanzie ad interessi indiretti rispetto a quello tutelato. Il nesso da interrompere è quello imperniato sulla sequenza ‘‘abuso-interesse-vantaggio’’, come avvenuto, ad es., in tema di rimessione del processo e ricusazione del giudice, ad opera della Corte costituzionale, che, con due differenti pronunce (sentt. n. 353/1996 e n. 10/1997), è intervenuta sul meccanismo processuale che creava l’interesse della parte consentendole la paralisi del processo. Alla stessa logica rispondono le previsioni in tema di revoca del difensore o di rinuncia all’incarico, ma non sempre la regola della prorogatio del difensore revocato o rinunciante, funzionale ad evitare strategie dilatorie, viene correttamente applicata, come dimostrano altresì recenti vicende processuali. Anche l’esplicazione di alcune libertà fondamentali, inoltre, può facilitare gli abusi, come per esempio l’astensione dalle udienze, cioè il c.d. ‘‘sciopero’’ degli avvocati, in merito al quale le Sezioni unite (sent. 28 novembre 2001-11 gennaio 2002, n. 1021, Cremonese) hanno affermato implicitamente che la prescrizione non costituisce un diritto dell’imputato. Passando a trattare, poi, delle impugnazioni (che rappresentano una garanzia fondamentale ed un diritto per le parti), il prof. Grevi ha rimarcato come esse non possano divenire la regola, nel senso che sia sempre prassi comune presentare comunque un’impugnazione. Bisogna, cioè, evitare che l’impugnante, guardando oltre i risultati fisiologici dell’istituto, miri a sottrarsi all’esito del processo, puntando sulla mannaia di una decisione dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione sopravvenuta alla sentenza impugnata: decisione che integra una delle massime espressioni di diniego di giustizia. La critica, tuttavia, non ha riguardato la condotta del difensore, riconosciuta deontologicamente corretta, giacché è suo dovere primario percorrere ogni strada che si riveli vantaggiosa per l’assistito, bensì un sistema processuale che premia di fatto chi si sottrae all’accertamento giudiziale, puntando a differire, con ogni mezzo, l’epilogo naturale del processo: cioè mirando ad evitare il passaggio in giudicato di una sentenza che si pronunci sul merito della regiudicanda. Occorre allora che il legislatore si attrezzi per adottare tutti quei congegni dissuasivi che possano impedire all’imputato di lucrare vantaggi indiretti dall’eventuale impiego abusivo delle garanzie, intervenendo anzitutto in chiave riduttiva sull’intera disciplina delle impugnazioni. Ma proprio il legislatore si mantiene colpevolmente inerte, e certo non giova che molti parlamentari, svolgendo la professione di avvocato penalista, siano portatori di una specifica forma mentis, tutto sommato incline a non contrastare la possibilità di strategie strumentali di stampo dilatorio. Da oltre settanta anni, ad es., è immutata la disciplina sostanziale dell’estinzione del reato per prescrizione, oltretutto calibrata nei termini con riferimento ad un processo di tipo inquisitorio, ed è singolare che nessuno in parlamento si sia mai sforzato di rimuovere un tale paradosso. Le impugnazioni — ha chiarito il prof. Grevi — sono offerte alle parti al fine di ottenere ciò che già spettava loro nel momento in cui è stata emessa la sentenza e che non è stato concesso, essendo la stessa ingiusta o illegittima per errores in judicando o in procedendo da correggersi nel grado successivo. Non sono offerte, invece, per perseguire interessi secondari ed eterogenei rispetto alla ratio dell’istituto, collegati al trascorrere del tempo: ciò che è contrario non solo all’efficienza, ma anche all’effettività del processo.


— 1068 — Dopo aver ricordato l’evoluzione giurisprudenziale delle Sezioni unite in tema di cause originarie d’inammissibilità del ricorso in Cassazione e di formazione progressiva del giudicato, il relatore ha concluso indicando quali debbano essere gli impegni prioritari per il legislatore in materia di ragionevole durata del processo: a) ridurre i tanti istituti che creano ritardi ingiustificati; b) sanzionare o comunque impedire l’abuso degli istituti processuali; c) evitare che dall’uso strumentale delle garanzie derivi un indebito vantaggio per la parte autrice dell’abuso; d) recuperare un certo modus operandi dei soggetti processuali ispirato al canone di lealtà, il che sposta, però, gli interventi sul piano deontologico, giacché, in campo penale, avrebbe scarsa rilevanza la codificazione di un dovere processuale di lealtà delle parti, come previsto, invece, in ambito civile. Alla relazione del prof. Grevi hanno fatto seguito gli interventi del dott. Francesco Puleio (sulle differenze fra il processo senza detenuti e quello con detenuti, nel quale deve evitarsi che il giudizio di merito divenga una duplicazione di quello de libertate), del dott. Bruno Di Marco (sul recupero della centralità del giudice e della professionalità del pubblico ministero al fine di distinguere i processi utili dagli inutili) e del dott. Ignazio Fonzo (sui concetti di processo inutile, processo mal istruito e maxi-processo). Chiamato in causa dai precedenti interventi, ha ripreso, poi, la parola il prof. Amodio per puntualizzare, in tema di completezza delle indagini, come la previsione di cui all’art. 358 c.p.p. rappresenti solo il dover essere e non l’essere dell’attività d’indagine del pubblico ministero, come riconosciuto dallo stesso legislatore che ha avvertito l’esigenza di modificare di conseguenza l’art. 291 c.p.p. 2. Il 25 maggio, i lavori sono proseguiti in seduta meridiana sotto la presidenza del prof. Giovanni Conso, che ha sottolineato le differenze fra processo penale e processo civile nel quale la prescrizione rimane sospesa e non rappresenta un ingombro per nessuno. Quella relativa alla prescrizione è, infatti, una questione di estrema rilevanza, la cui soluzione va affrontata insieme agli studiosi di diritto sostanziale, ma non è l’unico aspetto del problema. È necessario, invece, prenderne in considerazione anche altri ad esso collegati, come, ad. es., quelli relativi ai processi per reati sanzionati con la pena dell’ergastolo per i quali la prescrizione non opera, ma che non per questo possono essere processi più lunghi. Tutta la materia, ha proseguito il prof. Conso, deve essere rivisitata oggi alla luce della modifica dell’art. 111 Cost., che impone una rilettura anche delle precedenti pronunce della Corte costituzionale. Il presidente ha ricordato, infine, quanto il prof. Galati — stigmatizzando l’aver dato causa alla nullità e, conseguentemente, al ritardo — affermava (sia nella citata monografia, che nella voce Nullità, 1978) sulla necessità di congegni processuali in grado di prevenire il verificarsi dell’invalità; ed ha concluso invitando a portarne avanti la battaglia di giurista sia nelle aule universitarie che in quelle giudiziarie. È seguita, quindi, la relazione su ‘‘Comportamento delle parti e invalidità probatoria’’ del prof. Giulio Illuminati, che, ricordando la figura del prof. Galati ne ha evidenziato l’assoluta affidabilità delle conclusioni, ma soprattutto la chiarezza esemplare e la semplicità nell’esposizione, possibili solo a chi abbia un grande rispetto per gli altri. Il relatore ha sottolineato, poi, la stretta aderenza fra gli argomenti da trattare e l’opera principale del prof. Galati, compiendo, a partire proprio dalle considerazioni dello studioso scomparso, un dettagliato excursus dell’evoluzione che ha caratterizzato, dagli anni settanta ad oggi, la rilevanza della condotta delle parti in presenza di poteri d’ufficio del giudice e di norme cogenti. Evoluzione che si è conclusa con un’inevitabile irrigidimento della disciplina delle nullità assolute, nel momento in cui, con il nuovo codice, le parti acquisivano maggiore incidenza nello svolgimento del processo. Successivamente, il relatore ha richiamato le parole del prof. Grevi sulla possibile previsione di limiti anche temporali all’insanabilità delle nullità assolute quando già conosciute, ipotesi necessariamente astratta che in concreto si scontra con la natura delle nullità assolute che, ex art. 179 c.p.p., ineriscono o al giudice (ma queste non si verificano mai) o a pubblico ministero, imputato e difensore (ma queste non possono che essere sottratte alla loro dispo-


— 1069 — nibilità ed essere, pertanto, insanabili e rilevabili d’ufficio). In sede penale (diversamente che nel processo civile) è lo stesso concetto di abuso del processo (o del diritto nel processo penale) ad essere inconciliabile con l’inviolabilità dei diritti oggetto dello stesso. Dopo tali premesse, il prof. Illuminati ha introdotto il tema della relazione, affermando che in materia di prova, seppur non è possibile delineare un vero principio dispositivo — come categoricamente affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111/1993 sull’art. 507 c.p.p. —, esistono comunque rilevanti spazi di disponibilità. Quanto alle tematiche attinenti al comportamento delle parti e ai loro poteri di controllo sulla legittimità dell’elaborazione probatoria, il relatore si è soffermato, in particolare, su quegli istituti probatori che attribuiscono rilevanza al consenso delle parti, analizzando fino a che punto quest’ultimo sia in grado di limitare l’operare dell’invalidità. Problema insoluto in tema di invalidità probatoria è quello della convergenza sulla stessa fattispecie di nullità e inutilizzabilità. Solo la seconda, tuttavia, è sempre insanabile in ogni stato e grado del procedimento, ciò che rende preferibile una sua prevalenza sulla contestuale nullità (la Corte di cassazione è, comunque, molto cauta in proposito, riconoscendo prevalenza all’inutilizzabilità della prova soltanto quando ci sia un divieto espresso in termini positivi o quando la si richiami letteralmente, e non, invece, quando sia ricavabile solo indirettamente). Circa le modalità dell’esame incrociato, ad es., trattandosi di materia indisponibile dalle parti e nella quale il consenso verso modalità irrituali è irrilevante, in caso di esame condotto direttamente dal giudice (al di fuori dalle ipotesi previste), è l’inutilizzabilità, pur se inespressa, a dover prevalere sulla nullità, perché quest’ultima, inerendo ad un’ipotesi di violazione del diritto di difesa, sarebbe a regime intermedio e, pertanto, sanabile. L’analisi delle invalidità probatorie condotta dal relatore ha coinvolto anche l’inammissibilità della prova che si configura, ex art. 468 c.p.p., in assenza delle liste testimoniali, osservando come non si tratti d’inammissibilità della prova in senso proprio, giacché non causa un’impossibilità di acquisire la prova, ma semplicemente priva la parte del diritto ad ottenere l’ammissione della stessa, determinando, così, solo un’inammissibilità della richiesta di prova, che lascia spazio all’operare dell’art. 507 c.p.p. Ciò che evidenzia ancora una volta l’assenza di un potere dispositivo in punto di prova. Disponibilità che non sussiste neanche nel caso di acquisizione erronea di atti al fascicolo del dibattimento, ipotesi nella quale è operante comunque l’art. 191 c.p.p. Più complesso, invece, il caso inverso di atti che nel fascicolo del dibattimento avrebbero dovuto stare, ma che non vi sono inseriti, risolvibile probabilmente ritenendo che il regime di utilizzabilità prescinde dalla materiale collocazione dell’atto. L’attenzione del relatore si è rivolta, poi, alle manifestazioni espresse di volontà delle parti, passando all’analisi dei riti negoziali, che oggi, ex art. 111, comma 5, Cost., hanno ricevuto un indiretto riconoscimento costituzionale. In tema di patteggiamento sulla pena, la giurisprudenza ricollega all’accordo fra le parti la rinuncia implicita o la mancanza d’interesse a rilevare le invalidità degli atti realizzatesi precedentemente, ma, in realtà, non vi è alcuna norma che, anche in caso di accordo sulla pena, importi la rinunzia a far valere l’inutilizzabilità o le nullità assolute. La questione invero coinvolge la complessa materia della natura della sentenza di patteggiamento. In tema di giudizio abbreviato, invece, le Sezioni unite, superando una criticabile giurisprudenza che parlava di accettazione tacita del contenuto del fascicolo del pubblico ministero, hanno espressamente affermato, con la sentenza Tammaro (21 giugno-30 giugno 2000, n. 16), che le prove inutilizzabili o gli atti viziati da nullità assoluta sono sottratti al potere negoziale delle parti, poiché quello abbreviato è un vero e proprio giudizio con il quale si rinuncia solo al contraddittorio dibattimentale, e ciò a maggior ragione in seguito alle modifiche apportate dalla c.d. legge Carotti, che ha eliminato la valutazione del giudice di ammissibilità allo stato degli atti, attribuendogli un potere integrativo. Il relatore si è occupato successivamente di quella che ha definito l’ipotesi più significativa di gestione consensuale della prova, l’acquisizione concordata di atti nel fascicolo del dibattimento, c.d. prova patteggiata, che non esclude, però, nel silenzio del legislatore, l’opera-


— 1070 — tività dell’art. 190 c.p.p., come implicitamente confermato dall’art. 507, comma 1-bis, c.p.p. Il patteggiamento sulla prova non implica, cioè, una sanatoria delle eventuali invalidità della stessa. Devono, quindi, essere escluse: 1) le prove vietate; 2) quelle colpite da nullità assoluta; 3) e forse anche quelle viziate da nullità relativa, giacché la rinuncia ad eccepire la nullità deve essere espressa, e non può parlarsi neanche di accettazione degli effetti dell’atto o dell’aver dato causa alla nullità, al massimo potrebbe trattarsi di mancanza d’interesse. Di una vera disponibilità delle parti può discutersi, allora, ad avviso del relatore, solo per l’inutilizzabilità c.d. fisiologica e per le nullità relative o a regime intermedio. Il prof. Illuminati ha concluso sottolineando come nel nuovo codice di procedura penale il comportamento delle parti assuma uno spazio maggiore, pur se non sempre in maniera evidente. Se, però, negli anni settanta il comportamento delle parti era rilevante perché le stesse erano responsabili dell’economia processuale, oggi, invece, è cambiata la prospettiva e l’impostazione dell’economia processuale può dirsi superata. Le parti non sono più strumentalmente investite di poteri funzionali al regolare andamento del processo, ma sono protagoniste dello stesso, pur senza poter invadere il campo riservato ai poteri d’ufficio del giudice. Ad avviso del relatore, tuttavia, non è quello dei limiti alle invalidità il terreno per garantire la celerità del giudizio, che si differenzia dall’effettività del processo (esigenza strutturale), poiché l’art. 111, comma 2, ultima parte, Cost. ha una funzione di garanzia e l’art. 6 Convenzione europea si esprime in termini di diritto dell’imputato, come avviene anche nei sistemi anglosassoni ove si ha diritto ad essere giudicati in tempi ragionevoli, pena la possibilità stessa di svolgere il giudizio. La durata del processo, pertanto, va circoscritta con mezzi strutturali, giacché i giudizi durano tanto anche perché i difensori li rallentano, ma non solo per questo. L’ultima relazione si deve al prof. Mario Chiavario, sul tema ‘‘Ragionevole durata del processo e comportamento del ricorrente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo’’. Il relatore d’avvio si è soffermato sull’inserimento in Costituzione del principio della ragionevole durata del processo, constatando come, comunque, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’esercizio della sua funzione di giudice delle libertà e dei diritti fondamentali, già decenni prima rispetto alla riforma costituzionale si fosse confrontata con lo stesso (il più invocato a Strasburgo e posto a base di condanne degli Stati aderenti alla Convenzione europea). Il prof. Chiavario ha passato in rassegna gli orientamenti ai quali la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato vita interpretando la previsione dell’art. 6, par. 1, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ed ha segnalato la distinzione che vi si rinviene fra ritardi (giustificabili) connessi con la complessità della vicenda processuale e ritardi (non giustificabili) frutto di tecniche dilatorie o di procedure inutilmente farraginose. Il relatore, attraverso una ricca rassegna giurisprudenziale, ha evidenziato i criteri individuati dalla Corte europea, fin dalle sue prime sentenze, per la concretizzazione del concetto di ragionevole durata del processo; nozione dalla natura particolarmente aperta che lascia ampio spazio alla funzione maieutica degli operatori del diritto. Tre i criteri: 1) la ‘‘complessità’’ della causa, civile o penale, e la gravità della ‘‘posta in gioco’’ (‘‘l’enjeu’’) determinata, fra l’altro, dallo stato di detenzione o meno dell’imputato; 2) il ‘‘comportamento del ricorrente’’ (criterio ripreso dalla c.d. legge Pinto); 3) il ‘‘comportamento delle pubbliche autorità’’, non solo delle autorità processuali procedenti, ma di tutte le autorità pubbliche. Parametri questi che devono essere valutati contemporaneamente per poter dar vita ad un bilanciamento fra gli stessi. Quanto, in particolare, al comportamento tenuto dal ricorrente nel corso del procedimento, esso ha innanzitutto una rilevanza di natura esclusivamente oggettiva, al di fuori da ogni retorica o moralismo (cfr. ad es. Corte eur., 30 ottobre 1991, Wiesinger c. Austria, par. 57). Il relatore ha sottolineato, allora, la sintonia anche terminologica, nonostante la diversità di contesto, nell’utilizzo delle nozioni di economia processuale e di responsabilità indi-


— 1071 — viduale, rilevanti nella giurisprudenza europea e che ampio spazio avevano anche nella citata monografia del prof. Galati. Un primo punto fermo nella giurisprudenza della Corte europea è che la considerazione del comportamento del ricorrente non cede ad una facile logica compensativa rispetto alla responsabilità dello Stato per inerzia, eccesso di zelo o disorganizzazione strutturale. Per quanto è responsabilità del privato, il ritardo è addebitato al privato, ma per quanto è responsabilità dello Stato è addebitato a quest’ultimo senza alcuna compensazione, come, ad es., qualora il ricorrente abbia chiesto innumerevoli rinvii delle udienze, ma la lungaggine processuale sia conseguenza anche degli eccessivi intervalli intercorrenti fra le diverse udienze (cfr. Corte eur., 23 settembre 1998, Portington c. Grecia, par. 29). Altro punto fermo è che la valutazione della condotta dell’imputato non si spinge fino a pretendere che lo stesso fornisca una collaborazione attiva per un celere svolgimento del processo (cfr. ad es. Corte eur., 10 dicembre 1982, Corigliano c. Italia, par. 42 e Corte eur., 12 maggio 1999, Saccomanno c. Italia, par. 25). Oggetto di censura sono, invece, gli atteggiamenti lato sensu ostruzionistici: ostruzionismo che può derivare anche dall’uso strumentale di mezzi leciti di garanzia. Si tratta di questione estremamente delicata, perché nell’affrontarla si corre il rischio di censurare condotte di parte non solo pienamente legittime, ma anche pienamente rispondenti ai fini del processo. Facile la soluzione nei confronti dell’imputato che si sottrae ad una misura cautelare con la fuga, imponendo ricerche che determinano ritardi (cfr. ad es. Corte eur., 19 febbraio 1991, Girolami c. Italia, par. 15). Più articolate, invece, altre ipotesi: lecito, ad es., negare sempre la propria responsabilità, ma non altrettanto attendere l’ultimo momento utile per far valere diritti che potevano ben essere esercitati in momenti più opportuni e con una minore incidenza sulla durata del processo che, in queste ipotesi, non può più essere imputata allo Stato (cfr. ad es. Corte eur., 23 settembre 1998, I.A. c. Francia, par. 121). In particolare, in tema di impugnazioni e nonostante i ritardi che ne possano conseguire, la Corte europea riconosce un pieno diritto ad ottenere la riparazione di irregolarità riconducibili alla condotta dell’autorità giudiziaria, escludendo ogni responsabilità del privato che proponga anche più ricorsi, ma che veda riconosciute le proprie ragioni, dimostrando, così, un comportamento non temerario e, pertanto, non censurabile nella sua incidenza sui tempi del processo (cfr. ad es. Corte eur., 25 febbraio 1993, Dobbertin c. Francia, par. 43). La Corte si è occupata, inoltre, anche della responsabilità del ricorrente per i fatti del suo difensore, e in particolare del suo difensore d’ufficio (cfr. ad es. Corte eur., 24 ottobre 1989, H. c. Francia, par. 55), a lui addebitabili, giacché imputato e difensore formano un tutt’uno, in modo che il primo non potrebbe lamentarsi dei ritardi causati dal difensore, anche se d’ufficio. Impostazione forse discutibile, ha osservato il relatore, specialmente alla luce di un altro orientamento della stessa Corte europea che ritiene, invece, lo Stato responsabile anche di certi aspetti della gestione della difesa d’ufficio (cfr. ad es. Corte eur., 9 aprile 1984, Goddi c. Italia, par. 31). Il prof. Chiavario, in conclusione, ha sottolineato le tematiche inerenti il rapporto fra le impugnazioni e il loro utilizzo strumentale, finalizzato al raggiungimento della prescrizione, che esclude un diritto al risarcimento per eccessiva durata del giudizio (cfr. ad es. Corte eur., 18 luglio 1994, Vendittelli c. Italia, par. 27, in tema di amnistia). La prescrizione, infatti, istituto non generalizzato in altri ordinamenti stranieri, non rientra nell’ambito dei diritti fondamentali previsti dall’ordinamento (cfr. Corte eur., 22 giugno 2000, Coëme e a. c. Belgio, par. 114, sul principio di legalità ex art. 7 Convenzione). Se ne ricava una sollecitazione al legislatore affinché vengano eliminati certi incentivi a comportamenti strumentali, attraverso l’inserimento di disincentivi che conducano a condotte fisiologiche. In tale contesto, il relatore ha segnalato le importanti aperture della Corte europea e i relativi moniti agli Stati affinché gli ordinamenti nazionali si attrezzino per scoraggiare i ricorsi ‘‘abusivi’’ alla Corte di cassazione con impugnazioni infondate e strumentali, al fine di concentrare le risorse esclusivamente su quelli sostenibili (cfr. ad es. Corte eur., 14 dicembre 1999, Khalfaoui c. Francia, par. 49, pur nel quadro di una censura a discipline delle impugnazioni puramente ‘‘deterrenti’’, come il subordinare l’ammissibilità del ricorso in Cassazione alla previa costi-


— 1072 — tuzione in carcere dell’imputato, quale garanzia, in caso di rigetto, dell’esecuzione della condanna). Dopo la relazione del prof. Chiavario, si sono svolti gli interventi programmati del dott. Fabrizio Siracusano (sul principio di ragionevole durata contenuto nell’art. 111 Cost., da intendere, nel suo carattere oggettivo, quale metodo, parimenti al principio del contraddittorio), della dott.ssa Agata Ciavola (con una critica al criterio della lesività in senso sostanziale delle nullità e un’analisi della disciplina della rinnovazione degli atti invalidi e della regressione del procedimento), del dott. Francesco Ponzetta (che, in tema di processi male istruiti, si è soffermato, in particolare, sulla funzione di economia processuale svolta dal giudizio abbreviato) e del dott. Francesco Furnari (sui tempi del giudizio civile). Al termine di tali interventi il prof. Enzo Zappalà ha dichiarato chiusi i lavori del Seminario. ANGELO ZAPPULLA Assegnista di ricerca in Procedura penale Università di Catania


GIURISPRUDENZA

b) Giurisprudenza costituzionale

CORTE COSTITUZIONALE — 7-9 maggio 2001, n. 115 Pres. Ruperto — Rel. Neppi Modona Giudizio abbreviato - Esclusione del consenso del pubblico ministero ai fini dell’ammissione del rito nonché esclusione della facoltà del pubblico ministero di chiedere una integrazione probatoria - Asserita violazione del principio del contraddittorio - Non fondatezza della questione (Cost., art. 111, comma 2; c.p.p., art. 438). Giudizio abbreviato - Potere del giudice di assumere anche d’ufficio elementi probatori necessari ai fini della decisione - Asserita violazione del principio del contraddittorio - Inammissibilità della questione (Cost., art. 24, comma 2, e 111, comma 4; c.p.p., art. 441, comma 5). È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p. con riferimento all’art. 111, comma 2, Cost. per la parte in cui esclude il consenso del pubblico ministero ai fini della ammissione del rito nonché esclude la facoltà di chiedere un’integrazione probatoria. Infatti, il principio del contraddittorio tra le parti, enunciato dal secondo comma dell’art. 111 Cost., non è evocabile in relazione a una disciplina che attiene alle forme introduttive del giudizio abbreviato. È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 441, comma 5, c.p.p., nella parte in cui attribuisce al giudice poteri istruttori e decisori, sollevata con riferimento agli artt. 24, comma 2 e 111, comma 4 Cost., in quanto l’ordinanza di rimessione è priva di qualsiasi motivazione in ordine alla effettiva esigenza del giudice a quo di assumere elementi necessari ai fini della decisione (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Con ordinanza del 14 gennaio 2000 (r.o. n. 405 del 2000) il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Imperia ha sollevato questione di legittimità costituzionale: a) dell’art. 438 del codice di procedura penale, come novellato dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti ai giudici di pace e di esercizio della professione forense), ‘‘nella parte in cui non prevede il contraddittorio delle parti nella ammissione al rito abbreviato’’ e nella parte in cui non attribuisce al giudice alcun potere


— 1074 — di preliminare delibazione in ordine alla ammissibilità del rito, in riferimento agli artt. 101 e 111 della Costituzione; b) dell’art. 441 del codice di procedura penale, come modificato dalla l. n. 479 del 1999, nella parte in cui consente al giudice che, investito di una richiesta di giudizio abbreviato, ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, di assumere anche d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione. Il rimettente premette che nel corso dell’udienza preliminare l’imputato aveva formulato richiesta di giudizio abbreviato e il pubblico ministero aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p. sotto il duplice profilo della violazione del principio del contraddittorio (art. 111 Cost.) e della violazione del principio della soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.), censurando rispettivamente la mancata previsione del consenso della pubblica accusa e l’impossibilità per il giudice di esprimersi in ordine alla ammissibilità del rito. Il giudice a quo condivide le censure del pubblico ministero, ma ritiene che il contrasto della nuova disciplina con il novellato art. 111 Cost. emerga soprattutto dalla attribuzione al giudice di particolari poteri istruttori che ne snaturerebbero la configurazione originaria. Gli artt. 438 e 441 c.p.p., come modificati dalla l. n. 479 del 1999, delineano infatti, secondo il rimettente, una ‘‘nuova figura di giudice che ineluttabilmente rimanda a quella del giudice istruttore’’; un giudice che non ha alcun potere di delibazione preliminare sulla richiesta di giudizio abbreviato ma che, qualora non ritenga di poter decidere allo stato degli atti, assume, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p., gli elementi necessari ai fini della pronuncia, che pure è chiamato a adottare, a differenza del ‘‘vecchio’’ giudice istruttore, sulla responsabilità dell’imputato. Evidente sarebbe quindi sotto questo particolare profilo il contrasto della nuova disciplina con quanto disposto nell’art. 111 Cost., secondo cui il processo è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. L’attribuzione al giudice di così rilevanti poteri di integrazione probatoria ex officio violerebbe inoltre, a giudizio del rimettente, anche l’art. 24, comma 2, Cost.; quand’anche si intendesse l’art. 441, comma 5, c.p.p. come disposizione ‘‘parallela’’ all’art. 507 c.p.p., l’imputato che ha chiesto il rito abbreviato rimarrebbe infatti esposto ad un mutamento del quadro probatorio e persino, essendo fatta salva l’applicabilità dell’art. 423 c.p.p., ad una modifica dell’imputazione, senza alcuna possibilità di ‘‘ripensamento’’. 1.1. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. Per quanto concerne la censura riferita alla violazione del principio del contraddittorio, che deriverebbe dalla eliminazione della necessità del consenso al rito del pubblico ministero, la difesa erariale rileva che la nozione di contraddittorio individuata dal costituente è da riferire al contraddittorio nella formazione della prova, ‘‘indefettibile in tutti i casi diversi da quelli che lo stesso art. 111 della Costituzione individua, casi tra i quali, appunto, si annovera il consenso dell’imputato e, a più forte ragione, la richiesta dell’imputato’’. Quanto alla presunta lesione dell’art. 101 Cost. per l’impossibilità per il giudice di esprimersi in ordine alla ammissibilità del rito, nell’atto di intervento si sottolinea che, essendo la legge ordinaria a prevedere che il giudice debba procedere con le forme del giudizio abbreviato a richiesta dell’imputato, il giudice in realtà non soggiace alla mera volontà delle parti ma alla legge che di quella volontà regola gli effetti.


— 1075 — Infine, in relazione alla censurata attribuzione al giudice di poteri di integrazione probatoria ex officio, l’Avvocatura sottolinea che il principio della separazione fra funzioni accusatorie e funzioni decisorie ovvero tra queste ultime e le funzioni istruttorie, principio intorno al quale sostanzialmente si fondano le argomentazioni del giudice a quo, non trova riconoscimento costituzionale (v. sentenza n. 123 del 1970) e che comunque, quand’anche si volesse ritenere che esso sia derivabile direttamente da quello costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova, è lo stesso art. 111 Cost. a prevederne la possibilità di deroga per effetto del consenso dell’imputato, in questo caso implicito nella richiesta di giudizio abbreviato. 2. Con ordinanza del 19 gennaio 2000 (r.o. n. 305 del 2000) il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, commi 1 e 3, 101, comma 1, e 102, comma 1, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale: 1) dell’art. 438, commi 1 e 4, c.p.p., nella parte in cui prevede che l’imputato venga ammesso al giudizio abbreviato a seguito di semplice richiesta, senza alcuna preliminare delibazione da parte del giudice; 2) degli artt. 438, commi 1 e 4, e 442, comma 2, c.p.p., nella parte in cui prevedono che alla richiesta dell’imputato, non soggetta ad alcuna verifica da parte del giudice, consegua la riduzione di un terzo della pena; 3) dell’art. 442, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui consente l’utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel rito ordinario; 4) dell’art. 441, comma 3, c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale, salvo che tutti gli imputati richiedano che si svolga in udienza pubblica. Il giudice a quo, premesso in fatto che l’imputato aveva chiesto la definizione del procedimento con il rito abbreviato, in primo luogo rileva che l’opzione legislativa di rimettere in via esclusiva ad una sola delle parti la scelta del rito, senza alcun controllo di ‘‘congruità’’ da parte del giudice, contrasta con l’art. 102, comma 1, Cost., che ‘‘implicitamente postula l’illegittimità di qualunque forma, anche mediata, di condizionamento [della funzione giurisdizionale] da parte di soggetti diversi’’, e ciò tanto più quando la scelta sulle modalità di definizione del procedimento è destinata ad incidere anche sul trattamento sanzionatorio. La mancata attribuzione al giudice di un potere di controllo sulla richiesta formulata dall’imputato sarebbe inoltre lesiva dell’art. 3 Cost. se confrontata con la diversa disciplina prevista per l’ipotesi in cui l’imputato subordini la richiesta di giudizio abbreviato a integrazione probatoria; in questo caso infatti il giudice può, ai sensi dell’art. 438, comma 5, c.p.p., rigettare la richiesta di giudizio abbreviato, esercitando un potere che, secondo il rimettente, irragionevolmente gli viene sottratto nell’altra situazione sostanzialmente identica. In secondo luogo il rimettente denuncia l’illegittimità costituzionale degli artt. 438, commi 1 e 4, e 442, comma 2, c.p.p., nella parte in cui prevedono che alla richiesta dell’imputato, non soggetta ad alcun controllo del giudice, consegua la riduzione di un terzo della pena o la sostituzione della pena dell’ergastolo con la reclusione di anni trenta. La riduzione derivante dalla scelta del rito, per essere conseguenza anch’essa di una manifestazione di volontà unilaterale, violerebbe infatti non solo l’art. 102 Cost., posto che la determinazione in concreto della pena è atto di giurisdizione che spetta al giudice ed è affidato al suo potere discrezionale ai sensi dell’art. 132 c.p., ma anche gli artt. 3 e 27, comma 1, Cost., che impongono che la pena, determinata in base


— 1076 — al principio di proporzionalità, sia altresì ragguagliata alla gravità del fatto e alla capacità a delinquere del colpevole. La prevista diminuzione di un terzo della pena conseguente alla scelta del rito semplificato contrasterebbe inoltre con l’art. 27, comma 3, Cost. secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: ‘‘difatti, se in relazione ad un determinato reato commesso da un determinato imputato si considera rieducativa la pena fissata in una certa misura, tale non può essere considerata anche una pena inferiore di un terzo’’. Altro profilo di incostituzionalità viene individuato nell’art. 442, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui consente l’utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel rito ordinario, per l’irragionevole disparità di trattamento che conseguirebbe da una disciplina per la quale, a fronte di identiche situazioni, i medesimi atti, a seconda del rito prescelto, possono o meno concorrere a formare il convincimento del giudice, con possibilità di esiti processuali contraddittori. Il giudice a quo dubita infine, in riferimento agli artt. 3, 101, comma 1, e 102, comma 1, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 441, comma 3, c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale, salvo che tutti gli imputati richiedano che si svolga in udienza pubblica. In base alla disposizione censurata la scelta fra udienza pubblica e udienza camerale, verrebbe irragionevolmente sottratta al giudice e rimessa in modo esclusivo e insindacabile a una delle parti, così da consentire che anche fatti di estrema gravità, tali da suscitare un enorme allarme sociale, vengano giudicati nel segreto della camera di consiglio. A giudizio del rimettente tale disciplina si rivela non solo irragionevole (art. 3 Cost.) e lesiva dell’art. 102, comma 1, Cost. (in quanto sottrarrebbe al giudice un potere intimamente connesso alla funzione giurisdizionale), ma anche in evidente contrasto con il principio secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo (art. 101, comma 1, Cost.) e con quello della pubblicità del processo, principio ritenuto dalla stessa Corte costituzionale ‘‘garanzia di giustizia e mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità’’ (si richiama in proposito la sentenza n. 25 del 1965). L’art. 441, comma 3, c.p.p., richiedendo per l’adozione dell’udienza pubblica l’unanime volontà di tutte le parti, violerebbe inoltre anche l’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (e, quindi, l’art. 10 Cost.), in quanto il diritto alla pubblica udienza di alcuni imputati viene ad essere vanificato dal ‘‘diritto di veto’’ di coloro che invece vogliono che si proceda in camera di consiglio. 2.1. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione venga dichiarata non fondata. A parere dell’Avvocatura le modifiche apportate al giudizio abbreviato dalla legge n. 479 del 1999 rispondono a un preciso invito rivolto dalla Corte al legislatore che, nel por mano alla riforma, si è mosso su tre fronti. Da un lato ha allargato l’area di operatività dell’istituto, ricomprendendovi ipotesi di delitti puniti con la pena dell’ergastolo esclusi dalla Corte solo per eccesso di delega, dall’altro ha valorizzato la riduzione di pena, che è stata così configurata come una sorta di facoltà dell’imputato e, infine, ha previsto la possibilità di integrazione probatoria anche d’ufficio. Secondo l’Avvocatura però anche una complessa integrazione probatoria non autorizza a sostenere che lo ‘‘sconto’’ di pena sia concesso ‘‘senza contropartita’’.


— 1077 — In realtà, oggetto della integrazione probatoria non può che essere, secondo l’Avvocatura, unicamente la prova ‘‘necessaria’’ ai fini della decisione e ciò a prescindere dal tipo di richiesta formulata dall’imputato. Indipendentemente dal tenore testuale dell’art. 438, comma 5, c.p.p., infatti, la richiesta condizionata a integrazione probatoria priverebbe l’organo giudicante solo degli ordinari poteri di verifica della superfluità e irrilevanza della prova (art. 192 c.p.p.) ‘‘per restituirglieli sul piano della accoglibilità della richiesta’’, dovendosi intendere il riferimento, contenuto in tale norma, alla compatibilità della richiesta con le finalità di economia processuale proprie del rito, come finalizzato unicamente ad evitare richieste pretestuose. L’ordinamento inoltre riconosce una congrua attenuazione della pena a coloro che, optando per una rinuncia al metodo dialogico della formazione della prova, acconsentono all’utilizzazione degli atti raccolti nel fascicolo del pubblico ministero e in prospettiva, in relazione ad eventuali integrazioni probatorie, all’assunzione di prove con modalità diverse (e meno dispendiose) rispetto a quelle dibattimentali. Secondo l’Avvocatura pertanto la nuova normativa, da un lato, non lede in alcun modo l’esercizio della funzione giurisdizionale e, dall’altro, lasciando all’imputato la scelta del metodo su cui fondare la decisione in ordine alla responsabilità, non contrasta con gli artt. 3 e 27 Cost. Infine, per quanto concerne la censura relativa al previsto svolgimento del giudizio in camera di consiglio, l’Avvocatura rileva come non possa rinvenirsi alcun contrasto tra la disciplina censurata e gli artt. 3, 101 e 102 Cost. in quanto i parametri evocati ‘‘non implicano necessariamente che la pubblicità investa udienze diverse da quelle dibattimentali, ovvero, in ipotesi, ed in presenza di altre esigenze meritevoli di tutela, che siano sempre e solo riferibili ad una udienza piuttosto che all’atto conclusivo di questa’’. 3. Con ordinanza in data 4 aprile 2000 (r.o. n. 279 del 2000), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p., nella parte in cui prevede l’obbligo del giudice di accogliere la richiesta di giudizio abbreviato e di applicare la diminuzione di un terzo della pena, in caso di condanna, anche quando lo stato degli atti imponga di svolgere un’integrazione probatoria complessa, ‘‘non dissimile da quella che sarebbe compiuta nel dibattimento’’. Premette il rimettente che in sede di udienza preliminare l’imputato ha chiesto la celebrazione del giudizio con il rito abbreviato e che il procedimento, particolarmente complesso, non appare decidibile allo stato degli atti, ma richiede una attività istruttoria simile a quella che sarebbe compiuta nel dibattimento. Il giudice a quo ricostruisce quindi l’istituto, come venutosi a delineare a seguito della l. n. 479 del 1999, e rileva che il giudizio abbreviato, ‘‘nella sua forma pura’’, è automaticamente introdotto dalla richiesta dell’imputato, il cui accoglimento non è più subordinato ad alcun requisito di ammissibilità; non è previsto né il consenso del pubblico ministero né la verifica, da parte del giudice, circa la decidibilità del processo ‘‘allo stato degli atti’’. Infatti, prosegue il rimettente, se il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti, deve, anche d’ufficio, assumere gli elementi necessari ai fini della decisione pure in ipotesi, come quella in esame, in cui la carenza delle investiga-


— 1078 — zioni del pubblico ministero imponga di esperire una integrazione probatoria complessa. Tale soluzione normativa, ad avviso del rimettente, non appare ragionevole sia perché equipara situazioni processuali tra loro diverse, sia perché non è in linea con la configurazione deflativa del procedimento, fondato pur sempre su ragioni di economia processuale e in relazione al quale è infatti prevista la riduzione della pena nella misura di un terzo. Il contrasto con l’art. 3 Cost. sarebbe inoltre ravvisabile anche raffrontando tale forma di rito abbreviato con quella, prevista dall’art. 438, comma 5, c.p.p., che consente all’imputato di subordinare la richiesta del rito a una integrazione probatoria ritenuta necessaria ai fini della decisione. In tale ipotesi, infatti, il giudice è chiamato a valutare se l’integrazione probatoria richiesta sia compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento e può respingere la richiesta se l’integrazione, per la sua complessità, sia incompatibile con la natura del rito abbreviato. L’‘‘incoerenza interna delle diverse articolazioni del giudizio abbreviato’’ appare al rimettente priva di razionale giustificazione: a fronte della ‘‘obiettiva esigenza di una istruttoria complessa il rito sarà ammesso nell’abbreviato puro e respinto — invece — in quello condizionato’’; la situazione, ad avviso del giudice a quo, sarebbe simile a quella che ha indotto questa Corte a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 247 del d.lgs. n. 271 del 1989 (sentenza n. 66 del 1990) e dell’art. 452 c.p.p. (sentenza n. 183 del 1990). L’art. 438 c.p.p., nella parte in cui prevede una automatica diminuzione della pena nella misura di un terzo, anche in presenza di una complessa attività istruttoria, si porrebbe inoltre in contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena, enunciato dall’art. 27 Cost. Vengono sul punto richiamate le sentenze nn. 313 e 284 del 1990. 3.1. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione venga dichiarata non fondata, formulando le medesime considerazioni svolte nell’atto di intervento relativo all’ordinanza di rimessione iscritta al n. 305 del r.o. del 2000. 4. Con ordinanze in data 9, 10, 16 e 19 maggio 2000 (r.o. nn. 607, 465, 474 e 464 del 2000), il Tribunale di Firenze ha sollevato, su richiesta del pubblico ministero, in riferimento agli artt. 3, 97 (parametro richiamato solo in r.o. n. 607 del 2000), 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 del codice di procedura penale, da solo e in combinato disposto con l’art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 recante ‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’ (r.o. nn. 465 e 474 del 2000), ‘‘nella parte in cui non prevede il diritto del p.m. di intervenire sulla richiesta di rito abbreviato formulata dall’imputato, esprimendo consenso o dissenso motivato, e nella parte in cui non prevede autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità della richiesta’’. Premettono in fatto i rimettenti che gli imputati hanno chiesto il giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 223 del d.lgs. n. 51 del 1998, ma che, nella specie, appare applicabile la nuova formulazione dell’art. 438 c.p.p., in quanto, ‘‘trattandosi di norma a prevalente carattere processuale, essa è estensibile a tutti i procedimenti pendenti, e quindi anche all’attuale processo’’.


— 1079 — L’art. 111 della Costituzione, rileva il giudice a quo, prevede che ogni processo si svolga nel contraddittorio delle parti e in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale; previsione che non può che riguardare qualsiasi fase processuale in quanto le disposizioni contenute nei ‘‘commi 4 e 5 regolano, più specificamente, l’applicazione del principio del contraddittorio alle sole fasi in cui viene assunta la prova’’. A tutte le parti deve quindi essere riconosciuto il ‘‘diritto ad interloquire’’, inteso non ‘‘come mera facoltà formale ad esprimersi’’, ma nel senso che ad esso possa conseguire efficacia giuridica; in caso contrario il diritto a contraddire e il principio della parità delle parti resterebbero privi di contenuti concreti, con conseguente violazione dell’art. 111 Cost. L’attuale impianto normativo priva invece ‘‘il pubblico ministero del diritto a contraddire le richieste dell’imputato in tema di giudizio abbreviato’’ e non attribuisce alcuna efficacia giuridica alle sue eventuali deduzioni. Secondo il giudice a quo al pubblico ministero dovrebbe essere data la possibilità di pronunciarsi sulla richiesta dell’imputato: in presenza di un dissenso motivato il processo dovrebbe proseguire con il rito ordinario, salva la possibilità per il giudice, a dibattimento concluso, di ritenere ingiustificato il dissenso e applicare all’imputato la riduzione di pena. In alternativa, secondo il rimettente, il giudice dovrebbe avere la possibilità di ammettere o respingere la richiesta di rito abbreviato. I principi della parità delle parti e del contraddittorio sarebbero altresì violati in quanto alla perdita da parte del pubblico ministero della facoltà di interloquire sulla scelta del rito non si accompagna né una disciplina del diritto alla prova, non essendo riconosciuto al pubblico ministero di chiedere integrazioni probatorie d’iniziativa, né ‘‘una modifica estensiva delle attuali limitazioni alla facoltà di impugnare’’. Inoltre, una normativa ‘‘che esclude il giudice dall’assolvimento di indefettibili compiti istituzionali che gli sono propri, violerebbe anche il principio della giurisdizione e quindi l’art. 101 della Costituzione’’. L’eliminazione dei presupposti per accedere al giudizio abbreviato avrebbe ‘‘trasformato’’ il diritto dell’imputato alla scelta del rito in un ‘‘singolare diritto soggettivo assoluto’’ al conseguimento automatico ed irragionevole del beneficio della riduzione di pena. La ratio del rito abbreviato, pur sempre rinvenibile nella abbreviazione dei tempi processuali in conseguenza del mancato svolgimento dell’istruttoria dibattimentale, e a fronte della quale il legislatore ha riconosciuto uno sconto di pena, non appare più sussistente nell’attuale normativa in cui il giudice ha comunque l’obbligo di applicare la diminuente, anche nell’ipotesi in cui, non potendo decidere allo stato degli atti, deve procedere ad una integrazione probatoria, venendo così ‘‘disattese le ragioni di speditezza e economia alla base dell’istituto’’. La situazione da ultimo delineata violerebbe, secondo il rimettente, l’art. 97 Cost. sotto il profilo dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione a causa della attribuzione agli imputati di vantaggi significativi e del tutto ingiustificati. Tali vantaggi, peraltro, riguarderebbero indifferentemente tutti gli imputati, senza alcuna distinzione tra coloro che hanno effettivamente contribuito alla riduzione dei tempi processuali e ‘‘coloro che invece hanno dato causa alla dilatazione


— 1080 — degli stessi attraverso attività di integrazione probatoria resasi necessaria in base alle valutazioni del giudice’’, con conseguente violazione anche dell’art. 3 Cost. 4.1. Nei giudizi instaurati con r.o. nn. 464, 465 e 474 del 2000, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata e riportandosi alle argomentazioni svolte con l’atto di intervento depositato in relazione alla questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma (r.o. n. 279 del 2000). CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Vengono sottoposte al giudizio di questa Corte numerose questioni di legittimità costituzionale relative a vari aspetti della nuova disciplina del giudizio abbreviato, quale risulta a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, sollevate dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Imperia (r.o. n. 405 del 2000), Bologna (r.o. n. 305 del 2000) e Roma (r.o. n. 279 del 2000), nonché dal Tribunale di Firenze (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000). I profili di illegittimità costituzionale denunciati dai rimettenti possono essere raggruppati nei termini di seguito sintetizzati. 1.1. Tutti i rimettenti in sostanza lamentano che il giudice sia stato privato del potere di respingere la richiesta di giudizio abbreviato, previsto dall’abrogato art. 440 del codice di procedura penale nei casi in cui il giudice stesso ritenesse che il processo non poteva essere deciso allo stato degli atti. Sotto diverse angolazioni viene pertanto sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p., da solo e in combinato disposto con l’art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (r.o. nn. 465 e 474 del 2000), nella parte in cui non prevede ‘‘un autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità della richiesta’’ (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000, nonché r.o. n. 405 del 2000), ‘‘nella parte in cui consente che l’imputato, con richiesta non soggetta ad alcuna verifica, venga ammesso al giudizio abbreviato’’ (r.o. n. 305 del 2000), ‘‘nella parte in cui non prevede che il giudice possa rigettare la richiesta di giudizio abbreviato’’ (r.o. n. 279 del 2000). Ancorché sia formalmente impugnato dal Tribunale di Firenze anche l’art. 223 del d.lgs. n. 51 del 1998, tutte le censure sono rivolte in realtà all’art. 438 c.p.p., come sostituito dall’art. 27 della l. n. 479 del 1999: l’art. 223 è invero richiamato, nella prospettiva dei rimettenti, solo come la disposizione che consente in via transitoria l’instaurazione del rito abbreviato nella fase dibattimentale. Ad avviso dei giudici rimettenti, la norma censurata contrasterebbe: — con l’art. 3 Cost.: a causa dell’irragionevole diversità di trattamento riservato a situazioni processuali sostanzialmente identiche, potendo il giudice rigettare la richiesta di rito abbreviato solo se effettuata nella forma ‘‘subordinata’’ di cui al comma 5 dell’art. 438 c.p.p. (r.o. n. 305 del 2000); perché la riduzione di un terzo della pena a semplice richiesta trasforma, in caso di condanna, ‘‘il diritto processuale dell’imputato alla scelta del rito in un sostanziale diritto del medesimo al conseguimento automatico e irragionevole del beneficio della riduzione di pena’’ (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000); perché la norma censurata tratta in modo uguale situazioni diverse, consentendo di procedere con il giudizio abbreviato, a semplice richiesta dell’imputato, qualunque sia lo stato delle acquisizioni probatorie e, quindi, anche in situazioni in cui si imponga una consistente acquisi-


— 1081 — zione probatoria, e perché, a fronte della ‘‘obiettiva esigenza di un’istruttoria complessa, il rito sarà ammesso nell’abbreviato puro e respinto — invece — in quello condizionato’’, così determinando una diversità di trattamento di situazioni identiche (r.o. n. 279 del 2000); infine, perché non pone alcuna distinzione tra coloro che hanno ‘‘effettivamente contribuito alla riduzione dei tempi processuali e coloro che invece hanno dato causa alla dilatazione degli stessi attraverso attività di integrazione probatoria resasi necessaria in base alle valutazioni del giudice’’ (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000); — con gli artt. 3 e 27, comma 1, Cost., che esigono che ‘‘la pena, in concreto, sia ragguagliata alla gravità del fatto e alla capacità a delinquere del colpevole’’ (r.o. n. 305 del 2000); — con l’art. 27, comma 3, Cost., per ‘‘l’interferenza incontrollata di una diminuente processuale nel delicato esercizio del potere di determinazione in concreto della pena’’, con conseguente violazione del principio di proporzione e della funzione rieducativa della pena (r.o. nn. 279 e 305 del 2000); — con l’art. 97 Cost., in quanto l’attribuzione agli imputati di vantaggi significativi ma ingiustificati violerebbe i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione; — con l’art. 101 Cost., perché l’impossibilità per il giudice di esprimersi in ordine alla stessa ammissibilità del giudizio abbreviato violerebbe il principio della soggezione del giudice solo alla legge (r.o. n. 405 del 2000), traducendosi in soggezione del giudice ‘‘alla mera volontà di una delle parti del processo’’ (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000); — con l’art. 102 Cost., perché l’imputato, con la semplice richiesta, può conseguire la diminuzione di un terzo della pena, ovvero la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione in anni trenta, così incidendo sulla determinazione della pena, la cui ‘‘definizione in concreto [...] è atto di giurisdizione di spettanza del giudice, rientrante nel suo potere discrezionale ex art. 132 c.p.’’, con la conseguenza che l’esercizio della giurisdizione viene ad essere sottoposto a impropri condizionamenti (r.o. n. 305 del 2000). 1.2. Un secondo gruppo di censure, relative al medesimo art. 438 c.p.p., si riferisce alla posizione del pubblico ministero, al quale, a differenza di quanto previsto dalla precedente disciplina, non è riconosciuto alcun potere di interloquire sulla richiesta di giudizio abbreviato formulata dall’imputato. In particolare, l’articolo in esame viene censurato nella parte in cui non prevede né ‘‘il contraddittorio delle parti nell’ammissione al rito abbreviato’’ (r.o. n. 405 del 2000), né ‘‘il diritto del p.m. di intervenire nella richiesta di rito abbreviato, formulata dall’imputato, esprimendo consenso o dissenso motivato’’, né la facoltà, da parte del pubblico ministero, di chiedere una integrazione probatoria (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000). La nuova disciplina sarebbe in contrasto con l’art. 111, comma 2, Cost., perché la omessa previsione dell’intervento del pubblico ministero e della specifica facoltà di chiedere una integrazione probatoria violerebbe il principio che ogni processo si deve svolgere nel rispetto del contraddittorio, in condizioni di parità tra le parti e davanti ad un giudice terzo ed imparziale. 1.3. La legittimità costituzionale del nuovo giudizio abbreviato viene contestata anche sotto il profilo che l’art. 441 c.p.p. ‘‘consente al giudice di assumere,


— 1082 — anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione’’ (r.o. n. 405 del 2000). La norma sarebbe in contrasto con gli artt. 111 e 24 Cost. perché la previsione, in capo allo stesso organo, di poteri istruttori e decisori violerebbe il principio del contraddittorio nella formazione della prova ed esporrebbe l’imputato che ha chiesto il giudizio abbreviato ad un possibile mutamento del quadro probatorio ed alla conseguente, eventuale modifica dell’imputazione, senza che gli venga riconosciuta la facoltà di rinunciare al rito abbreviato. 1.4. In parte complementare alla precedente è la censura rivolta all’art. 442, comma 1-bis, c.p.p., ‘‘nella parte in cui consente l’utilizzazione, nel giudizio abbreviato, di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario’’ (r.o. n. 305 del 2000). La norma contrasterebbe con l’art. 3 Cost. per la diversità della disciplina concernente l’utilizzabilità degli atti del fascicolo del pubblico ministero, consentita in toto solo nel giudizio abbreviato, nonché per la irragionevolezza complessiva della stessa disciplina. 1.5. Infine, vengono avanzati dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 441, comma 3, c.p.p., ‘‘nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale salvo che tutti gli imputati richiedano l’udienza pubblica’’ (r.o. n. 305 del 2000). La norma si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 10, 101 e 102 Cost. per la irragionevolezza di una disciplina che, prevedendo anche per i reati punibili con l’ergastolo la celebrazione del processo in camera di consiglio, salvo che tutti gli imputati ne chiedano la trattazione in pubblica udienza, da un lato sottrae al giudice la scelta tra l’udienza pubblica e quella camerale, ‘‘fondamentale per il corretto e trasparente esercizio della giurisdizione’’, dall’altro crea una sorta di ‘‘diritto di veto’’ da parte dei coimputati, così vanificando il diritto di coloro che richiedono l’udienza pubblica, riconosciuto dall’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 2. Poiché alcune delle questioni relative all’art. 438 c.p.p. sono sostanzialmente identiche, e comunque tutte riguardano la nuova disciplina del giudizio abbreviato, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi. 3. Prima di esaminare i due gruppi di censure concernenti, rispettivamente, i poteri del giudice e del pubblico ministero nella fase introduttiva del giudizio abbreviato, è opportuno premettere che le modifiche introdotte dalla l. n. 479 del 1999 hanno inciso profondamente sulla disciplina di tale rito. In particolare, la richiesta dell’imputato non è più subordinata al consenso del pubblico ministero, previsto dal testo originario dell’art. 438, comma 1, c.p.p., e non è più sottoposta, salvo che nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5, c.p.p., al vaglio di ammissibilità da parte del giudice, contemplato dall’art. 440, comma 1, c.p.p., ora abrogato. Ne deriva che l’imputato, ove presenti la relativa richiesta, ha diritto di essere giudicato mediante il rito abbreviato, così da usufruire, in caso di condanna, della riduzione della pena prevista dalla legge. I nuovi meccanismi introduttivi incidono su un altro carattere fondamentale dell’originaria disciplina del giudizio abbreviato, che non è più basato esclusivamente sugli atti raccolti durante le indagini preliminari, ma prevede varie forme di integrazione probatoria, demandate all’iniziativa dell’imputato (art. 438, comma 5, c.p.p.), del pubblico ministero, ammesso alla prova contraria ove l’imputato ab-


— 1083 — bia esercitato la facoltà di chiedere l’integrazione probatoria (art. 438, comma 5, c.p.p.), dello stesso giudice, qualora ritenga di non poter decidere allo stato degli atti (art. 441, comma 5, c.p.p.). 4. Le questioni di legittimità costituzionale esposte sub 1.1. e sub 1.2. sono infondate. 4.1. La scelta del legislatore di eliminare la valutazione del giudice sull’ammissibilità del giudizio abbreviato — salvo che nell’ipotesi, sopra menzionata, di cui all’art. 438, comma 5, c.p.p. — si innesta nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia. Dapprima la Corte — sul presupposto che, in presenza delle condizioni per addivenire al giudizio abbreviato, all’imputato che ne abbia fatto richiesta deve essere riconosciuto il diritto di ottenere la riduzione di un terzo della pena — ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina che non prevedeva la motivazione del dissenso del pubblico ministero (sentenze nn. 66 e 183 del 1990, n. 81 del 1991) e il controllo giurisdizionale sull’ordinanza di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato (sentenza n. 23 del 1992); con la conseguenza che in entrambe le ipotesi il giudice del dibattimento, ove ritenesse ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, ovvero non fondato il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari aveva dichiarato il procedimento non definibile allo stato degli atti, applicava egli stesso la riduzione di un terzo della pena. Strettamente collegato a questi profili di illegittimità costituzionale era il problema dei parametri ai quali avrebbe dovuto attenersi il pubblico ministero nel motivare il proprio dissenso sulla richiesta di giudizio abbreviato. In assenza di una esplicita indicazione legislativa, la Corte ha individuato il parametro della definibilità del procedimento allo stato degli atti, cioè il criterio dettato per la valutazione di ammissibilità del rito operata dal giudice per le indagini preliminari ex art. 440, comma 1, c.p.p. (sentenza n. 81 del 1991). E poiché, come ha rilevato la successiva sentenza n. 92 del 1992, era lo stesso pubblico ministero a decidere quali e quante indagini esperire in vista della richiesta di rinvio a giudizio, ne derivava ‘‘l’inaccettabile paradosso’’ per cui il pubblico ministero poteva legittimamente precludere l’instaurazione del giudizio abbreviato allegando lacune probatorie da lui stesso determinate; di qui l’indicazione, ‘‘al fine di ricondurre l’istituto a piena sintonia con i principi costituzionali’’, di introdurre ‘‘un meccanismo di integrazione probatoria’’ rimesso alle scelte discrezionali del legislatore. La Corte ha avuto ancora occasione di ritornare sulla disciplina che precludeva la possibilità di integrazione probatoria, ravvisandovi non solo la violazione del diritto di difesa, ma anche una alterazione dei caratteri propri dell’esercizio della funzione giurisdizionale (v., in particolare, sentenza n. 318 del 1992, nonché sentenze n. 56 del 1993 e n. 442 del 1994). 4.2. Raccogliendo i reiterati inviti ‘‘ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali’’ (sentenza n. 442 del 1994), tra il ventaglio delle soluzioni possibili la l. n. 479 del 1999 ha operato scelte che si propongono di porre rimedio agli aspetti contraddittori della precedente disciplina, in particolare eliminando sia la valutazione di ammissibilità da parte del giudice (salvo che nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5, c.p.p.), sia la necessità del consenso del pubblico ministero. Con riferimento ad entrambe le soluzioni, il legislatore ha evidentemente tenuto presenti le considerazioni svolte da


— 1084 — questa Corte circa i profili di incostituzionalità derivanti dall’essere la definibilità allo stato degli atti subordinata alla scelta discrezionale del pubblico ministero di svolgere indagini più o meno approfondite. L’eliminazione del potere di valutazione del giudice sull’ammissibilità del rito — ora previsto, a norma dell’art. 438, comma 5, c.p.p., solo se l’integrazione probatoria richiesta dall’imputato risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento — non determina l’irragionevole diversità di trattamento di situazioni processuali sostanzialmente identiche denunciata dai rimettenti, né, tantomeno, anche ove il giudice disponga d’ufficio ex art. 441, comma 5, c.p.p. una integrazione probatoria lunga e complessa, l’irragionevolezza complessiva del giudizio abbreviato. Al riguardo, e contrariamente a quanto ritengono i rimettenti, ove si debbano compiere valutazioni in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina. Movendosi in quest’ottica, non è neppure producente il confronto — anch’esso prospettato dai rimettenti — tra giudizio abbreviato ‘‘puro’’, accompagnato dalla mera eventualità di integrazione probatoria disposta ex officio, e giudizio condizionato dalla richiesta dell’imputato di integrazione probatoria. Si deve infatti tener presente, da un lato, che sarebbe incostituzionale, come in precedenza già ricordato, fare discendere l’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato da lacune probatorie non addebitabili all’imputato; dall’altro che nelle situazioni in cui è oggettivamente necessario procedere ad una anche consistente integrazione probatoria, non importa se chiesta dall’imputato o disposta d’ufficio dal giudice, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in dibattimento: chiedendo il giudizio abbreviato e rinunciando, conseguentemente, all’istruzione dibattimentale, l’imputato accetta che gli atti assunti nel corso delle indagini preliminari vengano utilizzati come prova e che gli atti oggetto dell’eventuale integrazione probatoria siano acquisiti mediante le forme previste dall’art. 422, commi 2, 3 e 4, c.p.p., espressamente richiamate dall’art. 441, comma 6, c.p.p., così da evitare la più onerosa formazione della prova in dibattimento; infine, presta il consenso ad essere giudicato dal giudice monocratico dell’udienza preliminare. Anche se viene richiesta o disposta una integrazione probatoria, il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario continua dunque ad essere un carattere essenziale del giudizio abbreviato. 4.3. Prive di fondamento sono anche le ulteriori censure, sollevate in riferimento agli artt. 3, 27, 101, comma 2, e 102, comma 1, Cost., che contestano l’eliminazione della valutazione sull’ammissibilità del rito sotto i diversi profili della violazione dei principi della individualizzazione e della funzione rieducativa della pena, nonché di esclusività dell’esercizio della giurisdizione, con particolare riferimento al potere di autonoma determinazione in concreto della pena, che verrebbe sottoposto ad impropri condizionamenti dalla mera volontà dell’imputato. Fermo restando l’automatismo della diminuzione di un terzo della pena, rimane comunque intatto il potere del giudice di determinare la pena base tra il minimo e il massimo edittale e di stabilire la misura della diminuzione o dell’aumento della pena ove siano presenti circostanze attenuanti o aggravanti. Più in generale, la compatibilità tra le facoltà esercitate dalle parti — unilateralmente o


— 1085 — previo accordo — in ordine alla scelta del rito ed alla determinazione della pena, e i principi, rispettivamente enunciati dagli artt. 101, comma 2, e 102, comma 1, Cost., della soggezione del giudice soltanto alla legge e dell’esclusività dell’esercizio della funzione giurisdizionale, risulta costantemente ammessa nelle decisioni con cui questa Corte ha affrontato analoghe questioni di costituzionalità relative ai poteri dispositivi delle parti e alla logica premiale che caratterizzano i procedimenti speciali (v. ad esempio, sentenze nn. 313 e 284 del 1990); né, al riguardo, i rimettenti prospettano argomentazioni che inducano a riprendere in esame queste problematiche alla luce dell’attuale disciplina. 4.4. Sul terreno dei meccanismi introduttivi del giudizio abbreviato si collocano anche le questioni relative all’eliminazione del consenso del pubblico ministero e, più in generale, di qualsiasi forma di intervento della pubblica accusa ai fini dell’ammissione al rito. Il dedotto contrasto con l’art. 111, comma 2, Cost. sarebbe ravvisabile anche nella mancata previsione del potere del pubblico ministero di chiedere una integrazione probatoria a seguito della richiesta di giudizio abbreviato, diversamente da quanto stabilito in favore dell’imputato. La scelta legislativa di non prevedere interventi del pubblico ministero ostativi alla introduzione del giudizio abbreviato va ricollegata alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina relativa al dissenso immotivato del pubblico ministero e alle rilevate distonie dell’istituto con i principi costituzionali, per essere lo stesso pubblico ministero arbitro della ‘‘definibilità’’ del procedimento allo stato degli atti. Da un lato il potere di veto del pubblico ministero sulla richiesta di giudizio abbreviato riprodurrebbe i profili di illegittimità costituzionale derivanti dal sacrificio del diritto dell’imputato alla riduzione di pena; dall’altro il principio del contraddittorio tra le parti, enunciato dal comma 2 dell’art. 111 Cost., non è evocabile in relazione a una disciplina che attiene alle forme introduttive del giudizio abbreviato, quale si è venuta delineando, a seguito degli interventi della giurisprudenza costituzionale e delle successive scelte legislative, dall’originario accordo tra le parti alla richiesta dell’imputato, e che si pone come diretta conseguenza della specificità di tale rito. Infine, l’omessa previsione di un potere di iniziativa probatoria del pubblico ministero, analogo a quello attribuito all’imputato che abbia presentato richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 5, c.p.p.), non viola l’art. 111, comma 2, Cost., sotto il profilo del contrasto con il principio della parità tra le parti. L’attribuzione all’imputato della facoltà di subordinare la richiesta di giudizio abbreviato ad un’integrazione probatoria è coerente con la posizione di tale soggetto processuale, che si trova ad affrontare il rischio di un giudizio (e di una possibile conseguente condanna) basato sugli atti raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari ed a cui va pertanto riconosciuta la facoltà di chiedere l’acquisizione di nuovi e ulteriori elementi di prova. Diversa è, invece, la posizione del pubblico ministero: tenuto conto del ruolo svolto nelle indagini preliminari, e fermo restando il suo diritto all’ammissione di prova contraria a norma dell’art. 438, comma 5, c.p.p., non è irragionevole la scelta legislativa di non riconoscergli il diritto di chiedere l’ammissione di prove a carico dell’imputato solo perché questi ha presentato richiesta di giudizio abbreviato. Da un lato, il pubblico ministero ha già esercitato il potere e assolto al dovere di svolgere tutte le attività necessarie in vista delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale; dall’altro, l’esigenza di completezza delle indagini prelimi-


— 1086 — nari (su cui v. sentenza n. 88 del 1991) risulta rafforzata dal riconoscimento del diritto dell’imputato ad essere giudicato, ove ne faccia richiesta, con il rito abbreviato. Il pubblico ministero dovrà infatti tenere conto, nello svolgere le indagini preliminari, che sulla base degli elementi raccolti l’imputato potrà chiedere ed ottenere di essere giudicato con tale rito, e non potrà quindi esimersi dal predisporre un esaustivo quadro probatorio in vista dell’esercizio dell’azione penale. Ne deriva che non costituisce irragionevole discriminazione tra le parti la mancata attribuzione all’organo dell’accusa di uno specifico potere di iniziativa probatoria per ‘‘controbilanciare’’ il diritto dell’imputato al giudizio abbreviato. 4.5. Infondate sono, infine, le censure sollevate in riferimento all’art. 97 Cost.: il principio di buon andamento dei pubblici uffici non si riferisce all’attività giurisdizionale in senso stretto, bensì all’organizzazione e al funzionamento dell’amministrazione della giustizia (cfr., ex plurimis, sentenze n. 381 del 1999 e n. 53 del 1998, nonché ordinanza n. 412 del 1999). 5. Manifestamente infondata è la questione relativa all’art. 442, comma 1bis, c.p.p., nella parte in cui consente l’utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna (r.o. n. 305 del 2000). Il fondamento del giudizio abbreviato sta, appunto, nella utilizzazione probatoria — previo consenso dell’imputato, implicito nella richiesta del rito speciale — degli atti legittimamente assunti nel corso delle indagini preliminari: al riguardo, è sufficiente ricordare che l’art. 111, comma 1, Cost. ha enunciato il principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale, ma ha poi espressamente previsto il consenso dell’imputato tra i casi di deroga al principio stesso (quinto comma). 6. Manifestamente inammissibile è la questione avente ad oggetto l’art. 441, comma 3, c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in camera di consiglio, salvo che tutti gli imputati richiedano la pubblica udienza, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 101 e 102 Cost., dal medesimo rimettente. Dall’ordinanza di rimessione emerge che solo uno degli imputati ha chiesto il giudizio abbreviato, con l’ovvia conseguenza che la censura concernente il ‘‘diritto di veto’’ dei coimputati alla celebrazione del processo in udienza pubblica è priva di rilevanza nel caso di specie. Per quanto riguarda, poi, l’ulteriore censura sollevata, in riferimento ai medesimi parametri, nei confronti della disciplina che affida esclusivamente all’imputato la scelta tra udienza pubblica e udienza camerale, va riaffermato che nel ‘‘giudizio abbreviato entrano in gioco interessi diversi che solo il legislatore può valutare comparativamente e bilanciare nell’ambito della sua discrezionalità’’ (ordinanza n. 160 del 1994, nonché sentenza n. 373 del 1992): né il rimettente prospetta argomenti che inducano questa Corte, alla luce di una disciplina che oggi offre — sia pure a determinate condizioni — maggiori spazi alla pubblicità del giudizio, a riesaminare tali conclusioni. 7. Infine, è manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza la questione avente ad oggetto l’art. 441 c.p.p., nella parte in cui prevede in capo allo stesso giudice poteri istruttori e decisori, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Imperia


— 1087 — (r.o. n. 405 del 2000): l’ordinanza di rimessione è infatti priva di qualsiasi motivazione in ordine all’esigenza del giudice a quo di assumere elementi necessari ai fini della decisione. P.Q.M.. — La Corte costituzionale, riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438 e 442, comma 2, del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, commi 1 e 3, 97, 101, 102 e 111 della Costituzione, dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Imperia, Bologna e Roma, e dal Tribunale di Firenze, con le ordinanze in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 1-bis, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna, con l’ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 441, comma 3, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 101 e 102 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna, con l’ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 441 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Imperia, con l’ordinanza in epigrafe. (Omissis).

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Giudizio abbreviato e contraddittorio: dubbi non risolti di legittimità costituzionale.

1. La sentenza della Corte costituzionale affronta il problema della legittimità costituzionale della normativa del giudizio abbreviato con riferimento al principio del contraddittorio sancito dall’art. 111 Cost. sotto un duplice profilo. Il primo concerne un contrasto ipotizzato nelle eccezioni di legittimità costituzionale della normativa, così come risulta in seguito alle modifiche apportate dalla l. 16 dicembre 1999 n. 479, in relazione all’art. 111, comma 2 (‘‘ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti...’’) sulla base del rilievo che la omessa previsione dell’intervento del pubblico ministero nonché della specifica facoltà di chiedere una integrazione probatoria violerebbe il principio che ogni processo deve svolgersi con il rispetto del contraddittorio. Il secondo profilo di contrasto concernerebbe l’art. 441, comma 5, c.p.p. (‘‘quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione’’) in relazione all’art. 111, comma 4, Cost. prima parte (‘‘il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova’’) in quanto, si sostiene nella eccezione di illegittimità costituzionale, la previsione in capo allo stesso organo giurisdizionale di poteri istruttori e decisori violerebbe il principio predetto. 2. La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità proposta sotto il primo profilo sulla base di due argomentazioni. La prima consiste nell’asserzione che ‘‘la scelta legislativa di non prevedere interventi del pub-


— 1088 — blico ministero ostativi alla introduzione del giudizio abbreviato va ricollegata alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina relativa al dissenso immotivato del pubblico ministero e alle rilevate distonie dell’istituto con i princìpi costituzionali, per essere lo stesso pubblico ministero arbitro della ‘definibilità’ del procedimento allo stato degli atti’’. Secondo la Corte costituzionale ‘‘il potere di veto del pubblico ministero sulla richiesta di giudizio abbreviato riprodurrebbe i profili di illegittimità costituzionale derivanti dal sacrificio del diritto dell’imputato alla riduzione della pena’’. Con la seconda argomentazione la Corte sostiene che ‘‘il principio del contraddittorio tra le parti, enunciato dal comma 2 dell’art. 111 Cost., non è evocabile in relazione a una disciplina che attiene alle forme introduttive del giudizio abbreviato, quale si è venuta delineando, a seguito degli interventi della giurisprudenza costituzionale e delle successive scelte legislative, dall’originario accordo tra le parti alla richiesta dell’imputato e che si pone come diretta conseguenza della specificità di tale rito’’. Delle due argomentazioni sopra riferite la prima appare errata e la seconda ermetica. Non è vero che il potere di veto del pubblico ministero necessariamente ricreerebbe le distonie in passato rilevate dalla Corte con i princìpi costituzionali. Come è noto la Corte costituzionale con la sentenza n. 92 del 1992 aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 439, 440 c.p.p. sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevedevano che, qualora il dissenso del pubblico ministero all’introduzione del giudizio abbreviato fosse motivato con l’impossibilità di definire il processo allo stato degli atti, il giudice dell’udienza preliminare, che ritenesse l’impossibilità addotta dipendente da fatto rimediabile dallo stesso pubblico ministero, potesse indicare alle parti (sulla falsariga del meccanismo di integrazione probatoria previsto dal vecchio testo dell’art. 422 c.p.p.) i temi lasciati incompleti, sui quali si rendeva necessario ‘‘acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilità di definire il processo allo stato degli atti’’. La problematica sottesa alla questione, secondo la Corte costituzionale, non poteva risolversi in una pronunzia additiva ma richiedeva necessariamente un intervento legislativo. In altri termini, la Corte costituzionale non aveva negato la fondatezza delle eccezioni proposte ma aveva ritenuto di non poterle accogliere posto che la c.d. sentenza additiva, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, è consentita ‘‘soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad una estensione logicamente necessitata e implicita nella possibilità interpretativa del contesto normativo in cui è inserita la disposizione impugnata. Quando, invece, si profili una pluralità di soluzioni, derivanti da varie possibili valutazioni, l’intervento della Corte non è ammissibile, spettando la relativa scelta al legislatore’’ (v. sentenze n. 109 del 1986, nn. 33, 37, 39 del 1986, n. 350 del 1985). L’impossibilità di emanare la sentenza additiva non permetteva, quindi, di superare il problema di legittimità costituzionale, la cui fondatezza appariva indubbia dal momento che, secondo quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale, ‘‘la possibilità per il pubblico ministero di decidere quali e quante indagini esperire al fine di richiedere il rinvio a giudizio’’ comportava rispetto al giudizio abbreviato, l’inaccettabile paradosso per cui il pubblico ministero poteva ‘‘legittimamente precluderne l’instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso discrezionalmente determinate’’. Si rendeva, perciò, necessario, ‘‘al fine di ricondurre l’istituto a piena sintonia con i princìpi costituzionali, che il vincolo derivante dalle scelte del pubblico ministero’’ fosse reso superabile ‘‘con l’introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria’’ che, consentendo di colmare le lacune delle indagini preliminari incomplete, avrebbe per-


— 1089 — messo di formulare un giudizio di decidibilità allo stato degli atti reso impossibile da un comportamento dello stesso pubblico ministero. Su questo argomento la Corte costituzionale era tornata con la sentenza 23 dicembre 1994 n. 442, che aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 452, comma 2, c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 25, comma 2, Cost. nonché la questione di legittimità costituzionale, sempre in relazione agli artt. 3 e 25, comma 2, Cost., degli artt. 452, comma 2, c.p.p. e 247, comma 2, disp. att. La Corte aveva ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale per la parte in cui le disposizioni sopra indicate subordinavano la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero, il quale con le sue discrezionali scelte investigative appariva ‘‘arbitro di determinare la decidibilità del processo allo stato degli atti e quindi di precostituire la condizione per negare il consenso alla trasformazione del rito’’. Il giudizio di inammissibilità era ribadito dalla Corte costituzionale a causa della pluralità delle scelte idonee a risolvere il problema di legittimità costituzionale, scelte, asseriva la Corte, riservate al legislatore. La sentenza in questione si chiudeva, peraltro, con una ‘‘minaccia’’ in quanto veniva testualmente asserito: ‘‘corre tuttavia l’obbligo di precisare che avendo la Corte già sollecitato il legislatore ad intervenire... i giudici costituzionali sottolineano come, perdurando lo stato di inerzia, non potranno esimersi — ove siano investiti da ulteriori questioni di costituzionalità riguardanti lo specifico tema — dall’adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più volte constatata distonia con i princìpi costituzionali’’. Le sentenze della Corte costituzionale sul giudizio abbreviato sottolineavano inequivocabilmente un potere del pubblico ministero relativo alla prosecuzione dell’azione penale (nel senso che il pubblico ministero poteva precludere il rito abbreviato) e conseguentemente un potere sul quantum di pena da infliggere che era in palese contrasto con il principio di legalità ed eguaglianza (art. 25, comma 2, e art. 3 Cost.) e cioè con i princìpi posti a fondamento della obbligatorietà dell’azione penale. Da quanto sopra riferito emerge inequivocabilmente che le distonie dell’istituto del giudizio abbreviato con i princìpi costituzionali non erano ricollegate al dissenso del pubblico ministero, come mostra di ritenere la Corte nella sentenza qui annotata, ma alla considerazione che questo dissenso giustificato dalla necessità di colmare lacune delle indagini preliminari non poteva essere superato da un meccanismo di integrazione probatoria. Il legislatore con la l. 16 dicembre 1999 n. 476 ha scelto di attribuire all’imputato il diritto di chiedere il giudizio abbreviato dal momento che la richiesta incondizionata di questo rito deflativo del dibattimento deve essere accolta. Peraltro, non sarebbe stata ravvisabile nessuna delle distonie paventate se il legislatore avesse preteso, per consentire l’instaurazione del giudizio abbreviato, un consenso del pubblico ministero motivato dalla non decidibilità allo stato degli atti ma nel contempo avesse previsto, come suggerito dalla Corte costituzionale, un meccanismo di integrazione probatoria idoneo a rendere il processo decidibile e, quindi, non più giustificabile il dissenso del pubblico ministero. Per quanto concerne la seconda argomentazione, mediante la quale la Corte costituzionale esclude la ravvisabilità di un contrasto con l’art. 111, comma 2 Cost., in maniera più semplice può dirsi che il vizio di legittimità costituzionale è da escludersi sulla base del rilievo che il contraddittorio di cui all’art. 111, comma 2 Cost. non è ovviamente quello previsto nel comma 4o e, quindi, non riguarda la formazione della prova ma, come giustamente è stato osservato, riguarda l’intervento dialettico della parti ‘‘inteso come garanzia oggettiva e soggettiva per il conseguimento di una decisione giusta’’ (Garuti): intervento dialettico indubbiamente


— 1090 — ravvisabile nel giudizio abbreviato ancorché carente nel momento introduttivo di questo rito speciale, carenza inevitabile stante il diritto dell’imputato stesso alla instaurazione del giudizio abbreviato. 3. Il secondo profilo di contrasto con il principio del contraddittorio riguarda, come si è detto, il comma 4 dell’art. 111 Cost. e, quindi, il contraddittorio nella formazione della prova. Più esattamente il potere previsto nell’art. 441, comma 5, c.p.p., per cui il giudice, che ritiene di non poter decidere allo stato degli atti, assume anche d’ufficio gli elementi probatori necessari ai fini della decisione, secondo l’eccezione proposta contrasterebbe con il contraddittorio nel momento di formazione della prova. La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente inammissibile la questione di legittimità per difetto di motivazione sulla rilevanza. È interessante cercare di capire le ragioni non bene esplicitate poste a fondamento della eccezione. Potrebbe osservarsi che l’imputato, il quale richiede incondizionatamente il giudizio abbreviato, rinunzia al contraddittorio nel momento di formazione della prova consentendo che gli elementi di prova acquisiti nelle indagini preliminari siano valutati come prove vere e proprie. Il giudice, disponendo d’ufficio ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p. l’acquisizione di tutti gli elementi di prova che riterrà necessari per la decisione, valuterà come prove vere e proprie, nonostante la carenza del contraddittorio nel momento di formazione della prova, elementi di prova non conosciuti dall’imputato allorquando ha effettuato la richiesta incondizionata di giudizio abbreviato. È ravvisabile un contrasto con l’art. 111, comma 4, Cost. sulla base del rilievo che, in ordine agli elementi acquisiti ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p., non vi è stata una rinuncia al contraddittorio, non essendo tali elementi noti all’imputato? Una risposta negativa appare lecita in quanto è dato sostenere che l’imputato, nel momento in cui con la sua richiesta incondizionata determina l’instaurazione del giudizio abbreviato, è consapevole che al giudice è dato il potere, ove sussistano lacune nelle indagini preliminari, di assumere gli elementi idonei a completare le indagini predette. Di conseguenza, la richiesta incondizionata di giudizio abbreviato equivale ad una rinuncia all’attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova non solo con riferimento agli elementi probatori acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, ma anche con riferimento agli elementi probatori che potrebbero essere acquisiti dal giudice ex art. 441, comma 5, c.p.p.. In altri termini, si avrebbe nel contempo accanto ad una rinuncia al contraddittorio successiva all’acquisizione di elementi probatori effettuata nelle indagini preliminari, una rinuncia preventiva concernente altri eventuali elementi acquisibili dal giudice con l’accettazione del grave rischio che tale rinuncia avente ad oggetto elementi probatori eventuali e, quindi, non conoscibili comporta. Ci sembra l’unica via idonea ad evitare dubbi di legittimità costituzionale. 4. Non ci pare, peraltro, che sia stato tenuto nella dovuta considerazione il rilievo che il disposto dell’art. 111, comma 4, della Costituzione (per cui ‘‘il processo è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova’’ e, quindi, si ha prova unicamente quando il risultato probatorio sia stato realizzato in seguito all’attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova), comporterebbe, posto che il giudice deve decidere sulla base delle prove, che il contraddittorio è una connotazione della giurisdizione, il suo statuto epistemologico come efficacemente è stato detto (Giostra). Vale a dire, il dettato costituzionale fa sì che il contraddittorio non possa più considerarsi unicamente una estrinsecazione del diritto di difesa, posto che ‘‘il contraddittorio quale garanzia metodologica e il contraddittorio quale prerogativa abdicabile del diritto di difesa non sono realtà compatibili: ciò che attiene ai caratteri connotativi della giurisdi-


— 1091 — zione non può essere nella disponibilità delle parti’’ (Giostra). Più semplicemente non si può rinunciare ad una connotazione della giurisdizione e, quindi, l’imputato, così come non può rinunciare alla imparzialità del giudice, non potrebbe rinunciare al contraddittorio nel momento di formazione della prova. Conclusione smentita dallo stesso art. 111 Cost. là ove dispone nel comma 5o che ‘‘la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato’’. Questa disposizione dimostra che il legislatore, subito dopo aver asserito che si ha prova solo quando vi sia contraddittorio nell’assunzione della stessa, riconosce che può considerarsi prova l’atto di indagine effettuato senza attuazione del contraddittorio nei casi in cui la legge prevede che l’imputato vi consenta. Peraltro, posto che il contraddittorio è esercitato non solo dall’imputato ma anche dalle altre parti del processo l’interpretazione di questa norma appare problematica. Il problema sorge proprio con riferimento al giudizio abbreviato, nel quale si realizza una vanificazione totale del contraddittorio nel momento di formazione della prova, allorquando l’imputato presenti richiesta incondizionata di giudizio abbreviato e non siano stati effettuati in precedenza incidenti probatori. Si pone, pertanto, il quesito se ed in che limiti la legge ordinaria, in virtù del mero consenso dell’imputato, possa vanificare, alla stregua di una lata interpretazione dell’art. 111, comma 5, Cost., il principio fondamentale sancito dallo stesso art. 111, comma 4, Cost. I due commi del disposto costituzionale sopra citato come si conciliano? Il contraddittorio nel momento di formazione della prova è esercitato dalla parte pubblica e da tutte le parti private e, pertanto, è compatibile con il dettato dell’art. 111, comma 4, Cost. il fatto che la semplice richiesta di giudizio abbreviato effettuata dall’imputato, in assenza del consenso del pubblico ministero e di quello delle altre parti private, trasformi le indagini preliminari (che sono elementi di prova e, quindi, qualitativamente diversi dalle prove) in prove vere e proprie? A questo proposito, si è osservato (Giostra), al fine di evitare una insanabile contraddizione interna all’art. 111 Cost., che il legislatore nel comma 5 dell’art. 111 Cost. si riferisce al consenso in ordine all’utilizzo degli atti di indagine del pubblico ministero, posto che la modifica dell’art. 111 Cost. precede la legge sulle indagini difensive e, quindi, nel dettare l’art. 111, comma 5, Cost., non si è pensato al valore probatorio delle indagini espletate dal difensore. Pertanto, per quanto concerne le indagini preliminari del pubblico ministero, con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato consente che tali indagini vengano utilizzate come prove mentre il consenso a tale utilizzo da parte del pubblico ministero sarebbe implicito dal momento che le indagini sono state da lui effettuate. In quest’ordine di idee si afferma, infatti, che ‘‘il consenso all’utilizzo probatorio dell’atto compiuto dalla controparte può valere come rinuncia concordata al contraddittorio’’. Questo per quanto concerne le indagini del pubblico ministero. Analogo discorso non può farsi in ordine all’utilizzo come prova delle indagini difensive, poiché la richiesta di giudizio abbreviato significa che l’imputato non solo consente ma vuole l’utilizzo delle indagini del pubblico ministero mentre, per quanto concerne l’utilizzo come prova nel giudizio abbreviato delle indagini difensive, si prescinde dal consenso del pubblico ministero. Ne segue che, nonostante il silenzio dell’art. 111, comma 5, Cost., detta norma andrebbe interpretata nel senso che ‘‘l’atto di indagine difensiva può essere utilizzato come prova soltanto se il pubblico ministero dà il consenso’’. Da questa impostazione discenderebbe, appunto, la illegittimità costituzionale della normativa sul giudizio abbreviato là ove consente, su richiesta del solo imputato, la utilizzazione come prova delle indagini difensive (Giostra). A nostro avviso, il rilievo secondo cui l’art. 111, comma 5, Cost. si sarebbe li-


— 1092 — mitato a prevedere il mero consenso dell’imputato, in quanto la modifica dell’art. 111 Cost. precede la legge sulle indagini difensive, non appare del tutto persuasivo dal momento che, anche prima di tale legge, con le modifiche apportate nel 1995 all’art. 38 delle disposizioni di attuazione era previsto l’inserimento nel fascicolo delle indagini preliminari del pubblico ministero degli atti di indagine difensiva. Inoltre, non pare condividibile la ravvisabilità di una rinuncia concordata all’utilizzo probatorio delle indagini del pubblico ministero allorquando l’imputato presenti richiesta incondizionata di giudizio abbreviato. In primo luogo, si dimentica che il contraddittorio non è esercitato soltanto dal pubblico ministero e dall’imputato bensì anche dalle altre parti private, rispetto alle quali non è neppure prospettabile l’ipotesi di una rinuncia concordata. Ma, soprattutto, il consenso all’utilizzo degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero, manifestato mediante la richiesta di giudizio abbreviato, non implica e non può implicare quel consenso implicito del pubblico ministero all’utilizzo predetto, adombrato con la locuzione ‘‘rinuncia concordata’’. Il pubblico ministero esercita l’azione penale quando pensa di avere elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento e, quindi, allorquando mediante un giudizio prognostico (che potrebbe, ovviamente, rivelarsi errato) ritiene che gli elementi probatori da lui assunti, una volta divenuti prove mediante l’attuazione del contraddittorio per la prova, risulterebbero idonei a giustificare una richiesta di condanna. Di conseguenza, lo stesso pubblico ministero potrebbe ritenere indispensabile per l’accusa l’attuazione di quel contraddittorio, che la richiesta incondizionata dell’imputato gli sottrae. A prescindere da questo rilievo di carattere generale, si pensi, poi, a dichiarazioni recepite dal pubblico ministero ed interpretabili in senso favorevole all’accusa, che, in seguito a successive dichiarazioni di altri soggetti acquisite nel corso di indagini difensive, vengano ad assumere un significato ambiguo. Le dichiarazioni acquisite dal pubblico ministero non risulteranno più idonee in un giudizio abbreviato a giustificare una sentenza di condanna e, quindi, al pubblico ministero non potrà non apparire indispensabile, al fine di superare l’ambiguità, un contraddittorio nel momento di formazione della prova, contraddittorio reso impossibile dalla richiesta incondizionata di giudizio abbreviato. È evidente il contrasto di interessi in questa situazione: l’eliminazione del contraddittorio per la prova giova all’imputato che chiede l’abbreviato, posto che l’ambiguità predetta potrebbe risolversi in una assoluzione pronunciata ex art. 530, comma 2, c.p.p., mentre il contraddittorio ed il conseguente chiarimento potrebbero giovare all’accusa rivelandosi esiziali per la difesa. Il ravvisare, quindi, un utilizzo di indagini probatorie conseguenti ad una rinuncia concordata non pare realistico: l’accordo ritenuto implicito non esiste. La conclusione appare veramente sconfortante e dimostra ancora una volta che il nostro legislatore agisce in maniera incoerente e scoordinata. Infatti, delle due l’una: o si interpreta l’art. 111, comma 5, Cost. nel senso che non si intende consentire al legislatore ordinario di dettare una normativa in virtù della quale il mero consenso dell’imputato sia sufficiente a vanificare il contraddittorio nel momento di formazione della prova (il che porterebbe a ravvisare un vizio di legittimità costituzionale della normativa sul giudizio abbreviato) oppure si ritiene legittima una normativa che attribuisca al consenso dell’imputato il significato predetto ed allora il principio del contraddittorio nel momento di formazione della prova ne esce gravemente ridimensionato in quanto risulterebbe per mera volontà dell’imputato inattuabile in un giudizio deflativo del dibattimento, che nel nostro sistema processuale dovrebbe diventare non un istituto di eccezionale applicazione bensì il giudizio di maggiore attuazione. GILBERTO LOZZI


c) Giudizi di Cassazione

CASSAZIONE PENALE, Sez. V — 18 maggio-20 giugno 2001, n. 25008 Pres. B. Foscarini — Rel. F. Marrone — P.M. (difforme) M. Matera Ric. P.G. e P.C. in procedimento Curatela fallimento A.S.H. s.r.l. Reati contro l’inviolabilità dei segreti - Rivelazione di segreti scientifici o industriali - Applicazioni industriali - Aspetti innovativi ed originali - Esclusione. (Art. 623 c.p.). Reati contro l’inviolabilità dei segreti - Rivelazione di segreti scientifici o industriali - Notizie destinate a rimanere segrete - Know how aziendale - Concetto - Ambito della tutela penale. (Art. 623 c.p.). Ai fini dell’integrazione del reato di rivelazione di segreti scientifici e industriali, non è necessario che le applicazioni industriali siano originali o nuove (1). La rivelazione di segreti scientifici e industriali riguarda anche il know how aziendale, inteso come il complesso delle informazioni industriali necessarie per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un impianto e comprensivo altresì delle esperienze tecniche in grado di ridurre al minimo gli errori di produzione e di contenere sensibilmente i tempi di progettazione e di realizzazione dei beni prodotti (2). (Omissis). - 1. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Marco Pipino, Claudio Botter, Rinaldo Ocleppo e Brunella Ausilia Malvicino nelle rispettive qualità Pipino di direttore tecnico commerciale, Botter quale tecnico addetto alla realizzazione di progetti software della A.S.H s.r.l., Ocleppo e Malvicino rispettivamente di Presidente e Amministratore delegato della Dylog Italia s.p.a. venivano tratti a giudizio davanti al Pretore di Torino per rispondere del reato di cui agli artt. 110, 623 c.p. per avere Pipino e Botter, venuti a cognizione quali dipendenti della A.S.H. — Advanced System Houde s.r.l. — di notizie destinate a rimanere segrete circa la tecnologia e le modalità di produzione di macchina di ispezione ai raggi X per l’industria alimentare, le rivelavano e le impiegavano a profitto proprio e della Dylog Italia s.p.a., nelle persone del Presidente ed Amministratore delegato sopra indicati, alle cui dipendenze passavano dopo la cessazione del rapporto di lavoro presso la A.S.H. (Pipino il 15 gennaio 1996 e Botter il 2 maggio 1996), consentendo alla Dylog — società operante fino a quel momento in un differente settore tecnico e commerciale — di progettare e mettere a punto in tempi brevi un’apparecchiatura priva di aspetti innovativi ed originali, avente le stesse funzionalità, ti-


— 1094 — pologia applicativa (analisi di contenitori, vasetti e bottigliette) campo di applicazione e lo stesso spazio di mercato della macchina prodotta dalla A.S.H., per le quali veniva presentata ai competenti uffici domanda di brevetto. In Torino in data anteriore e prossima al 15 marzo 1996. Con sentenza 26 aprile 1999 il Pretore assolveva gli imputati perché il fatto non sussiste. Avverso la sentenza proponevano appello sia il P.M. che la parte civile A.S.H. s.r.l. La Corte d’appello, in data 3 luglio 2000 confermava la sentenza del Pretore, avendo ritenuto non ravvisabile alcun segreto né riguardo a ciascun elemento della produzione, né alla combinazione di quegli elementi. Premesso che requisito essenziale per la configurazione della fattispecie di cui all’art. 623 c.p. sono le ‘‘notizie destinate a rimanere segrete’’, ha precisato la Corte territoriale che: — richiedere un’assoluta ‘‘originalità’’ dell’invenzione, scoperta o applicazione comporterebbe una limitazione eccessiva del campo di operatività della norma, con il rischio di ricondurre la tutela ad un ambito sostanzialmente coincidente con quella brevettabilità che invece non è ritenuta, pacificamente, presupposto necessario per l’integrazione del reato in parola; — l’interesse alla segretezza, cui è destinata la notizia relativa alle applicazioni industriali, pur essendo qualificato da elementi e valutazioni soggettive, deve essere basato su plausibili ed apprezzabili ragioni, sia pure personali, non potendo coincidere con il mero arbitrio dell’interessato (Cass. 3 giugno 1977, cit.); — l’esegesi della norma non può poi prescindere dalla trasformazione profonda intervenuta in campo economico in generale e nei settori altamente specializzati (come quello in cui operavano A.S.H. e Dylog) in particolare, laddove l’evoluzione ha raggiunto livelli frenetici e la rapida obsolescenza del macchinario, anche di più recente realizzazione, costituisce ormai la regola; — la tutela non può dunque essere rigida e consistere nel semplice interesse del singolo imprenditore a non vedersi ‘‘disturbato’’ dal concorrente nella propria nicchia di mercato, ma deve corrispondere a criteri obiettivi di difesa da comportamenti illeciti che, in definitiva, altro non sono che alcuni degli atti di concorrenza sleale descritti dall’art. 2598 c.c.; — tutte le risultanze del processo penale, come d’altronde quelle del procedimento civile, hanno portato alla conclusione dell’assenza, nella fattispecie, di un segreto industriale in senso stretto, in quanto le parti componenti la macchina erano di normale reperibilità sul mercato ed anzi la A.S.H. aveva fatto ricorso ad una ditta esterna, la Metalnova, per la progettazione (oltre che, ovviamente, per la realizzazione) della struttura portante dell’apparecchiatura; — anche per quanto riguarda la combinazione dei vari elementi, nulla di particolarmente originale era risultato risiedere nella macchina A.S.H., nel senso che, anche per questa parte, la realizzazione era perfettamente possibile per un esperto del settore, onde, se comuni sono risultate essere alcune delle componenti delle due macchine in raffronto, le conclusioni cui è pervenuto il perito d’ufficio (senza che vi sia stata sul punto contestazione da parte del perito di parte civile) sono state per la ‘‘diversità’’ delle due macchine, avendo il prof. Maddaleno espressamente escluso che la macchina Dylog sia una copia pedissequa di quella A.S.H.; — inaccoglibile era la tesi della parte civile della violazione di quello che, per


— 1095 — distinguerlo dall’altro sin qui esaminato, si potrebbe definire il ‘‘segreto industriale in senso lato’’ e cioè il know how aziendale, per cui, avvalendosi delle conoscenze che Pipino e Botter avavano acquisito in A.S.H., la Dylog avrebbe cioè potuto comprimere al massimo i tempi di realizzazione della sua macchina e non incontrato gli errori di cui è inevitabilmente lastricata la strada di una nuova realizzazione, con conseguente guadagno patrimoniale e corrispondente danno per A.S.H.; — non è chiaro in che cosa consista la violazione del know how sostenuta dalle accuse pubblica e privata dato che: non era segreta l’idea di un tale tipo di macchina (realizzata negli Stati Uniti da decenni), non erano segreti i componenti della macchina (tutti prodotti da terzi soggetti e reperibili nel mercato), non v’era nulla di segreto nell’assemblaggio; — deve ritenersi lecito per chiunque, e soprattutto per un imprenditore, rivolgersi ad un fornitore che assicuri il miglior risultato, in termini di qualità, tempo di fornitura e prezzo del prodotto, ed è pertanto pienamente comprensibile che la scelta della Dylog sia, per lo più, caduta su soggetti che assicuravano tali garanzie, in ciò sfruttando, lecitamente, un’esperienza maturata dalla A.S.H.; — se per know how devono intendersi le regole tecniche capaci di ottimizzare un processo industriale, soltanto quelle che, tra esse, superano, con carattere di originalità, le conoscenze già acquisite possono integrare la fattispecie di cui alla norma incriminatrice in questione. 2. Hanno proposto ricorso il Procuratore Generale di Torino e la Parte civile, curatore del fallimento della A.S.H. i quali deducono la violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 623 c.p.: erronea applicazione della legge penale sostanziale nonché carenza e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla ritenuta assenza dell’oggetto materiale del reato contestato. Sostengono che: — la sentenza impugnata ha limitato il concetto di segreto industriale al ‘‘segreto’’ in senso stretto; senza però considerare come sia necessario riconoscere tutela anche a quello che costituisce il vero patrimonio di un’azienda: il ‘‘know how’’; — il ‘‘segreto industriale’’ è quell’insieme di conoscenze ed esperienze maturate per dare origine ad un prodotto in grado di soddisfare pienamente le esigenze di mercato, in modo economicamente competitivo dal punto di vista delle prestazioni; se lo spirito del dettato dell’art. 623 c.p. è quello di tutelare il patrimonio aziendale e la libertà di iniziativa scientifica, tecnica ed inventiva dell’imprenditore, non si vede come non vada tutelato pure quello che per eccellenza costituisce il fondamento del patrimonio aziendale; — se al ‘‘sapere come fare’’, cioè il ‘‘know how’’, non viene riconosciuto il carattere della segretezza, la tutela finirebbe per rimanere un guscio vuoto poiché il vero patrimonio di fatto rimarrebbe escluso dalla stessa; — nel caso in esame, non s’è trattato di semplice esperienza professionale dagli imputati neo assunti messa a disposizione della Dylog s.p.a.; ma piuttosto di processi produttivi, ossia d’applicazioni industriali che la A.S.H. s.r.l. aveva acquisito dopo anni di ricerche e di sperimentazioni tecniche. I ricorrenti chiedono perciò l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.


— 1096 — 3. Il ricorso è fondato in quanto l’interpretazione data dai giudici del merito all’art. 623 c.p. appare inadeguata alla luce della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale della norma. Pertanto, dall’esame del requisito essenziale per configurare la fattispecie normativa, e cioè ‘‘le notizie destinate a rimanere segrete’’, va osservato che la destinazione al segreto delle notizie non può che provenire dall’avente diritto al segreto e cioè dal titolare dell’impresa nella quale le notizie vengono utilizzate, con manifetazione di volontà espressa o tacita. Manifestazione, nel caso in esame, espressa come risulta dalla lettera di non concorrenza fatta sottoscrivere dalla A.S.H. a tutti i dipendenti (tra i quali il Botter ed il Pipino), i quali si impegnavano ‘‘a non trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con la Società A.S.H. (...), né a divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione oppure al know how o, comunque, a brevetti e privative industriali...’’; l’impegno era ‘‘per due anni successivi alla cessazione del rapporto a non divulgare e trasferire conoscenza e know how a società concorrenti che utilizzino tecniche di visione applicate al controllo automatico di qualità non distruttivo’’. Vero è che, come affermato dalla Corte territoriale, l’interesse alla segretezza non può coincidere col mero arbitrio dell’interessato, ma deve essere basato su ragioni plausibili ed apprezzabili; ma tale ragionevolezza non può che essere desunta dalla corrispondenza di tale interesse al bene tutelato dalla norma, che è costituito dal diritto personale dell’imprenditore alla organizzazione dell’attività economica, diritto al quale corrisponde l’obbligo di fedeltà e correttezza al quale sono tenuti i suoi dipendenti ai sensi dell’art. 2105 c.c. Non è qui in causa la tutela del singolo imprenditore che ha interesse a non vedersi disturbato dal concorrente nella propria nicchia di mercato, è in causa la libertà dell’imprenditore a non vedere scompaginato l’assetto organizzativo dell’impresa dall’infedeltà dei dipendenti. A tutela della capacità produttiva (e quindi della correttezza del mercato) il legislatore ha posto con gli artt. 623 c.p. e 2105 c.c. limiti al principio della libera utilizzabilità delle invenzioni e scoperte scientifiche e delle applicazioni industriali. Passando all’esame della condotta penalmente perseguita dall’art. 623 c.p. (nei limiti della questione in esame), ‘‘rivelazioni di notizie sopra applicazioni industriali’’, va notato: — che in assenza di ulteriori specificazioni normative, la rivelazione può essere effettuata con le modalità più varie; — che le applicazioni industriali non è necessario che siano originali e nuove, come già chiarito da questa Corte con la sentenza 7 febbraio 1973, n. 243, Miglietta e come desumibile dalla comparazione della fattispecie dell’art. 623 con quella degli artt. 263 e 325 c.p. posti a tutela di interessi pubblici (utilizzazione di segreti di Stato e utilizzazione d’invenzioni e scoperte conosciute per ragioni di ufficio) i quali fanno espresso riferimento alla novità delle applicazioni industriali; — che non essendo originalità e novità caratteristiche essenziali delle applicazioni industriali, non vi sono ostacoli a fare rientrare in tale espressione quello che la sentenza impugnata ha definito ‘‘il segreto industriale in senso lato’’ e cioè il know how aziendale; — che per know how va inteso il complesso delle informazioni industriali necessarie per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un impianto, informa-


— 1097 — zioni che, secondo l’ipotesi accusatoria, avevano consentito ai due ex dipendenti della A.S.H. s.r.l. di progettare e mettere a punto in tempi brevi un’apparecchiatura avente le stesse funzionalità, tipologia applicativa, campo di applicazione e lo stesso spazio di mercato della macchina della A.S.H. Alla luce di tali principi, il fatto che la macchina fosse reperibile sul mercato, che in essa non vi fossero elementi di originalità, né nell’insieme né nell’assemblaggio delle singole parti, è irrilevante, in quanto il dato destinato espressamente al segreto dalla A.S.H. s.r.l. è costituito dal complesso di conoscenze ed esperienze tecniche acquisite dai due ex dipendenti della società e impiegate — secondo la tesi di accusa — a profitto della Dylog Italia s.p.a., dovendosi peraltro tenere conto di quanto risultato dalla relazione Maddaleno, e cioè che ‘‘le due macchine sono ovviamente dello stesso tipo e rendono le stesse prestazioni, sono in sostanza in netta concorrenza tra di loro e occupano la stessa nicchia di mercato’’. Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Torino, per l’applicazione dei principi sopra indicati in relazione all’interpretazione dell’art. 623 c.p. La richiesta di spesa avanzata dal patrono di Parte Civile sarà decisa dal giudice del rinvio in relazione all’esito del giudizio. P.Q.M. — Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo esame. (Omissis).

—————— (1-2)

Sulla tutela penale del know how aziendale.

1. Considerazioni introduttive. — La sentenza in commento, pronunciata in riferimento alla rivelazione del segreto scientifico e industriale prevista all’art. 623 del codice penale (1), merita una riflessione in quanto costituisce non solo una delle rare pronunce della Cassazione sull’argomento ma è, altresì, la prima della Suprema Corte che estende la tutela della norma citata anche al know how aziendale (2). (1) L’argomento ha avuto scarsa applicazione nella prassi giurisprudenziale e registra un numero assai esiguo di contributi in dottrina. Sul primo versante, si segnala: Cass., sez. II, 7 febbraio 1973, Miglietta ed altri, in Giust. pen., II, 1974, p. 267 ss., con nota di A. ALBAMONTE, L’oggetto della tutela penale del reato di rivelazione di segreti scientifici o industriali; Cass., sez. V, 3 giugno 1977, Uguzzoni, in Foro it., 1979, II, c. 304 ss., con nota di N. MAZZACUVA, Alcune precisazioni in tema di oggetto materiale del reato di rivelazione di segreti scientifici e industriali e anche in Cass. pen., 1980, p. 96 ss., con nota di P. BRIGNONE, Un tema giurisprudenziale raro: l’art. 623 c.p.; in particolare sull’industrialità e sulla novità dell’idea inventiva e sul fondamento del segreto; Pret. pen. Monza, 15 ottobre 1983, Del Bon e altri, in Riv. giur. del lavoro, 1984, IV, p. 466 ss., con nota di A. SPINZO, Novità giurisprudenziali in materia di tutela penale del segreto industriale. In dottrina, le trattazioni di più ampio respiro sulla repressione penale della violazione del segreto industriale, connotate peraltro da impostazioni diverse tra loro, sono quelle di A. ALESSANDRI, Riflessi penalistici della innovazione tecnologica, Milano, 1984; di N. MAZZACUVA, La tutela penale del segreto industriale, Milano, 1979 e di A. CRESPI, La tutela penale del segreto, Palermo, 1952. (2) La giurisprudenza di merito si è, invero, già pronunciata in tal senso, si veda App. Milano, 10 novembre 1992, Pagni, in Giur. ann. dir. ind., 1992, 862 ss., nella quale si è affermato che l’interesse al segreto industriale tutelato dall’art. 623 c.p., contro ogni illecita apprensione, diffusione ed impiego, si estende anche al know how inteso come insieme di informazioni, indicazioni, rimedi e perfezionamenti


— 1098 — Nell’ordinamento italiano la tutela del segreto industriale opera a vari livelli, articolandosi in due tipi diversi di normativa: l’una civile, l’altra penale. Quanto alla prima, essa si rinviene fondamentalmente nell’art. 2105 del codice civile — ‘‘Obbligo di fedeltà’’ —, che vieta al prestatore di lavoro di ‘‘divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio’’. La norma è volta a proteggere l’interesse del datore di lavoro a che non avvenga la diffusione o l’uso di segreti aziendali; interesse che continua ad essere tutelato anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, purché formalizzato in un apposito patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. (3). Per quanto attiene alla seconda — quella penale —, la protezione è assicurata dall’art. 623 c.p. — ‘‘Rivelazione di segreti scientifici e industriali’’ —, sul quale, per l’appunto, ci soffermeremo in seguito, nonché dall’art. 622 c.p. — ‘‘Rivelazione di segreto professionale’’ — (4). 2. La vicenda. — Ciò premesso, veniamo subito ad esaminare il caso di specie sottoposto al giudizio della Cassazione. Due tecnici, lasciata la ditta presso la quale lavoravano — la A.S.H. s.r.l. —, trovano impiego presso un’altra, la Dylog Italia s.p.a.; qui mettono a punto un’apparecchiatura di ispezione ai raggi X per l’industria alimentare, avente le stesse funzionalità, tipologia applicativa, campo di applicazione e spazio di mercato della macchina prodotta dalla A.S.H. (e per la quale era stata presentata agli uffici competenti domanda di brevetto). L’imputazione nei loro confronti, ex art. 623 c.p., è per il reato di rivelazione di segreto industriale, specificamente di know how industriale, e ciò per avere rivelato alla Dylog Italia s.p.a. elementi tecnologici e modalità di produzione dell’apparecchiatura menzionata. Con loro vengono chiamati a rispondere, per il medesimo reato, anche il Presidente e l’Amministratore delegato della Dylog Italia s.p.a., destinatari della rivelazione. La pubblica accusa e la parte civile della A.S.H. s.r.l. ritengono, infatti, che il macchinario in questione sia stato progettato e confezionato in tempi brevissimi e senza ostacoli ed errori, proprio utilizzando le capacità e le conoscenze professionali (ossia il know how) dei due ex tecnici della A.S.H., con danno patrimoniale di quest’ultima e conseguente vantaggio patrimoniale della Dylog. Tanto il Pretore, quanto la Corte d’appello assolvono, però, tutti gli imputati per insussistenza del fatto. Diametralmente opposta la posizione della Suprema Corte, che annulla la sentenza impugnata, rinviandola ad altra Sezione di Corte d’appello per un nuovo esame. 3. Definizione di know how e sua tutela da parte dell’ordinamento. — Prima di addentrarci nell’analisi delle argomentazioni giuridiche svolte dalla tecnici non brevettati né brevettabili, ma neppure di dominio comune, occorrenti per lo svolgimento o miglioramento del processo produttivo. (3) L’art. 2125 c.c. — Patto di non concorrenza — così recita: ‘‘Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo’’. (4) Il testo dell’art. 622 c.p. — Rivelazione di segreto professionale — è il seguente: ‘‘Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire sessantamila (pari a euro 30,98) a un milione (pari a euro 516,45)’’.


— 1099 — Corte, conviene definire i contorni della tematica del know how e stabilirne il raccordo con la norma penale in commento. Know how è espressione che sintetizza quella frase di origine statunitense ‘‘the know how to do it’’ (saper come fare), che racchiude una molteplicità di significati e che, nella pratica, è usata in riferimento a situazioni assai eterogenee: si va dal know how industriale, inteso come un complesso di conoscenze tecniche, nozioni e artifici costruttivi, il cui impiego o la cui conoscenza può rappresentare un vantaggio economico o concorrenziale per chi lo possiede, al (più discusso) know how (c.d.) commerciale riferito all’insieme di insegnamenti o di prestazioni di servizi attinenti alla commercializzazione di prodotti e alle tecniche di vendita o alla gestione amministrativa, la cui conoscenza e applicazione può comportare un vantaggio (5). In realtà, come emerge da quanto appena esposto, data la diversità delle ipotesi che la locuzione know how può significare, è assai difficile darne una qualificazione giuridica precisa, piuttosto ci si limita ad usare formule, di solito molto ampie e generiche, di tipo sostanzialmente descrittivo, riferite ad una gamma di possibili contenuti dei rapporti contrattuali (6). Del resto, la mancanza nei vari ordinamenti giuridici (incluso il nostro) di una norma specifica, alla quale fare sicuro riferimento, per giungere a una definizione e per dettare una disciplina autonoma, fa comprendere gli sforzi dell’interprete, attesa l’importanza della materia, di estrarre da questa realtà eterogenea dei punti di riferimento per una ricostruzione giuridica del fenomeno. Un dato che emerge con una certa regolarità è il carattere trasmissibile delle conoscenze (7). Da esso scaturiscono due conseguenze: in primis, le esperienze strettamente connesse a capacità o abilità personali, che non si traducono in nozioni definite ed esplicitabili in termini razionali, suscettibili, appunto, di comunicazione ad altri soggetti, non rientrano nella nozione di know how. Il che significa che il confine comincia a delinearsi solo al di sopra della soglia, anche elevata, dell’abilità professionale, inscindibile, quest’ultima, dalla persona; e, inoltre, quel che conta è che tali conoscenze vengono ad avere rilievo come autonomo elemento patrimoniale in occasione di un eventuale scambio contrattuale. L’acquisizione di questi dati non elimina, tuttavia, una serie di altri punti controversi. Anche circoscrivendo il fenomeno del know how al solo settore produttivo in senso stretto, infatti, le opinioni degli interpreti circa il contenuto da attribuire all’istituto non appaiono univoche: scontando, inevitabilmente, in questa sede una certa approssimazione, ci limitiamo a ricordare che si va da posizioni che fanno coincidere il know how con l’insieme ‘‘sistematico e coordinato di regole tecniche di per sé non inventive, volte a governare in modo ottimale un processo industriale’’ (8) a letture che ricomprendono le invenzioni brevettabili ma non brevettate, le c.d informazioni negative (ossia quel che non si deve fare per ottenere un determinato risultato) fino alle più insignificanti pratiche manuali (9). Il dilemma che si pone, a questo punto, consiste nell’individuare quali fra queste notizie possano, pertanto, essere considerate dall’ordinamento giuridico degne di una qualche protezione e quindi coperte da segreto. (5) Cfr. L. SORDELLI, Il know how: facoltà di disporne e interesse al segreto, in Riv. dir. ind., 1986, p. 95; in argomento, v. anche A. BLANDINI, voce Know how, in Enc. dir., Aggiornamento, Milano, 1997, pp. 725-742. (6) L’osservazione è di A. ALESSANDRI, op. cit., p. 182. (7) Lo rileva A. ALESSANDRI, op. cit., p. 182. (8) Così, testualmente G. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali, Milano, 1976, p. 487. (9) Per un’analisi di queste posizioni, v. A. ALESSANDRI, op. cit., p. 183.


— 1100 — Affrontare con la necessaria completezza il problema ora prospettato condurrebbe al di là degli spazi imposti a queste note; ci si limiterà, dunque, ad un tentativo di delimitare la sfera di know how tutelata dalla legge penale e, successivamente, a porla a confronto con quella delineata nella pronuncia della Cassazione. 4. La fattispecie di reato contenuta nell’art. 623 c.p. e la tutela del know how aziendale. — L’indagine volta a conseguire questo obiettivo deve muovere, in primo luogo, dal dato normativo dell’art. 623 c.p. — ‘‘Rivelazione di segreti scientifici e industriali’’ — per ricordare che, in forza di esso, oggetto del segreto industriale sono le scoperte, le invenzioni e le applicazioni industriali. La previsione dell’art. 623 c.p. dispone, infatti: ‘‘Chiunque, venuto a cognizione per ragione del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche o applicazioni industriali, le rivela o le impiega a proprio o altrui profitto, è punito con la reclusione fino a due anni’’ (10). Se la elaborazione delle nozioni di scoperta e invenzione è stata piuttosto tormentata, decisamente più complessa si è presentata all’interprete la definizione del concetto di applicazione industriale, senza dubbio maggiormente caratterizzata da confini ancor più incerti, e quindi suscettibile di letture diversificate (11). Secondo le definizioni accolte dalla dottrina più autorevole, per scoperta scientifica deve intendersi quel ‘‘complesso organico e coordinato di informazioni che descrive un determinato settore della realtà fenomenica, pur non essendo necessario che esso abbia raggiunto l’esatta o esauriente interpretazione dei fenomeni rilevati’’ (12). Si prende conoscenza di un aspetto della realtà obiettiva prima ignoto: di un fenomeno esistente, di una proprietà o di una legge naturale del mondo fisico, senza che essi cambino in qualche modo la realtà obiettiva (13). L’invenzione scientifica è concetto riferito a un complesso coordinato di dati, finalizzato a un risultato pratico e consiste nell’‘‘acquisizione della conoscenza di nuovi rapporti causali per l’ottenimento di un determinato risultato, riproducibile indefinitamente’’ (14). L’applicazione industriale, infine, delle scoperte e delle invenzioni scientifiche, è nozione che ricomprende ‘‘sia i progetti di soluzioni tecniche compiuti ma non ancora realizzabili, sia le concretizzazioni delle idee inventive provviste di immediata attuabilità’’ (15). Se questo, ora sommariamente tratteggiato, è l’oggetto coperto da segretezza ai sensi dell’art. 623 c.p., è palese come esso si estenda a tutto l’iter produttivo, coinvolgendo la fase conoscitiva, quella progettuale, nonché quella applicativa. Con una precisazione essenziale: secondo l’opinione della dottrina maggioritaria, la norma appresta tutela soltanto a quei risultati della ricerca scientifica o dell’attività inventiva che abbiano raggiunto un certo livello di compiutezza ed organicità, espresso dal ricorso alle locuzioni ‘‘scoperte e invenzioni’’ (16). (10) Ricordiamo che il delitto è ricompreso tra i delitti contro la libertà individuale e la sua concreta punibilità è subordinata alla presentazione della querela da parte della persona offesa dal reato. (11) Cfr. A. ALESSANDRI, op. cit., in particolare pp. 153, 154 e 184; N. MAZZACUVA, op. cit., pp. 89 e 90. (12) Così A. ALESSANDRI, op. cit., pp. 159 e 160. (13) In tal senso F. MANTOVANI, Diritto penale, p.s. persona, Padova, 1995, p. 555; A. CRESPI, op. cit., p. 187. (14) A. ALESSANDRI, op. loc. ult. cit.; v. anche F. MANTOVANI, op. loc. ult. cit., p. 555 e CRESPI, op. cit., p. 187 ss. (15) Ancora A. ALESSANDRI, op. cit., p. 171. (16) In questi termini, A. ALESSANDRI, op. cit., p. 181; nello stesso senso, N. MAZZACUVA, op. cit., p. 115; P. MUTTI, voce Segreti scientifici o industriali (rivelazione di), in Dig. disc. pen., vol. XIII, Torino, 1997, p. 75.


— 1101 — Si discute, sia in dottrina che in giurisprudenza, se le ricerche e le invenzioni scientifiche debbano essere caratterizzate dal requisito dell’industrialità, cioè dall’idoneità di applicazione industriale o professionale. Le posizioni sono differenziate: secondo una prima tesi minoritaria, la tutela penale dell’art. 623 c.p. riguarda qualunque prodotto dell’attività inventiva e di ricerca, suscettibile o meno di applicazione industriale (17). Per contro, i sostenitori dell’orientamento prevalente (18) ritengono che l’industrialità della scoperta e dell’invenzione scientifica, quale destinazione ed attitudine a ricevere applicazione nel campo dei procedimenti industriali, costituisca requisito essenziale per la sussistenza del reato in esame. In questo stesso solco, ma con una interessante precisazione, infine, la posizione di una parte della dottrina (19), per la quale sarebbero comprese nella sfera di tutela solo quelle scoperte da cui ci si attende un risultato industriale, pur non essendo necessaria la sicura e immediata attuabilità pratica delle stesse, data la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, in certi casi, di un tale giudizio al momento della scoperta o della invenzione. Un cenno, infine, va dedicato ad un ulteriore aspetto problematico, quello della novità e originalità della scoperta, dell’invenzione e delle relative applicazioni industriali. La giurisprudenza della Cassazione, in un primo tempo, ha escluso la rilevanza di siffatti requisiti per l’integrazione del delitto in questione (20); orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di merito, per la quale, ad esempio, ‘‘la nozione di segreto di cui all’art. 623 c.p. non deve essere intesa limitatamente, dovendosi estendere a comprendere anche una originale combinazione di dati ed elementi già conosciuti’’ (21). In pronunce successive la Suprema Corte ha ulteriormente articolato la propria posizione, affermando che per risolvere lo snodo interpretativo inerente all’individuazione dell’interesse tutelato nella norma in questione è del tutto insufficiente limitarsi ad affermare che la novità dell’applicazione industriale non è essenziale ai fini del delitto esaminato: l’interesse primario a mantenere segreta la notizia relativa all’applicazione industriale può basarsi, si afferma, anche su plausibili ed apprezzabili ragioni, sia pure personali, e comunque non deve necessariamente desumersi dalla novità della cosa rigorosamente intesa (22). In dottrina non si registra unanimità di vedute: una parte di essa (23), quella più risalente, ritiene che originalità e novità costituiscano requisiti necessari per l’integrazione del reato, in quanto impliciti nella natura stessa della scoperta o dell’invenzione, e addebitano la loro mancata menzione nel testo normativo dell’art. 623 c.p. ad una mera dimenticanza del legislatore. Secondo altra impostazione dottrinale, le notizie suscettibili di tutela da parte (17) V. P. BRIGNONE, op. cit., p. 98, per la dottrina e, in giurisprudenza, Cass., sez. V, 3 giugno 1977, Uguzzoni, in Foro it., 1979, II, c. 304 ss. (18) Ci riferiamo ad A. CRESPI, op. cit., p. 185; N. MAZZACUVA, op. cit., p. 113; A. ALBAMONTE, op. cit., p. 273 e A. SPINZO, op. cit., pp. 469-470. Sul fronte giurisprudenziale, si veda Cass., sez. II, 7 febbraio 1973, Miglietta ed altri, in Giust. pen., II, 1974, p. 267 ss. (19) Così A. ALESSANDRI, op. cit., p. 180. (20) La posizione richiamata si riscontra in Cass., sez. II, 7 febbraio 1973, Miglietta ed altri, cit., p. 271 e in Cass., sez. V, 3 giugno 1977, Uguzzoni, cit., p. 308. (21) Esattamente in questi termini, Pretura pen. Monza, 15 ottobre 1983, Del Bon e altri, cit., p. 466 ss. Sul fronte opposto Pret. Bergamo, 18 aprile 1997, Degan, Foro it., 1998, c. 128, che richiede espressamente la novità e l’originalità dell’invenzione. (22) Questa la linea che emerge in Cass., sez. V, 3 giugno 1977, Uguzzoni, cit., p. 311. (23) V. MANZINI, Trattato di dir. pen. it., vol. VIII, 4a ed., Torino, 1964, p. 984 ss.


— 1102 — dell’art. 623 c.p. debbono essere caratterizzate più che dalla novità dalla assenza di notorietà (24). Tuttavia, anche la ‘‘notorietà’’ è termine di per sè ampio ed elastico, che non contribuisce a definire con esattezza i contorni del segreto tutelabile dall’art. 623 c.p.; a ciò si aggiunga che solitamente esso viene utilizzato in un’accezione assai generica. Appare, allora, preziosa, al fine di pervenire ad una più precisa delimitazione della fattispecie di cui si dibatte, la sollecitazione a collegare il contenuto della notorietà ‘‘al campo specifico al quale appartengono le conoscenze nei cui confronti essa dovrebbe operare come limite’’ (25). Ne consegue che è da ritenersi ‘‘notorio’’ tutto ciò che, allo stato delle conoscenze attuale, fa parte del patrimonio di informazioni su di un determinato problema, purché le fonti (siano esse la letteratura scientifica o le descrizioni brevettuali) siano disponibili a qualunque esperto (26). Ecco, dunque, che l’area di segretezza non comprenderà quei dati scientifici che possono essere acquisiti con l’ordinaria diligenza del ricercatore del campo specifico; non coprirà quelle informazioni, la cui conoscenza si può ottenere in modo agevole e mediante indagini ordinarie e ricerche, il cui grado di accessibilità dovrà essere, tuttavia, rapportato alle peculiarità del settore tecnico-scientifico interessato; e svanirà, infine, quando la pratica attuazione dell’invenzione sia stata divulgata o sia comunque ricostruibile (27). In chiusura di questo schizzo ricognitivo, va precisato che la scoperta o l’invenzione deve ritenersi divulgata, e quindi priva della tutela dell’art. 623 c.p., in quanto non più segreta, ‘‘quando non è più possibile controllare (data la sua indeterminatezza) l’effettiva consistenza della cerchia dei soggetti che sono a conoscenza del nuovo ritrovato’’ (28). Tracciato così, rapidamente, il contenuto delle categorie contemplate nell’art. 623 c.p., si tratta ora di vedere come si collochi in rapporto ad esso la problematica del know how, quale sia cioè la sfera di quest’ultimo sottoposta allo strumento penale. In verità, la compresenza, nella legislazione positiva, di norme di natura civile e di norme di natura penale riguardanti lo stesso bene giuridico — segreto industriale — induce a una prima, banale considerazione: è logico ritenere che strumenti normativi differenziati siano finalizzati ad obiettivi diversificati. È ben noto che la sanzione penale dovrebbe essere utilizzata per garantire un grado di tutela più penetrante rispetto a quello che viene fornito dalla legislazione civile, ed è noto altresì che l’intervento penale è giustificato come extrema ratio quando l’aggressione al bene giuridico abbia una particolare incidenza offensiva e non vi siano idonei ed efficienti mezzi alternativi di reazione. Questo implica che le norme penali sulla materia qui esaminata dovranno considerarsi deputate non soltanto a disciplinare profili diversi da quelli affidati alla tutela civile, ma, quand’anche tali profili avessero a sovrapporsi, è naturale (24) Questa è la posizione condivisa, tra gli altri, da A. CRESPI, op. cit., p. 189; P. BRIGNONE, op. cit., p. 103 e da A. ALBAMONTE, op. cit., il quale, più precisamente, ritiene che anche nella fattispecie in parola si richieda un quid novi, ma non nei termini del diritto brevettuale, bensì ‘‘in un’accezione più ristretta [...] e sempre relativa all’attività industriale’’. (25) Il proficuo suggerimento è di A. ALESSANDRI, op. cit., pp. 164, 165. (26) È questa, in estrema sintesi, la posizione espressa da A. ALESSANDRI, op. cit., p. 166, e ampiamente analizzata dall’Autore nei suoi molteplici e intrecciati aspetti. (27) La fisionomia dell’art. 623 c.p. delineata da A. ALESSANDRI, op. cit., p. 168, muovendo da angolazioni diverse, porta così ad escludere l’applicabilità della norma tutte le volte in cui le informazioni siano individuabili dall’esame a posteriori del prodotto: come puntualizza l’Autore, si tratta del tema del c.d. reverse engineering studiato in particolare dalla dottrina americana. (28) Con queste parole, N. MAZZACUVA, op. cit., p. 144.


— 1103 — che il presidio penale venga riservato alle violazioni caratterizzate da una significativa gravità. Proiettando in questa prospettiva funzionale l’art. 623 c.p., ne consegue, per coerenza logica, che anche l’ambito di protezione penale del know how non può che essere inteso in senso restrittivo; coprendo la tutela del segreto soltanto le ‘‘soluzioni industriali [...] nuove [...] che superino originalmente le conoscenze già acquisite’’ (29). In altre parole, dall’assetto normativo traspare una chiara scelta di politica legislativa: sul piano della responsabilità penale il legislatore opera una graduazione dell’intensità sanzionatoria in rapporto alla natura delle informazioni, fissando la soglia di punibilità alla rivelazione di contributi di effettivo spessore e rilievo. 5. La tutela penale del know how secondo la pronuncia della Cassazione. — Ebbene, se si va ora a comparare il quadro emerso da questa ricostruzione con quello del caso di specie, si può osservare che la Suprema Corte, rigettando il giudizio della Corte d’appello (confermativo, peraltro, della sentenza del Pretore), si attesta su una discutibile posizione di retroguardia. Essa, infatti, prende le mosse da una nozione di know how aziendale intesa come ‘‘il complesso delle informazioni industriali necessarie per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un impianto’’ e ne ascrive la rivelazione alla categoria ‘‘rivelazioni di notizie sopra applicazioni industriali’’. È, dunque, quello dell’applicazione industriale il settore verso il quale la Corte dilata i confini del know how. Del resto, proprio questo frammento dell’art. 623 c.p., come si è detto, riflette, sotto il profilo della certezza, il nervo più scoperto della norma; quello, cioè, più esposto ad un utilizzo diversificato a causa della carenza di tassatività (30); e la pronuncia in esame, a parer nostro, è una manifesta esemplificazione di questa forzatura. La Corte d’appello, infatti, (e parimenti il Pretore in primo grado) nell’assolvere gli imputati per insussistenza del fatto (vale a dire per insussistenza della violazione del segreto industriale riferito al know how) aveva fatto leva su una nozione restrittiva di know how aziendale, ricollegandola alle ‘‘regole tecniche capaci di ottimizzare un processo industriale, che superino con carattere di originalità le conoscenze già acquisite’’. Su questa base era respinta la tesi delle accuse, pubblica e privata, rimarcando, ragionevolmente, che: non era segreta l’idea della macchina in questione (realizzata negli Stati Uniti da decenni); non erano segreti i componenti della macchina (tutti prodotti da terzi soggetti e reperibili nel mercato) e non v’era nulla di segreto nelle modalità di assemblaggio della stessa. A questa stregua era da ritenere che l’innovazione doveva considerarsi divulgata e accessibile a terzi e che, di conseguenza, più imprese sarebbero state in grado di attuare tale tipo di innovazione o avrebbero comunque potuto essere in possesso dell’idea. L’osservazione portava ad escludere la violazione del segreto e a constatare (29) Questa la conclusione di A. ALESSANDRI, op. cit., pp. 183, 184. (30) Mette bene in rilievo A. ALESSANDRI, op. cit., pp. 154, 155, che... ‘‘a rendere estremamente elastica la portata dell’art. 623 [...] è soprattutto l’interpretazione delle ‘applicazioni industriali’, [...] vera formula di chiusura per coprire tutte le conoscenze che attengono al procedimento produttivo’’, dalle invenzioni non brevettabili ai segreti di fabbrica, dagli accorgimenti anche modesti impiegati nei processi di fabbricazione ai tours de main (ossia pratiche manuali, accorgimenti utili alla produzione). ‘‘Per tale via’’ sostiene l’Autore, ‘‘non risulta più possibile rintracciare alcun limite tipologico o qualitativo per le informazioni coperte dal segreto industriale, fatto coincidere — quanto al possibile oggetto — con tutte le notizie relative alle modalità produttive. Ne deriva una sostanziale equiparazione, sotto questo profilo, della normativa penale a quella civile agganciata alla repressione della concorrenza sleale’’. Sottolinea il carattere sfuggente dell’individuazione della nozione ‘‘applicazioni industriali’’ anche N. MAZZACUVA, op. cit., pp. 89, 90.


— 1104 — che oggetto di sfruttamento — lecito — da parte dei due tecnici (e dei vertici della Dylog Italia s.p.a) alla fine risultava essere soltanto l’esperienza professionale maturata presso l’azienda (A.S.H.), dalla quale i due si erano in precedenza licenziati; esperienza la quale, ancorché dotata di una carica di riservatezza, non riveste, tuttavia, lo standard richiesto dall’art. 623 c.p. Su questo punto insiste, invece, la Cassazione, che, nell’accogliere la tesi dei ricorrenti, nega a siffatte conoscenze (quelle usate dai due tecnici) il carattere di mera esperienza professionale, qualificandole, per contro, come elementi inerenti ai processi produttivi (ossia applicazioni industriali), conseguiti dalla ditta A.S.H. dopo anni di ricerca e di sperimentazioni tecniche, e che, quindi, se rivelati, integrerebbero la fattispecie di cui all’art. 623 c.p. Il dato testuale riferito alle applicazioni industriali, dunque, secondo la Suprema Corte, andrebbe interpretato come comprensivo anche di una dimensione di know how estesa alle mere conoscenze professionali; e la repressione penale prescinderebbe dall’originalità e dalla novità di esse, nonché dalla loro notorietà. Sono così del tutto disattese le mature elaborazioni della migliore dottrina (e di una certa parte della giurisprudenza di legittimità) sopra segnalate, in forza delle quali le notizie suscettibili di tutela da parte dell’art. 623 c.p. dovrebbero essere contraddistinte dall’assenza di notorietà, requisito che, nel caso di specie, invece, è ampiamente acquisito in relazione a tutti i profili che contano — idea della macchina, componenti e assemblaggio della stessa —. Come correttamente a nostro avviso sottolinea la Corte d’appello, l’esegesi dell’art. 623 c.p. ‘‘non può prescindere dalla trasformazione profonda intervenuta in campo economico in generale e nei settori altamente specializzati (come quello in cui operavano A.S.H. e Dylog) in particolare’’ (31); un’evoluzione in cui lo sviluppo scientifico e tecnologico è connotato da una velocità di trasformazione e di diffusione delle notizie, vuoi nel momento della sua realizzazione, vuoi in quello della circolazione, da raggiungere un livello ‘‘frenetico’’ sicuramente impensabile in un modello di tecnologia di tipo ottocentesco, e nel quale la rapida obsolescenza di un macchinario, anche di più recente realizzazione, costituisce dunque la regola. Nel caso esaminato, le fonti erano disponibili a qualunque esperto, i dati significativi erano conoscibili in modo agevole e mediante indagini ordinarie a chicchesia; l’applicazione relativa all’invenzione della macchina era ampiamente divulgata e facilmente ricostruibile; tutto ciò, unitamente alla reperibilità della macchina sul mercato, non può essere considerato, a nostro parere, irrilevante al fine di negare la configurabilità del reato di cui all’art. 623 c.p. Alla luce di queste considerazioni, l’impianto argomentativo della Corte appare, pertanto, ben poco convincente. Ricondurre, come fa la Cassazione, le condotte rivelatrici alla fattispecie dell’art. 623 c.p., ritenendole, in tal modo, meritevoli di essere assoggettate a sanzione penale, denota, per un verso, una forzatura del tenore letterale della norma incriminatrice, con ricorso a un’interpretazione più che estensiva, tale da ledere il principio di legalità; per l’altro, un uso improprio dello strumento punitivo, laddove l’esigenza dell’ordinamento a ricomporre l’ordine violato sarebbe stata già soddisfatta da una risposta di tipo civilistico, in adesione al principio dell’extrema ratio. Infatti, la protezione del diritto personale dell’imprenditore all’organizzazione della propria attività economica, che la Cassazione ha ritenuto di dover consegnare al presidio penale, avrebbe potuto essere esercitata adeguatamente con il ricorso alla disciplina civilistica richiamata nell’art. 2105 c.c., che prevede per i di(31) Cfr. Guida al diritto, n. 38, 6 ottobre 2001, p. 85, ove è stata riportata la sentenza della Cassazione in esame.


— 1105 — pendenti l’obbligo alla fedeltà e alla correttezza, in combinato disposto con l’art. 2125 c.c., il quale a sua volta contempla il patto di non concorrenza per il tempo successivo alla cessazione del contratto; patto che, infatti, i due dipendenti avevano sottoscritto nei confronti della ditta A.S.H. In conclusione, ci pare che la pronuncia della Corte Suprema tradisca una curvatura generalpreventiva che si concretizza in una risposta esemplare sul piano del diritto penale, determinata dalla esasperata dilatazione del dato letterale della norma contenuta nell’art. 623 c.p. A fronte di chi ha sostenuto (32) che la Cassazione, con la sentenza in parola, ha fornito un ulteriore elemento di tutela alla correttezza dei rapporti tra imprenditori e loro collaboratori, oltre al patto di non concorrenza previsto dal codice civile, si può fondatamente replicare che questa operazione interpretativa, in rapporto alle notizie rivelate, attribuisce un’inaccettabile elasticità all’intervento punitivo, dilatando oltre ogni ragionevolezza la portata dell’art. 623 c.p., smarrendone ogni possibilità di delimitazione. Quand’anche, poi, si fosse in presenza di una reale violazione di segreti industriali, rientrante nella sfera dell’art. 623 c.p., c’è da chiedersi, in ogni caso, se la tecnica di tutela penale adottata dal legislatore per questo tipo di trasgressioni sia davvero efficace in rapporto alla effettiva tutela dei beni giuridici in gioco e alla correlata funzione dissuasiva. È, infatti, palese che l’impresa destinataria delle notizie rivelate è l’unica ad avvalersene in concreto su un piano di concorrenza ed è anche l’unica a non subire conseguenze incisive dal modello punitivo esistente. La conseguente inefficacia, dunque, anche sotto il profilo preventivo, dell’intervento del diritto penale nei confronti dei beni tutelati fa riemergere l’antico problema della scelta tra repressione penale e repressione civile (33); un interrogativo la cui soluzione potrebbe trascendere il tradizionale binomio richiamato per andare alla ricerca di risposte più moderne e attuali. Come, per esempio, quella delineata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il quale ha introdotto, limitatamente a certe ipotesi di criminalità economica, una forma di responsabilità (amministrativa) autonoma degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, in un tessuto normativo che prevede così la corresponsabilizzazione delle persone giuridiche accanto alle persone fisiche (34). Se ‘‘il vero profitto del reato finisce all’ente: allora è quest’ultimo [...] che deve essere colpito a fianco dell’autore del reato’’ (35): questa la ratio che informa il decreto in parola. Ma se così è, forse i tempi sono maturi per un ripensamento anche dei reati concernenti la violazione dei segreti, quando essi attengano ad illeciti d’impresa. In un’ottica riformistica può essere stimolante gettare uno sguardo ad altre esperienze europee in materia di difesa del segreto industriale. Le soluzioni che si rinvengono appaiono profondamente diversificate. Sostanzialmente diverso da quello italiano è, ad esempio, l’ordinamento inglese, che non prevede criminal offences destinate alla tutela del segreto industriale. Si è cercato, pertanto, di estendere la portata applicativa di alcune figure criminose contemplate nel Theft Act; ma l’operazione ha presentato delle difficoltà (32) È di questa opinione O. FORLENZA, Un nuovo strumento di garanzia della correttezza nel rapporto tra imprenditori e collaboratori, in Guida al diritto, n. 38, 6 ottobre 2001, pp. 87, 88. (33) Si interrogano su questo tema, A. ALESSANDRI, op. cit., p. 245 e A. SPINZO, op. cit., p. 471, i quali richiamano l’attenzione sulla maggiore efficacia che, su questo terreno, potrebbe esplicare lo strumento sanzionatorio civilistico. (34) In argomento, si segnala, tra gli altri, AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002. (35) Testualmente, A. ALESSANDRI, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell’impresa, 2a ed. aggiornata, Bologna, 2001, p. 81.


— 1106 — notevoli in quanto oggetto di theft può essere solo la property e, sebbene questo concetto sia stato dilatato fino a ricomprendere anche le intangible things, la giurisprudenza, tuttavia, non ha ritenuto di poter ricollegare a questo concetto le entità immateriali proprie del segreto industriale (36). Affida, invece, la tutela delle informazioni industriali riservate allo strumento penalistico la legislazione tedesca. La prima legge — Gesetz gegen der unlauteren Wettbewerb — (UWG), che risale al 27 maggio del 1896, è stata modificata una prima volta dal provvedimento legislativo del 7 giugno 1909 e, in anni relativamente recenti, dalla Seconda legge per la lotta alla Criminalità Economica del 15 maggio 1986. È opportuno segnalare che quest’ultima mostrò per il tempo un tratto di spiccata avanguardia rispetto alle discipline presenti in materia negli altri Paesi europei, contemplando una sezione apposita destinata a sanzionare la falsificazione o l’alterazione dei dati e la rivelazione di segreti industriali realizzati attraverso i computer-crime. La legge, inoltre, è degna di considerazione anche per la particolare attenzione che il legislatore tedesco seppe avere quasi un ventennio fa riguardo ad un tema che nel nostro ordinamento è ancora dibattuto e che non ha al momento trovato una risposta soddisfacente sul piano del diritto positivo: alludiamo all’incriminazione autonoma degli atti di induzione alla rivelazione, che consente di reprimere la condotta del terzo concorrente: di regola, l’imprenditore destinatario del segreto rivelato (37). Ricordiamo che in Germania il segreto aziendale e commerciale trova protezione anche nell’ambito del codice penale: specificamente nel paragrafo 203 (38) ‘‘Violazione di segreti privati’’ e nel paragrafo 204 ‘‘Utilizzazione di segreti altrui’’. Si tratta, tuttavia, di fattispecie che puniscono la diffusione e l’utilizzazione di informazioni aziendali e commerciali non più sotto il profilo della concorrenza sleale bensì in un’ottica di natura privata individuale; e infatti la Sezione quindicesima del Titolo quarto della parte speciale nella quale esse trovano collocazione è denominata ‘‘Violazione della vita privata e della riservatezza’’. Per quanto concerne la Francia, va segnalato che proprio il code Napoleon formulò nell’art. 418 una disciplina penale del segreto industriale, che costituì il modello cui si ispirarono molte codificazioni europee successive (39). La norma codicistica è stata, però, abrogata dalla l. n. 92-597 del 1o luglio 1992 ed ora la repressione della violazione del segreto di fabbrica è contemplata nell’art. L.152-7 del Code du Travail. La fattispecie è volta a proteggere qualsiasi processo di produzione che presenti un interesse pratico o commerciale, messo in atto da un industriale e ignoto ai suoi concorrenti. Consentendo di sanzionare la lesione arrecata alle invenzioni non brevettabili, l’illecito è concepito come danno indiretto alla concorrenza, andando in questo modo ad ampliare la già articolata gamma di strumenti predisposti dall’ordinamento (dal diritto penale societario al diritto penale borsistico) al fine di preservare per l’appunto il normale gioco della concorrenza e, in tale funzione, si affianca ai reati istituiti in materia di proprietà intellettuale, come la contraffazione di brevetto o di marchio oppure di disegni e (36) L’indagine, con ricco supporto bibliografico, è ampiamente sviluppata in A. ALESSANDRI, Riflessi penalistici, cit., p. 36 ss., che si sofferma anche sulle connessioni con la sfera informatica; in argomento, cfr. anche M.C. PALAIA, Informatica e tutela penale del segreto industriale, in Dir. inf., 1989, pp. 299-311. (37) Cfr. su questi aspetti innovativi della legge tedesca, M.C. PALAIA, op. cit., p. 307. (38) Un reato proprio, che prevede delle puntuali e dettagliate categorie di autori. Il testo si può leggere nella traduzione in lingua italiana in Il codice penale tedesco, introduzione di H.H. Jescheck, in Casi, fonti e studi per il diritto penale raccolti da S. Vinciguerra, Padova, 1994. (39) Sul punto v. A. ALESSANDRI, Riflessi penalistici, cit., p. 101.


— 1107 — modelli, contemplati rispettivamente nell’art. L. artt. 615-14, negli artt. L. 716-9 ss. e negli artt. L. 521-4 ss. del codice della proprietà intellettuale (40). Infine, un cenno alla Spagna, per dire che nell’ordinamento spagnolo il segreto industriale può contare su uno spettro di protezione piuttosto ampio che va dal codice civile alla legge sul contratto di lavoro fino al codice penale (41). Per quanto concerne il profilo penalistico, va precisato che, con l’entrata in vigore del codice penale del 1995, una mutata prospettiva politico-criminale in rapporto al fondamento della tutela del segreto industriale ha comportato una trasformazione del reato e una sua diversa collocazione sistematica. Nel codice penale precedente, infatti, la fattispecie che incriminava la rivelazione del segreto industriale era rinvenibile nell’art. 499, compreso nel capitolo VII — ‘‘Scoperta e rivelazione di segreti’’ — del Titolo XII — ‘‘Reati contro la libertà e la sicurezza’’ —, secondo una fisionomia privatistica della protezione accordata al segreto industriale. Dopo la riforma, invece, l’illecito, strutturato in vari articoli, è stato attratto nell’orbita del Titolo XIII — ‘‘Reati contro il patrimonio e contro l’ordine socioeconomico’’ —, precisamente nel capitolo XI — ‘‘Delitti relativi alla proprietà intellettuale ed industriale, al mercato ed ai consumatori’’ — (42), facendo palesare in tal modo nitidamente che il bene giuridico protetto viene ad essere, nel nuovo contesto normativo, la capacità concorrenziale dell’impresa (43). È opportuno sottolineare che la legislazione codicistica spagnola vigente oltre a prevedere la fattispecie tradizionale di diffusione, rivelazione o comunicazione di un segreto imprenditoriale, disciplinata nell’art. 279, ha esteso la tutela penale del segreto imprenditoriale anche al campo informatico, incriminando espressamente, accanto alla appropriazione di dati informatici segreti, la loro rivelazione o cessione a terzi (44) ed ha altresì provveduto a disciplinare autonomamente la responsabilità del terzo destinatario della notizia (45). Nell’attesa che anche il nostro legislatore elabori delle scelte innovative, resta, tuttavia, un problema di ordine generale, ineludibile, che la sentenza in esame ripropone: i criteri di governo della discrezionalità interpretativa del giudice. In proposito tornano più che mai utili le sagge indicazioni di un giurista (46) sempre attento alla tutela della legalità penale e alle tematiche dell’interpretazione della legge, il quale invita la dottrina penalistica, per un verso, ad astenersi dall’elaborare dogmatiche puramente logistiche e a predisporre modelli e schemi per (40) Sulla protezione penale della concorrenza nel sistema francese, v. P. CONTE, Diritto penale e concorrenza, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, pp. 867-883. Sul rapporto intercorrente tra il reato di violazione del segreto di fabbrica e la tutela della concorrenza, cfr. M. DELMAS-MARTY-G. GIUDICELLI-DELAGE, Droit pénal des affaires, 4a ed., Paris, 2000, 534 ss. (41) Sul punto, cfr. J.R. SERRANO-PIEDECASAS, Considerazioni sulla tutela penale del know how, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1990, p. 529. Nel saggio, v. in particolare pp. 536-538, dove l’Autore sostiene che la tutela giuridica del know how ‘‘si dovrebbe realizzare nell’ambito della legislazione sulla concorrenza sleale, essendo così oggetto di un trattamento preferenziale per la via civile, commerciale e amministrativa e, solo eccezionalmente, penale’’ e, in modo analogo a certa parte della dottrina italiana, sottolinea altresì che ‘‘l’intervento del diritto penale in questa materia deve essere minimo e circoscritto ai comportamenti che possono essere qualificati gravi’’. (42) Per la versione in lingua italiana del codice penale spagnolo del 1995, v. Il codice penale spagnolo, introduzione di G. Quintero Olivares, in Casi, fonti e studi per il diritto penale raccolti da S. Vinciguerra, Padova, 1997. (43) In merito alle diverse posizioni dottrinali sull’argomento, v. J.R. SERRANO-PIEDECASAS, op. cit., pp. 534, 535. (44) La fattispecie è contemplata nell’art. 278 del codice penale spagnolo, commi 1 e 2. (45) L’art. 280 del codice penale spagnolo, riferendosi alle notizie segrete d’impresa, oggetto dei due articoli precedenti, statuisce: ‘‘Chi conoscendone la provenienza illecita e senza aver preso parte alla loro scoperta, tiene una delle condotte descritte nei due precedenti articoli, è punito con la pena della prigione da uno a tre anni e con la multa da dodici a ventiquattro mesi’’. (46) Si allude a G. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in questa Rivista, 2001, p. 353.


— 1108 — orientare la prassi applicativa e verificarne i risultati in una prospettiva di dialogo e scambio con la giurisprudenza; e quest’ultima, per conto suo, a prestare maggiore attenzione al lavoro dei giuristi cosiddetti teorici e a riappropriarsi di quella che viene definita ‘‘cultura del limite’’ o ‘‘dell’autocontenimento’’ (47). Nel caso di specie alla giurisprudenza non sarebbero certo mancate, come abbiamo avuto modo di osservare, le opportunità di avvalersi dei razionali risultati teorici cui è pervenuta nell’ambito tematico qui esaminato certa dottrina, il cui equilibrato operare ermeneutico è contraddistinto proprio dal privilegio accordato a soluzioni interpretative del dato normativo ottenute ragionando sulla prassi (48). NATALINA FOLLA Ricercatore confermato di Diritto penale Università degli Studi di Trieste

(47) Cfr. G. FIANDACA, op. cit., p. 375. (48) Ci riferiamo, in particolare, all’elaborazione scientifica di A. ALESSANDRI, varie volte richiamata.


d) Giudizi di merito

CORTE D’ASSISE DI PAVIA — 23 luglio 2001 Pres. Bernini — Est. Beretta — Giudici popolari: Montagna-Ruggeri-Vadano-Zocchi-Verdi-Torselli Imp. Celshima-Kapllan-Fredi Reati contro la libertà individuale - Riduzione in condizione analoga alla schiavitù - Condizione di fatto - Convenzione di Ginevra sull’abolizione della schiavitù del 1956 - Carattere non tassativo dell’elenco contenuto nella Convenzione Elementi costitutivi del reato - Bene giuridico (c.p., art. 600). Si ravvisa una condizione analoga alla schiavitù ogniqualvolta una persona si trovi nell’esclusiva signoria di un altro soggetto che ne tragga profitto e ne disponga in modo simile a quello in cui il ’’padrone’’ esercitava il proprio dominio sullo schiavo (1). Il reato di riduzione in schiavitù e in condizione analoga alla schiavitù tutela la libertà di autodeterminazione e di espressione della persona e consiste nella manifestazione di supremazia, che può esprimersi anche con violenze e minacce attraverso le quali l’agente realizza la sottoposizione della vittima alla propria volontà, come se fosse un oggetto di proprietà (2). (Omissis). — La norma di cui all’art. 600 c.p. è stata oggetto di ampio dibattito in dottrina e di applicazioni giurisprudenziali diverse, tanto che pare opportuno indicare brevemente il percorso interpretativo che ha portato alle pronunce più recenti della giurisprudenza di legittimità, alla quale ritiene questa Corte di aderire. Si era in un primo tempo parlato dell’art. 600 come di norma contenente ‘‘un precetto impossibile’’, in quanto il nostro ordinamento non ammette una situazione in cui una persona possa essere soggetto passivo di un rapporto giuridico di schiavitù rispetto ad altra persona (omissis). Tuttavia in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale del reato di plagio previsto all’art. 603 c.p. (Corte cost. 8 giugno 1981, n. 96), la giurisprudenza di legittimità, confortata da unanime dotttrina, ha ricondotto al reato di riduzione in schiavitù talune situazioni di soggezione personale di fatto che in precedenza erano state penalmente sanzionate ai sensi dell’art. 603 citato. Si è peraltro posto il problema di chiarire le condotte rilevanti, al fine di evitare che anche dell’art. 600, così come dell’art. 603, potesse parlarsi quale ‘‘norma penale in bianco’’, censurabile per violazione del principio costituzionale di tassatività.


— 1110 — In un primo tempo la Suprema Corte si limitò a integrare il precetto penale con le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra del 25 settembre 1926 e del 7 settembre 1956 (rese esecutive in Italia rispettivamente con r.d. n. 1723/1928 e con l. n. 1304/1957), concernenti la schiavitù e le ‘‘istituzioni o pratiche analoghe alla schiavitù’’ (v. Cass. 22 dicembre 1983). Le Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 261/1997 (ud. 20 novembre 1996), precisarono poi che ‘‘la condizione analoga alla schiavitù di cui agli artt. 600 e 602 c.p. non si identifica necessariamente con una situazione di diritto, e cioè normativamente prevista, bensì anche con qualunque situazione di fatto in cui la condotta dell’agente abbia per effetto la riduzione della persona offesa nella condizione materiale dello schiavo, e cioè nella sua soggezione esclusiva ad un altrui potere di disposizione, analogo a quello che viene riconosciuto al padrone sullo schiavo negli ordinamenti in cui la condizione di schiavitù sia ammessa’’. Venne anche rilevato che ‘‘le condizioni analoghe alla schiavitù — le institutions e pratiques di cui alle Convenzioni di Ginevra sulla schiavitù del 1926 e del 1956 — realizzano un’elencazione meramente esemplificativa e non tassativa’’. (Omissis). Si è detto come i rapporti Pranvera-Goga Ramazan, Zaydel-Velja, BilimaniBregu, Alla-Cali Arjan, nonché quelli tra l’ignoto Jimmi o Cimmi con la Jorga e la Balauca avessero un che di consensuale e fossero privi di connotati di costrizione (il che non esclude qualche episodio di violenza, come quelli riferiti in danno della Bregu); si trattava comunque di rapporti caratterizzati da una capacità di autodeterminazione delle donne che fa escludere l’ipotesi della schiavitù. (Omissis). Tanto Cracium quanto Tishenchenko furono sottoposte dai rispettivi sfruttatori ad un trattamento ben diverso da quello di cui poterono godere Zaydel, Pranvera e persino Balauca. (Omissis). Si può dunque affermare, sulla scorta delle circostanze di fatto accertate, che Cracium Steliana Cristina e Tishenchenko Svitlana si trovarono in una condizione di schiavitù, per essere state totalmente asservite al volere e alla potestà di Celshima e Goca Kapllan, che facevano di loro quello che desideravano, inibendone ogni forma di autodeterminazione. Sotto questo profilo si può ritenere la sussistenza del reato contestato, che non è escluso per il solo fatto che, all’interno della cascina, le ragazze godessero di una qualche libertà di movimento. Rileva invece, ed è essenziale, che il modo di vivere della Cracium e della Tishenchenko fosse stato scelto e imposto dai due imputati, senza che esse potessero determinarsi altrimenti. (Omissis).

—————— (1-2)

Moderne schiavitù e moderne libertà: quali i limiti di applicabilità dell’art. 600 c.p.?

1. L’applicazione del reato di riduzione in schiavitù nella giurisprudenza di merito e di legittimità. — La sentenza della Corte d’assise di Pavia, nel riconoscere l’applicabilità della fattispecie di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p. ai


— 1111 — fatti in giudizio, ripropone il problema dell’identificazione degli elementi costitutivi di tale reato. Come è noto, il delitto di riduzione in schiavitù è stato ‘‘richiamato in vita’’ da un orientamento interpretativo che ricomprende anche le situazioni di fatto nel concetto di schiavitù, condizione che, se confinata in una dimensione meramente giuridica, impedirebbe, come è avvenuto per molto tempo, l’applicazione della norma incriminatrice all’interno del territorio dello stato italiano; la sua applicazione sarebbe, anzi, impedita, a ben vedere, in quasi tutti gli stati del mondo, posto che la schiavitù è stata formalmente abolita attraverso una serie di convenzioni internazionali (1). È altrettanto noto, d’altra parte, che in alcuni paesi orientali sopravvivono pratiche di cessione di bambini per fini di sfruttamento e di sistematica cessione di bambine in matrimoni combinati dalle famiglie (in India ad esempio), che suggellano le promesse delle future unioni attraverso feste solenni che si svolgono in una data precisa dell’anno. Questi esempi testimoniano il radicamento in determinate culture di pratiche che la legge degli stessi paesi in cui si svolgono vieta, e giustificano lo sganciamento già operato a suo tempo da una concezione esclusivamente giuridica della schiavitù (2). Ritenere che la schiavitù potesse manifestarsi solo come status giuridico avrebbe continuato a svuotare di significato la tutela della personalità morale offerta dall’art. 600 c.p. rendendolo di fatto inapplicabile. Del resto, anche le due convenzioni del 1926 e del 1956 fanno esplicito riferimento a istituzioni o pratiche, allo stato o alla condizione (3). La sentenza in esame giudica fatti simili a quelli su cui si è formato il giudicato in un procedimento deciso dalla Corte di cassazione con la sentenza 20 novembre 1996: nella sentenza della Corte d’assise di Pavia, come nel caso deciso dalla Corte di cassazione, alcune ragazze di origine slava, in parte minorenni, in parte maggiorenni, vengono introdotte clandestinamente in Italia, dopo varie peripezie trascorse tra il paese d’origine e l’Albania, e condotte a vivere in una cascina dalla quale possono uscire, mai sole, esclusivamente per recarsi sul luogo dove sono costrette a prostituirsi, senza possibilità di rifiutarsi, nemmeno in caso di indisposizione fisica. Anche sull’attività di prostituzione viene esercitato un controllo capillare dai ‘‘padroni’’ delle ragazze, arrivando a stabilire la durata dell’intrattenimento con i clienti e il numero degli incontri, i proventi dei quali devono essere interamente versati a loro. (1) Cfr. sul punto l’accurata rassegna di MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, Padova, 1995, p. 336 ss. (2) Cfr. per una casistica delle moderne schiavitù MANTOVANI, Diritto penale, p. 339 ss. (3) Secondo la Convenzione di Ginevra del 1926 la schiavitù è ‘‘lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi’’. Il testo della Convenzione di Ginevra del 1956 così definisce le condizioni analoghe alla schiavitù: a) la servitù per debiti, ossia lo stato o la condizione risultante dal fatto che un debitore si è impegnato a fornire a garanzia di un debito i servizi personali suoi o di una persona su cui abbia autorità, se l’equo valore di tali servizi non è imputato all’estinzione del debito o se la durata o il carattere dei servizi non sono definiti; b) la servitù della gleba, ossia la condizione di chiunque sia tenuto, in forza di legge, di consuetudine o di contratto, a vivere e lavorare su di un fondo appartenente a un’altra persona e a fornire a questa, dietro compenso o gratuitamente, determinati servizi, senza potere cambiare la sua condizione; c) ogni istituzione o pratica in forza della quale: — una donna, senza che abbia il diritto di rifiutare, venga promessa o data in matrimonio dietro un corrispettivo monetario o in natura versato ai suoi genitori, al suo tutore, alla sua famiglia o a qualsiasi altro gruppo di persone; — il marito di una donna, la famiglia o il clan di costui abbia il diritto di cederla a un terzo, a titolo oneroso o altrimenti; — la donna possa, alla morte del marito, essere trasferita per successione ad un’altra persona; d) qualsiasi istituzione o pratica in forza della quale un fanciullo o un adolescente minore degli anni diciotto venga consegnato, da uno o entrambi i genitori o dal tutore, ad un terzo, in vista dello sfruttamento della persona o del lavoro del minore.


— 1112 — A questo proposito, i giudici di merito tengono ben distinte le situazioni delle ragazze alle quali era lasciato un qualche margine di autonomia, e che intrattenevano ‘‘normali’’ rapporti con i loro sfruttatori, e quelle la cui situazione è stata precedentemente descritta, riconoscendo solo a queste ultime la condizione di ‘‘schiave’’. Allineandosi con la decisione sopra citata della Corte di cassazione a Sezioni unite, la Corte d’assise di Pavia ritiene che la situazione descritta rientri nella fattispecie di cui all’art. 600 c.p.: in particolare si tratterebbe di ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’. Ricostruendo il ragionamento effettuato dalla Corte tra il dispositivo e la motivazione, appaiono determinanti per la sussunzione sotto questa fattispecie i seguenti elementi: a) la mancanza di autodeterminazione nelle ragazze; b) il costante controllo sulla loro vita; c) la mancata accettazione della condizione di sfruttamento. Non sembra rivestire autonoma rilevanza, invece, il fatto che le ragazze fossero state, a un certo punto della loro storia, ‘‘acquistate’’ e successivamente cedute ad altri prima di arrivare in Italia, anche se questo dato viene ricordato nella motivazione. La circostanza dell’acquisto è, infatti, menzionata anche da alcune ragazze nei confronti delle quali non viene riconosciuta la riduzione in schiavitù (4). Si legge infatti nella motivazione: ‘‘Costei era venuta in Italia pienamente consapevole che sarebbe stata destinata alla prostituzione; nonostante fosse stata comperata dall’ignoto Jimmi, aveva con costui un rapporto in qualche misura consensuale e privo di particolari costrizioni’’. L’elemento della violenza e delle minacce sembra invece avere rilievo, ad indicare il mezzo con cui avviene la costrizione delle ragazze all’esercizio della prostituzione. Sempre con riferimento alla situazione di una ragazza nei confronti della quale non viene riconosciuta la riduzione in schiavitù si legge: ‘‘Ancor meno concludenti le risultanze relative a Rus Maria, il cui arrivo clandestino in Italia non è ascrivibile ad alcuno degli attuali imputati, e forse già rassegnata ad accettare la proposta venutale da Y, senza violenze o minacce, come sembra di poter desumere dal continuo richiamo della X, durante la sua deposizione, alle violenze subite (da parte di altri) e viste perpetrare in Albania su altre donne. Anche la risposta data circa i suoi rapporti con Marku Fredi all’interno della cascina sembrano far riferimento più ad uno stato di soggezione indotto da queste precedenti esperienze, che non all’azione o ad una volontà di sottoporla ai propri voleri, come se fosse un oggetto di proprietà; (Omissis)... si è dunque in presenza di una situazione in cui, più che la volontà attiva di ridurre in schiavitù ed un’azione conseguente, v’erano rassegnazione e accettazione passiva della situazione di sfruttamento in cui ella si era venuta a trovare’’. Questi passaggi non vanno trascurati, in quanto ci portano a domandarci se la Corte d’assise di Pavia ritenga indispensabili determinate modalità — violenza e atto di vendita — attraverso le quali si realizzi la riduzione in schiavitù al punto da configurare il reato in questione come reato a forma vincolata, oppure se la Corte ritenga, secondo l’orientamento delle Sezioni unite, che il reato di cui all’art. 600 c.p. sia un reato a forma libera, per il quale poco o nulla contano le modalità con cui i soggetti passivi vengono ridotti in condizione analoga alla schiavitù, rilevando unicamente l’evento, cioè la condizione di totale asservimento, seppure mantenuta costante attraverso la perpetrazione sistematica di minacce e violenze. (4) L’elemento dell’acquisto delle ragazze assume rilievo, per i giudici, piuttosto, quale momento consumativo del reato di cui all’art. 12 T.U. d.P.R. n. 286/1998 (favoreggiamento dell’introduzione clandestina di stranieri in Italia aggravata dalla finalità di reclutamento o di sfruttamento della prostituzione) e viene considerato un sintomo della prossima riduzione in schiavitù. Così si esprimono i giudici: ‘‘chiaro segno che i due intendevano esercitare sulla donna una sorta di signoria’’.


— 1113 — Come è noto, le incertezze sull’applicabilità del reato di riduzione in schiavitù e in condizione analoga alla schiavitù alle nuove figure di sfruttamento della prostituzione permangono, anche se ormai parecchie sono le sentenze di merito che ritengono integrata la previsione dell’art. 600 c.p. Per comprendere meglio come si sia potuti arrivare a una tale evoluzione interpretativa del concetto di riduzione in schiavitù, e in condizione analoga alla schiavitù, sganciato dalle tipologie elencate nella convenzione del 1956, occorre ricordare brevemente che l’interpretazione tradizionale dell’art. 600 vedeva nel concetto di schiavitù e di condizione analoga alla schiavitù due elementi normativi giuridici, in quanto le relative definizioni sono contenute nelle due Convenzioni di Ginevra del 1926 e del 1956. La prima definisce la schiavitù come ‘‘lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi’’; la seconda offre un’elencazione di condizioni analoghe alla schiavitù che, nell’interpretazione di alcune sentenze di merito — cui va aggiunta anche quella in esame — e nella sentenza succitata delle Sezioni unite, non è, d’altra parte, ritenuta tassativa (5). Ed è proprio sulla base di tale premessa che, fin dalle prime applicazioni, si sono potute far rientrare nell’art. 600 c.p. situazioni non contemplate dalla Convenzione del 1956. Una prima sentenza della Corte d’assise di Milano del 18 maggio 1988 riguardava infatti il caso di bambini argat che non erano stati ceduti dai genitori o da un tutore, come indicato alla lett. d) dell’elenco, bensì rapiti. I giudici, in quell’occasione, pionieri nella riapplicazione dell’art. 600, di cui affermarono la riferibilità a situazioni di fatto, non sembravano riferirsi alle situazioni di condizione analoga alla schiavitù, ma direttamente alla schiavitù tout court, richiamandosi quindi direttamente alla Convenzione di Ginevra del 1926 (6). La successiva sentenza della Corte d’assise di Firenze del 23 marzo 1993 (7) ugualmente giudica su fatti spesso riguardanti minori ceduti dai genitori a persone che non hanno nessun titolo di potestà nei loro confronti e che li sfruttano sistematicamente nel furto e nell’accattonaggio. La Corte d’assise di Firenze si discosta dal precedente di Milano, in quanto, pur riconoscendo che si tratta di condizione analoga alla schiavitù, la quale si differenzierebbe solo quantitativamente dalla schiavitù, e cioè per il livello di compressione della personalità morale, ritiene i concetti di schiavitù e di condizione analoga alla schiavitù elementi normativi non giuridici, bensì sociali, concedendosi in questo modo maggiore libertà nell’applicazione dell’art. 600 c.p. Inoltre nella sentenza si afferma a chiare lettere che la fattispecie di cui all’art. 600 è fattispecie di evento e a forma libera, con la conseguenza che sarebbero irrilevanti le modalità con cui si cagiona l’evento (8). La sentenza delle Sezioni unite del 20 novembre 1996 ritiene che la schiavitù in senso stretto sia una condizione di diritto; la ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’, invece, sarebbe una situazione di mero fatto in cui il soggetto, a differenza che nel primo caso, non perde lo stato giuridico di uomo libero. Tale situazione sarebbe ravvisabile anche al di fuori delle previsioni della Convenzione del 1956, ogniqualvolta un soggetto, pur mantenendo lo status di uomo libero, si trovasse (5) Cfr. alla nota (3). (6) La sentenza è pubblicata in Foro it., 1989, II, c. 121, con nota di SOLA, Il delitto di riduzione in schiavitù. Un caso di applicazione. Il particolare è riportato alla colonna 125. (7) La sentenza è pubblicata in Foro it., 1994, II, c. 298, con nota di DI MARTINO, ‘‘Servi sunt, immo homines’’. Schiavitù e condizione analoga nell’interpretazione di una corte di merito. (8) Cfr. la sentenza alla colonna 303.


— 1114 — nell’esclusiva signoria di un altro soggetto, il quale ne disponesse come storicamente il padrone disponeva dello schiavo (9). Lo sganciamento dallo schema della Convenzione di Ginevra ottiene così l’autorevole avallo delle Sezioni unite. In questo solco si pone la sentenza della Corte d’assise di Pavia. 2. La riduzione in schiavitù e in condizione analoga alla schiavitù è veramente un reato a forma libera? — La rinnovata applicazione della fattispecie di cui all’art. 600, e soprattutto l’estensione del suo ambito di applicazione fino a ricomprendere situazioni tragicamente attuali di sfruttamento della persona, possono apparire come un segno di reattività del sistema penale che, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, riesce a dare risposta a nuove esigenze di tutela (mai come in questo contesto le solitamente approssimative definizioni giornalistiche sono state calzanti parlando di ‘‘nuovi schiavi’’ in relazione ai fatti che erano oggetto di giudizio nelle aule giudiziarie). Tuttavia, l’aver considerato la schiavitù e la condizione analoga come elementi normativo-sociali ripropone il dilemma tra il considerare tali elementi come ‘‘organi respiratori’’ della fattispecie (10) utili per rimodellarne i contenuti nel tempo, ovvero come elementi indeterminati, tali da compromettere i connotati di precisione propri della norma penale. Ma prima di affrontare questo aspetto del problema anche con riferimento ai fatti oggetto di giudizio, occorre prendere le mosse dal dettato della norma incriminatrice. L’art. 600 punisce chiunque ‘‘riduce una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù’’. Il termine ‘‘analogo’’ contenuto nella struttura della fattispecie corrisponde allo schema della c.d. ‘‘analogia esplicita’’: tecnica di costruzione della fattispecie che, secondo una parte della dottrina, non è compatibile con il principio di tassatività in quanto aprirebbe le porte dell’analogia in malam partem (11). Secondo una diversa impostazione, occorrerebbe, però, distinguere (12): qualora i comportamenti a cui assimilare gli altri analoghi fossero riconducibili a un genus nel quale far rientrare i comportamenti non descritti potrebbe parlarsi di una semplice operazione interpretativa, come tale compatibile con il principio di tassatività della fattispecie penale; nell’impossibilità di ricondurre a un genus i comportamenti descritti, la fattispecie sarebbe invece censurabile per violazione del principio di legalità. Quando il codice fu emanato, la definizione di schiavitù era già rinvenibile nella Convenzione del 1926 ed è pertanto da quel testo che si sarebbero dovuti trarre gli elementi per ricostruire il genus a cui rapportare le condizioni analoghe. La Convenzione supplementare del 1956, nel fornire l’elenco delle condizioni analoghe in modo assai analitico, chiude il cerchio interpretativo tra i tre testi normativi, l’art. 600 c.p. e le due convenzioni. Infatti tra i due testi convenzionali vi è un’interna coerenza tale per cui non è impossibile ritrovare gli elementi generali in cui far rientrare la schiavitù e le condizioni analoghe. Sia la Convenzione del 1926, che, nel definire la schiavitù come ‘‘lo stato o la condizione di un individuo (9) Cass., Sez. un., 20 novembre 1996, in Foro it., 1997, II, c. 313, con nota critica di VISCONTI, Riduzione in schiavitù: un passo avanti e due indietro delle Sezioni unite? e in Diritto penale e processo, 1997, p. 713, con nota adesiva di SOLAROLI, Il delitto di riduzione in schiavitù come fattispecie a forma non vincolata. (10) MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., Milano, 2001, p. 138 ss.; FIANDACA-MUa SCO, Diritto penale. Parte generale, 4 ed., Bologna, 2001, pp. 73-74. (11) Così ROMANO, in Commentario sistematico di diritto penale, I, art. 1, p. 47 e GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, p. 100. (12) BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, 1965, p. 300; MARINUCCI-DOLCINI, Corso, p. 181 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, p. 96.


— 1115 — sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi’’, si riferisce alla situazione corrispondente al possesso civilistico, sia la convenzione del 1956, nel definire dettagliatamente le situazioni di ‘‘condizione analoga’’, inquadrano i due status o condizioni che dir si voglia, in una precisa dimensione giuridico-civilistica. Sembra dunque il riferimento alla disponibilità corrispondente al possesso l’elemento che più in generale si riscontra in tutte le situazioni di schiavitù e di ‘‘condizione analoga’’, anche dove, in queste ultime, come la servitù per debiti, non vi è alla base un negozio giuridico costitutivo di un diritto reale, ma un’obbligazione sulla quale si innesta la situazione ‘‘patologica’’ del possesso-disponibilità sulla persona obbligata. Tra le due Convenzioni vi è, tuttavia, una differenza non irrilevante: la Convenzione del 1926, nel definire la schiavitù si limita a descrivere una situazione che corrisponde, nella struttura della fattispecie di ‘‘riduzione in schiavitù’’ di cui all’art. 600, all’evento; e alla stessa soluzione si perverrebbe indipendentemente dal collegamento con l’art. 600: il testo convenzionale infatti descrive soltanto una ‘‘situazione’’ o ‘‘condizione’’ o status e non un comportamento. La Convenzione del 1956 descrive invece non solo una situazione che può corrispondere a un evento, ma anche la condotta, descrive cioè precise modalità con cui viene posta in essere la condizione analoga alla schiavitù e precisamente: a) l’accettazione da parte del creditore dei servigi personali del debitore, o di un terzo su cui quest’ultimo abbia autorità, a garanzia di un debito; b) un accordo nascente da una consuetudine o da un contratto, in base ai quali una persona sia legata a un fondo; c) una promessa di dare ad altri, dietro corrispettivo o meno, in matrimonio una donna, o la cessione per testamento della stessa in matrimonio ad altri; d) la cessione di minori da parte dei genitori o di un tutore in vista dello sfruttamento del loro lavoro o della loro persona. Questa differente formulazione delle due Convenzioni non può non riflettersi sulla struttura del reato previsto dall’art. 600; sembra, anzi, doversene trarre la conclusione che, mentre il reato di riduzione in schiavitù è a forma libera, non essendovi nessuna specificazione sulle modalità di realizzazione né nella Convenzione né nella norma del codice, lo stesso non si può dire della riduzione in condizione analoga alla schiavitù: in questa sfera, infatti, sono ben specificate le modalità con cui avviene la reificazione della persona. Sono quindi sì tipizzate le situazioni di condizione analoga alla schiavitù, cioè l’evento del reato in questione, ma anche le condotte che le producono. In definitiva, si tratta di un reato a forma vincolata (13). 3. La schiavitù e la condizione analoga alla schiavitù come elementi normativo-giuridici o come elementi normativo-sociali. La rilevanza dell’elemento dello sfruttamento della persona. — Come si è sottolineato, la ricostruzione del reato di riduzione in condizione analoga alla schiavitù che viene effettuata nella sentenza della Corte d’assise di Pavia, nel solco della linea inaugurata dalle Sezioni unite nel 1996, vede nella suddetta situazione non già un elemento normativo-giuridico, bensì un elemento normativo-sociale. In questo modo, le due sentenze sganciano la nozione di schiavitù e di condizione analoga alla schiavitù dal testo normativo delle due convenzioni, rivendicando al giudice il compito di individuare quegli elementi fattuali che possono essere ricondotti alla situazione di totale asservimento di un soggetto umano ad un (13) In questo senso anche VIGANÒ, Codice penale commentato, a cura di DOLCINI e MARINUCCI, art. 600, p. 3118.


— 1116 — altro, situazione che sul piano giuridico connota la schiavitù e sul piano fattuale la condizione analoga. Questa scelta interpretativa pone un probleme di portata generale: se e a quali condizioni, di fronte a un elemento normativo che possa essere riempito di contenuti attraverso ben individuate norme giuridiche, l’interprete possa invece andare in cerca di norme sociali in grado di individuare altrimenti i contenuti della disposizione incriminatrice. A favore di tale soluzione, non soccorre un’anamnesi nella storia dell’interpretazione delle norme penali. Infatti non è certo comune che nella ricostruzione di un elemento normativo i giudici, di fronte a parametri normativi certi, se ne siano allontanati alla ricerca di altri tratti dall’esperienza sociale. Semmai si è registrata l’opposta tendenza, da parte del legislatore, a sostituire elementi normativogiuridici a elementi normativo-sociali. Si pensi, ad esempio, al reato di usura: in sede di riforma si è provveduto a specificare la nozione di interessi usurari (un elemento normativo-sociale connotato da un alto grado di imprecisione), trasformandolo in elemento normativo-giuridico, a tutto vantaggio della certezza della fattispecie (14). Se ben radicata nella comune conoscenza sociale, dal Mercante di Venezia in poi, è la figura dell’usuraio, non altrettanto semplice è stato trasferire in una norma penale tutta la valenza offensiva di certe condotte ben note ai consociati, con una mera operazione di equivalenza semantica: al giudice restava comunque da valutare cosa significasse ‘‘interessi usurari’’ anche se l’imputato non era il Mercante di Venezia. Pensando poi ai casi classici di elementi normativo-sociali (gli esempi si ripetono sempre anche nelle opere più recenti), è facile notare come si discuta sempre di concetti come ‘‘comune senso del pudore’’ o ‘‘morale delle famiglie’’, attinenti in genere ai mores della società in cui opera l’interprete. Si tratta sempre di concetti che dovrebbero corrispondere a un certo costume sociale, a ciò che viene accettato o praticato, a qualcosa che la società ‘‘conosce’’ ed è in grado di individuare come appartenente alla propria cultura. Se, come già si è ricordato, anche con riferimento ai suddetti concetti, è risultato sempre estremamente difficile arrivare a definizioni certe, risulta ancor più difficile pensare a operazioni di questo tipo in riferimento alla condizione di schiavitù: condizione che non ci appartiene da molto tempo, né a livello giuridico né a livello culturale. Non è così, ancor oggi, in altri paesi, dove pure le varie forme di riduzione in schiavitù sono vietate dalla legge. Per questo motivo sembra difficile ricostruire da noi, se non all’interno di precisi contorni normativi, una condizione che ci è culturalmente estranea. E resta comunque ferma la convinzione che un’operazione creativa da parte della giurisprudenza non sia legittima, non potendosi non tenere conto della Convenzione del 1956 in quanto questa è stata regolarmente ratificata dallo stato italiano con la l. n. 1304 del 1957. Se queste poche note rendono forse superfluo passare al punto successivo, crediamo sia comunque opportuno sviluppare ancora qualche riflessione. La materia è infatti troppo scottante perché ci si possa esimere da una considerazione dell’impatto che queste ‘‘nuove forme di schiavitù’’ hanno sulla trasformazione del tessuto sociale: e questo anche al fine di vedere se queste forme di aggressione della persona umana così odiose al comune sentire trovino già nell’ordinamento adeguate risposte repressive o se necessitino di un intervento del legislatore. Prendendo in considerazione, per prima, la sentenza delle Sezioni unite, occorre notare che il tentativo della Suprema Corte di identificare i parametri sto(14) Cfr. da ultimo per una ricostruzione dell’interpretazione del concetto di interesse usurario in dottrina e in giurisprudenza VITARELLI, Rilievo penale dell’usura e successione di leggi, in questa Rivista, 2001, p. 787 nota (3).


— 1117 — rico-sociali cui riferirsi per delineare una nozione di condizione analoga alla schiavitù non può dirsi riuscito. Infatti, la definizione ‘‘situazione di mero fatto nella quale il soggetto passivo ... si venga a trovare ridotto nell’esclusivo dominio dell’agente, il quale materialmente ne usi, ne tragga profitto e ne disponga, similmente al modo in cui il padrone, un tempo, esercitava la propria signoria sullo schiavo’’, risulta essere niente più che una parafrasi della formula contenuta già nella Convenzione del 1926; se ciò appare coerente con la premessa secondo la quale la schiavitù e la condizione analoga non si differenzierebbero se non perché la prima è una situazione di diritto e la seconda di fatto, tuttavia questo non è sufficiente a far emergere quegli elementi che nella evoluzione storico-sociale dovrebbero caratterizzare la condizione analoga alla schiavitù (15). Inoltre, se, come emerge dalla motivazione, la Corte di cassazione ritiene che schiavitù e condizione analoga siano sostanzialmente la stessa cosa, una in diritto e l’altra in fatto, ma caratterizzate entrambe dagli elementi della signoria e dello sfruttamento, occorre notare come questa tesi trovi una parziale smentita nella Convenzione del 1956: in riferimento alla situazione descritta al punto c), vale a dire la condizione delle donne cedute in matrimonio per contratto, talora fin da bambine, o cedute in matrimonio ad altri per testamento, manca lo sfruttamento della persona, a meno di non voler intendere come ‘‘sfruttamento’’ il ricevimento di un corrispettivo, elemento che comunque non è sempre richiesto. Considerare come costante della condizione analoga alla schiavitù l’elemento dello sfruttamento della persona non è dunque corretto. Il ragionamento della Corte, ricostruito per punti, è il seguente: a) la schiavitù è una condizione di diritto; b) la condizione analoga è una condizione di fatto; c) sostanzialmente, quindi non si differenziano; d) si tratta di elementi descrittivi, il cui accertamento compete al giudice, e non elementi normativi; e) entrambe le situazioni sono caratterizzate dalla signoria e dallo sfruttamento esercitati dall’uomo sull’uomo. Ora, accogliendo questa impostazione, ci si troverebbe di fronte a due concetti di schiavitù e di condizione analoga, l’uno contenuto nelle Convenzioni, l’altro ricavabile dal contesto sociale, comprensivo di un elemento strutturale, lo sfruttamento, che nel testo normativo più analitico sul punto, e cioè la Convenzione del 1956, non si riscontra sempre. Siccome non è pensabile che la Corte di cassazione non abbia in qualche misura tenuto conto della fonte convenzionale, volendo trarne però un concetto più generale di condizione analoga alla schiavitù che ricomprendesse tutte le situazioni descritte e altre non descritte, tale risultato non può dirsi raggiunto: se dalla Convenzione del 1956 ci si vuole sganciare completamente, restano escluse, e quindi impunite, alcune delle situazioni descritte nella Convenzione. Se poi ci si volesse rifare comunque a questo testo normativo, come fonte per la punizione di tutte le situazioni ivi descritte, rimarrebbe sempre la contraddizione della coesistenza di due definizioni, l’una normativa, e analitica, l’altra sociale, e sintetica, senza che si possa collegarle in un rapporto di genus ad speciem, come sembra ritenere la Corte. In breve: la definizione generale di condizione analoga alla schiavitù che la Corte vuole fornire non è tale da ricomprendere tutte le situazioni descritte nella Convenzione di Ginevra del 1956. 4. La ricerca degli elementi costitutivi della fattispecie di riduzione in condizione analoga alla schiavitù da parte della Corte d’assise di Pavia. — Nella sentenza di merito che consideriamo, e che in punto di diritto si ricollega alla sentenza delle Sezioni unite, i giudici individuano tre elementi che connotano la riduzione in condizione analoga alla schiavitù: a) la mancanza di autodeterminazione (15) Anche VISCONTI, Riduzione in schiavitù, c. 318 non condivide l’argomentazione della Corte.


— 1118 — da parte della vittima; b) il costante controllo al quale è sottoposta la loro vita; c) la mancata accettazione della condizione di sfruttamento. Cominciando dall’ultimo, ci sembra che non abbia rilevanza stabilire come una persona viva questa condizione: equivarrebbe in qualche misura a dare rilevanza a un consenso interno, inespresso, che nulla comunque toglierebbe alla gravità oggettiva della condizione in cui si trova la persona; le testimonianze che vengono spesso raccolte dall’esperienza di altre ragazze parlano di rassegnazione a una certa condizione di vita, che sembra spesso preferibile al ‘‘riscatto’’ dal racket e al ritorno in patria. A questo proposito, anche dai racconti dei bambini nei confronti dei quali è stata riconosciuta la riduzione in schiavitù apparve spesso — e l’uso delle parole argat (operaio) e gazda (padrone) lo confermava — che essi riconoscevano (e probabilmente accettavano), pur dolorosamente, la loro condizione, che corrispondeva a una pratica diffusa nei loro paesi d’origine: il distacco dalla famiglia avrebbe permesso loro di non gravare economicamente su di essa. Non solo, ma molto spesso, quando vengono condotti nelle comunità, questi bambini soffrono nei primi tempi della mancanza di quella ‘‘libertà’’ di cui godevano prima. L’atteggiamento interiore di mancata accettazione dello sfuttamento, dunque, oltre che, a nostro avviso, irrilevante, non può connotarsi come una costante e quindi non può assurgere a carattere distintivo, tra gli altri, della condizione analoga alla schiavitù (16). Quanto alla mancanza di autodeterminazione, che deve intendersi come la possibilità di vivere secondo le proprie autonome decisioni, occorre, crediamo, osservare alcune cose. Questo requisito deve anch’esso assumere l’aspetto di una costante del reato in questione e ciò va determinato in relazione alle caratteristiche della persona offesa, deve cioè potersi riscontrare con riferimento a tutti i possibili soggetti passivi del delitto di riduzione in condizione analoga alla schiavitù, sul presupposto che tutti gli esseri umani siano capaci di autodeterminazione. In questo contesto viene in considerazione la possibilità di autodeterminazione in senso materiale, pratico, non in senso psicologico (17), la quale spetta alla persona in misura diversa a seconda dell’età e della maturità. Quantitativamente diversa, ad esempio, è per i minori rispetto agli adulti, e, a maggior ragione per i bambini, i quali non hanno la possibilità di determinarsi autonomamente: nei loro confronti, dunque l’evento non può essere descritto come mancanza di autodeterminazione. Le loro scelte sono, per natura, limitate, nel loro stesso interesse. L’altro elemento che viene indicato, e cioè il costante controllo sulla vita delle persone offese, si presenta come strumentale alla eliminazione dell’autodeterminazione, tanto da rappresentarne un aspetto riflesso, e, di conseguenza, non autonomo. Ad ogni modo, lo sforzo compiuto dai giudici di merito è sicuramente apprezzabile: si presentava loro, infatti, il compito di individuare in concreto quegli elementi che la Corte di cassazione aveva lasciato imprecisati. Tuttavia, come si è tentato di spiegare precedentemente, gli elementi strutturali individuati dai giudici di Pavia non risultano convincenti. Del resto, anche dopo la sentenza delle Sezioni unite, qualche voce contraria (16) Cfr. VIGANÒ, art. 600, p. 3115, il quale sottolinea come la condizione di assoggettamento sia spesso accettata dalla stessa vittima; cfr. anche MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, I, p. 333. (17) La violazione dell’autodeterminazione, intesa come capacità di autodeterminazione, costituiva il ‘‘macroevento’’ del plagio: il che non esclude che in contesti come quelli oggetto di giudizio venga meno proprio anche questa, in seguito all’indebolimento della psiche a causa delle continue minacce e violenze che vengono perpetrate nei confronti delle vittime; tuttavia la mancanza di autodeterminazione è qui intesa come impossibilità e non come incapacità.


— 1119 — anche all’interno della giurisprudenza della Suprema Corte è rimasta: infatti si riscontrano sentenze che decidono sulla riduzione in schiavitù in stretta aderenza alla Convenzione del 1956, e che ritengono manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 600 per violazione del principio di determinatezza, proprio sul presupposto che l’elencazione contenuta nella Convenzione sia tassativa e non esemplificativa (18). Ma ciò che più fa dubitare della opportunità dello sganciamento dalla Convenzione di Ginevra è la disparità di trattamento che si viene a creare, già ora, in presenza di identiche situazioni di fatto. Da altre sentenze di merito esaminate, e soprattutto dagli atti processuali, emergono vicende che in nulla si differenziano da quelle all’esame della Corte d’assise di Pavia, ma per le quali o non viene neppure in discussione l’imputazione di riduzione in schiavitù, oppure, qualora essa venga contestata, si conclude con un’assoluzione (19). La qualificazione giuridica dei fatti comprende piuttosto il reato di immigrazione clandestina, di violenza sessuale, di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione, a volte di percosse. Non solo, ma la presenza stessa di minacce e di percosse assume un significato controverso nei fatti che riguardano le vicende di prostituzione e (supposta) riduzione in schiavitù: dalla descrizione dei fatti e dalle motivazioni delle decisioni, ad esempio nella stessa sentenza della Corte d’assise di Pavia, l’esistenza delle minacce fa parte di un clima intimidatorio che viene considerato come strumentale al raggiungimento e mantenimento della situazione di assoggettamento e diviene prova della mancata ribellione delle vittime; del resto, precedenti pronunce della Corte di cassazione ritengono possibile il concorso con questi reati solo quando questi perdano il carattere di strumentalità rispetto alla condizione di assoggettamento. In altre pronunce, l’elemento della violenza diventa determinante per l’esistenza della costrizione, al punto che la sua assenza determina la mancata contestazione del reato di riduzione in schiavitù pur in presenza di elementi che denotano la ‘‘reificazione’’ della vittima come la ‘‘vendita’’ o la ‘‘cessione’’ e la totale perdita dell’autodeterminazione (20). Rimane quindi, a nostro avviso, il dubbio su quali tra questi elementi siano necessari e sufficienti per la configurazione del delitto, se l’atto o gli atti di mercificazione delle vittime, anche quando queste siano quantomeno rassegnate a una condizione di sfruttamento totale, oppure l’uso della violenza. È stato, infatti, notato che non certo la violenza fisica o psicologica esercitata su di essi contraddistingueva gli schiavi nell’antichità (21); ma, a ben vedere, anche questo argomento non sembra spendibile fino in fondo, nel momento in cui porta a operare un confronto diretto tra situazioni attuali e situazioni passate: situazioni non confrontabili in quanto appartenenti a due momenti in cui deve essere diverso il concetto di schiavitù in quanto diverso è il concetto di libertà (22). 5. Le incertezze applicative conseguenti a un’eventuale apertura dell’elenco della Convenzione di Ginevra del 1956. — Di fronte a una diversificazione così ampia nella valutazione dei fatti restano, fondamentalmente, due gli elementi che (18) Cfr. Cass., sez. V, 6 dicembre 2000, Bali e altri, in Guida al diritto, 2001, n. 25, p. 62. (19) Tribunale di Trieste, sezione dei giudici per le indagini preliminari; sent. n. 81/2001, inedita; Tribunale di Trieste, sezione dei giudici per le indagini preliminari, sent. n. 261/1998, inedita. (20) Cfr. Corte d’assise di Trieste, 13 dicembre 2000, Paskonnaia Suprun e altri, inedita. (21) L’affermazione è tratta dai motivi d’appello presentati contro la sentenza citata alla nota precedente che non riconosceva la riduzione in schiavitù a fronte della mancanza di atti costrittivi. (22) Libertà e schiavitù sono due concetti strettamente connessi, definendosi l’una in rapporto all’altra. Cfr., da ultimo, per una ricognizione del rapporto tra i due concetti, BARBERIS, Libertà, Bologna, 1999, p. 15.


— 1120 — si fronteggiano: la certezza di un riferimento all’elenco della Convenzione di Ginevra, considerato insuperabile e tassativo, e il vuoto di tutela verso situazioni che sembrano presentare lo stesso disvalore di quelle descritte nella Convenzione. Ragioni, comprensibili, di giustizia sostanziale spingono, dunque, la giurisprudenza a scelte criticabili sotto il profilo dei principi fondamentali dello Stato di diritto, e in particolare del principio di legalità. Volendo mettersi nella prospettiva delle sentenze esaminate, e, cioè, tenendo davanti agli occhi le esigenze di giustizia sostanziale, a ben vedere, e con riferimento alla situazione delle giovani costrette a prostituirsi, non sempre la Convenzione del 1956 esclude la punibilità di determinati fatti: spesso, infatti, la prostituzione diventa una strada obbligata per assolvere a debiti contratti con i propri sfruttatori o con i passeur (23) per la traduzione in Italia e questa situazione può essere fatta rientrare pacificamente nella schiavitù per debiti di cui alla lett. a) della Convenzione. Allontanarsi definitivamente dal testo della Convenzione significherebbe, al contrario, ampliare eccessivamente il campo della responsabilità penale; si aprirebbero, infatti, due vie, per l’interprete: rifarsi alla definizione generale offerta dalla Cassazione oppure applicare ‘‘analogicamente’’ (?) le singole figure di condizione analoga alla schiavitù previste dalla Convenzione; ad esempio, potrebbe qualificarsi come condizione analoga alla schiavitù la situazione di coloro che fossero trovati a lavorare in condizioni che prescindono dal rispetto di qualunque regola sulla tutela del lavoro? Oppure anche eventualmente una situazione dalla quale esuli la condizione di sfruttamento (24)? Che dire infatti della condizione della donna moglie di un integralista islamico che, pur vivendo nel nostro paese, venga costretta a portare il burqa, a non uscire di casa senza il marito, a non rivolgere la parola a un uomo senza il consenso del consorte? Invocheremmo anche per situazioni siffatte l’applicazione del reato di riduzione in schiavitù o ci limiteremmo a utilizzare, nel primo caso, la normativa penale in materia di sicurezza del lavoro e di assistenza previdenziale, e, nel secondo caso, i reati di violenza privata e di sequestro di persona? E che dire della situazione di prostitute ‘‘nostrane’’ che siano costrette a esercitare il mestiere in qualunque condizione fisica e versando tutti i proventi del proprio lavoro allo sfruttatore, che spesso è il convivente (25)? Si tratta di una situazione ‘‘classica’’ di sfruttamento della prostituzione punibile ai sensi della legge Merlin oppure di qualcosa di più grave (26)? 6. Libertà negativa e libertà positiva: spunti per un ‘‘ripensamento’’ del bene giuridico tutelato e per una tipizzazione delle nuove schiavitù. — Avviandosi alle conclusioni, sembra opportuno individuare alcuni punti fermi. (23) Questo termine è entrato nella terminologia giudiziaria di quegli uffici giudiziari che spiegano la loro competenza nei territori vicini al confine slavo e sta evidentemente a designare coloro che sistematicamente si occupano di far varcare clandestinamente il confine. (24) Cfr. le considerazioni svolte al par. 3. (25) Si veda quanto risulta dalla motivazione della sentenza del Trib. di Ravenna 3 maggio 1999, n. 63 riguardante un caso che suscitò l’interesse della stampa per le denunce a carico di una prostituta che venne accusata di aver trasmesso il virus HIV ad alcuni clienti: ‘‘Questi la costringeva a prostituirsi anche quando la donna non se la sentiva. Ella piangeva sempre. Una sera, in inverno, la vide malferma e febbricitante, che era stata appena dimessa dall’ospedale. L’uomo le prendeva tutti i soldi e non le lasciava neppure quelli per le sigarette. (Omissis). Con X così avido di denaro che lei gli procurava non aveva altra scelta. I ‘‘papponi’’ sono tutti uguali. I soldi che occorreva portare doveva pur procurarseli. E X... non le risparmiava violenze e minacce’’. (26) Giova ricordare che l’esercizio della prostituzione è attività libera, per quanto non tutelata dall’ordinamento e che, nel momento in cui venga esercitata coattivamente, viene a perdersi, forse, proprio il presupposto del reato di sfruttamento della prostituzione che presuppone, appunto, un libero esercizio della stessa.


— 1121 — Per una chiarificazione su cosa rappresenti oggi la schiavitù non può prescindersi dalla considerazione preliminare del bene giuridico tutelato. In altre parole, se si vuole ridefinire la schiavitù occorre ricostruire il bene giuridico oggetto di tutela. È cosa nota che il codice Rocco — nel quale non è previsto un Titolo dedicato ai delitti contro la libertà, a differenza di quanto accadeva nel codice Zanardelli — abbia ‘‘frammentato’’ la tutela della libertà considerandone i molti aspetti diversi: le libertà oggetto di tutela nel codice Rocco sono libertà tutelate in quanto libertà positive, cioè libertà di, e non libertà da. Una certa qual frammentazione della libertà per esigenze sistematiche di specificazione del bene giuridico tutelato è fenomeno probabilmente ineliminabile, fisiologico nella misura in cui il legislatore penale deve contenere all’interno della fattispecie specifiche forme di aggressione che offendono aspetti specifici della libertà (27). Al reato di riduzione in schiavitù, destinato, peraltro, ad essere interpretato per molto tempo come riferibile alla schiavitù di diritto, resta il ruolo di tutela del bene della personalità individuale, leggibile, nel contesto del codice, come la condizione di uomo libero. Sulla logica di questa classificazione sono stati avanzati molti dubbi in dottrina, in quanto, stando alla sistematica del codice, la personalità individuale costituirebbe ‘‘una determinazione particolare della libertà individuale’’ (28) (mentre, semmai, dovrebbe essere un prius logico di quest’ultima) insieme alle altre singole manifestazioni di libertà che trovano tutela nelle sezioni successive del capo III. Se le dispute dottrinali sulle scelte sistematiche del codice sembravano assumere un puro carattere accademico per il ritenuto valore poco più che simbolico delle incriminazioni di cui agli artt. 600-602 del codice penale, l’esperienza recente ha restituito importanza e attualità a queste norme e, di conseguenza, posto in maniera stringente l’esigenza di individuarne l’oggetto della tutela. Esula, ad ogni modo, dal codice Rocco la tutela della libertà come espressione del principio personalistico, che vede al centro della tutela la libertà connaturata alla persona, mentre nella Costituzione tale principio informa di sé l’enunciazione dei diritti e delle libertà fondamentali sia nei confronti dello stato sia nei confronti della società (29). Ed è solo da una ricostruzione del bene giuridico tutelato diversa e autonoma rispetto alla concezione del codice del 1930, che si può capire quali siano i margini di interpretazione lasciati dalle due convenzioni al giudice. Abbandonando il riferimento ad un improbabile bene giuridico identificabile con la personalità individuale, sembra imprescindibile oggi riferirsi innanzitutto a un concetto di libertà negativa, da intendersi come libertà da: così concepita, la libertà non diventa più espressione delle facoltà che assomma in sé la persona (libertà di o positive), ma espressione di una pretesa dell’individuo all’assenza di qualunque ingerenza esterna sulla propria sfera individuale, all’assenza di qualsiasi dominio (e su questo la Suprema Corte e tutta la giurisprudenza che la segue sembrano essere d’accordo) (30). (27)

Cfr. PALAZZO, Persona (delitti contro la), voce, in Enc. dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, p.

302. (28) Così FIORE, Libertà, V) Libertà individuale (delitti contro la), voce in Enc. giur. Treccani, p. 2. Una sistematizzazione è tentata da ZUCCALÀ. (29) Cfr. FIORE, Libertà, p. 2; PALAZZO, Persona, p. 306; FLICK, Libertà individuale (delitti contro), voce, in Enc. dir., vol. XXIV, Milano, 1974, p. 536 ss. (30) Sulla concezione di libertà negativa come espressa in BERLIN, Two concepts of liberty, cfr. ancora BARBERIS, Libertà, p. 118 ss.: si tratterebbe di due concezioni piuttosto che di due concetti di libertà, due interpretazioni del concetto di libertà. La nozione di libertà negativa, originatasi nell’ordinamento li-


— 1122 — La Convenzione di Ginevra del 1926, nel definire la schiavitù, presuppone questo concetto di libertà; la convenzione del 1956, nel descrivere le condizioni analoghe alla schiavitù, evidenzia alcune manifestazioni di compressione parziale della libertà, o di singoli aspetti della stessa, se si preferisce, che si manifestano tanto come compressioni di libertà positive così come negative. Ad essere compresse sono, infatti, la libertà di matrimonio e la libertà di lavoro. Sotto l’aspetto della assolutezza o della relatività della violazione della libertà sembrano così differenziarsi la schiavitù e la condizione analoga alla schiavitù (31). All’interno dell’elenco vi è una sola situazione che forse può essere isolata rispetto alle altre, e per la quale si può parlare non semplicemente di compressione parziale, bensì assoluta della libertà: si tratta della situazione descritta alla lett. d), che riguarda la situazione dei minori ceduti dai genitori o da un tutore. Trattandosi generalmente di bambini, essi godono in primis di libertà negative piuttosto che di libertà positive, nel loro stesso interesse, dove la libertà negativa si sostanzia nella necessità di un rispetto della loro sfera individuale da qualunque tipo di ingerenza esterna: i bambini non hanno libertà di lavoro; ad essere tutelata non è la loro libertà sessuale, bensì la loro intangibilità sessuale, non hanno libertà di matrimonio. L’essere nella potestà di altri deve costituire una garanzia del rispetto di queste libertà. Ed è per questo che, ‘‘trasferiti’’ ad altri che non abbia su di loro alcun titolo di potestà, e avviati al lavoro o all’accattonaggio o alla prostituzione, essi perdono in toto la libertà, rendendo persino irrilevante lo sfruttamento: nel senso che, anche qualora esulasse quest’ultimo elemento ed essi potessero, per avventura, disporre autonomamente dei propri guadagni, resterebbero comunque privati di quella libertà che consente loro di formare la propria persona, e, dunque, sarebbero, inevitabilmente schiavi. La situazione dei bambini argat descritta alla lett. d) della Convenzione di Ginevra rappresenta quindi una situazione di schiavitù e non semplicemente di condizione analoga alla schiavitù. Se questo è plausibile, ciò significa che per la repressione di siffatte violazioni, ci si può direttamente riferire alla Convenzione del 1926, poiché è da questo testo che si ricava la definizione di schiavitù, prescindendo, quindi, dalle modalità — cessione o rapimento — con cui viene realizzato l’evento (32). Non solo, ma la portata dell’offesa al bene giuridico è tale che il reato di riduzione in schiavitù è configurabile, a nostro avviso, anche nei confronti degli stessi genitori (si tratta generalmente di nomadi) che impieghino i figli nell’accattonaggio e nel furto. Se, infatti, la potestà sui figli minori ha lo scopo di proteggere gli stessi, e non assume certo il significato di un ‘‘dominio’’, diventa però tale se viene usata per togliere ai minori quella libertà che dovrebbe, invece, concorrere a garantire (33). La situazione delle ragazze costrette alla prostituzione e controllate nella loro berale come autentica forma di libertà è oggi intesa come imprescindibile presupposto della libertà positiva: cfr. AMATO, Libertà, voce, in Enc. dir., vol. XXIV, 1974, p. 272; BALDASSARRE, Libertà, voce in Enc. giur. Treccani, p. 18. (31) Così già la sentenza della Corte d’assise di Firenze citata. (32) Già a siffatta decisione era giunta la sentenza della Corte d’assise di Milano; cfr. nota (4). Anche MANTOVANI ricorda questo particolare: cfr. Diritto penale, p. 340. (33) Di diverso avviso Cass. 7 dicembre 1989, Iret Elmar, CED 183776. Si tengano presenti le osservazioni di PADOVANI, Il sequestro di persona e l’identificazione della libertà tutelata, nota a Tribunale di Pavia, 17 luglio 1984, in questa Rivista, 1985, p. 605 ss. in cui l’Autore, criticando la decisione dei giudici di merito, notava come il bene della libertà personale spetti al neonato come a qualunque altro essere umano e che quindi lo stesso può essere a pieno titolo soggetto passivo del reato di sequestro di persona e non, come i giudici di merito sostenevano, solo oggetto materiale del reato di sottrazione di minore. In quel contesto l’Autore osservava che se la libertà del neonato potesse essere violata solo indirettamente, attraverso la violazione della potestà, come se la libertà del neonato appartenesse a chi esercita su di esso


— 1123 — esistenza quotidiana va dunque valutata alla luce di queste ultime considerazioni, non potendosi escludere a priori che possa parlarsi di riduzione in schiavitù: decisivo rilievo assumeranno il bene giuridico tutelato e le condizioni della persona offesa, in primo luogo l’età. Un intervento del legislatore nel senso della tipizzazione di nuove forme di riduzione in schiavitù, così come è avvenuto con le fattispecie di cui agli artt. 600bis e 600-ter in tema di prostituzione e pornografia minorile (34), costituirebbe, in ogni caso, la soluzione più adeguata per risolvere i dubbi lasciati dall’elenco della Convenzione del 1956, elenco che, giova ribadirlo, non può non ritenersi tassativo per fondamentali esigenze di legalità e di certezza del diritto. In questo modo, sarebbe il legislatore a compiere le scelte politico-criminali di sua competenza, evitando per il futuro che gli elementi individuati dalle varie sentenze di merito (la violenza, il possesso, la vendita, lo sfruttamento) subiscano diverse valutazioni a seconda dell’idea che ciascun giudice si è fatto della moderna schiavitù. Ma è solo muovendo dalla rilettura del bene giuridico libertà che sarà possibile definire cosa sia la schiavitù e se essa si differenzi, e in che cosa, dalle condizioni analoghe: è schiavo, infatti, chi non è libero. MARIA CRISTINA BARBIERI Ricercatrice di Diritto penale nell’Università di Trieste

la potestà, allora, paradossalmente, solo chi ne ha l’esercizio potrebbe realizzare la violazione del bene. Ciò significa ammettere che chi esercita la potestà su un minore può violarne la libertà al pari dei terzi. (34) Se la norma che definisce la prostituzione minorile e lo sfruttamento dei minori a fini pornografici una forma di riduzione in schiavitù non contiene un’enunciazione semplicemente simbolica, ma effettivamente specificatrice di una condizione di schiavitù, sembra conseguenza logica che i reati di cui agli artt. 600-bis e 600-ter non possano concorrere con il reato di cui all’art. 600, nemmeno se ricorressero quegli atti costrittivi che la giurisprudenza ritiene molto spesso indispensabili come mezzo di coartazione della volontà; in questa ipotesi la violenza avrebbe un’autonoma rilevanza, facendo entrare in concorso altri reati. Significativo, sembra, che in questi reati definiti nuove forme di schiavitù non ci sia tra gli elementi costitutivi la violenza.


RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)

Cooperazione giudiziaria in materia penale e diritti dell’uomo (1). 1. Nell’accingermi a intervenire su questo tema, nella prospettiva dei c.d. diritti giudiziari, mi sembra opportuno muovere da un pensiero di Pascal (è il n. 298, secondo l’ordine dell’edizione di Brunschwicg): ‘‘... La giustizia senza la forza è impotente: la forza senza la giustizia è tirannica. La giustizia senza la forza viene contraddetta (...); la forza senza la giustizia viene accusata. Bisogna dunque unire giustizia e forza; e per far questo bisogna che ciò che è giusto sia forte, o ciò che è forte sia giusto’’. La trasposizione del pensiero di Pascal sul piano dei rapporti internazionali non sembra arbitraria; ed è forse appena il caso di dire, con la sensibilità di oggi, che ben possiamo indicare la cooperazione internazionale come espressione della forza della giustizia penale, e i diritti dell’uomo come componente essenziale di quest’ultima. È infatti avvenuto che i diritti dell’uomo, a completamento di un itinerario bisecolare sono gradatamente penetrati, dapprima entro i recinti del diritto interno degli Stati, e più tardi anche nelle zone già di confine del loro impero: si vuol dire, fuor di metafora, nel campo dei rapporti internazionali. È poi inoltre avvenuto che, al di là di quegli obiettivi di conquista, per la sempre più intensa circolazione di persone, di cose, e di reati — e dunque di criminalità transnazionale — anche quei confini siano stati travolti o dispersi, assecondando i disegni o gli impulsi di diverse e concorrenti geometrie variabili. E oggi ormai si dubita dell’impostazione tradizionale secondo cui il territorio rappresentava senz’altro un elemento costitutivo degli Stati nazionali. Certo è, ad ogni modo, che di contro alle forme vecchie e nuove di criminalità, e in particolare di contro alla criminalità organizzata transnazionale, è maturato e si è venuto radicando il convincimento della necessità, e della non differibilità, di una risposta concreta ed adeguata, in termini di giustizia organizzata anche sul piano dei rapporti internazionali. 2. Di tutti quegli itinerari, e di questi programmi, sembra opportuno offrire alcune attestazioni significative. Direi di più: alcune attestazioni circa il maturarsi della consapevolezza di una intersezione necessaria, ed anzi di una incidenza virtuosa, dei diritti dell’uomo sulla cooperazione internazionale. A) Ricordiamo, in primo luogo, la risoluzione in tema di estradizione dell’Institut de Droit International adottata a Cambridge nel 1983 (2). Non senza richiamare le proprie precedenti risoluzioni in materia di fine ’800, ed esprimendo, tra l’altro, il proposito di ‘‘contribuire a una più efficace repressione della criminalità’’, ma nella consapevolezza della ‘‘necessità di garantire in questo settore l’osservanza dei diritti fondamentali dell’imputato, in particolare dei suoi diritti di difesa’’, la risoluzione si

(*) A cura di MARIO PISANI (1) Intervento alla tavola rotonda sul tema: Cooperazione giudiziaria in materia penale e diritti dell’uomo (Messina, 21-22 giugno 2002). (2) Per il testo, e gli opportuni riferimenti, v. in Ind. pen., 1984, p. 405.


— 1125 — esprimeva (punto IV) in termini che meritano di essere richiamati integralmente: ‘‘Nei casi in cui vi sia ben fondato timore di violazioni dei fondamentali diritti umani di un imputato nel territorio dello Stato richiedente, l’estradizione può essere rifiutata, chiunque sia l’individuo di cui è richiesta l’estradizione e qualunque sia la natura del reato di cui egli è accusato’’. B) Un programma, ed un proposito continuativo e più articolato emergono da alcune più recenti risoluzioni congressuali dell’Association Internationale de Droit Penal (A.I.D.P.), vale a dire della più importante tra le quattro associazioni penalistiche che godono di statuto consultivo presso le Nazioni Unite. a) In particolare, nel punto 7 della risoluzione della sezione IV del suo XIII congresso (Il Cairo - ottobre 1984) (3), l’A.I.D.P. invita gli Stati — al momento dell’elaborazione o della messa in opera degli strumenti vecchi e nuovi di cooperazione giudiziaria — ‘‘a salvaguardare, in tutti gli stadi del processo penale, le garanzie — in particolare il ne bis in idem — offerte da altri strumenti internazionali, come il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4 dicembre 1950 ed i suoi Protocolli’’, e, più in particolare, quanto agli strumenti nuovi (per il trasferimento delle procedure o dell’esecuzione) l’A.I.D.P. invita gli Stati — punto 16 — a non utilizzarli, né ‘‘a fini di estradizione mascherata’’, né ‘‘nei casi suscettibili di comportare la pronuncia della pena di morte ovvero ogni altra forma di trattamento crudele, inumano o degradante’’. b) Anche più ampio è l’orizzonte delineato nella risoluzione relativa al quarto tema del successivo e XV congresso (Rio de Janeiro - settembre 1994) (4). Limitiamoci qui a riferire letteralmente alcuni passaggi: il punto 11 della parte II, in primo luogo: ‘‘Il crescente riconoscimento dell’importanza della protezione dei diritti dell’uomo negli strumenti internazionali e nelle recenti legislazioni nazionali relativi alla cooperazione internazionale in materia penale, merita di venire incoraggiato. Tale protezione dovrebbe non soltanto — si noti — giustificare alcune limitazioni nella cooperazione esistente, ma anche ispirare nuove forme di cooperazione’’. Ed ancora: ‘‘La protezione dei diritti dell’uomo non deve essere considerata come un ostacolo alla cooperazione internazionale, ma piuttosto come uno strumento per rafforzare la preminenza del diritto’’. E poco più oltre, al punto 13: ‘‘Gli Stati dovrebbero riesaminare la conformità dei trattati di cooperazione in materia penale dei quali sono parte, agli obblighi internazionali vincolanti a livello della protezione dei diritti dell’uomo’’. Ma un po’ tutta questa II parte della risoluzione andrebbe richiamata, laddove, nei punti seguenti, si impegnano gli Stati a salvaguardare i diritti dell’uomo (contro i rischi di torture, discriminazioni, arbitrarietà di esecuzione, arresti e confische) e ‘‘le condizioni generali di un equo processo’’ al momento della conclusione di nuovi trattati e, sul più immediato piano operativo, al momento dell’attivarsi delle singole richieste di cooperazione; si prende posizione contro le prove ‘‘ottenute in violazione dei diritti fondamentali dell’uomo’’ e contro i ‘‘prelievi’’ forzosi o callidi delle persone da uno Stato straniero, oltre che contro le procedure di estradizione mascherata, ed a favore del controllo, da parte di un giudice internazionale, della corretta applicazione delle convenzioni. c) Nella ancora più recente risoluzione del XVI congresso (Budapest, settembre 1999), in tema di criminalità organizzata, a proposito delle risorse di tutela sul fronte dei rapporti internazionali si è tenuto a precisare che, ‘‘allo scopo di rendere efficace l’assistenza giudiziaria in materia penale, le rogatorie nello Stato richiesto dovrebbero soddisfare le condizioni dello Stato richiedente più che dello Stato richiesto, o per lo meno dovrebbero compiersi in modo che l’assistenza richiesta non sia incompatibile con i principi fondamentali riconosciuti nello Stato richiesto e con i diritti fondamentali dell’imputato’’.

(3) (4)

Per i riferimenti v. Ind. pen., 1989, p. 715. Per i riferimenti v. Ind. pen., 1995, p. 394.


— 1126 — D) Sempre a proposito di intersezioni tra cooperazione internazionale e diritti dell’uomo, pare opportuno indicare — al di là e al di sopra delle risoluzioni scientifiche e congressuali — due altre attestazioni significative, non certo meno eloquenti di quelle indicate in precedenza. a) In adempimento di un punto programmatico approvato nell’ambito del VII congresso dell’ONU sulla prevenzione della criminalità ed il trattamento degli autori di reato, svoltosi a Milano nel 1985, il 14 dicembre 1990 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dava corpo a quattro risoluzioni, mediante le quali venivano approvati altrettanti trattatitipo in tema di cooperazione penale: la n. 45/117, in materia di estradizione; la n. 46/117, in materia di assistenza giudiziaria internazionale; la n. 47/117, in materia di trasferimento dei procedimenti; la n. 48/117, in materia di trasferimento della sorveglianza sulle persone condannate o liberate sub conditione (5). È importante rilevare che, nel preambolo di tutti e quattro i trattati-tipo, emerge un motivo comune: la consapevolezza della necessità del rispetto della dignità umana e dei diritti conferiti ad ogni persona implicata nei procedimenti penali, così come riconosciuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici. b) Per quanto invece concerne il più circoscritto ambito europeo, ricordiamo che nel preambolo della Convenzione relativa all’estradizione tra gli Stati membri dell’Unione europea (Dublino, 1996) si ribadisce espressamente l’impegno di questi Stati a rispettare gli obblighi stabiliti dalla Convenzione di Roma del 1950 — e ciò, del resto, in armonia con le premesse contenute nella delibera con la quale, nel 1993, il Consiglio dell’Unione Europea affidava ad un apposito gruppo il programma di lavoro nel campo dell’estradizione — e si esprime la ‘‘fiducia nella struttura e nel funzionamento dei rispettivi sistemi giudiziari e nella capacità di tutti gli stati membri di garantire un processo equo’’. Ricordiamo ancora che, nel preambolo del 2o Protocollo addizionale (novembre 2001) alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria, si indica — tra i criteri ispiratori del nuovo testo — il proposito degli Stati membri del Consiglio di Europa di ‘‘contribuire ulteriormente a proteggere i diritti dell’uomo’’, oltre che ‘‘a difendere lo Stato di diritto e a sostenere il tessuto democratico della società’’. 3. Volendo ora abbozzare un quadro complessivo della loro prospettiva di incidenza nella cooperazione giudiziaria in materia penale, sembra possibile configurare i diritti dell’uomo sotto angolazioni diverse: A) come limiti alla cooperazione; B) come incentivi alla cooperazione; C) come base di una migliore coordinazione; D) come complementi integrativi. Per ciascuno di questi ambiti può essere utile fornire — sempre per limitarci al tema dei c.d. diritti giudiziari — qualche opportuna esemplificazione. A) In tema di limiti alla cooperazione. — Sotto questo riguardo, è addirittura esemplare l’art. 2 della legge federale svizzera sull’assistenza giudiziaria in materia penale, laddove — a seguito delle modifiche apportate nel 1996 — prevede che la richiesta di cooperazione è ‘‘irricevibile’’ allorquando vi sia motivo per ritenere che la procedura all’estero non è conforme ai principi processuali fissati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo o al già menzionato Patto internazionale dell’ONU sui diritti civili e politici. Di questa particolare e più moderna attenzione per la ‘‘procedura all’estero’’ correlativa all’estradizione — ricordiamo anche la menzionata risoluzione di Cambridge — si sono fatti interpreti, si direbbe in modo trasversale e pur convergente, le numerose riserve all’art. 1

(5) Per una sintesi del loro contenuto v., anche per i rinvii di natura documentale, Quattro trattati - tipo dell’ONU per la cooperazione internazionale in materia penale, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1992, p. 443.


— 1127 — della Convenzione europea di estradizione che, nel corso degli anni, le Parti contraenti hanno formulato nell’intento di evitare il rischio della sottoposizione dell’estradando ad un giudice non indipendente, oltre che a procedure non conformi agli standards di protezione dei diritti dell’uomo. Piuttosto esemplare, a tale riguardo, è la riserva 10 dicembre 1999 della Federazione Russa, che è stata estesa anche alle ipotesi in cui si ravvisi il rischio di una sottoposizione a tortura, ovvero a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (6). B) In tema di incentivi alla cooperazione. — È noto che l’art. 5, § 5, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo configura, a favore di ogni persona che sia vittima di arresto o di detenzione operati in violazione dello stesso articolo, il ‘‘diritto ad una riparazione’’ (réparation; compensation), e che analogo diritto è garantito, a chiunque sia stato ‘‘vittima di arresto o detenzioni illegali’’, dall’art. 9, § 5, del Patto sui diritti civili e politici dell’ONU. L’esigenza di rendere praticabile (e da qui appunto l’incentivo) un tale tipo di previsioni aveva a suo tempo ispirato l’Accordo Italia-Austria (20 febbraio 1973) ‘‘aggiuntivo’’ alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria e l’omologo Accordo Italia-Germania (24 ottobre 1979): Accordi che, invero, avevano espressamente esteso l’ambito dell’assistenza giudiziaria anche ai ‘‘procedimenti concernenti gli obblighi di riparazione per detenzione ingiustamente subita, per altri provvedimenti ingiusti o per ingiusta condanna’’, ovvero, rispettivamente, ai procedimenti ‘‘relativi a pretese di risarcimento per misure subite ingiustamente’’. Sulla stessa linea, ovvero nella prospettiva di un più generalizzato completamento della predetta Convenzione di assistenza giudiziaria del 1959, si è poi assestato, col suo art. 49, l’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 (fatto oggetto di ratifica con la nostra l. 30 settembre 1993, n. 388), che per l’appunto prevede l’estensione dell’assistenza alle procedure di ‘‘riparazione dei danni causati da provvedimenti presi nel corso di procedimenti penali o da condanne ingiustificate’’. C) In tema di piattaforma per una migliore coordinazione. — Per diverso tempo è rimasta insoddisfatta e compressa l’aspirazione ad estendere la portata del ne bis in idem dall’ambito puramente interno degli Stati all’ambito dei rapporti internazionali, vale a dire all’esercizio di diverse giurisdizioni statali in ordine allo stesso fatto di reato. Una tale aspirazione, resa sempre più attuale dall’intensificazione della circolazione delle persone, e sempre più viva in forza delle consapevolezze maturate in termini di giustizia e di solidarietà, ha ormai spinto verso il superamento degli orizzonti entro i quali il ne bis in idem veniva contenuto nelle ancora tradizionali previsioni limitative di cui all’art. 14, § 7, del Patto sui diritti civili e politici ed all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tale superamento di orizzonti trova ora spazio nella Convenzione europea tra gli Stati membri delle Comunità europee relativa all’applicazione del principio ne bis in idem (ratificata in Italia con l. 16 ottobre 1989, n. 350) (7), o per dir meglio nel più limitato ambito dei soli Paesi (Italia, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo) che l’hanno fatta oggetto di ratifica. Ad un analogo ordine di idee si sono del pari ispirati: gli artt. 54-58 dell’Accordo di Schengen di cui s’è detto, del pari contenuto nell’ancora limitato ambito dei Paesi che si

(6) Per i riferimenti v. L’indipendenza del giudice ad quem nell’estradizione europea, in questa Rivista, 2001, p. 1074. V. anche, sotto altri profili, MOSCONI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed estradizione, in Rend. dell’Istituto Lombardo, vol. 131 (1997), fasc. 1, 1998, p. 59; PARISI, Estradizione e diritti dell’uomo, 1993; PADELLETTI, Estradizione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., 1996, p. 656. (7) Per qualche riferimento v. L’operatività della Convenzione comunitaria sul ne bis in idem internazionale, in Ind. pen., 1996, p. 103.


— 1128 — sono impegnati ad applicarlo (8), l’art. 7 della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e l’art. 7 del relativo primo Protocollo; l’art. 10 della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea (9). L’ulteriore passaggio è rappresentato dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel dicembre 2000, alla stregua del quale — quando ne verrà sancita l’effettiva operatività — ‘‘Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge’’. In tal modo il diritto a non essere giudicato due volte vedrà ampliata la sua dignità di riconoscimento anche nella prospettiva dei rapporti internazionali. Nell’attuare una migliore coordinazione giudiziaria (ovvero, una spiccata cooperazione giudiziaria in forma negativa) sarà così resa più perentoria l’esigenza di evitare ogni ingiustificato accanimento repressivo. D) In tema di complementi integrativi. — Come esempio di operatività dei diritti dell’uomo nel senso di incentivare la cooperazione giudiziaria avevano indicato (sub B) l’estensione delle ipotesi di assistenza tra gli Stati ai procedimenti riguardanti gli obblighi di riparazione dei provvedimenti coercitivi ingiusti. In tal modo, lo Stato straniero richiesto della cooperazione collabora all’attuazione della misura riparatoria nello Stato richiedente. La stessa tematica riparatoria si fa anche apprezzare sotto un diverso profilo: quello della necessità che, ancor prima, lo Stato richiedente, da un punto di vista sostanziale si faccia carico, al suo interno, dell’eventuale ingiustizia del provvedimento coercitivo richiesto allo Stato straniero ai fini dell’estradizione (10). In questa direzione si era espressa la Raccomandazione n. R (86) 13 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, invitando gli Stati-parte della Convenzione europea di estradizione ad esaminare la propria legislazione, così da consentire, ‘‘alle persone detenute senza giustificati motivi ai fini dell’estradizione, di esigere un indennizzo, alle stesse condizioni previste per la detenzione provvisoria ingiustificata’’. Pur senza richiamare quella Raccomandazione, sulla stessa linea si è orientata, con l’ordinanza 7 dicembre 1992, la Corte d’appello di Firenze, riconoscendo, al cittadino iraniano Sadaghiani, il diritto ad una riparazione pecuniaria in rapporto ad una detenzione estradizionale, su richiesta italiana, subita in un carcere di New York (11). Il diritto alla riparazione, dunque, come complemento integrativo, in direzione restauratoria, della cooperazione giudiziaria internazionale.

Una risoluzione del CSM sulla criminalità organizzata Dalla risoluzione 13 dicembre 2000 del CSM, dal titolo: ‘‘La criminalità degli stranieri in Italia: l’esigenza di una analisi differenziata’’: ‘‘...8.2. Costante è poi la richiesta degli Uffici di Procura di intensificazione della cooperazione internazionale nell’azione di contrasto di questo tipo di criminalità.

(8) Con l’art. 7 della legge di ratifica, l’Italia ha però dichiarato di non ritenersi vincolata ad applicare il principio del ne bis in idem in tutti i casi per i quali, nell’art. 55 della Convenzione, era stata prevista la possibilità di deroga. (9) Delle due menzionate Convenzioni e del Protocollo è stata autorizzata la ratifica con l. 29 settembre 2000, n. 300. (10) È invece comprensibile, e ben spiccata, la non nuova tendenza dello Stato straniero richiesto della misura coercitiva a sottrarsi al carico della responsabilità della riparazione: v. Riparazione della detenzione ingiusta nei procedimenti di estradizione, in questa Rivista, 1998, p. 1438; La Francia e la riparazione della détention extraditionnelle, ibid., 2001, p. 565; Estradizione e detenzione ingiusta: la Federazione Russa e la Convenzione europea, ibid., 2001, p. 1077. (11) Estradizione dall’estero e riparabilità dell’ingiusta detenzione, in Ind. pen., 1993, p. 686.


— 1129 — Cooperazione che progredisce in ambito europeo ma che appare ancora notevolmente inceppata e ritardata nei confronti dei paesi extraeuropei sia dalla difficoltà di realizzare accordi internazionali per così dire aggiornati ed adeguati alle caratteristiche di una criminalità dinamica e mutevole sia dalla situazione di disordine politico e di instabilità istituzionale che caratterizza molti dei paesi che esportano ‘criminalità’. Situazione quest’ultima che rende anche difficilmente controllabile l’effettività degli accordi di cooperazione in materia di repressione del crimine eventualmente stipulati. Il cammino della cooperazione di polizia e giudiziaria in ambito europeo è tema che evidentemente non può essere qui affrontato ex professo in ragione della sua obiettiva complessità che meriterebbe una autonoma trattazione. Il Consiglio non può che richiamarsi in termini generali e sintetici ai più significativi punti di approdo ed ai più recenti sviluppi del processo di costruzione di un sistema di cooperazione giudiziaria europea sottolineandone l’essenzialità anche ai fini di una efficace azione di contrasto della criminalità transnazionale e della criminalità organizzata di matrice straniera operante in Italia e nei diversi paesi europei. Al riguardo va ricordato come l’assetto risultante dal trattato di Maastricht sia stato sensibilmente modificato dalla entrata in vigore, il 1o maggio 1999, del trattato di Amsterdam che proprio nel settore della giustizia e degli affari interni ha realizzato le più significative innovazioni. (...) La dottrina (L. SALAZAR, L’Unione europea e la lotta alla criminalità organizzata da Maastricht ad Amsterdam) ha già ricordato la rilevanza di alcune azioni comuni: l’azione comune relativa alla punibilità della partecipazione ad una organizzazione criminale negli Stati membri dell’Unione Europea adottata il 21 dicembre 1998 che offre una prima definizione di organizzazione criminale; l’azione comune del dicembre 1997 istitutiva della procedura di mutua valutazione dell’attuazione delle misure a livello nazionale di impegni internazionali in tema di contrasto del crimine organizzato; l’azione comune istitutiva della rete giudiziaria europea che ‘prevede l’istituzione di uno o più punti di contatto a livello nazionale nell’ambito della cooperazione giudiziaria con il principale scopo di fornire informazioni di natura giuridica o pratica alle proprie autorità giudiziarie od a quelle di altri Stati membri’; l’azione comune sulle ‘buone prassi’ in materia di cooperazione penale che mira a rendere più efficace e tempestiva l’assistenza giudiziaria. Si è ormai aperta perciò la prospettiva per il Consiglio europeo di realizzare una armonizzazione normativa nei settori della criminalità organizzata del terrorismo e del traffico illecito di stupefacenti che deve essere al centro di adeguata riflessione ai fini della problematica qui affrontata. Per parte sua il sistema di autogoverno della magistratura italiana — oltre a seguire questi processi — deve dimostrarsi consapevole della opportunità di valorizzare le forme di cooperazione giudiziaria operando in maniera accurata e trasparente le scelte che gli competono (ad esempio in tema di valutazione dei requisiti professionali dei magistrati di collegamento) e favorendo i programmi che realizzano contatti e scambio di conoscenze (sugli ordinamenti sostanziali e processuali nonché sui fenomeni criminali) tra magistrati europei e tra questi ed i magistrati di altri paesi. Specifica attenzione va inoltre riservata alla cooperazione con i paesi da cui provengono i più pericolosi ed intraprendenti gruppi criminali. Cooperazione spesso problematica a causa delle condizioni socio-economiche ed istituzionali in cui versano alcuni di questi paesi (segnatamente quelli dei Balcani). Se non possono essere accettate acriticamente rappresentazioni totalizzanti che arrivano ad identificare nell’area balcanica uno o più ‘‘Stati mafia’’, non si può ignorare che in alcuni paesi dei Balcani vi sono state inerzie, disattenzioni, ed in taluni casi compiacenze e complicità che hanno favorito o non ostacolato adeguatamente lo sviluppo dei traffici illeciti. Del pari occorre realisticamente prendere atto che alcuni episodi connessi agli sconvolgimenti realizzatisi in quei paesi (si pensi allo svuotamento di interi arsenali in Albania ed alla restituzione di un quantitativo ridotto di tali armi allo Stato) hanno posto le condizioni


— 1130 — per lo sviluppo del traffico di armi verso il nostro paese’’. (Da CSM-Notiziario 11-12/2000, pp. 228 ss.). La lentezza (elvetica e no) della cooperazione internazionale. ‘‘...BERNARD BERTOSSA. La legge svizzera ha istituzionalizzato la lentezza della cooperazione internazionale, consentendo, alle persone coinvolte dagli atti di assistenza, di opporsi, in territorio elvetico, alla trasmissione dei mezzi di prova ai giudici stranieri. Io dico che la Svizzera l’ha istituzionalizzata, ma dovrei aggiungere che — se l’istituzionalizzazione in altri Stati non è intervenuta — la lentezza è però la medesima. Soltanto da qualche mese noi abbiamo ricevuto uno scellé disposto, tre anni e mezzo prima, da un giudice ginevrino negli uffici di una grande banca francese. L’Inghilterra, per non far nomi, non risponde quando si tratta di procedere a sequestro e blocco di conti o alla trasmissione di documenti bancari, e io sono stato lieto di sentire poco fa il [ministro] signor Straw prometterci, così come dieci anni fa abbiamo sentito fare da parte di altre autorità inglesi, che domani sarà meglio di oggi’’. (...) ‘‘Bernard de la Villardière. Signor Bertossa, mi pare di sapere che in una vicenda di assistenza giudiziaria voi abbiate avuto 42 ricorsi, se non sbaglio. È il vostro record. Risposta di Bernard Bertossa. No, il record è di 93 (...) La risposta è molto semplice (...). Quando il giudice istruttore svizzero decide di comunicare la documentazione richiesta dal giudice straniero, emette un provvedimento che deve notificare a tutte le persone interessate, vale a dire la banca, se si tratta di un conto bancario, il titolare del conto e, se del caso, l’avente diritto economico di questo conto. Queste persone, alle quali si aggiungono quelle i cui nomi possono apparire sui documenti bancari trasmessi, secondo la legge svizzera hanno la possibilità di ricorrere alla Chambre d’accusation contro le decisioni del giudice istruttore. La Chambre d’accusation, che è sommersa da questo genere di ricorsi, può impiegare da cinque a sei mesi per decidere e, contro le decisioni della Chambre d’accusation cantonale, le stesse persone possono ricorrere alla nostra Corte Suprema, che noi chiamiamo Tribunale federale, che è pure, esso stesso, abbastanza sommerso, e che a sua volta impiega da sei a otto mesi per decidere. Dal che deriva che, anche il ricorso più infondato, permetterà a chi lo presenta di guadagnarsi un anno di tempo. Se poi risulta che, per certi aspetti generalmente di carattere tecnico, questo ricorso è solo parzialmente infondato, la decisione è riservata al giudice istruttore che adotta un’altra decisione, la quale intraprende lo stesso percorso già descritto. Il che ci porta a delle situazioni nelle quali, quando delle decisioni si accavallano, quando, come dicevo poco fa, in uno stesso affare abbiamo dozzine e dozzine di richieste che provengono dall’estero, noi abbiamo pertanto dozzine e dozzine di ricorsi e, in queste situazioni, molto spesso siamo costretti a trasmettere delle informazioni se non due, a volte tre anni dopo la data nella quale siamo stati richiesti di fornirle’’. (Trad. da L’espace judiciaire européen - Atti del convegno di Avignone 16 ottobre 1998 promosso dal Ministro della giustizia francese, La documentation Française, 1999, pp. 120 e 146). Le ‘‘rogatorie incrociate’’ e gli avvocati esterrefatti. ‘‘...L’assistenza giudiziaria internazionale si e così potuta sviluppare in tutta la sua potenzialità, specie con la Svizzera, dove potemmo contare sulla collaborazione istituzionale di valenti magistrati (a cominciare da Carla Del Ponte, che già aveva molto cooperato con Giovanni Falcone). Ciò ha dato una svolta qualitativamente significativa alle indagini perché ci ha permesso di fare centinaia di rogatorie (soltanto io ne ho fatte 610). Corollario esterno: avevo anche perfezionato la tecnica della ‘doppia rogatoria’, già ideata da Falcone (12). Se il

(12) Sul tema v. Svizzera-Francia: rogatorie incrociate e buona fede, in Ind. pen., 1995, p. 796.


— 1131 — reato era previsto sia dall’Italia che dalla Svizzera, nel trasmettere la richiesta la mandavo corredata di documenti e prove tali che la Svizzera poteva procedere essa stessa per fatti di riciclaggio commessi in quel paese. Ciò comportava che anche i colleghi svizzeri, specie quelli ginevrini, per poter andare avanti con le indagini dovevano a loro volta chiedere la nostra assistenza giudiziaria. Per farlo dovevano segnalarci il detentore del conto corrente. Chiaro il concetto? A noi interessava il nome del titolare del conto, a loro quello dell’intermediario. Con il sistema delle rogatorie incrociate riuscivamo a scambiarci informazioni processuali in tempi rapidi e nel rispetto della legge. Altra circostanza di fatto. Molti avvocati si sono trovati impreparati ad affrontare tutto questo frangente di novità legislative, procedurali, informatiche. Per molti anni si erano adagiati a giocare di rimessa, rincorrendo l’eccezione da proporre o la contestazione da fare. Ora invece di fronte all’alluvionale forza probatoria prodotta dal pm investigatore non sapevano che pesci prendere, e assistevano esterrefatti all’incedere delle indagini’’. (Da un ‘‘dialogo’’ di A. Di Pietro con C. Lucarelli, in MicroMega, n. 1/2002, p. 87). Sull’accordo italo-elvetico 14 dicembre 1998 di assistenza giudiziaria. Presentiamo (in traduzione) il testo dell’interpellanza ordinaria 14 dicembre 2001 (n. 01.1152) del consigliere Dardel al Consiglio Nazionale elvetico, sul tema: ‘‘Assistenza giudiziaria penale con l’Italia’’ (13). 1. Le recenti modifiche della legge interna italiana in tema di assistenza giudiziaria sono compatibili con l’Accordo italo-svizzero in materia? 2. Il Consiglio Federale si propone di ratificare tale Accordo? 3. Quali esattamente sarebbero le conseguenze giuridiche e politiche di una ratifica ovvero di una non-ratifica? Risposta del Consiglio Federale — Quanto ad 1). L’Accordo di assistenza del 14 dicembre 1998 tra la Svizzera e l’Italia completa la Convenzione europea di assistenza del 20 aprile 1959 (Convenzione del 1959), semplificandone e accelerandone la procedura di assistenza giudiziaria allo scopo di garantire una cooperazione ottimale nella lotta contro la criminalità. La legge italiana del 5 ottobre 2001, adottata dal Parlamento italiano nel settembre 2001, contiene delle disposizioni che sembrano in contrasto con lo spirito dell’Accordo e della Convenzione del 1959. In particolare, gli artt. 13 e 18 della legge italiana introducono delle esigenze formali (certificazione degli atti trasmessi in esecuzione delle richieste di assistenza; vie di trasmissione degli atti) che potrebbero portare ad una complicazione delle procedure di assistenza. Tale situazione si porrebbe in contrasto con le finalità dell’Accordo. — Quanto a 2). In applicazione della legge del 5 ottobre 2001, le parti interessate degli atti d’assistenza già trasmessi dalla Svizzera all’Italia hanno proposto impugnazioni davanti ai tribunali italiani. Questi tribunali le hanno disattese. Tali decisioni, peraltro, non sono definitive. D’altro canto, è stata investita la Corte costituzionale perché si pronunci sulla costituzionalità della legge del 5 ottobre 2001. Il Consiglio Federale ritiene che l’Accordo, già approvato dal Parlamento elvetico, è un buon strumento di cooperazione e consente di migliorare la lotta contro la criminalità internazionale; pertanto, il Consiglio non mette in dubbio la necessità della sua ratifica. È tuttavia opportuno, prima di procedere alla medesima, conoscere le decisioni delle corti italiane in ordine alle procedure richiamate. Il Consiglio Federale è dunque dell’avviso che una decisione in merito alla ratifica non può venire in considerazione se non in tale momento. — Quanto a 3). Qualora addivenisse ad una ratifica immediata dell’Accordo, la Sviz-

(13)

Sui lavori parlamentari italiani al riguardo v. in questa Rivista, 2001, p. 1425 ss.


— 1132 — zera accetterebbe indirettamente le condizioni della nuova legge italiana. Così facendo, essa si sottoporrebbe alle nuove esigenze formali meno favorevoli per l’assistenza internazionale. Non è poi escluso che, ratificando immediatamente l’Accordo, la Svizzera potrebbe esporsi alle critiche della comunità internazionale, che le rimprovererebbe il fatto di ratificare un Accordo la cui legge italiana di applicazione, non solo è contestata davanti ai tribunali italiani (Corte costituzionale), ma sembra del pari contraria agli intendimenti dell’Accordo ed alla pratica internazionale in materia di assistenza. La non-ratifica ha come conseguenza che i vantaggi che l’Accordo offre nella lotta contro la criminalità non potranno essere utilizzati. Nel frattempo, la Svizzera continua a fornire assistenza all’Italia sulla base della convenzione del 1959 e del diritto convenzionale in vigore tra i due Stati. Non devono essere sottovalutate le conseguenze di politica estera di una non-ratifica, e soprattutto le critiche provenienti dai Paesi terzi. La legge italiana preoccupa anche un buon numero di Paesi terzi che l’hanno altrettanto messa in discussione. Incertezze sul ‘‘mandato d’arresto europeo’’. ‘‘...I Quindici si erano ben proposti di metterci ordine. Al vertice di Tampere, nell’ottobre 1999, alla creazione di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia è stato conferito carattere prioritario (14). Un anno dopo, all’incontro di Nizza dei capi di Stato e di governo, l’esigenza dell’unanimità su tali argomenti aveva portato a dei progressi millimetrici. Gli attentati dell’11 settembre hanno certamente dato un colpo di frusta al pesante meccanismo. Ma in modo superficiale. Il mandato d’arresto europeo, è vero, è stato adottato ed applaudito. Senonché, rileva una nota interna della Convention, ‘esso non potrà divenire per davvero operativo se non dopo che gli Stati membri l’avranno trasferito, parola per parola, nelle loro legislazioni interne’. Col rischio che ‘delle variazioni diano luogo a rifiuti di riconoscimento reciproco’ ’’. (Trad. dall’articolo Le labyrinthe de l’Europe sécuritarie di P. BOCEV, in Le Figaro dell’8/9 giugno 2002, p. 11). Milosevic e un’inutile trasferta in Olanda. 1. Da: Telekom Serbia: Milosevic respinge i pm italiani, di V. MALAGUTTI, in Corriere della Sera del 10 aprile 2002, p. 15: ‘‘...Slobodan Milosevic ieri non si è nemmeno presentato all’incontro con il procuratore aggiunto di Torino, Bruno Tinti, e i due sostituti Roberto Furlan e Paolo Storari. I tre magistrati erano arrivati fiduciosi di poter raccogliere la versione di Slobo sull’affare Telekom Serbia, sulle presunte tangenti che nel 1997 avrebbero accompagnato la vendita del 29% della compagnia telefonica di Belgrado a Telecom Italia. Niente da fare. L’ex presidente serbo, rinchiuso dal giugno scorso nella prigione olandese di Scheveningen, ha preferito affidare al vicedirettore del carcere il suo secco commiato per gli ospiti italiani. Eppure nelle settimane scorse Milosevic si era dichiarato disponibile all’incontro con i magistrati di Torino. E Tinti aveva ricevuto il via libera dal Tribunale penale dell’Onu che sta processando l’ex presidente serbo per genocidio e crimini contro l’umanità durante i 10 anni di guerra nella ex Jugoslavia’’ (15). 2. Con lettera, sostanzialmente confermativa, del 18 aprile 2002, il dott. Tinti ci ha però cortesemente precisato, tra l’altro, che il Tribunale dell’Aja fino alla fine aveva fatto presente non essere stato possibile acquisire una netta e formale dichiarazione di disponibilità, o di indisponibilità, da parte del detenuto, e che inoltre non si è ritenuto opportuno chiedere che lo stesso Tribunale ne disponesse l’accompagnamento coattivo.

(14) Sul vertice di Tampere v., in questa Rivista, 2000, p. 393, e, più in particolare, SALAZAR, La costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia dopo il Consiglio europeo di Tampere, in Cass. pen., 2000, p. 1114 ss. (15) Sul caso Milosevic v. in questa Rivista, 1999, p. 1141 e p. 1546 ss.


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CORTE DI CASSAZIONE — SEZIONI UNITE PENALI — Udienza pubblica del 10 luglio 2002 - Sentenza n. 27 — Reg. Gen. n. 37809/00 — Pres. Marvulli — Rel. Canzio — Franzese Salvatore. Omissis. — RITENUTO IN FATTO. — 1. Il Pretore di Napoli con sentenza del 28 aprile 1999 dichiarava il dott. Salvatore Franzese colpevole del reato di omicidio colposo (per avere, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale Cardarelli — dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 Pasquale Castellone, dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale —, determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘‘clostridium septicum’’ che cagionava il 22 aprile la morte del paziente) e, con le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre il risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio, alla quale assegnava a titolo di provvisionale la somma di lire 70.000.000. Il giudice di primo grado, all’esito di un’attenta ricostruzione della storia clinica del Castellone, riteneva fondata l’ipotesi accusatoria, secondo cui l’imputato non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici, che avevano evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza, e di curare l’allarmante granulocitopenia con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, autorizzando anzi l’ingiustificata dimissione del paziente giudicato ‘‘in via di guarigione chirurgica’’. Diagnosi e cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state, secondo i consulenti medico-legali e gli autorevoli pareri della letteratura scientifica in materia, idonee ad evitare la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale ‘‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’’. La Corte di appello di Napoli con sentenza del 14 giugno 2000 confermava quella di primo grado, ribadendo che il dott. Franzese, in base ai dati scientifici acquisiti, si era reso responsabile di omissioni che ‘‘... sicuramente contribuirono a portare a morte il Castellone ...’’, sottolineando che ‘‘... se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del Castellone sarebbero certamente aumentate ...’’ ed aggiungendo che era comunque addebitabile allo stesso la decisione di dimettere un paziente che ‘‘... per le sue condizioni versava invece in quel momento in una situazione di notevole pericolo ...’’. 2. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori dell’imputato deducendo: — violazione di legge, in relazione agli artt. 135, 137, 138 e 142 c.p.p., per asserita nullità di alcuni verbali stenotipici di udienza privi di sottoscrizione del pubblico ufficiale che li aveva redatti; — violazione di legge, in relazione agli artt. 192, 546, 530 c.p.p. e 40, 41, 589 c.p., e manifesta illogicità della motivazione quanto all’affermazione di responsabilità, poiché non erano state dimostrate la direzione del reparto ospedaliero e la posizione di garante in capo all’imputato, né, in particolare, l’effettiva causalità delle addebitate omissioni di diagnosi e cura e della disposta dimissione del paziente rispetto alla morte di quest’ultimo, in difetto di reali complicanze del decorso post-operatorio e in assenza di dati precisi sulla patologia di base della perforazione dell’ileo e sull’insorgere della sindrome infettiva da ‘‘clostridium septicum’’, rilevandosi altresì che, per il mancato esperimento dell’esame autoptico, non era


— 1134 — certo né altamente probabile, alla stregua di criteri scientifici o statistici, che gli ipotetici interventi medici, asseritamente omessi, sarebbero stati idonei ad impedire lo sviluppo dell’infezione letale e ad assicurare la sopravvivenza del Castellone; — violazione degli artt. 546 e 603 c.p.p. e mancanza di motivazione in ordine alla richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante perizia medico-legale sul nesso di causalità; — violazione degli artt. 546 c.p.p. e 133 c.p. per omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta riduzione della pena. Con successiva memoria difensiva il ricorrente ha dedotto altresì la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione. 3. La Quarta Sezione della Corte di cassazione, con ordinanza del 7 febbraio-16 aprile 2002, premesso che, nonostante l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, permaneva l’attualità della decisione sul ricorso, agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza di condanna concernenti gli interessi civili, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite sul rilievo dell’esistenza di un ormai radicale contrasto interpretativo, formatosi all’interno della stessa Sezione, in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medicochirurgo. Al più recente orientamento, secondo il quale è richiesta la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘‘prossimo alla certezza’’, e cioè in una percentuale di casi ‘‘quasi prossima a cento’’, si contrappone l’indirizzo maggioritario, che ritiene sufficienti ‘‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’’ per l’impedimento dell’evento. Il Primo presidente con decreto del 26 aprile 2002 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il problema centrale del processo, sollevato sia dal ricorrente che dalla Sezione remittente, ha per oggetto l’esistenza del rapporto causale fra la condotta (prevalentemente omissiva) addebitata all’imputato e l’evento morte del paziente e, di conseguenza, la correttezza logico-giuridica della soluzione ad esso data dai giudici di merito. È stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite la controversa questione se ‘‘in tema di reato colposo omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo, debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità ‘vicino alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento’’. Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all’interno della Quarta sezione della Corte di Cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario (ex plurimis, Sez. IV, 7 gennaio 1983, Melis, rv. 158947; 2 aprile 1987, Ziliotto, rv. 176402; 7 marzo 1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23 gennaio 1990, Pasolini, rv. 184561; 13 giugno 1990, D’Erme, rv. 185106; 18 ottobre 1990, Oria, rv. 185858; 12 luglio 1991, Silvestri, rv. 188921; 23 marzo 1993, De Donato, rv. 195169; 30 aprile 1993, De Giovanni, rv. 195482; 11 novembre 1994, Presta, rv. 201554), che ritiene sufficienti ‘‘serie ed apprezzabili probabilita di successo’’ per l’azione impeditiva dell’evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale è richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità ‘‘prossimo alla certezza’’, e cioè in una percentuale di casi ‘‘quasi prossima a cento’’ (Sez. IV, 28 settembre


— 1135 — 2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29 settembre 2000, Musto; 25 settembre 2001, Covili, rv. 220953; 25 settembre 2001, Sgarbi, rv. 220982; 28 novembre 2000, Di Cintio, rv. 218727). Ritiene il Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica. 2. Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l’interpretazione che, nella lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla ‘‘teoria condizionalistica’’ o della ‘‘equivalenza delle cause’’ (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla ‘‘causalità umana’’ quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41 comma 2). È dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva, che si pone come condizione ‘‘necessaria’’ — conditio sine qua non — nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al ‘‘giudizio controfattuale’’, articolato sul condizionale congiuntivo ‘‘se... allora...’’ (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale ‘‘doppia formula’’, nel senso che: a) la condotta umana ‘‘è’’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana ‘‘non è’’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato. Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (Sez. IV, 24 giugno 1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. IV, 6 dicembre 1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31 ottobre 1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27 maggio 1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26 gennaio 1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, ‘‘già da prima’’, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento. E la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto ‘‘leggi scientifiche’’ esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica — ‘‘legge di copertura’’ —, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi ‘‘del tipo’’ di quello verificatosi in concreto. Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi ‘‘universali’’ (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi ‘‘statistiche’’ che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale


— 1136 — di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest’ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di ‘‘alto grado di credibilità razionale’’ o ‘‘probabilità logica’’, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili. Si avverte infine che, per accertare l’esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell’accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di ‘‘assunzioni tacite’’ e presupporre come presenti determinate ‘‘condizioni iniziali’’, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘‘ceteris paribus’’, mantiene validità l’impiego della legge stessa. 3. La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni giurisprudenziali (Sez. fer., 1 settembre 1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28 settebre 2000, Baltrocchi, cit.; 29 settembre 2000, Musto, cit.; 25 settembre 2001, Covili, cit.; 25 settembre 2001, Sgarbi, cit.; 20 novembre 2001, Turco; 28 novembre 2000, Di Cintio, cit.; 8 gennaio 2002, Trunfio; 23 gennaio 2002, Orlando), le quali, nel recepire l’enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di imputazione dell’evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dall’altro, nell’ambito delle fattispeciè causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito penale. In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati dalla fisica contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (v. lo Schema Pagliaro del 1992 di delega per un nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l’articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di riforma della parte generale del codice penale, sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l’assetto normativo dell’ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per l’individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo. Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici. E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei (‘‘conditio sine qua non’’) e dei paesi anglosassoni (‘‘causa but for’’) siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittiva dell’imputazione causale. 4. Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva attinente all’attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l’essenza normativa del concetto di ‘‘omissione’’, che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento. Il ‘‘reato omissivo improprio’’ o ‘‘commissivo mediante omissione’’, che è realizzato da chi viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento, presenta una spiccata autonomia dogmatica, scaturendo esso dall’innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall’art. 40, comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate


— 1137 — verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive: autonomia che, per l’effetto estensivo dell’area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa. Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico. Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall’erosione del paradigma causale nell’omissione, asseritamente motivata con l’incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della ‘‘imputazione oggettiva dell’evento’’. Questa è caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera ‘‘possibilità’’ o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di ‘‘aumento — o mancata diminuzione — del rischio’’ di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell’agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa — che le Sezioni unite condividono —, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio, Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo che anche per i reati omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell’evento. Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del ‘‘condizionale controfattuale’’, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo ‘‘coperto’’ dal sapere scientifico del tempo. Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria dell’omissione pretenderebbe un grado di ‘‘certezza’’ meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l’affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l’evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito all’agente come fatto proprio un evento ‘‘forse’’, non ‘‘certamente’’, cagionato dal suo comportamento. 5.

Superato quell’orientamento che si sostanzia in pratica nella ‘‘volatilizzazione’’ del


— 1138 — nesso eziologico, il contrasto giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi, con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell’esercizio dell’attività medico-churgica, quale sia il grado di probabilità richiesto quanto all’efficacia impeditiva e salvifica del comportamento alternativo, omesso ma supposto come realizzato, rispetto al singolo evento lesivo. Non è messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della ‘‘elevata o alta credibilità razionale’’ del condizionamento necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto definiti dalla medesima legge di copertura. Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente, generalizzazioni del senso comune, massime d’esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico. Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore meramente probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico paradigma, quando si tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale, legittimerebbero un affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità. In considerazione del valore primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto riconoscersi appagante valenza persuasiva a ‘‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’’ (anche se ‘‘limitate’’ e con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%) dell’ipotetico comportamento doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato, sull’assunto che ‘‘quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’intervento del medico’’. Le Sezioni Unite non condividono questa soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale e prevalente orientamento della Sezione Quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da Sez. IV, 7 gennaio 1983, Melis, le citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pasolini, D’Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni, Presta) poiché, com’è stato sottolineato dall’opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Trunfio, Orlando), con la tralaticia formula delle ‘‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’’ dell’ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per esprimere coefficienti di ‘‘probabilità’’ indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinto, dell’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica. Né va sottaciuto che dall’esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene qualificati in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell’evento, non si è tuttavia in presenza di effettive, radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive colpose, connotate da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell’evento lesivo, che è per ciò sicuramente attribuibile al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e interagenti, in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive. Ipotesi queste per le quali, nella ricostruzione del fatto lesivo e nell’indagine controfattuale sull’evitabilità dell’evento, la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva dell’inosservanza delle regole cautelari, attinente ai profili di ‘‘colpa’’ del garante, rispetto all’ambito — invero prioritario — della spiegazione e dell’imputazione causale. 6. È stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione probatoria della tipicità dell’elemento oggettivo del reato


— 1139 — coinvolge la tenuta sostanziale dell’istituto, oggetto della prova, scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa. Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione ‘‘debole’’ della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale, dell’ ‘‘aumento del rischio’’, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio. Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta decisivo per la decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento, soprattutto in presenza dei complessi fenomeni di ‘‘causazione multipla’’ legati al moderno sviluppo delle attività. Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare invero sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo dell’ ‘‘abduzione’’), rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento ‘‘deduttivo’’, da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse. D’altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il quale ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di ‘‘assunzioni tacite’’, presupponendo come presenti determinate ‘‘condizioni iniziali’’ e ‘‘di contorno’’, spazialmente contigue e temporalmente continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘‘ceteris paribus’’, mantiene validità l’impiego della legge stessa. E, poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica ‘‘certezza assoluta’’, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari. Tutto ciò significa che il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente ‘‘è’’ (non ‘‘può essere’’) condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di ‘‘certezza processuale’’, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da ‘‘alto grado di credibilità razionale’’ o ‘‘conferma’’ dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di ‘‘elevata probabilità logica’’ o ‘‘probabilità prossima alla — confinante con la — certezza’’. 7. Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l’explanans è portatore, ma non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del con-


— 1140 — dizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘‘prossimo ad 1’’, cioè alla ‘‘certezza’’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento. Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s’innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità. È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’ ‘‘attendibilità’’ in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile. 8. In definitiva, con il termine ‘‘alta o elevata credibilità razionale’’ dell’accertamento giudiziale, non s’intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione, indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito dedurre automaticamente — e proporzionalmente — dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità. La moderna dottrina che ha approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha infatti precisato che, mentre la ‘‘probabilità statistica’’ attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi (strumento utile e talora decisivo ai fini dell’indagine causale), la ‘‘probabilità logica’’, seguendo l’incedere induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell’ipotesi formulata in ordine allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale (in tal senso, cfr. anche Cass., Sez. IV, 5 ottobre 1999, Hariolf, rv. 216219; 30 marzo 2000, Camposano, rv. 219426; 15 novembre 200I, Puddu; 23 gennaio 2002, Orlando, cit.). Si osserva in proposito che, se nelle scienze naturali la spiegazione statistica presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il diritto — ove il relatum è costituito da un comportamento umano — appare, per contro, inadeguato esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati coefficienti numerici, piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi. Partendo dunque dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le Sezioni Unite, nel condividere le argomentate riflessioni del P.G. requirente, ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici, complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razional-


— 1141 — mente credibile. Sì da attingere quel risultato di ‘‘certezza processuale’’ che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva. D’altra parte, poiché la condizione ‘‘necessaria’’ si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato. Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilità per la valutazione della prova in generale dal comma 1 della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546, comma 1 lett. e c.p.p.), deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittiva dell’imputazione causale, alla conclusione caratterizzata da un ‘‘alto grado di credibilità razionale’’, quindi alla ‘‘certezza processuale’’, che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘‘necessaria’’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio. Ex adverso, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia ‘‘in dubio pro reo’’. E non, viceversa, la disarticolazione del concetto di causa penalmente rilevante che, per tale via, finirebbe per regredire ad una contraddittoria nozione di ‘‘necessità’’ graduabile in coefficienti numerici. 9. In ordine al problema dell’accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica, devono essere pertanto enunciati, ai sensi dell’art. 173 n. 3 n. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto. a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica — universale o statistica —, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. b) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘‘alto o elevato grado di credibilità razionale’’ o ‘‘probabilità logica’’. c) L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio. Va infine ribadito che alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative — la c.d. giustificazione esterna — della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giu-


— 1142 — dice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. 10. Alla luce dei principi di diritto sopra affermati, occorre ora passare all’esame della fattispecie concreta sottoposta all’attenzione di questa Corte e valutare la correttezza logicogiuridica dell’apparato argomentativo dei giudici di merito a sostegno dell’affermazione di responsabilità dell’imputato. Premesso che la motivazione della sentenza impugnata s’integra con quella di condanna di primo grado, siccome espressamente richiamata, rileva il Collegio che questa ha adeguatamente affrontato, sia in fatto che in diritto, il problema dell’esistenza del nesso di condizionamento risolvendolo in senso affermativo. Il dott. Salvatore Franzese era stato chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale Cardarelli — dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 Pasquale Castellone, dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale —, per avere determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘‘clostridium septicum’’ che aveva cagionato il 22 aprile la morte del paziente. Si addebitava all’imputato di non avere compiuto durante il periodo di ricovero una corretta diagnosi e quindi consentito un’appropriata terapia, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici che evidenziavano una persistente neutropenia e di sollecitare la consulenza internistica prescritta dopo l’intervento chirurgico per accertare l’eziologia della perforazione dell’ileo, anzi autorizzando, senza alcuna prescrizione, la dimissione del paziente, giudicato in via di guarigione chirurgica. La storia clinica del Castellone risulta esaurientemente e analiticamente ricostruita nei seguenti termini. Il Castellone, ricoverato il 4 aprile 1993 presso il reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale Cardarelli per forti dolori addominali, venne operato il giorno successivo e l’intervento indicò un’infezione in atto da ‘‘perforazione dell’ileo lenticolare’’, suturata mediante corretta enterrorafia. Restando incerta la causa della non comune patologia e preoccupanti i risultati degli esami emocromocitometrici effettuati il 4 e il 6 aprile (i quali evidenziavano nella formula leucocitaria una marcata neutropenia e con essa una condizione di immunodepressione del paziente) furono disposti esame di Widal Wright (eseguito con esito negativo per l’indicazione tifoidea), consulenza internistica (mai eseguita) e terapia antibiotica a largo spettro. Trasferito il 9 aprile nella XVI divisione chirurgica diretta dal dott. Franzese, il Castellone continuò la terapia antibiotica e iniziò a sfebbrare il 12 aprile, senza esser sottoposto ad ulteriori esami di alcun tipo. Il dott. Franzese, rilevato che il paziente era apirettico, il 14 aprile sospese la terapia antibiotica e dispose un nuovo emocromo, che evidenziò il giorno successivo il persistere di una gravissima neutropenia, ma, ciò nonostante, il 17 aprile dimise il Castellone giudicandolo ‘‘in via di guarigione chirurgica’’ senza alcuna prescrizione. Il 19 aprile il Castellone accusò forti dolori addominali e, ricoverato il 20 aprile, venne nuovamente operato il giorno successivo mediante laparatomia e drenaggio di microascessi multipli; il referto microbiologico indicò esito positivo per ‘‘anaerobi e sviluppo di clostridium septicum’’. All’esito di un terzo intervento chirurgico eseguito il 22 aprile il Castellone morì a causa di ‘‘sepsi addominale da clostridium septicum’’, un batterio anaerobico non particolarmente aggressivo, che si sviluppa e si propaga però, determinando anemia acuta ed emolisi, allorché l’organismo dell’uomo è debilitato e immunodepresso per gravi forme di granulocitopenia. Il Pretore, con l’ausilio della prova testimoniale e medico-legale (richiamando altresi autorevoli e concordi pareri della letteratura scientifica internazionale nel campo della medicina interna), identificava nella ‘‘neutropenia’’ l’immediato antecedente causale dell’aggressione del ‘‘clostridium’’ e del processo settico letale; escludeva, indipendentemente dall’ori-


— 1143 — gine della perforazione ileale, ogni correlazione fra l’intervento chirurgico e i fattori patogenetici dell’evento infausto; sottolineava come il paziente, dopo la chiusura dell’ulcera ileale, fosse stato sottoposto solo a terapia antibiotica a largo spettro, senza essere indagato sul piano internistico ed ematologico, benché la consulenza internistica fosse stata sollecitata e gli accertamenti ematologici avessero evidenziato l’insorgenza di una marcata neutropenia, con conseguente minorata difesa immunitaria. Rilevava pertanto che, se le cause della neutropenia e del conseguente, grave, stato anergico da immunodepressione fossero stati correttamente diagnosticati (unitamente alle indagini necessarie a chiarire l’eziologia della non comune perforazione ileale) e se l’allarmante granulocitopenia fosse stata curata con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, fino a far risalire i valori dei neutrofili al di sopra della soglia minima delle difese immunitarie, si sarebbe evitata la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale da ‘‘clostridium septicum’’ e si sarebbe pervenuti ad un esito favorevole ‘‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’’. Così ricostruito il nesso causale secondo il modello condizionalistico integrato dalla sussunzione sotto leggi scientifiche, il Pretore, definita altresì puntualmente la posizione apicale del dott. Franzese nell’ambito della divisione chirurgica ove il paziente era stato ricoverato nella fase post-operatoria e individuate precise note di negligenza e di imperizia nei menzionati comportamenti omissivi e nell’improvvida dimissione dello stesso, concludeva affermando la responsabilità dell’imputato per la morte del Castellone. La Corte di appello di Napoli, pur argomentando impropriamente e contraddittoriamente in termini che sembrano più coerenti con il lessico della disattesa teoria dell’aumento del rischio (‘‘... se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutroJìli, le probabilità di sopravvivenza del Castellone sarebbero certamente aumentate ...’’), confermava la prima decisione, richiamandone i contenuti motivazionali e ribadendo che, in base ai dati scientifici acquisiti, all’imputato erano addebitabili, oltre l’ingiustificata dimissione del paziente, gravi omissioni sia di tipo diagnostico che terapeutico, le quali ‘‘... sicuramente contribuirono a portare a morte il Castellone ...’’. Pertanto, poiché le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee interpretative sopra enunciate in tema di rapporto di causalità e trovano adeguata base giustificativa in una motivazione, in fatto, immune da vizi logici, il giudizio critico e valutativo circa il positivo accertamento, ‘‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’’, dell’esistenza del nesso di condizionamento necessario fra la condotta (prevalentemente omissiva) del medico e la morte del paziente resta incensurabile nel giudizio di legittimità e i rilievi del ricorrente si palesano privi di fondamento. 11. L’ordinanza della Sezione remittente dà atto che il delitto di omicidio colposo per il quale si procede è estinto per prescrizione, in quanto il decesso del Castellone risale al 22 aprile 1993 ed è quindi ampiamente trascorso il termine di sette anni e sei mesi. Da un lato, l’accertamento della causa estintiva del reato si palesa prioritario e immediatamente operativo rispetto alla questione in rito della nullità ‘‘relativa’’ dei verbali stenotipici di udienza (Sez. un., 28 novembre 2001, Cremonese, rv 220511; Sez. un., 27 febbraio 2002, Conti, rv. 221403), nonché rispetto alle invero generiche e subvalenti censure del ricorrente circa pretesi vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, in punto di direzione della divisione ospedaliera e titolarità della posizione di garanzia, di colpa professionale e di dosimetria della pena. D’altra parte, la compiuta valutazione critica, con esito negativo, del più serio e argomentato motivo di gravame, riguardante l’affermazione di responsabilità dell’imputato quanto alla prova dell’effettivo nesso di causalità fra le condotte — prevalentemente omissive — addebitategli e l’evento morte del paziente, consente a questa Corte, nell’annullare senza rinvio la sentenza impugnata in conseguenza dell’avvenuta estinzione del reato per prescrizione, di confermarne (ai sensi dell’art. 578 c.p.p. e secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità) le statuizioni relative ai capi concernenti gli interessi civili: e cioè, la


— 1144 — condanna generica dell’imputato al risarcimento del danno, nonché al pagamento di una somma liquidata a titolo di provvisionale e delle spese di costituzione e difesa a favore della parte civile. P.Q.M. — La Corte Suprema di cassazione, a Sezioni Unite, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione; conferma le statuizioni concernenti gli interessi civili. Così deliberato il 10 luglio 2002. — Omissis.


TRIBUNALE DI MILANO — III SEZIONE PENALE - Ordinanza 15 maggio 2002 — Pres. Ghitti - Rel. Cernuto. Società - Reati societari - Reato di false comunicazioni sociali e di prestiti e garanzie della Società (artt. 2621, comma 1, n. 1 e 2624 c.c. ante d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61) - Richiesta di revoca di precedenti sentenze di condanna e di applicazione della pena per abolitio criminis - Mancanza di continuità normativa tra le fattispecie previste dal d.lgs. n. 61/2002 e le previgenti - Sussistenza. In conseguenza dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 61/2002 la fattispecie di false comunicazioni sociali, sdoppiata in due distinte previsioni, risulta profondamente trasformata nei suoi elementi essenziali manifestando una netta discontinuità strutturale rispetto alla previgente disciplina sia sul piano dei beni tutelati, sia con riferimento agli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie: condizioni che impediscono di giudicare sussistente un fenomeno di successione di leggi penali ed impongono, piuttosto, di ritenere che all’abrogazione formale dell’art. 2621 c.c. si sia accompagnata l’abolizione della relativa fattispecie incriminatrice, avendo riguardo alla sua formale tipicità. Deve ritenersi parimenti fondata la domanda di revoca parziale della precedente condanna per il reato ex art. 2624 c.c. in considerazione della formale abrogazione di tale norma disposta all’art. 1 del d.lgs. n. 61/2002 che ha privato di penale rilevanza i fatti oggetto della precedente pronuncia, non sussumibili in nessuna delle norme incriminatrici contemplate dalla nuova articolazione del sistema penale societario stante la netta discontinuità e disomogeneità strutturale tra l’originaria fattispecie prevista dall’art. 2624 c.c. e la fattispecie di infedeltà patrimoniale introdotta dal nuovo art. 2634 c.c. Omissis. — 1. Con sentenza di ‘‘patteggiamento’’ (ex art. 3 della l. 19 gennaio 1999, n. 14) del 28 ottobre 1999, n. 3599, Marcello Dell’Utri è stato condannato definitivamente dalla Corte di cassazione alla pena di anni due e mesi tre di reclusione e lire sei milioni di multa, oltre alle pene accessorie previste dall’art. 6 della l. n. 5116/82, in quanto colpevole di una serie di reati finanziari commessi tra il 1988 ed il 1994 in qualità di rappresentante legale della Publitalia 80 s.p.a. Ciò a conclusione di un processo in cui il prevenuto era stato condannato ad anni tre di reclusione e lire 8.000.000 di multa dal tribunale di Torino il 13 novembre 1996 e ad anni tre, mesi due e giorni venticinque di reclusione e lire 8.085.000 di multa dalla Corte d’Appello di Torino il 19 febbraio 1998, previa esclusione delle circostanze attenuanti generiche concesse in primo grado di giudizio. Successivamente, per effetto dello scomputo del presofferto cautelare e dell’applicazione del condono previsto dal d.P.R. n. 394/90 in relazione ai capi 1 e 3 della sentenza n. 3599/99, la pena è stata ridotta ad anni due e mesi uno di reclusione e lire 5.848.000 di multa con ordinanza della Corte d’Appello di Torino del 28 dicembre 1999; confermata, quanto alla determinazione delle pene principali, dalla Corte di cassazione con decisione del 10 luglio 2000, pur pronunciandone l’annullamento senza rinvio relativamente alla mancata applicazione del condono alle pene accessorie temporanee, così dichiarate estinte. Con sentenza del Tribunale di Milano del 10 marzo 2000, n. 1081, passata in giudicato l’11 aprile 2000, al Dell’Utri è stata ulteriormente applicata la pena di un mese di reclusione, convertita in lire 2.250.000 di multa, in aumento a quella inflitta dalla Corte di cassazione con la sentenza 28 ottobre 1999 e ritenendo la continuazione coi fatti così giudicati.


— 1146 — Tale ultima pena è stata estinta con il pagamento della sanzione pecuniaria sostitutiva, e pertanto non deve essere presa in considerazione ai fini della determinazione della pena da eseguire. Dalla sua applicazione è però derivata, in primo luogo, l’individuazione di questo Tribunale quale giudice dell’esecuzione, a mente dell’art. 665 c.p.p.: da interpretarsi infatti, conformemente alla giurisprudenza di legittimità secondo cui, quando un soggetto ha subìto più condanne definitive da giudici diversi, la competenza funzionale a provvedere in ordine all’esecuzione delle varie sentenze è del giudice che ha pronunciato la decisione divenuta irrevocabile per ultima, anche se l’esecuzione concerne un provvedimento emesso da un giudice diverso (cfr. Cass., sez. I, sent. 1 giugno-23 agosto 1994, r.v. 198934). Con le istanze avanzate il 29 luglio 2000 Marcello Dell’Utri ha chiesto quindi, ai sensi dell’art. 673 c.p.c., la revoca della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di cassazione il 28 ottobre 1999 relativamente ai capi 1, 3, 5, 7, 9, 10, 12, 13 e 15 dell’imputazione, ritenuta l’abolitio criminis dei reati così contestati disposta dal decr. l.vo 10 marzo 2000, n. 74; nonché la rideterminazione della pena al di sotto dei limiti previsti dall’art. 153 c.p. ed il riconoscimento della relativa sospensione condizionale, questione precedentemente mai valutata dal giudice di cognizione in ragione dell’inflizione di una sanzione eccedente i due anni di reclusione. Il Tribunale, con ordinanza del 22 gennaio 2001, riteneva fondata la domanda di revoca parziale della condanna avanzata ai sensi dell’art. 673 c.p.c., limitatamente ai capi 1 e 3 (giudicando tale abolitio criminis prevalente, in quanto più favorevole, sul condono applicato con l’ordinanza della Corte d’Appello di Torino del 28 dicembre 1999), 5, 7, 9, 12 e 15 della sentenza dedotta, e conseguentemente rideterminava in anni uno, mesi otto e giorni sette di reclusione e lire 5.286.000 di multa la pena da porre in esecuzione nei confronti del ricorrente, previa detrazione del periodo detentivo di ventidue giorni presofferto in custodia cautelare. L’istanza di sospensione condizionale, in esito alla proposizione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 d.P.R. e alla restituzione degli atti disposta, senza entrare nel merito, dalla Corte costituzionale con ordinanza del 3-11 dicembre 2001, n. 402, veniva invece dichiarata inammissibile con ordinanza del 20 febbraio 2002 in quanto riferita, in concreto, ad una pena eccedente il limite previsto dall’art. 163 c.p., da computare avendo riguardo al parametro normativo della pena complessivamente inflitta e quindi, tenendo conto non solo del residuo da scontare ma anche del presofferto cautelare e della frazione di pena applicata in continuazione con sentenza del Tribunale di Milano del 10 marzo 2000; pene, queste ultime, estinte e dunque da non considerare al diverso fine di determinare la sanzione da porre in esecuzione. Con le istanze oggi in decisione Marcello Dell’Utri ha chiesto ulteriormente, ai sensi dell’art. 673 c.p.c., la revoca della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di cassazione il 28 ottobre 1999 relativamente al capo 16 dell’imputazione e della sentenza del Tribunale di Milano del 10 marzo 2000, per essere sopravvenuta l’abolitio criminis dei reati così contestati disposta dal d.lgs. n. 61/2002 entrato in vigore il 16 aprile 2002; conseguentemente ha riproposto la domanda di sospensione condizionale della pena ricondotta, in tal modo, entro i limiti di concedibilità del beneficio. Il Tribunale giudica ammissibili e fondate ambedue le domande di revoca avanzate; compresa quella relativa alla pena patteggiata, ancorché estinta, in ragione dei perduranti interessi al computo della sanzione sostitutiva espiata ai sensi dell’art. 657 comma 3 c.p.p. ed alla definizione della pena inflitta, da cui derivare i margini residui di concedibilità del beneficio ex art. 163 c.p., che non consentono di ritenere la decisione attinente ad una situazione giuridica definitivamente esaurita. Ritiene, inoltre, ammissibile e meritevole di accoglimento l’istanza di sospensione condizionale della pena per le ragioni di seguito specificate. IN DIRITTO. — 2. Per verificare la susistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 673 c.p.p., occorre preliminarmente accertare se, tra le fattispecie previste dal nuovo assetto degli illeciti penali societari e quelle per cui il ricorrente è stato condannato, sussiste conti-


— 1147 — nuità normativa ai sensi dell’art. 2 comma 3 c.p. oppure un rapporto di abrogazione-sostituzione da ricondurre all’art. 2 comma 2 c.p. L’interpretazione, delle disposizioni che disciplinano la successione delle norme incriminatrici attiene ad una delle problematiche classiche del diritto penale, ed ha condotto all’elaborazione di diversi criteri applicativi. Per una loro rassegna, possibile rinviare all’illustrazione svolta in Cass. sez. III, 27 aprile-29 maggio 2000, n. 6228, Bellavia, che riporta sia le tesi di matrice tedesca incentrate sul cosiddetto ‘‘fatto concreto’’ (secondo cui occorre verificare se la fattispecie concreta, già rilevante per la precedente normativa, continui ad esserlo anche per quella successiva) e sulla continuità del tipo di illecito (focalizzata sulla permanenza o meno della nuova normativa in un’area di illieceità sostanzialmente corrispondente a quella della norma abrogata, quanto all’interesse protetto ed alle relative modalità di aggressione); sia le regole interpretative, di matrice dottrinale, fondate sui principi di specialità e di ‘‘piena continenza’’ (in base ai quali vi sarebbe successione di leggi solo in ipotesi di introduzione di una fattispecie speciale legata a quella abrogata da un rapporto di piena continenza) oppure sulla cosidetta persistenza dell’illecito (che verifica se le norme introdotte conservino, in base ad un giudizio dinamico, l’area di punibilità propria della norma abrogata), per finire coi criteri, anch’essi di origine tedesca, basati sul raffronto strutturale tra le fattispecie incriminatrici. La giurisprudenza ha fatto ricorso, anche sincreticamente e combinandoli tra di loro, a ciascuno dei criteri indicati, sollecitata dai fenomeni di successione di leggi penali che, in tempi relativamente recenti, hanno interessato tra l’altro la normativa degli stupefacenti, i reati contro la pubblica amministrazione e la disciplina dei reati tributari. Negli ultimi anni, rilevato che l’adozione del criterio del fatto concreto si baserebbe sull’attribuzione di rilevanza penale ad elementi che in precedenza non l’avevano, così determinando un’applicazione retroattiva della norma incriminatrice in contrasto con l’art. 25 comma 2 Cost., si è assistito però ad un deciso orientamento favorevole a valutare, in astratto, l’omogeneità strutturale delle fattispecie messe a confronto (così, ex plurimis, Cass., Sez. un., 7 novembre 2000, n. 27, Di Mauro; Cass. Sez. un., 13 dicembre 2000, Sagone; Cass., Sez. un., 17 luglio 2001, n. 2903; Cass., Sez. un., 11 settembre 2001 n. 3359, Donatelli; Cass., sez. V, 14 ottobre 1999, Grezzi; Cass., sez. VI, 28 gennaio 2000, n. 518, Marini; Cass., sez. I, 10 marzo 2000, Cannella; Cass., sez. I, 25 maggio 2000, Ayacha; Cass., sez. III, 11 settembre 2000, n. 9574). Secondo questa regola di valutazione, che il Tribunale condivide pienamente, si ha successione modificativa, ad esempio, quando una norma speciale viene abrogata ed una norma di carattere generale preesistente espande il suo campo di applicazione, fino a ricomprendere la fattispecie considerata dalla norma speciale (che, evidentemente, il legislatore non intende in concreto decriminalizzare); oppure quando viene abrogata una norma di carattere generale e ne subentra una che, conservandone i lineamenti essenziali, si limita ad introdurre uno o più elementi specializzanti. Quando, invece, le due leggi presentano tra loro requisiti eterogenei e manifestano diversità negli elementi costitutivi tipici che disegnano l’identità del fatto deve riscontrarsi una vera e propria abolizione dell’incriminazione recedente e l’introduzione di una nuova, autonoma figura di reato, con conseguente applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p. A parere del Tribunale, è quest’ultima la situazione che ricorre con riferimento agli illeciti configurati dagli artt. 2621 e 2622 c.c. previgenti, per cui il ricorrente aveva riportato le condanne di cui si chiede la revoca: giusta l’entrata in vigore del d.lgs. n. 61/2002 che, nel contesto di una rivisitazione complessiva della disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, ha espressamente abrogato il titolo XI del libro V del codice civile introducendo una normativa segnata da elementi radicali di novità, tanto da relazionarsi alla precedente in termini di discontinuità. 3. Con riferimento al reato previsto dall’art. 2621 comma 1, n. 1 c.c. abrogato, per cui al Dell’Utri è stata applicata la pena con sentenza del Tribunale di Milano del 10 marzo 2000, lo jus superveniens contempla infatti modifiche strutturali palesi sin dall’introduzione,


— 1148 — in sua vece, di due distinte previsioni incriminatrici: una di natura contravvenzionale, il nuovo art. 2621 c.c., qualificato come un reato di pericolo finalizzato alla tutela anticipata degli interessi patrimoniali dei soci e di chiunque (il pubblico), agendo sul mercato, sia per ciò solo in condizione di intrattenere con la società rapporti di natura economica; ed una di natura delittuosa, il nuovo art. 2622 c.c., configurato alla stregua di un reato di danno in cui i medesimi interessi patrimoniali, all’esito dell’evento dannoso concretamente verificatosi, sono tutelati penalmente a querela della persona offesa — salvi i casi, procedibili d’ufficio, di società quotate in Borsa o di fatto che integri, in concorso, la consumazione di un ulteriore delitto commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. Lo sdoppiamento della fattispecie è già significativo di una frattura strutturale con la norma abrogata ed ha comportato, per le condotte riconducibili all’art. 262 c.c. vigente, la qualificazione non più delittuosa ma contravvenzionale del reato. Oltre a ciò, una prima, radicale modifica di carattere sostanziale, di per sé sufficiente ad escludere un fenomeno di successione normativa, concerne il catalogo dei beni giuridici protetti: innovato nel senso di non ricomprendere più, in una visione plurioffensiva, la tutela della trasparenza dell’informazione societaria, della fede pubblica documentale (cfr. Cass. 13 gennaio 1981, Rigoni) e del regolare funzionamento delle società commerciali nell’ambito dell’economia pubblica (cfr. Cass. 9 aprile 1991, Cultrera); ed incentrato, invece, unicamente sulla protezione del patrimonio di soci, creditori e, generalmente, di chiunque possa vantare nei confronti della società un interesse economico. Ne è derivata l’irrilevanza, ai fini penali, del falso in comunicazioni sociali in quanto tale. Il legislatore, modificando in maniera essenziale l’assetto della norma incriminatrice, ha degradato l’immutati veri da condotta di per sé rivestita di disvalore penale, in quanto lesiva dei beni pubblici della chiarezza e dell’attendibilità dell’informazione societaria, a elemento che concorre alla costituzione di un diverso reato incentrato sulla messa in pericolo o sulla determinazione di un danno ad interessi patrimoniali specifici ed individuati. Nel nuovo scenario, è sanzionata solamente la condotta che, a condizioni tassativamente indicate e definite in maniera stringente, determini un pericolo concreto per gli interessi patrimoniali dei soci e di chiunque, operando sul mercato, interagisca con la società (così integrandosi la fattispecie contravvenzionale contemplata dall’art. 2621 c.c., procedibile d’ufficio); ovvero, cagioni a questi stessi soggetti un danno patrimoniale, cui conseguono la qualificazione delittuosa del fatto e, in ragione dell’individualizzazione dell’interesse protetto, la procedibilità a querela previste dall’art. 2622 c.c. Coerentemente con le nuove finalità, le fattispecie incriminatrici novellate si differenziano profondamente da quella previgente riguardo le modalità tipiche di aggressione del bene giuridico. L’immutatio veri, sul piano soggettivo, deve essere attuata con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e di conseguire un profitto di natura ingiusta per sé o per altri (non integrando il reato, quindi, l’intenzione di agire nell’interesse della società, ancorché perseguito con modalità illecite; ipotesi in cui subentra la responsabilità amministrativa della società contemplata dall’art. 3 del d.lgs. n. 61/2002) secondo una articolazione del dolo nettamente più pregnante di quella, incentrata sull’avverbio ‘‘fraduolentemente’’, prescelta dalla norma abrogata, tutt’altro che tassativa e rivelatasi, in concreto, priva di idoneità selettiva. Sul piano oggettivo, la fattispecie risulta integrata non da qalsiasi falsa comunicazione ma solo da quella astrattamente idonea a conseguire il fine ingannatorio e che abbia, altresì, un oggetto circoscritto all’esposizione di ‘‘fatti materiali’’ rilevanti nella rappresentazione delle condizioni economiche della società. È inoltre diversa la tipologia delle comunicazioni sociali tutelate, essendo stato attribuito rilievo solamente al falso significativo recepito in comunicazioni sociali ‘‘previste dalla legge’’; e, mantenendo la qualificazione di reato proprio, è stato ridotto il novero dei soggetti agenti, da cui sono stati esclusi i promotori e i soci fondatori. Su questa struttura del reato, già configurata in maniera completamente diversa da quella previgente, quale ulteriore elemento differenziale è stato introdotto il principio della


— 1149 — necessaria offensività della condotta, muovendo sempre dalla materializzazione e dall’individuazione del bene giuridico protetto: non più categorie astratte e impersonali (quali la fede pubblica o l’economia pubblica) ma interessi patrimoniali specifici, soggettivizzati e concretamente aggredibili dal mendacio, secondo un’opzione criminale che la Relazione al d.lgs. n. 61/2002 indica esplicitamente nella ‘‘esigenza di potenziare il ruolo del principio di offensività attraverso una precisa individuazione dell’oggetto giuridico, al fine di porre freno a quel processo di dilatazione operato dalla giurisprudenza nella delimitazione dei confini di rilevanza penale del falso in bilancio, in un certo senso avallato dalla lettura in chiave plurioffensiva della fattispecie’’. Di conseguenza, la rilevanza del mendacio è divenuta criterio selettivo delle condotte tipiche cui attribuire disvalore penale, essendo stata esclusa la punibilità ‘‘se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene’’ (così l’art. 2621 comma 3 primo periodo c.c. nonché, con formulazione identica, l’art. 2622 comma 5 primo periodo c.c.); ed essendo stato comunque escluso che ricorra il reato ‘‘se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1 per cento. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta’’ (così l’art. 2621 commi 3 secondo periodo e 4 c.c.; e, conformula analoga, l’art. 2622 comma 5 secondo periodo e comma 6 c.c.). L’introduzione del principio di alterazione sensibile e la previsione di soglie percentuali di significatività del mendacio, nel contesto della rivisitazione complessiva della fattispecie, non rappresentano solamente un elemento concreto di forte innovazione rispetto la disciplina previgente, che come già rilevato si ispirava al diverso principio della rilevanza penale dell’immutatio veri indipendentemente dalla produzione di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli e ricomprendeva anche le ipotesi di scostamento minimo dei valori alterati rispetto al patrimonio complessivo della compagine sociale (cfr. d esempio Cass. sez. V, 19 ottobre 2000 — 10 gennaio 2001, n. 191, Mattioli, che ha confermato la sentenza di condanna del giudice di merito relativamente ad un falso nel bilancio di Fiat Auto s.p.a. di ammontare infinitesimale, con incidenza sul patrimonio netto pari allo 0,08%). Il legislatore ha inteso configurare la significatività del mendacio come un vero e proprio elemento costitutivo del reato: tale dovendo essere considerato un elemento della fattispecie che rende attuale ed effettiva l’offesa all’interesse protetto, così concorrendo a delineare il disvalore del fatto sanzionato penalmente; ed assume dunque la natura non di un avvenimento futuro e incerto da cui derivare la punibilità di un fatto che integra già tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, ma di elemento costitutivo del reato, insuscettibile di essere imputato oggettivamente e che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 1085/1988), deve essere coperto almeno dalla colpa dell’agente. Ne è conferma la previsione normativa dei medesimi presupposti di rilevanza del mendacio sia per il delitto di danno che per la fattispecie contravvenzionale a tutela anticipata. Se è estraneo all’arca di rilevanza penale sinanche il pericolo derivante da un’informazione societaria mendace, dotata di astratta idoneità decettiva, sostenuta dal dolo specifico previsto dalla norma, che abbia ad oggetto l’esposizione di fatti materiali in comunicazioni sociali previste dalla legge ma non assuma il carattere di un’alterazione sensibile o non rientri nella soglia di tipicità delineata dal legislatore, in termini di alterazione percentuale del risultato di esercizio; ne consegue che tali ultimi elementi identificativi della fattispecie, ancorché delineati in termini negativi e per esclusione, non sono interpretabili alla stregua di un evento esterno al reato, slegato da qualsiasi relazione psicologica con il soggetto agente ed a questi oggettivamente imputabile, in quanto condizione estrinseca di punibilità. Si è, invece, in presenza di veri e propri elementi necessari all’esistenza del reato di false comunicazioni sociali, previsti dal legislatore al fine di introdurre, in termini adeguatamente tassativi, i caratteri identificativi delle condotte cui attribuire disvalore penale; che, coerentemente con tale na-


— 1150 — tura, sono contemplati sia dal delitto che sanziona le condotte di danno sia dalla contravvenzione posta a tutela del relativo pericolo, ed in mancanza dei quali difetta l’integrazione del fatto tipico previsto dalle norme incriminatrici. Ad ulteriore riprova, basti considerare come non abbia rilevanza penale, per espressa volontà del legislatore (‘‘la punibilità è comunque esclusa...’’: formula ricorrente sia nell’art. 2621 comma 3 secondo periodo c.c., sia nell’art. 2622 comma 5 secondo periodo c.c.), il fatto che non rientri nelle soglie rigide espresse in termini percentuali, ancorché causativo di alterazioni sensibili della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società e quindi, determinativo di un dato che sarebbe altrimenti, in base a tale ultimo parametro penalmente rilevante: in virtù di una previsione che sarebbe contraddittorio ascrivere ad una condizione estrinseca e di natura obiettiva, così incongruamente in contrasto con l’altro presupposto obiettivo dell’alterazione sensibile. L’interpretazione della norma ritrova, invece armonia e coerenza logica riconoscendo che ciascuno dei limiti in discorso esprime non una condizione obiettiva di punibilità, configurata in maniera da potere entrare in conflitto l’una con l’altra, ma una situazione di atipicità della condotta, che concorre a definire i limiti esegetici della fattispecie. Né, sotto altro profilo, sarebbe sostenibile che il legislatore abbia inteso, in tal modo, prevedere delle cause speciali di esclusione dell’antigiuridicità del fatto, come tali destinate a dispiegare la loro efficacia nell’ambito dell’intero ordinamento: l’esposizione nelle comunicazioni sociali di dati comunque falsi, pur non presentando i requisiti richiesti dalla norma penale, conserva infatti intatta tutta la sua carica di illiceità in sede civile, amministrativa e disciplinare. Di talché non integrano la fattispecie e non costituiscono reato, ponendosi al di fuori dell’area di rilevanza penale disegnata dal legislatore, le appostazioni bilancistiche mendaci che non determinano una alterazione sensibile della corretta rappresentazione o, pur costituendo un’alterazione sensibile, non raggiungono le soglie percentuali indicate dalla norma, proprio perché le fattispecie incriminatrici non intendono più tutelare la trasparenza dell’informazione societaria e, con essa, la fede pubblica documentale (valori che non sopporterebbero l’introduzione di soglie percentali tali da mettere in discussione la valenza informativa del rendiconto sociale e, con essa, la trasparenza dei conti: come affermato dalla giurisprudenza relativa all’art. 2621 comma 1 n. 1 c.c. abr., anche uno scostamento minimo dal reale rende l’informativa infedele) ma hanno rideterminato l’area di tutela circoscrivendola all’interesse patrimoniale dei soci e dei terzi, nel caso di condotte potenzialmente (art. 2621 c.c.) o effettivamente (art. 2622 c.c.) dannose che rispondano ai così determinati criteri tassativi di offensività: interesse, laddove il danno si sia verificato, ritenuto vieppiù di natura squisitamente privata tanto da prevedere la procedibilità a querela, fatte salve le eccezioni già indicate. In definitiva, in conseguenza dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 61/2002 risulta trasformato lo stesso nucleo della fattispecie di false comunicazioni sociali, sdoppiata e riconfigurata nei suoi elementi essenziali: in ragione di una scelta precisa del legislatore, che ha proceduto alla determinazione, per contrazione, degli interessi tutelati, polarizzandoli ‘‘attorno alla tutela di interessi ben definiti (patrimonio, integrità del capitale sociale e regolare funzionamento degli organi sociali)’’ e prediligendo ‘‘la selezione di modalità comportamentali direttamente offensive di singoli beni giuridici, piuttosto che ricostruzioni in chiave di plurioffensività, le quali... recano con sé l’effetto, difficilmente arginabile, di estendere a dismisura talune fattispecie’’ (così la relazione al d.lgs. n. 61/2002). Il reato ha dunque subito modifiche talmente significative da essere stato completamente innovato nella sua struttura essenziale. Il significato lesivo della condotta è stato conformato ad un diverso apprezzamento di valori, le finalità risultano rapportate a nuove esigenze di politica criminale e la discontinuità strutturale si manifesta tanto sul piano dei beni tutelati, quanto con riferimento agli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie: condizioni che impediscono di giudicare sussistente un fenomeno di successione di leggi penali ed impongono, piuttosto, di ritenere che all’abrogazione formale dell’art. 2621 c.c. si sia ac-


— 1151 — compagnata l’abolizione della relativa fattispecie incriminatrice, avendo riguardo alla sua formale tipicità. 4. Ad ogni buon conto, anche l’adozione di un diverso criterio applicativo del principio enunciato dall’art. 2 c.p. condurrebbe al medesimo risultato. La modifica del catalogo dei beni giuridici protetti e delle relative modalità di aggressione implica, anche in termini sostanzialistici, l’impossibilità di riferire le fattispecie raffrontate ad una continuità del tipo di illecito. Per le stesse ragioni, le norme vigenti non si rapportano a quella abrogata in termini di piena continenza e non conservano l’area di punibilità che le era propria. Infine, avendo riguardo al fatto concreto, le condotte di false comunicazioni sociali per cui al ricorrente è stata applicata la pena non sono più previste dalla legge come reato. Si tratta della falsificazione dei bilanci della Publitalia 80 s.p.a. degli anni 1991, 1992 e 1993, realizzata mediante l’esposizione di costi fittizi ed attraverso l’utilizzazione di fatture per operazioni in tutto o in parte inesistenti, emesse per un importo di lire 205.000.000 nel 1991, di lire 620.000.000 nel 1992 e di lire 250.000.000 nel 1993 al fine di nascondere la creazione di disponibilità extracontabili che, come specificato nello stesso capo di imputazione, avrebbero dovuto rientrare, in massima parte, nell’economia extracontabile della società. A tacer d’altro, già sul piano dell’elemento soggettivo, la finalità di creare riserve extracontabili di pertinenza della società amministrata mal si concilia con l’intento ingannatorio dei soci o del pubblico previsto dalle norme vigenti, raccordandosi piuttosto ad una modalità, ancorché illecita, di perseguire l’interesse sociale in violazione di interessi di natura pubblicistica (quale quello, ad esempio, del controllo dei flussi finanziari) non più tutelati dalla norma penale. Inoltre, sul piano obiettivo, le poste interessate dal mendacio non rivestono la rilevanza ormai richiesta dalla legge. Nel bilancio di esercizio di Publitalia chiuso al 31 dicembre 1991 l’importo della falsificazione si attesta, infatti, su di una percentuale pari a circa l’1,9% del risultato economico al 31 dicembre 1993, chiusosi con una perdita pari a circa 23 miliardi di lire, il valore della falsificazione scende ad una percentuale pari a circa l’1,2% del risultato economico dell’esercizio (a nulla rilevando, in assenza di contrarie indicazioni normative che limitino il principio della significatività percentuale al solo bilancio chiuso con un utile, la circostanza che il risultato dell’esercizio sia di segno negativo: interpretazione che riserverebbe un trattamento ingiustificatamente deteriore agli esercizi in perdita). Quanto al bilancio 1992, i 620 milioni di lire di costi fittizi esposti, pur superando la soglia ‘‘automatica’’ del 5% del risultato economico di esercizio, se comparati all’importo globale dei costi di esercizio, pari nel complesso a circa 2.600 miliardi di lire, assumono un rilievo irrisorio senz’altro irriconducibile al parametro generale dell’alterazione sensibile della condizione economica rappresentata. 5. Il Tribunale ritiene parimenti fondata la domanda di revoca parziale della sentenza Cass. n. 3599/99 con riferimento alla condanna ivi pronunciata per il reato ex art. 2624 c.c. contestato al capo 16 della rubrica, per avere il Dell’Utri contratto un prestito personale dell’ammontare di lire 500.000.000 con la Fininvest s.p.a., controllante della Publitalia 80 s.p.a. di cui era, all’epoca, amministratore delegato. Tale fatto non riveste più rilevanza penale; e, all’esito della formale abrogazione disposta all’art. 1 del d.lgs. n. 61/2002, non risulta sussumibile in nessuna delle norme incriminatrici contemplate dalla nuova articolazione del sistema penale societario. In particolare, l’originaria fattispecie prevista dall’art. 2624 c.c., che sanzionava il fatto stesso della contrazione di un prestito erogato dalla società controllante in favore dell’amministratore di una società controllata, indipendentemente dalla regolarità contabile dell’operazione e dell’avvenuta restituzione della somma mutuata, si pone in rapporto di netta discontinuità e di disomogeneità strutturale anche con la fattispecie di infedeltà patrimoniale introdotta dal nuovo art. 2634 c.c., secondo cui ‘‘gli amministratori, i direttori generali e i liqui-


— 1152 — datori che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione di beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni’’. Per quel che ne occupa, trattandosi di una valutazione che poggia su un fatto sostanzialmente incontroverso ed in merito al quale la pubblica accusa si è associata all’istanza del ricorrente, è sufficiente segnalare che le due fattispecie contemplano condotte del tutto diverse; divergono nell’oggettività giuridica e nella selezione del bene giuridico tutelato, attraverso la previsione di diverse modalità di aggressione; presentano un diverso regime di procedibilità; l’una, l’art. 2624 c.c. abr., si configurava come un reato di condotta e a dolo generico, senza che per la sua consumazione occorresse la consapevolezza del pericolo arrecato agli interessi societari e, tantomeno, l’intenzione di nuocere; laddove l’art. 2634 c.c. è articolato, invece, come reato a dolo specifico, integrato dal fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o vantaggio, intenzionalmente volto alla causazione di un danno patrimoniale alla società, ed è norma che, contrariamente alla disposizione precedente, assegna un rilievo centrale all’evento del danno patrimoniale per l’ente di appartenenza, circoscrivendo l’ambito sanzionatorio alle sole condotte tenute dall’esponente della società depauperata per effetto dell’atto dispositivo. Al di là della rispettiva autonomia strutturale, neppure sarebbe prospettabile un rapporto di continenza tra la nuova norma incriminatrice e la fattispecie abrogata; e, quel che sarebbe di per sé dirimente già sul piano del raffronto strutturale, oltre che in rapporto al fatto concreto, il nuovo art. 2634 c.c. delinea un reato proprio degli amministratori, direttori generali e liquidatori della società disponente, qualifica che il Dell’Utri, all’epoca dei fatti per cui è stato condannato semplice dirigente Fininvest, non rivestiva. Dal punto di vista fattuale, inoltre, il prestito di cui ha usufruito il ricorrente risulta regolarmente contabilizzato e restituito nell’arco di un mese, senza che da ciò siano derivati alla società disponente quei danni economici la cui ricorrenza, sinanche sul piano dell’intenzionalità lesiva, costituisce ormai un requisito indispensabile per la configurazione del reato secondo le norme vigenti. In applicazione, quindi, dei principi di cui al combinato disposto degli artt. 25 Cost. e 2, comma 2 c.p., anche con riferimento a questa condanna non resta che riconoscere l’intervenuta abolitio criminis e procedere all’applicazione dell’art. 673 c.p.p., scomputando dalla pena inflitta al ricorrente l’aumento in continuazione già indicato, con riferimento alla fattispecie depenalizzata, in giorni ventotto di reclusione e lire 630.000 di multa nell’ordinanza della Corte d’Appello di Torino del 28 dicembre 1999, da ritenersi integralmente condivisa e trascritta sul punto. 6. Per effetto della revoca delle sentenze suesposte, la pena di cui si chiede la sospensione condizionale rientra nel limite legale di concedibilità del beneficio previsto dall’art. 163 d.P.R. Il Tribunale è infatti chiamato a decidere in merito alla pena risultante dalle componenti che seguono: a) anni uno, mesi otto e giorni uno di reclusione (di cui ventidue presofferti in custodia cautelare) inflitti con la sentenza n. 35999 pronunciata dalla Corte di cassazione il 28 ottobre 1999, così come rideterminata per effetto dei provvedimenti di revoca parziale pronunciati da questo Tribunale il 22 gennaio 2001 e in data odierna; b) mesi due e giorni tre di reclusione risultanti del ragguaglio, ai sensi dell’art. 135 c.p., della multa di lire 4.656.000 inflitta con sentenza predetta, all’esito sempre della detrazione della porzione di pena scomputata, per effetto dell’abolitio criminis, con la presente ordinanza; pari nel complesso, ad anni uno, mesi dieci e giorni quattro di reclusione. La domanda relativamente avanzata è, quindi, ammissibile: dovendosi ritenere che, per le ragioni di seguito illustrate, già esposte da questo giudice con ordinanza del 22 gennaio 2001 in sede di proposizione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 672 c.p.p.


— 1153 — e riprese, recentemente, da un revirement della Suprema Corte con la sentenza 22 maggio 2001, n. 20693 Micelli, è necessario discostarsi dal tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 673 c.p.p. non consentirebbe al giudice dell’esecuzione che ne sia richiesto di concedere la sospensione condizionale allorché, per effetto dell’abolitio criminis della conseguente rideterminazione, la pena residua rientri nei termini di concedibilità del beneficio. 7. Invero, la sospensione condizionale della pena è ‘‘istituto ordinariamente attinente al processo di cognizione’’; talché, ‘‘intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, trova attuazione la regola fondamentale dell’intangibilità del giudicato’’, cui ‘‘è possibile derogare soltanto nei casi eccezionalmente stabiliti da specifiche norme’’ (cf., per tutte, Cass., sez. III, 5 febbraio 1996, Vanacore e Cass., sez. VI, 7 maggio 1998, De Palma, rv. 210756). Muovendo da queste premesse, un orientamento della giurisprudenza di legittimità affermato dalla sentenza Cass., sez. III, 18 giugno-9 settembre 1996, n. 2672, Ciaramella, sostanzialmente condiviso dalla giurisprudenza di merito, ha derivato l’assunto secondo cui l’art. 673 c.p.p. non attribuirebbe al giudice dell’esecuzione la facoltà di concedere la sospensione condizionale della pena in seguito alla revoca, per abolitio criminis, delle condanne che in sede di cognizione avevano impedito l’applicazione del beneficio, neppure facendo ricorso ad un’applicazione analogica in bonam partem dell’art. 671 comma 3 c.p.p. Ciò in linea con il quadro giurisprudenziale (cfr. tra le altre Cass., sez. I, 16 maggio 1997, n. 2007; Cass., sez. III, 24 maggio 1996, n. 1884; Cass., sez. III, 5 marzo 1996, n. 528; Cass., sez. I, 22 gennaio 1994, n. 5027) che esclude la possibilità di estendere in via di interpretazione analogica la competenza ad incidere sul giudicato affidata al giudice dell’esecuzione: la cui indagine, in effetti, trova di regola il proprio limite nel controllo del titolo esecutivo e della legittimità della sua emissione (cfr., per tutte, la sentenza Cass., sez. I, 10 marzo 1992, n. 79, rv. 189603), secondo un principio incontroverso ribadito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 3 aprile 1996, n. 96, nella parte in cui statuisce che « gli interventi in executivis sulla pronuncia del giudice della cognizione costituiscono l’espressione di un potere eccezionalmente conferito dalla legge e, come tale, non suscettibile di applicazione analogica’’. In base all’interpretazione dell’art. 673 c.p.p. dedotta, i ‘‘provvedimenti conseguenti’’ che il giudice può assumere all’esito della revoca risultano essere solo quelli necessari ad inibire gli effetti sanzionatori derivanti dall’accertamento delle condotte che non sono più previste dalla legge come reato. Ricomprendono la nuova determinazione del cumulo della sanzione detentiva da scontare, mediante detrazione della pena subita per effetto della sentenza revocata da quella da scontare per altro reato (cfr. l’art. 657 comma 2 c.p.p.); l’eliminazione del casellario giudiziale delle iscrizioni relative alle condanne revocate (cfr. l’art. 687 comma 2 lett. a) c.p.p.); l’annotazione della revoca sull’originale della sentenza di condanna (cfr. l’art. 193 disp. att. c.p.p.). L’intervento del giudice dell’esecuzione non viene ammesso, invece, con riferimento agli aspetti del giudicato che prescindono dal profilo sanzionatorio, quali l’aspetto preclusivo (cfr. l’art. 649 c.p.p.) e quelli relativi all’efficacia extrapenale dell’accertamento (cfr. 651-654 c.p.p.); né riguardo le condanne inflitte per i capi della sentenza esclusi dalla dichiarazione di revoca, come quelle di cui viene chiesta, in questa sede, la sospensione condizionale, e di cui permarrebbe intatta l’efficacia penale. 8. A parere del Tribunale, è però evidente la discriminazione irragionevole della situazione in cui verrebbe a trovarsi la parte istante, per effetto della sin qui illustrata interpretazione dell’art. 673 c.p.p., in rapporto alla possibilità di chiedere la sospensione condizionale della pena riconosciuta invece a chi si trovi nelle condizioni previste dall’art. 671 comma 3 c.p.p., sol che si consideri la ratio di tale ultima disposizione normativa: individuata dalla giurisprudenza di legittimità nel consentire l’applicazione di ‘‘quella stessa sospensione se avesse conosciuto tutti i reati in un unico contesto simultaneo’’ (così Cass., sez. I, 5 maggio 1997; Cass., sez. I, 9 giugno 1997, Seghetti; Cass., sez. I, 21 maggio 1994, Rossetti). Il potere di sospendere condizionalmente la pena devoluto al giudice dell’esecuzione


— 1154 — dall’art. 671 comma 3 c.p.p. trova ragione, infatti, nella necessità di consentire al condannato di usufruire di un beneficio che in sede cognitiva non era stato applicato per ragioni meramente contingenti, dettate dall’impossibilità pratica di applicare il cumulo giuridico delle pene o di valutare unitariamente l’intero disegno criminoso: situazione legata ad uno svolgimento disgiunto dei processi che riflette, tra l’altro, la scelta precisa del codice di rito di privilegiare la separazione dei procedimenti e l’autonomia dei giudizi. Se così è, risulta evidente l’identità di ratio con la fattispecie dell’abolitio criminis che renda concedibile, dal giudice dell’esecuzione, una sospensione condizionale della pena precedentemente non concedibile dal giudice della cognizione. Rispetto all’ipotesi regolata dall’art. 671 c.p.p., l’unica differenza — del tutto ininfluente, ai fini che interessano — consiste nella natura del fatto nuovo che si rappresenta al giudice dell’esecuzione: nell’un caso costituito dalla riduzione di pena conseguente all’applicazione dell’art. 81 c.p., nell’altro dalla riduzione conseguente allo scorporo di una delle pene inflitte in continuazione ed alla revoca del relativo capo di sentenza. Per il resto, l’omogeneità delle due fattispecie è palese: non si vede, infatti, per quale motivo una persona condannata ad una pena superiore ai due anni di reclusione possa beneficiare, in sede esecutiva, della sospensione condizionale quando, in quella stessa sede, la pena venga ridotta in applicazione dell’art. 81 c.p.; e non, invece, quando la riduzione consegua ad una abolitio criminis che comporta il venire meno ex tunc di ogni effetto penale collegato alla fattispecie criminosa depenalizzata. Anzi: appare vieppiù irragionevole consentire la concessione della sospensione condizionale in dipendenza d’una causa di mera modificazione favorevole della pena dovuta all’esercizio di un potere discrezionale del giudice, ed escluderla invece in presenza di una situazione dagli effetti più intensi a favore del condannato qual è quella di abolitio, dovuta ad una scelta del legislatore. Sotto altro profilo, va inoltre considerato che anche il giudice dell’esecuzione è chiamato ad applicare il principio della retroattività piena e incondizionata dell’abolitio criminis dettato dall’art. 2 comma 2 c.p. Se, dunque, in forza di una legge posteriore un fatto non costituisce più reato, devono cessare l’esecuzione della relativa condanna e, con essa, ‘‘gli effetti penali’’: compreso l’effetto ostativo alla concessione del beneficio. Anche questa conclusione discende non da un generico favor rei, ma dallo stesso principio costituzionale di eguaglianza: non sarebbe ragionevole punire, o continuare a punire, un soggetto per un fatto che chiunque altro può impunemente commettere, nel momento stesso in cui il primo subisce la condanna o i suoi effetti: uno dei quali sarebbe quello della permanente ostatività alla concessione della sospensione condizionale della pena. 9. Il Tribunale considera quindi necessario, ai fini di una lettura dell’art. 673 c.p.p. costituzionalmente orientata, interpretare la norma nel senso di ritenere che il giudice dell’esecuzione abbia la facoltà di concedere la sospensione condizionale quando la rideterminazione della pena entro i termini di concedibilità del beneficio consegua, in fase esecutiva, all’abolitio criminis. In contrario, l’interpretazione risulterebbe non compatibile con il dettato costituzionale, e più specificamente: a) in relazione all’art. 3 della Costituzione in quanto, tenuto conto della possibilità di applicare in executivis il beneficio della sospensione condizionale in sede di applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, a norma dell’art. 671 comma 3 c.p.p., si prospetterebbe una violazione del canone di ragionevolezza quanto ai limiti di esercizio della discrezionalità del legislatore. Nonché, sotto il profilo della consequenziale rilevanza dei rispettivi parametri di costituzionalità: b) in relazione all’art. 25 comma 3 della Costituzione, perché la segnalata disparità di trattamento comporterebbe la persistenza dell’effetto penale ostativo alla pronuncia della sospensione condizionale in relazione ad una condanna inflitta per un fatto non più previsto dalla legge come reato;


— 1155 — c) in relazione all’art. 24 commi 1 e 2 della Costituzione, risultando inibito all’interessato il diritto di adire il giudice e di esercitare le correlative facoltà difensive, attesa l’impossibilità di tutelare concretamente quello stesso interesse ad ottenere la sospensione condizionale riconosciuto, invece, a chi si trovi nelle condizioni previste dall’art. 671 comma 3 c.p.p. d) in relazione all’art. 27 comma 3 della Costituzione, in quanto al giudice dell’esecuzione risulterebbe preclusa in tal modo la possibilità di concedere anche d’ufficio, in ragione della natura pubblicistica dell’istituto (così Cass., sez. III, 22 dicembre 1996), la sospensione condizionale ritenuta funzionale, in luogo della pena da porre in esecuzione, alla risocializzazione del condannato: finalità che può essere, invece, soddisfatta in sede di applicazione della disciplina del concorso formale o della continuazione del reato. In senso conforme va altresì rilevato, sotto il profilo sistematico, che l’esercizio del potere conseguente alla facoltà di modificare il titolo non costituisce, per il giudice dell’esecuzione, un fenomeno eccezionale; e si configura anzi, nell’attuale ordinamento processuale, alla stregua di un potere ordinario e normale, essendo il titolo esecutivo un fenomeno composto, frutto di attività congiunta tra cognizione ed esecuzione. È infatti questa la prospettiva in cui il giudice dell’esecuzione esercita istituzionalmente i compiti di controllo sulla validità e le modalità di realizzazione del titolo esecutivo; suffragata, sul piano ordinamentale, da una progressiva erosione della regola dell’intangibilità del giudicato, ispirata all’attuazione del principio del favor rei. Tale conclusione si desume, innanzi tutto, dall’iper-retroattività dell’abolitio criminis, contemplata dagli artt. 2 comma 2 c.p. e 30 ult. comma, della legge costituzionale n. 87/53, e dalla disciplina dell’art. 671 comma 3 c.p.p.; ma anche da tutte le ipotesi di ‘‘inesistenza’’ della sentenza, che elidono l’operatività del titolo esecutivo; dall’applicabilità della continuazione anche quando il reato già giudicato con sentenza definitiva sia quello meno grave — cfr., al proposito, le sentenze nn. 115/87 e 267/87 della Corte costituzionale e Cass. Sez. un., 21 gennaio 1986, Nicolini; dall’amnistia postgiudicato, applicabile anche al reato continuato previa ‘‘disintegrazione’’ del giudicato medesimo; dal parziale superamento previsto, in tema di condono edilizio, dalla l. 28 febbraio 1985, n. 87; dalla disciplina della revisione; dalla disciplina dell’art. 669 c.p.p.; dalla disciplina dell’annullamento della sentenza senza rinvio secondo la quale, nell’ipotesi di contraddizione tra una sentenza di condanna e una anteriore di cui all’art. 620 lett. h) c.p.p., si ordina l’esecuzione non della prima sentenza ma di quella che ha inflitto la condanna meno grave; per non parlare, su un piano più generale che tenga conto anche delle competenze della magistratura di sorveglianza, della disciplina della liberazione condizionale, spinta sino alla mitigazione dell’ergastolo; della disciplina della grazia; della legislazione penitenziaria in tema di misure alternative e della tematica delle misure di sicurezza, in ordine alle quali si è sempre parlato di ‘‘giudicato aperto’’. 10. La deduzione secondo cui la concessione della sospensione in sede esecutiva, in quanto eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica, andrebbe considerata nel solo caso espressamente previsto dall’art. 671 comma 3 c.p.p., sembra dunque nascondere una confusione di piani logici. Altro è infatti il potere discrezionale di riconoscere il concorso formale ed il reato continuato, altro quello di valutare la concessione della sospensione condizionale quale provvedimento conseguente ad una causa legale di riduzione della pena: come sembra essere ritenuto, implicitamente, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, laddove sostiene che anche nell’ipotesi di cui all’art. 671 comma 3 c.p.p. la concessione del beneficio non va considerato il frutto di un ‘‘potere discrezionale, ma automatica conseguenza del concorso formale o della continuazione’’ e cioè di cause legali di modificazione della pena (cfr. Cass., sez. III, 18 giugno-9 settembre 1996, n. 2672, cit.). Se per espressa previsione normativa la facoltà di concedere la sopensione condizionale consegue a ragioni evidenti di congruità, per effetto di una modifica del titolo esecutivo realizzata dal giudice discrezionalmente ed in seguito alla rideterminazione della pena in bona partem ai sensi dell’art. 81 c.p.p., non si vede perché in presenza della causa estintiva per eccellenza della rilevanza penale di un fatto, di applicazione necessaria, non debba essere rico-


— 1156 — nosciuta, a fortiori, la stessa possibilità: da derivare non dal contenuto dei poteri esercitati dal giudice in sede esecutiva, ma dall’effetto legale del loro esercizio e dalla riduzione della pena così realizzata. Una volta ammessa la modifica del titolo esecutivo, si realizzano infatti condizioni in precedenza non valutabili ma del tutto ‘‘equipollenti’’ (così Cass., sez. VI, 7 maggio 1998, De Palma, cit.) a quelle realizzabili normalmente nella fase cognitiva. Così orientata, la questione ermeneutica trova un preciso ed ulteriore riscontro nella stessa lettera dell’art. 673 c.p.p. e, in particolare, nella clausola secondo cui in seguito alla revoca parziale della sentenza il giudice dell’esecuzione adotta i ‘‘provvedimenti conseguenti’’: da interpretare, evidentemente, nel senso che vi è ricompresa la possibilità di pronunciare il provvedimento di sospensione condizionale qualora, per effetto della rideterminazione della pena, sopravvengano i relativi presupposti. Tale lettura della norma, come si è visto, risulta coerente con il sistema e scevra da anomalie anche sotto il profilo dell’intervento sulla pronuncia del giudice di cognizione; si pone nel solco dell’orientamento della Consulta secondo cui ‘‘il principio dell’intangibilità del giudicato dev’essere rettamente inteso’’ ed ‘‘è proprio l’ordinamento stesso che è tutto decisamente orientato a non tenere conto del giudicato, e quindi a non mitizzarne l’intangibilità ogniqualvolta dal giudicato resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino’’ (cfr. Corte cost., sentenza n. 115/1987); e discende dall’adozione di un criterio ermeneutico che, in conclusione, neppure sembra confliggere con le premesse poste dalla giurisprudenza tradizionale a fondamento dell’avversa opinione, in quanto: prescinde dalle applicazioni analogiche in bonam partem dell’art. 671 comma 3 c.p.p. escluse sia dalla giurisprudenza di legittimità, sia dalla Corte costituzionale nella sentenza 3 aprile 1996, n. 96 ma che non costituiscono il riferimento interpretativo cui ricondurre la fattispecie in discorso; non pone in discussione il principio dell’ordinaria attinenza dell’istituto della sospensione condizionale della pena al processo di cognizione, vertendosi in ipotesi di una deroga da ricondurre specificamente alla lettera dell’art. 673 c.p.p., nel punto in cui contempla i ‘‘provvedimenti conseguenti’’ alla revoca della sentenza per abolizione del reato; è conforme all’insegnamento secondo cui l’abolitio criminis relativa ad alcune delle imputazioni elevate concerne solamente i correlativi capi della sentenza di condanna, senza determinare alcun effetto risolutivo della decisione complessivamente intesa; e muove, innanzi tutto, da un’interpretazione costituzionalmente necessaria in quanto, in caso di abrogazione della fattispecie incriminatrice e, quindi, di determinazione di una causa legale di riduzione della pena nei limiti di applicabilità della sospensione condizionale, occorre riconoscere al giudice dell’esecuzione quei medesimi poteri che l’ordinamento conferisce espressamente nella situazione, del tutto analoga, originata dall’applicazione discrezionale dell’art. 81 c.p. fattispecie che, avuto riguardo al canone di ragionevolezza, si rapporta a quella altrimenti discriminata non solo in termini di equipollenza ma rappresentando, in confronto, addirittura un munus in qualità di presupposto per la concessione del beneficio. 11. Stabilita, alla stregua di tutte le considerazioni che precedono, l’ammissibilità della domanda, resta da valutare, nel merito, la meritevolezza soggettiva della sospensione condizionale della pena da parte del ricorrente. Un giudizio complessivo sulla personalità deve tenere conto di elementi quali le condotte di vita antecedenti e successive alla consumazione del reato; le reltive motivazioni delittuose e, in termini dinamici, la loro perdurante attualità o superamento; la collocazione sociale, le condizioni di lavoro e familiari del condannato; e, in genere, di qualsiasi parametro utile alla formulazione di un giudizio prognostico sull’eventualità che l’interessato si astenga, in futuro, dal commettere ulteriori reati. Marcello Dell’Utri risulta essere, a questo proposito, persona gravata solamente dai precedenti penali che ne occupano; pienamente inserita sul piano sociale ed economico; la cui attività lavorativa non riveste significato ai fini specialpreventivi, essendosi egli dimesso da circa un decennio dalle cariche societarie cui si riferiscono le condotte oggetto di condanna; e che svolge attualmente tutt’altra attività di natura politica, in quanto parlamentare italiano ed europeo.


— 1157 — I parametri di valutazione enunciati concorrono a definire il quadro soggettivo di una mancanza di pericolosità, attuale e proiettabile nel futuro. Tale prognosi di ravvedimento non si può ritenere capovolta per effetto dei carichi pendenti invero per reati anche gravi, iscritti al casellario giudiziale: in ragione dell’intrinseca precarietà di queste risultanze e della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, che va riconosciuta a chiunque ed a maggior ragione al ricorrente, che non ha riportato al proposito neppure una condanna in primo grado né, a quanto consta, è stato colpito da provvedimenti cautelari di natura custodiale assistiti da quei gravi indizi di colpevolezza che, ai sensi dell’art. 273 c.p.p., legittimano l’adozione della misura dovendosi inoltre considerare che nell’eventualità di condanne definitive, allo stato non pronosticabili, gli interessi della giustizia risulterebbero comunque garantiti dalla revoca del beneficio, ai sensi dell’art. 168 c.p. L’istanza di sospensione condizionale della pena può essere, quindi, accolta. — Omissis.



DOTTRINA

IL GIUSTO PROCESSO E I RITI SPECIALI DEFLATIVI DEL DIBATTIMENTO (*)

SOMMARIO: 1. I riti deflativi e i princìpi del dibattimento. — 2. Segue. — 3. Il patteggiamento e l’accertamento di responsabilità. — 4. La tesi del ‘‘fatto pacifico’’. — 5. Necessità di un accertamento di responsabilità. — 6. Segue. — 7. Affinità con il decreto penale di condanna. — 8. Il patteggiamento e la concessione di attenuanti. — 9. Il patteggiamento e la revisione. — 10. Modifiche normative comprovanti la necessità di un accertamento di responsabilità. — 11. Il patteggiamento e il principio di legalità della pena. — 12. Il patteggiamento e il giusto processo. — 13. Il giudizio abbreviato. — 14. Problemi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 25 comma 1 Cost. e 25 comma 2 Cost. — 15. Problemi di legittimità costituzionale posti dalla l. n. 479/1999. — 16. Il giudizio abbreviato e l’art. 111 comma 4 Cost. — 17. Necessità di revisione del sistema delle impugnazioni.

1. In questa mia relazione mi limiterò a valutare i rapporti tra i princìpi del giusto processo e due soli procedimenti speciali il c.d. patteggiamento ed il giudizio abbreviato, vale a dire i due riti deflativi del dibattimento più significativi. Questi due procedimenti speciali hanno indubbiamente natura inquisitoria poiché si basano (a meno che non vi siano stati incidenti probatori) sulle indagini preliminari e, cioè, su elementi di prova e non su prove e, quindi, senza alcuna attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Si pone, quindi, il problema, su cui ci soffermeremo, se il giusto processo sia garantito dal fatto che l’imputato, rinunciando al contraddittorio nel momento di formazione della prova, chiede di essere giudicato alla stregua delle indagini preliminari. Ciò premesso, non v’è dubbio che questi due riti deflativi del dibattimento siano stati introdotti dal codice vigente nel nostro sistema processuale proprio con la finalità di rendere possibile, nei processi che giungono alla fase dibattimentale, l’attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova. Ci si è resi conto che in tanto sarebbe stato realizzabile il contraddittorio predetto, il quale inevitabilmente com(*) Il presente scritto costituisce il testo della Relazione tenuta al Convegno su ‘‘Il giusto processo’’ organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei a Roma nei giorni 28-29 marzo 2002.


— 1160 — porta una istruttoria dibattimentale dai tempi molto più lunghi, in quanto il numero dei dibattimenti risultasse limitato a quei processi in cui apparisse veramente significativo il contraddittorio. In altri termini, si è giustamente pensato che l’attuazione dei princìpi del processo accusatorio rendeva indispensabile una drastica riduzione del numero dei dibattimenti. Orbene, i due riti deflativi in parola hanno avuto, contrariamente a quanto spesso si sostiene, una ampia attuazione. Cionondimeno, la finalità per cui sono stati introdotti e, cioè, evitare che la prassi giudiziaria vanificasse i princìpi del giusto processo non è stata raggiunta. Infatti, è sufficiente esaminare uno per uno i princìpi del dibattimento, che dovrebbero costituire il pilastro fondamentale di un processo accusatorio, per constatare la loro disapplicazione. Il principio di continuità del dibattimento è di estrema importanza poiché garantisce che il giudice al momento della decisione abbia presente l’assunzione delle prove che si è svolta avanti a lui e, quindi, consente l’attuazione della ratio del principio di immediatezza nonché della ratio del principio di oralità come modalità di assunzione della prova e del principio del contraddittorio nella formazione della prova. Non v’è dubbio che il principio di continuità del dibattimento non trovi e non abbia mai trovato attuazione: la violazione dell’art. 477 comma 2 c.p.p., per cui ‘‘il giudice può sospendere il dibattimento soltanto per ragioni di assoluta necessità e per un termine massimo che, computate tutte le dilazioni, non oltrepassi i dieci giorni esclusi i festivi’’ è la regola e non l’eccezione. Il rinvio a una udienza fissata a distanza di mesi benché vietato dalla legge è una prassi giudiziaria costante, abituale e spesso, non sempre, indispensabile per l’amministrazione della giustizia. Ne segue che, al momento della discussione e della decisione, ci si basa sui testi trascritti delle dichiarazioni rese dai testimoni e dagli imputati, senza che nessuno ricordi e possa ricordare le modalità delle deposizioni, modalità indispensabili per la valutazione della credibilità. La mancata attuazione della continuità riduce l’importanza e gli effetti della immediatezza, della oralità e del contraddittorio. Il principio di immediatezza è stato in gran parte vanificato dalla amplissima possibilità di effettuare incidenti probatori con la conseguenza che il giudice del dibattimento deciderà sulla base di prove che non ha assunto, in palese contrasto con la ratio del principio in esame. L’incidente probatorio, che nella versione originaria del codice era un istituto eccezionale limitato alle prove non rinviabili al dibattimento (sede naturale per l’assunzione delle prove), è sempre consentito, in virtù delle modifiche apportate all’art. 392 c.p.p. dalla l. 7 agosto 1997 n. 267, quando si tratti di esaminare persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri nonché quando si tratti di esaminare persone imputate o indagate in un procedimento connesso o collegato. Inoltre, in virtù della


— 1161 — sentenza della Corte costituzionale n. 77/1994, gli incidenti probatori previsti dall’art. 392 c.p.p. possono essere richiesti ed eseguiti anche nella fase della udienza preliminare. Infine, la legge 7 dicembre 2000 n. 397 sulle indagini difensive ha ulteriormente ampliato la possibilità di effettuare incidenti probatori. Infatti, l’art. 391-bis comma 2 c.p.p. permette al difensore di conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa e di acquisire le notizie attraverso un colloquio non documentato mentre l’art. 391-bis comma 2 c.p.p. prevede che il sostituto o il difensore possano chiedere alle persone in grado di riferire circostanze utili, di rendere le informazioni da documentare secondo le modalità previste dall’art. 391-ter c.p.p. La persona contattata ed avvisata secondo le modalità indicate dal comma 3 dell’art. 391-bis può esercitare la facoltà di non rispondere o di non rendere dichiarazioni. In tal caso, al difensore è consentito, ai sensi dell’art. 391-bis comma 10 c.p.p., di richiedere al pubblico ministero di disporne l’audizione, che deve essere fissata entro sette giorni dalla richiesta (disposizione non applicabile nei confronti delle persone sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento e nei confronti delle persone sottoposte ad indagini o imputate in un diverso procedimento nelle ipotesi previste dall’art. 210 c.p.p.). Il comma 11 dell’art. 391-bis c.p.p. dispone, poi, che, in alternativa all’audizione sopra menzionata, il difensore può chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza o all’esame della persona, che abbia esercitato la facoltà di cui alla lettera d) del comma 3. Tale richiesta di incidente probatorio può essere effettuata ‘‘anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 392, comma 1’’. Questa possibilità amplia, come si è detto, in maniera notevolissima gli incidenti probatori e crea una disparità di regolamentazione, rispetto alle richieste consentite al pubblico ministero, difficilmente giustificabile. Infatti, mentre il pubblico ministero può chiedere, ai sensi dell’art. 392 lett. a) e b) c.p.p., l’incidente probatorio per l’assunzione di una testimonianza soltanto quando sussistano le situazioni eccezionali indicate nelle lettere a) e b) — vale a dire quando vi sia fondato motivo di ritenere che la persona non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o per altro grave impedimento oppure quando, sulla base di elementi concreti e specifici, vi sia fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso — il difensore può chiedere l’incidente probatorio per l’assunzione di testimonianze senza alcun limite. Siffatta disparità di trattamento non si giustifica e non varrebbe obbiettare che, se la persona in grado di riferire circostanze utili per le indagini difensive eserciti la facoltà di non rispondere, il difensore deve essere messo in condizioni di poter acquisire le circostanze predette, dal momento che tale possibilità viene assicurata dalla richiesta di audizione davanti al pub-


— 1162 — blico ministero. Di conseguenza, il fatto che il difensore possa chiedere senza limiti l’assunzione di testimonianze, ancorché rinviabili al dibattimento, oltre a creare giustificate preoccupazioni per l’economia processuale, induce a ravvisare un vizio di legittimità in relazione all’art. 3 Cost. e, quindi, al principio di eguaglianza inteso come principio di ragionevolezza, dal momento che situazioni omogenee comportano regolamentazioni legislative omogenee e non vi è alcuna ragione per consentire al difensore la richiesta di incidenti probatori in casi in cui è vietata al pubblico ministero. Inoltre, la richiesta di incidente probatorio integra una attuazione del diritto alla prova e si pone, pertanto, il quesito dei poteri del giudice delle indagini preliminari in ordine alla valutazione di detta richiesta. In altri termini, sulla base di quali criteri potrà il giudice delle indagini preliminari respingere la richiesta in parola? La legge sulle indagini difensive nulla stabilisce al riguardo e, di conseguenza, i criteri non possono che essere quelli menzionati nell’art. 190 c.p.p., per cui il giudice deve ammettere tutte le prove richieste, escludendo soltanto quelle vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue e irrilevanti. Questa amplissima possibilità di effettuare incidenti probatori fa sì che si possa avere una sentenza dibattimentale emanata unicamente sulla base di prove assunte in incidenti probatori, cioè di prove non assunte dal giudice del dibattimento con totale vanificazione del principio di immediatezza. 2. Il principio di pubblicità del dibattimento, che comporta il controllo del popolo sulla amministrazione della giustizia, è stato vanificato dalla l. n. 479/1999, che rendendo obbligatorio il giudizio abbreviato richiesto incondizionatamente dall’imputato, fa sì che i processi si svolgano in dibattimento e, quindi, pubblicamente oppure senza pubblicità in camera di consiglio (come avviene per il giudizio abbreviato) per scelta dell’imputato. Pertanto, anche i processi più gravi, e, cioè, quelli per reati puniti con la pena dell’ergastolo, possono svolgersi e concludersi per volontà dell’imputato senza alcuna attuazione della pubblicità. Il principio dispositivo, per cui si assumono come regola soltanto le prove di cui le parti chiedono l’assunzione, è stato in gran parte vanificato dall’interpretazione dell’art. 507 c.p.p. avallata dalla sentenza delle Sezioni unite 6 novembre 1992 nonché dalla sentenza della Corte costituzionale n. 111 del 1993, in base alla quale il giudice ha il potere di assumere nuovi mezzi di prova in ogni caso di assoluta necessità e, cioè, anche quando la necessità stessa sia stata determinata da una carenza parziale o totale nell’attività di una o di entrambe le parti, che non hanno provveduto, pur potendolo, alla richiesta di assunzione delle prove. L’amplissimo potere attribuito al giudice da questa interpretazione dell’art. 507 c.p.p. fa sì che il giudice eserciti una funzione di supplenza dell’accusa e della di-


— 1163 — fesa in ordine alla richiesta di assunzione delle prove rispettivamente formulata dal pubblico ministero e dal difensore dell’imputato, supplenza idonea a vanificare il principio dispositivo. Va, poi, rilevato che, anche se ciò può in astratto conciliarsi con una posizione di terzietà del giudice, deve riconoscersi come l’amplissima possibilità di assumere prove d’ufficio attribuita al giudice del dibattimento e la conseguente menomazione del principio dispositivo, per cui le prove dovrebbero essere assunte soltanto su richiesta di parte, di fatto non può non comportare, altresì, una menomazione della posizione di imparzialità del giudice, il cui atteggiamento psicologico nel corso della istruzione dibattimentale muta e non può non mutare ove il giudice sappia che è chiamato a colmare le lacune dell’istruzione dibattimentale conseguenti ad una lacunosa attuazione dell’iniziativa probatoria delle parti. La posizione di terzietà non può non essere scalfita allorquando si richieda al giudice di supplire alla carente attività della parte accusa o della parte difesa. Ed è molto significativo il fatto che, nella prassi giudiziaria, in palese violazione dell’art. 190 comma 1 c.p.p. (per cui il giudice ha il dovere di ammettere le prove richieste dalle parti a meno che non siano manifestamente superflue o irrilevanti), il giudice spesso non decida subito (come prescrive l’art. 495 c.p.p.) sulla richiesta di prove obbiettivamente importanti, ma riservi tale decisione alla fine dell’istruzione dibattimentale, vale a dire in un momento in cui può d’ufficio disporre l’assunzione delle prove ex art. 507 c.p.p. È il comportamento non del soggetto terzo che agisce in extremis in conseguenza dell’inerzia delle parti, bensì il comportamento di chi ritiene di poter autonomamente investigare. Il principio dell’oralità come modalità dell’assunzione della prova e quello del contraddittorio nella formazione della prova vengono grandemente ridimensionati dalla possibilità della lettura di indagini preliminari del pubblico ministero nonché di indagini preliminari del difensore dell’indagato o del difensore della persona offesa. Infatti, è pur vero che, in seguito alle modifiche apportate dalla l. 1o marzo 2001 n. 63 sul giusto processo, le contestazioni effettuate ai sensi dell’art. 500 c.p.p. nel corso dell’esame testimoniale, sulla base delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, servono unicamente per valutare la credibilità del teste e, quindi, i verbali di tali dichiarazioni non possono più, senza il consenso delle parti, essere utilizzati come prove; cionondimeno è altrettanto vero che la possibilità di effettuare numerosissime contestazioni mediante la lettura di dichiarazioni rese al pubblico ministero nonché ai difensori degli indagati e delle persone offese nel corso delle indagini difensive snatura l’attuazione del contraddittorio effettuato in sede dibattimentale. Non si dimentichi che al teste che risponde in sede di esame incrociato dibattimentale, possono essere contestate dalla parte accusa e dalle parti difesa le risposte rese, in sede di indagini preliminari del pubblico ministero o di


— 1164 — indagini difensive degli indagati o delle persone offese, a domande spiccatamente suggestive e sempre consentite in sede di indagini preliminari. La divergenza tra le dichiarazioni in precedenza rese e quelle effettuate in dibattimento sminuisce l’importanza della dichiarazione dibattimentale e fa sì che il giudice dibattimentale sia inevitabilmente portato a ritenere più credibili le dichiarazioni rilasciate in data più prossima al reato con conseguente menomazione di quell’oralità e di quel contraddittorio nel momento di formazione della prova che con la legge sul giusto processo si è voluto potenziare. In altri termini, nonostante si sia data con la legge sul giusto processo una più ampia attuazione all’oralità e al contraddittorio nel momento di formazione della prova non si può non constatare che le amplissime indagini preliminari del pubblico ministero, a cui si aggiungono quelle dei difensori degli indagati e quelle dei difensori delle persone offese, renderanno possibili numerosissime contestazioni facilitate anche dal fatto che, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero ed i difensori sono legittimati ad effettuare, come si è già detto, domande suggestive e, quindi, sia per questa ragione sia per la lunghezza dei tempi processuali, divergenze tra le dichiarazioni saranno inevitabili e, pertanto, sia pure ai fini della credibilità del teste, il contraddittorio per la prova effettuato in sede dibattimentale sarà notevolmente condizionato dalle indagini del pubblico ministero e dei difensori. Di fatto, l’istruzione dibattimentale potrà essere preceduta da altre tre istruzioni (quella del pubblico ministero, quella del difensore dell’indagato e quella del difensore della persona offesa) sia pure con valore probatorio limitato, sempre che non sia applicabile l’art. 512 c.p.p., che attribuisce pieno valore di prova alle indagini preliminari nel caso di irripetibilità sopravvenuta. V’è di più: occorre chiedersi se il fondamentale principio sancito dall’art. 111 comma 4 Cost., per cui ‘‘il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova’’ sia conciliabile con altri istituti del processo penale. Invero, se contraddittorio come connotazione della giurisdizione significa contraddittorio espletato da tutte le parti del processo penale davanti ad un giudice terzo chiamato a decidere, il quale assiste, al fine di un corretto esercizio della giurisdizione, all’assunzione della prova, nascono dubbi sulla conformità dell’incidente probatorio al contraddittorio così inteso. L’ampliamento degli incidenti probatori è stato effettuato proprio per compensare la riduzione delle letture dei verbali delle indagini preliminari nel dibattimento. La ratio di questo ampliamento, stante l’impossibilità di giungere rapidamente alla fase dibattimentale, sede naturale dell’assunzione della prova, è quella per cui, nella scelta tra il sacrificio del contraddittorio nel momento di formazione della prova mediante la lettura dei verbali delle indagini preliminari ed il sacrificio dell’immediatezza mediante l’assunzione della prova da un giudice diverso da quello che deve


— 1165 — decidere (come avviene nel caso di incidenti probatori), si è ritenuto più accettabile sacrificare l’immediatezza. Il che può anche essere ragionevole a patto che ci si renda conto che senza immediatezza il contraddittorio risulta menomato. In primo luogo, un contraddittorio efficace presuppone una completa conoscenza degli elementi di prova, che non tutte le parti hanno negli incidenti probatori effettuati nel corso delle indagini preliminari. Ma, soprattutto, la presenza del giudice terzo chiamato a decidere appare indispensabile per una corretta attuazione del contraddittorio inteso come ‘‘statuto epistemologico’’ della giurisdizione. Infatti, il contraddittorio nell’assunzione della prova è fondamentale essenzialmente per le prove narrative, che non sono più le prove di maggior importanza del processo (basti pensare all’importanza che hanno assunto i tabulati telefonici, le video registrazioni, il DNA). Orbene, per le prove narrative non hanno rilievo soltanto le dichiarazioni conseguenti all’esame incrociato ma anche le modalità delle dichiarazioni costituenti, come efficacemente è stato detto, ‘‘una sorta di linguaggio secondario, di crittogramma, utile all’osservatore per interpretare e, talora, per smentire quello principale’’, ragion per cui ‘‘il giudice deve osservare attentamente’’ le reazioni di chi rilascia le dichiarazioni dal momento che i ‘‘c.d. tratti prosodici del discorso (tono della voce, atteggiamento psicofisico)’’ sono ‘‘spesso meno padroneggiabili delle espressioni verbali di chi mente’’ (Ferrua). Un ‘‘sì’’ pronunciato con sicurezza, senza alcuna esitazione ha una pregnanza diversa di un ‘‘sì’’ pronunciato dopo una lunga pausa e con evidente imbarazzo. Il giudice del dibattimento che legge le trascrizioni delle dichiarazioni rese nell’incidente probatorio è nell’impossibilità di valutare sia l’imbarazzo sia l’esitazione. Se tutto ciò è esatto (e indubbiamente lo è) il giudice chiamato a decidere sulla base di prove assunte in incidenti probatori e, quindi, impossibilitato a valutare le modalità delle dichiarazioni stesse, viene privato di un contraddittorio pieno indispensabile per un corretto esercizio della funzione giurisdizionale. Nella valutazione della prova il giudice non può prescindere dalla regola di esperienza intesa come regola di giudizio e la regola di esperienza lo porta a ritenere inattendibile una dichiarazione narrativa (che dal punto di vista lessicale appare chiara e coerente) in quanto rilasciata dopo lunga esitazione, in stato di evidente imbarazzo e disagio e con un tono di voce quasi impercettibile. Pertanto, nella motivazione della sentenza il giudice può giustificare l’inattendibilità della prova narrativa, facendo appunto uso della regola d’esperienza rapportata alle modalità della dichiarazione. Tutto ciò risulta precluso se il contraddittorio per la prova viene espletato, come avviene nell’incidente probatorio, davanti ad un giudice diverso da quello chiamato a decidere. Ciò dimostra che l’ampia attuazione degli incidenti probatori non solo vanifica il principio di immediatezza ma riduce in modo considerevole la portata del contraddittorio nella formazione della prova.


— 1166 — Il principio di non regressione, per cui una volta giunti validamente ad una fase processuale non si può regredire alla fase precedente, per quanto concerne l’udienza preliminare è formalmente rispettato (in quanto non si ritorna alla fase delle indagini preliminari) ma sostanzialmente vanificato da una ripresa delle indagini del pubblico ministero in caso di applicazione dell’art. 421-bis comma 1 c.p.p., per cui il giudice dell’udienza preliminare, ‘‘se le indagini preliminari sono incomplete, indica le ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare’’: termine che non ha previsioni di durata. Il principio della correlazione tra accusa e sentenza è sostanzialmente sminuito nella sua importanza da quell’orientamento giurisprudenziale, a nostro avviso errato, che ammette la contestazione alternativa, il che renderebbe possibile la contestazione di una pluralità di reati diversi, oppure, con riferimento ad una diversa fattispecie criminosa, renderebbe possibile una contestazione alternativa di diverse modalità concernenti l’esecuzione dello stesso reato. Ne seguirebbe la pratica inefficacia di quella fondamentale garanzia che l’art. 521 comma 2 c.p.p., con il prevedere la correlazione tra accusa e sentenza, stabilisce: basterebbe, invero, che il fatto emerso al dibattimento fosse conforme ad una qualunque delle ipotesi formulate nell’atto contenente l’imputazione contestata all’imputato per ritenere sussistente la correlazione tra accusa e sentenza. Inoltre, risulterebbe impossibile esercitare il diritto alla prova chiedendo l’assunzione di prove da assumere in dibattimento se, mediante la contestazione alternativa, si offrisse all’imputato non una ipotesi di accusa ma una pluralità di ipotesi e, comunque, si rischierebbe di provocare un dibattimento dai tempi interminabili poiché, con riferimento ad ogni ipotesi di accusa, l’imputato avrebbe diritto a richiedere l’assunzione delle prove. 3. Le considerazioni sopra esposte dimostrano che le finalità che si volevano raggiungere mediante la previsione del patteggiamento e del giudizio abbreviato sono state frustrate anche se bisogna riconoscere che, in assenza di questi riti, le conseguenze sarebbero state ancor più gravi. Si tratta ora di vedere se questi riti deflativi del dibattimento appaiano in contrasto con i princìpi del giusto processo o quantomeno rispetto agli stessi presentino gravi anomalie. Per quanto concerne il c.d. patteggiamento, siffatto giudizio speciale risulterebbe palesemente contrastante con tali princìpi, ove si accedesse alla tesi secondo cui il patteggiamento non comporterebbe accertamento di responsabilità. Abbiamo avuto più volte in precedenti pubblicazioni occasione di criticare la tesi predetta e qui non possiamo che ripetere le argomentazioni in passato enunciate. La Suprema Corte (v. Sez. un. 28 maggio 1997 e Sez. un. 25 marzo 1998) con l’asserire che il patteggiamento non comporti alcun ac-


— 1167 — certamento di responsabilità fa propria l’asserzione contenuta nella Relazione al progetto preliminare del codice, nella quale si afferma testualmente: ‘‘in conclusione, il compito del giudice è di accertare, sulla base degli atti, se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se è esatto il quadro (qualificazione giuridica, circostanze e comparazione) nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della responsabilità’’. In tal modo, non ci si pone neppure il problema se la richiesta di patteggiamento da parte dell’indagato o il suo consenso alla richiesta del pubblico ministero equivalga alla rinuncia a quell’aspetto del diritto di difesa integrato dal contraddittorio nel momento di formazione della prova, rinunzia che attribuisce dignità di prova alle indagini preliminari, che, di per sé, hanno il valore di elementi di prova. Infatti, ratificando l’accordo relativo alla pena patteggiata, il giudice prescinde, secondo le Sez. un., dalla valutazione delle indagini preliminari, posto che non gli è demandato alcun accertamento. In quest’ordine di idee, il patteggiamento può essere effettuato ancorché non sia stata compiuta alcuna indagine preliminare oppure le attività di indagine preliminare compiute siano del tutto irrilevanti sotto il profilo probatorio. Ciò significa che la sentenza di patteggiamento, posto che ratifica un accordo senza compiere alcun accertamento, può essere emanata subito dopo la notitia criminis e l’iscrizione nel registro degli indagati in assenza di indagini preliminari. Questa conclusione, come più volte abbiamo sostenuto, risulta costituzionalmente illegittima sotto un triplice profilo e, cioè, in relazione all’art. 13 comma 1 Cost., in relazione all’art. 27 comma 2 Cost. e, infine, in relazione all’art. 111 comma 1 Cost. Sotto il primo profilo, infatti, se si interpreta l’art. 13 comma 1 Cost. (la libertà personale è inviolabile) nel senso che l’inviolabilità comporta l’indisponibilità della libertà stessa, ne segue che contrasterebbe con siffatta indisponibilità la sentenza che applicasse una pena patteggiata (magari a due anni di reclusione senza sospensione condizionale della pena) in assenza di un accertamento di responsabilità. In tal caso, la limitazione della libertà personale risulterebbe disponibile in quanto conseguente ad una dichiarazione di volontà dell’imputato senza alcuna dimostrazione della sua responsabilità. Sotto il secondo profilo, posto che l’art. 27 comma 2 Cost. (‘‘l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva’’) stabilisce una regola di giudizio in virtù della quale il giudice ha il dovere di considerare non colpevole l’imputato sino a quando non vi sia una condanna definitiva intesa come accertamento definitivo di responsabilità, ne segue che contrasta con l’art. 27 comma 2 Cost. una disposizione che, consenta l’applicazione di una pena ad un soggetto, senza prove della sua responsabilità penale. Sotto il terzo profilo, poi, la carenza di accertamento giudiziale comporta e non può non comportare una violazione dell’art. 111 comma 6 Cost. (‘‘tutti i


— 1168 — provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati’’), dal momento che motivare significa, nel caso di sentenza di condanna, esplicitare le argomentazioni utilizzate per arrivare all’affermazione della sussistenza del fatto e della responsabilità dell’imputato con l’indicazione delle prove poste a fondamento della decisione. La Corte costituzionale con la sentenza n. 313/1990 si è pronunciata sulle due prime eccezioni di legittimità costituzionale e le ha respinte. In detta sentenza la Corte costituzionale ha asserito come non possa essere ‘‘assolutamente condivisa’’ l’idea che ‘‘nel c.d. patteggiamento l’imputato ‘disponga’ della sua ‘indisponibile’ libertà personale’’. Ciò è esatto ma a condizione che si ritenga necessario anche per il patteggiamento un accertamento di responsabilità, poiché una disponibilità della libertà personale da parte dell’imputato appare obbiettivamente ravvisabile ove si ritenga che il mero accordo tra pubblico ministero ed imputato, anche in assenza di qualunque elemento probatorio, giustifichi la condanna. La mancanza di tale ipotizzato accertamento fa nascere, appunto, il problema di un eventuale contrasto con la ‘‘inviolabilità’’ della libertà personale imposta dal dettato costituzionale, sempreché si intenda siffatta locuzione come comprensiva della ‘‘indisponibilità’’ della libertà stessa. Non persuasiva appare l’asserzione della Corte costituzionale, secondo cui l’imputato non ‘‘dispone’’ della sua ‘‘indisponibile’’ libertà personale per autolimitarla poiché la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato avrebbe la finalità di ‘‘ridurre al minimo quel maggior sacrificio della sua libertà, che egli prevede all’esito del giudizio ordinario’’. A prescindere dal rilievo che, in assenza di un accertamento di responsabilità, non c’è modo di verificare l’intenzione dell’imputato, che potrebbe essere quella di addossarsi una condanna immeritata per salvare un prossimo congiunto (in tal modo, quindi, ‘disponendo’ della sua libertà ‘indisponibile’), non v’è dubbio che, senza accertamento di responsabilità, il patteggiamento conseguirebbe ad un accordo delle parti, su cui si esercita un limitato controllo del giudice nei rigorosi limiti indicati dalla legge, così consentendo di fatto l’esercizio di un potere dispositivo relativamente alla libertà personale. La Corte costituzionale ha, altresì, osservato che non appare chiara la ragione per cui è stato prospettato un contrasto con la presunzione di innocenza enunciata nell’art. 27 comma 2 Cost. Tale ragione si evidenzia subito se il dubbio predetto di legittimità costituzionale venga ricollegato alla tesi della non necessità di un positivo accertamento della responsabilità penale, la quale sembra contrastare con la regola di giudizio normativizzata, per cui l’imputato è considerato innocente sino a quando una sentenza definitiva consacri l’accertamento probatorio della sua responsabilità. Infatti, detta regola sta a significare che deve sempre provarsi la responsabilità dell’imputato mentre l’innocenza va dichiarata anche in man-


— 1169 — canza di prove. Ciò comporta che un minimum di prove di responsabilità idonee a costituire un accertamento sufficiente a giustificare una condanna è imposto dalla presunzione di innocenza e che una normativa, la quale consenta una condanna senza accertamento di responsabilità, contrasta con l’art. 27 comma 2 Cost. Non v’è dubbio che la regola di giudizio concretatasi nella presunzione di innocenza ed in virtù della quale l’imputato va considerato innocente sino a quando ne sia provata la responsabilità non precisi né l’entità della prova né il momento in cui la prova stessa può ritenersi integrata. Orbene, come giustamente si è rilevato, ciò comporta delle ‘‘variabili che possono disporsi in modo da annullare completamente, di fatto, la presunzione di innocenza, senza che con questa la si debba immaginare trasformata nel suo opposto’’ (Illuminati). Il fatto che la Costituzione consenta delle variabili in ordine al legame tra pena e prova della colpevolezza sta a significare che non risulta costituzionalmente illegittimo un accertamento incompleto ma non significa e non può non significare che sia consentita una condanna senza accertamento di responsabilità. Invero, per respingere le eccezioni proposte, la Corte costituzionale ha asserito come valga per la pronunzia che applichi la pena patteggiata ‘‘il modello generale di sentenza di cui all’art. 546 c.p.p. e le prescrizioni della lettera e) del primo comma, dove si esige che il giudice indichi le prove che intende porre a base della sua decisione ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie’’. Da ciò si evince, soggiunge la Corte costituzionale, che, ‘‘anche la decisione di cui all’art. 444 c.p.p., quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della responsabilità’’. Considerazione ineccepibile che, a ben vedere, è l’unica idonea a giustificare la reiezione delle eccezioni di illegittimità costituzionale proposte in relazione agli artt. 13 comma 1, 27 comma 2 e 111 comma 6 Cost. 4. Pur in assenza di indagini preliminari o pur in presenza di indagini preliminari da cui non siano emersi elementi probatori, svanirebbero i dubbi di illegittimità costituzionale sopra prospettati se fosse valutabile come prova di responsabilità la richiesta dell’imputato di applicazione della pena o il consenso dell’imputato alla richiesta effettuata dal pubblico ministero. Ciò equivarrebbe a dire che la richiesta o il consenso dell’imputato integrano una confessione, il che contrasterebbe con il rilievo che non hanno e non possono avere il significato della confessione né la richiesta dell’imputato ex art. 444 c.p.p. né il consenso dell’imputato stesso alla richiesta del pubblico ministero (richiesta o consenso, si noti, che, addirittura, potrebbero essere accompagnate da una dichiarazione di innocenza persino credibile allorquando sembri verosimile che l’imputato preferisca pagare il prezzo di una lieve condanna ingiusta al fine di evitare i danni derivatigli dalla pubblicità del dibattimento). Infatti, l’art. 446 n. 5 c.p.p.


— 1170 — stabilisce: ‘‘il giudice se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta o del consenso, dispone la comparizione dell’imputato’’. Ne segue che, essendo la comparizione in parola finalizzata unicamente alla verificazione della volontarietà predetta, il legislatore non consente un’indagine diretta ad accertare le ragioni della richiesta o della prestazione del consenso al fine di valutare se possano o no valere come confessione. Del resto, le Sez. un. riconoscono esplicitamente che l’accertamento giudiziale della responsabilità non è surrogabile né identificabile con il riconoscimento di colpevolezza che sarebbe implicito nella richiesta di patteggiamento (riconoscimento, a nostro avviso inesistente) poiché la sentenza di patteggiamento non può ritenersi fondata su un accertamento di responsabilità ‘‘ope iudicis’’. I rilievi di illegittimità costituzionale prospettati risulterebbero, altresì, inconsistenti pur in assenza di indagini preliminari o in presenza di indagini preliminari prive di valore probatorio ove si accedesse alla tesi (Siracusano) che ravvisa nell’ipotesi dell’applicazione di pena a richiesta delle parti un caso di ‘‘fatto pacifico’’. Il c.d. ‘‘fatto pacifico’’ esime nel processo civile dall’onere della prova poiché il giudice può ritenere, senza necessità del supporto probatorio, provato il fatto stesso in quanto non controverso o ammesso dalla controparte o, comunque, ammesso per facta concludentia. Nel processo penale un’attuazione consentita dal legislatore del ‘‘fatto pacifico’’ avverrebbe, appunto, nell’ipotesi del c.d. patteggiamento, nel quale il consenso delle parti incide ‘‘sul fatto ricostruito nel corso delle indagini preliminari’’ (fatto che il giudice, quindi, è legittimato a ritenere come provato). Più esattamente, il consenso ‘‘serve certamente a cristallizzare il fatto nelle dimensioni fissate dalle indagini preliminari, ed in questo senso rende ‘pacifico’ il fatto ricostruito dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero’’ ed inoltre ‘‘determina anche un accordo sul merito dell’imputazione, sulla qualificazione del fatto e sulla comparazione fra le circostanze’’ (Siracusano). A nostro avviso, la tesi del fatto pacifico non appare accettabile. In primo luogo, dovrebbe dirsi che ogniqualvolta il giudice, nonostante la richiesta concordata di pena, applica l’art. 129 c.p.p. prosciogliendo l’imputato disconosce l’esistenza del ‘‘fatto pacifico’’. Inoltre, appare difficile ravvisare un consenso dell’imputato alla ricostruzione accusatoria allorquando (come è indubbiamente consentito) alla richiesta di patteggiamento dell’imputato accolta dal pubblico ministero, si accompagni una memoria con la quale l’imputato chieda il proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. Siffatta ipotesi non risulta poi così peregrina ove si tenga presente che l’imputato, pur convinto della bontà della tesi giuridica difensiva diretta ad ottenere il proscioglimento ed enunciata nella memoria, sapendo che detta tesi è controversa in giurisprudenza, ha interesse a chiedere il patteggiamento per ridurre i danni derivanti dal processo nell’eventualità che la tesi sostenuta venga disconosciuta.


— 1171 — Ma, a prescindere da detti rilievi di carattere marginale, l’impossibilità di individuare un ‘‘fatto pacifico’’ in conseguenza del consenso prestato in ordine al fatto ricostruito nel corso delle indagini preliminari, emerge dal rilievo che tale consenso non è assolutamente ravvisabile (nonostante il patteggiamento) allorquando il patteggiamento stesso avvenga (il che è possibile per chi disconosca la necessità di un qualunque accertamento di responsabilità) all’inizio delle indagini preliminari e, cioè, in un momento in cui non sia dato ravvisare alcuna ricostruzione del fatto. 5. L’unico modo per superare i tre rilievi di legittimità costituzionale sopra enunciati è quello di ritenere che la sentenza di patteggiamento presupponga un accertamento di responsabilità, pur precisando che tale accertamento può essere incompleto e basato unicamente sulle indagini preliminari, le quali acquisiscono valore di prova in quanto, come si è detto, la richiesta di patteggiamento dell’imputato (o il consenso prestato alla richiesta effettuata dal pubblico ministero) integrano una rinuncia all’esercizio del diritto di difesa inteso come contraddittorio in sede di formazione della prova: rinunzia che attribuisce dignità di prova alle indagini preliminari, come emerge dalla lettera della legge, posto che l’art. 444 c.p.p. stabilisce che il giudice ‘‘dispone con sentenza l’applicazione della pena indicata’’, ‘‘sulla base degli atti’’ ed in tanto gli atti possono essere posti a fondamento della sentenza di condanna in quanto siano valutabili come prove. Inoltre, l’art. 444 c.p.p. subordina l’emanazione della sentenza di patteggiamento al fatto che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. Orbene, poiché tale norma impone l’assoluzione anche con formule di merito, quali l’insussistenza del fatto o la non commissione del fatto da parte dell’imputato, è evidente come pronunzie siffatte comportino l’ammissibilità nonché la doverosità di una valutazione probatoria. Le Sez. un., nell’escludere che il patteggiamento presupponga un accertamento ancorché incompleto di responsabilità, non si preoccupano di chiarire in qual senso debba intendersi il riferimento all’art. 129 c.p.p. effettuato dall’art. 444 c.p.p. In altri termini, il giudice deve applicare l’art. 129 c.p.p. nonostante la proposta concordata di patteggiamento anche quando l’innocenza risulti alla stregua delle regole di giudizio delineate nell’art. 530 commi 2 e 3 c.p.p. nonché nell’art. 531 comma 2 c.p.p. (che prevedono una equiparazione tra prova negativa, da un lato, e prova mancante, insufficiente o contraddittoria dall’altro) oppure soltanto quando vi sia la prova negativa, vale a dire la prova dell’innocenza dell’imputato? In passato la Corte di cassazione si era espressa nel secondo senso dell’alternativa (Cass. Sez. I, 19 febbraio 1990) asserendo che, nel caso di patteggiamento, al giudice è negata ‘‘la possibilità di un accertamento anche iniziale, dovendo il giudice invece limitarsi ad esaminare se allo stato degli


— 1172 — atti sia da escludersi la evidenza di prove di innocenza’’. A ben vedere, peraltro, l’art. 444 comma 2 c.p.p., nell’imporre l’obbligo di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. deve trovare applicazione anche quando la prova è carente: il che dimostra la necessità di indagini preliminari da valutarsi come prova, in virtù della richiesta di patteggiamento concordata. Infatti, in assenza di indagini preliminari o in presenza di indagini preliminari prive di rilevanza probatoria risulterebbe impossibile applicare la pena patteggiata posto che, stante l’equiparazione tra prova negativa e carenza di prova, si renderebbe obbligatoria l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. 6. A sostegno della necessità di un accertamento sia pure incompleto posto a base della sentenza di patteggiamento vi sono, poi, ulteriori considerazioni. Non v’è dubbio che la sentenza di patteggiamento, alla quale è indubbiamente ricollegabile il ne bis in idem, presupponga la formulazione dell’imputazione e, quindi, l’esercizio dell’azione penale. Ciò significa che un patteggiamento in assenza di indagini preliminari non è neppure ipotizzabile posto che in tanto il pubblico ministero è legittimato ad esercitare l’azione penale in quanto sussistano elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento come risulta dall’art. 125 delle disposizioni di attuazione. Nessuno ha mai sostenuto che l’esercizio dell’azione penale nel caso di patteggiamento è disciplinato da diversa regolamentazione. Ma se così è non si comprende perché mai non possano valutarsi, ai fini della ravvisabilità di un accertamento sia pure incompleto di responsabilità, quegli elementi probatori idonei a sostenere l’accusa in dibattimento senza i quali non può esercitarsi l’azione penale e, quindi, effettuarsi il patteggiamento, che presuppone l’esercizio dell’azione penale. Non pare, inoltre, che sia stato tenuto nella dovuta considerazione il fatto che l’art. 444 c.p.p. è stato dichiarato con la sentenza n. 313/1990 costituzionalmente illegittimo, ‘‘nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 comma 3 Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione’’ e che la l. 16 dicembre 1999 n. 479 ha modificato l’art. 444 comma 2 c.p.p., rendendo doverosa la valutazione di congruità della pena da parte del giudice. Il nuovo testo dell’art. 444 c.p.p., così come risulta modificato impone, pertanto, al giudice di valutare se la pena concordata sia idonea alla rieducazione del condannato e tale valutazione non può che effettuarsi sulla base dei parametri indicati nell’art. 133 c.p., dai quali si desume la gravità del reato e la capacità a delinquere. Non ha senso logico asserire che tale valutazione è demandata ad un giudice, il quale non deve effettuare alcun accertamento di responsabilità posto che non è possibile valutare la congruità della pena in assenza di valutazione della responsabilità dell’imputato.


— 1173 — Tanto più anomala appare la tesi, secondo cui la sentenza di patteggiamento non comporta mai un accertamento di responsabilità, ove si tenga presente che, dopo la modifica dell’art. 392 c.p.p., effettuata dalla l. 7 agosto 1997 n. 267, che ha eliminato le condizioni a cui si subordinava l’esame della persona sottoposta alle indagini nonché l’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., risulta estremamente facile chiedere ed ottenere un incidente probatorio nel corso delle indagini preliminari e appare illogico ed anomalo che di tali prove il giudice che emana la sentenza di patteggiamento non debba tenere conto per accertare la responsabilità dell’imputato. Analogo discorso vale con riferimento alle prove assunte negli incidenti probatori compiuti nell’udienza preliminare ed oggi consentiti in seguito alla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale effettuata con la sentenza n. 77/1994. Eppure questa è proprio la tesi della sentenza delle Sez. un. 25 marzo 1998, le quali giungono ad asserire che non muta la sentenza di patteggiamento come ‘‘espressione della funzione giurisdizionale’’ ma priva di accertamento di responsabilità, allorquando la sentenza di patteggiamento venga pronunciata all’esito del dibattimento, ai sensi dell’art. 448 comma 1 c.p.p. Infatti, affermano le Sez. un., ‘‘anche in tal caso occorre riportarsi al momento della presentazione della richiesta ed alla situazione probatoria (lato sensu) di allora’’. Un giurista di grande autorità osserva che l’asserzione secondo cui non occorre un positivo accertamento di responsabilità, essendo sufficiente che dagli atti non risultino le premesse del proscioglimento, costituisce un tipico paralogismo posto che a dibattimento l’imputato va assolto se non sussistano i presupposti della condanna e in udienza preliminare va prosciolto per non luogo a procedere se l’accusa non sia sostenibile. Sino a quando non venga compiuto questo accertamento non risulta applicabile nessuna pena. Questo avviene anche in sede di patteggiamento, non essendo sufficiente per la condanna l’accordo delle parti. L’illustre autore soggiunge: ‘‘nessuno negherà, poi, che implichi giudizi positivi sul reato la pena applicata ex art. 448, 1, a dibattimento concluso’’ (Cordero). L’autorevole tesi è, a nostro avviso, ineccepibile ma l’ottimismo che traspare dalla locuzione ‘‘nessuno negherà’’ si è rivelato infondato poiché le Sez. Un., come si è visto, negano che la sentenza di patteggiamento emanata a conclusione del dibattimento comporti un accertamento del reato, sostenendo che il giudice deve riportarsi al momento della presentazione della richiesta ed alla situazione probatoria sussistente in questo momento, ignorando, quindi, tutte le prove emerse nel corso della istruzione dibattimentale. In tal modo il paralogismo è diventato un sofisma. Per sostenere, a tutti i costi, che il patteggiamento non comporta un giudizio positivo sull’esistenza del reato si giunge ad asserire che il giudice, il quale applica l’art. 448 c.p.p., non deve tenere conto delle prove emerse nel corso di una istruzione dibattimentale anche


— 1174 — se lunga e complessa e, quindi, nel valutare la congruità della pena richiesta, il giudice deve ignorare le prove dibattimentali, da cui risultano la gravità del reato nonché la capacità a delinquere dell’imputato. Conclusione palesemente illogica dal momento che il giudice ha, comunque, il dovere di valutare le prove emerse in sede dibattimentale ai fini della applicazione dell’art. 129 c.p.p., non essendo seriamente sostenibile che debba porsi il problema dell’ammissibilità di una declaratoria di non punibilità ex art. 129 c.p.p. unicamente in sede di valutazione della applicabilità del patteggiamento senza considerare l’istruzione dibattimentale. Il giudice, all’esito del dibattimento, in tanto prenderà in considerazione la possibilità di applicare la pena patteggiata in quanto abbia prima escluso, sulla base delle prove assunte in dibattimento, l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. Di tali prove, poi, dovrebbe dimenticarsi in sede di applicazione dell’art. 448 c.p.p. nella valutazione della congruità della pena. L’illogicità di siffatta soluzione appare evidente. 7. L’illogicità della tesi secondo cui il patteggiamento non comporterebbe accertamento di responsabilità emerge, altresì, dalle affinità che il patteggiamento presenta con il decreto penale di condanna. Il procedimento per decreto penale di condanna così come il patteggiamento è un rito deflativo del dibattimento perseguendo lo scopo di diminuire il numero dei dibattimenti. Per raggiungere tale scopo ci si accontenta di un accertamento incompleto e nel contempo si induce l’indagato con incentivi ad accettare tale rito. Infatti, il pubblico ministero ha la possibilità di chiedere l’applicazione di una pena diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale in modo da porre l’indagato di fronte a questa alternativa: rinunciare al rito ordinario, beneficiando di un trattamento sanzionatorio particolarmente favorevole, oppure proporre opposizione e giungere così al rito ordinario con il rischio, però, di vedersi infliggere una pena notevolmente superiore a quella proposta dal pubblico ministero. L’asserire che nel procedimento per decreto, a differenza del patteggiamento, non vi è una preventiva rinuncia al diritto alla prova ma soltanto l’esercizio di tale diritto eventualmente posticipato al giudizio conseguente all’opposizione, come è stato perspicuamente osservato, ‘‘non serve a cambiare la realtà, essendo fuor di dubbio che in entrambi i casi l’indagato rinuncia alle garanzie di un giudizio ordinario per ottenere congrui vantaggi attraverso una significativa riduzione della sanzione’’ (Corte Appello Perugia, 6 giugno 2001). Nel provvedimento sopra citato la Corte d’Appello di Perugia sottolinea, inoltre, che non vi sono differenze, tra patteggiamento e procedimento per decreto penale, per quanto concerne il grado di apprezzamento della responsabilità dell’indagato posto che, nell’ipotesi di patteggiamento, trova applicazione l’art. 129 c.p.p., il quale va applicato non solo quando vi sia la prova dell’innocenza ma anche quando non vi siano


— 1175 — prove per condannare. Infine, la analogia tra i due istituti emerge dal fatto che, così come avviene per la sentenza di patteggiamento, il decreto penale non è consentito ove sia necessario applicare una misura di sicurezza personale ed, inoltre, ai sensi dell’art. 460 comma 5 c.p.p, il decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento né l’applicazione di pene accessorie ed anche se divenuto esecutivo non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo. Infine il reato è estinto se l’imputato, nei termini di legge, non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole. 8. La manifesta illogicità della tesi sostenuta, per cui il patteggiamento non comporterebbe accertamento di responsabilità, emerge dal rilievo che questa tesi porta ad asserire (come hanno fatto le Sez. un. 28 maggio 1997) che il giudice, il quale emana la sentenza di patteggiamento, ‘‘non deve accertare i presupposti che giustificano la concessione delle attenuanti nonché il giudizio di comparazione tra attenuanti ed aggravanti’’ poiché tale potere di accertamento gli sarebbe precluso ‘‘essendo le attenuanti non da lui ‘concesse’ ma ‘concordate’ dalle parti’’. Vale a dire, l’indicazione delle attenuanti e del giudizio comparativo, come sopra già ricordato, ‘‘è soltanto strumentale rispetto alla concreta determinazione della pena e tale indicazione è anch’essa il risultato di un accordo, ma non certo di un accertamento giudiziale’’. Conclusione che contrasta con la lettera dell’art. 444 c.p.p. là ove impone al giudice di accertare che siano ‘‘corrette’’ l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti. Come si può valutare la correttezza dell’applicazione di una circostanza senza accertare sia pure in modo completo la sussistenza della circostanza stessa? Nell’ordine di idee qui criticato sarebbe corretto riconoscere l’attenuante del risarcimento del danno ancorché il danno non sia risarcito. Il che rende impossibile la doverosa valutazione della congruità della pena imposta dall’art. 444 comma 2 c.p.p. Non ha alcun senso logico imporre al giudice la valutazione della congruità della pena se gli si inibisce di valutare la effettiva esistenza delle circostanze attenuanti. 9. Una ulteriore prova di illogicità di questa tesi è data dal rilievo che, proprio in conseguenza della non ravvisabilità di un accertamento di responsabilità nella sentenza di patteggiamento, le Sez. un. sostengono la non assoggettabilità a revisione di tali sentenze, ragion per cui, ove sopravvengano prove inequivocabili di innocenza, risulterebbe impossibile la caducazione della sentenza di condanna patteggiata. La non assoggettabilità a revisione della sentenza predetta, affermano le Sez. un., si desumerebbe dal ‘‘ruolo centrale che il momento negoziale svolge nel patteggiamento’’.


— 1176 — Secondo la Corte Suprema, ‘‘avendo rinunciato all’introduzione di prove utili all’accertamento dei fatti e della sua responsabilità per ottenere un trattamento penale di rilevante vantaggio, non può poi l’imputato (rectius: il condannato) eludere i rischi della sua libera scelta: ove si ritenesse non preclusa, con la volontaria accettazione dell’accordo sulla pena, l’applicazione della revisione alla sentenza di patteggiamento — ritenendo l’istituto previsto dagli artt. 629 s. c.p.p. alla stregua di una assicurazione sul rischio — si verificherebbe inevitabilmente una grave discrasia nell’equilibrio delle parti, venendosi a trovare irrimediabilmente in posizione processuale sfavorevole il pubblico ministero che ha dato il suo consenso irrevocabile al patteggiamento richiesto dall’imputato, in quanto si troverebbe preclusa ogni possibilità di articolare un novum in senso accusatorio da controbilanciare, proprio a causa della rinuncia a suo tempo operata a introdurre elementi di prova idonei a sostenere l’accusa’’; non solo: ‘‘il radicare la revisione su prove, la cui ricerca è stata volontariamente impedita dall’accordo intervenuto tra le parti, introdurrebbe un’evidente contraddizione nel sistema, procedendosi a un ‘giudizio’ ... che col patteggiamento si è voluto escludere’’. Insomma: ‘‘il momento negoziale svolge nel patteggiamento un ruolo centrale che non si concilia con l’attribuzione ad esso di una valenza neutra ai fini dell’incidenza di avvenimenti esterni sulla decisione adottata’’. Come è stato esattamente sottolineato in dottrina, questi rilievi non bastano a sorreggere le conclusioni di carattere generale che le Sez. un. ne traggono. Dottrina e giurisprudenza concordano, infatti, nel ritenere vietate le ‘‘pratiche dirette — mediante deduzione di elementi di fatto pretermessi in ragione della rinuncia alla via dibattimentale a introdurre una sorta di revoca postuma del consenso’’: il che, ‘‘sul fronte del rimedio straordinario, dovrebbe tradursi, in concreto, nell’inammissibilità ... di ogni tentativo inteso a far valere elementi di conoscenza noti all’interessato al momento della scelta del rito e acquisibili al patrimonio cognitivo del giudice, sol che si fosse optato per il contraddittorio dibattimentale’’ (Peroni). Ma non si vede perché la conclusione dovrebbe estendersi anche a casi diversi da quelli appena considerati: ‘‘se, in linea di principio, vanno certamente condivisi i dubbi legati alla possibilità di censurare il giudicato di condanna sulla base di elementi dei quali si è volontariamente declinata la valutazione in sede giudiziale, non sembra ... corretto negare l’esperibilità dell’impugnazione straordinaria contro la sentenza di patteggiamento ... qualora si versi in ipotesi di conflitto teorico di giudicati o di sopravvenienza di una prova decisiva non conosciuta, né conoscibile al momento della pronuncia’’ (Dean). Troppo drastico, pertanto, l’intervento delle Sez. un. sul punto ed ingiusta la conclusione a cui si giunge. 10.

Le considerazioni sopra esposte che costituiscono con alcune


— 1177 — integrazioni la ripetizione di quanto scritto in una nota alle sentenze delle Sez. un. e che a nostro avviso dimostrano l’incongruenza della tesi, per cui il patteggiamento non comporterebbe un accertamento di responsabilità, sono avallate da modifiche normative di cui la Suprema Corte nelle sentenze delle Sez. un. non ha potuto tener conto in quanto successive alle ricordate pronunzie. La prima è la modifica dell’art. 444 comma 2 c.p.p. apportata dalla l. 16 dicembre 1999 n. 479 là ove stabilisce che il giudice emana la sentenza richiestagli dalle parti se ritiene congrua la pena. È pur vero che la congruità era già valutabile in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 313 del 1990, che aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 444 comma 2 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice potesse sindacare la congruità della pena indicata dalle parti. Peraltro, la modifica normativa è significativa giacché il giudice deve sempre, come risulta dal dato normativo (che configura una situazione soggettiva rapportabile al dovere e non al potere discrezionale), valutare tale congruità e tale valutazione non potrà che essere effettuata alla stregua dei parametri dell’art. 133 c.p., vale a dire la gravità del reato e la capacità a delinquere, parametri che presuppongono un accertamento di responsabilità. Tale doverosa valutazione della congruità della pena comporta inevitabilmente una valutazione sulla incidenza che le attenuanti hanno avuto nella determinazione del quantum di pena ed appare, quindi, del tutto errata la tesi sostenuta dalla Suprema Corte là ove afferma, per negare che il patteggiamento comporti un accertamento di responsabilità, che è ‘‘esclusa la possibilità di operare una valutazione in merito alla concordata incidenza quantitativa delle circostanze sulla concreta misura della pena’’. Sarebbe del tutto irragionevole una doverosa valutazione della congruità della pena senza una valutazione della incidenza attribuita alle circostanze sulla pena stessa. I parametri dell’art. 133 c.p. vanno osservati per valutare la congruità della pena complessiva e, quindi, debbono essere presi in considerazione anche per valutare, ad esempio, se la riduzione nel massimo per le attenuanti generiche sia o no accettabile. Vi è, poi, una ulteriore e particolarmente significativa innovazione legislativa ed è quella apportata dalla l. 27 marzo 2001 n. 97 sul giusto processo, la quale ha modificato l’art. 445 comma 1 c.p.p. seconda parte, che nella vigente versione stabilisce: ‘‘Salvo quanto previsto dall’art. 653, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento’’ la sentenza che applica la pena concordata ‘‘non ha efficacia nei giudizi civili ed amministrativi’’. Ciò significa che una efficacia vincolante è riconosciuta alla sentenza irrevocabile di patteggiamento nei giudizi extrapenali, per quanto concerne le ipotesi disciplinate dall’art. 653, il quale stabilisce nel comma 1-bis (aggiunto dall’art. 1 della l. 27 marzo 2001 n. 97): ‘‘La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto


— 1178 — all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso’’. Alla stregua della normativa vigente un patteggiamento irrevocabile per un reato contro la pubblica amministrazione comporta che, nel giudizio disciplinare, il pubblico ufficiale non possa più disconoscere la sussistenza del fatto, la responsabilità e l’illiceità del fatto e, quindi, debba subire, a causa di questa vanificazione del diritto di difesa, la perdita del posto di lavoro. Il sostenere che queste gravissime conseguenze discendono da una sentenza, che non ha natura di condanna in quanto non implica alcun accertamento di responsabilità, non può non portare a ravvisare un vizio di legittimità costituzionale. 11. Ci si deve chiedere, quindi, come mai si continui a sostenere la tesi che esclude nel patteggiamento l’accertamento di responsabilità, visto che in realtà la sentenza di patteggiamento è sempre preceduta da indagini preliminari idonee a fornire elementi di prova. Nessun pubblico ministero presta il consenso alla richiesta di patteggiamento se non ha acquisito elementi di prova anche perché, in assenza di qualunque elemento, risulterebbe sospetta una richiesta dell’indagato di applicazione della pena e sarebbe lecito supporre che vi sia indotto dal timore che le indagini evidenzino ben più gravi responsabilità. Pertanto, sembrerebbe molto più semplice e rispondente alla realtà, asserire che il patteggiamento si basa su un accertamento incompleto costituito dalle indagini preliminari, a cui la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato (e, quindi, la rinuncia al contraddittorio) conferisce dignità di prova. La ragione vera è che a vantaggio dell’economia processuale si accettano clamorose violazioni del principio di legalità in tema di applicazione della pena. In altri termini, per rendere possibile, a vantaggio dell’economia processuale, il patteggiamento in un processo per una concussione o per una bancarotta fraudolenta di notevolissime gravità, si parte nel computo della pena dal minimo edittale (come se si trattasse della concussione di un usciere o della bancarotta fraudolenta di un piccolo imprenditore) in palese violazione dei parametri dell’art. 133 c.p. e, per restare nel limite dei due anni, si concedono attenuanti che in sede dibattimentale non sarebbero mai concesse e la cui ravvisabilità sembra esclusa dalle indagini preliminari. Nei processi di tangentopoli conclusi con sentenza di patteggiamento il risarcimento del danno è stato riconosciuto a fronte del pagamento di una cifra, che l’ente pubblico danneggiato definiva nell’atto di quietanza un mero acconto sul risarcimento dovuto. Posso fare il caso di un processo per tentato omicidio aggravato dalla premeditazione e dall’uso di sostanze venefiche chiuso con un patteggiamento a tredici mesi e sospensione condizionale della pena, nel quale è stato riconosciuto un ravvedimento operoso palesemente smentito dagli atti processuali.


— 1179 — Questo non è un giusto processo poiché questa prassi giudiziaria vanifica non solo il principio di legalità in tema di applicazione della pena e l’efficacia intimidatrice che la pena dovrebbe avere ma rende il nostro sistema processuale di una incoerenza del tutto paradossale. Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale si basa, come più volte ha chiarito la Corte costituzionale, sul principio di legalità ed eguaglianza poiché soltanto l’azione penale obbligatoria fa sì che la legge sia applicata in modo eguale a tutti i cittadini. Orbene, la prassi giudiziaria sopra criticata vanifica tale legalità ed eguaglianza nel momento in cui, in sede di patteggiamento, si applica una pena in violazione dell’art. 133 c.p. e si riconoscono attenuanti non esistenti. Non solo ma un processo conclusosi con una sentenza di patteggiamento, che prescinda dall’accertamento di responsabilità è un processo che non accerta e non tende neppure ad accertare la verità storica: impossibile sostenere che sia conforme ai princìpi del giusto processo. Vi è un ultimo rilievo da farsi. Appare schizofrenico un sistema processuale nel quale, secondo la tesi delle Sez. un., si può, anzi si deve, per facilitare l’economia processuale, violare l’art. 133 c.p. e si può anzi si deve, sempre per la finalità predetta, dare per sussistenti circostanze attenuanti mai verificatesi o effettuare giudizi di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti in palese contrasto con la legge e con il senso della giustizia giustificandolo con le argomentazioni sopra ricordate; e, d’altro lato, si può chiedere allo stesso giudice con cui in altro processo si è concordato, in una imputazione di tentato omicidio, un ravvedimento operoso mai verificatosi, di dichiarare una nullità relativa o una incompetenza territoriale che non hanno leso sostanzialmente i diritti della difesa. Non sarà questo giudice indotto ad essere meno rigoroso nell’applicazione della legge processuale? Parrebbe una domanda retorica. 12. Sostenuta l’erroneità della tesi per cui il patteggiamento non comporta un accertamento di responsabilità e viste le incongruenze che essa determina con i princìpi del giusto processo, ci si deve chiedere se, impostato esattamente il problema (e, riconosciuto, quindi, che il patteggiamento necessita di un accertamento di responsabilità sia pure incompleto e basato sulle indagini preliminari), questo rito deflativo così valutato sia o no conforme ai princìpi del giusto processo. La risposta sembrerebbe dover essere affermativa posto che la mancata attuazione del più importante di questi princìpi e, cioè, il contraddittorio nella formazione della prova risulterebbe accettabile in quanto conseguente ad una rinuncia a tale contraddittorio concordata tra accusa e difesa. Sono le parti contrapposte che rinunciano concordemente alla dialettica processuale nell’assunzione della prova. Si tratterebbe, però, di una risposta semplicistica, allorquando nel


— 1180 — processo sia presente la parte civile, poiché il contraddittorio va esercitato oltre che dalla parte accusa anche da tutte le parti private e, quindi, anche dalla parte civile che sull’accordo predetto non può minimanente interloquire. L’eccezione di illegittimità costituzionale per la mancata attuazione del contraddittorio in capo alla parte civile, che è già stata prospettata in relazione all’art. 24 comma 2 Cost. ed è oggi proponibile anche con riferimento all’art. 111 comma 4 Cost. può a prima vista essere ritenuta manifestamente infondata, così come è avvenuto in passato, sulla base del rilievo che l’impossibilità della parte civile di esercitare il contraddittorio, dovendosi limitare a prendere atto della rinuncia al contraddittorio stesso concordata dal pubblico ministero e dal difensore dell’imputato, non pregiudica il diritto di difesa della parte civile, che potrà essere esercitato nella sua sede naturale, vale a dire nel processo civile. Ciò in quanto, si è asserito, non esisterebbe un diritto della parte civile costituzionalmente tutelato ad ottenere una pronuncia in sede penale sull’azione civile proposta. Sono argomentazioni non convincenti posto che il diritto di difesa inteso come contraddittorio da attuare in ogni stato e grado del procedimento, non può essere eluso sulla base del rilievo che l’impossibilità del suo esercizio in un procedimento in corso risulterà compensata dall’esercizio del diritto in parola in altra sede processuale. Una volta ammessa la costituzione come parte civile di un soggetto nel processo penale non appare consentita la vanificazione del diritto di difesa inteso come contraddittorio nel corso dello stesso processo penale. Nè la possibilità di esercitare in sede civile il diritto alla restituzione e al risarcimento compensa la parte civile della mancata decisione sull’azione civile proposta in sede penale, decisione che, inoltre, poteva comportare una condanna ad una provvisionale immediatamente esecutiva. L’impossibilità di far valere le proprie ragioni, per dimostrare che il giudice non poteva emanare la sentenza di condanna alla pena patteggiata, e, quindi, avrebbe avuto il dovere di decidere sull’azione civile determina una inequivocabile menomazione nel processo penale del contraddittorio. Sul punto in esame non sembra essersi pronunciata la sentenza della Corte costituzionale 12 ottobre 1990 n. 443, la quale ha ritenuto infondata la questione di legittimità dell’art. 444 comma 2 c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il giudice non decide sulla domanda di risarcimento del danno e di restituzioni proposta dalla parte civile. Non sussiste, asserisce la Corte, la violazione dell’art. 3 Cost. per la disparità di trattamento rispetto al danneggiato da reato, il cui imputato non si avvalga o non possa avvalersi del patteggiamento, in quanto ‘‘le azioni di risarcimento e di restituzione sono subordinate all’azione penale e perciò subiscono tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale’’. Né


— 1181 — sussiste violazione del diritto di difesa inteso come contraddittorio, posto che a quanti si ritengono danneggiati da un reato è sempre data la possibilità di esercitare l’azione civile davanti al giudice civile. Infine, non sussiste la violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge, giacché il venir meno della competenza del giudice penale ‘‘dipende dal verificarsi di una condizione espressamente prevista in via generale ed astratta dal legislatore’’. Con la decisione predetta la Corte costituzionale non ha, quindi, affrontato il problema di legittimità in ordine alla mancata possibilità di esercitare il contraddittorio in ordine alla assenza dei presupposti richiesti dalla legge per l’emanazione della sentenza di patteggiamento. In altri termini, il dubbio di legittimità costituzionale prospettato non consegue al fatto che, a causa del patteggiamento, il giudice non decide sulla domanda di risarcimento e di restituzioni bensì al fatto che si impedisce alla parte civile di sostenere la illegittimità della predetta mancata decisione come conseguenza della illegittimità della richiesta di patteggiamento dovuta a carenza dei presupposti idonei a giustificare il patteggiamento stesso. Dal punto di vista della parte civile, considerata una cenerentola del processo penale, il processo per applicazione della pena su richiesta delle parti, non può certo definirsi giusto. 13. La riforma attuata dalla l. 479/1999 ha modificato in modo notevole il giudizio abbreviato in quanto non è più richiesto il consenso del pubblico ministero né è subordinata l’adozione del giudizio abbreviato ad una valutazione da parte del giudice di decidibilità allo stato degli atti. Se l’imputato richiede incondizionatamente il giudizio abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare ha il dovere di disporlo anche se ritenga il processo non decidibile allo stato degli atti. In tal caso, ai sensi dell’art. 441 comma 5 c.p.p., ordina, anche d’ufficio, l’assunzione degli elementi di prova necessari alla decisione. La reiezione della richiesta di giudizio abbreviato è consentita soltanto se sia lo stesso imputato a renderla possibile, condizionando la richiesta stessa ad una integrazione probatoria ritenuta dall’imputato necessaria ai fini della decisione. In tal caso, il giudice può negare l’adozione del rito ove valuti non necessaria detta integrazione oppure, allorquando concordi sulla valutazione della necessità, ove ritenga detta richiesta non compatibile con le finalità di economia processuale proprie di questo rito speciale (art. 438 comma 5 c.p.p.). Il meccanismo di integrazione probatoria è duplice in quanto il giudice dell’udienza preliminare può colmare le lacune delle indagini preliminari con l’ordinanza di integrazione delle indagini stesse ex art. 421-bis c.p.p. oppure disponendo l’assunzione anche d’ufficio ‘‘delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere’’ (art. 422 comma 1 c.p.p.).


— 1182 — Con questa riforma il giudizio abbreviato può ridurre notevolmente il numero dei dibattimenti poiché l’imputato che non si attenda dall’attuazione del contraddittorio in sede di assunzione della prova nel corso del dibattimento, un diverso e più favorevole risultato probatorio ha interesse, una volta colmate le eventuali lacune delle indagini, a richiedere il giudizio abbreviato. 14. Si tratta ora di vedere se questo rito deflativo si ponga o no in contrasto con i princìpi costituzionali a cui si ispira il giusto processo ed anche in questo caso, come per il patteggiamento, debbo ripetere quanto detto in precedenti pubblicazioni con integrazioni determinate proprio dalle modifiche dell’art. 111 Cost. Un primo problema di legittimità costituzionale prospettabile riguarda la compatibilità della normativa sul giudizio abbreviato con il principio di legalità sancito dall’art. 25 comma 2 Cost. Infatti, l’imputato potrà ottenere oppure no la riduzione obbligatoria della pena così come determinata in concreto a seconda che si effettui o no la richiesta di giudizio abbreviato. Nell’ipotesi, poi, di richiesta di giudizio abbreviato condizionata ad una integrazione probatoria a parità di condizioni (stesso tipo di reato e identica capacità a delinquere ex art. 133 c.p. nonché identico comportamento processuale concretatosi nella richiesta di giudizio abbreviato condizionata), l’imputato potrà ottenere oppure no l’adozione del rito abbreviato a seconda che il giudice, sulla base di una valutazione inevitabilmente discrezionale, giudichi oppure no l’integrazione predetta necessaria nonché compatibile con le finalità di economia processuale del rito abbreviato. Pertanto, non può dirsi quale pena può essere comminata per un determinato reato posto che la riduzione di un terzo o la sostituzione della pena dell’ergastolo con la reclusione ad anni trenta dipende dalla richiesta oppure no del giudizio abbreviato e, se si tratta di richiesta condizionata, dipende, altresì, da un giudizio discrezionale del giudice, che comporta il realizzarsi o no della condizione. Si tratta di vedere se il dubbio di legittimità costituzionale sia o no superabile alla stregua della ratio di garanzia sottesa all’art. 25 comma 2 Cost., dal momento che l’incertezza sul quantum di pena è sempre a favore dell’imputato. In altri termini, la mancata richiesta di giudizio abbreviato o, nel caso di richiesta condizionata, il mancato verificarsi della condizione, non può mai rendere applicabile una pena più grave di quella prevista dal codice ma solo precludere un riduzione della pena. Orbene, la dottrina penalistica, nel precisare che l’art. 25 comma 2 Cost. fissa il principio della riserva assoluta di legge, il principio della tassatività della legge penale ed il principio della irretroattività della legge penale, osserva come questi princìpi abbiano ‘‘un denominatore comune rappresentato dalla garanzia del cittadino di fronte agli arbitrii normativi dell’esecutivo, delle in-


— 1183 — terpretazioni del potere giudiziario e dell’applicazione retroattiva delle leggi’’ soggiungendo, altresì, che ‘‘se questa ratio comune viene comunque salvaguardata, il principio può subire temperamenti a scapito dell’esigenza specifica che lo sorregge’’. Peraltro, si precisa, in tanto potrà ritenersi rispettata la ratio predetta in quanto l’esigenza di garanzia rimanga salva non per il singolo ma per ‘‘la generalità dei cittadini che entrano in rapporto con il potere punitivo’’ (Bricola) o che, a nostro avviso, possono entrare in rapporto. Di conseguenza, alla stregua di questi rilievi, l’indeterminatezza della fattispecie idonea a provocare la riduzione di un terzo della pena o la sostituzione della pena di trenta anni di reclusione all’ergastolo non sembra conforme alla obbiettiva esigenza di garanzia sopra indicata. Un problema di legittimità costituzionale si poneva e si pone, altresì, in rapporto all’art. 25 comma 1 Cost. Invero, nell’ipotesi di un reato di competenza del tribunale in composizione collegiale o di competenza della Corte d’assise, l’imputato sarà giudicato da un giudice monocratico (il giudice dell’udienza preliminare) o da un giudice collegiale a seconda che abbia richiesto o no un giudizio abbreviato e, nel caso di richiesta condizionata, a seconda che il giudizio discrezionale del giudice abbia reso possibile o no il realizzarsi della condizione. La predeterminazione del giudice non è più certa in quanto alla competenza originaria può sostituirsi una competenza in deroga come conseguenza di una richiesta dell’imputato e, nel caso di richiesta condizionata, come conseguenza, altresì, di una valutazione discrezionale ed insindacabile del giudice. In dottrina, si è giustamente osservato che il legislatore, senza porsi in contrasto con l’art. 25 comma 1 Cost., può predeterminare degli spostamenti di competenza e che tali spostamenti possono anche conseguire ad un fatto aggiuntivo accertato nel corso del processo (Nobili): situazione che sembrerebbe ravvisabile nel caso di giudizio abbreviato. Peraltro, alla stregua di quanto asserito nella sentenza n. 82/1971 della Corte costituzionale, il potere di spostare la competenza deve essere ‘‘condizionato a fattispecie preventivamente descritte dalla legge con delimitazioni sufficienti ad escludere un’illimitata discrezionalità’’, essendo necessaria ‘‘una descrizione della fattispecie delimitata in modo da consentire che possa valutarsi a quale situazione obbiettiva deve seguire l’attribuzione del procedimento’’. Ciò significa, si è osservato, che ‘‘si pretende una certa qualità della fattispecie, perché solamente l’esistenza di parametri ’obbiettivi’ fa sì che la scelta del giudice venga effettivamente e direttamente a dipendere, in via generale, da una norma giuridica e non da una scelta operata, in concreto, da qualsivoglia soggetto diverso dal legislatore’’. Il rito abbreviato, come fattispecie derogatoria della competenza originaria, non sembra rispondere a questi criteri poiché la fattispecie attributiva della nuova com-


— 1184 — petenza consiste in una dichiarazione di volontà di una parte processuale che, nel caso di richiesta subordinata ad integrazione probatoria, deve essere completata da una valutazione discrezionale ed insindacabile del giudice. Si tratta di vedere se pure qui il dubbio di legittimità costituzionale possa superarsi alla stregua della ratio di garanzia dell’art. 25 comma 1 Cost. Il principio del giudice naturale sembrerebbe posto a garanzia del singolo (per evitare che questi possa essere giudicato da un giudice appositamente costituito) e, quindi, potrebbe dirsi che la garanzia è rispettata allorquando la fattispecie attributiva della nuova competenza risulti integrata in conseguenza di una dichiarazione di volontà dell’imputato. Senonché, a prescindere dal problema della disponibilità del diritto sancito a tutela del cittadino, il giudice naturale è nato ‘‘come un pilastro portante di un sistema basato sulla contemporanea tutela di valori relativi al singolo cittadino ed all’organizzazione giudiziaria’’ e, quindi, giustamente si osserva come la precostituzione del giudice ‘‘può al tempo stesso, assicurare le parti dall’arbitrio e la magistratura da violazioni concrete della propria indipendenza interna’’ (Nobili). Orbene, la scelta del rito abbreviato, oltre ad eliminare la pubblicità del dibattimento ed il contraddittorio per la prova, sostituisce ad un giudice collegiale (che, ove si tratti di Corte d’assise, concreta la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia) un giudice monocratico. Se la ratio dell’art. 25 comma 1 Cost. non è solo di tutela del singolo, ma, altresì, di tutela di interessi dell’organizzazione giudiziaria, la volontà dell’imputato non basta a giustificare il venir meno della competenza del giudice collegiale precostituito e, quindi, il dubbio di legittimità costituzionale appare giustificato. 15. Va, poi, osservato che la l. 479/1999 ripropone inspiegabilmente un vizio di legittimità costituzionale del tutto analogo a quello risolto con la sentenza n. 23 del 1992, la quale aveva dichiarato illegittimo l’art. 440 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice all’esito del dibattimento, ritenendo che il processo fosse — su richiesta dell’imputato e con il consenso del pubblico ministero — ‘‘definibile allo stato degli atti dal giudice delle indagini preliminari’’, potesse applicare la riduzione di un terzo della pena. In altri termini, la non sindacabilità da parte del giudice del dibattimento del giudizio di non decidibilità allo stato degli atti, con cui il giudice giustificava la reiezione dell’istanza di giudizio abbreviato, che aveva avuto il consenso del pubblico ministero, contrastava con gli artt. 3 e 25 comma 2 Cost. Non c’è dubbio che l’art. 438 comma 5 c.p.p., che giustifica la reiezione della richiesta di integrazione probatoria allorquando il giudice ritenga non necessaria tale integrazione oppure, ancorché necessaria, non


— 1185 — compatibile con le finalità di economia processuale del giudizio abbreviato, appare viziato di legittimità costituzionale là ove non prevede la sindacabilità del giudizio di non necessità o di non compatibilità. Un’errata valutazione del giudice che ritenga non necessaria una prova che abbia, invece, tale connotazione o che ritenga non compatibile una prova che, invece, non contrasti minimamente con le finalità di economia processuale del rito abbreviato preclude la riduzione di un terzo della pena o l’applicazione della pena di trent’anni di reclusione in luogo dell’ergastolo senza che tale errore del giudice possa essere corretto. In situazioni assolutamente identiche si potrà avere oppure no la riduzione di pena a seconda della valutazione del giudice e ciò in palese contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di legalità. Dubbi di legittimità costituzionale nascono anche con riguardo alla disposizione per cui il pubblico ministero non può proporre appello contro le sentenza di condanna a meno che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato (art. 443 comma 3 c.p.p.). L’inappellabilità della sentenza di condanna da parte del pubblico ministero si giustificava allorquando l’instaurazione del giudizio abbreviato era subordinata al consenso del pubblico ministero, il quale prestandolo sapeva che questo processo ispirato al principio dell’economia processuale comportava per l’accusa il rischio di non poter appellare una sentenza di condanna ritenuta eccessivamente mite, rischio accettato dal pubblico ministero. Non si dimentichi che, nella versione originaria del codice, la negazione del consenso da parte del pubblico ministero non comportava alcuna giustificazione. Le modifiche apportate alla normativa sul giudizio abbreviato hanno completamente cambiato la situazione: il pubblico ministero non può in alcun modo impedire il giudizio abbreviato e, conseguentemente, impedire la riduzione di un terzo della pena o la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione di trent’anni. In questa situazione il fatto che, ove vengano concesse attenuanti in realtà inesistenti o venga applicata una pena eccessivamente mite in violazione dei criteri enunciati nell’art. 133 c.p., il pubblico ministero non possa appellare la sentenza di condanna, sembra contrastare ancora una volta con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. inteso come principio di ragionevolezza. La disparità di trattamento tra pubblico ministero ed imputato in ordine alla possibilità di appellare non trova giustificazioni. 16. Il disposto dell’art. 111 comma 4 Cost. (per cui ‘‘il processo è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova’’ e, quindi, si ha prova unicamente, come si è detto, quando il risultato probatorio sia stato realizzato in seguito all’attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova), comporta, posto che il giudice deve decidere sulla base delle prove, che il contraddittorio è una connotazione


— 1186 — della giurisdizione, il suo statuto epistemologico come efficacemente è stato detto (Giostra). In altri termini, il dettato costituzionale fa sì che il contraddittorio non possa più considerarsi unicamente una estrinsecazione del diritto di difesa, posto che ‘‘il contraddittorio quale garanzia metodologica e il contraddittorio quale prerogativa abdicabile del diritto di difesa non sono realtà compatibili: ciò che attiene ai caratteri connotativi della giurisdizione non può essere nella disponibilità delle parti’’ (Giostra). Più semplicemente non si può rinunciare ad una connotazione della giurisdizione e, quindi, l’imputato, così come non può rinunciare alla imparzialità del giudice, non potrebbe rinunciare al contraddittorio nel momento di formazione della prova. Conclusione che sembra essere smentita dallo stesso art. 111 Cost. là ove dispone nel comma 5 che ‘‘la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato’’. Questa disposizione dimostra che il legislatore, subito dopo aver asserito che si ha prova solo quando vi sia contraddittorio nell’assunzione della stessa, riconosce che può considerarsi prova l’atto di indagine effettuato senza attuazione del contraddittorio nei casi in cui la legge prevede che l’imputato vi consenta. Peraltro, posto che il contraddittorio è esercitato non solo dall’imputato ma anche dalle altre parti del processo l’interpretazione di questa norma appare problematica. Il problema sorge proprio con riferimento al giudizio abbreviato, nel quale si realizza una vanificazione totale del contraddittorio nel momento di formazione della prova, allorquando l’imputato presenti richiesta incondizionata di giudizio abbreviato e non siano stati effettuati in precedenza incidenti probatori. Si pone, pertanto, il quesito se ed in che limiti la legge ordinaria, in virtù del mero consenso dell’imputato, possa vanificare, alla stregua di una lata interpretazione dell’art. 111 comma 5 Cost., il principio fondamentale sancito dallo stesso art. 111 comma 4 Cost. I due commi del disposto costituzionale sopra citato come si conciliano? Il contraddittorio nel momento di formazione della prova è esercitato dalla parte pubblica e da tutte le parti private e, pertanto, è compatibile con il dettato dell’art. 111 comma 4 Cost. il fatto che la semplice richiesta di giudizio abbreviato effettuata dall’imputato, in assenza del consenso del pubblico ministero e di quello delle altre parti private, trasformi le indagini preliminari (che sono elementi di prova e, quindi, qualitativamente diverse dalle prove) in prove vere e proprie? A questo proposito, si è osservato (Giostra), al fine di evitare una insanabile contraddizione interna all’art. 111 Cost., che il legislatore nel 5 comma dell’art. 111 Cost. si riferisce al consenso in ordine all’utilizzo degli atti di indagine del pubblico ministero, posto che la modifica dell’art. 111 Cost. precede la legge sulle indagini difensive (osservazione non risolutiva in quanto, anche prima di tale legge, con le modifiche apportate nel 1995 all’art. 38 delle disposizioni di attuazione era previsto l’inserimento nel fascicolo delle indagini


— 1187 — preliminari del pubblico ministero degli atti di indagine difensiva). Pertanto, per quanto concerne le indagini preliminari del pubblico ministero, con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato consente che tali indagini vengano utilizzate come prove mentre il consenso a tale utilizzo da parte del pubblico ministero sarebbe implicito dal momento che le indagini sono state da lui effettuate. In quest’ordine di idee si afferma, infatti, che ‘‘il consenso all’utilizzo probatorio dell’atto compiuto dalla controparte può valere come rinuncia concordata al contraddittorio’’. Questo per quanto concerne le indagini del pubblico ministero. Analogo discorso non può farsi in ordine all’utilizzo come prova delle indagini difensive, poiché la richiesta di giudizio abbreviato significa che l’imputato non solo consente ma vuole l’utilizzo delle indagini del pubblico ministero mentre, per quanto concerne l’utilizzo come prova nel giudizio abbreviato delle indagini difensive, si prescinde dal consenso del pubblico ministero. Ne segue che, nonostante il silenzio dell’art. 111 comma 5 Cost., detta norma andrebbe interpretata nel senso che ‘‘l’atto di indagine difensiva può essere utilizzato come prova soltanto se il pubblico ministero dà il consenso’’. Da questa impostazione discende, appunto, la illegittimità costituzionale della normativa sul giudizio abbreviato là ove consente, su richiesta del solo imputato, la utilizzazione come prova delle indagini difensive (Giostra). A nostro avviso, non pare condividibile la ravvisabilità di una rinuncia concordata all’utilizzo probatorio delle indagini del pubblico ministero allorquando l’imputato presenti richiesta incondizionata di giudizio abbreviato. In primo luogo, si dimentica che il contraddittorio non è esercitato soltanto dal pubblico ministero e dall’imputato ma anche dalle altre parti private, rispetto alle quali non si prospetta neppure l’ipotesi di una rinuncia concordata. Ma, soprattutto, il consenso all’utilizzo degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero, manifestato mediante la richiesta di giudizio abbreviato, non implica e non può implicare quel consenso implicito del pubblico ministero all’utilizzo predetto, adombrato con la locuzione ‘‘rinuncia concordata’’. Il pubblico ministero esercita l’azione penale quando pensa di avere elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento e, quindi, allorquando mediante un giudizio prognostico (che potrebbe, ovviamente, rivelarsi errato) ritiene che gli elementi probatori da lui assunti, una volta divenuti prove mediante l’attuazione del contraddittorio per la prova, risulterebbero idonei a giustificare una richiesta di condanna. Di conseguenza, lo stesso pubblico ministero potrebbe ritenere indispensabile per l’accusa l’attuazione di quel contraddittorio, che la richiesta incondizionata dell’imputato gli sottrae. A prescindere da questo rilievo di carattere generale, si pensi a dichiarazioni recepite dal pubblico ministero ed interpretabili in senso favorevole all’accusa, che, in seguito a successive dichiarazioni di altri soggetti acquisite nel corso di indagini di-


— 1188 — fensive, vengano ad assumere un significato ambiguo. Dette dichiarazioni non risulteranno più idonee in un giudizio abbreviato a giustificare una sentenza di condanna e, quindi, al pubblico ministero non potrà non apparire indispensabile, al fine di superare l’ambiguità, un contraddittorio nel momento di formazione della prova, contraddittorio reso impossibile dalla richiesta incondizionata di giudizio abbreviato. È evidente il contrasto di interessi in questa situazione: l’eliminazione del contraddittorio per la prova giova all’imputato che chiede l’abbreviato, posto che l’ambiguità predetta potrebbe risolversi in una assoluzione pronunciata ex art. 530 comma 2 c.p.p., mentre il contraddittorio ed il conseguente chiarimento potrebbero giovare all’accusa rivelandosi esiziali per la difesa. Il ravvisare, quindi, un utilizzo di indagini probatorie conseguenti ad una rinuncia concordata non pare realistico: l’accordo ritenuto implicito non esiste. Ciò comporta, peraltro, ci rendiamo conto un contrasto interno ed insanabile nella disciplina dettata dall’art. 111 Cost. in quanto il comma 5 risulterebbe contrastante con il comma 4. Il che avviene quando il legislatore agisce in maniera incoerente e scoordinata. 17. La conclusione di questi rilievi è che i due riti speciali deflativi del dibattimento introdotti con il codice vigente non hanno realizzato la finalità che ci si era prefissi, di rendere possibile, mediante la riduzione del numero dei dibattimenti, l’attuazione del giusto processo per i processi che giungono alla fase dibattimentale e nel contempo presentano numerose anomalie rispetto ai princìpi del giusto processo determinando, altresì, nel caso del patteggiamento, in virtù di una prassi a nostro avviso contra legem, addirittura la vanificazione del principio di legalità in tema di applicazione della pena. Ciò consegue alla mancanza di una chiara e lineare scelta di politica processuale. Si è autorevolmente osservato (Caianiello) che è molto difficile adattare ‘‘alla nostra cultura di stampo idealistico, che vede come fine del processo la ricerca della verità, un modello’’, come quello del sistema giudiziario americano, ‘‘maturato in una cultura ispirata al pragmatismo e che ritiene soddisfatta l’esigenza di giustizia dall’osservanza del due process’’. Si è soggiunto, altresì, che due process non significa ‘‘processo giusto’’ bensì ‘‘processo dovuto’’, e ciò significa che le esigenze di giustizia si identificano con l’osservanza delle regole ‘‘essendo scopo del processo quello di chiudere la partita tra l’accusatore e l’accusato, purché vengano rispettate certe formule processuali’’. Condivido pienamente queste osservazioni. Il sistema giudiziario americano proprio per le ragioni sopra enunciate ha come premesse: la discrezionalità dell’azione penale, la carenza di motivazione della sentenza conseguente al fatto che la giuria emana il verdetto e non deve motivare, la mancanza di un secondo giudizio di merito. Il nostro sistema non ha ac-


— 1189 — colto queste premesse, posto che l’obbligatorietà dell’azione penale è imposta dall’art. 112 Cost. ed è strenuamente difesa da chi ritiene che soltanto essa garantisca l’applicazione del principio di legalità ed eguaglianza, mentre la motivazione della sentenza è imposta dall’art. 111 comma 6 Cost. ed è giustificata dalla considerazione che soltanto la motivazione permette un controllo sulla corretta applicazione del libero convincimento del giudice e, infine, la nostra cultura idealistica impone un secondo giudizio di merito per evitare errori giudiziari. Il tentativo di realizzare un processo accusatorio senza attuare nessuna delle tre premesse sopra indicate è fallito. Sulla base di quanto sopra esposto non può certo dirsi che la mancata attuazione delle tre premesse è compensata dalla previsione dei riti deflativi del dibattimento. A nostro avviso, si rende necessaria, oltre ad una seria depenalizzazione, una revisione del sistema delle impugnazioni riducendo sia l’appellabilità delle sentenze sia la loro ricorribilità per cassazione, il che richiede, in ordine alla ricorribilità per cassazione, una modifica dell’art. 111 comma 7 Cost. Per quanto concerne il giudizio d’appello è certamente valida l’obiezione, per cui in un sistema processuale accusatorio (nel quale il pilastro fondamentale è il contraddittorio nella formazione della prova e, quindi, la giurisdizione deve esercitarsi sulla base delle prove assunte con l’attuazione del contraddittorio predetto), appare del tutto irrazionale che la decisione emanata a conclusione di un’istruzione effettuata con la piena attuazione del contraddittorio, possa essere completamente riformata in un secondo giudizio di merito, nel quale il contraddittorio predetto non trova e non può trovare attuazione, dal momento che nel giudizio di appello normalmente (ad esclusione delle eccezionali ipotesi di rinnovazione del dibattimento) si giudica sulla base degli atti del giudizio di primo grado. Cionondimeno, pur riconoscendo l’incongruenza, non si può negare che una seconda valutazione nel merito riduce la possibilità di errori giudiziari e, quindi, la drastica soluzione della eliminazione di un secondo grado di giudizio di merito non appare auspicabile. Si rende, però, necessaria un’amplissima riduzione della appellabilità delle sentenze al fine di aumentare il numero dei giudici di primo grado e poter, quindi, celebrare in modo molto più rapido i dibattimenti senza violazione del principio di continuità. Per quanto concerne la ricorribilità per cassazione, il legislatore del codice vigente ha ritenuto di limitare il numero dei ricorsi per cassazione, prevedendo in un apposito motivo la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione. Infatti, con la stabilire nella lett. e) dell’art. 606 c.p.p. la ricorribilità per cassazione per mancanza o manifesta illogicità della motivazione soltanto quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato, si è inteso chiaramente limitare in ordine ai vizi di motivazione la


— 1190 — possibilità di ricorrere per cassazione alla situazione delineata nella lettera e) senza poter addurre una nullità del provvedimento impugnato e, soprattutto, si è inteso ridurre il numero dei ricorsi limitandoli ai vizi che emergono dal testo del provvedimento impugnato sempreché la lettera dell’art. 606 lett. e) sia rispettata. Orbene, la tesi basata su una interpretazione letterale determina un evidente vizio di legittimità costituzionale della lett. e) dell’art. 606 c.p.p. Infatti, nel caso di una sentenza di condanna, che ignori una importante prova a difesa, senza che tale omissione traspaia dal testo del provvedimento impugnato, risulterebbe precluso il ricorso per cassazione. È evidente che se il giudice d’appello, reiterando l’errore del primo giudice di merito e disattendendo il relativo motivo d’appello, abbia omesso la valutazione della prova a difesa senza che tale omissione emerga dal testo del provvedimento impugnato, il negare la ricorribilità per cassazione vanifica il diritto alla prova e, quindi, appare evidente il contrasto della disposizione così interpretata con l’art. 24 comma 2 Cost. Contrasto ancor più significativo allorquando l’omissione della valutazione della prova concerna una sentenza inappellabile oppure una sentenza di condanna emanata per la prima volta in appello su impugnazione del pubblico ministero contro sentenza di assoluzione oppure allorquando la prova o le prove a difesa, la cui valutazione risulti omessa, siano state assunte nel giudizio d’appello in seguito a rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. In queste tre ipotesi manca un riesame nel merito in ordine alle ragioni della condanna e, di conseguenza, la non sindacabilità da parte della Corte di cassazione dell’omessa valutazione della prova a difesa o il travisamento della stessa, che non risultino dal testo del provvedimento impugnato, non consente nessuna doglianza per la violazione del diritto alla prova. Al fine di evitare i dubbi di legittimità costituzionale, la Corte di cassazione, con un orientamento giurisprudenziale ormai costante, ha asserito che la mancanza o manifesta illogicità della motivazione di cui all’art. 606 lett. e), può emergere dal raffronto fra i motivi di appello ed il testo della decisione di primo grado. La Suprema corte ha, infatti, testualmente asserito che ‘‘si ha mancanza di motivazione di cui all’art. 606 lett. e) c.p.p. anche ... quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate del requisito della specificità; né può ritenersi precluso al giudice di legittimità, ai sensi della disposizione suddetta, l’esame dei motivi d’appello al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado’’. Pertanto, con una interpretazione logica che supera il dato letterale, questo orientamento giurisprudenziale fa rientrare nella ipotesi di carenza o manifesta illogicità della motivazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) anche


— 1191 — quelle motivazioni delle sentenze d’appello che da un mero esame del testo letterale del provvedimento impugnato appaiono complete ed in sintonia con il dispositivo ma, nel contempo, risultano prive di passaggi logici indispensabili, ove siano raffrontate con i motivi di appello, per non aver tenuto in considerazione argomentazioni esposte nei motivi stessi. In altri termini, alla stregua dell’insegnamento della Corte di cassazione, non è sufficiente il mero esame del testo del provvedimento impugnato e, quindi, lo sviluppo logico delle argomentazioni in esso enunciate allorquando, per individuare la carenza o la manifesta illogicità della motivazione, appaia indispensabile un raffronto fra il testo della sentenza impugnata avanti alla Corte di cassazione ed i motivi contro detta sentenza. La Corte di cassazione ritiene, cioè, che la valutazione della carenza di motivazione risulti pur sempre, così come prescrive il dettato legislativo, dal testo del provvedimento impugnato anche se per valutare detta carenza sia indispensabile far capo alle richieste formulate nei motivi di gravame, che hanno determinato il provvedimento giurisdizionale sottoposto al vaglio della Corte di cassazione. Questo orientamento giurisprudenziale riduce la ravvisabilità di vizi di legittimità costituzionale senza eliminarla, posto che non risulterà possibile un raffronto con i motivi d’appello allorquando l’omessa valutazione della prova o delle prove a difesa concerna una sentenza di condanna inappellabile oppure concerna una sentenza di condanna emanata in appello in seguito ad impugnazione del pubblico ministero contro sentenza di assoluzione o, infine, allorquando la prova o le prove a difesa, la cui valutazione risulti omessa, siano state assunte nel giudizio d’appello in seguito a rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. La mancanza dei motivi di appello relativi alla mancata valutazione di prove a difesa nel caso di sentenza inappellabile o di prove assunte per la prima volta in appello in seguito a rinnovazione dell’istruzione dibattimentale o l’impossibilità di una doglianza dell’imputato nel caso di appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione, fanno sì che la mancanza o l’illogicità della motivazione possa valutarsi unicamente sulla base del testo del provvedimento impugnato con le conseguenze prospettate in tema di legittimità costituzionale. A prescindere da questi ultimi problemi di legittimità costituzionale, la finalità deflativa dei ricorsi di cassazione, che il legislatore si prefiggeva di raggiungere mediante l’art. 606 lett. e), è stata vanificata dall’orientamento giurisprudenziale, pienamente giustificato per le ragioni sopra esposte, che impone il raffronto fra la decisione impugnata ed i motivi di appello. Infatti, nei giudizi di cassazione si sostiene abitualmente un vizio di motivazione sulla base del raffronto predetto e, per tal via, si ripropongono, mascherate da vizio di motivazione, questioni di fatto esattamente come avveniva con il codice abrogato.


— 1192 — Una revisione radicale dei mezzi di impugnazione si impone se si vuole rendere effettiva e non solo formale la realizzazione del giusto processo. GILBERTO LOZZI


‘‘SOCIETAS PUNIRI POTEST’’: UNO SGUARDO SUI FENOMENI E SULLE DISCIPLINE CONTEMPORANEE (*)

SOMMARIO: 1. La cornice internazionale dell’indagine a partire dai fenomeni di ‘‘criminalità d’impresa’’. — 2. I presupposti conoscitivi per consapevoli scelte ‘‘a favore’’ o ‘‘contro’’ la responsabilità penale delle società commerciali. — 3. Il punto di vista degli aziendalisti. — 4. Il rifiuto di assunzione di responsabilità: ideologia delle imprese e dei giuristi. — 5. La necessaria responsabilità penale delle società-paravento della criminalità organizzata. — 6. La responsabilità solo amministrativa delineata dal d.lgs. n. 231/2001. — 7. Le ulteriori ragioni della responsabilità penale: A) il ricorso a misure di sicurezza per prevenire futuri reati; B) il ricorso alla pena per rimproverare la passata commissione di reati; il principio ‘‘materiale’’ di colpevolezza ritagliato sulle persone giuridiche. — 8. Conclusioni.

1. Inquadrare entro una cornice internazionale e comparatistica il tema della responsabilità penale delle persone giuridiche è un ottimo vaccino contro il rischio di una puntigliosa analisi della recente disciplina italiana, forse più confusa di quella francese, certamente più intricata e complessa, e che senz’altro andrà investigata e analizzata nei tanti suoi dettagli, ma non per dare risposta al quesito di fondo — ‘‘societas puniri potest’’ (!?). Il mio compito è perciò circoscritto e ben definito: non tenterò di fissare i ‘‘punti fermi’’ della disciplina italiana; quel che solo mi compete è valorizzare la dimensione internazionale entro cui si inserisce quel quesito di fondo. È una dimensione e una cornice internazionale che ci si manifesta da ogni lato: dal lato delle norme, ma ancor prima dal lato dei fenomeni; i tanti disparati fenomeni — sottostanti alle norme già presenti o reclamate nei più diversi ordinamenti — che esercitano una pressione sempre più forte e intensa, da travolgere ed infrangere persino vetusti tabù giuridici. A ben vedere, con la recente disciplina, l’Italia ha cominciato a fare i (*) Il testo riproduce, con cambiamenti formali, la relazione conclusiva del Convegno su ‘‘Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi’’, svoltosi a Firenze il 15-16 marzo 2002, promosso dal Dipartimento di diritto comparato e penale dell’Università degli Studi di Firenze. Per il carattere del lavoro, le citazioni si riferiscono in prevalenza ai soli contributi presentati al Convegno e agli autori citati nel corso della relazione. Per le stesse ragioni, la legislazione citata non va oltre la data del Convegno.


— 1194 — conti — bene o male, non importa — con i fenomeni della criminalità d’impresa, cimentandosi con problemi all’ordine del giorno in tutti Paesi economicamente sviluppati. Naturalmente, si tratta di problemi che disturbano la visione autorefenziale di quei giuristi — penso subito a tanti cari colleghi tedeschi, e lo dico con l’affettuosa stima di chi li conosce e frequenta da tempo — che sono da tempo impermeabili a quel che accade nell’intero mondo: inclini a chiudersi nel solo perimetro dei problemi dibattuti nel loro mondo; ma penso anche ai non pochi giuristi italiani abbarbicati alla nostra ‘‘tradizione’’ vissuta come sacra ed eterna — mentre è solo la tradizione generata da un capitalismo arretrato e congenitamente autarchico — e che fanno perciò fatica ad osservare quel che accade ormai da molto tempo in Paesi, europei ed extraeuropei, giuridicamente civilissimi, e con economie ben più sviluppate e aperte della nostra. Oggi, però, nessuno è più in grado di vivere nel chiuso autarchico del proprio orto. Apriamo i giornali economici: ci avvediamo che quasi contemporaneamente in Germania e in Italia si registrano, proprio in questi giorni, sollecitazioni autorevoli volte a provocare un riassetto radicale della Corporate governance. In Germania una commissione presieduta da un eminente rappresentante del mondo industriale — il Presidente dell’organo di controllo del più importante e noto conglomerato metallurgico —, composta dai rappresentanti delle più grandi industrie tedesche, ha cercato di rispondere a una domanda molto pressante: come rendere più trasparente la vita delle società, eliminando le molte, troppe ombre di illegalità dei bilanci, che non rendono attraente ‘‘il modello Germania’’ agli occhi degli investitori nazionali e internazionali. A questa domanda la commissione ha risposto suggerendo l’introduzione di un’autoregolamentazione, imperniata su una più accentuata indipendenza dei revisori interni: mallevadori, si spera, di una maggiore credibilità della contabilità aziendale. Quasi all’unisono, il Presidente della Borsa italiana ha invitato le società quotate a darsi una autoregolamentazione finalizzata ad evitare situazioni di illegalità nella gestione societaria, a cominciare dai tanti, troppi casi di conflitti d’interesse, che allontanano anche i più disattenti tra gli investitori istituzionali, italiani e stranieri. Breve: perfino in Paesi tradizionalmente refrattari alla trasparenza societaria, come la Germania e l’Italia, si registrano impulsi provenienti ‘‘dall’interno’’ del mondo delle imprese verso un cauto cambiamento di rotta. Troppo poco: la patologia della vita economica, nel mondo della globalizzazione dei rapporti finanziari, è così imponente, e si preannuncia così devastante, da relegare al rango di mere cosmetiche buone intenzioni le pur rivelatrici iniziative di esponenti autorevoli dell’industria tedesca e italiana. Ci vuol altro.


— 1195 — 2. Globalizzazione: sarà pure una formula che rischia di essere logorata da usi impropri, ma è innanzitutto un punto di vista: una balconata dalla quale osservare tra l’altro le patologie della vita economica nell’intero mondo — anche in una visione retrospettiva, risalendo fino alle sorgenti del motto ‘‘societas delinquere non potest’’. Come ha ricordato Arroyo con delizioso sapiente umorismo corrosivo, c’è in effetti da dubitare che papa Innocenzo IV avrebbe commissionato a Sinibaldo de’ Fieschi l’elaborazione di quel motto — come congegno coniato per evitare che le scomuniche papali colpissero le corporazioni civili o mercantili per fatti commessi dai loro membri — se avesse avuto dinnanzi agli occhi un caso di macroscopiche frodi societarie come il caso Enron; forse — ha soggiunto icasticamente Arroyo — non avrebbe messo sotto processo l’imperatore Federico II, ma senz’altro avrebbe avvertito l’ineludibile esigenza di affiancare alla responsabilità degli amministratori disonesti la diretta responsabilità penale delle società commerciali, il cui ‘‘stile di vita’’ o la cui cattiva organizzazione rendano possibile l’agire criminoso dei loro gestori. Avrebbe detto e fatto dire: societas delinquere potest (1). Venendo all’oggi, è fin troppo ovvio notare che il caso Enron si preannuncia come il primo di una serie di scandali finanziari: tutti li preconizzano, così scovolgenti e numerosi da scuotere le stesse fondamenta della Corporate America. E si tratta di scandali che già si ripercuotono oltreoceano, con ondate sempre più distruttive. Stanno già a mostrarlo le azioni giudiziarie promosse da banche europee, italiane in testa, contro le banche d’affari statunitensi, accusate di macroscopici conflitti d’interesse tra analisti interni e le imprese da loro finanziate: gli analisti sapevano benissimo che erano imprese decotte o comunque immeritevoli di sostegno da parte della comunità economica internazionale, e cionondimeno invitavano — con successo — le banche europee a finanziarle con operazioni spericolate. Conflitti d’interesse ancor più vistosi sono emersi — come tutti sanno — fra le società di revisione e le società la cui contabilità andava revisionata e certificata; ma come potevano controllarla a dovere, garantendone completezza e veridicità, posto che si trattava delle stesse società alle quali fornivano contestualmente — e con tanto maggior lucro! — la loro ‘‘consulenza’’? Invano si era cercato, in passato, di eliminare questi rapporti ‘‘incestuosi’’: la nomina al vertice della SEC di Harvey Pitt — avvocato di lungo corso delle società di revisione — ha solo posto la pietra tombale su ogni proposito di riforma. La bomba innescata da tempo è però esplosa rumorosamente: lo scandalo Enron ha coinvolto l’Arthur An(1) ARROYO ZAPATERO, Persone giuridiche e responsabilità penale in Spagna, p. 1 (del dattiloscritto).


— 1196 — dersen, che oggi si vede sottoposta a procedimento penale con l’accusa di ‘‘ostacolo alla giustizia’’, per aver distrutto — letteralmente — la documentazione che provava le frodi commesse dalla Enron. E se il giurista europeo si stringesse nelle spalle, affermando che le cose nei Paesi del vecchio continente non vanno poi così male come negli Stati Uniti, gli si dovrebbe gridare (come gridò, ad altro proposito, un grande del passato): De te fabula narratur! L’Arthur Andersen è infatti una delle cinque grandi società di revisione che operano su scala mondiale certificando e, ad un tempo, fornendo consulenze alle più grandi società europee ed extraeuropee: quei tremendi rapporti incestuosi non sono un privilegio degli Stati Uniti. D’altra parte, quel che attende l’Arthur Andersen è una sorte che spazza via, mi sembra, ogni dubbio sulla Strafempfindlickeit delle società commerciali. La sensazione e la percezione della gravità del citato procedimento penale, delle conseguenze cui potrebbe metter capo già in termini di perdita di fiducia e credibilità presso la clientela attuale e futura, di fuga dei dipendenti su cui incombe la minaccia della perdita del posto di lavoro, per non parlare della vanificazioni delle loro pensioni — ecco un bell’insieme di conseguenze distruttive, che ha fatto parlare della death penalty che incombe su quella grande società, sottoposta a procedimento penale. Riattraversiamo l’oceano, ripetendo: De te fabula narratur! a chi nel vecchio continente è ancora idealmente fermo ai tempi di Innocenzo IV. Non solo gli Stati Uniti ma è il mondo intero ad essere infatti coinvolto dai fenomeni patologici che reclamano la responsabilità penale degli enti commerciali. La collega Ducouloux-Favard ha evocato i procedimenti che in Francia potevano iniziare a buon diritto ad es. contro la grande Société générale; Vervaele ci ha parlato del procedimento (chiuso con una brutta soluzione ‘‘patteggiata’’) nei confronti della ABN Amro, la più importante banca d’affari olandese; spostandoci in Germania, si potrebbe elencare una sfilza di casi gravi, resi ancor più gravi dall’impunità (passata e presente) delle società coinvolte, grazie all’assenza di una loro responsabilità diretta: cito lo scandalo della corruzione politica da parte della società Flick; la messa in commercio del famigerato farmaco Thalidomide da parte della Chemie Grünenthal (uscita di scena, senza sanzioni di sorta, grazie a un risarcimento dei danni alle vittime); le odierne rovinose crisi, costellate anche da molte illegalità, in cui versano il gruppo Kirch e la grande società di costruzione Phlipp Holzmann. Andando oltremanica, la lista e le tecniche delle frodi contabili praticate da società inglesi grandi e medie è stata documentata, per gli anni ottanta, da Terry Smith nel celebre volume sulla « Contabilità creativa », e per gli anni più recenti, fino ai nostri giorni, dai giornali economici: eclatanti i casi Marconi, Cable & Wi-


— 1197 — reless e Railtrack (2). Nel nostro Paese, c’è solo l’imbarazzo di un elenco incompleto: le vicende rovinose e criminose che hanno portato alla rovina le banche guidate da Sindona e Calvi; il crollo del gruppo Ferruzzi, preceduto da delitti di ogni genere; il collegato crollo della Montedison, del pari costellato da fatti delittuosi; l’enorme numero di società protagoniste dei gravissimi fatti di corruzione e di attentati alla libera concorrenza che hanno dato perfino un nome — Tangentopoli — alla ‘‘città-Paese’’ in cui si sono verificati. Breve: dappertutto siamo di fronte a fenomeni patologici che chiamano in causa il problema di un adeguato sistema preventivo e repressivo, interno ed esterno, delle tante e disparate patologie che possono caratterizzare la gestione delle società commerciali. Va anzi posto l’accento, per rendere la nostra indagine proficua, su un capitale profilo metodologico: si può parlare seriamente di quelle patologie — raccogliendo l’esortazione del professor Bastia — solo se consapevoli delle basi empiriche e fattuali su cui poggiano le dinamiche delle società commerciali: solo se rendiamo il nostro sapere giuridico meno povero di informazioni sulla materia da regolare; altrimenti rischiamo di parlare a favore o contro la responsabilità penale degli enti commerciali utilizzando il sapere di una società industriale che si autorappresenta con una visione paleocapitalista, risalente all’epoca — che in Italia molti vorrebbero perenne! — in cui non esisteva un mercato, e tanto meno un mercato mondiale. 3. Come si autorappresenta, oggi, il sistema delle imprese per bocca degli aziendalisti, o meglio, facendo parlare gli studi economico-aziendali? Riferendosi (anche) all’Italia, il professor Bastia ci ha fatto un inventario limpidissimo del ‘‘perché’’ non dovrebbe sorprendere, anzi sarebbe la benvenuta l’attribuzione di una responsabilità in capo alle persone giuridiche. Si muove da una premessa nettissima: « l’azienda — ha detto Bastia — è un’entita dotata di autonomia rispetto ai soggetti (proprietari, management, personale in genere) che in un dato tempo ne fanno parte a vario titolo, perché è un organismo vitale con una propria cultura, una propria tradizione, un proprio indirizzo strategico » (3). Altrettanto netta la conseguenza tratta da quella premessa: ‘‘la potenza sovraindividuale espressa da ogni azienda è in grado di produrre effetti di grande portata — sul piano virtuoso, ma anche sul piano dell’illecito » (4). Morale: « Non è soltanto riduttiva, ma addirittura distorsiva della realtà fenomenica delle aziende quell’ipotesi-finzione di non imputabilità delle responsabilità — (2) TERRY SMITH, Accounting for growth, 1992; tr. it.: Contabilità creativa. Inganni contabili e finti profitti: 12 tecniche per scoprirli, 1995. (3) BASTIA, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa delle Aziende, p. 2 (del dattiloscritto). (4) BASTIA, op. cit., p. 3.


— 1198 — finalmente superata — che risulta sottostante al principio societas delinquere non potest’’ (5). ‘‘In altre parole: la rilevanza di una disciplina della responsabilità da illeciti dell’azienda va collegata al ruolo che l’azienda è venuta ad assumere come forma di governo dell’attività economica e alla sua pervasività nel tessuto economico-sociale (...). Tra le responsabilità via via interiorizzate dalla moderna cultura aziendale rientrano ormai con ricorrenza: a) la responsabilità verso la clientela, nell’ottica attuale della ricerca della qualità totale, intesa come soddisfazione dei clienti e dei consumatori; b) la responsabilità verso gli azionisti, con la ricerca della cosiddetta creazione di valore, cioè di una crescita di ricchezza a beneficio degli shareholders; c) le responsabilità sociali, avvertite verso i diversi interlocutori, anche estranei all’azienda — stakeholders — quali i fornitori, i clienti, la comunità finanziaria, le rappresentanze sindacali, le pubbliche amministrazioni, la collettività in genere » (6). 4. In che misura questa filosofia aziendalistica è accettata dalle imprese non solo nella prassi ma ancor prima dalla ideologia che le anima nei più diversi Paesi, e dai giuristi che condividono quella ideologia? Davvero le imprese sono disposte ad accollarsi le responsabilità degli illeciti commessi nel loro nome ed interesse, o comunque riconducibili alla loro disorganizzazione? È un quesito vitale, che Volk ha descritto — quasi come un apologo — in modo plastico, quando ci ha detto: sulle pagine economiche dei giornali si leggono annunci o pubblicità del tipo ‘‘Nokia costruisce cellulari, Microsoft fa delle concessioni, Shell estrae petrolio, Ford: quelli che fanno qualcosa’’; ‘‘le imprese — prosegue Volk — si fanno quindi attribuire ben volentieri le attività positive: si comportano come i sostenitori della teoria finalistica dell’azione e sostengono che loro, le imprese, hanno realizzato i successi voluti’’. Ma quando si verifica qualche effetto dannoso, la musica cambia: ‘‘non si deve poter dire: ‘Shell inquina i mari’; perché quando si tratta di ‘illegalità’ ’’, si scomoda la teoria dell’ultra vires: si tratterebbe sempre dell’errore individuale di un membro dell’equipaggio: un’impresa non sarebbe capace di cose simili (7)! La musica non cambia, a ben vedere, anche quando le imprese fanno esercizio di autoregolamentazione e si dotano di codici etici — magari presentati ed esibiti dentro belle cartelle plasticate — che sono pieni di buone parole, buone intenzioni, dettagliate regole di comportamento — ma che sono altrettante armi spuntate: operazioni cosmetiche, che negli Stati Uniti sono state irrise dalla giurisprudenza; c’è voluta l’imposizione (5) BASTIA, ibidem. (6) BASTIA, op. cit., p. 5. (7) VOLK, La responsabilità penale degli enti collettivi, p. 3 (del dattiloscritto).


— 1199 — coercitiva esterna, da parte di una legge federale, di compliance programs finalizzati a graduare la responsabilità penale per dare a quei codici una credibile ‘‘eticità’’. Ben meno credibili i codici di autoregolamentazione proposti in Germania, come accennavo agl’inizi, all’insegna dell’alternativa: comply-orexplain — adéguati o perlomeno spiega perché non ti adegui — che lasciano in ultima analisi all’arbitrio delle singole imprese il rispetto delle regole dettate dalla commissione, per tutelare shareholders e stakeholders. In Italia la ripugnanza che suscita l’imposizione statuale di regole minime di comportamento, su cui fondare o graduare la responsabilità diretta delle aziende, è emersa con felpata violenza sulle pagine del maggior giornale economico del Paese, espressione della Confederazione dell’industria: un noto commentatore ha attaccato il Presidente della CONSOB, Spaventa, per aver sottolineato la crescente necessità di interventi pubblici diretti a imporre alle imprese il rispetto di regole di buona gestione societaria. Si profila perciò, con nettezza, una radicale contrapposizione — nei Paesi che ancora non conoscono una responsabilità diretta delle persone giuridiche — tra quel che si patrocina a parole (la filosofia aziendalistica e la stessa filosofia delle imprese), e quel che non si è disposti ad accettare: per l’appunto, l’imposizione statuale di quella responsabilità. È un non essere disposti nel nome di principi inviolabili — che opererebbero sul terreno della responsabilità penale. Sotto questo profilo, la recente legge italiana, delineando una responsabilità solo amministrativa (come mi sembra si debba sostenere, e come accennerò in seguito) non urta indubbiamente contro quegli invalicabili principi penalistici, anche se rappresenta l’indubbia rottura di un tabù — societas puniri potest! Ma davvero vi sono invalicabili principi che si frappongono all’introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche? In Italia (come in Germania) si evocano principi, che non sono affatto ignoti e ignorati in paesi civilissimi (per restare nell’Europa continentale) come la Francia e, ancor prima, in Olanda. Ha celiato a questo riguardo Vervaele: noi olandesi non parliamo la lingua anglosassone, eppure siamo stati i primi nell’Europa continentale ad introdurre la responsabilità penale delle persone giuridiche. È comprensibile: i sistemi giuridici sono lo specchio che riflette — presto o tardi — il sottostante sistema economico-sociale; nessuna meraviglia, quindi, di fronte alla primogenitura olandese, se non ci si dimentica che l’Olanda è stato il primo Paese dove si è affermato il sistema economico capitalista, scalzando l’Italia (nei primi decenni del 1600) dal dominio del Mediterraneo; e poco importa che la responsabilità penale vi abbia attecchito solo nel secondo dopoguerra. Ben diverso è l’humus italiano: le resistenze nel nostro Paese verso ogni forma di responsabilità diretta delle persone giuridiche — anche amministrativa —


— 1200 — sono il frutto della sua arretratezza economica nello sviluppo capitalista, che ha naturalmente generato un’ideologia giuridica del tutto conforme alle sue ‘‘necessità’’. Si ricordi: fino a un decennio fa il nostro era il Paese nel quale gli azionisti venivano considerati come dei ‘‘buoi’’ recinti in un ‘‘parco’’; non esisteva una maggioranza azionaria che non fosse controllabile anche da una esigua minoranza, perché i voti degli azionisti — si diceva — ‘‘non si contano, ma si pesano’’; e tutt’oggi vi è una malcelata nostalgia della perenne vocazione autarchica del nostro sistema delle imprese, le cui aperture verso l’esterno si realizzavano solo con il meccanismo delle svalutazioni competitive. L’avvento della moneta unica europea è stato perciò coerentemente avversato, fino all’ultimo. Non mancheranno rigurgiti: ma dovrebbe ormai trattarsi di un passato che è ormai passato per il futuro prevedibile; siamo entrati in un sistema di mercato aperto all’intero mondo, le cui dinamiche dovrebbero impedire di rientrare nei vecchi confini e dovrebbero perciò cessare di vivere anche le ideologie giuridiche generate dal vecchio sistema capitalista. 5. Uso il condizionale, perché nel nuovo assetto economico convivono vecchio e nuovo, e il vecchio è capace ancora di dettar legge (si pensi alla progettata nuova regressiva disciplina dei reati societari), ma non nel nome di principi sovraordinati — stat pro ratione voluntas. Se non sono ragioni schiettamente economiche, vi sono comunque aspetti drammatici della realtà odierna, su scala mondiale, la cui imponente forza distruttiva si impone — irresistibile — anche al più solipsista tra i lodatori piccoloborghesi del buon tempo antico. Alludo alla criminalità organizzata, soprattutto transnazionale: una fenomenologia che si è imposta, proprio sul nostro terreno, all’attenzione dell’ONU, che in una delle tante risoluzioni sul tema ha posto l’accento sulla necessità — come ratio insostituibile — di fronteggiarla con lo strumento della responsabilità penale delle società commerciali di cui essa si serve, come strumento legale per affari illegali. Fu proprio in Italia a Napoli nel novembre 1994 — presiedeva la riunione d’insediamento l’attuale Presidente del Consiglio nella sua veste di responsabile del Paese ospitante (8) — che fu assunta una risoluzione che si incorporò in un documento, successivamente fatto proprio dall’Assemblea generale (9), che resta il documento fondamentale nel quale si fa l’inventario dei fenomeni (traffico d’armi, di persone, di droga, riciclaggio, penetrazione nel sistema finanziario ed economico legale), e si indica — alla comunità internazionale — la risposta ineludibile: l’inclusione in tutte le legislazioni nazionali della responsabilità penale (8) Cfr. ORGANIZED CRIME. A COMPILATION OF U.N. DOCUMENTS 1975-1998 (a cura di Bassiouni, Vetere, Vlassis), Trasnational Publisher, inc., New York, 1998, p. 436-437. (9) ORGANIZED CRIME, op. cit., p. 418 ss.


— 1201 — delle società commerciali, presidiata da sanzioni adeguate, come strumento senza alternative per la cooperazione internazionale nella lotta a una fenomenologia devastante senza confini (10). E per un efficace strumento di lotta non vi era alternativa alla sanzione della dissoluzione tanto delle società-paravento, quanto delle società-oggetto d’infiltrazione da parte della criminalità organizzata — come già la prevedeva (per restare nella vecchia Europa) la legislazione francese all’art. 131-39 del codice penale del 1994 nei confronti sia della ‘‘persona giuridica costituita allo scopo di commettere i fatti incriminati’’, sia della persona giuridica che ‘‘abbia deviato dal suo oggetto sociale per commettere i fatti incriminati’’. Quale altra sanzione penale era ed è del resto pensabile? Capisco il suggestivo caveat di Volk: non si dovrebbe accettare per la persona giuridica quel che si respinge (la morte civile) per la persona fisica, ma è una suggestione e un parallelo che non persuade (11). La verità è che il solo diritto penale modellato sulle persone fisiche non può far nulla di efficace contro le persone giuridiche strumento della criminalità organizzata. Può far iniziare un procedimento contro il rappresentante legale e il consiglio di amministrazione in carica pro tempore, e può sfociare nella loro condanna; ma trattandosi di altrettante ‘‘teste di paglia’’, accadrà che la società seguiterà a vivere, operare ed essere lo strumento dell’organizzazione criminale, con alla testa altre ‘‘teste di paglia’’: non è pensabile un diritto penale diverso dal modello — accolto dappertutto — che si rivolge, ad un tempo, verso le persone fisiche e le persone giuridiche, sanzionando quest’ultime, nei casi estremi, con la loro dissoluzione. Non c’è alternativa seria: anche in Italia il recente decreto legislativo del giugno 2001 ha previsto la sanzione interdittiva dall’esercizio dell’attività, da applicare in via definitiva, ‘‘se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati’’ (art. 16, comma 3). 6. A questo riguardo vorrei anzi aprire una parentesi, sgombrando il campo da obiezioni contenutistiche, del tipo: la recente disciplina italiana commina sanzioni — come quella testé evocata — la cui portata, ad onta del nome che le etichetta come sanzioni amministrative, hanno necessariamente carattere penale. Non mi sembrano obiezioni irresistibili. Innanzitutto va rammentato che l’ultima legge di depenalizzazione, nella materia alimentare, ha trasferito dichiaratamente dal diritto penale al diritto degli illeciti amministrativi una serie di fatti, che ieri come oggi comportano nei casi più gravi, come sanzioni accessorie, misure drastiche che vanno dalla sospensione alla revoca della licenza o dell’autorizzazione (10) ORGANIZED CRIME, op. cit., p. 427. (11) VOLK, op. cit., p. 9.


— 1202 — che consente l’esercizio dell’attività, sino alla chiusura dello stabilimento — cioè sino alla ‘‘morte civile’’ dell’impresa (artt. 3-8 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507). Ricorderò d’altra parte che nel primo dopoguerra si aprì un acceso dibattito, al quale parteciparono giuristi di alto rango, all’insegna dell’‘‘ontologismo fuori luogo’’ — come lo etichettò Pedrazzi, all’unisono con la giurisprudenza —: si voleva infatti impiantare le qualificazioni delle sanzioni (si trattava allora di sanzioni penali, ma si pretendeva di scorgere un’ammenda laddove il legislatore parlava di multa) su un terreno diverso da quello sul quale soltanto possono allignare: il nome con il quale le chiama la legge. Anche allora (come oggi) si disturbò l’ombra di Kohlrausch, parlando di ‘‘frode delle etichette’’, dimenticando — come si dimentica oggi — che il grande criminalista tedesco criticava la legge: non si sognava di interpretarla contro il suo tenore letterale. Non si può in secondo luogo ignorare che la nuova responsabilità delle persone giuridiche è governata da istituti incompatibili con la disciplina penalistica: a cominciare dalla prescrizione (Giorgio Lattanzi se n’è avveduto, e ha addirittura evocato, non so con quanta convinzione, la violazione da parte del governo della delega parlamentare), i cui termini e i cui atti interruttivi hanno un regime lontanissimo da quello degli illeciti penali (art. 22): un regime che del resto ricalca quello dettato in via generale dalla ‘‘legge fondamentale’’ sugli illeciti amministrativi (art. 8 l. n. 689/1981); apertamente incompatibile con la disciplina penalistica è poi il permanere della responsabilità anche o solo in capo ad altri enti, quando si verifichino le più diverse ‘‘vicende modificative’’ (fusione, scissione, cessione e conferimento dell’azienda: artt. 28-33). In terzo luogo, la forma del procedimento con cui si accerta la responsabilità dell’ente, che è la forma e l’insieme delle garanzie proprie del processo penale, non parla a favore del carattere non amministrativo delle sanzioni irrogate a conclusione del procedimento. Volk si è spinto troppo in là quando — interrogandosi su quel che può meritare il nome di ‘‘pena’’ proprio a proposito delle società commerciali — ha risposto in modo intenzionalmente circolare dicendo: ‘‘una conseguenza giuridica è una pena se viene inflitta come pena in un procedimento penale’’. In quella risposta c’è, dichiarata, l’esigenza che le garanzie della ‘‘cerimonia’’ del procedimento penale non debbano venir meno quando si ha a che fare con una persona giuridica. Verissimo. Ma se è vero che ‘‘non c’è pena senza processo penale’’, non è vero l’opposto, perché ‘‘vi può essere una sanzione amministrativa anche se inflitta nel corso e con le garanzie del processo penale’’. Questa è la strada già battuta in passato dall’ordinamento italiano: nei casi di ‘‘connessione obbiettiva’’ di un illecito amministrativo con un reato (il caso più frequente è quello delle violazione della disciplina della circolazione stradale connessa con un omicidio o una lesione colposa) ‘‘il giudice penale competente a conoscere il reato è pure compe-


— 1203 — tente a decidere sulla predetta violazione’’ (art. 8 l. n. 689/1981). La differenza tra quel regime e quello della recente legge del 2001 è che sono cresciute le garanzie processuali: si è circondata la persona giuridica di tutte le garanzie pensabili e applicabili nel corso del procedimento penale. Capisco le ragioni fatte valere da Volk: in Germania si possono infliggere alle persone giuridiche sanzioni assai gravi, nominalmente amministrative, ma senza le garanzie del processo penale. Le cose vanno però diversamente nel nostro Paese, e certo non ci lamenteremmo se venissimo presi come modelli di buona legislazione. 7. Breve: la recente responsabilità delle persone giuridiche delineata dal decreto legislativo del 2001 non direi che vada inquadrata, come suggerisce De Vero, entro un ‘‘terzo genere’’: mi sembra in tutto e per tutto amministrativa. Sorge però consequenziale la domanda: quale è mai la ratio di una responsabilità penale, in luogo di sanzioni amministrative che, contenutisticamente e sul piano delle garanzie procedimentali, non divergono da quelle nominalmente penali? La risposta — anticipandola prima di illustrarla sia pure schematicamente — suona così: il raggio d’azione e il ventaglio delle sanzioni penali disponibili può essere assai più ampio e più penetrante, conformemente alla loro natura e finalità. A) Una prima risposta si lascia ricavare dalla stessa peculiare fisionomia della criminalità d’impresa, che scaturisce (ripetiamo le acquisizioni degli aziendalisti) dallo stesso modo di essere dell’impresa: un organismo che, operando in modo dinamico, provoca risultati dannosi non statici, che creano perciò un costante, perdurante pericolo di nuovi ulteriori risultati nocivi, come espressione o di una politica d’impresa o di una disorganizzazione di questo o quel suo settore operativo. Combattere e controllare questo dinamismo offensivo, fonte di sempre nuovi pericoli, è alla portata solo di misure strutturalmente rivolte al futuro, quali sono e possono essere solo le misure di sicurezza: una tipologia di sanzioni penali, la cui applicabilità (anche) alla persone giuridiche, e alle cose di loro pertinenza, è stata al più tardi delineata, con grande lucidità, da Franz Exner sin dal 1914, nella sua splendida ‘‘Teoria delle misure di sicurezza’’ (12). a) Insegnò Exner: ‘‘È indubbio che una persona giuridica con la sua attività, la tipologia dei suoi scopi e dei suoi mezzi possa mettere in pericolo gli interessi della collettività... E le misure di sicurezza tendono a proteggere la società contro l’attività di un intero ente organizzato’’ (13). Traendo spunto da esempi tratti dalla legislazione societaria e bancaria (12) EXNER, Die Theorie der Sicherungsmitteln, Abhandlungen des Kriminilastischen Instituts an der Universität Berlin, 1914. (13) EXNER, op. cit., p. 53.


— 1204 — dell’epoca, il grande criminalista austriaco evocò due misure di sicurezza applicabili direttamente alle persone giuridiche: ‘‘la dissoluzione’’ — ‘‘la più radicale prevenzione dei comportamenti pericolosi di una persona giuridica’’ (14) — e ‘‘la revoca della concessione o delle altre autorizzazioni all’esercizio dell’attività industriale, il cui abuso da parte dell’impresa l’ha resa pericolosa (15); ‘‘in tutto e per tutto — soggiungeva Exner — si tratta di misure di sicurezza: hanno il loro fondamento nella pericolosità dell’ente e tendono come vere e proprie misure di sicurezza all’eliminazione coercitiva di questo pericolo’’ (16). A queste misure dirette contro la ‘‘persona giuridica’’, Exner affiancava, nel suo modello, le misure di sicurezza sulle ‘‘cose’’ di pertinenza delle persone giuridiche, tra le quali primeggiava la confisca (17). b) L’adozione delle misure di sicurezza — come forma di controllo penalistico imposto dalla necessità di non sopportar più ‘‘il costo’’ del dogma ‘‘societas delinquere non potest’’ — è stata notoriamente riproposta in Italia da Bricola (18), in occasione di un convegno del 1971, che vide Romano ed io attestati, con spirito di Realpolitik, sul terreno delle sanzioni amministrative (19). Bricola si limitò, è vero, a suggerire il ricorso alla sola confisca, ma colse l’occasione per fissare un punto fermo di ogni futura discussione: nessun ostacolo di principio poteva opporsi in Italia all’utilizzo delle misure di sicurezza, posto che la Costituzione all’art. 25 comma 3, nel prevederle, si limita solo a circoscriverne l’applicabilità ai ‘‘casi’’ previsti dalla ‘‘legge’’, senza minimamente distinguere a seconda che i pericoli di nuovi reati — quel che le misure di sicurezza sono finalizzate a prevenire — scaturiscano da comportamenti delle persone fisiche ovvero dall’operato delle persone giuridiche (20). c) Il raggio d’azione delle misure di sicurezza pensate per le persone giuridiche si è via via allargato sul terreno internazionale — il nostro terreno d’indagine. Contro la criminalità organizzata operante con gli strumenti degli enti commerciali, si è proposto nel 1999 (nel citato convegno (14) EXNER, ibidem. (15) EXNER, op. cit., p. 54. (16) EXNER, ibidem. (17) EXNER, op. cit., pp. 57 e 105 ss. (18) BRICOLA, Il costo del principio ‘‘societas delinquere non potest’’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in (a cura di Nuvolone) Il diritto penale delle società commerciali, 1971, pp. 72 ss. (19) MARINUCCI-ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in Il diritto penale, cit., p. 98 ss.: evocavamo ‘‘i dubbi di costituzionalità che solleverebbe l’inclusione, tra le misure penali, di sanzioni penali applicabili direttamente all’ente’’, soggiungendo che ‘‘l’attribuzione della qualifica di sanzioni amministrative basterebbe a risolvere (...) ogni dubbio sulla loro legittimità formale’’ (98), avanzando peraltro proposte relative alla tipologia delle sanzioni desunte dall’esperienza comparata in tema di responsabilità penale delle società commerciali (98-100). (20) BRICOLA, op. cit., p. 84 ss.


— 1205 — di Budapest dell’AIDP) ‘‘lo scioglimento degli enti collettivi e la confisca del loro patrimonio’’ (21). Queste misure estreme sono d’altra parte ipotizzabili anche nei confronti delle imprese con scopi sociali ‘‘leciti’’: lo proponeva Exner, come si sa, nel 1914 (22); venne riproposto dall’AIDP a Bucarest nel 1929 (lo ha ricordato Tiedemann) (23); e la proposta è divenuta legge in Francia nel 1994 (come si è ricordato agl’inizi), e successivamente nel codice penale spagnolo, come ha sottolineato Arrojo (24). c) Si è via via ampliato anche il catalogo delle misure di sicurezza applicabili alle persone giuridiche. Si collocano a un livello inferiore nella scala di ‘‘durezza’’. Su tutte primeggia — per il numero di ordinamenti in cui è prevista — la misura del controllo giudiziario dell’attività dell’ente, finalizzato a raggiungere un duplice obbiettivo: individuare i meccanismi e i gangli dell’organizzazione societaria che generano condotte criminose, promuovendone i cambiamenti necessari per prevenirne la reiterazione e neutralizzarne gli effetti ancora perduranti; e in secondo luogo, conoscere gli interna corporis della gestione societaria, tra l’altro attraverso l’esame delle scritture contabili e di tutta la documentazione della vita dell’ente. Si tratta del contenuto, detto per sommi capi, del corporate probation statunitense; del placement sous surveillance judiciarie contemplato in Francia; dell’amministrazione controllata temporanea prevista dall’art. 129 del codice penale spagnolo; delle analoghe misure proposte in sede europea: dalla nota raccomandazione del 1988, dalla convenzione P.I.F. del 1991 e da quella sulla corruzione del 1999. L’elenco è incompleto: per saperne di più — su questo e su ogni altro tema di questo convegno — non c’è che da attingere, come io ho fatto, dalla profonda investigazione di Cristina De Maglie (25) (i maestri imparano — debbono imparare — dagli allievi!). Mi compete però una risposta a una preoccupazione — registrata dalla De Maglie e qui evocata da Volk — su quest’ultimo tipo d’intervento statuale nei confronti delle imprese che delinquono: il ‘‘controllo giudiziario’’ comporterebbe un ‘‘monitoraggio’’ e ‘‘un’intromissione negli affari interni di un’impresa’’ (sono le accuse registrate da Volk) con un ‘‘intervento molto massiccio’’ che violerebbe la ‘‘necessaria segretezza’’ della ge(21) Risoluzione della Sezione I, III, numero 3, in Rev. int. dr. pen., 1999, pp. 871, 897, 923. (22) Cfr. nota (13). La stessa proposta, esemplata sul Model Penal Code, è stata avanzata da chi scrive e da Romano: MARINUCCI-ROMANO, op. cit., p. 100. (23) TIEDEMANN, Responsabilidad penal de las personas juridicas, in Temas de dercho penal economico y ambiental, Lima, 1993, p. 209 ss. (24) ARROYO ZAPATERO, op. cit., p. 6 ss. (25) DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002.


— 1206 — stione societaria (26). Ha senz’altro ragione Volk quando osserva che questo intervento è ‘‘temuto dalle imprese’’ (27). Stupisce però che alcuni giuristi (non Volk, come vedremo) condividano, quasi ideologicamente, questo timore. Si dimostrano ‘‘più realisti del re’’: ignorano o dimenticano come vanno le cose dappertutto, da sempre. Qualche esempio macroscopico. Quando la Corte Costituzionale italiana giudicò due ministri per l’affare Lockheed, che coinvolse anche altri paesi europei come l’Olanda (scusatemi se utilizzo il ricordo personale di giudice aggregato), si dovettero esaminare centinaia di documenti di quella grande società aeronautica (‘‘memorandum’’ dal tavolo di un dirigente all’altro; fax trasmessi da questo o quel dirigente agli ‘‘agenti’’ italiani, e viceversa; decine e decine di fogli relativi alla contabilità in nero, etc.), acquisiti coattivamente dalla SEC, nel quadro di un’indagine senatoriale sulla corruzione all’estero da parte delle multinazionali statunitensi, e successivamente trasmessi alle autorità italiane. Breve: quella montagna di documenti (caratteristici di un’organizzazione burocratica di stampo weberiano) rivelavano tutti i segreti di una colossale opera di corruzione, che nessuno si sognò di etichettare come il ‘‘frutto velenoso’’ di una prova illecita — di una inammissibile intrusione da parte della SEC nella vita di quella società. Del resto, per venire ai giorni nostri, proprio per evitare che la SEC acquisisse documenti ‘‘segreti’’ compromettenti, l’Arthur Andersen ha distrutto migliaia di documenti, che avrebbero disvelato nei dettagli i segreti rapporti incestuosi con la Enron. Le future prevedibili indagini della SEC e delle più diverse autorità giudiziarie, federali e locali, porteranno d’altra parte all’acquisizione dell’intera contabilità di altre grandi società, oggi sospettate di falsi in bilancio in grande stile. Passando ad esempi della quotidiana vita giudiziaria europea, tutti sanno che, procedendo per un reato commesso all’interno di una società da parte del personale di qualsivoglia livello, l’autorità inquirente e/o giudicante dispone d’abitudine l’acquisizione di tutta la documentazione pertinente; se del caso provvede a far redigere una perizia contabile; escute testimoni, etc. — e con tutti questi mezzi di prova ‘‘scoperchia le pentole’’ dei segreti che celavano il reato oggetto del procedimento. Ed è solo una domanda retorica chiedersi se comporterebbe una qualche differenza questo scoperchiamento delle pentole, qualora si procedesse sia nei confronti dei dirigenti, sia nei confronti delle società che dirigono. Un’altra e più stringente domanda retorica è la seguente: solitamente chi manifesta il genere di preoccupazioni qui in esame amerebbe essere definito un garantista — un paladino delle libertà contro lo Stato Leviatano —; dovrebbe però svelarci un mistero, spiegando con abbondanza di argomenti perché (26) VOLK, op. cit., p. 10. (27) VOLK, ibidem.


— 1207 — mai sia così preoccupato per la ‘‘libertà dell’impresa’’, mentre è disposto a tollerare, come tollera la Costituzione, che le ‘‘persone fisiche’’ possano veder violata una quantità di loro libertà fondamentali — a seguito di perquisizioni personali e domiciliari, intercettazioni telefoniche, lettura dei segreti epistolari, addirittura con la privazione della loro libertà personale, già in via cautelare. In attesa di una risposta, va ricordato in linea di principio quel che comporta il ‘‘nemo tenetur se accusare’’: la sostanza di questo principio — come ha ricordato qui Volk — consiste nel non essere obbligati a far iniziare o proseguire un procedimento contro se stessi grazie alle proprie deposizioni; ma è un principio che non preclude che lo Stato si procuri con altri mezzi i ‘‘sostituti della collaborazione rifiutata’’ e, fra questi, il ‘‘sequestro dei mezzi di prova di qualsiasi genere’’. Venendo alla nostra materia, si può solo ricordare (cito ancora Volk) che ‘‘per coloro che sono attivi nel mondo economico vigono numerosi obblighi di annotazione, documentazione, esibizione di documenti, e non si comprende per quale motivo questi obblighi non dovrebbero valere anche nel procedimento penale: in fondo gli obblighi di documentazione sono creati proprio affinché nell’evenienza di un procedimento penale si abbiano a disposizione prove contro colui che tace. Ed è solo conseguente se negli Stati Uniti non è concesso il privilege against self-incrimination alle persone giuridiche. Anche la Corte di giustizia europea ha applicato in modo molto moderato alle persone giuridiche il principio nemo tenetur se ipsum accusare: le imprese devono collaborare, se deve essere resa accessibile una fonte d’informazione altrimenti non accessibile, ed è un obbligo che termina solo quando finirebbe per tradursi in un capovolgimento dell’onere probatorio’’ (28). f) Un’osservazione finale strettamente pertinente alla legittimazione della misura di sicurezza in esame nel nostro ordinamento. La prevede già per le ‘‘società per azioni’’ all’art. 2409 c.c., disponendo addirittura la nomina di un ‘‘amministratore giudiziario’’ (anche) su richiesta del pubblico ministero, in sostituzione degli amministratori, quando ‘‘vi è fondato sospetto di gravi irregolarità’’. Si tratta di una misura civilistica assunta dall’autorità giudiziaria, i cui contenuti possono essere molto penetranti (29). Ciò stimola un’altra domanda retorica: perché mai l’autorità giudiziaria non potrebbe assumere lo stesso tipo di provvedimento quando ha a che fare con reati, per di più già commessi, e non con il solo sospetto di mere irregolarità? La risposta (tutto il mondo è Paese) l’ha fornita molto tempo fa il grande John Coffee quando (parlando degli Stati (28) VOLK, op. cit., p. 13 s. (29) Già BRICOLA, op. cit., p. 87 aveva segnalato l’importanza di questa previsione, pur con riserve sulla assimilabilità alla funzione delle misure di sicurezza.


— 1208 — Uniti) ha osservato: ‘‘è un curioso paradosso che il diritto civile sia al momento meglio attrezzato rispetto al diritto penale nell’autorizzare un intervento (disciplinare o strutturale)’’. Coffee però indicò la via d’uscita dal paradosso: ‘‘Il corporate probation può colmare questa lacuna e alla fin fine può rappresentare una misura penale, che si addice benissimo alle società’’) (31). Naturalmente, è una misura preventiva di futuri fatti delittuosi strutturalmente assai penetrante, da adottare perciò circondandola di cautele e chiari presupposti, sulla falsariga di quanto ad esempio raccomanda l’American Bar Association (‘‘la corte deve appurare (1) che il comportamento delittuoso era serio, ripetitivo, e facilitato da un inadeguato controllo o monitoraggio interno, ovvero (2) che esiste un chiaro e attuale pericolo per la salute e la pubblica incolumità’’ (30). Sarà perciò compito del futuro legislatore precisare queste precondizioni. Ma che sia legittimo il controllo giudiziario su una società fonte di pericoli e che ‘‘si addica’’ alla prevenzione di futuri episodi di criminalità d’impresa, non dovrebbero esservi più dubbi — sempreché si vogliano aprire le menti a quel che suggerisce da ogni parte l’esperienza internazionale. B) Accanto alle misure di sicurezza v’e bisogno di pene, cioè di sanzioni che guardando al passato vengano commisurate e proporzionate alla gravità del reato commesso e al rimprovero che può essere mosso alla persona giuridica, di cui quel reato sia manifestazione? Sono in gioco due alte poste. In primo luogo: la legittimazione del ricorso alla sanzione penale più frequentemente utilizzata — la pena pecuniaria — negli ordinamenti che conoscono la responsabilità penale delle persone giuridiche; e in secondo luogo: la missione fondamentale che può essere chiamato a svolgere il sistema penale per orientare a forza l’operato delle persone giuridiche, trattenendole dal lasciar commettere dei reati e plasmandone anche l’organizzazione con la minaccia della pena, riaffermando poi con la pronuncia della condanna e l’inflizione della pena la serietà e l’inviolabilità dei precetti infranti — con la naturale enfasi ‘‘denunciatoria’’ connessa al rimprovero mosso alla persona giuridica. Ma si può muovere un ‘‘rimprovero’’ alla persona giuridica? È una ‘‘persona’’ che si può considerare ‘‘colpevole’’? Sono, notoriamente, gli interrogativi sollevati in forma di obiezione di principio — da noi di rango costituzionale ex art. 27 (‘‘La responsabilità penale è personale’’) —, anche se non si comprende se, parlando di colpevolezza, si utilizzi il concetto ‘‘formale’’ di colpevolezza ovvero il (o un qualche) concetto ‘‘materiale’’ di colpevolezza. Sono concetti diversi, come si sa almeno dai tempi delle ‘‘Untersu(30) J.C. COFFEE Jr., ‘‘No Soul to Damn No Body to Kick’’: An Unusualizaded Inquiry into the problem of Corporate Punishment, in Michigan Law Review, 1981, p. 459. (31) Cfr. FISSE-BRAITHWAITY, Corporations, Crime and Accountability, 1993, p. 42 e nota 124.


— 1209 — chungen’’ di Engisch (32). Il concetto formale riunisce, per induzione, l’insieme dei connotati che in un dato ordinamento fondano (in parte) l’attribuzione della commissione di un fatto di reato (33): il dolo e la colpa anche incosciente negli odierni ordinamenti dell’Europa continentale; l’intention, la gross negligence, la recklessness, ma (di regola) non la negligence (la colpa incosciente) nei paesi anglosassoni; e negli ordinamenti passati — un passato che ancora non è passato del tutto — la responsabilità ‘‘senza dolo né colpa’’ fondata sulla mera causazione di un evento (34). Affatto diverso è il concetto materiale di colpevolezza. È un postulato: l’idea dalla quale si deduce quel che può meritare di fondare il rimprovero per la commissione di un reato (35). La più nota fra queste idee suona: tutta la colpevolezza è ‘‘colpevolezza della volontà’’; e proprio a questa idea ‘‘materiale’’ di colpevolezza sembrano riferirsi sia quanti negano che si possa muovere un rimprovero alla persona giuridica, sottolineando con enfasi che la persona giuridica non può ‘‘volere’’ la realizzazione di un reato; sia quanti l’affermano, trasferendo alla persona giuridica le volizioni delle persone fisiche che ne incarnano gli organi (36). Senonché — come si sa da tempo — quest’idea di colpevolezza già quando viene applicata alle persone fisiche sfocia in una serie di contraddizioni in adiecto. Non si potrebbe invero parlare di colpevolezza a proposito sia della responsabilità oggettiva sia della colpa incosciente: in entrambi i casi l’evento non deve infatti essere voluto, e perciò entrambi i casi andrebbero bollati come ‘‘residui di inciviltà’’, o per dirla con una famosa frase di Radbruch usata per la colpa incosciente, come una ‘‘vergognosa responsabilità per il caso’’ (37). Naturalmente, si può anche sostenere che la ‘‘colpa è colpevolezza’’, ma a patto di cadere nell’altra contraddizione in adiecto: ‘‘non tutta la colpevolezza è colpevolezza della volontà’’ (38). (32) ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit, 1930 (rist. 1964), p. 38 ss. (33) ENGISCH, op. cit., p. 39; Arth. KAUFMANN, Das Schuldprinzip, 2. Auflage, 1976, p. 143 ss.; MULLER-DIETZ, Grenzen des Schuldgedankes, 1967, p. 46 ss. (34) Sulla riconducibilità della ‘‘responsabilità obiettiva’’ nel concetto ‘‘formale’’ di colpevolezza e sul suo carattere necessariamente legato alle peculiarità storiche di un dato ordinamento cfr. ENGISCH, op. cit., p. 40; Arth. KAUFMANN, op. cit., p. 143 s. e, in precedenza, MEZGER, Strafrecht, 1932 (rist. 1949), p. 260. (35) ENGISCH, op. cit., p. 40 ss. (36) Per un quadro complessivo della esperienza inglese cfr. il classico lavoro di Celia WELLS, Corporations and Criminal Responsibility, 1993, in particolare pp. 94 ss., e per l’insieme dei paesi anglosassoni FISSE-BRAITHWAITE, op. cit., p. 46 ss. Un’analitica penetrante ricostruzione degli orientamenti nei più diversi ordinamenti, europei ed extraeuropei, è presentata da DE MAGLIE, L’etica e il mercato, cit., passim. (37) RADBRUCH, in VDA, B.T., vol. V, 1905, p. 201 nota 2. Su questa notissima formulazione cfr. per tutti Arth. KAUFMANN, op. cit., p. 163. (38) I citati contradditori sillogismi sono stati visivamente evidenziati da EXNER, Das


— 1210 — La verità è che l’idea di colpevolezza in senso materiale può solo aspirare a dar conto delle vedute e delle pretese sociali dominanti, che hic et nunc giustificano un rimprovero ‘‘personale’’ per la commissione di un fatto di reato; e da questo punto di vista — ben noto da tempo — si comprende benissimo come quel rimprovero, se mosso nei confronti di una persona fisica, possa assumere negli ordinamenti dell’Europa continentale la fisionomia del dolo e della colpa incosciente, null’altro essendo che la traduzione giuridica (ereditata dal diritto romano) dei giudizi morali del senso comune che, rispettivamente, suonano all’incirca: ‘‘l’hai fatto apposta’’, ovvero (come riprovazione meno grave): ‘‘non l’avrai fatto apposta, ma almeno potevi evitarlo stando attento’’ (39). Muovendo da questo angolo visuale, si comprende agevolmente come il rimprovero di colpevolezza — e quindi il rispetto dell’art. 27 Cost. — possa benissimo riempirsi di contenuti diversi e peculiari, quando ad essere rimproverata è una persona giuridica. Decisive sono le ben diverse valutazioni — provenienti anche ‘‘dall’interno’’ del mondo delle imprese — che indicano i criteri su cui può fondarsi la riprovazione dell’operato dell’impresa concepita (si ricordi l’insegnamento degli aziendalisti, ricordato da Bastia) come un organismo dotato di autonomia rispetto ai soggetti che in un dato momento ne fanno parte a vario titolo (proprietari, management, personale in genere), che vive anche col venir meno di quei soggetti, e che è capace di produrre effetti virtuosi, ma anche illecitamente dannosi — vuoi a seguito di una vera e propria ‘‘politica d’impresa’’, magari sorretta da una radicata ‘‘cultura’’ deviante, vuoi per effetto di una ‘‘cattiva organizzazione’’. a) Questa peculiare diversità del rimprovero di colpevolezza che può essere mosso alle persone giuridiche è stata lucidamente posta in risalto — come ha segnalato Arroyo — dal Tribunale costituzionale spagnolo nella sentenza 246 del 1991. Ha detto quel Tribunale supremo: ‘‘il principio di colpevolezza’’ (operante anche per la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, prevista in Spagna quasi nelle stesse materie in cui vige in Italia) ‘‘deve essere applicato in maniera diversa da come avviene con le persone fisiche: la rimproverabilità deriva dal fatto di ‘‘non stimolare il rigoroso adempimento delle misure di sicurezza’’ da parte dei dipendenti: è ‘‘una responsabilità propria’’ della persona giuriWesen der Fahrlässigkeit, 1910, p. 45 e così riassunti da ENGISCH, op. cit., p. 41: ‘‘Alle Schuld ist Willenschuld, Der Fahrlässige will den Erfolg nicht, Fahrlässigkeit ist keine Schuld’’ — ‘‘Fahrlässigkeit ist Schuld, Der Fahrlässige will der Erfolg nicht, Nicht alle Schuld ist Willenschuld’’. (39) Cfr. HART, Colpa, ‘‘mens rea’’ e responsabilità penale, in Responsabilità e pena, trad. it., 1981, p. 163 ss.; HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, 2. Auflage, 1990, p. 217 ss., e i lavori ivi citati di BIERBRAUER-HAFFKE, Schuld und Schuldunfähigkeit, in HASSEMER-LUDERSSEN, Sozialwissenschaften im Studium des Rechts, III, 1978, pp. 138 ss. Cfr., altresì, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 3a ed., 2001, p. 649 s.


— 1211 — dica, che trova il suo fondamento nella ‘‘carenza di organizzazione’’ — una chiara allusione, come sottolinea Arroyo, al meno grave e più frequente rimprovero — per ‘‘colpa d’organizzazione’’ — che può essere mosso alla persona giuridica per i reati commessi nel corso della sua attività (40). b) Le radici di questo rimprovero si vedono già osservando ‘‘dall’interno’’ il mondo delle imprese. I noti ‘‘codici etici’’ statunitensi, benché inefficaci perché privi di apparati sanzionatori credibili, sono infatti composti da regole organizzative cautelari, finalizzate a scoprire e prevenire la commissione di reati nello svolgimento dell’attività d’impresa. ‘‘Dall’esterno’’ le imprese degli USA hanno ricevuto il primo progetto di imposizione giuridica della responsabilità per ‘‘colpa d’organizzazione’’ nel Model Penal Code del ’62: l’art. 2.07 prevede, come motivo di discolpa da parte della corporation, l’adempimento della due diligence per ‘‘prevenire la commissione di reati’’; finalmente, nel 1991, le Federal Sentencing Guidelines — nella parte relativa alle persone giuridiche — hanno imposto alle società l’adozione di compliance programs: un dettagliato e vincolante insieme di norme organizzative sempre finalizzate alla prevenzione dei reati da parte e nell’operato delle imprese, la cui più o meno grave violazione determina il grado di colpevolezza dell’impresa e, correlativamente, l’entità e il tipo di pena — a cominciare dalla pena pecuniaria, il cui ammontare anche minimo è severissimo (41). Il modello statunitense non è d’altra parte rimasto senza seguito (per mio conto, la caccia ad esemplari di quei « programmi », su impulso di un caso italiano, l’ho iniziata quasi subito, assegnando tesi a laureandi che si recavano negli Stati Uniti, Francia, Inghilterra, finché Cristina De Maglie non ha iniziato la sua approfondita investigazione a tutto campo). Come ha riferito Vervaele, anche in Olanda la prassi fa dipendere il ‘‘se’’ e il ‘‘quanto’’ di responsabilità delle imprese — a parte i casi di reati commessi come espressione di una ‘‘politica d’impresa’’ — dalla colpa di organizzazione: dall’adozione o meno di un’efficace rete di controlli organizzativi. In Italia, due le recenti esperienze normative nello stesso senso: il progetto Grosso, che accoglie molte indicazioni della De Maglie, e la recente disciplina del 2001, imperniata — agli artt. 6 e 7 — sull’idea della colpa d’organizzazione dell’ente, come uno dei criteri su cui si fonda la sua responsabilità. c) Incidentalmente: il citato art. 6 esonera l’ente da ogni responsabilità, se il fatto di reato è commesso dai vertici dell’impresa, qualora l’ente dimostri: di aver adottato un ‘‘efficace modello di organizzazione’’ (40) ARROYO ZAPATERO, op. cit., p. 4 ss. (41) Sui livelli di pena pecuniaria innalzati nel 1984 cfr. DE MAGLIE, op. cit., p. 39 ss.


— 1212 — (lett. a); di aver ‘‘affidato ad un organismo dell’ente’’ il compito di ‘‘vigilare sull’osservanza dei modelli’’ (lett. b); e che ‘‘non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo preposto’’ (lett. c). È una soluzione alquanto discutibile (42). Pensiamo al caso Enron: quella grande società potrebbe liberarsi dalle decine di azioni giudiziarie che la stanno assediando, se negli Stati Uniti fosse possibile discolparsi con successo — come del resto tenta l’Enron di discolparsi — esibendo un modello organizzativo imperniato sullo schema di insormontabili ‘‘mura cinesi’’, con l’aggiunta di occhiuti organismi di vigilanza, tanto efficaci da (...) non accorgersi delle malefatte dei vertici (...) che li hanno scelti, e che ad ogni istante potrebbero mandarli a casa (43). Tentativo fallito: ad onta di quel corredo di ‘‘mura di carta’’, le scelte fraudolente dei vertici non discolperanno né l’Enron, né le persone dei suoi vertici — perché negli Stati Uniti, come in Francia (dopo una lunga battaglia parlamentare) e come in Italia, ai sensi della recente disciplina amministrativistica, vige il sistema della concorrente responsabilità dell’ente e delle persone fisiche degli ‘‘agenti’’. Messo di fronte a questo sistema, Volk ha formulato una ‘‘cupa prognosi’’ di tutt’altro segno rispetto a quella poc’anzi evocata a proposito della disciplina italiana: ‘‘la responsabilità penale degli enti collettivi — ha ammonito — renderà più debole la posizione giuridica dell’individuo’’ (44). Vorrei tranquillizzarlo. L’esperienza di molti Paesi (Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Australia) — documentata nell’importante ricerca di Fisse e Braithwaite — mostra infatti che le cose si muovono in direzione opposta: le persone fisiche di regola non vengono perseguite, e a pagare — nel senso letterale della parola, trattandosi di mere e sole ‘‘pene pecuniarie’’ — sono perciò solo gli enti commerciali, grazie al meccanismo del patteggiamento (seguito anche dalla legge italiana) che ‘‘chiude’’ definitivamente il procedimento penale (45). Semmai, ad essere coinvolti sono gli esponenti del personale intermedio, scelti come ‘‘capri espiatori’’, e poi ripagati ad abundantiam dall’ente per il loro sacrificio: personalmente l’ho appreso nella mia non troppo lontana esperienza professionale, e tutti lo hanno visto quando la FIAT immolò un funzionario, Papi, per distogliere l’attenzione dei giudici di Milano dall’accusa di corruzione — che sembrare pendere sui vertici — relativa ad appalti per i trasporti metropolitani nell’area milanese. Papi fu difeso strenuamente dal grande e caro mio amico avvocato Chiusano, e poi, come si addice a questo genere di (42) Critico è anche BASTIA, op. cit., p. 15. (43) Già con l’‘‘affare Enron’’ si è visto il futuro: i ‘‘whistleblowers’’, quanti cioè dovrebbero segnalare (« soffiare ») ai vertici notizie su reati commessi o in itinere, come Sherron Watkins, che segnalò a Kennet Lay le falsificazioni dei bilanci Enron, vengono costretti alle dimissioni. (44) VOLK, op. cit., p. 3. (45) FISSE-BRATHWAITE, op. cit., p. 4 ss.


— 1213 — capri espiatori, fu ripagato dalla FIAT abbondantemente: qualche tempo dopo ha addirittura iniziato in proprio un’attività industriale. Questa tendenza alla ricerca di capri espiatori non è del resto solo italiana. Tutt’altro. Due (fra i tanti) sono infatti i ‘‘desiderata’’ manifestati da Fisse e Braithwaite in esito alla loro ricerca su scala internazionale: ‘‘bisogna porre rimedio nell’applicazione del nostro diritto penale societario alla tendenza a far sfuggire i singoli dalla loro responsabilità’’ (46), d’altra parte, ‘‘la strategia nell’individuazione della responsabilità individuale deve porre rimedio alla ricerca del capro espiatorio, che è divenuta endemica quando si persegue la responsabilità individuale per gli illeciti societari’’ (47). Breve: il modello ottimale di responsabilità deve coinvolgere sia gli enti sia le persone fisiche di chi o ha delineato la politica d’impresa delittuosa, o ha omesso di far predisporre un efficace sistema organizzativo per la prevenzione degli ‘‘strutturali’’ reati d’impresa. Esonerare gli uni o gli altri, con le più diverse tecniche (normative o prasseologiche), avrebbe l’effetto di un boomerang: l’introduzione della responsabilità diretta delle imprese verrebbe percepita dalla collettività come un artificio, ideato dalle stesse imprese. Quel modello ottimale esige inoltre che la responsabilità dell’ente non sia subordinata all’accertamento della responsabilità individuale, e neppure alla identificazione del nome dell’autore: è un’esigenza imposta dalla natura delle cose, messa ben in risalto dalla fondamentale raccomandazione europea del 1988 — specchio di riflessioni diffuse dappertutto — quando ha sottolineato che ‘‘la responsabilità dell’ente’’ va delineata considerando ‘‘la difficoltà che genera l’identificazione delle persone fisiche responsabili di reato’’, vista la struttura spesso complessa delle persone giuridiche (48). 8. Chiudo, rammaricandomi di non aver dato conto dei tanti profili e problemi emersi nel dibattito, che è stato comunque un dibattito a cielo aperto, accomunato dalla consapevolezza dei tanti nodi da sciogliere e diviso, per ora, solo sul modo di affrontarli. Del resto, nella raccomandazione europea testé nuovamente citata, si evocavano espressamente le differenti ‘‘tradizioni giuridiche dei numerosi Stati europei’’ come una manifesta ‘‘difficoltà’’ all’introduzione della responsabilità penale degli enti con personalità giuridica: una difficoltà superabile con l’introduzione di (46) FISSE-BRAITHWAITE, op. cit., pp. 135 e 158 ss. (47) FISSE-BRAITHWAITE, op. cit., pp. 136 182 ss. (48) La raccomandazione è apparsa in traduzione italiana su Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 653 s.


— 1214 — ‘‘altre forme’’ di responsabilità diretta (49). La realtà comunque preme, spinge: la realtà delle patologie su scala nazionale e transnazionale, al centro delle indicazioni della comunità europea, dell’ONU, dello stesso mondo economico più avvertito. Tutto spinge verso la ricerca di soluzioni adeguate a fronteggiare la criminalità d’impresa, con l’introduzione di una forma di responsabilità — nei pochi Stati che ancora non la conoscono — che coinvolga la stessa impresa. Si tratta di una soluzione ineludibile, che in Italia si è tradotta in una scelta legislativa che, anche se con mende e scelte criticabili, ha comunque segnato una rottura epocale: consente di dire — lo diceva Bastia — che rappresenta l’allineamento del nostro Paese, magari tardivo, ai Paesi più sviluppati e civilizzati, e che riceverà il benvenuto almeno da parte dei settori più avanzati del mondo delle imprese. GIORGIO MARINUCCI

(49) Op. loc. ult. cit.


VERITÀ, SCIENZA E GIUSTIZIA: LE FREQUENZE MEDIO-BASSE NELLA SUCCESSIONE DI EVENTI

SOMMARIO: I. Verità, scienza e giustizia. — 1. La concezione della verità come verità assoluta. — 2. La verità come corrispondenza delle proposizioni giurisdizionali con gli accadimenti del mondo reale e con la costruzione sociale del mondo. — 3. I costrutti sociali, le prove di diritto penale, la scienza e la dottrina dell’autopoiesi. — 4. Verità e giustizia: la corrispondenza agli eventi del mondo reale e ai costrutti sociali e scientifici come condizione indefettibile della decisione giusta. — 5. La verità nel processo e l’affidabilità delle ipotesi scientifiche: la validità della scienza per uno scopo può non essere la validità per altri scopi. — 6. Nella scienza non vi sono verità o certezze: la storia delle ricerche scientifiche sul cloruro di vinile. — 7. La scienza e il metodo scientifico: l’alto grado di conferma, il superamento dei tentativi di falsificazione di un’ipotesi scientifica, unitamente al consenso generale della comunità scientifica come standard necessario di approssimazione alla verità. — II. Le frequenze medio-basse nella successione di eventi. — 1. Alle radici dell’errore. — 2. Giudizi relativi alla possibilità o probabilità di esistenza del nesso causale e falsità delle pronunzie di condanna. — 3. La verità come scopo del processo penale e la falsità della proposizione giurisdizionale relativa all’imputazione causale di un evento singolo sulla base di una media o bassa frequenza. — 4. Il post hoc ergo propter hoc e l’esclusione di altre cause. — 5. Probabilità ex ante e probabilità ex post. — 6. La verità secondo la teoria della conoscenza e la falsità degli enunciati che pretendono di spiegare il caso singolo tramite il riferimento a frequenze basse, medie o anche elevate nella successione di eventi. — 7. Le ragioni giuridiche della insostenibilità della tesi enunciata dalle Sezioni Unite. — 8. L’insostenibilità della tesi delle Sezioni Unite per le ragioni giuridiche, legate alla esigenza della prova particolaristica. — 9. L’insanabile contrasto, all’interno della pronunzia delle Sezioni Unite, tra le proposizioni relative alle frequenze medio-basse e il riconoscimento della regola dell’oltre il ragionevole dubbio come regola vigente nel nostro ordinamento. — 10. I requisiti di eticità di una decisione giusta.

I.

Verità, scienza e giustizia (*)

1. La concezione della verità come verità assoluta. — Lo scopo di queste mie riflessioni è di fare chiarezza sul problema — la cui attualità è resa visibile dal recente intervento delle Sezioni Unite della Corte Suprema — dell’imputazione causale di eventi singoli, ritenuta possibile da taluni giudici sulla sola base del riferimento a frequenze (elevate o) me(*) Questo saggio è uno dei capitoli del volume sul tema ‘‘Giustizia e verità’’, in corso di elaborazione.


— 1216 — dio-basse nella successione di eventi. Questo problema si inserisce in un quadro più ampio del quale fanno parte non pochi temi della modernità, fra i quali spiccano il tema della sostituzione del criterio della condizione necessaria con il criterio dell’aumento del rischio, dei rapporti tra colpa e causalità e della interpretazione stessa del modello della sussunzione sotto leggi, sui quali mi sono intrattenuto in altri scritti (1). I disorientamenti giurisprudenziali su questi temi sono ben noti, e sono, si può dire, « a serie continua »: nella prassi, risolto un problema, ne sorge subito un altro, il che sta ad indicare l’urgenza di una nuova potatura del cespuglio di rovi costituito dalla causalità. È per questa ragione che, prima di affrontare l’argomento delle medie e basse frequenze, dovrò indugiare in una riflessione sui punti archimedici, sempre sottintesi ma mai esplicitamente chiariti, della discussione sulla causalità: mi riferisco al tema dei rapporti tra verità, scienza e giustizia. È proprio una dilagante incomprensione sul problema dei rapporti tra l’idea di « verità » nel processo penale, l’idea di « certezza » della scienza e gli scopi di giustizia del processo penale che minaccia oggi la rigorosità dello sviluppo della prassi giudiziaria sugli illeciti, legati allo sviluppo tecnologico e scientifico: da questa incomprensione nasce una confusione che diventa un’arma nelle mani di chi vuol fare trionfare l’idea di una giustizia penale interamente « senza verità », affidata ad un potere dispotico che sappia incarnare ben definiti convincimenti, intimamente soggettivi e inconfutabili, del giudicante. Alla massima « veritas, non auctoritas facit judicium » si vuole sostituire — facendo così rivivere dottrine e modelli teorici e politici di diritto penale di un passato mai dimenticato — la massima « auctoritas, non veritas facit judicium » (2); nelle versioni meno rozze, questa tendenza vuol far prevalere un modello penalistico nel quale, a fondare la rilevanza penale del fatto, non è più l’autorità della legge, ma una qualche pretesa verità sostanziale sulla dannosità sociale o sulla immoralità di certi comportamenti. Non sto parlando di vicende astratte: anche recentemente è accaduto che, in un grande processo, la strategia accusatoria venisse così illustrata dal pubblico ministero: « mi sono ispirato un po’ alla formula del diritto romano ‘da mihi factum, dabo tibi jus’ ...Parlerò di fatti, di documenti, di studi, di dichiarazioni, di scienze varie, di criminologia industriale, di im(1) Vd. STELLA, Giustizia e modernità, 2a ed., Milano, 2002, p. 185 ss.; ID., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, II edizione, 2000, passim; ID., Etica e razionalità nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, in questa Rivista, 2002, p. 767 ss. (2) Su queste massime, cfr. per tutti FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1998, p. 16 ss.


— 1217 — piantistica, di malattie, di tragedie umane e di disastri ambientali e chiederò al giudice jus e giustizia per tutte le vittime. Non parlerò, se non occasionalmente, di diritto ». Come si vede, i riferimenti al diritto dovrebbero essere solo occasionali e non dovrebbero servire a selezionare i fatti penalmente rilevanti. In prospettive di questo tipo, la veritas delle premesse giuridiche (3) non conta, e non deve contare nella costruzione del « mosaico dei fatti » delineato dall’accusa: diventa così assurda, ad esempio, la pretesa che gli accadimenti rilevanti sotto il profilo causale vengano selezionati secondo il criterio giuridico che, in tutto il mondo e da sempre, costituisce il minimo indispensabile per l’attribuzione individualizzante (causalità individuale) dell’evento lesivo, cioè secondo il criterio della condizione sine qua non (causa but for nei Paesi di common law). Perchè mai dovremmo restare legati, nella selezione degli eventi rilevanti, a questo vecchio arnese delle democrazie occidentali? Perchè non dovremmo ritenere superato lo schema classico del diritto penale d’evento, tutto incentrato, appunto, sulla condizione necessaria? I fatti parlano da soli, e da soli raccontano la propria storia, che è una storia di tragedie umane, di malattie, e di disastri ambientali. Vedrà poi il giudice di rispondere in modo adeguato alle attese di « giustizia » dell’accusa e delle vittime; e poichè queste attese di giustizia non possono essere appagate che attraverso l’accoglimento di premesse, quali il criterio dell’aumento del rischio, estranee, anzi ripudiate dal nostro ordinamento (4), il giudice dovrà improvvisarsi legislatore, inventando le premesse giuridiche (per l’appunto l’aumento del rischio) che meglio rispondono alle esigenze dell’accusa. Senonché, anche la costruzione accusatoria — nel diritto odierno non meno che nel diritto romano — dovrebbe essere una costruzione selettiva operata secondo i criteri offerti dalle norme vigenti: tutti sanno che, di fronte alla indefinita complessità del reale e alla sua indefinita scomponibilità, e di fronte all’indefinita pluralità di punti di vista, da cui ogni risultanza può essere presa in considerazione, chiunque formuli un enunciato fattuale deve porre in essere una serie di scelte selettive, compiute secondo dei criteri di rilevanza, che nel processo deve anzitutto essere rilevanza giuridica (5). Nel processo di cui sto parlando, invece, una precisa predeterminazione normativa dei fatti da accertare è stata rifiutata, e il giudizio è stato (3) Sulla quale vd., per tutti, FERRAJOLI, op. cit., p. 27 ss. (4) Sul punto, vd. la perentoria presa di posizione delle Sezioni Unite del 10 luglio 2002 in STELLA, Etica e razionalità nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 767 ss. (5) Sul punto, la letteratura è vastissima, e la concordia degli studiosi assoluta: cito, per tutti, TARUFFO, Considerazioni su prova e verità, in Sui confini, Bologna, 2002, p. 280.


— 1218 — rimesso assai più all’autorità del giudice che non alla verifica empirica delle fattispecie giuridiche accusatorie. È peraltro evidente che in questo modo la verità è stata intesa come verità materiale ed assoluta, individuata secondo criteri di rilevanza che riflettono il punto di vista personalissimo dell’accusatore: un punto di vista privo di limiti legali e di confini spazio-temporali, che decade inevitabilmente a giudizio personale di valore, di fatto largamente arbitrario e solidale con una concezione autoritaria e irrazionalistica del processo penale (6). È precisamente a questa visione del processo penale, fondata sull’arbitrio e solidale con una concezione autoritaria dello Stato, che si sono ispirate le numerose e ben note pronunzie giurisprudenziali in tema di rischi creati dall’attività produttiva o legati a pratiche sociali come l’attività medico-chirurgica (7): poichè ciò che conta non è la verità delle premesse giuridiche, ma la verità materiale, costituita da comportamenti negligenti o gravemente negligenti dell’imprenditore o del medico, il giudice spesso non esita a rivestire i panni del legislatore ed emana delle sentenze di condanna che manipolano il requisito della causalità fino al punto da farlo coincidere con la colpa. I diffusi « bisogni di punizione », emergenti di fronte a comportamenti palesemente negligenti (la verità materiale) vengono così appagati con il ricorso a proposizioni giurisprudenziali false, perchè basate su false premesse giuridiche. È così che prendono vita gli orientamenti giurisprudenziali che attribuiscono alla condizione sine qua non il significato di condizione necessaria dell’aumento del rischio o che individuano la causalità dei comportamenti omissivi applicando la formuletta delle « apprezzabili possibilità o probabilità di successo » della condotta doverosa omessa. Fortunatamente, questi cedimenti alle suggestioni della verità materiale oggi non sono più possibili, grazie al rasoio di Ockham usato da una serie cospicua di pronunzie della Corte Suprema (8) che ha trovato un potente suggello nella recente sentenza delle Sezioni Unite penali (9). (6) Così, sulla concezione della verità assoluta, FERRAJOLI, op. cit., p. 17. (7) Per un panorama di queste pronunzie, cfr. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 210 ss. (8) Cass., sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688; Cass., sez. IV, 29 novembre 2000, n. 2139; Cass., sez. IV, 28 novembre 2000, n. 2123, sulle quali vd. CENTONZE, Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità, in questa Rivista 2001, p. 277 ss.; Cass., sez, IV, 25 settembre 2001 — 16 gennaio 2002, p. 1585 e Cass., sez. IV, 25 settembre 2001 — 13 febbraio 2002, n. 1652 in D’ALESSANDRO, La certezza del nesso causale: la lezione ‘‘antica’’ di CARRARA e la lezione ‘‘moderna’’ della Corte di Cassazione sull’ ‘‘oltre il ragionevole dubbio’’, in questa Rivista, 2002, p. 737 ss.; Cass., sez. IV, 23 gennaio 2002, in Riv. pen., 2002, p. 671 ss. (9) Cfr. Cass. 10 luglio 2002, in questa Rivista, 2002, p. 1133, sulla quale vd., nella


— 1219 — 2. La verità come corrispondenza delle proposizioni giurisdizionali con gli accadimenti del mondo reale e con la costruzione sociale del mondo. — All’estremo opposto si collocano le teorie che escludono la possibilità stessa di una conoscenza oggettiva della verità. Tra queste teorie spiccano quelle versioni del pensiero « postmoderno » e « poststrutturalista » che negano l’esistenza di una realtà al di fuori del linguaggio: l’unica realtà e l’unica verità è quella racchiusa nei segni linguistici (10). Non occorre indugiare in riflessioni filosofiche per prendere le distanze anche da queste teorie radicali: sembra ovvio che, quando ci inoltriamo sul terreno di « pratiche sociali » come il giudizio, presupponiamo una realtà al di là del linguaggio, sulla quale indirizziamo le nostre indagini. Di ben poca utilità è altresì la teoria della coerenza come teoria della verità: per ogni evento si possono prospettare diversi e contrapposti insiemi di proposizioni tra loro coerenti (ad esempio, quelle del P.M. e quelle dell’avvocato), che, proprio per l’insanabile contrasto in cui vengono a trovarsi, rendono impossibile l’individuazione della verità sulla sola base della coerenza (11). Restano le teorie della corrispondenza. Di queste teorie, certamente inaccettabile è quella che ripropone il modello illuministico della perfetta corrispondenza tra previsioni legali e accadimenti concreti e del giudizio come applicazione meccanica della legge: si tratta di una « ingenuità filosofica viziata da realismo metafisico », scientificamente screditata, e per di più responsabile della « diffusa diffidenza verso lo stesso concetto di verità nel processo », che alimenta « atteggiamenti scettici e tentazioni decisionistiche » (12). Problematica potrebbe apparire anche l’applicazione al processo del concetto di verità, elaborato da ALFRED TARSKI: riferito ad un linguaggio formalizzato, tale concetto darebbe luogo non ad una definizione reale, ma ad una definizione nominale di verità, cioè ad « una stipulazione generale delle condizioni di uso del termine ‘vero’ ». Secondo questa definizione, « una proposizione P è vera se e solo se p, dove P sta per il nome metalinguistico della proposizione e p per la proposizione medesima, è vera: per esempio, la proposizione ‘la neve è bianca’ è vera se e solo se la neve è bianca »; oppure « la proposizione giurisdizionale ‘Tizio ha colpestessa rivista, STELLA, Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, cit., p. 767 ss. (10) Su queste teorie, vd. DAMAŠKA, Truth in Adjudication, in 49 Hastings Law Journal, 1998, p. 290. (11) Così, DAMAŠKA, op. cit., p. 291 ss. (12) FERRAJOLI, op. cit., p. 19-20.


— 1220 — volmente commesso il tale fatto’ è vera se, e solo se, Tizio ha colpevolmente commesso il tale fatto » (13). Si tratta davvero di una concezione che — come sostiene FERRAJOLI — riflette le condizioni d’uso, nel processo, dell’idea di verità? A prima vista, parrebbe di no. Volendo utilizzare gli esempi forniti dallo stesso FERRAJOLI, si può dire che « fa parte del senso dell’uso comune dire che un testimone ha detto il vero oppure il falso, che è vera o che è falsa la ricostruzione di una vicenda offerta da una requisitoria o da una arringa difensiva o che una condanna o una assoluzione sono fondate o infondate innanzitutto se sono vere o sono false la versione dei fatti in esse contenuta e la loro qualificazione giuridica ». Ma proprio la condizione di uso nel processo delle parole « verità » e « falsità » evocano non già l’idea che una testimonianza, la ricostruzione di una vicenda, la versione dei fatti contenuta in una sentenza sono vere o false se e solo se sono vere o false, ma piuttosto l’idea di una loro corrispondenza con gli eventi del mondo reale. Tutto ciò sta ad indicare che decisiva, sotto il profilo delle condizioni d’uso nel processo, è l’idea della corrispondenza tra proposizione giurisdizionale e accadimento concreto: idea che deve essere intesa non secondo il modello illuministico della corrispondenza perfetta, ma, come riconosce FERRAJOLI, nel senso di modello-limite mai pienamente raggiungibile, ma solo approssimabile e cioè come verità relativa, verità provvista di conferma. In altre parole, si tratta di una verità e di una corrispondenza alla quale ci si può soltanto « accostare o avvicinare »: una corrispondenza approssimativa che consente di asserire che una tesi o una teoria sono provviste di un grado più o meno elevato di conferma empirica. Concordo con TARUFFO nel ritenere che due sono le principali argomentazioni a sostegno di questa tesi: la prima argomentazione è che la norma giuridica che viene usata dal giudice come criterio di decisione presuppone che la konkrete-tatbestand si sia realmente verificata fuori del processo e delle sue narrazioni ossia nel mondo degli accadimenti reali (empirici, storici, materiali e così via). Se tale fatto non è accaduto « nella realtà », la norma non può essere applicata e, se lo è, ciò basta a rendere ingiusta la sentenza; la seconda ragione è che nel processo si usano prove e queste servono a fornire informazioni su eventi che si ipotizzano accaduti fuori dal processo. In questo senso, la prova è il tramite tra i discorsi che si fanno nel processo e gli accadimenti del mondo reale: « un testimone veritiero narra ‘ciò che ha visto o sentito nel mondo dei fatti reali’ » (14). (13) FERRAJOLI, op. cit., p. 21. (14) TARUFFO, op. cit., p. 303.


— 1221 — È peraltro indiscutibile che in molti casi il giudice non ha a che fare solo con accadimenti materiali, empiricamente verificabili. Si possono fare molti esempi di eventi la cui principale caratteristica è di essere socialmente o culturalmente costruiti e di essersi verificati entro contesti sociali a volte estremamente sofisticati e complessi, al di fuori dei quali essi non sono neppure immaginabili. DAMAŠKA fa l’esempio dei giorni della settimana, e osserva che essi sono certamente dei costrutti sociali, che non fanno parte della natura, ma l’indagine sul fatto che l’evento verificatosi abbia avuto luogo nella realtà in un determinato giorno della settimana non è priva di significato (15) sotto il profilo della verità. TARUFFO, dal canto suo, fa l’esempio della riduzione del tasso di sconto da parte della Federal Reserve: si tratta di un fatto — osserva lo studioso — della cui esistenza reale pochi operatori finanziari dubiterebbero, qualora ne avessero la prova, e nelle controversie commerciali internazionali la riduzione va considerata come un fatto importante che si è verificato nel mondo dei fenomeni finanziari « reali ». Si tratta quindi di un evento al quale anche un enunciato processuale vero deve corrispondere. Considerazioni analoghe possono essere fatte per ogni altro fatto che sia in tutto o in parte socialmente o culturalmente costruito; i fatti empirici costituiscono solo il materiale grezzo che viene usato per le più varie costruzioni sociali, valutative, simboliche o categoriali. In breve, ogni realtà costruita socialmente presuppone una realtà non costruita socialmente ed è incontestabile che, di fronte ad enunciati che affermano l’esistenza di fatti non riducibili ad una semplice dimensione empirica, il giudice deve comunque stabilire la corrispondenza alla realtà: a questo servono le prove, nel processo come in ogni altro ambito di esperienza (16). Esempi meno banali possono confortare la tesi del costruttivismo: la scienza e gli enunciati scientifici sono costrutti sociali; le massime di esperienza sono pure costrutti sociali; perfino la logica del probabile è un costrutto sociale e l’indagine che su tali costrutti si svolge è densa di significato, proprio per la ricerca sugli eventi del mondo reale che si svolge nel processo. Appare però fuori discussione che il costruttivismo sociale complichi le pretese di obbiettività, giacchè i costrutti sociali richiedono a loro volta che venga appurata la loro corrispondenza con la realtà; vedremo tra poco quanto sia impegnativo questo compito. In via di principio, si può dunque asserire che la verità va intesa anche come corrispondenza ai costrutti sociali, quando questi ultimi siano corrispondenti alla realtà. (15) DAMAŠKA, op. cit., p. 291. (16) TARUFFO, op. cit., p. 303.


— 1222 — Questo è il modello ideale di verità al quale ci si può soltanto avvicinare in via approssimativa. Tornando alla definizione di TARSKI, che non si impegna direttamente sulla corrispondenza ontologica tra le tesi di cui è predicata la verità e la realtà di cui esse parlano, si può senz’altro convenire con FERRAJOLI sulla sua utilità pratica (17). Dire ad esempio che la proposizione « il nesso causale esiste, è vera se e solo se il nesso causale esiste », può servire a definire false quelle proposizioni giurisdizionali che asseriscono l’esistenza del nesso causale quando tale nesso non esiste. Peraltro, per sapere se nella realtà il nesso causale esiste, abbiamo bisogno di conoscere i criteri alla cui stregua la causa penalmente rilevante deve essere provata; e questi sono, per l’appunto, i criteri che FERRAJOLI definisce di applicazione della definizione di TARSKI. Su questi criteri, e perciò sulla effettiva corrispondenza degli enunciati processuali con gli accadimenti del mondo reale, si appunteranno in prevalenza le mie riflessioni. 3. I costrutti sociali, le prove di diritto penale, la scienza e la dottrina dell’autopoiesi. — Una chiusura totale nei confronti del costrutto sociale costituito dalla scienza è reclamata dalla teoria, da tempo definitivamente screditata, ma talora inopinatamente riproposta, per la quale alle prove di diritto penale sarebbero del tutto estranee le prove scientifiche. Formulata nella seconda metà del secolo scorso dai giudici del processo sul talidomide, questa teoria muove dal distinguo tra scienze dello spirito e scienze della natura: nell’ambito delle prime, cui apparterrebbe la scienza penalistica, la metodologia probatoria sarebbe irriducibilmente diversa dalla metodologia scientifica, perchè sarebbe basata sulla comprensione intuitiva della realtà, e non sull’osservazione e sull’esperimento e sui criteri di conferma e di falsificazione delle ipotesi scientifiche. In questa prospettiva, la verità dovrebbe essere intesa come corrispondenza non già alla realtà, ma alla intuizione e al fiuto degli organi inquirenti e giudicanti: più che la verità avrebbe dunque rilievo l’autorità del giudicante (auctoritas, non veritas, facit judicium). Ho già avuto occasione (18) di occuparmi di un simile modo di concepire le prove e la verità nel processo penale, mettendone in evidenza il carattere spiccatamente autoritario, e segnalando, per un verso, l’inconsistenza del riferimento alla distinzione, oggi superata, tra scienze dello spirito e scienze della natura e, per l’altro verso, il carattere paradossale delle sue implicazioni: ancora un passo, e potremmo assistere ad esilaranti riedizioni del processo a Galileo! Ora voglio aggiungere, sul tema della pretesa autonomia delle prove (17) FERRAJOLI, op. cit., p. 22. (18) STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 67 ss.


— 1223 — di diritto penale, qualche considerazione tratta dalla dottrina dell’autopoiesi. Elaborata dai biologi cileni VARELA e MATURANA, sviluppata e applicata per la comprensione del funzionamento dei sistemi sociali da LUHMANN, esplorata nei suoi aspetti filosofici da TEUBNER, la dottrina dell’autopoiesi può essere interpretata in un significato improprio denotante l’autopoiesi chiusa, cioè un « sistema di senso » che produce e riproduce se stesso, senza alcun riferimento a punti archimedici esterni; un sistema autodefinito, non determinato da autorità esterne o dall’autorità dei testi », il quale nasce « dall’arbitrio delle sue stesse possibilità » (19). L’idea delle prove penali come prove elaborate autonomamente, e in via esclusiva, dalla scienza del processo penale è appunto l’espressione dell’autoreferenzialità propria della autopoiesi chiusa; essa dà luogo ad un « sistema di prove » che si autoriproduce, con una chiusura assoluta nei confronti dei punti archimedici esterni costituiti dalla scienza e dagli altri costrutti sociali. Ma l’autopoiesi non può essere intesa in questo modo: il « sistema di senso » deve essere, al tempo stesso, chiuso e aperto nei confronti dell’ambiente esterno; se non fosse anche aperto, ammonisce LUHMANN, verrebbe meno la ragione stessa dell’autopoiesi come criterio di interpretazione dei sistemi sociali (20): l’apertura verso l’ambiente esterno è una condizione della conservazione evolutiva di ogni sistema. Quando si pretende, perciò, di costruire il sistema delle prove come un sistema autopoietico chiuso, si fa una scelta del tutto arbitraria e priva di un significato razionale: il diritto delle prove che ne risulta non corrisponde alla realtà del mondo reale, ma alla supposta realtà di un mondo che il sistema autopoietico ha definito e modellato come se fosse il mondo reale. Il diritto delle prove e le sue applicazioni, in altre parole, danno luogo ad un mondo fittizio, che parla con se stesso, di se stesso, e nei suoi propri termini; non è perciò sbagliato dire che il diritto delle prove così inteso, sia come teoria che come prassi, si affida in larga misura a menzogne. E si badi: sono menzogne di un mondo costruito fittiziamente per favorire esiti decisionistici di stampo autoritario (21). La verità è invece che, interpretata correttamente, l’autopoiesi sta ad indicare un’autonomia relativa dei « sistemi di senso » e quindi anche del (19) TEUBNER, Rechts als autopoietisches system, Frankfurt am Main, 1989, trad. it., Il diritto come sistema autopoietico, Milano, 1996, p. 1 ss. (20) Per la vastissima bibliografia delle opere di LUHMANN si veda LOSANO, Sistema e struttura nel diritto, Milano, 2002, p. 310 ss. Sui sistemi autoreferenziali chiusi e aperti, e in particolare sul diritto come sistema ‘‘normativamente chiuso e conoscitivamente aperto’’ cfr. LUHMANN, Schluss, in Rechtssoziologie, Westdeutscher Verlag, Opladen 1987, p. 356 ss; nonchè TEUBNER, op. cit., p. 1 ss. e LOSANO, op. cit., p. 328 ss. (21) LEMPERT, Built on Lies: Preliminary Reflections on Evidence Law, as an Autopoietic System, 49 Hastings Law Journal, 1998.


— 1224 — diritto delle prove (in ciò sta il significato dell’autopoiesi concepita come sistema autoreferenziale contemporaneamente chiuso e aperto): il carattere relativo della autonomia sta ad indicare che l’autopoiesi è un progetto già di per sè interdisciplinare, che può fornire la chiave di comprensione di dottrine giuridiche interdisciplinari, come quelle che vanno sotto il nome di « diritto ed economia », « diritto ed etica », « diritto e scienza » (22). 4. Verità e giustizia: la corrispondenza agli eventi del mondo reale e ai costrutti sociali e scientifici come condizione indefettibile della decisione giusta. — Al tema della verità, concepita come corrispondenza ai fatti empiricamente accertati e ai costrutti sociali, è strettamente collegato il concetto di giustizia, un concetto assai complesso e ancor oggi incerto, ma che non si può trascurare quando si parla del processo come modalità di « amministrazione della giustizia ». Qual è la decisione giusta? Secondo RAWLS, la giustizia della procedura è l’unico elemento che determina la giustizia del suo risultato. Questo concetto, assai fecondo in molti contesti (primo fra tutti quello della filosofia politica), non appare peraltro sufficientemente esplicativo proprio in un contesto come quello giudiziario, in cui la procedura si rivela assai importante. La giustizia della procedura è certamente una condizione della giustizia della decisione, ma non l’unica condizione. Lo spiega benissimo TARUFFO: « ciò deriva essenzialmente dal fatto che, con buona pace di tutte le numerose metafore del ‘processo come gioco’, il processo giudiziario non è affatto un gioco ... giacchè il processo non ha in sé, ossia nelle regole procedurali, alcun meccanismo di predeterminazione del suo esito .... e si conclude con una decisione (non con lo scadere di un termine o con la constatazione di chi è arrivato per primo al traguardo) che deriva dalla applicazione di norme nei casi concreti ». Ed ecco il punto: « si ha corretta applicazione della regola di diritto al caso concreto se e solo se la norma è adeguata al caso e viene interpretata correttamente e i fatti che costituiscono il caso sono accertati in modo veritiero ». Assieme alla prima, la seconda condizione rispetta un criterio sostanziale di giustizia. Infatti, se una norma definisce una certa fattispecie come premessa necessaria di determinati effetti giuridici, ma il singolo fatto concreto che corrisponde alla fattispecie non esiste, in quanto risulta falso l’enunciato che lo descrive, allora la norma non può essere applicata in quel caso; se tuttavia il giudice la applica, ciò basta per dire che la deci(22) BAXTER, Autopoiesis and the ‘‘Relative Authonomy of the Law’’, in 19 Cardozo Law Review, 1987, p. 2087-2190.


— 1225 — sione non è giusta. Ciò significa — è la conclusione condivisibile di TA— che « la decisione giudiziaria è giusta, sotto il profilo delle norme sostanziali, solo se è vero l’enunciato relativo ad un fatto che integra la condizione di applicazione della norma ... Peraltro è ovvio che ad un processo giusto possa far seguito una decisione ingiusta, se il giudice sbaglia nell’interpretare la norma o se i fatti non vengono correttamente accertati perchè il giudice valuta in modo errato l’esito delle prove » (23). In via conclusiva, si può dunque asserire che la verità, intesa come corrispondenza ai fatti e ai costrutti sociali, svolge un ruolo di decisiva importanza per individuare la decisione giusta.

RUFFO

5. La verità nel processo e l’affidabilità delle ipotesi scientifiche: la validità della scienza per uno scopo può non essere la validità per altri scopi. — Va così chiarendosi a poco a poco il significato di verità come corrispondenza ai fatti e a costrutti sociali quali la scienza: il diritto delle prove è autonomo perchè autonomamente definisce, in funzione degli scopi del processo, i criteri di affidabilità — di verità approssimativa — degli enunciati scientifici; ma è autonomo relativamente, perchè quei criteri debbono essere scelti fra quelli che il dibattito scientifico segnala come criteri che consentono i maggiori accostamenti possibili alla verità dei fatti. È precisamente questo il significato di uno dei più grandi eventi giuridici dei nostri tempi: l’emanazione, da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1993, della sentenza sul caso Daubert (24). Un ruolo centrale, in questa sentenza, è svolto proprio dal riferimento agli scopi: « la validità scientifica — dicono i giudici americani — per uno scopo non è necessariamente validità per altri scopi ». Questo riconoscimento, non ancora ben chiaro nella prassi giudiziaria italiana e del continente europeo, costituisce una pietra angolare per la comprensione del problema della verità nel processo. Il sapere scientifico può essere utilizzato per scopi diversi: per capire, sia pure in modo approssimativo, il mondo reale, e quindi per individuare il significato di verità approssimativa dei fatti, oppure per rendere possibile l’emanazione di regole cautelari a tutela della vita e della salute, in ossequio al principio di precauzione. Una distanza siderale separa questi due scopi: solo il primo ha a che fare con il problema della verità, e quindi con gli scopi di un processo che, come quello penale, è chiamato a realizzare lo schema classico del diritto penale del danno; il secondo non è primariamente uno scopo di verità (23) TARUFFO, op. cit., p. 292. (24) La sentenza Daubert è riportata ed ampiamente illustrata in STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 346 ss.; cfr. pure ID., Leggi scientifiche, cit., p. 409 ss.


— 1226 — giacchè, per la prevenzione dei danni alla vita e alla salute, possono apparire utili degli escamotages (le c.d. opzioni di défault) che con la verità dei fatti non hanno nulla a che vedere. Le norme che fissano gli standard lavorativi in luoghi in cui il lavoratore è esposto a sostanze cancerogene genotossiche si basano, in virtù del principio di precauzione, su stratagemmi quali l’enunciazione del principio della non-soglia, derivante dall’estrapolazione matematica lineare dalle alte alle basse dosi, e dal principio dell’identità di reazioni dell’organismo umano e degli organismi animali e perciò sulla estrapolazione da animale ad uomo. Analogamente, per le sostanze alimentari, la scienza delle agenzie procede mediante la fissazione di limiti soglia, cioè di limiti alla presenza di contaminanti nell’acqua e negli alimenti che sono lontani — spesso assai lontani — dai livelli ai quali sono stati osservati effetti dannosi nell’uomo e nell’animale. I limiti soglia sono, in altre parole, determinati applicando un coefficiente di sicurezza: quando sono in gioco beni supremi come la vita e la salute, è ragionevole attestarsi su standard fittizi che vanno al di là dei fatti (gli effetti osservati), per una garanzia precauzionale ottimale. Gli scopi legati al principio di precauzione danno dunque luogo scopertamente ad un « mondo fittizio » che non rispecchia il mondo reale; proprio per questo gli scopi della scienza utilizzata dalle agenzie regolamentatorie impongono di considerare validi, affidabili, provvisti di una giustificazione accettata, enunciati scientifici privi invece di validità e di affidabilità, nel contesto di pratiche sociali come i processi, il cui scopo è il raggiungimento della verità, intesa come corrispondenza con i fatti. Ovviamente, si può tentare di rendere meno fittizio anche il mondo costruito dalla scienza delle agenzie regolamentatorie. È ciò che è avvenuto negli Stati Uniti con una serie di sentenze, emanate nell’ultimo ventennio, che annullano alcune decisioni delle agenzie. Mi riferisco: alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1980 relativa al benzene ed in particolare all’opinione del giudice STEWART, il quale, constatato che l’OSHA aveva addotto una serie di prove voluminosa sugli effetti dannosi dell’esposizione al benzene, a livelli ben al di sopra di 10 ppm, giudica ragionevole la fissazione del limite soglia a 10 ppm, ma irragionevole la proposta dell’OSHA di abbassare quella soglia a 1 ppm; alla sentenza della Corte Suprema degli U.S.A. del 1987, relativa al cloruro di vinile monomero, la quale definisce arbitrarie e capricciose le scelte dell’EPA compiute utilizzando il metodo dell’estrapolazione lineare, dai rischi conosciuti ai rischi stimati, a livelli di esposizione per i quali non ci sono dati scientifici disponibili. Questo metodo — dice la Corte — si basa sui risultati di esposizioni a livelli molto alti dei contaminanti pericolosi, e cerca di dimostrare un qualche rischio a qualunque livello: non c’è però nessun motivo per pensare che questa valutazione


— 1227 — possa essere tratta da leggi matematiche e non invece da conoscenze scientifiche particolari; alla sentenza della Corte Suprema del 1997 sul caso Joiner, relativa agli studi sugli animali, la quale ribadisce che le agenzie regolamentatorie devono basare le loro valutazioni su ipotesi scientifiche, formulate nel rispetto del metodo scientifico, e non su ipotesi transcientifiche, cioè politiche, come sono quelle che sorreggono l’estrapolazione da animale ad uomo, soprattutto quando gli esperimenti sugli animali sono condotti ad alte dosi di esposizione; alla sentenza della Corte Suprema del Texas del 1995, relativa al caso Havner, per la quale l’individuazione degli effetti teratogeni di una sostanza non può basarsi sugli studi su animali presi da soli; alla sentenza della Corte d’Appello del Distretto di Columbia del 2000 sul cloroformio, la quale definisce arbitrarie e capricciose le pretese dell’EPA di definire, sulla base dell’estrapolazione lineare, il livello al quale non si verifica nessun effetto dannoso, conosciuto o previsto, per la salute della persona. Come si vede, il controllo esercitato in America dalle Corti sull’attività delle agenzie tende a ridurre la fittizietà del mondo costruito sulla base di opzioni di défault, cioè su basi utilizzate in assenza di una conoscenza scientifica e legate a giudizi politici. Istruttivi, a riguardo, i rilievi svolti anche dal Consiglio Nazionale delle Ricerche degli Stati Uniti. Di rilievo è l’affermazione formulata dal Consiglio in base alla quale « ci sono ragioni, basate sia su principi biologici che su osservazioni empiriche, per supportare l’ipotesi che molte forme di risposta biologiche possono essere estrapolate tra mammiferi, compreso l’uomo, ma le basi scientifiche di queste estrapolazioni non sono state stabilite con sufficiente rigore da ammettere delle generalizzazioni ampie e definitive ». Altrettanto significativa la valutazione compiuta dal Consiglio sulle estrapolazioni lineari, secondo la quale « l’estrapolazione lineare è un presupposto volto alla tutela della salute pubblica, ma numerosi esempi suggeriscono che, in assenza di osservazioni sul meccanismo d’azione, sulla farmacocinetica e sul tempo necessario per l’insorgenza del tumore, questo presupposto potrebbe non essere corretto » (25). Nel continente europeo, l’assenza di un controllo dei tribunali sulle disposizioni regolamentatorie impedisce di disancorare il principio di precauzione dal mondo fittizio, costruito sulle estrapolazioni lineari dalle alte alle basse dosi e sulle estrapolazioni da animale ad uomo. Resta però indiscutibile che le opzioni di défault ineriscono a scopi ben diversi da quelli che caratterizzano il processo: non scopi di verità ma di sicurezza ultraprudenziale nei progetti di salvaguardia della vita e della salute. Il « costruttivismo » non può certamente pretendere che la verità (25) La sentenza e i passi del Consiglio Nazionale delle Ricerche citati sono riportati nel testo integrale in STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 454 ss.


— 1228 — vada intesa come corrispondenza a costrutti sociali che, per definizione, non rispecchiano la realtà del mondo in cui viviamo: ecco perchè non è proprio il caso di parlare di verità a proposito della scienza elaborata dalle agenzie regolamentatrici; ed ecco perchè le direttive impartite da tali agenzie appaiono irriconducibili alle prove di diritto penale. 6. Nella scienza non vi sono verità o certezze: la storia delle ricerche scientifiche sul cloruro di vinile. — Passando ora alle teorie e alle ipotesi scientifiche in senso proprio, ci imbattiamo in un problema assai complesso: ogni ipotesi, ogni legge della scienza cerca di essere lo specchio fedele dei fatti del mondo reale. Ma la domanda se, con riferimento a quelle ipotesi e a quelle leggi, la verità possa essere intesa come corrispondenza con il mondo reale, suscita un ginepraio di problemi. Occorre infatti prendere atto che nella scienza non vi sono certezze, nè verità definitive e che l’idea della verità scientifica come verità certa è esattamente un mito, cioè una falsa storia: la storia vera della scienza è la storia tortuosa e complessa di errori commessi, commessi per risolvere i problemi e poi eliminati, ed eliminati da teorie e tentativi migliori dei precedenti, ma peggiori dei successivi. La storia della scienza, in altre parole, è un cimitero di errori, anche se sono innegabili il progresso e la crescita della conoscenza. Si può dire così che la verità-falsità di una ipotesi scientifica è un problema destinato a rimanere sempre aperto. In questa situazione, diventa di capitale importanza capire se il giudice — impegnato nella ricerca della verità — abbia a disposizione dei criteri di « accettabilità giustificata » delle ipotesi scientifiche che vengono prospettate nel processo. Il rischio di sentenze errate, non corrispondenti alla verità, è paurosamente elevato. Non occorre neppure, per convincersene, ripercorrere le tappe della storia della scienza per illustrare la ricchezza di errori commessi dagli scienziati (26): basta volgere lo sguardo a qualche recente processo per capire quanto gravi possano essere gli errori in cui può cadere il giudice, ammaliato dalla scienza. Così, nel grande processo sul cloruro di vinile, celebratosi in Italia, i giudici si sono trovati di fronte — per tutto l’arco del dibattimento — alla perentoria affermazione dell’OMS, contenuta nelle monografie dell’agenzia di Lione (IARC), secondo la quale il cloruro di vinile « causa tumori ai polmoni, al cervello e al sistema emolinfopoietico ». Sul finire del dibattimento, le coup de thêatre: i due scienziati avvicendatisi alla direzione delle ricerche multicentriche, avviate dalla IARC dopo il 1987 e conclusesi con il rapporto Ward del 2000, sentiti come testi citati dal P.M., dichiararono testualmente: « le analisi di dose-risposta sono state applicate (26)

Cito, per tutti, FOSTER-HUBER, Judging Science, Sabon, 1997, p. 69 ss.


— 1229 — a tutte queste sedi e per nessuna di queste noi abbiamo visto una dose-risposta, cioè un rapporto costante e significativo tra le dosi e gli effetti. Non c’era un eccesso di tumori del polmone, cioè nel rapporto tra osservati ed attesi ci sono meno osservati che attesi; noi non abbiamo trovato un effetto dose-risposta nè per il linfosarcoma, nè per il tumore al cervello ». Dove stava la verità? Il giudice doveva ritenere corrispondenti con gli accadimenti del mondo reale i perentori enunciati della IARC degli anni ’79 e ’87, oppure gli enunciati, altrettanto perentori, che riassumevano i risultati delle ricerche IARC degli anni ’90? Come si vede, il problema della verità intesa come corrispondenza ai fatti del mondo reale non guarda in faccia a nessuno: esso emerge prepotente anche quando sono in gioco istituzioni prestigiose come l’OMS e la IARC, le massime autorità scientifiche internazionali per le ricerche sul cancro. L’accuratezza delle indagini giudiziarie (27) avrebbe certo consentito di fare emergere taluni aspetti di rilievo: l’effetto cancerogeno del cloruro di vinile sui tre organi bersaglio diversi dal fegato, solennemente proclamato dalla IARC del ’79 e dell’87, era discusso nella comunità scientifica, e vi erano ricerche epidemiologiche che non confermavano tutti e tre quegli effetti; per di più, le ricerche epidemiologiche utilizzate dalla IARC non erano ricerche dose-risposta: un epidemiologo non dovrebbe mai prescindere dall’effetto dose-risposta, perchè « è parte integrativa dell’evidenza, sulla quale cerca poi di basare una valutazione complessiva che deve tendere a dire ‘tra questi due fatti, esposizione e malattia’, è plausibile un legame causale ». Vi era infine una spia che avrebbe dovuto accrescere la diffidenza del giudice nei confronti delle dichiarazioni della IARC: nella monografia del ‘79 vengono citati studi scientifici dai quali emergerebbe — secondo gli scienziati della OMS — una conferma dei pretesi effetti cancerogeni sul polmone, basata sugli esperimenti su animali, cioè su criceti, ratti e topi. Ma il riferimento a quegli studi è oggettivamente un falso grossolano: proprio dalla loro lettura viene fuori la verità, e cioè che il cloruro di vinile, somministrato per via orale e per inalazione a criceti e ratti non ha dato luogo all’insorgenza di tumori al polmone nelle due specie; tumori polmonari non sono stati indotti con il trattamento da CVM neppure nei topi, quando si sono usati ceppi di topi non geneticamente suscettibili. D’altro lato, le ricerche della IARC successive all’87 sono, per comune riconoscimento, qualitativamente assai migliori delle ricerche epidemiologiche compiute anteriormente all’87, anche perché basate sull’effetto dose-risposta. (27) All’accuratezza attribuisce un ruolo centrale DAMAŠKA, Evidence Law Adrift, Yale University Press, 1997, p. 74 ss.


— 1230 — Si può dunque certamente pensare che il giudice avesse a disposizione tutti gli elementi per decidere se fossero corrispondenti agli accadimenti del mondo reale gli enunciati della IARC del ’79 e dell’87, oppure quelli formulati dalla stessa IARC in base alle indagini successive all’87. È però evidente che la verità o falsità di una proposizione scientifica è un problema che non può essere risolto di volta in volta dal giudice, secondo criteri adottati per la singola ipotesi scientifica considerata, ma deve essere risolto sulla base di principi metodologici universalmente validi. È per questo che risultano decisive le indicazioni della già citata sentenza Daubert, emanata nel 1993 dalla Corte Suprema americana: sono indicazioni che riguardano il modo con cui il giudice deve intendere il metodo scientifico e il ruolo che devono svolgere la conferma e la falsificazione dell’ipotesi scientifica, nonchè il consenso generale della comunità scientifica. 7. La scienza e il metodo scientifico: l’alto grado di conferma, il superamento dei tentativi di falsificazione di un’ipotesi scientifica, unitamente al consenso generale della comunità scientifica come standard necessario di approssimazione alla verità. — Conferma e falsificazione sono due modi esattamente antitetici di concepire il metodo scientifico; due modi che si contrappongono a loro volta al metodo dell’accettazione generale da parte della comunità scientifica. Si tratta, come subito si capisce, dei principali filoni di pensiero che hanno caratterizzato il dibattito sul metodo scientifico svoltosi durante tutto l’arco del Novecento: sono in gioco la concezione induttivistica (di CARNAP, HEMPEL ed altri), la concezione falsificazionista (di POPPER) e la concezione del mutamento di paradigma della scienza normale (di THOMAS KUHN). La grande portata della sentenza Daubert sta proprio in ciò: nell’aver voluto garantire il massimo di verità relativa raggiungibile, imponendo ai giudici di giudicare affidabili solo le ipotesi scientifiche che, oltre a godere di un alto grado di conferma, siano state sottoposte, e abbiano superato, test di falsificazione, ed in più — in via sussidiaria — abbiano ricevuto il consenso della comunità scientifica. Va solo aggiunto che i principi enunciati da Daubert sono stati completati, nel 1999, dalla stessa Corte Suprema americana con la sentenza relativa al caso Kuhmo: i requisiti di affidabilità e di validità enunciati da Daubert si applicano anche a tutte le testimonianze degli esperti, comprese quelle sulla tecnica (28). Sono questi gli standard di approssimazione alla verità che dovreb(28) Kuhmo Tire Company, LTD. v. Carmichael, 526 U.S. 137, 119 S. Ct. 1167, 143 L. Ed. 2d 238, nr. 97-1709 (1999). Per un commento a questa sentenza cfr., per tutti, KAYE, The Dynamics of Daubert: Methodology, Conclusions and Fit in Statistical and Econometric Studies, in 87 Virginia Law Review, 2001, 1933.


— 1231 — bero valere, in via generale, nel processo: l’alto grado di conferma e la corroborazione risultante dai tentativi di falsificazione dell’apparato probatorio dell’accusa costituiscono gli unici strumenti per capire se la colpevolezza dell’imputato sia stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio. II.

Le frequenze medio-basse nella successione di eventi.

1. Alle radici dell’errore. — Il quadro fin qui tracciato sui rapporti tra verità, scienza e giustizia consente di collocare in una prospettiva feconda i grandi temi della modernità, fra i quali spicca quello relativo al ruolo della statistica nel processo penale (29) e, segnatamente — dopo l’intervento delle Sezioni Unite —, quello concernente il riferimento alle frequenze medio-basse nella successione di eventi. L’idea che l’imputazione causale possa essere operata dal giudice sulla base del riferimento a frequenze medio-basse nella successione di eventi ha trovato qualche sostenitore in dottrina (30) ed è ora sorprendentemente penetrato nella giurisprudenza proprio attraverso la pronunzia del 10 luglio 2002 delle Sezioni Unite della Corte Suprema che, per altri profili, costituisce un passo assai importante nel processo di chiarimento dei rapporti tra scienza e giustizia. Si tratta di una tesi che può essere fonte di errori esiziali nella amministrazione della giustizia penale italiana. Essa costituisce espressione di un modo di intendere la verità nel processo che si avvicina molto alla concezione materiale o assoluta della verità (31): poiché sono in gioco attese di giustizia legate ad esigenze di tutela di beni fondamentali, quali la vita e la salute, ciò che conta non è la corrispondenza delle proposizioni giurisdizionali con gli accadimenti del mondo reale e con la costruzione sociale del mondo operata dalla scienza, ma l’appagamento di quelle attese attraverso l’autorità del giudice (auctoritas, non veritas, facit judicium). Si apre così una visione dei rapporti tra scienza e giustizia che vede incarnato un modo di intendere le prove di diritto penale grossolanamente sbagliato: il sistema delle prove sarebbe elaborato autonomamente e in via esclusiva dalla giurisprudenza penale, secondo i canoni di autoreferenzialità tipici dell’autopoiesi chiusa (32); sarebbe cioè un « sistema di senso » che si autoriproduce con una chiusura assoluta nei confronti dei punti archimedici esterni costituiti dalla scienza e dalla teoria della conoscenza. (29) FROSINI, Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano, 2002. (30) DONINI, La causalità omissiva e l’imputazione ‘‘per l’aumento del rischio’’, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 32 ss. (31) Vd. retro, p. 1215 ss. (32) Vd. retro, p. 1223.


— 1232 — Va da sé che, imboccata questa strada, diventa privo di significato il riferimento agli scopi del processo e alla teoria della decisione giusta (33): la decisione sarebbe giusta non quando è legata ad un accertamento che mette in luce la « corrispondenza » con gli accadimenti del mondo reale e con le acquisizioni della teoria della conoscenza, ma quando è frutto della comprensione intuitiva del giudice (34). Va pure da sé la perdita di significato dell’idea — vigorosamente sostenuta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti — che la validità di un enunciato scientifico per uno scopo non è necessariamente validità per altri scopi, ossia la tesi che le frequenze medio-basse nella successione di eventi possano essere ritenute un valido riferimento per le valutazioni politiche ex ante (di carattere sanitario, ambientale, ecc.), ispirate al principio di precauzione, ma siano del tutto estranee all’accertamento ex post di « ciò che è realmente accaduto », imposto dagli scopi del processo penale. Del tutto fuori dagli orizzonti della pronunzia delle Sezioni Unite è infine la questione della affidabilità delle ipotesi statistiche con coefficiente percentualistico medio-basso: si può ben dire che questa è l’ennesima occasione perduta dai giudici di legittimità per affrontare il tema vitale del metodo scientifico e dei criteri (conferma, falsificazione, consenso della comunità scientifica) in base ai quali il giudice, quale custode del metodo scientifico, può dichiarare — di fronte alla constatazione che nella scienza non vi sono certezze — che l’ipotesi scientifica considerata gode di una sufficiente giustificazione e può perciò essere impiegata nel processo penale (35). Le riflessioni che ora seguiranno dimostreranno quanto appropriati siano i rilievi fin qui formulati. 2. Giudizi relativi alla possibilità o probabilità di esistenza del nesso causale e falsità delle pronunzie di condanna. — Una regolarità statistica con coefficiente percentualistico medio-basso consente al massimo di asserire che è possibile che un certo antecedente sia la condizione necessaria dell’evento lesivo: nessuno è in grado di sapere se, nel caso concreto, le cose siano andate realmente nel senso indicato da quella frequenza. Questa constatazione reca con sé un corollario inconfutabile. Poiché l’« essenza del delitto sta nella causa » (36) si può senz’altro dire — chiosando il CARRARA — che quando il giudice dichiara possibile la causa, « ammette che possa ancora non esservi stato delitto nes(33) (34) (35) (36)

Vd. retro, p. 1224. Vd. retro, p. 1222 ss. Vd. retro, p. 1230. Così già CARRARA, Opuscoli di diritto criminale, 6o ed., III, Firenze, p.59.


— 1233 — suno » (37): la sentenza di condanna, basata su frequenze medio-basse, è dunque — incontestabilmente — una sentenza che dice: « l’imputato è colpevole, perché è possibile che abbia commesso il reato ». Nel caso di frequenze elevate, non vicinissime a 100, la situazione non cambia. Con la sentenza di condanna, il giudice dirà: « è probabile che il reato sia stato commesso ». Orbene, perché non accade mai che i giudici penali enuncino formule così assurde nelle loro sentenze di condanna? Perché « condannare un cittadino, ancorchè sia rimasto incerto se il delitto fu o no commesso » significa lasciarsi andare ad « una bestemmia giuridica » (38) di portata tale da scuotere irrimediabilmente, agli occhi della comunità, la forza morale del diritto penale. Una bestemmia che sarebbe anche di carattere logico, e come tale comprensibile da tutti. Finchè si dice possibile o probabile una conseguenza, « si ammette che possa anche non essere vera: e la sentenza che implicitamente dichiara poter esser ancora che io sia innocente, se mi condanna, accoppia con mostruosa congiunzione l’innocenza alla pena » (39). Se queste sono le ragioni che spiegano perché le sentenze penali di condanna non contengono mai l’enunciato « è possibile o è probabile che il reato sia stato commesso », ciò dipende dalla circostanza che tale enunciato viene tenuto nascosto nelle pieghe delle motivazioni in tutte le ipotesi in cui — come accade nel caso delle frequenze medio-basse, che peraltro è solo uno dei tantissimi casi riscontrabili nella prassi (40) — l’imputato venga dichiarato colpevole, benchè la causalità sia soltanto possibile o probabile. In questo modo, però, le proposizioni giurisdizionali in cui si compendia la motivazione diventano proposizioni false; anzi, doppiamente false, perché nascondono la verità sul significato reale della condanna, e perché fanno credere ad una inesistente corrispondenza tra gli accadimenti del mondo reale e la ricostruzione dei fatti operata sulla base delle frequenze medio-basse. E lo scopo del processo? E la decisione giusta? Se, come abbiamo visto, nessuno, che non coltivi nostalgie per modelli di Stato e di giurisdizione di un passato mai dimenticato, può dubitare che lo scopo del processo penale sia la verità, e che un requisito indefettibile della decisione giusta sia la verità intesa come corrispondenza con « il mondo reale » (41), diventa temeraria l’impresa di chi voglia ne(37) CARRARA, op. loc. citt. (38) CARRARA, op. cit., p. 63. (39) CARRARA, op. loc. citt. (40) Si veda, sul punto, per un’ampia analisi, Giustizia e modernità, cit., p. 185 ss. (41) Vd. retro, p. 1224 ss.


— 1234 — gare che il ricorso alle frequenze medio-basse tradisca gli scopi del processo penale e sia fonte di decisioni ingiuste. Sotto i profili considerati, sono ben note le distanze che separano il processo penale dal processo civile. In quest’ultimo tipo di processo, il giudice non nasconde, ma dichiara — o dovrebbe dichiarare — pubblicamente che l’illecito lamentato dall’attore si è più probabilmente verificato che no (preponderanza dell’evidenza) se è più probabile che no che il danno dell’attore sia conseguenza del comportamento del convenuto; ma perfino la decisione del giudice civile — per essere « vera » e quindi « giusta » nel senso civilistico — non può basarsi su una probabilità frequentistica medio-bassa: l’ipotesi del « più probabile che no » deve essere provvista di un grado di conferma superiore al 50% (ed in ciò sta la differenza con la regola di giudizio, molto più stringente, del processo penale: la conferma dell’ipotesi deve essere molto superiore al 50%, tale da raggiungere la soglia dell’oltre il ragionevole dubbio) (42). 3. La verità come scopo del processo penale e la falsità della proposizione giurisdizionale relativa all’imputazione causale di un evento singolo sulla base di una media o bassa frequenza. Quanto alla sentenza delle Sezioni Unite, ricordo innanzitutto che essa si segnala per quasi tutti i suoi aspetti come un passo importante nel processo di sviluppo di un pensiero giuridico tutto teso all’attuazione dei grandi valori della democrazia, incarnati dai principi costituzionali: il riconoscimento della condizione necessaria dell’evento lesivo come minimo indispensabile per l’imputazione causale, e della necessità di ritenere incorporati nello schema condizionalistico il modello della sussunzione sotto leggi, « in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità, tassatività e di personalità della responsabilità penale»; il perentorio rifiuto del criterio di imputazione costituito dall’« aumento o mancata diminuzione del rischio di lesione del bene protetto, o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente) »; l’attribuzione alla regola, probatoria e di giudizio, dell’oltre il ragionevole dubbio dello status di principio giuridico vigente nel nostro ordinamento costituiscono i capisaldi su cui si regge il complessivo impianto della pronunzia dei giudici supremi. In questa pronunzia va però registrata un’acuta dissonanza che rischia di mettere in discussione l’intero impianto argomentativo costruito dai giudici di legittimità: è la dissonanza legata appunto alla affermazione relativa alla frequenza medio-bassa. Ci si trova qui di fronte ad una parte della sentenza dissimile per qualità dalle altre parti come il giorno è dissimile dalla notte; ed è una dissi(42) STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 38 ss.; TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 271 ss.


— 1235 — miglianza dovuta ad un errore vistoso sotto il triplice profilo della logica, della scienza (teoria della conoscenza) e del diritto. Le ragioni di carattere logico (ma anche giuridico) attengono alla verità delle proposizioni giurisdizionali. Queste proposizioni debbono essere vere, nel senso che debbono corrispondere agli eventi del mondo reale: lo scopo del processo penale, come si è visto, è infatti la realizzazione della « giustizia », e un requisito essenziale della decisione giusta è costituito appunto dalla corrispondenza con gli accadimenti del mondo reale. Se tutto ciò appare fuori discussione, gli enunciati processuali che asseriscono l’esistenza del nesso causale, sulla base di regolarità a media o bassa frequenza, sono enunciati irrimediabilmente falsi e perciò fonti di decisioni ingiuste. È infatti impossibile asserire che un certo accadimento concreto si è verificato perché esiste una regolarità dell’1% o del 5% o del 10% o alle altre regolarità medio-basse: si tratta di una circostanza della quale non si saprà mai se è vera o falsa. Così, se un paziente racconta al medico di avere certi sintomi e il medico gli risponde che nel 5% dei casi quei sintomi sono legati ad intossicazioni di carattere alimentare, il paziente avrà tutte le ragioni per chiedere al medico « perché proprio io? » È infatti lapalissiano che, se nel 95% dei casi quei sintomi non c’entrano nulla con l’intossicazione alimentare, non vi è ragione al mondo per dire che il caso concreto del paziente rientra nel 5%, anziché nel 95% (si potrebbe piuttosto cercare di sostenere il contrario, e cioè che quel caso è riconducibile al 95%) (43). La verità è che nessuno è in grado di sapere se la proposizione relativa ai sintomi e alla intossicazione alimentare sia vera o falsa. Analogamente, se un paziente dicesse al medico « sono affetto da AIDS e prima della comparsa della malattia ho avuto dei rapporti sessuali con una partner affetta da AIDS », il medico potrebbe rispondergli: « in una percentuale di casi piccolissima — poniamo del 10% - il rapporto sessuale tra un partner malato di AIDS e un partner sano è seguito dalla comparsa dell’AIDS nel partner sano ». Anche in questo caso, il paziente potrebbe dire: « perché proprio io? ». La domanda sarebbe più che giustificata, visto che, nel 90% dei casi, nei rapporti sessuali tra persone malate e persone sane, l’AIDS non compare in queste ultime. Se non compare in una percentuale così elevata — ma le cose non cambierebbero se la percentuale fosse più bassa anche di molto —, ciò significa che il medico potrà dire al paziente « è possibile che la tua AIDS dipenda dal rapporto sessuale che hai avuto, ma è possibile o più probabile che dipenda da una causa diversa, come è dimostrato (43) L’esempio è di CARNAP, Philosophical Foundations of Physics, 1966, trad. it., I fondamenti filosofici della fisica, Milano, 1971, p. 66 ss., per il quale la bassa percentuale darebbe luogo ad una spiegazione estremamente debole che farebbe dire al paziente ‘‘perchè proprio io’’ ricado in quel 5%?


— 1236 — dal 90% dei casi ». Ora, ciò che si richiede al giudice non è di affermare la possibilità che le cose del mondo reale siano andate in un certo modo: gli si chiede, invece, di stabilire « la realtà » dei fatti e quindi la reale dipendenza causale di un fenomeno dall’altro. Conclusioni non dissimili valgono per tutti gli altri esempi di frequenza medio-bassa. Così, se si considera l’esempio della persona che, dopo aver contratto la sifilide, ha subito una paralisi, la dipendenza causale di questo ultimo fenomeno dal primo non può essere asserita sulla base di una frequenza, nella successione tra i due tipi di evento, pari — poniamo — al 2%. Se nel 98% dei casi la paralisi non compare, si potrà asserire soltanto che « è possibile » che nel caso concreto la paralisi dipenda dalla sifilide. Ancora una volta, la proposizione giurisdizionale, relativa all’esistenza del nesso causale, in un caso di questo tipo, sarebbe una proposizione falsa perchè essa non rifletterebbe l’effettiva realtà degli accadimenti concreti, ma una mera possibilità, e le mere possibilità — si sa — possono dar luogo solo alla costruzione di mondi fittizi e non alla ricostruzione del mondo reale. 4. Il post hoc ergo propter hoc e l’esclusione di altre cause. — La verità è che, quando si parla di frequenze medio-basse ci si riferisce non ad eventi provatamente causati da altri eventi, ma ad eventi che si susseguono l’uno dopo l’altro in una certa percentuale di casi: sostenere dunque che l’imputazione causale può basarsi su una legge statistica con coefficiente percentualistico medio-basso significa attribuire un rilievo assoluto al post hoc ergo propter hoc, cioè ad un criterio scientificamente screditato e da sempre ripudiato dagli studiosi della causalità e dalla stessa giurisprudenza. Questa affermazione è inconfutabile. La percentuale di casi è infatti costruita sulla base di rilevazioni statistiche della successione temporale di eventi di un certo tipo: nulla a che vedere con la ricostruzione delle catene causali, e nulla a che vedere con la spiegazione di eventi singoli, ottenuta mediante la concretizzazione di leggi di copertura universali o quasi universali, cioè con gli unici strumenti a disposizione del giudice per appurare, con un giudizio ex post, ciò che è realmente accaduto nel caso singolo. E la verità è, ancora, che è una questione di pura fortuna (44) se il giudice riesce ad « azzeccare » l’individuazione di ciò che è realmente accaduto, utilizzando frequenze medio-basse. Asserire l’esistenza del rapporto causale, perché ex ante sussistono delle piccolissime o piccole (o anche elevate) probabilità che le cose vadano in un certo modo, significa (44) THOMSON, Rights, Restitution and Risk, Cambridge (Mass.), p. 241 ss., sulla quale vd. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 314.


— 1237 — adottare una decisone assai simile a quella che si potrebbe adottare gettando in aria una moneta e guardando se è uscita testa o croce. Ma le questioni di fortuna non hanno nulla a che vedere con la giustizia: la giustizia non tollera decisioni legate ad un tirare a sorte (45), ed esige invece che la responsabilità sia imposta solo se la ricostruzione degli eventi compiuta dal giudice ex post corrisponde agli eventi del mondo reale. Questi rilievi consentono di capire meglio il significato del riferimento, consueto nelle elaborazioni dei sostenitori delle frequenze mediobasse, al tema della pluralità delle cause: una frequenza medio-bassa, si dice, è sufficiente per l’imputazione causale quando si possa escludere l’intervento di altre cause. Già nel 1975 ho avuto modo di occuparmi di questo problema (46). Oggi posso precisare il mio pensiero, ribadendo che l’accusa, utilizzando frequenze medio-basse, non riuscirà mai a dimostrare che l’evento non dipende da altre cause, sia perchè la gran parte di queste altre cause non è conosciuta nè conoscibile, sia perchè — sotto un profilo più pragmatico — appaiono insuperabili gli ostacoli relativi alla prova: non per niente, ad esempio — per restare sul terreno dell’AIDS —, gli studiosi che si sono occupati del tema della trasmissione della malattia dal partner malato al partner sano non hanno esitato a definire diabolica la prova della causalità e della esclusione dell’intervento di cause diverse dal rapporto sessuale (47) con il partner considerato. Ad una riflessione più approfondita, non ci si può d’altro lato sottrarre alla conclusione che il « peso » della pluralità delle cause può essere grandemente ridotto e quasi azzerato se vengono ricostruiti gli anelli delle catene causali che legano eventi continui nel tempo e contigui nello spazio: quando l’impresa di questa ricostruzione riesce, vengono meno gli spazi per ipotizzare l’intervento di altre cause. Gli spazi per ipotizzare l’intervento di altre cause vengono meno altresì quando si disponga di una legge di copertura universale o quasi universale che consenta di connettere, di collegare gli eventi lesivi con antecedenti lontani nel tempo e non contigui nello spazio. Se la legge scientifica invocata asserisce che « sempre o quasi sempre A è seguito da B », potremo dire che b dipende causalmente da a, senza che possa affacciarsi il dubbio dell’intervento di altre possibili cause. Qui è decisiva la sussunzione di b sotto B e di a sotto A; e solo l’errore nella sussunzione — eventualità piuttosto rara — può nascondere l’intervento di altre cause (CARNAP fa l’e(45) Cfr. STELLA, Giustizia e modernità, p. 258-214. (46) Vd., diffusamente, STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 297 ss. (47) CASTALDO, AIDS e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, in Studi Urbinati, 1988-89⁄1989-90, n. 41-42, p. 73 ss.; CANESTRARI, Profili penali del contagio sessuale da AIDS, ed. provv., p. 92 ss.


— 1238 — sempio di un sasso lanciato contro un vetro che si rompe al momento dell’impatto; ma la rottura del vetro dipende dalla circostanza che, un attimo prima dell’arrivo del sasso, una persona nascosta dietro al vetro lo ha rotto con un martello) (48). Ecco perchè, utilizzando il criterio della esclusione di altre cause, si incorre in una fallacia: si dà per scontata una premessa che deve essere invece dimostrata (la circostanza cioè che vi sia la prova che gli eventi cui si riferiscono le frequenze medio-basse siano causati da altri eventi). Venuta meno la premessa, si dissolve l’intero problema della esclusione di altre cause: se una certa circostanza non costituisce una causa è vano parlare di « altre » possibili cause. In via conclusiva, si deve ritenere che, nell’ambito di una impostazione corretta della causalità, sull’accusa incombe l’onere di provare le catene causali o la concretizzazione della legge di copertura. Solo se questa prova riesce si potrà dire che la causalità individuale è dimostrata, e dimostrata senza bisogno di prove relative alla esclusione dell’intervento di altre, possibili, cause. Se la prova non riesce, sarà inutile che l’accusa si avventuri sul terreno della pluralità delle cause, perché la causalità di un comportamento individuale non può essere desunta solo dalla prova, tra l’altro assai difficile, che non è intervenuta qualche altra possibile causa. Ragionando diversamente, ci si dovrebbe rifugiare dietro l’usbergo della « verità materiale » e del principio auctoritas, non veritas, facit judicium, nonché dietro l’usbergo di una concezione autopoietica « chiusa » del sistema di senso costituito dalle prove di diritto penale. Sarebbe il topo che si morde la coda: si darebbe rilievo ad un problema che non dovrebbe essere un problema, e lo si fa proprio quando non si riesce a dare la prova della causalità individuale. 5. Probabilità ex ante e probabilità ex post. — A ben vedere,come ho già osservato, le frequenze medio-basse, cui si riferiscono le Sezioni Unite, si traducono in probabilità ex ante; in una prospettiva ex ante si può infatti affermare che vi è una probabilità piccolissima che certi sintomi svelino una intossicazione alimentare, che il partner affetto da AIDS trasmetta la malattia al partner sano, che la sifilide sia seguita da paralisi (49). Volendo quantificare la probabilità ex ante, negli esempi considerati, dovremmo dire che vi è, rispettivamente, una probabilità del 95%, del 90% e del 98% che l’evento indesiderato non si verifichi. Ma il giudizio sul nesso causale è un giudizio ex post che — come riconoscono le Sezioni Unite quando rifiutano il criterio delle probabilità ex (48) CARNAP, op. cit., p. 252 ss. (49) Su questo esempio, vd. diffusamente, HEMPEL-ANTISERI, Come lavora uno storico, Roma, 1997, p. 85 ss.


— 1239 — ante legate all’aumento del rischio — non può basarsi su probabilità ex ante, cioè su probabilità che, per loro natura, non sono in grado, ex post, di dirci alcunchè su ciò che è realmente accaduto. Ex post, gli eventi del mondo reale devono essere descritti così come si sono verificati; per ottenere questo risultato quando è in gioco il rapporto causale, l’accusa, come si sa, deve provare la concretizzazione: senza la prova che il singolo caso considerato è riconducibile sotto la legge che enuncia la regolarità invocata, è impossibile il giudizio ex post sul nesso causale. A questo punto, diventa puramente retorica la domanda: come potrà il giudice considerare concretizzata nel caso singolo una legge statistica a bassa o media frequenza? L’ovvietà della risposta a questa domanda è ormai un luogo comune nella letteratura che si occupa di probabilità ex ante e di giudizi ex post. È ormai un esempio di scuola il celebre caso giurisprudenziale dei « cacciatori di quaglie ». Tizio, Caio e Sempronio vanno a caccia di quaglie: Tizio spara con il suo fucile 95 colpi, Caio ne spara uno solo, Sempronio, che sta in mezzo al cespuglio, viene colpito e ferito ad un occhio. Le lesioni di Sempronio sono imputabili causalmente a Tizio o a Caio? Verrebbe da dire: a Tizio perchè ha sparato 95 colpi ed ex ante è più probabile che il bersaglio venga colpito da chi spara 95 colpi, piuttosto che da chi spara un colpo soltanto. Ma queste probabilità ex ante non sono in grado di dirci nulla, ex post, su ciò che è realmente accaduto, proprio perchè non è possibile dimostrarne la concretizzazione nel caso singolo. Procedendo sui sentieri della concretizzazione, cioè della prova particolaristica, sarà invece possibile utilizzare gli enunciati di carattere generale sulla scanalatura del fucile: se le scanalature del proiettile che ha colpito Sempronio corrispondono a quelle della canna del fucile di Caio, sarà stata raggiunta la concretizzazione richiesta: essa dimostra che le probabilità ex ante, legate ai 95 proiettili sparati da Tizio non hanno nulla a che vedere con ciò che è accaduto nel mondo reale sotto il profilo causale (50). 6. La verità secondo la teoria della conoscenza e la falsità degli enunciati che pretendono di spiegare il caso singolo tramite il riferimento a frequenze basse, medie o anche elevate nella successione di eventi. — A rendere ancora più vistoso l’errore in cui sono cadute le Sezioni Unite non è solo la logica che consente di escludere la corrispondenza degli enunciati a bassa e media frequenza con gli eventi del mondo reale in cui si è verificato l’evento singolo. Quando si parla di verità di una proposizione giurisdizionale come (50) Cfr., per tutti, WRIGHT, Causation, Responsibility, Risk, Probability, Naked Statistics and Proof: Pruning the Bramble Bush by Clarifying the Concepts, in Iowa L. Rev., 1988, p. 1001 ss.; cfr. anche STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 302 ss.


— 1240 — corrispondenza, ci si riferisce, come abbiamo visto, sia alla corrispondenza con gli accadimenti del mondo reale, sia alla corrispondenza con la costruzione sociale del mondo (51), della quale fanno indubbiamente parte la scienza e la teoria della conoscenza (52). Chi sostenesse il contrario, non farebbe altro che rifugiarsi in una concezione puramente autoreferenziale (« autopoiesi chiusa ») del diritto delle prove che si affida in larga misura a menzogne, per il carattere fittizio di un mondo che la concezione autopoietica chiusa ha definito e modellato come se fosse il mondo reale (53). Ma — vale la pena di ribadirlo — la dottrina dell’autopoiesi non può essere intesa in questo modo. Per poter funzionare come criterio di comprensione dei sistemi sociali e giuridici, l’autopoiesi deve essere anche aperta (54): non per niente l’autopoiesi è stata definita un progetto già di per sé interdisciplinare (55). Si capisce così come la ricerca della verità nel processo non possa fare a meno delle acquisizioni della teoria della conoscenza. Le principali conquiste di questa teoria — per quel che concerne le spiegazioni vere — sono ben note: l’evento concreto da spiegare (explanandum) è reso intelligibile attraverso un procedimento che consente di affermare che certe premesse, costituite da leggi causali o universali (explanans), implicano deduttivamente l’evento da spiegare (c.d. modello nomologico-deduttivo di POPPER e di HEMPEL). Accanto a questo modello, vi è il modello nomologico-induttivo (HEMPEL): le premesse, essendo costituite anche da leggi statistiche, non implicano deduttivamente l’explanandum e perciò è escluso che, con questo modello, si approdi a conclusioni certamente vere. È però possibile enunciare delle conclusioni che sono « quasi certe » o « quasi vere » se le leggi statistiche, impiegate nelle premesse, sono « quasi universali », perchè provviste di un coefficiente percentualistico vicinissimo al 100% dei casi. In questa situazione, si potrà parlare di « pratica certezza » o « pratica verità », proprio perchè le leggi racchiuse nell’explanans — leggi statistiche quasi universali — costituiscono delle leggi di copertura che, a somiglianza delle leggi universali, sostanzialmente coprono interamente l’ambito di realtà al quale appartiene l’evento da spiegare (56). (51) Vd. retro, p. 1219 ss. (52) Vd. retro, p. 1221. (53) Vd. retro, p. 1222 ss. (54) Vd. retro, p. 1223. (55) Vd. retro, p. 1224. (56) Per il modello nomologico-deduttivo cfr. POPPER, The logic of scientific discovery, 1934, trad. it. Logica della scoperta scientifica, Torino, 1970, ristampa 95, p. 44 ss.; NAGEL, The structure of science, 1961, trad. it., La struttura della scienza, Milano, 1968, p. 36 ss.; ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Torino, 1996, p. 285 ss.; PA-


— 1241 — L’espressione « legge di copertura » è stata coniata apposta (57) per dire che l’explanandum, cioè l’evento da spiegare, deve essere « coperto » dalla legge scientifica inclusa nell’explanans. Ma ciò può avvenire solo con leggi del tipo « sempre o quasi sempre A è seguito da B »; la copertura manca, invece, se la legge inserita nell’explanans è un’ipotesi statistica a bassa, media o anche elevata frequenza. Ecco perchè gli studiosi di teoria della conoscenza sostengono che, nel caso di una legge di forma statistica, si ha « una proposizione stabilente che sotto condizioni di tipo più o meno complesso f, si avrà l’occorrenza dell’evento o esito di tipo c, con probabilità statistica (cioè, in parole povere: con una frequenza relativa su lunghe serie) q ... Se la probabilità q si avvicina ad 1, una legge di questo tipo può venire invocata per spiegare l’occorrenza di c in un dato particolare caso in cui sono realizzate le condizioni f ». Se la frequenza di un certo risultato in una lunga serie non è vicina alla probabilità così ipotizzata, « allora è molto verosimile che questa ipotesi sia falsa. In tale caso, i dati frequenziali contano come dati che sconfermano l’ipotesi » (58). Queste sono le acquisizioni della teoria della conoscenza, cui già nel 1975 facevo riferimento in Leggi scientifiche (59), per circoscrivere la utilizzabilità delle leggi statistiche ai soli casi in cui « l’explanans implica l’explanandum non con certezza deduttiva, bensì soltanto con una quasi certezza ». In breve, « perfino una elevata probabilità statistica, interpretata come sintomo di una dipendenza causale, non garantisce la spiegazione causale dell’evento singolo. Ad esempio, si considera statisticamente provato che il fumo può produrre il cancro al polmone, tuttavia non soltanto ci sono accaniti fumatori che non contraggono il cancro al polmone, ma ci sono anche persone che contraggono tale cancro senza aver mai fumato; pertanto, perfino se riscontriamo un cancro al polmone in un fumatore, non possiamo concludere con certezza che il fumo ne è stato la causa. A fortiori una regolarità statistica di bassa frequenza non è assolutamente in grado di stabilire l’imputazione causale dell’evento singolo » (60). La verità come corrispondenza è dunque di nuovo esclusa dalla teoSQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Milano, 1964, ristampa 1987, p. 86 ss., e per il modello nomologico induttivo, cfr. per tutti, HEMPEL, Philosophy of Natural Science, Englewood Cliffs, 1966, trad. it. Filosofia delle scienze naturali, Bologna, 1968, p. 104 ss.; HEMPEL-ANTISERI, op. loc. citt.; e poi HEMPEL, Deductive-nomological vs. Statistical Explanation, in Minnesota Studies in the Philosophy of Science, III, Minneapolis, 1962, p. 155. (57) Cfr. DRAY, Laws and Explanation in History, Oxford, 1957, trad. it. Legge spiegazione in storia, Milano, 1974, p. 11 ss. (58) HEMPEL, Filosofia delle scienze naturali, cit., p. 101 ss. (59) STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 307. (60) AGAZZI, La spiegazione causale dell’evento individuale (o singolo), in questa Rivista, 1999, p. 393 ss.


— 1242 — ria della conoscenza nell’ipotesi di bassa o media frequenza e perfino nell’ipotesi di elevata frequenza: « il minimo che si possa esigere è che la frequenza sia vicinissima all’universalità, ossia che la frequenza relativa che essa esprime sia vicinissima a 1 » (61). L’enunciato delle Sezioni Unite per il quale anche la bassa o media frequenza consente di spiegare ciò che è realmente accaduto nel caso singolo, è pertanto un enunciato falso, dal quale può derivare solo una decisione ingiusta. 7. Le ragioni giuridiche della insostenibilità della tesi enunciata dalle Sezioni Unite. — Se la verità delle proposizioni giurisdizionali, relative alle prove, è una condizione indefettibile della decisione giusta, è il caso di approfondire le ragioni giuridiche che rendono insostenibile la tesi delle Sezioni Unite. Il modello della sussunzione sotto leggi, fatto proprio dalla Corte Suprema, a partire dalla sentenza sul disastro di Stava del 1990, ha radici profonde nel sistema dei diritti e dei principi posti a loro tutela dalla Costituzione. La causalità è un requisito di fattispecie e deve perciò essere determinata nel suo contenuto dalla legge: lo impongono — come è riconosciuto dalle stesse Sezioni Unite — il principio di legalità, di tassatività, e di personalità della responsabilità penale. Se la causalità fosse individuata di volta in volta dal giudice, in base al suo fiuto, alla sua intuizione, al suo imperscrutabile apprezzamento, quel sistema di diritti e di principi sarebbe cancellato e la nostra democrazia regredirebbe verso modelli di Stato autoritari e totalitari (auctoritas, non lex facit judicium). Questa regressione consentirebbe ancora di evocare l’idea di corrispondenza, ma si tratterebbe di corrispondenza non con il mondo reale dei fatti, ma con le comprensioni intuitive del giudice (auctoritas, non veritas facit judicium). La predeterminazione legislativa del contenuto del requisito causale può d’altra parte avvenire solo con il riferimento a un dato oggettivo che, in ossequio al principio di legalità, consenta di distinguere, prima del giudizio, ciò che è lecito e ciò che è illecito. Questo dato oggettivo non può che essere costituito dall’oggettivo sapere scientifico: ecco la ragione per la quale si dice che il sapere scientifico è incorporato nella fattispecie (62). Va a questo punto da sè che il modello della sussunzione sotto leggi non può, per definizione, utilizzare leggi della scienza che non siano uni(61) AGAZZI, op. loc. citt. (62) Nell’ampia letteratura sull’argomento, cfr., per tutti, il bel saggio di KAUFMANN (ARMIN), Tatbestandsmässigkeit und Verursachung im Conterganverfahren, in JZ, 1971, p. 569 ss., nonchè STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, cit., p. 74 ss.


— 1243 — versali o vicinissime alla universalità: solo questo tipo di leggi, infatti, è in grado di sorreggere proposizioni giurisdizionali vere, per la loro capacità di spiegare ciò che è accaduto nella realtà del singolo caso. Gli enunciati processuali che asseriscono, invece, una corrispondenza con ciò che è realmente accaduto, sulla base di basse, medie e anche elevate frequenze, sono enunciati irrimediabilmente falsi: la riconducibilità del caso singolo all’ambito della percentuale, bassa, media o elevata, di casi indicati dalla legge di forma statistica può essere asserita solo in virtù di una sorta di infallibile intuizione del giudice, e non già in virtù della « copertura » del sapere scientifico. Proprio in ciò sta la violazione dei principi costituzionali che hanno imposto anche alla Corte Suprema l’adozione del modello della sussunzione sotto leggi; e proprio in ciò sta il rischio che questo modello vada incontro ad una morte prematura, proprio per il riferimento alla media e bassa frequenza. Dobbiamo dunque ritornare ai fasti del principio « auctoritas, non lex, non veritas, facit judicium »? Penso che le Sezioni Unite non abbiano voluto rispondere con un sì a questa domanda, e siano incorse semplicemente in un errore, che può avere effetti devastanti e va perciò cancellato al più presto. Va ancora da sé che debba essere cancellato l’altro errore, compiuto dalle Sezioni Unite, quando hanno indicato l’epidemiologia come uno strumento utilizzabile per l’accertamento del nesso causale nel singolo caso: tutto il mondo scientifico e giuridico è concorde nel ritenere che le ricerche epidemiologiche, in quanto ricerche su popolazioni, non sono in grado di dirci alcunchè su ciò che è realmente accaduto nei singoli casi concreti; ciò è talmente pacifico da rendere superfluo ogni riferimento a studiosi di epidemiologia, giuristi, sentenze, tutti concordi sull’idea che il giudice, il quale volesse accertare la causalità individuale sulla base dell’epidemiologia, dovrebbe tirare a sorte (63). La verità è che l’epidemiologia è in grado di segnalare soltanto l’aumento del rischio nelle popolazioni, ma proprio l’aumento del rischio è un criterio vigorosamente ripudiato dalle stesse Sezioni Unite, come criterio di imputazione causale. 8. L’insostenibilità della tesi delle Sezioni Unite per le ragioni giuridiche, legate alla esigenza della prova particolaristica. — Sviscerando ulteriormente le ragioni dell’errore in cui è caduta la Corte Suprema, si può precisare che gli enunciati processuali, per essere veri sul terreno causale, debbono sempre fare emergere una prova particolaristica, cioè un’evidenza che « porti direttamente al singolo ». (63) Per un elenco abbastanza esaustivo degli epidemiologi, dei giuristi e dei giudici che la pensano in questo modo, rinvio al mio libro su Giustizia e modernità, cit., p. 258 ss.


— 1244 — Proprio la prova particolaristica esige la concretizzazione della legge di copertura e quindi la sussunzione dell’evento singolo sotto il tipo di eventi cui si riferisce la legge universale o quasi universale (64). La concretizzazione, come ho già osservato, può aver luogo in due modi: ricostruendo le catene causali che legano l’evento « iniziale » con l’evento « finale », sulla base di una teoria o legge scientifica che spieghi il « meccanismo d’azione » di una sostanza o di un fenomeno, oppure attraverso la prova che la legge scientifica, enunciata nell’explanans, la quale lega tra loro eventi « iniziali » ed eventi « finali », anche non contigui nello spazio o continui nel tempo, può essere concretamente applicata al caso singolo. Così, ove esista una teoria scientifica che individua il meccanismo di azione di una sostanza cancerogena (ad esempio il cloruro di vinile), la prova particolaristica risulterà raggiunta se si dimostra, attraverso test adeguati, che quel meccanismo d’azione ha « agito » nel singolo caso di tumore, se cioè sono state ricostruite le concrete catene causali. Nel caso dei tumori e in molti altri casi, teorie e leggi di questo tipo non sono disponibili, perché la scienza non è stata ancora capace di elaborarle: ciò significa che la concretizzazione della legge o teoria scientifica di copertura è impossibile e che perciò un enunciato processuale che asserisce l’esistenza della prova particolaristica, sulla base di una inesistente ricostruzione delle concrete catene causali, che consenta di risalire « alla fonte », sarebbe un enunciato falso. Peraltro, quando sia impossibile, nel processo, formulare delle proposizioni vere, perché corrispondenti al mondo reale, in quanto basate sulla ricostruzione delle catene causali, il modello della sussunzione sotto leggi consente — come ho ripetutamente osservato — di utilizzare leggi di forma universale o quasi universale che individuino una regolarità nella successione di tipi di eventi, anche lontani nel tempo o non contigui nello spazio. La natura di questo tipo di leggi va compresa bene: si tratta di enunciati per i quali, dato A, B segue automaticamente o quasi automaticamente. Se, ad esempio, sempre il fumo di sigaretta è seguito da dipendenza dal fumo; se sempre l’esposizione ad una sostanza tossica è seguita dalla comparsa di malattie, se sempre una sostanza chimica, sottoposta ad adeguata sollecitazione, detona, noi potremmo dire che, nel singolo caso del fumatore, della esposizione a sostanza tossica, della detonazione della sostanza chimica siamo in presenza di una prova particolaristica in virtù (64) Sulla concretizzazione della legge causale di copertura, cfr., per tutti, il bellissimo saggio di WRIGHT, op. cit., p. 1042 ss.; cfr., altresì, tra gli studiosi di filosofia, THOMSON, op.cit., p. 241 ss.; cfr., infine, STELLA, Giustizia e modernità, cit. p. 301 ss.


— 1245 — della concretizzazione della legge di copertura: il « sempre » garantisce che il singolo caso concreto appartenga alla realtà del mondo contemplata dalla legge di copertura. POPPER fa un esempio chiaro, anche se molto semplice: una legge della scienza, la quale dice che, « ogni qualvolta un filo viene caricato con un peso superiore al 1/2 kg, il filo si spezza » è una legge di copertura dei due asserti singolari « questo filo è stato caricato con un peso di 1 kg », e quindi « il filo si è spezzato » (65). La spiegazione ottenuta è una spiegazione deduttiva, e quindi vera, proprio perché l’explanans implica deduttivamente l’explanandum; ciò significa che l’enunciato processuale « questo filo si è spezzato, perché è stato caricato con un peso di 1 kg », è un enunciato vero perché corrisponde alla realtà del mondo, spiegata in modo deduttivamente certo. Il magazzino di leggi di questo tipo è assai ampio, come è spiegato in tutti i testi di filosofia della scienza (66): sono tutte leggi che assomigliano molto a quelle di stampo newtoniano, che ancora oggi funzionano eccezionalmente bene nel mondo in cui viviamo (nessun fisico, nessun ingegnere si azzarderebbe a costruire un ponte, un edificio, un aereo, in base alla meccanica della fisica quantistica) (67). Ciò che conta, peraltro, è che la legge di copertura assicuri la « pratica certezza » o verità di un asserto singolare; è per questo che anche le leggi statistiche vicinissime all’universalità, perché provviste di un coefficiente percentualistico vicino al 100% dei casi, garantiscono la verità degli asserti singolari. Così se la legge di copertura dicesse « il fumo di sigaretta è seguito dal fenomeno della dipendenza dal fumo in una percentuale vicina a 100 », oppure « in una percentuale vicina a 100 il rapporto sessuale con un malato di AIDS è seguito dalla comparsa dell’AIDS nel partner sano », gli enunciati « questo fumatore è dipendente dal fumo » e « questa persona, affetta da AIDS, ha contratto la malattia perché ha avuto un rapporto sessuale con una persona malata di AIDS » sarebbero enunciati singolari « praticamente veri », anche se l’explanans non li implica in modo deduttivo. Più in là non si può andare, perché anche nell’ipotesi di frequenze assai elevate (del 90% e più), non riusciremmo mai a sapere ciò che è realmente accaduto nel singolo caso, per l’ovvia ragione che l’elevata frequenza non copre tutta la realtà della quale fa parte il singolo caso considerato. (65) POPPER, Logica della scoperta scientifica, cit., p. 44 ss. (66) POPPER, op. loc. citt.; HEMPEL, Filosofia delle scienze naturali, cit., p. 86 ss.; NAGEL, La struttura della scienza, cit., p. 53 ss.; ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, cit., p. 54 ss. (67) FOSTER-HUBER, Judging Science, cit., p. 139 ss.; MAIWALD, Kausalität und strafrecht, trad. it. Causalità e diritto penale, Milano, 1999, p. 91.


— 1246 — E non si può andare più in là, perché lo impediscono proprio gli scopi del processo, che mirano al raggiungimento della verità, alla corrispondenza ai fatti del mondo reale in cui viviamo la vita di tutti i giorni. 8. L’insanabile contrasto, all’interno della pronunzia delle Sezioni Unite, tra le proposizioni relative alle frequenze medio-basse e il riconoscimento della regola dell’oltre il ragionevole dubbio come regola vigente nel nostro ordinamento. — L’errore che vizia la pronunzia delle Sezioni Unite è, oltretutto, assai sorprendente: troppo forte è il contrasto tra le proposizioni relative alle frequenze medio-basse e il riconoscimento che, nel nostro ordinamento, costituisce diritto vigente la regola, probatoria e di giudizio, dell’oltre il ragionevole dubbio. La Corte Suprema si era trovata a fare i conti anche con la presunzione di non colpevolezza e con la sostanza concreta di questo principio costituzionale, visibile nella massima secondo la quale « è molto peggio condannare un innocente che assolvere un colpevole », a sua volta fonte, in tutti gli ordinamenti democratici, della regola probatoria molto stringente dell’oltre il ragionevole dubbio. Di qui l’inevitabilità dell’affermazione, da parte delle Sezioni Unite, che l’oltre il ragionevole dubbio costituisce una regola propria del nostro ordinamento. Stando così le cose, quale argomento può sorreggere la convinzione che il singolo caso rientra, senza alcun dubbio, nella « maggior parte dei casi » e addirittura nelle più piccole percentuali di casi, espresse da una frequenza media o bassa? La domanda « perché proprio io? » è quanto mai ragionevole: per definizione, la media e bassa frequenza fa sì che non si sia in alcun modo in grado di sapere se il singolo caso individuale si colloca all’interno o all’esterno della percentuale di casi espressa dalla legge statistica. Il contrasto tra le asserzioni delle Sezioni Unite, relative alla media e bassa frequenza, e quelle relative all’oltre il ragionevole dubbio, è insanabile, va eliminato al più presto, per evitare che i giudici di merito, come si suol dire, « mescolino mele ed arance ». E va da sé che l’eliminazione del contrasto non può certo passare attraverso pronunzie che rinneghino la regola dell’oltre il ragionevole dubbio, il manto regale di ogni ordinamento processuale democratico. Un’ultima annotazione. Avrebbe ben poco vento per le proprie vele chi tentasse di superare le considerazioni fin qui svolte con l’obbiezione che la verità processuale è pur sempre una verità relativa, alla quale ci si può soltanto accostare in via di approssimazione e che perciò le medie e basse frequenze sono utilizzabili perché costituiscono una approssimazione alla verità. È vero che la verità processuale sarà sempre una verità contingente e relativa, e che approssimazione e relatività stanno a significare « per quel


— 1247 — che ne sappiamo » (68): ma sul caso singolo, nell’ipotesi di frequenze medio-basse, non sappiamo proprio nulla. 10. I requisiti di eticità di una decisione giusta. — Secondo un grande studioso di diritto costituzionale dell’Università di Harvard, al cui pensiero si richiamano non poche sentenze delle Corti americane, è « intimamente immorale » pensare che sia una decisione giusta una sentenza di condanna basata sul 95% di probabilità di colpevolezza: l’intima immoralità deriverebbe dall’accettazione di un rischio, pari a 1 su 20, di ritenere colpevole un innocente (69). Non voglio certo dilungarmi qui su una riflessione relativa ai rapporti tra morale e diritto, di cui pure, ai nostri tempi, si avverte, in misura ogni giorno crescente, il bisogno. Quel che voglio dire è che è sicuramente destinato a scuotere la forza morale del diritto penale considerare — di fronte a frequenze basse o medie — irrilevante la domanda « perché proprio io? »; il problema morale nasce, ancora una volta, dall’accettazione di un rischio elevato di condanne di innocenti. Vorrei quindi rivolgermi ai giudici della Corte Suprema con le parole di CARRARA: « Voi casserete l’ingiusta sentenza, me ne sono garanti i principi del diritto che a noi tutti giornalmente si insegnano dal fonte inesausto della Vostra sapienza, me ne sono garanti gli oracoli Vostri ... Voi foste così costanti nel lanciare l’anatema contro le condanne adottate a dichiarazioni perplesse e incerte, che vanità sarebbe il riporVi oggi sotto’occhio le Vostre parole » (70). FEDERICO STELLA

(68) FERRAJOLI, op. cit., p. 13 ss. (69) TRIBE, Trial by Mathematics: Precision and Ritual in the Legal Process, in Harvard Law Review, 1971, p. 1329 ss. (70) Queste sono le parole che CARRARA rivolgeva ai giudici supremi in un ricorso avanti la Corte di Cassazione di Firenze: vd. CARRARA, Opuscoli di diritto criminale, cit., p. 66.


IRRETROATTIVITÀ DELLA LEGGE PENALE E RIFORME LEGISLATIVE: REATI TRIBUTARI E FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI (*) La recente riforma dei reati societari (1) ha suscitato un nuovo interesse sul tema della successione di leggi penali. Dopo l’abrogazione dei delitti di oltraggio individuale e l’avvento dei nuovi reati tributari (2), la revisione delle disposizioni penali in materia di società ha richiesto alla dottrina di concentrarsi sull’esame delle nuove norme, riprendendo il dibattito sull’art. 2 c.p. e sui criteri tradizionali di soluzione dell’alternativa tra legge abolitrice e legge modificatrice, onde saggiarne la reale capacità operativa. La giurisprudenza, a sua volta, ha subito dovuto pronunciarsi su importanti questioni di diritto transitorio. L’attualità del tema suggerisce qualche riflessione. L’analisi, del resto, concerne direttamente il principio di irretroattività della legge penale, un argomento che nei tratti e nelle indicazioni che potenzialmente ne derivano segnala come pochi altri lo Zeitgeist dell’ordinamento penale: e la cui primaria valenza per i diritti fondamentali mi dà l’opportunità di far parte di questi rilievi all’illustre costituzionalista Giorgio Berti, cui infatti il presente scritto vuole essere in grata amicizia dedicato. I 1. Il nodo di fondo della successione di leggi penali è dato dal rapporto tra irretroattività della legge e retroattività della legge favorevole, come dire dalla delimitazione dell’area di competenza dei primi tre commi dell’art. 2 c.p. L’art. 2, dopo avere ribadito che l’autore può essere punito solo se il fatto è previsto come reato al tempo della sua commissione (co. 1o: riaffermazione della legalità di cui all’art. 1 sotto l’aspetto della necessità della lex praevia e del principio di irretroattività, nonché punto di ri(*) Il presente scritto è destinato agli « Studi in onore di Giorgio Berti ». (1) Cfr. d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61. Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’art. 11 della legge 23 ottobre 2001, n. 366. (2) Gli artt. 341 e 344, che prevedevano rispettivamente l’oltraggio a un pubblico ufficiale e l’oltraggio a un pubblico impiegato, sono stati abrogati dall’art. 18 l. 25 giugno 1999, n. 205. L’art. 9 di tale legge attribuiva al governo la delega per la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a cui ha provveduto il d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.


— 1249 — ferimento per la determinazione del tempus commissi delicti), disciplina la retroattività della legge penale favorevole in due distinti casi: una legge posteriore, in base alla quale il fatto non costituisce più reato, non consente ormai di punire e, se già intervenuta una condanna definitiva, questa e i suoi effetti vengono travolti (co. 2o); una legge posteriore diversa dalla precedente, invece, in base alla quale il fatto costituisce ancora reato, impone di applicare la legge più favorevole, ma se già intervenuta condanna definitiva, questa e i suoi effetti restano fermi (co. 3o) (3). L’apparente chiarezza delle formule normative non impedisce che sorgano subito interrogativi cruciali. Quanto al co. 2o, cosa significa precisamente « un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato »? È sufficiente, perché operi la disposizione, che il concreto fatto storico non sia più comunque punibile, o si richiede piuttosto che sia venuto meno il giudizio di disvalore di azione e/o di evento che stava alla base della norma incriminatrice? Quanto al co. 3o, soprattutto: quando la legge successiva può dirsi diversa dalla precedente? È sufficiente, perché sia tale, che muti un qualsiasi fattore preesistente, oppure occorre anche qui qualcosa di più? Più in generale: quando la diversità della legge posteriore sconfina dal co. 3o per interessare i co. 1o e 2o, diventando una nuova incriminazione con simultanea abolizione della precedente? Nell’affrontare questi interrogativi, dottrina e giurisprudenza concordano su una premessa importante. Posto subito dopo il co. 1o, che preclude ogni rilievo, per i fatti pregressi, di una incriminazione nuova, il co. 2o regola il caso di una legge che non si limita ad abrogare una norma penale fino a quel punto in vigore, ma, più incisivamente, abolisce un reato. Si muove dalla giusta osservazione che l’abrogazione di una norma è fenomeno formale, che non chiarisce cos’altro avviene, nell’ordinamento, contestualmente al suo prodursi. Si sa che la norma, che evidentemente non soddisfa più il legislatore, non dovrà ormai applicarsi ai casi futuri; ma non è detto che non sia adatta neppure più a disciplinare i casi ancora da giudicare. Insieme all’abrogazione di una norma, inoltre, può esserne introdotta un’altra, destinata chiaramente a sostituire in toto la prima, oppure può intendersi per certo che lo spazio occupato sino a quel momento da questa venga senza soluzione di continuità riempito da altra già presente, che la prima delimitava. Insomma, l’abrogazione di una norma può (3)

Per approfondimenti, oltre alle trattazioni in manuali e commentari, cfr. T. PADO-

VANI, Tipicità e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 1354; M. PETRONE,

L’abolitio criminis, 1985, p. 3; C. PODO, Successione di leggi penali, in Noviss. dig. it. (app.), VII, 1987, p. 611; P. SIRACUSANO, La successione di leggi penali, 1988, p. 3. Più di recente, P. SEVERINO, Successione di leggi penali nel tempo, in Enc. giur. Treccani, XXX, 1993, 1; B. ROMANO, Il rapporto tra norme penali, 1996, p. 53; S. DEL CORSO, Successione di leggi penali, in Dig. disc. penal., XIV, 1999, p. 82; M. MUSCO, La riformulazione dei reati, 2000, p. 33.


— 1250 — riguardare sia il co. 2o che il co. 3o dell’art. 2 e non informa a sufficienza, se il legislatore non provvede ad hoc con ulteriori delucidazioni, sulla sua reale portata. L’art. 2 disciplina dunque tre situazioni distinte: nuova incriminazione, legge abolitrice e legge modificativa. Nel primo caso, almeno nello schema usuale, la norma si postula totalmente nuova e non vi è un’autentica successione di leggi. La successione, almeno in senso formale, vi è invece sia nell’abolitio che nella legge modificativa. L’abolitio, come normalmente intesa, è il pendant della nuova incriminazione. Toglie dal sistema un reato senza surrogati di sorta, né nuovi né preesistenti: il reato non c’è più, e basta. La seconda, invece, si colloca in una posizione intermedia tra gli altri casi: non introduce un nuovo reato, ma neppure elimina quello esistente. Il reato c’è ancora: modificato, ma resta. 2. L’attenzione si sposta, a questo punto, sull’art. 2, co. 3o e sui criteri che identificano la legge modificativa, la legge diversa, che si limita a cambiare il reato, senza abolirlo. Si devono evidentemente confrontare due norme, due proposizioni nella loro astrattezza e generalità. Si deve verificare se sono diverse oppure no, o meglio se la nuova è diversa dalla precedente pur lasciando il reato nell’ordinamento, o se è diversa così da introdurre invece un reato nuovo abolendo quello preesistente. Sorprendentemente, si potrebbe anche dire in modo che pare... l’opposto: si deve ricercare se, pur nel mutamento di qualche fattore, le due incriminazioni sono uguali. Sintomatico, in proposito, ciò che si afferma nel sistema tedesco, quando si esamina lo stesso problema. A fronte del § 2, Abs. III StGB, che impone l’applicazione della legge più favorevole quando quella vigente al momento del fatto « viene prima della decisione cambiata », ci si chiede quando la nuova legge, pur nell’ovvio mutamento di qualche aspetto, rimanga « identica » alla precedente (4). Se la legge è « identica », il reato, pur modificato, resta presente, e si puniscono ancora i fatti sub iudice; se « non identica », il reato è scomparso e i fatti sub iudice non si puniscono più. Riferiti alla questione in esame, cioè intesi nell’accezione ora detta, i termini « diversità » o « identità » possono ritenersi pertanto singolarmente fungibili. La verifica si effettua comunque su norme astratte: alludendo ad incriminazioni, i confronti si instaurano tra fattispecie penali, tra modelli legali di illeciti, tra tipi di reato. Una tesi risalente, dominante nella dottrina tedesca, accolta dal Bundesgerichtshof e filtrata talvolta anche da noi, in dottrina e in giurisprudenza, pone l’accento sulla c.d. continuità del tipo di illecito, o continuità (4)

Così G. JAKOBS, Strafrecht. Allgemeiner Teil2, 1991, p. 99 ss.


— 1251 — normativa (5). La legge posteriore è soltanto modificativa quando riproduce un reato che nel confronto con quello precedente mostra un medesimo « nucleo essenziale », quando si muove, per lesione del bene giuridico o violazione dell’obbligo, in un’area di illiceità « sostanzialmente corrispondente » (6). Si sconta, ovviamente, il mutare di talune qualificazioni, e dunque la non completa sovrapponibilità dei testi normativi; ma il contenuto di antigiuridicità e di colpevolezza delle incriminazioni, come dire di riprovazione del fatto (condotta ed offesa) e di rimprovero mosso all’autore, resta nei due casi assimilabile. La « diversità », nell’accezione dell’art. 2, co. 3o, della legge successiva né incriminatrice nuova né abolitrice, si esprime in realtà — secondo questa impostazione — nella coincidenza od omogeneità del disvalore di fondo capace, per i fatti pregressi, di perpetuare lo stigma penale. A questa tesi si contesta una certa genericità, in quanto non indicherebbe con la necessaria precisione in base a cosa si perviene ad affermare, nei singoli casi in cui sorge il problema, la continuità o la discontinuità della nuova legge (7). Inoltre, si obietta che la tesi avalla uno scambio dei presupposti della punibilità che il principio di irretroattività preclude, consentendo di punire l’autore di un fatto in base ad una legge che non esisteva al tempo in cui è stato commesso. Quando di due incriminazioni si riconosca la continuità in termini sostanziali, malgrado la successiva rechi anche solo un elemento eterogeneo, si rischia di fondare la persistenza della previsione tipica soltanto sulla rilevanza attuale di requisiti di fatto che non rilevavano per la disposizione precedente, come dire sull’applicazione retroattiva della legge posteriore. Ogni modifica di una legge penale (5) Sulla tesi, sulla formulazione originaria e le adesioni, nonché su alcuni non coerenti sviluppi, in Germania, p.e. A. SCHÖNKE-H. SCHRÖDER-A. ESER, Strafgesetzbuch. Kommentar26, 2001, § 2/24; K. LACKNER, StGB21, 1995, § 2/5; G. GRIBBOHM, Leipziger Großkommentar11, 1992, § 2/18. Ampi riferimenti anche in H-J. RUDOLPHI, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, I, Allgemeiner Teil6, 1997, § 2/10. (6) M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale2, 1995, art. 2/16, ove altri richiami. Analogam., p.e. F. PALAZZO, Legge penale, in Dig. disc. pen., VII, 1993, p. 367; L.D. CERQUA, L’abolizione del principio di ultrattività delle disposizioni penali finanziarie e l’eredità dei vecchi reati tributari, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000, p. 825. In giurisprud., p.e. Cass., Sez. un., 27 luglio 1990, in Riv. pen., 1990, p. 919; Cass., Sez. I, 26 maggio 1993, in Riv. pen., 1994, p. 321; App. Firenze, 11 novembre 1996, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1118; di recente, molto chiara, Cass., Sez. un., 7 novembre 2000, in Riv. pen., p. 2001, 45, 47. (7) Critica piuttosto comune: cenni p.e. in A. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale7, 2000, p. 117; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale3, 2001, p. 281; Cass., Sez. V, 8 ottobre 2002, Tosetti. Più diffusam., B. ROMANO, Il rapporto tra norme, cit., p. 71, e M. MUSCO, La riformulazione dei reati, cit., p. 78, i quali sviluppano poi tesi (rispettivam. « della persistenza dell’illecito », e « della persistente modalità d’offesa del medesimo bene giuridico »: quest’ultima con una insistita valorizzazione di principi di offensività e frammentarietà) che, diverse tra loro, mantengono con la continuità correttamente intesa chiari punti di contatto.


— 1252 — — si osserva — rappresenta in linea di principio un’eliminazione di quella sino allora vigente: la punizione, dunque, non può a rigore fondarsi né sulla legge anteriore, abolita, né sulla nuova, per il divieto di retroattività (8). 3. Quando respinge la continuità dell’illecito, la dottrina prospetta altre impostazioni, che, procedendo a loro volta mediante un confronto tra modelli astratti di reato, si concentrano sui rapporti strutturali tra le due norme (9). Le fattispecie di incriminazione vengono esaminate nei loro rispettivi elementi essenziali, alla ricerca di una omogeneità o disomogeneità di struttura. Secondo tali impostazioni, affinché si dia una legge modificativa, occorre non solo che le condotte siano tra loro omogenee, o almeno riducibili l’una all’altra nel senso che la prima sia speciale rispetto alla seconda o viceversa, ma che lo stesso avvenga anche per gli altri elementi costitutivi. Elementi eterogenei, non riconducibili a quelli della legge precedente, segnerebbero infatti una irrimediabile « rottura » con il passato e dunque, contestualmente, la presenza di una nuova incriminazione e di un’abolitio criminis. Se nella norma successiva compare anche solo un elemento non riconducibile a quelli di prima, sarebbe a rischio il principio di irretroattività, perché l’autore di un fatto che, costituendo reato al tempo della commissione, abbia a costituirlo anche per la nuova legge, potrebbe essere punito in base ad un fattore che prima rilevava e ora non c’è più, e in base ad un fattore che ora rileva e che prima non c’era (10). La verifica della struttura delle fattispecie di reato porta immediatamente alla ribalta il rapporto di specialità tra norme. Con alcuni sviluppi che possono così riassumersi. Quando la legge successiva si presenta come generale nei confronti della precedente, ne ricomprende necessariamente anche l’intero contenuto (11). La legge posteriore, che subentra, sostituendola, a quella anteriore, è comunemente intesa come soltanto modificativa: si constata l’omogeneità delle due norme e si ritiene assolta la funzione di garanzia della irretroattività, poiché l’illecito nella risultante (8) Così T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1361; ma v. anche, p.e., H-J. RUDOLPHI, Systematischer Kommentar, cit., § 2/10; W. HASSEMER, (Alternativ) Kommentar zum Strafgesetzbuch, III, 1986, § 2/30. (9) Soprattutto, T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1365 ss., muovendo da una critica alla tesi c.d. della continenza, a sua volta riconducibile a rapporti di struttura tra norme. Sulla continenza, in particolare, F.-C. SCHRÖDER, Der zeitliche Geltungsbereich der Strafgesetze, in Festschrift Bockelmann, 1979, p. 793. Diffusam., sulla tesi dei rapporti strutturali, M. MUSCO, La riformulazione dei reati, cit., p. 81. (10) T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1370. (11) T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1372.


— 1253 — configurazione insiste su elementi che, rilevanti dopo, erano già tipicamente rilevanti al momento della commissione del fatto. Ben più contrastata, invece, è la soluzione del caso inverso, in cui la legge successiva si presenti come speciale rispetto alla precedente, per la specificazione o per l’aggiunta di un elemento che non figurava nella norma anteriore. Qui anzi il fronte unitario dei fautori dei rapporti strutturali si spezza, dando vita a soluzioni diametralmente opposte. Secondo alcuni, infatti, anche in tal caso sussisterebbe sempre omogeneità strutturale, poiché nonostante la loro non esplicitazione (= ancorché non nominati), i medesimi elementi sarebbero stati in realtà già tutti contenuti nella legge precedente (12); secondo altri, viceversa, il fatto tipico « specializzato » risultante dalla nuova norma (ad es.: non più solo sequestro, ma sequestro « disposto in un procedimento penale »; non più solo una qualsiasi somma di denaro, ma « almeno 1000 euro »; non più dolo generico, ma dolo specifico) introdurrebbe per ciò stesso una disomogeneità: ancora una volta, la punizione dell’autore del fatto potrebbe avvenire sulla base di un elemento che nei suoi termini di specificazione la norma anteriore in realtà non indicava (13). 4. L’importanza della struttura delle norme è fuori discussione e il rapporto di specialità può realmente accreditarsi come il terreno principale dal quale muovere per verificare la natura della legge posteriore ai fini del suo congruo inquadramento nell’ambito dell’art. 2. Ci si deve chiedere, tuttavia, se la tesi sia in grado da sola di assicurare soluzioni soddisfacenti. E a questo proposito già la spaccatura della dottrina cui si è accennato, in ordine al caso — tra l’altro forse il più frequente — di una legge posteriore che « specializzi » una norma di più ampia portata, dovrebbe far sorgere seri dubbi. Se la nuova norma è speciale, pare legittimo affermare che il reato astrattamente inteso è contenuto in entrambe le leggi e che quindi, di nuovo, debba applicarsi l’art. 2, co. 3o. Eppure, non si esita talora ad asserire che l’avvenuta « specializzazione » darebbe (12)

Così ancora, p.e., T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1374; G. FIAN-

DACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale , 2001, p. 79. 4

(13) Così, già, l’obiezione di B. SCHÜNEMANN, Nulla poena sine lege?, 1978, p. 26; F.-C. SCHRÖDER, Der zeitliche Geltungsbereich, cit., p. 796; H.-J. RUDOLPHI, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., § 2/10. Contra, persuasivamente, G. JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 103. Da noi, sostiene nel passaggio da legge generale a legge speciale l’abolitio criminis, da ricondurre all’art. 2, co. 2o, M. MUSCO, La riformulazione dei reati, cit., 85 ss.; L’abolitio criminis dell’omessa presentazione della dichiarazione annuale di cui al previgente art. 1 comma 1 l. 516/82: la svolta delle Sezioni unite in tema di successione di leggi penali, in Cass. pen., 2001, p. 2061. Cfr. inoltre, S. PREZIOSI, La riforma della fattispecie incriminatrice di abuso di ufficio, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di F. Coppi, 1993, 178. Crit., al riguardo, L.D. CERQUA, L’abolizione del principio, cit., p. 827.


— 1254 — luogo ad una nuova incriminazione, che non potrebbe rilevare retroattivamente, ed insieme ad un’abolitio criminis: il caso, allora, sarebbe disciplinato dall’art. 2, co. 2o, con quel che segue per le condanne passate in giudicato rese in base alla legge anteriore. Apparentemente notevole, il divario di soluzioni non sorprende a ben vedere più di tanto, perché non fa che restituire l’incertezza sulle questioni di fondo in tema di limiti temporali della legge penale. Nell’accezione dell’art. 2, la legge successiva speciale, che è formalmente altra, è nuova o « identica » a quella di prima (= è nuova incriminazione, con contestuale abolitio criminis, o è legge soltanto modificativa)? E si noti che l’incertezza non manca a rigore del tutto neppure nell’ipotesi inversa, della legge posteriore che, anziché ridurla, amplia l’area della precedente, « generalizzandone » o « allargandone » uno o più elementi (ad es.: abuso su fanciulli non più « minori di anni 14 », ma su fanciulli tout court; rilevanza penale della evasione d’imposta non più « per almeno centomila euro », ma « per qualunque ammontare »; non più denaro o valori provenienti da alcuni determinati delitti dolosi, ma « beni o utilità provenienti da qualsiasi delitto non colposo »). Anche qui: la legge posteriore, a sua volta formalmente diversa, è soltanto modificativa, e rende applicabile l’art. 2, co. 3o, o non è per caso una nuova incriminazione? Tornerò tra poco sul punto. Ma i rilievi che precedono dovrebbero essere sufficienti a mettere in dubbio che la tesi dei rapporti strutturali fornisca da sola risposte certe ai problemi che si presentano nella prassi. Posto di fronte al problema di quale esito dare — quando nell’ordinamento si avvicendino norme penali — ai fatti pregressi non ancora giudicati, il rigore formale del rapporto di specialità mantiene in realtà meno di quanto promette. In sé presa, la specialità è, se non proprio muta, quanto meno « fredda », necessitando piuttosto, di volta in volta, di apporti valutativi: dunque, di interpretazioni (14). 5. Nell’esigenza di apporti interpretativi, la tesi dei rapporti strutturali mostra una palese convergenza con quella della continuità dell’illecito, che, ricercando corrispondenze di offese e perpetuazioni di disvalori di azione e di evento, implica un confronto tra i reati ed è pertanto, per così dire, naturaliter valutativa. Qui, anzi, emerge anche la parte di verità della tesi c.d. del fatto concreto. Differente dalle altre, perché dichiaratamente svincolata da un diretto raffronto tra modelli astratti di reato, tale (14) Per l’opportuna accentuazione dell’indispensabilità del momento valutativo, B. ROMANO, Il rapporto tra norme, cit., p. 88 ss. A ragione lamenta l’impraticabilità della chiusura a giudizi di valori, teorizzata dalla tesi dei rapporti strutturali, M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali dopo il d.lg. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen., 2002, p. 1267.


— 1255 — impostazione procede alla verifica della « diversità » ai sensi dell’art. 2, co. 3o basandosi sulla costanza del rilievo penale del fatto storico sia per la prima che per la seconda legge. L’intervento legislativo si colloca nell’ambito del co. 3o quante volte il fatto commesso, che integrava il reato di cui alla legge anteriore, integra anche il reato di cui alla legge successiva. Nella formula che efficacemente sintetizza la tesi: « prima punibile, poi punibile, sempre punibile » (15). Alla tesi si oppone spesso che la nuova legge potrebbe talora articolarsi in una pluralità di precetti, di cui uno elimini radicalmente dal sistema la fattispecie previgente, mentre un altro si attagli bensì al fatto pregresso, ma soltanto previa creazione di una incriminazione totalmente nuova, non comparabile con la prima (16). E in tale evenienza, è sicuro che al fatto storico, malgrado rientri in entrambe le leggi, non potrà applicarsi né la prima legge, essendovi stata abolitio criminis, né la seconda, per il divieto di retroattività. Detto in altro modo: un singolo fatto — come mostra lo stesso istituto del concorso formale di reati — può ben integrare al tempo stesso due illeciti concettualmente anche molto distanti tra loro (17). Che il fatto concreto rientri in ambedue le leggi, dunque, non può dire ancora nulla di risolutivo sulla pertinenza del co. 3o. L’obiezione è formalmente ineccepibile e a ragione riconduce alla necessità che il confronto si instauri invece — come si è già sottolineato — tra norme astratte, tra tipi di reato; ma non dovrebbe portare a respingere senz’altro la tesi, suggerendo piuttosto di vederne il lato positivo. Trattandosi di individuare la volontà della legge in merito all’abbandono o al permanere di incriminazioni, onde verificare se possano ancora applicarsi o meno a singoli fatti già accaduti, la portata euristica del fatto concreto è indubbia (18). La tesi, infatti, ha il pregio di concentrare l’attenzione direttamente sui fatti commessi ancora da giudicare; e invece di considerarli « automaticamente » risolti — e abolito il reato — soltanto perché manchino chiarimenti legislativi di diritto transitorio, trova nel disvalore di (15) Per la tesi c.d. del fatto concreto, a sua volta di derivazione tedesca, da noi, A. PAGLIARO, Principi, cit., p. 116; cfr. inoltre La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. pen., 1991, II, c. 1 ss., con la replica alle obiezioni formulate in dottrina. Adesivam., anche R. RAMPIONI, L’abuso d’ufficio, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, cit., p. 126; S. VINCIGUERRA, Diritto penale italiano, I, 1999, cit., p. 338. (16) Cfr. p.t. T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1359. Crit. p.e., anche P. SEVERINO, Successione di leggi, cit., p. 5; B. ROMANO, Il rapporto tra norme, cit., p. 87; M. MUSCO, La riformulazione dei reati, cit., p. 54 ss. Altra questione, naturalmente, è il riferimento al fatto concreto per la determinazione della legge più favorevole, dopo aver ricavato dal raffronto tra norme astratte la competenza dell’art. 2, co. 3o. Su tale riferimento vi è generale concordia. (17) Sul punto, G. JAKOBS, Strafrecht, cit., 101. (18) La sottolinea efficacemente, da ultimo, M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso, cit., p. 1264.


— 1256 — comportamenti pregressi nell’ottica della vecchia legge un segno importante per non condividere la rinuncia alla radicale impunità. Potrà allora bensì accadere che la nuova legge risulti realmente incompatibile con la precedente, segnando rispetto ad essa una distanza incolmabile sul piano del bene tutelato e della relativa offesa; ma la circostanza che un dato fatto, nelle contingenti peculiarità della sua realizzazione, fosse reato in base alla legge anteriore e lo sia anche tuttora in base alla nuova (indipendentemente dal maggiore o minor favore della nuova sanzione), non pare possa essere tranquillamente ignorata: anzi, dovrebbe fortemente orientare verso la non irrilevanza del comportamento pregresso. Poiché si versa a pieno titolo nel delicato terreno dei disvalori di condotte criminose, ovvero di condotte tendenzialmente intollerabili per la vita associata, dovrebbe riconoscersi che quando il legislatore volesse malgrado ciò, nel mutare la disciplina per l’avvenire, recuperare ex post la totale irrilevanza di gravi fatti ancora da giudicare e che rientrino anche nella nuova legge, dovrebbe in qualche modo esplicitarlo. Il fatto concreto, in questo senso, si rivela un aiuto prezioso per individuare la continuità dell’illecito. Si ripete, per maggiore chiarezza: non che la circostanza che il fatto concreto rientri in ambedue le norme basti a far concludere l’interprete per la pertinenza dell’art. 2, co. 3o. Ma è sicuro che la continuità dell’illecito è indiziata anche da tale fattore. Una volta accertata la continuità dei tipi astratti, poi, e così l’operatività dell’art. 2, co. 3o, la ricerca della legge più favorevole potrà portare anche — come si vedrà subito — alla non punizione dell’autore. 6. La « diversità » delle leggi cui allude l’art. 2, co. 3o, dunque (= la loro « identità », pur nel mutamento di alcuni aspetti), deve reperirsi nella « sostanziale prossimità » dei tipi di illecito e nella corrispondenza dei beni giuridici e delle offese. Si dovrà guardare alla struttura delle norme, ma nella prospettiva dei valori che esse intendevano e intendono preservare. In tale direzione, un aiuto decisivo potrà offrire nei singoli casi il quadro assiologico del sistema nel suo complesso. È il sistema, del resto, a far comprendere, nel caso di abrogazione di una norma incriminatrice senza ulteriori espressi chiarimenti, se si verifichi o meno la contestuale riespansione di altra già esistente. Alla luce del sistema, si tratterà ogni volta di ricercare la volontà del legislatore (19); ma proprio per questo, (19) Emblematica, in passato, l’abrogazione dell’art. 552 cod. pen. (procurata impotenza alla procreazione) da parte della l. 194/1978. Se avesse indotto la riespansione dell’art. 583, co. 2o n. 3 (lesioni dolose gravissime), o invece reso lecita la sterilizzazione volontaria, poteva ricavarsi solo dalla volontà del legislatore nel contesto di mutati costumi sociali. Sul punto, p.t., T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1368; C. FIORE, Diritto penale. Parte generale, I, 1993, cit., p. 88.


— 1257 — per comprenderne appieno le scelte, non si potrà non mettere in conto anche la ragionevolezza o meno di soluzioni che assicurino a fatti pregressi, penalmente illeciti prima e dopo, una totale impunità. In linea di principio, comunque, sarà da considerare che l’art. 2, co. 3o prevede una regola generale per la fase transitoria, cosicché detta sopravvenuta impunità dovrà imporsi quale eccezione e risultare dunque dalla nuova legge. Se ciò non avviene, potrà effettivamente ancora emergere una tacita incompatibilità tra le due norme, con abolitio criminis e relative conseguenze ex art. 2, co. 2o; ma un test non indifferente per escluderla, insieme ad altri indici esterni relativi al titolo del reato, è rappresentato dal fatto concreto, dalla sua sussumibilità in entrambe le leggi. Resta tuttavia da dare ancora conto delle suaccennate obiezioni, comunemente mosse alla tesi della continuità. Quanto all’asserita genericità, intanto, si dovrebbe riconoscere che bene giuridico e disvalore della condotta e dell’offesa non sono fattori trascurabili per l’« identità » di un reato, per la tipicità di una fattispecie. È certamente vero che l’individuazione della « prossimità » degli illeciti, o del loro comune « nucleo essenziale », affida uno spazio valutativo all’interprete e al giudice; ma sebbene nella nostra materia siano più che altrove da auspicare certezze (mai abbastanza invocata, in tale direzione, l’opportunità di chiarimenti legislativi in ordine al destino dei fatti non ancora giudicati), è da ammettere francamente che soluzioni ... automatiche non se ne trovano facilmente, neppure — come si è constatato — con le tesi formulate in alternativa. Ciò conduce all’altra obiezione frequentemente riproposta. Reggendosi su apprezzamenti di valore, la continuità dell’illecito permetterebbe di ravvisare la permanenza dell’incriminazione anche quando la legge successiva introduca un elemento nuovo: attribuendo rilevanza ad un requisito prima non presente, consentirebbe l’applicazione retroattiva della legge successiva, violando così il principio di irretroattività. Il medesimo concetto viene espresso anche in altro modo: ammettendo la continuità del reato anche quando nelle due leggi si registri uno scambio di fattori non riconducibile a un rapporto di specialità, si contravverrebbe alla legalità, perché gli elementi rilevanti della legge del tempo della decisione non erano contemplati dalla legge del tempo della commissione del fatto (20). E ancora: la legge del tempo della decisione — si afferma — non può applicarsi retroattivamente e quella del tempo del fatto non può ormai, per scelta del legislatore, applicarsi in malam partem (21). Giovandosi del richiamo alla giusta esigenza di un rigore assoluto del principio di irretroattività della legge penale, l’obiezione appare a prima vista molto seria. Ma nasconde forse una sorta di illusione ottica. E infatti (20) Così G. JAKOBS, Strafrecht, cit., p. 102. (21) W. HASSEMER, (Alternativ) Kommentar, cit., § 2/31.


— 1258 — il principio di irretroattività, nella sua primaria funzione di garanzia sottolineata dall’art. 25, co. 2o Cost., si riferisce alla legge penale sfavorevole: mai potrà trovare applicazione una legge che punisca, o che punisca di più, ad un fatto commesso prima della sua entrata in vigore. Non vale invece per la legge più favorevole: anzi, nel nostro ordinamento è proprio l’art. 2, co. 3o a sancire positivamente che, nel caso di due leggi « diverse » entrambe incriminatrici, si applichi la meno gravosa, anche se retroattiva. Nel caso in esame, si postula che le due leggi — quella del tempo della commissione e la successiva — prevedano entrambe il fatto come reato. L’applicazione retroattiva della seconda, che introduce l’elemento nuovo, ha luogo solo ove sia più favorevole; altrimenti si applica la legge anteriore abrogata. Come si può osservare, non si ha alcuna applicazione retroattiva in malam partem, ma solo l’ordinaria applicazione della legge del tempo del fatto, se in bonam partem; altrimenti, applicazione retroattiva della legge posteriore, se più favorevole. Il divieto di retroattività sarebbe violato soltanto ove si desse già per acquisita l’abolizione del reato di cui alla legge anteriore, che è quanto nei casi di specie occorre dimostrare. Esclusa tale ipotesi, non si vede su cosa possa fondare le proprie rimostranze un soggetto, il quale, esposto ad una condanna in base alla legge vigente al tempo del fatto, lo resti ancora per una legge successiva che, perpetuando l’illecito, gli assicura comunque un trattamento più mite. 7. Torniamo a questo punto ai casi di nuove leggi che si pongano in rapporto di specialità con quelle preesistenti sostituite. In proposito, quando la legge successiva « generalizzi » la legge precedente, estendendone l’area applicativa (c.d. continenza della legge anteriore nella successiva), è indubbio che si determina una continuità dell’illecito. In tali casi, l’evidenza è data dalla circostanza che l’ordinamento, pur con una legge formalmente nuova, conferma in pieno il disvalore delle condotte, ampliandone anzi la portata negativa. Anche autori che non accolgono la tesi della continuità, del resto, riconoscono che tale situazione rientra tipicamente nell’art. 2, co. 3o (22). Chi abbia abusato di un fanciullo di tredici anni continuerà a rispondere (con il trattamento più favorevole), anche se la legge successiva sostituisca il riferimento all’età di meno di quattordici anni alludendo genericamente a fanciulli; lo stesso avverrà per chi abbia sottratto imposte per centomila euro, se una nuova norma stabilisca che è reato evadere non più per almeno cinquantamila, ma per qualsiasi ammontare. Sebbene controversa, anche la soluzione del caso opposto, di una legge successiva che « specializzi » la legge preesistente (c.d. continenza (22)

P.e. T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1371; così pare anche G. FIAN-

DACA-E. MUSCO, Diritto, cit., p. 79.


— 1259 — della legge successiva in quella anteriore), deve ritenersi la stessa. Anche qui si determina infatti una continuità dell’illecito. Ma si noti: non tanto (o non solo) perché la vecchia legge esprimesse già tutti gli elementi della nuova, la quale anzi si presenta per definizione « più ricca » della precedente proprio nei suoi concreti requisiti di rilevanza (sia per specificazione che per aggiunta), quanto perché la « specializzazione », insistendo su uno schema normativo sino allora presente, indicherà un ambito sostanzialmente corrispondente, omogeneo a quello della legge anteriore. In quest’ultimo caso, nondimeno, occorre fare i conti con una variante. La « specializzazione », infatti, delimita, circoscrive, riduce. Si verifica allora quella che viene spesso denominata « abrogazione parziale », espressione con cui si indica che la nuova norma non copre più l’intera area di illecito della norma precedente (23). Frequente, sul punto, il rilievo secondo cui l’abrogazione parziale vale come eliminazione delle fattispecie ricomprese nella norma generale non ricomprese nella norma speciale successiva. La ratio di tale conclusione — si afferma — è da ravvisare in ciò, che se il legislatore ha inteso cancellare dall’ordinamento una gamma di tipologie di condotte salvando soltanto una particolare sottospecie, prima non individuata ma dissolta nella fattispecie generalizzante, « è ovvio che è sua intenzione che non si continui a punire quanto meno tutti i fatti concreti che ha inteso cancellare dall’ordinamento penale quali esempi delle parti della norma che sono state abrogate » (24). E ciò riguarda anche le condanne coperte da giudicato. Pur non senza perplessità, la conclusione è da condividere. Qualche dubbio sorge perché la c.d. abrogazione parziale viene riferita a « sottofattispecie » che nel tipo di illecito di per sé non compaiono (25). Se il confronto inteso ad appurare la diversità delle leggi ai sensi dell’art. 2, co. 3o, anzi, deve instaurarsi — come ammesso sia dai fautori della continuità che da quelli dei rapporti strutturali — tra modelli astratti di reato, sembra legittimo chiedersi se la non riferibilità di questo o quel comportamento alla nuova legge indichi davvero una parziale abolizione di asseriti « sottotipi » di cui alla norma previgente. Si potrebbe pensare, in altri termini, che l’abrogazione parziale (che già stenta a rendersi plausibile in termini formali) non sia una parziale abolitio, ma solo un ridimensiona(23) Per la c.d. abrogazione parziale, da intendere quale parziale abolitio criminis, T. PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1376; Il cammello e la cruna dell’ago. I problemi della successione di leggi penali relativi alle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, in Cass. pen., 2002, p. 1599, 1608. Inoltre, p.e. C. FIORE, Diritto, cit., p. 85.; G. MARINUCCIE. DOLCINI, Corso, cit., p. 270, 277; D. PULITANÒ, La giustizia penale fra vecchio e nuovo diritto penale societario, in Dir. pen. e proc., 2002, p. 1116. In giurisprud., da ultimo, ancora Cass., Sez. V, 8 ottobre 2002, cit. (24) M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso, cit., p. 1268. (25) Rilievi del genere, seppure in altra direzione, in M. MUSCO, La riformulazione dei reati, cit., p. 93 ss., 98.


— 1260 — mento dell’unico fatto tipico esistente. Ovvero: come l’ampliamento dell’area di illiceità di una norma preesistente non è propriamente una nuova incriminazione, almeno nel senso che permane la rilevanza di un fatto pregresso che rientri anche nella legge successiva (e se questa è più favorevole si applicherà in luogo della precedente), così la riduzione dell’area medesima non sarebbe abolizione, ma soltanto modificazione del reato presente. Ma l’abolitio parziale pare in definitiva da ammettere. La legge posteriore che « specializzi » una legge precedente, infatti, si presenta come modificativa del reato preesistente per le parti per cui il fatto era illecito prima e continua ad esserlo con la nuova legge; mentre per le parti non più coperte il fatto cessa di essere penalmente rilevante. Occorrerà ancora distinguere, allora, interpretando i mutamenti intercorsi, se il fatto divenga lecito o soltanto non più punibile; ma nella prima ipotesi si realizza il presupposto dell’art. 2, co. 2o, cioè il venire meno del disvalore astratto della precedente incriminazione. Si badi: non solo di un concreto fatto storico, che è comunque ciò che contingentemente interessa, ma dell’intera classe di fatti non più coperti. Come recita l’art. 2, co. 2o: il fatto, secondo la legge posteriore, non costituisce reato. Le conseguenze. Per i fatti pregressi ancora sub iudice, si dovrà accertare se siano coperti o meno da entrambe le norme incriminatrici, la precedente e la successiva. Se l’esito è affermativo, si applicherà la legge in concreto più favorevole. In caso contrario, non si potrà più punire. Riprendendo gli esempi di cui sopra, spostandone i termini: non potrà più essere punito chi abbia abusato di un fanciullo tredicenne, se la nuova legge abbia portato l’età da meno di quattordici a meno di dieci anni; né colui che abbia evaso imposte per centomila euro se la nuova legge porti la soglia dell’evasione penalmente rilevante da cinquantamila ad almeno centocinquantamila; e neppure chi abbia tenuto una condotta sì vietata dalle due leggi, ma agendo senza il dolo specifico che solo la nuova legge esige. E così via. Ma ciò non esclude la continuità dell’illecito: ed è soltanto in forza di essa che continuerà invece ad essere punito — con la legge più favorevole e previa eventuale riformulazione delle contestazioni — colui che a suo tempo avesse abusato del fanciullo di nove anni, o evaso per duecentomila euro; o avesse agito con il fine particolare che la legge successiva ha poi previsto, ecc. Quanto ai fatti del passato, sui quali sia già intervenuta condanna definitiva, la potenziale pertinenza dell’art. 2, co. 2o c.p. richiederà di verificare se rientrino nella parziale abolitio e sussistano dunque, nel singolo caso, gli estremi per la revoca della sentenza ex art. 673 c.p.p. Dovrà farsi luogo alla revoca quando, pur con i limiti della sede esecutiva (26), si ac(26)

Sui limiti dell’art. 673 c.p.p., p.e. Cass., Sez. V, 18 dicembre 2000, n. 219.252;


— 1261 — certi che la condanna non potrebbe essere pronunciata in base alla nuova legge, non essendo più il fatto penalmente illecito. A differenza dell’art. 2, co. 3o, infatti, che avalla una entro dati limiti comprensibile e di fatto ineliminabile disparità di trattamento tra casi del passato ed attuali (ma del quale è comunque auspicabile una riforma (27)), l’art. 2, co. 2o giustamente non tollera che la disparità riguardi condanne ed effetti tuttora presenti, che per una norma successiva non conseguirebbero più a fatti ancora sub iudice o futuri. Com’è noto, il sistema processuale vigente non è in grado di corrispondere compiutamente ad un’esigenza del genere (28): che però sarà necessario quanto prima soddisfare, previo opportuno adeguamento normativo. II 8. Riferiamo ora i rilievi qui svolti ai casi recenti più significativi (29). Quanto ai reati tributari, un problema sorto nel passaggio tra la vecchia e la nuova disciplina è stato il rapporto tra l’art. 4, lett. d) d.l. 429/1982 e il nuovo art. 2 d.lgs. 74/2000. Il primo puniva (l’emissione e) l’utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, il secondo punisce la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In proposito, ci si è chiesti se l’abrogazione dell’art. 4 cit., ad opera dell’art. 25 d.lgs. 74/2000, abbia comportato l’abolitio del delitto di utilizzo come tale delle fatture false (cioè della loro detenzione in contabilità, senza immissione del contenuto nella dichiarazione), oppure se l’art. 2 cit. continui l’illecito di cui alla norma previgente. In gioco vi è tra l’altro la risposta al quesito se i fatti pregressi di detenzione di fatture, i cui dati non fossero però stati inseriti nella dichiarazione, siano ancora punibili dopo la nuova legge (salvo reperire la legge più favorevole), oppure no; e cosa avvenga delle sentenze definitive di condanna già intervenute. Adite a seguito del contrasto giurisprudenziale puntualmente insorto, Cass., Sez. un., 17 luglio 2001, in Riv. pen., 2001, p. 802, 804; Cass., Sez. I, 17 giugno 2002, n. 221.646. (27) Diffusam., S. DAL CORSO, Successione di leggi penali, cit., p. 92; v. anche M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati2, 2002, art. 342/9. Non tollerabile, infatti, l’attuale tenuta del giudicato in caso di sopravvenienza di legge modificativa che preveda una pena più mite di altra, già inflitta, ancora non interamente eseguita. Si rimedia stabilendo per l’avvenire che la pena ancora da eseguire venga in sede esecutiva ridotta alla sola misura consentita dalla nuova legge. Da condividere, dunque, l’art. 5, co. 2o, come modif. dalla Commissione Grosso il 26 maggio 2001: v. in questa Rivista, 2001, p. 661 (e 652). (28) Così, da ultimo, D. PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 1121. (29) Sui problemi di diritto transitorio sorti dall’abrogazione degli artt. 341 e 344 c.p. (oltraggio individuale), ho già preso posizione in altra sede: v. I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., art. 342/6 ss., ove riferim.


— 1262 — le Sezioni unite della Cassazione hanno ritenuto che le condotte di utilizzazione di fatture, in quanto meramente prodromiche o strumentali rispetto alla indicazione fraudolenta di elementi passivi fittizi in una dichiarazione annuale relativa alle imposte sui redditi o i.v.a., non siano più, di per sé, penalmente rilevanti, poiché non possono in alcun modo ricondursi alla nuova previsione, che individua nella presentazione della dichiarazione la condotta tipica del reato e la lesione dell’interesse erariale. Qualora però — prosegue la Suprema Corte — i dati delle fatture siano stati recepiti dal contribuente nella dichiarazione, della quale costituiscano il supporto fraudolento per la mendace indicazione di componenti negativi, la condotta, già sanzionata dall’art. 4, lett. f) d.l. 429/1982, resta interamente ricompresa nella nuova ipotesi criminosa e conserva rilievo penale: si applicherà così l’art. 2, co. 3o c.p., ricercando la legge concretamente più favorevole (30). La Corte nega dunque la continuità normativa tra l’art. 2 d.lgs. 74/2000 e l’art. 4 lett. d) d.l. 429/1982, ma l’ammette rispetto all’art. 4, lett. f). A questa conclusione perviene dopo avere tracciato correttamente la linea divisoria tra i co. 2o e 3o dell’art. 2 c.p. Essa afferma, al riguardo, che il co. 2o concerne i casi in cui la nuova legge determina un’oggettiva perdita di disvalore del fatto e la piena inoffensività della condotta originariamente incriminata; il co. 3o, invece, i casi in cui all’esito della comparazione tra gli elementi strutturali delle fattispecie incriminatrici, persiste, anche se mutato, il giudizio di disvalore astratto per effetto di un nesso di continuità ed omogeneità delle rispettive previsioni, come dire quando il significato lesivo del fatto storico sia riconducibile nel suo « nucleo essenziale » ad un diverso illecito, ovvero quando l’intervento legislativo, benché formalmente abrogativo, si limiti a modificare l’ambito di applicabilità della previgente norma incriminatrice (31). La pronuncia merita approvazione. Sono da condividere, anzitutto, il raffronto tra i modelli astratti di reato e la continuità tra i reati di cui agli art. 4, lett. f) d.l. 429/1982 e 2 d.lgs. 74/2000. Ed è esatto pertanto concludere che una condotta pregressa di inserzione nella dichiarazione dei redditi di componenti negativi del reddito nella dichiarazione, mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, rilevante al tempo in cui è stata tenuta per l’art. 4, lett. f) d.l. 429 abr., risulterà ancora rilevante per il nuovo art. 2 cit. Pertinente l’art. 2, co. 3o c.p., dovrà farsi ricorso alla (30) Cass., Sez. un., 7 novembre 2001, cit., p. 45, ove si dà esauriente conto anche dell’indirizzo opposto. Sulla sentenza, M. MUSCO, La riformulazione dei reati e gli incerti confini dell’abolitio criminis, in Cass. pen., 2001, p. 458 ss.; A. MELCHIONDA, Nota, in Foro it., 2001, II, c. 142, ove ampia notizia su ulteriori commenti dottrinali. Importanti rilievi, inoltre, in M.N. MASULLO, Le questioni intertemporali diventano di attualità anche per l’illecito penale tributario: alcune riflessioni sulla giurisprudenza delle sezioni unite, ivi, c. 323. (31) Riv. pen., cit., p. 47.


— 1263 — legge in concreto più favorevole, mentre resteranno ferme le sentenze definitive per i fatti del passato. Meno certa, ma ugualmente da sottoscrivere, pare inoltre la discontinuità tra l’art. 4 lett. d) d.l. 429 e l’art. 2 d.lgs. 74. In verità, potrebbe dubitarsi che sulla utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti sia venuto meno il giudizio di disvalore astratto dell’ordinamento, che giustamente la Corte — come si è visto — ritiene necessario in generale per l’intervento dell’art. 2, co. 2o c.p. La stessa condotta, infatti, è diventata la modalità essenziale del delitto di dichiarazione fraudolenta previsto dalla nuova disposizione. Inoltre, l’utilizzazione del documento presuppone almeno di regola l’accordo con colui che lo emette, il cui... servizio si presenta indispensabile: e si stenta ad ammettere che un accordo siffatto non sia per nulla, ora, « disapprovato » dall’ordinamento medesimo. Se si pone l’accento su ciò, anzi, si scorge anche la parte di verità di altra decisione della Suprema Corte, che ravvisa invece la continuità tra gli illeciti, adducendo che la nuova legge si sarebbe limitata ad introdurre non più che una « specializzazione » del delitto di cui alla norma abrogata. Nel caso in esame, però, è da accogliere la soluzione dell’abolitio criminis. La liceità della condotta di utilizzazione delle fatture disgiunta dalla inserzione dei dati nella dichiarazione, infatti, che prima della riforma era un reato distinto, è nella nuova legge sottolineata in modo chiaro. Sullo sfondo, intanto, si consideri la novità della costruzione degli illeciti tributari sull’evasione di imposta, in dichiarata antitesi al sistema in vigore dal 1982 in poi: circostanza, questa, che solo in via palesemente derogatoria consente di perpetuare il disvalore di condotte anticipatrici dell’evasione medesima. Ma soprattutto indicativi risultano gli art. 6 e 9 d.lgs. 74. Il non assoggettamento a pena, rispettivamente, sia del tentativo del delitto di cui all’art. 2, sia del concorso dell’utilizzatore delle fatture nel reato dell’emittente (reato previsto a sé stante dal nuovo art. 8), dà precisa attuazione al disegno legislativo di escludere il rilievo di una condotta prodromica all’effettiva lesione dell’interesse dello Stato alla percezione del tributo. In altri termini: quella che potrebbe apparire (e che sarebbe stata) una continuità dell’illecito, per il permanere del disvalore di azione, soccombe nel caso di specie di fronte ad indici normativi univoci che fanno le veci di una espressa dichiarazione legislativa abolitrice del reato preesistente. Il risultato è che si applicherà l’art. 2, co. 2o c.p.: colui che vigendo la disciplina abrogata abbia commissionato a terzi fatture per operazioni inesistenti, che si sia poi limitato a detenere nella propria contabilità senza trasporne il contenuto nella dichiarazione, non sarebbe più punibile alla stregua della nuova legge; e la condanna passata in giudicato ne verrebbe travolta.


— 1264 — 9. Un’ulteriore questione di diritto intertemporale, originata anch’essa dall’avvento del d.lgs. 74/2000, è stata affrontata nello stesso periodo da altra pronuncia delle Sezioni unite. Anche tale decisione intende dirimere un aspro contrasto interpretativo puntualmente determinatosi (32), riguardante questa volta l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi: precisamente, la ravvisabilità o meno della continuità normativa tra il reato di cui all’art. 1, co. 1o d.l. 429/1982 e quello di cui all’art. 5 d.lgs. 74 cit. Nel confrontare le rispettive norme incriminatrici, le Sezioni unite individuano tra le fattispecie una « evidente disomogeneità strutturale » (33). Che sarebbe dovuta a ciò: mentre l’omessa dichiarazione di cui all’art. 1 d.l. 429 era reato contravvenzionale, l’art. 5 d.lgs. 74 la prevede ora come delitto; mentre la previgente normativa sanzionava la condotta omissiva, non attribuendo rilievo alla quantificazione dell’imposta evasa e commisurando la pena all’ammontare non dell’evasione, ma degli imponibili non dichiarati, la nuova prevede invece un reato di danno, dato dall’evasione di almeno 150 milioni di lire; mentre per la disposizione abrogata era sufficiente che la mancata presentazione avvenisse per colpa, quella attuale esige un dolo specifico di evasione (dolo che per la Corte dovrebbe riferirsi ad una evasione di almeno detto ammontare). Secondo la Corte, avendo la recente legge introdotto nella fattispecie di omessa dichiarazione elementi costitutivi nuovi e diversi da quelli previsti dalla norma precedente, non potrebbe sostenersi alcuna continuità tra vecchia e nuova normativa in funzione dell’identità dell’interesse protetto, sia perché il nuovo diritto penale tributario attua una vera e propria inversione di rotta rispetto al precedente, « sia perché non può parlarsi di continuità della successione tra norme quando uno o più elementi tipici di identificazione nel fatto siano tra loro eterogenei ». Ancora più esplicita, poi, la conclusione. L’orientamento giurisprudenziale che ravvisa la continuità tra le fattispecie sarebbe da respingere perché la continuità — così afferma la motivazione — concerne solo le ipotesi di passaggio da una norma speciale ad una generale, ove quest’ultima comprenda il contenuto tipico della precedente, non invece l’ipotesi contraria, costituita dal passaggio, come nel caso di specie, da una norma generale ad una speciale, che introduca rispetto alla previsione previgente elementi nuovi caratterizzanti (34). (32) Cass., Sez. un., 15 gennaio 2001, n. 35, in Riv. pen., p. 153, con un accurato resoconto delle numerose pronunce della Corte in senso opposto. La sentenza è annotata favorevolmente da M. MUSCO, L’abolitio criminis dell’omessa presentazione della dichiarazione, cit., p. 2059. Crit., invece, M.N. MASULLO, Le questioni intertemporali, cit., c. 329; L.D. CERQUA, L’abolizione del principio, cit., p. 834, ove notizia di altri commenti adesivi. (33) Riv. pen., cit., p. 155. (34) Riv. pen., cit, p. 155, 156.


— 1265 — Con questi ultimi rilievi, la Corte dimostra di accedere ad una impostazione sostenuta da parte della dottrina, per la quale sarebbe soltanto il rapporto di continenza a garantire un’autentica successione di leggi, e per giunta la sola continenza della vecchia norma nella nuova, che risulti caratterizzata da una maggiore ampiezza. Ma si è già avuto modo di osservare che la tesi non può essere accolta: è bensì vero, infatti, che vi è continuità di illeciti nel passaggio da una norma speciale ad una generale che la comprenda; ma è anche vero che la continuità può e deve affermarsi altresì quando la legge successiva « specializzi » rispetto alla previgente uno o più elementi di fattispecie, muovendosi in corrispondente, omogeneo (« unidirezionale ») solco di tutela. Proprio questo è avvenuto nel caso che si discute. La nuova legge ha bensì mutato alcuni tratti del reato preesistente: soprattutto, in coerenza con la rilevanza dell’effettiva sottrazione di imposta, ha evidenziato il profilo del danno all’erario, così arricchendo la descrizione del tipo; inoltre, ha richiesto un dolo particolare prima formalmente sconosciuto, ancorché a maggior ragione rilevante ove fosse presente. Ma al tempo stesso, abbandonando tra l’altro la forma contravvenzionale per quella delittuosa, ha innegabilmente perpetuato il disvalore penale della condotta omissiva dato dalla violazione dell’obbligo di presentazione della dichiarazione, collegando l’intervento della pena, come avveniva anche prima, al superamento di una determinata soglia di punibilità. Detto in altro modo: il legislatore della riforma, pur ovviamente innovando per il futuro, ha proseguito sulla via del rilievo penale di una determinata condotta contraria ad un corretto rapporto contribuente-Stato, arricchita da modalità lesive, nei due casi, se non identiche, senza dubbio prossime. Certo, il legislatore poteva mostrarsi più chiaro per la fase transitoria, affermando espressamente — mentre ribadiva di non voler affatto rinunciare alla lotta all’evasione anche con lo strumento penale — che il superamento della prima legge non implicava la considerazione tamquam non fuissent delle omesse dichiarazioni precedenti. Ma manca anche, nella specie, qualsiasi indice in senso opposto: e non sembra che il silenzio della legge sul punto debba far interpretare quella di cui all’art. 5 d.lgs. 74 cit. come una incriminazione nuova, in tal modo totalmente « abbuonando », come per una surrettizia amnistia propria, pregresse omissioni di dichiarazioni ancora sub iudice, anche quando concretamente accompagnate da una sostanziosa sottrazione d’imposta. La continuità tra gli art. 1, co. 1o d.l. 429 e l’art. 5 cit., invece, desunta dalla perpetuazione del disvalore del fatto, si pone quale istanza ragionevole che evita una conseguenza del genere. Superfluo aggiungere del resto, dopo quanto già osservato, che non si dà luogo, al riguardo, ad alcuna violazione del principio di irretroattività, poiché si assume che la stessa omessa dichiarazione costituisse reato anche al tempo della sua realizzazione. Resteranno pertanto


— 1266 — punibili — applicando la legge più favorevole — le omesse dichiarazioni realizzate con dolo di evasione, in presenza di una sottrazione di imposta superiore alla soglia di cui alla nuova legge (35). In mancanza di questi requisiti, il fatto non è più preveduto dalla legge come reato e, intervenuta una parziale abolitio, per le condanne definitive si procederà in sede esecutiva nei termini (pur di fatto problematici) cui si è già avuto modo di accennare. 10. L’ultima questione di diritto transitorio riguarda il delitto di false comunicazioni sociali. Tra i numerosi gravi interrogativi che ha suscitato, sul merito delle scelte politiche di fondo come sulla tecnica legislativa adottata, la recente riforma del diritto penale societario (d.lgs. 61/2002) ha portato anche a chiedersi cosa avvenga sia dei reati di falso in bilancio commessi prima dell’entrata in vigore della nuova legge e non ancora giudicati, sia delle sentenze definitive di condanna per il reato di cui all’art. 2621 c.c. previgente (36). È venuto subito alla ribalta il rapporto tra l’art. 2621 abr. ed i nuovi art. 2621 e 2622: e come nei casi precedenti si sono delineate, sia in dottrina che in giurisprudenza, opposte interpretazioni. Un primo indirizzo muove da un dato inoppugnabile, ponendo in luce come il nuovo complesso normativo abbia davvero inteso voltare pagina rispetto a quello previgente. Il legislatore ha realmente coltivato, infatti, un palese disegno di compressione dell’area del penalmente rilevante. Ha concesso largo spazio a figure contravvenzionali quando non ad illeciti amministrativi, ha tenuto quasi ovunque un livello sanzionatorio di modesto profilo, ha posto spesso l’accento dei singoli illeciti sulla causazione di un danno di natura patrimoniale; ha limitato in termini non convenzionali i criteri di imputazione: contravvenzioni punibili solo se commesse con dolo, o con dolo specifico; delitti con doli speciali o di particolare intensità, ecc. Quanto poi alle false comunicazioni sociali, è un dato acquisito che la riforma — prescindendo qui sia da valutazioni di opportunità di politica del diritto che da ispirazioni... contingenti — ne ha soffocato l’incriminazione sin quasi... all’asfissia (37). Anzitutto, è stato ristretto notevolmente (35) Tra le molte decisioni in tal senso, che ammettono la continuità, alle quali si oppone la soluzione delle Sezioni unite criticata nel testo, v. p.e. Cass., Sez. III, 2 maggio 2000, Palazzo; Cass., Sez. III, 17 maggio 2000, Catanzaro. (36) P.t. E. MUSCO, I nuovi reati societari, 2002, p. 70 ss. (37) In particolare, A. CRESPI, Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, in Riv. soc., 2002, p. 1348; C. PEDRAZZI, In memoria del « falso in bilancio », in Riv. soc., 2002, p. 1369.; G. MARINUCCI, « Depenalizzazione » del falso in bilancio con l’avallo della SEC: ma è proprio così?, in Dir. pen. proc., 2002, p. 137. Giudizi severi, inoltre, p.e. in A. ALESSANDRI, La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto penale societario, in


— 1267 — il fatto tipico. Si sono ridotti i soggetti attivi e soprattutto le comunicazioni sociali rilevanti; si è dato esplicito rilievo alla concreta idoneità del falso ad ingannare; si è reso necessario che la falsità alteri sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, per giunta sancendo, valide incredibilmente « comunque », generose soglie di punibilità (38). Sul terreno della colpevolezza, infine, si è previsto un dolo specifico, dato dal fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, ma si è introdotto congiuntamente un dolo intenzionale, mirato sull’inganno ai soci o al pubblico. Come se tutto ciò non bastasse, nelle false comunicazioni di cui all’art. 2622 si è introdotto quale elemento essenziale un discutibile danno patrimoniale ai soci o ai creditori, e si è aggiunta infine (ove soltanto non si tratti di società quotata) la procedibilità a querela di parte. Muovendo dalle molteplici novità delle figure di false comunicazioni, si è ritenuto di poter negare la continuità tra la vecchia e la nuova disciplina (39). Le innovazioni importerebbero — secondo tale impostazione — una disomogeneità strutturale delle fattispecie attuali rispetto al reato preesistente e tale disomogeneità precluderebbe l’applicabilità dell’art. 2, co. 3o c.p. Si dovrebbe concludere, dunque, nel senso che sarebbe intervenuta una totale abolitio criminis. Chi sostiene questa tesi ha ragione a richiamare a sostegno il precedente della sentenza delle Sezioni unite che ha escluso la continuità normativa in rapporto alla omessa dichiarazione dei redditi (40). Gli è però che tale decisione, che ricorre ad analoghi argomenti, fondati sulla pluralità di asseriti elementi nuovi, non è — come si è visto — condivisibile. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che le pur numerose innovazioni della riforma del diritto penale societario non dicono in realtà proprio niente sulla continuità o meno delle false comunicazioni sociali come tali, dovendosi invece concentrare l’analisi sulla configurazione dell’illecito prima e dopo la riforma. Si deve vedere, cioè, se la lesione del bene giuridico ricavabile dai nuovi modelli astratti sia incompatibile con quella precedente così da aver prodotto un’incolmabile interruzione di tutela. In questa direCorr. giur., 2001, p. 1547; A. BARTULLI, Deregulation della tutela penale della informazione societaria, in Governo dell’impresa e mercato delle regole (Scritti giuridici per G. Rossi), II, 2002, p. 1397; L. FOFFANI, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1197; F. GIUNTA, Quale futuro per le false comunicazioni sociali, ivi, p. 929. Diversam., I. CARACCIOLI, Falso in bilancio: dietro le polemiche norme più aderenti alla realtà societaria, in Guida al diritto, 2001, n. 36, p. 10. (38) Sulle quali si sono diretti soprattutto gli acuminati strali di A. CRESPI, Le false comunicazioni sociali, cit., p. 1348 ss. (39) Così E. MUSCO, I nuovi reati, cit., p. 72; M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso, cit., p. 1272 ss.; Trib. Milano, 15 maggio 2002 (ord.), in Dir. pen. proc., 2002, p. 1109. (40) Ancora E. MUSCO, I nuovi reati, cit., p. 72.


— 1268 — zione, un aiuto decisivo viene dal raffronto tra il vecchio art. 2621 e i nuovi art. 2621 e 2622. Così procedendo, si nota subito che, pur nella scontata diversità di non pochi aspetti, il nuovo art. 2621 si presenta rispetto all’art. 2621 abr. in rapporto di specie a genere. Con il nuovo si dà corso ad una clamorosa riduzione della rilevanza penale del falso, soprattutto mediante il requisito dell’alterazione sensibile e del superamento delle soglie; ma si tratta pur sempre di false comunicazioni sociali: e non è ipotizzabile un solo caso che, rientrando nelle norme attuali, fuoriesca dall’area applicativa di quella previgente. Ma vi è di più. Quest’ultima e le nuove disposizioni tutelano la trasparenza della informazione societaria, pregiudicata dai comportamenti di esposizione del falso o di occultamento del vero: e nulla aggiunge da questo punto di vista, malgrado gli sforzi dimostrativi di dottrina e giurisprudenza in tal senso (41), la specifica tutela patrimoniale risultante dalla inserzione del danno nell’art. 2622, trattandosi di un elemento ulteriore e comunque di norma succedanea, che in mancanza di una propria disponibilità lascia libero campo all’intervento della fattispecie-base di cui all’art. 2621 (42). Confrontando le norme incriminatrici, dunque, non sembra che la continuità dell’illecito possa essere negata (43). Mai sorge dalla comparazione il dubbio che l’astratto disvalore dell’esposizione di fatti falsi o dell’omissione di notizie rilevanti sulla situazione economica della società sia con la riforma venuto meno. Mai affiora un indizio della volontà del legislatore che fatti non ancora giudicati che costituissero reati quando sono stati commessi, se del caso il giorno prima dell’entrata in vigore della legge, non siano oggi punibili, neppure quando corrispondano ai reati attuali, in quanto gli artt. 2621 e 2622 vigenti sarebbero da intendere, ex art. 2, co. 1o c.p., come nuove incriminazioni. Questa volta, anzi, la legge reca un espresso riferimento in senso opposto: che cioè il legislatore, pur ridimensionando il rilievo penale della falsità, ha voluto conservare la rilevanza dei fatti pregressi, tanto vero che con un’apposita norma transitoria — l’art. 5 d.lgs. 61 cit. — ha rimesso in termini per la proposizione della querela nei casi di reati commessi anteriormente alla sua entrata in vi(41) Rispettivam. M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso, cit., p. 1246 ss.; E. MUSCO, I nuovi reati, cit., p. 73; Trib. Milano, 15 maggio 2002 (ord.), cit., p. 1110. (42) S. SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in Dir. pen. proc., 2002, p. 681; T. PADOVANI, Il cammello e la cruna, cit., p. 1604, che esplicitamente riconosce la continuità, con l’art. 2621 originario, anche del nuovo art. 2622. (43) Così, ora, T. PADOVANI, Il cammello e la cruna, cit., p. 1599, 1604; D. PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 1120. In giurisprud., Cass., Sez. V, 21 maggio 2002, in Dir. pen. proc., 2002, p. 1098; C. 8 ottobre 2002, cit.; App. Milano (ord.), 10 maggio 2002, in Dir. pen. proc., 2002, p. 1099; Trib. Bari, 18 giugno 2002, p. 1101; Trib. Alba, 16 maggio 2002, ivi, p. 1107; Trib. Milano, 23 aprile 2002 (ord.), ivi, p. 1114.


— 1269 — gore (44). Un segnale di perpetuazione della rilevanza penale, questo, che, sebbene riferito ai reati procedibili a querela, non può non valere a fortiori per quelli invece perseguibili d’ufficio. Sicura la pertinenza dell’art. 2, co. 3o c.p., saranno pertanto tuttora punibili, previa eventuale doverosa ri-contestazione, i fatti non ancora giudicati che, integrando allora il delitto di cui all’art. 2621 abr., realizzino anche alcuna delle figure di reato dei nuovi art. 2621 e 2622. A ciò conduce la ricerca della legge più favorevole, che esclude il rilievo dei casi che concretamente non rientrino anche nella seconda legge. In particolare, sarà da considerare l’alterazione sensibile della situazione economica nei termini ormai richiesti: alterazione che non pare soltanto condizionare la punibilità del fatto, ma che, fissando la misura essenziale di lesività, contrassegna la materia del divieto penale. Per i fatti che rientrino nell’una e nell’altra, l’enorme maggior favore della nuova porterà sempre alla sua applicazione, e spesso, in concreto, al riconoscimento della prescrizione e alla dichiarazione di estinzione del reato. A ciò conduce direttamente la scelta legislativa. Resta da dire dei reati di false comunicazioni sociali per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di condanna. Poiché la restrizione dell’area di illiceità delle nuove fattispecie rispetto alla precedente conduce ad ammettere una parziale abolitio criminis, la condanna dovrà revocarsi, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., quando ex actis emerga che i fatti accertati su cui si è formato il giudicato non corrispondono più alle nuove figure (45). Come già si accennava, una tale verifica è resa problematica dalle palesi angustie probatorie dell’attuale processo esecutivo. In questa situazione, comunque, se solo si vuole fare sul serio con la naturale forza espansiva del favor libertatis, dovrà procedersi alla revoca della sentenza quante volte dalla verifica non risulti provato che il fatto pregresso integrasse ciascuno degli estremi oggettivi e soggettivi dei reati di cui alle norme vigenti. È vero dunque che i riflessi pratici della continuità delle false comunicazioni sociali potranno alla fine essere modesti (46); ma salvare almeno i principi, di fronte a certe opzioni del legislatore del nostro tempo, non è cosa trascurabile. MARIO ROMANO (44) A ragione, T. PADOVANI, Il cammello e la cruna, cit., p. 1606; Trib. Alba, 16 maggio 2002, in Dir. pen. proc., 2002, p. 1107, 1109. (45) G. MARINUCCI, « Depenalizzazione » del falso, cit., p. 1; Cass., Sez. V, 8 ottobre 2002, cit. A favore della revoca nel caso di cui si occupava, affermando però erroneamente la discontinuità normativa (e dunque un’abolitio criminis totale), Trib. Milano, 15 maggio 2002 (ord.), cit., p. 1112. (46) Concordi sul punto, pur da conclusioni opposte in merito alla continuità, M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso, cit., p. 1280 e D. PULITANÒ, La giustizia penale, cit., p. 1121.


LEGALITÀ DISCONTINUA? PARADIGMI E PROBLEMI DI DIRITTO INTERTEMPORALE

I.

Al confine fra abolitio criminis e successione di leggi.

1. Il paradigma classico dei rapporti strutturali fra fattispecie. — I principi sull’efficacia della legge penale nel tempo, è stato sottolineato (1), sono un buon indicatore dello spirito del tempo in tema di diritto penale. Vero è che quei principi non riguardano la vita quotidiana della giustizia penale, ma solo situazioni di transizione; vengono attivati su questioni puntuali, in occasione di modifiche normative, per brevi periodi. Ma quando le modifiche sono frequenti, e toccano settori importanti, i profili e problemi di diritto intertemporale, formalmente eccezionali, occupano il centro della scena. È quanto sta avvenendo in Italia, sullo sfondo di modifiche normative di vario genere (2) il cui primo impatto ha portato e continua a portare alla ribalta problemi di diritto intertemporale, concernenti l’attuale valutazione giuridica dei fatti pregressi. I modi in cui i principi del diritto intertemporale vengono interpretati, e i risultati della loro applicazione, divengono davvero rivelatori dello spirito del tempo, e delle tensioni che lo attraversano. Per passaggi non facilmente ricostruibili, paradigmi che apparivano consolidati sono andati in crisi, nelle formule dottrinarie e, soprattutto, nelle soluzioni giudiziarie di casi concreti. Il quadro è più che mai frammentato; soluzioni diametralmente opposte sono sostenute con dovizia di argomentazioni e di sforzo retorico. La questione centrale concerne il confine fra i due ambiti in cui la disciplina vigente (art. 2, 2o e 3o comma, cod. pen.) suddivide l’area di applicabilità dei principi fondamentali relativi alla successione di leggi penali. Su questa distinzione si giocano due partite, entrambe di grosso ri(1) W. HASSEMER, in Kommentar zum Strafgesetzbuch, 1990, p. 178. (2) Si va dalle riforme che, negli anni ’90, hanno toccato importanti settori del codice penale (delitti contro la P.A., delitti sessuali) a quelle che, più di recente, hanno toccato importanti settori del diritto penale extra codice (reati tributari e societari), ad altre che hanno apprestato la disciplina di materie nuove, con interventi frammentati nel tempo (immigrazione).


— 1271 — lievo: innanzi tutto, l’alternativa fra un esito di assoluzione piena e un esito meno favorevole (non necessariamente di condanna: potrebbe anche essere di non punibilità per ragioni diverse dalla inesistenza di reato); inoltre, la possibilità o meno di applicare la legge sopravvenuta più favorevole superando il limite del giudicato. Come si ritaglia, entro l’area delle modifiche in bonam partem, quella in cui trova applicazione ai fatti pregressi non il terzo comma (applicazione della legge più favorevole, entro il limite del giudicato), ma il secondo comma (abolitio crimins, che travolge anche il giudicato)? Dietro posizioni pur differenziate nei dettagli è possibile individuare un paradigma tradizionale (proporrei di definirlo classico, o dei raporti strutturali fra fattispecie) (3) che può essere sintetizzato come segue. L’iperretroattività (4) ‘oltre il giudicato’, ex art. 2 comma 2, è indiscutibile quando vi sia totale abrogazione di un titolo di reato, e non sia applicabile alcuna altra norma penale, vuoi preesistente vuoi introdotta contestualmente alla abrogazione. In tali ipotesi, si ha una abolitio criminis totale. Non sempre l’abrogazione di una norma penale equivale ad abolizione della rilevanza penale dei fatti in essa ricompresi. Esempio di scuola, l’abrogazione dell’art. 587 cod. pen. (omicidio o lesioni personali per causa d’onore) con legge 5.6.1981 n. 442. L’abrogazione ha inteso eliminare un trattamento penale privilegiato del c.d. ‘delitto d’onore’, non certo rendere non punibili dei fatti che comunque rientrano nelle fattispecie generali di omicidio doloso o di lesioni personali dolose. Abrogata la norma speciale, l’ambito che essa disciplinava resta coperto dalla norma generale (a meno che, beninteso, l’interpretazione sistematica non porti ad escluderne l’applicabilità nel caso concreto). Per i fatti commessi anteriormente all’abrogazione, vale il criterio della legge più favorevole (5). Per altro verso, l’abrogazione secca (non accompagnata da nuove disposizioni) non è l’unico caso da cui possa derivare che un fatto « secondo una legge posteriore, non costituisce reato » (così l’art. 2, 2o comma, configura la abolitio criminis). Se una fattispecie di reato viene sostituita con un’altra, che rispetto ad essa sia ‘speciale’, l’insieme dei fatti che in precedenza rientravano nella fattispecie generale ne risulta suddiviso in due sottoinsiemi, secondo che siano o non siano presenti gli elementi specializzanti che caratterizzano la nuova fattispecie. I fatti che erano compresi (3) Per una esposizione ampia, T. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 1354 s. (4) L’espresione è tratta da C. PODO, Succesione di leggi penali, Nss. Dig. It., XVIII, 1971, 669. (5) Nel nostro esempio, l’abrogato art. 587 continuerebbe a trovare applicazione ai fatti commmessi sotto la sua vigenza, in quanto più favorevole della norma sull’omicidio doloso.


— 1272 — nella fattispecie generale, ma non più in quella speciale, hanno perso la rilevanza penale che avevano ai sensi della fattispecie generale abrogata. I fatti che presentano gli elementi specializzanti restano compresi nella fattispecie speciale, subentrata alla fattispecie generale abrogata. In ipotesi di questo tipo, possiamo parlare di abolitio criminis parziale (6): a seguito della modifica legislativa, per l’insieme dei fatti non più compresi nella norma speciale sopravvenuta vi è abolitio criminis, mentre i fatti che restano ricompresi nella norma speciale hanno ancora rilevanza penale: se commessi in futuro, fatti di questo tipo saranno ovviamente puniti ai sensi della nuova legge, in vigore all’epoca in cui sono commessi. Ai fini qui considerati, il rapporto di specialità non è escluso dalla eventuale previsione, nella norma successiva ‘speciale’, anche di ipotesi che in precedenza non costituivano reato. In tal caso, il rapporto fra le norme susseguitesi nel tempo andrebbe propriamente definito come di interferenza. La norma successiva comprende, in parte, ipotesi nuove, per le quali vale il divieto di applicazione retroattiva, e in parte ipotesi ‘speciali’ rispetto alla legge previgente, per le quali si pone il problema della successione di leggi. I rapporti fra fattispecie dipendono, ovviamente, dal loro contenuto, e non dalla loro formulazione testuale. Oltre che nel caso di sostituzione di una norma generale con una norma speciale, l’effetto di restrizione dell’area della punibilità, e quindi di abolitio criminis parziale, potrebbe derivare dall’introduzione di una causa di non punibilità, o da modifiche di istituti di parte generale (o eventualmente da talune modifiche di discipline extrapenali da cui dipenda il disvalore del fatto). La soluzione del problema della successione di leggi, offerta dal paradigma classico, assicura una valutazione dei fatti pregressi in tutto e per tutto coerente con la valutazione dei fatti successivi al mutamento legislativo. Per i tipi di fatto che non sono più ricompresi nella fattispecie speciale sopravvenuta, si deve riconoscere la abolitio criminis con efficacia iperretroattiva (oltre il giudicato) ai sensi del 2o comma. In nessun caso è consentito tenere ferme valutazioni d’illiceità ed affermazioni di responsabilità per fatti concreti che, in base alla legge successiva, non costituiscano più reato. Per i fatti pregressi i quali presentino tutti gli elementi richiesti dalla norma speciale sopravvenuta, troverebbe invece applicazione il 3o comma dell’art. 2 cod. pen.: applicazione (eventualmente retroattiva) della disciplina più favorevole (7), con il limite dell’intangibilità del giudicato. (6) PADOVANI, op. cit., 1376. (7) Vengono in rilievo, in questa prospettiva, sia le modifiche (in senso restrittivo) della fattispecie, sia le modifiche del sistema sanzionatorio, nel senso più ampio: modifica-


— 1273 — Le applicazioni giurisprudenziali, per lungo tempo, si sono mosse sostanzialmente su questa strada. Fra i casi significativi nell’esperienza recente (non più recentissima) ricordiamo la riforma dei delitti dei pubblici ufficiali nel 1990, che ha abrogato la figura dell’interesse privato in atti d’ufficio e riformulato la fattispecie dell’abuso d’ufficio: sulla premessa che fra le predette figure (quella abrogata e quella riformulata) vi sia un rapporto di interferenza, la giurisprudenza ha escluso l’abolitio criminis, in tutti i casi in cui condotte precedentemente qualificabili come interesse privato in atti d’ufficio presentassero i caratteri tipici dell’abuso d’ufficio (8). Nell’impatto con recenti modifiche normative, il paradigma classico di distinzione fra abolitio criminis e successione di leggi, fondato sul rapporto di specialità o continenza fra norme, è stato abbandonato a favore di paradigmi diversi. Non mi pare ci sia stata, finora, una riflessione approfondita sulle ragioni, le vicende e gli ambigui esiti di questo passaggio. 2. L’abbandono del paradigma classico. A) L’abrogazione di una fattispecie speciale: la vicenda dell’oltraggio. — Il tema della abrogazione di una fattispecie speciale è venuto in rilievo quando si è trattato di trarre le conseguenze dalla abrogazione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 cod. pen., abrogato dalla legge n. 205 del 1999). Due indirizzi, fin dal primo momento, si sono contrapposti nella giurisprudenza anche della Cassazione. L’abolitio criminis è stata esclusa da un indirizzo che, facendo applicazione dei criteri da sempre ritenuti validi, ha rilevato come i fatti (o gran parte dei fatti) già ricompresi nella fattispecie di oltraggio siano riconducibili alla fattispecie di ingiuria, rispetto alla quale l’oltraggio era norma speciale; donde l’applicabilità del 3o, e non del 2o comma dell’art. zioni concernenti la pena, le circostanze, la sospensione condizionale, la querela, la prescrizione, il mutamento del titolo del reato. La disposizione più favorevole si applica ovviamente anche quando essa sia aggiuntiva, e non sostitutiva rispetto alla restante disciplina (p. es., in caso d’introduzione di una nuova circostanza attenuante). (8) Vedi Cass. s.u., 20-6-1990, in Cass. pen., 90, 1896, e in Foro it., 1990, II, 697, con nota di G. FIANDACA. La medesima impostazione è stata seguita a proposito della riforma dell’abuso d’ufficio del 1997. Fra la nuova e la vecchia legge vi è un rapporto di specialità bilaterale, cioè di abolitio criminis parziale: Cass. 26 aprile 1999, in Cass. pen., 00, 2242; Cass. 1 marzo 1999, ivi 2243; Cass. 17 febbraio 1998, in Cass. pen., 99, 2506; Cass. 14 gennaio 1998, in Cass. pen., 99, 498; Cass. 17 dicembre 1997, in Cass. pen., 99, 494; Cass. 4 dicembre 1997, in Studium Juris 98, 1389; App. Firenze 10 dicembre 1997, in Cass. pen., 99, 2374; Trib. Piacenza 24 maggio 2000, in Riv. pen., 00, 932; Trib. Bari 30 settembre 1997, in Giur. it., 99, 151, con nota di IVAGNES. Vi è continuità normativa, essendo disciplinata la medesima materia, sia pure configurando uno schema comportamentale del tutto diverso: Cass. 24 ottobre 1997, in Cass. pen., 99, 495; conf. Cass. 22 dicembre 1997, ivi 99, 496.


— 1274 — 2 (9). Di fronte all’emergere della contrapposta tesi della abolitio criminis in alcune sentenze di merito, in dottrina si sono espressi giudizi molto netti nel senso della sua sicura infondatezza: « l’abrogazione dell’oltraggio costituisce un classico e pacifico esempio di successione di leggi penali, tanto da potersi considerare un caso di scuola » (10). Alla fine, le Sezioni Unite hanno però fatto prevalere una tesi diversa (11), di rottura rispetto ai principi affermati in passato. Hanno affermato che l’ipotesi della successione di leggi, di cui al 3o comma dell’art. 2, « ha per presupposto una diversità di norme incriminatrici, di cui una cronologicamente precedente all’altra, o — più esattamente — presuppone una diversa vigenza temporale delle norme incriminatrici ». Escluso che la legge abrogativa dell’oltraggio abbia « introdotto in sostituzione nuove o diverse figure di reato », la Sezioni Unite hanno ritenuto applicabile nella specie il 2o comma, e concluso che l’abrogazione dell’oltraggio travolge le condanne passate in giudicato, mentre nei processi pendenti, peraltro, il giudice potrebbe riqualificare il fatto come ingiuria, sempre che sia stata sporta la necessaria querela della persona offesa: conclusione, questa, che logicamente smentisce la tesi d’una totale abolitio criminis. Identificando la ‘successione di leggi’ con l’entrata in vigore di una nuova norma che sostituisca la legge « cronologicamente precedente », le Sezioni Unite hanno abbandonato il paradigma classico, per il quale l’abrogazione di una norma speciale non equivale ad abolitio criminis, e non fa differenza se la norma generale sia preesistente, ovvero emanata contestualmente alla abrogazione della norma speciale. Ai fini della successione di leggi, legge ‘successiva’ non necessariamente è una norma « introdotta dopo la commissione del fatto », ma è la disciplina divenuta applicabile al caso concreto per mutamenti normativi intervenuti dopo il fatto. In questo senso, è ‘successiva’ anche una preesistente norma generale, divenuta applicabile ad un dato tipo di fatto dopo l’abrogazione di una norma speciale derogatoria (12). L’espansione della norma generale (preesistente o meno) per effetto della eliminazione di una norma speciale è l’effetto naturale di interventi che intendano essere di semplificazione o razionalizza(9) Cfr., per una esemplare motivazione, Cass. 12 maggio 2000, in Cass. pen., 2000, 3025 s., e in Giur. it., 00, 1895, con nota di P. SPAGNOLO. Nello stesso senso, Cass. 11 aprile 2000, in Foro it., 00, II, 593, con nota di GIAMMONA, in Cass. pen., 00, con nota di BISORI; Gup Milano 19 novembre 1999, in Foro ambr., 00, 21. Cass. 13 luglio 1999, in Cass. pen., 00, 1600, con nota di CARCANO, pur ravvisando la sussistenza degli estremi dell’ingiuria, ha escluso la procedibilità per assenza di disposizioni transitorie sulla querela. (10) F. GIUNTA, in Diritto penale e processo, 1999, 1426. (11) Cass., s.u., 27 giugno 2001, in Cass. pen., 2002, 482 s. Nello stesso senso, già Cass. 10 marzo 2000, in Foro it., 00, II, 594, con nota di GIAMMONA; Cass. 14 ottobre 1999, in Foro it., 00, II, 236; Cass. 20 gennaio 2000, in Giur. it., 00, 2346. (12) PADOVANI, op. cit., 1372.


— 1275 — zione legislativa, e non di riduzione sostanziale dell’area dell’illecito penale. È per questo che l’abrogazione del delitto d’onore non è stata una abolitio criminis, divenendo applicabile la figura generale dell’omicidio doloso; e basta questo esempio per evidenziare l’assurdità del criterio ‘cronologico’ enunciato dalle Sezioni Unite a proposito dell’abrogazione dell’oltraggio. Sono peraltro evidenti le esigenze di equità del caso concreto, che hanno ispirato l’abbandono del paradigma classico nel caso specifico dell’oltraggio, cioè della abrogazione di una norma speciale più severa: si è voluto evitare che, a seguito di condanna definitive per oltraggio, potessero essere messe in esecuzione pene detentive non più previste dall’ordinamento (13). In un bilancio critico della vicenda dell’oltraggio, occorre dunque distinguere. Manifestamente irragionevole è il criterio addotto, là dove nega che vi sia successione di leggi penali nel caso di abolizione di una fattispecie speciale. Dietro la soluzione del caso di specie vi sono però ragioni molto forti, che rimettono in discussione la ragionevolezza (e quindi la coerenza con il principio d’uguaglianza) del limite del giudicato a fronte di qualsiasi modifica legislativa più favorevole. Su ciò torneremo più avanti (14). 3. B) La sostituzione di una fattispecie generale con una fattispecie speciale. — Il più importante fronte di crisi riguarda i casi di sostituzione di una precedente fattispecie con altra o altre fattispecie speciali, di ambito più ristretto. Nell’evoluzione degli ordinamenti penali, appunto situazioni di questo tipo caratterizzano le leggi di riforma volte a ridurre l’area d’intervento penale, secondo disegni che contemperino continuità ed innovazione. Il paradigma classico dei rapporti strutturali fra fattispecie offre soluzioni teoricamente chiare e lineari del problema di diritto intertemporale, in termini di abolitio criminis parziale. Ma appunto le ipotesi di abolitio criminis parziale sono quelle che, nella prassi, sono apparse più problematiche, e per così dire più difficili a maneggiare. Rispetto al paradigma classico, la giurisprudenza italiana presenta (13) Ciò è stato messo in rilievo dai commentatori: cfr. per tutti Carcano, nota a Cass. 13 luglio 1999, in Cass. pen., 2000, 1600 s. Per sostenere la soluzione ritenuta più equa, sono stati, da un lato, rivisitati i principi generali, nei modi inaccettabili che abbiamo visto, e dall’altro si è cercato un fondamento ‘mirato’ sul caso di specie, vale a dire in indicazioni tratte dalla legge che ha abrogato l’oltraggio: come segno di una volontà di non più punire fatti pregressi di oltraggio, è stata valutata la mancata previsione di termini per la presentazione di querela. Su questa linea esegetica si è mossa anche la Corte Costituzionale: Ord. n. 273 del 2002, in Diritto e giustizia, 2002, n. 28, 20 s. (14) Infra, II, 1.


— 1276 — oscillazioni che, in passato, hanno ampliato l’area d’applicazione del meno favorevole 3o comma, e da ultimo vanno in direzione di un forte allargamento dell’area di applicazione del ben più favorevole 2o comma. Nella giurisprudenza meno recente troviamo l’affermazione che si applica il 3o comma, con conseguente intangibilità del giudicato, quando la nuova legge comporti una disciplina diversa, vuoi modificando la fattispecie in qualche suo elemento, vuoi a maggior ragione in caso di modifiche che, pur incidendo sulla punibilità, siano diverse dalla totale abolizione di una figura di reato. Le applicazioni riguardano ipotesi come l’introduzione della perseguibilità a querela (15) ma anche altre, come l’introduzione di cause di non punibilità, che il paradigma classico definirebbe di abolitio criminis parziale (16). È stata addotta, in proposito, la difficoltà pratica di eseguire, a distanza di tempo, accertamenti su fatti che solo in forza della nuova legge hanno acquistato rilevanza giuridica (17). Recenti tendenze sia dottrinali che giurisprudenziali spingono invece nella direzione opposta: ipotesi di abrogazione parziale (secondo il paradigma classico) vengono considerate, rispetto ai fatti pregressi, come abolitio criminis totale. 3.1. La teoria radicale: il passaggio dalla fattispecie generale alla speciale come abolitio criminis rispetto al passato. — La teoria più radicale (18) arriva a sostenere che, quando la legge successiva sia speciale rispetto alla precedente, soltanto la tesi della abrogazione rispetterebbe il principio d’irretroattività della legge penale. Le cadenze essenziali del discorso sono le seguenti. La premessa teorica è la tesi della « inconfigurabilità giuridica della sottofattispecie sul piano della tipicità penale » (19). La fattispecie (15) Cass. 22 giugno 1964, in Giust. pen., 65, Il, 205, e diverse altre sentenze in materia di lesioni volontarie, che hanno ritenuto ininfluente sui giudicati già formatisi l’introduzione della perseguibilità a querela; conf. in dottrina GRANATA, in Riv. pen., 64, II, 436 s. (16) All’entrata in vigore della legge 22 dicembre 1975 n. 685, in materia di stupefacenti, è sorto il problema se fosse applicabile retroattivamente la causa di non punibilità introdotta dall’art. 80 (detenzione di modiche quantità di stupefacenti per uso personale). Cass. 6 dicembre 1976, in Cass. pen. Mass., 78, 44, ha ritenuto riconducibile al 2o co. dell’art. 2 qualsiasi caso in cui tramite una diversa e più particolareggiata descrizione dei fatti di reato, ovvero tramite la previsione di una causa di non punibilità, venga esclusa l’applicabilità della norma incriminatrice a taluna delle ipotesi che precedentemente vi rientravano. L’applicabilità del 3o co. è stata invece affermata da Cass. 10 ottobre 1979 (Cass. pen. Mass. 81, 1996, nota SALAZAR), sull’assunto che il 2o co. è limitato ai casi di abrogazione del titolo di reato, e che ad ogni altra modifica normativa è applicabile il 3o co., a maggior ragione quando si tratti dell’introduzione di cause di non punibilità, che non ineriscono alla struttura del reato. (17) GRANATA, op. cit. (18) M. MUSCO, La riformulazione dei reati. Profili di diritto intertemporale, 2000. (19) M. MUSCO, La riformulazione, cit., p. 93 s.


— 1277 — astratta « è la forma che consente di determinare la rilevanza giuridica dei fatti della realtà che si verificano nel tempo e nello spazio ». Risolvendosi la fattispecie « in un insieme di elementi concettuali normativamente formalizzati », tale tipizzazione normativa fonda « una corrispondenza biunivoca tra rilevanza giuridica delle condotte umane ed elementi formalmente contenuti nel fatto-tipo ». Ulteriori profili o elementi impliciti, pur afferrabili nella dimensione fattuale, « in quanto non formalizzati (non tipizzati), non sono in grado di conferire rilevanza giuridica agli aspetti della vita umana ad essi corrispondenti ». Muovendo da questa premessa teorica rigorosamente formale, le implicazioni nel caso di succesione di leggi sono tratte con rigorosa consequenzialità. Sostituendo la fattispecie generale con una speciale, il legislatore ha valutato che la forma di offesa, tipizzata dalla norma generale, non è più sufficiente a costituire un disvalore penale; « la persistenza dell’illecito può essere fondata solo valorizzando retroattivamente » gli elementi specializzanti introdotti (tipizzati) dalla legge successiva. Da ciò si desume che anche le teorie che danno rilievo al raffronto strutturale fra fattispecie (rapporto di specialità), ravvisando la successione di leggi nel passaggio da una fattispecie generale ad una speciale, pur operando sul piano delle fattispecie astratte « eludono il divieto di retroattività »: non in via immediata e totale, sì invece « in via mediata, conferendo retroattivamente consistenza giuridica ad un elemento della fattispecie astratta successiva (quello specializzante) mediante la surrettizia deduzione dell’elemento medesimo dal fatto-tipo della fattispecie generale (originaria) » (20). Quelle teorie, inoltre, giungerebbero al « paradosso di affermare che, in relazione a due soggetti che hanno violato la medesima fattispecie (pre-riformulazione), possa verificarsi, a seguito della riformulazione, una abolitio criminis per l’uno e una successione modificativa per l’altro » (21). In positivo, il paradigma in esame giunge a conclusioni che allargano al massimo l’area di applicazione del 2o comma dell’art. 2: in qualsiasi caso di subentro di una norma speciale ad una norma generale abrogata, per la valutazione dei fatti pregressi vi sarebbe una abolitio criminis totale. Dei profili formali, che questa teoria valorizza, la tradizionale interpretazione del principio di irretroattività è ben consapevole. E ben consapevole di un esito a prima vista paradossale, che però viene ravvisato proprio nella tesi della abolitio criminis totale, che cioè la vecchia fattispecie non sia più applicabile, perché abrogata, e la nuova non ancora lo sia, là dove si tratti di giudicare fatti anteriori alla sua entrata in vigore (22). (20) M. MUSCO, La riformulazione, cit., p. 102 s. (21) M. MUSCO, in Cass. pen. 2001, 471. (22) K. TIEDEMANN, Zeitliche Grenzen des Strafrechts, in Fest. Peters, 1974, p. 202.


— 1278 — Il paradosso sostanziale starebbe in questo: poiché il fatto tipizzato dalla norma speciale è astrattamente sussumibile anche in quella generale, costituisce cioè reato per entrambe le disposizioni succedutesi, rispetto all’insieme dei fatti ricompresi nella fattispecie generale l’abrogazione sarebbe parziale per il futuro, ma totale per i fatti pregressi. Chi commetta oggi un fatto costituente reato per la legge speciale in vigore, è punito ai sensi di questa. Chi avesse commesso il medesimo fatto nella vigenza della abrogata norma generale, nella vigenza di questa sarebbe stato punito; ma non sarebbe punibile oggi per il fatto pregresso, per asserita abolitio criminis, benchè il medesimo fatto, se commesso oggi, sarebbe punito ai sensi della legge in vigore. In breve: da premesse puramente formali, si arriva a ritenere imposto dal principio di irretroattività della legge incriminatrice un effetto pratico di discontinuità nella applicazione della legge penale, relativamente a tipi di fatto il cui disvalore astratto è affermato sia dalla vecchia che dalla nuova norma. Una simile conclusione, che segnerebbe una rottura con la tradizione dottrinale e giurisprudenziale, è stata valutata come Rechtsgeltungslucke (23) (lacuna nella vigenza della legge): solo apparente da chi la ritiene superabile, o altrimenti equivalente ad una amnistia occulta, come si esprime un Autore che a certe condizioni ritiene inevitabile tale conclusione (24). Davvero desumibile, dal principio di legalità/irretroattività, un esito di discontinuità della legalità, che si risolve in occulta clemenza? La paradossalità delle conclusioni induce a riflettere sulle premesse: un apparato concettuale formale che produce paradossi non è per ciò solo da sospettare inadeguato o non pertinente? Il paradosso deriva una concezione formalistica (e restrittiva) del giuridicamente rilevante, che esclude tutto ciò che non emerge come elemento formale di fattispecie, e nega perciò la possibilità di prendere in considerazione elementi non direttamente tipizzati, ma (nel linguaggio della teoria qui criticata) ‘impliciti’, caratterizzanti eventuali sottofattispecie o sottoinsiemi di fatti ricompresi nella fattispecie generale. Certo, sul piano formale si deve senz’altro convenire che, in qualsiasi ipotesi di successione di una norma speciale a una generale, la fattispecie successiva, in quanto speciale, contiene elementi di tipizzazione formalmente nuovi. Dare rilievo ai nuovi elementi di tipizzazione, nella valutazione di fatti pregressi, può ben dirsi ‘applicazione retroattiva’ della nuova (23) TIEDEMANN, cit., p. 203. (24) M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali dopo il d.lg. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen. 2002, p. 1281; G. LOZZI, Successione di leggi penali e riforma dei reati societari, in questa Rivista, 2002, p. 974 s.


— 1279 — legge, sotto il profilo formale. Ciò però pone, e non già risolve il problema sostanziale: è o non è in gioco, nell’ipotesi considerata, la funzione di garanzia del principio di irretroattività della legge incriminatrice? Il paradigma classico non dubita che sia legittimo dare rilievo, nella valutazione dei fatti pregressi, ai nuovi elementi specializzanti, posto che essi vengono a delimitare l’area del penalmente rilevante. Il fondamento del principio di irretroattività sta « nell’impredire che sia attribuita rilevanza penale ad un fatto che, al momento della sua commissione, non era ricompreso in alcuna fattispecie penale » (25) (oppure, ma è profilo estraneo al nostro tema, che vi siano riconnesse conseguenze più severe). La ratio garantista del divieto di retroattività non è dunque d’ostacolo a ritenere la persistente rilevanza penale dei tipi di fatto (sottoinsiemi o sottofattispecie) già rientranti nella fattispecie generale abrogata, il cui disvalore astratto sia confermato dalla legge speciale successiva (26). I nuovi elementi ‘specializzanti’ sono ‘nuovi’ solo sotto l’aspetto formale, nel senso che non erano elementi tipici della fattispecie generale abrogata. Ma ciò non significa irrilevanza di quegli elementi, nemmeno entro l’orizzonte della disciplina previdente. Elementi ulteriori a quelli che fondano la tipicità possono avere rilievo ad altri fini, come presupposto di valutazioni differenziate della gravità del fatto, e di diversi tipi o misure di risposta al reato. Il riferimento a sottofattispecie differenziate, entro la cornice di una fattispecie più generale, lungi dall’essere escluso dalla strutturazione ‘per tipi legali’, ne è una normale modalità di applicazione. In qualsiasi ipotesi di successione di una fattispecie speciale ad una fattispecie più generale, e quale che sia la modalità di specificazione, sul piano formale la fattispecie speciale ha selezionato un sottoinsieme entro l’insieme dei fatti fin allora ricompresi nella fattispecie generale, cioè un ambito di persistente illiceità penale, delimitato da tutti gli elementi della vecchia fattispecie e dalla aggiunta di elementi nuovi (ogni elemento di fattispecie comporta, per definizione, una specifica delimitazione del tipo di reato). Quella che prima era una sottofattispecie ‘implicita’, accanto ad altre, acquista rilevanza esplicita come descrizione di un tipo di reato più ristretto. La rilevanza dei profili specializzanti diviene più pregnante: da essi dipende non più solo il come o quanto, ma il se della responsabilità penale; ciò però in continuità, e non in rottura, con la valutazione (di illiceità penale) della medesima sottofattispecie alla stregua della disciplina previgente. Non è affatto paradossale, ma è anzi coerente con il senso e la struttura del passaggio da una norma più generale ad una speciale, la possibi(25) T. PADOVANI, Tipicità, cit., p. 1376. (26) Pienamente da condividere, su questo punto, le osservazioni di M. ROMANO, Irretroattività della legge penale e riforme legislative: reati tributari e false comunicazioni sociali, in questo numero, p. 1248 ss.


— 1280 — lità che, per due soggetti che abbiano violato la medesima fattispecie (preriformulazione), risulti, a seguito della riformulazione, abolitio criminis per l’uno e successione modificativa per l’altro. Le due diverse conclusioni (abolitio criminis o succesione di leggi penali) riguardano tipi di fatto che, pur essendo entrambi ricompresi nella fattispecie generale, sono fra di loro diversi, diversamente valutabili già nella cornice della fattispecie generale, e diversamente valutati dalla legge speciale successiva. La funzione del passaggio alla norma speciale sta proprio nella selezione di modalità di offesa rilevanti anche per il futuro, assunte a contenuto della nuova, più ristretta fattispecie, e differenziate in tal modo dalle ipotesi la cui rilevanza penale si è voluta escludere. Non stupisce che la tesi radicale qui criticata, che afferma per i fatti pregressi l’abolitio criminis in ogni caso di passaggio da una legge generale a una più speciale, non abbia avuto seguito nella prassi, malgrado la sua linearità e coerenza formale, e la capacità di pervenire a risultati certi. La dottrina ha da tempo evidenziato le conseguenze assurde cui quella tesi condurrebbe, se applicata, come coerenza esigerebbe, in tutti i casi di modificazioni ‘specializzanti’, anche minime e marginali, della fattispecie originaria (27). La nostra critica, nel riconoscere alla tesi radicale una forte ma astratta coerenza, ne mette in discussione in radice il formalismo delle premesse teoriche e il paradossale approdo di discontinuità discriminatoria nella applicazione della legge. 3.2. La teoria della discontinuità del tipo d’illecito. — Una meno radicale ma più insidiosa messa in discussione del paradigma dei rapporti strutturali vi contrappone un approccio che si autodefinisce di tipo valutativo (28), ed assume a parola d’ordine dottrinaria la ‘continuità del tipo d’illecito’: una formula retoricamente suadente, che, come spesso accade, si è prestata ad assumere significati diversi e funzioni diverse. Come formulazione emblematica di questo approccio, viene spesso additata una sentenza del Grosser Senat del Tribunale federale tedesco: il problema della successione di leggi, e dell’individuazione di quella più favorevole, presuppone « che l’essenza del delitto descritto nella legge anteriore resti nel suo nucleo non toccata dalla modifica legislativa » (29). Il caso in discussione concerneva modifiche alla disciplina della rapina: (27) È stato fatto il seguente esempio: basterebbe introdurre una soglia di valore, anche bassa, per la punibilità del furto, per far diventare non punibile qualsiasi furto commesso in precedenza: G. JAKOBS, Strafrecht, A.T., 1983, p. 86. L’esempio è stato ripreso anche da un autore che pure sostiene una teoria diversa da quella dei rapporti strutturali: M. DONINI, op. cit., p. 1266. (28) M. DONINI, op. cit., p. 1265. (29) BGH 10 giugno 1975, in Entscheidungen des BGH in Strafsachen, 26o vol., p. 167 s.


— 1281 — abrogazione di talune figure qualificate ed introduzione di una aggravante diversa. Dalla affermazione di persistenza di un nucleo essenziale comune, identificato nella violenta sottrazione della cosa, il BGH è arrivato a ritenere la successione di leggi con riferimento a modifiche di elementi della disciplina esterni al nucleo (circostanze aggravanti), e ha concluso per l’applicabilità della previgente ipotesi di rapina aggravata, la successiva non essendo più favorevole: una affermazione, dunque, di responsabilità per rapina aggravata, invece che per rapina semplice, dopo che l’aggravante cui si commisura la pena sia stata sostituita, con legge successiva al fatto, da una aggravante diversa, i cui estremi pure ricorrano nel caso di specie. Questa soluzione, pur restritiva rispetto ad altra che la sentenza citata riferisce esser stata sostenuta in seno al BGH (30), afferma la successione di leggi in casi in cui il criterio dei rapporti strutturali la escluderebbe, per inesistenza di un rapporto di specialità o di continenza fra la vecchia e la nuova disciplina. Il criterio ‘sostanzialista’ della continuità del tipo d’illecito nasce come criterio in malam parrtem, che serve ad affermare la successione di leggi in casi in cui l’applicazione rigorosa di criteri formali escluderebbe un rapporto di successione. La dottrina prevalente ha respinto il criterio in esame, ritenendolo incerto, e tale da poter condurre ad applicazioni contrastanti con il principio di irretroattività della legge penale (31), ancorchè non prive di una qualche plausibilità sul piano delle valutazioni sostanziali. Malgrado le critiche verso l’incertezza del criterio e le sue prime applicazioni, il topos della continuità del tipo d’illecito ha avuto successo nel mondo penalistico italiano. Dapprima come formula dottrinale: leggiamo in un importante commentario che si avrebbe successione di leggi, con conseguente applicazione del 3o comma dell’art. 2, quando vi sia continuità del tipo d’illecito, cioè « il permanere della seconda legge — pur nel mutamento di talune anche rilevanti qualificazioni legali — in un’area di illiceità sostanzialmente corrispondente, per lesione del bene giuridico o violazione dell’obbligo, a quella precedente » (32). Nell’esperienza più recente, la medesima formula dottrinale ha acquistato una valenza tutt’affatto diversa da quella originaria: restrizione dell’ambito riconosciuto alla successione di leggi penali dal paradigma classico del rapporto di specialità, e allargamento, non più restrizione dell’a(30) Secondo l’indirizzo più severo, si tratterebbe semplicemente di comparare la vecchia e la nuova situazione normativa, senza riguardo al fatto che il delitto in discussione sia o non sia stato modificato nel suo nucleo. (31) Per tutti PADOVANI, op. cit., 1362. Nella dottrina tedesca, HASSEMER, in Kommentar zum Strafgesetzbuch, Reihe Alternativkommentare, 1990, p. 183. (32) M. ROMANO, Commentario sistematico, p. 58.


— 1282 — rea di ritenuta abolitio criminis. Non la continuità, ma la discontinuità diviene il profilo caratterizzante. Il topos della discontinuità del tipo d’illecito è stato utilizzato, quale fondamento di conclusioni in chiave di abolitio criminis, dalla giurisprudenza che ha finito per imporsi in relazione alla riforma penale tributaria di cui al d.lg. 74/00 (33). In relazione alla riforma del diritto penale societario di cui al d.lg. 61/02 (34) ha agguerriti sostenitori in dottrina, ed è il paradigma teorico prevalentemente seguito dalla giurisprudenza; le soluzioni sono differenziate, spesso (ma non sempre) coincidenti nei casi concreti con quelle additate dal paradigma della specialità (35). Dietro l’utilizzazione retorica delle medesime formule, è stato veicolato un capovolgimento di prospettive: dall’idea della continuità del tipo d’illecito come base per tenere ferme qualificazioni penalistiche non più in vigore, all’idea della discontinuità del tipo d’illecito come criterio di esclusione di una successione di leggi e di affermazione della abolitio criminis, relativamente a fatti pregressi che pure, se commessi in futuro, rientrerebbero senz’altro nella legge successiva, in rapporto di specialità con la precedente. La teoria della discontinuità del tipo d’illecito, nella versione in bonam partem, si colloca in una posizione intermedia fra le teorie che affermano come decisivo o, al contrario, escludono il criterio della specialità fra fattispecie. Come il paradigma classico, la teoria in esame non disconosce la possibilità di successione di una norma speciale a una generale. Essa introduce però un ulteriore criterio restrittivo di carattere sostanziale: anche quando la legge sopravvenuta sia formalmente in rapporto di specialità con la legge del tempo del commesso reato, può accadere che la stessa specialità venga « trasformata e alterata dalla diversa costruzione del reato a protezione di un diverso bene giuridico: la diversità del bene modifica la stessa struttura del reato, anche se formalmente, dalla esplicita descrizione della legge, ciò non sempre appare » (36). (33) Cass., s.u., 25 ottobre 2000, in Cass. pen., 2001, 448 s., con nota di M. MUSCO, La riformulazione dei reati tributari e gli incerti confini dell’abolitio criminis; Cass. 13 dicembre 2000, in Cass. pen., 2001, 2054 s., con nota di M. MUSCO. Cfr. anche le note di MELCHIONDA, in Foro it., 2001, II, 142s., e di MASULLO, ivi, 323 s. (34) E. MUSCO, I nuovi reati societari, Milano, 2002, 65 s.; M. DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali dopo il d.lg. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen. 2002, 1240 s. (35) Alcune sentenze, di vario segno, sono pubblicate in Le società, 2002, 1116 ss., con nota di D. PULITANÒ. Per una ulteriore rassegna cfr. P.A. BRUNO, Reati societari e nuovi orientamenti, in Dir. e giust., 2002, n. 43, p. 30 s. Cass. 21 maggio 2002, che ha avviato, in relazione all’artt. 2621, la linea che afferma la continuità, è pubblicata anche in Cass. pen. 2002, p. 3384, con nota di C. CUPELLI, Le nuove false comunicazioni sociali all’esame di diritto intertemporale; ivi ulteriori indicazioni. (36) M. DONINI, op. cit., 1271.


— 1283 — In questa prospettiva, viene dato rilievo a differenze fra diverse manifestazioni del rapporto di specialità (37). Si avrebbe successione di leggi quando la fattispecie successiva abbia specificato elementi già facenti parte della fattispecie abrogata. Per contro, la continuità fra fattispecie verrebbe meno, quando la specificazione avvenga per aggiunta di elementi in precedenza non necessari a costituire il tipo di reato: sono questi i casi in cui appare più facilmente sostenibile la tesi di un mutamento nei beni giuridici tutelati (38). Rispetto al paradigma classico della successione di leggi penali, incentrato sui rapporti strutturali fra fattispecie, il paradigma della continuità del tipo di illecito intende presentarsi come più attento a ragioni ‘sostanziali’, più orientato in senso teleologico. Il dato formale (il rapporto strutturale fra fattispecie) sarebbe solo il punto di partenza, decisivi sarebbero la continuità o discontinuità di oggetti e modalità di tutela. In questa linea sembra muoversi, sul piano dei principi, chi afferma che il rigore formale del rapporto di specialità manterrebbe meno di quanto promette: di per sé, la specialità sarebbe « se non proprio muta, quanto meno fredda, necessitando, di volta in volta, di apporti valutativi ». Da ciò (se ho ben compreso) il recupero di principio dell’idea della discontinuità del tipo di illecito, in una versione particolarmente attenta alla « portata euristica del fatto concreto » ed anche ai profili formali: per affermare o escludere la successione di leggi, « si dovrà guardare alla struttura delle norme, ma nella prospettiva dei valori che esse intendevano e intendono preservare » (39). A differenza dei paradigmi formali, il paradigma ‘sostanzialistico’ della discontinuità del tipo d’illecito produce esiti incerti. La censura di ambiguità, mossa all’originaria utilizzazione in malam partem, può essere mossa pari pari verso le versioni di segno opposto. L’analisi delle prime applicazioni in tema di diritto penale societario ha condotto alla realistica conclusione che il criterio della continuità del tipo d’illecito « non conduce a risultati appaganti in termini di sufficiente certezza » (40). Il problema è più di fondo: davvero ha senso, e assicura soluzioni teleologicamente più adeguate, contrapporre il riferimento al bene giuridico (o altri criteri sostnziali) al criterio ‘freddo’ dei rapporti formali fra le fattispecie? La mia riposta, che qui anticipo, è che il criterio strutturale dei rap(37) E. MUSCO, I nuovi reati societari, Milano, 2002, 68. (38) Su queste premesse è stata affermata la tesi della abolitio criminis totale nel passaggio dal vecchio al nuovo art. 223 l. fall: Cass. 8 ottobre 2002, in Guida al diritto, 2002, n. 43, p. 69, con nota di R. BRICHETTI; in Dir. e giust., 2002, n. 41, p. 8 s., con nota di A. TRAVERSI. (39) M. ROMANO, op. cit. a nota 26. (40) C. CUPELLI, op. cit., p. 3402.


— 1284 — porti fra fattispecie è il più adeguato, anzi l’unico coerente con l’insieme dei significati del principio di legalità, oltre che in grado di assicurare risultati certi. 4. Il fondamento teleologico del paradigma dei rapporti strutturali fra fattispecie. 4.1. La fattispecie speciale come selezione di modalità di offesa di persistente rilevanza. — Là dove il rapporto fra la vecchia e la nuova fattispecie sia formalmente di specialità, persiste la rilevanza di tutti i vecchi elementi di fattispecie (sia pure non più esaustivi nel tracciare i confini della nuova e più ristretta fattispecie); il tipo di reato (più ristretto) configurato dalla norma speciale resta caratterizzato (anche, non soltanto) da tutti gli elementi del tipo di reato (più ampio) previsto dalla norma previgente. Rispetto alla fattispecie generale, la fattispecie speciale presenta, per definizione, elementi sia di continuità che di novità. La discontinuità, ovviamente, è piena per l’area che la legge sopravvenuta ha tagliato fuori dell’orizzonte penalistico. Ma ciò sta al margine del nostro problema, che non tocca l’area in cui l’abolitio criminis è sicura, bensì quella che, per il futuro, resta coperta dalla nuova fattispecie speciale. Nelle applicazioni del paradigma della discontinuità del tipo d’illecito, mi pare che questa distinzione sia trascurata. Là dove viene argomentata la tesi della abolitio criminis totale, ciò poggia essenzialmente sulla rilevazione delle discontinuità che danno corpo alla (incontroversa) abrogazione parziale. Il problema della successione di leggi concerne invece la nuova fattispecie in ciò che essa comprende, non in ciò che ha escluso. L’approccio che si autodefinisce ‘valutativo’ presuppone la possibilità di scindere il profilo formale della specialità, ritenuto necessario ma non sufficiente per poter affermare la successione di leggi, da profili sostanziali in ultima analisi decisivi nell’affermare o escludere la continuità del tipo d’illecito: la continuità nella selezione delle modalità di condotta, o nell’individuazione del bene giuridico offeso. Il profilo formale della specialità ed i profili di continuità sostanziale sono invece le due facce di una stessa medaglia, inscindibili sul piano logico e teleologico. Un serio approccio valutativo ai problemi di diritto intertemprale non può che convergere sul paradigma dei raporti strutturali. Sul piano formale, la sostituzione di una fattispecie generale con una speciale, escludendo sottofattispecie già ricomprese nella fattispecie generale, è sempre una restrizione di ambiti o soglie di tutela penale, mediante una selezione di modalità di condotta o di tipi di evento. Sul piano teleologico, la selezione di modalità di offesa rilevanti è proprio la funzione


— 1285 — che il passaggio alla norma speciale si prefigge e può svolgere. La nuova fattispecie si presenta come il nucleo essenziale, anche per il nuovo legislatore, della fattispecie previgente. Capovolgendo un modo frequente di argomentare, merita notare che il profilo di continuità, insito nel passagio dalla fattispecie generale alla fattispecie speciale, è vieppiù sottolineato dalle differenze fra la vecchia e la nuova legge, cioè dalle discontinuità che danno corpo alla abrogazione parziale. Quanto più drastica la restrizione del tipo d’illecito, tanto più il persistente giudizio di disvalore sui tipi di fatto che restano incriminati dalla norma speciale viene a stagliarsi, non necessariamente più intenso (41) ma comunque più netto, nel contrasto con il venir meno della qualificazione penalistica dei tipi di fatto non più incriminati. Come esempio, propongo l’ipotesi più controversa nella applicazione ‘intertemporale’ del nuovo diritto penale societario, quella della modifica dell’art. 223 l. fall. Il cuore della riforma è la previsione del nesso di causalità fra reato societario e dissesto (42). È un mutamento strutturale assai rilevante. La vecchia fattispecie era costruita in modo fortemente anomalo, e di dubbia legittimità costituzionale (43), facendo della dichiarazione d’insolvenza una condizione di maggiore punibilità del reato societario, su base meramente obiettiva e addirittura prescindendo dal nesso causale con il fatto. La nuova figura di bancarotta mediante reati societari è invece costruita come un normale delitto con evento di danno, identificato nel dissesto; un evento che, collegato alla condotta (al reato societario) sul piano causale, entra a fare parte dell’oggetto del dolo. La riforma ha qui separato il grano dal loglio, mediante la tecnica che consente di differenziare entro i contenuti di fattispecie troppo ampie: ha costruito una nuova fattispecie in rapporto formale di specialità con la precedente, che getta via le erbacce e conserva il grano. Fuor di metafora: entro l’area coperta dal vecchio art. 223 l. fall., la fattispecie novellata ha, da un lato, espunto ipotesi di dubbia legittimità costituzionale, o comunque meno significative, e dall’altro ha ritagliato, facendone l’oggetto esclusivo del nuovo precetto, i casi che realmente qualificano i reati societari come modalità significative di offesa (anche) degli interessi dei creditori, tutelati in sede di procedure concorsuali. La qualificazione come bancarotta fraudolenta è ritenuta adeguata, oggi come ieri, in relazione a fatti di per sè costitutivi di reato societario, che abbiano concorso a causare il dissesto. Ancorchè non esplicitato for(41) La legge speciale succesiva può essere talora più severa, talaltra meno severa nel trattamento punitivo. (42) Formalmente nuova è anche la menzione del dissesto, che peraltro è presupposto della dichiarazione d’insolvenza, su cui si incentrava la vecchia fattispecie. (43) Cfr. PULITANÒ, nota a Corte Cost. 364/88, in questa Rivista, 1988.


— 1286 — malmente, era questo il nucleo essenziale della tutela apprestata dal vecchio art. 223. In esso rientrano, ragionevolmente, i casi più gravi dei quali la giurisprudenza ha avuto occasione di occuparsi: dissesti talora immani, la cui crescita è stata resa possibile dal mascheramento di bilanci falsi. Relativamente a tali fatti, la legge speciale conserva una valutazione di maggior gravità, di meritevolezza e bisogno di risposta penale anche in futuro. Sostenere che il nucleo di casi più gravi, che il legislatore ha enucleato come contenuto del nuovo precetto, per il passato ricada nell’abrogazione (che il legislatore ha espressamente sancito per tutti gli altri casi), significa letteralmente capovolgere il significato della scelta legislativa, nella parte in cui esprime una continuità di valutazione penalistica dei fatti che costituiscono reato anche per la nuova fattispecie speciale. La rilevante discontinuità rispetto al passato, nella valutazione dei fatti non più ricompresi nella nuova fattispecie speciale, fa vieppiù risaltare, per contrasto, la voluta continuità di valutazione penalistica dei tipi di fatto ritenuti più gravi. 4.2. La fattispecie speciale come continuità nella direzione della tutela. — Resta da esaminare l’argomento della (eventuale) diversità del bene giuridico tutelato. È questo il criterio proposto dalla teoria della discontinuità del tipo d’illecito nella sua formulazione più avveduta. Le applicazioni sono incerte; le argomentazioni, in genere alquanto complicate, riflettono le diversità di approccio e di soluzioni, da cui la problematica dei beni giuridici è attraversata. A fronte della persistente (anche se non più esclusiva) rilevanza attribuita dalla norma speciale sopravvenuta agli elementi della fattispecie generale previgente, l’ipotesi di un mutamento nei beni giuridici tutelati appare prima facie poco plausibile, se si guarda alla rete degli interessi in gioco, e non alla costruzione dogmatica di beni giuridici come entità rigidamente separate. Parlando di bene giuridico, lo intendo come oggetto (o problema) di tutela ‘afferrabile’ indipendentemente dalla eventuale tutela penale. È, questo, l’approccio coerente con la teoria che richiede, per l’identificazione e legittimazione degli oggetti di tutela penale, un aggancio a punti di vista e criteri esterni, anche sovraordinati alla legge ordinaria (teoria dei beni giuridici di rilevanza costituzionale, nelle sua varie forme). La legge penale non crea e non può ‘creare’ gli interessi cui appresta tutela; lo spazio di discrezionalità politica del legislatore attiene alla scelta degli ambiti, delle forme, delle soglie dell’eventuale tutela. La direzione della tutela (i beni giuridici in gioco) è infine definita dalla rete di interessi finali e strumentali, alla cui tutela le norme penali sono obiettivamente rivolte. Nel passaggio dalla norma generale alla norma speciale, resta ferma per definizione la rilevanza tipizzante degli elementi (di tutti gli elementi)


— 1287 — della fattispecie generale. Ciò è, di per sé, indice e fondamento di continuità nella direzione della tutela: le ragioni di tutela che stavano alla base della fattispecie generale sono state, almeno in parte, mantenute a base della nuova disciplina. La selezione delle modalità di offesa, introdotta dagli elementi specializzanti, significa una tutela meno ampia e/o meno anticipata. Può significare abbandono (totale o parziale) della tutela di interesi strumentali, o di una tutela attestata su soglie di pericolo non (o meno) ravvicinato; può significare spostamento sulla soglia del danno, o su interessi ‘finali’ prima tutelati in via anticipata o mediata. Ma, non uscendo dall’ambito segnato dalla fattispecie generale, la nuova fattispecie ha comunque a che fare con i medesimi problemi di tutela: se uno slittamento è concepibile, esso attiene al passaggio da una tutela allargata, centrata su interessi strumentali, ad una tutela direttamente mirata su interessi finali, comunque tuttora raccordata a tipi di offesa che gli elementi della vecchia fattispecie generale concorrono a caratterizzare. L’intreccio fra la continuità dei problemi di tutela e lo slittamento dei piani di tutela, immanente al passaggio a fattispecie speciali, è bene esemplificato dal nuovo diritto penale societario. In proposito sono emerse nei primi commenti talune contrapposizioni, dovute (forse) non a divergenze di sostanza ma a diversità dei punti d’approccio o semplicemente nell’uso del linguaggio. Sono senz’altro d’accordo con chi, commentando il nuovo art. 2622 c. civ., vi ravvisa una lesività di tipo privatistico, propria dei delitti contro il patrimonio (44). Sono anche d’accordo che detta norma non tutela la trasparenza dell’informazione societaria come bene in sé; non sottoscriveri, invece, l’affermazione che nell’economia dell’art. 2622 la trasparenza è « ospite accidentale ». Il riferimento alla informazione societaria, infatti, concorre comunque a configurare (non ‘accidentalmente’, ma in ogni caso) il tipo di reato: l’offesa patrimoniale, che l’art. 2622 incrimina, passa per una ‘sensibile’ lesione della trasparenza e verità dell’informazione societaria. Rispetto alla realizzazione di quella specifica figura di reato, offesa patrimoniale e offesa alla trasparenza sono presupposti entrambi necessari, nessuno di per sé sufficiente. Nessuna difficoltà a ravvisare, nella nuova accentuazione della lesività patrimoniale, l’emersione esplicita e diretta di un bene giuridico che prima non aveva rilievo formale nella fattispecie tutta incentrata sulla trasparenza dell’informazione. Ma non per questo la dimensione patrimoniale poteva dirsi estranea alla prospettiva di tutela, la trasparenza dell’informazione venendo in rilievo quale bene strumentale a interessi (forse) (44) Cfr. ALESSANDRI, False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, ne Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, 2002, p. 186 s.


— 1288 — plurimi, fra i quali certamente gli interessi patrimoniali di soci e creditori. Il bene ‘patrimonio’, pur fuori della fattispecie previgente di false comunicazioni sociali, è uno dei problemi di tutela cui la disciplina penale delle comunicazioni sociali è sempre stata in ultima analisi obiettivamente finalizzata. Nell’inquadrare concettualmente lo slittamento di piani, dal bene strumentale al bene finale, possiamo non irragionevolmente utilizzare linguaggi differenti: da un lato, possiamo parlare di mutamento del bene giuridico tutelato in via immediata, sottolineando il profilo di novità; dall’altro, possiamo parlare di persistenza di un piano di tutela che collega la tutela del bene ‘finale’ ad una modalità aggressiva caratterizzata (anche) da un qualche impatto sull’interesse strumentale su cui si appuntava la fattispecie previgente. È proprio per le diverse possibilità di lettura, da angoli visuali diversi, che il paradigma del riferimento al bene giuridico si presta a conclusioni di segno opposto, bene esemplificate dalla disputa sul penale societario. Da entrambi i fronti si adducono elementi in sé accettabili, concorrenti alla ricostruzione del nuovo sistema. In relazione al problema di diritto intertemporale, la domanda cruciale è se lo slittamento di piani, da un bene strumentale a un bene finale, abbia (possa avere) un significato ‘di rottura’ con il passato, tale da svuotare di significato — di fronte al principio di legalità - gli elementi di continuità, cioè la persistenza del medesimo piano di tutela, ancorata al rapporto formale di specialità fra la vecchia e la nuova norma. Ho l’impressione che questa domanda, relativa al significato e al fondamento del paradigma dell’identità del bene giuridico, non sia stata nemmeno tematizzata nelle discussioni che di quel paradigma fanno applicazione. Contrariamente a quanto il paradigma in esame assume tacitamente, lo slittamento della fattispecie speciale verso beni giuridici finali, lungi dallo spezzare la continuità di tutela, incorpora proprio ciò che il nuovo legislatore ha considerato come il nucleo da preservare, nel momento in cui, sotto altri aspetti, ha ridimensionato il precedente disegno di tutela. Valgono qui, pari pari, le considerazioni poc’anzi svolte a proposito della selezione delle modalità di offesa. Col passaggio alla fattispecie speciale, modalità di offesa prima agganciate al bene strumentale vengono agganciate direttamente al bene finale: la loro rilevanza penale non è più incondizionata, e tuttavia persiste, entro la più complessa (e più ristretta) fattispecie speciale, col medesimo significato che aveva nella fattispecie generale. Il bene ‘finale’ viene tutelato da modalità di offesa già considerate nella legge previgente, per la loro offensività verso il bene strumentale, che significa ‘pericolosità’ rispetto al bene finale. Le soglie di tutela sono state spostate, il reticolo degli interessi in gioco è il medesimo.


— 1289 — È dunque irragionevole, sul piano logico e teleologico, contrapporre il riferimento al bene giuridico al criterio dei rapporti formali fra le fattispecie, nei termini ed ai fini della teoria della discontinuità del tipo d’illecito. Il rapporto di specialità fra le fattispecie astratte è ancoraggio sufficiente per affermare la continuità dei problemi di tutela (i beni giuridici in gioco) e della direzione della tutela, pur nello slittamento verso soglie di tutela più ravvicinate. 4.3. Conclusioni: la normale corrispondenza fra rapporto di specialità e continuità del piano di tutela. — Tiriamo le somme del discorso fin qui svolto. Il paradigma classico della successione di leggi, che dà rilievo ai rapporti strutturali fra fattispecie, si conferma come il più ragionevole (mi sento di dire: l’unico ragionevole) anche sul piano teleologico. Esso conduce a conclusioni che hanno un alto grado di certezza (mentre i paradigmi ‘sostanzialistici’ si sono dimostrati insanabilmente incerti), e, soprattutto, sono coerenti col principio di legalità, nell’insieme dei suoi significati. Il subentro di una norma speciale ad una più generale è sempre, strutturalmente, abolitio criminis parziale, limitata ai tipi di fatto non più ricompresi nella norma speciale successiva. La selezione è operata distinguendo, con l’introduzione di elementi specializzanti nel tronco della fattispecie generale, un’area di continuità e un’area di discontinuità della qualificazione penalistica di tipi di fatto che tutti presentano gli elementi della fattispecie generale. Resta in tal modo confermato il giudizio di disvalore astratto, espresso dalla legge penale, per l’insieme dei fatti rientranti sia nella fattispecie generale che nella legge speciale. Per fatti futuri di quel tipo, l’abolitio criminis è per definizione esclusa dalla applicabilità della nuova norma speciale. Anzi, i nuovi elementi di tipizzazione ritagliano, entro la previgente fattispecie generale, le situazioni che la nuova legge valuta come le più significative. Il paradigma classico dei rapporti strutturali non fa che mantenere la medesima valutazione (di persistente illiceità penale) anche per i fatti commessi durante la vigenza della legge generale abrogata. La continuità della applicazione della legge ai medesimi tipi di fatto è in tal modo coerentemente assicurata. Ai fatti anteriori alla riforma, che restino punibili anche per la legge succesiva, si applicherà la legge più favorevole avendo riguardo alle conseguenze. Secondo il paradigma ‘sostanzialista’ divenuto di moda, la continuità delle valutazioni legali, assicurata dal paradigma formale, potrebbe invece essere spezzata, paradossalmente, in nome della continuità del tipo d’illecito: a certe condizioni (non ben definite) l’abolitio criminis legata al passaggio a una fattispecie speciale, che per il futuro è parziale, per il passato sarebbe totale.


— 1290 — Le teorie della discontinuità del tipo d’illecito, nella parte in cui ammettono ipotesi di discontinuità pur nel passaggio da fattispecie generale a speciale, aprono così la strada a discontinuità nella valutazione dei medesimi tipi di fatto. Esiti di amnistia occulta (45), cioè di rottura nell’uguale applicazione della legge, li definisce proprio lo studio più elaborato a sostegno di quel paradigma. Sul piano valutativo, sul quale l’approccio ‘sostanzialista’ cerca giustificazione, siffatta rottura sistematica è tanto vistosa, quanto ingiustificata. Non è imposta dal profilo garantista del principio di legalità/irretroattività, posto che il fatto costituiva reato ai sensi della legge del tempo, in ragione di elementi che mantengono rilievo anche per la legge speciale successiva. Valgono qui, pari pari, le ragioni che portano a rifiutare, come assolutamente incongrua sul piano teleologico, la tesi radicale che ravvisa abolitio criminis (rispetto al passato) in qualsiasi ipotesi di passaggio da una legge generale ad una speciale (46). Per contro, la coerenza fra la valutazione dei fatti futuri e la valutazione dei fatti pregressi, nei termini in cui è assicurata dal paradigma dei rapporti strutturali, è imposta proprio dal principio di legalità nella sua dimensione precettiva, di affermazione di una legalità ‘uguale per tutti’. La disciplina apprestata dal 2o e 3o comma dell’art. 2 cod. pen. può e deve essere interpretata, fin dove possibile, alla luce dei principi costituzionali nei quali le regole sulla successione di leggi hanno fondamento. Non c’è spazio legittimo per disposizioni o interpretazioni che introducano, come possibile e plausibile corollario di riforme penali, discontinuità e fratture nelle valutazioni di illiceità dei fatti di persistente rilevanza penale. 5. Controinteressi e difficoltà di gestione processuale della abolitio criminis parziale. — L’affermazione pratica del paradigma della discontinuità del tipo d’illecito, in una versione inaccettabile sia concettualmente che teleologicamente, sollecita una riflessione sullo spirito del tempo, e più in genere sulle ragioni delle quali la crisi dei paradigmi è specchio ed effetto. Le ragioni, mi sembra, sono molteplici. Nuove leggi che restringono gli ambiti del penalmente rilevante, aprendo spazi di impunità, offrono occasione alla ricerca di spazi quanto più possibile ampi di impunità ‘retroattiva’. Quando sono in gioco interessi forti, come nella vicenda della riforma del penale societario, la pressione è fortissima. La classe forense, per dovere professionale e per abito (45) Così DONINI, op. cit., 1281, definisce gli esiti della sua tesi in relazione al nuovo diritto penale societario. (46) Supra, n. 3.1.


— 1291 — culturale, se na fa naturale portatrice, e trova in formule ‘dogmatiche’ retoricamente appaganti, di colore garantista, uno strumento che ben si presta a dare veste e supporto a corposi interessi pratici. Interessi che a ciò si oppongano pesano meno nel parallelogramma delle forze. D’altra parte, anche nel mondo giudiziario può fare presa la fascinazione del gioco dogmatico, e può prender corpo la tentazione di risolvere in chiave di generalizzata abolitio criminis lo smaltimento di grossi carichi di lavoro, anche per la difficoltà di gestire in sede processuale (soprattutto, ma non solo nel processo di esecuzione ex art. 673 c.p.p.) il trattamento differenziato di fatti precedentemente ricompresi in una fattispecie generale, e successivamente smistati in parte verso una abolitio criminis parziale, in parte verso una nuova norma speciale. Oggetto del giudizio, e quindi dell’accertamento processuale, divengono anche aspetti che acquistano rilevanza alla luce della disciplina sopravvenuta. Le questioni di diritto sostanziale (anche di diritto intertemporale) si intrecciano con profili processuali, e assumono valenze diverse, secondo che il problema sorga nel giudizio di merito (come problema di eventuale proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p.) ovvero in fase di esecuzione (come problema di eventuale revoca ex art. 673 c.p.p.). Nei giudizi di cognizione si pongono problemi processuali relativi alla contestazione d’accusa, ogni volta che questa, già modellata sulle vecchie norme, prescinda dalla considerazione di elementi (quelli ‘specializzanti’ introdotti dalle norme successive) che in passato non avevano rilevanza formale. Qualora invece il problema sia sollevato con incidente d’esecuzione, occorrerebbe accertare elementi resi rilevanti dalla lex superveniens, ma il vincolo agli accertamenti del giudizio di merito può di fatto precludere la possibilità di applicare in concreto i principi proclamati. Gli elementi ‘specializzanti’ della nuova fattispecie diventano decisivi nell’indirizzare verso l’una o l’altra strada: per i fatti che non presentano quegli elementi, v’è abolitio criminis, che travolge anche il giudicato. Ma se quegli elementi, che non avevano rilievo formale per la legge abrogata, non sono stati accertati nel giudizio di merito, è possibile, e come, accertarli in una procedura esecutiva vincolata al rispetto del giudicato? La giurisprudenza ha indicato, in proposito, alcuni criteri: se non è sufficiente il contenuto della sentenza, occorrerà riesaminare gli atti del processo, con l’esclusivo limite della immodificabilità del giudicato (47). Per un accertamento autonomo di fatti nuovi, non sembra esservi uno spazio normativo sicuro. La prima ondata di decisioni giudiziarie sulla riforma penale societaria bene esemplifica le difficoltà di gestione processuale di problemi intro(47) Cass. 22 marzo 1994, in Cass. pen. 1995, 2205; Cass. 29 maggio 1996, ivi, 1997, 1421.


— 1292 — dotti ‘in corso d’opera’ da modifiche del diritto penale sostanziale. Anche decisioni che affermano la continuità del tipo d’illecito sono arrivate alle medesime conclusioni pratiche cui sarebbe pervenuta la teoria della discontinuità, per ragioni processuali e/o per l’incidenza fulminante della abbreviazione dei tempi di prescrizione (48). È comprensibile, allora, il successo pratico di teorie che, portando tutto nel campo della abrogazione, consentono di evitare ogni problema di riesame degli atti e di eventuale accertamento di elementi nuovi (tanto più quando l’incombere della prescrizione fa sentire inutile un tale lavoro). Se si vuole rendere davvero operanti i principi sulla successione di leggi, nei casi di abrogazione parziale, occorre porre mano alla struttura del processo. Istituti di diritto sostanziale che implicano soluzioni ‘oltre il giudicato’ hanno bisogno di un processo che consenta, se necessario, eventuali accertamenti nuovi oltre il giudicato, su fatti che solo per la lex superveniens abbiano acquistato rilevanza. Non è questa la sede per discutere se e quanto ciò sia possibile nel sistema processuale vigente, per via di interpretazione adeguatrice; certo è che qui il problema, di diritto sostanziale, della succcessione di leggi, pone al diritto processuale un’esigenza che non può essere elusa.

II.

La continuità della legalità di fronte a discontinuità legislative.

1. Il limite del giudicato. Problemi di legittimità costituzionale ed esigenze di riforma dell’art. 2 c.p. — La crisi dei paradigmi della succesione di leggi, nella teoria e nella prassi, sollecita una rinnovata riflessione sulla ‘tenuta’ del principio di legalità, e sugli strumenti normativi che dovrebbero assicurarne la attuazione a fronte di modifiche nel tessuto legislativo. Esperienze come quella dell’abrogazione dell’oltraggio, in cui è stata affermata una abolitio criminis manifestamente improponibile, bene esprimono il disagio della magistratura di fronte alla prospettiva di dover continuare ad applicare, rispettando il limite del giudicato, una disciplina non solo ‘storicamente’ superata, ma, soprattutto, eccessivamente severa. Un analogo disagio si profila nella valutazione di fatti già ricompresi nel ‘vecchio’ art. 223 l. fall., che, tagliati fuori dalla fattispecie novellata, non costituiscono più bancarotta, ma integrano fattispecie di reato societario. Tale situazione presenta aspetti ancipiti, fra l’abolitio criminis (relativamente alla qualificazione di bancarotta) e la successione di leggi penali (relativamente al reato societario). Poiché, sul piano formale, non v’è una (48)

Trib. Ravenna, decreto 20 maggio 2002, Sama.


— 1293 — completa abolitio criminis, l’applicazione della legge più favorevole parrebbe incontrare il limite del giudicato: condanne definitive per bancarotta fraudolenta, per fatti non più riconducibili a tale figura di delitto, resterebbero ferme in ragione della persistente configurabilità di un (meno grave) reato societario. È una conseguenza contrastante con l’equità, per il forte scarto fra le pene corrispondenti alla vecchia e alla nuova qualificazione penale. D’altra parte, la pura e semplice caducazione della condanna farebbe venire meno ogni risposta al reato societario, la cui rilevanza penale non sia venuta meno: una conseguenza che confligge col principio di legalità, e con il sistema dell’art. 2 del codice penale. Situazioni di questo tipo mettono in discussione l’equità e ragionevolezza, e quindi la coerenza con il principio d’uguaglianza, del limite del giudicato a fronte di qualsiasi modifica legislativa più favorevole. Com’è noto, la Corte costituzionale, con una non recente sentenza, ha respinto (49) la questione d’illegittimità costituzionale del limite del giudicato, sollevata con riferimento al principio d’uguaglianza, argomentando che « l’applicazione delle disposizioni penali più favorevoli al reo può subire limitazioni o deroghe, sancite non senza una qualche razionale giustificazione da parte del legislatore ordinario », e che « una pertinente ragione giustificativa consista appunto nell’esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, perseguita statuendo l’intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili ». Analoga questione è stata respinta, più di recente, dal Tribunale costituzionale portoghese, con significative opinioni dissenzienti (50). I due importanti progetti di riforma dell’ultimo decennio, espressione della cultura accademica, hanno proposto modifiche tendenti a evitare l’applicazione di pene inflitte con sentenza irrevocabile, non più compatibili con la legge successiva più favorevole. In questo senso l’art. 5, punto 3, dello schema Pagliaro (51) prevede, in deroga al limite del giudicato, la retroattività della disposizione che sostituisca la pena pecuniaria alla de(49) Sentenza n. 80/74, in Foro it. 80, I, 1825. Dubbi sulla leg. cost. del 3o co. sono stati ripresi da ZANNOTTI, in Foro it. 89, II, 669, ma ritenuti manifestamente infondati da Cass. 8 aprile 1994, in Cass. pen., 96, 1807. Di recente, sullo sfondo della controversa questione dell’oltraggio, una questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 3, cod. pen., e 673 c.p.p., nella parte in cui non consentono la modifica della sentenza di condanna passata in giudicato in caso di legge successiva favorevole, è stata sollevata dal Tribunale di Rovereto (ord. 20 gennaio 2000, in Riv. pen. 2000, 1115). La Corte Costituzionale non si è pronunciata sulla questione, avendo respinto la premessa interpretativa da cui muoveva il giudice a quo (ord. 273/02, cit.). (50) La sentenza è tradotta e pubblicata in Dir. pen. del XXI secolo, 2002, p. 130 s., con nota critica di DE SOUSA MENDES. (51) Cfr. lo schema di legge delega per la riforma del codice penale, elaborato dalla Commissione presieduta dal prof. A. Pagliaro, nominata dall’allora Ministro di Grazia e giustizia prof. Giuliano Vassalli: in Documenti giustizia, 1992, p. 306 s.


— 1294 — tentiva, o « quando l’esecuzione della pena detentiva sia destinata a protrarsi, in forza del giudicato, oltre il limite massimo stabilito dalla nuova legge ». Nello stesso ordine di idee il progetto Grosso (52), all’art. 3, prevede che la pena inflitta « non ancora eseguita o in corso di esecuzione non può superare il limite massimo di durata stabilito dalla legge successiva »; prevede inoltre, per il caso che la legge successiva statuisca una pena di specie diversa, la commutazione, a richiesta del condannato, della pena inflitta (53). Soluzioni di questo tipo sono, mi pare, assolutamente necessarie, ma anche sufficienti, per assicurare il rispetto del principio d’eguaglianza di fronte alla pena legale, in un sistema che pure, per esigenze pratiche difficilmente superabili, continui a fare del giudicato il limite ‘di principio’ alla applicazione della legge più favorevole. 2. Sbandamenti ‘di principio’ circa l’individuazione della legge applicabile. — La coerenza delle valutazioni legali, richiesta dal principio di legalità, esige ovviamente il rispetto delle scansioni temporali rilevanti per l’ordinamento. Centralità, dunque, del tempus commissi delicti, quale momento fondamentale per l’articolazione dei principi di diritto intertemporale. Soglie temporali vengono inoltre in rilievo in istituti particolari, quali l’amnistia e l’indulto. Anche sotto questi aspetti, l’esperienza recente vede l’emergere di punti di crisi. 2.1. L’indulto delle pene accesorie è stato applicato dalla Cassazione (in riforma della sentenza della Corte d’appello) ad un condannato ‘eccellente’ anche in relazione a fatti commessi dopo il momento di riferimento indicato nel provvedimento di clemenza, ma ritenuti ‘in continua(52) La Commissione, presieduta da C.F. Grosso, è stata istituita dal Ministro della Giustizia, Flick, con DM 1 ottobre 1998, con l’incarico di elaborare un documento d’indirizzo. Questo è stato pubblicato nell’estate 1999 (il volume Per un nuovo codice penale, Padova 2000, a cura di Grosso, contiene il documento insieme alle relazioni preparatorie delle Sottocommissioni). Successivamente la Commissione ha avuto dal Ministro Diliberto l’incarico, confermato dal Ministro Fassino, di predisporre un progetto di riforma della parte generale. Il progetto preliminare, con relazione illustrativa, è stato pubblicato nel sito Internet del Ministero della Giustizia nel settembre 2000, e, in una versione contenente alcune modifiche, nel giugno 2001. Testo e relazioni sono inoltre pubblicati, con la correzione di alcuni errori materiali, in questa Rivista, 2001, 574 s. (53) Una diversa tecnica di commutazione delle pene è prevista nel ddl 2342C (Cola e altri), sotto forma di introduzione di un art. 676-bis nel codice di procedura. La collocazione è impropria, trattandosi di criteri di determinazione sostanziale della pena; le soluzioni, alquanto macchinose e di difficile lettura, tendono comunque al rispetto dei limiti introdotti dalla legge successiva più favorevole.


— 1295 — zione’ con fatti precedenti (54). Lo scioglimento del vincolo della continuazione, motiva la sentenza, potrebbe « aver luogo solo quando da esso derivi un vantaggio per l’interessato ». Si tratta di un revirement rispetto all’indirizzo affermato, in materia di indulto e reato continuato, dalle Sezioni Unite pochi anni prima (55). Una discutibile ricostruzione dell’istituto della continuazione (56) è servita da grimaldello per scardinare il modello costituzionale dei provvedimenti di clemenza, dei quali la soglia temporale rigidamente fissata dalla legge è elemento caratterizzante, di delimitazione della rottura dell’eguaglianza che eccezionalmente viene consentita. Parafrasando un fine commentatore (57), è palesemente discriminatorio negare l’indulto, e quindi mantenere la pena accessoria per chi abbia violato la legge (per es., frodato il fisco) una sola volta, dopo la data di riferimento dell’indulto, mentre se avesse cominciato le frodi prima e continuato anche dopo, la pena accessoria sarebbe stata cancellata. L’indulto, insomma, come premio per una tempestiva programmazione dell’illecito, che varrà da salvacondotto, sia pure limitatamente alle pene accessorie, anche per reati commessi successivamente alla data di riferimento dell’indulto. Dallo stravolgimento del sistema (dei principi costituzionali) della clemenza, si arriva allo stravolgimento di elementari criteri di struttura e di funzionalità del sistema penale, in violazione anche del principio d’uguaglianza. 2.2. Il riferimento al reato continuato ritorna, come criterio di scardinamento delle soglie temporali su cui si articola il sistema del diritto intertemporale, nel testo unificato dal relatore on. Pittelli, scaturito dalla trattazione congiunta (in sede di Commissione giustizia della Camera dei Deputati) di numerose proposte di legge, concernenti modifiche al codice penale e al codice di procedura. L’art. 44 prevede di inserire nell’art. 2 del codice penale il seguente comma: « in caso di più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, si applica la disposizione di legge le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, del tempo in cui fu posta in essere una delle azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ». L’innovazione proposta acquisterebbe una concreta valenza pratica, qualora le disposizioni più favorevoli non fossero quelle della legge successiva, ma quelle della legge del tempo del commesso reato (o di una (54) Cass. 10 luglio 2000, DELL’UTRI, in Cass. pen. 2001, 495 s., con nota di D. CARCANO. (55) Cass., s.u., 24 gennaio 1996, in Cass. pen. 1996, 2892. (56) La disciplina del reato continuato presenta anche aspetti non in bonam partem, quali l’individuazione del momento d’inizio della prescrizione (art. 158, comma 1). (57) CARCANO, op. cit., p. 498.


— 1296 — legge ‘intermedia’). Il criterio sottostante alla sentenza Dell’Utri diverrebbe regola generale del diritto intertemporale, con i già rilevati effetti di stravolgimento: l’applicazione della legge più favorevole a fatti commessi dopo la sua sostituzione con una legge più severa. Il tempestivo programmatore del disegno criminoso si conquisterebbe uno statuto penale personalizzato, di esonero dalla applicazione di qualsivoglia legge successiva più severa (58) ai fatti commessi durante la sua vigenza. Ancora una volta, un premio per una tempestiva programmazione e attuazione di un più ampio disegno criminoso. Un capovolgimento, alla lettera, del criterio vigente, e, più in radice, un azzeramento del principio di legalità. Un esempio di ipotetica applicazione: chi cominciasse a formare bilanci falsi nella vigenza della disciplina attuale, continuerebbe a beneficiare della sua mitezza anche per i falsi reallizzati dopo che una auspicabile futura riforma abbia introdotto una disciplina meno lassista. Su queste premesse, con un po’ di furbizia l’impunità può essere organizzata, dal destinatario delle norme e anche da un legislatore malizioso. 2.3. Lo sfondamento di soglie temporali rilevanti per il diritto penale, che caratterizza la sentenza e la proposta sopra esaminate, non è una novità assoluta. Uno slabbramento del sistema, sia pur sostenuto da rispettabili motivazioni, mi pare ravvisabile nell’indirizzo dottrinale (minoritario e non seguito dalla giurisprudenza) che per i reati permanenti ritiene applicabile la legge (più favorevole) dell’inizio della permanenza, anche quando sia stata sostituita, durante la permanenza del reato, da una legge più severa. A sostegno, si afferma che la condotta va valutata unitariamente, che la consumazione del reato si ha già quando la permanenza ha inizio, e che dare rilievo ad un inasprimento successivo violerebbe nella sostanza il principio d’irretroattività della legge sfavorevole (59). L’obiezione non regge: con riferimento alla condotta tenuta dopo l’entrata in vigore della nuova legge, la legge sopravvenuta è la legge del tempo, e la sua applicazione è perciò perfettamente in linea con il principio di legalità. La modifica intervenuta mentre la condotta è in svolgimento vuole e può funzionare come imperativo nei confronti di tutti (60). Per es., il d.l. (58) Ciò deve intendersi limitato alle leggi che aggravino il trattameno sanzionatorio (specie e misura delle sanzioni, ed anche delle cause estintive). Leggi che allarghino l’area dell’illecito non potrebbero non trovare applicazione ai fatti commessi dopo la loro entrata in vigore. (59) M. ROMANO, Commentario, cit., p. 53; S. VINCIGUERRA, Dir. pen. it., I, 1999, p. 323; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 93; C. PODO, op. cit., p. 604; M. SINISCALCO, in questa Rivista, 1960, 1100 s.; E. MUSCO, in questa Rivista, 1982, p. 794. (60) Vi è qui un punto delicato: l’applicabilità della legge più severa intervenuta medio tempore (mentre la permanenza della condotta delittuosa era in atto) presuppone una


— 1297 — 21.3.1978, con l’introdurre una disciplina più severa del sequestro di persona a scopo d’eversione, si rivolgeva ovviamente anche a coloro che, dal 16 marzo, avevano in sequestro l’on. Moro. Chi stia già commettendo il reato, deve cessare dall’azione. Se non lo fa, pur potendolo, il principio di legalità comporta l’applicazione della legge (più severa) del tempo in cui la permanenza del reato è stata protratta (61). La tesi che nega rilievo alla legge più severa, entrata in vigore durante la permanenza del reato, si risolve, non diversamente dalla sentenza Dell’Utri e dalla proposta Pittelli, in un eccesso di continuità col passato, e apre uno spazio di ingiustificata (discriminatoria) inapplicabilità della legge del tempo a chi già fosse nell’illecito. 3. Aspetti problematici della applicazione della legge più favorevole: il ‘taglio’ dei termini di prescrizione dei reati pregressi. — Il principio di retroattività di leggi sopravvenute più favorevoli, nella incondizionata formulazione dell’art. 2, 3o comma, cod. pen., comprende tutti gli istituti di diritto sostanziale che concorrono a determinare l’area dell’illecito penale e le risposte sanzionatorie. Secondo l’opinione consolidata e condivisibile, tale principio risponde ad esigenze di parità di trattamento, ed ha in via di principio una copertura costituzionale nell’art. 3 della Costituzione. L’esperienza recente della riforma penale societaria ha portato alla ribalta un profilo problematico: la riduzione dei termini di prescrizione, conseguente alla nuova legge (nel caso di specie una riduzione molto drastica per i delitti trasformati in contravvenzioni), viene di fatto a fulminare su larga scala i processi per fatti pregressi, teoricamente tuttora rilevanti penalmente. L’effetto di surrettizia sanatoria, di discontinuità nella applicazione della legge repressiva, viene comunque raggiunto per via di prescrizione. violazione colpevole alla nuova legge, e quindi la possibilità di conoscenza e di adeguamento alla nuova normativa. La normale vacatio legis (la legge entra in vigore dopo quindici giorni dalla pubblicazione) può ritenersi una sufficiente salvaguardia di questa esigenza. Qualora la vacatio legis sia più breve (è il caso, per es., di leggi penali emanate con decreto legge), e la permanenza del reato sia cessata ‘poco dopo’, il problema della applicabilità della legge sopravvenuta chiamerebbe in causa i principi sulla colpevolezza. In quest’ordine di idee, lo schema Pagliaro, art. 5 punto g, prevede anche che, se parte della condotta è stata realizzata prima dell’entrata in vigore di una legge più sfavorevole, questa trovi applicazione dopo decorsi 15 giorni dalla sua entrata in vigore. (61) In questo senso sono la dottrina prevalente e la giurisprudenza. Cfr. per tutti DOLCINI-MARINUCCI, Corso di diritto penale, 2001, p. 289. In giurisprudenza, Cass. 14 novembre 1980, in Cass. pen., 82, 611; Cass. 3 novembre 1993, in Giust. pen., 94, II, 470; Cass. 11 aprile 1987, in Cass. pen., 88, 1643; Cass. 14 marzo 1984, ivi, 86, 741; Cass. 10 novembre 1987, ivi, 89, 96. Questo indirizzo trova talora espressa formulazione. Vedi par. 2, n. 2 del codice penale tedesco: si applica la legge in vigore al momento della Beendigung der Tat.


— 1298 — La questione della prescrizione è stata sollevata, insieme a molte altre, in talune delle ordinanze che hanno messo in discussione la legittimità della riforma a fronte dell’esigenza, ritenuta fondata sul diritto comunitario, di munire di sanzioni adeguate e dissuasive la tutela dell’informazione societaria (62). In tale contesto, l’accento è stato posto sulla brevità dei nuovi termini di prescrizione, e non specificamente sull’effetto di riduzione rispetto ai fatti pregressi, solo incidentalmente menzionato. Nella nostra analisi sul diritto intertemporale, lasciando fra parentesi ogni altra questione, interessa invece riflettere sull’effetto di riduzione, di per sé considerato. Sul tema prescrizione e successione di leggi, un’ampia discussione c’è stata a proposito della possibilità di applicazione retroattiva di leggi che prolungano i termini di prescrizione: una discussione, dunque, che ha a che fare col nucleo duro del principio di irretroattività (63). L’ipotesi della riduzione dei termini chiama invece in causa non già il principio di irretroattività, bensì quello della eventuale retroattività della legge più favorevole: un principio anch’esso chiaramente affermato dalla legge ordinaria, ma il cui statuto costituzionale è meno forte. Le esigenze di uguaglianza di trattamento, che fondano il principio (62) Cfr. le ordinanze con cui la questione è stata sottoposta alla Corte di giustizia delle Comunità europee (App. Lecce 7 ottobre 2002; Trib. Milano, sez. 1o, 26 ottobre 2002; Trib. Milano, sez. 4o, 29 ottobre 2002, in Guida al diritto, 2002, n. 45, p. 84 s., con nota di A. DI MARTINO) e alla Corte Costituzionale (GUP Palermo 20 novembre 2002, ivi, n. 48, p. 71 s., pure con nota di A. DI MARTINO). (63) La tesi più rigida esclude qualsiasi applicazione retroattiva in malam partem della disciplina della prescrizione, invocando il diritto del cittadino ad avere certezza, e quindi a poter programmare la propria vita futura, e arrivando a collegare la prescrizione « al nucleo fondamentale dei diritti che all’individuo competono rispetto al diritto penale » (L. STORTONI, Prescrizione e irretroattività, in Foro it., 98, V, 321 s.). Sotto altro aspetto, è stato invocato a fondamento del divieto di retroattività un affidamento inteso non solo come calcolabilità anticipata della reazione punitiva, ma anche di difesa da mutamenti delle ‘regole del gioco’ volti a peggiorare la situazione di chi abbia già commesso un reato (M. DONINI, in Foro it. 98, V, 324). Secondo un altro indirizzo, che ritengo preferibile ancorchè non immune da problemi, non vi sono ostacoli costituzionali di principio alla applicazione di nuovi e più lunghi termini di prescrizione, introdotti da una legge successiva, nel caso in cui i termini previsti dalla previa legge non fossero ancora scaduti. La ratio del principio di irretroattività è di garantire al cittadino la possibilità di sapere se e in quale misura potrebbe essere punito qualora commettesse un dato reato, « e non già di sapere per quanto tempo dovrà stare nascosto dopo aver commesso il fatto, per poi tornare tranquillamente alla vita di tutti i giorni » (DOLCINIMARINUCCI, 264. Già in precedenza, considerazioni analoghe in GABBA, Teoria della retroattività delle legge, 1869, 377 s. Nella dottrina processualistica, V. GREVI, Garanzie individuali ed esigenze di difesa sociale nel processo penale, in AA .VV., Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, 1997, 279). In questo stesso senso si è pronunciata la Corte Costituzionale: « non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di aspettativa dell’imputato al maturarsi del termine di prescrizione » (ordinanza n. 452 del 1999, in Giur. cost. 1999, 3890).


— 1299 — della legge più favorevole, nell’ipotesi in discussione additano soluzioni non univoche. Da un lato, anche qui l’applicazione dei nuovi e più brevi termini di prescrizione può essere prospettata come coerente (l’unica o la più coerente in via di principio) con le nuove valutazioni legislative. Dall’altro lato, ad una considerazione realistica si presentano scenari nei quali l’effetto della riduzione dei termini, riferito al passato, intacca gli affidamenti circa i tempi disponibili, su cui si era mossa la precedente attività investigativa e processuale. Il mutamento delle regole del gioco, a partita avviata, spezza l’equilibrio fra i giocatori, fino a poter paralizzare di fatto le possibilità di arrivare in tempo utile ad una sentenza che dichiari la responsabilità penale. E ciò è quanto le prime applicazioni del nuovo ‘penale societario’ hanno mostrato: per il passato, un immediato larghissimo ‘colpo di spugna’ in applicazione dei nuovi termini di prescrizione. Di fatto, un picco di discontinuità nella applicazione della legge, pur sulla base di istituti di carattere generale, formalmente coerenti con il sistema. I principi costituzionali consentono al legislatore ordinario di evitare effetti di questo genere. L’applicazione retroattiva di termini più brevi di prescrizione non può ritenersi imposta dal principio d’uguaglianza, per la sua tendenza a produrre disuguaglianze di fatto, pur temporanee, nella realtà del law enforcement. C’è da chiedersi, caso mai, se la considerazione dei tendenziali (prevedibilmente ampi) effetti discriminatori della riduzione retroattiva dei termini di prescrizione possa far mettere in discussione, a fronte del principio di eguaglianza e di continuità della legalità, l’estensione ‘onnicomprensiva’ del favor di cui al vigente art. 2, comma 3. Sul piano della legittimità costituzionale andrei molto cauto, per più ragioni. Da un lato, perché la soluzione vigente è formalmente coerente, e l’affermazione di effetti discriminatori implica valutazioni fattuali. Dall’altro lato perché, a fronte di mutamenti drastici nelle valutazioni legislative di gravità di dati tipi di fatto, il costo della prescrizione dei fatti pregressi più lontani nel tempo potrebbe essere ritenuto non inaccettabile nel nuovo contesto. Proprio l’opinabilità degli esiti e delle valutazioni induce a inquadrare la spinosa questione come tipicamente rientrante nella discrezionalità politica del legislatore. Nel merito, le considerazioni sopra svolte lasciano trasparire una presa di posizione critica. La surrettizia sanatoria, per via di prescrizioni fatte maturare ex abrupto dalla novella legislativa, rappresenta un picco di discontinuità nel law enforcement, che un lagislatore sensibile ai valori di una legalità davvero ‘uguale per tutti’ dovrebbe evitare, introducendo, ove ve ne sia l’opportunità, disposizioni derogatorie rispetto alla regola generale del favor.


— 1300 — 4. Una riflessione d’insieme. Il diritto intertemporale fra vincoli costituzionali e discrezionalità del legislatore. — Ad una valutazione d’insieme, lo ‘spirito del tempo’ appare poco sensibile proprio al valore che la formula teorica della continuità del tipo d’illecito vorrebbe evidenziare: la continuità nella effettiva applicazione delle norme penali, imposta, ad un tempo, dal principio di legalità e dal principio d’uguaglianza. Si tratta di un profilo del principio di legalità che nell’elaborazione dottrinale è rimasto sullo sfondo, rispetto al profilo garantista. Del principio di legalità è stato necessario consolidare e difendere innanzi tutto la funzione di limite invalicabile della politica criminale, sia nella selezione delle fonti ammissibili (riserva di legge), sia nella descrizione dei delitti e nella statuizione delle pene (tassatività e precisione), sia nel fondare i principi guida del diritto intertemporale (irretroattività della legge meno favorevole, applicabilità retroattiva della legge più favorevole). La riflessione dottrinale sul principio di legalità non ha invece avuto bisogno, di regola, di soffermarsi sull’esigenza di una applicazione della legge « uguale per tutti », coerente con la legalità proclamata. Sono qui in gioco i fondamenti strutturali del sistema di legalità e dell’orizzonte culturale in cui il problema della legalità si pone; per il discorso dei giuristi, sono premesse scontate, implicite, che affiorano alla luce soltanto se e dove si aprano fronti di crisi. Un esempio ne è la discussione attorno al problema della obbligatorietà dell’azione penale: di fronte alla messa in discussione di questo principio, esso viene giustificato come riflesso processuale del principio di legalità, che « rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale » (64); la legalità nel procedere ne è un necessario strumento. Appunto l’apertura di nuovi fronti di crisi, attorno a problemi di diritto intertemporale, sollecita una rinnovata attenzione al significato strutturale del principio di legalità, ed all’esigenza, in esso incorporata, di una applicazione coerente nel tempo; che significa, ovviamente, non rigidezza, ma coerenza fra le regole (anche) del diritto intertemporale e l’evoluzione dell’ordinamento. I fronti di crisi, che l’analisi svolta ha ravvisato, toccano sia il versante garantista che quello ‘autoritario’ della coerente applicazione della legge repressiva nel tempo. I problemi nuovi toccano quest’ultimo aspetto. La legalità discontinua si è insinuata nella teoria e nella prassi, vuoi con il successo di paradigmi alternativi e più lassisti rispetto a quello dei rapporti strutturali, vuoi in soluzioni che azzerano il significato di soglie temporali (tempus commissi delicti e data di riferimento di provvedimenti di clemenza). Tutto ciò mi pare segno ed effetto di uno spirito del tempo nel quale il (64)

Corte Cost., sentenza n. 88 del 1991.


— 1301 — senso della legalità si è per tanti aspetti affievolito, anche a causa, forse, di un abbassamento della guardia da parte della dottrina. È perciò necessario ripensare la disciplina del diritto intertemporale, innanzi tutto sotto il profilo dei rapporti fra legge ordinaria e principi costituzionali: sia il principio di legalità, sia l’altro grande criterio di struttura del sistema, il principio d’uguaglianza. L’analisi svolta ha messo in evidenza, da un lato vincoli costituzionali puntuali, e dall’altro spazi aperti a soluzioni legislative differenziate. Vincoli costituzionali ineludibili, di segno garantista, impongono un allargamento dei casi di applicabilità ‘oltre il giudicato’ della legge più favorevole: non necessariamente un abbandono assoluto del limite del giudicato quale principio generale, sì invece deroghe in tutti i casi in cui la disciplina sopravvenuta più favorevole possa avere una significativa incidenza pratica nell’esecuzione della pena. Recenti progetti di riforma, già menzionati, vanno in questa direzione (65). Per contro, sono ancora vincoli costituzionali ineludibili, immanenti alla funzione ‘strutturale’ del principio di legalità, che additano nel rapporto strutturale di specialità o continenza l’unico criterio di ‘continuità del tipo d’illecito’ idoneo a fondare un’applicazione della legge coerente nel tempo, rispettosa dei contenuti e dei limiti di riforme volte a ridurre, ma non ad eliminare del tutto determinate aree di intervento penale. Ciò significa che soluzioni più lassiste, del tipo di quelle che sono state derivate da paradigmi alternativi, non potrebbero essere legittimamente introdotte nemmeno dal legislatore, per contrasto col principio di legalità. O meglio: per il loro contenuto di discontinuità nella legalità non potrebbero essere altrimenti presentate che come contenuto di provvedimenti di clemenza: l’amnistia occulta potrebbe, teoricamente, divenire palese, nelle forme e con il quorum richiesto dall’art. 79 Cost. Non è questa, beninteso, una soluzione qui caldeggiata. È, semplicemente, una soluzione ammessa dalla Costituzione, nella quale la rottura della legalità sarebbe esplicita, e troverebbe una legittimazione dichiaratamente ed esclusivamente politica (66). (65) Supra, II, 1. (66) Anche il confine fra la non punibilità ‘normale’, interna al sistema, e la non punibilità come clemenza, è venuto in discussione nella vicenda del c.d. « indultino », non ancora conclusa quando scrivo queste note (metà febbraio 2003). Proposte di legge presentate nel 2002 alla Camera dei deputati (n. 3323 e 3386) hanno delineato, per alleggerire la situazione carceraria, un istituto così congegnato: sospensione condizionale del residuo di pena non superiore a tre anni, per condanne relative a reati commessi prima di una certa data (sono inoltre previste esclusioni oggettive e condizioni ulteriori che qui non interessano). Nel corso dei lavori parlamentari è stato sollevato il problema, se l’istituto proposto non avesse sostanza di indulto (vedi verbali delle riunioni della Commissione giustizia della Camera in date 11, 17 e 18 dicembre 2002). Il testo approvato in prima lettura dalla Camera nel gennaio 2003 dispone che la legge si applica « ai condannati in stato di detenzione ov-


— 1302 — Là dove non siano in gioco i significati forti (vuoi garantista, vuoi ‘ordinatore’) del principio di legalità, si aprono alla legge ordinaria spazi di discrezionalità politica, condizionati, peraltro, dal principio d’uguaglianza, da sempre additato come fondamento del principio d’applicabilità della legge più favorevole. Ma proprio i margini di flessibilità e di opinabilità dei criteri, alla cui stregua valutare la ragionevolezza (o la non irragionevolezza) delle soluzioni legislative, consentono una pluralità di soluzioni ugualmente legittime, tutte ‘discutibili’ quanto a opportunità politica. In concreto, la prospettiva che si apre alle scelte politiche del legislavero in attesa di esecuzione alla data di entrata in vigore della medesima ». Le pregiudiziali di costituzionalità, per elusione della disciplina di cui all’art. 79 Cost. (vedi relazione di minoranza presentata il 14.1.03 da deputati del gruppo Lega Nord), sono state respinte. Senza la pretesa di esaurire il problema in una breve nota, esprimo una netta riserva sulla legittimità costituzionale del testo approvato dalla Camera. L’istituto introdotto intende presentarsi come di natura non clemenziale, e strutturalmente diverso dall’indulto; a ciò per l’appunto è finalizzata la modifica del criterio di delimitazione dell’ambito di applicabilità, rispetto alle proposte iniziali. È stato però mantenuto un criterio temporale (l’esser la condanna già intervenuta alla data di entrata in vigore della legge) che non può trovare alcuna giustificazione entro il sistema di giustizia ordinaria. La disciplina approvata dalla Camera non è paragonabile alle leggi temporanee di tipo ‘premiale’, del tipo sperimentato legittimamente e con successo nella legislazione antiterrorismo degli anni ’80. La previsione di un termine ha senso, là dove si riferisce a prestazioni cui il destinatario della normativa è sollecitato (per es., una attività di collaborazione processuale che la legge eccezionale e temporanea intenda premiare); ma non ha alcun senso razionale, ed è perciò discriminatorio prevedere trattamenti differenziati in relazione a soglie temporali che non hanno alcun collegamento con comportamenti del soggetto interessato. Il favore riservato a chi casualmente si trovi nella fascia temporale ritagliata dalla legge costituisce, ripetto alle regole generali, una elargizione di clemenza, atipica rispetto alla tradizione, ma che per il significato discriminatoriamente clemenziale non può ritenersi sottratta alle forme e procedure di cui all’art. 79 Cost., a pena di non aprire un varco a facili elusioni della disciplina costituzionale (esigenza di un quorum qualificato per i provvedimenti di clemenza ‘poilitica’). Per quanto motivato da ragioni più che comprensibili e autorevolmente sostenute, l’istituto in esame, icasticamente caratterizzato dal termine gergale di indultino, rappresenta sul piano formale una breccia nel tessuto della ordinaria legalità. Conf. G. PANSINI, Sull’indultino rilevanti dubbi di legittimità costituzionale, in Dir. e giustizia, 2003, n. 6, p. 8 s. Un discorso più complesso sarebbe necessario a proposito delle ipotesi di condono introdotte da diverse leggi approvate nel primo scorcio della XIV legislatura, ma non prive di precedenti che la Corte Costituzionale ha a suo tempo salvato, a partire dalla sentenza n. 369 del 1988, relativa al primo condono edilizio (in Giur. Cost., 1998, 1559 s., con nota di FLORIDIA). In argomento resta fondamentale l’analisi di T. PADOVANI, Il traffico delle indulgenze, in questa Rivista, 1986, p. 398 s. La differenza rispetto all’indultino sta nel fatto che i c.d. condoni atipici sono collegati a prestazioni dell’interessato, per le quali si può porre il problema se possano avere rilievo, fino a fondare una eccezionale non punibilità per fatti che sono e restano illeciti, nell’ottica di un ‘normale’ bilanciamento di interessi e di una ‘normale’ politica premiale. Avrei difficoltà ad ammettere una tale legittimazione al di fuori di situazioni eccezionali, e men che meno per condoni che tornino a riproporsi ciclicamente. In ogni caso, tutti i condoni, anche ad ammettere possano essere eccezionalmente legittimati, concorrono ad arricchire il quadro di legalità discontinua che caratterizza l’attuale situazione.


— 1303 — tore è quella di possibili deroghe al criterio della applicazione della legge più favorevole successiva, sia nell’ambito oggi disciplinato dal 3o comma dell’art. 2, sia in quello, più impegnativo, disciplinato dal 2o comma. Un campo problematico importante è quello che la teoria della continuità del tipo d’illecito nella originaria versione ‘estensiva’ (vedi giurisprudenza del BGH tedesco) (67) vorrebbe annettere all’area della successione di leggi, pur in assenza di un rapporto di specialità: situazioni in cui, nel succederasi di discipline pur strutturate in fattispecie eterogenee, possa comunque « essere percepita la persistenza di esigenze di tutela che, per quanto espresse in maniera diversa e con diverso atteggiarsi delle modalità tipiche, non giustificherebbe, o non giustificherebbe incondizionatamente, la non punibilità dell’autore del fatto previsto dalla norma abrogata » (68). Esempi potrebbero forse essere cercati, nell’esperienza italiana recente, in taluni mutamenti nella disciplina dell’immigrazione, il cui riflesso penalistico è stato il riconoscimento (ineccepibile) della abrogazione di figure di reato sostituite con figure diversamente strutturate, pur concernenti la medesima prospettiva di tutela (69). Sulla base di puntuali valutazioni di continuità sostanziale, il legislatore potrebbe eventualmente introdurre, con disposizioni speciali di diritto transitorio, puntuali deroghe al criterio generale della retroattività della abolitio criminis. Nell’ambito oggi disciplinato dal 3o comma dell’art. 2, l’esperienza recentisima ha portato in primo piano la questione della riduzione dei termini di prescrizione. Soluzioni diverse da quella vigente potrebbero essere ricercate sia in sede di disciplina generale, sia (più cautamente) in soluzioni ‘mirate’ con norme speciali di diritto transitorio. Il catalogo dei possibili problemi è teoricamente aperto. Un aspetto che potrebbe meritare attenzione è, per es., quello della rilevanza della lex intermedia, successiva al fatto ma non più in vigore al tempo del giudizio. L’applicabilità della lex intermedia più favorevole è fondata su ragioni di uguaglianza di trattamento (70), nelle quali prevale un aspetto fattuale: sarebbe discriminatorio limitare il trattamento più favorevole a chi abbia avuto la fortuna di essere giudicato prima della sostituzione della lex mitior. Ulteriori considerazioni fattuali, più mirate sui diversi contesti (breve durata della vigenza della lex intermedia, esistenza e numero di sue applicazioni, ragioni del suo superamento, e simili), potrebbero anche qui portare a soluzioni derogatorie, che negando rilievo alla lex intermedia comportino un minore sacrificio di esigenze pure riconnesse al principio di uguaglianza ed alla tenuta del sistema legale (71). DOMENICO PULITANÒ (67) (68) (69) (70) (71)

Supra, I, 3.2. PADOVANI, Tipicità, cit., p. 1378. Cass., S.U., 9 maggio 2001, in Foro it., 2002, II, 191 s. HASSEMER, op. cit., p. 181. Mentre questo articolo sta andando in stampa (metà febbraio 2003) debbo alla


— 1304 — cortesia di Massimo Donini la lettura di un suo nuovo studio di prossima pubblicazione (Discontinuità del tipo di illecito e amnistia. Profili costituzionali) nel quale è sviluppata la tesi che al legislatore sarebbe consentito, in occasione di riforme di parziale depenalizzazione, « impedire che, ai fatti commessi sotto la vigenza delle norme formalmente abrogate, siano applicabili altre norme, o porzioni di norme », che la riforma mantenga in vita o introduca in sostituzione di quelle abrogate. Vi sarebbero dunque effetti abolitivi di « abrogazioni apparentemente parziali, ma verosimilmente totali »: posto che il legislatore può eliminare la rilevanza penale di un tipo di fatto, con decisione che riguarda il futuro e si applica retroattivamente ai fatti pregressi, tale indiscusso potere implicherebbe (a maiori ad minus, scrive Donini) il potere di eliminare gli effetti penali limitatamente ai fatti anteriori alla riforma. Donini riconosce che questa ipotesi, che definirei abolitio criminis retrospettiva, pone problemi di compatibilità col principio d’uguaglianza e di distinzione dalla amnistia, il cui tipico effetto (cessazione degli effetti penali in ragione del tempo del commesso reato) caratterizza l’ipotesi in esame. Ma sostiene che le particolari garanzie procedurali delle leggi di amnistia, di cui al novellato art. 79 Cost., non osterebbero a che forme di « cancellazione del passato » siano considerate nel fenomeno successorio, « che introduce rotture ben più serie nell’assetto dei valori in gioco ». La abolizione retrospettiva potrebbe essere ritenuta dall’interprete, « con molta circospezione e prudenza », e a maggior ragione affermata dal legislatore, senza realizzare una amnistia occulta, « a determinate condizioni », ravvisate in « ragioni intrinseche specifiche, relative alla gestione del passato nel passaggio al nuovo regime di disciplina ». È questo, per quanto mi consta, il tentativo più serio di formulare in modo esplicito e di dare veste teorica alla tesi della possibile abolitio criminis retrospettiva. Ma proprio lo sforzo argomentativo rende evidente, per l’inconsistenza degli argomenti, l’insostenibilità della tesi. Il potere di statuire il venir meno, limitatamente al passato, degli effetti penali di fatti tuttora costituenti reato, non è un minus, come pretende Donini, ma è qualitativamente diverso dal potere di abolire la rilevanza penale di dati tipi di fatto con abrogazioni totali o parziali di norme penali. L’abolitio criminis in senso pieno (nel senso usuale del termine) è una normale espressione della potestà legislativa penale. La pretesa abolitio criminis esclusivamente retrospettiva è invece un esito di discontinuità nella legalità, equivalente (come Donini riconosce) a quello di una amnistia; come l’amnistia, e a differenza della abolitio criminis in senso pieno, non corrisponde ad alcuna discontinuità nella valutazione penale di quel dato tipo di fatto. Sotto questo aspetto è l’amnistia, e non la successione di leggi, che rappresenta una autentica rottura della legalità. Confesso di non avere capito se, secondo Donini, la abolitio criminis retrospettiva possa essere affermata come coerente applicazione del sistema di cui all’art. 2 c.p., ovvero in deroga esplicita o implicita ad esso. Quel che ho capito è che essa viene ritenuta distinguibile dalla amnistia solo su puntuali presupposti giustificativi, senza i quali avremmo una amnistia occulta: ma è davvero possibile, come vorrebbe Donini, distinguere entro l’area della non punibilità retrospettiva, in ragione del tempo del commesso reato, un’area in cui tale effetto non sarebbe da definire clemenziale, bensì compatibile con il sistema della ‘ordinaria legalità’? La mia riposta è incondizionatamente negativa, per le ragioni già svolte a proposito dell’indultino (vedi nota 66). Ma anche indipendentemente da quelle ragioni, è in ogni caso assolutamente inaccettabile il criterio additato da Donini. Difficoltà e complicazioni della gestione processuale (non fa differenza se transitorie o persistenti) non possono di per sé giustificare differenziazioni di trattamento sostanziale spinte sino alla non punibilità: dentro il sistema della legalità ordinaria, non clemenziale, la legittimazione della non punibilità di fatti penalmente tipici non può essere fondata che su ragioni di differenziazione di carattere sostanziale. Una differenziazione in base al tempo del commesso reato è, per definizione, una scelta di clemenza: è il modello tipico della amnistia, così come conosciuta nella nostra tradizione giuridica. Con riguardo specifico alla riforma penale societaria, che ha dato occasione al revival


— 1305 — d’attenzione sul diritto intertemporale, Donini ravvisa una esplicita indicazione di una volontà ‘abolizionista’ nella abbreviazione dei termini di prescrizione: il legislatore ha manifestamente inteso « decretare la morte celere dei processi, in parte per il futuro, ma sicuramente per il passato ». L’osservazione è corretta e pertinente, ma il suo senso è diametralmente opposto all’argomentare di Donini: se la morte celere dei processi ha bisogno della prescrizione fulminante, anche per i fatti pregressi, ciò presuppone logicamente una valutazione legislativa di persistente rilevanza penale di fatti pregressi non coperti da abolitio criminis, che è sicuramente parziale come decisione per il futuro, e da applicare retroattivamente nella medesima ampiezza prevista per il futuro. Nelle pagine conclusive, Donini imputa alla teoria dei rapporti strutturali un « illuministico bisogno di certezza legale solo per il passato ». Non è così: il bisogno di certezza, cui il paradigma classico risponde, è né più né meno che quello immanente al principio di legalità, e vale in eguale misura indipendentemente dal tempo del commesso reato (andando incontro, ovviamente, alle ben note difficoltà cui l’attuazione della certezza legale va incontro). Netto dissenso da Donini, dunque, per ragioni che, lungi dal contrapporre una astratta coerenza formale ad un approccio asseritamente più valutativo, ritengono di salvaguardare al meglio, ad un tempo, la forma e i valori sostanziali del principio di legalità. Curiosamente, nello sforzo argomentativo in difesa della abolitio criminis retrospettiva, il principio di legalità non è stato preso in positiva e diretta considerazione. E le ragioni (di economia processuale!) addotte ad ipotetico fondamento di una tale possibilità non hanno nulla a che vedere con il principio di legalità. A seguire dall’interno la logica del discorso qui criticato, la abolitio criminis retrospettiva appare una soluzione in deroga al sistema dell’art. 2, senza che della deroga sia indicato alcun fondamento normativo. Su altri punti toccati da Donini, o altrimenti emersi nelle discussioni sul diritto intertemporale, ma che vanno oltre tale prospettiva, mi riprometto di ritornare in altra sede.


NOTE IN ORDINE AD ALCUNI PROFILI DI COSTITUZIONALITÀ CONNESSI AL GIUDIZIO ABBREVIATO

Il giudizio abbreviato, sin dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, è stato uno degli istituti maggiormente sottoposti al vaglio della Corte costituzionale. Anzi, uno dei motivi principali che ha spinto il legislatore del 1999 ad apportare consistenti modifiche all’impianto del rito alternativo era proprio rappresentato dai minacciosi inviti rivolti dalla Consulta affinché si ponesse riparo a situazioni di grave scompenso che non potevano essere ulteriormente tamponate dai giudici costituzionali. Ora, se alcuni dei problemi denunciati sono stati risolti, altri continuano a porsi ed altri ancora se ne pongono proprio a seguito della disciplina introdotta dalla l. n. 479/1999. 1. Nel vigore della precedente disciplina, la Corte costituzionale, con la sentenza 15 febbraio 1991, n. 81 (1), aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p. nonché degli artt. 458, commi 1 e 2 e 464, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevedevano che il pubblico ministero, qualora non avesse prestato il proprio consenso al rito abbreviato, avrebbe dovuto enunciarne le ragioni, con il consequenziale potere per il giudice dibattimentale di applicare la riduzione di un terzo della pena qualora — raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato — avesse ritenuto ingiustificato tale dissenso. Parimenti, con sentenza 31 gennaio 1992, n. 23 (2), la Consulta (1) Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 81, Marzola, in Giust. pen., 1991, I, c. 97, con nota di TAORMINA, Presupposti, limiti e conseguenze della declaratoria di incostituzionalità della insindacabilità del dissenso del pubblico ministero all’abbreviazione del rito; in questa Rivista, 1991, p. 1007, con nota di CORVI, Cronaca di una sentenza annunciata; in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 187, con nota di DI BERNARDINO, Alcune osservazioni critiche a margine della sentenza n. 81 del 15 febbraio 1991 della Corte costituzionale sul giudizio abbreviato. Parziale incostituzionalità... della pronuncia p. 189, e TRIGGIANI, Considerazioni in merito alla sentenza della Corte costituzionale n. 81/1991; in Giur. cost., 1991, p. 559; in Riv. pen., 1991, p. 355; in Cass. pen., 1991, II, p. 215; in Riv. pen. economia, 1991, p. 248. (2) Corte cost., 31 gennaio 1992, n. 23, Costa, in Foro it., 1992, I, c. 1057, con nota DI CHIARA, Decidibilità allo stato degli atti e sindacato sulla decisione negativa in tema di


— 1307 — aveva dichiarato l’incostituzionalità delle medesime disposizioni processuali nella parte in cui non prevedevano il potere del giudice dibattimentale di applicare la riduzione di un terzo della pena, laddove — sempre raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato — avesse ritenuto erronea la valutazione di non decidibilità allo stato degli atti formulata dal G.u.p. che non aveva, pertanto, ammesso il rito abbreviato. La disciplina introdotta dalla l. n. 479/1999 ha sicuramente posto rimedio alle predette questioni. In particolare, mentre la prima è praticamente divenuta improponibile in quanto il legislatore, con decisione netta, ha escluso qualsiasi tipo di consenso del pubblico ministero per la celebrazione del rito abbreviato, la seconda è stata sicuramente superata in quanto l’ammissione del rito alternativo non è più subordinata ad alcun giudizio di decidibilità allo stato degli atti (restandovi subordinata, ovviamente, la sola definizione). Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, si potrebbe prospettare una questione residua qualora il G.u.p. dovesse rigettare la richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad un’integrazione probatoria, ritenendo che i mezzi istruttori richiesti non siano necessari ai fini della decisione e non appaiano compatibili con le finalità di economia processuale del rito speciale (3) (il problema, evidentemente, non si pone per il giudizio abbreviato secco per la cui ammissione il G.u.p. è privato di qualsiasi potere discrezionale). Se, dunque, il giudice dell’udienza preliminare dovesse rigettare la richiesta di rito speciale condizionato, potrebbe il giudice del dibattimento applicare una riduzione di un terzo della pena qualora, ritenendo raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato, sia persuaso dell’erroneità della valutazione del G.u.p.? Al riguardo, deve osservarsi che le sentenze sopra richiamate avevano correttamente introdotto il principio di sindacabilità — da parte del giudice dibattimentale — delle valutazioni negative in ordine alla decidibilità allo stato degli atti rese dal G.u.p. Era infatti apparsa priva di logica la normativa che negava all’imputato la possibilità di godere del beneficio del giudizio abbreviato sol per‘‘abbreviazione’’ del rito; in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 36, con nota di JESU, Un ulteriore intervento della Corte costituzionale sul giudizio abbreviato; in Cass. pen., 1992, p. 914; in Giur. cost., 1992, p. 109; in Giust. pen., 1992, I, c. 105; in Arch. pen., 1992, p. 47; in Legisl. pen., 1992, p. 125. (3) Identico problema si pone anche MAGLIARO, La legge Carotti e la riforma del giudizio abbreviato, in Quest. giust., 2000, p. 424 ss., ‘‘... quid iuris se il G.u.p. non accede alla richiesta condizionata e l’indagato non reitera la richiesta di abbreviato semplice? All’esito del dibattimento conseguentemente celebrato, il giudice potrà, nel caso ritenga ingiustificato il diniego del G.u.p., applicare la diminuente per il rito come avviene attualmente? E ciò sarà possibile sin da ora o soltanto in presenza di una pronuncia della Corte costituzionale, analoga a quella n. 23 del 1992?’’.


— 1308 — ché il giudice dell’udienza preliminare (ovvero il pubblico ministero) non ritenesse, in quella sede, ancora decidibile il procedimento (4). Irragionevole allo stesso modo appare l’attuale normativa laddove non prevede che il giudice dibattimentale non possa sindacare il giudizio di non necessità della prova integratrice richiesta dall’imputato ovvero di non compatibilità con le finalità di economia processuale, proprie del rito abbreviato. Si prenda, per esempio, in considerazione l’ipotesi in cui il G.u.p. rigetti la richiesta di giudizio abbreviato subordinato dall’imputato all’assunzione di una prova d’alibi od anche di una prova che serva ad escludere un’aggravante, sulla base della considerazione che quest’ultima non sia necessaria in quanto il quadro probatorio costruito dal pubblico ministero risulta già sufficiente per pervenire ad una decisione. Allo stesso modo, il problema si porrebbe laddove dovesse risultare erronea la valutazione del G.u.p. in ordine alla presunta incompatibilità della prova richiesta con le finalità di economia processuale (si prenda, per esempio, in considerazione l’ipotesi di un accertamento il cui adempimento comporterebbe esclusivamente un rinvio dell’udienza di pochi giorni) (5). (4) A tal proposito appare utile richiamare Cass. pen., 28 giugno 2000, n. 10738, Simoncelli, in Cass. pen., 2001, p. 551, con nota di G. CIANI, alla cui stregua la Corte di cassazione che rilevi la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione della sentenza del giudice di merito che — prima della l. n. 479/1999 — abbia ritenuto non decidibile allo stato degli atti il procedimento, può applicare direttamente la riduzione di pena prevista dall’art. 442, comma 2, c.p.p., senza annullamento con rinvio. (5) In senso conforme, vgs. LOZZI, Il giudizio abbreviato, in questa Rivista, 2000, p. 464 ss., ad avviso del quale ‘‘non c’è dubbio che l’art. 438, comma 5, c.p.p., che giustifica la reiezione della richiesta di integrazione probatoria allorquando il giudice ritenga non necessaria tale integrazione oppure, ancorché necessaria, non compatibile con le finalità di economia processuale del giudizio abbreviato, appare viziato di legittimità costituzionale là ove non prevede la sindacabilità del giudizio di non necessità o di non compatibilità. Un’errata valutazione del giudice che ritenga non necessaria una prova che abbia, invece, tale connotazione o che ritenga non compatibile una prova che, invece, non contrasti minimamente con le finalità di economia processuale del rito abbreviato preclude la riduzione di un terzo della pena o l’applicazione della pena di trent’anni di reclusione in luogo dell’ergastolo senza che tale errore del giudice possa essere corretto. In situazioni assolutamente identiche si potrà avere oppure no la riduzione di pena a seconda della valutazione del giudice e ciò in palese contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di legalità’’. In tal senso, vgs. anche MAFFEO, in Il giudizio abbreviato, in Le innovazioni in tema di riti alternativi (vol. III), Le recenti modifiche al codice di procedura penale, a cura di Normando, Le nuove leggi penali, commenti a prima lettura, coordinati da Dalia-Ferraioli, Giuffrè, Milano, 2000, p. 50, per il quale la pronuncia n. 81 del 1991 della Corte costituzionale, ‘‘nel silenzio del legislatore... non può non valere nella ipotesi in commento, se è vero che anche la valutazione di ‘non necessità’ dell’integrazione probatoria ai fini della decisione e/o di ‘non conciliabilità’ con lo schema procedimentale, certamente comporta ricadute sulla pena’’. Conformemente, MARZADURI, in Subito altri strumenti per raddrizzare gli squilibri, in Guida al diritto, 2000, 15, p. 64, il quale, sul presupposto che ‘‘non è assicurata alcuna forma di controllo dell’ordi-


— 1309 — Consapevole di tali possibili anomalie, la giurisprudenza di merito — pur non sollevando una questione di costituzionalità — ha ritenuto che ‘‘in caso di rigetto, da parte del G.u.p., di richiesta di giudizio abbreviato condizionata ex art. 438, comma 5, c.p.p., il giudice del dibattimento, ove ritenga che tale rigetto fosse ingiustificato — ossia che l’integrazione istruttoria richiesta fosse necessaria e non incompatibile con le finalità di nanza con la quale il giudice respinge la richiesta di giudizio abbreviato a causa della ritenuta incompatibilità dell’integrazione probatoria con esigenze di speditezza del rito — ritiene che — quanto osservato dalla Corte costituzionale in relazione all’omessa previsione di uno strumento di verifica del provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare non ammetteva la richiesta di giudizio abbreviato perché il processo non risultava definibile allo stato degli atti, sembra integralmente riferibile alla nuova situazione’’. Ancora CARCANO, in L’imputato ‘‘dominus’’ dei procedimenti speciali con il rito abbreviato senza il consenso del p.m., in Dir. e giust., 2000, 2, p. 62, che, ritenendo ancora vigente la regola introdotta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 23/1992, ha considerato: ‘‘sembra indubbio dunque che il giudice, all’esito del dibattimento, possa applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442.2. c.p.p., ritenendo che l’integrazione probatoria alla quale l’imputato aveva subordinato la propria richiesta avrebbe dovuto essere considerata compatibile con le esigenze di economia processuale tipiche del giudizio abbreviato’’. Contra, vgs. ORLANDI, Commenti articolo per articolo della legge Carotti, in Legis. penale, 2000, p. 442, secondo il quale ‘‘il vecchio requisito della ‘decidibilità allo stato degli atti’ aveva un che di oggettivo e, soprattutto, consentiva al giudice del dibattimento o dell’appello di accertarlo anche alla luce degli svolgimenti processuali successivi alla richiesta di giudizio abbreviato. Diversamente, il requisito d’economia processuale previsto dall’odierno art. 438, comma 5, c.p.p. è pressoché privo di oggettività’’. Al riguardo, NEGRI, in Il ‘‘nuovo’’ giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di Peroni, Cedam, Padova, 2000, p. 441 ss., ritiene che ‘‘... non è invece prevista alcuna forma di controllo dell’ordinanza, né l’imputato potrà invocare proficuamente il successivo intervento ‘riparatore’ del giudice all’esito del dibattimento, secondo le linee dettate dalla Corte costituzionale per il caso — affatto diverso — in cui il giudice dell’udienza preliminare avesse erroneamente ritenuto il processo non definibile allo stato degli atti’’. In senso conforme, APRILE, Giudice unico e processo penale, Giuffrè, Milano, 2000, p. 146, per il quale ‘‘non sembra applicabile alla nuova fattispecie l’effetto additivo della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale n. 23/1992... quella sentenza riguardava la sindacabilità, da parte del giudice del dibattimento, della valutazione compiuta dal giudice dell’udienza preliminare sulla decidibilità allo stato degli atti, valutazione che oggi non è più richiesta e che è stata sostituita dalla previsione di una più articolata verifica demandata a quel giudice’’ e POTETTI, Mutazioni del giudizio abbreviato. In particolare il giudizio abbreviato condizionato (art. 438, comma 5, c.p.p.), in Cass. pen., 2001, p. 331 ss., secondo cui ‘‘ciò che essenzialmente distingue... tale diniego da quello a suo tempo esaminato dalla Consulta, è proprio il fattore allora ritenuto essenziale dalla Corte, ossia la sua (del diniego) ricaduta sostanziale in termini di riduzione della pena. Prevede, infatti, il novello art. 438, comma 6, del c.p.p. che l’imputato, il quale si sia visto rigettare la richiesta di giudizio abbreviato ‘condizionato’, può nuovamente fare richiesta di giudizio abbreviato nei termini ordinari; tale ulteriore richiesta, se formalmente corretta e priva di condizioni, obbligherà il G.u.p. ad ammettere il rito, con conseguente diminuzione di pena nel caso di condanna. Quindi, nella sostanza, il provvedimento di rigetto del G.u.p., non potendo avere efficacia preclusiva della diminuzione di pena, si risolverà in un mero diniego (sulla base dei criteri di ammissione della prova appositamente previsti dall’art. 438, comma 5, c.p.p.) dell’integrazione probatoria richiesta’’.


— 1310 — economia processuale proprie del rito speciale — può applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442, comma 2, c.p.p. poiché il combinato disposto delle anzidette disposizioni, come ridisegnato dalla l. n. 479/1999, deve essere interpretato e applicato tenendo conto della sentenza n. 23/1992 della Corte costituzionale, il cui intervento additivo risulta ancora valido ed efficace, avendo inciso sul citato art. 442 c.p.p. non modificato dalla predetta l. n. 479/1999’’ (6). Richiamando le considerazioni sopra esposte, desta perplessità il recente intervento della Corte costituzionale sul punto. La Consulta, infatti, con sentenza n. 54 del 27 febbraio-15 marzo 2002, ha dichiarato inammissibile la questione proposta, ritenendo che quanto i giudici costituzionali ebbero a sostenere circa dieci anni or sono in merito alla decidibilità allo stato degli atti non può acriticamente applicarsi al nuovo modello di giudizio abbreviato: ‘‘ai fini dell’ammissibilità del giudizio abbreviato non si richiede più quella valutazione circa la definibilità del processo allo stato degli atti che la Corte aveva ritenuto essere sindacata in esito al dibattimento. Il giudice dell’udienza preliminare è ora chiamato a verificare solo la necessità dell’integrazione probatoria ai fini della decisione e la sua compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, compiendo una valutazione alla stregua di un parametro molto più circoscritto, il cui eventuale riesame non deve più necessariamente essere collocato in esito al dibattimento’’ (7). Ciò che non si comprende è la ragione per cui la (eventuale) differenza di fase in cui il giudice dibattimentale debba riesaminare la valuta(6) Trib. Milano, 11 settembre 2001, Prado, in Guida al diritto, n. 37 del 29 settembre 2001, p. 65, con nota adesiva di BRICHETTI, Tra vuoti normativi e precedenti costituzionali una lettura compatibile con l’economia processuale. Il Collegio ha ritenuto superfluo sollevare la questione di costituzionalità, considerando che ‘‘nulla impedisce a questo giudice di sollevare una nuova eccezione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei vigenti artt. 438, comma 5 e 442 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., sulla scorta delle medesime motivazioni che indussero non soltanto i giudici di merito a rilevare, ma soprattutto la Corte ad accogliere la questione con le citate sentenze nn. 81/1991 e 23/1992... non ignora, tuttavia questo collegio, il costante orientamento giurisprudenziale costituzionale, divenuto sempre più incisivo nel corso degli ultimi anni, relativo al potere-dovere del giudice di merito di seguire e preferire (ove possibile) l’interpretazione delle norme più conformi alla Costituzione, piuttosto che sollevare nuove questioni innanzi al giudice delle leggi’’. In senso conforme, Trib. Roma, 29 gennaio 2002, Terzulli, inedita. (7) Corte cost., 27 febbraio-15 marzo 2002, n. 54, in Guida al diritto, n. 13 del 6 aprile 2002, p. 61 ss., con nota di BRICHETTI, Dietro gli enigmi lasciati dalla Consulta si annidano nuovi dubbi di costituzionalità. La Corte costituzionale, peraltro, già con ord. n. 401 del 3-11 dicembre 2001 (in Giur. cost., 2001, p. 3894), aveva dichiarato inammissibile la medesima questione semplicemente sulla base del presupposto per cui, nell’occasione, ‘‘il giudice a quo, nel motivare sulla rilevanza della questione, ...omette qualsiasi considerazione sulle ragioni per cui nella specie l’integrazione probatoria sarebbe stata necessaria e dovrebbe, quindi, ritenersi ingiustificata la decisione del giudice dell’udienza preliminare di non ammettere il rito’’.


— 1311 — zione del G.u.p. in merito alla mancata ammissione del rito speciale assuma un rilievo tale da impedire la riduzione della pena, qualora le medesima valutazione sia ritenuta erronea. Al riguardo, non occorre dimenticare che il principio fondamentale introdotto con la sentenza 31 gennaio 1992, n. 23, era quello della sindacabilità da parte del giudice dibattimentale dell’erronea decisione del G.u.p. in ordine al rigetto del rito abbreviato. Ciò posto, la circostanza che, prima della l. n. 479/1999, la sindacabilità del giudice dibattimentale vertesse in merito all’erroneo giudizio di decidibilità allo stato degli atti del G.u.p., mentre, dopo l’intervento legislativo, la sindacabilità verterebbe sull’erroneo giudizio circa la necessità ai fini della decisione e la compatibilità con l’economia processuale dell’integrazione probatoria richiesta, appare del tutto irrilevante, essendo semmai assorbente la circostanza per cui entrambe le erronee valutazioni impediscono irragionevolmente la celebrazione del giudizio con il rito abbreviato. La nuova normativa, quindi, sotto quest’ultimo profilo, continua ad apparire viziata quanto meno con riferimento al principio di uguaglianza (8). 2. Una questione di legittimità costituzionale che è invece emersa a causa della nuova disciplina è quella concernente la compatibilità del rito abbreviato con i reati punibili con l’ergastolo. Come noto, la possibilità di richiedere il rito abbreviato per tali reati già esisteva sotto il vigore della precedente disciplina, ma era stata dichiarata costituzionalmente illegittima a causa di un evidente eccesso di delega. La Corte costituzionale, infatti, con sentenza n. 176 del 23 aprile 1991 (9), aveva correttamente ritenuto che l’art. 442, comma 2, ultimo periodo, c.p.p. contrastasse con l’art. 76 Cost., in quanto l’art. 2 n. 53 (8) Corretta, al riguardo, appare l’osservazione di BRICHETTI, op. e loc. citt., secondo il quale se ‘‘con riguardo alla richiesta di patteggiamento, il tribunale ha il potere di rivalutare il diniego del giudice e, se lo ritiene ingiustificato, di pronunciare la sentenza di patteggiamento, sempre che, naturalmente, sia stata riproposta dall’imputato la medesima richiesta in precedenza formulata... perché un potere analogo non è stato attribuito al tribunale con riguardo al rigetto ingiustificato di una richiesta di giudizio abbreviato?’’. (9) Corte cost., 23 aprile 1991, n. 176, in Cass. pen., 1991, II, p. 483, n. 149. La sentenza è stata poi chiarita — anche in relazione agli aspetti di diritto intertemporale — dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con sentenza 17 marzo 1992, Piccillo in questa Rivista, 1993, p. 370, con nota di LOZZI, La non punibilità con l’ergastolo come presupposto del giudizio abbreviato; in Cass. pen., 1992, p. 1407, con nota di SIROTTI, Il rito abbreviato: una disciplina in fieri tra norme del codice e decisioni giurisprudenziali, e nota di GIANNONE, Giudizio abbreviato ed ergastolo: dopo la declaratoria di incostituzionalità importanti chiarimenti (di diritto intertemporale e non) delle Sezioni Unite della Cassazione.


— 1312 — della legge delega prevedeva che il giudice che avesse pronunciato sentenza di condanna avrebbe dovuto ridurre di un terzo la pena prevista per il reato. Era, dunque, evidente che il rito abbreviato potesse essere ammesso solo quando l’imputato doveva rispondere di un reato punibile con una pena detentiva temporanea e non già con l’ergastolo (il legislatore delegato, infatti, aveva dovuto arbitrariamente sostituire l’ergastolo con la pena di anni trenta di reclusione). Il legislatore di fine millennio, però, superando il problema di costituzionalità attraverso un intervento normativo svincolato dalla legge delega del 1987, ha ristabilito la facoltà di chiedere il rito abbreviato anche nel caso di reato punibile con l’ergastolo, così sposando le esigenze di economia processuale e di deflazione dei procedimenti. Riformulato pertanto alla stessa maniera (ergastolo sostituito con la pena di anni trenta di reclusione), l’art. 442, comma 2, secondo periodo, c.p.p., sulla scia dell’onda emozionale determinata dalle situazioni di abitudinaria emergenza, ha provocato allarmismi e non poche perplessità sotto un altro profilo di costituzionalità: la compatibilità con l’art. 27, comma 3, Cost.: se è vero che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e il giudice deve applicarle tenendo conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p., la sostituzione dell’ergastolo con la pena detentiva pari a trenta anni di reclusione verrebbe a minare la portata rieducativa della sanzione (10). A tal proposito, tuttavia, avendo riguardo alle esigenze che hanno spinto il legislatore a reintrodurre la norma in questione, si ritiene che la nuova disciplina non leda alcun principio costituzionale. Anzi: il fatto stesso che il sospetto di illegittimità costituzionale ex art. 27, comma 3, Cost. venga sollevato esclusivamente con riferimento al giudizio abbreviato applicato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo, chiarisce ancor di più, ad avviso di chi scrive, l’infondatezza della questione. In effetti, se a preoccupare i sostenitori dell’illegittimità costituzionale del nuovo art. 442, comma 2, secondo periodo, c.p.p. è la sola impossibilità per il giudice di applicare una pena non conforme ai criteri di cui all’art. 133 c.p., non si capisce allora perché lo stesso problema non (10) In tal senso, vgs. MAGLIARO, op. e loc. citt., secondo il quale ‘‘la premialità del rito, con la diminuzione di un terzo della pena da erogare (ora estesa anche ai reati puniti con l’ergastolo con riduzione a trenta anni), è difficilmente coniugabile con il concetto di pena che emerge dal disegno costituzionale. L’art. 27, comma 2, Cost. richiede, infatti, che la pena in concreto erogata, nel rispetto dei canoni di cui all’art. 133 c.p., realizzi una finalità rieducativa; ma la previsione di una riduzione predeterminata, indefettibile, non collegata ad alcuna valutazione sostanziale (inerente alla gravità del fatto o alla capacità a delinquere del colpevole) pregiudica il nesso funzionale tra l’entità della pena e le sue finalità intrinsecamente e costituzionalmente stabilite’’.


— 1313 — sia stato sollevato per l’intera disciplina del giudizio abbreviato che prevede, per qualsiasi reato, la riduzione di un terzo della pena (11). Se, cioè, i canoni previsti dall’art. 133 c.p. devono essere applicati in tutti i casi di condanna, appunto per garantire ad ogni condannato una sanzione equa anche ai fini rieducativi, non si capisce perché ci si debba lamentare della ritenuta relativa disapplicazione nel caso di condanna all’ergastolo e non anche, per esempio, di condanna a venti anni di reclusione. Stessi problemi, del resto, vengono posti da altri istituti di natura processuale e sostanziale che, anche in modo più allarmante, travolgendo il giudizio ex art. 133 c.p., fanno venir meno non solo il principio rieducativo della sanzione penale ma addirittura la stessa effettività della pena. Si pensi, per esempio, alle ipotesi di patteggiamento, di sospensione condizionale della pena, di prescrizione (per non parlare dell’amnistia, dell’indulto, dei benefici penitenziari, ecc.). È evidente allora che il problema è un altro: in realtà, ripugna alla coscienza sociale che una persona che si sia macchiata di crimini gravissimi non possa essere condannata ad una pena perpetua e beneficiare così del reingresso nel consesso sociale. A questo però può replicarsi, facendo presente la necessità legislativa di intraprendere scelte che, pur a dispetto dei criteri di cui all’art. 133 c.p., occorre assumere per evitare la completa paralisi del sistema giudiziario. Sposando, pertanto, il principio dell’opportunità di una generale applicazione del rito abbreviato, forse sarebbe stata costituzionalmente illegittima la disposizione che avesse stabilito la possibilità per tutti di ottenere il rito speciale, con il consequenziale premio della riduzione della pena, tranne che per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo. (11) A questo proposito, vgs. G.u.p. Tribunale di Bologna, 19 gennaio 2000, Majid e altro, in Giur. it., 2000, p. 1266, con nota di COLOSIMO e RIGHI, Le variazioni ‘‘genetiche’’ del rito abbreviato all’esame della Corte costituzionale. In particolare, il giudice ritiene di dubbia costituzionalità la normativa in base alla quale si consente che ‘‘l’imputato, con la semplice richiesta di rito abbreviato, senza alcuna possibilità di sindacato da parte del giudice, possa conseguire la diminuzione di un terzo della pena ovvero la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione di anni trenta. Insomma, una manifestazione di volontà unilaterale, di parte, viene ad incidere in modo insindacabile sulla misura della pena e ciò sembra violare non solo l’art. 102 Cost. ..., ma anche l’art. 27 Cost., nella parte in cui questo, affermando che la responsabilità è personale, secondo autorevole dottrina, costituzionalizza l’art. 133 c.p. ed esige perciò che la pena, in concreto, sia ragguagliata alla gravità del fatto e alla capacità a delinquere del colpevole... la diminuzione di un terzo della pena sulla base della semplice richiesta dell’imputato sembra collidere con l’art. 27, comma 2, Cost., nella parte in cui questo sancisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Difatti, se in relazione ad un determinato reato commesso da un determinato imputato si considera rieducativa la pena fissata in una certa misura, tale non può essere considerata anche una pena inferiore di un terzo’’.


— 1314 — La questione, infatti, non si sarebbe soltanto posta sotto un profilo di equità sostanziale ma anche sotto un profilo di equità processuale: in altri termini, non soltanto non avrebbero potuto accedere al rito abbreviato i soggetti colpevoli di aver commesso un reato punibile con la pena dell’ergastolo (e, dunque, soggetti che non avrebbero potuto beneficiare della riduzione della pena), ma non avrebbero potuto accedervi neanche quei soggetti che, pur essendo estranei al reato punito con la pena dell’ergastolo, lo avessero richiesto nella ragionevole speranza di essere assolti. L’erroneo approccio ermeneutico in chiave colpevolista al rito abbreviato ha determinato una scarsa attenzione verso la posizione di quel soggetto che, pur imputato di un reato siffatto, celebrando il rito abbreviato, consegue l’interesse ad essere giudicato in termini ragionevoli sia perché fiducioso in una pronuncia di assoluzione sia perché, qualora non gli fosse consentito il rito alternativo, sarebbe probabilmente costretto a passare lunghi periodi di tempo in custodia cautelare, in attesa del giudizio dibattimentale. È evidente, dunque, che questa era una situazione cui doveva porsi riparo. Sotto altro profilo, la nuova normativa ha il pregio di dissolvere anche i dubbi di costituzionalità che la pena dell’ergastolo ha sempre posto con riferimento al principio dei fini rieducativi della pena (art. 27, comma 3, Cost.). L’analisi della prospettata questione di costituzionalità, tuttavia, non può esaurirsi senza che si dia contezza dell’ulteriore modifica legislativa che, proprio in relazione all’ammissibilità del giudizio abbreviato con riferimento ai reati punibili con la pena dell’ergastolo, ha distinto quelli punibili con la pena dell’ergastolo puro e semplice da quelli punibili con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno. Il problema era sorto avendo riguardo all’art. 72 c.p. alla cui stregua ‘‘al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa la pena dell’ergastolo, si applica la detta pena con l’isolamento diurno da sei mesi a tre anni. Nel caso di concorso di un delitto che importa la pena dell’ergastolo, con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee per un tempo complessivo superiore a cinque anni, si applica la pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno per un periodo di tempo da due a diciotto mesi’’. In effetti, la nuova normativa sul rito abbreviato non si era avveduta della distinzione sussistente tra le ipotesi di ergastolo puro e semplice e quelle contemplate dall’art. 72 c.p., con la conseguenza che, nella prassi giudiziaria, erano insorti vari dubbi circa la possibilità di sostituire con la pena della reclusione di anni trenta anche l’ipotesi dell’ergastolo con isolamento diurno.


— 1315 — A dissipare ogni perplessità, è così intervenuto l’art. 7 l. 19 gennaio 2001, n. 4 che, convertendo in legge l’art. 7 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, ha sancito come l’espressione ‘‘pena dell’ergastolo’’ deve intendersi riferita alla sola pena dell’ergastolo senza isolamento diurno. All’art. 442, comma 2, è stato quindi aggiunto un ulteriore periodo alla cui stregua ‘‘alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo’’ (12). Con tale normativa, pertanto, si è introdotta la possibilità che taluni imputati, pur giudicati nelle forme del rito abbreviato, vengano condannati con la pena dell’ergastolo. Tale disposizione, pur apparendo utile ai fini della necessaria distinzione tra le due forme di ergastolo, potrebbe porre un ulteriore problema con riferimento alla equiparazione delle due differenti ipotesi di ergastolo con isolamento diurno previste dai primi due commi dell’art. 72 c.p. Ed infatti, l’imputato che abbia commesso più delitti, tutti puniti con la pena dell’ergastolo e l’imputato che, oltre al delitto punibile con la pena dell’ergastolo, ne abbia commesso altri che, invece, siano complessivamente punibili con pena detentiva superiore a cinque anni di reclusione, avranno il medesimo trattamento sanzionatorio. La qual cosa, evidentemente, potrebbe comportare problemi di costituzionalità con riferimento al principio di uguaglianza. 3. Sicuramente connessa alla problematica concernente l’ammissibilità del rito abbreviato ai delitti punibili con la pena dell’ergastolo è la questione di costituzionalità concernente il principio di legalità, sancito dall’art. 25, comma 2, Cost. Nel dettaglio, il dubbio di legittimità costituzionale è stato posto in ragione del fatto che l’imputato potrà essere punito con una pena detentiva ridotta di un terzo ovvero con la pena di anni trenta di reclusione invece dell’ergastolo (ovvero ancora con l’ergastolo semplice invece dell’ergastolo con isolamento diurno) sol che decida o no di richiedere il giudizio abbreviato. Nel caso, poi, in cui decida di richiedere il rito abbreviato condizionato ad un’integrazione probatoria, potrà godere dei benefici anzidetti solo se il G.u.p. ritenga che le prove richieste siano necessarie ai fini della decisione e compatibili con le finalità di economia processuale del giudizio alternativo. In tali circostanze, appare impossibile prevedere quale pena potrà essere irrogata con riferimento ad una determinata fattispecie delittuosa in quanto l’applicazione di una pena piuttosto che di un’altra verrebbe a di(12) Al riguardo, vgs. SANTORO, Ergastolo con isolamento: il rebus delle pendenze, in Guida al diritto, 2001, 4, p. 59 ss.


— 1316 — pendere o da una scelta discrezionale dell’imputato ovvero da una valutazione altrettanto discrezionale del giudice dell’udienza preliminare. Occorre, pertanto, verificare se tale normativa possa ritenersi compatibile con l’art. 25, comma 2, Cost., tenendo comunque presente che l’incertezza sulla pena è sempre pro reo, nel senso che la mancata celebrazione del rito abbreviato (per l’uno o per l’altro motivo) potrà al massimo importare la preclusione di una riduzione di pena e non già un aggravamento di quella prevista dal codice. Al riguardo, la dottrina processuale — richiamando quella sostanziale — ha spiegato come i principi di tassatività ed irretroattività della legge penale — fissati dall’art. 25, comma 2, Cost. — sono stati posti proprio a garanzia del cittadino di fronte a possibili arbitrii del potere esecutivo ovvero di quello giudiziario, sempre che ‘‘l’esigenza di garanzia rimanga salva non per il singolo ma per ‘la generalità dei cittadini che entrano in rapporto con il potere punitivo’ (Bricola) o che, a nostro avviso, possono entrare in rapporto. Di conseguenza, alla stregua di questi rilievi, l’indeterminatezza della fattispecie idonea a provocare la riduzione di un terzo della pena o la sostituzione della pena di trenta anni di reclusione all’ergastolo non sembra conforme alla obbiettiva esigenza di garanzia sopra indicata’’ (13). Sotto questo profilo, la Consulta, già riconoscendo l’adeguato rango costituzionale al principio nulla poena sine lege, si è dimostrata sensibile ai vizi di indeterminatezza nella previsione delle sanzioni penali ed ha, per esempio, ritenuto che un margine eccessivo tra il minimo e il massimo di pena edittale stabilito per un reato può importare la violazione del principio di legalità. In particolare, avuto riguardo all’art. 122 c.p.m.p. che importava la pena della reclusione militare semplicemente ‘‘non inferiore a due anni’’ (14), la Corte costituzionale ha stabilito che ‘‘il principio di legalità della pena, già stabilito dall’art. 1 del codice penale, costituzionalmente garantito dall’art. 25, comma 2, della Costituzione (sentenza n. 15 del 1962) non impone al legislatore di determinare in misura fissa e rigida la pena da irrogare per ciascun tipo di reato. Ma anche il suddetto potere discrezionale del giudice, volto all’individualizzazione della sanzione, deve trovare nella legge i suoi limiti e i suoi criteri direttivi... il principio di legalità richiede anche che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p. e (13) Così, LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 2000 (3a ed.), p. 397 ss. (14) Peraltro, considerando il rinvio alla norma generale dell’art. 26 c.p.m.p., il reato di ‘‘Violata consegna da parte di militare preposto di guardia a cosa determinata’’ poteva essere punito con la pena della reclusione militare massima di anni ventiquattro.


— 1317 — che manifestamente risulti non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta. Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario...’’ — concludeva, pertanto, la Corte, stabilendo che — ‘‘...È, quindi, violato il principio di legalità della pena, posto che tale principio, è si compatibile con una regolata discrezionalità giudiziale, ma non con l’arbitrio del giudice’’ (15). Con tale pronuncia, la Consulta ha sicuramente posto il problema del carattere necessariamente determinato della pena; senonché, non è chi non veda che il caso portato all’attenzione dei giudici costituzionali è sicuramente diverso da quello oggetto delle presenti note in quanto la possibile oscillazione da due a ventiquattro anni di reclusione militare pone problemi sicuramente più allarmanti rispetto a quelli che potrebbe porre la riduzione di un terzo della reclusione tout court (ovvero della sostituzione dell’ergastolo ad anni trenta di reclusione), anche in ragione del fatto che il giudice del rito abbreviato dovrebbe, al più, limitarsi a ridurre (e non ad aumentare) la pena detentiva prevista dal legislatore. Ciò posto, tenendo anche presente che la riduzione in parola è prevista dal legislatore in misura fissa (e non applicata arbitrariamente dal giudice), il G.u.p., pur muovendosi nell’ambito di una pena relativamente determinabile (e non già determinata), non gode di quella eccessiva discrezionalità censurata correttamente dalla Corte costituzionale. Nei limiti di cui sopra, tuttavia, restano salvi i dubbi di legittimità costituzionale in ordine all’art. 25, comma 2, Cost. (16). 4. Un’altra ipotesi di illegittimità costituzionale era stata prospettata — relativamente all’art. 27, comma 2, Cost. (nonché al nuovo art. 111, comma 4, Cost.) — in ordine alla circostanza per cui qualora il giudizio abbreviato fosse stato disposto senza che nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare, precedentemente all’ammissione del rito, fossero state assunte prove in contraddittorio nelle forme dell’incidente probatorio, l’eventuale sentenza di condanna dell’imputato si sarebbe fondata esclusivamente su elementi di prova raccolti inaudita altera parte dal pubblico ministero, contrariamente al principio dell’art. 27, comma 2, Cost. che, sancendo la colpevolezza dell’imputato solo una (15) Così, Corte cost. 15-24 giugno 1992, n. 299, in Giur. cost., 1992, p. 2257 ss., con nota di MAIZZI (p. 4429 ss.), Limiti edittali della pena e principio di legalità: a proposito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.m.p. (16) Sul problema della determinatezza della pena anche nel caso del concorso formale eterogeneo e nella continuazione eterogenea dei reati, vgs. VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Utet, Torino, 1994, p. 278 ss.


— 1318 — volta che sia stato condannato definitivamente, presuppone che la condanna definitiva sia basata su prove alla cui formazione lo stesso imputato abbia potuto partecipare, di guisa che l’accertamento della responsabilità possa ritenersi pieno. Tale principio, peraltro, è stato reso più esplicito dal nuovo art. 111, comma 4, Cost. che ha previsto che la formazione della prova avviene nel contraddittorio delle parti. Al riguardo, tuttavia, non va dimenticato che la l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, introducendo anche l’art. 111, comma 5, Cost., ha riconosciuto rango costituzionale anche al principio per cui ‘‘la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita’’ (17). Conformemente, la Consulta, con la sentenza n. 115 del 9 maggio 2001 (18), ha ritenuto che ‘‘il fondamento del giudizio abbreviato sta, appunto, nella utilizzazione probatoria — previo consenso dell’imputato, implicito nella richiesta del rito speciale — degli atti legittimamente assunti nel corso delle indagini preliminari: al riguardo, è sufficiente ricordare che l’art. 111, comma 4, Cost. ha enunciato il principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale, ma ha poi espressamente previsto il consenso dell’imputato tra i casi di deroga al principio stesso (comma 5)’’. Ma, a parte la nuova, espressa previsione costituzionale, può dirsi che la questione, anche prima dell’introduzione dell’art. 111, comma 5, Cost., non appariva particolarmente fondata atteso che il principio del contraddittorio nasce fondamentalmente come garanzia dell’imputato; garanzia che appare (ed appariva) sicuramente rinunciabile qualora lo stesso imputato confidi nella dimostrazione della propria estraneità attraverso il materiale probatorio raccolto unilateralmente dal pubblico ministero. Il rito speciale, dunque, sotto questo profilo, non poteva porre problemi di costituzionalità in quanto originava (ed origina tuttora) da una richiesta dell’imputato che, con la presentazione dell’istanza, implicitamente dichiara di rinunciare alla formazione della prova nelle forme del contraddittorio (e non all’esercizio del diritto di difesa lato sensu inteso). (17) Al riguardo, ORLANDI, Commenti articolo per articolo della legge Carotti, in Legis. penale, 2000, p. 441, ha ritenuto che l’introduzione dell’art. 111, comma 5, Cost. ‘‘si spiega proprio con l’intenzione di far salvi i riti speciali deflattivi del dibattimento’’. (18) Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, in Guida al diritto, n. 21 del 2 giugno 2001, p. 55 ss., con nota di BRICHETTI, Coerenti con la natura del rito speciale i limiti all’intervento del pubblico ministero; in Giur. cost., 2001, p. 917 ss., con nota di GARUTI, La Corte costituzionale promuove la struttura del ‘‘nuovo’’ rito abbreviato, e di ANNUNZIATA, In tema di atti utilizzabili nel rito abbreviato. Il principio enunciato nella sentenza n. 115 è stato ribadito nelle successive ordinanze nn. 425 e 427 del 6-21 dicembre 2001 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2001, p. 4019 ss.


— 1319 — Nel giudizio abbreviato, pertanto, gli elementi di prova assurgono a prove vere e proprie tant’è che il G.u.p., decidendo a norma degli artt. 529 e ss., deve dare conto in motivazione anche degli elementi probatori su cui ha fondato la sua decisione (risulta dunque applicabile lo stesso art. 546, lett. e), c.p.p.) (19). Sul tema, peraltro, la Corte Costituzionale ha confermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità degli artt. 438, comma 5 e 442 comma 1-bis, c.p.p. anche nella parte in cui consentono che la colpevolezza dell’imputato possa essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi si è volontariamente sottratto all’interrogatorio dell’imputato o del suo difensore. Al riguardo, era stata sollevata questione di costituzionalità dall’imputato che, richiesto il giudizio abbreviato, aveva condizionato l’ammissione del rito all’audizione di persone imputate in un procedimento connesso che, rese dichiarazioni accusatorie nel corso delle indagini preliminari, si erano avvalse della facoltà di non rispondere nel corso dell’udienza preliminare. Si era, dunque, sospettato della legittimità dell’art. 442, comma 1bis, c.p.p. che, consentendo l’utilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie anche laddove i dichiaranti, nel successivo rito abbreviato, si fossero avvalsi della facoltà di non rispondere, contrastava con l’art. 111, comma 4, Cost. in base al quale ‘‘la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore’’. Il giudice remittente, in sostanza, aveva ritenuto che l’imputato richiedente il giudizio abbreviato condizionato dia un consenso solo parziale all’utilizzazione degli atti del fascicolo del pubblico ministero: consenso che non si estenderebbe agli atti corrispondenti alla prova che l’imputato intende far assumere in contraddittorio. Considera, al riguardo, la Consulta che ‘‘la premessa fondante il quesito di costituzionalità appare... inconciliabile con il disposto dello stesso art. 438, comma 5, c.p.p. (come sostituito dall’art. 27 l. 16 dicembre 1999, n. 479), il quale... prevede espressamente che, nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionata, resta comunque ferma l’utilizzabilità a fini di prova ‘degli atti indicati nell’art. 442, comma 1-bis’, dello stesso codice, e dunque, in primis, degli atti del fascicolo del pubblico ministero: tanto che, coerentemente, la norma impugnata parla di ‘integrazione probatoria’, rimarcando così, anche sul piano terminologico, il carattere aggiuntivo (‘integrazione’) — e non già sostitutivo, rispetto agli atti del predetto fascicolo — della prova che l’imputato intende far assumere nell’u(19) In tal senso, vgs. LOZZI, Il giudizio abbreviato, in questa Rivista, 2000, p. 461.


— 1320 — dienza preliminare... a fronte di tale inequivoco dato normativo, è dunque di tutta evidenza come, nel momento in cui formula richiesta di giudizio abbreviato, sia pure ‘condizionata’, l’imputato — come ‘contropartita’ ad una riduzione di pena nel caso di condanna — accetta l’utilizzabilità, ai fini della decisione di merito, dell’intero materiale probatorio raccolto nelle indagini preliminari fuori dal contraddittorio tra le parti, senza alcuna eccezione’’ (20). La decisione della Consulta sembra condivisibile non soltanto con riferimento alla circostanza per cui il consenso che l’imputato presta in relazione all’utilizzabilità degli atti non può che essere generale ma anche perché condizione di ammissione del giudizio abbreviato (e, dunque, della valutazione del G.u.p. a norma dell’art. 442 c.p.p.) non è l’espletamento effettivo della prova integrante ma semplicemente la sua ammissione. Certo, non è chi non veda una leggera contraddizione nel sistema laddove si consideri che, in casi simili a quelli esaminati dalla Corte costituzionale, il G.u.p. è costretto a decidere senza avere assunto quella prova che lui stesso, nell’ammettere il giudizio abbreviato, aveva ritenuto ‘‘necessaria ai fini della decisione’’. Tale contraddizione, tuttavia, sembra contenersi nel momento in cui, come nel caso di specie, la prova richiesta non abbia i connotati dell’essenzialità: l’audizione degli imputati in procedimento connesso, infatti, era stata già espletata nel corso delle indagini preliminari e l’imputato, richiedendo il giudizio abbreviato, aveva prestato il proprio consenso affinché entrasse nel patrimonio cognitivo del G.u.p. ai fini della decisione. 5. Differente è, invece, la questione di costituzionalità concernente l’eventuale contrasto della disciplina del giudizio abbreviato con l’art. 25, comma 1, Cost., laddove si consideri che il giudice dell’udienza preliminare andrebbe a sostituirsi al giudice dibattimentale che, in taluni casi, potrebbe essere un giudice collegiale. In particolare, la normativa relativa al giudizio abbreviato renderebbe incerta la predeterminazione del giudice in quanto la figura del giudice dibattimentale (eventualmente collegiale e connotato anche dalla presenza di giudici popolari), potrebbe essere sostituita dal giudice dell’udienza preliminare sol che lo decida l’imputato — nel caso di giudizio abbreviato c.d. secco — ovvero sol che il G.u.p. renda una valutazione positiva ai sensi dell’art. 438, comma 5, c.p.p. — nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato ad un’integrazione probatoria —. In effetti, se si pone attenzione alla sentenza della Corte costituzionale n. 82 del 1971 (21), può considerarsi come la Consulta avesse con(20) Corte cost., ord. 12-27 luglio 2001, n. 326 in Giur. cost., 2001, p. 2606. (21) Corte cost., 26 aprile 1971, n. 82, Buttazzo, in Giur. cost., 1971, p. 700.


— 1321 — sentito la possibilità di modificare la competenza del giudice predeterminato solo in presenza di ‘‘fattispecie preventivamente descritte dalla legge con delimitazioni sufficienti ad escludere un’illimitata discrezionalità’’, di talché ‘‘la scelta del giudice venga effettivamente e direttamente a dipendere, in via generale, da una norma giuridica e non da una scelta operata, in concreto, da qualsivoglia soggetto diverso dal legislatore’’. Al riguardo, non potendosi non concordare sul fatto che tanto la scelta dell’imputato di richiedere il rito abbreviato quanto quella del G.u.p. di concederlo — nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5, c.p.p. — sembrano affatto discrezionali e non vincolate ad alcuna previsione normativa, si dovrebbe ritenere che la disciplina concernente il rito abbreviato, quale fattispecie derogatoria alla competenza del giudice predeterminato, importa sicuramente seri dubbi di legittimità costituzionale. Senonché, va allo stesso modo considerato come la ratio principale dell’art. 25, comma 1, Cost. risieda nella garanzia del singolo cittadino di evitare di essere giudicato da un giudice costituito ad hoc. Ciò posto, l’ipotesi del cittadino che, coscientemente, chieda di essere ammesso al giudizio abbreviato attraverso un’esplicita dichiarazione di volontà sicuramente supera — almeno sotto questo profilo — il problema di costituzionalità sopra prospettato. Sotto altro profilo, più recentemente, la Corte costituzionale ha avuto modo di sottolineare come ‘‘il principio della precostituzione per legge del giudice naturale è leso soltanto quando il giudice è designato in modo arbitrario e ‘a posteriori’, oppure direttamente dal legislatore in via di eccezione singolare alle regole generali, ovvero attraverso atti di soggetti ai quali sia attribuito il relativo potere in violazione della riserva assoluta di legge stabilita dall’art. 25, comma 1, Cost., ma non anche qualora l’identificazione del giudice competente sia operata dalla legge sulla scorta di criteri dettati preventivamente, oppure con riferimento ad elementi oggettivi capaci di costituire un ‘discrimen’ della competenza o della giurisdizione dei diversi organi giudicanti’’ (22). Ciò nondimeno, si è osservato che ‘‘a prescindere dal problema della disponibilità del diritto sancito a tutela del cittadino, il giudice naturale è nato ‘come un pilastro portante di un sistema basato sulla contemporanea tutela di valori relativi al singolo cittadino ed all’organizzazione giudiziaria’ e, quindi, giustamente si osserva come la precostituzione del giudice ‘può al tempo stesso assicurare le parti dall’arbitrio e la magistratura da violazioni concrete della propria indipendenza interna’ ’’ (23). Sotto un angolo visuale simile, ‘‘potrebbero riconoscersi prefigurate (22) Corte cost. (ord.), 20 maggio 1998, n. 176, Bernardini c. Anas, in Riv. Corte conti, 1998, fasc. 3, p. 284. (23) In tal senso, NOBILI, citato da LOZZI, Il giudizio abbreviato, in questa Rivista, 2000, p. 464.


— 1322 — nel principio contenuto nell’art. 25, comma 1, ben due posizioni giuridiche soggettive, parallele, la cui titolarità competerebbe nell’un caso al cittadino, nell’altro al soggetto che esercita la giurisdizione... nella seconda si avrebbe una esplicazione delle note di indipendenza e di imparzialità, che essenziali alla stessa nozione di giurisdizione verrebbero rese più certe con l’attribuire la titolarità al soggetto giudicante non dell’astratto diritto all’esercizio della sua funzione, ma del diritto di esercitarla in concreto cioè in relazione ad un affare giurisdizionale attribuito al medesimo preposto all’ufficio in virtù del realizzarsi dell’astratta fattispecie prevista dalla norma attributiva di competenza’’ (24). Se, dunque, nei beni giuridici tutelati dalla norma costituzionale va ricompreso anche l’esercizio in concreto della giurisdizione da parte del giudice, la giustificazione fornita, consistente nella mancata lesione della garanzia del singolo imputato richiedente il giudizio abbreviato, non sarebbe teoricamente sufficiente a far venire meno tutti i dubbi di legittimità costituzionale sopra prospettati (25). 6. Altro profilo di legittimità costituzionale riguarderebbe il nuovo assetto del rito abbreviato con riferimento all’art. 101, comma 2, Cost. (26). A tal proposito, si è paventato un dubbio di costituzionalità in ordine alla necessità che la decisione del giudice — sia in ordine all’ammissione del giudizio abbreviato sia in ordine alla quantificazione della pena da applicare in caso di condanna — dipenda da una semplice richiesta dell’imputato: circostanza questa che lederebbe la funzione giurisdizionale che, per espressa previsione costituzionale, è subordinata esclusivamente alla legge (27). (24) Così DE LISO, ‘‘Naturalità’’ e ‘‘precostituzione’’ del giudice, nell’art. 25 della Costituzione, in Giur. cost., 1969, p. 2701. (25) A tali conclusioni perviene LOZZI, Il giudizio abbreviato, loc. cit. (26) Dubbi, in tal senso, vengono espressi da BONZANO, Note critiche sul nuovo giudizio abbreviato, in Giur. merito, 2000, p. 735 ss., secondo il quale ‘‘vincolare il giudice alle scelte dell’imputato significa, inoltre, impedirgli di vagliare la congruità della riduzione di pena rispetto al singolo caso concreto: così, il giudice non è più soggetto (soltanto) alla legge, ma alla insindacabile volontà dell’imputato’’. (27) In tal senso NEGRI, op. cit., p. 464, per il quale ‘‘prende corpo il sospetto che una disciplina così concepita contrasti con il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.): l’imputato, con la propria scelta, determina in concreto la cornice edittale del reato che gli viene contestato, e addirittura la misura della sanzione (pari a trent’anni di reclusione) quando il giudice dovrebbe applicare la pena dell’ergastolo’’. Proprio in relazione a tale disciplina (anche se con riferimento all’art. 102, comma 1, Cost.), ha sollevato una questione di costituzionalità il G.u.p. di Bologna, 19 gennaio 2000, Majid, loc. cit., in riferimento agli artt. 438, comma 1 e 2 e 442, comma 2 ‘‘nelle parti in cui consentono che l’imputato a seguito di richiesta non soggetta ad alcuna verifica da parte del giudice consegua la riduzione di un terzo della pena’’. A questo proposito, a commento del-


— 1323 — Perplessità, in tal senso, sono state prospettate anche dalla dottrina più autorevole (28). Senonché, sembra si possa concordare con quella parte della dottrina che ha posto in rilievo la soggezione del giudice non soltanto alla legge penale sostanziale ma anche alla legge penale processuale. Se, infatti, il legislatore ha conferito una facoltà di tale portata all’imputato, di talché una sua semplice richiesta può incardinare un rito alternativo, indipendentemente dalla valutazione del pubblico ministero e dello stesso giudice, non potrebbe sussistere alcun dubbio di legittimità in quanto il magistrato è soggetto anche a tali previsioni normative (29). l’ordinanza del G.u.p. di Bologna, COLOSIMO e RIGHI, op. e loc. cit., ritengono che ‘‘la scelta della forma del giudizio, rimessa in via esclusiva a una — una sola — delle parti processuali senza alcuna possibilità per il giudice di valutare la congruità del rito richiesto, sia rispetto agli interessi delle altre parti in causa, sia rispetto all’esigenza di un armonico esercizio della giurisdizione, sembra contrastare con l’art. 102 Cost. nella parte in cui sancisce che la funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici ordinari e, quindi, implicitamente, postula l’illegittimità di qualunque forma, anche mediata, di condizionamento da parte di soggetti diversi. Il controllo del processo da parte del giudice è, infatti, un elemento essenziale e inderogabile della funzione giurisdizionale, garanzia di tutte le parti, inconciliabile con il conferimento a una sola di esse di un così rilevante potere sulla forma e sulle modalità di definizione del processo’’. (28) CORDERO, Procedura penale, Giuffré, Milano, 2000 (5a ed.), p. 981, secondo il quale ‘‘quest’automatismo ripugna al sistema (incardinato sull’art. 101, comma 2, Cost.)’’. (29) In tal senso, vgs. ORLANDI, Commenti articolo per articolo della legge Carotti, in Legis. penale, 2000, 2/3, p. 439 ss., secondo il quale ‘‘è stato peraltro chiarito dalla Corte costituzionale, con la sent. n. 313/1990 (in Giur. cost., 1990, p. 1981), che il primato della legge penale si realizza anche assoggettando il giudice ad una normativa processuale capace di influire sul merito della decisione: il che vuol dire che non sono di per sé in contrasto con l’art. 101, comma 2, Cost. le disposizioni di legge processuale, le quali offrono sconti di pena a chi accetta di essere giudicato prima del dibattimento... stando alla citata sent. n. 313/1990... l’art. 101, comma 2, Cost... non sancisce la soggezione del giudice soltanto alla legge sostanziale, ma anche a quella processuale... La nuova disciplina del giudizio abbreviato sembra quindi uscire indenne — sotto questo profilo — da possibili censure di legittimità, fondate sui valori di autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale’’. Qualche perplessità — in epoca immediatamente successiva all’introduzione del nuovo codice di procedura penale — veniva sollevata, con particolare riferimento al patteggiamento, da LOZZI, Giudizi speciali e deflazione del dibattimento, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, vol. IV, Utet, Torino, p. 757 ss., il quale riteneva che ‘‘né sarebbe convincente l’obiezione, secondo cui non risulterebbe violato l’art. 101, comma 2, Cost. posto che è la legge, in deroga a quanto previsto dall’art. 133 c.p., a privare il giudice, nell’ipotesi di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., del potere di determinazione della pena... è dato osservare come la ratio sottesa all’art. 101, comma 2, Cost. risulti violata allorquando il giudice venga privato di un potere attribuitogli dalla legge non in virtù di una situazione rigorosamente predeterminata da una successiva disposizione stabilita in deroga, bensì a causa di un potere discrezionale attribuito dalla disposizione stessa ad altri soggetti. Il problema può forse superarsi con l’elaborazione di un concetto di giurisdizione... in cui si sottolinei la connotazione di terzietà del giudice non possa non subire condizionamenti da accordi delle parti in un processo di stampo accusatorio nel quale la volontà delle parti ha inevitabilmente un maggiore ambito di incidenza’’.


— 1324 — Ulteriore conferma di tale indirizzo ermeneutico è stata fornita proprio dalla Corte Costituzionale che, nella sentenza n. 115 del 9 maggio 2001, ha confermato la sussistenza di una piena ‘‘compatibilità tra le facoltà esercitate dalle parti — unilateralmente o previo accordo — in ordine alla scelta del rito ed alla determinazione della pena, e i principi, rispettivamente enunciati dagli artt. 101, comma 2, e 102, comma 1, Cost., della soggezione del giudice soltanto alla legge e dell’esclusività dell’esercizio della funzione giurisdizionale’’ (30). 7. Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale è stato sollevato con riferimento alla normativa in base alla quale il giudizio abbreviato — a meno che non vi sia il consenso di tutti gli imputati — debba essere celebrato in camera di consiglio e non in pubblica udienza. Il giudice remittente ha ritenuto che tale disciplina ‘‘sembra contrastare con l’art. 101 Cost., nella parte in cui questo sancisce che la giustizia è amministrata in nome del popolo, con l’art. 102 Cost. nella parte in cui è stabilito che la funzione giurisdizionale è esercitata dal giudice e, infine, l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. Infatti con la norma citata, la scelta fra l’udienza pubblica e quella camerale, scelta fondamentale per il corretto e trasparente esercizio della giurisdizione, viene sottratta al giudice e rimessa in modo esclusivo e insindacabile a una delle parti in causa’’ (31). Il problema si acuisce allorquando, nelle forme dell’abbreviato, si definisca un procedimento pendente per reati punibili con l’ergastolo. In tal caso, infatti, la garanzia della partecipazione del pubblico al giudizio verrebbe meno sia per la mancanza della giuria popolare (nell’ipotesi di reati di competenza della Corte d’assise) sia per la mancanza della pubblica udienza (32). (30) Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, loc. cit. In contrasto con le considerazioni della Consulta, GARUTI, op. e loc. citt., secondo il quale ‘‘queste argomentazioni se potevano tutt’al più valere nell’ambito di un sistema in cui il giudizio abbreviato risultava caratterizzato dal consenso del pubblico ministero e dal vaglio di ammissibilità del giudice, non sembrano invece condivisibili nel contesto attuale, ove l’accesso al rito abbreviato, concepito come autentico diritto dell’imputato, rimane privo di un adeguato strumento di selezione delle fattispecie meritevoli di conclusione anticipata. In altri termini, sembra che oggi l’imputato, con la propria scelta, sia in grado di determinare in modo arbitrario non solo la diminuzione della pena collegata al rito abbreviato, ma anche la cornice edittale del reato che gli viene contestato, con una sospetta violazione del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge’’. (31) G.u.p. presso il Tribunale di Bologna, 19 gennaio 2000, Majid, loc. cit. (32) Sul tema si era espresso, già parecchi anni or sono, TONINI, I procedimenti semplificati secondo il progetto preliminare, in Giust. pen., 1988, I, c. 449, per il quale la decisione secondo cui il rito abbreviato avrebbe dovuto essere confinato in camera di consiglio, piuttosto che in pubblica udienza ‘‘non pare ragionevole, poiché di fronte ad un’assoluzione ovvero ad una condanna per un reato punibile anche con l’ergastolo, l’opinione pubblica ha


— 1325 — Anche la dottrina si è fatta carico delle medesime preoccupazioni, ritenendo irragionevole una normativa in base alla quale il dissenso di un solo imputato sia sufficiente a negare il diritto alla pubblica udienza: ‘‘sarebbe opportuno rivederla, magari rovesciandola, sì da rendere pubblico il processo, anche se solo uno fra più imputati ne facesse richiesta; oppure imponendo la separazione dei giudizi, in modo da poter procedere ‘a porte chiuse’ per i soli imputati che preferiscono l’udienza non pubblica’’ (33). Particolare attenzione al tema in esame è stata dedicata anche dalla giurisprudenza di merito (34) che, pur non sollevando questione di costituzionalità (35), ha ritenuto la norma de qua affetta da illegittimità costituzionale. Nel dettaglio, richiamando le precedenti pronunce della Consulta (36) — in occasione delle quali si era ritenuto che le deroghe al principio di pubblicità potessero essere disposte soltanto a garanzia di beni di pari rilevanza costituzionale —, l’incostituzionalità della disciplina in esame è stata giustificata dalla circostanza per cui le argomentazioni con le quali la Corte ha, in precedenza, dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sul tema (37) appaiono oggi travolte dalla radicale innovazione introdotta dalla l. n. 479/1999. diritto di esercitare una funzione di controllo. Questo presuppone la presenza del pubblico all’udienza nella quale le parti prendono le loro conclusioni in base al materiale probatorio raccolto. La mancata pubblicità dell’udienza non rende possibile il concreto esercizio del diritto di cronaca e, quindi, di critica giudiziaria, che è riconducibile alla tutela dell’art. 21 della Costituzione e che costituisce, ancor prima, un principio fondamentale in una democrazia garantista’’. (33) Così ORLANDI, Commenti articolo per articolo della legge Carotti, in Legis. penale, 2000, p. 441 ss. (34) G.u.p. presso il Tribunale di Torino (est. Podda), ord. 16 febbraio 2001, inedita. (35) Il giudice, adottando tale soluzione, ha inteso aderire alle indicazioni della Corte costituzionale che, in precedenti occasioni (ord. n. 13/2000 e sentenza n. 356/1996), aveva invitato ‘‘i Giudici ad operare essi stessi le interpretazioni o precisazioni del sistema normativo risultante dalla legge e dalle integrazioni o precisazioni offerte dalla stessa Corte, senza più trasformare questioni interpretative in questioni di incostituzionalità’’. (36) Sono state, in particolare, richiamate le seguenti sentenze: Corte cost., 16 febbraio 1989, n. 50, Ciana, in Giur. cost., 1989, p. 253 ss., con nota di RUFFINO, Tendenze evolutive del sindacato incidentale di legittimità costituzionale fra tecniche di giudizio e clausole decisorie extra ordinem (in margine alla vicenda della pubblicità dei processi tributari) e di PISANESCHI, Determinazione dei limiti alla retroattività della decisione costituzionale di accoglimento: potere del giudice costituzionale o del giudice ordinario?; Id., 24 luglio 1986, n. 212, Molajoni, ivi, 1986, p. 1637 ss.; Id., 10 febbraio 1981, n. 16, Montanelli, e 10 febbraio 1981, n. 17, Bassetto, in ivi, 1981, p. 83 ss.; Id., 2 febbraio 1971, n. 12, Albanese, in ivi, 1971, con nota di G. ZAGREBLESKY, La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura come giudice a quo: possibili implicazioni; Id., 14 aprile 1965, n. 25, Ardizzone, ivi, 1965, p. 241 ss., con nota di CRISAFULLI, In tema di limiti alla cronaca giudiziaria. (37) Al riguardo, vgs. Corte cost., 21 aprile 1994, Beduini, ord. n. 160, in Giur.


— 1326 — Al riguardo, si è ritenuto che ‘‘il volto del rito abbreviato è profondamente cambiato... sì che del rito introdotto nell’ormai lontano 1989 non è rimasto che il nome: ‘giudizio allo stato degli atti’... Tale definizione peraltro permane soltanto nella rubrica dell’art. 438 c.p.p., posto che in realtà il giudizio abbreviato non è (o per lo meno non è sempre) un giudizio allo stato degli atti, ma è soltanto il giudizio che si svolge nell’udienza preliminare, mentre non è nulla di meno rispetto al giudizio ordinario dibattimentale... è certamente rito speciale, nel senso che è alternativo al giudizio dibattimentale, ma è ormai il rito ordinario di primo grado, avente piena dignità di processo di merito, concludentesi con sentenza (di condanna o di assoluzione) equiparabile alla sentenza dibattimentale’’. Esaminando, poi, più da vicino il nuovo art. 441, comma 3, c.p.p., per cui il giudizio abbreviato si svolge in udienza pubblica solo se ne fanno richiesta tutti gli imputati, si è ritenuto che la disciplina ‘‘pare in palese contrasto non solo con l’art. 101, ma anche con l’art. 3 Cost. ...in primo luogo, si è dimostrato che la pubblicità dell’udienza è principio posto a garanzia non esclusiva del singolo, bensì a garanzia quantomeno congiunta del diritto del singolo e dell’interesse superiore alla corretta amministrazione della giustizia, nonché dell’interesse della collettività scossa dall’allarme sociale che suscita la commissione dei reati, specie se gravi, tanto che tutte le convenzioni internazionali che prevedono tale garanzia dal punto di vista del cittadino prevedono sempre accanto ad essa delle eccezioni determinate dalla tutela di beni di pari rilevanza costituzionale. Ciò che rende il sistema risultante dalla l. n. 479/1999 in contrasto con la Costituzione è anzitutto la previsione del ricorso alla pubblicità dell’udienza sempre e soltanto in presenza dell’unilaterale richiesta dell’imputato, quasi che il principio fosse stabilito esclusivamente a sua garanzia, senza la contemporanea previsione di eccezioni, che invece dovrebbero essere previste, come si dirà, anche nel caso in cui tutti gli imputati chiedano che si proceda nelle forme della pubblica udienza’’. In riferimento poi alla circostanza per cui la pubblicità del rito è disposta solo in presenza dell’accordo di tutti gli imputati, si è precisato che ‘‘la previsione viola... anche il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., atteso che non si comprende in base a quale superiore principio costituzionale debba prevalere la volontà dell’uno piuttosto che la volontà dell’altro, mentre la posizione del singolo imputato è assistita da identiche garanzie e ad essa deve essere apprestata identica tutela. Ritiene dunque questo giudice che la formalità di svolgimento dell’udienza preliminare non sia più applicabile all’attuale giudizio abbreviato e poiché ‘le disposizioni previste per l’udienza preliminare’ si osservano nel cost., 1994, p. 1218; Id., 27 luglio 1992, n. 373, Maffiotto ed altro, ivi, 1992, p. 2977; Id., 8 febbraio 1991, Donnarumma, n. 69, ivi, 1991, p. 496 ss.


— 1327 — giudizio abbreviato solo ‘in quanto applicabili’, giusta il disposto dell’art. 441, comma 1, c.p.p., ne consegue che, anche dal punto di vista della disciplina positiva, non sussiste alcun ostacolo all’individuazione della disciplina correttamente applicabile al caso concreto... Ed allora la soluzione per ricondurre a costituzionalità il sistema è lineare, ma obbligata: il giudizio abbreviato, che costituisce giudizio di merito di primo grado alternativo al giudizio dibattimentale, ma ordinario e non speciale, si svolge in camera di consiglio, tranne che ne facciano richiesta gli imputati ovvero sia disposto dal giudice in presenza di particolari circostanze giustificative a conclusione di un giudizio di bilanciamento comparativo dei molteplici interessi coinvolti in un processo penale. Per contro, il giudizio abbreviato si svolgerà in camera di consiglio, pur se richiesto da tutti gli imputati con udienza pubblica, quando vi siano ragioni di riservatezza o di tutela della parte offesa od altre ragioni di ordine pubblico o di sicurezza che impongano tale scelta’’. Sicuramente condivisibili appaiono le argomentazioni della giurisprudenza di merito soprattutto alla luce del ruolo che, a seguito della l. n. 479/1999, ha assunto il giudizio abbreviato. La semplificazione dell’accesso al rito alternativo, la facoltà di richiederlo anche per i reati punibili con l’ergastolo e la possibilità di procedere all’assunzione di prove sono tutti elementi alla luce dei quali sembra irragionevole non consentirne la pubblica celebrazione. Illogica, poi, appare la previsione in base alla quale la pubblicità risulta subordinata alla volontà del solo imputato (anzi, di tutti gli imputati), quando, invece, la norma costituzionale di riferimento è posta a presidio di un interesse completamente diverso. Il principio costituzionale in esame, infatti, intende tutelare la garanzia generale della corretta amministrazione della giustizia (da qui, la necessità della presenza del pubblico) e non quella del singolo imputato. Sotto questo profilo, peraltro, occorre ricordare come la Corte costituzionale — già nel 1990 — avesse negato che il principio della pubblicità potesse essere derogato da un accordo tra le parti. In particolare, esaminando la disciplina concernente il c.d. patteggiamento in appello, la sentenza n. 435 del 10 ottobre 1990 (38) aveva precisato che il giudizio d’appello potesse celebrarsi in camera di consiglio allorquando ‘‘l’impugnazione ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, la concessione delle circostanze attenuanti generiche o l’applicabilità di sanzioni sostitutive, o la concessione di benefici di legge’’. La mancanza della pubblicità, pertanto, poteva giustificarsi solo in ragione del fatto che fossero ‘‘in discussione questioni attinenti alla pena e (38) Corte cost., 10 ottobre 1990, n. 435, Aloia, in Foro it., 1992, I, c. 1011 e in Giur. cost., 1990, p. 2593 ss.


— 1328 — non anche alla responsabilità... ritenere che l’accordo tra le parti possa far travalicare tale limite significa supporre che il legislatore delegante abbia inteso derogare indiscriminatamente, nella materia degli appelli, al generale principio della pubblicità della trattazione del merito dei procedimenti penali, che ha rilievo fondamentale in quanto consente a qualunque cittadino di verificare le ragioni e i modi dell’amministrazione della giustizia’’. Sotto altro profilo, invece, preme ulteriormente rappresentare che l’attuale previsione — oltre ad essere inconferente con le garanzie sottese al principio generale della pubblicità — appare inconferente anche con riguardo alla ratio che giustifica le stesse deroghe al principio di pubblicità. Ed infatti, l’art. 472 c.p.p. prevede che si procede a porte chiuse non per salvaguardare la riservatezza dell’imputato, ma semmai quella delle persone offese (in particolar modo quando si tratta di minorenni), dei testimoni ovvero per motivi connessi alla tutela della segretezza di notizie d’interesse dello Stato o, ancora, per motivi di igiene pubblica, di ordine pubblico, ecc. Tutto ciò premesso, appare veramente sorprendente quanto osservato dalla Consulta che, con la pronuncia del 9 maggio 2001 (39), non pare essersi resa conto delle effettive problematiche sottese alla questione in esame. Al riguardo, infatti, si è limitata a ritenere che ‘‘la censura concernente il ‘diritto di veto’ dei coimputati alla celebrazione del processo in udienza pubblica è priva di rilevanza nel caso di specie. Per quanto riguarda, poi, l’ulteriore censura sollevata, in riferimento ai medesimi parametri, nei confronti della disciplina che affida esclusivamente all’imputato la scelta tra udienza pubblica e udienza camerale, va riaffermato che nel ‘giudizio abbreviato entrano in gioco interessi diversi che solo il legislatore può valutare comparativamente e bilanciare nell’ambito della sua discrezionalità’ (ordinanza n. 160 del 1994, nonché sentenza n. 373 del 1992)’’ (40). 8. Altra questione di legittimità costituzionale può essere prospettata in ordine alla circostanza per cui il riferimento normativo concernente il principio di economia processuale viene richiamato solo nell’ipotesi del giudizio abbreviato condizionato all’integrazione probatoria e non anche in relazione al giudizio abbreviato c.d. secco. In particolare, mentre l’art. 438, comma 5, c.p.p., con riguardo all’ipotesi condizionata, prevede che ‘‘il giudice dispone il giudizio abbreviato (39) Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, loc. cit. (40) Sul punto, si considerino le analoghe perplessità prospettate da GARUTI, op. e loc. citt.


— 1329 — se l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili’’, l’art. 441, comma 5, c.p.p., con riguardo all’ipotesi secca, stabilisce invece che ‘‘quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione’’. La norma in esame, posta in questi termini, oltre a suscitare disorientamenti in ragione della intrinseca, assoluta indeterminatezza (41), presenta ulteriori profili di irragionevolezza (42). A questo, si aggiunga che lo stesso dettato legislativo non ci aiuta a definire chiaramente la voluntas legis. Se da una parte, infatti, si è spinti a ritenere che il legislatore abbia (41) Al riguardo, vale riportare il pensiero di POTETTI, Mutazioni del giudizio abbreviato. In particolare il giudizio abbreviato condizionato (art. 438, comma 5, c.p.p.), in Cass. pen., 2001, p. 331 ss., secondo il quale ‘‘è sul piano della legittimità costituzionale che il criterio dell’economia processuale desta le maggiori perplessità, fondate o meno che siano. L’obiezione più evidente sta nella pressoché assoluta indeterminatezza del criterio in questione. Come si è correttamente osservato, la previsione dell’art. 438, comma 5, c.p.p., su tale punto, avrebbe potuto essere accettabile se si fosse trattato di una direttiva destinata ad una successiva specificazione. Viceversa, come criterio immediatamente operativo si rivela troppo generico e fumoso, e quindi tale da generare inevitabili disparità di trattamento per casi simili, in violazione dell’art. 3 Cost. È addirittura verosimile che la decisione del giudice, per tale aspetto, sia fortemente condizionata dalla concreta situazione del singolo ufficio giudiziario in cui opera il magistrato, e ciò finirebbe anche per avere qualche dignità di tesi (peggio sarebbe se il parametro finisse per essere quello della situazione lavorativa del singolo magistrato!), posto che l’economia processuale può essere anche intesa come parametro mobile, di incidenza maggiore nelle situazioni in cui il ‘servizio giustizia’ sia più inefficiente. Una tale impostazione è sicuramente inaccettabile sub art. 3 Cost.’’. In termini sostanzialmente analoghi, ORLANDI, in Compendio di procedura penale, a cura di Conso-Grevi, Cedam, Padova, 2000, p. 543 ss., il quale considera come il diritto alla prova dell’imputato nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato sia di fatto ‘‘subordinato all’opinione personalissima del giudice, visto che ogni magistrato ha una propria idea circa i tempi di espletamento del rito speciale; un’idea, inevitabilmente condizionata, peraltro, dal carico di lavoro dell’ufficio presso il quale il giudice opera, e che — proprio per il fatto di essere disancorata da parametri oggettivi idonei ad assicurare un trattamento uniforme dai vari casi — finirà con l’esporre gli imputati delle diverse circoscrizioni giudiziarie ad irragionevoli sperequazioni’’. (42) Rileva BONZANO, op. e loc. citt., che ‘‘le norme così interpretate destano profonde perplessità: se la richiesta è semplice, non importa quanto tempo occorra per reperire il materiale probatorio sufficiente a dirimere l’alternativa tra condanna e proscioglimento. Il giudice deve comunque disporre l’abbreviato, consentendo così all’imputato di lucrare uno sconto certo di pena, anche se ai fini della decisione fosse necessario, ad esempio, ascoltare cento testimoni, nominare un numero imprecisato di periti, disporre innumerevoli confronti, ricognizioni ed esperimenti, e così via. Al contrario, nel caso in cui la richiesta di integrazione probatoria provenga dall’imputato, il giudice potrebbe impedire l’accesso al rito abbreviato qualora ritenesse incerta la riduzione dei costi processuali. La scelta è invero stravagante: il legislatore ha usato due pesi e due misure, mentre le finalità deflattive proprie del rito abbreviato dovrebbero valere sempre, oppure mai; ma in tal caso il rito stesso non avrebbe più motivo di esistere’’.


— 1330 — volontariamente differenziato le due discipline — di talché, il principio di economia processuale dovrebbe osservarsi solo nell’ambito del giudizio abbreviato condizionato — dall’altra, potrebbe anche sostenersi che, nonostante il mancato espresso riferimento, il principio anzidetto debba essere osservato anche nell’ambito del rito abbreviato secco. Sotto il primo profilo, la giurisprudenza di merito, adottando il criterio dell’ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit, ha ritenuto che ‘‘l’omessa indicazione del limite della c.d. economia processuale nel potere d’integrazione probatoria attribuito al giudice dell’art. 441, comma 5, c.p.p. non sia stata una mera dimenticanza del legislatore, un mero lapsus nella redazione della legge, ma che invece si inserisca perfettamente e logicamente nella nuova disciplina del rito abbreviato, anche nel rispetto di evidenti principi costituzionali. Ritiene cioè lo scrivente che l’unico limite al potere d’integrazione probatoria del giudice ex art. 441, comma 5, c.p.p. sia la verifica della ‘necessità’ o meno ai fini del decidere degli elementi da assumere... alla luce del principio più volte sancito dalla Corte costituzionale secondo cui fine primario ed ineludibile del processo è la ricerca della verità’’ (43). Ma la ritenuta volontaria distinzione potrebbe giustificarsi anche sotto un altro punto di vista in quanto la normativa di riferimento è strutturata in maniera tale per cui le finalità di economia processuale, nell’ambito delle due tipologie di giudizio abbreviato, debbono essere valutate in fasi e per motivi differenti. Ed infatti, mentre nel giudizio abbreviato condizionato le cennate finalità rappresentano una condizione per l’ammissione stessa del rito (la valutazione circa la relativa compatibilità con le prove richieste è precedente all’ordinanza ammissiva), nel giudizio abbreviato secco, invece, le finalità di economia dovrebbero essere valutate soltanto per la definizione del giudizio, quando, cioè, il rito è stato già ammesso. Ciò posto, si potrebbe ritenere che l’espresso richiamo normativo al giudizio abbreviato condizionato sia stato giustificato — quale deterrente — dalla volontà di evitare che l’imputato potesse confidare nell’ammissione di un procedimento alternativo nel quale avrebbe goduto del diritto di acquisire prove anche ‘‘superflue o irrilevanti’’ che avrebbero così vanificato la natura stessa di rito deflattivo del dibattimento. In tal senso, quindi, subordinando l’ammissione del rito condizionato alla valutazione discrezionale circa le esigenze di economia processuale, si forniva al G.u.p. uno strumento idoneo a conseguire detta finalità. Diversamente, tali esigenze non si rinvengono nel giudizio abbreviato c.d. secco, non solo perché, in quest’ultimo, la decisione circa l’acquisizione di prove non ha alcuna implicazione con l’ammissione del rito ma, (43)

G.u.p. presso il Tribunale di Napoli, ord. 21 luglio 2000 (inedita).


— 1331 — semmai, con la sua definizione, ma anche perché le prove che potrebbero assumersi ai fini della decisione vengono stabilite direttamente dal giudice — a prescindere da un’istanza dell’imputato — in quanto ritenga gli possano consentire di decidere. Dal raffronto delle due discipline, emerge, dunque, una differenziazione alla cui luce potrebbe spiegarsi il mancato richiamo normativo dell’economia processuale nel giudizio abbreviato secco. Ma, la circostanza di questo mancato richiamo autorizzerebbe il giudice ad assumere qualsiasi prova in spregio al principio di economia processuale? Certamente, a fronte del necessario canone della decidibilità del procedimento, le pur importanti esigenze di economia non possono consentire che il G.u.p. emetta un provvedimento conclusivo, senza aver ritenuto decidibile il procedimento stesso. Al riguardo, anzi, verrebbe da dire che i profili di irragionevolezza — sotto questo angolo visuale — piuttosto che attraverso l’espressa estensione del principio di economia processuale al giudizio abbreviato secco, potrebbero venire meno attraverso la relativa eliminazione nell’ipotesi di richiesta condizionata. Senonché, il principio anzidetto — nell’ambito di tutti i giudizi speciali — rappresenta una caratteristica di portata così generale che sarebbe sorprendente negare con riferimento al giudizio abbreviato (sia nell’ipotesi condizionata che in quella secca). Peraltro, ad una più attenta lettura dell’art. 438, comma 5, c.p.p., emerge che mentre l’integrazione probatoria deve risultare ‘‘necessaria ai fini della decisione’’ — del singolo procedimento sottoposto all’esame del giudice, evidentemente — le finalità di economia processuale vengono richiamate con riguardo alla compatibilità che le medesime hanno con riferimento al rito abbreviato in generale (‘‘... finalità di economia processuale proprie del procedimento’’). Rebus sic stantibus, adottando un’interpretazione letterale, si potrebbe ritenere che se le finalità di economia processuale sono proprie del procedimento, non possono richiamarsi esclusivamente con riferimento alla fattispecie di giudizio abbreviato subordinato, ma devono connotare anche il giudizio abbreviato secco. A tal proposito, la sentenza n. 115/2001 della Corte costituzionale, accogliendo implicitamente tale interpretazione, ha inteso superare la questione prospettata in subiecta materia, ritenendo che l’economia processuale del giudizio abbreviato va principalmente apprezzata avendo quale termine di raffronto il giudizio ordinario, a prescindere dalle distinzioni che, sull’argomento, possono sussistere tra giudizio abbreviato secco e giudizio abbreviato condizionato. In particolare, si è ritenuto che ‘‘ove si debbano compiere valutazioni


— 1332 — in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina. Muovendosi in quest’ottica, non è neppure producente il confronto — anch’esso prospettato dai rimettenti — tra giudizio abbreviato ‘puro’, accompagnato dalla mera eventualità di integrazione probatoria disposta ex officio, e giudizio condizionato dalla richiesta dell’imputato di integrazione probatoria... nelle situazioni in cui è oggettivamente necessario procedere ad una anche consistente integrazione probatoria, non importa se chiesta dall’imputato o disposta d’ufficio dal giudice, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in dibattimento... anche se viene richiesta o disposta una integrazione probatoria, il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario continua dunque ad essere un carattere essenziale del giudizio abbreviato’’ (44). Al riguardo, tuttavia, un definitivo chiarimento legislativo non sembrerebbe inopportuno al fine di dirimere la quaestio circa la piena applicabilità del principio di economia processuale anche alla fattispecie del giudizio abbreviato secco. 9. Ulteriori perplessità — sotto un profilo di legittimità costituzionale — suscita il mantenimento, in seno al giudizio abbreviato, del divieto di appellabilità per il pubblico ministero delle sentenze di condanna che non abbiano modificato il titolo di reato, dovendosi peraltro considerare come la facoltà di appello (anche fuori dai limiti consentiti dall’art. 443, comma 3, c.p.p.) non avrebbe intaccato le esigenze di economia processuale, proprie del giudizio alternativo. Un dubbio di legittimità costituzionale della nuova normativa non può non prospettarsi — quanto meno con riferimento all’art. 112 Cost. — in ordine alla circostanza per cui, venuto meno il necessario consenso all’introduzione del rito, la facoltà di appellare le sentenze di condanna viene preclusa al pubblico ministero senza un apparente motivo. Al riguardo, prima di approfondire la questione in esame, occorre ricordare come la Consulta abbia già avuto modo di occuparsi (anche se nell’ambito del giudizio ordinario) dei profili di costituzionalità dell’appello del pubblico ministero proprio con riferimento all’art. 112 Cost. In particolare, benché nelle precedenti occasioni la questione concernesse la ritenuta incostituzionalità dell’appello incidentale del pubblico ministero, avuto riguardo al suo carattere discrezionale, le argomentazioni (44)

Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, loc. cit.


— 1333 — allora spese possono essere proficuamente esaminate anche con riferimento al dubbio di costituzionalità messo in luce nelle presenti note. Nel dettaglio, la sentenza n. 177 del 17 novembre 1971 (45) aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 515, comma 4, c.p.p. (cod. abr.), ritenendo sussistere la violazione dell’art. 112 Cost. in quanto ‘‘il potere d’impugnazione... è un’estrinsecazione ed un aspetto dell’azione penale, un atto conseguente — obbligatorio e non discrezionale — al promovimento dell’azione penale...: vale a dire un atto dovuto, che si concreta nella richiesta al giudice superiore di emettere una diversa decisione, più conforme alla pretesa punitiva, e di rimuovere il pregiudizio che, a criterio dell’organo dell’accusa, la precedente statuizione abbia arrecato alla realizzazione di essa. Un carattere tale da non consentire che il pubblico ministero (quale istituto), titolare di questo potere-dovere, tenga un comportamento contraddittorio: quello di lasciar scadere i termini per l’impugnazione, manifestando implicitamente il convincimento che l’esercizio dell’azione penale non debba esprimersi anche nella proposizione dell’appello; e di esperire successivamente il gravame, fuori dei termini ordinari stabiliti dal codice per il suo appello principale: e ciò allo scopo pratico di contenere l’iniziativa dell’imputato, che è quanto dire di ostacolarne l’esplicazione del diritto di tutela giurisdizionale e di difesa giudiziaria (ex art. 24, commi 1 e 2, Cost.)’’. Diversamente opinando, con la sentenza n. 280 del 1995 (46), la Consulta era ritornata sulle proprie decisioni, non ravvisando alcuna illegittimità dell’appello incidentale del pubblico ministero (art. 595 c.p.p.) con riferimento all’art. 112 Cost., sulla base della considerazione per cui il principio dell’obbligatorietà riguardava esclusivamente l’inizio dell’azione penale e non la sua prosecuzione. In particolare, si precisava che ‘‘... il doppio grado di giurisdizione, così diffuso e tradizionale nell’ordinamento italiano, non è oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, sì che ogni scelta circa l’adozione o meno dell’appello incidentale nel processo penale non può che essere riservata al legislatore... Nei lavori preparatori Cost. ..., non è dato rinvenire la benché minima traccia di un collegamento tra obbligo di esercitare l’azione penale e potere d’impugnazione — in particolare potere d’appello — del pubblico ministero quasi che quest’ultimo fosse un’estrinsecazione od una conseguenza necessaria, e pertanto configurante un nuovo dovere, del dovere di esercitare l’azione penale... si deve rilevare che tutto il sistema delle impugnazioni penali, ed in particolare dell’appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto il codice vigente, depone nel senso che il (45) Corte cost., 17 novembre 1971, n. 177, Burnengo, in Giur. cost., 1971, p. 2174 ss. (46) Corte cost., 28 giugno 1995, n. 280, Tramannoni, in Giur. cost., 1995, p. 1973 ss.


— 1334 — potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l’esercizio, non è riconducibile all’obbligo di esercitare l’azione penale. Innanzitutto il pubblico ministero è abilitato a fare acquiescenza alla sentenza di primo grado, quali che siano state le conclusioni e quale che sia stato il contenuto della sentenza... Da tale possibile acquiescenza deriva, come unica conseguenza prevista dall’ordinamento processuale, il potere d’impugnazione del procuratore generale presso la Corte d’appello. Di qui un secondo argomento a favore dell’impossibilità di considerare il potere d’impugnazione del pubblico ministero come inerente all’obbligo di esercitare l’azione penale. Ed infatti un potere conferito alternativamente a due soggetti mal si concilia con la doverosità in capo ad uno solo di essi. Per di più uno dei due soggetti del diritto d’appello alternativamente previsti dall’ordinamento — e cioè il procuratore generale — non è di regola il titolare dell’obbligo di esercitare l’azione penale. In terzo luogo l’appello, come ogni altra impugnazione del pubblico ministero in materia penale, è rinunciabile nelle forme previste dall’art. 589 c.p.p. (art. 206 del codice del 1930), senza che la legge richieda al riguardo alcuna motivazione’’. Tralasciando le considerazioni concernenti la conformità o meno al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale dell’art. 595 c.p.p. — per le quali si rinvia (47) —, occorre ora esaminare se le argomentazioni suesposte possano ritenersi sufficienti a dissolvere i dubbi di incostituzionalità anche con riferimento all’art. 443, comma 3, c.p.p. Le questioni, in effetti, appaiono diverse. Ed infatti, se l’incostituzionalità dell’art. 595 c.p.p. con riferimento all’art. 112 Cost. era stata paventata in relazione al carattere meramente discrezionale dell’appello incidentale del pubblico ministero, nella fattispecie in esame, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale verrebbe leso da un vero e proprio divieto per l’organo della pubblica accusa di appellare una tipologia di sentenze che, evidentemente, non sono state ritenute conformi alla pretesa punitiva dedotta. E la qual cosa, indubbiamente, suscita più d’una perplessità. A tal proposito, la migliore dottrina, ritenendo inconferenti le argomentazioni della sentenza n. 280/95, ha ravvisato come ‘‘l’obbligo di dedurre la pretesa punitiva dello Stato... non si realizza con la sentenza di primo grado ma soltanto con il passaggio in giudicato’’ (48). E tale considerazione, in effetti, sembrerebbe essere sistematicamente confermata (47) LOZZI, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 2000 (3a ed.), p. 553 ss. (48) LOZZI, op. e loc. citt.


— 1335 — dalla disciplina concernente l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali che, a norma degli artt. 655 e ss. c.p.p., viene curata proprio dal pubblico ministero, evidentemente anche quale appendice dell’esercizio dell’azione penale. Ma — aldilà del dubbio concernente l’art. 112 Cost. — un’ulteriore questione di costituzionalità del disposto dell’art. 443, comma 3, c.p.p. sembra potersi sollevare anche con riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Ed infatti, non possono non emergere dubbi circa la ragionevolezza di una disciplina che, ponendo a carico del pubblico ministero il divieto generale di proporre appello, implicitamente gli impedisce anche di appellare incidentalmente quelle sentenze di condanna non modificanti il titolo di reato appellate principalmente dall’imputato, altresì creando la qual cosa una situazione di evidente disequilibrio e scoordinamento con le norme generali di cui agli artt. 593 e ss. c.p.p. Rispetto a tali sentenze, infatti, l’imputato verrebbe a godere — in maniera pressoché gratuita, sempre e comunque — del divieto di reformatio in pejus, stante l’impedimento del pubblico ministero a proporre appello incidentale. Al riguardo, occorre premettere che la questione circa la proponibilità o meno dell’appello incidentale del pubblico ministero nell’ambito del giudizio abbreviato, aveva creato non pochi disorientamenti nel Supremo organo di legittimità. In alcune pronunce, si era per esempio ritenuto che tale mezzo di impugnazione fosse inammissibile in ragione del divieto generale di proporre appello previsto dalla norma di riferimento: in particolare, si assumeva che non disponendo il pubblico ministero del potere di appellare quelle sentenze di condanna che non avessero modificato il titolo del reato e costituendo l’appello incidentale una semplice deroga alla normativa che disciplina i termini per la proposizione dell’appello principale, l’organo della pubblica accusa ipso facto non poteva appellare nemmeno incidentalmente siffatte sentenze (49). (49) Si era così ritenuto ‘‘non ammissibile l’appello incidentale del pubblico ministero avverso una sentenza di condanna pronunciata all’esito del giudizio abbreviato nei casi in cui l’art. 443, comma 3, c.p.p. gli fa divieto di proporre appello principale; la normativa in tema di appello incidentale (art. 595 c.p.p.), infatti, non consente di ritenere proponibile tale impugnazione nel caso in cui la parte non possa proporre appello principale, atteso che l’appello incidentale costituisce deroga soltanto alla norma che prevede i termini per la proposizione dell’appello principale’’ (Cass. pen., sez. I, 16 giugno 1992, Senatore, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 1, p. 111). Sempre sulla base di tale orientamento, con una sentenza di poco precedente, il Supremo organo di legittimità aveva ritenuto ‘‘manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 591, comma 1, lett. a), c.p.p., prospettata sotto il profilo che l’inammissibilità, in capo al pubblico ministero, del potere di appello incidentale delle sentenze di condanna, emesse con rito abbreviato e appellate in via principale


— 1336 — Il divieto di inappellabilità incidentale si desumeva, dunque, anche dall’art. 595 c.p.p. che, subordinando la proponibilità dell’appello incidentale alla mancata proposizione dell’appello principale, presupponeva necessariamente che la parte processuale che volesse appellare incidentalmente la sentenza, avesse potuto legittimamente appellarla anche principalmente: possibilità di cui, invece, nel caso di specie, il pubblico ministero non godeva. Adottando, invece, un’interpretazione più rigorosamente letterale, in altre coeve sentenze, il Supremo organo di legittimità aveva accolto la tesi dell’ammissibilità dell’appello incidentale, ritenendo che per quanto il riferimento all’art. 595 c.p.p. fosse corretto, corrette non erano le conclusioni cui erano pervenute le precedenti sentenze. La norma di riferimento, infatti, non subordinava la proponibilità dell’appello incidentale alla proponibilità dell’appello principale ma semplicemente alla proponibilità di un’impugnazione: da qui si desumeva l’appellabilità incidentale del pubblico ministero ex art. 443, comma 3, c.p.p., quale titolare del potere di interporre comunque ricorso per Cassazione anche avverso quelle sentenze di condanna che non avessero mutato il titolo di reato (50). dall’imputato, sarebbe in contrasto con le norme di cui agli art. 3, 76 e 112 Cost.; l’appello incidentale previsto dall’art. 595 c.p.p., producendo gli effetti previsti dall’art. 597, comma 2, stesso codice, quando è utilizzato dal pubblico ministero non fa più operare il divieto della reformatio in pejus e, quindi, permette al giudice di decidere come se si trovasse in presenza di un appello proposto dal pubblico ministero in via principale; esso costituisce uno strumento processuale affidato al pubblico ministero per indurre l’imputato a non presentare appello ovvero a rinunciarvi per non correre il rischio di vedere riformata in peggio la propria posizione; per le finalità cui l’appello incidentale è ispirato e per gli effetti che ne derivano, titolare del potere di avvalersi dell’appello incidentale è soltanto la parte che, pur potendo proporre impugnazione, non l’ha presentata; tale potere, pertanto, non sussiste in capo a colui che, per qualsivoglia ragione, non abbia diritto all’impugnazione principale’’ (Cass. pen., Sez. I, 17 febbraio 1992, Notarrigo, in Cass. pen., 1993, p. 1148, con nota di SPANGHER, Postilla in tema di appello incidentale del pubblico ministero nei confronti delle sentenze di condanna nel giudizio abbreviato). In senso conforme, vgs. ancora Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1994, Pepe, in Giust. pen., 1994, III, c. 307, con nota di MURONE, In tema di regime dell’appello avverso le sentenze pronunciate in giudizio abbreviato; Id., Sez. Fer., 13 agosto 1990, Insolia, in Cass. pen., 1991, II, p. 12 ss. (50) Si era quindi stabilito che ‘‘subordinando la proponibilità dell’appello incidentale alla condizione che la parte non abbia proposto impugnazione, l’art. 595, comma 1, c.p.p. non richiede che la stessa parte sia legittimata all’appello, ma esige solo che non abbia interposto il gravame, ivi compreso il ricorso per cassazione, cui sia abilitata in via principale dalla legge; ne consegue l’ammissibilità dell’appello incidentale del pubblico ministero contro la sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato che abbia condannato l’imputato per il reato contestato con l’imputazione e che dall’imputato sia stata appellata’’ (Cass. pen., Sez. VI, 7 marzo 1991, Ben Abdallah, in Cass. pen., 1992, p. 1246, con nota di SPANGHER, Primi orientamenti e... primi disorientamenti in tema di appello incidentale, e in Giur. it., 1992, II, p. 745, con nota di MAZZARRA, Sui limiti del nuovo appello incidentale). In senso conforme, vgs. anche Cass. pen., Sez. VI, 14 maggio 1991, Rodriguez, in Cass. pen., 1992,


— 1337 — Il contrasto giurisprudenziale veniva sanato dall’intervento delle Sezioni Unite che, con sentenza del 18 giugno 1993, stabilivano che ‘‘il potere di proporre appello incidentale non spetta a chi è privo del potere di proporre quello principale. Ne consegue che nel giudizio abbreviato il pubblico ministero non può proporre appello incidentale quando quello principale gli sia precluso a norma dell’art. 443 comma 3 c.p.p., mentre analogamente nel ‘patteggiamento’ l’imputato non può proporre appello incidentale nell’ipotesi in cui la relativa decisione sia stata appellata dal p.m. ai sensi dell’art. 448 comma 2 c.p.p.’’ (51). In effetti, l’iter argomentativo tracciato dalle Sezioni Unite appariva, almeno in gran parte, convincente. Riteneva, infatti, il Supremo Collegio che ‘‘tenuto conto della denominazione, della collocazione della relativa disposizione e della specifica disciplina, non c’è alcun elemento che consenta di affermare che l’appello incidentale costituisce una impugnazione autonoma rispetto all’appello, cioè, in sostanza, un terzo mezzo, accanto all’appello e al ricorso per cassazione, tanto diverso che — secondo la ricostruzione ricordata — potrebbe addirittura essere costituito dalla conversione in appello di un ricorso incidentale per cassazione... sicché deve logicamente concludersi che non può riconoscersi il potere di proporre appello incidentale a chi è II, p. 1247 e Corte app. Bologna, 17 maggio 1991, Rabiti, in Giust. pen., 1991, III, c. 545 ss., con nota di IADECOLA, Giudizio abbreviato ed appello incidentale del pubblico ministero. Nello stesso periodo, la Suprema Corte aveva altresì ritenuto che ‘‘l’appello incidentale previsto dall’art. 595 nuovo c.p.p. deve essere considerato un mezzo speciale, la cui legittimazione è conferita ai diversi soggetti del processo in modo autonomo, indipendentemente da quella stabilita per l’impugnazione principale; pertanto, nel caso di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il divieto posto al pubblico ministero di proporre appello non impedisce che lo stesso pubblico ministero possa proporre appello incidentale’’ (Cass. pen., Sez. II, 12 maggio 1992, La Piccerella, in Mass. Cass. pen., 1992, fasc. 11, p. 120; in senso conforme, ancora Cass. pen., Sez. VI, 1o febbraio 1993, Di Fresco, in Riv. pen., 1994, p. 169). Concordando con tale ultima interpretazione la dottrina aveva considerato che ‘‘deve ritenersi, invero, che l’appello incidentale abbia una sua specificità di contenuti e di finalità strategiche in relazione al gravame proposto in via principale, come s’impone in un sistema che, anche in fase di gravame, non può non risentire della logica accusatoria sottesa al nuovo rito. Da questa prospettiva, il dato formale deducibile dal comma 1 dell’art. 595 (‘la parte che non ha proposto impugnazione’) conserva un non trascurabile peso. Invero, escludere l’appello incidentale in capo al pubblico ministero significa far godere all’imputato il diritto (certo) a non veder peggiorata la pena. Forse, sia detto sommessamente, è in questo passaggio che si annida il punctum prudens del contrasto di opinioni qui evidenziato. Se ciò è vero andrebbe considerato che ben potrebbe l’organo d’accusa ricorrere per cassazione ed ottenere la conversione ex art. 580 paralizzando gli effetti di cui all’art. 597, comma 2, ancorché in questo modo verrebbe snaturata sia la funzione del ricorso per cassazione sia quella dell’appello incidentale’’ (SPANGHER, Postilla in tema di appello incidentale del pubblico ministero nei confronti delle sentenze di condanna nel giudizio abbreviato, loc. cit.). (51) Così, Cass. pen., Sez. un., 18 giugno 1993, Rabiti, in Cass. pen., 1994, p. 556, con nota di SPANGHER, I profili soggettivi dell’appello incidentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite, e in Foro it., 1994, II, c. 8.


— 1338 — privo del potere di proporre quello principale. Né vale obiettare che l’art. 595 c.p.p. non contiene espressamente alcuna eccezione per il caso di inappellabilità previsto dall’art. 443, comma 3, c.p.p., infatti l’art. 595 va letto in collegamento con le altre disposizioni sull’appello, e in particolare con il precedente art. 593, comma 1, c.p.p., il quale dopo la rubrica ‘casi d’appello’ esordisce ‘salvo quanto previsto negli artt. 443, 448 comma 2, 469, il p.m. e l’imputato possono appellare’. È chiaro quindi che l’art. 595, comma 1 con le parole ‘la parte può proporre appello incidentale’ si riferisce ai casi di appello indicati precedentemente, dai quali, attraverso il rinvio, risulta espressamente escluso quello dell’art. 443, comma 3... È vero che il comma 1 dell’art. 595 esordisce facendo il riferimento alla ‘parte che non ha proposto impugnazione’, anziché alla ‘parte che non ha proposto appello’, ma da ciò non può dedursi che il presupposto dell’appello incidentale sia costituito dal solo potere di impugnare e quindi anche da quello di ricorrere per cassazione... Un presupposto dunque è che la parte non abbia impugnato il provvedimento (con l’appello o con il ricorso per cassazione); l’altro, connaturato al mezzo di impugnazione, è che la parte sia legittimata all’appello. Né, in seguito all’appello della parte legittimata, quella non legittimata potrebbe proporre come mezzo incidentale un ricorso per cassazione, per vederselo poi convertire in appello. Il codice infatti non prevede il ricorso per cassazione incidentale o l’impugnazione incidentale in generale, ma solo l’appello incidentale, e questo mezzo, se lo si ritiene ammissibile, non può che avere le caratteristiche proprie’’. Concludevano, poi, le Sezioni Unite con un’argomentazione che, avuto riguardo all’attuale disciplina, rafforza il dubbio di legittimità della norma in questione. Si riteneva, infatti, che ‘‘a ben vedere il limite all’appello nel giudizio abbreviato, come anche nel patteggiamento, si collega alla volontà delle parti, perciò è da ritenere che il p.m. nel dare il consenso al procedimento speciale rinunci al potere di proporre in taluni casi appello e questa rinuncia non risulta in alcun modo subordinata alla mancata proposizione dell’appello da parte dell’imputato’’ (52). (52) Al riguardo, la dottrina, parzialmente concordando con quanto stabilito dalle Sezioni Unite, considerava tuttavia come ‘‘non può ritenersi precluso al legislatore il potere di ritagliare la legittimazione ad appellare in via incidentale, in termini diversi rispetto a quella definita in via principale. Parimenti non appare del tutto convincente — per le stesse considerazioni appena sviluppate — il riferimento all’intervenuta rinuncia ai gravami per effetto della adesione ai riti speciali. Appare, invero, da dimostrare che il consenso al procedimento speciale comporti anche la rinuncia al potere di appello nei casi fissati dalla legge e comunque che questa rinuncia non possa risultare in alcun modo subordinata alla mancata proposizione dell’appello dell’altra parte, secondo le discrezionali scelte legislative, cui si è già fatto riferimento’’ (SPANGHER, I profili soggettivi dell’appello incidentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite, loc. cit.).


— 1339 — Qualche tempo dopo, sulla scia dell’indirizzo ermeneutico tracciato dalle Sezioni Unite, anche la Consulta — con sentenza del 24 maggio 1994 (53) — interveniva in subiecta materia, ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 443 e 595 c.p.p., con riferimento agli artt. 3 e 112 Cost. In particolare, prendendo proprio le mosse dalla sentenza n. 177 del 1971 (54), la Corte costituzionale affermava che ‘‘mentre... il potere d’impugnazione riconosciuto in via di principio all’imputato quale esplicazione del diritto di difesa e dell’interesse a far valere la propria innocenza non può essere sacrificato in vista delle finalità deflattive cui si affida la previsione del giudizio abbreviato, non si è ritenuto che tale riconoscimento ne comporti uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all’imputato dall’art. 24 Cost. il quale non riguarda l’organo di accusa. La configurazione dei poteri del pubblico ministero rimane perciò affidata alla legge ordinaria, che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art. 112 Cost.’’. In altri termini, ancora una volta, il giudice delle leggi riteneva che la pretesa punitiva del pubblico ministero venisse soddisfatta con la sola sentenza di primo grado e indipendentemente dall’asserita congruità della pena. Quanto, poi, alla questione concernente l’art. 595 c.p.p., la Corte non rilevava alcun profilo di irragionevolezza che potesse comportare un vizio di legittimità costituzionale, precisando che ‘‘non spetta a questa Corte prendere posizione sul nesso tra potere d’impugnazione principale e potere d’impugnazione incidentale. Se il giudice penale ritenga, nell’interpretare le norme vigenti, che il secondo non possa essere riconosciuto ad una parte processuale che non sia titolare del primo, ciò non pone problemi di costituzionalità perché, sia in base alla precedente giurisprudenza (sent. n. 363 del 1991) che alle ragioni esposte in precedenza, il trattamento che risulta in tal modo diversificato relativamente alle parti del processo penale, avrebbe rilevanza sotto tale profilo soltanto se venisse messo in qualche modo in discussione l’art. 24 Cost. il quale, però, come si è detto, non riguarda i poteri del pubblico ministero’’. Ora, a prescindere dalle perplessità manifestate dalla dottrina con ri(53) Corte cost., 24 maggio 1994 n. 98, Cendretto, in Cass. pen., 1994, p. 2371, con nota di MARANDOLA, I limiti all’appello incidentale del p.m. nel rito abbreviato tra le Sezioni Unite e la Corte costituzionale, e in Giur. cost., 1994, I, p. 887, con nota di SPANGHER, Giudizio abbreviato ed appello incidentale del pubblico ministero. La questione era stata sollevata dalla Corte d’appello di Torino, con ordinanza 22 febbraio 1993, Cendretto, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 251, e in Riv. pen., 1993, p. 693. (54) Corte Cost., 17 novembre 1971, n. 177, Burnengo, loc. cit.


— 1340 — ferimento alla disciplina processuale illo tempore vigente (55), i dubbi di legittimità sembrano più che mai rivivere con riferimento alla normativa attuale che prevede l’ammissione del rito speciale senza un preliminare, necessario consenso del pubblico ministero. A tal proposito, si è considerato come sia la giurisprudenza di legittimità (56) che la dottrina (57) avessero salvato la disciplina che impediva la proposizione dell’appello incidentale al pubblico ministero proprio in ragione del fatto che al medesimo organo veniva lasciata la facoltà di opporre il proprio diniego all’introduzione del rito speciale. Imputet sibi, in altri termini, se non poteva appellare incidentalmente. Ciò nondimeno, nella situazione attuale, l’inappellabilità (sia principale che incidentale) delle sentenze di condanna fuori dai casi di cui all’art. 443, comma 3, c.p.p. da parte del pubblico ministero, appare irragionevole anche in virtù della mancanza di un potere di veto all’introduzione del rito. Senonché, a parte l’argomentazione della novitas legislativa che rafforza il sospetto di incostituzionalità, sfugge il principio in base al quale il pubblico ministero non potrebbe appellare sentenze di condanna a pene di molto inferiori a quelle richieste, mentre potrebbe proporre appello av(55) Principalmente MARANDOLA, loc. cit., ma vgs. anche SPANGHER, loc. cit. Al riguardo, si censurava il pensiero della Consulta che, rifacendosi ad un discutibile principio di equilibrio di poteri tra pubblico ministero e imputato, aveva altresì ritenuto che ‘‘non può disconoscersi come la vigente disciplina preveda, in alcune fasi del procedimento penale, talune posizioni di vantaggio per l’organo dell’accusa, il che non fa apparire irragionevole che il legislatore, per realizzare a pieno il diritto di difesa costituzionalmente garantito e ristabilire la parità processuale, munisca in altre fasi l’imputato di altri poteri cui non debbano necessariamente corrispondere simmetrici poteri per il pubblico ministero, fatte salve ovviamente le posizioni a questi costituzionalmente garantite ai fini del complessivo assolvimento delle sue attribuzioni’’. (56) Si è già dato conto di come le Sezioni Unite, loc. cit., avessero confermato l’inappellabilità incidentale delle sentenze di condanna da parte del pubblico ministero, fuori dai limiti di cui all’art. 443, comma 3, c.p.p., anche in considerazione del fatto che ‘‘a ben vedere il limite all’appello nel giudizio abbreviato, come anche nel patteggiamento, si collega alla volontà delle parti, perciò è da ritenere che il p.m. nel dare il consenso al procedimento speciale rinunci al potere di proporre in taluni casi appello e questa rinuncia non risulta in alcun modo subordinata alla mancata proposizione dell’appello da parte dell’imputato’’. (57) MURONE, op. e loc. citt., aveva ritenuto che ‘‘se l’interesse ad impugnare deve essere individuato nel pregiudizio che il provvedimento è idoneo a determinare nella sfera giuridica di un soggetto, si può agevolmente affermare che, segnando la sentenza di condanna emessa in primo grado a seguito di rito abbreviato la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere dal pubblico ministero, non è ravvisabile per l’accusa l’esistenza dell’interesse medesimo. È proprio questa la situazione concreta che viene a profilarsi con la sentenza emessa sulla base del rito abbreviato, e tale affermazione appare maggiormente fondata ove si abbia riguardo alla consapevolezza che l’organo dell’accusa ha, perché espressamente previsto dalla legge per l’impugnazione in via principale, sin dal momento in cui accetta l’abbreviazione del rito, di non poter esercitare la facoltà di impugnare il provvedimento che non modifichi il titolo del reato originariamente contestato’’.


— 1341 — verso sentenze che, pur condannando l’imputato alla stessa pena richiesta, abbiano modificato il titolo del reato. A tal proposito, a parte la considerazione per cui, in ultima analisi, la qualificazione giuridica del fatto sembra essere prerogativa essenziale del giudice più di quanto non sia la quantificazione della pena, onde dimostrare l’irragionevolezza della disciplina in questione, si prendano in considerazione i due seguenti esempi. Nel primo caso, s’immagini che il G.u.p. abbia condannato a sei mesi di reclusione un imputato per il delitto di furto, a fronte di una richiesta di condanna del pubblico ministero quantitativamente analoga ma diversamente qualificata come appropriazione indebita. Nel secondo caso, invece, s’immagini che il G.u.p. abbia condannato ad un mese di reclusione (o addirittura ad una semplice multa) un imputato per il delitto di diffamazione, a fronte di una richiesta di condanna del pubblico ministero analogamente qualificata ma diversamente quantificata in otto mesi di reclusione. Ora, mentre nel primo caso, al pubblico ministero — attesa la modificazione del titolo del reato — è consentito appellare principalmente (e, quindi, anche incidentalmente) sebbene la pretesa punitiva sia stata completamente soddisfatta, nel secondo caso, la medesima facoltà non gli è concessa ancorché la pretesa punitiva sia stata sostanzialmente vanificata. La qual cosa, unitamente alla circostanza per cui il giudizio abbreviato — almeno nelle intenzioni del legislatore — dovrebbe prendere il posto di quello ordinario con la conseguenza che si dovrebbe sistematicamente eliminare qualsiasi intralcio al relativo giudizio di appello, rende irragionevole l’attuale normativa di divieto. Quale ultima considerazione relativa all’appello incidentale, giova infine evidenziare come, a prescindere dalla circostanza per cui la celerità dei riti speciali non è un parametro costituzionale, tale mezzo d’impugnazione non determina nemmeno particolari problemi in tal senso in quanto si pone nell’ambito della devoluzione al giudice di secondo grado dei punti della decisione investiti dall’appello principale dell’imputato e non tende quindi ad ampliare il thema decidendum (58). Non può infine omettersi che la Corte costituzionale, recentemente, è ritornata sulla questione anche se sotto un profilo leggermente differente, essendone stata investita non con riferimento ai principi di cui agli artt. 3112 Cost., ma con riferimento al principio di parità tra la parte pubblica e quella privata, così come precisato negli artt. 3-111 Cost. La questione, tuttavia, è stata dichiarata (in parte inammissibile e in parte) manifestamente infondata in quanto ‘‘il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri proces(58)

Così, Cass. pen., Sez. VI, 7 marzo 1991, Ben Abdallah, loc. cit.


— 1342 — suali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: infatti una disparità di trattamento può risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia... nella cornice di un sistema nel quale il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale e il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale, la preclusione dell’appello della parte pubblica avverso le sentenze di condanna (quando non vi sia stata modifica del titolo di reato), oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità, continua a trovare giustificazione — come per il passato —, nell’obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta’’ (59). Pur volendo concordare con il contenuto dell’ordinanza della Corte con riferimento al combinato disposto degli artt. 3-111 Cost., sembrano, invece, dover restare fermi i dubbi di costituzionalità con riferimento agli artt. 3-112 Cost. 10. Un ultimo approfondimento lo merita sicuramente la parte civile il cui ruolo, in verità, nell’ambito del rito alternativo, non essendo stato modificato sensibilmente dalla nuova disciplina, resta pressoché insignificante e, senza dubbio, affievolito rispetto alle altre parti processuali. La situazione di evidente scompenso si avverte soprattutto nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato laddove la parte civile risulta completamente privata del diritto alla prova. Se da una parte, infatti, il giudizio abbreviato condizionato garantisce il diritto alla prova dell’imputato in quanto verrà disposto contestualmente all’ammissione delle richieste istruttorie della difesa e, ad un tempo, prevede la facoltà per il pubblico ministero di richiedere l’ammissione di prova contraria, dall’altra, alla parte civile — che pur abbia accettato il rito abbreviato — non viene riconosciuta alcuna garanzia sotto il profilo probatorio. Ci si chiede allora se la mancata previsione anche solo della facoltà di richiedere autonomamente l’ammissione di prove possa determinare problemi di costituzionalità in ordine ai parametri di cui agli artt. 3 e 111, comma 2, Cost. In via preliminare, va considerato che alla parte civile resterà sempre la facoltà di invocare il pur residuale intervento ex officio del giudice dell’udienza preliminare. (59) Corte cost., ord. n. 421 del 3-21 dicembre, 2001, in Giur. cost., 2001, p. 4002, con nota di SPANGHER, Restano inappellabili per il p.m. le sentenza di condanna del rito abbreviato.


— 1343 — Senonché, il problema esiste sia perché il giudice potrebbe non attivare i suoi poteri istruttori, ritenendo che il procedimento sia già decidibile allo stato degli atti (60), sia perché la parte civile dovrebbe decidere di accettare o meno il rito speciale senza sapere se le prove cui ambisce verranno assunte dal giudice. Ed infatti, solo dopo l’assunzione delle prove ammesse su istanza di parte, si dovrebbe poter sperare nell’attivazione dei poteri officiosi di cui, peraltro, il giudice potrebbe disporre ai soli fini della decidibilità del procedimento e non certo della verifica concernente la sussistenza e/o la quantificazione del danno privatistico. Né tale situazione sembra potersi risolvere qualora l’intervento della parte civile venga effettuato successivamente all’ammissione del rito, a norma dell’art. 441, comma 2, c.p.p. In tale contesto, allora, non possono non nutrirsi perplessità circa l’effettiva osservanza del principio della parità delle armi. Senonché, deve darsi atto che il legislatore, probabilmente, ha trascurato gli interessi privatistici della parte civile per due ordini di motivi. Innanzitutto, il giudizio abbreviato resta un procedimento a prova contratta, in cui, pertanto, il diritto alla prova non viene garantito, come nel giudizio ordinario, a tutte le parti. In secondo luogo, essendo un giudizio connotato dalla snellezza ed introdotto dal legislatore sulla base del principio della sola decidibilità allo stato degli atti, avuto anche riguardo alle esigenze complessive del sistema giudiziario, si è considerato come le pur valide esigenze della parte civile avrebbero potuto essere perseguite più opportunamente nella sede naturale, allorquando l’imputato scelga di definire il procedimento con il giudizio abbreviato. È evidente, infatti, che il rito speciale, qualora consentisse un intervento ‘‘garantito’’ anche alla parte civile, verrebbe probabilmente a perdere la connotazione tipica della semplificazione del rito. Certamente, sotto quest’ultimo profilo, non può nascondersi come l’impianto codicistico del giudizio abbreviato contrasti con il disposto dell’art. 187, comma 3, c.p.p., alla cui stregua ‘‘se vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato’’, ma la privazione di un autonomo diritto alla prova per la parte civile non può che essere letto alla luce delle differenti esigenze per le quali non solo il giudizio abbreviato ma i riti speciali, in generale, sono stati introdotti dal legislatore. Si pensi, per esempio, al rito del patteggiamento che non consente la (60) Tale valutazione, in effetti, sembra debba essere compiuta esclusivamente con riferimento all’imputazione mossa e non già alla effettività ovvero alla quantificazione del danno.


— 1344 — pronuncia del giudice sulle eventuali richieste di restituzione o risarcimento del danno della parte civile. In conclusione, il legislatore, tenendo presenti da una parte il carattere pubblicistico del processo penale (in contrasto con le pretese privatistiche della persona offesa) e dall’altra il principio dell’economia processuale ha di fatto scoraggiato la trattazione delle questioni civilistiche nell’ambito del giudizio abbreviato che, tuttavia, potranno essere introdotte dalla stessa parte civile allorquando il quadro probatorio delineato dal pubblico ministero consenta una pronuncia anche sulle richieste di risarcimento del danno, senza bisogno di approntare un’autonoma verifica (61). Avv. NICOLA APA

(61) Sul tema, per una panoramica più approfondita, vgs. PARLATO, Il ruolo della parte civile nel ‘‘nuovo’’ giudizio abbraviato, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 1251 ss.


NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO

LINEAMENTI ESSENZIALI DEL NUOVO PROCESSO PENALE CINESE (*)

SOMMARIO: 1. Il nuovo modello processuale penale cinese: motivi di interesse e spunti di riflessione per l’osservatore italiano. — 2. Il difficile cammino verso un ‘‘giusto processo’’: la parabola storica della procedura penale cinese dalla codificazione del 1979 alla riforma organica del 1996. — 3. Il nuovo volto del processo penale della Repubblica popolare cinese. Legalità processuale, divisione dei poteri e centralità del dibattimento, tratti caratteristici dell’attuale sistema. — 4. La posizione della persona sottoposta a procedimento nel quadro dell’ampliamento dei diritti e delle garanzie difensive. — 5. Le possibili linee evolutive del sistema processuale cinese. 1. Il nuovo modello processuale penale cinese: motivi di interesse e spunti di riflessione per l’osservatore italiano. — L’interesse per il sistema giuridico cinese non rappresenta certamente un elemento di novità nel panorama comparatistico italiano (1), tradizionalmente ricco di studiosi affascinati da un ordinamento che appare ai nostri occhi quasi « ineffabile e sostanzialmente indefinito, come sospeso tra storia e leggenda » (2). È negli ultimi anni però che questa attenzione scientifica è andata irrobustendosi, soprattutto a seguito

(*) I paragrafi 1, 2, 4, 5 del presente saggio sono stati redatti dal dott. Luca Lupária. La dott.ssa Sun Weiping ha contribuito alla stesura del terzo paragrafo. (1) Nel quadro dottrinale italiano del XX secolo si registrano numerosi contributi, dedicati sia al diritto cinese moderno che a quello del periodo imperiale. In questa sede sarà perciò possibile richiamare soltanto alcuni di essi: G. CRESPI REGHIZZI, Il diritto cinese all’alba della codificazione, in Riv. dir. civ., 1979, p. 121; ID., La storia del diritto cinese in un manuale per l’insegnamento, in Quad. fior. storia pens. giur. mod., 1985, p. 529; ID., Il periodo nazionalista nella storia del diritto cinese, ivi, 1986, p. 551; E. DELL’AQUILA, Il diritto cinese: introduzione e principi generali, Padova, 1981; A. GAMBARO-R. SACCO, Sistemi giuridici comparati, Torino, 1998, pp. 505-540; R. SACCO, Cina, in Dig. disc. civ., 1988, p. 360; M. TARUFFO, L’organizzazione giudiziaria in Cina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 757. Va altresì ricordato il volume Il diritto in Cina: teoria e applicazioni durante le dinastie imperiali e problematica del diritto cinese contemporaneo, a cura di L. LANCIOTTI, Atti del Convegno internazionale di studi cinesi, Venezia, 14-15 ottobre 1976, Firenze, 1978. Tra i lavori di giuristi cinesi apparsi nella nostra letteratura, si segnalano: C.L. WANG, Il pensiero giuridico nell’antica Cina, in Ann. dir. comp., XIII, 1938, p. 3; J. PING, Il diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese, in Index, 1988, p. 367; SHENG YU-ZENG QING-MIN, Diritto cinese. II) Cina popolare, in Enc. giur., 1989, p. 1; MI JIAN, Diritto cinese e diritto romano, in Index, 1991, p. 346; HAN YANLONG-XU LIZHI, L’influenza della tradizione confuciana nel sistema giuridico cinese moderno, in Soc. dir., 1995, p. 77. (2) Così L. MOCCIA, Il sistema giuridico cinese: caratteri tradizionali e lineamenti attuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, p. 1255. Sui caratteri essenziali del diritto cinese tradizionale si vedano R. CAVALIERI, La legge e il rito. Lineamenti di storia del diritto cinese, Milano, 1999; J. ESCARRA, Le droit chinois, Pékin-Paris, 1936; J. GILISSEN, Diritto cinese. I) Antichità e tradizione, in Enc. giur., 1989, p. 1; H.C. LEE, The Historical Development of


— 1346 — delle recenti trasformazioni sociali ed istituzionali che hanno fatto del modello cinese uno dei laboratori giuridici più stimolanti per l’osservatore occidentale (3). Le indagini comparative sul diritto cinese, tuttavia, hanno finito spesso col trascurare il sistema processuale penale, relegato il più delle volte ai margini di una riflessione dottrinale tutta orientata all’analisi del diritto civile (4) e processuale civile (5), del diritto pubblico (6) e, in misura minore, del diritto penale sostanziale (7). Si tratta di una lacuna di non poco rilievo, solo che si considerino le importanti novità legislative intervenute in materia nella seconda metà degli anni novanta, con le quali è stata attuata una riforma in senso accusatorio del processo penale, nella direzione di una sempre maggiore tutela della persona sottoposta a procedimento. Questa recente esperienza di codificazione ed il relativo dibattito scientifico costituiscono inoltre per lo studioso italiano una realtà di estremo interesse, per almeno due ordini di ragioni. Sotto un primo profilo, infatti, vengono in rilievo le similitudini esistenti tra il percorso normativo cinese e quello che ha condotto alla nostra riforma del 1988, entrambi accomunati dal ripudio di una radicata tradizione inquisitoria e dalla difficoltà di conciliare la nuova cultura processualpenalistica con le resistenze degli operatori. La seconda ragione di interesse deriva invece dall’attenzione mostrata dai giuristi cinesi verso il nostro codice, preso a modello nella fase di drafting ed ancora oggi oggetto di studio in vista di possibili ulteriori riforme (8). È questo un significativo esempio di come la codificazione del 1988, tanto criticata nella sua terra di origine, abbia assunto nella comunità scientifica internazioChinese Law, New York, 1927; TSIEN TCHE-HAO, Le droit chinois, Paris, 1982; WANG CHENGUANG-ZHANG XIANCHU, Introduction to Chinese Law, Hong Kong, 1997. (3) Per un’attenta analisi delle nuove direttrici verso cui muove il modello cinese, si rimanda agli interessanti testi raccolti in Profili emergenti del sistema giuridico cinese, a cura di L. MOCCIA, Roma, 1999. (4) In aggiunta ai contributi già richiamati, cfr. R. BERTINELLI, Verso lo Stato di diritto in Cina. L’elaborazione dei Principi generali del Codice civile della Repubblica popolare cinese, Milano, 1989; LIU XIU-WEN, La nuova legge sulle società e i sui rapporti con la preesistente normativa sulle imprese con capitale straniero, in Rass. civ., 1996, p. 604; M. TIMOTEO, Le successioni nel diritto cinese: evoluzione storica e assetto attuale, Milano, 1994. (5) Recentemente, N. PICARDI, Una ricerca sulla giustizia civile in Cina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, p. 491; WU HUANNING, Disciplina dell’arbitrato, in Profili emergenti del sistema giuridico cinese, a cura di L. MOCCIA, cit., p. 293. Cfr. Il processo civile cinese, coll. ‘‘Ricerche sul processo’’, a cura di N. PICARDI-A. GIULIANI, vol. 7, Rimini, 1998. (6) Da ultimo, G. CRESPI REGHIZZI, Verso il mercato e lo Stato di diritto: recenti riforme costituzionali in Cina, in Dir. pubbl. comp. eur., 1999, p. 585. (7) Cfr. E. ALTAVILLA, Il codice penale cinese del 1935, in Ann. dir. comp., 1937, p. 135; A. ANDREOZZI, Le leggi penali degli antichi cinesi. Discorso proemiale sul diritto e sui limiti del punire, e traduzioni originali dal cinese, Firenze, 1878; CHEN ZHONGLIN, Profili storici e problemi contemporanei del diritto penale cinese, in questa Rivista, 1992, p. 654. (8) Rileva l’attenzione dei giuristi cinesi nei confronti del nostro codice, « unico esempio di sistema che ha saputo creare un solido ponte tra la tradizione continentale e quella di common law », E. AMODIO, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, Relazione presentata al Convegno ‘‘Verso la riscoperta di un modello processuale’’, Caserta 12-14 ottobre 2001, testo dattiloscritto, p. 17. L’attuale apertura verso i modelli europei costituisce una novità di rilievo nella storia giuridica della Cina popolare. Per ritrovare un simile fenomeno di scambio dottrinale bisogna risalire all’inizio del XX secolo, durante la fase repubblicana, quando nel procedimento di codificazione fu fatto largo uso delle indicazioni provenienti dalle esperienze giuridiche europee. Cfr. BÜNGER, Die Rezeption des europäischen Rechts in China, in Deutsche Landesreferate zum III Int. Kongress für Rechtsvergleichung in London, Tübingen, 1950, p. 166; J. ESCARRA, Recueil des Sommaires de la Jurisprudence de la Cour Suprème de la République de Chine en matière civile et commerciale (1912-1918), Pékin, 1925.


— 1347 — nale un importante ruolo di model code, così da divenire una delle leggi processuali maggiormente ‘‘imitate’’ (9) nelle dinamiche di elaborazione legislativa (10). Con le seguenti pagine si vuole dunque contribuire a colmare questo vuoto, senza la pretesa di fornire un quadro esaustivo di un ordinamento tanto complesso, ma con il più modesto intento di offrire un lavoro di ‘‘comparazione informativa’’ (11), capace di fare un po’ di luce su una realtà che propone all’osservatore europeo numerosi spunti di riflessione. 2. Il difficile cammino verso un ‘‘giusto processo’’: la parabola storica della procedura penale cinese dalla codificazione del 1979 alla riforma organica del 1996. — Il sistema processuale cinese deve la sua attuale conformazione alla riforma legislativa del 17 marzo 1996 con la quale è stato rimodellato il codice di rito risalente al 1979. A ben vedere, non si è trattato di una semplice opera di restyling del tessuto normativo, quanto piuttosto di un completa rivisitazione in senso accusatorio dell’impianto originario, che ha comportato l’inserimento di 61 nuovi articoli e la modificazione di oltre 100 disposizioni del previgente testo. Non a caso, quindi, alcuni giuristi cinesi hanno parlato di un vero e proprio ‘‘nuovo codice del 1996’’ (12). Ora, prima di affrontare l’analisi della nuova architettura processuale, è necessario volgere lo sguardo verso il percorso che ha condotto al superamento del rito inquisitorio, partendo proprio dal codice di procedura penale del 1979 (13), che — per quanto oramai privato delle sue iniziali caratteristiche — rappresenta ancora oggi il testo di riferimento per qualsiasi indagine sul nuovo corpus normativo. La legge processuale del 1979 ha costituito la prima codificazione organica in materia di processo penale della Repubblica popolare cinese (14), frutto di un faticoso percorso avviato con il progetto organico del 1957 che comprendeva una prima bozza di codice composta di 325 articoli. Il procedimento di approvazione di quel documento, tuttavia, venne interrotto da una serie di importanti eventi politico-sociali quali la campagna di persecuzione degli intellettuali (1957-1958) e la cosiddetta rivoluzione culturale (1966-1976). In questa fase il sistema processuale veniva regolato da poche e scarne disposizioni che consentivano al Partito di controllare completamente la vita giudiziaria. Il processo penale si riduceva ad un’« attività puramente amministrativa », all’interno della quale « persino il dibattimento (9) Sulle dinamiche di imitazione giuridica e sulla circolazione dei modelli v., per tutti, R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1997, pp. 147-154. Per uno sviluppo del pensiero dell’illustre comparatista cfr. E. GRANDE, Imitazione e diritto: ipotesi sulla circolazione dei modelli, Torino, 2000; EAD., Comparazione dinamica e sistema giuridico statunitense: analisi di una circolazione incrociata di modelli, in Quad. fior. storia pens. giur. mod., 2000, p. 173. (10) « Mentre non si esita di frequente a rimproverare al legislatore italiano di aver costruito un sistema ibrido destinato al fallimento, si trascura di rilevare come il codice italiano del 1989 abbia conosciuto una notevole fortuna all’estero, tanto da influenzare in modo vistoso il codice portoghese del 1987, che replica intere parti del nostro progetto del 1978, e da dischiudere visuali nuove nel pur compatto nazionalismo giuridico francese, che sembra aver avviato una fruttuosa riflessione almeno sulla figura del nostro giudice per le indagini preliminari ». Così E. AMODIO, La procedura penale comparata tra istanze di riforma e chiusure ideologiche (1870-1989), in questa Rivista, 1999, p. 1355, nt. 51. (11) Secondo la terminologia utilizzata da A. CADOPPI, Cento anni di diritto penale comparato in Italia, in Ind. pen., 2000, pp. 1347-1348. (12) Cfr. GUANG ZHONG CHEN, La réforme du droit de la procédure pénale en Chine, in Rev. sc. crim., 1998, p. 1. (13) Sul punto, v. TSIEN TCHE-HAO, Analyse des récents code pénal et code de procédure pénale de la République populaire de Chine, in Rev. sc. crim., 1980, p. 641. (14) Come è noto, alla presa del potere da parte del partito comunista seguì l’abrogazione di tutte le disposizioni legislative previgenti.


— 1348 — (...) divenne facoltativo e fu riservato a quei casi che potevano avere un più ampio effetto rieducativo » (15). Soltanto con la salita al potere di Deng Xiaoping fu possibile dare inizio ad una feconda stagione di riforme (16), nel cui contesto venne appunto approvato il codice di procedura penale, votato dall’Assemblea nazionale del popolo il 1o luglio 1979 ed entrato in vigore il 1o gennaio 1980 (17). Per quanto rappresentasse una evidente parabola evolutiva del sistema penale, il testo in questione dava vita ad un rito di chiaro stampo inquisitorio, carente di previsioni a tutela dell’imputato ed assai ambiguo circa i confini tra attività amministrativa e giurisdizionale. In questo senso, è sufficiente ricordare l’ossessiva valorizzazione della confessione dell’indagato, il più delle volte ottenibile tramite metodi lesivi della libertà fisica e morale, e, sotto un diverso profilo, la possibilità per gli organi dell’accusa — i Procuratori del popolo — di emettere vere e proprie sentenze di condanna del tutto svincolate da una pronuncia giurisdizionale (18). Una simile struttura processuale apparve ben presto bisognosa di miglioramenti, specie dopo l’approvazione della IV Costituzione cinese del 1982 (19) e la successiva ratifica di una serie di importanti testi internazionali quali la Convenzione contro la tortura (1988), la Convenzione sui diritti del bambino (1991), nonché dopo l’avvio del fervente dibattito sul recepimento del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato poi nell’ottobre del 1998 (20). L’idea di una nuova riforma, inoltre, andava crescendo con la graduale apertura della Repubblica popolare cinese al mercato internazionale e alla cultura occidentale, circostanza che consentiva la circolazione di numerosi articoli di dottrina straniera capaci di diffondere princìpi quali il diritto di difesa e la presunzione di innocenza (21). Un ultimo, ma non meno importante fattore di stimolo alla revisione del codice, va individuato nella rapida crescita della classe forense, passata dalle poche migliaia di avvocati segnalati nel 1978 (22) — anno (15) Così M. DAMAŠKA, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Bologna, 1991, p. 328. Sul processo penale di questa fase storica cfr. J.A. COHEN, The Criminal Process in the People’s Republic of China (1949-1963), Cambridge, 1968; G. CRESPI REGHIZZI, Indagini sul diritto e sul processo penale in Cina, in Ind. pen., 1971, p. 341; W.C. JONES, A Possible Model for the Criminal Trial in the P.R. China, in 24 Am. J. Comp. L., 1976, p. 229. (16) Cfr. China in the Era of Deng Xiaoping: a Decade of Reform, a cura di YING MAO KAU-S.H. MARSH, London, 1993. (17) Merita segnalare che unitamente al codice di procedura penale venne approvato anche il nuovo codice di diritto penale sostanziale. Per una panoramica dei testi legislativi licenziati dalla quinta Assemblea nazionale del popolo cfr. TSIEN TCHE-HAO, La nouvelle législation et les réformes institutionelles en République populaire de Chine, in Rev. intern. dr. comp., 1980, p. 601. (18) Sul sistema delineato dal codice del 1979 si rinvia a B.L. INGRAHAM, The Structure of Criminal Procedure: Laws and Practice of France, the Soviet Union, China, and the United States, New York, 1987; J. PRADEL, Droit pénal comparé, Paris, 1995, pp. 134-136. (19) Il testo, così come modificato negli ultimi anni, è consultabile all’interno del volume Costituzioni straniere contemporanee, a cura di P. BISCARETTI DI RUFFIA-M. GANINO, vol. II, Milano, 1996, p. 153. (20) L’intento di rafforzare la tutela dei diritti umani va certamente ricollegato ai drammatici eventi di Piazza Tienanmen (1989), cui fecero seguito alcuni durissimi rapporti della United Nation Human Rights Commission sullo stato del sistema giudiziario cinese. (21) Sulla dottrina vista come veicolo di esportazione di una cultura giuridica cfr. P.G. MONATERI, ‘‘Legal Doctrine’’ as a Source of Law. A Transnational Factor and a Historical Paradox, in Italian National Reports to the XIIth International Congress of Comparative Law, Sidney, 1986. (22) Cfr. M. BATTAGLINI, Avvocati e diritto alla difesa nella RPC, in Mondo cinese,


— 1349 — della reintroduzione dell’esercizio dell’attività legale — ai centodiecimila legali registrati nel 1996 (23). Questo fermento nel mondo giuridico ha costituito terreno fertile per il raggiungimento di un largo consenso sulla necessità di una radicale riforma, una sorta di ‘‘convergenza istituzionale’’ del tutto simile a quella che ha consentito in Italia di giungere all’approvazione del codice del 1988 (24). Nel 1993 si è dato così avvio all’iter per la revisione del codice attraverso l’incarico al prof. Chen Guang Zhong — coadiuvato da un gruppo di accademici, giudici e rappresentanti delle Procure — di apprestare un primo progetto preliminare. Terminati i lavori, nel luglio 1995 venne pubblicato un documento provvisorio che non mancò di suscitare grande interesse nella comunità scientifica e nella società civile. Il testo redatto dalla commissione realizzava infatti l’ambizioso obiettivo di liberare il processo penale cinese dai caratteri tipici di un sistema inquisitorio per approdare ad una procedura di tipo adversary, modellata non tanto sul rito nordamericano quanto sulle esperienze di quegli ordinamenti europei — primo tra tutti quello italiano — che hanno cercato di inserire un’« anima accusatoria all’interno di un corpo, di un organismo continentale » (25). Nel dicembre del 1995 il Comitato permanente dell’Assemblea approvava il progetto con alcune modifiche. Infine, alla ottava sessione dell’Assemblea nazionale del popolo, in data 17 marzo 1996, la riforma veniva definitivamente votata (26). Come ultimo tassello del percorso riformista, vanno infine ricordati due importanti documenti emanati nel 1998: le ‘‘Disposizioni di attuazione del codice’’ e le ‘‘Interpretazioni della Corte Suprema’’, composti rispettivamente di 48 e 367 articoli. Il secondo di questi testi, in particolare, si è reso necessario per fornire criteri ermeneutici uniformi in un sistema che possiede una complessa e disorganica disciplina in tema di interpretazione delle disposizioni legislative (27). 3. Il nuovo volto del processo penale della Repubblica popolare cinese. Legalità processuale, divisione dei poteri e centralità del dibattimento, tratti caratteristici dell’attuale sistema. — Il legislatore del 1996 ha modificato la struttura di quasi tutte le fasi processuali, introducendo alcuni inediti istituti e abolendo talune fattispecie oramai confliggenti con la nuova svolta garantista. È di tutta evidenza, dunque, come non sia nemmeno ipotizzabile in questa sede esaminare nel dettaglio gli innesti e le potature apportate con la novella (28), ma sia soltanto possibile tratteggiare quelle linee principali della riforma che vanno a comporre il nuovo volto del processo penale cinese. 1983, p. 29; T. GELATT, Lawyers in China: the Past Decade and Beyond, in N.Y.U.J. Int. L. Pol., 1991, p. 751. (23) Secondo quanto riportato da: The Tables of 1996 Statistics of National Law Officies and Lawyers, in China Law Yearbook, Shangai, 1997. Per un interessante quadro del sistema di educazione giuridica a livello universitario in Cina, cfr. HUANG FENG, L’insegnamento del diritto: profili storici e sistema attuale, in Profili emergenti del sistema giuridico cinese, a cura di L. MOCCIA, cit., p. 319. (24) V., per tutti, E. AMODIO, Processo penale, in Giuristi e Legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto, a cura di P. GROSSI, Atti dell’incontro di studio tenutosi a Firenze, 26-28 settembre 1996, Milano, 1997, p. 363. (25) E. AMODIO, Un ‘‘accusatorio all’europea’’ per la riforma della procedura penale continentale, in Il nuovo codice di procedura penale visto dall’estero, a cura di M. CHIAVARIO, Milano, 1991, p. 226. (26) La riforma processuale è entrata poi in vigore il 1o gennaio 1997. Può essere utile ricordare che alla modifica del sistema processuale è stata affiancata una profonda rivisitazione delle norme di diritto penale sostanziale: CHEN ZHONGLIN, Una svolta storica nel diritto penale cinese: l’introduzione di un nuovo codice, in questa Rivista, 1998, p. 584. (27) Per alcune riflessioni sul punto, KONG XIAOHONG, Legal Interpretation in China, in 6 Conn. J. Int. L., 1991, p. 491; SHIZHOU WANG, The Judicial Explanation in Chinese Criminal Law, in 43 Am. J. Comp. L., 1995, p. 569. (28) Diffusamente GUANG ZHONG CHEN, La réforme du droit de la procédure pénale


— 1350 — Sinteticamente, le direttrici lungo le quali si è mosso il riformatore possono essere ridotte a quattro: il trasferimento del momento centrale del processo da una fase investigativa non garantita ad un dibattimento deputato all’assunzione della prova in contraddittorio tra le parti; la separazione delle funzioni tra potere amministrativo e giudiziario; l’introduzione in via generale del principio di legalità processuale; l’apertura verso l’istituzione di procedimenti semplificati. La valorizzazione della fase dibattimentale costituisce di certo la nota caratteristica del ‘‘nuovo’’ codice di rito. L’iniziativa probatoria affidata alle parti, il metodo dell’esame incrociato nell’assunzione della testimonianza (29), la posizione di terzietà consegnata all’organo giudicante (30) sono elementi di vera e propria rottura con una cultura processuale che considerava pressoché superfluo il contraddittorio e che affidava al giudice il compito di ricercare, introdurre e valutare il materiale probatorio. Naturalmente, l’ordito codicistico mostra sul punto una evidente carenza tecnica se confrontato con la complessità e l’accuratezza dei codici continentali più evoluti (31). In questo caso, però, più della perfezione dei meccanismi processuali vale la spinta ideale del legislatore al quale va il merito di essere riuscito ad attuare una vera e propria rivoluzione sistematica in un ordinamento, quello cinese, così legato al dato tradizionale e in una materia, quella del processo penale, che — come è noto — « offre il più alto grado di resistenza ad ogni tentativo di riforme » (32). Di grande rilievo sono altresì le disposizioni volte a dare effettività alla separazione di poteri tra pubblico ministero e organo giudicante (33) e le norme dirette a conferire una maggior carattere di legalità all’intero ordinamento processuale. Entrambe le esigenze sono presenti nel nuovo art. 12 — norma considerata dalla dottrina cinese la vera e propria chiave di volta della nuova fisionomia processuale — secondo cui ‘‘nessuno può essere dichiarato colpevole se non con una sentenza resa da una Corte del popolo in conformità alla legge’’. La portata innovatrice di questa disposizione è manifesta. Come ha rilevato la dottrina cinese maggioritaria, essa cancella dal sistema la tradizionale possibilità per i Procuratori del popolo di emettere provvedimenti del tutto simili ad una sentenza di condanna; fornisce una base legale per combattere la pratica, largamente diffusa nella prassi giudiziale, di infliggere condanne a pene diminuite per gli imputati la cui responsabilità non sia stata interamente provata, ma a carico dei quali risultino elementi indiziari; sancisce, sebbene in maniera non en Chine, cit., p. 1. Si veda, altresì, Opening to Reform? An Analysis of China’s Revised Criminal Procedure Law, a cura del Lawyers Committee for Human Rights, Washington, 1996. (29) A norma del nuovo art. 47, ‘‘la testimonianza deve essere assunta davanti alla Corte e sottoposta all’esame ed al controesame del pubblico ministero, delle vittime e dell’imputato o del suo difensore’’ (la traduzione — al pari di quelle che seguiranno — è nostra; come testo di riferimento è stato utilizzato: The Amended Criminal Procedure Law and the Criminal Court Rules of the People’s Republic of China, with English Translation, Introduction, and Annotation, a cura di WEI LUO, Buffalo, 2000). (30) In questo quadro si innestano le nuove disposizioni orientate ad impedire che il giudice venga a contatto con il materiale probatorio proveniente dalla fase investigativa. In particolare, non può che essere valutata positivamente la scelta di apprestare un meccanismo processuale simile al nostro sistema del ‘‘doppio fascicolo’’. Vanno però segnalate numerose eccezioni che rischiano di vanificare l’originario intento del legislatore di salvaguardare l’imparzialità dell’organo giudicante. (31) In generale, sulle carenze in materia di tecnica legislativa in Cina cfr. A. SEIDMAN-R. SEIDMAN, Drafting Legislation for Development: Lesson from a Chinese Project, in 44 Am. J. Comp. L., 1996, p. 1. (32) Così, A. GIULIANI, Ordine isonomico e ordine assimmetrico: nuova retorica e teoria del processo, in Soc. dir., 1986, p. 83. (33) Il nuovo art. 5 stabilisce che ‘‘le Corti del popolo hanno il diritto di esercitare il potere giurisdizionale in conformità con la legge e in piena indipendenza, così come i Procuratori del Popolo hanno il diritto di esercitare il potere di accusa in piena indipendenza. Gli organi amministrativi, le organizzazioni sociali o i singoli non devono interferire con la loro attività’’.


— 1351 — del tutto esplicita, la presunzione di innocenza dell’imputato, nella sua duplice dimensione di canone di giudizio e di regola di trattamento (34). Non meno importanti, infine, si rivelano le norme che procedono nella direzione di una semplificazione del procedimento nei casi di minore gravità. Le Corti del popolo, infatti, possono oggi affidare la res iudicanda ad un giudice monocratico che applicherà un rito ‘‘abbreviato’’, qualora la pena edittale per il reato contestato sia inferiore ai tre anni di reclusione ovvero qualora la prova rivesta il carattere dell’evidenza. Lungo la medesima direttrice, inoltre, muovono le norme che introducono maggiori margini di flessibilità nell’esercizio dell’azione penale (35) e che delineano un sistema a ‘‘discrezionalità controllata’’ ispirato agli ultimi orientamenti emersi nel panorama comparativo europeo (36). A conclusione di questa breve rassegna, infine, può essere utile rilevare due ulteriori modifiche: il deciso ampliamento dei poteri processuali delle vittime del reato (37) ed il perfezionamento della disciplina del secondo grado di giudizio, fase che nell’ordinamento cinese costituisce, in linea di principio, l’ultima istanza giudiziale ed è deputata alla verifica di legittimità delle pronuncie di primo grado (38). 4. La posizione della persona sottoposta a procedimento nel quadro dell’ampliamento dei diritti e delle garanzie difensive. — Alcune osservazioni a parte meritano le disposizioni con le quali sono stati rafforzati i diritti e le garanzie a salvaguardia della persona sottoposta a procedimento penale. Un primo intervento ha riguardato il nomen da riservare al prevenuto nei differenti momenti processuali. A seguito della riforma, l’espressione ‘‘imputato’’ è utilizzata solamente per la vera e propria fase processuale, mentre in tutte quelle situazioni che precedono l’esercizio dell’azione penale viene impiegata la qualifica di ‘‘persona sottoposta ad indagini’’. Come è noto, si tratta di una distinzione molto importante che non esprime soltanto l’idea di un procedimento caratterizzato da un netto distacco tra la fase investigativa e la fase del giudizio, ma che soprattutto mira a tutelare pienamente la presunzione di innocenza del soggetto cum quo res agitur (39). Questa inedita attenzione per la posizione della persona accusata si riflette anche nelle disposizioni dirette ad ampliare la portata di quel diritto di difesa che il precedente assetto (34) Sulla portata della presunzione di innocenza nel nostro sistema è appena il caso di ricordare il fondamentale lavoro di G. ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1976. Sul dibattito circa il recepimento della presunzione di innocenza nel sistema penale cinese v. le interessanti notazioni di F. STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, 2a ed., 2002, pp. 17-19. (35) Sul sistema di pubblica accusa in Cina v. JIAHONG HE, Criminal Prosecution in the PRC and the USA: a Comparative Study, Beijing, 1995. (36) Sul punto, sia consentito rinviare a L. LUPÁRIA, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale nel quadro comparativo europeo, in Giur. it., 2002, p. 1751. (37) Vanno ricordate in tal senso le norme che consentono oggi alla persona offesa di ricusare il giudice (art. 128), di opporsi al provvedimento archiviativo (art. 187), di rivolgere domande ai testimoni ed all’imputato (art. 155) e di stimolare il pubblico ministero ad impugnare la decisione di primo grado (art. 182). (38) Col precedente assetto normativo, l’appello si riduceva ad un esame documentale da parte del Collegio. Oggi, invece, il codice stabilisce che il giudizio debba svolgersi in udienza nel contraddittorio delle parti, salvo alcune eccezioni (artt. 187 ss.). (39) L’importanza delle distinzioni terminologiche relative alla qualifica del prevenuto ai fini di un’efficace tutela della presunzione di innocenza, è ben testimoniata dalla recente legislazione processuale francese, sulla quale v. Où va notre procédure pénale? A propos de la loi du 15 juin 2000 renforçant la protection de la présomption d’innocence et les droits des victimes, in Rev. pén. et de droit pén., 2001, pp. 7-244. Cfr. M. PISANI, Il nuovo article préliminaire nel codice di procedura penale francese, in Riv. dir. proc., 2000, p. 991; J. PRADEL, Presentazione del codice di procedura penale francese, in Il codice di procedura penale francese, a cura di S. MAFFEI, Piacenza, 2002, p. 7.


— 1352 — inquisitorio aveva relegato al fondo della scala di valori del sistema processuale (40). Il cambio di prospettiva è evidente. Se nel codice del 1979 l’assistenza del difensore era prevista solo per la celebrazione dell’udienza dibattimentale, oggi il nuovo art. 96 c.p.p. dispone che fin ‘‘dal primo interrogatorio condotto da un organo investigativo o dal giorno di applicazione di una misura coercitiva, la persona sottoposta ad indagini può nominare un difensore’’. Se il previgente ordito codicistico nulla disponeva in ordine al patrocinio dei non abbienti e alla tutela delle minoranze linguistiche, l’attuale sistema prevede l’istituto del patrocinio gratuito (art. 34 c.p.p.) (41) ed il diritto per i cittadini di ogni gruppo etnico di partecipare al procedimento utilizzando il proprio linguaggio nativo (art. 9 c.p.p.). 5. Le possibili linee evolutive del sistema processuale cinese. — Per quanto di notevole importanza storica, la codificazione del 1996 costituisce soltanto il punto di partenza di un cammino riformista ancora in fieri, che dovrà passare attraverso ulteriori modifiche del codice di rito, nell’ottica di un allargamento di quelle garanzie soltanto timidamente affermate nell’attuale assetto normativo. Questo almeno è il parere espresso dalla dottrina cinese maggioritaria che auspica una pronta messa a punto di alcuni istituti ancora troppo legati alla vecchia cultura inquisitoria e un’introduzione diffusa dei valori sanciti dalle Carte internazionali sui diritti dell’uomo. Ora, se si volesse tentare di cogliere il punto dolente dell’attuale assetto normativo, non sarebbe difficile ricollegarlo alla mancata previsione del fondamentale principio secondo cui nemo tenetur se detegere. L’assenza nell’ordinamento cinese di un riconoscimento espresso del diritto a non collaborare al processo e di rimanere in silenzio di fronte alle domande dell’autorità procedente, rischia infatti di rendere del tutto inefficaci le norme poste a protezione dei diritti della difesa, che altrimenti servirebbero soltanto a ‘‘vestire’’ di garantismo un sistema in realtà ancora orientato all’acquisizione della dichiarazione confessoria dell’imputato (42). Se l’introduzione dello ius tacendi non sembra più prorogabile, ugualmente auspicabile appare l’inserimento nella trama codicistica di una precisa enunciazione della presunzione di innocenza che, come abbiamo già rilevato, viene oggi desunta in via indiretta dal precetto contenuto nell’art. 12 c.p.p. e che quindi potrebbe essere estromessa dall’ordinamento da un eventuale revirement interpretativo. Accanto ai profili concernenti il diritto al silenzio e la presunzione di innocenza, vanno (40) Ad un livello più generale, va rimarcato come le profonde trasformazioni sociali intervenute di recente in Cina e la conseguente formazione di una nuova sensibilità per i valori di libertà, non potevano che condurre ad una maggiore attenzione per il diritto di difesa che, come è noto, « costituisce la proiezione nel processo di quegli attributi di libera determinazione, autonomia e autoresponsabilità che assistono l’individuo in ogni settore della vita sociale ». Così O. DOMINIONI, La qualità d’imputato, in Le parti nel processo penale. Profili sistematici e problemi, Milano, 1985, p. 153. (41) In realtà, è stata rilevata la necessità di un intervento legislativo capace di delineare con precisione gli aspetti organizzativi del gratuito patrocinio. Attualmente, il sistema di legal aid si fonda sulle disposizioni emesse dai dipartimenti di giustizia dei singoli circuiti e trae il proprio sostentamento economico dalle donazioni che i privati cittadini e le imprese versano sotto l’incentivo di alcuni sgravi fiscali. Per questa mancanza di struttura organica, spesso l’avvocato non riceve alcun corrispettivo per lo svolgimento della difesa dei non abbienti, circostanza che ovviamente incide sul suo grado di motivazione ed in definitiva sull’effettività della difesa tecnica. (42) Rileva questo nodo critico YUE LILING, The Status Quo of Chinese Criminal Evidence Law and the Trends of Reform, Intervento presentato alla ‘‘First World Conference of New Trends in Criminal Investigation and Evidence’’, Aia, 1-5 dicembre 1995, sulla quale v. E.M. CATALANO, Il primo convegno mondiale sulle nuove prospettive in materia di investigazioni penali e di prova, in Ind. pen., 1996, p. 591.


— 1353 — segnalate almeno due ulteriori aporie del nuovo sistema che impongono una riflessione da parte del legislatore. La prima riguarda la carenza di meccanismi di monitoraggio sull’operato dei pubblici ministeri, soprattutto in relazione all’emissione di provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale. Non a caso, nel dibattito scientifico cinese si fa sempre più riferimento alla figura del nostro giudice per le indagini preliminari quale modello a cui ispirarsi per plasmare un nuovo soggetto processuale con poteri di controllo sulla fase cautelare e sull’esercizio dell’azione penale. La seconda aporia concerne una specifica disposizione codicistica che, nella fase terminale del dibattimento, consente al Collegio di deferire la decisione al Comitato giudiziario del distretto (43), un organismo composto dai magistrati più anziani e da alcuni dirigenti amministrativi (44). Si tratta di una norma che rischia di mettere in crisi alcuni dei valori posti alle fondamenta della nozione di giusto processo, quali, ad esempio, il principio di immediatezza della pronuncia inteso come rapporto diretto tra giudice e prova e, soprattutto, il principio di immutabilità del giudice, nella parte in cui prescrive che la decisione giurisdizionale debba essere presa dallo stesso organo che ha provveduto alla trattazione del procedimento. Queste dunque le principali questioni sul tavolo, sulle quali sarà necessario riflettere negli anni a venire. Al di là degli aspetti più propriamente tecnico-giuridici, tuttavia, non può essere dimenticata un’ulteriore problematica, che rientra maggiormente sul terreno di competenza della cosiddetta ‘‘sociologia del processo’’ (45). Si tratta del concreto rischio di un movimento di controriforma dovuto alla resistenza degli operatori, legati ad una forma mentis acquisita negli anni e riluttanti ad abbandonare una modalità di accertamento giudiziale oramai consolidata. Il pericolo è tutt’altro che ipotetico. Come hanno mostrato l’esperienza italiana e, più di recente, quella francese (46), nei fenomeni di codificazione l’opposizione dei protagonisti del rito penale — giudici ed avvocati — può portare ben presto ad uno stravolgimento dell’architettura processuale voluta dal legislatore (47). Nelle riforme processuali, così come nelle rappresentazioni musicali, può non essere sufficiente sostituire lo spartito, se gli strumenti e i suonatori rimangono gli stessi (48). LUCA LUPÁRIA Ricercatore di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Milano SUN WEIPING Università di SJTU - Cina (43) Il nuovo art. 149 c.p.p., infatti, dispone che ‘‘qualora risulti troppo difficile rendere una decisione su di un caso che si presenti complesso ed importante, il Collegio può chiedere al Presidente della Corte di sottoporre la questione al Comitato giudiziario per la discussione e la decisione’’. (44) Per alcuni rilievi sulla posizione di questo organo nell’ordinamento giudiziario cinese cfr. DU XICHUAN-ZHANG LINGYUAN, China’s Legal System. A General Survey, Beijing, 1990, p. 96. (45) Cfr. M. NOBILI, Lo studio del processo penale fra metodo sociologico e metodo ‘‘tecnico-giuridico’’, in La disciplina costituzionale del processo, Bologna, 1976, p. 9. (46) Nel 2001 la magistratura francese si è resa autrice di alcuni eclatanti gesti di protesta a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 2000-516 (Loi renforçant la présomption d’innocence et les droits des victimes). Diffusamente, M. VOGLIOTTI, La ‘‘rhapsodie’’: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser l’écriture juridique contemporaine. Une hypothèse de travail pour le champ pénal, in Rev. interd. etud. jur., 2001, p. 141. (47) Per alcune riflessioni sul punto v., per tutti, E. AMODIO, The accusatorial System Lost and Regained. Reforming Criminal Procedure in Italy, Relazione presentata al Colloquium ‘‘Criminal Justice between Due Process and Crime Control. Convergence and Divergence in Criminal Procedure Systems’’, Schloss Ringberg 8-11 maggio 2002, testo dattiloscritto, pp. 13-14; ID., Rovistando tra le macerie della procedura penale, in Cass. pen., 1993, p. 2941. (48) Cfr. M. DAMAŠKA, Evidence Law Adrift, Yale, 1997, p. 25.


COMMENTI E DIBATTITI

CERTEZZA DEL DIRITTO SOLTANTO SULLA CARTA E PERICOLO TOTALITARIO (*)

Montesquieu, com’è noto, aveva definito il giudice come « la bocca della legge »: « la bouche qui prononce les paroles de la loi: des êtres inanimés qui n’en peuvent modérer ni la force ni le rigueur » (1). L’illuminismo giuridico — del quale Montesquieu può essere considerato il principale rappresentante — ha consegnato al mondo moderno il principio della certezza del diritto. La reazione più estrema contro questa nobile tradizione di pensiero si è avuta nel Novecento con il totalitarismo: le legislazioni penali nazionalsocialista e sovietica hanno entrambe abolito il divieto di analogia nel diritto penale, e hanno introdotto così la massima incertezza giuridica, attribuendo al giudice una discrezionalità assai ampia (sia pure nell’ambito delineato dal Führerprinzip, ovvero dal predominio dell’ideologia del partito al potere). Se dunque queste sono le due posizioni estreme contrapposte nell’età moderna, nella realtà storica, nelle varie caratterizzazioni di diverse legislazioni moderne, la situazione appare assai più complessa. In realtà, dopo la Rivoluzione francese e soprattutto dopo il e in forza del regime politico napoleonico, lo sviluppo dello Stato moderno, se pure in linea di principio volto a mantenere sulla carta la fedeltà al principio della certezza del diritto, nella concreta prassi legislativa ha portato a molte e notevoli reazioni al riguardo. È proprio su questo contesto che opera l’importante libro di Sergio Moccia, La ‘promessa non mantenuta’ (ESI, Napoli 2001). Il libro, infatti, si fonda sulla constatazione che, tra le « promesse non mantenute » da parte delle legislazioni penali della modernità, « il principio di determinatezza/tassatività rappresenta l’esempio più evidente » (p. 11). La tesi di Moccia è che la genuina realizzazione di tale principio è venuta meno non soltanto a causa dell’opera contraria di correnti dottrinali avverse all’illuminismo, quali la Scuola storica, la Freirechtsbewegung, le dottrine sociologiche di Ehrlich e di Gény, ma anche a causa di gravi difetti di applicazione di esso da parte di legislazioni che, in teoria, lo accettavano e lo proclamavano (p. 12). Moccia distingue concettualmente fra determinatezza, che indica la precisione nella formulazione della fattispecie penale, e tassatività, che limita rigorosamente l’applicazione della norma penale soltanto a determinati casi; ma i due concetti sono strettamente collegati (pp. 13-14). Moccia sottolinea poi il duplice significato che il principio di rigorosa certezza del diritto riveste nel pensiero dell’autore che ne ha, nel modo più tipico, delineato il valore e indicato le implicazioni: Paul Johann Anselm Feuerbach. Da un lato la garanzia della libertà degli individui, la loro tutela dall’arbitrio del potere; dall’altro, lo stretto rapporto tra la precisa formulazione della fattispecie penale (Straftatbestand) e la funzione di coazione psicologica (psychologischer Zwang) propria della legge penale. Tuttavia, il significato principale è il primo, in quanto legato all’esigenza della difesa della libertà del cittadino e ai principî dello Stato di diritto. Infatti, Moccia, sulla linea di Gustav Radbruch, osserva che la principale caratteristica (e quindi il maggior valore) della dottrina di Feuerbach (*) A proposito del libro di S. MOCCIA, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, ESI, Napoli, 2001. (1) MONTESQUIEU, Esprit des Lois, XI, 6.


— 1355 — sta nella sua « inequivoca e precisa fondazione del sistema penale sul principio di legalità », piuttosto che nella teoria della coazione psicologica, che aveva avuto i suoi precedenti nelle concezioni di Mario Pagano e di Giandomenico Romagnosi (la « controspinta alla spinta criminosa ») (p. 16). Del resto, non possiamo e non dobbiamo dimenticare la fondamentale critica rivolta da Karl Grolman al carattere positivistico e vòlto a teorizzare l’arbitrio del legislatore, proprio della teoria della prevenzione generale basata sulla minaccia nella legge penale quale unica e fondamentale giustificazione della pena; nello stesso tempo, Grolman era riuscito a conciliare il principio della certezza del diritto con il più umano scopo della prevenzione speciale, introducendo il ciriterio del limite minimo e del limite massimo per la commisurazione della pena in ogni tipo di reato (2). Giustamente, poi, Sergio Moccia sottolinea l’esigenza che il principio di determinatezza/tassatività sia attuato e rispettato sia in rapporto alla fattispecie penale, sia in rapporto al tipo e alla misura della pena; non solo, ma che esso valga anche a livello processuale penale. Inoltre, la determinatezza/tassatività della norma penale deve coniugarsi con il suo carattere di ultima ratio (la pena deve essere necessaria, dicevano Montesquieu e Beccaria) e con il carattere della « offensività » della fattispecie delittuosa; vale a dire, l’esigenza che sia prevista come reato un’azione esterna, che produce una violazione di un diritto individuale altrui, ovvero di un bene giuridico. Ricordiamo che Albin Eser ha giustamente affermato che il diritto penale esiste non per via della pena, ma per via della tutela del bene giuridico (3). Se la mancata promessa di una effettiva certezza del diritto riguarda in generale molte legislazioni dell’età moderna, una posizione particolarmente rilevante riveste, a tale riguardo, il Codice Rocco, ovvero il codice fascista mantenuto dalla Repubblica democratica anti-fascista. Molto precise e opportune sono le considerazioni che Moccia svolge a questo riguardo. Il codice Rocco, affermando solennemente, nell’art. 1, il principio nullum crimen e nulla poena sine lege, non aveva assunto, sulla carta, la posizione decisamente contraria alla certezza del diritto, con abolizione del divieto di analogia, propria delle altre due legislazioni totalitarie, nazionalsocialista e sovietica; tanto è vero che Giuseppe Maggiore, con lo scritto Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, del 1939, aveva criticato questa parte del Codice Rocco, auspicando l’avvicinamento della legislazione fascista italiana, alle due legislazioni ora citate (4). Ora, sappiamo che Hannah Arendt ha considerato il fascismo italiano (così come il franchismo spagnolo) un regime politico autoritario, ma non « totalitario » in senso proprio (5); ma è noto che la Arendt non si è soffermata in modo particolare sugli aspetti giuridici del totalitarismo, e comunque la presenza di tale art. 1 nel Codice fascista non può di per sé giustificare l’esclusione del regime mussoliniano dai sistemi politici totalitari. Sergio Moccia, infatti, dedica delle pagine di estremo interesse proprio al Codice Rocco, e osserva che la scelta, espressa dall’art. 1, « lungi dal configurare una caratteristica liberalgarantista del Codice Rocco, testimonia soltanto la ‘duttilità’ politica del mero principio di legalità — scollato, quindi, da taluni dei suoi corollari di ordine formale e sostanziale — che di per sé non risulta di ostacolo ad un disegno politico-giuridico autoritario » (p. 34). Dalla parte speciale del codice « emergono gli strumenti di neutralizzazione delle istanze garanti(2) K. GROLMAN, Über die Begründung des Strafrechts und der Strafgesetzgebung, nebst einer Entwicklung der Lehre von der Maasstabe der Strafen und der juridischen Imputation, Giessen 1799, ristampa Verlag Sauer & Auvermann KG, Frankfurt am Main 1968, pp. 9-10 e 171-173. (3) A. ESER, Empfiehlt es sich, die Straftatbestände des Mordes, des Totschlags und der Kindestötung (§§ 211 bis 213,217 StGB) neu abzugrenzen?, Gutachten D zum 53. Deutschen Juristentag, Berlin 1980, p. D 87: « dass das Strafrecht nicht um der Strafe, sondern um der Rechtsgüterschutzes willen da ist ». (4) G. MAGGIORE, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, in questa Rivista, XI (1939), pp. 131-139. (5) H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, London 1951 (II ed. ampliata 1958), pp. 257 e 308-309.


— 1356 — stiche connesse alla scelta di legalità formale » (ibidem). Nelle pagine seguenti, Moccia procede a un’ampia analisi dei molti casi di formulazione di fattispecie penali — contenute nel Codice Rocco — che non rispettano per nulla il principio di determinatezza/tassatività. Possiamo ricordare, a questo riguardo, una importante osservazione di Giuseppe Bettiol: « Se nel Codice penale italiano del 1930 il principio di legalità si ritrova pur sempre in limine codicis, ciò era dovuto più al rispetto verso un principio penetrato ormai nelle coscienze, che a ragioni inerenti alla logica del sistema politico, pur tuttavia continuando a sussistere motivi che sostenevano tale principio. Si tratta pur sempre di ragioni viste sub specie auctoritatis, non sub specie libertatis, di motivi che interessano lo Stato, non l’individuo: così il principio di legalità è mantenuto perché in tal modo il potere giudiziario è subordinato a quello esecutivo, nelle cui mani, in un regime autoritario, è depositato il supremo potere. La posizione dell’individuo non viene in considerazione » (6). Del resto, ricordiamo che Georg Dahm e Friedrich Schaffstein, nel loro libro in un certo senso « pre-nazista » Liberales oder autoritäres Strafrecht? del 1933, sostenevano una certa limitazione dell’attività del giudice, affermando che il principio nulla poena sine lege, fino ad allora inteso in prospettiva liberale, corrispondeva anche a una concezione autoritaria dello Stato; ed era questa linea che essi intendevano sottolineare (7). In tal modo la loro posizione era l’esatto opposto di quella espressa da Karl Ferdinand Hommel, il « Beccaria tedesco », il quale era invece favorevole a un ampliamento della discrezionalità del giudice, ma soltanto in favorem rei. Hommel, in una nota al passo di Beccaria dove questi nega al giudice la facoltà di interpretare la legge penale, scrive: « Er hätte dieses nur von der Auslegung, die die Strafgesetze erweitern will, nicht aber von der, die sie einzuschränken sucht, sagen sollen » (8). D’altra parte, lo stesso Schaffstein, in uno scritto del periodo ormai di deciso sostegno al nazionalsocialismo, sosteneva — distaccandosi in tal modo dalla posizione di Carl Schmitt — ancora la necessità di mantenere in una certa misura il principio della certezza del diritto, della sottoposizione del giudice alla legge; ma anche qui Schaffstein rifiutava la tesi liberale del vincolo del giudice alla legge a tutela dell’individuo, e sosteneva tale principio puramente dal punto di vista dell’autorità dello Stato; il principio che aveva valore al riguardo secondo Schaffstein era puramente il Führerprinzip (9), ovvero il principo dell’autorità del « capo », del detentore del potere esecutivo, il quale, in quanto tale, era anche titolare della funzione legislativa. Il mantenimento dunque sulla carta del principio di legalità e certezza del diritto non è dunque sufficiente — come Moccia bene sottolinea — a preservare lo Stato da una pesante ricaduta in nette forme di autoritarismo o anche totalitarismo. Il codice Rocco in realtà unisce una impostazione autoritaria nella tipologia dei reati, con la maggiore importanza riservata ai reati contro la personalità dello Stato, con la previsione di pene particolarmente severe (come Moccia mette in rilievo), a una serie di fattispecie particolarmente generiche e non precise. Per fare qualche esempio, le norme sui reati di vilipendio, oltre a costituire una limitazione della libertà di critica, hanno una formulazione tautologica: « Chiunque vilipende... », senza spiegazione del significato del « vilipendere »; qual è, in tale prospettiva, la precisa differenza tra critica ed insulto? Troppo spesso una legittima critica può venir fatta passare per ingiuria.Ancora, le norme sui reati associativi uniscono una fattispecie caratteriz(6) G. BETTIOL, Il problema penale, Palermo 1948, pp. 45-46. (7) G. DAHM und F. SCHAFFSTEIN, Liberales oder autoritäres Strafrecht?, Hamburg 1933, p. 52. (8) G. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, IV; K.F. HOMMEL, Des Herrn Marquis von Beccaria unsterbliches Werk von Verbrechen und Strafen, Breslau 1778, ristampa a cura di J. Lekschas, Berlin 1966, Anmerkung, p. 42. (9) F. SCHAFFSTEIN, Formalismus im Strafrecht, in Deutsches Recht 1934, pp. 351-352. V. anche Nationalsozialistisches Strafrecht. Gedanken zur Denkschrift des Preussischen Justizministers, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft 1934, pp. 606-608.


— 1357 — zata dalla mancanza di una effettiva lesione di un bene giuridico a una formulazione quanto mai ampia, vaga e indeterminata. Se dunque la promessa di rigorosa certezza del diritto a tutela della libertà individuale non è stata mantenuta nel Codice Rocco, e anche in altre legislazioni, ciò significa che nell’età moderna e contemporanea si è verificata una sostanziale deviazione dai principi basilari, chiari e semplici, risalenti all’illuminismo giuridico, espressi primariamente dai due nomi di Montesquieu e Beccaria. In tal modo ci si rende conto che non è necessario arrivare alle posizioni estreme negative proprie dei tradimenti delle promesse illuministiche; sul piano giuridico — è merito precipuo del libro di Moccia averlo messo in evidenza — è già sufficiente il non aver mantenuto la promessa di attuare il principio di determinatezza/tassatività, per consentire al potere politico — sia pure nella cornice di una proclamazione ufficiale di quel principio — di calpestare impunemente, in molti casi, nella sostanza, il valore della certezza, che dovrebbe tutelare sempre fermamente la libertà individuale. MARIO A. CATTANEO Ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Treviso


UNA PROPOSTA DI RIFORMA DEI REATI CONTRO I BENI CULTURALI

A) Fondamenti per l’introduzione nel codice penale di un titolo dedicato ai ‘‘Reati contro i beni culturali’’. — Per l’art. 9 della Costituzione: ‘‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’’. L’obbligo di tutela dei beni culturali trova pertanto nel nostro ordinamento riconoscimento costituzionale. Oltre l’enunciazione del dovere nessuna ulteriore precisazione è contenuta nella Costituzione: spetta dunque al legislatore non solo il compito di precisare il contenuto della nozione di patrimonio storico e artistico ma anche di esplicitare il sistema e i modi di tutela. La previsione costituzionale e il rango attribuito ai beni culturali impongono il ricorso al diritto penale come irrinunciabile strumento di prevenzione, repressione, ‘‘stigmatizzazione’’ e riaffermazione del valore tutelato. Le disposizioni del codice penale del 1930 (e dunque precedenti e non coordinate con la carta fondamentale) non attribuiscono alla tutela dei beni culturali un ruolo adeguato al rango costituzionale. Alle forme più gravi di aggressione ai beni culturali — la distruzione e la dispersione — è attualmente possibile reagire con disposizioni dettate in un’altra ottica (quella meramente patrimonialistica) e attraverso un’interpretazione adeguatrice (evolutiva) delle disposizioni stesse. Si pensi alle disposizioni in tema di furto e danneggiamento. Per punire il furto di beni culturali attualmente si può solo (e non sempre) ricorrere alla circostanza aggravante del furto prevista nell’art. 625, n. 7 del codice penale, il quale dispone l’aggravamento di pena ‘‘Se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici e stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza’’. I beni culturali sono stati considerati rientrare — in via interpretativa — tra gli oggetti materiali di questa circostanza aggravante in ragione della fruizione pubblica che (talora) li caratterizza. La pubblica fruizione è infatti necessaria per lo svolgimento della loro funzione, di strumenti per lo sviluppo della cultura, e quindi della personalità umana. La circostanza aggravante prevista nell’art. 625, n. 7, c.p. è misura del tutto inadeguata rispetto all’obiettivo di una efficace salvaguardia del patrimonio storico-artistico. Sotto un profilo di tecnica giuridica, l’applicazione della circostanza può essere completamente elisa dal concorso di circostanze attenuanti ritenute dal giudice prevalenti nel giudizio di bilanciamento. Inoltre è dubbia la riconducibilità all’aggravante dei beni culturali di proprietà privata. Infine e soprattutto si parifica — conseguenza questa irragionevole — sotto un profilo di previsione e di punizione il furto di opere d’arte a quello degli autoveicoli parcheggiati sulla pubblica via e a quello compiuto nei supermercati. Anche in tema di danneggiamento attualmente sono presenti i medesimi inconvenienti, di impostazione e di tecnica, nonostante un recente intervento legislativo. Infatti quando il danneggiamento comune, previsto dall’art. 635 c.p. ha per oggetto beni facenti parte del patrimonio storico-artistico, si applica l’aggravante di cui al comma 2, n. 3, dello stesso articolo. L’art. 13 della l. n. 352/1997 ha precisato l’oggetto della tutela: ‘‘cose di interesse sto-


— 1359 — rico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici’’, e ha aggiunto, allo scopo di rafforzare la tutela, il seguente comma all’art. 639 c.p. (‘‘Deturpamento o imbrattamento di cose altrui’’): ‘‘se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici, si applica la pena della reclusione fino a un anno o della multa fino a lire due milioni e si procede d’ufficio’’. Gli interventi di riforma hanno riguardato dunque l’oggetto della tutela, adeguando le norme all’affinamento della coscienza sociale in tema di beni culturali, ma non hanno inciso sulla struttura delle fattispecie, in quanto il danno al patrimonio storico-artistico continua a costituire un disvalore aggiuntivo, descritto nella fattispecie sotto forma di circostanza, nell’ottica della tradizionale visione patrimonialistica. Comunque la modifica legislativa consente per lo meno di comprendere nell’ambito di tutela tutti i beni culturali, pubblici e privati, senza la limitazione contenuta nella precedente formulazione del n. 3 del capoverso dell’art. 635 (‘‘su edifici pubblici o destinati ad uso pubblico o all’esercizio di un culto, o su cose indicate nel n. 7 dell’art. 625’’). Pertanto risulta adesso preso in considerazione, seppur in forma circostanziale, il valore culturale in sé — anziché quella che ne costituisce una modalità, cioè la destinazione al pubblico — e viene eliminato il collegamento prima esistente con l’incerta formula della circostanza aggravante del furto. Alla precisazione dell’oggetto materiale non si è accompagnato un intervento su quelli che venivano indicati come spazi vuoti di tutela, cioè le ipotesi di danneggiamento colposo (frequentissime e non coperte dalla disposizione dell’art. 635 c.p., come anche da quella dell’art. 639 c.p., che concernono fattispecie dolose) e di danneggiamento su cosa propria. A coprire queste lacune dovrebbe contribuire la contravvenzione dell’art. 733 c.p. (‘‘Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale’’), che però dati i suoi limiti strutturali (è stata definita ‘‘una contravvenzione ‘gigante’, di rara verificazione pratica’’) ha avuto in giurisprudenza un’applicazione contrastata e marginale. I vizi strutturali dell’art. 733 c.p. non consentono comunque di rimediare in modo completo ai due punti fondamentali in tema di danneggiamento di beni culturali: il danneggiamento colposo e il danneggiamento di cosa propria vincolata. L’insufficienza degli strumenti normativi e una impostazione che non attribuisce ai beni culturali l’adeguato rilievo riconosciuto dalla Costituzione impongono un ripensamento della disciplina codicistica, per assegnare un significato nuovo alla tutela penale dei beni culturali in Italia creando un titolo apposito (come per i beni ambientali). La tutela penale del patrimonio storico-artistico può assumere due forme. La prima forma è costituita da un sistema di tutela penale indiretta, che si basa cioè sul regime privatistico dei beni e nel quale il carattere culturale del bene ha il significato di semplice limite ai poteri di disposizione e godimento del proprietario e il valore ideale (culturale) ha semplice carattere accessorio rispetto alla materialità del bene. In tale sistema il patrimonio storico-artistico non assume il ruolo di bene giuridico autonomo; il carattere storico-artistico dell’oggetto materiale leso costituisce un disvalore aggiuntivo nell’ambito di reati con un’oggettività giuridica differente (reati contro il patrimonio) e assume nella struttura del reato la veste di circostanza aggravante. La seconda forma è un sistema di tutela penale diretta del patrimonio storico-artistico. Tale sistema presuppone un regime pubblicistico protettivo, che assume come base una nozione di bene culturale nella quale il valore ideale si compenetra così profondamente nell’elemento materiale da formare un nuovo bene giuridico, che deve costituire oggetto di protezione diretta da parte dello Stato, indipendentemente dall’appartenenza pubblica o privata del bene e anche nei confronti di possibili offese da parte dello stesso proprietario. In tale sistema il patrimonio storico-artistico costituisce appunto un autonomo bene giuridico, oggetto di protezione diretta da parte del legislatore. La formula più adeguata per tale protezione diretta è la creazione all’interno del codice penale di un titolo appositamente dedicato ai reati contro il patrimonio storico-artistico.


— 1360 — Le disposizioni attualmente contenute nel codice penale apprestano una mera tutela indiretta del patrimonio storico-artistico. Infatti il patrimonio storico-artistico non vi assurge quale bene giuridico autonomo, ma rileva in via eventuale laddove beni culturali siano oggetto materiale del reato. In tal caso la lesione di beni culturali può al massimo costituire — a titolo di circostanza — motivo di aggravamento di fattispecie poste a protezione di altri beni (patrimoniali). Pertanto la culturalità del bene non rientra tra gli elementi oggettivi che concorrono a descrivere l’offesa al bene giuridico: non è un elemento necessario per la sussistenza del fatto, ma esprime solamente un disvalore aggiuntivo in reati aventi oggettività giuridica diversa. Il sistema attualmente vigente non appare perciò rispettoso del dettato costituzionale, il quale attribuisce rilievo autonomo ai beni culturali, alla loro conservazione e al loro sviluppo. La previsione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione è infatti contenuta tra i principi fondamentali della Costituzione, anziché costituire solamente esplicazione della funzione sociale della proprietà e dunque quale possibile limite a essa. Si ribadisce pertanto la necessità di introdurre un titolo apposito nel codice penale, che raggruppi in particolare le più gravi offese di danno al patrimonio culturale: danneggiamento, sottrazione, appropriazione, ricettazione e circolazione illecita. Dall’analisi dei sistemi stranieri di tutela del patrimonio culturale risulta l’assoluta prevalenza degli ordinamenti nei quali la tutela penale codicistica è di tipo indiretto, assumendo rilievo autonomo il patrimonio storico-artistico solo nella legislazione complementare. Solo ordinamenti recentemente riformati assumono coscienza della necessità di considerare autonomamente tale bene giuridico attraverso la creazione di un titolo apposito nel codice penale. In questo senso l’esempio più significativo è costituito dal codice spagnolo del 1995, che prevede un capitolo espressamente intitolato ‘‘De los delitos sobre el patrimonio histórico’’. In Italia, dove il patrimonio storico-artistico costituisce forse il più importante fattore di identità nazionale, con importanti riflessi anche economici, e dove, secondo recenti statistiche, è situato il 60% del patrimonio storico-artistico mondiale, non si può non seguire la via di una tutela penale diretta. Come sottolinea in generale la dottrina penalistica, la previsione di reati nel codice penale — anziché in altri testi legislativi separati — pone in particolare risalto la centralità di taluni beni giuridici e attribuisce speciale evidenza a una ‘‘tavola di valori’’ la cui difesa è irrinunciabile per la società. ‘‘La modernità di un codice nella legislazione di uno Stato, anzi, si misura proprio con il suo grado di corrispondenza alle rappresentazioni di giustizia presenti nella società in un dato momento storico (significato di orientamento sui valori)’’. L’inserimento nel codice dei reati contro i beni culturali avrebbe anche una significativa valenza in termini di integrazione sociale, in quanto servirebbe a correggere l’ancora diffusa, erronea opinione che molti di tali fatti, spesso gravissimi sul piano della dannosità sociale, costituiscano dei ‘‘reati da gentiluomini’’. La collocazione del titolo dedicato ai reati contro i beni culturali nel corpo della parte speciale deve poi tenere conto che i beni culturali rappresentano beni-mezzo per la salvaguardia e lo sviluppo della personalità umana. Dunque in un catalogo dei beni tutelati che muova da tale prospettiva, questo titolo di reati dovrà trovare collocazione vicina ad altri beni-mezzo, come per esempio quelli ambientali e quelli contro il paesaggio. In virtù del principio di sussidiarietà (o di necessarietà), per il quale l’ingresso del diritto penale dovrebbe costituire l’ultima ratio, quando altri rami dell’ordinamento non promettano (o abbiano già non dimostrato) di offrire adeguata tutela, è necessario inserire nel codice penale solo le più gravi forme di offesa al patrimonio culturale. Nella legislazione complementare — egualmente da riformare — dovranno essere comprese tutte quelle fattispecie nelle quali è presente la violazione di obblighi ma non sussiste un’offesa di danno: peraltro molte di tali fattispecie potrebbero essere sanzionate — anziché penalmente — amministrativamente.


— 1361 — Infine, e prima di passare all’elencazione delle fattispecie da includere nel codice penale, è necessaria una precisazione circa l’oggetto della tutela. Al riguardo è importante la distinzione tra tutela del patrimonio culturale dichiarato e tutela del patrimonio culturale reale. Tutela del patrimonio culturale dichiarato significa ‘‘circoscrivere la tutela ai soli beni il cui valore artistico è oggetto di previa dichiarazione’’. Invece tutela del patrimonio culturale reale significa assegnare protezione alle cose in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti. Ebbene, limitare l’ambito di tutela al patrimonio culturale dichiarato significa soddisfare un’esigenza di certezza, ma comporta il rischio di privare di protezione gran parte dei beni culturali, quelli di proprietà privata sforniti della necessaria ‘‘dichiarazione’’. Per converso, nell’ottica di un sistema di tutela del patrimonio culturale reale, i vantaggi del sistema di tutela del patrimonio culturale dichiarato si tramutano in difetti. Infatti l’esigenza di certezza perde di importanza di fronte al (grave) rischio di non salvaguardare la grande quantità di beni culturali non dichiarati. In tale sistema si assegna un compito fondamentale all’elaborazione giurisprudenziale (seppure con l’ausilio di perizie di esperti) e assume un ruolo di primo piano l’errore sul carattere culturale del bene, invocato spesso a propria scusa da parte dell’autore del fatto. In generale si può affermare che un tipo di tutela del patrimonio culturale reale (soprattutto se il valore culturale del singolo bene sia particolarmente elevato) dovrebbe essere assolutamente prevalente nelle fattispecie lesive o nelle ipotesi di esportazione illecita del bene, ciò che può comportare la perdita definitiva del controllo sul bene stesso; mentre per quanto concerne gli obblighi di conservazione e le disposizioni sull’alienazione di tali beni dovrebbero concorrere entrambi i sistemi, dichiarato e reale, in rapporto all’efficienza in vario modo dell’opera di catalogazione. A questo punto rilevano due considerazioni: la prima è che l’obiettivo deve essere quello di fare coincidere il più possibile il patrimonio culturale dichiarato con il patrimonio culturale reale; la seconda è che tale obiettivo non potrà mai essere completamente raggiunto, data la vastità del patrimonio storico, artistico, archeologico, demoetnoantropologico del nostro Paese e per il possibile mutamento nei diversi momenti storici della sensibilità culturale che porta al riconoscimento del carattere culturale dei beni. Pertanto accanto all’espansione del sistema di tutela del patrimonio culturale dichiarato dovrebbe sempre necessariamente residuare uno spazio per la tutela del patrimonio culturale reale. La nostra Costituzione — e ciò rappresenta argomento decisivo a favore della scelta per un sistema di tutela del patrimonio culturale reale — all’art. 9 indica quale compito fondamentale della Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Attuazione piena a tale compito può essere data solo attraverso un sistema di tutela che comprenda la totalità dei beni culturali, e ciò anche in considerazione del fatto che nel nostro sistema i beni culturali costituiscono un valore in sé, e la loro tutela non si impone — come invece avviene in altri ordinamenti — quale esplicazione della funzione sociale della proprietà privata e dunque quale limite a essa, ma piuttosto come espressione positiva e adempimento di un obbligo direttamente previsto dalla Costituzione (art. 9). In prospettiva di riforma dell’intero settore dei beni culturali si può suggerire un sistema per ridurre le lacune di tutela nell’ambito di un quadro di certezza: l’introduzione della distinzione tra catalogazione e dichiarazione di interesse storico-artistico, sulla traccia dei sistemi francesi dell’inscription e del classement. La catalogazione deve costituire momento precedente e strumentale alla dichiarazione di interesse storico-artistico, necessaria solo se e quando vi sia pericolo per l’integrità del bene culturale e dunque vi sia necessità di salvaguardia attraverso l’imposizione di obblighi particolarmente rigidi ai proprietari. Ai fini penali dell’identificazione dell’oggetto materiale potrebbe quindi derivare che la tutela penale del patrimonio culturale catalogato potrebbe essere un’utile opzione una volta che l’attività di catalogazione nel nostro Paese raggiungesse livelli soddisfacenti e agli elenchi venisse data opportuna pubblicità.


— 1362 — B) La proposta. — Precisiamo ora i termini della proposta di inserimento nel codice penale di un titolo dedicato ai ‘‘Reati contro i beni culturali’’. Non conoscendo la tecnica di redazione delle fattispecie che sarà seguita nel futuro codice penale, la struttura tecnico-giuridica degli articoli è chiaramente perfettibile. Si è preferito non indicare l’entità delle sanzioni detentive, poiché essa andrebbe armonizzata con quella delle altre fattispecie del futuro codice penale; per quanto concerne la pena pecuniaria l’indicazione è impossibile, non conoscendo la tecnica di previsione edittale che sarà prevista. Con le previsioni del codice penale dovranno poi essere armonizzate, riguardo ai reati più gravi, quelle del codice di procedura penale in tema di arresto obbligatorio in flagranza (art. 380) e di ammissibilità di intercettazioni (art. 266). a) Il titolo reca la rubrica ‘‘Reati contro i beni culturali’’. È preferibile il riferimento ai ‘‘beni culturali’’ anziché per esempio al ‘‘patrimonio culturale’’, perché con l’espressione ‘‘beni culturali’’ viene meglio descritta l’immedesimazione del valore ideale e dell’elemento materiale: il valore ideale e l’elemento materiale si compenetrano, cosicché tale valore diventa l’essenza del bene e non solo il motivo (la ratio) della tutela. La definizione ‘‘patrimonio culturale’’ potrebbe richiamare un significato economicomateriale da respingere. b) In apertura del titolo si prevede una ‘‘Definizione di beni culturali’’. Si aderisce pertanto all’opinione dottrinale che ritiene opportuno (o doveroso) che il legislatore penale, quando fa uso di termini suscettibili di molteplici interpretazioni, ne fornisca una definizione, per evitare il trasferimento di scelte politico-criminali dal legislatore al singolo giudice. Nell’ambito della nozione di beni culturali si distinguono due accezioni. Secondo la prima la nozione di beni culturali si riferisce alle sole creazioni dello spirito umano in materia intellettuale e artistica. Secondo l’altra accezione la nozione si rapporta alle opere umane che nella loro diversità identificano una civiltà. Mentre precedentemente l’esigenza di tutela era sentita solo nei confronti delle opere d’arte e dei monumenti più importanti, oggi l’ambito di tutela si va allargando secondo una prospettiva storica ed etnologica. La nozione di beni culturali valida ai fini delle disposizioni di questo titolo dovrebbe pertanto riferirsi a entrambe queste accezioni. Rimane impregiudicata la possibilità di altre definizioni nella legislazione complementare, in vista dell’assegnazione di specifiche tutele, anche e soprattutto di tipo amministrativo. La definizione che si propone è la seguente. Definizione di beni culturali. — Agli effetti delle disposizioni del presente titolo, sono beni culturali quelli artistici, storici, archeologici e demoetnoantropologici. È preferibile questa ad altre definizioni, quale potrebbe essere il riferimento a ‘‘cose di interesse culturale’’, per evitare separazioni concettuali tra ‘‘cose’’ e ‘‘interesse’’, tra l’aspetto materiale e il valore ideale. Con questa formula viene data tutela — per i motivi visti prima — al patrimonio culturale reale. Questa definizione tendenzialmente indeterminata sarebbe sostituibile con una più precisa solo una volta che sarà completata o portata a buon punto l’attività di catalogazione: solo allora sarà possibile identificare l’oggetto di tutela con il patrimonio culturale dichiarato (o, meglio ancora, ove si accolga la distinzione proposta, catalogato). In questa fase di ancora eccessivo scollamento tra patrimonio culturale dichiarato e patrimonio culturale reale, la formula proposta evita pericolosi vuoti di tutela. La presenza di un margine di indeterminatezza dipende poi dalla natura di elemento valutativo (o extragiuridico) che comunque l’attributo della ‘‘culturalità’’ presenta: ‘‘l’identificazione del bene culturale comporta sempre un giudizio valutativo’’. È possibile anche una definizione più specifica, con un’elencazione, come quella contenuta nel testo unico n. 490/1999, che avrebbe comunque carattere esemplificativo e dovrebbe pertanto essere completata da una clausola di chiusura (p.es. e ogni altro bene che


— 1363 — costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà o altre simili): il concetto di beni culturali è sempre e comunque un concetto aperto. L’ampia definizione che si propone permette di includere anche le opere d’arte contemporanea, la cui tutela è attualmente (irragionevolmente) esclusa nelle disposizioni del testo unico. c) La prima fattispecie è quella di ‘‘Danneggiamento di beni culturali’’. Come già osservato, è necessaria una riforma immediata delle disposizioni in tema di danneggiamento, che non consista però in minimi interventi, ma che muti la struttura delle fattispecie, anche sotto l’aspetto dell’elemento psicologico; e soprattutto, ciò che costituirebbe finalmente un cambio epocale, abbandoni la visione patrimonialistica propria della forma circostanziale, per trasformare il danno al patrimonio culturale nell’evento specifico di una fattispecie riferita a un bene giuridico autonomo. L’adozione di una fattispecie di danneggiamento autonoma (anziché aggravante) seguirebbe una via già percorsa da altri ordinamenti (si pensi al § 304 StGB e agli artt. 321-324 del nuovo codice penale spagnolo). Nella nuova disposizione dovrebbe essere incluso tra i soggetti attivi anche (e soprattutto) il proprietario (data la sua ‘‘vicinanza’’ al bene). La configurazione quale delitto permetterebbe poi di punire anche il semplice tentativo. Indispensabile sarebbe la perseguibilità d’ufficio. Quanto all’elemento soggettivo, si potrebbe prevedere, e sarebbe la soluzione preferibile, nella stessa disposizione la fattispecie dolosa e quella colposa, con indicazione dei rispettivi limiti edittali di pena. Sotto il profilo sanzionatorio, imprescindibile sarà la previsione di misure volte alla reintegrazione, ove possibile, del bene danneggiato oltre alla confisca nei confronti del proprietario autore del danno; la pena da prevedere potrebbe poi essere lievemente più severa di quella attualmente propria del danneggiamento aggravato (reclusione da sei mesi a tre anni). L’applicazione della disposizione dell’art. 118 del testo unico n. 490/1999 (che attualmente punisce il compimento di opere non autorizzate sul bene) andrebbe limitata alle condotte intrinsecamente pericolose e inosservanti dei provvedimenti amministrativi (da punire con sanzione amministrativa o penale), mentre la presenza di un danno conseguente all’inosservanza dovrebbe portare sempre e unicamente all’applicazione della futura disposizione, evitando il concorso con l’art. 118. La violazione degli obblighi in cui si concreta attualmente la fattispecie dell’art. 118 potrebbe però essere convertita in una circostanza aggravante della nuova fattispecie di danneggiamento, e valutando se, quando non si verifichi un danno, essa possa essere prevista quale contravvenzione o semplice illecito amministrativo. Per mezzo di disposizioni siffatte verrebbe coperta l’intera gamma di comportamenti potenzialmente o direttamente lesivi del bene culturale. Sotto il profilo sanzionatorio si ritiene indispensabile l’introduzione insieme alla reclusione di misure di reintegrazione. Tali misure direttamente ordinate con la sentenza di condanna avrebbero un sicuro effetto deterrente e soprattutto sarebbero volte direttamente — ove possibile — alla ricostituzione del bene giuridico leso. La misura di reintegrazione potrebbe costituire sufficiente punizione con esclusione dell’applicazione da parte del giudice della pena detentiva, quando nei fatti colposi il grado della colpa non sia grave e il danno sia lieve. La fattispecie che si propone è la seguente. Danneggiamento di beni culturali. — Chiunque distrugge, demolisce, deteriora, disperde, o rende in tutto o in parte inservibili beni culturali, altrui o propri, è punito con la reclusione da... a... La sentenza di condanna dispone le seguenti misure di reintegrazione: a) ordine di esecuzione a spese del responsabile delle opere necessarie alla reintegrazione; b) e in caso di inottemperanza dell’ordine, esecuzione d’ufficio a spese dell’obbligato; c) o, quando non sia possibile la riduzione in pristino, obbligo di corrispondere allo Stato una somma pari al valore del bene perduto o alla diminuzione di valore subita dal bene. Il giudice può disporre la confisca dei beni culturali propri danneggiati. Alla sentenza di condanna consegue l’interdizione per la durata massima di... anni e in


— 1364 — caso di recidiva per la durata massima di... anni, dall’attività professionale o imprenditoriale, nell’esercizio della quale il reato è stato commesso. Se il fatto è colposo la pena è della reclusione fino a... Il giudice può escludere l’applicazione della pena della reclusione, quando la misura di reintegrazione risulta da sola proporzionata alla gravità del reato. Sempre in tema di danneggiamento è opportuno il mantenimento della fattispecie di ‘‘deturpamento e imbrattamento’’ attualmente collocata nel comma 2 dell’art. 639 e recentemente introdotta dalla l. n. 352/1997. La disposizione deve però essere integrata con la previsione di misure di reintegrazione. Deturpamento e imbrattamento di beni culturali. — Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo precedente, deturpa o imbratta beni culturali, propri o altrui, ovunque siano ubicati, o immobili compresi nel perimetro dei centri storici, è punito con la reclusione fino a... La sentenza di condanna dispone le seguenti misure di reintegrazione: a) ordine di esecuzione a spese del responsabile delle opere necessarie alla reintegrazione; b) e in caso di inottemperanza dell’ordine, esecuzione d’ufficio a spese dell’obbligato. Il giudice può escludere l’applicazione della pena della reclusione, quando la misura di reintegrazione risulta da sola proporzionata alla gravità del reato. d) La terza fattispecie è quella di ‘‘Sottrazione di beni culturali’’. La punizione del furto di beni culturali secondo le disposizioni comuni o invece in modo speciale dipende dal regime giuridico assegnato ai beni culturali. In ordinamenti nei quali ha preminenza il bene giuridico della proprietà privata, come quelli anglosassoni, non esiste nessuna specificazione rispetto a fattispecie generali. Nei sistemi come il nostro nei quali il valore storico-artistico attribuisce alla cosa un particolare regime giuridico, pur non mutandone la proprietà (pubblica o privata), tale valore si riflette attualmente nella previsione di un aggravamento di pena rispetto alla fattispecie generale di furto (art. 625, n. 7, c.p.) e di una fattispecie autonoma (art. 125 t.u.), che sanziona l’impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato. Mentre rispetto all’ipotesi aggravata la particolare natura dell’oggetto non muta il bene giuridico protetto, attraverso la previsione della fattispecie autonoma viene tutelato direttamente l’interesse all’appartenenza pubblica (e dunque alla destinazione al pubblico) del patrimonio storico, artistico e archeologico. La sottrazione (come anche l’appropriazione illecita e l’acquisto illecito) costituisca condotta da prevedere in forma di delitto perché reca un’offesa di grado particolarmente intenso al bene protetto, in quanto la dispersione (pur rimediabile) dell’oggetto annulla la funzione pubblica a cui i beni di interesse storico-artistico sono rivolti. Questa considerazione giustifica appieno la proposta di attribuire rilevanza di fattispecie autonome, quando abbiano per oggetto beni culturali, alle condotte di sottrazione, appropriazione illecita e acquisto illecito, abbandonando il sistema di tutela che deriva attualmente dalle norme in tema di furto e ricettazione. A proposito dell’imputazione soggettiva, il dolo è costituito dalla volontarietà della sottrazione e dell’impossessamento, unitamente alla consapevolezza del carattere culturale del bene e della sua altruità. Data la natura particolare dell’oggetto tutelato, e per evitare discussioni sul fine di profitto e confusioni col movente psicologico, è preferibile evitare la previsione di un dolo specifico aggiuntivo. Per questo reato sarà da prevedere l’arresto obbligatorio in flagranza e l’ammissibilità di intercettazione di conversazioni e comunicazioni telefoniche e di altre forme di comunicazione. La fattispecie che si propone è pertanto la seguente. Sottrazione di beni culturali. — Chiunque si impossessa di beni culturali altrui, sottraendoli a chi li detiene, è punito con la reclusione da... a... e con la multa. La pena è della reclusione da... a... e della multa: a) se il fatto è commesso con violenza o minaccia alle persone;


— 1365 — b) se il fatto è commesso su beni collocati in musei o esposizioni pubbliche o aperte al pubblico. e) La quarta fattispecie è quella di ‘‘Appropriazione illecita di beni culturali’’. La fattispecie dovrebbe essere strutturata sulla traccia di quella attualmente prevista nell’art. 125 del testo unico n. 490/1999. La disposizione dell’art. 125 (‘‘Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato’’) presuppone la vigenza nel nostro ordinamento di una norma come quella dell’attuale art. 88 del testo unico n. 490/1999, che dichiara, così come l’art. 826, comma 2, c.c., l’appartenenza allo Stato dei beni culturali, da chiunque e in qualunque modo ritrovati. La fattispecie che si propone non reca l’inciso ‘‘appartenenti allo Stato’’ in modo da poter essere compatibile con modifiche dell’attuale normativa in tema di rinvenimento di beni culturali. A tale proposito, si segnala che negli ultimi anni sono state proposte numerose iniziative legislative per modificare il regime dell’appartenenza dei beni culturali ritrovati: e che in Francia è recentemente entrata in vigore la Loi relative au service public de l’archéologie préventive, che fra l’altro prevede la mera attribuzione allo Stato di un diritto di custodia — ai fini della ricerca scientifica — per una durata massima di cinque anni delle vestigia mobiliari ritrovate nel sottosuolo, la cui proprietà viene attribuita ai rinvenitori, e con riferimento alle vestigia immobiliari, la possibilità di ricompensa agli scopritori, da associare eventualmente allo sfruttamento commerciale. La fattispecie che si propone è la seguente. Appropriazione illecita di beni culturali. — Chiunque, avendo rinvenuto, fortuitamente o in seguito a ricerche o a opere in genere, beni culturali, se ne appropria, è punito con la reclusione sino a... e con la multa. La pena è della reclusione da... a... e della multa se il fatto è commesso dal concessionario di ricerca. La pena è ridotta da uno a due terzi se il colpevole restituisce i beni o fornisce una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero di essi. f) Un’altra fattispecie da inserire nel titolo dedicato ai ‘‘Reati contro i beni culturali’’ è quella di ‘‘Acquisto illecito di beni culturali’’. Come bene si osserva nella dottrina italiana e tedesca, la ricettazione rappresenta la più diffusa forma di sostegno del reo dopo la commissione del fatto e sembra rendere addirittura più attraente la commissione del reato presupposto, specie del furto. La maggior parte dei furti di oggetti d’arte, di pezzi di antiquariato o in generale di cose di valore artistico, archeologico o storico, vengono commessi con la consapevolezza di trovare poi un ricettatore disposto a riceverli. La condotta incriminata dovrebbe essere descritta semplicemente come ‘‘acquistare’’, intesa nel contenuto semantico amplissimo, riconosciuto in dottrina e giurisprudenza, indicante ogni attività negoziale il cui effetto giuridico consista nel fare entrare la cosa nella sfera giuridico-patrimoniale dell’agente. Quanto all’elemento soggettivo, ampio spazio sarà da riconoscere al dolo eventuale, per la necessità di equiparare il dubbio alla consapevolezza dell’illegittima provenienza: e ciò perché la peculiarità dell’oggetto dell’acquisto, che è costituito da un bene culturale (di natura dunque artistica, storica, archeologica o demoetnoantropologica) suscita un sospetto sulla legittimità della provenienza in qualsiasi persona di media levatura intellettuale. I reati presupposti da questa fattispecie sono solitamente quelli precedentemente descritti di ‘‘sottrazione di beni culturali’’ e di ‘‘appropriazione illecita di beni culturali’’. Anche per questo reato, come per i due precedenti, sarà da prevedere l’arresto obbligatorio in flagranza e l’ammissibilità di intercettazione di conversazioni e comunicazioni telefoniche e di altre forme di comunicazione. La fattispecie può essere così descritta. Acquisto illecito di beni culturali. — Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque acquista, o comunque si intromette nel fare acquistare, beni culturali con la consapevolezza o il


— 1366 — dubbio che provengano dai delitti di cui agli artt. 4 e 5 [sottrazione di beni culturali e appropriazione illecita di beni culturali] è punito con la reclusione da... a... Alla sentenza di condanna consegue l’interdizione per la durata massima di... dall’attività professionale o imprenditoriale, nell’esercizio della quale il reato è stato commesso, e in caso di recidiva per la durata massima di... g) Quello della circolazione in ambito internazionale di beni culturali costituisce un tema fortemente discusso, poiché si scontrano l’esigenza di protezione del patrimonio culturale nazionale e l’auspicio di abbattere le frontiere nella circolazione internazionale dei beni culturali (si parla correntemente di internazionalismo culturale). In tema di esportazione di beni culturali, la dottrina tedesca identifica due possibili modelli, la cui scelta dipende dall’orientamento, fortemente condizionato dalle vicende storiche e dalla ricchezza del patrimonio storico-artistico, dei singoli paesi. In tema di circolazione dei beni culturali mobili, si distingue così tra due principi: il primo riassumibile nella formula ‘‘Erlaubnis mit Verbotsvorbehalt’’ (‘‘permesso con riserva di divieto’’) e il secondo in quella ‘‘Verbot mit Erlaubnisvorbehalt’’ (‘‘divieto con riserva di permesso’’). Il primo pone come base la libera iniziativa del proprietario del bene; il secondo inverso principio afferma che l’esportazione è di regola vietata e solo in casi particolari può venire concessa. Al regime di ‘‘divieto con riserva di permesso’’ si adeguano le legislazioni di molti Stati europei, tra i quali i maggiori produttori di opere d’arte, come l’Italia e la Grecia, e poi anche Francia, Germania, Portogallo e Spagna. La circolazione è invece libera, non esistendo frontiere né per l’esportazione né per l’importazione, in Paesi quali il Giappone e gli U.S.A. La circolazione dei beni culturali costituisce materia di accordi internazionali, normativa comunitaria e legislazioni nazionali. In tema di beni culturali l’Unione Europea ammette deroghe alla libera circolazione. Prima il Trattato di Maastricht e ora il Trattato di Amsterdam, nella trattazione delle libertà fondamentali, confermano sia la ricomprensione delle opere d’arte nel settore della libera circolazione delle merci sia le deroghe originariamente previste; così l’art. 30 del Trattato di Amsterdam prevede che: ‘‘Le disposizioni sulla libera circolazione delle merci, non pregiudicano i divieti e le restrizioni previste per l’importazione, l’esportazione o il transito e motivate da ragioni di ordine morale ecc., nonché dalla necessità di salvaguardare i tesori nazionali di particolare valore artistico, storico o archeologico’’. Alla possibilità di derogare alla libera circolazione hanno aderito convinti tutti i Paesi europei, che adottano varie misure per la salvaguardia dei beni culturali nazionali di maggiore valore. Questo perché si ritiene che il patrimonio storico-artistico costituisca uno dei più importanti fattori di identità nazionale. Appare pertanto necessario prevedere anche in Italia misure per la protezione dei beni culturali nazionali da esportazioni non autorizzate. La disposizione potrebbe essere strutturata in termini simili a quanto recentemente innovato dalla l. 30 marzo 1998, n. 88, ma sarebbe necessaria una differenza nel tipo di sanzione (penale o amministrativa) in base al valore del bene tutelato. Questa differenza è presente in Germania nelle disposizioni che puniscono l’esportazione illecita (parr. 16 e 17 della ‘‘Legge per la protezione dei beni culturali tedeschi da allontanamento illecito’’), in Francia (l. 31 dicembre 1992 da poco (nel 2000) modificata con la legge ‘‘sur la protection des trésors nationaux’’) e in Spagna (art. 12 della legge sul contrabbando). In Italia, la violazione delle norme sul trasferimento all’estero di beni di interesse culturale dovrebbe costituire illecito amministrativo (o contravvenzionale) quando tale interesse sia ‘‘semplice’’; e solo quando si tratta di beni la cui uscita cagioni un danno al patrimonio storico-artistico nazionale, data la presenza di un interesse culturale ‘‘particolarmente importante’’, dovrebbe rispondersi penalmente e in forma di delitto punibile sia a titolo di dolo che di colpa. Sennonché, l’assenza attualmente di sanzioni amministrative o penali per l’esportazione non autorizzata delle cose di interesse culturale ‘‘semplice’’ lascia uno spazio vuoto di tutela, per evitare il quale — in attesa dell’introduzione di sanzioni amministrative


— 1367 — per l’esportazione illecita di beni culturali di interesse non particolarmente rilevante — può intervenire solo una disposizione penale che non differenzi i gradi di interesse ma lasci contorni edittali ampi, per consentire un adeguamento della sanzione alla diversa gravità del fatto o che preveda un attenuante quando il grado di interesse non sia particolarmente importante. Infine la fattispecie dovrebbe prevedere anche l’illecita importazione di beni culturali, quando cioè essa non sia autorizzata dallo Stato di appartenenza del bene artistico. La fattispecie che si propone, volta a reprimere il traffico illecito di opere d’arte, settore delinquenziale che muove somme di denaro inferiori solo al traffico di stupefacenti e di armi, è così strutturata. Circolazione illecita di beni culturali. — Chiunque esporta beni culturali senza l’autorizzazione delle autorità competenti, o importa beni culturali senza l’autorizzazione dello Stato di appartenenza dei beni, è punito con la reclusione da... a... o con la multa da... a... La pena prevista al comma 1 si applica anche nei confronti di chi non fa rientrare, alla scadenza del termine, beni culturali per i quali sia stata autorizzata l’uscita temporanea. Il giudice dispone la confisca dei beni, salvo che questi appartengano a persona estranea al reato. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando. Il giudice dispone la restituzione allo Stato di appartenenza del bene culturale illecitamente importato. Se al fatto consegue l’impossibilità di rintracciare o recuperare il bene, il giudice ordina al colpevole la corresponsione allo Stato di una somma pari al valore del bene perduto. Se il fatto è commesso da chi esercita attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di beni culturali, alla sentenza di condanna consegue l’interdizione dall’attività per la durata massima di... e, in caso di recidiva, per la durata massima di... La pena è ridotta da uno a due terzi se il colpevole fornisce una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero dei beni esportati o importati. Se il fatto è colposo la pena è della reclusione fino a... h) Si propone infine la previsione di disposizioni in tema di responsabilità penale dei funzionari pubblici, dei concessionari privati e dei custodi che dolosamente o colposamente favoriscano la distruzione, il danneggiamento, il furto o la circolazione illecita di beni culturali. Si tratta di ipotesi già presenti, fra gli altri, nell’ordinamento spagnolo (art. 322 del nuovo codice penale spagnolo) e in quello francese (art. 432-15 del nuovo codice penale francese), e che appaiono indispensabili in ordinamenti nei quali l’amministrazione e la tutela dei beni culturali è affidata al potere amministrativo e al suo apparato burocratico. La condotta dolosa dovrebbe essere punita a titolo di concorso con un aggravamento della pena del reato semplice. L’ipotesi colposa dovrebbe costituire autonoma fattispecie. La definizione del soggetto attivo tiene conto della necessità di includere tre diverse tipologie di autori: a) i funzionari pubblici preposti in vario modo alla amministrazione e tutela di beni culturali; b) i privati concessionari; c) coloro i quali svolgono semplici compiti di custodia, non facilmente inquadrabili attualmente tra i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio e per i quali è necessaria pertanto una previsione esplicita. Ove poi, in prospettiva di riforma del codice penale, si preferisse indicare un vero e proprio ‘‘catalogo delle posizioni di garanzia’’, in sostituzione della ‘‘clausola generale’’ dell’art. 40, comma 1, c.p., tra le posizioni di protezione di beni giuridici, dovrebbe essere assegnato a chi esercita funzioni pubbliche di controllo il dovere di impedimento dei delitti contro i beni culturali. Le disposizioni che si propongono sono le seguenti. Circostanza aggravante. — Per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che concorre in alcuno dei fatti preveduti negli articoli precedenti, la pena è aumentata e alla condanna consegue l’interdizione dall’ufficio pubblico o privato nell’esercizio del quale il reato è stato commesso.


— 1368 — Le medesime conseguenze penali si applicano al concorrente pubblico o privato che svolge attività di custodia di beni culturali. Concorso colposo. — Se alla realizzazione dei fatti preveduti negli articoli precedenti concorre la grave negligenza del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio o di chi svolge attività di custodia di beni culturali, a esso si applica la pena della reclusione fino a... o della multa. Ricapitolando. REATI CONTRO I BENI CULTURALI ART. 1. (Definizione di beni culturali). — Agli effetti delle disposizioni del presente titolo, sono beni culturali quelli artistici, storici, archeologici e demoetnoantropologici. ART. 2. (Danneggiamento di beni culturali). — Chiunque distrugge, demolisce, deteriora, disperde, o rende in tutto o in parte inservibili beni culturali, altrui o propri, è punito con la reclusione da... a... La sentenza di condanna dispone le seguenti misure di reintegrazione: a) ordine di esecuzione a spese del responsabile delle opere necessarie alla reintegrazione; b) e in caso di inottemperanza dell’ordine, esecuzione d’ufficio a spese dell’obbligato; c) o, quando non sia possibile la riduzione in pristino, obbligo di corrispondere allo Stato una somma pari al valore del bene perduto o alla diminuzione di valore subita dal bene. Il giudice può disporre la confisca dei beni culturali propri danneggiati. Alla sentenza di condanna consegue l’interdizione per la durata massima di... anni e in caso di recidiva per la durata massima di... anni, dall’attività professionale o imprenditoriale, nell’esercizio della quale il reato è stato commesso. Se il fatto è colposo la pena è della reclusione fino a... Il giudice può escludere l’applicazione della pena della reclusione, quando la misura di reintegrazione risulta da sola proporzionata alla gravità del reato. ART. 3. (Deturpamento e imbrattamento di beni culturali). — Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo precedente, deturpa o imbratta beni culturali, propri o altrui, ovunque siano ubicati, o immobili compresi nel perimetro dei centri storici, è punito con la reclusione fino a... La sentenza di condanna dispone le seguenti misure di reintegrazione: a) ordine di esecuzione a spese del responsabile delle opere necessarie alla reintegrazione; b) e in caso di inottemperanza dell’ordine, esecuzione d’ufficio a spese dell’obbligato. Il giudice può escludere l’applicazione della pena della reclusione, quando la misura di reintegrazione risulta da sola proporzionata alla gravità del reato. ART. 4. (Sottrazione di beni culturali). — Chiunque si impossessa di beni culturali altrui, sottraendoli a chi li detiene, è punito con la reclusione da... a... e con la multa. La pena è della reclusione da... a... e della multa: a) se il fatto è commesso con violenza o minaccia alle persone; b) se il fatto è commesso su beni collocati in musei o esposizioni pubbliche o aperte al pubblico. ART. 5. (Appropriazione illecita di beni culturali). — Chiunque, avendo rinvenuto, fortuitamente o in seguito a ricerche o a opere in genere, beni culturali, se ne appropria, è punito con la reclusione sino a... e con la multa. La pena è della reclusione da... a... e della multa se il fatto è commesso dal concessionario di ricerca. La pena è ridotta da uno a due terzi se il colpevole restituisce i beni o fornisce una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero di essi. ART. 6. (Acquisto illecito di beni culturali). — Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque acquista, o comunque si intromette nel fare acquistare, beni culturali con la con-


— 1369 — sapevolezza o il dubbio che provengano dai delitti di cui agli artt. 4 e 5 [sottrazione di beni culturali e appropriazione illecita di beni culturali] è punito con la reclusione da... a... Alla sentenza di condanna consegue l’interdizione per la durata massima di... dall’attività professionale o imprenditoriale, nell’esercizio della quale il reato è stato commesso, e in caso di recidiva per la durata massima di... ART. 7. (Circolazione illecita di beni culturali). — Chiunque esporta beni culturali senza l’autorizzazione delle autorità competenti, o importa beni culturali senza l’autorizzazione dello Stato di appartenenza dei beni, è punito con la reclusione da... a... o con la multa da... a... La pena prevista al comma 1 si applica anche nei confronti di chi non fa rientrare, alla scadenza del termine, beni culturali per i quali sia stata autorizzata l’uscita temporanea. Il giudice dispone la confisca dei beni, salvo che questi appartengano a persona estranea al reato. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando. Il giudice dispone la restituzione allo Stato di appartenenza del bene culturale illecitamente importato. Se al fatto consegue l’impossibilità di rintracciare o recuperare il bene, il giudice ordina al colpevole la corresponsione allo Stato di una somma pari al valore del bene perduto. Se il fatto è commesso da chi esercita attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di beni culturali, alla sentenza di condanna consegue l’interdizione dall’attività per la durata massima di... e, in caso di recidiva, per la durata massima di... La pena è ridotta da uno a due terzi se il colpevole fornisce una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero dei beni esportati o importati. Se il fatto è colposo la pena è della reclusione fino a... ART. 8. (Circostanza aggravante). — Per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che concorre in alcuno dei fatti preveduti negli articoli precedenti, la pena è aumentata e alla condanna consegue l’interdizione dall’ufficio pubblico o privato nell’esercizio del quale il reato è stato commesso. Le medesime conseguenze penali si applicano al concorrente pubblico o privato che svolge attività di custodia di beni culturali. ART. 9. (Concorso colposo). — Se alla realizzazione dei fatti preveduti in articoli precedenti concorre la grave negligenza del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio o di chi svolge attività di custodia di beni culturali, a esso si applica la pena della reclusione fino a... o della multa. GIAN PAOLO DEMURO Dottore di ricerca in diritto penale italiano e comparato Università di Sassari


IL PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE AVANTI IL GIUDICE DI PACE PENALE: UNA ‘‘SEMPLIFICAZIONE’’ ECCESSIVA

SOMMARIO: 1. Il criterio della ‘‘massima semplificazione’’ del processo e il procedimento dinanzi al giudice di pace. — 2. La ‘‘deformalizzazione’’ del procedimento di esecuzione relativo ai provvedimenti del giudice di pace. — 3. La ‘‘permanenza domiciliare’’ come misura incidente sulla libertà personale. — 4. (Segue): il ‘‘lavoro di pubblica utilità’’. — 5. Se la ‘‘deformalizzazione’’ può essere legata al ‘‘tipo’’ di provvedimento anziché al suo ‘‘contenuto’’. — 6. L’inoppugnabilità delle ordinanze esecutive emesse dal tribunale monocratico e le (presunte) ragioni di economia processuale. — 7. Conclusioni. 1. Il criterio della ‘‘massima semplificazione’’ del processo e il procedimento dinanzi al giudice di pace. — In teoria, non vi è alcuna incompatibilità tra il principio di ‘‘relatività’’ della struttura del processo (1) e il principio di ‘‘giurisdizionalità’’ del processo penale. Il primo, comporta la variabilità (a livello legislativo) delle forme processuali in funzione della fattispecie costituente materia del processo; il secondo, richiede che il processo penale risponda a determinati ‘‘parametri minimi’’, in parte racchiusi nei principi del ‘‘giusto processo’’ di cui all’art. 111 Cost. e in parte delineati da altre norme della legge fondamentale (artt. 13, 24, 25, 27, 101, 109, 112, 113 Cost.). Ne discende che la struttura del processo penale, garantita la ‘‘morfologia indefettibile’’ imposta dalla citata norma costituzionale, può (rectius: deve), per il resto, essere adattata al risultato che, volta per volta, si prefigge e al concreto livello di conflittualità del thema decidendum. Pertanto, l’interprete che voglia valutare la costituzionalità di un determinato modello processuale deve effettuare una doppia indagine: deve, anzitutto, verificare la sussistenza di tutti i ‘‘requisiti strutturali’’ perché un procedimento possa definirsi giurisdizionale (precostituzione e imparzialità del giudice, diritto di difesa, contraddittorio tra le parti, facoltà di ricorso in cassazione avverso le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, forza cogente della decisione finale, ecc.); se ha esito positivo tale accertamento, deve verificare che il legislatore abbia fatto un uso corretto della propria discrezionalità nell’individuazione della struttura processuale più congeniale all’interesse di diritto sostanziale ad essa sotteso. L’interesse costituzionale dal quale promana questo secondo tipo di accertamento è quello della ‘‘efficienza del processo’’ (2). (1) Al riguardo v., tra i tanti, FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, 2a ed., Milano, 1968, vol. II, p. 8 s.; CONSO, Problemi di metodo e scelte di fondo, in Giust. pen., 1988, I, c. 516; GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, Milano, 1983, p. 61; CHIAVARIO, La riforma del processo penale, Torino, 1990, p. 51; DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 153 s. Sull’esigenza di ‘‘differenziazione’’ del processo, con riferimento alle più recenti modifiche del codice di procedura penale, v. anche PIZIALI, Pluralità dei riti e giudice unico, in questa Rivista, 2000, p. 966 s. (2) In più occasioni, la Corte costituzionale ha richiamato, ai fini del proprio giudizio, l’ ‘‘efficienza’’ del processo come ‘‘bene costituzionalmente protetto’’. Si vedano, ad esempio, le sentenze n. 460 del 1995, in Cass. pen., 1996, p. 451, n. 217, con nota di GREVI, Un’occasione perduta (o forse solo rinviata) dalla Corte costituzionale in tema di uso di-


— 1371 — Risponde a tale duplice logica (giurisdizionalità-funzionalità) il criterio direttivo stabilito dalla ‘‘delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale’’ (l. 16 febbraio 1987, n. 81), secondo il quale il codice deve attuare la ‘‘massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale’’ (3). In altri termini, la Delega consente l’eliminazione di un’attività processuale nei limiti in cui la stessa non sia ‘‘essenziale’’, ovvero non rientri tra quelle attività costituenti la ‘‘disciplina di base’’ di ogni procedimento giurisdizionale o, comunque, assolutamente necessarie per il raggiungimento dello ‘‘scopo’’ del processo. Com’è noto, nel codice di rito del 1988, il criterio della ‘‘massima semplificazione’’ si è tradotto, principalmente, nella previsione dei c.d. ‘‘riti alternativi al dibattimento’’ e del procedimento in camera di consiglio (art. 127 c.p.p.). Di quest’ultimo, è altrettanto noto, che il codice di rito ha previsto un utilizzo ambivalente: a) come effetto procedimentale ‘‘che si innesta in forma automatica sulle precedenti determinazioni (delle parti) ascrivibili al modello dispositivo’’ (4); b) come regola non collegata (neanche in via indiretta) alla volontà delle parti, bensì derivante da una specifica opzione legislativa circa l’adeguatezza del modello alla non particolare complessità della fattispecie da accertare (si pensi all’ipotesi dell’appello che ha ‘‘esclusivamente per oggetto’’ le materie indicate nel comma 1 dell’art. 599 c.p.p.). Nella seconda logica semplificativa è rientrata anche la previsione di un autonomo procedimento per i reati di competenza del pretore (artt. 549-567 c.p.p.): le deroghe di tale rito al procedimento ordinario, infatti, sono state previste in funzione della ‘‘non rilevante gravità’’ dei reati da accertare e del conseguente ‘‘non rilevante impegno’’ che gli stessi richiedono ‘‘sia sul piano sostanziale che processuale’’ (5). La medesima ratio continua a costituire, seppure parzialmente, il presupposto del ‘‘procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica’’, dopo che quest’ultimo ha sostituito l’abrogato procedimento dinanzi al pretore (l. 16 dicembre 1999, n. 479). Più concretamente, il criterio della ‘‘massima semplificazione’’ continua ad essere rinvenibile con riferimento a quei reati, attribuiti alla cognizione del tribunale monocratico, per i quali è possibile la ‘‘citazione diretta a giudizio’’ (6). Da questo criterio non si è discostata la legge delega ‘‘in materia di competenza penale del giudice di pace’’ (l. 24 novembre 1999, n. 468), il cui art. 17 sancisce che ‘‘il procedimento penale davanti al giudice di pace è disciplinato, tenendo conto delle norme del libro ottavo del codice di procedura penale riguardanti il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, con le massime semplificazioni rese necessarie dalla competenza dello stesso giudice’’. Qui, anzi, il richiamo alla ‘‘semplificazione’’ è duplice: una prima storto della richiesta di rimessione del processo; n. 353 del 1996, ivi, 1997, p. 647, n. 379, con nota di GREVI, Un freno all’uso distorto della richiesta di rimessione a tutela dell’ ‘‘efficienza’’ del processo penale: la parziale illegittimità dell’art. 47, comma 1, c.p.p. (con un corollario sulla correlativa illegittimità dell’art. 37, comma 2, c.p.p. in tema di ricusazione) (p. 1276, n. 783); e n. 10 del 1997, in Giur. cost., 1997, p. 77, con nota di VENTURA, Dalla rimessione alla ricusazione: analogie e differenze in ordine alle sorti della sentenza di merito. Più precisamente, in tali sentenze la Consulta ha citato il suddetto bene quale ‘‘aspetto del principio di indefettibilità della giurisdizione’’ (sent. n. 10 del 1997, cit.), giacché ha affermato che il legislatore, ‘‘pienamente libero nella costruzione delle scansioni processuali, non può tuttavia scegliere, fra i possibili percorsi, quello che comporti, sia pure in casi estremi, la paralisi dell’attività processuale’’ (sent. n. 353 del 1996, cit.). (3) Sul criterio della ‘‘massima semplificazione’’ nel nuovo processo penale, cfr., per tutti, CONSO, Codice nuovo, canoni interpretativi nuovi, in Giust. pen., 1989, III, c. 67; ID., L’esperienza dei principi generali nel nuovo diritto processuale penale, ivi, 1991, III, c. 581. (4) Così, DI CHIARA, Il contraddittorio, cit., p. 163. (5) In questi termini, MOLARI, Il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Manuale di procedura penale, 3a ed., Bologna, 2000, p. 497. (6) In tal senso, v. MOLARI, Il procedimento, cit., p. 498.


— 1372 — volta, viene fatto per relationem, vale a dire tramite il rinvio ad una disciplina legislativa già autonomamente improntata, come detto, a tale logica; una seconda volta, richiedendo le ulteriori ‘‘massime semplificazioni’’ legate alle peculiarità della materia appartenente alla cognizione del giudice di pace penale (7). Per comprendere se (e quando) queste ‘‘semplificazioni aggiuntive’’ (rispetto a quelle proprie del rito dinanzi al tribunale monocratico) siano effettivamente ‘‘funzionali’’ agli specifici obiettivi del procedimento penale davanti al giudice di pace, è necessario individuare le peculiarità del suddetto procedimento. Tre indicazioni fondamentali ci giungono, a tal proposito, dalla Relazione governativa al decreto legislativo (n. 274 del 28 agosto 2000) che ha dato attuazione alla legge delega n. 468 del 1999: la prima, attiene alla ‘‘conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti’’ (8); la seconda, ‘‘risiede nella scomparsa della pena detentiva’’ a vantaggio di un micro-sistema sanzionatorio basato sulla pena pecuniaria e sulle nuove pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità; la terza indicazione, infine, riguarda la certezza della pena perché ‘‘il modello di giustizia prescelto gioca le sue carte non più sulla minaccia astratta di una pena detentiva (destinata sempre più frequentemente a rimanere sulla carta ovvero ad applicazioni casuali e quindi sperequative), quanto sull’effettività della risposta (...)’’. Ognuna di queste indicazioni ha avuto, evidentemente, un risvolto normativo: a) la finalità di ricomposizione sociale — oltre ad essere stata inserita tra i ‘‘principi generali’’ ai quali il giudice di pace deve attenersi durante lo svolgimento dell’intero procedimento (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000) — ha suggerito la previsione di specifici istituti (artt. 29, comma 4, 34, comma 2, 35, d.lgs. n. 274 del 2000) (9); b) la rinuncia alla pena detentiva ha imposto — in ossequio al principio di legalità penale di cui all’art. 25, comma 2, Cost. — l’introduzione di una apposita disciplina destinata ad individuare i contenuti delle nuove sanzioni (artt. 53, 54, d.lgs. n. 274 del 2000) e del relativo procedimento di esecuzione (artt. 40, 41, 43, 44, d.lgs. n. 274 del 2000); c) l’esigenza di una risposta sanzionatoria mite, ma effettiva, ha comportato l’esplicita inapplicabilità della sospensione condizionale (art. 163 c.p.) ‘‘alle pene irrogate dal giudice di pace’’. 2. La ‘‘deformalizzazione’’ del procedimento di esecuzione relativo ai provvedimenti del giudice di pace. — La legge delega n. 468 del 1999 non contiene direttive specifiche per l’esecuzione delle pene applicabili dal giudice di pace, pertanto, anche a tale materia è riferibile la direttiva generale della ‘‘massima semplificazione’’, contenuta nell’art. 17 e rivolta a tutto il ‘‘procedimento penale davanti al giudice di pace’’. Il legislatore delegato, nell’ambito dell’esecuzione delle pene irrogabili dal giudice di pace, ha dato attuazione alla logica semplificativa, soprattutto, attraverso due interventi: a) la mancata previsione della notifica dell’ordine di esecuzione (della pena della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità) al difensore del condannato; b) la non ricorribilità in cassazione avverso le ordinanze decisorie e i decreti di inammissibilità emessi dal giudice dell’esecuzione all’esito del procedimento di cui all’art. 666 c.p.p. Il primo intervento costituisce una deroga all’art. 656, comma 3, c.p.p., secondo il quale ‘‘l’ordine (di esecuzione) è notificato al difensore del condannato’’. La deroga alla norma co(7) In proposito, v. CESARI, Deflazione e garanzie nel rito penale davanti al giudice di pace: l’istituto della ‘‘tenuità del fatto’’, in questa Rivista, 2001, p. 728; e QUATTROCOLO, Analisi della l. 24 novembre 1999, n. 468, in Legisl. pen., 2000, p. 6. (8) In argomento, cfr. EUSEBI, Dibattiti sulle teorie della pena e ‘‘mediazione’’, in questa Rivista, 1997, p. 811 s.; riguardo alla ‘‘mediazione’’ nel rito di competenza del giudice di pace penale, cfr. PATANÈ, La mediazione, in Il giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di Giostra-Illuminati, Torino, 2001, p. 353 s. (9) Sul tema, cfr. MARZADURI, L’attribuzione di competenze penali al giudice di pace: un primo passo verso un sistema penale della conciliazione?, in Legisl. pen., 2001, p. 41.


— 1373 — dicistica non è esplicita, ma si ricava dall’art. 43 d.lgs. n. 274 del 2000 — che prevede la ‘‘consegna’’ di copia dell’ordine di esecuzione al condannato (e la notifica al direttore dell’istituto penitenziario nell’eventualità che il condannato sia detenuto), ma nulla stabilisce riguardo al difensore — e dalla Relazione governativa al citato decreto legislativo (10). Secondo tale Relazione, invero, ‘‘considerata la peculiare natura delle sanzioni non pecuniarie previste per i reati di competenza del giudice di pace e tenuto conto della specifica disciplina della loro esecuzione, appare evidente che non possano trovare applicazione le disposizioni di cui all’art. 656 c.p.p.’’. In ordine al secondo intervento, invece, la deroga all’art. 666, commi 2 e 6, c.p.p. trova un preciso riscontro testuale nell’art. 41 del d.lgs. n. 274 del 2000. L’art. 666 c.p.p. stabilisce che avverso il decreto di inammissibilità della richiesta da cui ha avuto inizio il procedimento di esecuzione (comma 2), così come avverso l’ordinanza che decide il medesimo procedimento (comma 6), le parti e i difensori possono proporre ricorso per cassazione. L’art. 41 d.lgs. n. 274 conferma la facoltà dell’interessato di impugnare per ‘‘motivi di legittimità’’ i citati provvedimenti (emessi dal giudice di pace quale giudice dell’esecuzione), ma modifica la competenza relativa al giudizio di impugnazione: il ricorso va proposto al ‘‘tribunale in composizione monocratica nel cui circondario ha sede il giudice di pace’’, il quale decide osservando le disposizioni di cui all’art. 127 c.p.p. Se la norma si concludesse così, non di restrizione dovremmo parlare ma di ampliamento dei mezzi di impugnazione riconosciuti all’interessato, atteso che il procedimento al quale rinvia il comma 3 dell’art. 41 d.lgs. n. 274 si conclude con un’ordinanza espressamente ricorribile per cassazione (art. 127, comma 7, c.p.p.). È proprio questa, però, la parte dell’art. 127 c.p.p. che l’art. 41 d.lgs. n. 274 rende certamente inapplicabile, stabilendo che ‘‘il tribunale decide con ordinanza non impugnabile’’ (11). Infatti, ritenuto che il procedimento dinanzi al giudice di pace non contempla — con riferimento tanto alla fase cognitiva quanto a quella esecutiva — un autonomo regime di impugnazione delle decisioni del tribunale monocratico come giudice di secondo grado, la non impugnabilità stabilita dal comma 3 dell’art. 41 non può che essere riferita al solo gravame in astratto invocabile attraverso l’art. 111, comma 7, Cost., vale a dire il ricorso per cassazione. A fronte di tale considerazione, diviene irrilevante che, sul punto, la Relazione governativa al d.lgs. n. 274 del 2000 non ‘‘confessi’’ apertamente di avere rinunciato al ricorso per cassazione ed affermi soltanto che il ‘‘ricorso, limitato ai soli motivi di legittimità, al tribunale’’ è stato previsto ‘‘allo scopo di rendere più snello il procedimento di impugnazione avverso i provvedimenti emessi in sede esecutiva dal giudice di pace... ’’. Piuttosto, un’attenta lettura della citata relazione consente di scorgere il presupposto argomentativo che, secondo le intenzioni del legislatore delegato, giustifica le deroghe al codice di procedura penale sia in tema di ‘‘ordine di esecuzione’’, sia in tema di ‘‘procedimento di esecuzione’’. Si parte da un dato — la ‘‘mancata incidenza’’ delle sanzioni applicabili dal giudice di pace ‘‘su un valore di rango costituzionalmente primario (quale la libertà personale)’’ — a cui, subito dopo, si fa corrispondere ‘‘una deformalizzazione degli strumenti processuali che conduce ad una semplificazione ulteriore rispetto a quella già operata per il rito monocratico nei procedimenti ordinari. Il tutto in un ordito normativo in cui l’una opzione ripete la sua legittimazione dall’altra’’ (12). Così argomentando, la Relazione ritiene di poter prendere le distanze dalla tradizionale ‘‘essenza’’ del diritto penale, che proprio in ragione della sua ‘‘incidenza’’ sulla ‘‘libertà personale del reo’’ ha ‘‘giustificato la sedimentazione nel tempo di un livello crescente di garanzie, sul piano sostanziale come sul piano processuale: (10) La Relazione governativa al d.lgs. n. 274 del 2000 trovasi pubblicata in Guida dir., 2000, n. 38, p. 39 s. (11) In senso conforme, SANTORO, L’insolvenza si ‘‘paga’’ con lavori di pubblica utilità, in Guida dir., 2000, n. 38, p. 137. (12) V. Relazione, cit., p. 78.


— 1374 — con la conseguenza, rivelatasi paradossale, di una loro estensione indifferenziata a fatti di gravità non assimilabile’’ (13). 3. La ‘‘permanenza domiciliare’’ come misura incidente sulla libertà personale. — Il presupposto logico sul quale il legislatore delegato ha ritenuto di poter fondare la ‘‘deformalizzazione’’ del procedimento di esecuzione dinanzi al giudice di pace (pur condiviso — come vedremo — da parte della dottrina) non sembra del tutto accettabile. Se, infatti, è di tutta evidenza la mancata incidenza della pena pecuniaria sulla libertà personale del condannato (14), ben più problematico è pervenire alla medesima conclusione con riferimento alla permanenza domiciliare e al lavoro di pubblica utilità. Il contenuto sanzionatorio della ‘‘permanenza domiciliare’’ rispecchia quello della ‘‘detenzione domiciliare’’ (entrambe comportano ‘‘l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza...’’) (15), vale a dire di una misura alternativa alla detenzione che, proprio in quanto incidente sulla libertà personale del condannato, gode delle garanzie costituzionali di cui agli artt. 13 e 111 Cost. (16). (13) V. Relazione, cit., p. 39. (14) A tal riguardo, v. la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 16 novembre 1979, in Giur. cost., 1979, p. 1046, ove, al fine di giustificare l’eterogeneità sussistente tra la pena pecuniaria e la pena detentiva e i diversi effetti giuridici che dalle stesse derivano, si afferma che mentre la libertà personale è un ‘‘bene primario posseduto da ogni essere vivente, a prescindere dalle diverse possibilità di godimento’’, il patrimonio ‘‘(al pari del reddito) non inerisce naturalmente alla persona umana, quanto meno in misura uguale’’. Sulla mancanza di un ‘‘nesso di correlazione funzionale’’ tra la pena pecuniaria e quelle destinate ad incidere sulla sfera della libertà personale del condannato cfr., altresì, Corte cost. n. 206 del 1996, in Foro it., 1997, I, c. 2066. (15) Il testo riportato è quello contenuto, con riferimento all’ ‘‘obbligo di permanenza domiciliare’’, nell’art. 53 del d.lgs. n. 274 del 2000. Un testo quasi identico descrive il contenuto della ‘‘detenzione domiciliare’’. Sul punto, invero, l’art. 47-ter, comma 4, o.p., rinvia all’art. 284 c.p.p., il cui comma 1 così stabilisce: ‘‘Con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza’’. (16) Tale aspetto della detenzione domiciliare ha ricevuto un’esplicita conferma nella giurisprudenza costituzionale, la quale, nel delineare il confine tra le mere modalità esecutive della pena detentiva e quelle che ‘‘modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto’’, ha incluso la misura in oggetto nella seconda categoria (v. Corte cost., sent. n. 349 del 1993, in Foro it., 1995, I, c. 488). La Corte costituzionale è stata ancora più esplicita in materia di arresti domiciliari, ovvero di una misura che, pur non potendo essere assimilata alla permanenza domiciliare quanto a natura giuridica (trattasi di una ‘‘misura cautelare’’, a differenza della permanenza domiciliare che è una ‘‘sanzione penale’’), può esserlo quanto a contenuto (v. artt. 284, comma 5, 285, comma 3, c.p.p.). La Consulta, invero, nell’ordinanza n. 215 del 26 maggio 1999, in Giur. cost., 1999, p. 1960, ha affermato che ‘‘... la misura degli arresti domiciliari è configurata espressamente dalla legge quale misura di tipo custodiale, sicché essa è destinata per sua stessa natura a comprimere direttamente la libertà personale, con tutti gli effetti che come è ovvio scaturiscono, sul piano sostanziale e processuale, dalla sottoposizione al relativo regime’’. In senso conforme, si veda anche l’ordinanza Corte cost., n. 40 del 6 marzo 2002, in Gazz. uff. 13 marzo 2002, n. 11, I serie spec., p. 20. Nella stessa direzione si è mossa la dottrina, la quale, equiparando la detenzione domiciliare alla detenzione in carcere, ha ritenuto che, in caso di revoca della misura alternativa, il periodo trascorso in regime domiciliare debba essere interamente scomputato dalla durata complessiva della pena da espiare (In tal senso, cfr. CESARIS, sub art. 47-ter, in Ordinamento penitenziario, a cura di Grevi-Giostra-Della Casa, 2a ed., Padova, 2000, p. 468; TAMPIERI, La detenzione domiciliare, in Le nuove norme sull’ordinamento penitenziario, a cura di Flora, Milano, 1987, p. 232; e, volendo, PULVIRENTI, Codice penitenziario, Napoli, 2000, p. 199, nota 24). La suddetta equiparazione, peraltro, ha un


— 1375 — Tra la ‘‘detenzione domiciliare’’ e la ‘‘permanenza domiciliare’’ cambia soltanto il ‘‘grado’’ di privazione della libertà personale (17), considerato che l’esecuzione della pena ha carattere continuativo nella prima misura e frazionato nella seconda (in quest’ultima ipotesi il condannato è tenuto a rimanere in regime domiciliare soltanto ‘‘nei giorni di sabato e domenica’’) (18). La maggiore afflittività della detenzione domiciliare non è contraddetta dalla possibilità che la permanenza domiciliare, in deroga al suo carattere di ‘‘arresto di fine settimana’’, sia eseguita ‘‘in giorni diversi della settimana ovvero... continuativamente’’ (art. 53, comma 1, d.lgs. n. 274). Tali deroghe, infatti, non possono essere disposte dal giudice al fine di aumentare l’afflittività della permanenza domiciliare, bensì al fine di adeguarne le modalità esecutive ‘‘alle esigenze familiari, di lavoro, di studio o di salute del condannato’’. In ogni caso, poi, l’esecuzione continuativa della misura è subordinata alla ‘‘richiesta del condannato’’. Invece, il differente grado di afflittività delle due misure può effettivamente risultare meno accentuato quando il giudice di pace, avvalendosi della facoltà concessagli dal comma 3 dell’art. 53 d.lgs. n. 274, ‘‘aggiunge’’ alla sanzione principale ‘‘il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui (il condannato) non è obbligato alla permanenza domiciliare’’. È evidente che tanto più le suddette differenze si attenuano quanto più aumentano i luoghi ai quali si riferisce il ‘‘divieto di accesso’’ imposto dal giudice. Un altro elemento che, in concreto, potrebbe ‘‘livellare’’ l’afflittività della detenzione domiciliare e della permanenza domiciliare consiste nel fatto che per quest’ultima l’obbligo del condannato di rimanere presso la propria dimora è previsto in termini assoluti, senza, cioè, quelle deroghe che, al contrario, consentono al condannato in detenzione domiciliare di essere autorizzato ‘‘ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere’’ alle proprie ‘‘indispensabili esigenze di vita’’ o, qualora versi ‘‘in situazione di assoluta indigenza’’, per ‘‘esercitare una attività lavorativa’’ (artt. 284, comma 3, c.p.p., 47-ter, comma 4, o.p.) (19). fondamento normativo nel combinato disposto dagli artt. 284, comma 5, c.p.p., 285, comma 3, c.p.p., e 47-ter comma 4, o.p. (17) Nel senso che la permanenza domiciliare è misura incidente sulla libertà personale cfr. GIUNTA, Le sanzioni, in Il giudice di pace, cit., p. 409; PISA, La disciplina sanzionatoria, in AA.VV., La competenza penale del giudice di pace, Milano, 2000, p. 222 e p. 237 s.; LEONCINI, Le sanzioni, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 189 e p. 191 s.; CANEVELLI, Impugnazioni ed esecuzione, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 152. (18) Altra ragione che rende la detenzione domiciliare una misura più afflittiva rispetto alla permanenza domiciliare risiede nel fatto che soltanto in relazione alla prima misura, oltre che agli arresti domiciliari, può procedersi — in seguito a quanto disposto dall’art. 16 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv. in l. 19 gennaio 2001, n. 4 — al controllo delle prescrizioni esecutive ‘‘mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici’’; ovvero mediante strumenti che aumentano il livello di sicurezza pubblica legato all’esecuzione di tali misure ma che contestualmente comportano un’ingerenza nella vita privata del soggetto in regime domiciliare (sul tema, v. CESARIS, Dal panopticon alla sorveglianza elettronica, in Il decreto ‘‘antiscarcerazioni’’, a cura di Bargis, Torino, 2001, p. 49 s.). Cfr., altresì, BENELLI, L’effettività delle sanzioni applicabili dal giudice di pace, in Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, a cura di Scalfati, Padova, 2001, p. 494, secondo il quale ‘‘non sarebbe seriamente immaginabile’’, nemmeno in una prospettiva de iure condendo, l’estensione dei sistemi di ‘‘electronic monitoring’’ ai soggetti condannati dal giudice di pace. E ciò in considerazione della ‘‘sproporzione dei costi’’ richiesti per l’adozione delle misure di controllo elettronico ‘‘rispetto alla natura ‘‘bagatellare’’ delle violazioni per cui dovrebbero essere disposte’’. (19) Vano risulterebbe, a nostro avviso, il tentativo di desumere l’applicabilità di tali deroghe anche al regime di permanenza domiciliare dalla ‘‘clausola di illiceità speciale’’ (l’espressione è di LEONCINI, Le sanzioni, cit., p. 199) contenuta nell’art. 56, comma 1, d.lgs. n. 274 (e secondo cui la condotta del condannato che ‘‘si allontana dai luoghi in cui è obbligato a permanere’’ è sanzionata penalmente se posta in essere ‘‘senza giusto motivo’’) o dalla fa-


— 1376 — Di qui l’irragionevolezza del diverso trattamento riservato ai condannati in permanenza domiciliare rispetto a quelli in detenzione domiciliare, giacché le due misure incidono sullo stesso bene giuridico (la libertà personale) e, per di più, con un’intensità che, in concreto, può essere di pari livello. Ma l’incidenza della permanenza domiciliare sulla libertà personale e, conseguentemente, la necessità di applicare l’art. 111, comma 7, Cost., devono essere affermate anche in relazione all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sull’interpretazione del concetto di ‘‘libertà personale’’ di cui all’art. 13 Cost. Da tempo ormai, la Corte ritiene che la sfera di libertà personale protetta dalla citata norma costituzionale non viene intaccata soltanto da vere e proprie misure coercitive — implicanti uno stato di detenzione in carcere o interventi sulla personalità fisica dell’individuo (perquisizioni, ispezioni, ecc.) — ma anche da misure obbligatorie (20). Nel delineare, poi, il criterio distintivo tra le misure obbligatorie che incidono sulla libertà personale e quelle che limitano esclusivamente la libertà di circolazione (art. 16 Cost.), la Consulta lo ha indicato nella ‘‘degradazione giuridica’’ dell’individuo, la quale si realizza allorché ‘‘il provvedimento provochi una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona’’ (21). La natura obbligatoria della permanenza domiciliare emerge dalla rubrica dell’art. 53 del d.lgs. n. 274 del 2000 (ove si parla di ‘‘obbligo’’ di permanenza domiciliare) e dall’art. 43, comma 3, dello stesso decreto legislativo, secondo il quale ‘‘l’organo di polizia’’, ricevuto l’ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero, ‘‘ne consegna copia al condannato ingiungendogli di attenersi alle prescrizioni in esso contenute’’ (22). Non v’è dubbio, però, che la sanzione in esame provochi una ‘‘degradazione giuridica’’ di chi ne è destinatario, giacché: coltà riconosciuta al giudice di pace di modificare le modalità di esecuzione della permanenza domiciliare ‘‘per motivi di assoluta necessità’’ (art. 44, comma 1, d.lgs. n. 274). Ed infatti, il ‘‘giusto motivo’’, costituendo un’eccezione alla normale punibilità della condotta di evasione dal domicilio (v., in termini critici, FORLENZA, Sanzioni: il rischio dell’effettività della pena, in Guida dir., 2000, n. 38, p. 143), non può che essere inteso in un’accezione restrittiva, non perfettamente coincidente con quella delle ‘‘cause di giustificazione’’ previste dal codice penale (in tal senso, PISA, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 231; e LEONCINI, Le sanzioni, cit., p. 199), ma pur sempre correlata a particolari contingenze (giunge alla stessa conclusione APRILE, La competenza penale del giudice di pace, Milano, 2001, p. 192). Analogamente, la modifica delle modalità esecutive, pur potendo essere giustificata da esigenze corrispondenti a quelle che legittimano la flessibilità della detenzione domiciliare (e degli arresti domiciliari), deve muoversi nell’ambito delle variabili già previste dalla legge, potendo, quindi, condurre esclusivamente al mutamento del luogo o dei giorni nei quali eseguire la pena o del carattere temporale di quest’ultima (da esecuzione frazionata a esecuzione continuata e viceversa). In entrambi i casi, insomma, la legge non offre spazi per modulare la permanenza domiciliare in termini tali da consentire al condannato l’allontanamento dal proprio domicilio al fine di far fronte a necessità non episodiche ma stabili (quale è, ad esempio, lo svolgimento di un’attività lavorativa). In senso contrario, v. PISA, La disciplina sanzionatoria, cit., p. 215, secondo il quale proprio nell’art. 56 del d.lgs. n. 274 è rinvenibile, ‘‘sia pure ‘in negativo’ ’’ un ‘‘ammorbidimento’’ dell’esecuzione della permanenza domiciliare, giacché ‘‘se le condotte di allontanamento o le (reiterate) violazioni degli obblighi sono punibili solo se realizzate senza giusto motivo, emerge chiaramente che il condannato per motivi giustificabili può uscire dal locus detentionis’’. Lo stesso Autore, però, critica la ‘‘rinuncia’’ del legislatore ‘‘a tipizzare e disciplinare le situazioni astrattamente ipotizzabili e comunque ad indicare l’organo competente a modulare gli obblighi (lo stesso giudice di pace o un altro soggetto), come avviene nel sistema vigente per la detenzione domiciliare’’. (20) Sul punto, è fondamentale la sentenza costituzionale n. 11 del 3 luglio 1956, in Giur. cost., 1956, p. 612 s. (21) Così, Corte cost. n. 419 del 1994, in Giur. cost., 1994, p. 3702. Su questa sentenza e, più in generale, sul ‘‘contenuto della libertà personale’’ nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, v., ampiamente, PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002, p. 15 s. (22) Sul rapporto tra la natura obbligatoria della permanenza domiciliare e la moda-


— 1377 — a) discende da un giudizio negativo sul comportamento e la personalità del condannato (commissione di un reato); b) implica il divieto di disporre liberamente del proprio essere fisico; c) è soggetta ai controlli ‘‘a sorpresa’’ da parte delle Forze dell’ordine (ufficio di pubblica sicurezza del luogo di esecuzione o, in mancanza di tale ufficio, comando dell’Arma dei carabinieri territorialmente competente); d) il suo mancato adempimento è punito, sussistendo le condizioni di cui all’art. 56, commi 1 e 2, d.lgs. n. 274, con la reclusione fino ad un anno (pena alla quale, peraltro, non sono applicabili le sanzioni sostitutive previste dagli artt. 53 e ss. della l. 24 novembre 1981, n. 689) (23). 4. (Segue): il ‘‘lavoro di pubblica utilità’’. — Uguali considerazioni valgono per il ‘‘lavoro di pubblica utilità’’. Anche tale misura, infatti, è correlata alla commissione di un reato (è applicabile, ex art. 52 d.lgs. n. 274, negli stessi casi in cui lo è la permanenza domiciliare, come alternativa a quest’ultima) e consiste in un obbligo di fare (‘‘prestazione di attività non retribuita in favore della collettività’’ in luoghi e secondo tempi in parte predeterminati dalla legge, in parte decisi discrezionalmente dal giudice), la cui esecuzione è soggetta ai medesimi controlli e alle medesime sanzioni previste per la permanenza domiciliare. Chi volesse sostenere il contrario e ravvisare una diversa natura giuridica della sanzione lavorativa potrebbe, in astratto, fare ricorso a due considerazioni. Potrebbe, anzitutto, ‘‘rinverdire’’ un lontano precedente della giurisprudenza costituzionale avente ad oggetto, seppure incidenter tantum, l’omologa (quanto a contenuto) misura del ‘‘lavoro sostitutivo’’ della pena pecuniaria (24). Trattasi della sentenza n. 131 del 16 novembre 1979 (25), con la quale la Corte ebbe a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 136 c.p., che prevedeva la conversione in pena detentiva della pena pecuniaria insoluta. In quell’occasione, la Consulta, nel suggerire al legislatore l’adozione di misure di conversione diverse dalla pena detentiva e ‘‘non limitative della libertà personale del condannato, ma dirette, invece, a creare od accrescere le sue capacità di pagamento’’ si riferì espressamente al ‘‘lavoro libero presso enti pubblici, anche per le sole giornate o periodi festivi’’. È noto poi come, aderendo a tale suggerimento, il legislatore del 1981 abbia fatto proprio del ‘‘lavoro sostitutivo’’, oltre che della ‘‘libertà controllata’’, il mezzo di conversione della pena pecuniaria non eseguita per accertata insolvibilità del condannato (art. 102, comma 3, l. n. 689 del 1981). Il secondo argomento attiene alla ‘‘consensualità’’ della misura. Il procedimento decisionale avente ad oggetto il lavoro di pubblica utilità si snoda in due fasi: dapprima, è il giudice che, ‘‘se ritiene di poter applicare in luogo della permanenza domiciliare la pena del lavoro di pubblica utilità, indica nella sentenza il tipo e la durata del lavoro di pubblica utilità che può essere richiesto dall’imputato o dal difensore munito di procura speciale’’ (art. 33, comma 2, d.lgs. n. 274); subito dopo, spetta ai soggetti da ultimo indicati decidere se accogliere l’invito del giudice formulando le relative richieste (art. 33, comma 3, d.lgs. n. 274). Ferma restando, pertanto, la prima valutazione discrezionale che, in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p., deve essere compiuta dal giudice (26), il lavoro di pubblica utilità non può essere disposto senza il previo consenso del diretto interessato (tale condizione è ribadita dal lità di ‘‘consegna’’ del relativo ordine, v. MANZIONE, L’esecuzione delle pene, in Il giudice di pace, cit., p. 478. (23) Tale preclusione è espressamente stabilita dall’art. 56, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000. (24) Ravvisa tale analogia di contenuti anche PERONI, Un inedito schema conciliativo nella condanna alla permanenza domiciliare, in Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 298. (25) V. supra, nota 14. (26) Cfr. PERONI, Un inedito schema conciliativo, cit., p. 305.


— 1378 — comma 1 dell’art. 54 d.lgs. n. 274: ‘‘Il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell’imputato’’) (27). Entrambi gli argomenti sopra esposti, però, non sembrano determinanti per escludere l’incidenza del lavoro di pubblica utilità sulla libertà personale del condannato. Quanto al primo, appare necessario specificare meglio il tenore della sentenza costituzionale n. 131 del 1979 alla luce delle considerazioni contenute in una diversa, e più recente, decisione della stessa Corte costituzionale, la n. 30 del 9 febbraio 2001 (28). Nella circostanza, il giudice a quo chiedeva alla Corte di equiparare il coefficiente di conversione delle pene pecuniarie in lavoro sostitutivo (lire 50.000, o frazione di lire 50.000, di pena pecuniaria per un giorno di lavoro sostitutivo) a quello previsto per la libertà controllata (lire 75.000, o frazione di lire 75.000, di pena pecuniaria per un giorno di libertà controllata). Ciò al fine di ripristinare un ‘‘equilibrio interno’’ tra le due misure (29) e rispettare così il principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 della Costituzione. La Corte costituzionale ha dichiarato l’infondatezza della questione ritenendo non comparabili la libertà controllata e il lavoro sostitutivo. Nel far ciò, la Corte costituzionale, da una parte, ha ribadito la disomogeneità tra il lavoro sostitutivo e le misure incidenti sulla libertà personale, dall’altra, ha espressamente escluso da tale giudizio ‘‘il lavoro di pubblica utilità quale pena principale’’. Quest’ultima, ha affermato la Corte, ‘‘è strutturata in forma sensibilmente diversa rispetto al modello dell’attuale lavoro sostitutivo, sia per quanto riguarda i contenuti, sia per le modalità di svolgimento, sia infine per i criteri di ragguaglio’’. Così stabilendo, il giudice delle leggi ha implicitamente riconosciuto che il lavoro gratuito a favore della comunità assume una diversa natura, secondo che sia utilizzato come misura sostitutiva della pena pecuniaria o come pena principale. Nella prima ipotesi, il lavoro non ha carattere sanzionatorio giacché non è collegato ad un comportamento colpevole del condannato (bensì al suo stato di insolvibilità) e mira esclusivamente a realizzare un nesso di correlazione funzionale tra il bene giuridico limitato dalla pena originaria e quello intaccato dalla pena convertita. Nella seconda ipotesi, mancando tale nesso funzionale ed essendovi, al contrario, un collegamento diretto e immediato tra un giudizio di colpevolezza e il lavoro, quest’ultimo non si atteggia più a mezzo surrogatorio di produzione del reddito necessario ad eseguire la pena pecuniaria, bensì a vera e propria sanzione penale. In sostanza, mentre (27) La volontà del condannato può assumere rilevanza anche ai fini della determinazione delle modalità esecutive della misura, giacché è necessaria una sua richiesta per aumentare la durata massima della prestazione lavorativa settimanale (‘‘non più di sei ore’’), sebbene entro il limite invalicabile delle otto ore giornaliere (art. 54, commi 3 e 4, d.lgs. n. 274 del 2000). (28) In Giur. cost., 2001, p. 95, con nota di DI NINO, Il lavoro sostitutivo nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale. (29) Originariamente, l’art. 102 della l. n. 689 del 1981 prevedeva che la conversione della pena pecuniaria (non eseguita per insolvibilità del condannato) in sanzione sostitutiva avesse luogo calcolando lire 25.000, o frazione di lire 25.000, di pena pecuniaria per un giorno di libertà controllata, e lire 50.000, o frazione di lire 50.000, per un giorno di lavoro sostitutivo. L’art. 101 della stessa legge aumentava a lire 25.000 la misura di ragguaglio, per qualsiasi effetto giuridico, tra la pena pecuniaria e quella detentiva. Successivamente, la l. n. 402 del 1993 ha aumentato quest’ultima misura di ragguaglio (da lire 25.000 a lire 75.000), senza però modificare i coefficienti di conversione delle pene pecuniarie in sanzioni sostitutive in caso di insolvibilità del condannato. A ciò ha provveduto, in parte, la Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 440 del 1994, in Riv. pen., 1995, p. 155, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 102, comma 3, della l. n. 689 del 1981 (ravvisandovi una ‘‘grave compromissione del principio di eguaglianza’’), nella parte in cui stabiliva che il ragguaglio fosse calcolato nella misura di lire 25.000, anziché in quella di lire 75.000 di pena pecuniaria per ogni giorno di libertà controllata. Di qui lo ‘‘squilibrio’’ tra libertà controllata e lavoro sostitutivo, atteso che a quest’ultima misura — rimasta fuori dal dispositivo della sentenza costituzionale n. 440 del 1994 — continua ad applicarsi il criterio di ragguaglio fissato in lire 50.000.


— 1379 — come ‘‘sanzione sostitutiva’’ il lavoro ha un contenuto, per così dire, neutro, come ‘‘sanzione principale’’ ha un contenuto prevalentemente afflittivo, di per sé idoneo a realizzare una ‘‘degradazione giuridica’’ del condannato e, di conseguenza, una lesione della libertà personale del medesimo. Riguardo al secondo argomento (la consensualità della misura), è quasi superfluo osservare che, una volta individuato il contenuto oggettivo di una sanzione penale, lo stesso non può cambiare natura giuridica per il solo fatto che il condannato manifesti la propria adesione all’esecuzione della sanzione. E ciò perché si verte in una materia (la libertà personale) sottratta alla libera disponibilità dei diretti interessati. Portando alle estreme conseguenze il ragionamento inverso, dovrebbe ritenersi che anche la pena detentiva diventi pena non incidente sulla libertà personale tutte le volte in cui la sua origine risalga all’accordo raggiunto, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., tra il pubblico ministero e l’imputato (o il suo difensore munito di procura speciale). Ragionamento dal quale, com’è noto, la Corte costituzionale ha preso le distanze, ‘‘subordinando’’ la costituzionalità del patteggiamento proprio alla circostanza che l’accordo tra le parti non si risolva in un atto dispositivo di beni indisponibili, ma sia, invece, sempre soggetto al controllo del giudice in ordine alla legalità e congruità della pena concordata (30). Anche nella Relazione governativa, peraltro, la scelta di subordinare l’applicabilità della sanzione del lavoro di pubblica utilità alla richiesta del condannato non viene ricollegata al fattore ‘‘libertà personale’’, ma a ragioni diverse. Anzitutto, alla preoccupazione di non incorrere nella violazione dell’art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta i ‘‘lavori forzati’’ e, poi, all’effettività della misura (‘‘la convinzione del Governo è che il lavoro di pubblica utilità, proprio perché sanzione fondata su un facere, implica il consenso del condannato per conseguire apprezzabili risultati sul terreno dell’effettività’’). L’iter argomentativo fin qui percorso approda ad un primo risultato: riconosciuto che tanto la permanenza domiciliare quanto il lavoro di pubblica utilità incidono sulla libertà personale del condannato, non basta definirle ‘‘sanzioni paradetentive’’ per concludere che le stesse fuoriescono dall’ambito applicativo degli artt. 13 e 111 Cost., atteso che le garanzie previste dalle citate disposizioni costituzionali sono indistintamente rivolte a ‘‘qualsiasi... restrizione della libertà personale’’ e ai ‘‘provvedimenti sulla libertà personale’’ (31). 5. Se la ‘‘deformalizzazione’’ può essere legata al ‘‘tipo’’ di provvedimento anziché al suo ‘‘contenuto’’. — Prescindendo dalle giustificazioni formalmente addotte dalla Relazione governativa (‘‘deformalizzazione’’ del procedimento di esecuzione quale conseguenza della mancata incidenza della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità sulla libertà personale), ci si deve ancora chiedere se le rinunce del legislatore delegato alle garanzie difensive di cui agli artt. 656, comma 3, c.p.p. e 111, comma 7, Cost. siano comunque riconducibili alla particolare connotazione strutturale dei provvedimenti di competenza del pubblico ministero (ordine di esecuzione) e del tribunale monocratico (ordinanze emesse in qualità di giudice di appello avverso i provvedimenti esecutivi, ex art. 666 c.p.p., del giudice di pace). A scanso di equivoci, è opportuno sottolineare che il problema non concerne l’esecuzione penale nel suo complesso, ma singoli provvedimenti. L’idea di una fase esecutiva (della pena) avente interamente natura amministrativa e (30) V. Corte cost., sent. n. 313 del 1990, in Riv. pen., 1990, p. 819. (31) In senso difforme, v. DI CHIARA, La disciplina dell’esecuzione, in AA.VV., La competenza penale, cit., p. 189; e GALLUCCI, Il procedimento di esecuzione, in Il giudice di pace, cit., p. 437. Secondo quest’ultimo, in particolare, ‘‘sembra sostenibile, considerata anche la particolare natura delle sanzioni previste per il processo penale di pace, che i relativi provvedimenti in executivis (non aventi ovviamente natura di sentenza) non possano dirsi incidenti sulla libertà personale nel senso richiesto dalla norma costituzionale’’.


— 1380 — non giurisdizionale risulterebbe, invero, anacronistica e foriera di critiche (32), visto che ormai da molti anni si registrano sia sul piano legislativo, sia su quello della giurisprudenza costituzionale, decisioni di segno opposto. Di particolare rilevanza sono, ad esempio, quelle contenute nelle sentenze n. 26 del 1999 e n. 526 del 2000 (33), attraverso le quali la Corte costituzionale ha sancito il principio secondo cui, anche nella fase dell’esecuzione penale, il condannato-detenuto è titolare di un diritto alla giurisdizione ‘‘pieno’’. Idoneo, cioè, a ‘‘coprire’’ tutte le posizioni giuridiche soggettive in qualche modo connesse all’esecuzione della pena. Ciò che cambia è soltanto la ‘‘tecnica’’ di tutela, diversa a seconda che sia da tutelare sia il diritto alla libertà personale o un diritto di altra specie. Nel primo caso — che si ha quando ad essere ristretta è quella parte di libertà personale che il detenuto conserva anche dopo la sentenza di condanna — l’intervento del giudice deve essere diretto (può soltanto essere preceduto da un provvedimento ‘‘provvisorio’’ emesso da un’autorità di pubblica sicurezza) e automatico (nel senso che la sua instaurazione deve prescindere dall’iniziativa del condannato). Nel secondo caso, la norma costituzionale di riferimento è l’art. 24, comma 1: ‘‘Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi’’. Così che, a discrezione del legislatore, l’intervento del giudice può anche essere successivo (controllo di un provvedimento originariamente adottato dall’autorità amministrativa) ed eventuale (su richiesta della parte) (34). Dinanzi a tali evoluzioni concettuali sarebbe, quindi, audace il tentativo di chi volesse andare controtendenza affermando la natura non giurisdizionale del procedimento di esecuzione dinanzi al giudice di pace e, con ciò, giustificare la disciplina adottata dal d.lgs. n. 274 del 2000 in tema di notifica dell’ordine di esecuzione e di impugnazione delle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 666 c.p.p. (35). Ciò premesso, occorre analizzare il (potenziale) contenuto del singolo provvedimento (32) Sull’argomento, v., per tutti, CORBI, voce Esecuzione penale, in Dig. disc. pen., vol. IV, 1990, p. 286 s.; e PRESUTTI, voce Esecuzione penale, in Enc. giur. Treccani, vol. XIII, 1996, p. 1 s. Con particolare riferimento al d.lgs. n. 274 del 2000, v. DEAN, Le norme sull’esecuzione, in Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 390 s. (33) La prima sentenza (in Giust. pen., 1999, I, c. 161) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 o.p., nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale. La sentenza n. 526 del 2000 (in Foro it., 2000, I, c. 1464) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 o.p. (che disciplina le perquisizioni personali e locali da effettuare negli istituti penitenziari) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13 commi 2 e 3, 24, commi 1 e 2, 97, comma 1, 113, commi 1 e 2, della Costituzione. In motivazione, però, la Corte ha affermato che la disciplina sulle perquisizioni penitenziarie va interpretata nel senso che ‘‘deve esservi una sede giurisdizionale nella quale l’eventuale illegittimità della misura possa essere direttamente e pienamente fatta valere ex se, come motivo di impugnazione della misura medesima’’. E che, nell’attesa di un apposito intervento del legislatore, spetta ai giudici ‘‘individuare nell’ordinamento in vigore lo strumento per concretizzare il principio affermato’’. (34) Sulle differenti forme di tutela giurisdizionale derivanti, rispettivamente, dall’art. 13 Cost. e dagli artt. 24, 113 Cost., v. PENNISI, Diritti del detenuto, cit., p. 234. (35) Si potrebbe, a dire il vero, contestare la pertinenza delle citate sentenze costituzionali (n. 26 del 1999 e 526 del 2000) rispetto al procedimento penale dinanzi al giudice di pace, sottolineando come a quest’ultimo siano del tutto estranee le sanzioni aventi natura detentiva. A nostro avviso, tuttavia, ciò che, sostanzialmente, rende ‘‘omogenei’’ — sotto il profilo dei ‘‘principi generali’’ — il procedimento per l’esecuzione della pena detentiva e quello per l’esecuzione delle pene ‘‘paradetentive’’ irrogabili dal giudice di pace, è il comune interesse costituzionale oggetto di lesione, vale a dire la libertà personale del condannato (art. 13 Cost.). In tale prospettiva, è forse utile richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 53 del 29 maggio 1968 (in Giur. cost., 1968, p. 802), con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 636 e 637 c.p.p. 1930 nella parte in cui comportavano che i provvedimenti del giudice di sorveglianza (in materia di misure di sicurezza) fossero adottati senza la tutela del diritto di difesa. Orbene, anche la Consulta, nel giungere a tali


— 1381 — per comprendere se quest’ultimo sia meramente esecutivo (e, come tale, privo di autonomia sostanziale rispetto al provvedimento che esegue), oppure abbia natura, in tutto o in parte, decisoria. La differenza è di fondamentale importanza perché soltanto dal secondo tipo di provvedimento discende un quid novi e, conseguentemente, la necessità di organizzare un’apposita tutela giurisdizionale. A questa distinzione ha fatto riferimento anche la giurisprudenza di legittimità prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 274, allorché, riallacciandosi alla Relazione al progetto preliminare del c.p.p. (36), ha ritenuto che tutti ‘‘i provvedimenti emessi dal pubblico ministero nella fase esecutiva, non avendo contenuto decisorio e attitudine a definire il rapporto processuale, non hanno natura giurisdizionale ma amministrativa’’ (37). Nella stessa ottica sembra muoversi oggi chi, descrivendo l’ordine di esecuzione delle pene non detentive del giudice di pace, gli assegna esclusivamente funzioni riepilogative (‘‘delle prescrizioni già determinate dal giudice di pace nella propria sentenza’’) (38) e di impulso (‘‘nei confronti degli organi di polizia incaricati di ingiungere formalmente al condannato di attenersi alle prescrizioni impostegli’’) (39). Se così fosse, nulla questio. La notifica di tale provvedimento al difensore del condannato non potrebbe dirsi ‘‘imposta’’ dall’art. 24 Cost. giacché avrebbe soltanto carattere conoscitivo (e non funzionale all’esercizio del diritto di difesa). Così, però, non è, per diverse ragioni: alcune comuni all’ordine di esecuzione delle pene detentive irrogate dal giudice ordinario (art. 656 c.p.p.); altre specifiche dell’ordine di esecuzione disciplinato dall’art. 43 del d.lgs. n. 274. Nell’ambito delle ‘‘ragioni comuni’’, si osserva che il provvedimento del pubblico ministero, pur non rappresentando formalmente il ‘‘titolo esecutivo’’ (da individuare nell’estratto della sentenza di condanna divenuta irrevocabile) (40), è l’atto senza il quale concretamente l’esecuzione non avrebbe inizio. È, più precisamente, l’atto mediante il quale prende forma la decisione del giudice in ordine alla divenuta esecutività della sentenza di condanna. Dispone, in tal senso, l’art. 28, comma 1, del Regolamento per l’esecuzione del c.p.p. che ‘‘la cancelleria, quando un provvedimento diviene esecutivo per non essere stata proposta impugnazione od opposizione, ne trasmette l’estratto senza ritardo, e comunque entro cinque giorni, al pubblico ministero presso il giudice indicato nell’art. 665 del codice’’. Il comma 5 della stessa disposizione prosegue stabilendo che ‘‘il pubblico ministero promuove senza ritardo l’esecuzione del provvedimento’’. È l’azione del pubblico ministero, pertanto, che, sebbene doverosa (perché esercitata ‘‘in assenza di ogni forma di discrezionalità’’) (41), esteriorizza la decisione sulla validità di quegli adempimenti e di quei presupposti dai quali dipende la ‘‘forza esecutiva’’ della sentenza (si pensi, ad esempio, alle operazioni di notifica dell’avviso di deposito della sentenza, conclusioni, ha adottato un’impostazione di tipo ‘‘sostanzialistico’’: ‘‘... la Corte è dell’avviso che la questione relativa al diritto di difesa nel procedimento di applicazione delle misure di sicurezza al di fuori del processo penale possa e debba essere impostata su un piano diverso e più alto, che non è quello formale dell’appartenenza del procedimento all’una o all’altra categoria, bensì quello riguardante l’interesse umano oggetto del procedimento, vale a dire quello supremo della libertà personale’’. (36) Dove si precisa che ‘‘nella fase dell’esecuzione, quando cioè sia stata emanata una sentenza di condanna ormai irrevocabile, non vi è spazio per l’uso di poteri discrezionali, dovendosi invece semplicemente dare esecuzione al provvedimento del giudice; dal che è facile la deduzione dell’inesistenza di ostacoli a riconoscere nel pubblico ministero l’organo naturale per il promovimento dell’attività esecutiva’’. (37) Così, Cass., Sez. I, 17 giugno 1999, Crea, in Riv. pen., 2000, p. 265. (38) CANEVELLI, Impugnazioni, cit., p. 156. (39) CANEVELLI, op. loc. cit. (40) Sul punto, v. DI RONZA, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, 4a ed., Padova, 2000, p. 110. (41) Così, CORBI, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p. 118.


— 1382 — disposte ai sensi dell’art. 548, comma 2, c.p.p. o 585, comma 2, lett. d), c.p.p., e al cui perfezionamento è legato il decorso del termine per impugnare) (42). Ed è proprio in rapporto a questo contenuto (implicito) del provvedimento del pubblico ministero che si rende necessario il ‘‘controllo tecnico’’ da parte della difesa del condannato, la quale, ravvisata la sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 175, commi 1 e 2, c.p.p. o dall’art. 670, comma 1, c.p.p., potrebbe richiedere, rispettivamente, la restituzione del termine ‘‘al giudice che sarebbe competente sull’impugnazione’’ o la dichiarazione di non esecutività della sentenza al giudice dell’esecuzione. In caso di accoglimento delle suddette richieste, il giudice, poi, dovrebbe disporre, ‘‘se occorre, la liberazione del condannato’’, oltre che porre in essere i provvedimenti necessari per far cessare gli effetti determinati dalla pronuncia di esecutività della sentenza. In queste situazioni, il tempestivo ‘‘coinvolgimento’’ del difensore appare ancora più irrinunciabile ove si rifletta sul fatto che la richiesta di ‘‘restituzione nel termine’’ ex art. 175 c.p.p., qualora sia invocata per le ragioni descritte nel comma 2 della stessa disposizione, deve essere presentata ‘‘a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza dell’atto’’ (art. 175, comma 3, c.p.p.). Altre ipotesi in relazione alle quali appare necessaria la notifica al difensore dell’ordine di esecuzione (perché funzionale al ‘‘controllo tecnico’’ del provvedimento) hanno ad oggetto il cumulo delle pene (art. 663 c.p.p.), il computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo (art. 657 c.p.p.) e l’accertamento dell’errore sull’identità fisica della persona arrestata per esecuzione di pena (art. 667, comma 3, c.p.p.) (43). Provvedimenti, tutti, che possono risolversi in mere operazioni di calcolo aritmetico o di verifica formale, ma che, a volte, presentano aspetti di problematicità, la cui soluzione implica, inevitabilmente, l’esercizio di un potere discrezionale (44). In tali casi, quindi, il contenuto decisorio del provvedimento è direttamente imputabile al pubblico ministero e, a differenza di quanto si è detto per l’accertamento dell’eseguibilità della sentenza di condanna, non rappresenta la semplice (e doverosa) proiezione esterna del titolo esecutivo emesso dal giudice di cognizione. Le altre ragioni che giustificano la notifica dell’ordine di esecuzione al difensore del (42) Sottolineano la complessità che, in certi casi, può caratterizzare l’accertamento dell’eseguibilità della sentenza di condanna, GAITO-RANALDI, Esecuzione penale, Milano, 2000, p. 62. (43) Il dubbio sull’identità fisica della persona detenuta è risolto, in via ordinaria, dal giudice dell’esecuzione (art. 667, commi 1 e 2, c.p.p.). Tuttavia, ‘‘se appare evidente che vi è stato un errore di persona’’ e non è possibile provvedere ‘‘tempestivamente’’ nei modi ordinari, ‘‘la liberazione può essere ordinata in via provvisoria con decreto motivato del pubblico ministero del luogo dove l’interessato si trova’’. Anche in quest’ultima ipotesi il provvedimento finale è del giudice dell’esecuzione, al quale il pubblico ministero deve trasmettere ‘‘immediatamente’’ gli atti (art. 667, comma 3, c.p.p.). (44) Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso in cui il pubblico ministero deve emettere un provvedimento di cumulo di pene concorrenti (art. 663 c.p.p.), in parte relative ad un titolo per il quale il condannato si trova già in espiazione di pena detentiva e in parte relative ad un diverso titolo per il quale il condannato è in status libertatis. Ci si è chiesti se in tale situazione (allorché la pena detentiva da espiare non superi complessivamente i tre anni) debba operare, per il secondo titolo esecutivo, la sospensione automatica di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p. o se, invece, quest’ultima sia incompatibile con il principio di unicità delle pene derivanti da cumulo. Il dubbio non è stato risolto in termini univoci (di qui la discrezionalità riconosciuta al pubblico ministero) né in giurisprudenza né in dottrina (nel senso dell’incompatibilità v. Cass., Sez. I, 29 gennaio 2001, Carrara, in Cass. pen., 2002, p. 1092, n. 299; e CESARIS, In tema di ordine di esecuzione e status libertatis del condannato a pena detentiva, in Cass. pen., 2001, p. 1539; in senso opposto, v. Sez. V, 20 gennaio 2000, Salvatore, in Cass. pen., 2001, p. 1533, n. 745; Trib. Milano, 17 marzo 2000, Sanchez, in Arch. n. proc. pen., 2000, p. 297; e TUFANO, Legge Simeone e sospensione dell’esecuzione: primi passi in un nuovo accidentato percorso interpretativo, in Cass. pen., 1998, p. 3170 s., n. 1705).


— 1383 — condannato e che riguardano in modo specifico la normativa sul giudice di pace penale si incentrano sulla determinazione delle modalità di esecuzione della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità. La materia è disciplinata dall’art. 43 del d.lgs. n. 274 del 2000, il cui contenuto ricalca quello previsto dall’art. 662 c.p.p. per l’esecuzione delle pene accessorie (45). In entrambi i casi, infatti, è il pubblico ministero a dover trasmettere l’estratto della sentenza di condanna ai competenti uffici di pubblica sicurezza, affinché questi provvedano ad informare il condannato degli obblighi impostigli e ad effettuare i necessari controlli. Nel far ciò, il pubblico ministero non dovrebbe avere alcun potere integrativo del titolo esecutivo, dal momento che la soluzione contraria non risulterebbe aderente al principio di legalità (e di giurisdizionalità) delle pene. Tale conclusione, del resto, è già stata affermata relativamente all’esecuzione delle pene accessorie, allorquando la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che (‘‘nell’ottica della piena giurisdizionalizzazione della fase esecutiva’’) ‘‘anche i problemi di interpretazione del titolo esecutivo’’ rientrano nella ‘‘competenza del giudice dell’esecuzione, che può essere indifferentemente attivata dal difensore, dal pubblico ministero e dall’interessato’’ (46). Il che, deve essere ribadito, a maggior ragione, per l’esecuzione della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, poiché, in tal caso, alle considerazioni di ordine generale, si aggiunge un preciso elemento normativo: secondo l’art. 43, comma 2, d.lgs. n. 274, ciò che il pubblico ministero deve trasmettere alle Forze di Polizia competenti a fare osservare le sanzioni ‘‘paradetentive’’ è l’ ‘‘estratto della sentenza di condanna contenente le modalità di esecuzione della pena’’. È la stessa legge, quindi, che impone al giudice di pace di emettere sentenze di condanna ‘‘complete’’, insuscettibili, cioè, di essere ‘‘riempite’’ da disposizioni aggiuntive provenienti da altre autorità (47). La notifica dell’ordine di esecuzione al difensore del condannato permetterebbe a quest’ultimo di verificare se il pubblico ministero si sia attenuto ai suddetti limiti o se, viceversa, abbia ritenuto di poter colmare personalmente alcune carenze del titolo esecutivo (ad esem(45) Nella Relazione, cit., p. 75, viene, invece, sottolineata l’analogia con l’esecuzione delle sanzioni sostitutive (art. 662 c.p.p.). Il richiamo però, sebbene ribadito da parte della dottrina (v., ad esempio, DEAN, Le norme sull’esecuzione, cit., p. 396; e GALLUCCI, Il procedimento di esecuzione, cit., p. 446), non pare del tutto convincente, atteso che per le sanzioni sostitutive, nella fase che dalla formazione dell’estratto della sentenza di condanna giunge alla ‘‘informazione’’ del condannato circa le prescrizioni da rispettare, non è previsto (a differenza di ciò che accade per le pene accessorie e per le sanzioni ‘‘paradetentive’’ applicabili dal giudice di pace) soltanto l’intervento del pubblico ministero e delle Forze di Polizia, ma anche quello del magistrato di sorveglianza (v. art. 62 l. n. 689 del 1981). Si osservi, ad ulteriore conferma della eterogeneità tra la disciplina prevista per le sanzioni sostitutive e quella prevista per le pene accessorie e per le pene ‘‘paradetentive’’ applicabili dal giudice di pace che, mentre nella seconda ipotesi le modalità di esecuzione della sanzione sono già determinate con la sentenza di condanna, nella prima ipotesi la decisione in ordine alle stesse modalità interviene in un momento successivo ad opera, appunto, del magistrato di sorveglianza. In dottrina, sottolinea l’analogia tra l’art. 43 d.lgs. n. 274 e la disciplina sull’esecuzione delle pene accessorie, CANEVELLI, Impugnazioni, cit., p. 156. (46) Cass., Sez. III, 9 giugno 1997, Piletti, in Riv. pen., 1997, p. 1155. La Cassazione, inoltre, partendo dal presupposto dell’identità di contenuto tra il titolo esecutivo e il provvedimento adottato dal pubblico ministero ex art. 662 c.p.p. ha stabilito che quest’ultimo ‘‘non è necessario quando l’operatività della pena deriva dalla diretta conoscenza, da parte del condannato, del provvedimento impositivo irrevocabile, senza che vi sia la necessità di alcun intervento attuativo da parte di organi esterni’’ (Cass., Sez. V, 11 luglio 2000, Bosia, in Arch. n. proc. pen., 2001, p. 643). In termini più generali, v. anche Cass., Sez. I, 9 gennaio 1996, Morelli, in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 632: ‘‘Il giudice dell’esecuzione ha il poteredovere di interpretare il giudicato e di renderne espliciti il contenuto e i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano necessari per finalità esecutive...’’. (47) In tal senso, anche CANEVELLI, Impugnazioni, cit., p. 156.


— 1384 — pio, in ordine alla scelta della ‘‘privata dimora’’ nella quale deve essere espiata la permanenza domiciliare o degli orari entro i quali deve essere svolta la prestazione lavorativa) senza fare ricorso al potere interpretativo del giudice dell’esecuzione (48). Ipotesi, questa, non proprio remota, atteso che non mancano le voci (per di più autorevoli) volte a riconoscere al pubblico ministero un siffatto potere (49). Dinanzi a tanti ‘‘deficit di tutela’’ (50) conseguenti alla mancata notifica dell’ordine di esecuzione al difensore del condannato ci si deve chiedere se l’integrale inapplicabilità dell’art. 656 c.p.p. alla normativa sul giudice di pace (ovvero la soluzione espressa dalla Relazione governativa e condivisa da parte della dottrina) (51) sia davvero una conclusione ‘‘obbligata’’ o se, al contrario, non sia possibile interpretare l’art. 43 del d.lgs. n. 274 in modo tale da doverne integrare il contenuto con quanto disposto dalla citata norma codicistica. A ben vedere, è ‘‘obbligata’’ la seconda opzione, giacché l’art. 43 d.lgs. n. 274 non prevede, riguardo all’ordine di esecuzione, una disciplina ‘‘autosufficiente’’. Tale articolo, invero, limitandosi ad affermare che ‘‘il pubblico ministero, emesso l’ordine di esecuzione, lo trasmette immediatamente’’ al competente ufficio di pubblica sicurezza, sembra dare per ‘‘presupposto’’ il contenuto del provvedimento esecutivo. Ne è ulteriore conferma il fatto che di quest’ultimo non vengono indicati neppure gli elementi essenziali, quali quelli relativi all’identificazione del condannato e all’enunciazione del dispositivo del provvedimento da eseguire (52). Accertato che l’art. 43 d.lgs. n. 274 è norma suscettibile di ‘‘etero-integrazione’’, a ciò non può che provvedersi attraverso il criterio generale stabilito dall’art. 2 del medesimo decreto legislativo: ‘‘Nel procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è previsto dal presente decreto, si osservano in quanto applicabili, le norme contenute nel codice di procedura penale (...)’’. Ne deriva, ancora, che l’art. 656 deve ritenersi operativo anche nei confronti dell’ordine di esecuzione emesso nell’ambito del procedimento dinanzi al giudice (48) Critica la ‘‘rinuncia al controllo ‘‘tecnico’’ sull’ordine di esecuzione’’ delle pene paradetentive irrogate dal giudice di pace anche DEAN, Le norme sull’esecuzione, cit., p. 395, nota 17, secondo il quale ‘‘non si tratta... di contrastare l’attuazione dello ius puniendi, ma di verificare l’esattezza (con tutti i significati che il termine rivendica in chiave processuale) del titolo esecutivo, anche perché mai come in questo settore, dove tutto è contenuto in tempi ristretti, la tempestività della contestazione può garantire l’effettività del correttivo’’. (49) Ci riferiamo, in particolare, a quanto è emerso dall’intervento (Controllo giudiziario sull’esecuzione delle pene detentive) svolto dal dott. PROFITI, sostituto procuratore della Repubblica, al Convegno dell’Università degli Studi di Trento su ‘‘Competenza penale del giudice di pace e ‘nuove’ pene non detentive’’ (Trento 22-23 febbraio 2002). Il suddetto, pur riconoscendo, in linea di principio, il ruolo meramente attuativo del pubblico ministero (‘‘Il principio irretrattabile è che il pubblico ministero non può disporre nulla che contraddica quanto indicato nella sentenza’’), ha affermato che ‘‘la stessa previsione di un ordine di esecuzione di un organo giurisdizionale che deve accompagnare l’estratto della sentenza di condanna da consegnare al condannato, implica, di necessità, un ruolo non meramente formale del predetto ordine di esecuzione’’ (v. relazione dattiloscritta, p. 2). E che, pertanto, ‘‘laddove nel dispositivo sia prevista genericamente la condanna alla permanenza domiciliare presso ‘l’abitazione o altro luogo di privata dimora o luogo di cura, assistenza o accoglienza’ sarà giocoforza per il pubblico ministero effettuare una scelta. Non compaiono espliciti strumenti procedurali che consentano un interpello preventivo’’ (v. relazione dattiloscritta, p. 4). (50) L’espressione è di DI CHIARA, La disciplina dell’esecuzione, cit., p. 197. (51) Cfr. GALLUCCI, Il procedimento di esecuzione, cit., p. 448, secondo il quale l’ordine di esecuzione ex art. 43 d.lgs. n. 274 ‘‘(che ha natura peculiare, non riducibile alla fattispecie oggetto della norma codicistica) emesso dal pubblico ministero non dovrà essere notificato al difensore del condannato’’. (52) Dispone in tal senso il comma 3 dell’art. 656 c.p.p. che ‘‘l’ordine di esecuzione contiene le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e quant’altro valga a identificarla, l’imputazione, il dispositivo del provvedimento e le disposizioni necessarie all’esecuzione’’.


— 1385 — di pace, salvo per quella parte incompatibile con le peculiarità di detto procedimento e, nella specie, con quella parte indefettibilmente connessa alla natura detentiva della pena da eseguire. Rientrano, così, nel giudizio di incompatibilità quelle disposizioni dell’art. 656 volte ad evitare, in presenza di determinati requisiti, l’impatto traumatico con il carcere (53). E ciò sia per l’eterogeneità tra le sanzioni applicabili dal giudice di pace e la pena detentiva (riguardo alla permanenza domiciliare, l’art. 53 del d. lg. n. 274 del 2000 stabilisce espressamente che ‘‘il condannato non è considerato in stato di detenzione’’), sia perché, come detto, caratteristica fondamentale di tali sanzioni è l’effettività della loro esecuzione. Non è invece ontologicamente collegato alla natura detentiva della sanzione da eseguire — così da poter essere esteso anche alle sanzioni applicabili dal giudice di pace — il comma 3 dell’art. 656 c.p.p., nella parte in cui prevede che ‘‘l’ordine è notificato al difensore del condannato’’ (54). Chiuso il discorso sull’ordine di esecuzione, è superfluo soffermarsi sulla natura ‘‘decisoria’’, e non meramente ‘‘attuativa’’, dei provvedimenti adottati dal giudice dell’esecuzione attraverso il procedimento di cui all’art. 666 c.p.p. Esaminando i singoli provvedimenti, ci si avvede che il ‘‘potere decisorio’’ del giudice dell’esecuzione raggiunge la massima espansione quando, attraverso l’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato ‘‘nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona’’ (art. 671, comma 1, c.p.p.), finisce per ‘‘modificare’’ il titolo esecutivo sia in ordine all’accertamento del fatto (il reato continuato presuppone ‘‘più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso’’), sia in ordine all’esecuzione della pena (si applica ‘‘la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo’’). Ma, anche nei casi in cui la discrezionalità del giudice dell’esecuzione è apparentemente minima o, addirittura, assente (perché ancorata a parametri di riferimento sufficientemente (53) Ci si riferisce, in particolare, al comma 5 dell’art. 656 c.p.p., introdotto dalla l. n. 165 del 1998 (sul punto, v. DELLA CASA, ‘‘Democratizzazione’’ dell’accesso alle misure alternative e contenimento della popolazione carceraria: le due linee-guida della nuova legge sull’esecuzione della pena detentiva, in Legisl. pen., 1998, p. 755 s.; PENNISI, Le misure alternative alla detenzione, in Manuale della esecuzione penitenziaria, a cura di Corso, Bologna, 2000, p. 189 s.; e, volendo, PULVIRENTI, La ‘‘riforma Simeone’’ tra intenti di razionalizzazione e questioni interpretative, in Giust. pen., 1999, II, c. 545) e successivamente modificato dal d.l. 24 novembre 2000, n. 341, conv., con modificazioni, dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4 (su tali modifiche, v. BERNASCONI, Le modifiche della fase esecutiva tra rigorismo e razionalizzazione: la ‘‘nuova’’ veste dell’art. 656 c.p.p., in Il decreto ‘‘antiscarcerazioni’’, cit., p. 175). Il dubbio circa l’applicabilità dell’art. 656, comma 5, c.p.p. all’ordine di esecuzione di cui all’art. 43 d.lgs. n. 274 deriva dal fatto che un problema analogo si è posto per le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata e, conseguentemente, dalla possibilità di equiparare tali situazioni alla permanenza domiciliare e al lavoro di pubblica utilità. Tuttavia, mentre per le sanzioni sostitutive la tesi che propende per l’applicabilità della sospensione ex art. 656, comma 5, c.p.p. (sul punto v., in senso favorevole, Corte cost., ord. 20 luglio 2000, n. 318, in Giur. cost., 2000, p. 2381; in senso contrario, però, v. anche Cass., Sez. I, 26 ottobre 1999, Azzolina, in C.E.D. Cass., n. 214964) appare sorretta da un significativo elemento testuale (rinvenibile nell’art. 57 della l. n. 689 del 1981, secondo cui ‘‘per ogni effetto giuridico, la semidetenzione e la libertà controllata si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita’’); lo stesso elemento non sussiste per le pene paradetentive irrogabili dal giudice di pace. Per queste ultime, anzi, sussiste un elemento testuale di segno opposto (formalmente rivolto alla sola permanenza domiciliare, ma, a maggior ragione, ascrivibile alla meno afflittiva misura del lavoro di pubblica utilità), vale a dire quello secondo cui ‘‘il condannato non è considerato in stato di detenzione’’ (art. 53, comma 2, d.lgs. n. 274). Alla stessa conclusione giunge CANEVELLI, Impugnazioni, cit., p. 156. (54) Negli stessi termini, DI CHIARA, La disciplina dell’esecuzione, cit., p. 197.


— 1386 — certi), è ravvisabile una potenzialità decisoria legata alla problematicità che, in concreto, può assumere la questione. Non a caso, in tali ipotesi, il codice di rito ha previsto un procedimento a contraddittorio differito ed eventuale, che si svolge, ‘‘senza formalità’’ e inaudita altera parte (art. 667, comma 4, c.p.p.), ma che, in caso di ‘‘opposizione’’ del pubblico ministero, dell’interessato o del difensore, deve proseguire nelle forme ordinarie stabilite dall’art. 666 c.p.p. Più in generale, deve concludersi che nella fase dell’esecuzione penale l’ideale linea di confine tra il settore di esclusiva competenza del pubblico ministero e quello del giudice dell’esecuzione è segnata proprio dalla natura controvertibile (e quindi decisoria) del provvedimento da adottare. Ciò si coglie chiaramente nella costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ‘‘a norma dell’art. 665 c.p.p., il pubblico ministero ha il potere-dovere di ‘curare’ l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, spettando dunque a tale organo tutti gli adempimenti funzionali a tale scopo. Si ha invece l’intervento del giudice dell’esecuzione solo se si profili un ‘contrasto’ in ordine all’esistenza o validità del titolo esecutivo ovvero a fatti capaci di modificarne gli estremi o i contenuti originari’’ (55). 6. L’inoppugnabilità delle ordinanze esecutive emesse dal tribunale monocratico e le (presunte) ragioni di economia processuale. — Abbiamo fin qui spiegato le ragioni per le quali, a nostro avviso, il tentativo di ‘‘ancorare’’ la deformalizzazione, voluta dal d.lgs. n. 274 del 2000 in tema di esecuzione penale, allo specifico contenuto delle sanzioni applicabili dal giudice di pace o alla morfologia dei provvedimenti esecutivi adottabili da quest’ultimo, non possa essere utilmente perseguito. Contestualmente, abbiamo rilevato come le stesse ragioni legittimino, invece, forti sospetti di incostituzionalità legati alla non ricorribilità per cassazione delle ordinanze emesse dal giudice di pace (quale giudice dell’esecuzione) ex art. 666 c.p.p. (56) e alla mancata previsione della notifica al difensore del condannato dell’ordine di esecuzione emesso dal pubblico ministero. Sospetti che, mentre in questa seconda ipotesi appaiono superabili in via interpretativa (integrando la disciplina dell’art. 43 d.lgs. n. (55) Così, Cass., Sez. VI, 28 giugno 1999, Ternullo, in C.E.D. Cass., n. 214549. (56) Un problema di compatibilità con l’art. 111 Cost. potrebbe porsi, in realtà, anche per le impugnazioni delle sentenze emesse dal giudice di pace (e non solo, quindi, per i provvedimenti che costituiscono l’epilogo del procedimento di esecuzione). L’art. 37, comma 2, d.lgs. n. 274 prevede che ‘‘l’imputato può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano la sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento’’. Sono, queste, le sole sentenze per le quali, in virtù dell’art. 37, comma 1, d.lgs. n. 274, l’imputato non può proporre appello al tribunale monocratico. Se ne dovrebbe, perciò, ricavare che la norma citata configuri ‘‘una precisa alternativa tra situazioni che danno titolo all’interposizione dell’appello e situazioni che abilitano a ricorrere per cassazione’’ (CANEVELLI, Impugnazioni, cit., p. 152). Così interpretata, però, la disposizione non sarebbe ‘‘rispettosa del precetto costituzionale (art. 111, comma 7, Cost.) che sancisce il principio della libera ricorribilità in Cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze e di tutti i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali’’ (op. loc. cit.). Al fine di evitare ciò, vi è chi, pertanto, suggerisce una diversa interpretazione dell’art. 37 d.lgs. n. 274, volta a considerare tale disposizione una ‘‘norma superflua’’ e, comunque, suscettibile di essere integrata, attraverso la clausola di rinvio di cui all’art. 2 d.lgs. n. 274, con quanto disposto dall’art. 568, comma 2, c.p.p. (secondo il quale ‘‘sono sempre soggette a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’art. 28’’). Con la conseguenza di dover ritenere ‘‘naturale che, fermo restando il limite dell’interesse ad impugnare, saranno ricorribili in cassazione anche le sentenze emesse dal tribunale quale giudice d’appello’’ (così, SPANGHER, Le impugnazioni, in Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, cit., p. 384).


— 1387 — 274 con quella dell’art. 656, comma 3, c.p.p.), nella prima ipotesi non possono essere cancellati se non attraverso una riforma legislativa o una declaratoria di incostituzionalità (57). È evidente che per escludere tale conclusione non basta ‘‘appellarsi’’ a presunte esigenze di economia processuale, atteso che tale esigenza può legittimamente invocarsi solo dopo che si sia rispettata la soglia minima di garanzie formali perché un procedimento possa definirsi giurisdizionale. Prima fra tutte, quella secondo cui ‘‘contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge’’ (art. 111, comma 7, Cost.). Volutamente, peraltro, abbiamo parlato di esigenze di economia processuale ‘‘presunte’’. Considerando, infatti, l’intero iter procedimentale che dall’instaurazione del procedimento di esecuzione giunge alla definitività dell’ordinanza emessa dal giudice di pace ex art. 666 c.p.p., ci si accorge come il d.lgs. n. 274 del 2000 non abbia ‘‘accorciato’’ i tempi, ma solo trasferito il ‘‘carico giudiziario’’ da un’autorità giudiziaria ad un’altra: quel che nel procedimento ordinario è di competenza della Cassazione (art. 666, comma 6, c.p.p.), nel procedimento dinanzi al giudice di pace è passato nelle mani del tribunale monocratico, chiamato a decidere sul ‘‘ricorso per motivi di legittimità’’ avverso i provvedimenti adottati ex art. 666, comma 2, c.p.p. (art. 41, comma 2, d.lgs. n. 274). È rimasta, quindi, immutata l’incidenza che il giudizio di legittimità può avere sull’economia complessiva del procedimento di esecuzione, anche perché destinatario di questo trasferimento di competenze non è certo un organo giurisdizionale il cui preesistente carico di incombenze possa fare ragionevolmente sperare nell’adozione di tempi più brevi di quelli normalmente utilizzati dalla Corte di cassazione. Il risultato è ancora più negativo ove si voglia procedere ad una valutazione ‘‘frammentaria’’, che non tenga conto, cioè, dei tempi necessari all’esaurimento dell’intero iter del procedimento esecutivo, ma soltanto dei tempi relativi a quel particolare segmento processuale che è rappresentato dal giudizio di legittimità. Invero, il tribunale monocratico, allorché, deve provvedere, quale giudice di legittimità, avverso il ‘‘decreto del giudice di pace che dichiara inammissibile la richiesta formulata nel procedimento di esecuzione e contro l’ordinanza che decide sulla richiesta’’, è tenuto a seguire forme meno ‘‘snelle’’ di quelle con le quali negli stessi casi è tenuta a procedere (nel rito ordinario) la Corte di cassazione (58). Quest’ultima, in virtù di quanto disposto dall’art. 666, comma 6, c.p.p., procede in ca(57) Il sospetto di incostituzionalità è alimentato da un’ulteriore considerazione. L’art. 44 d.lgs. n. 274 afferma che per la modifica delle modalità esecutive della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità il giudice dell’esecuzione è tenuto a procedere ‘‘osservando le disposizioni dell’art. 666 del codice di procedura penale’’. In assenza di altre specificazioni relative all’impugnabilità dell’ordinanza così emessa dal giudice dell’esecuzione, dovrebbe, pertanto, ritenersi che in tal caso sia applicabile il comma 6 del citato art. 666 — che prevede la ricorribilità per cassazione della suddetta ordinanza — e non l’art. 41 del d.lgs. n. 274 (che, come sappiamo, prevede esclusivamente il ‘‘ricorso per motivi di legittimità al tribunale in composizione monocratica’’, il quale decide ‘‘con ordinanza non impugnabile’’). Tutto ciò senza alcuna giustificazione in ordine al diverso (e più garantito) trattamento riservato alle ordinanze in tema di modifica delle modalità esecutive delle sanzioni paradetentive rispetto a tutte le altre ordinanze adottabili dal giudice dell’esecuzione ex art. 41 d.lgs. n. 274. È naturale, quindi, che la dottrina che propende per la costituzionalità dei limiti posti all’impugnabilità delle ordinanze di cui all’art. 41 del d.lgs. n. 274 cerchi, poi, di superare la lettera dell’art. 44 d.lgs. n. 274 (e l’illogica disparità di trattamento che ne deriverebbe) suggerendone ‘‘una lettura correttiva, (...) che consenta di adottare un unico rito di esecuzione avanti al giudice di pace — estendendone la portata anche al meccanismo previsto dall’art. 41 d.lgs. n. 274 del 2000 —’’ (è questa l’interpretazione proposta, ad esempio, da DI CHIARA, La disciplina dell’esecuzione, cit., p. 202; e condivisa da GALLUCCI, Il procedimento di esecuzione, cit., p. 447). (58) In entrambi i casi, il ‘‘procedimento di base’’ è quello ‘‘in camera di consiglio’’ disciplinato dall’art. 127 c.p.p.: in tal senso dispongono l’art. 41, comma 3, d.lgs. n. 274 del


— 1388 — mera di consiglio ‘‘senza intervento dei difensori’’ e con la sola facoltà per ‘‘tutte le parti’’ di presentare ‘‘motivi nuovi e memorie’’ fino a quindici giorni prima dell’udienza e, fino a cinque giorni prima, eventuali memorie di replica (art. 611, comma 1, c.p.p.). Il tribunale monocratico procede anch’esso in camera di consiglio, ma, questa volta, senza alcuna contrazione delle forme previste dall’art. 127 c.p.p. (il richiamo a quest’ultima norma da parte dell’art. 41, comma 3, d.lgs. n. 274 è, infatti, privo di eccezioni, che non siano quelle, naturalmente, relative al regime di impugnazione del provvedimento conclusivo) (59). Con la conseguenza che in tale procedimento le parti tecniche, oltre che depositare memorie fino a cinque giorni prima della data dell’udienza, possono comparire dinanzi al giudice ed essere sentite (art. 127, commi 2 e 3, c.p.p.), sebbene il loro legittimo impedimento non giustifichi il rinvio dell’udienza (60). L’interessato, inoltre, ha il diritto ad essere sentito personalmente, durante l’udienza, qualora si trovi in stato di libertà o di detenzione in un luogo posto all’interno della circoscrizione del giudice (61). 7. Conclusioni. — La conclusione ci sembra inevitabile. La ‘‘deformalizzazione’’ del procedimento di esecuzione dinanzi al giudice di pace — nelle deroghe al procedimento ‘‘ordinario’’ in tema di notifica dell’ordine di esecuzione e di impugnazione del decreto di inammissibilità e dell’ordinanza decisoria — appare censurabile sia nell’ottica della ‘‘giurisdizionalità minima’’ del procedimento, sia in quella della ‘‘funzionalità’’ del procedimento stesso. 2000 per ciò che attiene al tribunale monocratico e il combinato disposto dagli artt. 666, comma 6, e 611 c.p.p. relativamente alla Corte di cassazione. (59) Critica tali differenze tra il procedimento esecutivo ordinario e quello dinanzi al giudice di pace, CAMPANELLA, Commento all’art. 41 d.lgs. n. 274 del 2000, in Legisl. pen., 2001, p. 235. (60) V. Cass., Sez. un., 8 aprile 1998, Cerroni, in Cass. pen., 1998, p. 3219, n. 1713, che ha affermato la non applicabilità dell’art. 486, comma 5, c.p.p. ai procedimenti in camera di consiglio che si svolgono con le forme previste dall’art. 127 c.p.p. (61) È dubbio, in realtà, se il diritto alla partecipazione personale non debba essere riconosciuto anche all’interessato detenuto in un luogo posto fuori della circoscrizione del giudice. Letteralmente, l’art. 127, comma 4, c.p.p. esclude siffatta estensione stabilendo che ‘‘se l’interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice’’ deve essere sentito, ove ne faccia richiesta, ‘‘prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza’’. Sulla legittimità costituzionale di tale differenza di trattamento legata al locus detentionis (con particolare riferimento al procedimento camerale per la decisione sulla richiesta di riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva, il cui svolgimento, in virtù del rinvio operato dall’art. 309, comma 8, c.p.p., deve seguire le forme previste dall’art. 127 c.p.p.) si è pronunciata la Corte costituzionale (sentenza n. 45 del 13 gennaio 1991, in Giust. pen., 1991, I, c. 205). In tale circostanza, la Corte ha riconosciuto ‘‘l’interesse dell’imputato a comparire personalmente per contrastare — se lo voglia — le risultanze probatorie’’ ed ha, di conseguenza, sottolineato ‘‘l’importanza che il contraddittorio abbia a svolgersi innanzi al giudice che dovrà poi assumere la decisione’’. Inoltre, ha precisato che la prevalenza del suddetto interesse sulle esigenze pratiche di segno opposto (trasferimento dei detenuti) non è generalizzata, bensì limitata alle ‘‘ipotesi nelle quali sono prese in esame questioni di fatto concernenti la condotta dell’interessato’’. Da tali premesse, tuttavia, la Corte non ha fatto discendere, come era lecito attendersi, la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 309, comma 8, c.p.p., ritenendo che tale norma non sembra ‘‘vietare’’ la comparizione personale dell’imputato ‘‘se questi ne abbia fatto richiesta oppure se il giudice competente lo ritenga ex officio opportuno’’. Ciò nonostante, la Cassazione a Sezioni Unite (Cass., Sez. un., 22 novembre 1995, Carlutti, in Arch. n. proc. pen., 1996, p. 235), chiamata successivamente a chiarire il significato della citata pronuncia costituzionale, ha inequivocabilmente affermato che, ‘‘sia l’indagato detenuto nell’ambito o fuori della circoscrizione del tribunale’’, il giudice del riesame ‘‘è tenuto ad assicurare la presenza dell’interessato dinanzi a sé’’ (sempre che, ovviamente, vi sia stata una specifica richiesta del detenuto ad essere sentito personalmente).


— 1389 — Sotto il secondo profilo, nessuna delle peculiarità del giudizio innanzi al giudice di pace sembra giustificare tali deroghe: non quella che risiede nella finalità primaria della giustizia conciliativa, atteso che l’irrogazione di una sanzione e l’esecuzione di quest’ultima si fondano sul presupposto che lo strumento conciliativo non abbia raggiunto l’obiettivo; non quella basata sulla eterogeneità tra la pena detentiva e le nuove sanzioni applicabili dal giudice di pace, visto che le due categorie di sanzioni hanno, comunque, in comune il tipo di bene giuridico oggetto di compressione (la libertà personale); non, infine, la peculiarità legata all’effettività della risposta sanzionatoria, giacché le deroghe, come visto, non apportano alcuna utilità in termini di celerità del procedimento esecutivo. E, in ogni caso, nessuna delle peculiarità sopra ricordate può derogare a ciò che oggi, secondo la Costituzione, costituisce garanzia indefettibile di ogni procedimento giurisdizionale. L’assunto vale per la notifica dell’ordine di esecuzione al difensore del condannato (in quanto lo si consideri mezzo ineliminabile per la garanzia del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.), ma vale ancor di più per la ricorribilità in cassazione dei provvedimenti emessi dal tribunale monocratico ex art. 41, comma 2, d.lgs. n. 274 (62). Se, infatti, nel primo caso, la norma costituzionale di riferimento è una norma di principio (art. 24 Cost.), la quale, entro certi limiti, lascia al legislatore la scelta in ordine ai mezzi attraverso i quali raggiungere un determinato fine (63); nel secondo caso, ad essere interessata è una norma costituzionale immediatamente precettiva: nel duplice senso che il suo contenuto è già determinato (ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. il legislatore può scegliere le forme del ricorso in cassazione ma non può non consentirne l’esperibilità) e direttamente applicabile dal giudice. Né sembra possibile ‘‘aggirare’’ l’imperativo costituzionale tentandone una lettura riduttiva, diretta a ritenere che l’art. 111, comma 7, Cost. garantisca un giudizio qualsiasi sulla legalità dei provvedimenti in tema di libertà personale e non necessariamente un intervento della Cassazione: così che, l’indicazione dell’autorità giudiziaria, all’interno dell’art. 111 Cost., sarebbe meramente esemplificativa e la garanzia costituzionale sarebbe ugualmente soddisfatta dalla possibilità di instaurare un giudizio di legittimità innanzi ad una, qualsiasi, autorità giudiziaria diversa da quella che ha disposto la misura restrittiva della libertà personale. Di tale forzatura ermeneutica sarebbe evidente il contrasto sia con la lettera che con la ratio dell’art. 111 Cost. Nella prima prospettiva, è sufficiente ribadire il significato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 395 del 2000, ha attribuito all’art. 111, comma 7, Cost., seppure in riferimento ad un thema decidendum diverso da quello qui esaminato (64): ‘‘... il presidio costi(62) Censura la scelta del legislatore di non sottoporre a ricorso per cassazione l’ordinanza con cui il tribunale monocratico decide sul ricorso di cui all’art. 41 d.lgs. n. 274, anche SANTORO, L’insolvenza, cit., p. 137. (63) In tale direzione, potrebbe sostenersi che, in relazione all’ordine di esecuzione delle sanzioni paradetentive applicabili dal giudice di pace, il diritto di difesa è comunque garantito dalla notifica al diretto interessato, potendo quest’ultimo informare successivamente il proprio difensore e garantirsi così anche la ‘‘difesa tecnica’’. Rimarrebbe, però, forte il sospetto di incostituzionalità sotto altro profilo, vale a dire quello della irragionevole disparità di trattamento tra il suddetto condannato e quello che deve espiare una pena ‘‘ordinaria’’, interamente assoggettata alla disciplina di cui all’art. 656 c.p.p. (comprendente l’obbligo di notifica sia all’interessato che al suo difensore). (64) La sentenza è pubblicata in Giur. cost., 2000, p. 2791. La questione di legittimità costituzionale aveva ad oggetto gli artt. 629 e 630 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti interni al giudizio. La Corte ha dichiarato inammissibile la questione, ma sul presupposto che ‘‘l’errore di tipo ‘percettivo’ in cui sia incorso il giudice di legittimità... rappresenta eventualità tutt’altro che priva di conseguenze per il rispetto dei principi costituzionali coinvolti’’ e che, pertanto, ‘‘spetta alla stessa Corte di cassazione... svolgere appieno la propria fun-


— 1390 — tuzionale — il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l’espresso richiamo al vizio di violazione di legge) — contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione’’. Nella seconda prospettiva, emerge la duplice finalità del giudizio riservato alla Cassazione: da un lato, il detto giudizio rappresenta un estremo e particolarmente qualificato rimedio giurisdizionale a tutela dei diritti del cittadino e funge, quindi, da garanzia soggettiva interna al procedimento; dall’altro, mira alla ‘‘uniforme interpretazione della legge’’ (art. 65 ord. giud.) e si atteggia, quindi, a garanzia oggettiva esterna al procedimento (65). Ora, è evidente, che nell’ambito del procedimento penale esecutivo di competenza del giudice di pace, la funzione nomofilattica e le esigenze di parità di trattamento ad essa correlate, risulterebbero ingiustamente sacrificate ove si ritenesse costituzionalmente legittima la ‘‘fungibilità’’ del ‘‘diritto al processo in cassazione’’ con il diritto ad un giudizio di legittimità dinanzi al tribunale monocratico. Così argomentando, infatti, di tale funzione verrebbe meno un presupposto logico ineliminabile, vale a dire l’attribuzione della competenza ad un giudice avente giurisdizione su tutto il territorio della Repubblica. È bene precisare, in conclusione, che il giudizio negativo fin qui formulato è strettamente legato all’analisi del dato normativo esistente e non alle scelte di politica legislativa di per sé considerate. Non v’è dubbio che la riduzione dei mezzi di impugnazione nel procedimento penale dinanzi al giudice di pace sia, in astratto, perfettamente in linea con la non particolare gravità dei reati interessati da tale giurisdizione e con l’obiettivo di realizzare una giustizia mite ma pronta ed effettiva. Altrettanto pacifico è che in questo settore della giustizia penale il livello di complessità delle potenziali questioni giuridiche non sia così elevato da giustificare, sotto il profilo delle garanzie giurisdizionali soggettive, il diritto delle parti ad un triplice giudizio di diritto (66). Quel che, semmai, anche in questo settore appare irrinunciabile è la garanzia di legalità in funzione oggettiva, ovvero assicurare la tendenziale uniformità applicativa del diritto evitando il ‘‘disfattismo interpretativo’’ (67) e il decisionismo giudiziario. In tale prospettiva, il procedimento penale dinanzi al giudice di pace potrebbe rappresentare un ideale laboratorio di sperimentazione per una più radicale riforma della Corte di cassazione, volta a trasformare quest’ultima da giudice di terza istanza a Corte Suprema avente un’effettiva funzione nomofilattica (68). Ma per fare ciò non può prescindersi dalla tanto auspicata modifica del testo vigente dell’art. 111 Cost., di modo che la previsione dei casi di ricorso in cassazione non sia più rigidamente disposta dalla Costituzione in relazione a tutte le ‘‘sentenze’’ e i ‘‘provvedimenti sulla libertà personale’’, bensì rimessa, almeno in parte, alle scelte del legislatore ordinario (69). zione di interpretazione adeguatrice del sistema, individuando, all’interno di esso, lo strumento riparatorio più idoneo’’. (65) Per questa duplice funzione del ricorso in Cassazione, cfr., tra i tanti, PISANI, Il ricorso per Cassazione, in PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Manuale, cit., p. 553; SCAPARONE, Elementi di procedura penale - I principi costituzionali, Milano, 1999, p. 157 s.; NAPPI, La procedura penale per il giudice di pace, Milano, 2001, p. 207. (66) Di ‘‘eccessivo ampliamento delle garanzie in favore del soggetto sottoposto ad esecuzione’’ parla anche CANEVELLI, Impugnazioni, cit., p. 154. (67) Espressione tratta da FERRUA, Il giudizio di diritto nel processo penale, in Cass. pen., 2000, p. 1828, n. 1049. (68) Sull’argomento, cfr. NAPPI, La Corte di cassazione nel sistema dei mezzi di impugnazione: funzione nomofilattica o di giudice di terzo grado, in Cass. pen., 2000, p. 764 s., n. 518. (69) Il legislatore avrebbe già potuto dare vita a tale modifica nell’ambito del progetto di riforma costituzionale intitolato al ‘‘giusto processo’’ (sfociato, com’è noto, nella l. cost. n. 2 del 1999). E ciò al fine di riequilibrare il paradigma costituzionale del processo penale non solo sul versante delle garanzie a favore dell’imputato ma anche su quello della tutela


— 1391 — Compiuto questo passo, la ricorribilità in cassazione nel procedimento davanti al giudice di pace potrebbe essere limitata subordinandola ad uno specifico contenuto dei provvedimenti esecutivi (e non più alla loro generica incidenza sulla libertà personale) e, ancora, all’interesse generale delle questioni giuridiche sollevate (interesse ravvisabile nella particolare complessità della questio iuris o nel fatto che la stessa questione sia stata decisa in maniera difforme da più giudici o dallo stesso giudice). ANTONINO PULVIRENTI Assegnista di ricerca in procedura penale nell’Università di Catania

dei diritti e delle aspirazioni di giustizia delle vittime del reato. In tal senso, GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 3322, n. 1731.1.


RASSEGNE

a) Giurisprudenza della Corte costituzionale (*) CODICE DI PROCEDURA PENALE

PROCEDIMENTI SPECIALI a) GIUDIZIO ABBREVIATO Nel corso del 2001 la Corte ha avuto l’occasione di tornare ad occuparsi del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado’’), quanto alla disciplina transitoria in esso stabilita. Ordinanza 17 maggio 2001, n. 147 Manifesta inammissibilità (in G.U., 23 maggio 2001, n. 20) I giudici per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia e del Tribunale militare di Cagliari sollevavano questioni di identico contenuto, aventi ad oggetto, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., l’art. 220 d.lgs. n. 51 del 1998, nella parte in cui prevede che le udienze preliminari fissate o in corso alla data indicata dall’art. 247, comma 2-bis, del medesimo decreto, ossia al 2 gennaio 2000, per i reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, siano tenute con l’applicazione delle disposizioni anteriormente vigenti, con la conseguente impossibilità di applicare la più favorevole disciplina del giudizio abbreviato introdotta dalla l. n. 479 del 1999. La Corte dichiara la questione manifestamente inammissibile poiché il Tribunale di Imperia ha omesso di motivare sufficientemente il requisito della rilevanza, mentre il Tribunale militare di Cagliari ha erroneamente ritenuto applicabile la disciplina impugnata ai procedimenti davanti ai tribunali militari [cfr. più diffusamente, infra, ordinanza n. 98 del 2001]. La Corte, tuttavia, si sofferma anche sul merito della questione. Dopo aver ricostruito la disciplina, lascia infatti intendere la manifesta infondatezza della questione, spiegando che la scelta operata dal d.lgs. n. 51 del 1998 di far continuare i procedimenti pendenti, poi trasferiti di fronte al giudice monocratico, con la previgente disciplina dipendeva dal fatto che precedentemente, anche davanti al pretore, era prevista l’udienza preliminare, e si voleva quindi evitare di far regredire il procedimento davanti al pubblico ministero per la citazione diretta. Ciò tuttavia non esclude che la l. n. 479 del 1999, diversa e posteriore a quella impugnata, che ha introdotto l’udienza preliminare anche in rapporto ad una parte dei reati a cognizione monocratica e ha profondamente innovato il giudizio abbreviato, possa trovare comunque applicazione, in ossequio al principio tempus regit actum. Altre decisioni della Corte costituzionale del 2001 hanno avuto invece ad oggetto la disciplina transitoria che ha accompagnato le modifiche introdotte al rito del giudizio abbreviato dalla l. n. 479 del 1999, e, in particolare, l’art. 4-ter del d.l. 7 aprile 2000, n. 82, con(*)

A cura di M. D’Amico.


— 1393 — vertito nella l. 5 giugno 2000, n. 144 (‘‘Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato’’). a) In alcuni casi i giudici fondavano sostanzialmente le loro censure sulla disparità di trattamento tra imputati di reati punibili con la pena dell’ergastolo e imputati di reati punibili con pene diverse. Ordinanza 4 aprile 2001, n. 99 Manifesta infondatezza (in G.U., 11 aprile 2001, n. 15) La questione di legittimità costituzionale aveva ad oggetto l’art. 4-ter, commi 1 e 2, d.l. n. 82 del 2000, nella parte in cui non consentiva l’accesso al rito abbreviato agli imputati di reati punibili con pene diverse dall’ergastolo, ove l’istruzione dibattimentale fosse già in corso alla data di entrata in vigore della citata legge di conversione, e non estendeva agli stessi la possibilità concessa dal comma 2 del detto articolo agli imputati di reati punibili con l’ergastolo di proporre la relativa istanza alla prima udienza utile del processo. Il ritenuto parametro violato era quindi costituito dall’art. 3 Cost., in relazione all’uguaglianza tra imputati. La Corte dichiara manifestamente infondata la questione, osservando come il regime transitorio differenziato per le due categorie di imputati dipenda dalla disomogeneità delle ‘‘situazioni di partenza’’: la rimessione in termini più ampia prevista per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo è giustificata dal fatto che prima della riforma era loro totalmente preclusa la possibilità di accedere al rito abbreviato. b) In alcune decisioni la Corte costituzionale si è, invece, occupata delle disposizioni che consentivano di chiedere il rito abbreviato anche nel giudizio di appello a condizione che fosse stata disposta la rinnovazione dell’istruzione ai sensi dell’art. 603 c.p.p. e che la richiesta fosse stata presentata prima della conclusione dell’istruzione medesima. Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 420 Manifesta inammissibilità (in G.U., 2 gennaio 2001, n. 1) Le disposizioni sottoposte al giudizio della Corte costituzionale erano l’art. 4-ter, comma 3, lett. b), del d.l. n. 82 del 2000 e l’art. 438, comma 5, c.p.p., in relazione all’art. 603, commi 1 e 3, c.p.p., sia nella parte in cui non consentono al giudice di appello di rifiutare l’ammissione al giudizio abbreviato, allorché le prove da esso già ammesse ai sensi dell’art. 603 c.p.p. risultino incompatibili con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, sia nella parte in cui non prevedono che il giudice di appello possa escludere la riduzione premiale di pena concessa al rito alternativo, qualora, dopo l’ammissione a tale rito della parte richiedente, gli elementi desunti dal fascicolo del pubblico ministero non appaiano ‘‘in grado di impedire la prosecuzione della già deliberata rinnovazione dell’istruttoria’’. Tale disciplina violerebbe gli artt. 3 e 97 Cost. La Corte respinge le censure proposte con una decisione di manifesta inammissibilità, poiché il giudice rimettente chiedeva alla Corte due interventi additivi che si pongono in un rapporto di necessaria alternatività logico-giuridica tra loro: da una parte, infatti, l’ordinanza di rimessione si proponeva di consentire al giudice di appello di negare l’ammissione al rito alternativo, qualora ritenesse che la rinnovazione istruttoria da esso già disposta fosse incompatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito abbreviato (analogamente a quanto previsto dall’art. 438, comma 5, c.p.p., per le richieste di giudizio abbreviato subordinate ad una integrazione probatoria), dall’altra, di attribuire al giudice il potere di escludere la riduzione premiale di pena, qualora, a rito alternativo già ammesso, gli elementi desunti dal fascicolo del pubblico ministero non facciano venire meno la necessità di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria. Ordinanza 4 aprile 2001, n. 100 Restituzione atti (in G.U., 11 aprile 2001, n. 15)


— 1394 — Ordinanza 6 luglio 2001, n. 236 Restituzione atti (in G.U., 11 luglio 2001, n. 27) Le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al giudizio della Corte avevano ad oggetto l’art. 4-ter, commi 2, 3, 4, 5, 6 e 7 d.l. n. 82 del 2000, per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 27, comma 3, 97, comma 1, 101, comma 2, 102, comma 1, e 111, comma 2, Cost. Secondo il giudice a quo tali disposizioni, nel consentire ad imputati condannati in primo grado alla pena dell’ergastolo di chiedere, nel corso del giudizio di appello in cui è stata disposta la parziale rinnovazione dell’udienza dibattimentale, il rito abbreviato al termine del completamento dell’istruttoria, contrasterebbero con l’art. 3 Cost., in relazione alla disparità di trattamento tra imputati; con il principio di ragionevolezza; con l’art. 24, in relazione al diritto di difesa delle altre parti del processo; con l’art. 27, comma 3, Cost., che richiede che la pena da infliggere sia proporzionata alla gravità del fatto commesso; con gli artt. 101, comma 2, e 102, comma 1, Cost., per i vincoli alla decisione del giudice; con gli artt. 97 e 111 Cost., per la violazione del principio della ragionevole durata dei processi. La Corte restituisce tuttavia gli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza della questione, alla luce delle modifiche introdotte alla disciplina impugnata dal d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (‘‘Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia’’), convertito nella l. 19 gennaio 2001, n. 4. Il comma 7 di tale decreto legge, con interpretazione autentica, ha infatti specificato che con l’espressione ‘‘pena dell’ergastolo’’ di cui all’art. 442, comma 2, c.p.p., deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno, e ha aggiunto un ulteriore capoverso al comma 2 dell’art. 442 c.p.p., prevedendo che ‘‘alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo’’, mentre il comma 8 del medesimo decreto legge ha introdotto una speciale disciplina transitoria per i procedimenti penali in corso, stabilendo che l’imputato, in determinate ipotesi, possa revocare la richiesta di giudizio abbreviato ovvero la richiesta di cui al comma 2 dell’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000. La decisione della Corte si giustifica tenendo conto che, nei giudizi a quibus, alcuni degli imputati erano chiamati a rispondere di reati per i quali alla pena dell’ergastolo si sarebbe aggiunta la sanzione dell’isolamento diurno. c) Un’ultima decisione, infine, ha avuto ad oggetto la possibilità di applicare la nuova disciplina del giudizio abbreviato anche ai processi in corso regolati ancora dal codice di procedura penale del 1930. Ordinanza 4 luglio 2001, n. 220 Manifesta infondatezza (in G.U., 11 luglio 2001, n. 27) Il giudice rimettente chiedeva alla Corte di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 4-ter, commi 2 e 5, del d.l. n. 82 del 2000, nella parte in cui non prevede la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato nei procedimenti che proseguono con l’applicazione del norme del codice di procedura penale del 1930, in quanto lesiva dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della parità di trattamento tra imputati. Il giudice a quo motivava la non manifesta infondatezza della questione, ritenendo che il riferimento contenuto nel d.l. n. 82 del 2000 al fascicolo di cui all’art. 416, comma 2, c.p.p. (ossia, il fascicolo del pubblico ministero), incompatibile con la disciplina del fascicolo processuale del 1930 — mentre analogo richiamo non è contenuto nell’art. 247 disp. trans. c.p.p., che consente l’accesso al giudizio abbreviato nei procedimenti che seguono ancora la previdente disciplina codicistica —, induca a ritenere che il legislatore abbia inteso escludere l’applicabilità dell’art. 4-ter ai processi di vecchio rito. La Corte smentisce la ricostruzione del giudice a quo, dichiarando la questione manifestamente infondata per errata premessa interpretativa. Il richiamo al fascicolo di cui all’art. 416, comma 2, c.p.p. deve intendersi infatti nel senso che, oltre alle prove assunte in prece-


— 1395 — denza, il giudizio si deve fondare sugli atti depositati dal pubblico ministero in occasione dell’esercizio dell’azione penale, ossia a tutti gli atti dell’istruzione (preliminare, sommaria e formale). Tale interpretazione è, non solo coerente con quanto disposto dall’art. 247 disp. trans. c.p.p., ma anche con la ratio della complessiva disciplina transitoria volta a rimettere in termini gli imputati puniti con la pena dell’ergastolo, ai quali la precedente disciplina precludeva la richiesta di giudizio abbreviato. ARTT. 438, 441 E 442 Presupposti, svolgimento e decisione del giudizio abbreviato La Corte, nel 2001, viene chiamata a pronunciarsi su vari aspetti della nuova disciplina del giudizio abbreviato, come modificata dalla l. n. 479 del 1999. Particolarmente importante è la ricostruzione dei principi che regolano il nuovo rito del giudizio abbreviato contenuta nella sentenza n. 115 del 2001, su cui si concentravano le censure dei giudici rimettenti (sul punto, si vedano anche le considerazioni che la Corte svolge nelle decisioni nn. 112 e 224 del 2001, in questa Rivista, 2002). a) Un primo gruppo di censure si concentravano sull’ eliminazione del potere del giudice di respingere la richiesta di giudizio abbreviato nei casi in cui ritenga che il processo non possa essere deciso allo stato degli atti. Sentenza 9 maggio 2001, n. 115 Non fondatezza (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) La disposizione impugnata di fronte alla Corte, seppure sotto diverse angolazioni, era l’art. 438 c.p.p., nella parte in cui non prevede un autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato. I parametri ritenuti violati erano gli artt. 3, sotto il profilo della irragionevolezza, 27, per la proporzione tra reato e pena, 101 e 102, per l’incisione sull’esercizio della funzione giurisdizionale. La Corte dichiara infondata la questione proposta, ritenendo che la scelta operata dal legislatore si collochi pienamente nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare attraverso le decisioni con cui è stata dichiarata l’illegittimità della disciplina che non prevedeva la motivazione del dissenso del pubblico ministero e il controllo giurisdizionale sull’ordinanza di rigetto del giudizio abbreviato sulla base del parametro costituito dalla definibilità del procedimento allo stato degli atti (sentenza n. 92 del 1992). Secondo la Corte, vi erano piuttosto dei dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla previgente disciplina, ove la definibilità allo stato degli atti era di fatto subordinata alla scelta del pubblico ministero di svolgere indagini più o meno approfondite. b) Un secondo gruppo di censure riguardava la posizione del pubblico ministero, per il quale si invocava il principio della parità delle parti in ordine alla impossibilità per lo stesso di interloquire sulla richiesta di giudizio abbreviato o di chiedere un’integrazione probatoria. Sentenza 9 maggio 2001, n. 115 Non fondatezza (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 425 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 427 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) I giudici a quibus chiedevano alla Corte di dichiarare l’incostituzionalità, per violazione dell’art. 111, comma 2, Cost., dell’art. 438 c.p.p., nella parte in cui non prevede il contraddittorio delle parti nell’ammissione del rito abbreviato, né il diritto del pubblico ministero di


— 1396 — interloquire sulla richiesta formulata dall’imputato, esprimendo consenso o dissenso motivato, né la facoltà, da parte del pubblico ministero, di chiedere una integrazione probatoria. La questione proposta viene dichiarata infondata. Secondo la Corte non è irragionevole che il pubblico ministero non possa interloquire in ordine alla definibilità del giudizio allo stato degli atti, né possa chiedere un’integrazione probatoria, poiché è egli stesso che ha condotto le indagini. Ciò non esclude, del resto, che il pubblico ministero, in caso di integrazione probatoria chiesta dall’imputato, possa ottenere l’ammissione di prova contraria. c) Altri giudici contestavano la nuova disciplina per i poteri istruttori attivabili d’ufficio dal giudice. Sentenza 9 maggio 2001, n. 115 Manifesta inammissibilità (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) Oggetto del giudizio era l’art. 441 c.p.p. che consente al giudice di assumere, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione. Secondo i giudici rimettenti, tale disposizione violerebbe il principio del contraddittorio nella formazione della prova (art. 111 Cost.) e il diritto di difesa dell’imputato (art. 24 Cost.). Quest’ultimo, infatti, potrebbe trovarsi di fronte ad un diverso quadro probatorio e alla conseguente modifica dell’imputazione senza che gli venga riconosciuta la possibilità di rinunciare al rito abbreviato. La questione viene dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, poiché dall’ordinanza di rimessione non emerge l’esigenza del giudice a quo di assumere elementi necessari ai fini della decisione. d) In due decisioni la Corte si occupa delle censure mosse alla nuova disciplina del giudizio abbreviato nella parte in cui consente l’utilizzazione di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario. Sentenza 9 maggio 2001, n. 115 Manifesta infondatezza (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) Ordinanza 27 luglio 2001, n. 326 Manifesta infondatezza (in G.U., 1o agosto 2001, n. 30) Con queste decisioni la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui consente l’utilizzazione, nel giudizio abbreviato, di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario, per violazione degli artt. 3 e 111, comma 4, Cost. La questione viene dichiarata manifestamente infondata, poiché il fondamento del giudizio abbreviato sta proprio nella possibilità di utilizzare, previo consenso dell’imputato, gli atti assunti durante le indagini preliminari. Si tratta di una ipotesi tipica rientrante nella deroga al principio del contraddittorio consentita dall’art. 111, comma 5, Cost. e) Altro profilo di cui la Corte si occupata è quello dell’obbligo di celebrare l’udienza preliminare con il rito camerale, salvo che tutti gli imputati richiedano l’udienza pubblica. Sentenza 9 maggio 2001, n. 115 Manifesta inammissibilità (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) La questione di legittimità sottoposta all’attenzione della Corte costituzionale aveva ad oggetto l’art. 441, comma 3, c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale, salvo che tutti gli imputati chiedano l’udienza pubblica, per violazione degli artt. 3, 10, 101 e 102 Cost. La decisione di manifesta inammissibilità è motivata dal fatto che la materia è oggetto della discrezionalità del legislatore.


— 1397 — f) Alcuni giudici avevano sottoposto al giudizio della Corte la disposizione che non consente al pubblico ministero di impugnare la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato. Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 421 Manifesta inammissibilità Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Con la presente ordinanza la Corte risolve due questioni di legittimità costituzionale in merito alla possibilità per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze pronunciate all’esito del giudizio abbreviato. Alcuni giudici censuravano gli artt. 443, comma 3, e 595 c.p.p., nella parte in cui non consentono al pubblico ministero di proporre appello, sia in via principale, sia in via incidentale, nei confronti delle sentenze di condanna pronunciate dal giudice dell’udienza preliminare in sede di giudizio abbreviato; altri invece impugnavano l’art. 443, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede la possibilità per il pubblico ministero di proporre appello anche avverso le sentenze di condanna pronunciate dal giudice dell’udienza preliminare in sede di giudizio abbreviato. In entrambi i casi le censure si fondavano, oltre che sull’irragionevolezza della disposizione impugnata, sulla violazione dell’art. 111 Cost. che sancisce il principio di parità tra accusa e difesa. Si tratta di un’impostazione, sotto questo aspetto, particolarmente interessante, poiché si inserisce in un inatteso orientamento, che si sta diffondendo fra i giudici, volto a leggere il principio della ‘‘parità tra le parti’’, storicamente nato e introdotto in Costituzione per riequilibrare la posizione dell’imputato rispetto a quella ‘‘di vantaggio’’ del pubblico ministero, in modo opposto, ossia per colmare una presunta posizione ‘‘di svantaggio’’ del pubblico ministero. Proprio l’introduzione del nuovo parametro costituzionale e della modifica apportata al giudizio abbreviato dalla l. n. 479 del 1999 hanno indotto i giudici a riproporre una questione su cui la Corte, in realtà, si era già pronunciata in passato (cfr. decisioni nn. 363 del 1991, 373 del 1991, 305 del 1992, 98 del 1994). Le questioni proposte vengono, però, ancora una volta, respinte. La prima viene dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, mancando, nell’ordinanza di rimessione, ogni riferimento ai fatti di causa e alla effettiva proposizione del ricorso in appello da parte del pubblico ministero. La seconda questione, invece, viene dichiarata manifestamente infondata. In primo luogo, la Corte afferma che ‘‘il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: infatti, una disparità di trattamento può risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia’’. Ricorda inoltre che il secondo grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale, che il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale, che l’obiettivo del legislatore è quello di giungere ad una più rapida e completa definizione dei processi. g) Un ultimo gruppo di cesure aveva ad oggetto la nuova disciplina del giudizio abbreviato nella parte in cui non consente più al giudice del dibattimento di operare una valutazione sulla decisione del giudice dell’udienza preliminare in ordine all’ammissibilità al rito ed, eventualmente, di applicare la riduzione di pena. Ordinanza 11 dicembre 2001, n. 400 Manifesta inammissibilità (in G.U., 19 dicembre 2001, n. 49) La questione di legittimità risolta con la presente ordinanza aveva ad oggetto, per violazione degli artt. 3 e 24 cost., gli artt. 438 e 442 c.p.p., nella parte in cui non prevedono che


— 1398 — all’esito del dibattimento di primo grado il giudice, ritenendo ingiustificato il rigetto da parte del giudice dell’udienza preliminare della richiesta di giudizio abbreviato ex art. 438, comma 5, c.p.p., motivato dalla non necessità dell’integrazione probatoria, possa applicare la riduzione di pena di cui all’art. 442 c.p.p. Il giudice rimettente, riprendendo le argomentazioni della Corte contenute nella sentenza n. 23 del 1992, che aveva consentito al giudice, all’esito del dibattimento, di applicare la riduzione della pena qualora avesse ritenuto che il processo avrebbe potuto essere definito allo stato degli atti, chiedeva analoga addizione anche con riferimento alla nuova disciplina del giudizio abbreviato. La questione viene dichiarata tuttavia dalla Corte manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, avendo il giudice omesso di indicare le ragioni per cui, nella specie, l’integrazione sarebbe stata necessaria e avrebbe dovuto quindi ritenersi ingiustificata la decisione del giudice dell’udienza preliminare di non ammettere il rito. b) APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI ART. 448 Provvedimenti del giudice Ordinanza 21 dicembre 2002, n. 426 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Con la presente ordinanza la Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 448 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice dell’udienza preliminare possa pronunciare sentenza ai sensi dell’art. 444 c.p.p. anche in caso di dissenso del pubblico ministero, se ritiene fondata la richiesta dell’imputato di applicazione della pena. Nella ricostruzione del giudice rimettente tale limitazione sarebbe lesiva dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, e degli artt. 97 e 111 Cost., relativamente alla ragionevole durata dei processi. La censura si fondava sostanzialmente sul confronto tra i poteri del giudice del dibattimento e quelli del giudice dell’udienza preliminare, che — sempre secondo il giudice a quo — avrebbero dovuto essere in questo caso equiparati, stante la natura di giudizio assunta dall’udienza preliminare. La Corte respinge le censure proposte poiché il giudice rimettente aveva fondato il ricorso sull’erroneo presupposto che il giudice del dibattimento operasse il giudizio sul dissenso del pubblico ministero prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. In realtà, tale giudizio deve essere svolto all’esito del dibattimento, pena l’annullamento del potere del pubblico ministero di concorrere, in condizioni di parità con l’imputato, alla scelta del rito e di sacrificare il suo diritto alla prova. Nuova disciplina dei termini di presentazione della richiesta di applicazione della pena Sentenza 17 maggio 2001 n. 151 (in G.U., 23 maggio 2001, n. 20) Ordinanza 11 maggio 2001, n. 127 (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) Ordinanza 4 luglio 2001, n. 221 (in G.U., 11 luglio 2001, n. 27) Ordinanza 4 luglio 2001, n. 222 (in G.U., 11 luglio 2001, n. 27) Manifesta infondatezza L’ordinanza in oggetto risolve alcune questioni di legittimità costituzionale relative alla presunta incostituzionalità dovuta alla mancanza di una disciplina transitoria che accompagni le modifiche apportate dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479 alle disposizioni che regolano i termini ultimi per la presentazione della richiesta di applicazione della pena.


— 1399 — Le disposizioni sottoposte al giudizio della Corte erano: — l’art. 33, comma 1, lett. a) della l. 16 dicembre 1999, n. 479 e l’art. 446, comma 1, c.p.p., ‘‘nella parte in cui non salvaguardano, con riferimento ai giudizi in corso, la facoltà dell’imputato di richiedere l’applicazione della pena sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento’’; — l’art. 446, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevede che la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. possa essere presentata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento; — l’art. 464, comma 3, c.p.p., nella parte in cui prevede, anche per i procedimenti instaurati a seguito di opposizione a decreto penale di condanna precedente alla data di entrata in vigore della l. n. 479 del 1999, e pendenti a tale data in fase dibattimentale, che l’imputato, a pena di decadenza, debba chiedere l’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. con l’atto di opposizione. In mancanza di una disciplina transitoria, i giudici rimettenti rilevavano che, per gli imputati nei giudizi che, alla data del 2 gennaio 2000, data di entrata in vigore della l. 16 dicembre 1999, n. 479, si trovavano nella fase intercorrente tra la data del rinvio a giudizio e quella della celebrazione del dibattimento, non era più possibile proporre la domanda di applicazione della pena su richiesta poiché, alla luce della nuova disciplina, per loro erano già scaduti i termini. Tale ricostruzione derivava da una applicazione rigorosa del principio tempus regit actum, che avrebbe condotto, in mancanza di una disciplina transitoria, ad applicare i nuovi termini di decadenza ad ogni situazione processuale in corso, con efficacia retroattiva, nonostante i termini per la proposizione della domanda di applicazione della pena non fossero ancora scaduti in base alla disciplina precedente. Ciò avrebbe comportato una violazione degli artt. 24, 25, 97 e 111 Cost. nonché, in particolare, dell’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento tra imputati a seconda che la data di inizio del dibattimento fosse stato fissata prima o dopo il 2 gennaio 2000. La Corte dichiara manifestamente infondate le questioni proposte, escludendo che la nuova disciplina si applichi ai giudizi cui si riferiscono i giudici a quibus, poiché, anche in assenza di una disciplina transitoria, i nuovi termini devono considerarsi la necessaria conseguenza di un ripensamento più generale dei rapporti tra le diverse fasi del giudizio penale e il ricorso ai riti alternativi. La modifica dei termini è solo un aspetto di una riforma più ampia che, come tale, non può considerarsi applicabile ai giudizi già in corso (vd. anche ordinanza n. 560 del 2000, in questa Rivista, 2001, 1002). c) PROCEDIMENTO PER DECRETO ART. 459 Casi di procedimento per decreto Ordinanza 6 luglio 2001, n. 240 Manifesta infondatezza (in G.U., 11 luglio 2001, n. 27) Ancora una volta la Corte viene chiamata ad occuparsi dei problemi posti dalla l. n. 479 del 1999, in relazione alla mancanza di una disciplina transitoria che accompagni il passaggio alla nuova disciplina e, in particolare, alla novità costituita dalla possibilità di adottare il procedimento per decreto anche per i reati perseguibili a querela, ‘‘se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi’’. La questione di legittimità oggetto della presente ordinanza riguardava, infatti, l’art. 459 c.p.p., come modificato dalla legge n. 479 del 1999, nella parte in cui consente al pubblico ministero di richiedere e al giudice di emettere decreto penale di condanna per reati procedibili a querela, anche nell’ipotesi in cui la querela sia stata proposta prima della pubblicazione della l. n. 479 del 1999 e non contenga opposizione alla definizione del procedimento con decreto penale. Secondo il giudice a quo tale disposizione sarebbe in contrasto con gli


— 1400 — artt. 3 e 24 della Costituzione, per la diversità di trattamento tra persone offese che hanno presentato querela prima e dopo l’entrata in vigore della l. n. 479 del 1999 e per la violazione del diritto di difesa delle prime, che non avrebbero la possibilità di opporsi all’emissione del decreto penale di condanna. La Corte dichiara la questione manifestamente infondata, poiché, in mancanza di disciplina transitoria ed in ossequio ai principi che regolano la successione nel tempo delle regole processuali, la nuova disposizione non è applicabile con effetti retroattivi. Ne consegue che il procedimento non potrà essere disposto per i reati perseguibili a querela, ove l’istanza di punizione sia stata formulata in data antecedente a quella nella quale è entrata in vigore la nuova normativa. Ordinanza 22 novembre 2001, n. 374 Restituzione degli atti (in G.U., 28 novembre 2001, n. 46) Il giudice a quo rilevava una violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e del diritto di difesa (art. 24 Cost.) nel fatto che, a differenza che nei procedimenti ‘‘ordinari’’, come modificati dalla l. n. 234 del 1997, nei procedimenti per decreto penale non è previsto l’obbligo di effettuare l’invito all’indagato a rendere interrogatorio ex art. 375, comma 3, c.p.p. Per questi motivi, chiedeva alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 459 c.p.p., nella parte in cui non prevede la nullità della richiesta di decreto penale di condanna, se non preceduta dall’invito a comparire per rendere interrogatorio a norma dell’art. 375, comma 3, c.p.p., nonché degli artt. 565 e 464 c.p.p., nella parte in cui non prevedono la nullità del decreto che dispone il giudizio a seguito di opposizione al decreto penale di condanna, se non preceduto dal citato invito a comparire per rendere interrogatorio. La Corte restituisce gli atti al giudice rimettente per un riesame della rilevanza della questione. Ciò che si chiede, in particolare, al giudice è di rivalutare i profili di incostituzionalità addotti, tenendo conto che nelle more del giudizio è stata modificata la disciplina che nell’impostazione della questione costituiva il tertium comparationis. Ora il pubblico ministero deve infatti interrogare l’imputato solo ove quest’ultimo ne faccia espressa richiesta, dopo che gli è stato comunicato l’avviso della conclusione delle indagini preliminari. ART. 460 Requisiti del decreto di condanna ART. 461 Opposizione Ordinanza 11 maggio 2001, n. 126 Manifesta infondatezza (in G.U., 16 maggio 2001, n. 19) I giudici rimettenti avevano sottoposto al giudizio della Corte costituzionale: — l’art. 460, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 464, comma 3, 417, comma 1, lett. b), e 552, comma 1, lett. c) c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, comma 3, Cost., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna deve contenere l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto e delle circostanze (a differenza della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione a giudizio); — l’art. 461, comma 3, c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 76 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice che ha emesso decreto penale di condanna a deliberare, a seguito di opposizione al decreto stesso, sulla richiesta di giudizio immediato o di giudizio abbreviato o di applicazione della pena. La prima delle questioni proposte viene dichiarata manifestamente infondata, poiché, avendo il decreto penale valore di pronuncia di condanna, necessariamente i fatti per i quali si afferma la responsabilità dell’imputato debbono essere descritti in forma chiara, precisa e circostanziata.


— 1401 — La seconda questione, rilevante solo per la parte in cui è riferita al giudizio immediato (dal momento che con l’atto di opposizione era stato chiesto tale rito), viene dichiarata manifestamente infondata, poiché, mentre la pronuncia con cui il giudice accoglie o rigetta la richiesta di decreto penale di condanna determina una lesione dell’imparzialità del giudice (vd. sentenza n. 502 del 1991), il decreto che dispone il giudizio immediato a seguito di opposizione a decreto penale di condanna non è un atto che contiene una valutazione di merito.

DIBATTIMENTO ATTI INTRODUTTIVI ART. 493 Esposizione introduttiva e richiesta di prova ART. 495 Provvedimenti del giudice in ordine alla prova Ordinanza 8 giugno 2001, n. 182 Manifesta infondatezza (in G.U., 13 giugno 2001, n. 23) Con l’ordinanza n. 182 del 2001 la Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 493, comma 3, e 495 c.p.p., nella parte in cui non prevedono che l’imputato esprima il consenso, personalmente o a mezzo di procura speciale, in vista dell’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Secondo il giudice rimettente la possibilità che il difensore dell’imputato e il pubblico ministero possano concordare l’acquisizione del fascicolo del pubblico ministero contrasterebbe con l’art. 111, comma 5, Cost., dove si parla di consenso dell’imputato, e con l’art. 3 Cost., poiché per l’accesso al giudizio abbreviato si richiede l’espresso consenso dell’imputato. Quanto al primo profilo di incostituzionalità, incentrato sul significato della difesa tecnica, la Corte ricorda di aver già più volte affermato che il difensore è l’unico soggetto in grado di assicurare all’imputato le conoscenze tecnico-giuridiche, l’esperienza processuale e la serenità distaccata che gli consentono di valutare meglio le situazioni di causa. Tali caratteristiche della difesa tecnica rilevano anche nell’attività di richiesta di prove del dibattimento. Il secondo profilo non trova invece accoglimento, poiché i due istituti posti a raffronto — rito abbreviato e accordo sulla prova — risultano disomogenei. ISTRUZIONE DIBATTIMENTALE In relazione a diverse questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni contenute nei Capi relativi alla Testimonianza e all’Esame delle parti, in particolare i temi del diritto al silenzio e della formazione della prova in dibattimento, la Corte ha ordinato la restituzione degli atti ai giudici a quibus per un riesame della rilevanza alla luce delle sostanziali modifiche apportate dalla l. 1o marzo 2001, n. 63 (‘‘Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e di valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 della Costituzione’’). Le questioni proposte riguardavano, in relazione a diversi profili, gli artt. 197 e 210 c.p.p. La Corte restituisce gli atti ai giudici a quibus, poiché la l. n. 63 del 2001 ha modificato gli artt. 64, 197 e 210 c.p.p. e ha introdotto l’art. 197-bis c.p.p., che individua e regola le ipotesi in cui le persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato assumono l’ufficio di testimone.


— 1402 — Ordinanza 17 luglio 2001, n. 261 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Ordinanza 17 luglio 2001, n. 262 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Ordinanza 17 luglio 2001, n. 263 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Ordinanza 17 luglio 2001, n. 264 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Ordinanza 19 luglio 2001, n. 267 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Ordinanza 19 luglio 2001, n. 269 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Ordinanza 28 novembre 2001, n. 378 (in G.U., 5 dicembre 2001, n. 47) Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 428 (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 429 (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Restituzione atti Alcune ordinanze chiedevano alla Corte di valutare la conformità ai principi costituzionali sanciti negli artt. 3, 24, 25, 101, comma 2, 111 e 112 Cost., della disciplina risultante dagli artt. 197, comma 1, lett. a) e b), 210, comma 4, e 513, comma 2, c.p.p., nella parte in cui sanciscono l’incompatibilità con l’ufficio di testimone del coimputato nel medesimo reato e dell’imputato in procedimento connesso, prevedono per gli stessi soggetti la facoltà di non rispondere e, nel caso in cui si avvalgano di tale facoltà, non consentono al giudice di dare lettura delle dichiarazioni precedentemente rese in assenza dell’accordo delle parti. In alcune ordinanze di rimessione si chiedeva espressamente alla Corte di limitare il diritto al silenzio, al fine di conservare la prova precedentemente assunta. In altre si invitava inoltre la Corte ad introdurre una sanzione per coloro che si rifiutavano di ripetere in dibattimento le accuse, attraverso una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 210 c.p.p. anche nella parte in cui ‘‘non prevede che il rifiuto dell’esame, quanto alle dichiarazioni eteroaccusatorie, sia penalmente sanzionato, al pari del rifiuto opposto dal testimone’’. Diversamente, ma sempre al fine di individuare un sistema che consentisse la non dispersione delle dichiarazioni ricevute nella fase pre-dibattimentale, alcuni giudici avevano chiesto alla Corte di intervenire sulla disciplina dell’incidente probatorio, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 392, comma 1, lett. d), c.p.p., nella parte in cui limita i casi in cui può essere richiesto incidente probatorio in ordine alle dichiarazioni delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., ai soli casi previsti dalle lett. a) e b). Ordinanza 28 novembre 2001, n. 377 Restituzione atti (in G.U., 5 dicembre 2001, n. 47) I giudici a quibus chiedevano alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 101 e 113 Cost., degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p., nella parte in cui consentono all’imputato — che rivesta la qualità di persona offesa, nell’ambito dello stesso procedimento, in relazione ad un distinto capo di imputazione — di non rispondere alle domande sulle circostanze relative al reato di cui è persona offesa. Diverse ordinanze di rimessione hanno sottoposto al giudizio di legittimità della Corte le disposizione contenute nel d.l. 7 gennaio 2000, n. 2 (‘‘Disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 2999, n. 2, in materia di giusto processo’’), quanto alle problematiche poste dalla disciplina transitoria ivi prevista.


— 1403 — Sentenza 6 dicembre 2001, n. 381 Non fondatezza (in G.U., 12 dicembre 2001, n. 48) Con la sentenza n. 381 del 2001, la Corte si occupa del diritto transitorio che ha accompagnato, in prima battuta, l’introduzione della riforma costituzionale dell’art. 111 Cost. La legge costituzionale n. 2 del 1999, introduttiva dei principi del giusto processo all’art. 111 Cost., aveva rinviato alla legge il compito di regolare l’applicazione dei nuovi principi ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore. Tale compito è stato soddisfatto dal legislatore ordinario con il d.l. n. 2 del 2000, oggetto del presente giudizio. I giudici rimettenti chiedevano, infatti, alla Corte di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 2 del d.l. n. 2 del 2000, ‘‘limitatamente alla parte in cui consente, sia pure in via transitoria, la valutazione, come elementi probatori, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, nella ipotesi in cui le dichiarazioni siano già acquisite al fascicolo per il dibattimento alla data di entrata in vigore della legge attuativa dell’art. 111 della Costituzione’’. Il nucleo delle censure proposte sulla disciplina transitoria si fondava sulla compatibilità tra le deroghe al contraddittorio ivi previste con il principio sancito proprio nell’art. 111, comma 4, Cost. Secondo i giudici rimettenti l’art. 2 del d.l. n. 2 del 2000 non si sarebbe limitato a regolare l’applicazione dei nuovi principi ai procedimenti penali in corso, ma avrebbe introdotto una disposizione in puntuale contrasto con quanto stabilito nell’art. 111 Cost. Inoltre, la differenza di regime probatorio fatta dipendere dal mero dato cronologico che quelle dichiarazioni siano già state acquisite al fascicolo dibattimentale, importerebbe un contrasto con l’art. 3 Cost., in ordine alla disparità di trattamento tra imputati. La Corte dichiara la manifesta infondatezza della questione, in ordine ad entrambi i profili. In primo luogo, osserva come i giudici rimettenti abbiano fondato il loro ragionamento su una presunta gerarchia tra disposizioni contenute nell’art. 111 Cost. In realtà, se è vero che in esso sono contenuti sia principi sia regole, è altrettanto vero che il legislatore costituzionale si è preoccupato soprattutto dell’impatto che queste regole avrebbero potuto avere sui processi penali in corso con una drastica applicazione del principio tempus regit actum. Nel contemperare l’esigenza di non disperdere tutto il materiale probatorio già acquisito nei procedimenti in corso con quella di dare applicazione immediata ai nuovi principi costituzionali, il legislatore ordinario non ha compiuto scelte in contrasto con quanto stabilito dall’art. 111 Cost. Nel decreto legge impugnato si è infatti previsto che le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore, sono valutate solo qualora tali dichiarazioni siano già state acquisite al fascicolo del dibattimento e la loro relativa attendibilità sia confermata da emergenze probatorie ‘‘esterne’’, ossia da ulteriori elementi di prova assunti o formati con altre modalità. Infondata è inoltre la presunta violazione dell’art. 3 Cost., poiché la diversità di regime processuale cui sono sottoposti gli imputati costituisce una disparità di mero fatto che scaturisce dalla natura stessa del regime transitorio. ARTT. 511, 511-BIS, 525 Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per mutamento della persona fisica del giudice Ordinanza 11 dicembre 2001, n. 399 Manifesta infondatezza (in G.U., 19 dicembre 2001, n. 39)


— 1404 — Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 431 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Nell’ordinanza n. 399 del 2001, con motivazioni ribadite nella successiva ordinanza n. 431 del 2001, la Corte risolve la questione di legittimità costituzionale degli artt. 238, 511, comma 2, e 525, comma 2, c.p.p., nella parte in cui tali norme impongono, alla luce dell’interpretazione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni senza che il giudice possa valutarne la irrilevanza o la manifesta superfluità, in caso di rinnovazione del dibattimento per essere il giudice persona fisica diversa da quella davanti al quale si era svolta l’istruttoria dibattimentale. Secondo i giudici rimettenti, tali disposizioni si porrebbero in contrasto con gli artt. 24, 97, 3, 25, comma 1, e 101, comma 2, Cost., da cui si traggono i principi di non dispersione dei mezzi di prova e di efficienza del processo; con il principio di uguaglianza, rispetto a quanto previsto dall’art. 238 c.p.p.; con l’art. 111 Cost., in relazione al principio di ragionevole durata dei processi. La Corte dichiara la questione manifestamente infondata. Osserva, in primo luogo, come l’art. 525, comma 2, c.p.p., che conferma la tradizionale regola dell’immutabilità del giudice, sia espressione del principio di immediatezza ed imponga l’identità tra il giudice che acquisisce le prove e quello che decide, e, quindi, l’integrale rinnovazione del dibattimento (come già affermato nella sentenza n. 17 del 1994), ad eccezione delle ipotesi stabilite nell’art. 511 c.p.p. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno poi specificato che, quando l’ammissione della prova è nuovamente richiesta, il giudice che la ammette ai sensi degli artt. 190 e 495 c.p.p. non ha il potere di disporre la lettura delle dichiarazioni raccolte nel dibattimento precedente senza previo riesame del dichiarante, a meno che non vi consentano entrambe le parti. Non vi è dunque contrasto con gli artt. 25 e 101 Cost., poiché la rinnovazione della prova è imposta solo quando la parte ne fa espressa richiesta ed è possibile disporre l’esame. Non vi neppure violazione dell’art. 3 Cost., per l’erroneo richiamo, come tertium comparationis, all’art. 238 c.p.p., poiché, salva l’ipotesi di cui all’art. 190-bis c.p.p., anche in tale situazione trovano applicazione le regole generali dettate dagli artt. 190, 493 e 495 c.p.p. in tema di ammissione della prova. La Corte, infine, osserva che è necessario tenere ben distinte la disciplina sull’ammissione della prova da quella sulle modalità di assunzione della prova stessa, tra cui rientra appunto la regola stabilita nell’art. 511, comma 2, c.p.p., la quale non priva il giudice di valutare previamente in ordine all’ammissibilità della prova. ART. 512 Lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione Ordinanza 7 novembre 2001, n. 358 Restituzione atti (in G.U., 14 novembre 2001, n. 44) Il giudice a quo chiedeva alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 512 c.p.p., nella parte in cui non prevede che possa essere data lettura delle dichiarazioni rese al difensore da persona successivamente deceduta. La Corte ordina la restituzione degli atti, poiché nelle more del giudizio l’art. 18 della l. 7 dicembre 2000, n. 397 ha modificato la disposizione impugnata nel senso richiesto dal giudice rimettente, disponendo ora l’art. 512 c.p.p. che il giudice, a richiesta di parte, possa disporre che sia data lettura degli atti assunti dai difensori delle parti private quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione.


— 1405 — Ordinanza 22 novembre 2001, n. 375 Manifesta infondatezza (in G.U., 28 novembre 2001, n. 46) Il giudice a quo chiedeva in questo caso alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 111, comma 5, Cost., dell’art. 512 c.p.p., nella parte in cui consente la lettura degli atti assunti nel corso delle indagini preliminari solo quando ne è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili. La disposizione sarebbe incostituzionale poiché introdurrebbe il limite ulteriore dell’ ‘‘imprevedibilità dell’irripetibilità’’ rispetto a quanto previsto dal comma 5 dell’art. 111 Cost., che — secondo il rimettente — costituisce un limite a tutela dell’imputato, da una parte, e dell’interesse all’accertamento della verità, dall’altro. La Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la questione proposta, osserva come il giudice non abbia colto la differenza tra le ipotesi rientranti nell’ ‘‘accertata impossibilità di natura oggettiva’’, di cui al comma 5 dell’art. 111 Cost., quali, ad esempio, la morte, l’irreperibilità o l’infermità che determina una totale amnesia del testimone, e l’ipotesi verificatasi nel giudizio a quo, costituita dall’incapacità dedotta dal teste di ricordare quanto affermato durante le indagini preliminari. DECISIONE - SENTENZA DI PROSCIOGLIMENTO ART. 530 Sentenza di assoluzione Ordinanza 27 luglio 2001, n. 318 Manifesta inammissibilità (in G.U., 1o agosto 2001, n. 30) Il giudice rimettente chiedeva alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 530 c.p.p., nella parte in cui non prevede la condanna dello Stato al rimborso delle spese in favore dell’imputato da assolversi, per violazione degli artt. 111, comma 2, 3 e 24 Cost. Premesso che, per errore del pubblico ministero, l’imputato era stato nuovamente sottoposto a giudizio, nonostante fosse già stato giudicato per i medesimi fatti con una sentenza resa in data anteriore a quella del nuovo decreto di citazione a giudizio, il giudice a quo osservava che, trovandosi l’imputato e il pubblico ministero in una posizione di parità, dovrebbe essere consentito al giudice, alla stregua di ciò che accade nel processo civile, condannare l’una o l’altra di esse al pagamento delle spese processuali. La Corte, senza scendere nel merito di quella che comunque qualifica come una ‘‘implausibile censura’’, dichiara la questione manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, poiché, nei casi simili a quello oggetto del giudizio a quo, essendo l’imputato già stato condannato, non deve essere pronunciata una sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p., bensì una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex art. 649 c.p.p., o una sentenza di non doversi procedere ex art. 529 c.p.p. PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 432 Manifesta infondatezza (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) Con l’ordinanza n. 432 del 2001, la Corte torna nuovamente ad occuparsi dei problemi applicativi derivanti dall’introduzione del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica. In particolare, la questione di legittimità costituzionale aveva ad oggetto l’art. 223 del d.lgs. n. 51 del 1998 (‘‘Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo gra-


— 1406 — do’’), nella parte in cui consente all’imputato di chiedere la definizione del processo con le forme del giudizio abbreviato anche quando l’istruzione dibattimentale deve essere rinnovata a seguito del mutamento dell’organo giudicante. Nel giudizio a quo, dopo una serie di rinvii nel corso dell’istruzione dibattimentale, era stata rilevata la diversa composizione del collegio giudicante ed era stata conseguentemente disposta la rinnovazione del dibattimento. L’imputato, prima dell’inizio della nuova istruzione dibattimentale, aveva chiesto il giudizio abbreviato a norma dell’art. 223 del d.lgs. n. 51 del 1998, essendo il processo pendente alla data del 2 giugno 1999 e il dibattimento non ancora iniziato. Il giudice a quo, non potendo respingere la richiesta avanzata, dubitava tuttavia della conformità all’art. 3 Cost. di tale possibilità, per il trattamento più favorevole riservato agli imputati per i quali si è verificato un mutamento nella composizione del collegio. La Corte respinge la censura proposta, ritenendo che la rimessione in termini si giustifichi anche in questi casi con le finalità deflative perseguite dal legislatore, e che la posizione di vantaggio dell’imputato nel processo a quo derivi da una situazione di mero fatto. IMPUGNAZIONI ART. 574 Impugnazione dell’imputato Ordinanza 21 dicembre 2001, n. 422 Restituzione atti (in G.U., 2 gennaio 2002, n. 1) In relazione alla questione di legittimità costituzionale sollevata, per violazione dell’art. 3 Cost., sul combinato disposto degli artt. 574 e 593 c.p.p., nella parte in cui non consente all’imputato di proporre appello nemmeno per gli interessi civili avverso la sentenza di condanna a reati per i quali è stata applicata la sola pena pecuniaria, la Corte costituzionale ordina la restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza, alla luce delle modifiche apportate al comma 3 dell’art. 593 c.p.p. dall’art. 13 della l. 26 marzo 2001, n. 128, che ha introdotto l’inappellabilità delle sentenze di condanna ‘‘per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda’’. ESECUZIONE ART. 660 Esecuzione delle pene pecuniarie Ordinanza 27 luglio 2001, n. 320 Manifesta infondatezza (in G.U., 1o agosto 2001, n. 30) La questione di legittimità costituzionale risolta con la presente ordinanza aveva ad oggetto l’art. 660, comma 5, c.p.p., nella parte in cui prevede che il ricorso per cassazione contro l’ordinanza che dispone la conversione delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato ne sospende l’esecuzione e non attribuisce al giudice la facoltà di inibire l’effetto sospensivo quanto meno nelle ipotesi di palese inammissibilità del ricorso. Secondo il giudice a quo, tale disposizione violerebbe gli artt. 3, 24 e 25, comma 2, Cost. Nel dichiarare la questione manifestamente infondata, la Corte ricorda che la sentenza n. 108 del 1987, con cui aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 586, comma 7, del c.p.p. previgente, proprio nella parte in cui escludeva che l’opposizione al provvedimento che ordinava la conversione della pena pecuniaria avesse effetto sospensivo, aveva fatto sì che la soluzione adottata nell’art. 660 c.p.p. apparisse al legislatore costituzionalmente vincolata. La Corte osserva che, nonostante il provvedimento adottato ex artt. 586 c.p.p. previgente non possa essere assimilato all’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 586


— 1407 — c.p.p. per le maggiori garanzie di difesa oggi accordate al condannato, valgono ancora le argomentazioni secondo cui l’esclusione dell’effetto sospensivo sarebbe priva di fondamento giustificativo e potrebbe comportare un danno per l’imputato, soprattutto considerando la normale brevità della pena da espiare a seguito della conversione. ART. 673 Revoca della sentenza per abolizione del reato Ordinanza 11 dicembre 2001, n. 402 Manifesta inammissibilità (in G.U., 19 dicembre 2001, n. 49) La questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 24, commi 1 e 2, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost., aveva ad oggetto l’art. 673 c.p.p., nella parte in cui consente al giudice dell’esecuzione che ne sia stato richiesto di concedere la sospensione condizionale della pena allorché, per effetto di abolitio criminis, la pena residua da scontare rientri nei limiti previsti dall’art. 163 c.p. La Corte ne dichiara la manifesta inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, non avendo il giudice rimettente indicato con chiarezza i criteri di determinazione della pena per la quale dovrebbe essere concessa la sospensione condizionale a seguito delle detrazioni conseguenti all’abolitio criminis ed essendo incerto se venga assunto come iniziale punto di riferimento la pena inflitta con le varie sentenze di condanna, ex art. 163 c.p., ovvero la pena che il condannato deve ancora scontare.

LEGGI COLLEGATE E COMPLEMENTARI a) L. 30 luglio 1990, n. 217 (‘‘Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti’’) ART. 1 Istituzione del patrocinio Ordinanza 17 maggio 2001, n. 142 Restituzione atti (in G.U., 23 maggio 2001, n. 20) La questione proposta aveva ad oggetto, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 1, comma 8, e 15 della l. n. 217 del 1990, nella parte in cui escludono il patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti nei procedimenti penali concernenti contravvenzioni. Poiché nelle more del giudizio l’art. 2, comma 5, della l. 29 marzo 2001, n. 134 ha abrogato l’art. 1, comma 8, sottoposto allo scrutinio di legittimità, la Corte ordina la restituzione degli atti per un riesame della rilevanza della questione. ART. 9 Nomina del difensore Ordinanza 23 marzo 2001, n. 79 Manifesta infondatezza (in G.U., 28 marzo 2001, n. 13) Con la presente ordinanza, la Corte conferma nel senso della manifesta infondatezza la questione già risolta con la sentenza n. 394 del 2000 (in questa Rivista, 2001, 1015), avente ad oggetto, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 9 della l. n. 217 del 1990, nella parte in cui impone agli imputati di scegliere il proprio difensore fra i professionisti iscritti agli albi del distretto di Corte d’appello in cui ha sede l’ufficio giudiziario procedente.


— 1408 — ART. 12 Liquidazione dei compensi al difensore e al consulente tecnico Ordinanza 17 luglio 2001, n. 258 (in G.U., 25 luglio 2001, n. 29) Il giudice a quo aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della l. n. 217 del 1990, nella parte in cui ‘‘impone la liquidazione dei compensi al difensore dell’imputato ammesso al patrocinio a spese dello Stato per l’opera prestata nei giudizi di gravame, senza possibilità preventiva o successiva di valutare dell’esistenza di minimi requisiti di fondatezza o ragionevolezza dell’impugnazione, ed anche in caso di impugnazione inammissibile o manifestamente infondata’’. Nelle more del giudizio l’art. 11 della l. 29 marzo 2001, n. 134 ha modificato l’art. 12 della l. n. 217 del 1990, introducendo il comma 2-bis che ora dispone che ‘‘Il compenso per le impugnazioni coltivate dalla parte è liquidato ove le stesse non siano dichiarate inammissibili’’. La Corte ha dunque ordinato la restituzione degli atti al giudice a quo.

PROCESSO MINORILE CAPACITÀ E COMPOSIZIONE DEL GIUDICE Ordinanza 31 maggio 2001, n. 172 Manifesta infondatezza (in G.U., 6 giugno 2001, n. 22) Nella presente decisione la Corte si occupa della composizione del tribunale dei minorenni. Oggetto della questione di legittimità costituzionale è, infatti, l’art. 2 r.d.l. 20 luglio 1934 n. 1404 (‘‘Istituzione e funzionamento del tribunale dei minorenni’’), convertito in l. 27 maggio 1935, n. 835 e successive modifiche, in base al quale il collegio deve essere costituito con la presenza di due componenti privati, uno di sesso maschile ed uno di sesso femminile. Il giudice rimettente, premesso di non riuscire a costituire il collegio per l’irreperibilità del componente di sesso femminile, dubita della legittimità della disposizione in oggetto, ritenendo la disposizione discriminatoria (art. 3 Cost.) e anacronistica. La Corte, nel ripercorrere le riforme che hanno accompagnato il processo minorile, pone l’attenzione sul fatto che la composizione del tribunale dei minorenni originariamente era stata dettata dalla necessità di compensare il divieto per le donne di entrare in magistratura, ma è stata poi successivamente confermata dal legislatore nei diversi interventi normativi posteriori alla l. 9 febbraio 1963, n. 66 (‘‘Ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni’’). Ciò dimostra che la ratio legis della norma impugnata non è diventata anacronistica, avendo assunto il diverso significato di assicurare che le decisioni assunte dal tribunale dei minorenni siano adottate con apporti di carattere scientifico, ma anche in base ad una completezza di prospettive, analisi e sensibilità che può essere assicurata solo dalla presenza di membri di entrambi i sessi. La questione viene dunque dichiarata manifestamente infondata, tenendo anche conto del fatto che le difficoltà incontrate nella formazione degli organi giudicanti costituiscono inconvenienti di mero fatto che non assumono rilievo nel giudizio di legittimità costituzionale.

PROCESSO PENALE MILITARE CAPACITÀ E COMPOSIZIONE DEL GIUDICE Ordinanza 4 aprile 2001, n. 98 Manifesta inammissibilità (in G.U., 11 aprile 2001, n. 15)


— 1409 — La questione di legittimità costituzionale risolta con questa decisione viene sollevata da alcuni tribunali militari, che contestano la ragionevolezza dell’art. 33-bis, comma 1, lett. b), c.p.p., nella parte in cui non prevede che sia attribuito al tribunale militare in composizione collegiale il reato di peculato militare di cui all’art. 215 c.p.p.m.p. L’irragionevolezza della disposizione consisterebbe nel fatto che, mentre il reato di peculato comune è giudicato, ai sensi degli artt. 33-bis e 33-ter, dal tribunale in composizione collegiale, lo stesso reato previsto dal c.p.m.p. è attribuito al giudice penale monocratico, poiché punibile con pena non superiore nel massimo a dieci anni. La Corte costituzionale dichiara la questione proposta manifestamente inammissibile per irrilevanza, non trovando la norma impugnata applicazione nel giudizio a quo. I giudici remittenti muovono, infatti, dall’erroneo presupposto secondo cui il principio di ‘‘complementarietà’’ ex art. 261 c.p.m.p., che prevede che, salvo che la legge non disponga altrimenti, si applicano anche ai procedimenti davanti al tribunale militare le norme del c.p.p., troverebbe applicazione anche in relazione alla normativa del giudice unico di primo grado. Richiamando alcune decisioni della Corte di cassazione sul punto, la Corte costituzionale chiarisce che nei procedimenti di fronte al tribunale militare non trova applicazione la normativa del codice di rito comune sul tribunale ordinario in composizione monocratica, proprio perché la composizione ‘‘speciale’’ e ‘‘mista’’, con la partecipazione di un membro laico, del tribunale militare è specificamente disciplinata dall’art. 2 della legge 7 maggio 1981, n. 180. FRANCESCA BIONDI Ricercatore di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

HIRSCH H. J. (a cura di), Krise des Strafrechts und der Kriminalwissenschaften? Tagungsbeiträge eines Symposiums der Alexander von Humboldt-Stiftung, Bonn-Bad Godesberg, veranstaltet vom 1. bis 5. Oktober 2000 in Bamberg, Duncker & Humblot, Berlino, 2001, pp. 391. La Fondazione von Humboldt ha invitato i giuristi, che attualmente o in passato hanno da essa ricevuto finanziamenti alle loro ricerche, nonché i professori delle Università tedesche ospitanti, a confrontarsi sul tema — provocatoriamente formulato in termini interrogativi — della ‘‘crisi’’ del diritto penale e delle scienze criminalistiche: una crisi sempre più spesso avvertita non solo a livello politico e sociologico, ma anche dogmatico, che sembra radicarsi nel progressivo allontanamento tra teoria e prassi penalistiche e che si manifesta nel crescente senso di insicurezza dell’‘‘uomo comune’’. Sono così convenuti a Bamberg, provenienti da ventinove Paesi, molti dei quali extra-europei, oltre cento studiosi di diritto penale, di procedura penale, di criminologia e di politica criminale, i quali — sulla base del programma scientifico del Convegno, elaborato da Hirsch in collaborazione con Jescheck, Kaiser e Roxin — hanno ricostruito un quadro ampio e documentato dell’attuale situazione del diritto penale e delle scienze criminalistiche in vasta parte del mondo contemporaneo. Il volume raccoglie i quarantacinque contributi presentati al Convegno, articolati in quattro Parti e in nove Sezioni, nonché la sintesi finale elaborata da Hirsch. La Parte Prima (e, in particolare, la Sezione Prima) è dedicata all’esposizione e all’analisi dei dati empirici e criminologici della controversa ‘‘crisi’’. Mentre nei Paesi dell’Europa Occidentale e del Nord America si registra un recente calo, o per lo meno una stabilizzazione, del tasso di criminalità (ALBRECHT, Germania; FATTAH, Canada), esso risulta, invece, in crescita in altre zone del mondo: nei Paesi più poveri, a causa della progressiva perdita di potere da parte dello Stato (VAN ZYL SMIT, Sudafrica; ELBERT, Argentina), così come nei Paesi che hanno subito profondi cambiamenti politici (BARD, Ungheria, che segnala un drastico aumento della criminalità nel suo Paese a partire dal 1990), o che hanno conosciuto il manifestarsi di nuove forme di criminalità organizzata (KATOH, Giappone). A tale aumento il legislatore ha in genere risposto con un’estensione dell’area del penalmente rilevante e con un ampliamento dello strumentario sanzionatorio (Sezione Seconda): a questa tendenza non si è sottratto nemmeno il legislatore polacco, che pur di recente ha emanato un nuovo codice penale di ispirazione profondamente liberal-garantista (JANISZEWSKI, Polonia). Nella Sezione Terza ci si interroga, pertanto, sulla possibilità di impiegare strumenti di controllo sociale diversi dal diritto penale (in primis, attraverso la depenalizzazione dei reati bagatellari), limitando il ricorso alla pena alle sole ipotesi di effettiva meritevolezza e necessità di essa (v, in particolare, DOLLING, Germania). La Parte Seconda analizza le interrelazioni tra dottrina e prassi penalistiche e si apre con la provocatoria relazione del giapponese IDA, il quale nega l’idoneità delle teorie generali del diritto penale (dall’Autore definite systematische Großtheorien) a fornire un utile contributo alla giurisprudenza; un apporto di maggior rilievo alla prassi potrebbe, invece, provenire dalle Subtheorien mit mittlerer Reichweite, che, senza aspirare ad una completezza sistematica assoluta, illuminino e chiariscano singole problematiche (in termini sostanzialmente analoghi, con precipuo riferimento alla Spagna, si esprime anche BACIGALUPO). Peraltro, le acquisizioni dogmatiche di fondo di teoria generale vengono reputate, dallo spagnolo GIMBERNAT ORDEIG, adeguate rispetto all’attuale situazione della criminalità, della commisurazione della pena e del sistema delle sanzioni. Nella Sezione Quarta ci si interroga


— 1411 — sull’opportunità, o meno, che la parte generale dei codici penali contenga diffuse e precise definizioni di concetti ed istituti: tematica di grande attualità soprattutto nella prospettiva della codificazione di un diritto penale sovranazionale (si pensi, ad es., al Corpus iuris dell’Unione Europea o allo Statuto di Roma del 1998). Nella Sezione Quinta si illustrano, invece, differenti esperienze di interrelazione tra teoria e prassi: una interrelazione intensa e proficua in Polonia, soprattutto negli ultimi anni, durante i quali, anche in conseguenza dei noti mutamenti politici, molti ‘‘professori’’ sono stati chiamati a ricoprire incarichi presso le magistrature e le avvocature superiori (WRÓBEL); più controversa in Germania (come dimostra, da ultimo, la ‘‘triste’’ Sechstes Strafrechtsreformgesetz del 1998), dove un costruttivo rapporto tra teoria e prassi viene ostacolato sia da una serie di reciproci pregiudizi, sia dal livello scientifico, talora inadeguato, e dal numero continuamente crescente (spesso per mere esigenze editoriali) delle pubblicazioni giuridiche, di fronte alla cui gran mole il ‘‘pratico’’ si sente disorientato al punto da rinunciare alla loro consultazione (GÖSSEL). La Sezione Sesta, infine, affronta una tematica ampiamente discussa dalla dottrina e di rilevante impatto sulla prassi: la responsabilità penale delle persone giuridiche. Sul punto vengono confrontate le esperienze di alcuni Paesi di common law che già da tempo la contemplano (KREMNITZER, Israele; SNYMAN, Sudafrica), della Finlandia, dove, invece, essa è stata introdotta a partire dal 1995 (FRÄNDE) e, infine, di alcuni Paesi, dove al termine di un lungo dibattito si è preferito non introdurla (SZWARC, Polonia; YIM, Corea del Sud). La Parte Terza si concentra sul processo penale, ove i sintomi di ‘‘crisi’’ si avvertono in modo più acuto. L’‘‘inflazione’’ del diritto penale rischia, infatti, di condannare il processo penale all’inefficacia: improcrastinabile appare, pertanto, una valorizzazione del principio di sussidiarietà tanto nel diritto penale sostanziale, quanto nel diritto penale processuale (JULIO MAIER, Argentina). Non si deve, tuttavia, cedere alla tentazione di nuove aperture nei confronti della giustizia ‘‘patteggiata’’ (com’è, invece, avvenuto in Italia con l’introduzione, fortemente criticata da MOCCIA, del giudizio abbreviato e della applicazione della pena su richiesta delle parti). Essa, infatti, prescindendo da un accertamento della ‘‘verità’’, si rivela intrinsecamente inidonea a realizzare la finalità ultima del processo penale, che secondo WEIGEND consiste nella ‘‘ricomposizione della pace giuridica’’ (Wiederherstellung des Rechtsfriedens). Nella Sezione Settima si riferisce dei tentativi intrapresi negli ordinamenti italiano (MOCCIA), greco (DEDES) e spagnolo (GÓMEZ COLOMER) per semplificare il processo penale e ridurne i tempi. Nella Sezione Ottava, invece, vengono messi a confronto il principio di obbligatorietà dell’azione penale e il principio di opportunità (il quale consente di affidare alla discrezionalità del pubblico ministero la scelta di procedere, o meno, pur in presenza di sufficienti elementi a sostegno dell’accusa): quest’ultimo principio svolge un ruolo non secondario nello StPO tedesco (HERRMANN) e nel nuovo (1997) codice di procedura penale croato, che al primo si è ispirato (KRAPAC), nonché — attraverso una norma di diritto sostanziale che stabilisce l’irrilevanza penale del fatto tipico di minima dannosità sociale (art. 1 § 2 cod. pen.) — nell’ordinamento polacco (GOSTYNSKI); riveste, invece, un ruolo marginale nell’ordinamento italiano (MUSCO) e in quello turco (ÖZTÜRK). La Sezione Nona, infine, analizza l’influenza esercitata dalle aspettative di giustizia e prevenzione, espresse dalla società, sulla commisurazione giudiziale della pena e sulla determinazione legale delle cornici di pena: influenza, alla quale i giuristi non dovrebbero dare particolare peso, attesa la sua irrazionalità e variabilità (SCHÜNEMANN, Germania), ma che nella prassi risulta particolarmente insidiosa allorché le predette aspettative vengano ‘‘cavalcate’’ dai politici in occasione delle campagne elettorali (DONNA, Argentina). Nella Parte Quarta si relazione sui progressi compiuti dal diritto penale internazionale — dopo le esperienze dei processi di Norimberga e di Tokio e, più di recente, dei Tribunali speciali per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella ex-Jugoslavia e in Ruanda — con la sottoscrizione da parte di oltre centotrenta Stati, sotto l’egida dell’ONU, dello Statuto di Roma (1998) per l’istituzione di una Corte penale internazionale permanente. I contenuti dello Statuto sono dettagliatamente illustrati dal giapponese NISHIHARA, che non nasconde, però, alcune perplessità sul piano strettamente giuridico, oltre al dubbio che la


— 1412 — Comunità internazionale non sia ancora sufficientemente matura per l’accoglimento di una siffatta istituzione sovranazionale. Il volume — attesa l’ampia partecipazione di giuristi stranieri, nonché l’autorevolezza ed il prestigio scientifico, nazionale ed internazionale, di molti di essi — costituisce una ricchissima e valida fonte di informazioni di base sullo stato del diritto penale e delle scienze criminalistiche di molti Paesi, alcuni dei quali lontani dal nostro, non solo geograficamente, ma anche per struttura economica, politica e culturale. (Fabio Basile) AMBOS K., Der Allgemeine Teil des Völkerstrafrechts. Anzätze einer Dogmatisierung. Berlino, Duncker & Humblot, 2002, pp. 1058. 1. Il lavoro si inserisce nel quadro della crescente attenzione che negli ultimi anni la dottrina penalistica sta rivolgendo al diritto penale internazionale (Völkerstrafrecht): un’attenzione certamente risvegliata anche dall’istituzione da parte dell’ONU, nel 1992 e nel 1994, dei Tribunali Penali Internazionali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda e culminata nel 1998 con la firma del Trattato di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale, entrata in vigore lo scorso luglio. Proprio in considerazione delle rinnovate esigenze, in primo luogo pratiche, che si pongono oggi a livello internazionale in tema di certezza del diritto e di legalità in campo penale, la dottrina si confronta con la necessità di contribuire allo sviluppo di una parte generale di diritto penale internazionale che — come già affermato da altri e ripreso dall’Autore del libro qui presentato — ‘‘sia semplice e facile da applicare ed allo stesso tempo concettualmente ricca abbastanza da rendere il giudice capace di fare tutte quelle distinzioni che devono esserci nell’amministrazione della giustizia penale’’. Lo scopo dichiarato dall’Autore, già nel titolo del volume, di fornire gli spunti per una ‘‘ricostruzione dogmatica’’ della parte generale del diritto penale internazionale, è pienamente raggiunto: il lavoro, che si snoda per quasi 900 pagine, oltre gli allegati, raggiunge infatti un tale livello di approfondimento e di dettaglio che parlare di semplici ‘‘spunti’’ appare riduttivo. La modestia dell’Autore, nell’affermare di non avere portato a compiuta opera la ‘‘dogmatizzazione’’ (Dogmatisierung) della parte generale del diritto penale internazionale, si spiega tuttavia con il carattere ancora rudimentale della materia stessa, i cui principi di parte generale sono spesso incerti o in evoluzione, e la ricerca dei quali è resa alquanto difficile dal complesso sistema delle fonti, a cavallo tra diritto internazionale e diritto penale. Ben consapevole della difficoltà della ricerca dei principi di parte generale del diritto penale internazionale, l’Autore dedica a questo scopo i primi due terzi del lavoro, per potere poi passare alla proposta di ‘‘dogmatizzazione’’. Il lavoro è infatti strutturato in tre parti, ciascuna a sua volta suddivisa in numerosi e dettagliati capitoli e sottocapitoli, con relative conclusioni parziali e finali: la prima parte dedicata alla ricerca dei principi generali desumibili dalla giurisprudenza penale internazionale, che l’Autore analizza dettagliatamente; la seconda volta alla verifica della validità di tali principi alla luce delle ‘‘codificazioni’’ succedutesi dai tempi del processo di Norimberga in poi; la terza articolata in una serie di proposte per una ricostruzione sistematica delle regole di parte generale che l’Autore prospetta sulla base dei principi desunti nelle parti precedenti e con lo sguardo rivolto allo Statuto della Corte Penale Internazionale. Nel corso di tutto il lavoro egli utilizza ampiamente il metodo della comparazione giuridica, in particolare attingendo dalla dottrina penalistica spagnola, francese ed americana, oltre che tedesca. 2. Nella prima parte del volume, come si è anticipato, la ricerca è condotta attraverso l’analisi della giurisprudenza di diritto penale internazionale sviluppatasi a partire dal processo di Norimberga fino alla copiosa giurisprudenza del recente Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia; analisi accuratissima e — come giustamente sottolineato dall’Autore, senza precedenti per vastità nella letteratura penale internazionale. Con la formula ‘‘giurisprudenza penale internazionale’’ si intendono non solo le decisioni dei Tribunali internazionali, ma anche quelle rese dai giudici nazionali in applicazione del diritto penale internazionale, nell’ambito di processi per crimini internazionali.


— 1413 — Quanto ai casi da analizzare, è stato considerato indispensabile l’esame di tutta la giurisprudenza dei Tribunali ‘‘internazionali’’: il Tribunale militare internazionale di Norimberga; i Tribunali istituiti dalle Potenze Alleate alla fine della II guerra mondiale nelle rispettive zone di occupazione in base alla Legge n 10 del ‘‘Consiglio di controllo alleato’’ (in relazione ai quali si parla dei c.d. ‘‘procedimenti successivi a Norimberga’’); il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente (detto anche di Tokyo); il Tribunale ONU per i crimini di guerra (UNWCC) istituito nel 1943; ed, infine, i due Tribunali ad hoc istituiti dall’ONU per i crimini commessi in ex Jugoslavia e per il genocidio in Ruanda. L’analisi delle pronunce dei Tribunali nazionali ha imposto invece inevitabilmente una selezione. Il criterio che ha presieduto la scelta è stato coerente con il fine perseguito dall’Autore: sviluppare, o meglio desumere, regole generali di diritto penale internazionale sostanziale, con particolare attenzione ai criteri di imputazione della responsabilità penale individuale ed alle relative cause di esclusione (indicate, in senso ampio, come defences). Sono stati quindi scelti i casi in quest’ottica più significativi, sia da un punto di vista storico che nazionale, di pronunce emesse da Tribunali nazionali in materia di diritto penale internazionale. In particolare si tratta di processi contro ex criminali nazisti — tra cui Eichmann, giudicato da un Tribunale israeliano, Barbie, processato da un Tribunale francese, Finta, giudicato da un Tribunale canadese, nonché Priebke e Kappler, che furono processati in Italia -, ma anche del processo contro gli ex comandanti militari (degli anni tra il 1976 e il 1983) in Argentina, di quello contro il luogotenente americano Calley condannato dalla Corte Marziale per il massacro di May Lay in Vietnam, o dei processi contro gli ex funzionari della DDR per i crimini commessi negli anni della Germania comunista. Quanto ai principi, il riconoscimento della responsabilità penale dell’individuo per crimini internazionali è un dato che, come l’Autore sottolinea, può considerarsi pacifico fin dal processo di Norimberga: già l’art. 6 della Carta di Norimberga ha infatti stabilito il principio della responsabilità penale individuale in diritto internazionale, principio ribadito dall’Assemblea Generale dell’ONU nel contesto della affermazione dei ‘‘Principi di Norimberga’’. Come l’analisi condotta dall’Autore mette in luce, il dibattito giurisprudenziale successivo si concentra piuttosto sui principi che concernono le regole ed i modelli che fondano od escludono la responsabilità. Alla luce della giurisprudenza, che adotta una sistematica del reato bipartita, l’Autore fa quindi discendere una divisione di massima dei principi generali tra presupposti che fondano la responsabilità penale individuale e quelli che, prevedendo possibili defences, la escludono. Sotto il primo profilo la responsabilità individuale si fonda sia su presupposti oggettivi che presupposti soggettivi, anche se in giurisprudenza non sempre i due concetti sono chiaramente divisi. Per quanto riguarda i presupposti soggettivi emerge, già dal processo di Norimberga, che il diritto penale internazionale si fonda su di un sistema di imputazione orientato verso la colpevolezza, nel senso di richiedere, ai fini della responsabilità, la effettiva conoscenza (o, talvolta, la colpevole ignoranza) da parte dell’agente di tutte le circostanze del fatto; tuttavia il principio di colpevolezza è stato leso dalla giurisprudenza ogni volta che, nell’ambito dei presupposti soggettivi della responsabilità, ha fatto ricorso a presunzioni a carico dell’accusato. Ampio spazio è dedicato poi dall’Autore all’analisi delle forme di manifestazione del reato, in particolare al concorso di persone nel reato. Egli rileva che nella giurisprudenza più recente avrebbero perso di significato le classiche forme di ‘‘estensione della responsabilità’’, utilizzate durante il processo di Norimberga, quali l’essere membro di un’organizzazione criminosa o la cospirazione (Verschwörung); avrebbero invece acquistato rilievo forme di responsabilità quali quella ‘‘da comando’’ (Befehlsverantwortlichkeit) nonché la responsabilità, di tipo omissivo, di chi — ricoprendo una posizione di superiorità militare o gerarchica — ometta di impedire il verificarsi del fatto criminoso da parte dei propri subordinati, ovvero di punire i colpevoli. Si segnala in ogni caso una tendenza, presente soprattutto nella prassi del Tribunale Penale per l’ex Jugoslavia, a dilatare i confini della partecipazione punibile, attraverso un’interpretazione estensiva dei principi in tema di concorso nel reato, sia da


— 1414 — un punto di vista temporale che spaziale: nel caso Tadic, ad esempio, si afferma la rilevanza di qualsiasi contributo — anche lontano dal luogo del reato o commesso prima o dopo il fatto — che abbia avuto efficacia causale sul risultato finale. 3. Nella seconda parte, i principi generali desunti dall’analisi della giurisprudenza sono messi a confronto con i principi contenuti nei vari ‘‘tentativi di codificazione’’ (Kodifikationsbemühungen) — con ciò intendendo tanto la normativa effettivamente in vigore quanto le principali proposte di codificazione rimaste senza esito — susseguitisi dal processo di Norimberga in poi. Sono così esaminati i c.d. ‘‘principi di Norimberga’’, la Convenzione sul genocidio del 1948, le Convenzioni di Ginevra del 1949 sui crimini di guerra, i vari ‘‘draft codes’’ di diritto penale internazionale elaborati in seno all’ONU o per iniziativa privata dagli anni ’50 ad oggi, nonché ovviamente lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, entrato in vigore il I luglio scorso. Un atto normativo di grande significato perché contiene per la prima volta una — sia pur concisa — ‘‘parte generale’’ di diritto penale internazionale. L’Autore ritiene peraltro che, dal punto di vista della certezza del diritto, i vari ‘‘tentativi di codificazione’’ di diritto penale internazionale non corrispondano alle aspettative; lo stesso Statuto di Roma fornirebbe infatti delle regole di base di parte generale che necessitano in larga misura di completamento e di opera di sistemazione dogmatica. Nella costruzione della dogmatica di parte generale, andrebbe sempre tenuta in considerazione la giurisprudenza, in particolare in questo momento quella dei due Tribunali Penali Internazionali ad hoc designati dall’ONU, sia per evitare il rischio che la dogmatica perda di vista i casi concreti, sia per mantenere il necessario collegamento tra la parte generale e la parte speciale relativa ai singoli crimini internazionali. 4. L’Autore nelle prime due parti si è aperto così la strada per trarre, nella terza parte, le conclusioni e proporre i propri spunti di ‘‘dogmatizzazione’’. Il fine è, come premesso, quello di dare organicità ad un sistema di regole che da molti punti di vista si trova ancora in una fase rudimentale. Le proposte si concentrano, in particolare, sulle regole in merito all’imputazione della responsabilità, nell’ambito di una sistematica del reato pesantemente influenzata dai sistemi di common law, e quindi basata sulla divisione di fondo tra actus reus e mens rea. Vengono così innanzitutto individuate le diverse forme del concorso punibile, raggruppate sistematicamente — sulla base della divisione fondamentale della dogmatica tedesca — tra Täterschaft e Teilnahme. La responsabilità, omissiva, del superiore militare o gerarchico per i fatti commessi dai propri subordinati è analizzata invece in un paragrafo a parte, al di fuori quindi delle forme di concorso di persone nel reato. Il paragrafo seguente contiene un ricostruzione in chiave dogmatica della disciplina del tentativo nel diritto penale internazionale, sia in generale sia in riferimento ai singoli crimini di competenza della Corte Penale Internazionale. Ampio spazio è poi dedicato ai presupposti soggettivi della responsabilità individuale: in particolare l’Autore si concentra sulla ricostruzione degli elementi e delle forme del dolo e, nel medesimo paragrafo, sulla disciplina dell’errore, in tutte le sue varianti. L’ultima parte è infine relativa alle ‘‘cause di esclusione della responsabilità’’ ed in particolare allo stato di necessità di cui all’art. 31 dello Statuto della CPI. Il valore del lavoro, a parte l’ampiezza e accuratezza dell’analisi svolta, consiste proprio nel fatto che l’Autore, nelle proposte di ricostruzione dogmatica della parte generale del diritto penale internazionale, utilizza tutta la ricchezza e finezza dei paradigmi della dogmatica penalistica tedesca, nello sforzo di dare razionalità (sistematica) ad un sistema formatosi in modo disordinato. È chiaro che, data la complessità dell’intento ed il carattere ‘‘in movimento’’ della materia oggetto di sistematizzazione, non a tutte le domande sollevate può essere data oggi risposta. L’Autore sottolinea infatti più volte che solo di ‘‘spunti’’ si tratta, nel senso che non si pretende di presentare un sistema completo e definitivo di regole generali di diritto penale internazionale, obiettivo giudicato oggi utopistico. Posto infatti davanti alla scelta se trattare


— 1415 — tutte le questioni importanti di parte generale, rinunciando con ciò a qualche approfondimento in più, o trattare solo alcuni principi generali in modo esaustivo, dichiara di preferire la prima alternativa, affrontando tutti gli aspetti importanti di parte generale — seppur, a suo parere, in forma non definitiva — in modo da creare la base per successive ricerche più mirate. Questa scelta dell’Autore è dettata anche dalla consapevolezza che, sulla spinta dell’entrata in vigore della Corte Penale Internazionale, così come la Germania ha già fatto, molti paesi — tra cui l’Italia — si stanno dotando di normative specifiche interne di diritto penale internazionale; il che cambierà i rapporti tra diritto interno e internazionale, nel senso di rendere il diritto penale internazionale direttamente produttivo di effetti a livello nazionale, anche nella pratica dei Tribunali interni. (Chantal Meloni)


GIURISPRUDENZA

b) Giurisprudenza costituzionale

CORTE COSTITUZIONALE — 27 febbraio-15 marzo 2002, n. 54 Pres. Ruperto - Rel. Neppi Modona Giudizio abbreviato - Impossibilità di sindacare il rigetto della richiesta condizionata di giudizio abbreviato - Preclusione alla concessione della riduzione di un terzo della pena - Asserita violazione del diritto di difesa e del principio di eguaglianza - Inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (Cost. artt. 3 e 24 comma 2; c.p.p. artt. 438, 441, 442). È inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p. nella parte in cui non prevedono che il giudice del dibattimento possa all’esito del dibattimento stesso applicare la riduzione di un terzo della pena prevista dall’art. 442 c.p.p., ove ritenga ingiustificata o comunque erronea la decisione, con cui il giudice dell’udienza preliminare abbia rigettato la richiesta di giudizio abbreviato condizionata ad una integrazione probatoria, sulla base del rilievo della non necessità dell’integrazione stessa ovvero della non conciliabilità con le finalità di economia processuale proprie del rito alternativo. Infatti, ai fini della ammissibilità del giudizio abbreviato, non si richiede più una valutazione sulla definibilità del processo allo stato degli atti. Il giudice dell’udienza preliminare è ora chiamato a verificare solo la necessità dell’integrazione probatoria ai fini della decisione e la sua compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, compiendo una valutazione alla stregua di un parametro molto più circoscritto, il cui eventuale riesame non deve necessariamente essere collocato all’esito del dibattimento (1). (Omissis). — 1. Il Tribunale di Napoli, investito del giudizio a seguito di decreto che ha disposto il giudizio immediato a norma dell’art. 456 c.p.p., ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p., ‘‘nella parte in cui non prevedono che il giudice del dibattimento possa applicare, all’esito del giudizio, la diminuzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p., ove ritenga ingiustificata o comunque erronea la decisione con cui il giudice per le indagini preliminari abbia rigettato la richiesta di giudizio abbreviato, subordinata ad integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ritenendola non necessaria ovvero non conciliabile con le finalità di economia processuale proprie del rito alternativo’’. Il Tribunale premette: — che l’imputato, nel termine previsto dall’art. 458, comma 5, c.p.p., aveva


— 1417 — formulato richiesta di giudizio abbreviato, subordinata, a norma dell’art. 438, comma 5, c.p.p., alla assunzione della testimonianza delle persone offese dal reato circa l’avvenuto risarcimento del danno; — che il giudice per le indagini preliminari aveva respinto l’istanza, ritenendo che ‘‘la richiesta di integrazione probatoria non fosse necessaria’’ ai fini della decisione; — che nel corso degli atti introduttivi del dibattimento i difensori dell’imputato chiedevano l’applicazione, all’esito del giudizio, della riduzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p., ritenendo ingiustificato il rigetto da parte del giudice per le indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato; — che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice per le indagini preliminari, ‘‘l’integrazione probatoria richiesta aveva una propria rilevanza ai fini della decisione, incidendo sulla valutazione che il giudice avrebbe dovuto svolgere sulla personalità dell’imputato, in relazione all’entità della pena da infliggere, ove ne avesse riconosciuta la responsabilità’’. 2. Ciò premesso in ordine alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, vigente la disciplina del giudizio abbreviato precedente alla riforma introdotta dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, la Corte costituzionale con la sentenza n. 23/1992 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p., nonché degli artt. 458, commi 1 e 2, e 464, comma 1, c.p.p., nella parte in cui non prevedevano che, in caso di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato, il giudice, in esito al dibattimento, ritenendo che il processo poteva essere definito allo stato degli atti dal giudice per le indagini preliminari, avesse il potere di applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442, comma 2, c.p.p. Pur riconoscendo che l’attuale disciplina del giudizio abbreviato è stata profondamente modificata dalla l. n. 479/1999, il rimettente ritiene che siano tuttora presenti vizi di costituzionalità analoghi a quelli che avevano indotto la Corte costituzionale a intervenire con la sentenza n. 23/1992. Nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionata, a norma dell’art. 438, comma 5, c.p.p., ad integrazione probatoria, la valutazione che il giudice è tenuto a compiere sulla necessità della prova ai fini della decisione e sulla sua compatibilità con le finalità di economia processuale è infatti sottratta — esattamente come lo era prima dell’intervento della Corte il giudizio sulla non decidibilità allo stato degli atti — a qualsiasi verifica da parte del giudice del dibattimento, nonostante dall’ammissione al rito abbreviato derivi la possibilità per l’imputato di fruire di una consistente riduzione di pena. La mancata previsione del potere del giudice di applicare all’esito del dibattimento la diminuzione di un terzo di pena, qualora ritenga ingiustificato il rigetto della richiesta di rito abbreviato subordinata ad integrazione probatoria, si esporrebbe quindi alla medesime censure di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. allora prospettate dal rimettente e accolte dalla Corte, in quanto limita irragionevolmente nell’ulteriore svolgimento del processo il diritto di difesa dell’imputato in ordine alla concreta determinazione della sanzione. Pur riconoscendo la sostanziale analogia, sotto il profilo della totale assenza di un sindacato sulla valutazione dei presupposti di ammissibilità del rito, tra la disciplina precedente e quella introdotta dalla l. n. 479/1999, il rimettente ritiene


— 1418 — di non poter pervenire in via interpretativa ad applicare i principi enunciati nella menzionata sentenza della Corte, non solo perché la struttura del rito in esame è ora radicalmente mutata, ‘‘ma anche per la necessità di sottoporre alla verifica del Giudice delle leggi la correttezza, sotto il profilo dei principi costituzionali che si assumono violati, della ritenuta equiparazione tra i poteri del giudice per le indagini preliminari previsti dall’art. 438, comma 5, come novellato e quelli che spettavano allo stesso giudice ai sensi dell’art. 440, comma 1, c.p.p., ormai abrogato’’. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. La questione di costituzionalità degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p. investe, sotto i profili della irragionevolezza e della lesione del diritto di difesa, la disciplina che non prevede il potere del giudice del dibattimento di sindacare il rigetto ingiustificato da parte del giudice per le indagini preliminari della richiesta dell’imputato di giudizio abbreviato subordinata a una integrazione probatoria. Nella specie l’imputato, a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, aveva richiesto il giudizio abbreviato a norma dell’art. 458 c.p.p., subordinandolo alla assunzione delle testimonianze delle persone offese, che, in tesi, gli avrebbero permesso di provare il risarcimento del danno derivante dal reato e di ottenere quindi il riconoscimento della conseguente attenuante. Il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la richiesta, ritenendo l’integrazione probatoria non necessaria, con una motivazione considerata dal rimettente del tutto incongrua, in quanto a suo avviso la prova richiesta ‘‘aveva una propria rilevanza ai fini della decisione, incidendo sulla valutazione che il giudice avrebbe dovuto svolgere sulla personalità dell’imputato, in relazione all’entità della pena da infliggere, ove ne avesse riconosciuta la responsabilità’’. 2. Il rimettente sollecita un intervento additivo della Corte sulla falsariga del modulo procedimentale individuato dalla sentenza n. 23/1992: dovrebbe essere attribuito al giudice, in esito al dibattimento, il potere di valutare se la prova a suo tempo richiesta dall’imputato era necessaria e, in caso positivo, di applicare, nella eventualità di condanna, la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p. Con la sentenza n. 23/1992 (che a sua volta ricalcava la soluzione delineata nelle precedenti sentenze n. 66/1990, n. 183/1990 e n. 81/1991, relative a situazioni nelle quali l’accesso dell’imputato al giudizio abbreviato era impedito dal dissenso, ingiustificato, del pubblico ministero), era stata dichiarata illegittima la mancata previsione del potere del giudice di sindacare, in esito al dibattimento, il rigetto ingiustificato da parte del giudice per le indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato. La sentenza era intervenuta su un contesto normativo in cui presupposti per l’introduzione del rito erano la richiesta dell’imputato e il consenso del pubblico ministero, formulato alla stregua di una prognosi di sufficienza e di adeguatezza degli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini preliminari; la disciplina allora vigente prevedeva inoltre, quale condizione di ammissibilità, una valutazione positiva del giudice per le indagini preliminari in ordine alla possibilità di definire il processo allo stato degli atti. La Corte, prendendo atto che sia la mancanza di consenso del pubblico ministero, sia la valutazione negativa del giudice per le indagini preliminari circa la definibilità del processo allo stato degli atti precludevano l’instaurazione del rito,


— 1419 — aveva pertanto riconosciuto al giudice, in esito al dibattimento, il potere di sindacare tale valutazione, al fine di applicare la riduzione della pena. A seguito delle innovazioni introdotte dalla l. n. 479/1999, il giudizio abbreviato non si fonda più sul consenso delle parti, ma viene instaurato sulla base della mera richiesta dell’imputato; inoltre, al giudice dell’udienza preliminare è ora attribuito il potere di assumere, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione. Abbandonato quindi il parametro della definibilità allo stato degli atti, una valutazione di ammissibilità è prevista soltanto nell’ipotesi in cui la richiesta di giudizio abbreviato sia subordinata ad una integrazione probatoria; valutazione i cui presupposti sono individuati dall’art. 438, comma 5, c.p.p. nella necessità di assumere la prova ai fini della decisione e nella sua compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti e utilizzabili. 3. Malgrado le profonde modifiche apportate alla disciplina del giudizio abbreviato, con particolare riferimento ai meccanismi introduttivi, e pur essendo venute meno le condizioni impeditive all’instaurazione del rito basate sulla non definibilità del processo allo stato degli atti, il rimettente ripropone acriticamente la medesima soluzione a suo tempo indicata da questa Corte, cioè il potere di applicare, in esito al dibattimento, la diminuzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p. Nel formulare tale richiesta il giudice a quo non tiene peraltro conto che ai fini dell’ammissibilità del giudizio abbreviato non si richiede più quella valutazione circa la definibilità del processo allo stato degli atti che la Corte aveva ritenuto potesse essere sindacata solo in esito al dibattimento. Il giudice dell’udienza preliminare è ora chiamato a verificare solo la necessità dell’integrazione probatoria ai fini della decisione e la sua compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, compiendo una valutazione alla stregua di un parametro molto più circoscritto, il cui eventuale riesame non deve più necessariamente essere collocato in esito al dibattimento. 4. La questione deve pertanto essere dichiarata inammissibile, atteso che, al fine di superare i denunciati profili di incostituzionalità, il rimettente prospetta una soluzione incongrua rispetto alla nuova disciplina del giudizio abbreviato (Omissis).

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Giudizio abbreviato e prova necessaria.

1. La questione di legittimità costituzionale sottoposta all’attenzione della Corte è stata prospettata con argomentazioni ispirate ad una logica difficilmente confutabile. Nel caso di specie, l’imputato aveva formulato una richiesta di giudizio abbreviato condizionata all’assunzione della testimonianza della persona offesa dal reato, testimonianza indispensabile al fine di dimostrare l’avvenuto risarcimento del danno e di poter, quindi, usufruire della conseguente circostanza attenuante. L’assunzione della prova non contrastava certamente con le finalità di economia processuale, a cui il legislatore subordina l’accoglimento della istanza di giudizio abbreviato condizionato. L’istanza venne peraltro respinta in quanto il


— 1420 — giudice dell’udienza preliminare non ritenne sussistente l’altra condizione, a cui è subordinato l’accoglimento predetto e, cioè, la necessità della integrazione probatoria. Il Tribunale investito del giudizio ha sollevato questione di legittimità costituzionale della normativa sul giudizio abbreviato in relazione al combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui tale normativa non prevede che ‘‘il giudice del dibattimento possa applicare, all’esito del giudizio, la diminuzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p., ove ritenga ingiustificata o comunque erronea la decisione con cui il giudice dell’udienza preliminare abbia rigettato la richiesta di giudizio abbreviato, subordinata ad integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ritenendola non necessaria ovvero non conciliabile con le finalità di economia processuale proprie del rito alternativo’’. L’eccezione è stata basata sui rilievi enunciati nella sentenza n. 23/1992, la quale, con riferimento alla normativa antecedente la riforma del 16 dicembre 1999, n. 479, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p. nella parte in cui non prevedevano che il giudice, all’esito del dibattimento, ritenendo che il processo fosse definibile allo stato degli atti dal giudice dell’udienza preliminare, potesse applicare la riduzione di un terzo della pena ai sensi dell’art. 442 comma 2 c.p.p.. La Corte costituzionale nella sentenza citata osservava che l’apprezzamento sulla decidibilità allo stato degli atti incideva sulla misura della pena e, pertanto, stante tale incidenza, aveva ritenuto lesiva della relativa posizione sostanziale dell’imputato l’attribuzione in via esclusiva al giudice dell’udienza preliminare del potere di definire in senso negativo il giudizio sulla decidibilità ‘‘senza alcun controllo al riguardo’’. Il Tribunale di Napoli ha rilevato che le modifiche apportate dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479 alla disciplina del giudizio abbreviato comportano un problema di legittimità costituzionale del tutto analogo a quello risolto dalla sentenza 23/1992, in quanto, nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato, la valutazione discrezionale del giudice dell’udienza preliminare sulla necessità della prova e sulla compatibilità delle finalità di economia processuale, pur incidendo sulla misura della sanzione penale, viene sottratta a qualsiasi verifica da parte del giudice del dibattimento. La Corte costituzionale con la sentenza annotata valuta negativamente l’eccezione proposta, osservando che le modifiche normative non richiedono più la valutazione sulla definibilità allo stato degli atti ma esigono una valutazione ‘‘alla stregua di un parametro molto più circoscritto, il cui eventuale riesame non deve... essere necessariamente collocato in esito al dibattimento’’: ciò in quanto il giudice dell’udienza preliminare deve verificare ‘‘solo la necessità dell’integrazione probatoria ai fini della decisione e la sua compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento’’. A ben vedere, siffatta argomentazione certamente non persuasiva sembra integrare un vero e proprio paralogismo. La locuzione ‘‘finalità di economia processuale’’ appare talmente generica da non potersi definire un parametro più circoscritto della decidibilità del processo allo stato degli atti: caso mai appare un parametro talmente ampio e vago da determinare un potere discrezionale idoneo a degenerare nel soggettivismo. Inoltre, riesce ben difficile distinguere la necessità della integrazione probatoria dalla non decidibilità allo stato degli atti, posto che il processo risulterà non decidibile in tanto in quanto necessiti di assunzione di prove. La necessità della prova non può non comportare la non definibilità del processo stesso allo stato degli atti. Pertanto, il ragionamento della Corte costituzionale appare erroneo. Si tratta di vedere se, sulla base delle modifiche normative richiamate dalla


— 1421 — Corte, si possano individuare altre argomentazioni idonee ad escludere il vizio di legittimità costituzionale. 2. Va, anzitutto, precisato che la richiesta di giudizio abbreviato condizionata è resa necessaria dal fatto che nell’udienza preliminare non è garantito un vero e proprio diritto alla prova e, quindi, l’imputato non ha la certezza di ottenere l’assunzione della prova necessaria prima di formulare la richiesta di giudizio abbreviato. Nella relazione al progetto preliminare si è detto che una delle funzioni dell’udienza preliminare sarebbe, appunto, quella di realizzare una attuazione del diritto alla prova. Orbene, la possibilità di una reale attuazione del diritto alla prova era ed è concretamente garantita dalla normativa che disciplina l’udienza preliminare? La risposta negativa prima delle modifiche apportate dalla l. n. 479/1999 sembrava giustificata da due rilievi: il primo era dato dal fatto che nell’udienza preliminare non tutte le prove erano assumibili, essendo consentiti ex art. 422 comma 1 c.p.p., nel testo antecedente alle modifiche apportate nel 1999, sulla base di una elencazione tassativa, unicamente la produzione di documenti, l’audizione di testimoni e di consulenti tecnici, l’interrogatorio delle persone indicate nell’art. 210 c.p. Il secondo rilievo era dato dalla constatazione che, come inequivocabilmente risultava dal combinato disposto degli artt. 422 comma 1 e 422 comma 4, la possibilità della attuazione del diritto alla prova dipendeva dalla decisione del giudice dell’udienza preliminare di non poter provvedere allo stato degli atti e, di conseguenza, ove risultasse giustificato, sulla base delle indagini del pubblico ministero, il rinvio a giudizio, il giudice avrebbe potuto ritenersi legittimato a disattendere la richiesta difensiva di assunzione di elementi probatori idonei a contrastare i risultati delle indagini della parte accusa. Le modifiche introdotte dalla l. n. 479/1999 hanno notevolmente ampliato la possibilità di colmare nell’udienza preliminare le lacune delle indagini preliminari e, conseguentemente, la concreta attuazione del diritto alla prova. Infatti, la l. n. 479/1999 ha inserito l’art. 421-bis c.p.p., il quale stabilisce al comma 1 che il giudice (sempreché non ritenga di poter dichiarare chiusa la discussione ed emanare l’atto conclusivo dell’udienza preliminare, vale a dire il decreto di rinvio a giudizio o la sentenza di non luogo a procedere), ‘‘se le indagini preliminari sono incomplete, indica le ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare’’. Ciò significa che il giudice dell’udienza preliminare può indicare l’assunzione di qualunque elemento probatorio e non solo di quelli menzionati nel vecchio testo dell’art. 422 c.p.p. La soluzione prevista dalla l. n. 479/1999 di far compiere le indagini ritenute necessarie dal giudice dell’udienza preliminare al pubblico ministero è quella che la normativa originaria aveva escluso per evitare che, attribuendo al pubblico ministero la facoltà di acquisire elementi probatori, si verificasse, come precisato nella relazione al progetto preliminare del codice, ‘‘una abnorme regressione da una fase propriamente processuale ad uno stadio preprocessuale qual è quello delle indagini preliminari’’. A ben vedere, peraltro, l’art. 421-bis c.p.p. non comporta una vera e propria regressione dal processo al procedimento posto che il pubblico ministero agisce unicamente come organo delegato dal giudice dell’udienza preliminare ma non ha più i poteri che gli competono a conclusione delle indagini stesse. In altri termini, una volta compiute le indagini indicate dal giudice dell’udienza preliminare, il pubblico ministero ritrasmette gli atti al giudice stesso affinché riprenda l’udienza preliminare nella data prefissata, senza avere la possibilità di chiedere l’archiviazione e neppure quella di riformulare una richiesta di rinvio a giudizio modificando l’imputazione. Il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio precedente l’applicazione dell’art. 421-bis c.p.p. e le modifiche


— 1422 — dell’imputazione che dovesse ritenere necessarie alla stregua delle indagini indicate dal giudice e compiute dallo stesso pubblico ministero potranno essere effettuate soltanto ai sensi dell’art. 423 c.p.p. una volta ripresa l’udienza preliminare. Se così non fosse si realizzerebbe una clamorosa violazione del principio di non regressione con un ritorno dalla fase del processo a quella del procedimento. Una ulteriore possibilità di colmare le lacune delle indagini preliminari è, inoltre, prevista dal comma 1 dell’art. 422 c.p.p. così come modificato dalla l. n. 479/1999, il quale stabilisce che il giudice dell’udienza preliminare, allorquando non ritiene di emanare l’atto conclusivo dell’udienza preliminare e, nel contempo, non ritiene di ordinare l’integrazione delle indagini preliminari ex art. 421-bis c.p.p., ‘‘può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere’’. Da sottolineare che le nuove prove (o più esattamente gli elementi di prova) che il giudice può assumere anche d’ufficio, ove li ritenga decisivi per l’emanazione della sentenza di non luogo a procedere, non sono indicati con una elencazione tassativa e, quindi, il potere di assunzione delle prove attribuito al giudice non subisce quei limiti che normalmente incontra nell’udienza preliminare. Questa ampia possibilità di integrazione probatoria ha reso più facile l’attuazione del diritto alla prova nell’udienza preliminare, posto che la parte, la quale ritenga lacunosa la fase delle indagini preliminari potrà fare istanza affinché il giudice emani una ordinanza per l’integrazione delle indagini ex art. 421-bis c.p.p. o disponga d’ufficio l’assunzione di elementi di prova ai sensi del comma 1 dell’art. 422 c.p.p. Peraltro, la possibilità della attuazione del diritto alla prova dipende pur sempre dalla decisione del giudice dell’udienza preliminare di non poter provvedere allo stato degli atti all’emanazione dell’atto conclusivo dell’udienza preliminare e di dover emanare, invece, l’ordinanza per l’integrazione delle indagini ex art. 421bis c.p.p. oppure il provvedimento per l’assunzione d’ufficio di nuovi elementi di prova ai sensi dell’art. 422 comma 1 c.p.p. Pertanto, ove apparisse giustificata, sulla base delle indagini preliminari, l’emanazione del decreto di rinvio a giudizio, il giudice potrebbe ritenersi legittimato a disattendere la richiesta difensiva di nuovi elementi probatori. Il diritto all’ammissione della prova emersa successivamente alla chiusura delle indagini preliminari e previsto dalla direttiva 69 della legge delega non sembrerebbe garantito neppure alla stregua delle modifiche introdotte dalla l. n. 479/1999. 3. Le osservazioni sopra effettuate dimostrano che l’imputato, il quale intenda scegliere il giudizio abbreviato ma ritenga assolutamente indispensabile l’assunzione di una prova a difesa, può non avere altra scelta (non essendogli garantito il diritto all’assunzione della prova prima della richiesta del giudizio abbreviato) se non quella di condizionare la richiesta del rito deflativo del dibattimento all’integrazione probatoria. In tal caso, se l’istanza viene respinta sulla base di una valutazione di non necessità della prova o di non conformità di tale assunzione alle finalità di economia processuale proprie del procedimento e tale valutazione sia erronea, l’imputato viene privato senza sua colpa e senza rimedio di una riduzione di pena stante l’insindacabilità della valutazione stessa. Ciò premesso, non v’è dubbio che appare molto difficile valutare e, quindi, sindacare la finalità di economia processuale, parametro, contrariamente a quanto ritiene la Corte costituzionale, non ‘‘circoscritto’’ ma estremamente nebuloso ed impreciso. Né si comprendono le ragioni, per cui il legislatore ha subordinato l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato alle finalità di economia processuale, che definisce ‘‘proprie del procedimento’’ di cui all’art. 438 c.p.p. Delle due l’una: o tali finalità sono una connotazione tipica ed inderogabile del giudizio ab-


— 1423 — breviato oppure no. Nel primo caso sarebbe stato indispensabile nel comma 5 dell’art. 441 c.p.p. subordinare il potere del giudice che, ritenendo ‘‘di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione’’, alla presenza delle predette finalità, il che avrebbe comportato l’attribuzione al giudice del potere di respingere anche la richiesta di abbreviato incondizionata vanificando il punto fondamentale della riforma. Nel secondo caso, ove si ritengano le finalità di economia processuale una connotazione derogabile del giudizio abbreviato, non ha alcun senso subordinare, nel caso di richiesta condizionata di giudizio abbreviato, una integrazione probatoria necessaria all’esistenza delle finalità predette. Infatti, se l’imputato subordina la richiesta di giudizio abbreviato ad una integrazione probatoria di assoluta necessità, il giudice, pur riconoscendo la necessità della prova, può respingere ai sensi dell’art. 438 comma 5, la richiesta adducendo che in tal modo verrebbero violate le finalità di economia processuale caratterizzanti il giudizio abbreviato. Lo stesso giudice, peraltro, nell’ipotesi di richiesta incondizionata, sulla base di una valutazione di non decidibilità allo stato degli atti può, invece, disporre, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 441 comma 5, l’assunzione senza limiti di elementi di prova e, quindi, disporre un’integrazione probatoria molto più complessa di quella richiesta con l’abbreviato condizionato. Le finalità di economia processuale, per il nostro legislatore, sembrerebbero caratterizzare il giudizio abbreviato soltanto quando vi sia richiesta condizionata. V’è di più: come già si è ricordato, la non decidibilità allo stato degli atti in tanto è ravvisabile in quanto si renda necessaria una integrazione probatoria, ragion per cui non ha senso che un giudice respinga una istanza di integrazione probatoria necessaria unicamente per la non rispondenza alle finalità di economia processuale (in tal modo riconoscendo la necessità della prova), posto che, ove l’imputato dopo il rigetto dell’istanza riproponga in modo incondizionato la richiesta di giudizio abbreviato, come previsto dal comma 6 dell’art. 438 c.p.p., il giudice dovrebbe ritenere di non poter decidere allo stato degli atti e conseguentemente disporre anche d’ufficio quella integrazione probatoria, che aveva respinto. Ciò dimostra, che è del tutto irragionevole il subordinare l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato condizionato alle finalità di economia: era sufficiente il riferimento alla necessità della prova. 4. La differenza fondamentale tra la vecchia normativa e la nuova in tema di giudizio abbreviato è data dal fatto che la richiesta incondizionata di giudizio abbreviato deve essere accolta dal giudice. In altri termini, l’imputato, se non subordina l’istanza di abbreviato ad una integrazione probatoria, ha diritto a questo rito speciale ed alla conseguente riduzione della pena. Pertanto, alla stregua della normativa originaria, non sussistendo tale diritto ed essendo sempre l’abbreviato subordinato alla valutazione di decidibilità allo stato degli atti, la reiezione dell’istanza privava l’imputato della riduzione della sanzione, dal che discendeva la necessità di consentire al giudice del dibattimento, che ritenesse erronea la valutazione predetta, di applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442 comma 2 c.p.p. La nuova normativa, come già si è ricordato, attribuisce all’imputato, nel caso di rigetto dell’istanza condizionata, il diritto di riproporre l’istanza stessa incondizionatamente ed in tal modo ottenere il giudizio abbreviato e, se condannato, l’applicazione della riduzione della pena. Il che è certamente esatto ma pagando il prezzo di sacrificare il diritto alla prova. Se tramite l’assunzione di una testimonianza si può provare l’attenuante della provocazione o, come nel caso di specie, del risarcimento del danno, l’imputato che si veda respingere la richiesta di giudizio abbreviato subordinata all’assunzione della prova predetta, in tanto potrà ottenere la riduzione di pena prevista dall’art. 442 comma 2 c.p.p. in quanto, reiterando la richiesta di giudizio abbreviato in modo incondizionato, rinunci all’as-


— 1424 — sunzione della prova predetta. Né si dica che, dopo aver reiterato incondizionatamente la richiesta di abbreviato, l’imputato potrà fare istanza al giudice affinché ai sensi dell’art. 445 comma 5 c.p.p. disponga l’assunzione della prova stessa. In tal modo, si ipotizza che un imputato, subito dopo la reiezione della richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad una integrazione probatoria (reiezione effettuata dal giudice dell’udienza preliminare sulla base della non necessità dell’integrazione stessa), chieda allo stesso giudice di asserire di non potere decidere allo stato degli e atti e di dovere assumere ai sensi dell’art. 445 comma 5 c.p.p., come ‘‘elemento necessario ai fini della decisione’’, quella stessa prova che ha appena dichiarato non necessaria. La risposta di un giudice serio non potrà che essere negativa. Appare, quindi, incontestabile che una errata valutazione discrezionale del giudice dell’udienza preliminare può privare irrimediabilmente l’imputato della riduzione di un terzo della pena e che l’insindacabilità di tale valutazione non può certo giustificarsi sulla base delle deboli argomentazioni enunciate nella sentenza della Corte costituzionale. GILBERTO LOZZI


I CORTE COSTITUZIONALE — 18 novembre 2002-19 novembre 2002, n. 465 Pres. Ruperto - Red. De Siervo Procedimento penale - Rimessione del processo - Mancata previsione del legittimo sospetto - Illegittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p. per eccesso di delega e violazione del principio di imparzialità del giudice - Inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (Cost. artt. 76, 111; C.p.p. art. 45). È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p., sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., in relazione all’art. 2, n. 17, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 e all’art. 111 Cost. Il giudice a quo si limita a prendere atto delle affermazioni delle parti in ordine alle situazioni di fatto da esse denunciate, senza esprimere la sua valutazione né a questo proposito né in ordine all’idoneità di tali situazioni ad ingenerare il ‘‘forte sospetto’’ della non imparzialità del giudice o non serenità delle persone che partecipano al processo. Pertanto, non risulta dall’ordinanza di rimessione alcuna autonoma motivazione circa l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’ipotetica norma richiesta in via additiva (2).

II CORTE DI CASSAZIONE — Sez. un. pen. — 29 maggio 2002 - 5 luglio 2002 Pres. Marvulli — Rel. Battisti P.M. conforme — Ric. Berlusconi e altri Procedimento penale - Rimessione del processo - Mancata previsione tra le cause di rimessione del ‘‘legittimo sospetto’’ - Non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale (Cost. artt. 76, 111; C.p.p., art. 45). Va dichiarata non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p. in riferimento all’art. 2, n. 17 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, nella parte in cui non prevede tra le cause di rimessione il legittimo sospetto, stante la differenza tra ‘‘legittimo sospetto’’ e ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’ e la constatazione che la seconda formula prevista nell’art. 45 c.p.p. è, con certezza, meno ampia, meno comprensiva della formula ‘‘legittimo sospetto’’ (1).

I (Omissis). — Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 45 del codice di procedura penale in riferimento all’art. 2, n. 17 della l. 16 febbraio 1987, n. 81


— 1426 — (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), promosso con ordinanza emessa il 5 luglio 2002 dalla Corte di cassazione, nel procedimento penale a carico di Berlusconi Silvio ed altri, iscritta al n. 398 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2002. Visto l’atto di costituzione di Berlusconi Silvio, Previti Cesare, Verde Filippo, Pacifico Attilio, Rovelli Felice, Squillante Renato ed altro, Squillante Fabio, Savtchenko Olga, San Paolo-Imi s.p.a. e CIR s.p.a.; Udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2002 il Giudice relatore Ugo De Siervo; Uditi gli avvocati Gaetano Pecorella e Niccolò Ghedini per Berlusconi Silvio, Claudio Chiola e Angelo Sammarco per Previti Cesare, Renato Borzone per Verde Filippo, Francesco Patanè per Pacifico Attilio, Corso Bovio per Rovelli Felice, Andrea Fares per Squillante Renato ed altro, Valerio Spigarelli per Squillante Fabio, Enrico Polizzi di Sorrentino per Savtchenko Olga, Paolo Barraco per San PaoloIMI s.p.a., Federico Sorrentino e Giuliano Pisapia per CIR s.p.a. Ritenuto che le sezioni unite della Corte di cassazione, chiamate a pronunciarsi sulle istanze di rimessione avanzate in separati procedimenti penali pendenti dinanzi al Tribunale di Milano, con ordinanza 30 maggio 2002-5 luglio 2002, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede tra le cause di rimessione il ‘‘legittimo sospetto’’, per violazione dell’art. 76 della Costituzione, in riferimento all’art. 2, n. 17, della l. 16 febbraio 1987, n. 81, con la quale era stata conferita al Governo la delega per la redazione del nuovo codice di procedura penale, nonché per violazione dell’art. 111 della Costituzione; che, in relazione alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ricorda come, ai sensi dell’art. 55 dell’abrogato codice di procedura penale, la rimessione del procedimento di merito fosse possibile ‘‘per gravi motivi di ordine pubblico o per legittimo sospetto’’ e come, sia la direttiva n. 15 della legge di delega 3 aprile 1974, n. 108, sia la successiva legge di delega di riforma del codice 16 febbraio 1987, n. 81, alla direttiva n. 17, disponevano che il nuovo codice avrebbe dovuto disciplinare la rimessione ‘‘per gravi e oggettivi motivi di ordine pubblico o per legittimo sospetto’’; che le sezioni unite remittenti ricordano inoltre come secondo il ‘‘Parere sul Progetto preliminare del codice di procedura penale’’ espresso dalla Prima Presidenza e dalla Procura Generale della Corte di cassazione ‘‘la formulazione della norma, che ha eliminato qualsiasi riferimento al ‘legittimo sospetto’, sembra si ponga in contrasto con la direttiva n. 17 della legge di delega che, invece, espressamente la prevede’’, e ciò comporterebbe la ‘‘esclusione di casi che invece vanno contemplati’’; che, viceversa, nella Relazione governativa al Progetto definitivo del codice, si evidenziava come ‘‘la formulazione adottata, risultante da una meditata scelta del legislatore delegato, (recuperi) integralmente ed espressamente tutti i criteri elaborati dalla giurisprudenza nell’interpretazione dell’art. 55 del codice vigente e segnalati dalla Cassazione nel suo parere’’; che l’ordinanza di rimessione sottolinea che secondo opinioni dottrinali e recente giurisprudenza, l’art. 45 del codice di procedura penale si riferirebbe ‘‘non ad una generica alterazione della serenità ovvero dell’imparzialità delle persone


— 1427 — che partecipano al processo, ma a una vera e propria coartazione fisica o psichica, preclusiva, per quelle persone, di ogni altra possibilità di scelta’’ e come ‘‘l’espressione ‘libertà di determinazione’ (implicherebbe) l’idea di una vera e propria coartazione psichica o fisica’’, tale da precludere ogni libertà di scelta per coloro che intervengono nel processo; che invece, prosegue l’ordinanza, la formula ‘‘legittimo sospetto’’ contenuta nella legge di delega, secondo opinioni dottrinali e giurisprudenza formatasi durante la vigenza del vecchio codice, comprendeva anche ‘‘un’obiettiva situazione di fatto, di carattere ambientale, che lasciasse presagire un esito non imparziale e sereno del procedimento’’, ossia ‘‘una situazione locale talmente grave da far ritenere che il giudice potesse ricevere influenze che facessero sorgere il pericolo di una menomazione della sua imparzialità’’; che da tali considerazioni, ad avviso del rimettente, deriva, in primo luogo, che la formula ‘‘legittimo sospetto’’, contenuta nella legge delega, sarebbe innegabilmente più ampia della formula ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’ adottata dall’art. 45 del codice e che, conseguentemente, il legislatore delegato avrebbe disatteso l’intento della legge delega di inserire il legittimo sospetto tra le cause di rimessione, senza la possibilità che tale omissione possa essere sanata in via interpretativa; che in relazione alla rilevanza della questione di costituzionalità, le sezioni unite della Corte di cassazione, evidenziano come i ricorrenti, abbiano allegato numerosi fatti diretti a provare, l’esistenza di una situazione ambientale tale da compromettere l’imparzialità delle persone che partecipano al processo in corso avanti al Tribunale di Milano, pure senza concretarsi in una compressione della loro libertà di determinazione; che, ad avviso del giudice a quo, ‘‘se dall’esame degli atti allegati alle richieste di rimessione, dovesse emergere la grave situazione denunciata e se si dovesse ritenere che questa situazione, pur se non ha pregiudicato, ovvero se non pregiudica, la libertà di determinazione del giudice e/o delle parti, (...) è tale però da ingenerare almeno il forte sospetto, nel senso attribuito al termine dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della non imparzialità del giudice o della non serenità delle persone che partecipano al processo, queste sezioni unite non sarebbero in grado di decidere sulla base della normativa vigente non consentendolo il testo del codice perché privo del riferimento, pur previsto dalla legge delega, al ‘‘legittimo sospetto’’ e dovrebbero limitarsi al rigetto delle richieste di rimessione’’; che si sono costituiti Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Attilio Pacifico, i quali, con memorie separate, ma di eguale contenuto, hanno chiesto che la questione proposta dalla Corte Suprema di cassazione sia accolta; che, le parti costituite, aderendo alle argomentazioni esposte nell’ordinanza di rimessione, ritengono la disposizione impugnata incostituzionale poiché frutto di una ‘‘scelta palesemente arbitraria’’ del legislatore delegato, nonché illegittimamente riduttiva della portata della corrispondente norma della legge delega; che, la stessa Corte costituzionale, nel pronunciarsi sull’art. 55 del vecchio codice, e sulla formula, in esso contenuta, del ‘‘legittimo sospetto’’, in relazione ad una prospettata censura di costituzionalità concernente la violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge, ha respinto la questione sulla base di altri principi costituzionali, quali ‘‘l’indipendenza e quindi l’imparzialità dell’organo giudicante e la tutela del diritto di difesa’’;


— 1428 — che la questione sarebbe senza dubbio rilevante in quanto la nozione di legittimo sospetto si attaglierebbe perfettamente alla situazione prospettata nelle richieste di rimessione; che si è costituito Filippo Verde, il quale, aderendo ai motivi esposti nell’ordinanza di rimessione, insiste perché la Corte costituzionale ritenga fondata la questione proposta; che in subordine, la parte privata chiede che, ove si ritenesse la legittimità costituzionale della norma in questione, dovrebbe essere individuata ‘‘come unica lettura costituzionalmente corretta quella che ricomprenda il legittimo sospetto nel testo dell’art. 45 c.p.p.’’; che si sono costituiti Felice Rovelli e con memorie separate, ma dal medesimo contenuto, anche Olga Savtchenko, Fabio Squillante, Mariano Squillante e Renato Squillante i quali hanno aderito pienamente alle considerazioni dell’ordinanza di rimessione, ed hanno insistito per l’accoglimento della questione; che si è costituita la CIR - Compagnie industriali riunite s.p.a., chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o rigettata; che la società, ripercorrendo l’iter che ha condotto all’approvazione dell’art. 45 c.p.p. impugnato, ha evidenziato come la Commissione ministeriale avrebbe avuto la preoccupazione di risolvere i problemi posti dalla vaghezza e dalla genericità della precedente formulazione, problemi che avevano indotto numerosi dubbi di legittimità costituzionale, soprattutto con riferimento al principio per cui ‘‘nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge’’ e che, dunque, la formula oggi vigente sarebbe stata adottata proprio per ovviare agli inconvenienti discendenti da espressioni generiche; che, prosegue la parte, la dottrina avrebbe evidenziato come l’attuale art. 45 c.p.p., lungi dal tradire la legge delega, avrebbe viceversa recepito i criteri elaborati dalla giurisprudenza sotto l’impero del vecchio codice, non incidendo in modo riduttivo ‘‘sull’ambito operativo dell’istituto’’; che, sempre ad avviso della CIR, la questione, per come prospettata dall’ordinanza di rimessione, sarebbe irrilevante, in quanto ‘‘la Corte remittente non accerta la fondatezza o meno delle denunce degli imputati, in ordine al legittimo sospetto, affermando che, ove queste fossero fondate, la questione sarebbe rilevante’’; la questione, dunque, sarebbe ‘‘prospettata in via del tutto ipotetica’’, e conseguentemente andrebbe considerata inammissibile, ‘‘per il mancato collegamento (...) con l’accertamento dei fatti e la loro qualificazione nel giudizio principale’’; che un ulteriore profilo di inammissibilità della questione deriverebbe dalla circostanza che la censura di costituzionalità non investe la disposizione impugnata, ‘‘ma l’interpretazione che la stessa Corte di cassazione nella sua pregressa giurisprudenza ne ha dato, nulla impedendole oggi di darne un’interpretazione diversa’’; che si è costituita la San Paolo-Imi s.p.a., chiedendo il rigetto della questione, ed evidenziando come l’istituto della rimessione incide sul principio tassativo enunciato dall’art. 25 della Costituzione del giudice naturale precostituito per legge, il quale può essere derogato solo in casi eccezionali giustificati da esigenze di rango elevato e che, proprio in considerazione di ciò, il legislatore delegato avrebbe dettato la ‘‘norma eccezionale’’ contenuta nell’art. 45 c.p.p., rinunciando alla legittima suspicione, perché tale formula ‘‘non poneva limiti precisi, consentendo quindi di spaziare su una serie di ipotesi addirittura costruite ad hoc’’.


— 1429 — Considerato che le sezioni unite della Corte di cassazione dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p., nella parte in cui non prevede tra le cause di remissione il ‘‘legittimo sospetto’’, per violazione dell’art. 76 della Costituzione, in riferimento all’art. 2, n. 17, della l. 16 febbraio 1987, n. 81, con la quale era stata conferita al Governo la delega per il nuovo codice di procedura penale, nonché per violazione dell’art. 111 della Costituzione; che, secondo la prospettazione dell’ordinanza di remissione, la formula ‘‘legittimo sospetto’’, contenuta nella legge delega, sarebbe più ampia della formula ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, comprendendo anche tutti quei casi in cui la situazione ambientale esercita pressione sul giudice in modo tale da comprometterne l’imparzialità, pur senza tradursi in vere e proprie coartazioni fisiche o psicologiche; che, come si evince da quanto esposto in narrativa, il giudice a quo si limita a prendere atto delle affermazioni delle parti in ordine alle situazioni di fatto da esse denunciate, senza esprimere la sua valutazione né a questo proposito, né in ordine all’idoneità di tali situazioni ad ingenerare il ‘‘forte sospetto’’ della non imparzialità del giudice o non serenità delle persone che partecipano al processo; che, quindi, dall’ordinanza di rimessione non risulta alcuna autonoma motivazione circa l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’ipotetica nuova norma richiesta in via additiva; che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, per carente motivazione sulla rilevanza. P.Q.M. — La Corte costituzionale, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p., sollevata in riferimento all’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 2, n. 17, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, e dell’art. 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza in epigrafe. (Omissis).

II (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — Nell’udienza, dinanzi a queste sezioni unite, l’avv. Angelo Alessandro Sammarco, difensore di Cesare Previti e l’avv. Gaetano Pecorella, difensore di Silvio Berlusconi, nel richiedere l’accoglimento delle richieste di rimessione, hanno eccepito, in subordine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p., nella parte in cui non prevede, tra i presupposti della rimessione, il ‘‘legittimo sospetto’’, per violazione della direttiva n. 17 dell’art. 2, legge delega n. 81 del 1987, in relazione agli artt. 76 e 77 della Costituzione. Il procuratore generale, ad integrazione dalla requisitoria, con la quale aveva concluso per il rigetto delle richieste di rimessione, ha chiesto, in subordine, che la questione di illegittimità costituzionale venga dichiarata rilevante e non manifestamente infondata. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Queste sezioni unite ritengono che la proposta questione di legittimità costituzionale sia non manifestamente infondata e rilevante.


— 1430 — I. Nell’abrogato codice di procedura penale, come è noto, la rimessione del procedimento di merito era possibile, secondo quanto stabiliva l’art. 55, per gravi motivi di ordine pubblico o per ‘‘legittimo sospetto’’ e la direttiva n. 15 della legge delega, in data 3 aprile 1974, n. 108, per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale disponeva, ripetendo, pressoché integralmente, il testo dell’art. 55, che il Governo prevedesse la rimessione ‘‘per gravi e oggettivi motivi di ordine pubblico o per legittimo sospetto’’. II. Nel Progetto del 1978 il legislatore delegato, nell’art. 52, riteneva di dare attuazione alla legge delega collegando la rimessione non al ‘‘legittimo sospetto’’, ma ‘‘a gravi situazioni locali idonee a turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili quando siano pregiudicate la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’. III. La successiva l. 16 febbraio 1987, n. 81 — Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale — nella direttiva n. 17 contemplava, anch’essa, la rimessione del processo ‘‘per gravi e oggettivi motivi di ordine pubblico o per legittimo sospetto’’ e, nella Relazione al Progetto preliminare, la Commissione dava atto di avere ‘‘ampiamente dibattuto sulla disposizione in esame’’ e, in particolare, di avere ‘‘valutato l’opportunità di adottare la formulazione della direttiva n. 17 della legge delega già suggerita dalla Commissione consultiva con riferimento all’art. 52 del Progetto del 1978 ed alla direttiva n. 15 della legge delega del 1974 per evitare il pericolo di ‘‘possibili contrasti o dubbi interpretativi nei rapporti tra legge delega e normativa delegata in una materia di alto rilievo politico e costituzionale’’. ‘‘In esito alla discussione — proseguiva la Relazione — si è tuttavia ritenuto di mantenere ferma la soluzione adottata nel Progetto del 1978, soluzione che vuole ovviare agli inconvenienti, segnalati in occasione dei lavori parlamentari relativi alla legge delega del 1974 e discendenti dall’adozione di formule generiche come quella dell’art. 55 c.p.p.’’. ‘‘Si è pertanto deciso: — di non riprodurre il qualificativo ‘oggettivi’ aggiunto nella direttiva n. 17 a ‘gravi motivi di ordine pubblico’ ma di specificare al massimo le situazioni che determinano la rimessione; — di evitare la dizione ‘ordine pubblico’ ponendo il fondamento dell’istituto nel pregiudizio alla ‘sicurezza’ o alla ‘incolumità pubblica’ ovvero alla ‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’; — di ammettere lo spostamento della competenza solo quando anche gli organi amministrativi dello Stato abbiano fatto tutto il possibile per rimuovere le cause che lo determinano’’. ‘‘È stata adottata, così, la stessa formula usata nel Progetto del 1978 che collegava la rimessione ‘a gravi situazioni locali idonee a turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili’ quando ne siano pregiudicate ‘la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo stesso’’. ‘‘Il testo è stato, però, modificato sostituendo alle parole ‘idonee a’, le parole ‘tali da’, ciò allo scopo di rendere più evidente la correlazione che deve sussistere, perché si faccia luogo a rimessione, tra il pregiudizio alla sicurezza e all’incolumità


— 1431 — pubblica ovvero alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo e la turbativa allo svolgimento del processo’’. 2. La Corte di cassazione, nel ‘‘Parere sul Progetto preliminare del codice di procedura penale’’, trasmesso al Ministro di grazia e giustizia dalla Prima presidenza e dalla Procura generale in data 8 aprile 1988, osservava, quanto ai casi di rimessione indicati nell’art. 46, che ‘‘la formulazione della norma, che ha eliminato qualsiasi riferimento al ‘legittimo sospetto’, sembra si ponga in contrasto con la direttiva n. 17 della legge delega che, invece, espressamente la prevede’’ e, dopo alcuni altri rilievi, concludeva che ‘‘all’adozione di una formula con specifiche indicazioni, che in definitiva può risultare anche riduttiva con esclusione di casi che invece vanno contemplati sembra preferibile l’adozione delle espressioni tradizionali, ormai ampiamente elaborate dalla giurisprudenza, semmai rendendo esplicito qualche concetto, come quello di ‘‘ordine processuale’’, e ‘‘in tal modo verrebbe rispettata la direttiva n. 17 della legge delega’’. 3. La Relazione al Progetto definitivo del codice sottolineava, al riguardo, che ‘‘è rimasta immutata la previsione dei casi di rimessione, disattendendosi i rilievi formulati dalla Corte di cassazione che aveva ravvisato una violazione della delega nell’eliminazione di ‘qualsiasi riferimento al legittimo sospetto’: si è ritenuto, infatti, che la formulazione adottata, risultante da una meditata scelta del legislatore delegato, recuperasse integralmente ed espressamente tutti i criteri elaborati dalla giurisprudenza nell’interpretazione dell’art. 55 del codice vigente e segnalati dalla cassazione nel suo parere’’. 4. Il legislatore delegato, dunque, se si è premurato di specificare i motivi di ordine pubblico nelle due oggettive situazioni di ‘‘sicurezza’’ e di ‘‘incolumità pubblica’’, ha adottato, quanto al ‘‘legittimo sospetto’’, la formula ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, già presente nel precedente Progetto del 1978, sul presupposto, dichiarato, che la formula comprendesse sia ‘‘il legittimo sospetto’’, sia ‘‘l’ordine processuale’’. 5. Per rendersi conto se, aldilà delle intenzioni del legislatore delegato, la formula dell’art. 45 c.p.p. comprenda anche il ‘‘legittimo sospetto’’ e, quindi, per cogliere se la norma si presti a questa interpretazione — il che, ovviamente, renderebbe manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale — o se, invece, non la consenta, a meno che non si invadano spazi inaccessibili al giudice, è doveroso soffermarsi sull’interpretazione che la dottrina e la giurisprudenza hanno dato della formula dell’art. 45, nella parte che qui interessa e della formula ‘‘legittimo sospetto’’. 6. La dottrina, nel riflettere sulla formula dell’art. 45 c.p.p. ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, ha posto in evidenza che ‘‘la libertà di determinazione di cui all’art. 45 c.p.p. presuppone la possibilità del soggetto di pensare e comportarsi nel pieno delle proprie capacità cognitive e volitive’’ precisando che ‘‘la libertà di determinazione è un aspetto della libertà morale’’ e osservando che ‘‘nel codice di procedura penale è contenuta un’espressione molto simile a proposito della ‘libertà morale della persona nell’assunzione della prova’, vietando l’art. 188 l’utilizzazione di metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione’’.


— 1432 — Ha chiarito, poi, che la ‘‘libertà di determinazione’’ allude non ad una generica alterazione della serenità ovvero dell’imparzialità delle persone che partecipano al processo, ma ad una vera e propria coartazione fisica o psichica, preclusiva, per quelle persone, di ogni altra possibilità di scelta’’. Ha aggiunto che ‘‘la più rigorosa formula prescelta dal legislatore sembra escludere che si possa far luogo a rimessione ove si temano meri condizionamenti di tipo psicologico in capo al giudice come nelle ipotesi in cui sussista, nell’ambiente processuale, un clima diffuso di solidarietà o di risentimento nei confronti dell’imputato, magari alimentato da un’insistente campagna di stampa, ma non concretantesi in specifiche forme di pressione sull’organo giudicante, tali da condizionarne la libertà morale’’. Ha riconosciuto, infine, che ‘‘generalmente si tende ad escludere che la libertà di determinazione si identifichi con la serenità o l’imparzialità’’. 7. La giurisprudenza si è espressa, ripetutamente, negli stessi termini, affermando che ‘‘la formula del legislatore esclude che la libertà di determinazione del giudice possa essere confusa con la sua imparzialità e serenità, secondo il modello suggerito dalla giurisprudenza meno recente’’ (Cass., 23 febbraio 1998, Berlusconi ed altri; Cass., 8 aprile 1992, Casaglia), puntualizzando che ‘‘il vigente codice ha ripudiato decisamente quell’affermazione, che pur si rinveniva in parte della giurisprudenza precedente, secondo la quale l’istituto in parola rappresentava un rimedio residuale processuale a tutela dell’imparzialità del giudice’’ (Cass., 8 aprile 1992, Casaglia), che ‘‘l’espressione ‘libertà di determinazione’ implica l’idea di una vera e propria coartazione psichica o fisica’’ (Cass., 23 gennaio 1995, De Rosa), ‘‘preclusiva, per coloro che intervengono nel processo, di ogni libertà di scelta’’ (Cass., 7 febbraio 1995, Sgarbi; Cass., 16 novembre 1993, Annacondia). 8. Il significato, appena visto, della formula dell’art. 45 c.p.p. non è quello che la dottrina e la giurisprudenza hanno sempre attribuito alla formula ‘‘legittimo sospetto’’ nell’interpretazione dell’art. 55 dell’abrogato codice di procedura penale. I. Secondo autorevole dottrina del tempo, ‘‘la rimessione per ‘legittimo sospetto’, prevista dall’art. 55 c.p.p., riguardava il caso in cui la situazione ambientale fosse tale da fare fondatamente prevedere che il giudice del luogo potesse giudicare non serenamente perché sotto l’influenza dell’ambiente medesimo’’, sicché, ‘‘se la situazione ambientale, riferita all’ordine pubblico, rilevava come pregiudizio della tranquillità pubblica o dell’ordine processuale, riferita al ‘legittimo sospetto’ rilevava, invece, come pregiudizio della serenità del giudice’’. II. Per la corrispondente giurisprudenza il ‘‘legittimo sospetto’’ era il sospetto ‘‘giustificato da un’obiettiva situazione di fatto, di carattere ambientale, che lasciasse presagire un esito non imparziale e sereno del procedimento’’ (Cass., 19 novembre 1985, Laghi), il sospetto che ‘‘potesse non esservi la certezza dell’imparzialità’’ o che ‘‘il concreto esercizio della funzione giurisdizionale potesse essere turbato’’ (Cass., 16 dicembre 1985, Costa), che ‘‘si fosse in presenza di una situazione locale talmente grave da far ritenere che il giudice potesse ricevere influenze che facessero sorgere il pericolo di una menomazione della sua imparzialità’’ (Cass., 24 marzo 1986, Corigliano; Cass., 8 maggio 1986, Mayer; Cass., 16 marzo 1987, Leonetti; Cass., 23 marzo 1988, Sipala), che ‘‘la situazione fosse tale da fornire la ragionevole certezza che il giudice naturale potesse, per effetto di in-


— 1433 — fluenze indebite, subire suggestioni ed essere menomato nella sua imparzialità di giudizio (Cass., 13 luglio 1988, Valitutti; Cass., 13 luglio 1988, Mattei; Cass. 15 aprile 1991, Astarita), che ‘‘l’imparzialità e la serenità del giudice potessero venire seriamente incise e menomate’’ (Cass., 18 dicembre 1989, Piccione). III. Ebbene, le affermazioni della dottrina e della giurisprudenza non consentono di nutrire dubbi sulla profonda differenza tra il significato ed il valore della formula ‘‘legittimo sospetto’’ e il significato ed il valore della formula ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’. Il pregiudizio della ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, è, invero, il condizionamento che queste persone subiscono in quanto soggetti passivi di una vera e propria coartazione fisica o psichica che, incidendo sulla loro libertà morale, impone una determinata scelta, quella della parzialità o della non serenità, precludendone altre di segno contrario. Il ‘‘legittimo sospetto’’ è, invece, il ragionevole dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno e le parti a non essere, comunque, serene. È, in altri termini, il ragionevole dubbio che assume rilievo anche nel caso in cui le persone che partecipano al processo siano nelle condizioni di poter scegliere liberamente e ciò per la decisiva ragione che il processo deve svolgersi in un contesto che non faccia mai dubitare che le persone che vi partecipano possano non essere imparziali o serene anche se il grado di condizionamento della loro libertà non è tale da precludere ogni alternativa alla parzialità e alla non serenità. IV. Ne consegue che la formula ‘‘legittimo sospetto’’ è, secondo l’interpretazione datane dalla dottrina e, soprattutto, dalla giurisprudenza, innegabilmente più ampia della formula ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, ponendo l’accento sull’effetto che può scaturire dalla gravità della situazione locale, sul pericolo, cioè, che possano essere pregiudicate l’imparzialità o la serenità, senza esigere che quell’effetto sia conseguenza, per le persone che partecipano al processo, dell’impossibilità di scegliere diversamente. La giurisprudenza — va opportunamente sottolineato — è così convinta della profonda differenza che esiste tra la formula ‘‘legittimo sospetto’’ e la formula ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, così convinta che, perché si abbia pregiudizio della libertà di determinazione, occorra, come condizione imprescindibile, che si sia in presenza di una coartazione psichica o fisica e che non basti che possa, comunque, dubitarsi dell’imparzialità o della serenità delle persone che partecipano al processo, che, dall’entrata in vigore del codice del 1989, in soli due casi — ed il fatto è non poco sintomatico — si sono ritenute sussistenti le condizioni per la rimessione del processo (Cass., 6 aprile 1993, Baietta; Cass., 29 novembre 1994, Cerciello) e in entrambi i casi la dottrina non ha risparmiato severe critiche alle relative decisioni, ritenendole, con giudizio pressoché unanime, non conformi al dettato normativo. 9. La Commissione Consultiva, come si è accennato, nel parere critico espresso in ordine all’art. 52 del Progetto del 1978 aveva richiamato l’attenzione proprio sulla maggiore ampiezza della formula ‘‘legittimo sospetto’’ obiettando che ‘‘il legittimo sospetto’’ richiesto dalla delega è, almeno sotto certi profili, concetto assai più ampio di quello di ‘‘libera determinazione delle persone che partecipano al processo: infatti, esso deve comprendere anche le ipotesi in cui i giudici,


— 1434 — specialmente quelli non togati, possano essere prevenuti a causa di situazioni locali o ambientali, che tuttavia non si concretano in pressioni sulla loro libertà’’. Ed è proprio la maggiore ampiezza della formula ‘‘legittimo sospetto’’, oltre che la convinzione che il legislatore delegato, nell’art. 45 del codice, non si è uniformato ai principi e ai criteri direttivi della legge delega, ciò che ha ispirato la riformulazione dell’art. 45 c.p.p. nella proposta di legge n. 1225, di iniziativa dei deputati Anedda e altri, presentata il 5 luglio 2001 e avente ad oggetto ‘‘modifiche al codice di procedura penale e al codice penale in attuazione dei principi del giusto processo’’. L’art. 6 di questa proposta prevede che si ha rimessione del processo di merito ‘‘quando per gravi e oggettivi motivi di ordine pubblico o per legittimo sospetto si manifesti il pericolo del turbamento della libertà di determinazione del giudice, delle parti o dei testimoni’’ e nella relazione che accompagna la proposta la nuova formula viene spiegata, tra l’altro, con l’affermazione che ‘‘si è armonizzata la disciplina codicistica con il principio n. 17, di cui al comma 1 dell’art. 2 della l. n. 81 del 1987 recante delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, la quale, inspiegabilmente, era stata disattesa dal legislatore delegato, non contemplando l’art 45 del codice di procedura penale, tra i casi di rimessione, il ‘‘legittimo sospetto di turbamento dello svolgimento del processo che, invece, era espressamente previsto dal citato principio’’. 10. Se la differenza tra ‘‘legittimo sospetto’’ e ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’ è quella appena vista e se la seconda formula è, con certezza, meno ampia, meno comprensiva, della formula ‘‘legittimo sospetto’’ dell’art. 55 dell’abrogato codice di procedura penale e, pertanto, della formula che le due leggi delega n. 108 del 1974 e n. 81 del 1987 volevano si inserisse nella relativa norma del nuovo codice di procedura penale, la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art 45 c.p.p. in riferimento all’art. 2, n. 17, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, è conseguenza necessaria, tanto più ove si consideri che ‘‘la terzietà e l’imparzialità del giudice, già affermate dalla Carta costituzionale, sono state espressamente ribadite dal comma 2 dell’art. 111 della Costituzione, aggiunto — come il primo, il terzo, il quarto e il quinto — dall’art. 1 della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, comma secondo il quale ‘‘ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale’’. In definitiva, quindi, il contenuto fortemente riduttivo della previsione normativa espressa con l’art. 45 c.p.p. non è sovrapponibile all’area del ‘‘legittimo sospetto’’, e, d’altronde, la corretta applicazione di quella norma ha reso manifesta, non solo la disarmonia con la legge delega, ma anche la lacuna normativa rispetto a tutte le possibili cause che possono porre in pericolo l’imparzialità del giudice e la libertà di determinazione delle parti e dei testimoni. Né tale lacuna può essere colmata in questa sede dilatando la potenzialità interpretativa dell’art. 45, perché ciò equivarrebbe a disattendere il contenuto della norma, negare valenza preclusiva ai presupposti tassativamente fissati e, quindi, sconfinare, come si è già avuto occasione di rilevare, oltre il punto critico delle possibili interpretazioni adeguatrici. 11. La sollevata questione di legittimità costituzionale è certamente rilevante. È da premettere che gli imputati, specialmente il Berlusconi e il Previti, nelle


— 1435 — loro richieste di rimessione hanno ravvisato la ‘‘grave situazione locale tale da turbare lo svolgimento del processo e da pregiudicare la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’ in una nutrita serie di fatti, ai fini dell’accertamento della sussistenza di un legittimo sospetto sull’imparzialità del giudice e sulla libera determinazione delle parti e dei testimoni nei processi in corso presso il Tribunale di Milano. Secondo i richiedenti, il primo, e il più significativo, di questi fatti è stato l’essersi trasformata la procura della Repubblica di Milano in un vero e proprio organismo politico ‘‘tale da condizionare, in certi momenti drammatici, le stesse Istituzioni repubblicane’’, come si legge nel ricorso del Previti. Procura che, oltre a consentire continue propalazioni concernenti, in molti casi, perfino notizie coperte dal segreto investigativo, ha rilasciato, dal dicembre 1993 al gennaio 2002, in particolare con il dott. Borrelli, capo della stessa, non poche dichiarazioni nei confronti e, spesso, contro gli imputati Berlusconi e Previti. Quelle dichiarazioni e le successive iniziative assunte dal dott. Borrelli nell’ottobre 2001 — iniziative che avevano coinvolto magistrati della procura e giudici per ‘‘studiare una strategia contro gli imputati Berlusconi e Previti’’ — sono state, poi, il segno della politicizzazione della magistratura milanese. Le dichiarazioni, culminate nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario del 12 gennaio 2002, tenuto dal dott. Borrelli nella sua qualità di procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, sono state, inoltre, accompagnate da un’insistente campagna di stampa e da numerose manifestazioni di piazza, quali la manifestazione organizzata al ‘‘Palavobis’’ il 23 febbraio 2002 e il ‘‘girotondo’’ intorno agli uffici giudiziari di Milano il 26 gennaio 2002, nel corso delle quali migliaia di persone hanno inveito ‘‘con accenti durissimi, contro il Presidente del Consiglio in carica, in nome della parola d’ordine ‘resistere, resistere, resistere’, lanciata dal dott. Borrelli nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario 2002’’. Hanno assunto, infine, il valore di eloquente sintomo del pericolo della non imparzialità e della mancanza di serenità dei giudici non pochi provvedimenti contra legem presi dai due collegi. 12. Ebbene, i difensori, nel proporre la questione di legittimità costituzionale, hanno osservato che, ove non dovesse ravvisarsi il pericolo concreto di quella coartazione fisica o psichica, preclusiva di ogni scelta diversa dalla parzialità o dalla mancanza di serenità, nella quale consiste il pregiudizio della ‘‘libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo’’, la grave situazione locale, denunciata dagli imputati, giustificherebbe, quanto meno il ragionevole dubbio, il ‘‘legittimo sospetto’’ che il giudice possa non essere imparziale e sereno e che possano non essere serene le altre persone che partecipano al processo, secondo il significato che la dottrina e la giurisprudenza attribuiscono a questa più ampia formula ed è questa inequivoca prospettazione dei difensori che autorizza, senza ombra di dubbio, il giudizio di rilevanza della questione. Se, infatti, dall’esame degli atti allegati alle richieste di rimessione, dovesse emergere la grave situazione denunciata e se si dovesse ritenere che questa situazione, pur se non ha pregiudicato, ovvero se non pregiudica, la libertà di determinazione del giudice e/o delle parti, così come questo pregiudizio viene e deve essere inteso, alla luce della corretta interpretazione dell’art. 45 c.p.p., è tale, però, da ingenerare almeno il forte sospetto, nel senso attribuito al termine dalla dot-


— 1436 — trina e dalla giurisprudenza, della non imparzialità del giudice o della non serenità delle persone che partecipano al processo, queste sezioni unite non sarebbero in grado di decidere, sulla base della normativa vigente, non consentendolo il testo del codice perché privo del riferimento, pur previsto dalla legge delega al ‘‘legittimo sospetto’’ e dovrebbero limitarsi al rigetto delle richieste di rimessione. 13. Ciò premesso, disposta la riunione dei procedimenti, va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p. in riferimento all’art. 2, n. 17, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, nella parte in cui non prevede tra le cause di rimessione il ‘‘legittimo sospetto’’; va disposta la sospensione del procedimento e va rigettata la richiesta di sospensione dei processi non sussistendone i presupposti, essendosi queste sezioni unite limitate a prendere atto della prospettazione dei difensori prescindendo da ogni valutazione critica della denunciata situazione locale. P.Q.M. — La Corte Suprema di cassazione a sezioni unite, dispone la riunione dei procedimenti nn. 8884/2002, 8951/2002, 8960/2002, 9829/2002, 9830/2002, 11387/2002, 14504/2002, 14829/2002, 16002/2002, al n. 8772/2002. Visto l’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p., in riferimento all’art. 2, n. 17, legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 nella parte in cui non prevede tra le cause di rimessione il ‘‘legittimo sospetto’’; sospende il presente procedimento; manda alla cancelleria per gli adempimenti previsti dell’art. 23, ultimo comma, della l. n. 87/1953. (Omissis).

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Corte costituzionale, Sezioni Unite e il legittimo sospetto.

1. La motivazione dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale appare sorprendente sotto molteplici aspetti soprattutto per le omissioni che il provvedimento presenta. In primo luogo, sorprende che non siano stati presi in considerazione i problemi che la generica locuzione ‘‘legittimo sospetto’’ determina in ordine alla necessità della precostituzione del giudice. Sul punto nulla vi è da aggiungere a quanto molto efficacemente è stato detto (Caprioli, Cordero, Giuliani, Grevi). È opportuno solo ulteriormente sottolineare che le deroghe determinate dalla rimessione alle regole generali di competenza non contrastano, come qualsiasi altra deroga del genere, con il principio sancito dall’art. 25, comma 1, Cost. a condizione che risultino realizzate due condizioni: la prima è data dal fatto che siano indicate con estrema precisione le situazioni sussistendo le quali viene meno la competenza originaria e subentra quella stabilita in deroga. In altri termini, i parametri, il cui verificarsi comporta la deroga, debbono essere rigorosamente delineati al fine di evitare che il nuovo giudice venga determinato sulla base di una valutazione discrezionale dell’organo, a cui sia demandato l’accertamento dell’esistenza dei pa-


— 1437 — rametri stessi. La seconda condizione è data dal fatto che una volta venuta meno, alla stregua dei parametri predetti, la competenza originaria, sia indicato dal legislatore il giudice competente al fine di evitare anche qui che si arrivi all’individuazione del nuovo giudice attraverso l’esercizio di un potere discrezionale. Non v’è dubbio che il ‘‘legittimo sospetto’’ non rispetti la prima delle due condizioni sopra enunciate, trattandosi di criterio talmente vago ed impreciso da conferire all’organo chiamato a decidere sulla rimessione un potere discrezionale così vasto da apparire idoneo a degenerare nel soggettivismo. È utile ricordare una vicenda processuale, che appare emblematica. Vigente il codice abrogato, la Corte di cassazione sulla base del legittimo sospetto dispose la rimessione del giudizio d’appello per un articolo pubblicato su ‘‘La zanzara’’, un giornale del liceo Parini di Milano. Questo articolo che riguardava la scoperta della pillola anticoncezionale aveva dato luogo ad un processo per reato commesso a mezzo stampa, conclusosi in primo grado con l’assoluzione degli studenti imputati per insussistenza del fatto. Il Procuratore Generale della Corte d’appello di Milano appellò la sentenza richiedendo nel contempo la rimessione e la Corte di cassazione con ordinanza del 3 giugno 1966 accolse la richiesta (v. Cass. pen., 1967, p. 3081) disponendo la rimessione del processo alla Corte d’appello di Genova, avanti alla quale il processo non ebbe luogo in quanto il Procuratore generale della Corte d’appello di Genova, resosi conto (almeno così ritengo) che la tesi accusatoria rasentava il ridicolo, rinunciò all’appello. L’instaurazione del processo a Milano e, soprattutto, un accertamento disposto da un magistrato della Procura della Repubblica, in ordine alla personalità psicofisica degli imputati minori responsabili della pubblicazione, aveva determinato una campagna di stampa critica nei confronti dell’operato della magistratura, un pubblico dibattito presso la libreria Feltrinelli, uno sciopero degli studenti per solidarietà con i redattori della ‘‘Zanzara’’ nonché una assemblea della sezione milanese dell’Associazione nazionale magistrati. La Corte di cassazione aveva ritenuto che la situazione locale portasse a ravvisare una situazione di legittimo sospetto, asserendo che, quando le condizioni ambientali possono turbare la ‘‘serenità’’ del giudice, dovesse ritenersi sussistente la situazione di legittimo sospetto prevista dall’art. 55 del codice abrogato e precisando, altresì, che ‘‘il legittimo sospetto, di cui fa parola l’art. 55 c.p.p., non può chiaramente riferirsi alla persona fisica del giudice, personalmente disinteressato nel processo, sibbene soltanto all’ambiente in cui egli opera, che potrebbe menomare la sua serenità funzionale’’. Da sottolineare, altresì, come la Corte di cassazione in tale pronunzia abbia riconosciuto la legittimità della rimessione del processo d’appello in base a considerazioni attinenti al processo di primo grado. Questa rimessione, del tutto fuori luogo in un processo nel quale nessun dubbio poteva seriamente prospettarsi in ordine alla imparzialità del giudice chiamato a giudicare, è la chiara dimostrazione della genericità e, quindi, della pericolosità della locuzione ‘‘legittimo sospetto’’ e delle gravi conseguenze che tale genericità può determinare in ordine al rispetto della precostituzione del giudice. Questo pericolo era stato notevolmente ridimensionato dal testo originario dell’art. 45 del codice vigente, per il quale, ad esempio, doveva ritenersi escluso che lo spostamento di competenza potesse farsi dipendere da ragioni di tipo soggettivo riguardanti i protagonisti del processo e i loro rapporti personali, come avveniva in passato per effetto di un’interpretazione della locuzione ‘‘legittimo sospetto’’ molto criticata dalla dottrina (interpretazione che aveva condotto la Corte di cassazione a disporre la rimessione, ad esempio, per l’esistenza dei ‘‘rapporti d’ufficio’’ tra l’imputato — un cancelliere — e i giudici). Appare sintomatico che il legislatore nel testo originario dell’art. 45 c.p.p. facesse riferimento alla ‘‘libertà di determinazione’’ dei partecipanti al processo anziché alla loro generica ‘‘serenità’’


— 1438 — o (con riferimento ai magistrati) alla loro ‘‘imparzialità’’, utilizzando una locuzione particolarmente severa per definire il possibile pregiudizio alla sfera intellettiva e volitiva dei soggetti coinvolti nel processo. La più rigorosa formula adottata dalla legge — non a caso mutuata da una vecchia giurisprudenza molto restrittiva della Corte di cassazione — doveva intendersi nel senso che non fossero sufficienti, in capo ai partecipanti al processo, meri condizionamenti di tipo ‘‘psicologico’’ o ‘‘emotivo’’. L’aver reintrodotto il ‘‘legittimo sospetto’’ come causa di rimessione rende nuovamente possibili istanze di rimessione fondate su ragioni di tipo soggettivo e, comunque, su situazioni le più varie possibili. Né vale obiettare che la rimessione per legittimo sospetto è a tutela del principio di imparzialità poiché, alla stregua del bilanciamento degli interessi contrapposti e costituzionalmente protetti, non è opportuno sottrarre un processo di sua competenza a quello che con certezza è il giudice precostituito, sul presupposto di una incerta menomazione della serenità del giudice, incertezza determinata da un parametro di valutazione estremamente vago ed impreciso. V’è di più: la translatio iudicii, conseguente all’applicazione di parametri generici ed imprecisi a tutela dell’imparzialità, genera nell’opinione pubblica, come le esperienze processuali dimostrano, la convinzione che la sottrazione del processo al giudice precostituito sia a vantaggio di una parte processuale e, quindi, in violazione del principio di imparzialità con conseguente grave menomazione del prestigio del potere giurisdizionale. Stupisce che tali considerazioni non siano state tenute presenti, magari ai fini di una valutazione critica, dalla Suprema Corte. 2. In secondo luogo, ed è una ulteriore omissione, non si è tenuto presente che il pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo è certamente una parziale attuazione del legittimo sospetto e, pertanto, le sezioni unite dovevano porsi il quesito se una parziale attuazione della delega possa o no comportare un vizio di illegittimità costituzionale. Quesito doveroso dal momento che alcune sentenze della Corte Costituzionale, come è stato ricordato in dottrina, lo hanno escluso (Grevi). Ma quel che soprattutto sorprende è il fatto che, dopo l’ineccepibile dimostrazione che il legittimo sospetto ha un ambito di operatività più ampio di quello che consegue all’applicazione dell’art. 45 c.p.p., le sezioni unite non abbiano minimamente considerato che la legge delega, nell’indicare i criteri direttivi, usa spesso inevitabilmente locuzioni generiche, che hanno trovato nel codice una attuazione soltanto parziale senza che si sia mai giunti ad una declaratoria di illegittimità costituzionale. Per dimostrare l’esattezza di questa asserzione è opportuno fare qualche esempio: la direttiva n. 50 della legge delega prevede l’archiviazione soltanto quando l’infondatezza della notizia di reato appare manifesta. Cionondimeno il legislatore delegato nell’art. 408 c.p.p. si è limitato a richiedere per l’archiviazione la mera infondatezza della notitia criminis senza esigere che tale infondatezza debba essere manifesta ed ha poi chiarito, nell’art. 125 delle disposizioni di attuazione, che tale infondatezza si ha allorquando gli elementi non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio. In altri termini, il pubblico ministero ha il dovere di richiedere l’archiviazione ancorché ritenga fondata la notizia di reato e questa sua convinzione sia suffragata da elementi probatori che, peraltro, il pubblico ministero ritenga insufficienti a sostenere l’accusa in dibattimento escludendo, nel contempo, sempre mediante un giudizio prognostico, che potrebbe essere erroneo, che tale insufficienza possa venir meno grazie all’istruzione dibattimentale. Orbene, non può certo dirsi che la manifesta infondatezza prevista dalla legge delega coincida con questi giudizi prognostici, che alla stregua della normativa codicistica giustificano la richiesta di archiviazione. Peraltro, la Corte costituzionale con la sentenza n. 88/1991 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega.


— 1439 — Analogamente la direttiva n. 40 della legge delega prevede l’incidente probatorio per le prove non rinviabili a dibattimento ed il legislatore delegato, anziché ripetere questa generica dizione, ha ritenuto doveroso precisarla con la tassativa elencazione dell’art. 392, comma 2, c.p.p., che circoscrive e limita il concetto di non rinviabilità e nessuno ha mai neppure ipotizzato un dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 392 c.p.p. per eccesso di delega. 3. La Corte di cassazione nella parte conclusiva della pronuncia in esame enuncia, poi, una serie di circostanze di fatto (quali le esternazioni di pubblici ministeri nei confronti di imputati, alcune iniziative di magistrati dalle quali sarebbe deducibile una politicizzazione della magistratura milanese, le manifestazioni di piazza), che potrebbero risultare idonee a concretare una situazione di legittimo sospetto. Dopo tale enunciazione, le sezioni unite concludono di essersi ‘‘limitate a prendere atto della prospettazione dei difensori prescindendo da ogni valutazione critica della denunciata situazione locale’’. Conclusione anch’essa sorprendente in quanto la valutazione critica era assolutamente indispensabile al fine del doveroso accertamento della rilevanza della questione. Tale omissione ha determinato la declaratoria di inammissibilità della Corte costituzionale, che era facile prevedere. Una volta ritenuto configurabile un eccesso di delega e, quindi, non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, la Suprema corte non poteva sottrarsi alla valutazione se le situazioni prospettate risultassero o no idonee a concretare una situazione di legittimo sospetto. Lo ha accuratamente evitato, in tal modo non pronunciandosi neppure sulla sospensione del processo certamente opportuna ove si fosse ritenuto, da un lato, sussistente una situazione di legittimo sospetto e, dall’altro, viziato di legittimità costituzionale l’art. 45 c.p.p. là ove limitava l’ambito di operatività della rimessione rispetto alla direttiva della legge delega. Per questo la decisione delle sezioni unite suscita l’impressione di un compromesso. Le sezioni unite hanno giustificato l’omesso giudizio sulla sussistenza o no della rilevanza, asserendo di ‘‘essersi limitate a prendere atto della prospettazione dei difensori prescindendo da ogni valutazione critica della denunciata situazione locale’’. In effetti, l’ordinanza riporta tra virgolette affermazioni relative alla situazione locale contenute nei ricorsi proposti. A nostro avviso, peraltro, la Corte di cassazione aveva il dovere di accertare l’effettiva sussistenza dei fatti addotti dalla difesa degli imputati (ed, idonei, secondo la difesa, a generare una situazione di legittimo sospetto) e di valutarli criticamente al fine di determinare se la prospettazione difensiva concretasse effettivamente un motivo di legittimo sospetto. Pertanto, delle due l’una: o dagli atti processuali risultavano i fatti addotti dalla difesa ed allora la Corte di cassazione, a cui è indubbiamente consentita per il giudizio di rilevanza una cognitio facti ex actis, non poteva esimersi dal motivare sull’esistenza della rilevanza stessa oppure i fatti addotti dalla difesa non emergevano dagli atti ed, in tal caso, ai sensi dell’art. 48, comma 1, c.p.p. la Corte di cassazione poteva anzi doveva assumere ‘‘le opportune informazioni’’ e, conseguentemente, o trasmettere gli atti alla Corte costituzionale dopo aver effettuato un giudizio positivo di rilevanza oppure respingere la richiesta di rimessione in conseguenza di un giudizio negativo di rilevanza. Infatti, ove il giudizio sulla rilevanza sia insufficiente o addirittura, come nel caso di specie, mancante, deve provvedervi il giudice avanti al quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale. Infatti, la Corte costituzionale, dopo aver rilevato che ‘‘il giudice a quo si limita a prendere atto delle affermazioni delle parti in ordine alle situazioni di fatto da esse denunciate, senza esprimere la sua valutazione né a questo proposito, né in ordine all’idoneità di tali situazioni ad ingenerare ‘il forte sospetto’ della non imparzialità del giudice o non serenità delle persone che partecipano al processo’’,


— 1440 — conclude nel senso che ‘‘dall’ordinanza di rimessione non risulta alcuna autonoma motivazione circa l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’ipotetica nuova normativa richiesta in via additiva’’. Ne deriva la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale proposta. Questa conseguenza non poteva non discendere dalla carenza di motivazione sulla rilevanza alla stregua della stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ha asserito: ‘‘perché la Corte di cassazione possa essere investita dell’esame di una questione di costituzionalità dichiarata manifestamente infondata dal giudice di merito, è necessario, considerata la preliminarità della valutazione della rilevanza rispetto a quella della manifesta infondatezza, che possa prendere atto di un giudizio di rilevanza implicitamente o esplicitamente dato dal giudice di merito o che possa direttamente esprimere il giudizio di rilevanza in base ai fatti che risultino accertati dalla sentenza impugnata. Se non ricorrono tali estremi perché il giudice del merito non ha accertato i fatti o ha insufficientemente motivato il proprio convincimento sui fatti stessi, la sentenza deve essere rimessa’’ al giudice a quo ‘‘per tale accertamento ai fini del giudizio sulla rilevanza della questione di costituzionalità’’ (v. Cass. civ., sez. I, 13 maggio 1987, in Dir. famiglia, 1988, p. 136). Questo dovere di motivazione, che incombe al giudice di merito avanti al quale viene sollevata l’eccezione di legittimità costituzionale, sussisteva pure nei confronti delle sezioni unite investite della eccezione di legittimità costituzionale per eccesso di delega e a tale dovere la Suprema Corte non ha adempiuto. GILBERTO LOZZI


c) Giudizi di Cassazione

CORTE DI CASSAZIONE — Sez. un. — 31 ottobre 2001, n. 32 (dep. 28 novembre 2001) Pres. Vessia Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Intercettazioni tra presenti Esecuzione delle operazioni - Decreto del pubblico ministero che dispone la utilizzazione di impianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica - Motivazione - Proroga della durata. La disposizione dell’art. 268 comma 3, che prevede la garanzia del provvedimento motivato del pubblico ministero perché possano utilizzarsi impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica, si applica anche alle operazioni di intercettazioni di comunicazioni tra presenti (1). Il presupposto dell’eccezionalità delle ragioni di urgenza può essere integrato per relationem, con riferimento alla motivazione del decreto autorizzativo del giudice in ordine alla situazione in atto di svolgimento dell’attività organizzativa dei reati-fine dell’associazione per delinquere (2). (Omissis). — FATTO e DIRITTO. — 1.1. Con ordinanza del 25 maggio 2001 il tribunale di Bari confermava, in sede di riesame, il provvedimento emesso il 2 maggio 2001 dal g.i.p. del tribunale di Trani applicativo della misura della custodia cautelare nei confronti di Policastro Pasquale, Asseliti Salvatore e Asseliti Eligio, per il reato di partecipazione ad un’associazione per delinquere operante nel territorio dell’alta Murgia, finalizzata alla commissione di furti di mezzi agricoli e di estorsioni in danno dei proprietari, nonché per taluni delitti di furto ed estorsione. La gravità del quadro indiziario in ordine all’esistenza dell’associazione criminosa facente capo ad Asseliti Eligio ed alle altre imputazioni, oltre che sugli esiti delle operazioni investigative del commissariato di p.s. di Andria, era prevalentemente fondata sulle risultanze delle intercettazioni ambientali, eseguite dal 31 ottobre al 30 novembre 2000 a bordo dell’autovettura Mitsubishi Pajero tg. MI69512Y del coindagato Zingaro Francesco, che avevano condotto alla scoperta di una base logistica in cui erano nascosti i mezzi agricoli rubati e all’identificazione dei componenti del gruppo e del ruolo da ciascuno di essi rivestito, secondo un modus operandi identico per tutti i delitti-fine perpetrati nelle campagne murgesi, costituiti da numerosi furti di mezzi agricoli restituiti solo dietro pagamento di un riscatto. Sull’eccezione difensiva d’inutilizzabilità degli esiti delle operazioni intercettative per la denunziata violazione degli artt. 266.2 e 268.3 c.p.p., replicava il tribunale, quanto alla prima disposizione, che l’autovettura non può qualificarsi luogo di privata dimora e, quanto alla seconda, che essa è stata dettata ed è applicabile esclusivamente per le intercettazioni telefoniche. 1.2.

Ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli indagati, il quale


— 1442 — ha dedotto violazione di legge dell’impugnata ordinanza per un duplice profilo d’inutilizzabilità ex art. 271.1 c.p.p. dei risultati delle intercettazioni ambientali disposte all’interno dell’autovettura, costituenti secondo lo stesso tribunale ‘‘l’asse portante’’ del quadro indiziario e della prospettazione accusatoria. I ricorrenti lamentano con il primo motivo che, risultando le intercettazioni disposte all’interno di un’autovettura, il decreto di autorizzazione del g.i.p. in data 12 ottobre 2000 avrebbe dovuto fare riferimento al fondato motivo che in essa si stesse svolgendo l’attivività criminosa, così come esige l’art. 266.2 c.p.p. quando l’operazione intrusiva riguardi uno dei luoghi indicati dall’art. 614 c.p.: anche l’abitacolo di un’autovettura sarebbe infatti configurabile come ‘‘luogo di privata dimora’’ alla luce del mutamento dei costumi, che ha portato a destinare la stessa ad ulteriori finalità, oltre quella di trasporto delle persone, rispetto alle quali esiste il diritto di esclusione delle altrui intromissioni. Con il secondo motivo si censura l’inosservanza dell’art. 268.3 c.p.p. che prevede, di regola, l’esecuzione delle operazioni di ricezione e registrazione di conversazioni mediante gli impianti installati nella procura della Repubblica, sul rilievo che erroneamente il giudice di merito avrebbe ritenuto inapplicabile tale disposto alle intercettazioni ambientali, proponendosi in subordine l’eccezione d’incostituzionalità della citata disposizione, se interpretata restrittivamente con riferimento alle sole intercettazioni telefoniche, per violazione degli artt. 3 e 15 Cost., poiché il diritto alla riservatezza delle comunicazioni sarebbe suscettibile di limitazione, secondo la giurisprudenza costituzionale, solo quando le operazioni di intercettazione siano costantemente eseguite sotto il diretto controllo dell’autorità giudiziaria. Il p.m. aveva disposto che le operazioni fossero compiute mediante gli impianti installati presso la polizia di Stato di Andria, identici a quelli della procura di Trani, previa certificazione della locale sezione di p.g. circa l’occupazione di tutte le postazioni della sala intercettazione per indagini in corso: circostanza questa che confermerebbe sia la possibilità tecnica di effettuare intercettazioni ambientali da impianti fissi, sia la disponibilità da parte della procura di apparecchiature idonee al compimento delle operazioni. Di talché, attesa l’equiparazione delle intercettazioni ambientali a quelle telefoniche, la motivazione del decreto del p.m. non era rispondente ai requisiti di legge, poiché risultava assente l’esposizione delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’ che devono coesistere con l’insufficienza o l’inidoneità degli impianti di procura. I ricorrenti lamentano inoltre l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali eseguite in forza del decreto di proroga del g.i.p. in data 10 novembre 2000, in quanto agli atti mancherebbe del tutto il conseguente provvedimento esecutivo del p.m., pur necessario a fronte del decorso del tempo che avrebbe potuto far venir meno l’originaria inadeguatezza degli impianti della procura, sì che l’utilizzo di impianti diversi da quelli in dotazione a quest’ultima non risulterebbe autorizzato per le intercettazioni prorogate. Con un’articolata memoria difensiva depositata il 5 ottobre 2001 vengono approfondite le questioni sollevate con il ricorso, anche con apporti di carattere strettamente tecnico inerenti alle specifiche modalità di intercettazione ambientale. 1.3. Sulla preventiva richiesta del difensore di assegnare il ricorso alle sezioni unite, poiché sulle questioni dedotte con i motivi di impugnazione sussisterebbe contrasto nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, il Primo presidente


— 1443 — aggiunto con decreto del 17 luglio 2001 ha assegnato il ricorso alle sezioni unite fissando per la sua trattazione l’odierna udienza in camera di consiglio. 2. La difesa degli indagati ha eccepito — sotto molteplici profili — l’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 271.1 c.p.p., delle intercettazioni di conversazioni fra presenti eseguite nel corso delle indagini preliminari mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, costituenti secondo il tribunale del riesame ‘‘l’asse portante’’ del quadro indiziario e dell’ipotesi accusatoria che giustificavano l’ordinanza coercitiva. Ritiene il Collegio, prima di procedere all’analitico esame delle diverse questioni sollevate con il ricorso, che sia necessario porre una duplice premessa di ordine metodologico: la prima attinente alla disciplina dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nel procedimento de libertate; la seconda riguardante i limiti dei poteri di controllo del giudice di legittimità sugli atti del procedimento a seguito di denunzia dell’inosservanza di norme processuali stabilite, come nella specie, a pena di inutilizzabilità. 2.1. L’art. 273.1 del nuovo codice di rito prescrive, come condizione generale di applicabilità di una misura cautelare personale, che sussistano ‘‘gravi indizi di colpevolezza’’ a carico della persona contro la quale il provvedimento restrittivo venga emesso. Il modello normativo di riferimento risulta peraltro significativamente arricchito dall’art. 11 l. 1o marzo 2001, n. 63 che ha inserito nell’art. 273, dopo il comma 1, il seguente comma 1-bis: ‘‘Nella valutazione di gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli artt. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1’’. Detta norma richiama, in sede di valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per l’adozione di una misura cautelare personale, la disposizione dell’art. 271.1 attinente, più che alle regole valutative della prova cautelare, al fenomeno dell’inutilizzabilità dei dati dimostrativi acquisiti in violazione di specifici divieti stabiliti dalla legge. È da osservare tuttavia che in questa materia, dopo alcune pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. un., 27 marzo 1996, Monteleone; Sez. un., 20 novembre 1996, Glicora; Sez. un., 21 giugno 2000, Primavera), poteva già dirsi consolidata la soluzione interpretativa secondo la quale la radicale sanzione dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle prescrizioni stabilite dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, investendo l’elemento dimostrativo, probatorio o indiziario, acquisito in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, dovesse trovare applicazione anche nel procedimento cautelare. La ratio legis della novella va dunque ravvisata nell’esigenza di acquisire al sistema codicistico il suddetto risultato ermeneutico, sì da escludere definitivamente, anche a livello ordinamentale e in piena coerenza con le chiare indicazioni del giudice delle leggi (C. cost., sent. 34 del 1973; da ultimo, ordd. n. 304 del 2000 e n. 259 del 2001), che i risultati di intercettazioni illegittimamente acquisiti possano considerarsi rilevanti, non solo a fini probatori nel dibattimento e in rapporto ad ogni altra decisione da adottare nei riti alternativi negoziali, ma anche nell’udienza preliminare e nella fase delle indagini preliminari come elementi apprezzabili per l’adozione di provvedimenti di cautela personale. 2.2.

Quanto al secondo aspetto metodologico sopra enunciato, va ribadito il


— 1444 — costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. IV, 16 marzo 1990, Pezzoni, rv. 183864; Sez. III, 29 ottobre 1993, rv. 195875; Sez. VI, 4 febbraio 1998, rv. 210378; Sez. VI, 21 ottobre 1998, rv. 213332) secondo il quale, quando sia dedotto mediante ricorso per cassazione un error in procedendo ai sensi dell’art. 606.1 lett. a) c.p.p., la Corte di legittimità ‘‘è giudice anche del fatto’’ e, per risolvere la relativa questione, può — talora deve necessariamente accedere all’esame dei relativi atti processuali, che resta invece precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato ex art. 606.1 lett e) soltanto se risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione. 3. I ricorrenti lamentano innanzitutto che, pur risultando le intercettazioni disposte all’interno di un’autovettura, il decreto di autorizzazione del g.i.p. in data 12 ottobre 2000 sarebbe carente di qualsiasi riferimento al fondato motivo di ritenere che in essa si stesse svolgendo l’attività criminosa, come esige l’art. 266.2 c.p.p. per l’intercettazione ambientale ‘‘domiciliare’’ quando l’operazione intrusiva riguardi uno dei luoghi indicati dall’art. 614 c.p.: anche l’abitacolo di un’autovettura sarebbe configurabile come ‘‘luogo di privata dimora’’ alla luce del mutamento dei costumi, che ha portato a destinare la stessa ad ulteriori finalità, oltre quella di trasporto delle persone, rispetto alle quali esiste il diritto di esclusione delle altrui intromissioni. 3.1. La prima questione controversa sottoposta all’esame delle sezioni unite consiste dunque nello stabilire se, ai fini della disciplina dell’intercettazione di comunicazioni fra presenti, l’abitacolo di un’autovettura possa considerarsi ‘‘luogo di privata dimora’’. Considerato che il precetto dell’art. 266.2 c.p.p. (per il quale l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., è consentita ‘‘solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa’’) è espressamente derogato per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata dall’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, integrato dall’art. 3-bis, commna 2, d.l. n. 306 del 1992, conv. in l. n. 345 del 1992, e dall’art. 23.1 l. n. 63 del 2001 (che, in siffatta ipotesi, consente l’intercettazione ambientale domiciliare ‘‘anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa’’), il quesito interpretativo si articola in realtà secondo una duplice, progressiva, prospettazione. Le Sezioni unite sono chiamate, infatti, a valutare: a) in via preliminare se l’abitacolo di un’autovetura costituisca o meno luogo di privata dimora; b) in caso affermativo, se, per la tipologia delle imputazioni in relazione alle quali risulta originariamente chiesta e disposta l’intercettazione ambientale — associazione per delinquere e ricettazione continuativa —, ricorra o meno l’ipotesi di procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata. Su entrambe le questioni si contrappongono due indirizzi interpretativi nella giurisprudenza di legittimittà. a1) Sullo specifico argomento delle intercettazioni ambientali disposte all’interno di autovettura, si sono pronunciate nel senso che l’abitacolo di un autoveicolo, strutturalmente privo di attrezzature che rendano possibile ed attuale un’utilizzazione di tipo domestico dello spazio chiuso ma costituente ordinario mezzo di trasporto, non rientra tra i luoghi di privata dimora: Cass., Sez. VI, 19


— 1445 — febbraio 1981, Semitaio, rv. 149373; Sez. I, 22 gennaio 1996, Porcaro, rv. 203799; Sez. VI, 5 ottobre 2000, Saggio; Sez. 1, 11 luglio 2000, Nicchio, rv. 216749; Sez. I, 18 ottobre 2000, Galli, rv. 218042; Sez. VI, 23 gennaio 2001, De Palma; Sez. II, 4 maggio 2001, Berlingeri; Sez. II, 9 maggio 2001, D’Agostino. In contrasto con tali pronunce la seconda Sezione penale della Corte di cassazione (Sez. II, 12 marzo 1998, Zagaria, rv. 211142), dopo aver posto a raffronto gli artt. 14 Cost. e 614 c.p., ha ritenuto che, rientrando nel concetto di privata dimora tutti quei luoghi che, oltre all’abitazione, assolvano la funzione di proteggere la vita privata e siano perciò destinati al riposo, all’alimentazione, alle occupazioni professionali e all’attività di svago, tra essi vada compreso l’abitacolo di una autovettura. E in tal senso va menzionata una non recente decisione (sent. n. 88 del 1987) nella quale, con riguardo ad altro problema — attinente al potere dell’autorità amministrativa di intimare l’apertura di mezzi di trasporto sulla base dell’art. 6 l. prov. aut. Trento 26 luglio 1973 n. 18 — la Corte costituzionale non ha manifestato dubbi circa la configurabilità dell’autovettura come ‘‘luogo di privata dimora sia pure esposto al pubblico dal quale il titolare ha il diritto di escludere ogni altro’’, richiamando — pur se non incontrovertibilmente — il ‘‘diritto penale vivente’’ formatosi all’epoca con riferimento a problematiche di diritto sostanziale estranee al thema decidendum. b1) Sono altresì note le profonde divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza semantica e la portata da attribuire, ai fini della corretta applicabilità della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991 e succ. modif., alla locuzione legislativa ‘‘criminalità organizzata’’. Per la sua ambigua matrice essa viene interpretata talora estensivamente in senso socio—criminologico o teleologico, con riguardo cioè alle finalità della norma speciale, che tende a far rientrare nel suo ambito applicativo le attività criminose più diverse purché realizzate da una pluralità di soggetti che abbiano costituito un apparato organizzativo per commettere reati (Cass., Sez. VI, 7 gennaio 1997, Pacini Battaglia, rv. 207363; Sez. VI, 16 maggio 1997, Pacini Battaglia, rv. 210045; Sez. I, 2 luglio 1998, Ingrosso, rv. 211167; Sez. I, 2 luglio 1998, Capoccia; da ultimo, Sez. un., 21 giugno 2000, Primavera): in quest’ipotesi, l’intercettazione di comunicazioni che avvenga nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che in essi si stia svolgendo l’attività criminosa, con la conseguenza che non sarebbe richiesta alcuna motivazione, sul punto, del decreto autorizzativo del giudice. Altre volte essa viene intesa, viceversa, in senso più rigorosamente ordinamentale, mediante l’analitica individuazione delle fattispecie criminose — selezionate mediante la tecnica di normazione per ‘‘cataloghi’’ —, operata dagli artt. 407.2 lett. a), 372.1-bis e 51.3-bis c.p.p., nel rispetto del principio di legalità-tassatività e delle garanzie apprestate a tutela della libertà personale dell’imputato (Cass., Sez. VI, 24 febbraio 1995, Galvanin, rv. 201695). 3.2. Dall’esame degli atti, consentito attinendo la censura ad un vizio in procedendo, risulta che il decreto autorizzativo del g.i.p. in data 12 ottobre 2000 fa esplicito riferimento, nell’ultimo capoverso della parte motiva, al carattere di indispensabilità delle intercettazioni ‘‘... per l’utile proseguimento delle indagini, atteso che consentirebbero non solo di riscontrare il quadro indiziario dianzi delineato, ma altresì di acquisire, come è tipico nell’atto a sorpresa, utili elementi sul-


— 1446 — l’attività delittuosa che deve ritenersi in atto in quanto, allo scopo di eludere le attività investigative, i prevenuti si sono disfatti dei propri autoveicoli ed utilizzano l’autovettura dello Zingaro per organizzare le loro attività delittuose (annotazione di servizio 8 settembre e 23 settembre 2000) ...’’. Il testuale riferimento al fondato sospetto — a seguito di giudizio prognostico all’atto dell’emanazione del provvedimento autorizzativo — circa l’attualità dell’attività criminosa di programmazione, deliberazione, preparazione e organizzazione dei reati-fine di un’associazione per delinquere, svolta all’interno di un’autovettura nella disponibilità di un terzo e con l’intento di sfuggire alle investigazioni dell’autorità appare certamente idoneo a soddisfare l’onere della motivazione negli specifici termini prescritti dall’art. 266.2 c.p.p. e, di conseguenza, a far ritenere, comunque, legittima l’intercettazione di conversazioni tra presenti de qua. In definitiva, la prima quaestio juris sottoposta allo scrutinio delle Sezioni unite, pur articolata secondo la duplice prospettazione suindicata, deve ritenersi priva di rilevanza nel caso concreto poiché dalla verifica dei presupposti fattuali del relativo motivo di gravame è emerso — contrariamente all’assunto difensivo — che il decreto autorizzativo del g.i.p. risulta puntualmente motivato con riferimento alla ragionevole ipotesi del perdurante svolgimento, all’interno dell’autovettura, dell’attività criminosa. 4. L’altra questione demandata alle Sezioni unite è se l’art. 268.3 c.p.p., secondo il quale l’esecuzione delle operazioni di ricezione e registrazione di conversazioni deve avvenire, di regola, mediante gli impianti installati nella procura della Repubblica, sia applicabile, oltre che alle intercettazioni telefoniche, anche a quelle ambientali; e, in quest’ultima ipotesi, occorre stabilire quali siano i requisiti minimi perché sia soddisfatto — a pena d’inutilizzabilità ai sensi dell’art. 271.1 — l’obbligo di congrua motivazione del decreto esecutivo del pubblico ministero con riferimento, da un lato, all’insufficienza o inidoneità degli impianti della procura e, dall’altro, alle eccezionali ragioni di urgenza, giustificative, in deroga al regime ordinario, del compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria. Sul tema della localizzazione degli impianti (la cui disciplina è stata positivamente scrutinata dalla Corte costituzionale con recenti ordinanze n. 304 del 2000 e n. 259 del 2001) la giurisprudenza delle sezioni semplici appare non concordemente orientata. Si è, per lungo tempo, sostenuto che l’art. 268.3 fosse applicabile esclusivamente alle operazioni di intercettazioni telefoniche e non anche a quelle relative ad intercettazioni ambientali, sul rilievo — condiviso dalla dottrina largamente prevalente — che quest’ultime, potendo essere realizzate solo a mezzo di apparecchiature vicine alla fonte sonora, richiederebbero l’uso di strumenti non installati o non agevolmente installabili presso le procure della Repubblica, a causa delle loro caratteristiche che, necessitando di centrali di ascolto mobili, sarebbero tecnicamente incompatibili con impianti fissi e centralizzati (Cass., Sez. I, 8 giugno 1994, Morabito, rv. 199908; Sez. I, 28 settembre 1996, Vozza, rv. 205698; Sez. VI, 7 gennaio 1997, Pacini Battaglia, rv. 207365; Sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante, rv. 208900; Sez. VI, 16 maggio 1997, Pacini Battaglia, rv. 210046; Sez. VI, 16 dicembre 1997, Scollo, rv. 210066; Sez. V, 24 settembre 1998, Burgio, rv. 213977; Sez. I, 26 novembre 1998, Galeandro, rv. 212104).


— 1447 — Con la sentenza 28 settembre 1999, Renelli, rv. 214434 della prima Sezione penale (seguita da Cass., Sez. I, 22 maggio 2000, Delle Grottaglie, rv. 216282 e Sez. I, 29 settembre 2000, Bayan, rv. 217548) si è affermato per la prima volta l’opposto principio, secondo cui la disposizione dell’art. 268.3 c.p.p. deve trovare applicazione anche nel caso di intercettazione di comunicazioni inter praesentes, per cui, in mancanza del decreto motivato del pubblico ministero di autorizzazione all’impiego di impianti diversi da quelli installati presso la procura, i risultati delle operazioni intercettative sono inutilizzabili a norma dell’art. 271.1. 5. Le Sezioni unite, premesso che la prima tesi interpretativa collide sia con la esegesi letterale che con la ratio della disciplina positiva, condividono il più recente e rigoroso indirizzo giurisprudenziale per le seguenti considerazioni di ordine formale e logico-sistematico. La chiara formulazione letterale della norma non consente innazitutto distinzioni di sorta almeno per questo profilo — tra le due tipologie di intercettazioni. L’art. 267 c.p.p., nel disciplinare i pressupposti e le forme sia del provvedimento autorizzativo del giudice che di quello esecutivo del pubblico ministero circa le modalità e la durata delle operazioni, abbraccia infatti in un’unica prescrizione ‘‘le operazioni previste dall’art. 266’’, quindi tanto l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione, quanto l’intercettazione di comunicazioni tra presenti previste rispettivamente dal comma 1 e 2 dell’art. 266. E non vi è alcuna seria ragione per dubitare che l’art. 268, riguardante l’esecuzione delle medesime ‘‘operazioni’’ e in particolare, al comma 3, il tema della localizzazione degli impianti abbia inteso diversificare la sorte dell’intercettazione ambientale rispetto a quella dell’intercettazione telefonica. Quanto alla ratio legis, lo sviluppo normativo che sta a monte dell’odierno criterio codicistico conferma che il legislatore, in ossequio alle indicazioni offerte dalla Corte costituzionale già nella vigenza dell’abrogato codice di rito (sent. n. 34 del 1973), pretende che la compressione del diritto alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione tutelato dall’art. 15 Cost., contemperandosi con il distinto interesse, pure oggetto di protezione costituzionale, all’efficace prevenzione e repressione di gravi illeciti penali, sia subordinato al rigoroso rispetto di precise garanzie, non soltanto di ordine giuridico ma anche di ordine ‘‘tecnico’’, finalizzate alla possibilità che l’autorità giudiziaria eserciti ‘‘anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda soltanto alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e nei limiti dell’autorizzazione’’. Di seguito alla citata pronunzia n. 34 del 1973 il legislatore aveva dapprima stabilito che le intercettazioni dovessero effettuarsi esclusivamente mediante impianti installati nelle procure della Repubblica (art. 226-quater, comma 1, c.p.p. 1930, aggiunto dall’art. 4 l. n. 98 del 1974) e poi consentito di utilizzare, ma solo ‘‘per ragioni di urgenza’’, anche gli impianti in dotazione della polizia giudiziaria (art. 226-quater, comma 2, sost. dall’art. 8 d.l. n. 59 del 1978, conv. in l. n. 191 del 1978). L’avere il legislatore del nuovo codice di rito privilegiato l’impiego degli apparati installati negli uffici giudiziari, dettando una ‘‘regola di selezione’’ volta a circoscrivere, in presenza dei concorrenti requisiti dell’insufficienza od inidoneità degli impianti di procura e delle eccezionali ragioni d’urgenza, nonché con l’apposita garanzia dell’obbligo di motivazione — sul punto — del decreto esecutivo del


— 1448 — pubblico ministero, l’utilizzazione ‘‘in via derogatoria’’ degli impianti esterni, risponde dunque al ragionevole intento di collocare la disposizione contenuta nell’art. 268.3 nel solco e nella prospettiva del rammentato sviluppo normativo. Di talché, avuto riguardo alla formidabile capacità intrusiva del mezzo di ricerca della prova nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata, appare assolutamente adeguato il riflesso processuale della radicale sanzione d’inutilizzabilità dei risultati delle operazioni captative ove le ‘‘garanzie tecniche’’ di espletamento del mezzo — in particolare, quella dell’obbligo di motivazione del provvedimento esecutivo derogatorio, relativamente al duplice requisito dell’insufficienza o inidoneità degli impianti di procura e delle eccezionali ragioni di urgenza — siano state eluse (C. cost., sent. n. 34 del 1973 e, da ultimo, ordd. n. 304 del 2000 e n. 259 del 2001; Cass., Sez. VI, 18 maggio 1994, Bani, rv. 199091; Sez. I, 20 marzo 1996, Superbo, rv. 204619; Sez. I, 7 ottobre 1997, Bonavota, rv. 209163; Sez. IV, 22 aprile 1999, Nobile, rv. 2138l9; Sez. IV, 17 novembre 1999, Arizi, rv. 215658; Sez. IV, 9 febbraio 2000, Sasso). È da osservare inoltre che neppure il presupposto fattuale della prima impostazione giurisprudenziale che fondava, fino a qualche anno addietro, la base giustificativa del ragionamento sulla circostanza che la tecnologia imponeva il ricorso a strutture mobili di captazione della fonte sonora per l’esecuzione di intercettazioni ambientali, sembra oggi corretto, alla luce delle moderne evoluzioni tecnologiche che consentono (com’è concretamente avvenuto nella fattispecie in esame, nella quale le intercettazioni ambientali sono state eseguite mediante collocazione nell’autovettura di un telefono cellulare, collegato con l’impianto fisso di ricezione e registrazione della polizia di Stato di Andria ed attivato di volta in volta mediante la composizione di un numero telefonico radiomobile) il compimento delle medesime operazioni anche mediante impianti fissi e, quindi, anche mediante le apparecchiature di ascolto e di registrazione installate presso la procura della Repubblica. Le considerazioni fin qui svolte avvalorano la linearità logica e sistematica della più rigorosa soluzione ermeneutica secondo la quale, giusta l’ordinamento processuale positivo, la disposizione dell’art. 268.3 c.p.p., che prevede la garanzia del provvedimento motivato del pubblico ministero perché possano utilizzarsi impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica, si applica anche alle operazioni di intercettazione di comunicazioni fra presenti, anzi, un più intenso sacrificio dei diritti tutelati dall’art. 15 Cost. rispetto alle intercettazioni telefoniche. 6. Alla luce del principio di diritto sopra affermato deve valutarsi, a questo punto, la censura difensiva che si sostanzia nell’omessa motivazione del decreto esecutivo del pubblico ministero in ordine al presupposto delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’ richiesto dall’art. 268.3 c.p.p., con la conseguente eccezione d’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni a norma dell’art. 271.1. La difesa prospetta, in linea di fatto, che la procura della Repubblica di Trani avrebbe avuto la disponibilità di apparati fissi, tecnicamente idonei a captare intercettazioni ambientali, senza alcuna necessità di far ricorso a impianti esterni, considerato che nell’ambito di altro procedimento analoghe intercettazioni erano state compiute a mezzo degli impianti RT 6000 e RT 2000 in dotazione alla procura medesima, e che nell’ambito del presente procedimento il p.m. aveva emesso


— 1449 — il decreto esecutivo in data 12 ottobre 2000, disponendo che le operazioni fossero compiute mediante gli impianti installati presso la polizia di Stato di Andria identici a quelli della procura, previa certificazione della locale sezione di p.g. circa l’occupazione di tutte le postazioni della sala intercettazione per indagini in corso. La motivazione del decreto esecutivo del p.m. non sarebbe rispondente alla prescrizione normativa poiché, risultando assente l’esposizione delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’ che devono coesistere con l’insufficienza o l’inidoneità degli impianti, l’autorizzazione alla polizia di Stato al noleggio dell’impianto RT 6000 bene avrebbe potuto compiersi in favore della sala intercettazioni della procura dovendosi attendere, in assenza dell’urgenza, la disponibilità di una delle relative postazioni. Con riferimento al caso di specie, rileva il Collegio, convenendosi con l’esattezza dell’astratto rilievo della difesa dei ricorrenti, che effettivamente non si è rinvenuta nel decreto esecutivo emesso dal pubblico ministero un’esplicita indicazione delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’: condizione di assoluta indifferibilità temporale, questa, che — unitamente alla motivata indisponibilità degli impianti installati in procura per essere in corso altre intercettazioni — avrebbe potuto giustificare la deroga all’utilizzazione degli stessi per il compimento delle operazioni di intercettazione ambientale. La critica non coglie tuttavia nel segno perché, tenuta presente l’intera, invero concitata, sequenza temporale dei vari atti della procedura (richiesta di autorizzazione del p.m. in data 11 ottobre 2000; decreto di autorizzazione delle operazioni di intercettazione del g.i.p. depositato in cancelleria alle ore 12,30 del 12 ottobre 2000; decreto esecutivo delle operazioni di intercettazioni emesso dal p.m nelle ore immediatamente successive dello stesso giorno) e valutato l’esplicito, il presupposto dell’eccezionalità delle ragioni di urgenza risulta integrato per relationem, con riferimento allo specifico passo motivazionale del decreto autorizzativo del giudice in ordine alla situazione in atto di svolgimento dell’attività organizzativa dei reati-fine dell’associazione per delinquere. Figura criminosa d’indubbia gravità, quest’ultima, le cui ontologiche caratteristiche di delitto ‘‘di durata’’ rendono assolutamente indispensabile l’immediato attivarsi dell’investigazione per far cessare al più presto l’esecuzione criminosa in atto e salvaguardare gli interessi della collettività. 7. I ricorrenti lamentano inoltre l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali eseguite in forza del decreto di proroga del g.i.p. in quanto agli atti manca del tutto il conseguente provvedimento esecutivo del p.m., necessario — secondo l’assunto difensivo — a fronte del decorso del tempo che avrebbe potuto far venir meno l’originaria indisponibilità degli impianti di procura; di guisa che l’utilizzo di impianti diversi da quelli installati presso quest’ultima non risulta affatto motivato per le operazioni intercettative prorogate. Occorre pertano esaminare la questione se, nell’ipotesi di proroga ritualmente autorizzata dal giudice per le indagini preliminari della durata delle operazioni d’intercettazione, occorra un ulteriore decreto esecutivo del pubblico ministero circa le modalità delle stesse a norma dell’art. 267.3 c.p.p. e — in caso di risposta affermativa al quesito — se, per quest’ultimo, sia comunque prescritto l’obbligo di motivazione ex art. 268.3, con riferimento ad entrambi i requisiti della perdurante inidoneità o insufficienza degli impianti di procura e della persistente, eccezionale,


— 1450 — urgenza dell’atto investigativo perché sia consentita la deroga alla riserva tendenziale di esclusivo utilizzo degli stessi. Orbene, non può seriamente dubitarsi che tanto l’insufficienza o l’inidoneità degli impianti di procura quanto l’assoluta indifferibilità delle operazioni costituiscano parametri variabili nel tempo la cui persistenza soltanto, concretamente verificabile dall’autorità giudiziaria, è in grado di legittimare la perdurante deroga all’ordinario regime di esecuzione delle operazioni intercettative: cessata l’assoluta urgenza o resisi disponibili gli impianti di procura, le operazioni devono tornare a svolgersi nella loro sede naturale, pena l’inevitabile sanzione d’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni illegittimamente eseguite. E però, non possono condividersi affatto le conclusioni cui perviene il ragionamento della difesa la quale, non denunziando neppure la circostanza attuale che siano venute meno le condizioni legittimanti l’utilizzo degli impianti esterni ma congetturandone soltanto l’ipotesi, sostiene che, nel caso in cui si proceda ad intercettazioni prorogate, entrambi i requisti sarebbero comunque da sottoporre a verifica, in ogni caso, mediante apposito provvedimento del pubblico ministero che dia atto del protrarsi nel tempo della situazione legittimante la deroga e ne giustifichi le ragioni. Ritiene, per contro, il Collegio che, anziché instaurarsi secondo l’astratta prospettazione difensiva una sorta di inammissibile automatismo, disancorato da ogni serio fondamento normativo e logico, tra il fenomeno della proroga della durata dell’intercettazione e la selezione dell’impianto, risponda alla ragionevole esigenza di assicurare un’effettiva vigilanza circa le garanzie costituzionali ‘‘anche di ordine tecnico’’ la tesi (già affermata da Cass., Sez. VI, 25 aprile 1998, Sinesi, rv. 210919) secondo la quale, in assenza di significativi mutamenti fattuali delle situazioni condizionanti l’utilizzo di impianti esterni alla procura, il pubblico ministro non è tenuto ad adottare un ulteriore decreto esecutivo, che si limiti a confermare anche per le operazioni prorogate quanto già precedentemente disposto in merito alle modalità spazio-temporali dell’intercettazione e, in particolare, all’impiego dell’apparato alternativo. S’intende cioè sostenere che, rispetto alla fattispecie derogatoria disciplinata dall’art. 238.3 c.p.p., il fenomeno della proroga della durata delle operazioni d’intercettazione presenta, di per sé, connotati di sostanziale alterità e neutralità. Da un lato, non è dato trarre dal modello normativo un’affermazione di principio per cui, in via generale ed astratta, al provvedimeto di proroga del giudice deve ineludibilmente conseguire un ulteriore decreto dispositivo delle modalità delle operazioni intercettative da parte del pubblico ministero. D’altra parte, la proroga, come autorizzazione motivata del giudice, funzionale all’esigenza di comprimere per successivi periodi di quindici giorni oltre il termine ordinario la sfera di riservatezza delle comunicazioni private, che deve ugualmente dar conto dell’attuale persistenza delle condizioni di legittimità del provvedimento genetico e delle indispensabili esigenze captative, incide eclusivamente sulla durata delle operazioni d’intercettazione e, ferma restando ogni altra modalità di esecuzione delle stesse precedentemente indicata dal pubblico ministero secondo i precetti degli artt. 267.3 e 268.3 c.p.p., non costituisce affatto — di per sé — un segnale automatico di discontinuità rispetto all’originario assetto dispositivo dell’intercettazione. Soluzione di continuità che, a prescidere dal formale provvedimento di pro-


— 1451 — roga del giudice, ben potrebbe viceversa configurarsi in qualsiasi momento, nel corso dell’esecuzione delle operazioni intercettive, qualora si verifichi un’effettiva variazione dell’originaria situazione fattuale legittimante la deroga all’obbligo di esclusiva utilizzazione degli impianti di procura, che renda in concreto necessario e utile un ulteriore, immediato, provvedimento del pubblico ministro finalizzato al ripristino dell’ordinario modus operandi. 8. L’impugnata ordinanza merita di essere confermata anche se in forza di un percorso emeneutico diverso ed anzi contrastante, per molti aspetti, rispetto al ragionamento svolto dal giudice del riesame, che va corretto a norma dell’art. 619.1 c.p.p. senza che tale operazione di rettifica comporti, peraltro, alcun effetto rescindente (Cass., Sez. un., 24 giugno 1998, Kremi). Alla decisione riettiva dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. — La Corte Suprema di cassazione, a sezioni unite, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento. Manda alla cancelleria le incombenze di cui all’art. 94.1-ter n. att. c.p.p. (Omissis).

—————— (1-2)

Intercettazioni in autovettura, eccezionali ragioni di urgenza e motivazione per relationem.

1. Con la sentenza che qui si annota le sezioni unite della Corte di Cassazione affrontano diverse questioni di rilevante importanza, giungendo a soluzioni interpretative che si discostano sensibilmente da orientamenti ritenuti ormai consolidati sia in giurisprudenza che in dottrina. La Corte infatti scioglie innanzitutto rapidamente il dubbio relativo alla operatività, nel caso sottoposto al suo esame, della ipotesi speciale prevista dal comma 2 dell’art. 266 c.p.p. (1), risolvendo il nodo ermeneutico sollevato dalla difesa circa la configurabilità della autovettura (all’interno della quale l’intercetta(1) Come è noto, tale norma, dopo avere stabilito l’estensione della disciplina contenuta nelle disposizioni che la precedono, riguardanti in modo specifico le ‘‘intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni’’, alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, prevede un requisito ulteriore per il caso in cui queste ultime si svolgano in uno dei luoghi contemplati dall’art. 614 del codice penale, vale a dire quando debbano essere eseguite in una dimora privata o nelle sue appartenenze. In tale evenienza è necessario, perché l’intercettazione sia legittima, che sussista il ‘‘fondato motivo che in tali luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa’’, in considerazione della maggiore tutela da garantire ai soggetti passivi, i cui diritti alla libertà e segretezza delle comunicazioni, vengono tanto compressi, se non addirittura annullati. (Sempre che l’indagine non abbia ad oggetto un delitto di criminalità organizzata, per il quale l’art. 13, comma 1 seconda parte della l. n. 203/1991 esclude la obbligatoria sussistenza di tale requisito). Risulta controversa l’applicabilità di tale eccezione alle intercettazioni disposte all’interno di una autovettura, non essendo del tutto pacifico se in ragione dei mutamenti dei costumi una autovettura possa essere considerata alla stregua di una privata dimora, quale concetto comprensivo di ‘‘tutti quei luoghi ove si svolge la vita privata per motivi più diversi (lavoro, studio, commercio, svago, etc.) ed in cui l’individuo si sofferma, anche se non stabilmente, per periodi di tempo pur brevi ma di apprezzabile durata’’ (così, G. FUMU, sub art. 266, in Commento al nuovo c.p.p., coordinato da M. CHIAVARIO, Torino, 1990, p. 778). In senso affermativo si è di recente espressa la seconda sezione della Corte di cassazione (sez. II, 12 marzo 1998, Zagaria, in C.E.D. Cass., n. 212242). Di diverso avviso più numerose pronunce, tra le quali, Cass., sez. I, 22 gennaio 1996, Porcaro in Cass. pen., 1997, 1082; sez. VI, 23 gennaio 2001, De Palma in Cass. pen., 2001, 2751.


— 1452 — zione era stata disposta) come luogo di privata dimora ai sensi dell’art. 614 c.p., attraverso l’indicazione (2), all’interno del provvedimento autorizzativo del g.i.p., di uno specifico passaggio nel quale l’intercettazione risulta motivata conformemente a quanto richiesto dall’art. 266 cpv. c.p.p. E poi si dedica alla risoluzione delle questioni della applicabilità del terzo comma dell’art. 268 c.p.p. alle intercettazioni di comunicazioni diverse da quelle telefoniche e della obbligatorietà o meno della emissione da parte del p.m. dei decreti esecutivi di intercettazioni già autorizzate in caso di proroga delle stesse ai sensi dell’art. 267 comma 3 c.p.p., nonché del chiarimento circa la necessità che il p.m. motivi puntualmente il decreto esecutivo stesso in ordine al requisito delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’. La dottrina maggioritaria (3), nonché la giurisprudenza pressocché costante (4) hanno da sempre negato che la disciplina contenuta nel comma 3 dell’art. 268 c.p.p. possa essere applicata anche alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti (5), lamentando anzi la lacuna normativa da ciò derivante (6), in evidente contrasto con il dettato dell’art. 15 Cost., che rappresenta il necessario parametro di legittimità della intera disciplina codicistica sulle intercettazioni (7). La disposizione del comma 3 dell’art. 268 c.p.p., in effetti, secondo la quale, affinché le operazioni di intercettazione possano essere considerate legittime anche se effettuate mediante impiego di impianti di pubblico servizio o in dotazione alla p.g. (8), devono sussistere contestualmente le due condizioni della insufficienza o inidoneità degli impianti installati nelle procure della Repubblica da una parte, e le eccezionali ragioni di urgenza dall’altra, difficilmente può essere stata (2) Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, quando, come nella ipotesi alla nostra attenzione, venga dedotto un error in procedendo ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c c.p.p., la Cassazione, pur essendo giudice della sola legittimità, ha la facoltà di esaminare gli atti processuali. (3) In tale senso, tra gli altri, A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 186; G. FUMU, sub art. 266, in Commento, cit., p. 778; A. NAPPI, sub art. 268, in C.P.P. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, a cura di G. LATTANZI-E. LUPO, Milano, 1997, p. 815; L. FILIPPI, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, p. 116; F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, p. 746; E.M. DELL’ANDRO, Intercettazioni ambientali e Costituzione, in Cass. Pen., 1994, p. 1034. Contra: P. BRUNO, Intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 206; G. SPANGHER, La disciplina italiana delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in Arch. pen., 1994, p. 10. (4) Ad es., Cass., sez. I, 8 luglio 1994, Morabito ed altri, in C.E.D. Cass., n. 199908; sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante ed altri, in Cass. pen., 1999, p. 1518; sez. VI, 16 dicembre 1997, Scollo, in Cass. pen., 1999, p. 1863; sez. I, 8 gennaio 1998, Fornaro, in C.E.D. Cass., n. 210149. (5) La legittimità delle intercettazioni c.d. ambientali nella vigenza del codice abrogato era tutt’altro che pacifica, vista da una parte la riserva di legge contenuta nell’art. 15 Cost., che impone di ritenere ammissibili le sole misure restrittive della segretezza e libertà delle comunicazioni espressamente previste dal legislatore e dall’altra la mancanza di qualsiasi previsione in tale senso nell’art. 266-bis c.p.p. abr. Tra coloro che, sulla base di tali considerazioni erano indotti ad escluderne la legittimità, G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1979, p. 33. (6) Ad esempio, A. CAMON, Le intercettazioni, cit., p. 191; F. RUGGERI, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Milano, 2001, p. 71 ss. (7) L’art. 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza delle comunicazioni, dichiarate ‘‘inviolabili’’ nel comma 1, stabilisce infatti al comma successivo che ogni limitazione può avvenire esclusivamente ‘‘per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge’’. ‘‘Anche a non considerare le ‘‘garanzie’’ previste dall’art. 15 Cost. come perfettamente equivalenti ai ‘‘casi e modi’’ di cui all’art. 14 Cost., la riserva di legge non sembra rispettata: è lasciato all’autorità giudiziaria il clou dell’operazione’’, proprio perché, si ritiene, il legislatore dell’88 avrebbe omesso di affrontare ‘‘il problema più delicato delle intercettazioni ambientali: come debbano essere effettuate’’: così, A. CAMON, Le intercettazioni, cit., p. 189. Nello stesso senso, ancora più di recente, F. RUGGERI, Divieti probatori, cit., p. 71 ss. (8) La scelta di evitare, per quanto possibile, che le operazioni siano compiute con l’utilizzo di impianti esterni alle procure deriva dall’esigenza di porre sotto il controllo dell’autorità giudiziaria la esecuzione delle operazioni di intercettazione anche da un punto di vista tecnico (soprattutto alla luce del dettato dell’art. 15 Cost. e della fondamentale sentenza della Corte cost. 6 aprile 1973, n. 34, in Giur. cost., 1973, p. 316 ss.), laddove la sottrazione del controllo al magistrato potrebbe causare una ‘‘neutralizzazione’’ pratica delle garanzie di cui l’intercettazione è fornita. In tal senso G. ILLUMINATI, La disciplina processuale, cit., p. 104.


— 1453 — dettata dal legislatore per una ipotesi diversa da quella in cui debbano essere eseguite delle intercettazioni telefoniche. Soltanto per queste ultime, infatti, è sempre possibile fare ricorso agli impianti stabili localizzati negli uffici delle procure, in cui sono predisposti gli apparati di ascolto e registrazione di comunicazioni effettuate per mezzo del telefono. Le intercettazioni di comunicazioni tra presenti, al contrario, sono quasi sempre tecnicamente incompatibili con strutture fisse e centralizzate di ascolto, dovendo quest’ultimo essere eseguito mediante strumenti a ciò predisposti, dotati di tecnologie diverse rispetto agli impianti delle procure e soprattutto mobili. L’opinione appena indicata risulta a tal punto diffusa in dottrina che, sulla scorta di essa, si è giunti ad affermare che la ammissibilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, pur essendo formalmente condizionata ai medesimi presupposti richiesti per le intercettazioni telefoniche, di fatto sarebbe di gran lunga più limitata, essendo sempre subordinata alla sussistenza del requisito, non sempre ricorrente per gli altri tipi di intercettazione, delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’ (9). Ulteriori elementi a sostegno della esclusione delle intercettazioni c.d. ambientali dall’ambito di operatività del terzo comma dell’art. 268 c.p.p. sono stati individuati nella lettera del punto 41 dell’art. 2 della legge-delega n. 81/87, e dell’art. 89 disp. att., dai quali sembrano effettivamente potersi desumere gli argomenti decisivi a favore della ricostruzione in esame. In particolare dalla lettera d) del punto 41 è possibile dedurre con esattezza quali fossero le comunicazioni che il legislatore aveva in mente, quando stabiliva l’esigenza della ‘‘individuazione degli impianti presso cui le intercettazioni telefoniche possono essere effettuate’’. Allo stesso modo, con riferimento all’art. 89 disp. att., che, nel disciplinare le modalità di conservazione dei nastri registrati delle intercettazioni, dispone al comma 2 che siano ‘‘collocati in un involucro sul quale sono indicati il numero delle registrazioni contenute, il numero dell’apparecchio controllato, i nomi, se possibile, delle persone le cui conversazioni sono state sottoposte ad ascolto (....) ’’ (10). 2. La sentenza che si annota, discostandosi dalla ricostruzione tradizionale, prosegue in realtà un recentissimo orientamento inaugurato dalla giurisprudenza di legittimità con una pronuncia del 1999 (11) con la quale per la prima volta si rilevava l’arbitrarietà di una ricostruzione della disciplina dettata dagli artt. 266271 c.p.p., che portasse a distinguere — anche solo per taluni aspetti — le intercettazioni di comunicazioni telefoniche da quelle tra presenti. Il principale argomento utilizzato dai giudici per capovolgere l’esegesi del comma 3 dell’art. 268 c.p.p. in quella sentenza, così come in questa pronuncia delle sezioni unite, è stato dedotto dal dato letterale della norma, che non autorizzerebbe alcuna distinzione tra intercettazioni di comunicazioni telefoniche e captazioni inter praesentes. Essa si occupa infatti della esecuzione delle ‘‘operazioni’’ di intercettazione, le quali, come ci dice il comma 1 dell’art. 267 c.p.p., sono quelle previste dall’art. 266 c.p.p., che a sua volta disciplina tanto le intercettazioni dell’un tipo, quanto quelle dell’altro. Inoltre, ha affermato la Corte Suprema, bisogna tenere a mente la ratio sottesa a tale disciplina, introdotta dal legislatore nell’intento di sottoporre le delicate operazioni in oggetto al diretto controllo dell’autorità giudiziaria, al fine soprat(9) Così, G. FUMU, sub art. 266, in Commento, cit., pp. 779, 793; G. SPANGHER, La disciplina italiana, cit., p. 10; F. RUGGERI, Divieti probatori, cit., p. 81. (10) In questo senso E. APRILE, Esecuzione delle operazioni di intercettazione ambientale e utilizzazione di impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica: un nuovo orientamento della Cassazione, in Cass. pen., 2000, p. 1328. (11) Cass., sez. I, 28 settembre 1999, Renelli, in Cass. pen., 2000, con nota di E. APRILE, cit.


— 1454 — tutto di prevenire eventuali abusi da parte della polizia giudiziaria, specialmente nel quadro del dettato costituzionale (12). La definizione dell’ambito di operatività del comma 3 dell’art. 268 c.p.p. è tutt’altro che una questione meramente formale, se si considera la portata delle conseguenze che l’accoglimento dell’una o dell’altra tesi comporta alla luce di quanto dispone il comma 1 dell’art. 271 c.p.p. Tale norma sanziona infatti con la inutilizzabilità i risultati di quelle intercettazioni che siano state eseguite in violazione delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 c.p.p. (13), di modo che la violazione di alcuna di tali disposizioni rende inutili dal punto di vista probatorio i risultati, eventualmente anche decisivi, che siano stati raccolti. La differenza è evidente: qualora infatti, con riferimento a tale ultimo aspetto, si segua l’orientamento fino ad oggi prevalente, si giunge alla inevitabile conseguenza di dover ammettere che, contrariamente a quanto avviene nel caso di intercettazioni di comunicazioni telefoniche, per le quali, quando vengano effettuate mediante l’utilizzazione di impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, è necessario che il pubblico ministero dia conto e della insufficienza e della inidoneità degli impianti esistenti in procura, e delle ragioni di eccezionale urgenza che giustificano il ricorso alle modalità derogatorie pure consentite, nel caso invece di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, dovendosi ritenere la disciplina in esame inapplicabile, non vi sarebbe alcuna necessità di un corrispondente provvedimento da parte del p.m. Cosicché, in mancanza di quest’ultimo, non troverebbe applicazione il comma 1 dell’art. 271 c.p.p. con la relativa sanzione di inutilizzabilità. È vero che una parte della dottrina ha ritenuto che comunque in una ipotesi quale quella di cui si sta discutendo il pubblico ministero non sarebbe esonerato dall’emettere il decreto indicato dall’art. 268 c.p.p., dovendosi ritenere che, essendo in tal caso la inidoneità degli impianti di procura in re ipsa, egli sia tenuto ad indicare il solo requisito delle eccezionali ragioni di urgenza (14). Siffatta soluzione di compromesso, tuttavia, ha lasciato i più insoddisfatti, senza considerare il fatto, di non poco rilievo, per la verità, che il terzo comma dell’art. 268 richiede inequivocabilmente due condizioni che devono contestualmente sussistere, e non già due requisiti alternativi (15). 3. D’altra parte problemi di non certo minore entità comporta l’eventuale accoglimento della ricostruzione interpretativa fornita da ultimo dalla Corte. Da un punto di vista strettamente formale infatti essa appare ineccepibile; è vero, e non può essere posto in discussione, il fatto che il capo IV del titolo III del Libro sulle prove contenga la disciplina di tutti i tipi di intercettazioni, aventi ad oggetto indifferentemente sia le comunicazioni che avvengono via telefono, sia quelle tra presenti. È vero che non sussistono elementi rinvenibili nel testo delle (12) Secondo l’insegnamento che la Corte costituzionale ci ha dato con la citata sentenza n. 34, l’esigenza che l’autorità giudiziaria ‘‘esercit(i) anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e nei limiti della autorizzazione’’ discenderebbe infatti direttamente dal comma 2 dell’art. 15 Cost., e in particolare dal riferimento contenuto nella medesima norma alle ‘‘garanzie stabilite dalla legge’’. La sentenza che si annota espressamente richiama tale passaggio. (13) La medesima sanzione colpisce, sempre secondo quanto dispone il comma 1 dell’articolo in esame, i risultati delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge. (14) L. FILIPPI, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 187; G. FUMU, sub art. 266, in Commento, cit., p. 793. (15) E. APRILE, Esecuzione, cit., p. 1333, il quale a ragione osserva come, aderendo a tale soluzione interpretativa, si giunga inevitabilmente a disconoscere il contenuto prescrittivo della norma.


— 1455 — disposizioni che inducano, o possano indurre l’interprete ad operare una distinzione tra la regolamentazione dei due tipi di intercettazione. Tuttavia, resta il fatto che la pronuncia in esame, nel suo rigore logico (nel testo della sentenza i giudici parlano di ‘‘linearità logica e sistematica della più rigorosa soluzione ermeneutica’’), tralascia di considerare ostacoli difficilmente superabili che sembrano frapporsi alla invocata ‘‘linearità logica’’. Come sopra si è accennato, è un dato empirico insormontabile quello secondo il quale soltanto per le operazioni di intercettazione di comunicazioni telefoniche vere e proprie e per alcuni tipi di intercettazioni di comunicazioni ambientali (16) è possibile impiegare le apparecchiature localizzate negli uffici della procura. Negli altri casi di intercettazioni ambientali, invece, è assolutamente necessario il posizionamento della base mobile di ascolto nelle vicinanze del luogo in cui l’intercettazione deve avvenire. Per queste ipotesi, anzi, sembrando il terzo comma dell’art. 268 c.p.p. formulato esclusivamente per le intercettazioni telefoniche, si è da più parti sottolineato il vuoto di regolamentazione, non essendovi alcuna altra norma, oltre a quella in esame, che disciplini i mezzi tecnici con i quali è possibile intercettare tali conversazioni (17). Condivisibile o no, comunque i giudici di legittimità hanno operato una precisa scelta ermeneutica. Essi ritengono che l’art. 268 c.p.p., ed in particolare il terzo comma, sia applicabile anche alle intercettazioni ambientali. Si può verosimilmente ritenere che tale opzione da parte della Cassazione sia stata determinata in buona misura dall’intento di colmare la lacuna di cui sopra si parlava, nella consapevolezza che la materia che ci occupa debba essere quanto più possibile sottratta ai pericoli di abuso, spesso favoriti dalla mancanza di una disciplina dettagliata, dovendosi in tutti i modi scongiurare un utilizzo generalizzato dello strumento delle intercettazioni (18). Così come, d’altra parte, alla opposta lettura della stessa norma la giurisprudenza era stata indotta dal timore che, considerando gli eccezionali motivi di urgenza alla stregua di un’ulteriore presupposto di ammissibilità delle intercettazioni ambientali, l’art. 266 comma 2 c.p.p. avrebbe trovato scarsissima applicazione (19). 4. Una delle censure della difesa nel caso in esame concerneva la mancanza, nel decreto esecutivo del pubblico ministero, della motivazione in ordine al requisito delle ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’, così come prescritto dal comma 3 dell’art. 268 c.p.p. Non essendo possibile rinvenire nel provvedimento del pubblico ministero alcun riferimento a tale condizione (20), i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto di poter fare ricorso alla motivazione per relationem, sostenendo che anche (16) Vi sono infatti alcuni tipi di intercettazioni ambientali, esattamente quelle in cui viene utilizzata una microspia collegata alla linea telefonica, che sono suscettibili di essere eseguite con le stesse modalità di una intercettazione telefonica, per le quali può al limite ammettersi l’applicabilità del comma 3 dell’art. 268. (17) G. FUMU, sub art. 266, in Commento, cit., p. 778; A. CAMON, Le intercettazioni, cit, p. 189. (18) Sottolinea l’esigenza che ‘‘il ricorso alle intercettazioni (sia) previsto in via sussidiaria, quando si dimostri in concreto la grave difficoltà di utilizzare altro accertamento probatorio e ponendo in relazione proporzionale alla gravità del caso concreto la lesione del diritto alla privacy’’, G. PANSINI, Relazione conclusiva al Convegno di Osimo del 10-12 marzo 1994, in Arch. Pen., 1994, p. 163. (19) Chiarisce questo aspetto, A. CAMON, Le intercettazioni, cit., p. 188. (20) È opportuno sottolineare che in giurisprudenza, sulla base della considerazione che l’eccezione prevista dal comma 3 dell’art. 268 costituisce la regola nel caso delle intercettazioni inter praesentes, non è del tutto pacifico che il pubblico ministero debba sempre fornire la motivazione relativa al compimento delle operazioni mediante impianti esterni rispetto a quelli delle procure. In questo senso si è, ad esempio, espressa Cass., sez. V, 24 settembre 1998, Burgio, in Cass. pen., 2000, p. 1324, secondo la quale ‘‘il principio in base al quale, di regola, le operazioni devono essere svolte presso la procura della Repubblica (principio al quale si può derogare solo in casi particolari e con provvedimento sorretto da


— 1456 — se effettivamente il pubblico ministero non si era pronunciato specificamente sul punto, nelle premesse del provvedimento in questione vi era comunque un richiamo al decreto autorizzativo del giudice, al quale si doveva fare riferimento per integrare il contenuto del decreto esecutivo. Tale modo di motivare, che consiste nel rinvio ad un atto diverso da quello la cui motivazione è in discussione, idoneo a colmare la lacuna in quest’ultima riscontrata, è stato escogitato dalla prassi, insieme alla motivazione c.d. implicita, proprio per poter operare il salvataggio di provvedimenti apparentemente viziati, arginando così i ricorsi, sempre numerosissimi, per difetto di motivazione. Molto spesso tali espedienti risultano assai efficaci dal punto di vista dell’economia complessiva del processo, dovendosi riconoscere la superfluità di duplicazioni inutili; tuttavia, in ossequio alla funzione garantistica costituzionalmente riconosciuta alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, ed al fine di scongiurare un uso arbitrario di tale modalità, in dottrina sono state elaborate delle condizioni, che più avanti si vedranno sinteticamente, in assenza delle quali non è possibile parlare legittimamente di motivazione per relationem. Ora, il passo della motivazione del decreto autorizzativo del giudice per le indagini preliminari utilizzato dalla Corte come secondo termine della relatio, è rappresentato dal riferimento ivi contenuto alla attualità dello svolgimento dell’attività criminosa, che equivarrebbe, secondo l’opinione dei giudici di legittimità, al requisito delle ragioni eccezionali di urgenza richiesto dall’art. 268 c.p.p. Come sopra si accennava, ciò che in questa sede interessa accertare è la ‘‘tenuta’’ della scelta fatta dai giudici della Cassazione secondo quegli stessi canoni di logica, rigore formale, e coerenza sistematica che in questo specifico caso (per espresso riconoscimento dei giudici), così come d’altra parte in numerosi altri, hanno rappresentato gli strumenti e al tempo stesso gli obiettivi del loro operare. Si tratta allora di verificare in primo luogo la legittimità nel caso in esame del ricorso alla motivazione per relationem chiamata in causa per ‘‘salvare’’ un provvedimento altrimenti censurabile; in secondo luogo, la legittimità della identificazione dai giudici operata tra il requisito delle eccezionali ragioni di urgenza richiesto dall’art. 268 c.p.p. e lo svolgimento dell’attività criminosa, l’interruzione della quale integrerebbe l’eccezionale urgenza. Per quanto riguarda il primo problema, la dottrina più attenta ha indicato alcuni requisiti che la motivazione per relationem deve rispettare per poter essere ritenuta legittima (21): in primo luogo, il rinvio operato all’interno del provvedimento in cui è dato riscontrare la lacuna da colmare deve essere esplicito; in secondo luogo, deve sussistere il requisito della legittimazione a motivare, nel senso che l’atto cui si fa rinvio non deve provenire da soggetti diversi da quelli che abbiano partecipato alla deliberazione del provvedimento della cui motivazione si tratta (22); infine, è necessario che tra i due termini oggetto della relatio vi sia un adeguata motivazione) è applicabile solo alle intercettazioni telefoniche; per quelle ambientali deve viceversa ritenersi ordinaria la utilizzazione di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria’’. (21) È bene osservare che è comunque sempre necessario, come puntualizza E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., XXVII, 1977, p. 227, verificare in via preliminare che nel caso di volta in volta in esame si tratti di una tecnica di esposizione dei motivi, per escludere la possibilità che si tratti di vizio vero e proprio: ‘‘modo e vizio sono (dunque) alternativi’’. (22) Tra i requisiti in esame, quello della legittimazione a motivare è quello che sembra più specificamente pensato come condizione della legittimità della motivazione per relationem di un provvedimento decisorio del giudice. Tuttavia, anche se nel nostro caso si tratta evidentemente di ipotesi diversa, poiché ad essere in questione è un decreto del pubblico ministero, sembra potersi ritenere pacifica la operatività di tale condizione.


— 1457 — rapporto cronologico tale che quello cui si rinvia sia precedente a quello che deve essere integrato (23). Ebbene, nel caso in esame sembra potersi riscontrare effettivamente l’esistenza di tali condizioni, cosiccché la ricostruzione della motivazione del decreto esecutivo del p.m. mediante il ricorso allo schema della relatio, permette ai giudici chiamati a pronunciarsi sulla eccepita carenza di motivazione sul punto, di ‘‘salvare’’, almeno in prima battuta, il provvedimento impugnato (24). Appena però, e veniamo così alla seconda delle questioni prima esposte, si vada ad esaminare il contenuto del decreto autorizzativo del giudice per le indagini preliminari che rappresenta l’oggetto della relatio, emerge ciò che sembra essere una forzatura esegetica. Come sopra si accennava, infatti, la Corte integra la lacuna relativa al requisito delle eccezionali ragioni di urgenza attraverso il riferimento contenuto nel decreto autorizzativo del giudice alla circostanza della attualità dello svolgimento dell’attività criminosa. Il nodo della questione diventa allora la determinazione dell’esatto significato della condizione che, insieme alla inidoneità o insufficienza degli impianti delle procure, l’art. 268 c.p.p. richiede perché si possa legittimamente fare ricorso agli impianti della polizia giudiziaria, vale a dire in cosa consistano le eccezionali ragioni di urgenza. Sembra pacifico che tale espressione indichi tutte quelle situazioni che possono pregiudicare gravemente le indagini, nel senso che un eventuale differimento dell’esecuzione della intercettazione determinerebbe più che probabilmente la impossibilità di dare seguito alle investigazioni, quando vi siano buoni motivi per ritenere che esse si stiano svolgendo nella giusta direzione e per prevedere di conseguenza sviluppi determinanti. Spesso si puntualizza, poi, che tale clausola debba essere valutata anche in considerazione della gravità del reato sul quale si sta investigando e dell’allarme sociale che esso suscita (25). Sembra considerazione di buon senso quella che rimarca come il ricorso ad un mezzo tanto invasivo di libertà costituzionalmente garantite debba essere limitato soltanto a situazioni di una certa entità. Dunque, le ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’ di cui parla l’art. 268 c.p.p. sono quelle che permettono di procedere senza esitazione, secondo l’ipotesi derogatoria che consente di fare uso di apparecchi ‘‘di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria’’ affinché non svanisca irrimediabilmente la possibilità di portare (23) Così, D. SIRACUSANO, I provvedimenti penali e le motivazioni implicite, ‘‘per relationem’’, e sommarie, in questa Rivista., 1958, pp. 369 ss., 393 ss.; E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, cit., p. 232; M. MASSA, voce Motivazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, p. 6. (24) Nonostante quanto appena esposto circa la correttezza formale, nel caso in esame, del ricorso alla motivazione per relationem, non sembra fuori luogo comunque sottolineare quanto tale modo di motivare costituisca una prassi tanto diffusa quanto pericolosa, per la fisionomia che la responsabilità di chi è chiamato a dare spiegazione del proprio decidere tende ad assumere in tali situazioni: rinviando ad un dato esterno, il soggetto finisce per sottovalutare il compito che gli è affidato, sminuendo, di fatto la fondamentale funzione garantistica che sempre deve caratterizzare la motivazione. In questo senso, tra gli altri, E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, cit., p. 231 (anche se con riguardo alla motivazione per relationem del decreto autorizzativo del giudice rispetto alla richiesta del p.m.); P. BRUNO, voce Intercettazioni, cit., p. 193; CAMON, Le intercettazioni, cit., p. 114, secondo il quale appunto ‘‘questo modo di motivare diminuisce il livello d’attenzione ed il coinvolgimento del giudice nell’operazione decisoria’’. Sostiene invece la legittimità del ricorso a tale modo di motivare, a patto che non si tratti di un mero rinvio alla esposizione delle ragioni contenute in un diverso provvedimento, ma in un recepimento che lasci presupporre una previa valutazione critica, A. NAPPI, sub art. 266, in C.P.P. Rassegna, cit., p. 809. (25) Così, ad esempio, FUMU, op. cit., p. 792, ‘‘Le eccezionali ragioni di urgenza (...) impongono l’esistenza di situazioni di assoluta necessità, in cui la gravità del pregiudizio per le indagini, che la deroga al principio generale potrebbe evitare, deve essere rapportata anche al rilievo sociale del fatto su cui si svolgono accertamenti’’.


— 1458 — avanti in maniera efficace le indagini su di un reato che, per la sua natura e per le modalità con le quali è perpetrato, determina un rilevante allarme sociale. 5. Così definita, non sembra che la condizione prevista dal comma 3 dell’art. 268 c.p.p., possa ricomprendere al suo interno il diretto riferimento alla necessità di reprimere i reati, così come mostrano di ritenere i giudici della Corte di legittimità. Scopo primario del processo penale è l’accertamento della verità di un fatto che nell’ipotesi formulata dall’accusa è addebitato ad una o più persone determinate, la cui responsabilità è quindi evidentemente in questione. Quando un reato ha già raggiunto la soglia della consumazione, lo scopo delle indagini è quello di raccogliere elementi utili alla ricostruzione del fatto illecito. Di modo che l’eventuale esperimento di una intercettazione è volto, quando vi siano tutti i presupposti richiesti dalla legge, al reperimento di informazioni che possano servire a ricomporre fatti e responsabilità che appartengono ormai al passato. Quando al contrario gli accertamenti riguardano un delitto ‘‘a condotta dilazionata nel tempo’’ (26) che sia ancora in corso di svolgimento, allora certamente il quadro muta. All’esigenza di reperire elementi utili alle indagini — esigenza che, ai sensi del comma 1 dell’art. 267 c.p.p., assume il carattere della assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini stesse, qualora si ritenga di disporre in particolare una intercettazione — si affianca senza dubbio anche il dovere di fare cessare quanto prima l’esecuzione della condotta criminosa. Ma questo non è uno scopo che può essere immediatamente ricollegato all’esperimento di una intercettazione. Tale finalità va senz’altro annoverata tra quelle generali che sono alla base di tutta l’attività di investigazione del pubbblico ministero e della polizia giudiziaria (l’art. 55 c.p.p. parla espressemente dell’obbligo, tra gli altri, posto a carico della p.g., di impedire che i reati di cui abbiano preso conoscenza siano portati a conseguenze ulteriori). E tuttavia, pur nella sua fondamentale importanza, non può essere considerato il fine caratterizzante l’istituto delle intercettazioni: se così fosse, allora bisognerebbe disconoscere, almeno nelle ipotesi cui fa riferimento la 2o parte del comma 2 dell’art. 266, la vincolatività delle disposizioni che subordinano il ricorso a tale mezzo di ricerca della prova all’esistenza di determinati presupposti, nonché di quelle, per quanto qui maggiormente ci interessa, che ne disciplinano formalmente le modalità di esecuzione. Qualunque modalità potrebbe ritenersi legittima, perché giustificata dal perseguimento di tale primario obiettivo: la repressione del reato. 6. Al limite tale conclusione potrebbe ammettersi nell’ottica di chi, pur non mancando di evidenziare profili di illegittimità costituzionale ritiene, come la dottrina dominante, che vi sia riguardo alle intercettazioni di comunicazioni ambientali il ‘‘ silenzio del codice’’, nel senso che — come si è visto precedentemente — il legislatore avrebbe in sostanza omesso di regolamentarne le modalità esecutive, lasciando di fatto tale compito interamente al pubblico ministero (anzi alla polizia giudiziaria (27)) per l’impossibilità tecnico-pratica di estendere le norme che si oc(26) Così, BRUNO, voce Intercettazioni, in Dig. disc. pen., cit., p. 185, il quale sottolinea come anzi a tali fattispecie sia limitata l’applicabilità della disciplina delle intercettazioni ambientali, quando queste ultime debbano essere disposte in uno dei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. In tali ipotesi, l’intercettazione ambientale è consentita solo qualora vi sia ‘‘fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa’’, risultando così esclusa la possibilità di procedere ad intercettazioni ambientali post factum. Sollevano riserve su tale scelta del legislatore diversi autori in dottrina, come ad esempio, F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 739; F. RUGGERI, Divieti probatori, cit., p. 76. (27) Si ritiene infatti che il p.m., pur essendo autorizzato dal comma 3 dell’art. 267 c.p.p. ad indicare le modalità esecutive delle operazioni, non possa prevedere, nel momento in cui emette tale decreto, quali siano in concreto le modalità più idonee al caso concreto, a causa della molteplicità delle variabili


— 1459 — cupano di tale settore alle operazioni volte ad intercettare comunicazioni inter praesentes. Allora forse tale strada potrebbe pure ritenersi percorribile: nel silenzio della legge, la ‘‘libertà di movimento’’ è innegabilmente maggiore. Ma se si afferma, così come fanno i giudici con la sentenza che si annota, che non vi sono ragioni per escludere l’applicabilità di tali norme alle intercettazioni c.d. ambientali, allora il discorso si fa meno semplice: una volta che si ammetta in particolare che il terzo comma dell’art. 268 c.p.p. trovi applicazione anche nel caso di quel tipo di intercettazioni, bisogna restare fedeli a quanto tale norma prescrive. E tale norma prescrive l’esistenza di ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’, insieme alla insufficienza o inidoneità degli impianti della procura, per poter eseguire le operazioni con gli impianti di pubblico servizio o in dotazione alla p.g. Le quali ‘‘eccezionali ragioni di urgenza’’ in nessun modo possono essere identificate con la necessità di ‘‘far cessare al più presto l’attività criminosa in atto e salvaguardare gli interessi della collettività’’ (28), dovendo essere invece ricollegate al pericolo di pregiudicare irrimediabilmente le indagini, il quale, a rigore, nel caso che si tratta non sembra rinvenibile, ben potendosi ipotizzare una ragionevole attesa proprio in considerazione della natura ‘‘di durata’’ del delitto in questione. Cosicché appare evidente la forzatura consistente nell’adattare una circostanza contenuta nel decreto autorizzativo del giudice (l’attualità dello svolgimento dell’attività criminosa) e ‘‘ ripescata’’ attraverso lo strumento della motivazione per relationem, per ‘‘addossarle’’ il ruolo assegnato dall’art. 268 c.p.p. alle ragioni di urgenza. In tale prospettiva la vicenda oggetto della presente analisi offre lo spunto per formulare alcune considerazioni di carattere generale, e cioè che se fosse consentito mutare a proprio piacimento il significato delle norme in nome del prevalente interesse alla repressione dei reati, così come di quello, fondamentale, certo, ed ineludibile del processo penale, della ricerca della verità (29), non avrebbe senso neppure l’intero codice di procedura penale. Il quale non è altro, complessivamente inteso, che lo sforzo di trovare un punto di equilibrio tra ‘‘l’esigenza di raggiungere in ogni caso l’accertamento della verità e l’esigenza di assicurare, nel corso di tale accertamento, il rispetto delle libertà individuali garantite dalla Costituzione’’ (30). 7. Qualche perplessità suscita anche la presa di posizione della Cassazione in merito alla questione relativa all’omesso provvedimento esecutivo del pubblico ministero successivamente al decreto di proroga della durata delle operazioni da che possono di fatto presentarsi. Di modo che, in definitiva, è la stessa polizia giudiziaria — alla quale il legislatore costituente aveva vietato di intervenire di propria iniziativa anche in casi di urgenza, principalmente in considerazione del fatto che le intercettazioni ‘‘incidono sempre anche su un altro soggetto’’: A. PACE, Commento all’art. 15, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, Rapporti civili, Bologna, 1977, p. 106, il quale, nel fornire tale spiegazione, ne sottolinea la differenza rispetto a quanto può invece avvenire in tema di libertà personale, in forza dell’art. 13 comma 3 Cost., — a decidere come eseguire un’intercettazione ambientale. Certamente la disciplina delle modalità esecutive manca anche nel caso delle intercettazioni telefoniche. ‘‘Ma il silenzio del codice, in questo caso, si spiega perché non c’è nulla da regolamentare’’, così: A. CAMON, Le intercettazioni, cit., pp. 189, 190. (28) Così la sentenza che si annota. (29) Non è fuor di luogo ricordare come tale parametro — insieme a quello del tutto inedito della ‘‘non dispersione dei mezzi di prova’’ — sia stato utilizzato dalla Corte costituzionale nella nota e discussa sentenza n. 255/1992, (in La giurisprudenza della Corte costituzionale sul processo penale, II, Milano, 1992, 315) per giustificare il sacrificio del contraddittorio a tutela del quale era posta la regola di esclusione probatoria (oggi sostanzialmente reintrodotta dall’art. 16, l. 1o marzo 2001, n. 63) contenuta nel comma 3 dell’art. 500 c.p.p., da tale pronuncia dichiarato illegittimo. (30) Così, V. GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte Costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche, in Giur. cost., 1973, p. 340.


— 1460 — parte del giudice in forza del comma 3 dell’art. 267 c.p.p. È vero che dal dato letterale non è possibile trarre conclusioni nel senso che al provvedimento di proroga del giudice debba necessariamente seguire un ulteriore decreto esecutivo da parte del pubblico ministero. È altrettanto vero, però, che sembra discutibile l’assunto posto dalla Cassazione — a fondamento della tesi della non necessarietà di un successivo decreto che chiarisca se le condizioni che giustificavano determinate modalità scelte dal p.m. dopo il primo provvedimento di autorizzazione del giudice permangono oppure no — secondo il quale ‘‘la proroga, come autorizzazione motivata del giudice, funzionale all’esigenza di comprimere per successivi periodi di 15 giorni oltre il limite ordinario la sfera di riservatezza delle comunicazioni private, (...), incide esclusivamente sulla durata delle operazioni d’ intercettazione e (...) non costituisce affatto — di per sè — un segnale automatico di discontinuità rispetto all’originario assetto dispositivo dell’intercettazione’’. È infatti contestabile che la proroga incida esclusivamente sulla durata delle operazioni, se si considera che ‘‘prolungare il periodo di tempo ritenuto, in precedenza, adeguato, implica una nuova compressione del diritto al segreto (....)’’ (31). La concessione della proroga presuppone al contrario una attenta riconsiderazione dei requisiti richiesti dal comma 1 dell’art. 267 c.p.p., riconsiderazione che deve trovare riscontro adeguato nella motivazione del provvedimento di accoglimento della richiesta del p.m. Si comprendono, allora, le ragioni per le quali sarebbe opportuno che in un caso come quello che si sta esaminando, che rientra nella ipotesi derogatoria del comma 3 dell’art. 268 c.p.p., il pubblico ministero emettesse un ulteriore decreto esecutivo, necessario a giustificare l’eccezione rappresentata dalla utilizzazione di impianti diversi da quelli delle procure della repubblica. Tale interpretazione sembra confermata anche dalla opinione espressa in dottrina, secondo la quale, proprio perché l’ipotesi disciplinata dalla norma in discorso rappresenta l’eccezione rispetto alla regola, ‘‘(...) cessata l’urgenza, e, quindi, trascorso un periodo di tempo necessariamente breve, l’operazione deve tornare a svolgersi nella sua sede naturale’’ (32). È evidente come alla luce di tale opinione, risulti imprescindibile l’adozione, successivamente al decreto di proroga, di un ulteriore decreto esecutivo da parte del p.m., a nulla valendo, a ben vedere, l’obiezione spesso formulata secondo la quale il rappresentante dell’accusa non sarebbe tenuto a tale adempimento qualora non vi siano significativi mutamenti di fatto nella situazione condizionante il ricorso ad impianti esterni alla procura. Trattandosi di una deroga rispetto alle ordinarie modalità di esecuzione delle operazioni, è necessario infatti che la situazione legittimante tale deroga sia oggetto di nuova e specifica verifica, la quale a sua volta deve essere resa conoscibile all’esterno mediante una puntuale motivazione. Tale conclusione sembra possa essere giustificata in base alla stessa ratio che sorregge le argomentazioni con le quali la dottrina più attenta scoraggia la frequente tendenza dei giudici che accolgono l’istanza del pubblico ministero di protrarre le operazioni oltre il limite fissato a motivare il relativo provvedimento secondo la modalità per relationem (33). Qual’è la ragione che induce a criticare la prassi di motivare il provvedimento (31) A. CAMON, Intercettazioni, cit., p. 142. (32) Così, P. BRUNO, voce Intercettazioni, cit., p. 191. È vero che l’opinione a cui ci si richiama generalmente è riferita alle sole ipotesi di intercettazioni telefoniche e non a quelle ambientali; tuttavia, come si è già avuto modo di osservare, se la opzione esegetica della Cassazione con la presente sentenza è nel senso della riconducibilità di tali ultime ipotesi alla sfera di operatività del comma 3 dell’art. 268 c.p.p., la medesima opinione deve ritenersi valida anche per quei casi. (33) A. CAMON, Le intercettazioni, cit., ‘‘(...)motivare per relationem il prolungamento del controllo significa rendere sfuggente il discorso giustificativo del giudice: se presupposto della proroga è la


— 1461 — di proroga mediante il rinvio al contenuto del precedente decreto autorizzativo se non la consapevolezza che, trattandosi di valutazione di dati concretamente soggetti a possibili modificazioni (così come accade nella ipotesi di cui si discute), nulla può essere dato per scontato, dovendosi invece procedere ad una nuova ed indipendente verifica, necessaria per accertare ex novo se ancora sussistano le condizioni per sacrificare una libertà costituzionalmente garantita? In conclusione, così come la motivazione della proroga disposta dal giudice si ritiene debba essere specificamente data, senza possibilità di ricorrere a modalità come quella per relationem, così anche al provvedimento di proroga stesso, soprattutto quando si tratti di una ipotesi rientrante nell’eccezione disciplinata dal 3o comma dell’art. 268 c.p.p., è necessario che segua un ulteriore decreto esecutivo da parte del p.m. LAURA CAPRARO Ricercatrice di procedura penale Università di Roma ‘‘Tor Vergata’’

permanenza delle ragioni che fondavano il decreto originario, allora ciò che l’autorità giudiziaria deve dimostrare è proprio la perdurante attualità di tali requisiti’’, p. 144.


CASSAZIONE PENALE — Sez. V — 19 novembre 2001 Pres. Foscarini A. — Rel. Nappi B. Diffamazione a mezzo stampa - Esercizio del diritto di cronaca - Putatività - Attendibilità della fonte - Confidenza di ufficiale di polizia giudiziaria - Esclusione. In tema di diffamazione a mezzo stampa, poiché non può ritenersi di per sé attendibile la confidenza di un ufficiale di polizia giudiziaria, il cronista, che raccolga, al di fuori delle comunicazioni ufficiali fornite nel corso di una conferenza stampa, ulteriori notizie relative ad attività di indagine, deve assumersi l’onere di verificarle direttamente e di dimostrarne la pubblica rilevanza. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito che avevano ravvisato la sussistenza del delitto di diffamazione in un’ipotesi in cui il giornalista aveva riferito nell’articolo la falsa notizia, appresa nel corso di colloqui informali con un operatore di polizia giudiziaria, del ritrovamento di reperti archeologici sospetti nella casa di un indagato) (1). (Omissis). — FATTO. — 1. Con la sentenza impugnata la Corte d’Appello di Roma confermò la dichiarazione di colpevolezza di ... ..., redattore dell’..., in ordine al delitto di diffamazione ai danni di ... ... I giudici di merito rilevarono che ... ..., nel riferire di una conferenza stampa tenuta dai carabinieri per chiarire le ragioni della misura cautelare applicata a ... ..., aveva riportato anche la falsa notizia del ritrovamento di reperti archeologici sospetti nell’abitazione dell’indagato. Ritennero, perciò, che ... ... dovesse rispondere del delitto di diffamazione in quanto la falsa notizia non era stata comunicata nel corso della conferenza stampa, bensì solo successivamente, in colloqui privati e informali concessi da qualche carabiniere a una parte dei giornalisti. 2. Ricorre per cassazione ... ... e deduce vizio di motivazione per manifesta illogicità e per travisamento del fatto desumibile dal testo della sentenza impugnata. Sostiene che i giudici del merito, travisando il senso dei motivi d’appello, abbiano erroneamente escluso dal contesto della conferenza stampa il colloquio nel corso del quale egli aveva appreso del rinvenimento di reperti archeologici in casa di ... ... Anche quel colloquio, invece, era parte della conferenza stampa, perché, come sempre avviene, i Carabinieri, dopo avere fornito informazioni generiche e generali, avevano abbandonato il tavolo della conferenza e avevano risposto alle domande insistenti dei giornalisti riuniti in distinti ‘‘capannelli’’ e ‘‘gruppetti’’. Sicché doveva considerarsi ufficiale anche la notizia del rinvenimento di reperti archeologici nell’abitazione di ..., come del resto avevano almeno in parte riconosciuto gli stessi giudici d’appello, pur ritenendo contraddittoriamente che quella notizia non fosse attendibile. Infatti ciò che contava, ai fini dell’attendibilità della notizia, era la sua provenienza dai carabinieri, a prescindere dalla considerazione che ne avessero parlato seduti al tavolo della conferenza ovvero in separate conversazioni con i giornalisti. Né i giudici d’appello hanno chiarito, probabilmente per un errore di stampa, per quale ragione fosse irrilevante che due testimoni indicati dalla difesa avessero confermato la provenienza della controversa notizia da


— 1463 — un colloquio con gli stessi carabinieri impegnati nella conferenza stampa. Chiede, pertanto, l’esimente dell’esercizio almeno putativo del diritto di cronaca. DIRITTO. — Il ricorso è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, ‘‘la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte’’ (Cass., sez. V, 8 maggio 1998, C., m. 211539). Si ritiene, in particolare, che, quando sia pubblicata una notizia non vera, non è possibile allegare a riscontro dell’esercizio putativo del diritto di cronaca la provenienza della notizia da fonti privilegiate di informazione, dal momento che per gli organi dello Stato sono previste dalla legge precise forme di pubblicità del loro operato, fuori delle quali non esiste alcuna ufficialità riconoscibile (Cass., sez. V, 14 giugno 1996, S., m. 206793). Sicché è indiscusso che ‘‘non può ritenersi ‘fonte attendibile’ un funzionario di polizia che, violando l’obbligo istituzionale della riservatezza, fornisca notizie ai giornalisti’’ (Cass., sez. VI, 20 giugno 1980, F., m. 147136, Cass., sez. V, 14 giugno 1996, S., m. 206792). In realtà la cronaca giudiziaria è lecita quando diffonde la notizia di un provvedimento giudiziario in sé, specie ove adottato nei confronti di persona investita di pubbliche funzioni, ovvero riferisca o commenti l’attività investigativa o giurisdizionale; non lo è invece quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario vengano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare, o a sostituire, gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti, ed autonomamente offensive; in tal caso il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, senza poter esibire il provvedimento giudiziario quale sua unica fonte di informazione e di legittimazione (Cass., sez. V, 2 giugno 1998, S., m. 211635). Nel caso in esame la falsità della notizia riferita da ... ... è indiscussa. Come è indiscusso che quella falsa notizia non fu comunicata a tutti i giornalisti presenti alla conferenza stampa tenuta dai Carabinieri. Sulla base delle prove testimoniali acquisite, pertanto, i giudici d’appello hanno riconosciuto che fu probabilmente un carabiniere a suggerire la notizia a ... ... Ma hanno ritenuto che, in quanto riferita privatamente e a conferenza stampa ormai conclusa, quella notizia non avesse l’attendibilità delle informazioni ufficiali e dovesse essere direttamente verificata dal giomalista. In questo senso va interpretata la sentenza, che, nel valutare le prove testimoniali addotte dalla difesa, richiama le argomentazioni per dimostrare l’irrilevanza della tesi difensiva esposta nei motivi d’appello. Il ricorrente denuncia come contraddittoria l’affermazione di inattendibilità della notizia pur riconosciuta proveniente dai Carabinieri; e lamenta un travisamento del fatto, perché nei motivi d’appello egli aveva incluso nella conferenza stampa anche il momento in cui gli era stato riferito del rinvenimento di reperti archeologi nell’abitazione di ... ... Sennonché, come s’è visto, non può considerarsi di per sé attendibile la confidenza di un ufficiale di polizia giudiziaria; e, quindi, non è illogico il ragionamento esibito dai giudici del merito quando hanno affer-


— 1464 — mato che il giornalista non era esentato da un’accorta verifica della notizia proveniente da un carabiniere. Né può essere considerata travisante la ricostruzione dei fatti proposta dai giudici del merito, sol perché difforme da quella prospettata nei motivi d’appello sull’effettivo svolgimento della conferenza stampa tenuta dai Carabinieri. Secondo una risalente tradizione, invero, si ha travisamento del fatto quando il giudice del merito abbia ammesso un fatto manifestamente escluso dagli atti del procedimento ovvero abbia escluso un fatto manifestamente risultante dagli stessi atti (Cass., sez. II, 22 gennaio 1951, R., in Giust. pen., 1951, III, 213, p. 178; Cass., sez. un., 11 dicembre 1965, T., Riv. pen., 1966, II, p. 156; Cass., sez. I, 24 giugno 1982, C., m. 155099). Mentre nel caso in esame, indiscussa la provenienza della notizia da un carabiniere, i giudici del merito hanno ritenuto che quella comunicazione avvenne in via confidenziale, quando la conferenza stampa si era ormai conclusa. E questa valutazione non è certamente censurabile in questa sede, perché, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con ‘‘i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento’’, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., sez. V, 30 novembre 1999, M. G., m. 215745, Cass., sez. II, 21 dicembre 1993, M., m. 196955). — (Omissis).

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Diritto di cronaca e verità putativa.

1. Per l’ennesima volta la Corte di Cassazione, in ossequio ad un indirizzo ormai costante, si è pronunciata sulla spinosa questione dei rapporti tra l’esercizio putativo del diritto di cronaca e il reato di diffamazione a mezzo stampa (1); e ciò in relazione al caso in cui un giornalista pubblichi, ritenendola rispondente al vero, una notizia (oggettivamente lesiva dell’altrui reputazione) ex post rivelatasi invece priva di fondamento. In effetti sembrerebbe doveroso affermare che tale errore, cadendo sulla sussistenza della stessa scriminante (2), dovrebbe normalmente rilevare e, dunque, (1) Il reato di diffamazione, come noto, può a buon diritto dirsi appartenere al cd. ‘‘diritto penale classico’’. Molti Autori si sono occupati di tale fattispecie, e non è certo questa la sede per una indicazione bibliografica in merito completa: ci sia consentito comunque in questa sede ricordare, a titolo meramente esemplificativo, MESSINA, Teoria generale dei delitti contro l’onore, Roma, 1953, p. 120 ss.; MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, p. 133 ss.; SIRACUSANO, Ingiuria e diffamazione, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 30 ss.; SPASARI, Ingiuria e diffamazione, in Enc. dir., XII, Milano, 1964; VILLA, I delitti contro l’onore, Padova, 1992, p. 452 ss.; per quanto riguarda, in particolare, la diffamazione a mezzo stampa: ARMATI-LA CUTE, Profili penali delle comunicazioni di massa, Milano, 1987, p. 127 ss.; CORASANTI, Diritto dell’informazione, Padova, 1999, p. 191 ss.; POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, Padova, 1998, 2o ed., p. 89 ss.; ZACCARIA, Diritto dell’informazione e delle comunicazioni, Padova, 1998, p. 63 ss.; per la dottrina più risalente v. in particolare NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, p. 27 ss. (2) Come noto nel linguaggio della scienza giuridica italiana, la parola ‘‘scriminante’’, sconosciuta al dettato codicistico, non è certo utilizzata sempre con significati uniformi, tanto che parte della dottrina ne ha criticato l’uso, poiché la sua etimologia (dis+crimen = senza crimine) potrebbe ingenerare ‘‘l’errore di ritenere le cause di non punibilità sussunte sotto tale etichetta quali fatti che eliminano la stessa essenza criminosa del fatto di reato’’ (PETROCELLI, Reato e punibilità, in questa Rivista, 1960, p. 687 ss.). Comunque, si usa qui il termine nel suo significato ormai prevalente di ‘‘causa di giustificazione’’, distinta


— 1465 — scusare, ai sensi dell’art. 59/4 c.p. (3). In realtà, da un esame più approfondito sembra invece emergere, in giurisprudenza, una certa riluttanza ad accogliere tale assunto: si può anzi arrivare ad affermare che coerentemente con quanto generalmente si verifica per le altre ipotesi di scriminante putativa (4), a simile errore non è mai stato attribuito lo stesso effetto scusante di regola riconosciuto all’errore sul fatto (5). dalla ‘‘causa scusante’’ e dalla ‘‘causa di esclusione della punibilità’’, etichetta sotto cui si raggruppano tutte quelle cause ‘‘esimenti’’ non riconducibili alle prime due categorie. Per una interessante analisi sui nomina delle varie cause di ‘‘non punibilità’’ si veda CONCAS, Scriminanti, in N.mo Dig. It., XVI, 1969, p. 793; nonché ROMANO, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in questa Rivista, 1990, p. 55 ss. Per quel che invece riguarda la natura e il ruolo delle giustificanti nel sistema penale, si vedano ANGIONI, Le cause che escludono l’illiceità obiettiva penale, Milano, 1930, passim; AZZALI, La causa e lo scopo nella teoria dei limiti scriminanti, in Bollettino dell’Ist. di Dir. e proc. pen., Pavia, 19601961, p. 37 ss.; CONTENTO, Limiti della norma e fattispecie non punibili, in Arch. pen., 1965, I, p. 322 ss.; GIULIANI, Le norme di liceità nel diritto penale, in questa Rivista, 1974, p. 812 ss.; HIRSCH, La posizione di giustificazione e scusa nel sistema del reato, in questa Rivista, 1991, p. 758 ss.; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, in questa Rivista, 1953, p. 1242 ss.; ID., Cause di giustificazione, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1958, p. 143 ss.; ROMANO, Giustificazione e scusa nella liberazione da particolari situazioni di necessità, in questa Rivista, 1991, p. 40 ss.; SANTAMARIA, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, Napoli, 1960, p. 9 ss.; SPAGNOLO, Gli elementi soggettivi nella struttura delle scriminanti, Padova, 1980, p. 10 ss. (3) È chiaro che, perché l’errore su tale scriminante possa rilevare, esso deve consistere non in un errore sull’esistenza del diritto o sulla sua portata, ma in un errore su un presupposto fattuale dell’esercizio di tale diritto: in altri termini, alla luce del diverso trattamento riservato dal codice all’errore sul fatto e all’errore sul precetto, non sarà, ad esempio, scusabile quel giornalista che ritenga che il diritto di cronaca permetta anche la pubblicazione di notizie false, o di notizie che non hanno alcun rilievo sociale. Questo è, d’altra parte, un principio valido per qualsiasi scriminante, applicato come tale costantemente dalla giurisprudenza: si legge, ad esempio che ‘‘l’errore non scusa quando cade sugli elementi costitutivi del diritto di cronaca o sul diritto stesso: quando, cioè, l’agente, in particolare, ritiene — per errore — che la verità dei fatti narrati sia non necessaria (o quantomeno indifferente) per l’esercizio (legittimo) del diritto di cronaca non può addurre questa opinata circostanza per invocare l’esclusione della punibilità a proprio favore... venendo in discussione la portata giuridico-penale della norma che istituzionalizza l’esimente è ovvio che resti intatta la colpevolezza per il fatto commesso dall’agente’’ (Cass., 26 marzo 1983, in Cass. pen., 1985, p. 273). In dottrina si veda in particolare GROSSO, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, p. 81 ss.; nonché PIACENZA, Errore ed ignoranza di diritto in materia penale, Torino, 1960, p. 54, il quale afferma che ‘‘non è che si possano invocare a fondamento della esclusione della punibilità quegli errori che riguardano gli estremi legali della giustificante o che altrimenti si possa richiamare a favore del soggetto l’ignoranza dei suddetti estremi’’. Questa soluzione non è insomma null’altro che il precipitato logico della distinzione ontologica e della diversa disciplina riservata dal codice penale ad errore sul fatto ed errore sul precetto: sui confini esatti di tale distinzione, ed in generale sulla rilevanza dell’errore nel diritto penale, si vedano, tra gli altri, FROSALI, L’errore nella teoria del diritto penale, Roma, 1933, passim; ID., Errore, in N.mo Dig It., Torino, 1960, VI, p. 672 ss.; GALLI, L’errore di fatto nel diritto penale, Milano, 1948, p. 1 ss.; GRAZIANO, L’ignoranza e l’errore nel diritto penale, Roma, 1997, p. 11 ss.; GROSSO, Errore, in Enc giur. Treccani, Roma, 1989, XIII, p. 3 ss.; PALAZZO, ‘‘Voluto’’ e ‘‘realizzato’’ nell’errore sul fatto e nell’aberratio delicti, in Arch. giur., 1973, p. 27 ss.; PIACENZA, Errore ed ignoranza di diritto in materia penale, Torino, 1960, p. 1 ss.; PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 1 ss.; SANTUCCI, Errore, in Enc. dir., Milano, XV, 1966, p. 280 ss. (4) Il principio affermato nella massima, infatti, non è applicato dalla giurisprudenza solo all’esercizio putativo del diritto di cronaca, ma a tutti i casi di erronea supposizione della sussistenza di una giustificante. V., in particolare, per l’errore sulla legittima difesa, Cass., 25 gennaio 1991, in Cass. pen., 1992, p. 1216; o ancora Cass., 7 ottobre 1988, in Cass. pen., 1989, p. 2000, secondo cui ‘‘per l’ipotizzabilità dell’esimente putativa della legittima difesa è necessario che ogni eventuale erroneo convincimento del soggetto di versare in stato di pericolo sia sempre sorretto da circostanze di fatto che possano giustificare la ragionevole persuasione di una situazione di pericolo, occorrendo che tale persuasione poggi su dati obiettivi e non meramente soggettivi’’; nello stesso senso, in tema di stato di necessità putativo, Cass., 19 maggio 1989, in Cass. pen., 1991, p. 437, ed in tema di consenso putativo dell’avente diritto Cass., 20 aprile 1990, in Cass. pen., 1991, p. 1963. Per la dottrina, si vedano in particolare MICUCCI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di putatività dello stato di necessità, in Giust. pen., 1993, II, p. 110 ss.; DE FRANCESCO, Il modello analitico tra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in questa Rivista, 1991, p. 107 ss.; DE VERO, Le scriminanti putative, in questa Rivista, 1998, p. 773 ss. (5) Va qui osservato come la dottrina italiana si sia, in realtà, occupata ben poco delle innumerevoli questioni dogmatiche sottese alla disciplina di cui all’art. 59/4 c.p.; le uniche opere monografiche sull’argomento sono, infatti, quelle di GROSSO (L’errore sulle scriminanti, cit., passim) SANTAMARIA (Lineamenti, cit. p. 9 ss.) e quella recente di CAVALIERE, (L’errore sulle scriminanti nella teoria dell’illecito pe-


— 1466 — Analizzando le innumerevoli sentenze che, in materia, si sono susseguite senza soluzione di continuità, e guardando in special modo alla sentenza qui riportata, sembra addirittura emergere un principio speculare a quello dianzi postulato. Infatti, come meglio si osserverà tra poco, ciò che, ai fini dell’esclusione della punibilità, si è soliti richiedere al giornalista, non è solo la non consapevolezza della falsità della notizia, ma anche un’accurata e rigorosa verifica della stessa, che permetta di qualificare l’eventuale errore sulla verità dei fatti narrati come inevitabile. Con un’evidente conseguenza: e cioè che laddove tale errore risulti invece evitabile — perché causato da comportamento negligente e dunque da colpa — l’agente dovrà rispondere di diffamazione. Ebbene, se messa a confronto con il secondo capoverso dell’art. 59/4 c.p., dove si afferma che, in caso di falsa rappresentazione di una scriminante cagionata da negligenza dell’agente la punibilità residua solo se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo, simile conclusione non può che lasciare perplessi: la diffamazione, come noto, è reato previsto nella sola forma dolosa, e dunque — vuoi per il principio della stretta tassatività della responsabilità colposa sancito per i delitti dall’art. 42/2 c.p., vuoi soprattutto per la succitata disposizione dell’art. 59/4 c.p. — non si comprende come possa ritenersi punibile in base all’art. 595 c.p. il giornalista che negligentemente pubblichi una notizia falsa ritenendola invece vera. Già prima facie, insomma, la sentenza in epigrafe e l’indirizzo cui essa espressamente si richiama appaiono, a nostro modesto avviso, fortemente criticabili, in quanto si risolvono in una sostanziale quanto inammissibile interpretatio abrogans dell’inciso finale dell’ultimo comma dell’art. 59 c.p., nonché, più in generale, in una lesione dello stesso principio di stretta legalità (6). A ben vedere, peraltro, la sentenza, nel suo riproporre (in un settore poi di grande attualità, quale quello dell’informazione e della comunicazione di massa) l’antica e mai sopita questione circa ruolo e significato da attribuirsi all’ultimo comma dell’art. 59 e più in generale alla figura della scriminante putativa, appare criticabile anche da un altro e più ‘‘profondo’’ punto di vista: in essa infatti (e nell’indirizzo da essa richiamato) prende corpo una particolare concezione dell’errore sulle scriminanti che, nonostante sia oggi fortemente minoritaria in dottrina (7), nale, Napoli, 2000, p. 9 ss.). Si veda anche DE VERO, Le scriminanti putative, cit., p. 773 ss., il quale rileva, peraltro, la ‘‘stranezza’’ di tale disinteresse della dottrina su un argomento di certo quantomeno problematico. Va ricordato, invece, che la dottrina tedesca, a fronte di uno StGB che non contiene una norma ad hoc sull’errore ricadente sulle cause di giustificazione, si è attentamente e diffusamente occupata del problema, giungendo a soluzioni molto diverse tra loro. (6) Va d’altra parte ricordato come l’allontanamento della giurisprudenza dal principio del nullum crimen sine lege in questa materia era già stato sottolineato qualche anno fa da FIANDACA, Nuove tendenza repressive in tema di diffamazione a mezzo stampa?, in Foro it., 1984, II, p. 532 ss.; vi è stato poi chi ha addirittura definito tale indirizzo una ‘‘mostruosità giuridica, attesa la violazione del principio di legalità formale, oltretutto in malam partem’’ (BONANNO, Diffamazione a mezzo stampa e limiti del diritto di cronaca, in questa Rivista, 1985, p. 269). (7) Si fa riferimento qui a quella (in Italia) minoritaria impostazione secondo la quale — come meglio si osserverà in seguito — l’errore sulla scriminante non escluderebbe affatto il dolo (inteso nell’ottica della stessa teoria quale elemento di tipicità), ma la colpevolezza: per tale concezione v. per tutti DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1990, p. 524 ss.; nonché FIORE, Diritto penale, Parte generale, I, Napoli, 1993, p. 415; nello stesso senso ragiona SANTAMARIA, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, cit., il quale sostiene che ‘‘il soggetto agisce con lo stesso elemento psicologico del fatto incriminato, solo che è in errore su una circostanza che gli fa ritenere di essere autorizzato a commetterlo’’. Cfr. anche PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993, p. 49 ss. La dottrina prevalente però, come si vedrà a breve, ragiona in termini diversi, sottolineando comunque l’incompatibilità tra dolo (inteso quale elemento costitutivo della colpevolezza) ed errore sulla scriminante: in tal senso, nell’ottica delle scriminanti intese quali elementi negativi del fatto, si veda GALLO, voce Dolo, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 770; oppure GROSSO, L’errore sulle scriminanti, cit., p. 70 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 4o ed., Padova, 2001, p. 249; RAMACCI, Corso di diritto penale, II, Torino, 1993, p. 61 ss. Nell’ottica della tripartizione, considera la scriminante putativa un chiaro caso di esclusione di dolo MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1242 ss.; in tale ottica v. anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte


— 1467 — continua tuttavia tenacemente a riproporsi (con esiti, come si vede, qualche volta oltremodo discutibili) nella nostra giurisprudenza. È soprattutto a quest’ultimo aspetto che sono dedicate le osservazioni che seguiranno; osservazioni che peraltro non possono prescindere né da una puntualizzazione in merito al concetto di diritto di cronaca nei suoi più attuali significati giuridico-costituzionali, né tanto meno da una precisa ricostruzione dell’indirizzo giurisprudenziale in oggetto. 2. La cronaca può essere definita come ‘‘la narrazione obiettiva di fatti divulgata con lo strumento della stampa quotidiana o periodica, della trasmissione radiofonica o televisiva, o di altri mezzi di comunicazione di massa, senza finalità scientifiche ma solo d’informazione’’ (8), Così definita, la cronaca viene oggi considerata come oggetto di un vero e proprio diritto, il quale è a sua volta precipua e fondamentale espressione di quella libertà di manifestazione del pensiero tutelata in modo deciso dall’art. 21/2 della Costituzione (9). Per la verità, va qui ricordato che simile fondamento costituzionale rappresenta un’acquisizione relativamente recente. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha infatti per lungo tempo addirittura affermato che il riconoscimento di un ‘‘diritto di cronaca’’ avente ad oggetto la verità dei fatti narrati non fosse affatto desumibile dall’art. 21 Cost. (10). Questa norma — si sosteneva — non avrebbe avuto per oggetto il diritto di pubblicare notizie vere (pur se diffamatorie), ma più semplicemente la libertà di manifestazione del pensiero; la libertà di cronaca, inoltre, avrebbe trovato un limite invalicabile nell’art. 3 Cost., che ‘‘riconosce e tutela la libertà personale dei cittadini, e dunque la loro reputazione’’ (11). Sembrava così accogliersi quell’autorevole posizione di Giacomo Delitala, che già aveva parlato, in merito al diritto di cronaca, di ‘‘preteso ma inesistente diritto’’ (12), sussistente in realtà solo rispetto a quelle ‘‘materie privilegiate’’ che sarebbero la politica, la religione, l’arte. Tuttavia, col passare del tempo e col maturare della sensibilità sociale nei generale, 3o ed., Bologna, 1995, p. 224. Per due ipotesi di configurazione della scriminante putativa quale ‘‘limite esterno al dolo’’, nel rifiuto delle suddette scomposizioni del reato, cfr. FLORA, voce Errore, in Dig. disc. pen., IV, Torino, p. 271 ss., il quale afferma che ‘‘l’errore sulle scriminanti funziona come limite esterno al dolo del fatto, non potendo che atteggiarsi come erronea supposizione; il che significa che ai fini della sussistenza del dolo occorre la conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico... e la ‘‘non erronea supposizione di scriminanti’’; nonché DE VERO, Le scriminanti putative, cit., p. 840 ss. Da ultimo, si osservi poi la posizione di CAVALIERE, op. cit., il quale afferma che ‘‘l’errore su una scriminante non esclude la volontà del fatto tipico, ma, in termini assiologici, prevale su di essa, escludendo la volontà di un illecito’’. (8) POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, cit., p. 89. V. inoltre sull’argomento in generale CORASANTI, Diritto dell’informazione, cit., p. 191 ss.; LEONE, L’esimente dell’esercizio di un diritto, Napoli, 1971, p. 153 ss.; NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 49 ss.; ZACCARIA, Diritto dell’informazione e delle comunicazioni, cit., p. 63 ss. (9) Del resto, va anche sottolineato come la stessa libertà di stampa, attraverso la quale la cronaca può realizzarsi concretamente, non è funzionalmente autonoma, ma si atteggia come forma strumentale della libertà della manifestazione del pensiero, essendo la stampa stessa solo un mezzo, seppur tra i più efficaci, per la sua espressione e diffusione. (10) V., per questa iniziale posizione negativa nei confronti dell’esistenza di un diritto di cronaca, per tutti Cass., 22 gennaio 1971, in Cass. pen., 1973, p. 488. Un esame approfondito di questo iniziale orientamento negativo della giurisprudenza di legittimità rispetto alla configurabilità del suddetto diritto è svolto da JANNUZZI-FERRANTE, I reati nella legislazione sulla stampa, Rassegna di giurisprudenza, 2o ed., Milano, 1978, p. 108 ss.; nonché PROTETTI, Il giornalismo nella giurisprudenza, Padova, 1979, p. 439 ss. (11) V. da ultimo Cass., 20 dicembre 1974, in Cass. pen., 1976, p. 359. (12) DELITALA, I limiti giuridici della libertà di stampa, in Justitia, 1959, p. 397 ss.; tale posizione critica rispetto alla configurabilità del diritto di cronaca si ritrova anche in CATAUDELLA, La tutela civile della vita privata, Milano, 1972, p. 17 ss.; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 3o ed., Torino, 1951, VIII, p. 270 ss.; ONDEI, I diritti di libertà. L’arte, la cronaca e la storiografia, Milano, 1955, p. 75 ss.; SANTORO A., In tema di ingiuria e diffamazione, in Foro it., II, 1950, p. 14 ss.; da ultimo si veda DI LORENZO, La libertà di stampa e il reato di diffamazione, in Foro nap., III, 1977, p. 154 ss.


— 1468 — confronti di alcuni importanti diritti costituzionali, questo atteggiamento ha finito col mutare radicalmente. Va da sé, infatti, che l’opinione tendente a ridimensionare la portata del diritto di cronaca era ‘‘figlia di un’epoca’’ in cui l’esigenza di informazione non era ancora vissuta come valore assoluto e nella quale era del tutto naturale ritenere che la necessità di una diffusione capillare di ogni notizia e conoscenza dovesse soccombere di fronte al superiore bene dell’onore individuale. Si tratta comunque di un indirizzo che oggi può definirsi a tutti gli effetti superato. Unanime infatti può oggi dirsi il riconoscimento della sussistenza di un vero e proprio diritto di cronaca (13), inteso ‘‘sia come manifestazione essenziale del diritto di libertà di stampa che di quello, più ampio, di libera manifestazione del pensiero, di cui costituisce una ‘species’ ’’ (14). Va anzi a tal proposito sottolineato come, una volta affermatane la configurabilità, la prassi giurisprudenziale abbia addirittura finito col riconoscere un significato sociale e ‘‘collettivo’’ al diritto in questione: esso, cioè, in quanto strumento di formazione di un’opinione pubblica consapevole e attenta, sarebbe da tutelarsi non come tale, ma perché necessario presupposto per il corretto svolgersi della vita democratica. Si è così giunti ad esempio ad affermare che il diritto di cronaca sarebbe attribuito ad un soggetto ‘‘non nel suo interesse ma come mezzo rispetto ad un fine, quello di informare gli altri’’ (15); affermazione quest’ultima che, se pur vera, non va peraltro a nostro sommesso avviso sopravvalutata, in quanto potrebbe indurre a ridimensionare oltre il dovuto la fondamentale dimensione individuale del diritto in questione tradendone così lo spirito originario. Pur soddisfacendo, infatti, un importante bisogno di ‘‘sapere’’ della società, l’esercizio del diritto di cronaca è prima di tutto esigenza insopprimibile dell’Uomo, in quanto estrinsecazione di una delle più classiche libertà fondamentali, cioè a dire della libertà di espressione. Comunque, a parte le estremizzazioni e i rilievi che su di esse possono farsi, sta di fatto che, se quanto detto è vero, è allora anche consequenziale ricondurre il diritto di cronaca a quegli ‘‘interessi differenziati la cui titolarità consente al sog(13) Già, infatti, nel 1965, la Corte Costituzionale ha sottolineato come la libertà di manifestazione del pensiero (e dunque il diritto di cronaca) non possa essere assoggettata a limiti sostanziali se non con leggi espressive di precetti o principi costituzionali (Corte Cost., 19 febbraio 1965, in Giur. cost., 1966, p. 9 ss.). Anche la giurisprudenza di legittimità ha finito con l’adeguarsi a questa pronuncia, chiarendo che il diritto di cui all’art. 21 Cost. si atteggia come esimente rispetto alla norma penale incriminante ogni qual volta il suo esercizio sia collegato ad un reale interesse pubblico all’informazione, in presenza di condizioni (verità, continenza, utilità sociale) che comunque paiono coincidere in tutto e per tutto coi limiti strutturali del diritto di cronaca stesso. Tra la tante pronunce, si vedano in particolare Cass., 11 marzo 1982, in Giust. pen., 1983, II, p. 48 ss.; Cass., 18 dicembre 1980, in Mass. cass. pen., 1981, m 148.101; Cass., 19 gennaio 1966, in Cass. pen., 1966, p. 1001. Trattasi, del resto, di una impostazione pressoché obbligata. Esistono infatti fonti normative che non avrebbero senso se si negasse l’esistenza del diritto di cui si tratta: ciò vale ad esempio per la legge sulla stampa (l. 8 febbraio 1948, n. 47), per la l. 3 febbraio 1963, n. 69 (ordinamento della professione dei giornalisti) che, indicando nell’art. 2 diritti e doveri di questi, colloca tra i primi libertà d’informazione e di critica, e, soprattutto, per la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con la l. 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce a tutti la libertà di comunicare informazioni. Va inoltre ricordato che la Corte Costituzionale ha anche avuto modo di precisare che il diritto di cronaca non spetti solo al giornalista professionsta, ma a tutti i cittadini senza distinzione (Corte Cost., 23 marzo 1968, n. 50, in Giur. cost., 1968, I, p. 460). (14) Cass., 11 marzo 1982, in Giust. pen., 1983, II, p. 48. D’altra parte, in tal senso si è in modo dominante espressa la dottrina italiana; si vedano, oltre agli autori citati nella nota 8, a titolo meramente esemplificativo, BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero, in questa Rivista, 1965, p. 651 ss.; FIORE, Cronaca giornalistica e delitti contro l’onore, Napoli, 1967, p. 49 ss.; GRECO, La libertà di stampa nell’ordinamento giuridico italiano, Roma, 1974, p. 38 ss.; GUARNERI, Diritto di cronaca e diffamazione a mezzo stampa, in Riv. pen., 1952, p. 699 ss.; LANZI, La scriminante dell’art. 51 c.p. e le libertà costituzionali, Milano, 1983, p. 74 ss.; NUVOLONE, Cronaca (Libertà di), in Enc. dir., XI, Milano, 1962, p. 421 ss. (15) Trib. Roma, 28 settembre 1993, in Foro it., 1995, I, p. 1021.


— 1469 — getto la facoltà di agire, cioè la giuridica possibilità di assumere un comportamento in ordine ad una determinata posizione giuridica’’ (16); insomma (come d’altra parte la stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di ribadire) (17) a quei diritti nell’esercizio dei quali il soggetto non è punibile perché scriminato dall’art. 51 c.p. Il vero problema, tuttavia, è, come noto, non certo quello dell’esistenza di un diritto di cronaca scriminante ai sensi dell’art. 51 c.p., quanto quello dei limiti entro cui esso può ritenersi legittimamente esercitato. Anche da questo punto di vista, tuttavia, l’opera della giurisprudenza, per quanto lunga, faticosa e foriera di accese polemiche tra giudici e giornalisti è da considerarsi meritoria, in quanto è riuscita ad individuare alcune coordinate fondamentali che, nell’ampio e complesso capitolo ‘‘tutela dell’onore’’, rappresentano ormai un punto fermo. È infatti ormai affermazione corrente ed incontrastata (tanto da non meritare particolare attenzione in questa sede) quella secondo cui i limiti all’esercizio del diritto di cronaca sarebbero tre, vale a dire la ‘‘rilevanza sociale della notizia’’, la sua ‘‘verità oggettiva’’ e la ‘‘continenza’’ nei modi attraverso cui essa viene riportata (18). 3. Fatte queste doverose premesse, possiamo passare, a questo punto, all’analisi di quello che, come si diceva, è l’orientamento giurisprudenziale cui la sentenza in epigrafe sembrerebbe rifarsi (19). Si tratta in realtà di un indirizzo nel quale convivono diverse impostazioni teoriche. Una prima tende ad escludere del tutto l’efficacia scriminante dell’erroneo convincimento, da parte del cronista, di pubblicare notizie vere. Ci riferiamo qui in particolare a quell’impostazione secondo cui la verità oggettiva della notizia non soltanto costituirebbe requisito ine(16) POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, cit., p. 100. (17) Nella nota sentenza del 14 luglio 1971, n. 175, si affermava infatti che ‘‘l’art. 596/1, quando non ammette il colpevole del delitto di diffamazione a provare a propria discolpa la verità o notorietà del fatto attribuito alla persona offesa, non possa trovare applicazione, allorché il colpevole stesso sia in grado di invocare l’esimente, prevista dall’art. 51 c.p., che esclude la punibilità in quanto il fatto imputato costituisca esercizio di un diritto. E non par dubbio che tale sia il caso del giornalista che, nell’esplicazione del compito di informazione ad esso garantito dall’art. 21 Cost., divulghi col mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute lesive dell’onore o della reputazione altrui, sempreché la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l’esplicazione dell’attività informativa derivabili dalla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti’’. Corte Cost., 14 luglio 1971, in Giur. cost., 1971, p. 2109. (18) In tal senso, si legge ad esempio che ‘‘il diritto di cronaca è esercitato legittimamente solo quando risulta contenuto entro rigorosi limiti che si radicano nella logica e nell’ordinamento positivo (verità oggettiva, pertinenza e continenza formale dei fatti narrati’’ (Cass., 30 giugno 1984, in Cass. pen., 1985, p. 45); nello stesso senso, che ‘‘non è consentita la divulgazione di fatti che nella loro materialità oggettiva rivestono gli estremi della diffamazione, salvo che ragioni di pubblico interesse richiedano che anche tali fatti siano conosciuti, come avviene per tutti quegli avvenimenti interessanti la vita collettiva e le persone che ne sono protagoniste, la conoscenza dei quali è essenziale alla formazione della pubblica opinione, in modo che ognuno possa fare le proprie scelte nel campo religioso, politico, della scienza e della cultura. In tali casi prevale l’interesse pubblico all’informazione e si legittima, a termini dell’art. 51 c.p., la divulgazione anche di fatti oggettivamente diffamatori purché siano veri, o almeno seriamente accertati, e la divulgazione rispetti il limite della continenza, cioè avvenga in termini di adeguatezza e usi forme espressive corrette, anche senza evitare coloriture e toni aspri rientranti nel costume e termini oggettivamente offensivi che non hanno equivalenti, purché non siano sovrabbondanti ai fini del concetto da esprimere’’ (Cass., 23 aprile 1986, in Cass. pen., 1988, p. 276). (19) Per quanto riguarda, in particolare, il problema della rilevanza dell’errore di cui all’art. 59/4, qualora lo stesso ricada sul requisito della verità della notizia, si vedano BONANNO, Diffamazione a mezzo stampa e limiti del diritto di cronaca, cit., p. 269 ss.; FIANDACA, Nuove tendenza repressive in tema di diffamazione a mezzo stampa?, cit., p. 532 ss.; GRILLO PASQUARELLI, Sistematica delle esimenti ed esercizio putativo del diritto di cronaca, in Cass. pen., 1986, p. 1764; ID., Esercizio putativo del diritto di cronaca e applicazione dell’art. 59 ult. comma c.p., in questa Rivista, 1985, p. 1222; MANTOVANI, Erronea supposizione di verità del fatto narrato e diffamazione colposa, in Dir. informaz. e informatica, 1986, p. 842 ss.; MONTANARI, Erronea supposizione di verità del fatto narrato e diffamazione colposa, in Dir. informaz. e informatica, 1986, p. 547 ss.


— 1470 — liminabile nella struttura della giustificante, ma inciderebbe a tal punto da far sì che, ove essa non sia riscontrabile, il fatto non possa rientrare nemmeno nell’ambito di operatività dell’art. 59/4 c.p.(20). Si tratta, è vero, di una posizione minoritaria e per lo più risalente; essa tuttavia merita ancora di essere esaminata e criticata, non solo perché sembra esercitare una certa (se pur meno esplicita) influenza ‘‘culturale’’ su gran parte della giurisprudenza in materia, ma anche perché ancora oggi si leggono sentenze che ad essa in qualche modo sembrano rifarsi. In una recente pronuncia della Corte di Cassazione, si legge, ad esempio, che ‘‘ai fini dell’applicabilità dell’esimente del diritto di cronaca, anche sotto l’aspetto putativo, al reato di diffamazione a mezzo stampa, la necessaria correlazione tra l’oggettivamente narrato e il realmente accaduto importa l’inderogabile necessità di un assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, risultando inaccettabili i valori sostitutivi di essa, quali quello della veridicità o della verosimiglianza dei fatti narrati, nonché lo stretto obbligo di rappresentare gli avvenimenti tali quali sono’’ (21). È qui evidente come, al di là delle apparenze, alla scriminante putativa non si lasci alcun margine di configurabilità. Nell’affermare infatti (come implicitamente nella massima appena riportata si fa) che, perché possano essere applicabili l’art. 51 c.p. e l’art. 59/4 c.p., il fatto deve comunque essere vero, si finisce con l’escludere la stessa possibilità di riconoscere un esercizio putativo del diritto di cronaca tutte quelle volte in cui (vale a dire nella stragrande maggioranza dei casi) l’errore del giornalista cada sulla verità della notizia; e ciò per la semplice quanto evidente ragione che intanto può parlarsi di ‘‘erronea’’ supposizione di una scriminante, in quanto nella situazione concreta tale scriminante in realtà non ricorra. In realtà, come giustamente è stato osservato, tale indirizzo nasce probabilmente dalla comprensibile preoccupazione che una pedissequa applicazione della disciplina prevista dall’art. 59/4 c.p. finisca di fatto col prestare tutela alla narrazione di fatti non veri (22); ciò in evidente contraddizione con lo spirito del diritto di cronaca, la cui liceità è ovviamente subordinata alla verità dei fatti esposti (23). Simile preoccupazione non può tuttavia spingersi fino all’arbitraria espunzione dell’esercizio putativo del diritto di cronaca dall’ambito di applicazione dell’art. 59/4 c.p.: se infatti l’esercizio del diritto di cronaca rientra nella scriminante (20) Per le ultime testimonianze in tal senso si vedano, per la dottrina, ALBAMONTE, Il diritto di cronaca quale causa di giustificazione dei delitti contro l’onore a mezzo stampa, con particolare riguardo alla putatività, in Cass. pen., 1977, p. 576; DI LORENZO, La libertà di stampa e il reato di diffamazione, in Foro nap., 1977, III, p. 149; per la giurisprudenza, Cass., 6 novembre 1980, in Giust. pen., 1982, II, p. 51; Cass., 14 aprile 1978, ivi, 1979, II, p. 147. In Cass., 21 aprile 1982, in Giust. pen., 1983, p. 390 ss., si rinviene una delle prese di posizione di rigorose in quest’ottica: si legge, infatti che ‘‘la contraria opinione, favorevole alla ‘verità putativa’, sembra al Collegio non tener conto di quanto costituisce insieme logica premessa e inseparabile conseguenza del dovere di verità obiettiva, e cioè del dovere del giornalista di accertare la rispondenza al vero del fatto lesivo della reputazione ... ciò priva di ogni valore il mero stato intenzionale del soggetto ... che ritenga semplicemente che quella riferita sia la verità ... una volta mancata la prova della verità storica, resta esclusa ogni possibilità di ricorso all’art. 59/4 c.p.’’ (21) Cass., 21 marzo 1991, in Cass. pen., 1992, p. 2076; nello stesso senso anche Cass., 24 aprile 1987, ivi, 1989, p. 51. Più di recente anche Cass., 23 gennaio 1997, n. 6018, pubblicata nel sito www.massime.it, si adegua a tale principio, quando afferma che ‘‘ai fini della configurabilità dell’esimente del diritto di cronaca, anche sotto l’aspetto putativo o dell’eccesso colposo, in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa la necessaria correlazione tra quanto è stato narrato e ciò che è realmente accaduto importa l’inderogabile necessità di un assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, nonché lo stretto obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, risultando inaccenabili i valori sostitutivi di esso, quali quello della veridicità o della verosimiglianza dei fatti narrati’’. (22) POLVANI, op. cit., p. 154 ss. (23) FERRANTE, Diffamazione commessa col mezzo della stampa ed esercizio putativo del diritto di cronoca, in Giur. merito, II, 1983, p. 1005 ss.; poiché condizione imprescindibile per l’esercizio lecito del diritto di cronaca è la verità dei fatti esposti, tale diritto non può essere invocato in caso di verità putativa, pena il riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico di ciò che lo stesso Autore citato definisce un ‘‘non diritto’’.


— 1471 — di cui all’art. 51 c.p., e se all’erronea supposizione di una scriminante si applica l’art. 59/4 c.p., che proprio quest’ultimo e non un altro debba essere il criterio di riferimento nella soluzione di casi quale quello affrontato dalla sentenza in epigraie a noi pare francamente incontestabile. In linea con la dottrina e la giurisprudenza dominanti, non pare corretto insomma affermare che, in materia di esercizio del diritto di cronaca, non possa attribuirsi alcuna rilevanza alla cd. ‘‘verità putativa’’; tanto più che, come giustamente si è già notato, in alcuni casi il giornalista è nella condizione di dover ricostruire fatti incerti ed occulti, rispetto ai quali il rischio di incorrere in errori di valutazione ed in ‘‘incidenti professionali’’ è assai alto (24). 4. (Segue). Da questo primo indirizzo si differenziano tutte quelle sentenze che, nell’attribuire efficacia scusante all’esercizio putativo del diritto di cronaca, ne subordinano tuttavia la rilevanza a condizioni che, pur nella loro varietà, sono riconducibili ad un unico nucleo concettuale: e cioè quello secondo cui, perché l’errore in cui è incorso il giornalista possa essere considerato scusabile, è necessario accertarsi che sia stato usato il massimo scrupolo nel verificare l’attendibilità delle fonti informative. Secondo tale impostazione, dunque, ai fini dell’applicabilità dell’art. 59/4 c.p. non rileverebbe — come invece detta norma sembrerebbe prescrivere — la mera valutazione soggettiva dell’agente, ma l’obiettiva sussistenza di circostanze e fatti tali da ‘‘ragionevolmente fondare la pur erronea convinzione di questi (del cronista, n.d.r.) di operare in presenza di una causa di giustificazione’’ (25); ed in tal senso tutto dipenderebbe da ‘‘un serio e diligente lavoro di ricerca’’ (26) e dall’assolvimento, da parte del giornalista, dell’ ‘‘onere di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio’’ (27), con conseguente subordinazione della rilevanza scusante dell’errore alla sua inevitabilità, in sostanziale analogia con quanto dispone l’art. 5 c.p. per l’errore sul precetto (28). Ma quand’è che può riconoscersi al giornalista di aver svolto un serio e diligente lavoro di ricerca? Sul punto dal suddetto indirizzo giurisprudenziale emergono alcuni criteri di massima, oggi assai utilizzati nella prassi e che per questa ragione val qui la pena, sia pur brevemente, di riassumere (29). a) Secondo un primo nucleo di pronunce, affinché il comportamento del cronista possa ritenersi ‘‘diligente’’, è necessario che la notizia provenga da una fonte di informazione ‘‘riconosciuta e qualificata’’ (30), ovvero ancora ‘‘privilegiata’’, come nel caso delle notizie fornite ufficialmente da organi pubblici in rela(24) In tal senso CORRIAS LUCENTE, Esercizio putativo del diritto di cronaca e fonti di informazione, in Dir. informaz. e informatica, 1985, pp. 177-178. (25) V. Cass., 23 ottobre 1991, in Dir. informaz. e informatica, 1992, p. 953; o anche Cass., 24 aprile 1991, ivi, p. 952; o ancora Cass., 2 febbraio 1984, in Giust. pen., 1984, II, p. 714; o pure CORRIAS LUCENTE, Esercizio putativo del diritto di cronaca e fonti di informazione, cit., 1985, p. 176. (26) Cass., 18 ottobre 1984, in C.E.D. n. 436989. (27) V. Cass., 8 maggio 1998, m 7967. (28) Come è noto, ampio e imponente è stato il lavoro scientifico che la dottrina italiana ha fatto seguire alla nota sentenza 364/1988 della Corte Costituzionale in tema di error juris (pubblicata tra l’altro, con nota di FIANDACA, su Foro it., 1988, I, p. 1385 ss.): a titolo meramente esemplificativo, si segnalano MANTOVANI, Ignorantia legis scusabile e inescusabile, in questa Rivista, 1990, p. 379 ss.; PALAZZO, Ignorantia legis: vecchi limiti e nuovi orizzonti della colpevolezza, in questa Rivista, 1988, p. 920 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1995, p. 88 ss.; STORTONI, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto, in questa Rivista, 1988, p. 1152; VASSALLI, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giust. cost., 1988, p. 3 ss. (29) Per una ricostruzione di questi indirizzi si veda POLVANI, La diffamazione, cit., p. 159 ss. (30) Trib. Napoli, 8 novembre 1984, in Giur. merito, 1986, II, p. 927.


— 1472 — zione a materie di propria competenza. Soprattutto queste ultime, secondo tale orientamento, sarebbero assistite da una presunzione di rispondenza al vero, e sarebbero pertanto rappresentative di una verità equiparabile a quella obiettiva (ad es., notizie divulgate da un ufficio stampa di un ministero o provenienti dall’interno degli uffici inquirenti) (31). Si tratta tuttavia di un criterio che desta non poche perplessità, ed al quale pertanto sembra oggi far ricorso solo una parte minoritaria della giurisprudenza. Come infatti la stessa Suprema Corte pare riconoscere (32), la circostanza della già avvenuta divulgazione della notizia ad opera di altre fonti informative (in particolare quando anch’esse siano giornalistiche) non può fornire presunzioni di verità; e ciò in quanto, così facendo, le fonti giornalistiche finirebbero per legittimarsi reciprocamente, al punto da far sì che il giornalista si possa sentire esonerato dal porre in essere ulteriori controlli in merito alle vicende narrate. b) Il criterio della mera attendibilità della fonte, come si diceva, è ormai tuttavia minoritario: la giurisprudenza, infatti, in tempi recenti, per attribuire efficacia scusante all’errore sulla verità dei fatti narrati, richiede che il cronista sottoponga ad un controllo rigoroso l’autenticità della notizia, ritenendo a tal proposito che non sia possibile divulgare ogni informazione comunque pervenuta, ma che sia invece necessario che lo stesso ne verifichi sempre l’autenticità, con un serio accertamento, esaminando e verificando i fatti tanto più quando la notizia provenga da fonti poco attendibili (33).

(31) Pare adeguarsi a questo indirizzo anche una recente pronuncia della Corte di Cassazione, in cui si afferma che ‘‘in tema di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste, ai fini della scriminante di cui all’art. 51 c.p., ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti. Il limite della verità deve essere restrittivamente inteso, dovendosi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato e quanto realmente accaduto, poiché il sacrificio della presunzione di innocenza non può esorbitare da ciò che sia necessario ai fini informativi’’ (Cass., 3 giugno 1998, n. 8036). V. anche Cass., 26 settembre 2001, n. 998, pubblicata nel sito www.massime.it. In dottrina, accettano questa idea della serietà della fonte usata quale metro per la valutazione della diligenza del giornalista CORRIAS LUCENTE, Esercizio putativo, cit., p. 181 ss.; VASSALLI, Libertà di stampa, cit., p. 3 ss. BONANNO, in Diffamazione, cit., p. 272, afferma invece che, se la notizia è fornita da un organo ufficiale, tale circostanza basta a giustificare la condotta dell’agente, mentre, se essa viene ottenuta in via confidenziale o, addirittura, in violazione di un dovere di non pubblicazione, tornerebbe ad avere pieno rilievo, ai fini della giustificazione del giornalista, l’obbligo di attenta e scrupolosa verifica. (32) Si è infatti osservato che in tal modo ‘‘le fonti propagatrici delle notizie — attribuendosi reciprocamente credito — finirebbero per rinvenire in se stesse attendibilità’’ (Cass., 21 marzo 1991, in Cass. pen., 1992, p. 2076); per questo motivo ‘‘quando sia pubblicata una notizia non vera, non è possibile allegare a riscontro dell’esercizio putativo del diritto di cronaca l’operato erroneo di altri organi di informazione’’ (Cass., 14 giugno 1996, in Cass. pen., 1998, p. 448; nel caso in specie la fonte era un censimento della polizia di stato. Per l’analisi di un caso simile, relativo ad una notizia contenuta in una redazione ufficiale dell’Alto Commissariato Antimafia, si veda LA PERA, Cronaca e verità oggettiva: un equivoco che si perpetua nei giudizi di diffamazione a mezzo stampa, in Cass. pen., 1995, p. 407 ss.). (33) Nello stesso senso avevano d’altra parte già argomentato le Sezioni Unite della Cassazione nel 1983, affermando che ‘‘quando l’agente ritiene per errore che i fatti narrati siano veri, viene a mancare del tutto l’elemento psicologico del reato di diffamazione e può, quindi, configurarsi a suo favore una causa di esclusione della punibilità, purché dia la prova dei fatti e delle circostanze che rendono attendibile e giustificato il suo errore e che riscontrino la cura da lui posta nell’accertamento della verità’’ (Cass., 26 marzo 1983, in Cass. pen., 1953, p. 266). Successivamente, oltre alla sentenza citata nel testo, molte altre pronunce hanno accolto questo principio di fondo: si legge, ad esempio, che ‘‘l’eventuale discrepanza tra i fatti narrati e quelli effettivamente accaduti non esclude che possa essere invocato l’esercizio del diritto di cronaca, anche sotto il profilo della putatività, quando l’agente, pur avendo assolto tutti gli oneri connessi all’obbligo di un adeguato controllo delle notizie che intende diffondere, si trovi ad avere una percezione difettosa o erronea della realtà’’ (Cass., 13 maggio 1987, in Cass. pen., 1989, p. 987); nello stesso senso, ‘‘l’esimente del diritto di cronaca sotto il profilo della putatività è invocabile solo quando la discrepanza dei fatti narrati rispetto a quelli realmente accaduti sia il risultato di una percezione difettosa o erronea malgrado il rispetto di ogni obbligo e l’assolvimento di ogni onere consistenti nel dovere del cronista di esaminare e controllare i fatti oggetto della narrazione’’ (Cass., 11 novembre 1987, in Cass. pen., 1988, p. 52); ancora più di recente, si è affermato che ‘‘in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’e-


— 1473 — In definitiva, il criterio di massima è che il cronista deve avere esaminato, controllato e verificato i fatti oggetto della narrazione in funzione dell’assolvimento, da parte sua, dell’obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale degli stessi. Naturalmente può in ogni caso sempre avvenire che vi sia discordanza tra fatti narrati e fatti accaduti: infatti ‘‘l’errore è connaturato all’uomo in quanto tale e al giornalista in quanto uomo. Se, peraltro, il giornalista ha assolto all’onere delle doverose verifiche sopra evidenziate e ciononostante ha avuto una percezione difettosa ed erronea della realtà, tale da incidere sul lato volitivo del suo processo psichico, e si determini ad agire nella fondata supposizione che quanto narrato corrisponda alla realtà oggettiva, può sempre invocare il diritto di cronaca, sotto il profilo della putatività’’ (34). In tal senso, il contenuto concreto di tale correttezza deontologica viene individuato nel cd. ‘‘uso legittimo delle fonti normative’’. In altre parole, l’errore del giornalista sarebbe scusabile, ex art. 59/4 c.p., solo se risulta che lo stesso ha scelto con ‘‘oculata diligenza ed accortezza le proprie fonti normative’’ ed ha vagliato la loro attendibilità in modo ‘‘serio e rigoroso’’ (35). Il rigore investigativo del cronista, dunque, secondo tale impostazione, deve essere rivolto in primo luogo all’esame della validità e dell’attendibilità delle fonti, da individuarsi secondo criteri di professionalità, ed in secondo luogo ad una autonoma e personale verifica sulla veridicità dei fatti narrati: non si ritiene quindi sufficiente l’acritica accettazione delle notizie provenienti da fonti pur qualificate, ma si richiede ‘l’uso legittimo’ di tali fonti, ossia la verificazione accorta e professionale di fonti già di per sé fornite di una certa attendibilità (36). Il giornalista non può insomma ‘‘appagarsi di notizie rese pubbliche da altre fonti informative... senza esplicare alcun controllo’’ (37), ma deve controllare con puntualità l’autenticità dei fatti narrati, verificando ‘‘in termini di adeguata serietà professionale, la consistenza della relativa fonte di informazione’’ (38) e con ‘‘ogni più attento vaglio in ordine alla loro attendibilità’’ (39): solo lavorando in questo modo egli potrà invocare a propria scusa, in caso di pubblicazione di fatti non veri l’art. 59/4 c.p. (40). simente putativa dell’esercizio del diritto di cronaca presuppone che le notizie... siano state sottoposte a verifiche tali da avere indotto in errore non colpevole l’autore dell’articolo’’ (Cass., 4 dicembre 1996, in Cass. pen., 1998, p. 447. Per altre affermazioni di tale principio, si veda anche Cass., 14 dicembre 1993, ivi, 1995, p. 558; o Cass., 23 aprile 1992, in Mass. cass. pen., 1992, p. 109). (34) CALDERONE, Libertà di manifestazione del pensiero e limiti, nota alla sentenza della Cass., 30 giugno 1984, in Cass. pen., 1985, p. 44 ss. (35) Trib. Roma, 13 gennaio 2000, n. 501, nel sito www.legge_e_giustizia.it. V. anche Cass., 3 ottobre 1990, in Dir. informaz. e informatica, 1991, p. 950. (36) Varie sono le pronunce che accolgono tale principio: si legge, ad esempio, che ‘‘ai fini dell’esercizio del diritto di informazione, nella raccolta delle notizie il giornalista deve usare la maggiore diligenza e cautela passibili onde vagliare la fonte delle notizie e la più accorta prudenza nell’accoglierle, nulla tralasciando al fine di verificare se i fatti riferiti da terzi o contenuti in scritti di altrui provenienza abbiano corrispondenza nella realtà’’ (Cass., 13 ottobre 1989, in Cass. pen., 1991, p. 1218); o ancora, che ‘‘in tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, perché sia configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del diritto di cronaca, è necessario che il giornalista usi legittimamente le fonti normative mediante l’esame, il controllo, e la verifica dei fatti che ne costituiscono il contenuto, offrendo la prova della cura e della cautela da lui poste negli accertamenti svolti per vincere ogni dubbio e incertezza prospettabili in ordine alla verità sostanziale dei fatti’’ (Cass., 14 dicembre 1993, in Cass. pen., 1995, p. 558). In senso conforme v. anche Cass., 23 aprile 1992, in Cass. pen., 1993, p. 2265; Cass., 2 marzo 1990, in Giust. pen., 1990, II, p. 614; Cass., 26 gennaio 1988, ivi, 1989, II, p. 36. In senso apparentemente difforme Cass., 20 ottobre 1987, in Cass. pen., 1989, p. 201: in questa pronuncia, infatti, sembra richiedersi in modo alternativo, e non cumulativo, un controllo sulle notizie propagate o una non grossolana negligenza nella scelta delle fonti. (37) V. Cass., 23 gennaio 1997, n. 6018, pubblicata sul sito www.massime.it. (38) Cass., 2 marzo 1990, cit. (39) Cass., 14 gennaio 2002, n. 1183, pubblicata sul sito www.massime.it. (40) Un discorso in parte diverso sembra valere, invece, per la pubblicazione di interviste: in ma-


— 1474 — Va peraltro precisato, a scanso di equivoci, che, stando a questo indirizzo, il controllo sulla attendibilità della notizia si somma e non si sostituisce a quello sulla serietà della fonte: infatti, se il primo difficilmente può portare a risultati certi stante l’inadeguatezza dei mezzi ‘investigativi’ di cui il giornalista dispone, il solo controllo sulla fonte si risolverebbe, dal canto suo, in una mera disamina sulla credibilità della stessa. Ciascuno dei criteri di verifica citati, di per sé considerato, sarebbe in altre parole inadeguato a fornire una sicurezza ragionevole sulla legittimità dell’uso della fonte; ragione per cui il risultato dell’attendibilità della notizia conseguirebbe ‘‘solo dal positivo risultato dell’indagine effettuata sotto la duplice prospettiva qui richiamata’’ (41). Stando insomma a queste pronunce, ai fini dell’applicazione della scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca non sarebbero sufficienti né l’opinione soggettiva dell’agente, né la verosimiglianza dei fatti, né la semplice relazione ad referendum di altre pubblicazioni o fonti: ciò che si richiede per applicare la disciplina della scriminante putativa, è ‘‘l’adozione di un criterio di lavoro che attiene al metodo della ricerca, quello della correttezza’’ (42), onde evitare di subire ‘‘gli elevati costi sociali di un’attività informativa svolta a bassi livelli di diligenza’’ (43). 5. Le posizioni giurisprudenziali in materia di errore sulla verità dei fatti narrati, dunque, pur distinguendosi per i diversi criteri ritenuti di volta in volta idonei a definire come ‘‘corretto’’ il comportamento del giornalista, convergono in un’unica direzione di fondo: solo l’errore inevitabile può escludere la punibilità dell’agente. Si subordina, insomma, la rilevanza putativa della giustificante in questione ad una verifica sulla sussistenza di presupposti di ‘‘ragionevolezza’’ e di ‘‘logica giustificazione’’, in modo da escludere che il giornalista ‘‘deontologicamente scorretto’’ possa invocare a propria scusa la supposizione erronea della verità dei fatti narrati. Ebbene, basta tenere bene a mente le posizioni emerse in dottrina nel corso del lungo e tormentato dibattito sulla rilevanza delle scriminanti putative, per rendersi conto di come, lungi dal rappresentare una sorta di ‘‘stravaganza’’ interpretativa, simile impostazione altro non faccia che recepire, sia pur settorialmente, i postulati di una delle teorie che da sempre si fronteggiano in questa materia. Ci riferiamo qui in particolare alla cd. teoria della colpevolezza normativa pura (nota anche col nome di Strenge Schuldtheorie, secondo l’espressione coniata dalla dottrina tedesca), la quale, sulla base di una costruzione dogmatica che tende a sepa-

teria, l’orientamento prevalente della Suprema Corte è fortemente restrittivo, imponendo una sorta di dovere di censura al giornalista che raccolga le dichiarazioni (si veda, da ultimo, Cass., 11 aprile 2000, n. 7498, in Guida dir. 2000, n. 34, p. 96), pur se, in senso opposto, si legge che ‘‘il giornalista... non solo è tenuto a riportare il testo dell’intervista nella sua integralità, quanto deve rimanere... ‘neutrale’ dinanzi alla pur libera esternazione dell’intervento del soggetto interrogato’’ (Cass., 14 dicembre 1999, n. 2144, in Guida dir. 2000, n. 64). Chiaro è che, secondo questa seconda impostazione, il problema del putativo non viene neanche potenzialmente alla luce, in quanto l’agente dovrebbe limitarsi a riportare integralmente quanto detto dall’intervistato. Si veda, su questo peculiare aspetto, POLVANI, La diffamazione, cit., p. 108 ss. Per quel che invece riguarda la pubblicazione del contenuto di una interrogazione parlamentare, si veda Cass. civ., 19 dicembre 2001, n. 15999, pubblicata sul sito www.massime.it. (41) POLVANI, La diffamazione a mezzo stampa, cit., p. 167. (42) LODATO, Inchieste giornalistiche e tutela dell’onore, in Diritto informaz. e informatica, 1992, p. 488. (43) ZENO-ZENCOVICH, Postilla a Hartmann e Renas: ‘‘inquinamento da mass media’’ e la funzione economica della responsalbilità civile, in Diritto informaz. e informatica, 1986, p. 361.


— 1475 — rare il dolo dalla colpevolezza (44) ed a collocarlo nel fatto tipico (45), considera l’errore sulle scriminanti come un errore sulla liceità del proprio agire e dunque come un vero e proprio error juris. Per rendersene conto, basta riportare qui un breve passo di uno dei più autorevoli esponenti italiani di questa teoria: ‘‘il semplice fatto psicologico dell’errore sulla scriminante non basta a darci la sua rilevanza... la quale è condizionata non soltanto dalla presa che l’errore esercita sulle facoltà psichiche del soggetto, ma dalla sua obiettiva capacità di indurre in inganno... L’errore deve essere insomma scusabile; non si può confondere l’errore che fa venir meno il dolo (art. 47) con quello che, per incidere sulle circostanze di esclusione della pena, elimina qualcosa di diverso che presuppone appunto l’esistenza del dolo (art. 59/4)’’ (46). Dunque, secondo questa impostazione, chi erra sulla sussistenza di una causa di giustificazione, in quanto in dolo rispetto al fatto tipico, conserverebbe comunque la consapevolezza di offendere il bene tutelato dalla norma penale (47); una situazione, quest’ultima, dalla quale, secondo i sostenitori di questa teoria, scaturirebbe a sua volta in capo all’agente un particolare dovere di controllo circa l’effettiva presenza di tutti gli elementi costitutivi della norma scriminante. Insomma, poiché, a differenza di quanto accade con l’errore sul fatto, l’agente qui è consapevole del carattere particolarmente ‘‘rischioso’’ (in senso lato) del suo agire, sarebbe suo preciso dovere usare particolare cura ed attenzione nell’analizzare i presupposti e le circostanze nelle quali egli si trovi ad operare (48). Sarà poi proprio questo attento controllo ad essere determinante rispetto al giudizio finale di colpe(44) Quello del contenuto della colpevolezza è, come noto, uno dei più ‘‘tormentati’’ temi della dogmatica penalistica, stante anche la sua rilevanza ai fini della costruzione di un diritto penale espressione di un giusto bilanciamento tra oggettività dell’illecito e responsabilità soggettiva dell’autore; e dunque quanto meno pretenzioso sarebbe, in questa sede, cercare di fornire un quadro bibliografico completo sull’argomento. Ci limitiamo qui allora a richiamare alcuni fra i contributi più significativi: BELLAVISTA, Il problema della colpevolezza, Palermo, 1942, p. 1 ss.; BETTIOL, Colpevolezza giuridica e colpevolezza morale, in questa Rivista, 1980, p. 1007; DEL RE, Colpevolezza e colpevolizzazzione, Napoli, 1976, p. 15 ss.; FIANDACA, Considerazioni sulla colpevolezza e prevenzione, in questa Rivista, 1987, p. 798; FIORELLA, Responsabilità penale, in Enc. dir., XXXIX, 1988, p. 1289 ss.; M. GALLO, Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951, passim; MAGGIORE, Prolegomeni al concetto di colpevolezza, Palermo, 1950, p. 47 ss.; MARINI, Colpevolezza, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 314 ss.; NUVOLONE, La concezione giuridica italiana della colpevolezza, in questa Rivista, 1976, p. 3 ss.; PADOVANI, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in questa Rivista, 1973, p. 554 ss.; ID., Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in questa Rivista, 1987, p. 795; PETROCELLI, La colpevolezza, Padova, 1955, p. 1 ss.; SANTAMARIA, Colpevolezza, in Enc. dir., VII, Milano, 1961, p. 646 ss.; STILE (a cura di), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, p. 1 ss.; VASSALLI, Colpevolezza, in Enc. giur., VI, Roma, 1988. (45) Per la dottrina italiana — minontaria, pur se autorevole — che accoglie i postulati fondamentali di questa teoria, si veda la nt. 7. Per una ricostrazione più ampia e completa in merito ai vari indirizzi dogmatici della dottrina tedesca sulla natura delle scriminanti putative, e per le relative indicazioni bibliografiche, si veda DE VERO, op. cit., p. 773 ss. (46) SANTAMARIA, Lineamenti, cit., pp. 109-112; l’Autore, tra l’altro, ritiene che tale soluzione sia suggerita dalla stessa relazione preliminare al progetto definitivo del codice. In tema di errore sul fatto (art. 47) si legge infatti che ‘‘il Progetto respinge le distinzioni di errore vincibile o invincibile, scusabile o non scusabile, riconoscendo che quando errore vi è stato, irrilevanti sono la genesi e l’intensità di esso, per escludere il reato al quale l’errore si riferisce. Infatti, nei reati dolosi, quello che importa per escludere il reato è la mancanza di dolo, prescindendo dalle cause che possono determinarla’’. Secondo SANTAMARIA tale valutazione non è invece fatta dal progetto in tema di errore sulle scriminanti proprio perché in materia il codice richiederebbe, sia pur non esplicitamente, l’inevitabilità dell’errore come fondamento per la non punibilità. Per la verità, stupisce che si richiami, a sostegno della Strenge Schuldtheorie, il dato testuale. Quest’ultimo, infatti, come meglio si osserverà nel testo, sembra invece richiamare con sufficiente chiarezza la Vorstatztheorie, tanto da far dire che ‘‘la regola del 2o capoverso dell’art. 59 è in armonia con i principi sull’elemento soggettivo già codificati negli artt. 42, 43 e 47’’. (FROSALI, Errore, in N.mo Dig. It., Vl, 1960, p. 680). (47) Osserva a tal proposito PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 71, che in tale ipotesi ‘‘la realizzazione del fatto sia, di per se stessa, da considerarsi dolosa... anche alla luce di una nozione dell’evento inteso come lesione o messa in pericolo dell’interesse significativo’’. (48) V. PULITANÒ, L’errore di fatto nella teoria del reato, cit., p. 356, il quale afferma che in caso


— 1476 — volezza: nel caso di errore inevitabile, il soggetto non sarà punibile; in caso contrario, stante cioè l’evitabilità di tale erronea rappresentazione, il permanere del giudizio di riprovevolezza nei riguardi del soggetto renderà costui punibile addirittura a titolo di dolo. Non si riscontrerebbe, insomma, nessun parallelismo tra la disciplina dell’errore sul fatto e quella dell’errore sulle cause di giustificazione, perché le due ipotesi in questione avrebbero una natura ben differente (49): mentre in caso di falsa rappresentazione di un elemento della fattispecie incriminatrice il soggetto non potrebbe ‘‘per definizione’’ essere in dolo, non essendosi correttamente rappresentato tutti gli elementi del fatto tipico, in caso di erronea supposizione sulla sussistenza di una scriminante il soggetto si rappresenterebbe ‘‘compiutamente condotta, rapporto di causalità ed evento’’ e vorrebbe ‘‘altresì la lesione dei beni che con il suo fatto realizza’’ (50): la scriminante putativa non sarebbe affatto una ‘‘causa di esclusione del dolo, ma una causa di esclusione, ad un diverso livello, della colpevolezza in senso normativo’’ (51). 6. (Segue). Si è tuttavia già avuto modo di evidenziare come simile soluzione sia fortemente contrastata da quella dottrina che, contrapponendosi proprio all’indirizzo appena (seppur sommariamente) illustrato, ritiene che l’erronea supposizione di una scriminante escluda il dolo. Trattasi, volendo utilizzare anche un’espressione coniata dalla dottrina tedesca e conosciuta anche in Italia, della cd. Vorsatztheorie, la quale, oltre a vantare una cospicua elaborazione dottrinale, può senza dubbio considerarsi come l’impostazione da noi, almeno tendenzialmente, prevalente. I sostenitori di questa teoria (52) partono da una concezione del rapporto tra dolo e colpevolezza ben più tradizionale e (almeno nella nostra dottrina) più ‘‘sperimentata’’ rispetto a quella che sta alla base della cd. teoria della colpevolezza normativa pura. Il dolo non è infatti considerato (secondo l’insegnamento del finalismo welzeliano) come elemento soggettivo del fatto tipico — e come tale in esso ricompreso — ma quale nucleo essenziale, insieme alla colpa, della colpevolezza. Da ciò consegue che lo stesso dolo dovrebbe avere ad oggetto non solo il sostrato fattuale descritto dalla fattispecie tipica, ma anche la conoscenza dell’illiceità della condotta: esso sarebbe un vero e proprio dolus malus (53), indicativo di una volontà negativa e riprovevole del soggetto. Ma da ciò consegue anche una diversa impostazione dell’ipotesi di scriminante putativa: chi agisce credendo di essere giustificato non può essere punito perché a difettare è lo stesso dolo: in tal caso, infatti, il soggetto non vuole porre in essere un fatto che costituisce reato, perché non è consapevole dell’illiceità penale del fatto (54). È, quest’ultima, un’impostazione che ‘‘taglia’’ in modo trasversale la dogmatica italiana, accomunando sostenitori della teoria bipartita e sostenitori della teoria tripartita, i quali, a partire proprio da questi comuni presupposti — già di per di errore sulla scriminante ‘‘la consapevolezza di muoversi su un terreno vietato vi è; e vi è dunque una precisa ragione per riflettere sul valore giuridico della propria condotta’’. (49) Si veda in particolare SANTAMARIA, Lineamenti, cit., p. 88 ss.: l’Autore sottolinea la diversa struttura giuridica dell’errore sulle scriminanti e dell’errore sul fatto, e ritiene che ‘‘dal nostro ordinamento giuridico si possono ricavare tre tipi di errore: l’errore sulla legge penale... l’errore sul ‘fatto che costituisce reato’, che scusa nei limiti dell’art. 47, l’errore sulle ‘circostanze di esclusione della pena’, che scusa nei limiti dell’art. 59’’. (50) FIORE, Diritto penale, cit., p. 415. (51) PROSDOCIMI, Dolus eventualis, cit., p. 70. (52) Si vedano gli Autori citati nella nt. 7, nonché nelle note seguenti. (53) Su questo particolare aspetto si veda MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, p. 66 ss. (54) Limpidamente in questi termini ragiona MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1248.


— 1477 — sé sufficienti a spiegare l’efficacia comunque scusante dell’errore sulle scriminanti — elaborano poi in merito allo stesso problema ricostruzioni parzialmente diverse. Da una parte, ci sono i sostenitori della teoria degli elementi negativi del fatto (55), i quali ritengono che ‘‘le scriminanti, ove ritenute presenti, escludono il dolo, al pari della mancata rappresentazione degli ‘elementi positivi’ ’’ (56); poiché infatti la tipicità del fatto comprende l’assenza delle cause di giustificazione, e poiché il dolo consiste nella coscienza e volontà del fatto tipico, in caso di erronea supposizione sulla presenza di una scriminante, in quanto assente nella mente del soggetto la rappresentazione di un requisito di tipicità, a mancare sarebbe per l’appunto il dolo del fatto tipico. Dall’altra parte ci sono i sostenitori della cosiddetta ‘‘teoria tripartita’’, i quali giungono sostanzialmente alle stesse conclusioni affermando che ‘‘quando il contenuto della rappresentazione e della volizione è un fatto... lecito... manca il dolo... che, essendo volontà di realizzazione di un fatto... considerato dall’ordinamento come antigiuridico, non può proprio profilarsi quando ciò che si è voluto realizzare è un fatto... che l’ordinamento considera lecito » (57). Pur se dunque si postulano l’autonomia e la precedenza ‘‘cronologica’’ della tipicità rispetto a quella che sarà poi la valutazione fatta dalla legge in termini di liceità-illiceità, si ritiene comunque che il soggetto non può essere in dolo qualora ritenga di agire in presenza di circostanze che eliderebbero — laddove effettivamente sussistenti — l’antigiuridicità del fatto, poiché oggetto del dolo dovrebbe essere anche una coscienza effettiva della illiceità del proprio agire. 7. La contrapposizione tra le due sudette teorie non esaurisce certo il panorama delle impostazioni fin qui maturate, nella letteratura penalistica, in merito all’errore sulle scriminanti. Ancora di recente, anzi, alcuni Autori hanno provato a spiegare la disciplina dell’art. 59/4 c.p. sulla base di schemi non riconducibili né all’una né all’altra delle teorie testé riportate (58); ed in lavoro di diverso tipo e di (55) Come è noto, secondo la cd. concezione bipartita nella struttura del reato, ‘‘accanto agli elementi positivi l’ordinamento prende in considerazione altri ‘elementi’ oggettivi la cui presenza elide il carattere illecito del fatto eventualmente realizzato dall’agente: trattasi di quelle situazioni note come scriminanti che, secondo lo schema sistematico seguito, ben possono classificarsi, se afferenti all’elemento oggettivo, come ‘elementi oggettivi negativi’ del reato’’. MARINI, Lineamenti del sistema penale, 2o ed., Torino, 1993, p. 254 ss. (56) CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, Padova, 1998, p. 434. Come è stato giustamente osservato, ‘‘la rilevanza del putativo è indispensabile perché si possa parlare di elementi negativi della condotta illecita’’ (PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 1998, 6o ed., p. 451: se infatti le scriminanti sono elementi negativi, il soggetto, per essere in dolo, deve rappresentarsi la loro assenza, così come deve rappresentarsi la presenza di tutti gli elementi positivi. Nel momento in cui il soggetto crede che sia presente una causa di giustificazione, non se ne è rappresentato l’assenza, e dunque non può essere punito per dolo. (57) MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 1248. (58) Così ad esempio DE VERO, op. cit., p. 773 ss., ci ricorda come tra queste due antitetiche posizioni si collochi una impostazione teorica intermedia che si è sviluppata in Germania col nome di Rechtfolgenverveisende Schuldtheorie. Questa teoria parte da presupposti analoghi a quelli della cd. Strenge Schuldtheorie, affermando che chi erra sulla sussistenza di una scriminante comunque avrebbe il dolo del fatto tipico, tanto che solo l’errore inevitabile potrà escludere la sua colpevolezza; si discosta però decisamente dalla stessa quando propone, in caso di errore evitabile, di punire l’agente (che pure è ‘‘in dolo’’ secondo questa teoria) per colpa poiché il giudizio di riprovazione derivante da un difetto di attenzione nell’agire, pur riferendosi ad un fatto doloso, sarebbe attenuato, posto che tale negligenza dell’agente ricorderebbe più i normali contenuti della colpevolezza colposa che non quelli della colpevolezza dolosa. Tali conclusioni, peraltro, discendono da una impostazione teorica di fondo per la quale dolo e colpa avrebbero una ‘‘doppia posizione’’ nel reato: da un lato si dice che dolo e colpa sono portatori del disvalore d’illecito nell’ambito della fattispecie tipica; dall’altro si aggiunge che gli stessi sono contemporaneamente sintomi del disvalore dell’atteggiamento mentale dell’agente, ovvero modi di essere della colpevolezza. Ad un fatto tipico doloso potrebbe allora corrispondere una colpevolezza colposa, e ciò varrebbe, ad esempio, in caso di erronea ed evitabile rappresentazione di una circostanza scriminante. Per una analisi critica di questa teoria si veda DE VERO, op. e loc. ult. cit. Nelle linee-guida di questa impostazione sembra in ve-


— 1478 — più ampio respiro, ci si potrebbe anche interrogare su quale sia, in astratto, l’impostazione dogmatica più convincente. Tutto ciò però esula dalle finalità della nostra analisi. Quanto fin qui illustrato, infatti tendeva soprattutto a dimostrare lo stretto legame intercorrente fra l’indirizzo giurisprudenziale ‘‘dominante’’, di cui la sentenza in epigrafe è espressione, ed i principali postulati della cd. Strenge Schuldtheorie. Ciò che qui può semmai rilevarsi è come, a prescindere dalla fondatezza dogmatica delle diverse impostazioni di cui si è detto, la lettura dell’art. 59/4 c.p. sembrerebbe in realtà assai più conciliabile con i postulati della cd. Vorsatztheorie. Di particolare importanza, a tal proposito, è il secondo capoverso del suddetto comma 4 se, infatti, l’errore derivante da negligenza dell’agente può dar luogo a responsabilità colposa (e non dolosa), un’erronea rappresentazione non cagionata da colpevole disattenzione dell’agente non può che portare ad una esclusione assoluta della responsabilità penale. Dal dato normativo insomma sembra evincersi con chiarezza che l’erronea rappresentazione debba escludere comunque il dolo, mentre è fatta salva l’eventualità di una responsabilizzazione colposa del soggetto agente (qualora, ovviamente, il fatto sia espressamente preveduto come delitto colposo). Questa interpretazione è d’altra parte, come si è già osservato, pressoché costante nell’elaborazione di una dottrina che spesso ha sottolineato come vi sia un preciso parallelismo fra la disciplina prevista dal Codice per l’ignoranza o l’erronea opinione di inesistenza di un elemento del fatto che è invece presente, e quella per la supposizione erronea della sussistenza di una causa di giustificazione: ‘‘entrambi tali atteggiamenti psicologici escludono il dolo e possono fondare la colpa’’ (59). D’altra parte, se pure, in perfetta coerenza con l’impostazione della teoria della colpevolezza normativa pura, si volesse affermare che l’errore ‘‘negligente’’ sulla sussistenza di una scriminante comporti una responsabilità dolosa, quale tipo rità potersi scorgere qualche parallelismo con quella parte della dottrina italiana che, in tempi ormai risalenti, aveva enucleato la teoria della cd. colpa impropria: si vedano, in particolare, SANTORO, La definizione del delitto colposo, in Riv. dir. penit., 1937, p. 1200 ss.; nonché PANNAIN, Natura giuridica del reato commesso per eccesso colposo, in Arch. pen., 1949, II, p. 299 ss.; in giurisprudenza si veda Cass., 14 maggio 1937, in Giust. pen., 1938, II, p. 457 ss. Come è noto, però, questa impostazione fu presto abbandonata in Italia, quando si iniziò ad affermare l’idea che le fattispecie di cui agli artt. 47, 55 e 59/4, lungi dal delineare ipotesi eccezionali di colpa, costituirebbero invece ‘‘il nucleo fondamentale per costruire compiutamente la dommatica del reato’’. SPASARI, Esegesi e dommatica della colpa, in Studi in memoria di G. Delitala, Milano, 1984, p. 1512. Nella nostra letteratura comunque la stessa idea che il dolo e la colpa possano avere una ‘‘doppia posizione’’ nel reato è stata criticata con forza: in particolare, si è affermato che ‘‘l’ordinamento penale italiano non conosce un giudizio di colpevolezza (nel senso del diritto sostanziale) autonomo e distinto rispetto all’accertamento del dolo (o della colpa)... Se in certi casi il dolo va particolarmente arricchito di intenzioni malevole (fine di danno, ‘habitus’ offensivi nel reato abituale) o di rappresentazioni pregnanti (antigiuridicità, disvalore sociale del fatto rispetto ad alcuni interessiscopo), nondimeno il linguaggio dell’ordinamento non conosce che il solo e ‘unitario’ concetto di dolo (o di colpa), non conosce neppure il termine colpevolezza in una accezione tecnica come quid distinto dalla tipicità oggettiva e soggettiva: quel quid che la stessa Corte Costituzionale postula, peraltro, espressamente nelle sentenze 364/1988 e 1085/1988’’ (DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 289 ss.). In tema di scriminanti putative, una ulteriore e diversa posizione assumono poi quegli Autori che, pur accogliendo i postulati della cd. Vorsatztheorie, hanno provato a porsi in una posizione diversa da quelle riconducibili alle teorie cd. bipartita e tripartita, cercando così di trovare ulteriori ragioni che permetterebbero di fondare l’efficacia scusante dell’errore sulle scriminanti. Oltre agli Autori citati nell’ultima parte della precedente nt. 7, si può qui ricordare, in quanto particolarmente stimolante, la soluzione prospettata da DE VERO (Le scriminanti putative, cit., p. 773), il quale ritiene che possa ritenersi esistente, accanto alla fattispecie incriminatrice, una ontologicamente diversa fattispecie scriminata, la quale sarebbe con la prima in rapporto di specialità. Infatti secondo l’Autore la fattispecie scriminata non sarebbe altro che una fattispecie incriminata accompagnata dagli elementi strutturali di una giustificante. In tal senso, allora, il soggetto che agisca in ‘‘presenza’’ di una scriminante putativa, non potrebbe avere il dolo della fattispecie incriminata, essendosi rappresentata la diversa fattispecie scriminata. Per una critica a tale teoria si veda tuttavia CAVALIERE, L’errore sulle scriminanti, cit., p. 509, nt. 154. (59) GROSSO, Errore, cit., p. 3 ss.


— 1479 — di errore potrebbe allora mai condurre a quella responsabilità colposa cui pure tale norma fa riferimento? Laddove si affermi che l’errore frutto di negligenza è fonte di responsabilità dolosa, nessuno spazio può rimanere per quella imputazione colposa cui pure la norma in questione fa riferimento: tra scusabilità e inescusabilità tertium non datur, e dunque, una volta fatte le scelte interpretative di cui sopra, si dovrebbe necessariamente arrivare (come del resto la giurisprudenza fin qui citata finisce col fare) ad un’interpretatio abrogans del secondo capoverso dell’art. 59/4 c.p. Né, a nostro modesto avviso, il riferimento da parte dell’art. 59/4 c.p. alla colpa può interpretarsi in chiave diversa da quella prospettata dalla cd. Vorsatztheorie: letto infatti in chiave sistematica, quell’articolo induce infatti a pensare che il legislatore abbia usato, per disciplinare l’errore colposo sul fatto e l’errore colposo sulle scriminanti, un’analoga espressione perché ha voluto imporre un’analoga disciplina. Se così non fosse, occorrerebbe comunque riuscire nel difficile intento di dimostrare che, al di là di quell’errore frutto di negligenza che, secondo la giurisprudenza, darebbe luogo a responsabilità dolosa, possa esistere un diverso e minore grado di rimproverabilità, tale da fondare la responsabilità colposa. Si pensi per un momento al caso di scuola del soggetto che, credendosi minacciato da una pistola (in realtà giocattolo), uccida il presunto aggressore credendo di doversi legittimamente difendere: se la sua comprovata negligenza comporterà, nell’ottica in cui ragiona la giurisprudenza, una imputazione per omicidio doloso, francamente resta difficile comprendere quand’è che invece, in virtù del secondo capoverso dell’art. 59/4 c.p., l’agente suddetto dovrà rispondere di omicidio colposo. La stessa giurisprudenza, del resto, dimostra di trovarsi in difficoltà, visto che, in casi del genere, ha quasi costantemente concluso o per l’esclusione di ogni responsabilità — in caso di evidente ragionevolezza dell’errore — o per la punibilità a titolo di dolo — in caso di inescusabilità dell’errore, non arrivando quasi mai invece ad affermare quella responsabilità colposa che, in effetti, finisce per non avere alcun margine di configurabilità. 8. Quanto fin qui rilevato non può dunque che rafforzare le perplessità da noi già espresse all’inizio della trattazione: grazie anche ad un’accettazione della teoria della colpevolezza pura, non adeguatamente ‘‘filtrata’’ da una rigorosa interpretazione dell’art. 59/4 c.p., la giurisprudenza ha finito col degradare ‘‘la diffamazione a reato colposo, benché la legge esiga che sia punito solo a titolo di dolo. Sollecitato dall’evidente intento di colmare presunte lacune di tutela, non per questo l’indirizzo in parola riceve però autentica legittimazione: sul terreno del diritto positivo la diffamazione è e rimane un delitto doloso... Nell’ambito dei delitto puniti soltanto a titolo di dolo, l’errore scusa comunque, anche se la sua origine sia dovuta ad un comportamento colposo: lungi dall’essere opinabile, questa conclusione è l’unica in linea col diritto positivo, essendo imposta dall’ultimo comma dell’art. 59 c.p.’’ (60). In tal senso, si è giunti a parlare in dottrina di ‘‘sciatta prassi giurisprudenziale che spesso e volentieri fonda l’effettiva conoscenza degli elementi del fatto, richiesta dal dolo, sulla loro possibilità di conoscerli, trasformando così la prova del dolo in prova della colpa’’ (61). Si tratta, come si vede, di un giudizio estremamente severo, che però induce ad ipotizzare una ulteriore possibile chiave di lettura delle scelte fatte dalla Cassazione in materia di errore sulla verità del narrato. La sensazione infatti è che i giudici di legittimità, almeno in qualche occasione, (60) FIANDACA, Nuove tendenze repressive in tema di diffamazione a mezzo stampa?, cit., p. 534. (61) MARINUCCI, Politica criminale, cit., p. 430. Per MARINUCCI, tra l’altro, la lotta a tale atteggiamento giurisprudenziale è uno dei principali obiettivi che vanno perseguiti in un’ottica di riforma.


— 1480 — abbiano di fatto sovrapposto tra loro piano probatorio e piano sostanziale (62): un conto infatti è subordinare la prova dell’effettività dell’errore in cui il giornalista è incorso a parametri ‘‘presuntivi’’ quali la diligenza dei suoi accertamenti o la verosimiglianza oggettiva ex ante del narrato; altro è invece trasfondere tutto questo sul piano sostanziale, affermando testualmente che ‘‘la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte’’ (63). La diligenza qui, come si vede, non è considerata come una prova circa la ‘‘genuinità’’ dell’errore del cronista, ma come elemento necessario per la sua rilevanza. Questa sovrapposizione tra piano sostanziale e piano probatorio è stata peraltro già oggetto di critiche in dottrina: in particolare, si è osservato che essa è frequente laddove il giudice debba confrontarsi con elementi di fattispecie prognostici ed incerti, rispetto ai quali, cioè, risulti difficile provare che il soggetto che dichiari di aver errato sia in realtà in mala fede (64). Di fronte all’horror vacui nascente da ipotetici vuoti di punibilità cagionati dall’impossibilità di smontare probatoriamente le affermazioni di quel giornalista che abbia, ad esempio, dichiarato di aver ritenuto vera la notizia pubblicata, può nascere cioè la tendenza a considerare quali requisiti di rilevanza dell’errore quelli che dovrebbero invece essere meri indizi della ‘‘effettività’’ dello stesso, così trasferendo in capo all’imputato il relativo onere probatorio. Le istanze di politica criminale, però, non possono essere criteri d’ispirazione per una giurisprudenza che è chiamata a pronunciarsi sul diritto vigente, e dunque, se pure moralmente criticabile, il giornalista che pubblichi notizie offensive dell’altrui dignità senza porre attenzione negli accertamenti atti a verificare la verità dei fatti nel nostro ordinamento giuridico non potrà comunque essere assoggettato a pena, stante il disposto dell’art. 59/4 c.p. Tutt’al più, si potrà chiedere al giudice di merito una particolare attenzione nell’analisi relativa all’elemento psicologico che sorregga l’agire del giornalista, onde escludere che questi possa versare in dolo eventuale a causa del dubbio che comunque avesse in merito alla fondatezza delle notizie da lui riportate (65): laddove però ciò possa essere escluso, e laddove dunque si debba ritenere effettiva la falsa rappresentazione dell’agente, non si potrà che escludere la punibilità per diffamazione. 9. Il fatto che, rebus sic stantibus, la disciplina in materia di errore sulle scriminanti dettata dall’art. 59/4 c.p. non possa che condurre alla non punibilità (62) Questa chiave di lettura è proposta anche da DE FRANCESCO, ‘‘Il modello analitico’’ tra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in questa Rivista, 1991, p. 107 ss. (63) Cass., 8 maggio 1998, m. 211539, citata nella motivazione della sentenza in epigrafe. (64) Si veda DE FRANCESCO, Il modello analitico, cit., p. 107 ss. (65) Anche da questo punto di vista, per la verità, i problemi non mancherebbero di certo: è noto infatti l’atteggiamento di certa giurisprudenza, spesso troppo incline (soprattuto in settori politico-criminali emergenti quale quello economico), ad utilizzare la categoria del dolo eventuale per reprimere fatti sorretti da un atteggiamento più correttamente definibile di colpa cosciente, ma preveduti nella sola forma dolosa, con sostanziale elusione del principio di tassatività della responsabilità per colpa nei delitti (si vedano, tra gli altri, su questi aspetti, CANESTRARI, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, p. 1 ss.; EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, p. 3 ss.; PAGLIARO, Discrasie tra dottrina e giurisprudenza? (in tema di dolo eventuale, ‘‘dolus in re ipsa’’ ed errore su legge extrapenale), in STILE (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza, Napoli, 1991, p. 115; per una dettagliata analisi di sentenze che svalutano il ruolo dell’elemento soggettivo del reato, SGUBBI, Il reato come rischio sociale. Ricerche sulle scelte di allocazione dell’illegalità penale, Bologna, 1990, p. 56 ss.); e sono dunque prevedibili gli effetti ‘‘dirompenti’’ che il ricorso a questa figura, non accompagnato da un atteggiamento di assoluto rigore, potrebbe produrre.


— 1481 — del giornalista che abbia negligentemente errato sulla veridicità di notizie lesive dell’altrui reputazione, non vuol certo dire che valutazioni diverse non possano farsi in una prospettiva de jure condendo. La particolare rilevanza (costituzionale) del bene tutelato dall’art. 595 c.p. richiede infatti, da parte di chi eserciti una professione così rischiosa per quel bene quale è la professione giornalistica, una particolare diligenza, e da parte dell’ordinamento giuridico un’adeguata tutela; e dunque assolutamente necessario risulta ipotizzare per il futuro una riforma che, pur salvaguardando anche in questa materia l’efficacia scusante dell’errore sulle cause di giustificazione, renda più severo il trattamento di chi, giornalista o altro, si comporti con eccessiva leggerezza e grave negligenza, ledendo così l’onore e la reputazione altrui. Una prima soluzione potrebbe essere quella, da più parti prospettata (66), di introdurre nell’ordinamento il reato di diffamazione colposa, in modo da poter punire a tale titolo quel comportamento lesivo dell’altrui onore che sia determinato non da una volontà in tal senso direzionata, ma da una ingiustificata ed evitabile disattenzione. Non si può tuttavia dimenticare che i delitti contro l’onore, pur se costruiti come reati a dolo generico, sono sempre stati concepiti come caratterizzati da un dolo rivolto finalisticamente all’offesa dell’altrui dignità, tanto che parte della dottrina più risalente (67) era solita affermare che caratteristica precipua dell’ingiuria e della diffamazione sarebbe l’antisocialità del movente dell’azione (68) (impostazione, quest’ultima, secondo cui, come noto, necessario sarebbe per la configurabilità di questi reati l’animus iniuriandi vel diffamandi); e dunque una riforma di questo tipo finirebbe probabilmente con lo stravolgere la natura e lo stesso significato politico-criminale di queste fattispecie, piegandone l’intima e originaria vocazione ad esigenze meramente contingenti. Si potrebbe allora pensare — come già è stato proposto (69) — ad una codificazione della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, che sia però ricostruita sul modello delle cosiddette cause di giustificazione ‘‘a rischio consentito’’ (70). (66) V. VASSALLI, Libertà di stampa e tutela penale dell’onore, cit., p. 3 ss.; o GIANZI, La rilevanza sociale delle notizie con riguardo alla qualità del soggetto passivo della diffamazione, in Tutela dell’onore e mezzi di comunicazione di massa, Atti del convegno giuridico ‘‘Informazione Diffamazione Risarcimento’’, Milano, 1979, p. 123 ss. (67) Come è noto, tale tesi e stata sostenuta in particolare da FLORIAN, in Ingiuria e diffamazione, 2o ed., Milano, 1939, p. 177 ss.; e in La teoria psicologica della diffamazione, Torino, 1927, 2o ed., p. 2 ss. Contra Cass., 31 agosto 1992, in Mass. cass. pen., 1992, m. 191.678; Cass., 15 ottobre 1987, in Riv. pen., 1989, p. 418; Cass., 16 giugno 1981, in Giur. it., 1982, II, p. 346; Cass., 6 marzo 1970, in Giust. pen., 1971, II, p. 161). (68) V. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Milano, 1999, p. 198. (69) Si veda, in particolare, l’articolata e interessante analisi in merito di DE VERO, Le scriminanti putative, cit., p. 780 ss. (70) Come è noto, la particolarità di tali cause di giustificazione deriva dal fatto che esse operano anche qualora sussista comunque una situazione di obiettiva e difficilmente superabile incertezza sulla attualità, sull’effettività del conflitto di beni in gioco: in altri termini l’ordinamento giuridico con tali norme accetterebbe che un fatto possa essere considerato lecito anche qualora il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice risulti sacrificato rispetto ad un interesse contrapposto che ex post si sia rivelato inesistente. Tale soluzione potrebbe essere prospettata rispetto a quelle cause di giustificazione che presentino elementi di fattispecie la cui presenza sia difficilmente accertabile ex ante, quantomeno con sicurezza assoluta (si pensi alla stessa verità nel diritto di cronaca o anche al pericolo nella legittima difesa e nello stato di necessità). Sia chiaro, però, che tale modello può essere considerato solo in una prospettiva de lege ferenda, poiché l’attuale sistema penale italiano richiede, affinché sussistano gli estremi di una scriminante nella sua dimensione reale, che l’interesse antagonista rispetto a quello tutelato dalla norma incriminatrice sia realmente sussistente. Per alcuni rilievi su tale species di cause di giustificazione si veda, oltre al lavoro di DE VERO, citato nella nota precedente, CAVALIERE, Riflessioni dogmatiche e politico-criminali sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega legislativa per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 1498 ss. Sulla categoria generale del rischio nel diritto penale si veda MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 13 ss.


— 1482 — In effetti, l’idea dell’introduzione di una autonoma giustificante consistente nell’esercizio del diritto di cronaca è già presente nel cd. Progetto Pagliaro, ove si dice che deve ritenersi ‘‘giustificata l’offesa dell’altrui onore o decoro, quando corrisponda ad un interesse sociale prevalente sull’interesse offeso, sia espressa con modalità di per sé non offensive e, ove si riferisca ad un fatto, questo corrisponda a verità’’ (71). Tuttavia, tale limpida e chiara disposizione, ricalcando quella che in sostanza è già oggi la struttura del diritto di cronaca, potrebbe non eliminare quelle oscillazioni e quei dubbi che — come si è visto — sembrano manifestarsi nella prassi sul confine tra dimensione reale e dimensione putativa di questa causa di giustificazione. Utilizzando invece il modello delle scriminanti a ‘‘rischio consentito’’, si potrebbe elidere dalla nuova norma giustificante ogni riferimento alla verità del narrato ed introdurre in essa ‘‘il dovere di rigorosa verifica da parte dell’agente’’ (72) su ciò che egli decida di far pubblicare: ciò vuol dire che la diligenza del giornalista diventerebbe un vero requisito della dimensione oggettiva della scriminante. In questo modo, se l’agente porrà in essere tutti i dovuti controlli non potrà essere punito se il fatto dovesse poi risultare falso, poiché comunque il suo agire avrebbe integrato tutti gli elementi della norma scriminante; se invece lo stesso agente pubblicasse una notizia falsa senza riscontri, pur ritenendola vera, sarebbe comunque punibile per dolo, in quanto il suo errore ricadrebbe sulla stessa struttura normativa della fattispecie liceizzante (egli infatti non avrebbe rispettato il dovere di rigorosa verifica) (73). L’unica obiezione che si potrebbe proporre è che in questo modo, qualora il giornalista sia stato negligente ma la notizia sia lo stesso risultata vera, egli dovrebbe essere punito per dolo, nonostante il bilanciamento effettivo degli interessi in gioco, perché il suo agire non avrebbe integrato tutti gli estremi della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca a causa della mancanza di una rigorosa verifica sulla verità dei fatti. Si potrebbero, allora, onde evitare tale paradosso, ampliare de jure condendo le ipotesi di exceptiones veritatis (74): fermo restando che il mancato adempimento del dovere di rigorosa verifica impedirebbe l’operare della scriminante dell’esercizio del dirito di cronaca, sarebbe sufficiente prevedere una nuova prova liberatoria fondata sulla verità del narrato (75). In questo modo, si garantirebbe la non punibilità in caso di pubblicazioni riportanti narrazioni di (71) Art. 80/3 dell’articolato. (72) DE VERO, Le scriminanti, cit., p. 781. (73) In questo senso DE VERO, op. ult. cit., p. 782 ss., nota come ‘‘l’onere di coscienziosa verifica dell’attendibilità delle fonti di informazione, se inteso come requisito di struttura, sia pure soggettivo, della scriminante, consente di svincolare la questione della notizia risultata falsa dall’eventuale rilevanza putativa della causa di liceità: una volta adempiuto l’obbligo... ricorre la scriminante dell’esercizio del diritto già nella sua dimensione reale. Un margine di autentica rilevanza putativa... può configurarsi solo ove l’agente... sia convinto per errore di fatto di avere adempiuto il suo dovere professionale, in quanto, ad esempio, abbia scambiato l’intestazione del telefax parvenutogli con quella di un’agenzia di stampa di sicura affidabilità’’. (74) Per un approfondimento sul ruolo che l’exceptio veritatis ha nei delitti contro l’onore, si vedano: CHIAROTTI, Appunti sulla natura dell’‘‘exceptio veritatis’’, in Arch. pen., 1956, I, p. 177; DALLA CASA, ‘‘Exceptio veritatis’’ in un caso di offesa al pubblico ministero, in Foro it., 1987, II, p. 254; GREGORI, Exceptio veritatis, Padova, 1974, passim; MANTOVANI, Fatto determinato, ‘‘exceptio veritatis’’ e libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1973, passim; MANZINI, La prova della verità dell’addebito nei delitti di ingiuria e diffamazione, in questa Rivista, 1946, p. 453 ss.; MORO, Osservazioni sulla natura giuridica della ‘‘exceptio veritatis’’, in questa Rivista, 1954, p. 3 ss.; PANNAIN, La prova liberatoria nei delitti contro l’onore, in Studi per S. Longhi, Roma, 1935; PANNAIN, In tema di ‘‘exceptio veritatis’’, in Arch. pen., 1950, II, p. 249 ss.; PEDRAZZI, L’exceptio veritatis. Dogmatica ed esegesi, in questa Rivista, 1954, p. 428 ss.; VACCHIANO, Rilevanza del delitto di diffamazione e in particolare dell’istituto della ‘‘exceptio veritatis’’, in questa Rivista, 1983, p. 645 ss.; VASSALLI, Prova della verità dei fatti e uso legittimo delle fonti d’informazione, in Giust. pen., 1950, II, p. 1183 ss. (75) Per maggiori dettagli su questa possibilità si veda DE VERO, op. ult. cit., p. 786 ss.


— 1483 — fatti veri — soddisfacendo così comunque quel fondamentale bisogno di ‘‘sapere’’ che sembra nutrire la società dei nostri giorni — e si eviterebbe, al contempo, di dover escludere la punibilità di quel giornalista negligente che abbia comunque pensato di narrare il vero, poiché in tal caso questi non avrebbe commesso un errore sul fatto, ma avrebbe dimostrato di non conoscere gli stessi requisiti di struttura della scriminante, commettendo dunque un errore sul precetto. DANIELE SERANI Borsista in Diritto penale presso l’Università degli studi di Teramo


RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)

La decisione quadro sul mandato d’arresto europeo. 1. Il 7 agosto 2002 — e cioè nel ‘‘ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale’’ delle Comunità europee, avvenuta il 18 luglio — è entrata in vigore (art. 35) la ‘‘decisione quadro’’ del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (2000/S84/GAI). L’art. 34 della decisione quadro (come tale priva di ‘‘efficacia diretta’’) (1) stabilisce, nel § 1, che ‘‘Gli Stati membri adottano le misure necessarie per conformarsi alle disposizioni della presente decisione quadro entro il 31 dicembre 2003’’. Quanto poi, in particolare, alla posizione dell’Italia, va tenuto conto anche della composita ‘‘disposizione transitoria’’ di cui all’art. 32: ‘‘Le richieste di estradizione ricevute antecedentemente al 1o gennaio 2004 continueranno ad essere disciplinate dagli strumenti esistenti in materia di estradizione. Le richieste ricevute a partire dal 1o gennaio 2004 saranno soggette alle norme adottate dagli Stati membri conformemente alla presente decisione quadro. Tuttavia ogni Stato membro può, al momento dell’adozione della presente decisione quadro da parte del Consiglio, fare una dichiarazione secondo cui in qualità di Stato dell’esecuzione esso continuerà a trattare le richieste relative a reati commessi prima di una data da esso precisata conformemente al sistema di estradizione applicabile anteriormente al 1o gennaio 2004. La data in questione non può essere posteriore al 7 agosto 2002. Tale dichiarazione sarà pubblicata nella Gazzetta ufficiale e può essere ritirata in qualsiasi momento’’. In tale contesto va per l’appunto intesa la ‘‘Dichiarazione dell’Italia’’ risultante dall’Allegato 2, § 3, della decisione quadro. Secondo il § 3.1, ‘‘Per dare esecuzione alla decisione quadro sul mandato di cattura europeo il Governo italiano dovrà avviare le procedure di diritto interno’’ in vista del raggiungimento dei seguenti (e piuttosto eccentrici) obiettivi: ‘‘rendere la decisione quadro stessa compatibile con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali’’, e ‘‘avvicinare il suo sistema giudiziario ed ordinamentale ai modelli europei’’. Si specifica poi, al § 3.2, che ‘‘l’Italia continuerà a trattare in conformità delle norme vigenti in materia di estradizione tutte le richieste relative a reati commessi prima della data di entrata in vigore della decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, determinata ai sensi dell’art. 32’’.

(*) A cura di MARIO PISANI. La rubrica ha avuto inizio, in questa Rivista, nel 1997, in ideale continuità con quella di ugual titolo, a suo tempo apparsa in Ind. pen. (1981-1996). (1) L’art. 34, § 2, lett. b) del Trattato sull’Unione europea prevede ‘‘decisioni quadro per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri’’: decisioni vincolanti per questi ultimi ‘‘quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi’’.


— 1485 — 2. Per un congruo inquadramento dell’importante e innovativa disciplina, riteniamo opportuno riportare il preambolo della decisione quadro (2). ‘‘IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’art. 31, lettere a) e b), e l’art. 34, § 2, lettera b), vista la proposta della Commissione, visto il parere del Parlamento europeo, considerando quanto segue: (1) In base alle conclusioni del Consiglio di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, ed in particolare il punto 35, è opportuno abolire tra gli Stati membri la procedura formale di estradizione per quanto riguarda le persone che si sottraggono alla giustizia dopo essere state condannate definitivamente ed accelerare le procedure di estradizione per quanto riguarda le persone sospettate di aver commesso un reato (3). (2) Il programma di misure per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali, previsto al punto 37 delle conclusioni di Tampere e adottato dal Consiglio il 30 novembre 2000, affronta la questione dell’esecuzione reciproca del mandato d’arresto. (3) Tutti o alcuni degli Stati membri aderiscono ad una serie di convenzioni nel settore dell’estradizione. Tra queste si possono annoverare la convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 e la convenzione europea per la repressione del terrorismo del 27 gennaio 1977. I paesi nordici possiedono leggi sull’estradizione redatte in modo identico. (4) Inoltre, gli Stati membri hanno concluso tra loro le seguenti tre convenzioni concernenti in tutto o in parte l’estradizione, che fanno parte dell’acquis dell’Unione: la convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 relativo alla soppressione graduale dei controlli alle frontiere comuni nelle relazioni tra gli Stati membri parte della convenzione, del 19 giugno 1990; la convenzione del 10 marzo 1995 relativa alla procedura semplificata di estradizione tra gli Stati membri dell’Unione europea e la convenzione del 27 settembre 1996 relativa all’estradizione tra gli Stati membri dell’Unione europea. (5) L’obiettivo dell’Unione di diventare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia comporta la soppressione dell’estradizione tra Stati membri e la sua sostituzione con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie. Inoltre l’introduzione di un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate, al fine dell’esecuzione delle sentenze di condanna in materia penale o per sottoporle all’azione penale, consente di eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina attuale in materia di estradizione. Le classiche relazioni di cooperazione finora esistenti tra Stati membri dovrebbero essere sostituite da un sistema di libera circolazione delle decisioni giudiziarie in materia penale, sia intervenute in una fase anteriore alla sentenza, sia definitive, nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. (6) Il mandato d’arresto europeo previsto nella presente decisione quadro costituisce la prima concretizzazione nel settore del diritto penale del principio di riconoscimento reciproco che il Consiglio europeo ha definito il fondamento della cooperazione giudiziaria. (7) Poiché l’obiettivo di sostituire il sistema multilaterale di estradizione creato sulla base della convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 non può essere sufficientemente realizzato unilateralmente dagli Stati membri e può dunque, a causa della dimensione e dell’effetto, essere realizzato meglio a livello dell’Unione, il Consiglio può adottare misure, nel rispetto del principio di sussidiarietà menzionato all’art. 2 del trattato sull’Unione europea e all’art. 5 del trattato che istituisce le Comunità europee. La presente de-

(2) La necessità di un attenta lettura del preambolo alla decisione-quadro, ‘‘che sembra stata omessa da alcuni commentatori’’, è sottolineata da SELVAGGI e VILLONI, nell’accurata analisi dal titolo: Questioni reali e non sul mandato europeo d’arresto, in Cass. pen., 2002, p. 454. Per altre note di commento v. BRUTI LIBERATI e PATRONE, Il mandato di arresto europeo, in Questione giustizia, n. 1/2002, p. 70; GALANTINI, Prime osservazioni sul mandato d’arresto europeo, in Il Foro ambrosiano, 2002, p. 265. (3) V. in questa Rivista, 2000, p. 394; 2002, p. 1132.


— 1486 — cisione quadro si limita a quanto è necessario per conseguire tali scopi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo. (8) Le decisioni relative all’esecuzione di un mandato d’arresto europeo devono essere sottoposte a un controllo sufficiente, il che implica che l’autorità giudiziaria dello Stato membro in cui la persona ricercata è stata arrestata dovrà prendere la decisione relativa alla sua consegna. (9) Il ruolo delle autorità centrali nell’esecuzione del mandato d’arresto europeo dev’essere limitato all’assistenza pratica e amministrativa. (10) Il meccanismo del mandato d’arresto europeo si basa su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri. L’attuazione di tale meccanismo può essere sospesa solo in caso di grave e persistente violazione da parte di uno Stato membro dei principi sanciti all’art. 6, § 1 del trattato sull’Unione europea constatata dal Consiglio in applicazione dell’art. 7, § 1, dello stesso trattato, e con le conseguenze previste al § 2 dello stesso articolo. (11) Il mandato d’arresto europeo dovrebbe sostituire tra gli Stati membri tutti i precedenti strumenti in materia di estradizione, comprese le disposizioni del Titolo III della convenzione d’applicazione dell’accordo di Schengen che riguardano tale materia. (12) La presente decisione quadro rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi sanciti dall’art. 6 del trattato sull’Unione europea e contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, segnatamente il capo VI. Nessun elemento della presente decisione quadro può essere interpretato nel senso che non sia consentito rifiutare di procedere alla consegna di una persona che forma oggetto di un mandato d’arresto europeo qualora sussistano elementi oggettivi per ritenere che il mandato d’arresto europeo sia stato emesso al fine di perseguire penalmente o punire una persona a causa del suo sesso, della sua razza, religione, origine etnica, nazionalità, lingua, opinione politica o delle sue tendenze sessuali oppure che la posizione di tale persona possa risultare pregiudicata per uno di tali motivi. La presente decisione quadro non osta a che gli Stati membri applichino le loro norme costituzionali relative al giusto processo, al rispetto del diritto alla libertà di associazione, alla libertà di stampa e alla libertà di espressione negli altri mezzi di comunicazione. (13) Nessuna persona dovrebbe essere allontanata, espulsa o estradata verso uno Stato allorquando sussista un serio rischio che essa venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altri trattamenti o pene inumane o degradanti. (14) Poiché tutti gli Stati membri hanno ratificato la convenzione del Consiglio d’Europa del 28 gennaio 1981 relativa alla protezione delle persone nei confronti del trattamento automatizzato dei dati di carattere personale, è opportuno che i dati personali trattati nel contesto dell’attuazione della presente decisione quadro siano protetti in conformità con i principi di detta convenzione. Ha adottato la presente decisione quadro ‘‘(...). (Ne segue il testo, che risulta composto di quattro ‘‘capi’’ — rispettivamente intitolati: ‘‘Principi generali’; ‘‘Procedura di consegna’’; ‘‘Effetti della consegna’’; ‘‘Disposizioni generali e finali’’ — per complessivi 35 articoli, e di due Allegati). Criminalità organizzata e Stati membri dell’Unione europea. Risoluzione del Parlamento europeo (29 novembre 2001) sulla relazione annuale 2000 della Commissione su Tutela degli interessi finanziari delle Comunità e lotta contro le frodi (COM(2001) 255 — C5-04690/2001 — 2001/2186 (COS)) sulla comunicazione della Commissione su Tutela degli interessi finanziari delle comunità, lotta contro le frodi, programma d’azione per 2001-2003 (COM(200r) 254 — C5-0470/2001 — 2001/2186(COS)). IL PARLAMENTO EUROPEO (...).


— 1487 — Collaborazione con la Svizzera. 31. Fa notare che l’inefficacia della collaborazione con la Svizzera, nel caso della lotta alle organizzazioni internazionali impegnate, in particolare, nel contrabbando delle cosiddette merci a rischio (sigarette, alcolici, metalli preziosi, strumenti elettronici), ha recato ai contribuenti europei danni che ammontano a miliardi; constata che il Parlamento non può mostrarsi favorevole ad ulteriori accordi con la Svizzera, finché non si perviene ad un miglioramento della collaborazione nell’ambito della lotta contro la criminalità organizzata; 32. Osserva che nella lotta alla criminalità organizzata è in gioco anche la credibilità degli Stati membri dell’Unione europea; in tale contesto richiama fra l’altro l’attenzione: a) sulle modifiche di atti legislativi recentemente adottate in Italia, che a seguito dell’introduzione di nuovi requisiti procedurali formali rendono difficili se non addirittura impossibili le rogatorie internazionali con la Svizzera (4) per reati quali il riciclaggio di denaro sporco e il contrabbando di armi, stupefacenti e sigarette; b) sulla relazione elaborata di recente per l’Assemblea nazionale francese, in base alla quale magistrati e giudici europei si lamentano di gravi difficoltà nella cooperazione con il Regno Unito per quanto attiene alla lotta al riciclaggio (...). In tema di estradizione europea per reati fiscali. 1. A proposito di reati fiscali l’originario art. 5 della Convenzione europea di estradizione (1957) stabiliva quanto segue: ‘‘In materia di tasse e imposte, di dogana, di cambio, l’estradizione sarà accordata alle condizioni previste dalla presente Convenzione, solo se in tal senso sarà stato deciso dalle Parti contraenti per ogni singolo reato o categoria di reati’’. Tale disciplina veniva innovata ed ampliata dall’art. 2 del 2o Protocollo addizionale alla Convenzione (1978), al cui contenuto poi si adeguava, peraltro con un ulteriore ampliamento, l’art. 6 della Convenzione relativa all’estradizione tra gli Stati membri dell’Unione europea (1996). Per un inquadramento della tematica v., a cura di chi scrive, Spunti sulla collaborazione internazionale in materia di delitti fiscali, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1978, p. 53; I reati fiscali nella prospettiva internazionale, in questa Rivista, 1983, p. 35. 2. La Francia, che non ha poi ratificato il 2o Protocollo, in occasione del deposito (1986) dello strumento di ratifica della Convenzione, aveva dichiarato il suo espresso intendimento di concedere l’estradizione — in materia di tasse, imposte, dogana e di cambio — sulla base di un accordo intervenuto, in ogni caso particolare, attraverso un semplice scambio di lettere (‘‘par simple échange de lettres’’) (5). Di un’ipotesi del genere dà conto e documentazione il suppl. ordinario n. 241 alla Gazz. Uff. n. 250 del 26 ottobre 2001, in un fascicolo dedicato agli ‘‘Atti internazionali entrati in vigore per l’Italia nel periodo 16 giugno-15 settembre 2001 non soggetti a legge di autorizzazione alla ratifica’’, sub n. 954, p. 307 ss. Si trattava del caso di Weinfass Gérard, condannato in Francia per frode fiscale, e a suo tempo arrestato dalla polizia italiana in vista dell’estradizione. Per un precedente (relativo al caso di Nour Eddine Hanine) v. il suppl. ordinario n. 210 alla Gazz. Uff. n. 241 del 15 ottobre 1997.

(4) Per parte sua la Svizzera, riferendosi alla nostra legge 5 ottobre 2001, aveva sottolineato che, in particolare, gli artt. 13 e 18 ‘‘introducono delle esigenze formali (...) che potrebbero portare ad una complicazione delle procedure di assistenza’’. E ciò proprio ‘‘in contrasto con le finalità dell’Accordo’’ italo-elvetico del 14 dicembre 1998 e con lo spirito della Convenzione europea del 1959: v. in questa Rivista, 2002, p. 1131 In linea più generale v. anche BROGGINI, Le rogatorie italo-svizzere, alla luce della l. 5 ottobre 2001, n. 367, ibid., p. 116 ss. (5) Per i vari testi richiamati v. PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, rispettivarnente alle pp. 371 e 379; 393; 425 e 429; 740.


— 1488 — Sulla confiscabilità di beni profitto di reato non perseguibile in Svizzera. 1. Nella dottrina elvetica si discute se possa aversi, o meno, una confisca per il solo fatto che i beni patrimoniali si trovano nel territorio della Confederazione, quand’anche il reato che vi sta alla base non è quivi perseguibile. La giurisprudenza ha per lo più seguito la tesi prevalente, orientata in senso negativo. 2. Sulla stessa linea si colloca ora, con particolare autorevolezza, la sentenza (65.82/2002/ROD) 11 giugno 2002 del Tribunale Federale (presid. Schubarth, ric. Al Kassar), intervenuta a proposito del sequestro di alcuni milioni di dollari disposto su una banca ginevrina. Tale sequestro si fondava, in particolare, sull’implicazione del ricorrente — non cittadino svizzero né domiciliato nella Confederazione — in un traffico illecito di armi destinate in Croazia e Bosnia (gli si addebitava d’aver fornito alle autorità portuali spagnole un documento falso quanto alla destinazione del carico). Va rilevato, tra l’altro, che la Spagna non aveva chiesto l’assistenza della Svizzera per i fatti in questione, e che non era venuta in gioco una qualificazione a titolo di riciclaggio (6). 3. Al temine del suo itinerario, ricognitivo ed argomentativo (veniva in considerazione, in particolare, il concetto di evento ai sensi dell’art. 7 del cod. pen. svizzero), il Tribunale così conclude: ‘‘... Nulla, nel caso di specie, consente di ritenere i versamenti operati sul conto bancario a Ginevra come evento (le résultat) del reato in questione, inerente soltanto alla falsa indicazione data dal ricorrente alle autorità spagnole allo scopo di ottenere il permesso di partenza per l’imbarcazione. Questa indicazione rappresenta certo uno degli elementi che ha consentito il realizzo del traffico d’armi. Ma essa non ha avuto come conseguenza diretta e immediata il versamento di denaro presso la banca di Ginevra’’. In mancanza di ciò, il reato ‘‘non ha dunque prodotto un evento in Svizzera ai sensi dell’art. 7 c.p., suscettibile di radicare la competenza dei tribunali svizzeri. Ne deriva che è da escludersi una confisca operata in virtù dell’art. 58 a, ovvero dell’art. 59 c.p. (7). Ed ancora: ‘‘Ne risulta che, al di fuori di una cooperazione internazionale che sia richiesta alla Svizzera da uno Stato straniero e di un qualche collegamento del reato con la Svizzera, dei valori patrimoniali, allo stato attuale del diritto elvetico, non potrebbero costituire oggetto di confisca. Spetta, se del caso, al legislatore federale il compito di stabilire a quali condizioni un autonomo provvedimento di confisca può intervenire in un caso del genere’’ (8). Cooperazione giudiziaria e applicazione ‘‘effettiva’’ dei diritti fondamentali. L’art. 2 della legge federale elvetica sull’assistenza internazionale in materia penale

(6) Possono eventualmente colpire il lettore italiano il fatto che, nella sua sentenza, il Tribunale federale riferisce e documenta analiticamente le contrapposte soluzioni dottrinali (che sarebbe operazione sicuramente inconsueta nella nostra giurisprudenza) e, inoltre, la riferita circostanza che lo stesso Tribunale si è rivolto (in due riprese, e a distanza di due anni) all’‘‘Institut suisse de droit comparé’’ per ottenerne un parere in tema di diritto spagnolo. (7) Su tale ultimo articolo, in particolare, v. PONCET e MACALUSO, Confiscation, restitution et allocation des valeurs patrimoniales: quelques considerations de procédure pénale, in La Semaine Jud., 2001, p. 221. (8) La soluzione dottrinale cui la sentenza si adegua per negare — nel caso di specie — la legittimità della confisca, fa anche richiamo — utilizzando l’argomento ubi voluit dixit — alla circostanza che al legislatore era parsa necessaria una previsione specifica per legittimare (art. 24 l. federale sugli stupefacenti — RS 812.121) l’acquisizione allo Stato dei profitti illeciti situati nella Confederazione, anche quando il reato sia stato commesso all’estero. Concludendo il suo commento alla sentenza, l’articolista del quotidiano Le Temps (in data 3 luglio) rileva: ‘‘ ...Ma se si tiene presente il principio che sta alla base della stessa nozione di confisca — vale a dire che il delitto non deve pagare — bisogna pure ammettere che il ricupero dei suoi danari’’, da parte del nostro ricorrente, ‘‘non è un esito dei più soddisfacenti. Al legislatore compete ormai l’incombenza di trovare una soluzione perché alcuni non sfuggano alle maglie visibilmente ancora troppo larghe della rete’’.


— 1489 — (AIMP), nella sua forma rinnovata a seguito delle modifiche del 4 ottobre 1996 (9) stabilisce la ‘‘irricevibilità’’ della domanda di cooperazione in materia penale, in primo luogo (lett. a) se vi è motivo di ritenere che il procedimento all’estero non sia conforme ai principi processuali della Convenzione europea dei diritti dell’uomo o del Patto internazionale ONU del 16 dicembre 1966, relativo ai diritti civili e politici. A precisazione della sua portata applicativa è stato opportunamente precisato, con decisione 15 maggio 2002 dell’Ufficio federale di giustizia (B 65472/O7 - GOP/BEA): — ‘‘che l’esame delle condizioni poste dall’art. 2 AIMP comporta un giudizio di valore sugli affari interni dello Stato richiedente, in particolare sul suo regime politico, sulle sue istituzioni, sulla sua concezione dei diritti fondamentali e la loro effettiva applicazione, e sull’indipendenza e l’imparzialità del potere giudiziario (ATF 123 II 161 consid. 6 b); — che pertanto, se da uno Stato richiedente sono offerte delle garanzie agli effetti dell’art. 2, è opportuno esaminare, senza mostrarsi troppo restrittivi in proposito, se tali assicurazioni corrispondono effettivamente alla realtà politica, istituzionale e giudiziaria vissuta nel Paese in questione; — che tuttavia è opportuno, nel quadro dell’esame che l’Ufficio federale di giustizia deve compiere per l’applicazione dell’art. 80 p al. 3 AIMP (10), considerare che le garanzie non sono sufficienti quando lo scarto tra le assicurazioni date e il loro rispetto effettivo è troppo cospicuo, se non si vuole rendere privo di significato il controllo previsto dalla disposizione sopra citata’’. Protezione dell’infanzia e cooperazione internazionale. La legge 11 marzo 2002, n. 46 (in Gazz. Uff. 2 aprile, n. 77, suppl. ord. n. 65) ha autorizzato la ratifica dei due Protocolli opzionali alla Convenzione dei diritti del fanciullo, concernenti la vendita dei bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante bambini, e, rispettivamente, il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. I due Protocolli, aperti alla firma dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 6 settembre 2000, sono entrati in vigore per l’Italia il 9 giugno 2002 (v. Gazz. Uff. 20 luglio, n. 169). In particolare, nel primo dei due Protocolli, l’art. 3 specifica l’obbligo, per ogni Stato — Parte, di incriminazione, ‘‘come minimo’’, di una serie di comportamenti, ‘‘commessi all’interno del suo territorio o transnazionalmente... su base individuale od organizzata’’; l’art. 5 contiene una serie di previsioni riguardanti la tematica dell’estradizione (con riferimento agli Stati-Parte che considerano, ovvero non considerano, l’esistenza di un trattato come condizione per l’estradizione), prevedendo tra l’altro l’obbligo alternativo (§ 5) aut dedere aut iudicare; l’art. 6 impone agli Stati-Parte l’obbligo ‘‘di fornirsi reciprocamente il più elevato livello’’ di assistenza giudiziaria; l’art. 7 fa obbligo agli stessi Stati di adottare ‘‘subordinatamente alle disposizioni delle proprie leggi nazionali’’, le misure appropriate in materia di sequestro, di confisca, e di chiusura di locali utilizzati nel commettere gli illeciti identificati nel testo del Protocollo. In tema di rapporti Italia-Albania. Il 23 aprile 2002 è stato sottoscritto un ‘‘Accordo’’ concernente la Convenzione europea (21 marzo 1983) sul trasferimento delle persone condannate (11). Benché nella rubrica l’ac-

(9) Per un quadro di tali modifiche v. Ind. pen., 1996, p. 793; per un richiamo all’art. 2 v. in questa Rivista, 2002, p. 1126. (10) L’al. 3 dell’art. 80 p demanda all’Ufficio federale il compito di esaminare se la risposta dello Stato richiedente, interpellato perché dichiari se accetti o meno le condizioni fissate per l’esecuzione dell’assistenza, costituisca un impegno ‘‘sufficiente’’. (11) Per un excursus sul tema v. in questa Rivista, 2000, p. 1628.


— 1490 — cordo sia indicato come ‘‘aggiuntivo’’ alla Convenzione, l’art. 1 comma 2 stabilisce che le disposizioni di quest’ultima ‘‘sono applicabili nella misura in cui sono compatibili con le disposizioni del presente Accordo’’. L’art. 8 prevede che esso ‘‘entrerà in vigore alla data di ricezione della seconda notifica con cui gli Stati si saranno ufficialmente comunicati che le rispettive procedure interne di ratifica sono state completate’’. Nella stessa data le Parti hanno convenuto anche un ‘‘Memorandum di intesa’’ — ‘‘in vigore alla data della sua firma’’ — riguardante, ad ampio raggio, le cooperazioni tra i due ministeri della giustizia, anche nell’ambito della giustizia penale e dell’amministrazione penitenziaria, oltre che della formazione del personale. Rapporti con l’estero e spese di giustizia. 1. In un supplemento ordinario (n. 126/L) della Gazz. Uff. n. 139 del 15 giugno 2002 è pubblicato il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, contenente il ‘‘Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia’’, che (art. 302) è entrato in vigore col 1o luglio. Vi si prevede l’abrogazione, anche in forma espressa (art. 299 — Abrogazione di norme primarie), di diverse norme, in tema di spese di giustizia, contenute anche nel Codice di procedura penale e nelle relative norme di attuazione. Quanto alla disciplina dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere, l’art. 5, comma 3, del T.U. stabilisce che, fermo restando ‘‘quanto previsto dall’art. 696’’ — e dunque, in buona sostanza, quanto previsto dalle convenzioni internazionali — ‘‘le spese per le rogatorie dall’estero e per le estradizioni da e per l’estero’’ rientrano nell’ambito delle spese ‘‘non ripetibili’’. Viceversa, e sempre fatta salva la previsione dell’art. 696, dall’art. 7 del T.U. ‘‘le spese per le rogatorie all’estero’’ vengono fatte confluire nella disciplina del testo medesimo. 2. Dalla ‘‘Relazione illustrativa’’ dello schema (24 maggio 2002) del decreto presidenziale per l’approvazione del testo unico risulta quanto segue: ‘‘Con riferimento al comma 3 [dell’art. 5] la norma riprende il principio della prevalenza delle norme esterne stabilito dall’art. 696 c.p.p. e lo rapporta alla materia delle spese per evitare dubbi interpretativi in caso di applicabilità delle norme interne. Nel caso di rogatorie dall’estero, mancando un processo in Italia non si dovrebbe proprio porre il problema della ripetibilità non essendo ipotizzabile la condanna, tuttavia è opportuno precisarlo perché nella prassi sono stati registrati dubbi applicativi e, pur non essendo mai state recuperate, si è fatto ricorso all’art. 109 del regio decreto 2701/1865 (spese straordinarie). Nel caso di estradizione da e per l’estero manca la condanna alle spese, attesa la natura mista di tale procedimento, anche quando è per l’estero, e quindi non si dovrebbe porre il problema della ripetibilità. Tuttavia, la precisazione è opportuna perché la Cassazione, per sostenere la non ripetibilità, le qualifica spese di amministrazione di giustizia. La non ripetibilità, inoltre, risulta conforme alla previsione del cap. 1360 (ex cap. 1631 e 1589) del Ministero della giustizia’’. Quanto invece alla diversa previsione dell’art. 7, così risulta: ‘‘Nel caso di rogatorie all’estero, se l’Italia — svolgendosi il processo nel proprio territorio — provvede ad anticipare sulla base delle regole esterne o, in mancanza, di quelle interne, si applicano tutte le norme del testo unico, come è pacifico secondo la giurisprudenza della Cassazione’’ (12).

(12) Sulle spese delle videoconferenze transnazionali v. PISANI, Rogatorie internazionali e videoconferenze, in Riv. dir. proc., 2002, p. 989.


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