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Penale Cop98CD

28-04-1999 14:56

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RIVISTA ITALIANA DI

DIRITTO E PROCEDURA PENALE FONDATA DA GIACOMO DELITALA

DIRETTA DA G. L E O N E T. D E L O G U G. V A S S A L L I M. G A L L O G. C O N S O A. C R E S P I C. P E D R A Z Z I G. D E L U C A M. S I N I S C A L C O D. SIRACUSANO M. P I S A N I A. P A G L I A R O V. CAVALLARI C. F. G R O S S O G. L O Z Z I G. MARINUCCI F. MANTOVANI F. S T E L L A M. R O M A N O V. G R E V I D. P U L I T A N Ò T. P A D O V A N I E. M U S C O E. D O L C I N I A. G I A R D A - F. C. P A L A Z Z O

NUOVA SERIE - ANNO XXXVIII 1995

M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I TO R E


INDICE GENERALE

NECROLOGI VASSALLI G., Gian Domenico Pisapia ..................................................................

3

PEDRAZZI C., Franco Bricola .................................................................................

8

DOTTRINA ARDIZZONE S., In tema di aspetto subiettivo di concorso di persone nel reato (A) ......

51

BATTAGLIO S., « Indizio » e « prova indiziaria » nel processo penale (A) ...........

375

BONDI A., « Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole » (contributo allo studio delle false comunicazioni sociali) (A) ...................................................

1177

BUZZELLI S., I gravi indizi di colpevolezza nel sistema delle misure cautelari tra probabilità e certezza (A) .............................................................................

1132

CAMAIONI S., Errore e dolo nei reati in rapporto di specialità (A) .....................

437

CAPRIOLI E., Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale (N) ....................................................................................................

1374

CASTALDO A.R., La concretizzazione del « rischio giuridicamente rilevante » (A) .......

1096

CAVALIERE A., L’usura tra prevenzione e repressione: il controllo del ruolo penalistico (A) ........................................................................................................

1206

CERESA GASTALDO C., La ricognizione personale ‘‘attiva’’ all’esame della Corte costituzionale: facoltà di astensione o incompatibilità del coimputato? (N) ......

263

CIAPPI M., Questioni in tema di deposito di intercettazioni telefoniche (N) .......

569

DE FIGUEIREDO DIAS J., Il codice penale portoghese del 1982 e la sua riforma (A) ......

25

DE MAGLIE C., Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa (A) .....

88

DI GIOVINE O., Sul c.d. controllo di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale in materia penale. A proposito del rifiuto totale di prestare il servizio militare (A) ...................................................................................................

159

DURIGATO L., Successione di leggi penali e abuso d’ufficio: una annotazione sul tema (A) .......................................................................................................

1047

FASSONE E., Dalla ‘certezza’ all’‘ipotesi preferibile’: un metodo per la valutazione (A) ................................................................................................................

1104

FIORE L., Accertamento dei presupposti e problematiche applicative in tema di sequestro preventivo (N) ..............................................................................

543


— IV — GIARDA A., Ancora sull’intangibilità assoluta delle sentenze della Corte di Cassazione (N) ......................................................................................................

923

GIOSTRA G., La riforma dell’incidente probatorio (A) .........................................

661

GIULIANI L., Utilizzabilità e valutazione delle dichiarazioni de relato tra principio di oralità e libero convincimento del giudice (N) ........................................

289

GROSSO C.F., Quale diritto penale tributario per gli anni novanta (A) ..............

1003

GUALTIERI P., Soggetto passivo, persona offesa e danneggiato dal reato: profili differenziali (A) ................................................................................................

1071

IANDOLO PISANELLI L., Indagini preliminari delegate (A) ....................................

1161

KOSTORIS R.E., Incidente probatorio senza ‘‘indagato’’ e limiti all’utilizzabilità della prova (N) .............................................................................................

904

LAVARINI B., Revoca e riesame dele misure coercitive (N) ..................................

534

MARINUCCI G., Ricordo di Franco Bricola (A) .....................................................

1024

MILITELLO F., Il diritto penale nel tempo della « ricodificazione » (A) ...............

758

MOCCIA S., Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali (A) ...................................................................................

343

Impiego di capitali illeciti e riciclaggio: la risposta del sistema penale italiano (A) .......................................................................................................

728

MORMANDO V., È sostituto d’imposta il commissario liquidatore di una banca in liquidazione coatta amministrtiva? (N) .......................................................

609

NEPPI MODONA G., Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma (A) ........................................................................

315

NOBILI M., Principio di legalità e processo penale (A) ........................................

648

OGGERO M.E., Profili problematici sul rapporto tra fattispecie a tutela della libertà personale e delitto di rapina (N) ........................................................

592

PADOVANI T., Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario (A) ..........

634

PAGLIARO A., Problemi penalistici a proposito del controllo di costituzionalità su un decreto legge non ancora convertito (A) ................................................

12

PAZIENZA F., In tema di criminalità informatica: l’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547 (A) ..........................................................................................

750

In tema di criminalità informatica: l’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547. ΠAPAΛEIΠOMENA (A) ......................................................................

1089

RISICATO L., La partecipazione mediante omissione a reato commissivo (A) ....

1267

ROMANO M., Societas delinquere non potest (Nel ricordo di Franco Bricola) (A) .......

1031

SAMMARCO A.A., Violazioni della legge processuale e ricorso per Cassazione (A) .......

833

SANNA A., Il contributo del’imputato in un diverso procedimento: forme acquisitive e garanzie di attendibilità (A) ...............................................................

490

SECHI P., Punti fermi sulla proroga della custodia cautelare (N) ........................

279

SEMINARA S., Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia (A) .........................

670

TIEDEMANN K., La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato (A) .....................................................................................................

615

TREVISSON LUPACCHINI T., ‘‘Indizio’’, segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione? (N) .............................................................................................

309

VALIANTE M., L’avvocato dei mafiosi (ovvero il concorso eventuale di persone nell’associazione criminosa) (A) ..................................................................

820

VIGGIANO F., Omessi avvisi i tema di sequestri (N) ............................................

299


— V — VISCONTI C., Il concorso « esterno » nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico criminali (A) ................................................................

1303

NOTE DI DIRITTO COMPARATO E STRANIERO DE SIMONE G., Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales ...................................................................................................

189

SZEGÖ A., Quando lo stupro è legale: la ‘‘marital rape exemption’’ ..................

853

COMMENTI E DIBATTITI CARLI L., Fatto e verità nell’ideologia della riforma e della controriforma del codice di procedura penale (le ragioni dei pratici) .........................................

230

NOTIZIE FELLI N., Il giudice per le indagini preliminari dopo cinque anni di sperimentazione (VIII Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale) ......

865

MANFREDINI E., Principio di legalità e processo penale (Convegno in ricordo di Franco Bricola) .............................................................................................

1347

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ANGIONI F., Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Giuffrè, Milano, 1994, pp. 424 (C.P.) .................................

871

CASTALDO A.R., L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’envento, Jovene, Napoli, 1989, pp. IV-245 (C.d.M.) ..............................................................

874

DI FEDERICO G., FABRI M., CARNEVALI D., CONTINI F., Organizzazione e gestione degli Uffici Giudiziari. Il caso di una Procura della Repubblica presso il tribunale, Ed. Scientifiche Lo Scarabeo, Bologna, 1194, pp. 243 (T.T.L.) ....

1355

GIUNTA F., Interessi privati e deflazione nell’uso della querela, Giuffrè, Milano, 1993, pp. VI-226 (A.R.) ..............................................................................

1356

MAIWALD M., L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano (a cura di V. Militello), Giappichelli, Torino, 1993, pp. 194 (A.C.) ............................................................................................................ MARCONI G., Il nuovo regime d’imputazione delle circostanze aggravanti. La struttura soggettiva, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 281 (G.P.) ........................ MEZZETTI E., La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea - Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli Stati membri, CEDAM, Padova, 1994 (S.M.) ........................................................................................ MOCCIA S., Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, pp. 324 (G.M.) ...

878 1360

879 1362


— VI — MORSELLI E., La funciòn del comportamento interior en la estructura del delito, Temis, Bogotà, 1992, pp. 192 (traduzione spagnola, a cura di Jorge Guerrero, de: Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, CEDAM, Padova, 1989) (G.C.) ........................................................................

883

Dispense di diritto penale, II ed., CUSL, Perugia, 1994, pp. 176 (G.C.) ...

1365

PATRONO P., Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, CEDAM, Padova, 1993, pp. XII-183 (A.S.) .....................................................

884

PICOTTI L., Il dolo specifico: un’indagine sugli « elementi finalistici » delle fattispecie penali, Giuffrè, Milano, 1993, pp. XII-639 (A.S.) ............................

1367

GIURISPRUDENZA Incidente probatorio — Richiesta di estensione a soggetti divenuti indiziati solo a seguito degli accertamenti - Utilizzazione della prova nei loro confronti - Omessa previsione Sanzione processuale per la violazione del contraddittorio - (Cost. artt. 3 e 122, c.p.p. art. 403) (con nota di R.E. KOSTORIS) ........................................

889

— Acquisizione di prove formate con incidente probatorio in altro procedimento - Mancata partecipazione del difensore alla loro assunzione (Cost. artt. 3 e 24 comma 2, c.p.p. art. 238 comma 1) (con nota di R.E. KOSTORIS) ...............

889

Indagini preliminari — Archiviazione - Omessa riapertura delle indagini - Decreto di citazione - Mancata previsione di tale ipotesi come causa di nullità del decreto - Menomazione del diritto di difesa - Questione di legittimità costituzionale - Infondatezza (Cost. art. 24; c.p.p. art. 555 comma 2, in relazione all’art. 414 c.p.p.) (con nota di F. CAPRIOLI) ...............................................................................

1371

Misure cautelari — Libertà personale dell’imputato - Proroga dei termini - Gravi esigenze cautelari - Sufficienza (C.p.p. artt. 274, 305 comma 2) (con nota di P. SECHI) ...

273

— Libertà personale dell’imputato - Proroga - Ammissibilità anche dopo l’esercizio dell’azione penale (C.p.p. artt. 305 comma 2, 416, 419) (con nota di P. SECHI) .............................................................................................................

273

— Presupposti - Gravi indizi di colpevolezza - Dichiarazione rilasciata dalla persona offesa - Necessità di altri elementi di prova - Esclusione (C.p.p. art. 273) (con nota di T. TREVISSON LUPACCHINI) .........................................................

308

— Revoca - Motivi - Richiamo a fatti sopravvenuti alla definitività del titolo custodiale - Necessità - Questioni concernenti la consistenza originaria dei presupposti della misura - Proponibilità solo con richiesta di riesame (con nota di B. LAVARINI) ...................................................................................................

528

— Sequestro preventivo - Presupposto - Esistenza di un fatto di reato (con nota di L. FIORE) ....................................................................................................

539

— Sequestro preventivo - Condizioni di applicabilità - Accertamento della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato o dell’imputato Non necessità (con nota di L. FIORE) ............................................................

539

— Sequestro preventivo - Oggetto - Cose pertinenti al reato - Nozione (con nota di L. FIORE) ....................................................................................................

539

— Sequestro preventivo - Impugnazioni - Ricorso per Cassazione - Ambito di applicabilità (con nota di L. FIORE) ...................................................................

539


— VII — Nullità — Indagini preliminari - Attività del pubblico ministero - Atti cui ha diritto di assistere il difensore - Avviso di deposito - Omissione - Nullità - Sanatoria - Fattispecie (C.p.p. art. 366) (con nota di F. VIGGIANO) .....................................

299

Prova — Testimonianza indiretta - Contrasto tra le dichiarazioni del testimone de relato e le dichiarazioni del testimone di riferimento - Utilizzabilità delle dichiarazioni de relato - Sussistenza (C.p.p. art. 159) (con nota di L. GIULIANI) .. — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Richiesta di misura cautelare fondata su conversazioni telefoniche intercettate - Previo deposito di verbali di intercettazione - Necessità - Esclusione (C.p.p. artt. 266-271, 291, 309) (con nota di M. CIAPPI) ......................................................................... — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Deposito dei verbali delle registrazioni entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni - Inosservanza di tale prescrizione - Nullità - Esclusione - Inutilizzabilità - Esclusione (C.p.p. artt. 178, 180, 268, 271) (con nota di M. CIAPPI) ............................ — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione in altri procedimenti - Deposito dei decreti di autorizzazione - Necessità - Sussistenza Termine - Individuazione (C.p.p. artt. 270, 268, 416) (con nota di M. CIAPPI) .....

566

Reati tributari — Liquidazione coatta amministrativa - Commissario liquidatore - Sostituto d’imposta - Esclusione - Obbligo del versamento delle ritenute di acconto - Insussistenza (con nota di V. MORMANDO) .......................................................

608

289

566

566

Ricognizione — Ricognizione reciproca attiva di persone o cose - Coimputati - Forma di testimonianza - Questione di legittimità costituzionale - Arbitrarietà di un’equiparazione della ricognizione alla testimonianza prescindendo dalla qualità del soggetto attivo dell’atto - Possibilità di esercizio del diritto al silenzio processuale - Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale (Cost. artt. 3 e 24 comma 2; c.p.p. art. 213) (con nota di M. CERESA GASTALDO) ........ — Ricognizione reciproca attiva di persone o cose - Coimputati - Natura dichiarativa dell’atto di ricognizione - Conseguenze - Possibilità di esercizio del diritto al silenzio processuale - Applicabilità dell’art. 210 comma 4 c.p.p. (C.p.p. art. 213) (con nota di M. CERESA GASTALDO) ...................................

256

Ricorso per cassazione — Decisioni - Definitività - Impugnazione straordinaria - Insussistenza - Questione di legittimità costituzionale - Inammissibilità (Cost. artt. 24 e 25; c.p.p. art. 623 e 624) (con nota di A. GIARDA) ......................................................

915

Sequestro di persona — Sequestro di persona a scopo di estorsione - Condotta di privazione della libertà personale a danno della moglie di soggetto passivo di rapina - Esclusione (con nota di M.E. OGGERO) ...........................................................................

588

256

LEGGI E DECRETI — Disegno di legge n. 2038 - Libro primo del codice penale ............................

927


NECROLOGI

GIAN DOMENICO PISAPIA

Gian Domenico Pisapia, maestro insigne del diritto penale e della procedura penale, si è spento nella notte sul 25 febbraio scorso, nella sua abitazione milanese, dopo una lunga malattia sopportata con profonda consapevolezza e senza mai rallentare l’impegno di lavoro, o abbandonare, nella presenza costante tra familiari, amici e colleghi, il suo sorriso bonario e rassicurante. Il suo ultimo articolo, scritto tra le difficoltà create dalle ultime settimane del male, è di una lucidità impareggiabile. Esso è comparso nella nuova rivista diretta da Giovanni Conso ed è dedicato a un bilancio dell’esperienza quinquennale del nuovo codice di procedura penale: quel codice alla cui formulazione Pisapia aveva dedicato molto sacrificio negli ultimi vent’anni e accanto al quale il suo nome sarà sempre ricordato. Anche in presenza di una legge di delegazione molto specifica e vincolante, il lavoro dei redattori di un codice consistente di varie centinaia di articoli è, soprattutto in tempi di democrazia e di libera circolazione delle idee, opera di grande responsabilità; e i meriti dell’opera stessa e dei suoi risultati vanno in modo preminente a chi abbia saputo guidare il lavoro collegiale, indirizzarlo, arricchirlo di contenuti e di stile, come solo Gian Domenico Pisapia avrebbe potuto fare e seppe fare: sia con il progetto del 1978 sia con il codice del 1988. Ma Pisapia non era soltanto un maestro del diritto processuale penale, da lui insegnato per lunghi anni nell’Università degli Studi di Milano, sperimentato nella quotidiana pratica forense e coltivato in studi di grande finezza e di straordinaria chiarezza. Pisapia si era affacciato al mondo universitario soprattutto come penalista. Come cultore del diritto penale sostanziale aveva vinto il concorso del 1953 insieme a Marcello Gallo: quella volta la Commissione giudicatrice (che aveva lodato in Pisapia accanto all’operosità scientifica la chiarezza dell’esposizione e l’impostazione metodologica) non ritenne di dover completare la ‘‘terna’’. Quando vinse la cattedra universitaria, Pisapia, avvocato dello Stato, era già libero docente di diritto penale da oltre dieci anni e da tempo inse-


— 4 — gnava diritto penale, come incaricato, sia nell’Università statale di Milano che nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Modena. Dopo il concorso continuò lo stesso insegnamento a Modena fino al 1961; e di quella facoltà fu anche per vari anni il preside, da tutti stimato ed amato non solo per la dottrina e la fedeltà didattica ma anche per il suo carattere, dotato, pur nella fermezza dei suoi convincimenti e dei suoi atteggiamenti, dimostrata anche in momenti critici, di una umanità e bontà senza pari. A Modena ebbe anche allievi che sono divenuti insegnanti e trattatisti tra i più illustri del diritto penale in Italia. In questi anni si saldò in modo particolare la sua amicizia con Giacomo Delitala che egli considerava come suo secondo maestro dopo Alfredo de Marsico. Con de Marsico si era laureato a Napoli, ventenne, nel 1935; e con lui proseguirà sino alla fine una amicizia e fedeltà straordinarie. Ne curerà e aggiornerà la quarta edizione del ‘‘Diritto processuale penale’’ quando il maestro cominciava ad essere stanco (1966) e detterà la prefazione al suo volume ‘‘Penalisti italiani’’. Delitala lo volle accanto a sé nella facoltà statale di Milano nel 1961 per insegnarvi, quale titolare, le istituzioni di diritto penale. Due anni dopo Pisapia passerà alla cattedra di diritto processuale penale e da quel momento si intensificherà il suo impegno anche scientifico in questa materia, che peraltro già lo aveva annoverato, oltre che tra i suoi docenti, tra i suoi scrittori: il suo volume ‘‘Il segreto istruttorio nel processo penale’’ è del 1956. Ed anche dalla cattedra processualistica milanese Pisapia contribuirà alla formazione di studiosi divenuti insigni. Ma l’amore per il diritto penale sostanziale non si spegnerà mai in lui, come è dimostrato da vari studi minori proseguiti in quel campo (così come in materia di criminologia e politica criminale), dalle tre edizioni delle sue ‘‘Istituzioni di diritto penale’’ ed anche dal formidabile e prezioso lavoro compiuto, insieme a Pietro Nuvolone, per aggiornare, dopo la morte di Vincenzo Manzini, le varie edizioni postume del Trattato di diritto penale nei suoi dieci volumi. Da notare che tra i cinque volumi curati da Pisapia vi sono anche il primo e il secondo, consacrati ai temi della legge penale, del reato e della responsabilità penale. Inoltre la professione forense, svolta principalmente nel campo penale, contribuiva a tenerlo quotidianamente in contatto con il diritto sostanziale e i suoi problemi. In una parola, Pisapia (che era anche laureato in filosofia e insegnò criminologia) appartiene a quella generazione di giuristi, formatasi negli anni trenta, per cui non v’era differenza di interessi e di studi tra le due materie, che erano un tempo riunite (fino al 1938) in un’unica formula didattica. Di lui si può dire che fu cultore insigne sia del diritto penale che del diritto processuale penale. Le monografie penalistiche di Gian Domenico Pisapia sono tutte di


— 5 — notevole significato. ‘‘Il reato continuato’’ e ‘‘Violenza, minaccia e inganno’’, edite entrambe nel 1940, si inquadrano nella produzione scientifica tipica del primo decennio del codice Rocco e affrontano alcuni dei numerosi problemi posti da quel codice. L’‘‘Introduzione alla parte speciale del diritto penale’’ (1948), opera del tutto originale almeno per l’Italia, affronta una tematica che in questi tempi è destinata a tornare di grande attualità. Con forte corredo di dottrina ed impegno dommatico essa rivaluta l’oggettività giuridica come criterio tecnico-scientifico per la sistemazione della parte speciale, ma ne traccia i limiti logici con riferimento al pur essenziale criterio della gravità dei reati. Il cospicuo volume sui ‘‘Delitti contro la famiglia’’ (1953) non è soltanto un autentico trattato su una materia, il diritto di famiglia, che ebbe sempre a sollecitare l’interesse di questo insigne studioso (direttore anche, per vari anni, di una rivista giuridica specializzata), ma è anche un segno di apertura verso i nuovi tempi, che hanno riportato la famiglia al centro del diritto e, purtroppo, anche del diritto penale. Infine le ‘‘Istituzioni di diritto penale’’, opera alla quale Pisapia teneva molto e che negli ultimi tempi si proponeva di riaggiornare (era giunta nel 1975 alla terza edizione), riescono, in meno di cinquecento pagine, ad esporre in modo chiarissimo ed elementare tutta la vasta materia sia della parte generale che della parte speciale. Un volume del Nostro che va particolarmente menzionato è quello contenente la raccolta dei suoi scritti minori di diritto penale fino al 1955 e intitolato appunto ‘‘Studi di diritto penale’’ (1956). Esso contiene una serie di saggi importanti, non solo nel campo dei delitti contro la famiglia, dove all’epoca si erano instaurate varie controversie interpretative (basterebbe pensare a taluni casi di pretesa alterazione di stato) o in altri settori non meno controversi della parte speciale (invasione di edifici, occupazione di aziende e di stabilimenti industriali; bancarotta fraudolenta; ed altri), ma anche su rilevanti problemi di carattere generale. In questo quadro vanno ricordati gli studi di Gian Domenico Pisapia sulla capacità nel diritto penale, sulla rilevanza penalistica degli status, sul reato plurisoggettivo, sulla reità mediata, sulle cause di esclusione della punibilità: tutti studi che hanno lasciato notevole traccia nelle successive elaborazioni della dottrina. All’epoca di quella raccolta Pisapia aveva di poco superato i quaranta anni. Nel volume ora citato figura anche la relazione sul progetto di codice penale del 1949-50, fortemente ma garbatamente critica, predisposta da Pisapia per il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano. Gli apporti di Gian Domenico Pisapia allo studio del processo penale, anche al di fuori di quegli scritti che segnano le tappe della lunga, pluridi-


— 6 — cennale riforma e le relative riflessioni, sono ben noti. Già si è ricordato il volume su ‘‘Il segreto istruttorio’’ (1956). Del ‘‘Trattato di diritto processuale penale’’ di Vincenzo Manzini egli aggiornò il primo e terzo volume, dedicati ai principî fondamentali, alla legge processuale, alla giurisdizione, agli atti e alle prove (gli altri due furono curati da Giovanni Conso). Al codice del 1930 Pisapia rese omaggio, come ho altra volta ricordato su questa rivista, con le cinque edizioni del suo ‘‘Compendio di procedura penale’’: scritte ed aggiornate quando il codice già volgeva verso un lento e tormentoso tramonto. La prima è del 1975 e l’ultima del 1988. E appena entrò in vigore il codice attuale Pisapia pubblicò (1989) i ‘‘Lineamenti del nuovo processo penale’’. Opere, entrambe, di una chiarezza e semplicità esemplari, la cui lettura desta meraviglia quando si pensa che l’autore usciva da un lavoro tormentato su istituti, di cui poteva essere tentato di far conoscere le complesse problematiche e i possibili e controversi sviluppi. Ma lo scrittore, il docente, l’uomo Pisapia era così: capace di lasciarsi alle spalle il forte bagaglio di conoscenze particolari per assolvere, appunto, un debito di chiarificazione e un risultato di chiarezza. E così era anche l’avvocato, al cui compito Pisapia riteneva conferenti la essenzialità e la stringatezza propria delle sue efficacissime difese. Tutti cercarono da lui, e ne ricevettero, in tutta Italia, assistenza, non solo in nome di queste doti, di cui si diffondeva la fama, ma anche a causa della straordinaria simpatia che suscitavano la sua arguzia, la sua bonomia, la sua umanità, la sua integrità. Anche fra i colleghi del Foro era molto amato: fu, secondo una tradizione propria anche di altri insigni professori universitari di materie giuridiche, componente sia del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, sia del Consiglio Nazionale forense, versando anche qui i frutti del suo ingegno e della sua esperienza. Fondatore e presidente (da ultimo presidente onorario) dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale, era anche presidente onorario dell’Unione italiana delle Camere penali. E di questa aveva presieduto l’ultimo congresso nazionale nel settembre 1994. Generoso del suo tempo, nonostante quello consacrato sempre alla propria numerosa famiglia tanto amata, Gian Domenico Pisapia partecipò a molte iniziative scientifiche, editoriali e culturali. Relatore e presidente in infiniti convegni nazionali ed internazionali, conferenziere in università straniere, anche al di là dell’Oceano, autore di voci per enciclopedie e digesti, collaboratore di importanti quotidiani (con articoli sempre ispirati a sentimenti di libertà e di giustizia), direttore di riviste anche internazionali, come, in questi ultimi anni, dei Cahiers de défense sociale, fondati dall’indimenticabile comune amico Marc Ancel. Era componente della commissione giuridica del Centro nazionale di prevenzione e difesa so-


— 7 — ciale e del comitato di presidenza dei convegni giuridici intitolati al nome di Enrico De Nicola. La Rivista italiana di diritto e procedura penale, che tanto si è giovata, in ogni tempo, dei suoi contributi e che lo annoverava tra i propri direttori, si inchina reverente alla sua memoria. GIULIANO VASSALLI


FRANCO BRICOLA

L’improvvisa, prematura scomparsa di Franco Bricola il 29 maggio 1994 ha privato la scienza penalistica italiana di un insostituibile pilastro. Misurare l’originalità e la ricchezza dei suoi apporti allo sviluppo dei nostri studi non sarà possibile senza un paziente lavoro di rilettura e rimeditazione: doveroso per tutti noi, affinché il suo insegnamento continui a fruttificare e a illuminare le generazioni sopravvenienti. In questa sede non possiamo andare oltre qualche sommaria, commossa reminiscenza. Era un criminalista completo: interprete della legge penale in tutte le sue articolazioni, parte generale e parte speciale, codice e leggi speciali; attento alle esperienze comparatistiche e profondo conoscitore della dottrina straniera; sapiente dogmatico e insieme sensibilissimo alle istanze politico-criminali; osservatore acuto dell’evolversi dell’ordinamento e fertile di sagaci contributi critici. Univa l’intuito giuridico all’ampio respiro teoretico, alle robuste capacità costruttive. È stato un caposcuola, per statura scientifica e per vigore innovativo. Ha aperto nuove strade, ha impresso una svolta alla scienza penalistica italiana: in particolar modo riscoprendo e portando alla luce le radici costituzionali del sistema penale, ripensando le categorie basilari alla luce della Carta, valorizzando in tutta la loro potenzialità i vincoli e gli stimoli immanenti agli artt. 25 e 27 Cost., dei quali è stato interprete insuperabile. La voce Teoria generale del reato nel Novissimo Digesto Italiano (1973) rappresenta probabilmente il culmine della sua opera, una vera pietra miliare. La concezione del reato come fatto necessariamente offensivo di valori costituzionalmente significativi segna una conquista irreversibile anche per chi non ne accetti tutte le implicazioni. È doveroso sottolinearne l’altissimo valore politico: Franco Bricola ha consolidato le fondamenta di un diritto penale garantistico, sbarrando la strada a ricadute autoritarie, a incontrollate proliferazioni repressive, a strumentalizzazioni trivialmente utilitarie della sanzione criminale. La costante attenzione per le premesse costituzionali è pure attestata dal commento all’art. 25, secondo e terzo comma, nel Commentario Branca-Pizzorusso (1981). Né ha mancato di esprimere la sua preoccupazione di fronte alla minaccia di involuzioni emergenziali: cfr. Legalità e crisi: l’art. 25, secondo e terzo comma, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70 (1980).


— 9 — Gli studi di parte generale gli devono contributi definitivi. Per limitarmi agli scritti di maggior mole ricorderò Dolus in re ipsa (1960), ove la problematica del dolo è ripensata nel crogiuolo dell’accertamento; Fatto del non imputabile e pericolosità (1961), rivisitazione della sistematica del reato nell’ottica delle fattispecie di pericolosità qualificata degli artt. 222-224 c.p.; La discrezionalità nel diritto penale (1964), meditazione su uno dei passaggi critici del diritto penale contemporaneo: la tensione fra principio di legalità e incremento del potere discrezionale del giudice in funzione specialpreventiva; la voce del Novissimo Digesto Italiano sulle Condizioni obiettive di punibilità (1968). Della parte speciale ha toccato numerosi capitoli. Mi preme soprattutto ricordare l’interessamento privilegiato per i delitti contro la pubblica amministrazione, non ancora oggetto di diffusa attenzione: dallo studio comparatistico sul diritto penale dell’impresa pubblica (1966) alla fondamentale Tutela penale della pubblica amministrazione: principi costituzionali (1968); alla voce Interesse privato in atti di ufficio nell’Enciclopedia del diritto (1972); agli interventi sulla qualificazione penale degli operatori bancari (1982 e 1988); al contributo sull’attualissima problematica delle Sovvenzioni all’industria e diritto penale (1982). Dominante, anche in questo settore, la fondazione costituzionale: la preoccupazione di circoscrivere la tutela penale ai valori costituzionalmente consacrati del buon andamento e dell’imparzialità, sfrondando ipertrofie di tradizione autoritaria. La vivacità degli interessi scientifici e l’acuta sensibilità sociale lo muovevano a uscire dalla cerchia codicistica e ad analizzare le domande emergenti di tutela. Dai Profili penali della pubblicità commerciale (1965) a Prospettive e limiti della tutela penale della riservatezza (1970), agli Aspetti penalistici degli inquinamenti (1974). Un solco magistrale ha tracciato sul terreno del diritto penale dell’economia, materia che negli ultimi anni era al centro dei suoi interessi. Nella sua operosità, anche in questo campo assidua e poliedrica, mi sembrano individuabili tre filoni principali. In primo luogo la costante dell’inquadramento costituzionale, fondamento e limite dell’intervento penale in campo economico: cfr. Lo statuto dell’impresa: profili penali e costituzionali (1985) e Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali (1990). Sul piano strettamente tecnico è stato ancora una volta innovatore nello studio, anche in prospettiva de jure condendo, del centrale problema dell’imputazione della criminalità d’impresa: nella relazione su Il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del fenomeno societario (1971) ha rimesso in discussione quello che sembrava un dogma intangibile, anticipando orientamenti che hanno avuto recenti affermazioni anche nelle legislazioni del Continente europeo, ai quali difficilmente il nostro Paese riuscirà a mantenersi estraneo. Nello scritto Responsabilità penale per il


— 10 — tipo e per il modo di produzione (a proposito del ‘‘caso di Seveso’’) (1978) ha individuato nella ‘‘politica d’impresa’’ un coefficiente di imputazione improntato a realismo e a efficacia generalpreventiva. Infine l’attenzione per il ramo più giovane del diritto penale commerciale, il diritto penale dei mercati finanziari, che ha analizzato nelle tecniche e nelle linee di sviluppo. Ricordo in particolare La disciplina penale dell’intermediazione finanziaria nella legge n. 77 del 23 marzo 1983 (1984); i Profili penali dell’informazione societaria (fra una giurisprudenza di tipo ‘‘sezionale’’ e la legge n. 281 del 1985) (1987); i Profili penali della disciplina del mercato finanziario (1990); Il diritto penale del mercato finanziario (1992). Dell’evolversi del sistema sanzionatorio è stato osservatore attento e disincantato. Senza pretesa di completezza tengo a ricordare, sulle pagine di questa Rivista, annata 1961, l’acuta nota sul principio della fungibilità della carcerazione preventiva con la misura di sicurezza detentiva come sintomo di una progressiva crisi del sistema dualistico; e poi una serie di saggi dai titoli espressivi: L’affidamento al servizio sociale: ‘‘fiore all’occhiello’’ della riforma penitenziaria (1976); Le misure alternative alla pena nel quadro di una ‘‘nuova’’ politica criminale (1977); La depenalizzazione della legge 24 novembre 1981, n. 689: una svolta ‘‘reale’’ nella politica criminale? (1982); Crisi del ‘‘Welfare State’’ e sistema punitivo (1982); La riscoperta delle ‘‘pene private’’ nell’ottica del penalista (1985). La posizione di Franco Bricola di fronte ai dilemmi della politica criminale mi sembra potersi ricapitolare in un ‘‘illuminismo’’ volto al progresso, ma alieno da mitizzazioni. Una dogmatica ‘‘intesa come concretizzazione di direttive di politica criminale che si identificano con principi costituzionali’’: questa sintesi, formulata nelle pagine di questa Rivista, nell’organico studio sui Rapporti tra dommatica e politica criminale (1988), dimostra che il pensiero scientifico di Franco Bricola, pur nella ricchezza e varietà delle sue ramificazioni, obbediva a un’impostazione lucidamente unitaria, costantemente orientata alla Costituzione. Nonostante gli assilli della pratica forense, intensamente e prestigiosamente vissuta, Franco Bricola ha sempre dato il meglio di sé all’Università. Formatosi nell’Ateneo pavese ha esercitato il proprio magistero presso le Facoltà giuridiche di Sassari, Bologna e Roma. Cresciuto alla scuola stimolante di un Maestro come Pietro Nuvolone, ha alimentato a sua volta una folta schiera di valorosi discepoli: la scuola penalistica bolognese è oggi fra le più vivaci e scientificamente produttive. Anche in campo editoriale è stato un attivo promotore di cultura giuridica: basti ricordare la Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta con Vladimiro Zagrebelsky, e la condirezione del Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare.


— 11 — Degno coronamento di un’operosità rigogliosa, stroncata nel pieno della maturità umana e scientifica, la partecipazione alla Commissione per l’elaborazione dei principi e criteri direttivi di una legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, insediata dal Guardasigilli Giuliano Vassalli e presieduta da Antonio Pagliaro. Al lavoro legislativo si presentava agguerrito da sedimentate meditazioni, documentate da scritti come le Considerazioni introduttive al fascicolo di Questione criminale dedicato a Il codice Rocco cinquant’anni dopo (1981); come Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela (1989); come Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale (1989). Auguriamoci che il futuro codice penale della Repubblica Italiana risenta l’influsso della sua sapienza giuridica e politico-legislativa. Dell’umanità di Franco Bricola non può tacere chi ha goduto della sua amicizia. Ne rimpiangeremo sempre l’ampia apertura al rapporto umano, la carica di simpatia, la calda affettività sotto l’affabilità del tratto venata di arguzia. La Rivista Italiana, che lo ha avuto tra i collaboratori più assidui e autorevoli e lo annovera tra i direttori, si associa al cordoglio della famiglia, dei discepoli, dei colleghi e amici, degli innumeri estimatori. CESARE PEDRAZZI


DOTTRINA

PROBLEMI PENALISTICI A PROPOSITO DEL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITÀ SU UN DECRETO LEGGE ANCORA NON CONVERTITO (*)

1. Le questioni specificamente penalistiche intorno al controllo di costituzionalità su un decreto legge ancora non convertito derivano dall’incontro di due tematiche generali: 1) quelle relative al controllo di costituzionalità su un qualsiasi decreto legge non convertito (anche se non di interesse penalistico); 2) quelle relative al controllo di costituzionalità su una qualsiasi norma penale (anche se posta con un mezzo diverso dal decreto legge). In questa sede, dopo le relazioni veramente chiarificatrici che abbiamo ascoltato, posso prescindere dall’affrontare la questione generale intorno al controllo di costituzionalità su un qualsiasi decreto legge (1). Ma è necessario affrontare la seconda tematica, indagando come il controllo di legittimità costituzionale si pona a proposito delle norme penali. Ebbene, la caratteristica delle norme penali che dà luogo a una loro peculiarità rispetto ai problemi di legittimità costituzionale consiste, senza dubbio, nella irretroattività della legge penale incriminatrice. Un princi-

(*) Relazione presentata al Seminario di studi sul decreto legge non convertito, svoltosi presso la Corte Costituzionale l’11 novembre 1994. (1) Il controllo di costituzionalità è possibile, perché il decreto legge è sicuramente un atto avente forza di legge (come richiede l’art. 134 Cost.). Non sarà consentito, tuttavia, un controllo sul requisito che si tratti di « casi straordinari di necessità e urgenza » (art. 77 Cost.), perché si tratta di valutazione discrezionale a contenuto politico, che la prassi costituzionale rimette per intero al Parlamento. Per una efficace sintesi delle questioni, PITRUZZELLA, Sui limiti costituzionali della decretazione d’urgenza, in Foro it., 1988, I, 1412. In tempi successivi alla data in cui si è svolto il Seminario, la Corte Costituzionale ha ritenuto (ma soltanto indirettamente) che le spetti pure il controllo sul requisito che si tratti di « casi straordinari di necessità e urgenza »: Corte Cost. n. 29/1995.


— 13 — pio, questo, che è profondamente radicato negli ordinamenti penali dell’Europa continentale di oggi e che talvolta sembra confliggere con l’efficacia ex tunc delle dichiarazioni di incostituzionalità. 2. Per avere chiaro il modo di operare dal principio di retroattività, bisogna introdurre una premessa teorica. La « sfera di validità » della legge penale nel tempo — è questa una espressione corrente in dottrina — non attiene alla validità in senso tecnico. Validità in senso tecnico (nel senso specifico di validità in senso debole, giusta la terminologia proposta da una recente dottrina (2)) è l’appartenenza della norma all’ordinamento che si considera. Una legge, ad esempio, è valida, nel nostro ordinamento, quando è stata approvata dai due rami del Parlamento ed è stata poi promulgata e pubblicata. Un decreto legge è valido, quando è stato approvato dal Governo e poi promulgato e pubblicato. Ma il senso di « sfera di validità » della legge nel tempo non attiene a quest’ordine di concetti. La « sfera di validità della legge nel tempo » indica le note temporali che deve possedere ciascun accadimento per potere essere sussunto nell’insieme dei fatti previsti dalle norme di legge. È un concetto, dunque, che prescinde dalla validità in senso tecnico dalla norma: riguarda, invece il suo contenuto (3). Ad esempio, se io immagino una norma che dovrà applicarsi ai fatti che accadranno da oggi al 2010, questa norma ha una sua sfera di validità temporale; ma, appunto in quanto è una norma immaginata e non una norma vigente, essa è priva di ogni validità in senso tecnico per l’ordinamento italiano. Al contrario, nell’ordinamento italiano può essere oggi in vigore una norma che però non può essere applicata perché designa un termine preciso a partire dal quale avrà efficacia (tra l’altro, a questo fenomeno si riporta anche il comunissimo caso della vacatio legis: malgrado la terminologia comune accenni a una « entrata in vigore » dopo un certo tempo, si tratta in realtà di una delimitazione temporale dell’insieme dei casi che la norma, già facente parte dell’ordinamento giuridico italiano, è destinata a regolare). Ebbene, il duplice significato del termine « validità » ha prodotto nella dottrina alcuni equivoci, dai quali è necessario liberarsi per intendere, nel loro giusto significato, la irretroattività delle leggi incriminatrici e la retroattività delle leggi penali di favore. (2) GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Torino, 1992, p. 201 s. e passim; MODUGNO, Validità (teoria generale), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 18 s.; ID., Validità (dir. cost.), ivi, p. 44 ss. (3) PAGLIARO, Legge penale nello spazio, in Enc. dir., XXIII, 1973, p. 1054.


— 14 — 3. L’art. 25 Cost., al secondo comma, che « Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso »; e l’art. 2, primo comma, del codice penale, ribadisce: « Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato ». Entrambe queste disposizioni determinano l’insieme dei fatti che possono essere oggetto di incriminazione da parte delle norme penali (validità in senso empirico) attraverso il rapporto temporale tra ciascun fatto e il tempo in cui la legge è in vigore (nel senso di validità in senso tecnico debole: cioè, la legge deve essere stata approvata, promulgata e pubblicata e ancora non sia stata annullata, derogata o abrogata. Non si richiede la validità in senso forte, cioè la completa stabilità della norma. Cià risulta ancora più evidente, se si guarda alla « formula madre », che è quella contenuta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: Nul ne peut être puni, qu’en vertu d’une loi établie et promulguée antériorement au délit et légalement appliquée). Ne consegue che, ai sensi di questi due articoli, per la punibilità del fatto è necessario, ma anche sufficiente, che la legge sia in vigore al momento del fatto medesimo. Eventuali problemi di incostituzionalità o di cessazione di efficacia della norma (come la mancata conversione di un decreto legge) riguardano altre disposizioni, non gli artt. 25, secondo comma, Cost. e 2, primo comma, c.p. Al contrario, i commi secondo e terzo dell’art. 2 del codice penale non richiedono la validità in senso tecnico della legge nel momento della commissione del fatto: essi riguardano in modo esclusivo la validità in senso empirico, cioè l’insieme dei casi ai quali una legge (non importa quando sia stata in vigore) può essere applicata. Dispone l’art. 2, secondo comma, c.p.: « Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali ». In questo caso, la legge posteriore non era in vigore al momento del fatto. Ma l’art. 2, comma 2, nel momento — e a partire dal momento — in cui entra in vigore al norma di liceità, determina l’insieme delle situazioni di fatto, cui quest’ultima norma si riferisce, in modo da comprendervi anche i fatti pregressi. Non si attribuisce alla norma di liceità una validità in senso tecnico la quale sia anteriore alla entrata in vigore della legge che la contiene. La norma di liceità è valida solo dopo aver compiuto il suo processo di formazione; ma l’ambito dei fatti che essa disciplina viene a comprendere anche i fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Osservazioni simili potrebbero essere ripetute per l’art. 2, terzo comma, c.p., a norma del quale, come è noto, « Se la legge del tempo in


— 15 — cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quelle le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ». Se non si ha chiara questa differenza concettuale tra validità in senso tecnico e validità in senso empirico, tutto il tema della retroattività delle leggi risulta incomprensibile. Si può addirittura cadere nel paradosso di pensare che il vecchio diritto — in quanto non è legge vigente — non possa essere più applicato, perché è stato abrogato al tempo del giudizio, e il nuovo diritto non possa ancora essere applicato, perché al tempo del fatto non era ancora in vigore (4). 4. Proviamo ora ad applicare questi concetti al tema della possibilità di dichiarare incostituzionale un decreto legge non convertito, che contenga disposizioni penali. Quel che dirò per gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità può valere pure per la mancata conversione in legge, posto che, a mio parere, nel nostro diritto gli effetti sono assimilabili. Se un decreto legge, che incriminava ex novo un certo fatto non è stato convertito oppure è stato dichiarato incostituzionale (in questo caso, non importa che ciò avvenga prima o dopo la conversione), ciò non cancella il dato di fatto che il decreto stesso è stato in vigore dal momento della sua pubblicazione fino alla decadenza o alla dichiarazione di incostituzionalità. Tale decreto, infatti, « perde efficacia fin dall’inizio » (art. 77 Cost.) oppure « cessa di avere efficacia » (art. 136 Cost.) e non può « avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione » (art. 30 l.). La inapplicabilità della norma incriminatrice contenuta nel decreto non dipende dal fatto che il soggetto non fosse punito « in forza di legge » (come richiede l’art. 25 Cost.) o che allora la legge non fosse « in vigore » (a norma dell’art. 2, primo comma, c.p.). Dipende dal fatto che la mancata conversione o la dichiarazione di incostituzionalità, facendo cessare ex tunc l’efficacia del decreto, viene a creare un nuovo insieme di casi ai quali applicare la norma di liceità contenuta nella legge precedente. Si ha, dunque, un jus novum di liceità che interagisce, in modo parallelo a quanto dispone il secondo comma dell’art. 2 c.p. (ma in modo autonomo rispetto a tale disposizione: questo è un punto molto importante, perché l’effetto indicato si verificherebbe pure se l’art. 2, secondo comma, non esistesse. Anzi, come vedremo, la Corte avrebbe do(4) Su tale paradosso, TIEDEMANN, Zeitliche Grenzen des Strafrechts, in Einheit und Vielheit des Strafrechts (Festschrift für Peters), 1974, p. 202 s.


— 16 — vuto dichiarare la totale illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 2 c.p., contenente il rinvio al secondo e al terzo comma per il caso di mancata conversione in legge), con la disciplina precedente, determinando la liceità del fatto, e persino il travolgimento del giudicato (art. 30, ult. comma, della legge n. 87 del 1983). Con questa sistemazione, per ottenere un regime accettabile non appare necessario fare ricorso all’idea che i fatti commessi sotto l’impero del decreto legge che rendeva lecito un fatto prima costituente reato debbano essere scusati perché chi li ha commessi versava in un errore inevitabile sulla loro illiceità penale (5). Tale soluzione non soddisfa pienamente, perché si può tranquillamente prevedere, estrapolando i contenuti della giurisprudenza attuale sull’art. 5 c.p., che la Corte di Cassazione negherebbe il requisito della inevitabilità dell’errore, posto che tutti sanno, o dovrebbero sapere, che un decreto legge, ove non sia convertito, è destinato a perdere efficacia fin dall’inizio. Inoltre, la soluzione stessa non è idonea a rispecchiare le esigenze che si manifestano nel caso che il decreto legge non abbia reso il fatto penalmente lecito, ma si sia limitato a prevedere per esso un regime penale meno severo. Qui il richiamo alla disciplina dell’art. 5 c.p. sarebbe totalmente vano, perché il soggetto non può avere (in conseguenza del decreto) errato sulla illiceità penale del fatto, che era illecito sia prima che dopo l’entrata in vigore del decreto. Se, invece, era il decreto legge dichiarato incostituzionale (o non convertito) a introdurre la liceità penale, per i fatti commessi sotto il suo vigore vale la regola costituzionale dell’art. 25 Cost., ribadita nel primo comma dell’art. 2 c.p. La cessazione di efficacia ex tunc è, infatti, cosa ben diversa dal non avere avuto vigore (∃ assenza di validità in senso tecnico debole). Il decreto legge è stato approvato, promulgato e pubblicato: così, è entrato a far parte dell’ordinamento italiano. Esso, dunque, ai sensi dell’art. 25 Cost., era la legge in vigore al momento del fatto. Dal punto di vista sostanziale, si può aggiungere che il diritto non può, al tempo stesso, pretendere l’osservanza delle disposizioni contenute in un decreto legge da convertire e poi rendere penalmente responsabile chi ha agito in conformità di quel decreto, ove questo poi non sia convertito o sia dichiarato incostituzionale. Infatti, non si può negare che, in questi casi, sia provvisoriamente richiesta l’osservanza da parte degli organi statali e dei (5) Era la soluzione che proponevo nella edizione 1993 dei miei Principi di diritto penale. Parte generale, e che ora è ripresa da SORRENTINO, Il decreto legge non convertito (Relazione presentata a questo Seminario), p. 18 s. dal dattiloscritto.


— 17 — cittadini: anche se poi la maggior parte degli effetti (ma non quelli oramai ineliminabili) può essere annullata dalle successive vicende del decreto (6). Per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto (poi non convertito o dichiarato costituzionalmente illegittimo) che rendeva lecito un fatto già costituente reato, l’art. 25, secondo comma, Cost. e il primo comma dell’art. 2 c.p. non entrano in gioco, perché la legge del tempo in cui il fatto fu commesso lo incriminava. Sotto lo Statuto Albertino è parso giusto, quindi, che a regolare la materia dovesse subentrare il secondo comma dell’art. 2 c.p., che dà forza retroattiva all’abrogazione di una incriminazione. Ma, oggi questo comma non può essere applicato, posto che il decreto non convertito o dichiarato incostituzionale non è più una norma in vigore nel momento del giudizio e quindi, anche se più favorevole, non può aver l’effetto di ricomprendere, nel proprio insieme di casi da disciplinare, i fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Opinare diversamente sarebbe porsi in contrasto con l’art. 77 ult. comma e con l’art. 136 primo comma Cost., in quanto si darebbe al decreto decaduto o dichiarato incostituzionale una « efficacia » che non può più avere. Bene ha operato, dunque, la Corte costituzionale nel dichiarare illegittimo l’ultimo comma dell’art. 2 c.p., nella parte in cui rendeva « applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel primo e secondo comma dello stesso art. 2 » (7). Anzi, sarebbe stato possibile, e giuridicamente più corretto, dichiarare la totale illegittimità dell’ultimo comma, dato che la non punibilità di chi ha commesso il fatto sotto l’impero del decreto legge è dovuta all’art. 25 Cost. e all’art. 2, primo comma, c.p., non al secondo comma di quest’ultimo articolo. E, soprattutto a proposito dell’art. 25 Cost., non può esservi dubbio alcuno che la irretroattività della legge penale, ivi prevista, valga pure per i decreti legge. Non vi erano, dunque, ragioni valide di funzionalità che potessero trattenere la Corte dal dichiarare la totale incostituzionalità dell’art. 2 ultimo comma c.p. In tal modo, si sarebbe evitato di dare l’impressione (8) che il decreto (6) Sul punto, PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 56 s.; MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1993, p. 134. Contra, ESPOSITO, Il controllo costituzionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, ne La costituzione italiana, Padova, 1954, p. 272; VIESTI, Il decreto legge, Napoli, 1967, p. 181; G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale2, Bologna, 1988, p. 270 s. (7) Corte cost., sent. 22 febbraio 1985, n. 51; sulla quale, G. VASSALLI, Decreti-legge favorevoli al reo non convertiti, emendati o decaduti: una prima tappa verso la chiarezza su un controverso tema di diritto transitorio, in Giur. cost., 1985, p. 242. (8) Sulla quale, PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale4, Milano, 1993, p. 121 s.


— 18 — legge non convertito possa ancora, contro il disposto dell’art. 77 ultimo comma Cost., avere talvolta una « efficacia » di legge. 5. E veniamo al caso che il decreto legge dichiarato incostituzionale (o non convertito) non abbia reso lecito il fatto, ma preveda per esso un regime penale differente. Si sa che l’art. 2, terzo comma c.p., stabilisce in proposito: « Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ». Tuttavia, la Corte costituzionale, come ho ricordato sopra, ha dichiarato la incostituzionalità dell’ultimo comma dell’art. 2, nella parte in cui rendeva applicabili il secondo e il terzo comma dell’articolo anche nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto legge e nei casi di decreto legge convertito in legge con emendamenti. E poiché gli effetti di una dichiarazione di incostituzionalità di un decreto legge sono sovrapponibili a quelli della mancata conversione, se ne deve concludere che, né direttamente, né per analogia, la disciplina posta nell’art. 2, comma terzo, c.p. può essere applicata al caso di dichiarazione di incostituzionalità del decreto legge. Per determinare la disciplina oggi vigente, bisogna distinguere due casi, secondo che il fatto sia stato commesso prima dell’entrata in vigore del decreto legge oppure sia stato commesso nel vigore del decreto legge poi dichiarato incostituzionale o non convertito. Nel primo caso, anche se la legge precedente era la più severa, essa rimane applicabile al fatto commesso sotto il suo impero, dal momento che essa era la sola in vigore al momento del fatto. Il decreto legge dichiarato incostituzionale o non convertito non può retroagire neanche in favore del reo, perché non gli si può dare « efficacia » di legge (v. gli artt. 77 e 136 Cost., nonché la citata sentenza della Corte costituzionale). Nel secondo caso, posto che il rinvio dall’ultimo al terzo comma dell’art. 2 c.p. dovrebbe, per le stesse ragioni esposte a proposito del rinvio al secondo comma, essere ritenuto totalmente illegittimo dal punto di vista costituzionale, potrebbe sorgere il dubbio che al fatto commesso sotto il vigore del decreto legge quest’ultimo non possa essere applicato, neppure nel caso che esso preveda un regime penale più mite di quello contemplato dalla legge precedente: il che, certo, non risponderebbe ai nostri sentimenti di giustizia. Il timore che ciò potesse accadere è, con ogni probabilità, la causa che ha trattenuto la Corte costituzionale, nella citata sentenza, dal dichiarare la totale illegittimità dell’ultimo comma dell’art. 2. In realtà, già l’art. 25 Cost. e l’art. 2, primo comma, c.p. guidano verso la soluzione corretta. Che nessuno possa « essere punito se non in


— 19 — forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso » (come si esprime l’art. 25 Cost.), significa che la legge deve essere in vigore al momento del fatto e che la punizione deve avvenire entro i limiti previsti da quella legge. Ebbene, l’unica legge in vigore al momento del fatto era, nel caso in esame, il decreto legge che prevedeva la pena più mite. Perciò, solo a tale decreto si può fare ricorso per determinare la pena applicabile. Il successivo annullamento (con effetto retroattivo) del decreto legge estende la sfera temporale di applicabilità della legge precedente, ma non sarà possibile al giudice superare i limiti quantitativi di pena stabiliti nel decreto legge, perché vi osterebbero l’art. 25 Cost. e l’art. 2, primo comma, del codice penale. Nel caso inverso, cioè se il decreto legge dichiarato incostituzionale o non convertito ha inasprito il regime penale previsto da una legge precedente, ai fatti commessi sotto l’impero del decreto non si potrà applicare quest’ultimo (anche se era la legge in vigore al momento del fatto), perché il decreto stesso è stato retroattivamente privato di efficacia. Si applicherà, invece, la legge precedente più favorevole (che pure non era la legge in vigore al momento del fatto), perché le norme costituzionali, privando di ogni efficacia le leggi dichiarate incostituzionali e i decreti legge non convertiti, estendono l’efficacia della legge penale preesistente fino a comprendervi i fatti commessi sotto il vigore del decreto legge successivamente non convertito o dichiarato incostituzionale. 6. La stabilità degli effetti penali in bonam partem prodotti da una legge subentrata a una legge penale più severa ha fatto sorgere il dubbio che la legge successiva di maggior favore per il reo non sia mai suscettibile di un controllo incidentale di costituzionalità. Infatti, l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, richiede, perché la Corte possa esaminare la questione, che il giudizio davanti a un’autorità giurisdizionale non possa essere « definito indipendentemente dalla risoluzione della questione stessa »; ma, se la norma di favore rimane comunque applicabile al fatto concreto, sembra che la rilevanza della questione di costituzionalità debba necessariamente dissolversi in ogni caso (9). A parte il fatto che la rilevanza della questione persiste in ogni caso nel quale il fatto è stato commesso prima dell’entrata in vigore della norma di favore (perché allora, se la norma di favore viene dichiarata incostituzionale, si applicherà ancora il regime precedente), si può ricordare (9) Cfr. MODUGNO e AGRÒ (a cura di), Il principio di unità del controllo delle leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale2, Torino, 1991, p. 93 ss.


— 20 — che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 148 del 1983, ha indicato taluni aspetti accessori della rilevanza della questione (tra i quali l’incidenza sulla formula di proscioglimento o, quanto meno, sul dispositivo della sentenza penale e sulla sua motivazione): aspetti accessori, i quali sarebbero bastevoli per rendere possibile il giudizio di legittimità costituzionale. La decisione è da condividere (10), perché non si può consentire che larghe parti della legislazione siano, di fatto, sottratte al controllo di costituzionalità. Se si dovesse ritenere che il sistema giuridico attuale non permetta tale controllo, diverrebbe necessario prospettare la illegittimità costituzionale dell’art. 23 cit., nella parte in cui blocchi il giudizio di costituzionalità sulle legge penali di favore. Applicando questi concetti all’argomento specifico che ci riguarda: un decreto legge non convertito può essere oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale anche se contiene norme penali più favorevoli di quelle contenute nella legislazione presistente. 7. Ancora un problema da esaminare. Può accadere che, dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale di un decreto legge (convertito o ancora non convertito) o, più comunemente, nel caso di mancata conversione del decreto legge, il Parlamento emani una legge di convalida di taluni effetti penali contenuti nel decreto stesso; oppure anche che il Governo emani un ulteriore decreto legge con il quale faccia salvi taluni di tali effetti. Ebbene, se il decreto legge conteneva disposizioni incriminatrici o comunque disposizioni penali meno favorevoli per il reo, vale il principio della irretroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. e dall’art. 2, primo comma, c.p. Perciò, ove il decreto sia dichiarato incostituzionale o non sia convertito, non esiste nessun mezzo costituzionalmente legittimo per convalidare tali effetti ex tunc. Tanto meno può farlo un decreto legge reiterante il primo, neppure se sia emanato prima della scadenza dei termini di conversione (11). L’unica possibilità che rimane è quella di fare decorrere gli effetti a partire dalla data in vigore della legge di convalida (sempre che, ovviamente, la dichiarazione di incostituzionalità sia avvenuta per causa non attinente a quegli effetti). Solo nel caso di regolare conversione, il decreto può continuare ad esplicare effetti ex tunc, perché ciò discende direttamente dall’art. 77 Cost. Infine, se la legge converte un (10) G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., p. 200 s., 225. (11) Cfr. Cass., Sez. I, 30 novembre 1993, C.E.D. Cass., n. 196099; Cass., Sez. I, 22 dicembre 1993, C.E.E. Cass., n. 196550.


— 21 — decreto costituzionalmente invalido (per difetto di competenza o per altro motivo), neanche la legge di conversione può far decorrere gli effetti penali meno favorevoli dalla data in cui il decreto era entrato in vigore. In tal caso, infatti, piuttosto che di conversione, si tratterebbe di convalida, sicché l’art. 77 Cost. non può trovare applicazione. 8. Ci si può chiedere ulteriormente se, in tema di decreto legge contenente disposizioni penali, siano consentite pronunce a carattere modificativo, additivo o sostitutivo. Il problema di fondo è identico a quello che può porsi nei confronti di qualsiasi legge penale; a proposito della quale di solito si ritiene che tali pronunce siano consentite, purché non estendano le incriminazioni, né comunque aggravino il regime penale (12). Nel caso parallelo della conversione del decreto con emendamenti, la Cassazione ha ritenuto che, quando l’emendamento sia modificativo, la legge di conversione potrebbe avere effetto retroattivo ex tunc anche se si tratti di disposizioni che aggravano il regime penale (13). In verità, la Cassazione ha impiegato il termine « modificativo » non nel senso lato, bensì in un senso ristretto, tale da contrapporre questo tipo di emendamento all’emendamento soppressivo e all’emendamento sostitutivo. La Cassazione sembra abbia voluto dire che, quando l’emendamento comporti una variazione piuttosto marginale, la legge di conversione avrebbe efficacia retroattiva anche se questo effetto è a danno del reo; e ha fatto applicazione di questo principio all’aumento di pena introdotto, in sede di conversione, per il delitto di sequestro di persone. Appunto quest’applicazione mostra il vizio del ragionamento. Oggetto della pronuncia, infatti, era un reato permanente ancora non commesso per intero nel momento in cui fu emanata la legge di conversione. Ma, allora, l’applicabilità di quest’ultima a tutto il reato dipende dalla circostanza che, all’entrata in vigore della legge di conversione, il reato non è ancora « commesso »; non dipende da una (inesistente) retroattività della legge di conversione in tema di emendamenti modificativi in danno del reo. Questo tipo di retroattività è sicuramente da respingere. Infatti, la legge di conversione non era la legge in vigore al momento del fatto (e perciò applicare le norme penali più severe comporterebbe una violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. e dell’art. 2, primo comma, c.p.). In (12) Ad. es., MODUGNO, in Giur. cost., 1978, I, p. 1249. (13) Cass. 13 novembre 1984, in Cass. pen., 1986, p. 476. Il concetto è stato poi ripreso da Cass., Sez. II, 10 novembre 1987, C.E.D. Cass., n. 178434.


— 22 — nessun caso, quindi, un emendamento a sfavore del reo, introdotto dalla legge di conversione, può avere un effetto retroattivo: il che, nel parallelismo delle questioni, ribadisce che una dichiarazione di illegittimità di un decreto legge non può includere, sotto forma di pronunce con contenuto modificativo, nessun inasprimento della legislazione penale, neanche se si tratti di aspetti marginali. 9. Circa il diritto processuale penale (ivi compreso il diritto della esecuzione penale (14)), io sono fermamente convinto che per esso valga la regola tempus regit actum (15) e che quindi non vi abbia valore la regola della retroattività della norma più favorevole (che risulta solo dal secondo e terzo comma dell’art. 2 c.p., e non dall’art. 25 Cost.). Inoltre, il tempo di riferimento per determinare quale è la norma in vigore sarà il tempo in cui è compiuto l’atto processuale, e non il tempo del reato. Ciò semplifica notevolmente la problematica delle dichiarazioni di incostituzionalità di un decreto legge contenente disposizioni processuali penali: non sorgeranno, infatti, problemi specifici. Vi sono, tuttavia, alcune materie ai confini tra diritto penale e diritto processuale penale, le quali esigono un regime penale corrispondente a quello previsto per le leggi penali vere e proprie. Alludo alle condizioni di procedibilità (querela, istanza, richiesta) e alle cause sopravvenute di improcedibilità (le c.d. cause di estinzione del reato: amnistia propria, prescrizione ecc.). Poiché nella sistematica dei codici vigenti tali istituti sono considerati (sia pure a torto) come attinenti al diritto penale sostanziale (cfr. gli artt. 120 ss., 150 ss., c.p.), è aperta la via ad estendere loro la disciplina stabilita per la successione delle leggi penali (16). In conseguenza, per il caso di dichiarazione di incostituzionalità di un decreto legge relativo a condizioni di procedibilità o a cause sopravvenute di improcedibilità, varranno le stesse regole che abbiamo cercato di delineare per il diritto penale vero e proprio. 10.

Il Progetto di legge delega per un nuovo codice penale (17), do-

(14) Cass., Sez. I, 4 marzo 1994, C.E.D. Cass., n. 197460; Cass., Sez. I, 8 ottobre 1993, C.E.D. Cass., n. 196208. (15) Di recente, Cass., Sez. Un. 27 marzo 1992, C.E.D. Cass., n. 190246; Cass., Sez. I, 12 gennaio 1994, C.E.D. Cass., n. 196532 (entrambe in tema di misure cautelari). (16) PAGLIARO, Principi, cit., p. 117 s. (17) Pubblicato, con la relazione, in Documenti Giustizia, 1992, fasc. 3; in Indice penale, 1992, p. 579; nel volume Per un nuovo codice penale, Padova, 1993 (con Presenta-


— 23 — vuto alla lungimirante iniziativa del prof. Vassalli nel tempo in cui egli fu Guardasigilli, prevede, all’art. 5, punto 6, che, in caso di mancata conversione di un decreto legge, si applicheranno i criteri indicati nei punti 1, 2 e 3 dello stesso articolo, fatta salva in ogni caso l’applicazione della legge del tempo per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legge. Il punto 1 comporta la irretroattività delle norme incriminatrici e di ogni altra disposizione che comporti comunque un trattamento penale più sfavorevole (quindi, se il decreto legge prevedeva la liceità del fatto o un trattamento di maggior favore rispetto alla legge preesistente, quest’ultima, nel tornare ad applicarsi ai fatti commessi quando il decreto legge era in vigore, incontrerà tali limiti). Il punto 2 prevede la retroattività delle leggi che rendono penalmente lecito un fatto prima incriminato, con effetto anche sull’eventuale giudicato (perciò, se la legge precedente contemplava una liceità penale, mentre il decreto legge non convertito incriminava il fatto, questo ritornerà totalmente lecito ex tunc, travolgendo persino il giudicato). Il punto 3 statuisce la retroattività di ogni altra disposizione che comporti comunque un trattamento più favorevole al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna. Nonostante la suddetta sentenza, viene prevista la retroattività della disposizione più favorevole, quando essa preveda una pena pecuniaria in luogo della precedente pena detentiva, ovvero quando l’esecuzione di una pena detentiva sia destinata a protrarsi, in forza del giudicato, oltre il limite massimo stabilito dalla nuova legge. Come è chiaro, il Progetto si è adeguato alla distinzione, introdotta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 51 del 1985, circa la diversa efficacia del decreto legge non convertito rispetto ai fatti pregressi e ai fatti concomitanti. In questi termini, probabilmente non è necessario che le disposizioni in oggetto siano approvate con legge costituzionale, posto che le statuizioni ivi contenute non danno al decreto legge non convertito una efficacia di legge, oltre quella che è loro riconosciuta dalla Costituzione. Ancora, l’art. 5, punto 7 del Progetto stabilisce lo stesso regime anche per il caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge (quindi, anche del decreto legge), con l’aggiunta del richiamo al criterio tempus regit actum per le leggi eccezionali o temporanee (come osserva la zione di G. Vassalli); nonché, nella forma assunta come schema di disegno di legge per opera del Guardasigilli G. Conso, in Giust. pen., 1994, II, 88. Sul Progetto in questione, PAGLIARO, Lo schema di disegno di legge delega per la riforma: metodo di lavoro e principi ispiratori, ne L’indice penale, 1994; e opere ivi citate.


— 24 — Relazione, questa regola non è stata richiamata a proposito del decreto legge non convertito, per evitare possibili strumentalizzazioni da parte del potere esecutivo). Anche qui viene precisato che la legge precedente rimane applicabile ai fatti commessi sotto il suo impero. Si evita, quindi, che attraverso una legge — o un decreto legge — incostituzionale si possa retroattivamente conferire liceità penale o comunque attribuire un regime penale di favore a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Infine, l’art. 4 delle Disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie prevede la sospensione obbligatoria del giudizio penale nel tempo in cui dovrebbe applicarsi un decreto legge non ancora convertito. Come è chiaro, la statuizione mira ad evitare che, nel caso di mancata conversione o di conversione con emendamenti, sorgano problemi applicativi dovuti alla esistenza di sentenze, magari passate in giudicato, le quali si fondavano su una norma che ha perso efficacia ex tunc. ANTONIO PAGLIARO


IL CODICE PENALE PORTOGHESE DEL 1982 E LA SUA RIFORMA

I. La formazione del codice penale portoghese del 1982. — Il 1o gennaio 1983, dopo più di due decenni di lavori preparatori, è entrato in vigore in Portogallo un nuovo codice penale. Ha così cessato di aver vigore il codice del 1852, con il quale erano stati introdotti in Portogallo i tanto decantati ‘‘metodi realisti’’ del legislatore francese napoleonico in materia di politica criminale, con la loro piena fedeltà ai canoni rigorosi della prevenzione generale negativa o della intimidazione (1). Unanimemente criticato dalla dottrina portoghese del tempo (2), il codice penale del 1852 fu profondamente modificato dalla ‘‘Nuova Riforma Penale’’ del 1884, dalla quale derivò quello che fu in seguito chiamato il ‘‘codice penale del 1886’’, rimasto in vigore in Portogallo sino al 1983. Caratteristica fondamentale di quella riforma era una diversa concezione della finalità della pena, che cessava di essere considerata principalmente come strumento di intimidazione della generalità delle persone, per passare ad essere vista come retribuzione del male arrecato attraverso il reato, come espiazione o compensazione della colpevolezza dell’agente. Tuttavia, a questa concezione della pena si è aggiunta molto presto, nel pensiero giuridico-penale portoghese, un’istanza di prevenzione speciale (1) Per maggiori dettagli su quanto verrà esposto nel testo, si veda la bellissima monografia di P. HÜNERFELD, Die Entwicklung der Kriminalpolitik in Portugal, Bonn, 1971, p. 70 ss., con ampie indicazioni bibliografiche; e, in sintesi, H.H. JESCHECK, Principes et solutions de la politique criminelle dans la réforme pénale allemande et portugaise, in Estudos In-Memoriam do Prof. Beleza dos Santos, Supplemento XVI al Boletim da Faculdade de Direito, Coimbra, 1966, p. 436 ss. Cfr. inoltre J. FIGUEIREDO DIAS, La reforma del derecho penal portugues. Princípios y orientationes fundamentales, Madrid, 1971, pp. 13-18 e J. FIGUEIREDO DIAS-A.M. ALMEIDA COSTA, La réforme pénale portugaise, in Rev. dr. pén. crim., 1985, p. 7 ss. (2) V. soprattutto, per queste critiche, i grandi commentari del codice penale del 1852: L.M. JORDÃO, Commentario ao Codigo Penal Portuguez, vol. IV, Lisboa, 1853-4, e F. DA SILVA FERRÃO, Theoria do Direito Penal, vol. VIII, Lisboa, 1856 s.


— 26 — positiva (o di risocializzazione) (3). Istanza che, mettendo a frutto l’essenza del pensiero correzionalista, basato sulle tesi di KRAUSE e ROEDER, si ricollegava alla convinzione della correggibilità di tutti i delinquenti e al dovere dello Stato di porre a loro disposizione i mezzi possibili e necessari per la loro emenda. Si spiega così il fatto che il Portogallo sia stato uno dei primi Paesi ad accogliere il modello franco-belga del ‘‘sursis’’, l’istituto della liberazione condizionale, un sistema di misure di sicurezza, un avanzato sistema di tutela e di controllo penale dei minori e, infine, una riforma penitenziaria basata sull’esecuzione progressiva della pena detentiva. Solo nel 1954, però, si è proceduto ad una revisione del codice penale, che ha tuttavia riguardato in modo quasi esclusivo il capo relativo alle sanzioni penali. Nonostante questa revisione, continuava a farsi sentire la necessità di una riforma globale del codice penale portoghese. Ciò fu compreso, nel 1961, dal Ministro della Giustizia dell’epoca, che incaricò EDUARDO CORREIA, penalista dell’Università di Coimbra e mio compianto Maestro, di elaborarne il Progetto. Nel 1963 egli presentò il Progetto della Parte Generale e nel 1966 il Progetto della Parte Speciale (4). Da un punto di vista strettamente politico, però, i tempi non erano maturi perché questi Progetti potessero essere tradotti in legge (5). Solo il movimento rivoluzionario del 25 aprile 1974 ha creato le condizioni perché l’impresa della riforma potesse essere portata a compimento con suc(3) Attraverso soprattutto dei tentativi di riferire la colpevolezza alla personalità dell’agente e la conseguente costruzione di un ‘‘sistema a binario unico’’ in materia di sanzioni penali detentive applicabili ai delinquenti imputabili. Tali tentativi costituiscono la caratteristica forse più marcata della dogmatica giuridico-penale portoghese di questo secolo e si riscontrano in autori che partono da diversi presupposti di fondo, come J. Beleza dos Santos, M. Cavaleiro de Ferreira e Eduardo Correia. Di questi tentativi danno notizia al lettore cui non sia accessibile la lingua portoghese, oltre agli studi di P. HÜNERFELD e di H.H. JESCHECK citati alla nota 1, EDUARDO CORREIA, Grundgedanken der portugiesischen Strafrechtsreform, in ZStW 76 (1964), p. 323 ss.; ID., Der Einfluss Franz v. Liszts auf die portugiesische Strafrechtsreform, in ZStW 81 (1969), p. 723 e P. HÜNERFELD, Strafrechtsdogmatik in Deutschland und Portugal, Baden-Baden, 1981, p. 181 ss. Una proposta di revisione della relazione tra colpevolezza e personalità in una prospettiva diversa da quella seguita dagli AA. sopra menzionati si trova in J. FIGUEIREDO DIAS, Schuld und Persönlichkeit. Für eine rechtsethische Erneuerung des Schuldbegriffs im Strafrecht, in ZStW 95 (1983), p. 220 ss., pubblicato in seguito in Spagna, nei Cuadernos de politica criminal 31 (1987), p. 5 ss. (4) Cfr. EDUARDO CORREIA, Código penal. Projecto da Parte Geral, Lisboa, 1966, e Código Penal. Projecto da Parte Especial, Lisboa, 1966. (5) Per maggiori dettagli sullo sviluppo storico che qui di seguito si illustra sinteticamente, cfr. LOPES ROCHA, La réforme pénale portugaise et sa réception par la société, in M. LOPES ROCHA-M. COSTA ANDRADE, Relação da Criminologia com as Políticas e Práticas Sociais, Lisboa, 1984, p. 69; e da ultimo CRISTINA MONTEIRO, O CP de 1982 - Subsídio para uma compreensão histórica da sua génese, in Bol. Fac. de Dir. de Coimbra 68 (1992), pp. 265-282.


— 27 — cesso, promuovendo la democratizzazione della vita socio-politica portoghese che ha trovato espressione nella Costituzione del 1976. In questo anno sono ripresi i lavori di riforma, con la sottoposizione del Progetto all’esame di una Commissione sotto la responsabilità del Ministro della Giustizia; e un nuovo riesame ebbe luogo nel 1979, essendo allora Ministro della Giustizia proprio EDUARDO CORREIA. I testi preparati furono presentati in Parlamento, ma solo nel 1982 furono approvati in forza di una delega legislativa appositamente rilasciata al Governo. Così è nato il codice penale attualmente in vigore in Portogallo. II. Principi politico-criminali fondamentali. — Ho sempre pensato che il modo migliore per presentare un codice penale, nelle sue linee essenziali, consista nell’esporre i principi politico-criminali fondamentali sui quali si basa. Non è però un’impresa facile tradurre in formule sintetiche la molteplicità dei principi-guida della politica criminale che sottostanno al codice penale portoghese. Senza alcuna pretesa di completezza e, al contrario, in forma necessariamente sintetica, frammentaria e lacunosa, ritengo ad ogni modo che si possa, con una certa precisione, delineare il seguente quadro (6): 1. Il primo dei principi politico-criminali che ispirano il codice penale portoghese è quello dell’adeguamento del diritto penale all’idea dello Stato di diritto; si tratta, in questa accezione, del principio di legalità. Questo principio, così come è stato consacrato, soddisfa integralmente la sua funzione tradizionale: sia sul piano delle fonti, sia sul piano della formulazione della norma incriminatrice, sia su quello dell’applicazione della legge nel tempo (7). A parte ciò, tuttavia, esso va notevolmente oltre il suo contenuto tradizionale: conformemente, in questa parte, a imperativi giuridico-costituzionali, ricomprende nel suo ambito la definizione non solo dei reati e delle pene, ma anche delle misure di sicurezza e dei loro (6) Essenzialmente coincidente, nella parte relativa alle conseguenze giuridiche del reato, con quello che ho già delineato nei miei lavori Principes généraux de la politique criminelle portugaise, in Rev. de sc. crim. et de dr. pén. comp., 1987, p. 87 ss. e O Sistema Sancionatório do Direito Penal Português no Contexto dos Modelos da Política Criminal, in Estudos em Homenagem ao Prof. Dr. Eduardo Correia, I, Coimbra, 1989, p. 783 ss. Cfr., da ultimo, J. FIGUEIREDO DIAS, Direito Penal Português. Parte Geral. II. As Consequências Jurídicas do Crime, Lisboa, 1994, § 17 ss. (7) Sulle problematiche implicate da questo principio, cfr. J. SOUSA E BRITO, A Lei Penal na Constituição, in Estudos Sobre a Constituição, II, Lisboa, 1977, p. 197 ss.; A. CASTANHEIRA NEVES, O Princípio da Legalidade Criminal. O seu Problema Jurídico e o seu Critério Dogmático, in Estudos E. Correia, cit. nella nota 6, p. 307 ss.; A. TAIPA DE CARVALHO, Sucessão de Leis Penais, Coimbra, 1990.


— 28 — presupposti, operando anche nei loro confronti la riserva di legge formale, il divieto di applicazione retroattiva e del ricorso all’interpretazione estensiva e alla analogia in malam partem (8). 2. Il secondo principio politico-criminale di rilevanza fondamentale per un corretto inquadramento del codice penale portoghese è quello che chiamerò principio di riferimento giuridico-costituzionale, di congruenza o analogia sostanziale tra l’ordine costituzionale dei valori e l’ordine legale dei beni giuridici. Da questo principio (9), che trova riscontro nell’art. 182 della Costituzione portoghese (10), derivano importanti conseguenze: esso spiega, da una parte, molte delle principali opzioni del codice penale, e permette, d’altra parte, una sua comprensione politico-criminale unitaria. a) Così il principio consente di comprendere la ragione per la quale il diritto penale può intervenire solo per la protezione di beni giuridici, e non per la tutela di norme morali o di una morale qualsiasi (11). Questo ‘‘orientamento del diritto penale per mezzo e in funzione del bene giuridico’’ comporta conseguenze fondamentali per la determinazione dei limiti della incriminazione e della punibilità; e per l’accettazione di criteri rigorosi di necessità e di sussidiarietà dell’intervento penale, che viene così elevato a ‘‘ultima ratio’’ della politica sociale. Ma conseguenze comporta anche — e in questo io vedo l’aspetto essenziale — sotto un altro profilo: quello per il quale solo finalità ‘‘relative’’ di prevenzione, generale e spe(8) Il principio ricomprende così nel suo ambito la materia processuale penale — in una misura e in un senso che non può però essere precisato in questa sede —. Perciò (e in base alla circostanza riferita da ultimo nel testo) il nuovo codice di procedura penale portoghese del 1987 ha avuto come conseguenza che le questioni della non imputabilità e dell’eventuale applicazione di una misura di sicurezza non possono essere risolte negli ambiti ristretti di un ‘‘incidente processuale di alienazione mentale’’, ma devono essere trattate con la totalità dei mezzi del processo penale comune. Così già J. FIGUEIREDO DIAS, Le modèle ‘compréhensif’ de la doctrine du manque d’imputabilité..., in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, I, Milano, 1991, p. 215 ss.; e di recente altresì Ma JOÃO ANTUNES, O Internamento de Imputáveis em Estabelecimentos Destinados a Inimputáveis, Coimbra, 1994, pp. 11 e 106 ss. (9) Al quale di recente è stato dedicato un bellissimo studio da EMILIO DOLCINI e GIORGIO MARINUCCI, Constituição e escolha dos bens jurídicos, in Rev. Portuguesa de Ciência Criminal 4 (1994), p. 151 ss. (10) Secondo il quale ‘‘La legge soltanto può restringere i diritti, le libertà e le garanzie nei casi espressamente previsti nella Costituzione, dovendo tali restrizioni limitarsi a quanto necessario per salvaguardare altri diritti o interessi costituzionalmente protetti’’. (11) Così già nei miei studi Les nouvelles tendances de la politique criminelle portugaise, in Archives de politique criminelle 6 (1983), p. 194 ss. e Os Novos Rumos da Política Criminal e o Direito Penal Português do Futuro, in Rev. da Ordem dos Advogados 43 (1983), p. 13 ss. E da ultimo cfr. altresì M. COSTA ANDRADE, Consentimento e Acordo em Direito Penal, Coimbra, 1991, p. 42 ss.


— 29 — ciale, e non finalità ‘‘assolute’’ di retribuzione o di compensazione della colpevolezza (12) possono legittimare l’intervento del sistema penale e dare senso alle sue specifiche sanzioni. In questo modo la prevenzione generale assume il primo posto tra le finalità della pena. Non, in ogni caso, come prevenzione generale negativa o intimidazione, ma (13) come prevenzione generale positiva, di integrazione o di rafforzamento della coscienza giuridica collettiva e del sentimento collettivo di fiducia nel diritto; in una parola (usando in questo senso l’espressione di JAKOBS, senza con ciò accettare il carattere quasi ‘‘simbolico’’ che in essa la pena assume) come stabilizzazione ‘contrafattuale’ delle aspettative della comunità nella validità della norma violata (14). Ne segue, fra l’altro, che persino la misura di sicurezza, che pure si giustifica in primo luogo alla luce dell’idea di prevenzione speciale, non possa, essa stessa, rimanere estranea ai principi della prevenzione generale positiva (15). b) Il ‘‘principio di riferimento costituzionale’’ menzionato è, in secondo luogo, alla base di un salutare moderato movimento di depenalizza(12) Così come sono state teorizzate, nella dottrina italiana, soprattutto da quell’elevato spirito di giurista che fu GIUSEPPE BETTIOL, per es. e da ultimo, in Diritto penale, 11a ed., Padova, 1982, specialmente pp. 57 s. e 400 ss., e in Culpa do agente e certeza do direito, in Rev. da Ordem dos Advogados 38 (1978), p. 415 ss. (13) Come già nel secolo passato era stato tanto giustamente intuito da CARRARA, Programma, 8a ed., Firenze, 1897, § 614 ss. Su questa interpretazione del pensiero del Maestro di Lucca, J. FIGUEIREDO DIAS, Carrara e l’attuale paradigma penale. Una lettura alla luce dell’esperienza portoghese, in questa Rivista, 1988, p. 788 ss. (14) G. JAKOBS, Strafrecht, A.T., Berlin, 1983, Abs. 1, Rn 4 ss. Non posso tuttavia accettare, lo sottolineo, che questa funzione della pena si contrapponga alla citata funzione di tutela dei beni giuridici, sul presupposto che quest’ultima non riguarderebbe il diritto penale, almeno nella sua forma originaria, dal momento che ‘‘la società non è un’istituzione per la conservazione o addirittura per la massimizzazione dei beni’’ (G. JAKOBS, op. cit., Abs. 2, Rn. 23). A mio avviso, funzione originaria del diritto penale è proprio la tutela di beni giuridici, essendo l’idea della ‘‘stabilizzazione delle aspettative’’ soltanto una forma plastica di traduzione di quella funzione sul piano delle finalità dell’applicazione della pena. Forse si può dire che la mia concezione si allontana da un ‘normativismo puro’, che ritengo evidente nella costruzione di Jakobs, per avvicinarsi a quello che potrebbe forse definirsi un ‘realismo assiologico’. (15) Di questo è conferma, a mio modo di vedere, una norma come quella dell’art. 91 comma 2 del codice penale portoghese, secondo la quale l’internamento del non imputabile avrà una durata minima di tre anni se il fatto illecito tipico commesso « consiste nell’omicidio, nella lesione personale grave o in altro atto di violenza punibile con pena superiore a tre anni ed esistono ragioni per temere la commissione di altri fatti della stessa natura e gravità ». Credo che l’argomento secondo il quale si tratterebbe soltanto di una presunzione legale di durata della pericolosità (così nella dottrina portoghese, Ma JOÃO ANTUNES (nota 8), p. 90 ss.) non sia decisivo, perché non spiega come mai l’internamento non cessi allorché, prima della decorrenza del termine minimo, si debba prendere atto che lo stato di pericolosità è venuto meno. Critico sul punto FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 751 e ss.


— 30 — zione. Questa strada è stata seguita in modo deciso dal codice penale portoghese, che ha escluso dall’area del penalmente rilevante tanto le condotte che non fossero lesive di un bene giuridico — per quanto immorali o asociali esse apparissero —, quanto quelle che, benché lesive di un bene giuridico, potessero essere sufficientemente scongiurate attraverso strumenti non penali di politica sociale (16). Le rappresentazioni comuni — e veritiere nella sostanza — fanno del Portogallo un Paese con una storia continua di dottrinarismo religioso e di autoritarismo sociale. E tuttavia, il diritto penale portoghese può rivendicare a sé una lunga e ininterrotta tradizione liberale in materia di non-criminalizzazione di condotte che, sebbene ritenute immorali dalla dottrina ufficiale e persino dalla generalità della popolazione, non ledono beni giuridici (17). Senza dubbio al nuovo codice penale restava ancora un ampio margine di possibile depenalizzazione, in materie come quelle relative alla condotta sessuale, alle condotte nell’ambito familiare, all’offesa di meri valori morali o religiosi. Quest’impresa — solo in parte, è vero, ma comunque in settori fondamentali — è stata realizzata con successo. Sul versante opposto, il codice penale si è dimostrato saggiamente moderato nell’intraprendere nuovi processi di incriminazione. Ciò è avvenuto, opportunamente, in settori come quello dei reati contro la riservatezza o quello dei reati di comune pericolo. Ma è difficile imbattersi in nuovi settori nei quali il codice penale abbia fatto intervenire in modo affrettato la tutela penale, a scapito di un progressivo sviluppo di strategie non penali di controllo sociale. Tanto più in quanto esso è restato fedele alla tradizione portoghese di riservare alla legislazione penale speciale la disciplina di settori molto importanti come quelli del diritto penale economico e finanziario, dell’ambiente e della tutela dei consumatori, del lavoro, della circolazione stradale, delle società commerciali (18). (16) Ho cercato di fornire un’ampia dimostrazione di questa affermazione nel mio articolo Lei Criminal e Controlo da Criminalidade, in Rev. da ordem dos Advogados 36 (1976), p. 69 ss. (17) Ciò risulta dall’atteggiamento prudente che il diritto penale portoghese mantiene, da più di un secolo, rispetto alla criminalizzazione di condotte come la prostituzione, l’omosessualità, il lenocinio, i c.d. atti contro natura e lo stesso incesto. In realtà questo orientamento è stato, se non del tutto contraddetto, quantomeno attenuato in occasione della revisione del codice penale portoghese del 1954, che ha portato a considerare alcune di quelle condotte come situazioni ai margini della criminalità o come forme di para-delinquenza, suscettibili dell’applicazione di misure di sicurezza. (18) Sulle origini di questa tradizione cfr. J. FIGUEIREDO DIAS, Vom Verwaltungsstrafrecht zum Nebenstrafrecht. Eine Betrachtung im Lichte der neuen portugiesischen Rechtsordnung, in Jescheck-Festschrift, I, Berlin, 1985, p. 82 ss.


— 31 — c) Strettamente connesso al movimento di depenalizzazione è l’accoglimento di una distinzione contenutistica tra diritto penale e diritto di mera regolamentazione sociale [direito de mera ordenação social] (dovendosi considerare questa espressione come del tutto coincidente con quella tedesca di Ordnungswidrigkeitenrecht). Il ‘‘diritto di mera regolamentazione sociale’’, riferendosi a condotte neutre sul piano dei valori (19), che tuttavia il legislatore vuole proibire e sanzionare con le ‘‘coimas’’ (termine analogo a quello tedesco di ‘‘Busse’’), è nella sostanza diritto amministrativo e non diritto penale; non è quindi improntato e finalizzato alla tutela dei beni giuridici, né ha senso parlare, rispetto ad esso, di un principio di analogia materiale tra l’ordine costituzionale dei valori e l’ordine legale dei beni giuridici. Ciò è stato pienamente compreso dal legislatore portoghese, che ha eliminato dal codice penale le contravvenzioni e ha creato, al loro posto, la categoria delle ‘‘contra-ordenações’’ (Ordnungswidrigkeiten) punibili con sanzioni pecuniarie di carattere non penale, le ‘‘coimas’’; e sottoposte ad un procedimento speciale nel quale si combinano aspetti caratteristici del processo penale e del processo amministrativo, ma che tuttavia è deferito alla competenza dei tribunali comuni (20). Questa scelta del legislatore ordinario ha trovato, del resto, un supporto costituzionale nella revisione della Costituzione attuata nel 1989. E ciò mostra che la critica più spesso rivolta a questo sistema (21), e cioè che esso rappresenterebbe una restrizione dei diritti, delle libertà e delle garanzie individuali rispetto al sistema delle contravvenzioni, non è riuscita a persuadere (e personalmente credo che ciò sia un bene) né i giuristi né i deputati portoghesi (22). (19) E che proprio per ciò si distinguono dalle condotte che formano il diritto penale amministrativo o secondario, queste sì assiologicamente rilevanti, orientate per mezzo e in funzione del bene giuridico, soggette al principio di congruenza, e, conseguentemente, costituenti a pieno titolo materia penale in senso proprio. Cfr. ancora J. FIGUEIREDO DIAS (nota 18), passim. (20) La legge-quadro del regime delle contra-ordenações è costituita dal decreto legge 27 ottobre 1982 n. 433, modificato dal decreto legge 17 ottobre 1989 n. 356. (21) E nella quale si è distinta una parte importante della dottrina italiana, come riferiscono, con amplissime indicazioni bibliografiche, tra gli altri, PALIERO, « Minima non curat praetor », Padova, 1984; PALAZZO, La recente legislazione penale, 3a ed., 1985, p. 99 e ss. e LARIZZA, Profili critici..., in questa Rivista, 1981, p. 61 ss. (22) È oggi, del resto, la stessa Costituzione portoghese che riconosce la distinzione tra reati e contra-ordenações, con implicazioni giuridico-costituzionali di tipo sostanziale e sistematico. Ciò offre fondamento indiscutibile alla tesi — che ho sostenuto dopo l’entrata in vigore del nuovo codice penale: cfr. il mio articolo O Movimento da Descriminalização e o Ilícito de Mera Ordenação Social, in Jornadas de Direito Criminal, I, Lisboa, 1983, p. 328 ss. — secondo la quale è di competenza del Tribunale costituzionale (della quale esso ha già


— 32 — 3. Un terzo principio politico-criminale che sta alla base del codice penale portoghese e che assume il più grande rilievo — sebbene non risulti enunciato in forma espressa — è il principio di colpevolezza. Non esiste contraddizione tra questo principio e l’affermazione precedente, secondo la quale il fattore primo e decisivo di legittimazione della pena risiede in una concezione generalpreventiva positiva o integratrice. Il principio di colpevolezza, infatti, non trova il suo fondamento assiologico in una qualche concezione retributiva della pena (23), ma, al contrario, nel principio dell’inviolabilità della dignità della persona — principio di valore coessenziale all’idea dello Stato democratico di diritto (24). Da questo punto di vista appare fondata l’affermazione secondo la quale la colpevolezza è condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’applicazione della pena. Tale affermazione corrisponde, del resto, ad un’importante opzione normativa del codice penale portoghese, che consacra nell’art. 75 l’istituto della rinuncia alla pena [dispensa da pena]: a questo istituto si ricorrerà quando la colpevolezza dell’agente sussiste, ma è notevolmente diminuita (25). Con questo collegamento ‘unilaterale’ tra colpevolezza e pena (26) il diritto penale della colpevolezza emerge come strumento politico-criminale indispensabile per la difesa e la garanzia della persona, rispetto al quale io non scorgo alcuna alternativa percorribile e fondata. 4.

Se il principio di colpevolezza esprime le esigenze che l’aspetto

fatto uso) controllare la scelta del legislatore ordinario di qualificare una determinata condotta come illecito penale o come contra-ordenação, e di sottometterla alla relativa disciplina. Su questa decisione (dal punto di vista della scienza della legislazione) ha scritto, del resto, in Italia, EMILIO DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa..., in questa Rivista, 1984, p. 589 ss. (23) Come, ancora una volta, è stato sostenuto con insistenza nella dottrina italiana da G. BETTIOL (nota 12). (24) In questo senso FIGUEIREDO DIAS (nota 3), p. 224 ss. (25) L’istituto portoghese ha ben poco in comune con l’istituto del diritto tedesco, pur omonimo, dell’Absehen von Strafe (§ 60 StGB); e ancor meno con l’istituto italiano del ‘‘perdono giudiziale’’. Più vicino è l’istituto della mangelnde Strafwürdigkeit der Tat regolato dal § 42 dello StGB austriaco. In ogni caso con la differenza, non trascurabile, che nel diritto portoghese la sentenza che dichiara la rinuncia alla pena è una sentenza di condanna, non di assoluzione. Il che significa che il problema della rinuncia alla pena si pone sul piano delle conseguenze giuridiche di un reato che si è effettivamente realizzato in tutti i suoi elementi; e che per conseguenza la categoria qui operante — quella della necessità di pena — non opera sul piano dei presupposti della punizione, qualunque essi siano (o, se vogliamo, sul piano del « fatto »), ma della punizione stessa (cioè, della pena). Non è però possibile, né sarebbe opportuno, proseguire in questo ordine di considerazioni nell’ambito del presente lavoro. Per indicazioni più dettagliate cfr. J. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 467 ss. (26) L’espressione è di CLAUS ROXIN, Culpabilidad y prevención en Derecho penal, trad. in lingua spagnola di MUÑOZ CONDE, Madrid, 1981, p. 187.


— 33 — c.d. ‘‘liberale’’ dello Stato di diritto pone alla politica criminale, il suo aspetto ‘‘sociale’’ conduce ad un quarto principio fondamentale di politica criminale, che può essere designato come principio di socialità o di solidarietà. Secondo tale principio, come contropartita dello ‘‘ius puniendi’’, incombe sullo Stato un obbligo di aiuto e solidarietà nei confronti del condannato, che si esprime nell’offrigli le condizioni che meglio possano prevenire la recidiva e permettergli, in futuro, di vivere senza commettere reati. In questo, ma solo in questo, deve tradursi la finalità di risocializzazione del delinquente; che, in questo modo, non ha nulla a che vedere con l’idea di un ‘‘modello terapeutico’’, con l’‘‘ideologia del trattamento’’ o con la negazione di un qualsivoglia ‘‘diritto alla diversità’’. Con questo ‘‘contenuto minimo’’ e dentro questi limiti (27), io non vedo oggi alcuna altenativa percorribile rispetto ad un diritto penale della risocializzazione. 5. Un altro dei principi politico-criminali fondamentali sottesi al codice penale portoghese potrebbe essere designato, sulle orme di JESCHECK (28), come principio di umanità. Esso assume il massimo rilievo nell’ambito del sistema sanzionatorio penale, trovando qui concretizzazioni che imprimono un preciso carattere al codice penale portoghese. a) Questo carattere si manifesta, da un lato, nel mantenimento, da parte del codice penale, del rifiuto, già tradizionale nel diritto penale portoghese, della pena di morte e della pena dell’ergastolo (prisão perpétua). In Portogallo, infatti, da più di un secolo la dottrina è unanime nel considerare ingiustificabile la pena di morte alla luce della finalità che legittimano la pena, e nel ritenere l’ergastolo una pena crudele e non necessaria (29). Ben si comprende, dunque, che la Costituzione vigente — in forza di un voto ottenuto all’unanimità — abbia riconfermato e rafforzato la tradizione portoghese in questa materia, rivestendola con la forza di proibizioni inderogabili, che il legislatore ordinario deve rispettare. b) È importante sottolineare, in secondo luogo, che il sistema sanzionatorio del codice penale portoghese si fonda sull’idea che la pena detentiva — malgrado sia uno strumento dal quale non è ancora possibile prescindere — costituisce, però, la extrema ratio della politica criminale. (27) In Portogallo giustamente preconizzato da ANABELA RODRIGUES, A Posição Jurídica do Recluso na Execução da Pena Privativa da Libertade, Coimbra, 1982, p. 142 ss.; e in diversi miei scritti sulla politica criminale (per esempio, quello citato alla nota 11). (28) Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 4a ed., 1988, p. 22 ss. (29) Cfr. per tutti EDUARDO CORREIA e BRAGA DA CRUZ, entrambi in: Colóquio Comemorativo do Centenário da Abolição da Pena de Morte em Portugal, 1968, Coimbra, I, p. 23 e II, pp. 423 ss. e 546 ss.


— 34 — Da ciò derivano conseguenze, da un lato, per quanto riguarda la configurazione in particolare della pena detentiva, nel senso che deve essere limitato il suo effetto negativo e criminogeno e che le si deve attribuire un significato prima di tutto positivo, volto al futuro e mirato alla risocializzazione. A questo scopo, il codice penale ha previsto — diversamente da quanto succedeva durante il regime precedente — una pena detentiva ‘unica’ (o ‘semplice’), con un limite minimo più elevato (1 mese) e un limite massimo più basso (20 anni, in casi eccezionali 25), e che può essere eseguita, in certi casi, con giorni di libertà o in regime di semidetenzione (artt. 40, 44 e 45). Dall’altro lato, dall’idea della pena detentiva come extrema ratio derivano conseguenze che tendono a limitare l’applicazione in concreto della pena detentiva: si prevede che essa venga sostituita, se possibile, con le pene non detentive, e inoltre si impone al giudice, quando nell’applicazione in concreto della pena può scegliere tra la pena detentiva e una pena non detentiva, di dare preferenza alla seconda, ‘‘quando essa appaia sufficiente a promuovere il recupero sociale del delinquente e soddisfi le esigenze di riparazione (reparação) e di prevenzione del reato’’ (art. 71) (30). c) Una terza caratteristica del sistema sanzionatorio delineato nel codice penale consiste nell’affermazione incondizionata del principio secondo il quale ‘‘nessuna pena comporta, come effetto necessario, la perdita dei diritti civili, professionali o politici’’ (art. 65). Si tratta qui — oltreché di una chiara conseguenza del principio della pena detentiva ‘unica’ (o ‘semplice’) — di un’implicazione diretta del principio politico-criminale secondo il quale si deve eliminare l’effetto stigmatizzante delle pene, compatibilmente con il mantenimento della loro efficacia preventiva (31). 6. Un’ultima caratteristica del sistema sanzionatorio contenuto nel codice penale vigente — e che configura una delle sue più nitide (seppure anche più discutibili) opzioni politico-criminali — risiede nel tentativo di stabilire un sistema monistico (o a binario unico) delle sanzioni penali. Non nel senso di riconoscere la esistenza di un unico tipo di sanzioni, (30) Su questa questione, anche con riferimento alla legislazione portoghese, si sono pronunciati in Italia EMILIO DOLCINI e CARLO ENRICO PALIERO, nella loro approfondita indagine comparatistica Il carcere ha alternative?, Milano, 1989, con una minuzia, una precisione e una comprensione critica dei problemi coinvolti tali da dover essere poste in risalto da parte dei penalisti portoghesi. (31) Implicazione tanto rilevante e intimamente corrispondente alla coscienza giuridica della comunità portoghese da essere stata elevata al rango di principio giuridico-costituzionale dalla riforma della Costituzione del 1982 (art. 30-4)!


— 35 — come anche molto recentemente si è arrivato a sperimentare in un Progetto di riforma del codice penale francese; ma nel senso di impedire che al medesimo delinquente siano applicate, per il medesimo fatto, una pena e una misura di sicurezza (32). Si è dato vita, così, da un lato, ad un’estensione del concetto di pena, con la quale si puniscono — più severamente, ma ancora sulla base della colpevolezza — i delinquenti abituali e per tendenza, ai quali i sistemi a doppio binario provvedono attraverso il cumulo di una pena con una misura di sicurezza; e perciò si è consacrato l’istituto della pena relativamente indeterminata, con un minimo e un massimo fissati nella sentenza, ma la cui concreta durata sarà determinata solo durante la fase dell’esecuzione. Dall’altro lato, si è operata una restrizione della portata delle misure di sicurezza che, se detentive, vanno applicate solo ai non imputabili. Questo sistema tendenzialmente a binario unico è, del resto, rinforzato dall’idea della cosiddetta vicarietà [vicariato] accolta in materia di esecuzione della pena. Nel quadro di tutto questo sistema, però, la vicarietà (o ‘fungibilità’ tra pene e misure di sicurezza) in sede di esecuzione altro non è che la manifestazione di qualcosa di più profondo: cioè di una larga affinità ideale e di natura tra la pena e la misura di sicurezza, che in verità arriviamo a distinguere solo attraverso il binomio colpevolezza/pericolosità. III. Difficoltà e istanze di riforma. — 1. L’entrata in vigore del codice del 1982 fu salutata — nell’ambito giuridico-penale portoghese, come in quello internazionale — in maniera positiva, poiché si vedeva in esso una costruzione legislativa moderna, liberale e adeguata all’idea dello Stato di diritto, collocata all’interno di un sistema dogmatico corretto e di una concezione politico-criminale avanzata ed efficace. Il nuovo codice ha destato, tuttavia, forti sentimenti di sfiducia e di paura nell’opinione pubblica portoghese. Così, da parte di un certo settore della dottrina, è stato censurato soprattutto il suo carattere ‘‘straniero’’, che si pretendeva di far derivare dalla sostituzione di quella che si considerava come la ‘‘tradizione giuridico-penale portoghese’’ (e che, nella maggioranza dei casi, non andava oltre il referente francese napoleonico...) con un modello spiccatamente germanico (33). Mentre, da parte di ampi settori dell’opinione pub(32) Sulle discussioni in questa materia nella letteratura penalistica portoghese, cfr. gli Autori e le opere citati alla nota 3. (33) In questo senso specialmente M. CAVALEIRO DE FERREIRA, Lições de Direito Penal, pt. gen., Lisboa, vol. I, 1988, p. 7 e vol. II, 1989, p. 221 s.


— 36 — blica al di fuori del mondo giuridico (34), si è rimproverato al codice penale il suo carattere ‘‘permissivo’’, che si deduceva dall’abbassamento dei limiti di pena previsti per la generalità dei reati; dal fatto che si notava un eccesso di preoccupazione e di cura per il delinquente e per la sua risocializzazione — a sfavore invece della protezione dovuta alla vittima del reato —; infine, dalla fiducia mostrata dal codice penale nella libertà e autoresponsabilità dell’uomo, e nella sua correggibilità. Cedendo alle pressioni di questi settori dell’opinione pubblica, tutti i grandi partiti politici portoghesi — senza che, tuttavia, venissero contestati i principi di fondo, sia dogmatici che politico-criminali, sui quali si basava la nuova codificazione — inserirono nei loro programmi elettorali la generica intenzione di procedere ad una riforma del codice penale. Fino al 1988, tuttavia, i propositi di riforma non assunsero espressione concreta (35). Alla fine di quell’anno il Ministro della Giustizia nominò una Commissione per la Riforma del codice penale (che io fui chiamato a presiedere), che nel marzo del 1991 gli consegnò un avanprogetto di riforma del testo vigente. Il mandato della Commissione non era in alcun modo quello di preparare un nuovo codice penale, che fosse il prodotto dell’abbandono dei presupposti dogmatici e politico-criminali fondamentali del codice vigente. Il mandato era, piuttosto, quello di indagare se e in quale misura l’ambizioso programma politico-criminale che sottostava a quell’impianto fosse stato concretizzato dalla prassi, e avesse influenzato o determinato il quotidiano esercizio della giustizia penale; inoltre, si trattava di proporre le riforme ritenute indispensabili per superare le resistenze con le quali la realizzazione di quel programma si fosse scontrato. Nel mandato della Commissione, in seguito, rientrò il compito di proporre nuovi testi legali eventualmente resisi necessari per le profonde trasformazioni verificatesi nell’ultimo decennio nel testo politico-sociale e (34) Su quanto segue nel testo, cfr. M. LOPEZ ROCHA (nota 5), p. 79 ss. (35) Se si eccettuano alcune leggi del Parlamento che modificarono alcune norme della parte speciale del codice penale, non già in ossequio ad un qualsiasi programma o criterio politico-criminale (a parte il caso dell’interruzione volontaria della gravidanza), ma piuttosto sotto la spinta di accadimenti contingenti della vita politico-sociale portoghese: in questo senso, si trattò di riforme imposte da quella che il mio collega M. Costa Andrade definì una ‘‘politica criminale a fior di pelle’’. I settori sui quali intervennero le riforme parlamentari furono quelli dell’omicidio aggravato (la cui definizione fu estesa sino a ricomprendere alcune categorie di persone che esercitano un’autorità pubblica), dell’interruzione volontaria non punibile della gravidanza (secondo un rigoroso sistema di ‘indicazioni’), delle offese all’onore del Presidente della Repubblica (ove si ritornò alla perseguibilità d’ufficio) e degli incendi (ove si estesero le incriminazioni al di là dell’ipotesi di creazione di pericolo comune e si aggravarono le pene applicabili).


— 37 — nell’orizzonte etico-culturale portoghese; e ciò, naturalmente, nella misura in cui si considerasse allora possibile identificare nuovi beni giuridici, privi di tutela penale di fronte alle minacce di aggressione che l’accresciuta complessità sociale, ed in particolare lo sviluppo tecnologico, traggono inevitabilmente con sé. Il Progetto sopracitato fu approvato il 29 giugno scorso dal Parlamento portoghese sotto forma di legge delega. È delle principali conclusioni alle quali è giunta la Commissione e del significato delle conseguenti proposte di riforma da essa avanzate che io vorrei ora dare un succinto resoconto. 2. È mia opinione — ed è stato anche il parere della Commissione — che le norme relative alla legge penale e alla costruzione del concetto di reato, come sono contenute nel codice penale del 1982, non esigano alcuna modificazione sostanziale. Esso continua a mostrarsi attuale, anche di fronte ai più recenti sviluppi della ricerca dottrinale, e sembra dare risposte sufficienti alle esigenze di quella ‘‘grammatica dogmatica’’ che comincia a rivelarsi come modello interno al quale probabilmente finiranno per convergere, in un futuro che spero sia prossimo, le leggi penali della generalità dei Paesi europei (36). Tuttavia, questo non significa — come invece si è giunti ad affermare — che il codice penale in vigore sia una mera ‘‘traduzione’’, nella parte generale, della corrispondente parte del codice penale tedesco nella versione del 1975; e nemmeno che sia una acritica trasposizione delle sue soluzioni nell’ordinamento giuridico-penale portoghese. Per chi conosca le norme tedesche e portoghesi di cui si parla appare indiscutibile che queste ultime mostrano, in diverse e significative aree, soluzioni che, in forma talvolta molto evidente, riflettono particolari idiosincrasie, introducendo importanti deviazioni che finiscono per caratterizzare in modo autonomo il sistema giuridico-penale portoghese. Questo avviene per esempio — tra i molti altri casi che potrebbero essere citati — per la disciplina relativa: all’applicazione della legge più favorevole del Paese straniero nel quale sia

(36) Sul punto J. FIGUEIREDO DIAS, Sobre o Estado Actual da Doutrina do Crime, in Rev. Portuguesa de Ciência Criminal, 1 (1991), pp. 3 e 2 (1992), p. 3. Su tale argomento si tenne a Coimbra, nel maggio 1991, in occasione del conferimento del titolo di dottore honoris causa a Claus Roxin, un colloquio tedesco-portoghese, con partecipazione italiana e spagnola, dedicato appunto al tema ‘‘Bausteine eines gemeineuropäischen Strafrechtssystems’’, i cui atti saranno presto pubblicati in Germania e in Spagna. I contributi portoghesi a tale colloquio di M. COSTA ANDRADE, TERESA BELEZA e J. FARIA COSTA sono stati pubblicati nella Rev. Portuguesa de Ciência Criminal, 2 (1992).


— 38 — stato compiuto il fatto (art. 6.2) (37); alla possibilità di rendere penalmente responsabili le persone giuridiche (art. 11) (38); all’errore sugli elementi del fatto o sull’illiceità (artt. 16 e 17) (39); all’estensione del concetto di non imputabilità, in modo da abbracciare anche l’incapacità dell’agente di essere influenzato dalla pena (art. 20.3) (40); ai presupposti per la punibilità del tentativo (art. 22) (41); all’equiparazione dell’istigatore all’autore e alla comunicabilità delle circostanze oggettive nel quadro del concorso di persone (42); alla definizione legale del concorso di reati e del reato continuato (art. 30) (43), del conflitto di doveri (art. 36) (44), della legittima difesa e dell’eccesso in legittima difesa (45), dello stato di

(37) Cfr. EDUARDO CORREIA, in Actas da Commissão Revisora do CP, pt. gen., I, Lisboa, Ministério da Justiça, 1965, p. 90 ss. (38) Sul punto J. CASTRO E SOUSA, As Pessoas Colectivas em Face do Direito Criminal e do Chamado ‘‘Direito de Mera Ordenação Social’’, Coimbra, 1985; J. FIGUEIREDO DIAS, Para uma Dogmática do Direito Penal Secundário, in Rev. de Legislação e de Jurisprudência 117 (1984), p. 72 s.; M. LOPES ROCHA, A Responsabilidade Penal das Pessoas Colectivas. Ciclo de Estudos de Direito Penal Económico, Coimbra, p. 109; J. FARIA COSTA, A responsabilidade jurídico-penal da empresa e dos seus órgãos, in Rev. Portuguesa de Ciência Criminal, 2 (1992), p. 537. (39) Cfr. J. FIGUEIREDO DIAS, O Problema de Consciência da Ilicitude em Direito Penal, Coimbra, 1969 (1a ed.), 1987 (3a ed.); C. ROXIN, Acerca da Problemática do Direito Penal da Culpa, in Bol. Fac. de Dir., Coimbra, 1983, p. 27, che considera, tuttavia, che nel diritto tedesco ‘‘si può giungere (...) al risultato al quale conduce — in modo più elegante — l’art. 16 del c.p. portoghese’’; e K. TIEDEMANN, Zum Verhältnis von allgemeinem und besonderem Teil des Strafrechts, in Festschrift für Jürgen Baumann, Bielefeld, 1992, p. 14 s., per il quale la soluzione del codice penale portoghese del 1982 sulle questioni dell’errore sul fatto, dell’errore sul divieto e della mancanza di conoscenza dell’illiceità sembra la più corretta nel contesto comparatistico internazionale e corrisponde esattamente a quella che egli stesso, oltre vent’anni fa, invocò per l’ordinamento tedesco in quanto imposta dalla Costituzione. (40) Sul punto già EDUARDO CORREIA, Direito Criminal, I, Coimbra, 1963, p. 359, nonché ID. (nota 4), p. 39; e ancora, Ma JOÃO ANTUNES (nota 8), p. 13 ss. (41) Su questo tema J. FARIA COSTA, Tentativa e Dolo Eventual, in Estudos E. Correia, (nota 6), p. 716 ss. e Ma DA CONCEIÇÃO VALDÁGUA, Início da Tentativa do Co-Autor, Lisbona, 1986, p. 119 ss. e p. 207 ss. (42) Cfr. TERESA BELEZA, Ilicitamente Comparticipando, in Estudos E. Correia, (nota 6), III, 1990, p. 589. (43) Su questi temi fondamentale ancora oggi EDUARDO CORREIA, Unidade a Pluralidade de Infracções, Coimbra, 1945. (44) Importante BOAVENTURA SANTOS, O Conflito de Deveres em Direito Criminal, Coimbra, Diss. non pubblicata, 1968. (45) Recentemente FERNANDA PALMA, A Justificação por Legítima Defesa como Problema de Delimitação de Direitos, Lisboa, 1990 e A. TAIPA DE CARVALHO, A Legítima Defesa, Porto, 1994.


— 39 — necessità (46), dell’ordine illegittimo scusante (art. 37) (47) e del consenso (artt. 38 e 39) (48). In tutte queste ipotesi si incontrano nel codice penale portoghese soluzioni che, a mio avviso, non meritano alcuna censura, né dogmatica, né politico-criminale, e che potrebbero rappresentare un modello per eventuali riforme legislative in altri ordinamenti e un punto di riferimento per fruttuose discussioni intorno alla costruzione del concetto di reato. 3. Al contrario, le norme del codice del 1982 concernenti le sanzioni penali — la loro tipologia, i criteri di commisurazione e di scelta della pena, il regime delle sanzioni sostitutive, etc. — si sono rivelate bisognose di significativi aggiustamenti. È in questa materia (49) che si è verificata un’enorme sfasatura tra le intenzioni politico-criminali sottese al codice penale e la realtà della sua applicazione quotidiana; a tal punto da doversi parlare, in proposito, di un relativo fallimento (50). Basterà, a riprova di questa affermazione, tener presente il peso sproporzionato che continuano ad avere le condanne ad una pena detentiva rispetto alle condanne a pena pecuniaria, così come alla frequenza con la quale, in ogni caso, continuano ad essere applicate pene detentive di breve durata a dispetto della vasta gamma di pene sostitutive disponibili (sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, regime di prova, prestazione di lavoro a favore della comunità, ammonimento [admoestação]) (51). Al segnalato fallimento contribuì in qualche misura, durante i primi (46) FERNANDA PALMA, O estado de necessidade justificante no CP de 1982, in Estudos E. Correia, (nota 6), III, 1990, p. 173. (47) Da ultimo A. TAIPA DE CARVALHO (nota 45), p. 198 ss. (48) Fondamentale M. COSTA ANDRADE (nota 11). (49) Come correttamente hanno rilevato E. DOLCINI-C.E. PALIERO (nota 30), p. 85. (50) Vasta eco ha suscitato in Portogallo la frase di un giudice, pronunciata qualche anno dopo l’entrata in vigore del codice penale del 1982, secondo la quale ‘‘l’entrata in vigore del nuovo codice penale non si è notata’’! Il décalage riferito nel testo risulta con chiarezza dallo studio di Ma ROSA CRUCHO DE ALMEIDA, Novas Medidas Detentivas e Semidetentivas..., in Boletim do Ministério da Justiça 548 (1985), p. 63, ed è internazionalmente riconosciuto, per esempio negli studi di E. DOLCINI-C.E. PALIERO (nota 30), p. 75 ss. e di M. KALMHOUT-P. TAK, Sanctions-Systems in the Member-States of the Council of Europe, I, Deventer-Arnhem, 1988, p. 171 ss. (51) Il totale delle pene pecuniarie è oscillato, negli ultimi anni, tra il 25 e il 30% del totale delle condanne, mentre le pene detentive non superiori a 6 mesi rappresentano quasi il 16% del totale delle pene detentive inflitte (per quanto quest’ultima percentuale sia contestata)! È significativo, d’altra parte, che delle pene sostitutive menzionate le uniche ad avere applicazione pratica siano la sospensione dell’esecuzione della pena e l’ammonimento (rispettivamente circa il 25% e l’1% delle condanne a pena detentiva), entrambe già riconosciute dal codice penale previgente, mentre i casi in cui sono state applicate le altre a malapena arrivano a due dozzine dall’entrata in vigore del codice penale ad oggi! Dati in propo-


— 40 — anni di vigenza del codice penale, la deficienza delle strutture indispensabili per una corretta esecuzione di alcune pene sostitutive, ed in particolare del regime di prova e della prestazione di lavoro a favore della comunità; ma oggi tali problemi possono considerarsi superati, senza che per questo la situazione si sia sostanzialmente modificata. Le cause principali del fallimento non risiedono dunque in ciò, ma devono essere ricercate, da un lato, nella mentalità prevalentemente conservatrice degli operatori del diritto, i quali tardarono a reagire positivamente al programma politicocriminale imposto dalla legge; e dall’altro lato, a livello legislativo, dove emergevano oscurità, lacune e sensibili disarmonie nella regolamentazione legale. Non deve pertanto apparire strano che sia stato proprio in questo settore che la Commissione di Revisione abbia avanzato le proposte più sistematiche e profonde di innovazione legislativa. a) Una questione di fondo che si poneva sin dall’inizio era se mantenersi fedeli al sistema tendenzialmente monista delle sanzioni penali o se ammettere una deviazione da tale sistema, nel senso dell’adozione di un sistema a doppio binario. Da un punto di vista meramente teoretico, io mi annovero tra coloro che esprimono dubbi — che mi paiono ogni volta più consistenti (52) — sulla questione se la cosiddetta pena relativamente indeterminata sia una vera pena o se sia piuttosto dal punto di vista sostanziale (almeno in parte) una misura di sicurezza. Ho sempre sostenuto che la colpevolezza del delinquente abituale o per tendenza può (e forse deve) essere considerata come una colpevolezza aggravata, senza che per questo si debba rinunziare ai presupposti di un diritto penale del fatto (53). Ma non è possibile, nell’ottica del principio di colpevolezza, che la durata della pena possa oltrepassare quella determinata dal giudice in relazione al fatto (54): nella parte in cui essa supera tale misura, da un punto di vista sostanziale siamo di fronte ad un’autentica misura di sicurezza. sito sono reperibili negli studi citati alla nota precedente e nelle Estatísticas da Justiça posteriori al 1982. Alle pene menzionate nel testo occorrerebbe aggiungere il carcere con giorni di libertà [prisão por dias livres] e il regime di semidetenzione che, pur non essendo tecnicamente sanzioni sostitutive della pena privativa della libertà — poiché per le loro caratteristiche comportano una privazione della libertà personale —, tuttavia si inquadrano, da un punto di vista politico-criminale, nello stesso movimento di lotta alla privazione (continuativa) della libertà che giustifica l’esistenza delle (autentiche) sanzioni sostitutive. In questo senso, J. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 506. (52) Cfr. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 879 ss. (53) In questo senso mi sono espresso soprattutto nel mio libro Liberdade - Culpa Direito Penal, Coimbra, 2a ed., 1983, p. 21 s. (54) Decisivo a tal fine è il disposto dell’art. 77 c.p., che, disciplinando l’aggrava-


— 41 — Da quanto esposto non si deve tuttavia trarre la conclusione che, a mio giudizio, l’istituto della pena relativamente indeterminata debba essere soppresso o sostituito dal sistema del doppio binario. Questa fu anche l’opinione della Commissione di Revisione, che decise di lasciare praticamente inalterato questo istituto. Una tale decisione apparirà giustificata ove si consideri che il sistema del binario unico consacrato dal diritto penale portoghese non è necessariamente frutto di un certo costruttivismo teoretico-dogmatico — ed in particolare, di una concezione della colpevolezza per la formazione della personalità (55) —, ma è soprattutto un monismo pratico, nell’accezione sostenuta nella dottrina portoghese, a partire dagli anni Trenta, da BELEZA DOS SANTOS (56). b) La concezione sottesa al codice penale in tema di commisurazione e scelta della pena sino a pochissimo tempo fa non è stata interiorizzata da parte della giurisprudenza portoghese. Ciò da un lato fu fonte di gravi equivoci, e dall’altro comportò una grave responsabilità per il fallimento del sistema delle pene sostitutive. Per quanto concerne la commisurazione della pena, la giurisprudenza si stabilizzò nell’affermare il principio secondo cui il giudice deve partire dal punto medio tra il minimo ed il massimo della pena edittale, aggravando o attenuando successivamente la pena in funzione della presenza di circostanze attenuanti o aggravanti; come se non esistesse l’art. 72-1, che impone al giudice di commisurare la pena ‘‘in funzione della colpevolezza dell’agente, tenendo altresì in conto le esigenze della prevenzione di futuri reati’’! Quanto alla scelta della pena, una parte significativa delle decisioni che negano la possibilità di sostituzione di una pena detentiva con una non detentiva invoca come argomento decisivo l’elevato grado di colpevolezza dell’agente; contraddicendo, con ciò, l’intenzione fondamentale del codice penale di attribuire rilevanza, a tal fine, a considerazioni preventive. mento della pena per la recidiva, non consente che venga oltrepassato il massimo della cornice di pena per il fatto. E in questo senso si è pure orientata la Commissione di Revisione, quando ha deciso di mantenere l’aggravante, non seguendo l’esempio del diritto tedesco che l’ha recentemente soppressa: cfr. Código Penal. Actas e Projecto da Comissão de Revisão, Ministério da Justiça, 1993, p. 82 s. e p. 160. (55) Come ha sempre sostenuto EDUARDO CORREIA (nota 3), ZStW 76 (1964), p. 328 ss. In senso critico sul punto, cfr. J. FIGUEIREDO DIAS (nota 3), p. 235 ss. (56) Cfr. BELEZA DOS SANTOS, Nova Organização Prisional Portuguesa, in Rev. de Legislação e de Jurisprudência, 1947, p. 337 e Direito Criminal (Delinquentes Perigosos), 1950. Sulla menzionata tradizione del diritto penale portoghese, in maniera molto precisa, P. HÜNERFELD (nota 1), pp. 221 ss., 226 ss. e 239 ss.


— 42 — È vero che negli ultimi anni la Corte Suprema di Giustizia portoghese è sembrata prendere le distanze da quelle posizioni ed adottare in proposito un orientamento sostanzialmente corretto (57). Ma l’ampiezza del problema e le gravissime conseguenze cui ha dato luogo condussero la Commissione di Revisione a proporre l’introduzione nel codice penale di una norma sulle finalità dell’applicazione delle pene e delle misure di sicurezza. In tale norma (58) si afferma che l’applicazione delle pene e delle misure di sicurezza mira alla protezione dei beni giuridici e alla reintegrazione dell’agente nella società; che la pena non può oltrepassare in alcun caso la misura della colpevolezza; e che la misura di sicurezza può essere applicata soltanto ove sia proporzionata alla gravità del fatto e alla pericolosità dell’agente. Certo qualcuno potrà obiettare che, con una norma di questo tipo, il legislatore cederebbe all’illegittima tentazione di risolvere per via legislativa la questione dogmatica dei fini della pena. A mio avviso, tuttavia, l’obiettivo perseguito dalla norma in parola è stato meno ambizioso e al tempo stesso più pragmatico: essa si propone semplicemente di indicare all’operatore del diritto criteri sicuri e normativamente determinati di commisurazione e scelta della pena, ponendo ostacoli insuperabili all’eventuale persistenza di correnti giurisprudenziali tanto errate e perniciose come quella cui ho accennato. Il che mi pare rientri indiscutibilmente nella competenza del legislatore e nelle sue legittime opzioni politico-criminali. Personalmente, penso che il modello di commisurazione della pena che meglio si adatta ad una norma come quella sufferita sia quella che affida alla colpevolezza — e qui mi allontano dall’insegnamento di una parte importante della dottrina italiana (59) — la funzione (unica, ma non per questo meno decisiva) di determinare il limite massimo e invalicabile (57) Rispetto al precedente orientamento, cfr. per es. la sentenza della Corte Suprema del 7 giugno 1989, in Actualidade Jurídica 1 (1989), p. 4; per l’orientamento più recente, cfr. la fondamentale sentenza del 23 marzo 1990, in Rev. Portuguesa de Ciência Criminal 1 (1991), p. 243, con nota favorevole di Anabela Rodrigues. (58) Simile al § 2 dell’Alternativ Entwurf, A.T., tedesco. (59) Principalmente dalle indagini di E. DOLCINI, La commisurazione della pena, 1979, p. 354 ss. e già in questa Rivista, 1974, p. 1156 e di G. MARINUCCI, in Jus, 1974, p. 481 — favorevoli ad una posizione sostanzialmente coincidente con quella dottrina nota in Germania con il nome di Spielraum- o Schuldrahmentheorie —, così come dalla posizione di M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano, 1990, sub art. 133, n. 41 ss. e già in ROMANO-STELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, Bologna, 1980, p. 181 (molto vicina alla dottrina tedesca che va sotto il nome di Stellenwerttheorie).


— 43 — della pena; alla prevenzione generale (positiva o integratrice) la funzione di fornire una ‘‘cornice di prevenzione’’, il cui limite superiore è dato dalla misura ottimale di tutela dei beni giuridici — in quanto sia consentito dalla colpevolezza — e il cui limite inferiore è fornito dalle esigenze irrinunciabili di difesa dell’ordinamento giuridico; e alla prevenzione speciale la funzione di determinare, all’interno della già citata ‘‘cornice di prevenzione’’, il ‘‘quantum’’ di pena che sia più funzionale alle esigenze di risocializzazione (o, in casi particolari, di ammonimento o di neutralizzazione) del reo. È questo, a mio parere, il modello (60) che contempera al meglio i criteri della colpevolezza e della prevenzione, indicati dal legislatore come vettori della commisurazione, nel quadro degli obiettivi politico-criminali di fondo del codice penale. c) La dottrina portoghese largamente maggioritaria non concorda con le critiche che in Italia una parte rilevante della dottrina e della giurisprudenza rivolge alla legittimità e all’efficacia politico-criminale della pena pecuniaria (61). Anzi, allo scopo di incrementare il ricorso del giudice alla pena pecuniaria in quanto pena principale, la Commissione di Revisione ha proposto, ed il Parlamento ha accettato, un insieme articolato di innovazioni tanto nella Parte Generale quanto nella Parte Speciale del codice penale. Si mantiene inalterato il sistema dei tassi giornalieri, di tradizione antica e prestigiosa nel diritto portoghese (62). Ma, con l’obiettivo di estendere l’ambito di possibile applicazione di questa pena, si è determinato l’aumento sia del limite massimo dei tassi giornalieri, sia della (60) I cui fondamenti esigerebbero precisazioni e argomentazioni che in questa sede non possono essere fornite. Specificamente, sul punto, J. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 290 ss. (61) Critiche la cui eco può trovarsi in autori come E. DOLCINI, Le pene pecuniarie come alternativa..., in Jus, 1974, p. 538; T. PADOVANI, La pena pecuniaria..., in questa Rivista, 1980, p. 1182; F. MOLINARI, La pena pecuniaria..., in G. VASSALLI (a cura di), Problemi generali del diritto penale, Milano, 1982, p. 117; F. PALAZZO (nota 21), p. 77. Fra tali critiche spicca quella — presente anche in alcune decisioni della Corte Costituzionale — relativa alla particolare propensione di questa pena a violare il principio giuridico-costituzionale di eguaglianza. Su considerazioni del tutto analoghe si è soffermata la Commissione Costituzionale portoghese, tuttavia respingendole alla luce di un sistema come quello portoghese dei tassi giornalieri, in due sentenze delle quali ho avuto occasione di essere relatore. Specificamente su questo problema, con le rispettive indicazioni, J. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), §§ 125 ss. e 185 ss.; ID., Problemas de igualdade na estruturação e aplicação da pena de multa, in Estudios penales en memoria del Prof. Fernandez Albor, Santiago de Compostela, 1989, p. 289. (62) Sistema in verità già consacrato — forse per influenza dell’art. 55 del Código Criminal do Império do Brasil del 1930 — nell’art. 41 del primo Codice penale portoghese, quello del 1852, e da allora mantenuto sino ad oggi.


— 44 — misura giornaliera della pena pecuniaria. D’altra parte, si è stabilito l’integrale abbandono, nella Parte Speciale, della previsione di sanzioni miste di pena detentiva e pecuniaria, indesiderabile da un punto di vista politico-criminale: abolizione questa che, a prescindere da altre ragioni, merita approvazione alla luce del carattere criminogeno, generalmente riconosciuto, dell’applicazione cumulativa di queste due specie di pena (63). Sotto un altro profilo ancora — e salvi specifici settori, come quelli della generalità dei reati contro la persona e dei reati contro lo Stato —, si è optato per il principio generale della previsione della pena pecuniaria come alternativa alla pena detentiva non superiore a 3 anni. d) Modificazioni più consistenti sono state adottate in tema di pene sostitutive. È stato posto definitivamente in chiaro non solo che è illegittimo negare la sostituzione della pena detentiva in nome di considerazioni tratte dalla misura della colpevolezza, ma anche che la scelta tra le varie pene sostitutive applicabili deve essere compiuta in funzione di considerazioni esclusivamente preventive. Sotto un altro profilo, in direzione di una semplificazione del sistema, ma senza ridurre la gamma delle pene sostitutive, si è optato per la modificazione dello statuto giuridico del regime di prova. Anziché un’autonoma pena sostitutiva, vicina all’istituto della ‘‘probation’’ del diritto angloamericano (64), quale era originariamente, il regime di prova si trasforma — secondo un modello assai prossimo a quello dell’istituto tedesco della ‘‘Strafaussetzung zur Bewährung’’ — in una mera modalità dell’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva; un istituto che assume così tre forme differenti: sospensione semplice; sospensione con imposizione di doveri o regole di condotta; e sospensione con regime di prova. Quest’ultima forma si distingue da quella precedente sotto un duplice profilo: l’obbligatorietà, da un lato, dell’affidamento del condannato, durante il tempo della prova, alla vigilanza e al sostegno dei servizi di reinserimento sociale; e, dall’altro, l’obbligo di elaborazione, da parte di questi servizi, di un piano individuale di reinserimento sociale del condannato, da sottoporre all’omologazione del tribunale. Inoltre, e in nome delle speranze che si continuano a riporre nella (63)

Criticamente su questo tipo di pena, J. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 138 e § 192

s. (64) Senza tuttavia identificarsi con esso, dal momento che — diversamente da quanto previsto nel Progetto della Parte Generale del 1963 cit. alla nota 4 — l’applicazione del regime di prova non presuppone la sospensione del procedimento in un momento anteriore a quello della commisurazione della pena. Cfr. EDUARDO CORREIA (nota 40), II, p. 398 ss.


— 45 — pena della prestazione di lavoro a favore della comunità — forse la ‘‘scoperta’’ politico-criminale più importante degli ultimi decenni nell’ambito delle sanzioni e l’unica tra le pene che non abbia carattere strettamente personale-negativo, ma appaia positiva da un punto di vista sociale —, la riforma del codice penale consacra un ampliamento significativo dell’ambito di applicazione di questa sanzione. e) Per ciò che concerne le pene accessorie, facciamo due riferimenti specifici alle innovazioni apportate. La prima si riferisce al fatto che tali sanzioni sono state trasformate in vere e proprie pene — ancorate alla colpevolezza e, pertanto, con cornici temporali specifiche —, diversamente da quanto accade sotto il vigore del testo vigente, che le tratta come semplici effetti penali della condanna (65). La seconda innovazione si riferisce alla pena accessoria del divieto di guida, che per la prima volta viene consacrata esplicitamente nel testo del codice penale; ciò che si accompagna, parallelamente, alla consacrazione, nell’ambito delle misure di sicurezza, delle misure della revoca della patente di guida di autoveicoli e dell’interdizione dalla concessione della patente. f) La problematica generale delle misure di sicurezza si è del resto rivelata un altro campo bisognoso di aggiustamenti legislativi, onde soddisfare in modo ancora più completo le esigenze giuridico-costituzionali di legalità e proporzionalità. Tale obiettivo si è potuto raggiungere attraverso una più rigida definizione dei presupposti di applicazione delle misure ed una fissazione di limiti di durata tendenzialmente invalicabili. Alla luce di tutto ciò — tenendo presente il collegamento tra diritto costituzionale e legislazione ordinaria — l’ordinamento giuridico-penale portoghese beneficierà, a mio avviso, di un regime delle misure di sicurezza degno di particolare considerazione nella prospettiva della massimizzazione della tutela della libertà e della sicurezza dei cittadini. Oltre a ciò, ci si è premurati di approfittare dell’occasione per colmare una delle lacune normative più gravi del codice penale nel campo delle misure di sicurezza: quella relativa ai casi nei quali, nonostante il sistema tendenzialmente monista adottato, all’agente siano contemporaneamente applicate — in conseguenza di una pluralità di reati — una pena e (65) Su questa questione v. i miei contributi O Sistema das ‘Penas Acessórias’ no Novo Código Penal Português. Librio-Homenaje al Prof. A. Beristain, S. Sebastian, 1989, p. 499, nonché (nota 6), § 196 ss.


— 46 — una misura di sicurezza (66). Per colmare una tale lacuna si prevede oggi una regolamentazione specifica dell’esecuzione delle sanzioni, basata su quello che ritengo essere un razionale criterio di vicarietà (o fungibilità delle pene e delle misure di sicurezza) (67): la misura di sicurezza si esegue sempre prima della pena e viene computata in quest’ultima, se entrambe sono sanzioni detentive; inoltre, quando la misura di sicurezza deve cessare, l’agente può essere posto in libertà condizionale se si verificano i rispettivi presupposti formali, potendo l’ultimo anno che gli manchi da scontare essere sostituito, a sua richiesta, con la prestazione del lavoro a favore della comunità; infine qualora la prestazione del lavoro o la libertà condizionale vengano revocate, il tribunale deciderà se l’agente deve scontare il resto della pena o continuare l’internamento per il medesimo tempo. 4. Anche la Parte Speciale del codice penale è destinata a subire numerose e importanti modificazioni. a) Tali modificazioni comporteranno una significativa riduzione del numero complessivo delle fattispecie penali, nonché alcune importanti innovazioni sul piano sistematico. Sotto quest’ultimo aspetto, da segnalare, per esempio, lo spostamento dei delitti sessuali dal titolo relativo ai Delitti contro i valori e gli interessi della vita sociale (68) al titolo relativo ai Delitti contro la persona, dove vengono a formare un capo autonomo sotto la rubrica Dei delitti contro la libertà e la autodeterminazione sessuale. Questa modificazione fa assumere un preciso carattere all’opera riformatrice della Commissione e si traduce in importanti conseguenze giuridiche, tra le quali occorre mettere in rilievo la sostituzione del precedente concetto-chiave di ‘‘attentato al pudore’’ (un concetto dalla natura eccessivamente indeterminata e dal contenuto inammissibilmente moraleggiante) con il preciso concetto di ‘‘rilevante atto sessuale’’. Ugualmente degna di nota è l’introduzione, sempre nell’ambito dei delitti contro la persona, di un nuovo e autonomo capitolo relativo agli altri beni giuridici personali. Un capitolo, questo, che è stato pensato per dare espressione sul piano del diritto positivo e una copertura sistematica a nuove manifestazioni di libertà o aspetti della persona che il processo (66) Su quanto segue cfr. nello stesso senso del testo, J. FIGUEIREDO DIAS (nota 6), § 776 ss. e Ma JOÃO ANTUNES (nota 8), p. 120 ss. e p. 140 ss. (67) Corrispondente, nella sostanza, a quanto proposto da Ma JOÃO ATUNES (nota 8). (68) Giustamente critico su questo punto, K. NATSHERADETZ, O Direito Penal Sexual: Conteúdo e Limites, Coimbra, 1985.


— 47 — storico di civilizzazione va evidenziando e convertendo in autonomi beni giuridici, meritevoli e bisognosi di tutela giuridico-penale (registrazioni e fotografie illecite, omissione di soccorso, sottrazione alle garanzie dello Stato di diritto portoghese). Seguendo l’ordine sistematico, si deve da ultimo segnalare lo spostamento dei delitti contro il patrimonio nel capitolo che segue immediatamente quello dei delitti contro la persona; come testimonianza del fatto che lì si tratta, a differenza di ciò che avviene nei capitoli seguenti, di beni giuridici individuali. b) Del resto, non sarà difficile ricondurre l’insieme delle modificazioni della Parte Speciale alla prosecuzione di un equilibrato programma di depenalizzazione, accompagnato da un intento di maggior semplificazione e razionalizzazione. E questo, non tanto per quel che riguarda la fattispecie — realizzandosi comunque una più precisa identificazione del bene giuridico protetto e una più sicura demarcazione della relativa area di tutela —, quanto per quel che riguarda la varietà delle cornici edittali di pena, il cui numero si è cercato di ridurre significativamente. In quest’ultima materia si cercherà del pari di superare alcune delle asimmetrie più imbarazzanti (69), come quelle che risultavano dalla relativa mitezza delle pene per certi delitti contro la persona a confronto con le pene comminate per la tutela di beni giuridici meramente patrimoniali. c) Consideriamo più analiticamente alcune delle scelte più significative effettuate dalla riforma. Oltre alle scelte già segnalate relative ai delitti sessuali e contro l’integrità fisica, in relazione a questi ultimi delitti deve porsi in evidenza la considerevole opera di semplificazione compiuta dal Progetto, a cominciare dai criteri adottati per individuare le ipotesi ‘qualificate’ e le ipotesi ‘privilegiate’, che fanno perno sulla preesistenza di un delitto di lesioni corporali semplici (ripetendo così quasi integralmente la sistematica dei delitti contro la vita). Per contro, la Commissione di Revisione ha inteso lasciare sostanzialmente inalterata la vigente disciplina in tema di interruzione volontaria della gravidanza. La ragione sta nel fatto che su questa problematica è intervenuta da poco una decisione politico-legislativa del Parlamento; inoltre, a dire il vero, il sistema vigente di rigide indicazioni mediche, etiche ed eugenetiche non sembra aver funzionato male né sembra aver dato ori(69) Talvolta addirittura scandalose, come nel caso del limite massimo della pena detentiva prevista per le lesioni personali gravi: 5 anni!


— 48 — gine a eccessive critiche nell’opinione pubblica, tanto giuridica quanto laica (70). Modifiche di rilievo subiranno inoltre le norme sul delitto di furto e, per via riflessa, l’insieme dei precetti relativi alla criminalità contro il patrimonio. Le più ovvie modifiche sono quelle che risultano dall’abbandono del modello vigente, che non lega direttamente le ipotesi qualificate o privilegiate di furto a livelli quantitativi pre-determinati fondati sul valore pecuniario dell’oggetto del delitto, ma si serve, a tal fine, essenzialmente di concetti indeterminati o clausole generali di valore (‘‘valore esiguo’’, ‘‘valore elevato’’, ‘‘valore considerevolmente elevato’’). Un tale sistema — i cui meriti sul piano dottrtinale e la cui consonanza con le esigenze della giustizia sostanziale ben possono continuare a essere difesi — finisce per suscitare nella giurisprudenza difficoltà e oscillazioni tali che la Commissione ha ritenuto che il legislatore non potesse astenersi dal porvi rimedio. Non ha agito però nel senso — preferibile, a mio giudizio, da un punto di vista politico-criminale — di eliminare il valore economico della lesione patrimoniale dagli elementi costitutivi della fattispecie dei delitti contro il patrimonio, dandogli rilievo solo come fattore di commisurazione della pena. Al contrario, la proposta della Commissione è stata nel senso di una definizione quantificata dei concetti di valore esiguo, elevato e considerevolmente elevato, utilizzati dalla legge come criteri di privilegio o di qualificazione (71). Resta da vedere se i vantaggi in termini di certezza e di semplificazione che la giurisprudenza senza dubbio si attende da un tale sistema non saranno soverchiati dalla maggior complessità che ne risulterà in materia di accertamento del dolo e di trattamento dell’errore. Sempre nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, la Commissione propone un relativo aggravamento delle pene per il delitto di danneggiamento, per ristabilire quello che sembra un auspicabile equilibrio con le pene comminate per la maggior parte dei delitti contro il patrimonio. (70) Cfr., tuttavia, per diverse opinioni, BONAVENTURA SANTOS, L’interruption de la grossesse sur indication médicale en droit pénal portugais, in Bol. Fac. Dir. Coimbra, 1967, p. 167; J. FIGUEIREDO DIAS, Lei Criminal e Controlo da Criminalidade, in Rev. da Ordem dos Advogados 36 (1976), p. 89; M. COSTA ANDRADE, O Aborto como Problema de Política Criminal, in Rev. da Ordem dos Advogados 39 (1979), p. 24; A.M. ALMEIDA COSTA, Aborto e Direito Penal, in O Aborto à Luz do Dia, Coimbra, 1984, p. 166; CONCEIÇAO CUNHA, Constituição e Crime - uma Perspectiva da Criminalização e da Descriminalização, Porto, 1994, p. 216 ss. (71) Cfr. sul punto J. MANSO-PRETO, Novos aspectos da punição do crime de furto..., in Rev. Portuguesa de Ciência Criminal 1 (1991), p. 543.


— 49 — d) Da ultimo, non sarà difficile identificare nel Progetto di riforma un insieme significativo, benché limitato, di proposte di nuove incriminazioni. Esse sono dovute sia alla comparsa di nuovi beni giuridico-penali o di nuove modalità di aggressione o di messa in pericolo, sia agli impegni internazionali assunti dal Portogallo. Come esempi di nuove incriminazioni si possono indicare la propaganda del suicidio (per quanto mi sembrino dubbi i contorni del bene giuridico qui protetto e quindi il valido fondamento di una simile scelta di incriminazione), il disturbo della pace e della quiete attraverso il telefono, la frode informatica, l’abuso di carte di garanzia o di credito, la tortura e altri trattamenti crudeli, degradanti o disumani, il commercio illegale di apparecchi destinati alle intercettazioni telefoniche o alla violazione della corrispondenza o delle telecomunazioni, l’inquinamento acustico, delle acque, dell’aria o del suolo che avvengano oltre i limiti di tolleranza. Si deve tuttavia porre l’accento sul fatto che la Commissione ha ritenuto di doversi mantenere fedele alla già segnalata tradizione legislativa portoghese di lasciare fuori dal codice penale la punizione di molte condotte la cui rilevanza penale è pacifica, ma che ragioni di tecnica legislativa consigliano di riservare alla legislazione speciale. È questo il caso — oltre che di tutte le condotte che devono imputarsi alla responsabiità penale delle persone collettive in quanto tali — di materie come quelle relative alla criminalità informatica (72), al c.d. riciclaggio di denaro sporco e agli attentati contro l’integrità e l’identità genetiche. IV. Conclusioni. — È oggi pacifica l’idea che l’immutabilità, talvolta più che secolare, delle grandi codificazioni penali appartiene ad un’epoca definitivamente passata. Le ‘‘nevi del passato’’ — per usare una formula di cui Hans Schultz si è servito recentemente per intitolare un suo articolo sul tema delle riforme penali (73) — sgelano di questi tempi con un impressionante aumento di velocità, imposto dalle profonde modifiche socio-culturali, politiche ed economiche delle quali soffre tutti i giorni questo ‘‘villaggio globale’’ nel quale ci è dato vivere. E tuttavia, se devo arrischiarmi a formulare una considerazione conclusiva di quanto sin qui esposto, direi che il codice penale portoghese del 1982, messo alla prova durante i suoi dodici anni di vigenza, ha mostrato che i fondamenti dogmatici e politico-criminali sui quali si basa gli danno la capacità di re(72) Con la già segnalata eccezione della frode informatica. (73) HANS SCHULTZ, Où est la neige d’antan oder die Strafrechtsreformer von Gestern Heute, in Festschrift für J. Baumann, Bielefeld, 1992, p. 431.


— 50 — sistere alle sfide formidabili che, molto probabilmente, gli verranno dalla criminalità dei tempi futuri. A tal fine si rivela però indispensabile un più completo e deciso avvicinamento di quei fondamenti dogmatici e politicocriminali alla realtà dell’amministrazione quotidiana della giustizia penale. In ultima analisi, è questo il denominatore comune della riforma oggi progettata in Portogallo. E ho valide ragioni per sperare che, con questa riforma, il codice penale del 1982 possa continuare, con successo, il suo cammino. JORGE DE FIGUEIREDO DIAS Professore di diritto penale nell’Università di Coimbra (Portogallo)


IN TEMA DI ASPETTO SUBIETTIVO DEL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO (*)

SOMMARIO: 1. Introduzione: nuove ragioni di interesse per la cornice soggettiva della responsabilità concorsuale. — 2. Complessità del profilo subiettivo del fatto di concorso: elemento soggettivo concorsuale, dolo, colpa. — 3. Rapporti tra elemento soggettivo concorsuale e colpa. — 4. Possibile differenziazione del titolo soggettivo di responsabilità tra i concorrenti. — 5. Applicazione del principio di affidamento al problema del concorso colposo in fatto doloso: un radicale mutamento di prospettiva. — 6. Le condizioni per una eventuale previsione legislativa della responsabilità concorsuale colposa in fatto doloso.

1. Introduzione: nuove ragioni di interesse per la cornice soggettiva della responsabilità concorsuale. — L’attenzione verso l’aspetto subiettivo della condotta di concorso è giustificata dalla esigenza di certezza nella applicazione della fattispecie concorsuale. Sono note le non univoche posizioni al riguardo, le quali interessano sia l’interpretazione della normativa vigente, sia le considerazioni di politica criminale, assolutamente prevalenti nell’opera di riforma legislativa. Gli interrogativi concernenti se, oltre al dolo ed alla colpa, un altro requisito di natura soggettiva sia necessario per il sorgere della responsabilità concorsuale, se sia possibile un concorso nei delitti colposi e, infine, se possano configurarsi differenziati titoli soggettivi di responsabilità, rappresentano consistenti punti di emergenza della definizione dell’aspetto soggettivo del fatto concorsuale. L’interesse per l’argomento, soprattutto per quanto riguarda la prospettiva de iure condendo che esso reca, è rinnovato dall’apparire di una proposta organica di nuovo codice penale nello scenario delle riforme legislative. Il 28 maggio 1993, il Consiglio di Ministri, su proposta del Ministro di Grazia e Giustizia professore Giovanni Conso, ha esaminato il testo dello schema di disegno di legge concernente « Delega al Governo della Repubblica ad emanare un nuovo codice penale », elaborato da una (*) Opportunamente rivisto e corredato di note, è il testo dell’intervento all’incontro di studio su « Il concorso di persone ed il tentativo nello schema di legge delega per il nuovo codice penale », organizzato dall’Istituto di Diritto penale « O. Vannini » dell’Università degli Studi di Siena, Certosa di Pontignano, 1-2 ottobre 1993.


— 52 — commissione, nominata dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia professore Giuliano Vassalli (1). Il tema della cornice soggettiva della responsabilità concorsuale appare finora comparativamente sottostimato, nel quadro storico di un dibattito, la cui prevalente preoccupazione è stata di fissare lineamenti oggettivi di tipicità, a fronte delle difficoltà interpretative poste dalle disposizioni del codice Zanardelli e, successivamente, dalla vuota formula dell’art. 110 c.p. vigente (2). Né è soltanto la contingenza della interpretazione legislativa a sollecitare un più attento interesse nei riguardi del profilo oggettivo del concorso. La idea che la tipicità si verifichi alla stregua del fatto materiale, secondo le classiche indicazioni della tripartizione, può avere contribuito alla maggiore attenzione verso la cornice oggettiva della responsabilità concorsuale, sul presupposto che la funzione del concorso di persone (1) La commissione, presieduta dal professore Antonio Pagliaro, era composta dai professori Franco Bricola, Antonio Fiorella, Ferrando Mantovani, Tullio Padovani. Ne faceva parte, altresì, il professore Angelo Raffele Latagliata, prematuramente scomparso. Sul compito affidato alla commissione — quello di formulare una bozza di legge delega per un nuovo codice penale — e su altre questioni inerenti al processo di codificazione, cfr. A. PAGLIARO, Verso un nuovo codice penale? Itinerari - Problemi - Prospettive, ne L’Indice Penale, 1992, p. 15 ss. Il testo della bozza di legge delega è stato pubblicato in Doc. Giustizia, 1992, n. 3; ne L’Indice Penale, 1992, p. 579 ss.; e in Giust. pen., 1994, II, 88 ss. (qui nella forma dello schema di disegno di legge delega esaminato dal Consiglio dei ministri). Il contenuto della bozza di legge delega elaborato dalla commissione Pagliaro è stato discusso, fino ad ora, nei seguenti incontri di studio: « Prospettive di un nuovo codice penale. Analisi e valutazioni dei contenuti del progetto della commissione Pagliaro - La parte generale - », tenutosi presso l’ISISC di Siracusa dal 15 al 18 ottobre 1992; « La riforma del codice penale nella bozza di DDL Vassalli - Pagliaro », III Congresso Italiano di Diritto Penale dell’AIDP, Cagliari 17-20 dicembre 1992; « Il concorso di persone ed il tentativo nello schema di legge delega per il nuovo codice penale », organizzato dall’Istituto di diritto penale dell’Università di Siena presso la Certosa di Pontignano, 1 e 2 ottobre 1993; « Valori e principi della codificazione penale: le esperienze italiana francese e spagnola a confronto », organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Dipartimento di diritto comparato e penale dell’Università di Firenze e svoltosi il 19 e 20 novembre 1993; « Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali », XIX Convegno de Nicola, a cura del CNPDS, St. Vincent, 6-8 maggio 1994; « Riforma del sistema penale, tra evoluzione dottrinaria ed esigenze concrete di giustizia », a cura del Centro studi giuridici ‘‘M. De Pietro’’, Lecce, 1-2 ottobre 1994; « I reati ambientali nel progetto di riforma del codice penale », a cura del Centro Studi e Iniziative sul lavoro, Salute e ambiente, Padova, 17 dicembre 1994. Sulla necessità di un nuovo codice penale, cfr. le incisive considerazioni di G. VASSALLI, Necessità di un nuovo codice penale, in Diritto e processo, Milano, IPSOA, 1995, n. 1, 7 ss. (2) Cfr., ad esempio, il recente studio di S. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, passim e p. 440, teso ad affermare la esigenza di una riforma del concorso di persone, caratterizzata da una descrizione delle oggettive modalità di partecipazione al reato.


— 53 — fosse quella di rendere possibile la punizione di condotte oggettivamente atipiche rispetto allo schema monosoggettivo di incriminazione. Se ne opera, poi, un rafforzamento attraverso la rappresentazione didattica del concorso di persone come forma di manifestazione del reato, in ragione della significativa modalità di esteriorizzazione del fatto materiale, consistente nell’opera di più soggetti. Interpretato come forma di manifestazione oggettivamente caratterizzata, il concorso di persone non mostrerebbe considerevoli particolarità a proposito dell’aspetto subiettivo delle condotte. Tuttavia, è stato osservato quanto possa essere riduttiva la pretesa di risolvere solo sul piano obiettivo i collegamenti, in forza dei quali giudicare le condotte come concorsuali. Vi sarebbero casi, in cui il coefficiente psicologico dell’azione posta in essere dal partecipe si pone in concreto come uno degli elementi costitutivi dell’offesa. Si tratterebbe della ipotesi in cui solo uno dei concorrenti agisca con volontà colpevole, nonché del caso in cui il titolo della responsabilità non sia identico per tutti i partecipi (3). In ambedue le situazioni, la punibilità delle condotte dipende dal coefficiente psicologico di uno dei concorrenti, e non soltanto dalle caratteristiche oggettive di esse. Altresì, la limitazione del concetto di forma di manifestazione del reato al solo profilo oggettivo dell’illecito è resa dubbia già dalle conclusioni raggiunte dalla dottrina, ormai da tempo, in tema di aspetto subiettivo della condotta di tentativo. La forma di manifestazione del delitto tentato si riflette anche sul lato oggettivo dell’illecito, dovendosi ritenere inammissibile il tentativo con dolo eventuale. Sicché, non può essere escluso che ogni forma di manifestazione dell’illecito possegga significative particolarità anche nei riguardi dell’atteggiarsi della volontà colpevole. Se l’opinione che la determinazione dell’aspetto subiettivo delle condotte sia un profilo secondario del concorso di persone nel reato può rappresentare il risultato di un certo processo storico dommatico dell’istituto, non è men vero che l’interprete non se ne deve sentire assolutamente vincolato, nel momento in cui il processo riformatore in atto reclama una riconsiderazione delle questioni. Una realizzazione concorsuale che fosse disegnata tenendo conto prevalentemente, o addirittura esclusivamente, degli apporti oggettivi alla lesione dell’interesse, e trascurasse il profilo della personalità dell’illecito, non troverebbe oggi molto apprezzamento. D’altra parte, proprio il recu(3) M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, pp. 78 e 79.


— 54 — pero del principio di colpevolezza nella determinazione dei requisiti della responsabilità concorsuale è stato uno degli obiettivi perseguiti dalla commissione redigente la bozza di legge delega per un nuovo codice penale (4). Le indicazioni contenute nel progetto per un nuovo codice penale, circa la caratterizzazione oggettiva delle condotte di concorso (5), devono egualmente spingere verso una più congrua considerazione del contenuto soggettivo delle stesse. Come è importante la determinazione dei requisiti oggettivi della condotta concorsuale, altrettanto è a dirsi dei suoi requisiti soggettivi. Ma vi è un’altra necessità. Si deve chiarire se la tipicizzazione delle condotte di concorso, formulata nello schema di delega per un nuovo codice penale, abbia una qualche refluenza sul contenuto soggettivo delle stesse. Fino ad ora, il dibattito sull’aspetto soggettivo del concorso di persone ha avuto riferimento alla vaga formula dell’art. 110 c.p., la quale non offriva alcuna indicazione sulla caratterizzazione oggettiva delle condotte concorsuali. Orbene, di fronte alle maggiori determinazioni al riguardo introdotte nello schema di delega per un nuovo codice penale, è opportuno conoscere se, rispetto al passato, qualcosa sia mutato anche dal lato dei requisiti soggettivi (6). La legittimità dell’interrogativo deriva, in primo luogo, dai principi generali della condotta illecita, relativi alla corrispondenza tra il voluto ed il realizzato, e, in secondo luogo, dalla interpretazione della teoria concor(4) Relazione illustrativa della bozza di legge delega per un nuovo codice penale, Doc. Giustizia, 1992, 321; L’indice Penale, 1992, p. 589; Giust. pen., 1994, II, 135. (5) L’art. 26.1 stabilisce di « prevedere che concorra nel reato chi nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva dà un contributo necessario, o quanto meno agevolatore, alla realizzazione dell’evento offensivo. Si concorre per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento offensivo ». La preoccupazione per una tipicizzazione delle condotte concorsuali si risolve in un duplice criterio di individuazione. Il primo si riferisce all’essere la condotta un contributo necessario alla realizzazione dell’evento offensivo: senza quella condotta l’evento non si sarebbe verificato. Il secondo criterio si richiama alla nozione di contributo agevolatore, del quale si formula un’adeguata definizione. In tal caso, la condotta dovrà avere reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento offensivo. Per il profilo obiettivo, quindi, la condotta di concorso si presenta come contributo necessario o come contributo agevolatore. Per un primo commento, E. SVARIATI, Concorso di persone nel reato tra vecchie e nuove prospettive, Cass. pen., 1994, p. 242 ss. (6) Le precedenti proposte di riforma non forniscono elementi tali da sollecitare utili spunti di riflessione sull’argomento. Né il disegno di legge Gonella, presentato al Senato il 19 novembre 1968, né i precedenti tentativi di riforma parziale del codice penale consentono una rimeditazione dell’aspetto soggettivo del concorso di persone nel reato. Le linee fondamentali ivi rappresentate appaiono omologhe a quelle del codice del 1930.


— 55 — suale, la quale, ove i singoli ordinamenti abbiano scelto di differenziare anche formalmente gli apporti oggettivi alla lesione (le note figure di autore, coautore, partecipe, istigatore), è pervenuta a discernere le peculiarità soggettive di quei singoli contributi (7). La circostanza che quest’ultima specifica indicazione non sia stata seguita nella redazione della bozza della legge delega, peraltro, non sembra togliere validità al problema più generale, concernente il raccordo tra caratterizzazione oggettiva della condotta di concorso e suo aspetto soggettivo. 2. Complessità del profilo subiettivo del fatto di concorso: elemento soggettivo concorsuale, dolo, colpa. — Antichi insegnamenti, pur recentemente convalidati, e prassi giurisprudenziale consentono di determinare il contenuto del peculiare requisito soggettivo concorsuale attraverso tre indicazioni: non è necessario che ci sia un previo concerto; l’accordo può essere istantaneo, intervenuto al momento della esecuzione; unilaterale può essere la consapevolezza di aderire con l’azione propria all’azione altrui. Il ruolo dell’elemento soggettivo concorsuale è tale che la condotta che ne è qualificata risulta punibile, a titolo di concorso, anche se essa sia atipica rispetto allo schema monosoggettivo di incriminazione. La stessa qualificazione determinerà il ricorso al regime della disciplina concorsuale, anche quando la condotta sia tipica alla stregua del modello monosoggettivo. Dove tale elemento non è riscontrabile, difetterà l’effetto di qualificazione che gli è proprio (8). In tal guisa, le condotte degli altri soggetti, le quali, apparentemente, convergono nella realizzazione materiale, saranno valutate per le caratteristiche che esse possiedono. Se queste le determinano come condotte punibili sulla base del tipo descritto nella norma incriminatrice, non occorrerà alcun riferimento allo schema concorsuale. Invece, se le stesse condotte risultano atipiche oppure prive della (7) Ne è una conferma, per il diritto tedesco, il recente saggio di H. OTTO, Täterschaft und Teilnahme im Fahrlässigkeitsbereich, in Festschrift für Günther Spendel zum 70. Geburtstag, Berlin, 1992, p. 271 ss. Sulla distinzione tra autoria e partecipazione e sulla problematica del concorso di persone, rimane un classico riferimento l’opera di C. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Berlin, 1984, passim. (8) R.A. FROSALI, L’elemento soggettivo del concorso di persone nel reato, in Arch. pen., 1947, I, p. 5. Qualche perplessità sulla ragione teleologica che l’elemento soggettivo concorsuale introdurrebbe nel differenziato regime penale rispetto al mero convergere di cause indipendeti è manifestata da M. BOSCARELLI, Compendio di diritto penale, Milano, 1982, p. 170 (opinione inalterata nelle successive edizioni); al riguardo, cfr. le opportune considerazioni di F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 189.


— 56 — consapevolezza del concorso, la punibilità dovrà essere esclusa, perché non è riscontrabile alcuna ragione legislativa che conduca ad una diversa soluzione. Soltanto i legami posti dalla concezione monistica del concorso imporrebbero che la qualificazione della consapevolezza unilaterale coinvolgesse anche le altre condotte. Nel riconoscimento del ruolo fondante attribuito all’elemento soggettivo concorsuale, tuttavia, è stato scorto il pericolo di una eccessiva subiettivazione della responsabilità, in contrasto con il riferimento ad un parametro oggettivistico, ritenuto più rassicurante (9). Tali riserve possono essere superate se si considera che l’elemento soggettivo concorsuale si deve convertire necessariamente nella realizzazione comune, che ne costituisce, anzi, l’indefettibile segno. La consapevolezza di cooperare non è il semplice piano criminoso, il quale rimanga allo stato della soggettività pura; essa, piuttosto, conferisce una nota distintiva alla materialità dell’operato, consentendo una valutazione della condotta che tenga conto del reale significato soggettivamente posto ed obiettivamente realizzato. Invece, la considerazione del semplice parametro oggettivo, riferito al criterio casuale, produrrebbe, a sua volta, taluni non minori inconvenienti: la oggettivazione della responsabilità, contro la reclamata esigenza di una valutazione maggiormente personalistica della stessa; l’impossibilità di comprendere realmente la condotta di concorso, la quale, come è noto, non può essere trattata alla stregua del mero concorso di cause; la difficoltà di spiegare la responsabilità dell’apporto concorsuale non contingentemente condizionale, quale quello che si verifica nell’ipotesi dell’omnimodo facturus (10). La varietà in cui può estrinsecarsi l’elemento soggettivo concorsuale, dal previo concerto alla consapevolezza unilaterale, potrà influenzare, altresì, la commisurazione della pena, tenendo conto del maggior o minor grado di colpevolezza del concorrente. La situazione non sembra diversa nel progetto per un nuovo codice penale contenuto nel relativo schema di delega. L’elemento soggettivo concorsuale non è previsto in modo espresso. Esso, comunque, è indicato mediante la valenza semantica del termine contributo, il quale è utilizzato (9) Recentemente, G. INSOLERA, Concorso di persone nel reato, in Dig. Disc. Pen., vl. II, Torino, 1988, p. 476. (10) A. PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 792, osserva che la ragione per la quale la imputazione dell’evento nel concorso di persone si estende oltre il nesso condizionalistico è di carattere preventivo, ed ha la stessa radice normativa della teoria della imputazione dell’evento concernente il fatto commesso da una sola persona.


— 57 — per definire la condotta di concorso (art. 26.1). La condotta di concorso deve essere un contributo necessario o un contributo agevolatore nei confronti della realizzazione dell’evento offensivo. Il contribuire indica la partecipazione ad un risultato comune. In tanto questo può avvenire, in quanto il partecipe abbia posto in essere la condotta con quel particolare significato, attuando la realizzazione comune come sua propria personale. Anche per quanto riguarda il contenuto dell’elemento soggettivo concorsuale, dal progetto non si traggono indicazioni che ne possono dare una rappresentazione diversa da quella fin qui prospettata. Nella condotta che, nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva, costituisce un contributo necessario o un contributo agevolatore alla realizzazione dell’evento offensivo, può riconoscersi un previo concerto, oppure un accordo o, ancora, una consapevolezza unilaterale. Sarà più facile che la consapevolezza unilaterale intervenga nella fase esecutiva, che non in quella ideativa o preparatoria, le quali richiedono, se non un previo concerto, certamente un accordo. Sotto questo aspetto potrebbe apparire ridimensionata la posizione della prassi giurisprudenziale a proposito del c.d. concorso morale. I vincoli della maggiore determinatezza del fatto concorsuale, anche dal lato del profilo soggettivo, potrebbero essere efficaci nei confronti di posizioni amplianti eccessivamente l’ambito della responsabilità. L’aspetto subiettivo della condotta del singolo compartecipe, altresì, deve essere rappresentato nel dolo o nella colpa. L’art. 12 del progetto per un nuovo codice penale fissa il principio di « escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di imputazione: il dolo e la colpa » (art. 12.1). Questo stesso principio trova conferma nella disciplina disposta per il concorso di persone nel reato, ove è rinvenibile la espressa considerazione di una responsabilità per colpa (art. 27, art. 29), in base alla tradizionale direttiva che la responsabilità per colpa deve essere espressamente prevista (art. 12.2 e art. 12.3). Scompare la responsabilità oggettiva per il caso del reato diverso da quello voluto dal partecipe (art. 116 c.p. vigente), sostituita da una responsabilità per agevolazione colposa del reato diverso da quello voluto (art. 29). La teorica sul concorso di persone nel reato si è sempre imbattuta nella difficoltà di spiegare il contenuto dell’elemento soggettivo concorsuale alla stregua dell’atteggiamento soggettivo richiesto per la esecuzione monosoggettiva. Date, in questa, le forme della volontà colpevole nel dolo e nella colpa, in riferimento ad esse si sarebbe dovuto modellare l’aspetto subiettivo delle condotte di concorso. Al riguardo sono stati assunti due opposti orientamenti. Interpretato l’elemento soggettivo concorsuale come accordo o come


— 58 — volontà di cooperare, se ne è operata una riduzione al dolo. Il dolo del concorso raffigura la volontà di realizzare in comune il dato reato. In tal guisa, si è sostenuta la ammissibilità del concorso di persone solo di fronte ad una responsabilità per dolo, riconosciuta come immancabile la volontà del concorso. Le incrostazioni dommatiche relative alla distinzione tra autore e partecipe ed i postulati della stessa teoria della accessorietà, poi, indirizzano a riconoscere il dolo del partecipe nella volontà di accedere al fatto tipico altrui. In base al secondo orientamento, invece, determinato il contenuto dell’elemento soggettivo concorsuale in modo separato dal dolo e dalla colpa, o comunque come atteggiamento arricchente il tessuto del dolo o della colpa del compartecipe, si è riconosciuta la diversità e l’autonomia dei due requisiti, ambedue richiesti per l’adempimento del profilo soggettivo della fattispecie concorsuale (11). Nella prospettiva del progetto per un nuovo codice penale, emerge più netta la distinzione dell’elemento soggettivo concorsuale rispetto al dolo e alla colpa. Intanto, la espressa previsione di un concorso colposo non può indurre più all’idea che il dolo debba corrispondere alla consapevolezza della cooperazione. Quest’ultima designa un elemento del concorso, che è diverso rispetto al dolo e alla colpa. Una concezione del genere consente, altresì, di dare un assetto generale a forme di agevolazione colposa, in relazione alla responsabilità per il reato diverso da quello voluto (art. 29) ed al mancato impedimento di reati a mezzo della stampa o di trasmissioni radiotelevisive (art. 31). 3. Rapporti tra elemento soggettivo concorsuale e colpa. — Il tema della colpa nel concorso di persone nel reato si arricchisce di nuovi elementi in relazione alle indicazioni contenute nello schema di delega per un nuovo codice penale. Da un lato, l’art. 27 stabilisce di regolamentare il concorso nei delitti colposi, offrendo una esplicita soluzione al dibattito che ne riguarda la ammissibilità. Dall’altro lato, mediante la introduzione (11) Che l’elemento soggettivo del concorso non si identifichi, in alcun modo, con il dolo, è stato sostenuto da E. MASSARI, Le dottrine generali del reato, Spoleto, 1928, p. 195; G. BETTIOL, Scritti giuridici, t. I, Padova, 1966, p. 18. Attualmente, per tutti, A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1993, p. 534 ss. Invece, ritiene che la consapevolezza della cooperazione arricchisca il contenuto del dolo (e della colpa): M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, cit., p. 98. Infine, per una interpretazione della volontà del concorso, alla stregua del dolo, e quindi per la non sostanziale separatezza tra elemento soggettivo concorsuale e dolo, emblematicamente, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, XII ed., Milano, 1991, p. 499 e p. 517.


— 59 — di espresse previsioni di agevolazione colposa (artt. 29 e 31), viene specificata una forma di partecipazione concorsuale, la quale, in via generale, può essere integrata non solo da un contributo necessario, ma anche da un contributo agevolatore (artt. 26 e 28). Le riserve avanzate contro la configurabilità del concorso di persone nei delitti colposi sono di ordine concettuale ed attinenti, altresì, a considerazioni di politica criminale. Sotto il primo profilo, se non si distingue l’elemento soggettivo concorsuale dal dolo (e dalla colpa), non si è disposti a ritenere ammissibile un concorso di persone colposo o, comunque, un concorso di persone nel delitto colposo. Ne è paradigmatico esempio, il modo come, tuttora, nel diritto penale tedesco è regolata la materia della partecipazione al reato, per cui si ritiene, come opinione dominante, che il fatto principale, nelle due possibili forme dell’autoria e della coautoria, debba essere doloso e si esclude che la partecipazione colposa sia punibile (12). Nel vigore del codice Zanardelli si insegnava che non poteva essere configurato un concorso colposo di più persone, la normativa sul concorso dovendo riguardare esclusivamente la dolosa partecipazione in un reato doloso. Nel concorso in reato colposo — si sosteneva — « ciascuno risponde per proprio conto esclusivo dell’evento lesivo, a cui diede causa con la sua condotta imprudente. Semmai tale concorso può determinare una pena più lieve qualora il giudice ritenga che l’efficacia pratica di una colpa sia scemata per il concorso dell’altrui condotta imprudente » (13). Relativamente a queste perplessità, ho già osservato che la definizione della condotta di concorso come contributo necessario o agevolatore alla realizzazione dell’evento offensivo induce a ritenere essenziale, a quella qualifica, un atteggiamento subiettivo del concorrente che consista nell’aderire, con l’azione propria, alla condotta altrui. Solo a tale condizione, la realizzazione dell’evento offensivo potrà dirsi « realizzazione comune ». In assenza di vincoli normativi al riguardo, la volontà del concorso si costruisce su elementi diversi da quelli ai quali si fa riferimento (12) Per tutti, H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, a T., 3 Aufl., Berlin, 1978, p. 533; E. SAMSON, in RUDOLPHI - HORN - SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, I, Neuwied, 1985, § 25, 41; vor § 26.36; § 28 19; DREHER/TRÖNDLE, Strafgesetzbuch, 44, Aufl., München, 1988, vor § 25, 10; CRAMER, in SCHÖNKE - SCHRÖDER, Strafgesetzbuch Kommentar, 23. Aufl., München, 1988, vor §§ 25 ss., 18, 32; § 25, 60; cfr., però, G. SPENDEL, Fahrlässige Teilnahme an Selbst- und Fremdtötung, JuS, 1974, 749 ss. (13) Così G.B. IMPALLOMENI, Il codice penale italiano illustrato da G.B. Impallomeni, Firenze, 1890, p. 210. Analogamente, L. MAJNO, Commento al codice penale italiano, III ed., vl. I, Torino, 1922, pp. 200-201.


— 60 — per la determinazione del dolo. Non sembra raffigurare una contraddizione, pertanto, ammettere una realizzazione colposa dell’evento attraverso il convergere di condotte di una pluralità di persone, sorrette dalla volontà del risultato comune. La condotta che costituisce contributo alla realizzazione comune postula, tra i suoi requisiti, l’elemento soggettivo concorsuale. Un caso emblematico è il seguente. Tizio e Caio concordano di effettuare una gara di velocità automobilistica in un percorso situato nel centro abitato e, durante lo svolgimento della gara, nel tentativo di superarsi vicendevolmente, investono un passante che ivi transitava, il quale muore. La consapevolezza dell’opera comune attribuisce al fatto del cagionamento della morte di taluno un significato particolare, che, in presenza di una scelta normativa discriminante tra concorso di cause indipendenti e concorso di persone, non può essere ritenuto irrilevante, ai fini della disciplina più congrua da applicare (14). Nel rilevare l’ascendenza della previsione di un concorso di persone nei delitti colposi, contenuta nel progetto di un nuovo codice penale, all’art. 113 del codice vigente, Antonio Pagliaro ha ricordato che le controversie interpretative nei confronti di quella norma hanno riguardato soltanto la etichettatura dogmatica da dare al fenomeno e, sotto questo aspetto, risultano ininfluenti sul piano della previsione normativa, giustificata soltanto da considerazioni di politica criminale (15). Nel nuovo codice, quindi, si tratterà di concepire una formulazione legislativa, la quale elimini possibili difficoltà interpretative, utilizzando un linguaggio univoco e coordinato ai principi della responsabilità per colpa. La « cooperazione colposa » dell’art. 113 del codice penale vigente è un vero e proprio concorso colposo. Per quanto riguarda le riserve di politica criminale, si è osservato che una norma che estenda la punibilità per il concorso colposo è superflua per le fattispecie causali, ove tale condotta è già tipica in quanto realizzativa dell’offesa; ed è inopportuna per le fattispecie vincolate, perché renderebbe punibili condotte atipiche secondo le fattispecie incrimina(14) Il principio appare radicato nella giurisprudenza, quando si afferma che in tema di reati colposi l’elemento differenziante tra l’ipotesi di cooperazione e quella di mero concorso di cause indipendenti tra loro è dato dal collegamento della volontà dei diversi soggetti: Cass. 23 novembre 1987, Rep. Foro it., 1989, 510; Cass. 20 febbraio 1990, Rep. Foro it., 1991, 564. (15) A. PAGLIARO, Fatto tipico, concorso di persone e concorso di reati nella bozza di legge delega, p. 8 del dattiloscritto; altresì, A. PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge delega per un nuovo codice penale, in Giust. pen., 1993, II, 184.


— 61 — trici (16). In tale prospettiva, deve essere punito solo l’autore del delitto colposo, e non il concorrente (17). La indicazione delle proprietà della condotta, al fine di individuare la figura di autore del reato, costituisce un luogo comune della letteratura tedesca sull’argomento, perché, come è noto, le disposizioni di quell’ordinamento impongono di distinguere la posizione di autore e quelle di coautore e di compartecipe (quest’ultimo nelle ulteriori forme di istigazione, agevolazione, ausilio). Un significativo e basilare contributo al riguardo è costituito dallo studio di Claus Roxin, il quale, come è noto, ha compiutamente delineata la distinzione tra Herrschaftsdelikte, Pflichtdelikte e eigenhändige Delikte (18). In questi tre tipi di delitti, la posizione di autore è contrassegnata da proprie e significative caratteristiche, teleologicamente determinate, l’adempimento delle quali rende possibili le correlazioni con le condotte degli altri compartecipi, formalmente indicate, nel quadro della persistente concezione accessoria della partecipazione al reato. Peraltro, quale che sia il modo utilizzato per ricercare le proprietà delle condotte che, insieme, confluiscono nella realizzazione dell’evento sotto forma di realizzazione comune, non può essere avanzato alcun dubbio sulla circostanza che l’istituto della compartecipazione, pur nella determinazione formale degli apporti, serva per rendere punibili condotte, le quali sono atipiche rispetto a quella di autore. Se non ci fosse la necessità di spiegare la punizione di condotte diverse da quella di autore, l’istituto della compartecipazione cadrebbe in un sol colpo. Ogni soggetto risponderebbe del fatto tipico, in quanto realizzato con la sua azione od omissione. Pertanto, il rilievo critico avanzato, concernente l’effetto estensivo della punibilità nei riguardi delle condotte diverse da quelle formalmente ascrivibili all’autore, inciderebbe semplicemente sulla opinione generale di (16) F. ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, Arch. pen. 1983, p. 98. L’A. ritiene che anche la funzione di disciplina della normativa concorsuale sembra priva di valori di convenienza, tali da propiziarne la conservazione. Contro la proposta de jure condendo di eliminare la disposizione dell’art. 113, si vedano le osservazioni di G. GRASSO, in M. ROMANO - G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale italiano, vl. II, Milano, 1990, sub art. 113, 24.9. Sull’argomento, P. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988. (17) Esemplarmente, H. WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, 11. Aufl Berlin, 1969, p. 99, il quale ricordava che nell’ambito dei delitti colposi non è possibile la distinzione tra autoria (Täterschaft) e partecipazione (Teilnahme), e che la concausazione colposa dell’evento non voluto (Mitursächlichkeit) integra già la figura dell’autoria. (18) C. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft, Berlin, 1984, passim e p. 600 ss.


— 62 — ritenere non ammissibile l’istituto del concorso di persone. In tal caso, il riferimento al tipo di fatto descritto nella singola norma incriminatrice sarebbe sufficiente per giudicare l’adempimento dei requisiti necessari alla punibilità della condotta. Alla norma incriminatrice di parte speciale sarebbe riservata, in modo esclusivo, la rappresentazione del disvalore della condotta, ai fini della scelta della punibilità. Né la considerazione di contributi di altri soggetti avrebbe la capacità di spingere ad una rivalutazione complessiva del profilo lesivo del fatto, ai fini della partizione della responsabilità. Le argomentazioni contrarie alla punibilità del concorso colposo, almeno per ciò che riguarda la rilevanza di condotte diverse da quella di autore, sembrano provare troppo, perché ne sarebbe facile la estensione anche alle ipotesi del concorso doloso. Infatti, anche qui si avrebbe estensione della punibilità a comportamenti atipici, rispetto a quello di autore, come esso è desumibile dalla fattispecie incriminatrice. Per le ipotesi dolose, si potrebbe ripetere l’analogo pensiero che, nelle fattispecie causalmente orientate, le condotte causali di concorso sarebbero egualmente punibili secondo lo schema della norma incriminatrice, e nelle fattispecie formali si tratterebbe di estendere la punibilità a comportamenti atipici. La eventuale contro obiezione, che nel concorso doloso l’esigenza della punibilità dei comportamenti atipici cioè non di autore, sarebbe giustificata dalla volontà della realizzazione dell’evento, e, quindi da una ritenuta maggiore pericolosità della condotta, fa giocare un argomento storico dommatico nell’ambito di un ragionamento che si dovrebbe sviluppare sul diverso piano della politica criminale. Si utilizza la idea dell’appiattimento dell’elemento soggettivo concorsuale sul dolo (la volontà del fatto in comune si specifica, nella condotta di ciascun soggetto, nel dolo del fatto), per sostenere la non opportunità di punire un concorso non doloso. Chiaro risulta il circolo vizioso in cui cade l’argomentazione. Si muove dall’idea che il concorso di persone è soltanto concorso doloso — conclusione obbligata in forza di uno specifico indirizzo legislativo —, per sostenere, successivamente, che non è possibile configurare un concorso di persone che non sia un concorso doloso. Per avvalorare le perplessità sostanziali circa la ammissibilità di un concorso colposo, si afferma, poi, che la collaborazione colposa alla condotta colposa altrui inciderebbe in modo tanto modesto sul contenuto della colpevolezza, da escludere la opportunità della punibilità indiretta (19). (19)

F. ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, cit., p. 76.


— 63 — In sostanza, si indicano come argomenti di natura politico criminale conclusioni dommatiche, maturate nella interpretazione, pur teleologicamente orientata, di un particolare assetto normativo, che rifiuta la idea del concorso colposo (20). Peraltro, i tentativi attualmente esperiti da una parte della dottrina tedesca, rivolti a superare, entro dovuti limiti, il rigido sbarramento alla ammissibilità di un concorso colposo (21), dovrebbero mettere in guardia circa la definitività dell’apprezzamento critico. A tutto concedere, inoltre, vi è la particolarità delle diverse ragioni addotte a giustificazione della eventuale estensione della punibilità. Per la condotta di concorso doloso, l’elemento soggettivo concorsuale apporterebbe una maggiore pericolosità per l’evento, in tal guisa da rendere ammissibile la punibilità di condotte diverse da quelle di autore. Per la partecipazione nel delitto colposo, invece, la considerazione dell’ipotizzabile elemento soggettivo concorsuale avrebbe efficacia su una ridotta colpevolezza, in modo da sconsigliare la punibilità di condotte diverse da quelle di autore. Ciò potrebbe fare ritenere che la esclusione del concorso colposo dovrebbe essere attinta alle valutazioni concernenti il difetto di colpevolezza, piuttosto che a quelle relative alla difficoltà di instaurare, nella condotta lecita pericolosa, un corretto processo di imputazione obiettiva dell’evento. Orbene, nei confronti delle valutazioni politico criminali circa la opportunità della punizione della condotta di concorso colposo, in primo grado vanno indicate quelle qualità specifiche che, oltre alla signoria sul fatto, possano consentire di cogliere, nel contributo all’evento lesivo, le qualifiche di negligenza, imprudenza etc. disposte in ordine al disvalore della condotta. Ed è noto che al disegno delle qualifiche della condotta colposa si giunge attraverso un procedimento complesso dove emergono, all’incrocio dell’apprezzamento di circostanze oggettive e soggettive, esigenze squisitamente normative. Al riguardo, l’atteggiamento giustamente preoccupato di non dilatare, oltre i limiti di scopo, l’ambito della responsabilità non sempre mostra con chiarezza che sono in effetti due le questioni trattate nell’ambito del problema della punibilità del concorso colposo. La prima riguarda l’applicabilità dello schema concorsuale alla responsabilità per colpa; la seconda concerne la individuazione del tipo di (20) Scrive molto indicativamente CRAMER, in SCHÖNKE - SCHRÖDER Strafgesetzbuch Kommentar, cit., § 25, 60 che de lege lata i concetti di autore mediato, coautore, istigazione e agevolazione sono ritagliati per la responsabilità di fatti dolosi. Nei delitti vi è posto solo per un concetto di autore unitario, senza possibilità di concepire un riparto di responsabilità. (21) Cfr., recentemente, H. OTTO, Täterschaft und Teilnahme im Fahrlässigkeitsbereich, cit., p. 272 ss.


— 64 — contributo colposo eventualmente da punire. Il pericolo di non tenere distinte le due questioni sta nella possibilità di pervenire al risultato di giudicare la condotta colposa alla stregua della fattispecie monosoggettiva di parte speciale, una volta che si sia ritenuto che solo la condotta di autore può essere apprezzata come contributo punibile. Conclusione non certamente congruente, però, con prospettive di politica legislativa che, al contrario, ritenessero configurabile il concorso colposo. Ammessa la possibilità di una responsabilità concorsuale colposa, si tratta di indicarne gli specifici requisiti, al fine di selezionare le condotte punibili. In effetti, per il profilo di politica criminale, è più proprio valutare l’opportunità di punire taluni comportamenti, riferendosi alle note teleologiche della sanzione penale. Vi debbono valere argomenti di scopo e di ragionevolezza, seguendo i noti criteri che le ormai consolidate ricerche di politica criminale hanno attestato a proposito della scelta dei comportamenti punibili. Gli interrogativi a cui rispondere attengono alla valutazione della gravità del fatto, e riguardano, per il problema in esame, l’apprezzamento della qualità del contributo alla lesione e la possibilità di operarne una qualificazione alla stregua di condotta concretamente violatrice della regola cautelare. Saranno decisive, poi, le considerazioni teleologiche relative alle connessioni con lo scopo preventivo della norma penale. Particolare attenzione va prestata al ruolo dell’elemento soggettivo concorsuale. Esso attribuisce alla condotta il significato di contributo alla realizzazione dell’evento, sottraendola alla considerazione di mera concausa indipendente, e rende possibile, altresì, il riferimento alla fattispecie plurisoggettiva eventuale, in forza della quale stabilire i connotati di tipicità del comportamento. L’essere la condotta contributo alla realizzazione comune insinua il dubbio se i requisiti della colpa abbiano a modellarsi in modo differente rispetto a quanto tradizionalmente riferito all’esecuzione monosoggettiva. Si tratta di comprendere se qualche nesso si instauri tra la consapevolezza della realizzazione comune e l’atteggiamento negligente, imprudente, etc., i quali, pur nella loro autonomia funzionale, sono elementi necessari alla tipicità del fatto concorsuale colposo. Fino ad ora, complici le resistenze relative alla ammissibilità di un concorso colposo, vi è stato un atteggiamento remissivo in ordine alla determinazione degli aspetti peculiari della condotta concorsuale colposa, con il risultato di sminuirne il disvalore ai fini del giudizio della rilevanza penale. Ebbene, tale atteggiamento deve essere rivisto, considerando che non è possibile attribuire un insignificante disvalore al contributo colposo a una realizzazione comune, che sfocia nella lesione di un bene penalmente protetto.


— 65 — Altro ordine di problemi, poi, è quello relativo alle modalità legislative della previsione, nella determinazione delle quali l’adeguatezza allo scopo potrà trovare ulteriore definizione ed imporre significative limitazioni. Ne consegue che la scelta definitiva in ordine alla punibilità del concorso colposo si apprezza come risultato di una complessa valutazione, nella quale le indicazioni di scopo devono essere confrontate con le caratteristiche delle condotte concorsuali. La nuova caratterizzazione obiettiva della condotta di concorso, contenuta nello schema di delega per la emanazione di un nuovo codice penale, servirà anche alla migliore determinazione del tipo di comportamento, al quale riferirsi per riscontrare l’aspetto subiettivo della colpa (22). L’art. 29 introduce una responsabilità per agevolazione colposa del reato diverso da quello voluto, adeguando al principio di colpevolezza la previsione già contenuta nel criticato art. 116 c.p. vigente. La responsabilità delineata è di natura colposa e non è riferibile ai soli reati colposi. Si legge nella Relazione: « trattandosi di un soggetto che intendeva pur sempre contribuire alla realizzazione di un reato, e che in questo contesto ha agito con negligenza, imprudenza o imperizia, la responsabilità non deve essere circoscritta alle sole ipotesi di reato colposo espressamente prevedute dalla legge, ma viene estesa a tutte le fattispecie dell’ordinamento, ovviamente con una congrua riduzione di pena (art. 29.1) » (23). Si tratta di una responsabilità concorsuale colposa. La colpa è particolarmente grave, definibile come colpa da rischio totalmente illecito, e se ne ravvisa il fondamento nell’accettazione del rischio particolarmente elevato che qualcuno dei soggetti chiamati a realizzare insieme l’illecito apporti al piano comune una variante non concordata, determinando così

(22) Poiché la ragione della esclusione di un concorso colposo nelle contravvenzioni è la stessa addotta per ritenere inammissibile il concorso nei delitti colposi (cfr. G.B. IMPALLOMENI, op. cit., p. 241), superata questa, si apre la strada alla ammissibilità del concorso di persone nelle contravvenzioni colpose (art. 27 della bozza di legge delega per un nuovo codice penale). L’argomento relativo alla parvità lesiva delle contravvenzioni, per giustificare la non punibilità del concorso, risulta poco conducente nel quadro del nuovo disegno delle incriminazioni perseguito nella bozza di legge delega, dove si recupera la dimensione offensiva dell’illecito contravvenzionale, risultando ciò anche dalla collocazione topografica delle singole contravvenzioni, inserite nello stesso capo in cui sono considerati i delitti offensivi dell’analogo bene. (23) Relazione, in Doc. Giustizia, cit., 321-322; altresì ne L’Indice Penale, cit., p. 589 e in Giust. pen., 1994, II, 135.


— 66 — l’offesa di altri beni giuridici. Il caso è uno di quelli, in cui si ritiene non potersi dare rilievo al principio di affidamento (24). Altra ipotesi è quella della previsione di un reato proprio di mancato impedimento colposo di reati commessi a mezzo della stampa o di altre trasmissioni radiotelevisive (art. 31). A tale titolo sarà punito il responsabile della pubblicazione o della trasmissione, il quale, fuori dei casi di concorso, omettendo di controllare il contenuto della pubblicazione o della trasmissione, non impedisce per colpa che con il loro mezzo sia commesso un fatto di reato. Rispetto alla condotta, si precisa trattarsi di mancato impedimento colposo, dipendente dalla violazione del dovere specifico di controllare il contenuto della pubblicazione o della trasmissione. Si nota, altresì, che il requisito della eccettuazione dei casi di concorso va letto in riferimento al concorso doloso. In tal guisa, si suggerisce che la ricostruzione dogmatica di tale ipotesi di responsabilità possa avvenire secondo l’idea dello schema di un concorso colposo in fatto doloso (25). Si tratta di un’altra ipotesi, in cui il ricorso al principio di affidamento non può valere per escludere la imputazione obiettiva dell’evento. 4. Possibile differenziazione del titolo soggettivo di responsabilità tra i concorrenti. — Nell’ambito della concezione della responsabilità concorsuale differenziata (26), è possibile pure una diversificazione dei titoli soggettivi di responsabilità a carico dei concorrenti. Come è noto, la questione si pone al fine di ritenere ammissibile un concorso doloso in fatto colposo ed un concorso colposo in fatto doloso. Già la formulazione in tali termini evoca un uso linguistico vicino al dogma dell’accessorietà (27). È come se si discutesse di un concorso do(24) Così A. PAGLIARO, Fatto tipico, concorso di persone e concorso di reati nella bozza di legge delega, cit., p. 8 del dattiloscritto; A. PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge delega per un nuovo codice penale, cit., 185. (25) A. PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 18. (26) È considerata all’art. 28.1 parte prima: « Prevedere responsabilità differenziate per i compartecipi, non in rapporto alla forma astratta di partecipazione, ma in dipendenza del contributo effettivo di ciascuno alla realizzazione criminosa ». La Relazione così commenta « il riconoscimento di una rilevanza obiettivamente differenziata del contributo concorsuale ha indotto a sancire la regola della responsabilità differenziata del singolo compartecipe... nel senso che il grado della responsabilità dipende dall’atteggiarsi concreto del contributo da ciascuno realizzato ». (27) Uno spunto analogo in S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 201. Tuttavia, C. PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, p. 82, ritiene possibile la diversità del titolo soggettivo di responsabilità, non esistendo alcuna difficoltà di


— 67 — loso al fatto (principale) colposo e di un concorso colposo al fatto (principale) doloso. La terminologia appare congrua al modo di impostare la problematica nell’ambito della letteratura tedesca, in forza della distinzione tra la posizione di « autore » e quella di « partecipe » disposta in quell’ordinamento (28). La situazione, invece, è diversa nel diritto penale vigente in Italia e nelle indicazioni contenute nello schema di legge delega per un nuovo codice penale, ove non si distinguono formalmente i singoli apporti alla realizzazione del fatto in concorso. Per questo, in esito all’indagine sui termini sostanziali della problematica concernente la differenziazione dei titoli soggettivi di responsabilità per il fatto concorsuale, si verificherà se sia ancora accettabile la persistenza dell’uso linguistico indicato, quand’anche in un significato meramente convenzionale. Si è ritenuto che il dogma dell’unicità di responsabilità dei concorrenti (dolo, colpa) derivi dal dogma dell’unità del reato in concorso: questo, realizzando una unica lesione all’interesse protetto, non renderebbe compatibile una responsabilità a titolo di dolo con una responsabilità a titolo di colpa, per un unico reato (29). Ciò potrebbe avvenire — si continua — a patto di isolare le condotte dei concorrenti, individuando fatti diversi in relazione a ciascun titolo di responsabilità e, quindi, in ultima analisi, reati diversi. Lo schema di delega ha percorso la strada della differenziazione delle condotte dei concorrenti apparentemente a metà: sancendola espressamente per il profilo della realizzazione obiettiva del contributo, ma non considerando una eguale regola generale a proposito del titolo soggettivo di responsabilità. Per quanto riguarda il concorso doloso in fatto colposo, si è osservato che, probabilmente, non è necessaria una statuizione apposita, ricadendo la punibilità del comportamento doloso sotto i principi generali (30). Se principio a configurare un concorso doloso a fatto colposo ed un concorso colposo a fatto doloso. Tale Autore, pur ammettendo che l’accessorio deriva dal principale la qualificazione del fatto, sostiene che l’elemento soggettivo è incomunicabile e sfugge ad ogni accessorietà. Per la impraticabilità delle figure del concorso doloso in fatto colposo e del concorso colposo in fatto doloso si pronuncia, invece, F. ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, cit., p. 90 ss., sul presupposto che sarebbe difficile individuare un corretto meccanismo di accessorietà tra la condotta di autore e quella di partecipe, rappresentando dolo e colpa elementi del tipo, necessari, quindi, nel selezionare la posizione di autore. (28) Cfr., ad esempio, H. OTTO, Täterschaft und Teilnahme im Fahrlässigkeitsbereich, cit., p. 271. (29) T. PADOVANI, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, 1973, p. 103. (30) A. PAGLIARO, Fatto tipico, concorso di persone e concorso di reati nella bozza di legge delega, cit., p. 8 del dattiloscritto: A. PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge per


— 68 — un soggetto ha la volontà di cooperare alla realizzazione lesiva, accompagnata dalla volontà di realizzare l’evento, certo alla sua responsabilità non osta il fatto che un altro concorrente alla stessa realizzazione abbia cagionato per colpa l’evento. Il suo volere si converte nella realizzazione comune alla stregua del dolo, pur potendosi discernere una realizzazione colposa da parte dell’altro concorrente. Il classico esempio è il seguente. Tizio vuole uccidere Sempronio, che egli sa attraversare la strada in un certo luogo ed orario; perciò istiga Caio, conducente dell’autovettura con il quale si accompagna, a superare i limiti di velocità per provare l’assetto della macchina, con il segreto intento di fare investire Sempronio, nel luogo ed orario in cui egli si trova. Ciò che accade puntualmente, con la verificazione della morte della vittima. La condotta colposa di Caio, causatrice diretta della morte di Sempronio, viene realizzata concorsualmente insieme alla condotta dolosa di Tizio. Applicando lo schema concorsuale, Tizio risponderà di concorso doloso in omicidio colposo a carico di Caio. Se si ritenesse di non potere applicare lo schema concorsuale, e si facesse riferimento, invece, alle singole fattispecie incriminatrici monosoggettive, il risultato sarebbe quello di ritenere la responsabilità colposa di Caio, escludendo, ingiustamente, la responsabilità di Tizio. La condotta di quest’ultimo, infatti, non sarebbe tipica rispetto al tipo del delitto di omicidio. La situazione cambia, se si accetta di misurare la tipicità delle condotte alla stregua della fattispecie plurisoggettiva eventuale. Ne viene accertata la realizzazione comune (obiettivamente e subiettivamente significata), giustificando la responsabilità dei concorrenti, pur attraverso un titolo soggettivo differenziato. In conclusione, non vi è difficoltà, né di ordine concettuale, né di politica criminale, ad ammettere un diversificato titolo soggettivo di responsabilità per il concorso doloso in fatto colposo. Peraltro, per rimuovere ogni dubbio, forse non sarebbe inopportuna una espressa statuizione, anche se essa potesse essere ritenuta realmente sovrabbondante. Più complesso è il caso di un concorso colposo in fatto doloso. Lo si trova discusso in due diverse prospettive. La prima è quella tradizionale, nella quale vengono affrontati argomenti relativi alla possibilità di adempiere il profilo soggettivo della colpa nell’ambito della data fattispecie concorsuale. La seconda prospettiva è emersa recentemente e riguarda la perplessità « che, almeno se il fatto doloso appartiene a un soggetto capace di intendere e di volere, solo in casi eccezionali (che dovrebbero, un nuovo codice penale, cit., 184. Per la ammissibilità del concorso doloso a delitto colposo, già G. BETTIOL, Sul concorso di più persone nei delitti colposi, cit., p. 25.


— 69 — dunque, essere espressamente previsti dalla legge: come avviene nel Progetto per l’agevolazione colposa di fatto diverso da quello voluto) è giustificato l’abbandono del principio di affidamento alla condotta altrui » (31). In questo nuovo contesto, per il ruolo tradizionalmente attribuito al principio di affidamento, le difficoltà addotte concernono la possibilità di considerare la imputazione obiettiva dell’evento alla condotta del compartecipe (v. nn. 5 e 6). Nella prospettiva tradizionale si confrontano due posizioni, le quali, riconoscendo la ammissibilità di un concorso colposo in fatto doloso altrui, ne offrono un disegno di differenziata estensione. Secondo una opinione, la punibilità del concorso colposo in fatto doloso incontra significativi limiti, che ne rappresentano la eccezionalità e ne impongono la espressa previsione. Si ritiene che la coscienza della cooperazione trasforma l’aspetto subiettivo in un vero e proprio dolo, residuando solo il caso in cui il soggetto sia erroneamente convinto che il terzo non versi in dolo. Altresì, l’aspetto subiettivo della colpa si deve riferire all’impedimento del comportamento doloso altrui, sicché verrebbero considerate soltanto le condotte di agevolazione, in una dimensione di « accessorietà » rispetto al fatto principale (32). La interpretazione restrittiva non è condivisa da chi ritiene possibile (31) A. PAGLIARO, Fatto tipico, concorso di persone e concorso di reati nella bozza di legge delega, cit., p. 8 del dattiloscirtto; A. PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge delega per un nuovo codice penale, cit., 184. Cfr., altresì, F. MANTOVANI, Diritto Penale, parte generale, Padova, 1992, pp. 537 e 538. La questione dell’eventuale responsabilità colposa per un evento, alla realizzazione del quale abbia contribuito il fatto doloso di un terzo, è trattata, altresì, da G. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 584 ss., in un contesto argomentativo, in cui appare privilegiata la prospettiva della responsabilità indipendente, fuori da qualsiasi riferimento allo schema concorsuale. Un caso giurisprudenziale in cui sono stati configurati autonomi titoli di reato, nella specie omicidio doloso e omicidio colposo, è ricordato da P. SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, cit., p. 250 nt. 38. Una interpretazione restrittiva del concorso colposo nel fatto doloso è offerta da F. GIUNTA, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I, La fattispecie, Padova, 1993, p. 84 e p. 456. (32) F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, cit., p. 214. Questa concezione, peraltro, non può sopravvivere alle determinazioni assunte nel Progetto di un nuovo codice penale. In primo luogo, la ammissibilità di un concorso nei reati colposi indica che l’elemento soggettivo concorsuale non può avere l’effetto di trasformare in dolo l’aspetto subiettivo della condotta: vi è separatezza funzionale tra i due elementi. In secondo luogo, il contributo agevolatore, come condotta di concorso particolarmente qualificata, non si caratterizza per accedere ad una condotta assunta come principale. Si agevola quando si rende più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell’evento offensivo (art. 26.1 seconda parte): la agevolazione è una condotta concorsuale. In questa dimensione, il contenuto di diligenza prescritto dovrà essere rapportato interamente alla realizzazione dell’evento, a partire dalla sua prevedibilità.


— 70 — attribuire la qualifica di contributo colposo dell’evento a qualsiasi comportamento che si colleghi al fatto doloso altrui con significato causale o non impeditivo. L’elemento soggettivo concorsuale non è di ostacolo alla configurazione dell’aspetto subiettivo della colpa, che si fonda sulla prevedibilità dell’evento, filtrata, nell’adattamento al caso considerato, dall’elemento intermedio della prevedibilità dell’altrui comportamento (33). La differenziazione del titolo soggettivo di responsabilità dei concorrenti è ammessa nello schema di delega per un nuovo codice penale. La progettata previsione di forme di responsabilità colposa in fatti dolosi (art. 29 e art. 31) rappresenta un esplicito riferimento nella direzione di una responsabilità concorsuale diversificata, la quale superi, anche sul versante soggettivo, il rigido schema monistico. Per il fatto concorsuale, taluno dei concorrenti può rispondere per dolo, altri per colpa (34). Pertanto, la mancanza di una espressa regola generale non può interpretarsi come rifiuto ad ammettere, nel concorso di persone, la differenziazione del titolo soggettivo di responsabilità. Interpretando lo schema concorsuale alla stregua della fattispecie plurisoggettiva, si ha la possibilità di distinguere i singoli contributi, sia dal lato del profilo soggettivo delle condotte, sia dal lato del loro apporto oggettivo alla realizzazione comune. Nelle ipotesi in cui l’atteggiamento subiettivo delle condotte dei singoli concorrenti sia diverso, una applicazione coerente dei principi dovrà differenziare i titoli soggettivi di responsabilità. Ciò sarà possibile sia per il concorso doloso in fatto colposo, sia per il concorso colposo in fatto doloso. Lo schema concorsuale non è di ostacolo alla combinazione soggettiva « dolo-colpa », la quale, anzi, esalta le ragioni del principio di colpevolezza. Se nella realizzazione comune vi è un apporto doloso ed un contributo colposo, sarebbe inammissibile il livellamento degli apprezzamenti soggettivi di responsabilità, come anche ingiusto non tenere conto del contributo colposo all’opera comune. 5. La applicazione del principio di affidamento al problema del concorso colposo in fatto doloso: un radicale mutamento di prospettiva. — La questione della responsabilità concorsuale colposa in fatto doloso altrui si arricchisce di nuovi elementi di riflessione, introdotti da recenti (33) P. SEVERINO DI BENEDETTO, La coperazione nel delitto colposo, cit., 246. (34) Si supera, così, quella rigida interpretazione monistica, sul versante dell’elemento psicologico delle condotte dei concorrenti, offerta da A.R. LATAGLIATA, Concorso di persone nel reato (dir. pen.), in Enc. Dir., vl. VIII, Milano, 1961, p. 582.


— 71 — prese di posizioni sul rispetto del principio di affidamento nella responsabilità per colpa. Richiamando la operatività del principio di affidamento, si è osservato che, nel concorso colposo, la possibilità di concorrere attraverso un contributo non condizionalistico rispetto alla produzione dell’evento dovrebbe essere esclusa non per ragioni inerenti al concorso di persone, ma perché la condotta di un singolo concorrente, se non si pone in posizione causale rispetto all’evento, non può essere giudicata negligente, imprudente, ecc. nel concreto rapporto con l’evento. Di guisa che, nella decisione di considerare la eventuale punibilità del concorso colposo a fatto doloso, bisognerà determinare, altresì, le condizioni, che rendano possibile superare il principio di affidamento, e che, quindi, eccezionalmente, consentano di riconoscere la colpa nella condotta del concorrente (35). Nella nuova luce, il problema della configurabilità del concorso colposo in fatto doloso altrui è assunto in un profilo assolutamente diverso da quello, nel quale esso è stato tradizionalmente trattato. Il dubbio non riguarda più la possibilità di differenziare il titolo soggettivo di responsabilità, quanto la ipotizzabilità della concreta violazione della regola di prudenza, che sia congrua alla salvezza del bene, quando la condotta non dolosa si accompagni ad altra, la quale, invece, sia diretta soggettivamente alla lesione dello stesso bene. L’attenzione viene spostata sul versante del profilo obiettivo della responsabilità, in relazione alla possibilità di instaurare correttamente la imputazione dell’evento colposo (36). Come è noto, il principio di affidamento è stato elaborato, all’origine (35) A. PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, cit., p. 20. Una analoga perplessità pur non espressamente mirata all’ipotesi di concorso colposo in fatto doloso, manifesta, H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handlungsunrecht und das Prinzip der Selbstverantwortung der Anderen, Tübingen, 1986, p. 112-113, sulla base della ritenuta inesistenza di un dovere di calcolare fatti di altri pienamente responsabili (voll verantworlicher Taten), ritenendo, così, che non vi sarebbe un disvalore penale di azione nella « fahrlässige Teilnahme »: quel dovere, per essere considerato, dovrebbe essere rappresentato espressamente come caso d’eccezione. Peraltro, la casistica viene trattata sviluppando considerazioni, per le quali difetterebbe, o sarebbe presente, l’obbligo prudenziale verso l’evento e, contemporaneamente, richiamando l’attenzione sulle condizioni che potrebbero, invece, far mutare la qualificazione della condotta alla stregua del dolo (p. 122, p. 125). (36) Nella letteratura tedesca, la questione della punibilità del contributo colposo, quando nel processo causale si innesti una condotta dolosa verso la realizzazione dello stesso evento, è storicamente ancorata alla dottrina del divieto di regresso (S. WEHRLE, Fahrlassige Beteiligung am Vorsatzdelikt Regressverbot?). In quest’ambito, si riteneva che la non punibilità della condotta colposa dipendesse dalla circostanza che il contributo doloso interrompeva il nesso causale. L’agire doloso era l’unica condizione rilevante in ordine alla produzione dell’evento. La conclusione si giustificava con la idea che il nesso causale nonpoteva essere ricostruito fino a considerare le condizioni più remote dell’evento. Queste ultime,


— 72 — per le esigenze della responsabilità nell’ambito della circolazione stradale. Nel corso di un processo storico non sempre univoco, iniziato alla fine degli anni venti, giurisprudenza e dottrina tedesche hanno offerto le basi per la formulazione dell’idea che ogni partecipante alla circolazione stradale, per principio, si può fidare del comportamento idoneo alla circolazione posto in essere dagli altri soggetti, anche se questo non può valere per tutti i casi (37). Soltanto nella letteratura più recente se ne tenta un innesto nella teoria generale dell’illecito penale, nell’ambito dei principii dell’imputazione obiettiva (38). Ed è fin troppo chiaro che al principio di affidamento si attribuisce la funzione di criterio limitativo della responsabilità, in una logica della spiegazione causale che si appella a criteri teleologici, attinenti allo scopo delle norme, fuori dal rigido schema di un condizionalismo naturalisticamente inteso. Rispetto al profilo dell’imputazione dell’evento, bisogna ricordare considerate pre-condizioni di una condizione, perdevano ogni efficacia condizionale, in forza, appunto, del divieto di regresso (R. FRANK, Das Strafgesetzbuch für Deutsche Reich, 18. Aufl., Leipzig, 1931, p. 14). Peraltro, già W. NAUCKE, Über das Regressverbot im Strafrecht, ZStW, LXXVI, 1964, p. 409 ss., avvertiva quanto i casi storicamente ricompresi sotto il divieto di regresso fossero diversi, sicché avrebbero dovuto essere risolti facendo ricorso a principi e concetti dogmatici differenti. Si doveva tenere conto, ad esempio, della diversa posizione formale dei contributi, considerando la posizione di autore e quella di mera partecipazione. Il semplice riferimento, solo apparentemente unitario, al divieto di regresso non avrebbe potuto reggere ad una più approfondita verifica. Conseguentemente, secondo l’Autore, la migliore comprensione delle ragioni di esclusione della punibilità per la condotta colposa andava avviata nella direzione della nuova dottrina dell’imputazione obiettiva dell’evento, privilegiando le considerazioni di scopo (W. NAUCKE, op. cit., p. 424 ss.); analogamente, O. TRIFFTERER, Österreiches Strafrecht, A.T., Wien, 1985, p. 135. Sul ruolo del Regressverbot nella spiegazione causale della partecipazione, cfr., altresì, R. BLOY, Die Beteiligungsform als Zurechnungstypus im Strafrecht, Berlin, 1985, p. 130 ss. (37) Un resoconto del processo storico di emersione del principio di affidamento e l’esame analitico delle questioni poste in giurisprudenza e dottrina si possono trovare in K. KIRSCHBAUM, Der Vertrauesschutz im deutschen Strassenverkehrsrecht, Berlin, 1980. Nella letteratura italiana, al principio di affidamento nella responsabilità per colpa, si riferiscono: G. MARINUCCI, Colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 199 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1987, p. 389 (66.5); A. CASTALDO, L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Napoli, 1989, p. 288 ss.; G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto Penale, parte generale, Bologna, 1989, p. 406; F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1992, p.353; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1993, p. 294; C. FIORE, Diritto penale, parte generale, vl. I, Torino, 1993, p. 255 s. (38) W. NAUCKE, Über das Regressverbot, cit., p. 424ss.; G. JAKOBS, Strafrecht, a. T., Berlin, 1991, 7.51 ss. (p. 208 ss.). Il processo dell’attribuzione di un valore generale al principio di affidamento, proposto da G. STRATENWERTH, Arbeitsteilung und ärztiliche Sorgfaltspflicht, in Festschrift für Eberhard Schmidt, 1961, 383 ss., si sviluppa tra incertezze e diffidenze: cfr. H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handlungsunrecht und das Prinzip der Selbstverantwortung der Anderen, Tübingen, 1986, p. 19.


— 73 — che, sin dal suo apparire sullo scenario dei concetti penalistici, al principio di affidamento si è fatto ricorso per delimitare il contenuto della regola prudenziale, la violazione della quale configura già l’aspetto obiettivo dell’illecito colposo. Nel rapporto condizionalistico che si pone tra la condotta e l’evento, l’effetto limitativo discende dalla considerazione della qualità dei contributi che, nella situazione concreta, hanno cagionato la lesione. Si tiene conto del luogo e del tempo della condotta, delle capacità delle persone e delle relazioni che si instaurano nella complessiva realizzazione lesiva, in guisa da stabilire, sul presupposto dell’attesa del comportamento conforme a regola degli altri, il quantum di attenzione oggettivamente richiesto al soggetto per la salvaguardia del bene. Che il comportamento altrui sia qualificabile alla luce del criterio della colpa, ovvero del dolo, risulta indifferente, anche se, all’origine ed in modo tuttora prevalente, i casi interessati all’applicazione del principio sono quelli della concorrenza di altra condotta colposa. Poiché soltanto dall’esame del concreto accadimento è possibile riconoscere l’ambito dei doveri cautelari adempibili da ciascuno, il processo di astrazione che riguarda il requisito dell’affidamento nella colpa appare difficoltoso. Non sempre le variabili condizioni dell’evento possono ridursi a significative unità, mentre deve ammettersi che la consistenza del principio si determina anche in riferimento ai casi in cui si decide che l’affidamento non può valere. È mancata fino ad ora una organica riflessione tendente ad ordinare i contenuti sostanziali delle eccezioni, anche per una proiezione che vada oltre il settore della circolazione stradale. Semplificando il materiale di cui è ricca una settantennale prassi giurisprudenziale, non si va al di là della affermazione « ombrello » che, ai fini della colpa, per stabilire il livello di diligenza obiettiva adeguato alla salvezza del bene, non si può mettere in conto, tranne in casi eccezionali, la presenza di aggressioni altrui. Sollevandosi dal piano della casistica al livello di una definizione più generale, si è ritenuto che il principio di affidamento sia una applicazione particolare del concetto di rischio consentito (39). La considerazione del (39) In Italia, A. PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 781. Per la spiegazione della tutela dell’affidamento alla luce della teoria del rischio consentito, cfr., pur in termini problematici, K. KIRSCHBAUM, op. cit., p. 182 ss. e p. 262; più decisamente, G. JAKOBS, Strafrecht, cit., 7.51.A (p. 209). Per una puntualizzazione critica della generalizzazione del principio di affidamento nel significato della « sfera del rischio », M. MAIWALD, Zurechnungsprobleme im Rahmen erfolgsqualifizierter Delikte BGHSt. 31, 96, in JuS, 1984, p. 441. L’attrazione sistematica verso il polo del rischio adeguato spiega l’affidamento come un altro fattore, oltre quelli già noti del grado di possibilità dell’evento, del tipo di bene in


— 74 — modo in cui si svolge l’azione pericolosa, non diretta volontariamente a ledere il bene, non consente di ritenere che essa abbia varcato quella misura di rischio, superando la quale il comportamento transita nel campo della illiceità. Nell’applicazione del criterio al concorso colposo in fatto doloso altrui, la condotta dolosa impedirà il concretizzarsi delle qualifiche normative di negligenza, imprudenza, imperizia nel comportamento lecito pericoloso, di guisa che esso non può essere considerato causa dell’evento. La condotta dolosa costituirà causa esclusiva dell’evento (40). gioco e del numero delle offese possibili, sul quale fondare il giudizio di bilanciamento tra il grado di pericolosità della condotta e l’interesse sociale al suo svolgimento. Il grado di pericolosità della condotta sarà valutato considerando anche se la regola cautelare rispettosa della salvaguardia del bene richieda di tenere conto delle altrui possibili aggressioni, dovendo, così, il soggetto modulare su di esse l’attenzione verso il bene. Si allarga, conseguentemente, la base del giudizio che non sarà costituita soltanto dal comportamento del soggetto, ex ante considerato, ma comprenderà le circostanze concomitanti e successive, ivi comprese le condotte altrui, fino al momento in cui non è più in potere del soggetto l’adozione di una cautela per prevenire l’evento (V. MILITELLO, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988, p. 125 ss. e p. 153 ss.). Nell’indicato contesto sistematico, si chiarisce, altresì, il ruolo esplicato dai requisiti della prevedibilità e dominabilità dell’evento, pur necessari alla dimensione personale dell’illecito. Questi, indispensabili per mettere a fuoco la regola adeguata alla salvezza del bene, non appaiono sufficienti ad esaurire l’ambito della doverosa cautela. La concretizzazione della negligenza ha bisogno ancora della verifica concernente il superamento del rischio adeguato. (40) Scorge l’importanza dell’applicazione del criterio dell’affidamento nell’ambito del concorso colposo di persone, A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1993, p. 294 e p. 548. Questa prospettiva è estranea alla tradizione del principio di affidamento nell’ambito della dottrina tedesca, la quale, come è noto, da un lato non distingue l’elemento soggettivo concorsuale rispetto al dolo (esemplarmente, di recente, H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handlungsunrecht und das Prinzip der Selbstverantwortung der Anderen, cit., p. 51) e, dall’altro lato, ha sviluppato il principio nell’ambito del concorso indipendente di cause, attribuendo all’effetto del divieto di regresso la non punibilità del contributo colposo in fatto doloso altrui. Solo di recente, il principio di affidamento è stato saggiato nell’ambito delle tematiche del concorso di persone (variamente, H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handlungsunrecht un das Prinzip der Selbstverantwortung der Anderen, cit., p. 44 ss.; U. STEIN, Die strafrechtliche Beteiligungsformenlehre, cit., p. 162 ss. e passim). Peraltro, come è già accaduto per la dottrina del divieto di regresso, la distinzione formale dei tipi di contributo alla realizzazione comune impone di considerare il problema della eventuale non punibilità del concorso colposo in fatto doloso altrui, tenendo conto delle differenze correnti tra la posizione di autore e coautore e quella del mero partecipe: al riguardo, incisivamente, K. LÜDERSSEN, Zum Strafgrund der Teilnahme, Baden - Baden, 1967, p. 108-209; J. BAUMANN - U. WEBER, Strafrecht, A.T., Bielefeld, 1985, 37.2 (p. 554 ss.). In ogni caso, considerato il sistema del concorso di persone vigente in Germania, la problematica del concorso colposo in fatto doloso vi appare attualmente in posizione eccentrica: per una puntualizzazione in tal senso, G. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, p. 457. La fluidità della materia, tuttavia, si coglie nell’attuale dibattito della scienza penalistica tedesca, per quanto contenuto nello scritto di H. OTTO, Täterschaft und Teilnahme im Fahrlässigkeitsbereich, cit., p. 272 ss.


— 75 — La prospettiva teleologica introdotta dalla operatività del principio di affidamento induce a considerare i contributi concorsuali in ordine alle caratteristiche relative alla qualità del rischio realizzato dalle condotte. L’evento finisce per essere il risultato della somma del rischio creato dalla condotta dolosa e di quello determinato dalla condotta lecita pericolosa, eventualmente da qualificare come colposa. In questo quadro, bisogna chiarire le ragioni, in forza delle quali il rischio prodotto dalla condotta dolosa impedirebbe di riconoscere il superamento del livello di rischio consentito nella condotta lecita pericolosa di altro soggetto. La risposta deve considerare almeno tre circostanze. La prima è che il rischio creato dalla condotta, che volontariamente si diriga verso l’evento, può essere eliminato solo dalla scomparsa della fonte del pericolo, cioè con l’interruzione della condotta (41). Il bene aggredito volontariamente può essere salvato solo dal venir meno della condotta aggressiva. In tal guisa, ed è la seconda circostanza da tenere presente, la concorrente condotta lecita pericolosa di altri difficilmente, in via generale, potrebbe assumere un contenuto tale da configurarsi come idonea alla salvezza del bene. Ciò potrebbe accadere soltanto con la eliminazione della condotta volontariamente tesa alla realizzazione dell’evento e posta in essere dall’altro soggetto. Ma, arduo sarebbe pensare al rispetto di una regola cautelare, che consistesse nella eliminazione della condotta dolosa di altri. Il contenuto del dovere dipenderebbe in modo tanto esclusivo dalla decisione di altro soggetto che, per il suo titolare, ne sarebbe impossibile l’adempimento. Lo scopo di protezione della regola cautelare non può comprendere il dovere di controllare che altri non aggrediscano (dolosamente) il bene (42). Per la sua abnorme incidenza sulla sfera della libertà dell’individuo, il rispetto della regola non potrebbe essere imposto da una norma: la irragionevolezza dello scopo preventivo segna una impossibilità normativa (43). Questo Autore, allontandandosi dalla prevalente opinione, ed avvertendo che la determinazione delle posizioni soggettive concorsuali nel delitto colposo deve avvenire secondo criteri non necessariamente omologhi a quelli utilizzati per il delitto doloso, riconosce la possibilità di una coautoria colposa (p. 281 ss.) e, a certe condizioni, la ammissibilità di una autoria mediata colposa (p. 287). (41) V. MILITELLO, Rischio e responsabilità, cit., p. 241. (42) Diverso, invece, il caso in cui il controllo sulle aggressioni altrui costituisce lo specifico contenuto del dovere di cautela di cui è destinato il soggetto, la violazione del quale è fonte diretta di responsabilità (classica la ipotesi della « guardia del corpo », per la quale la considerazione delle aggressioni dolose verso la persona da custodire costituisce lo specifico dovere di tutela verso il bene). (43) Nessun ordinamento civile sarebbe disposto a sacrificare la libertà d’azione de-


— 76 — Infine, ed è la terza rilevante circostanza, occorre tenere conto della scansione temporale delle condotte lungo il processo che conduce all’evento. Assolutamente insignificante nella prospettiva soggetivistica della differenziazione dei titoli di responsabilità, la particolarità è stata utilizzata dall’antica teoria del divieto di regresso per segnalare il caso della non punibilità del contributo colposo antecedente alla condotta dolosa: la condotta dolosa avrebbe sempre l’effetto interruttivo del nesso tra condotta colposa ed evento. Nella direzione della imputazione obiettiva dell’evento, si deve prestare attenzione anche all’altra ipotesi, nella quale la condotta lecita pericolosa si innesti nella catena causale, già avviata da altro soggetto per realizzare dolosamente l’evento, considerando la connessione significativamente condizionalistica tra azione ed evento. In questa nuova evenienza, si dovrà verificare se la consapevolezza della realizzazione comune, nel soggetto della condotta pericolosa, determini una situazione oggettiva dalla quale emergano nuovi doveri cautelari, la violazione dei quali potrebbe fare sorgere una responsabilità concorsuale colposa, oppure l’innalzamento del livello di doverosa attenzione nei confronti del bene. In altri termini, ai fini della eventuale responsabilità colposa del concorrente, si dovrà chiarire se qualche differenza sussista tra il caso in cui Tizio consegna negligentemente un farmaco scaduto a Caio, il quale viene avvelenato da Sempronio, che ne voleva cagionare la morte, mediante somministrazione in dose eccessiva e mortale del farmaco stesso, ed il caso in cui Sempronio, volendo uccidere Caio, prepara una pozione avvelenata e la versa nel contenitore ove, solitamente, si trova una soluzione sedativa, che dovrà essere somministrata dall’infermiere, il quale, facendo ciò, cagiona la morte di Caio. Nel primo caso, la successione temporale è tra la condotta colposa antecedente e la condotta dolosa susseguente; nel secondo caso, il rapporto è inverso e si pone tra una antecedente condotta dolosa ed una susseguente condotta pericolosa per il bene. Il modo come sono temporalmente scandite le condotte, come contributi alla realizzazione comune, dovrà chiarire se, per caso, si abbia una « strumentalizzazione » della condotta lecita pericolosa da parte dell’agente doloso, oppure quella della condotta volontariamente diretta all’evento da parte dell’altro soggetto, il quale versa nella situazione di pericolo lecito. gli individui, per l’attribuzione, in capo a chi agisce lecitamente, di un dovere generale di attenzione per la salvaguardia di beni da aggressioni volontarie altrui. Ne verrebbe, in contrario, una odiosa estensione del generico precetto del neminem laedere, contrastante una concezione dell’illecito colposo, teleologicamente delimitata dal carattere della imputazione personalistica e dalla considerazione del nesso funzionale tra regola violata e tutela del bene.


— 77 — In ambedue le ipotesi, la capacità originale del soggetto a plasmare la realtà, avvantaggiandosi del contributo altrui per la realizzazione comune, potrebbe condurre all’innalzamento del livello di rischio per il bene tutelato, collocando la condotta non dolosa in una posizione causale maggiormente significativa per l’imputazione dell’evento. Nel caso in cui l’effetto di strumentalizzazione appartiene all’agente doloso, esso non può essere messo in carico al titolare dell’altra condotta. Se ciò avvenisse, sarebbero innumerevoli i principi penalistici violati, a partire da quello di colpevolezza e dall’altro concernente il modo corretto di considerare i nessi obiettivi delle condotte ai fini dell’imputazione dell’evento. Né la strumentalizzazione segnalata può servire ad elevare il livello di rischio della condotta non volontariamente diretta all’evento, in modo da permettere la formulazione di una concreta regola prudenziale da dovere osservare, la quale, peraltro, avrebbe come contenuto, ragionevolmente poco possibile, la eliminazione della condotta volontaria altrui. Altresì, non bisogna tralasciare di osservare che, in questa seconda ipotesi, l’effetto di strumentalizzazione potrebbe trasformare l’atteggiamento subiettivo, originariamente tenuto, nel dolo dell’evento, perché la consapevolezza di aderire con la propria condotta all’azione dolosa altrui, per il modo specifico in cui si pone, conferisce alla condotta un nuovo e diverso significato subiettivo nel senso della volontà dell’evento. I termini della questione si modificherebbero, perché si avrebbe un concorso di persone con condotte tutte dolose (magari con dolo indiretto o eventuale). Rimane una ultima evenienza. La consapevolezza, in colui che pone in essere la condotta lecita pericolosa, di cooperare con l’azione propria all’azione altrui, si ferma al comportamento esteriore nella realizzazione comune, senza interessare il contenuto del volere. Il soggetto coopera con altri, senza avere la consapevolezza che l’azione altrui sia volontariamente diretta alla lesione del bene. Ma anche in questo caso, occorre riconoscere che l’attenzione verso la salvezza del bene richiede, in modo rigido, la eliminazione della condotta altrui. Di guisa che, il pericolo per il bene può essere rimosso solo dall’agente doloso. La lesione appare più intensamente, se non esclusivamente, marcata dal rischio creato dalla condotta dolosa, che da quello riconoscibile nel comportamento lecito pericoloso. In definitiva, il rapporto che si instaura tra le due condotte è tale da escludere che le ragioni teleologiche dell’attribuzione dell’evento possano rinvenirsi nel rischio creato dalla condotta lecita. Quest’ultima si inserisce nella catena causale come condizione assolutamente insignificante rispetto alle ragioni preventive delle norme che puniscono specifiche lesioni colposamente arrecate.


— 78 — Peraltro, se la condotta lecita pericolosa risultasse, per aspetti tutti propri, una condizione necessaria colposa dell’evento, resterebbe aperta la possibilità di una sua valutazione ai fini del giudizio di responsabilità. Se ne può rinvenire un qualche fondamento anche nella ritenuta inapplicabilità del principio di affidamento ai casi in cui l’azione base è illecita, cioè si è posta concretamente contro la salvezza del bene, o perché tale obiettivo è intenzionalmente perseguito, oppure perché si sia già superato il livello di rischio consentito nelle attività pericolose (44). Non può invocare a proprio vantaggio il principio di affidamento all’altrui comportamento conforme a regole il soggetto, che violi una regola giuridica posta a salvaguardia del bene, oppure non rispetti volontariamente una consolidata regola consuetudinaria, tendente al medesimo obiettivo della tutela. L’esempio può essere quello dell’automobilista, il quale, tenendo una velocità sostenuta, investe un passante che attraversa la sede stradale fuori dalle strisce pedonali. La circostanza che il passante abbia violato la regole che gli è propria per l’attraversamento della sede stradale non solleva l’automobilista dalla responsabilità colposa per l’evento accaduto. In altri termini, l’affidamento circa il rispetto delle regole dell’attraversamento stradale da parte dei pedoni non può intervenire a limitare la responsabilità dell’automobilista che violi, a sua volta, le regole relative alla tenuta della velocità adeguata ai fini dell’incolumità delle persone. L’operare del principio di affidamento sul piano della imputazione obiettiva raggiunge l’apprezzabile risultato di limitare, anche nella fattispecie concorsuale, l’ambito della responsabilità colposa per condotte lecite pericolose, in forza delle ragioni teleologiche relative allo scopo delle norme. Deve essere punita soltanto quella condotta che abbia cagionato l’evento attraverso una concreta negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di regola cautelare giuridica. Si deve considerare, adesso, la diversa prospettiva dommatica, la quale interpreta nell’ambito della colpevolezza quelle esigenze di esonero dalla responsabilità, fino ad ora espresse attraverso il principio di affidamento. Del principio si offre una rilettura, alla luce della colpevolezza, rappresentando gli intrecci delle condotte ed i riparti della responsabilità, come governati dal proposto nuovo principio di autoresponsabilità (45). (44) K. KIRSCHBAUM, Der Vertrauensschutz im deutschen Strassenverkehrsrecht, cit., p. 113 ss. e p. 151 ss. (con ampia casistica); M. MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano, a cura di V. MILITELLO, Torino, 1993, p. 107. (45) H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handlungsunrecht und das Prinzip der Selbstwerantwortung der Anderen, Tübigen, 1986. In questa diversa prospettiva sistematica, ancora


— 79 — La concezione dell’uomo come persona capace di libera autodeterminazione reca come conseguenza che ogni soggetto ha la responsabilità propria per il suo agire, la quale è limitata dalla responsabilità altrui. Ciascuno deve rispondere per la violazione del proprio dovere; e questo non può essere modificato dall’innesto di condotte altrui. L’avere spostato verso la colpevolezza la comprensione del nucleo delle esigenze sostanziali riconoscibili nel principio di affidamento ha comportato l’accentuazione dei profili della personalizzazione della responsabilità, non più circoscritta alle ipotesi colpose. I doveri di condotta devono essere individuali e personalizzati: non si può mettere in conto al soggetto dell’illecito il comportamento altrui. Nel significato della Schuldidee, la colpevolezza del fatto segna i limiti della punibilità (46). Quanto possa essere dubbia una eccessiva enfatizzazione della linea individualistico-personale, sopratutto se applicata al concorso di persone, è stato già osservato, segnalando che tutto il sistema della partecipazione è improntato alla considerazione di una responsabilità altrui. In tal guisa, si ritiene che il seguire fino in fondo la indicazione afferente al principio di autoresponsabilità significherebbe la eliminazione della idea della partecipazione criminosa e la necessità di prospettare ipotesi di responsabilità esclusivamente monosoggettiva (47). In verità, nella idea della realizzazione comune è implicito che la condotta del singolo compartecipe perda le sue caratteristiche individuali d’origine, per essere interpretata come contributo all’opera collettiva. Nella prospettiva più specifica che riguarda la responsabilità per colpa, è noto che la esigenza di una dimensione personalistica è urgentemente avvertita, e rappresenta una significativa tappa moderna del prolegata alla concezione della causalità naturale — e, quindi, fuori dalla idea della imputazione obiettiva —, si propone di considerare i problemi emergenti nell’ambito del principio di affidamento, estesi alla compartecipazione criminosa, come legati, invece, alla esigenza della colpevolezza e li si indica afferenti al principio dell’autoresponsabilità (Selbstverantwostung prinzip). L’interesse dichiarato è di esaminare nella prospettiva della funzione del principio di colpevolezza, consistente nell’esonero della responsabilità, i casi degli sviluppi causali verso l’evento, nei quali si inserisca l’azione dell’offeso o di altri. L’ambito della responsabilità che appartiene al singolo e la destinatarietà dei doveri di condotta sono da delimitare, in modo tale che il soggetto non si debba preparare a che altri agiscano, verso terzi o verso se stessi, in modo contrario alle cautele. La colpevolezza del soggetto non può dipendere da comportamenti erronei altrui. (46) Per una applicazione alla tematica concorsuale, cfr. U. STEIN, Die Strafrechtliche Beteiligungsformenlehre, Berlin, 1988, p. 78 ss. (47) Per questa ed altre caustiche critiche al libro di U. STEIN, Die Strafrechtliche Beteiligungsformen, cit., cfr. W. KÜPER, Ein « neues Bild » der Lehre von Täterschaft und Teilnahme, in ZStW., CV, 1993, p. 455 ss. e p. 478.


— 80 — cesso storico dommatico, che ha interessato questo tipo di responsabilità. È imprescindibile che nella condotta da qualificare come colposa debba essere riscontrato quel potere di controllo sul decorso degli avvenimenti che, astrattamente definibile, si coglie nella realizzazione concreta dell’evento. Una concezione della colpa, alla stregua di semplice soggettività, tuttavia, non sarebbe in grado di comprendere appieno la complessità delle ragioni della responsabilità, in ordine alle quali il giudizio di antidoverosità si costruisce nel riferimento a parametri normativi concreti. Nei riguardi dell’evento che si è verificato, l’oggettiva pericolosità della condotta impone una attenzione adeguata alla salvezza del bene, soggettivamente possibile. Se si presta attenzione alla giustificazione della nuova prospettiva sistematica, l’ambito della idea di colpevolezza finisce per essere, forse, un contenitore talmento ampio, da disperdere la incisiva spiegazione della esclusione della responsabilità. Troppi elementi entrano in giuoco nella colpevolezza: la libertà del volere; l’atteggiamento subiettivo proprio; la valutazione delle circostanze in cui si esplica la condotta. Peraltro, l’aspetto della Schuldidee, al quale prestare attenzione, dovrebbe essere quello della valutazione bilanciata delle circostanze, in cui si svolge la condotta, al fine di escludere la sua contrarietà al dovere. Non verrebbe certamente in rilievo l’aspetto della libertà del volere, perché questo non ha mai costituito un topos nella trattazione del principio di affidamento (48). Né è in discussione la forma subiettiva, nella quale si assume la rilevanza della condotta: anche questa non è stata mai oggetto di discorso nella trattazione dei problemi posti dal principio di affidamento. La responsabilità viene meno perché la fiducia dell’altrui comportamento conforme a regole delimita l’ambito oggettivo della cautela cui attenersi per la salvezza del bene (49). Allora, resta da considerare soltanto la proposizione, in base alla quale la impossibilità soggettiva dell’azione adeguata alla salvezza del bene sarebbe segnata dalla influenza delle circostanze oggettive. La prospettiva non cambierebbe, anche se si attribuisse (48) Il profilo, invece, appare enfatizzato nella prospettiva indicata da H. SCHUMANN, Strafrechtliches Handlungsunrecht und das Prinzip der Selbstverantwortung der Anderen, cit., p. 1 ss. e p. 42, in base alla quale il fondamento della responsabilità propria sta nella capacità di libera determinazione del destinatario della norma del dovere. (49) K. KIRSCHBAUM, Der Vertrauenschutz im deutschen Strassenwerkehsrecht, cit., p. 124. La indicazione che la prevedibilità del comportamento erroneo dell’altro serva per dare contenuto al principio di affidamento è sostenuta da G. STRATENWERTH, Arbeitsteilung und ärztliche Sorgfaltspflicht, in Festschrift für E. Schmidt, Göttinegn, 1961, p. 383 ss. Lo stesso KIRSCHBAUM, op. cit., p. 150 e nt. 195, rileva la non univoca posizione della giurisprudenza tedesca al riguardo.


— 81 — alla prevedibilità del comportamento erroneo altrui il ruolo di delimitare l’ambito delle cautele necessarie a salvare il bene. Viene in rilievo ancora il profilo oggettivo della violazione delle regole cautelari da imputare alla lesione del bene, in forza del nesso tra prevedibilità dell’evento e adeguatezza delle misure volte ad evitare il suo verificarsi. Si ritorna, dunque, alla impostazione originaria del problema, la quale fondava l’esonero dalla responsabilità sull’apprezzamento di ragioni obiettive. L’impossibilità normativa del rispetto di una regola cautelare, che consistesse unicamente nella eliminazione del comportamento doloso di altri, esclude che la lesione del bene possa obiettivamente imputarsi a quella condotta. Nella sostanza, i problemi essenziali del principio di affidamento, fino ad ora, rimangono saldamente ancorati alla sponda della imputazione obiettiva dell’evento. L’opposto approdo sistematico verso la colpevolezza appare scontato, invece, in una concezione della causalità, che persista nella prospettiva naturalistica, e sia incapace di valutare lo sviluppo del decorso degli avvenimenti secondo parametri normativi e teleologici. Né lo spostamento sul versante della colpevolezza sembra avere una migliore resa politica, nei riguardi delle garanzie di libertà del cittadino. Lo sviluppo delle esigenze sostanziali del principio di affidamento nel principio di colpevolezza sposta l’attenzione dei limiti di responsabilità, dal lato della oggettiva attendibilità della condotta, all’altro lato della possibilità soggettiva di adempiere al dovere. Al riguardo, è necessario osservare che la storia della legislazione penale insegna che più si accentua la considerazione di istanze soggettivistiche, le quali marchino l’illecito penale nel segno del dovere, maggiore è il pericolo per i diritti di libertà dei cittadini, anche per l’uso disinvolto che la giurisprudenza può compiere della categoria del dovere. Si approderebbe ad una condizione di incertezza nella applicazione delle norme incriminatrici, che contrasta l’opposta esigenza della certezza, la quale, nei tempi attuali, è molto sentita. 6. Le condizioni per una eventuale previsione legislativa della responsabilità concorsuale colposa in fatto doloso. — Gli ostacoli frapposti alla configurabilità di un concorso colposo in fatto doloso non vengono ritenuti insuperabili nella disposizione dello schema di delega per la emanazione di un nuovo codice penale. Si invita il legislatore delegato a valutare la opportunità di una sua ammissione (art. 27 ultima parte), certamente in applicazione del principio metodologico, seguito dalla commissione redattrice del progetto, che il faro della riforma è costituito dalla politica criminale e non dalla dommatica.


— 82 — I limiti alla punibilità, piuttosto che in una particolare concezione del concorso di persone, vanno ricercati in ragioni di scopo attinenti alla possibilità di riconoscere nella condotta le caratteristiche proprie per elevare una responsabilità per colpa. In questa luce, e tenuto conto della realizzazione concorsuale, deve essere approfondito il ruolo programmaticamente svolto dal principio di affidamento nella imputazione colposa dell’evento, al fine di stabilire se la sua validità, a certe condizioni, possa essere esclusa. Si aggiunge, così, un nuovo momento di riflessione sulla consistenza del criterio dell’affidamento, verificato nella particolare dimensione della fattispecie plurisoggettiva. Il punto centrale è questo: nel tenere la condotta lecita pericolosa, ed al fine di fissare lo standard della doverosa cautela per la salvezza del bene, il soggetto deve considerare anche le possibili altrui aggressioni volontarie al bene, oppure deve fidarsi che gli altri non agiscano con dolo? L’interrogativo svela che, in effetti, al problema del concorso colposo in fatto doloso bisogna riferire due distinte situazioni. La prima riguarda il caso in cui il soggetto, potendo prevedere ed evitare l’evento, agisce con tale trascuratezza, per cui, anche senza il contributo doloso del terzo, l’evento si sarebbe potuto verificare egualmente. L’esempio può essere quello della condotta tenuta dal proprietario di una casa di cura, il quale omette di collocare adeguati servizi antincendio, essendovi la possibilità che, per l’intervento doloso di terzi o per altra causa, si sviluppi un fuoco che cagioni lesioni alla incolumità delle persone. Accaduto l’evento lesivo perché taluna ha appiccato il fuoco con intento omicida, la condotta omissiva del proprietario dovrà essere valutata per stabilire una responsabilità colposa a suo carico, nel quadro di partecipazione al fatto doloso altrui. Tutti gli elementi della responsabilità per colpa sussisterebbero anche in assenza di uno schema concorsuale e non considerando la efficienza del contributo doloso. Il fuoco si sarebbe potuto sviluppare per cause diverse dalla condotta dolosa di altri, rimanendo inalterato il senso del contributo negligente nei confronti delle lesioni alla vita ed alla incolumità delle persone. Nella realizzazione comune il contributo colposo non perde la sua fisionomia, sol perché l’altro concorrente ha dolosamente perseguito l’evento verificatosi. Gli effetti della qualificazione concorsuale non si estendono a rimodellare la qualità del contributo, fino ad annullarne le caratteristiche illecite già possedute, ed il contributo doloso non può essere efficace ad interrompere il nesso causale tra la condotta negligente e l’evento. Sarebbe ingiusto addossare l’evento unicamente al contributo doloso, non apprezzando il qualificato rischio creato dall’altro soggetto. Ove la condotta abbia già violato una regola posta alla salvaguardia del bene, non


— 83 — può trovare applicazione il principio di affidamento. Nei limiti della congruenza della regola cautelare violata alle esigenze di tutela del bene, non si possono escludere le ragioni teleologiche della responsabilità. È una conferma della indicata eccezione al principio dell’affidamento, che non può essere reclamato da chi abbia già violato una regola cautelare, nel cui spettro ricade la salvaguardia del bene concretamente offeso (50). L’altra situazione, invece, si riferisce al caso in cui il soggetto tiene una condotta lecita pericolosa, la quale, proprio in forza del concreto contributo doloso altrui, attira su di sé un doveroso esercizio di cautele congruo alla salvezza del bene. Mentre fuori dallo schema concorsuale la condotta sarebbe assolutamente priva di quei connotati che la renderebbero rilevante ai fini della colpa, l’intervento doloso altrui determina una realizzazione comune nella quale i contrassegni delle condotte si devono rimodellare sulla base della fattispecie plurisoggettiva. Trattandosi di ipotesi concorsuale non si cadrà nell’equivoco di considerare le condotte alla stregua del concorso indipendente di cause. Una duplice esemplificazione può servire a segnalare la differenza. Un automobilista, guidando l’auto con una velocità adeguata, investe un passante che improvvisamente era stato spinto, al passaggio dell’auto, da un soggetto che ne voleva cagionare la morte ed a cui il guidatore non aveva prestato alcuna attenzione. Qui è evidente il concorso indipendente di cause, non essendovi alcun elemento da cui trarre la indicazione di una realizzazione comune. Né la mancata percezione dell’aggressione volontaria altrui può essere addebitata a negligenza, perché essa non era visibile. In questo caso, le lesioni o la morte saranno attribuite, rispettivamente, come tentativo di omicidio o omicidio consumato al soggetto che con dolo abbia così agito; quegli eventi, invece, non potranno mai essere imputati come eventi colposi alla condotta dell’automobilista, la quale si è svolta nell’ambito di un rischio che non ha superato la misura consentita, tenendo conto della pericolosità diffusa nell’ambito della circolazione stradale. L’ipotesi concorsuale, invece, può essere esemplificata richiamando lo stesso caso, con la variazione che il guidatore si accorge del comportamento del soggetto che incalza con spintoni ed altre attività aggressive la vittima. Questa particolare circostanza imprime al fatto un significato soggettivo verso la rea(50) All’identico risultato, relativo alla punibilità della negligenza, si perviene considerando il caso alla stregua del concorso indipendente di cause. Il fatto doloso susseguente del terzo, approfondendo il rischio creato dalla condotta colposa, non interrompe il nesso di causalità. Condotta colposa ed azione dolosa sono, così, condizioni entrambe contingentemente necessarie del concreto evento verificatosi.


— 84 — lizzazione comune e costituisce la condizione perché la condotta del guidatore si qualifichi come contributo concorsuale; perciò, dovrà essere verificato se egli, per caso, in forza del quadro di vita percepito, non avrebbe dovuto modulare la velocità dell’auto in modo adeguato alla tutela del bene dell’incolumità delle persone concretamente presenti nell’itinerario. Nella realizzazione comune considerata, l’attenzione verso il bene va stabilita tenendo conto della concretezza dell’accadimento, in linea con i principi della responsabilità per colpa. L’obbligo cautelare non riguarderà la eliminazione della condotta dolosa altrui, dovendosi rivolgere alle condizioni in itinere create dall’aggressione volontaria, in modo da annullarne gli effetti nei riguardi della verificazione dell’evento. In altri termini, per condizioni da stabilire, la considerazione della possibilità dell’agire doloso di un terzo amplia il contenuto della cautela doverosa per la salvaguardia del bene. L’allargamento del contenuto della cautela, rispetto a quanto già precedentemente detto a proposito del principio di affidamento, appare opportuno per apprezzare la condizione di pericolo per il bene scaturente dalla realizzazione comune. L’attribuzione dell’evento deve tenere conto, non soltanto della somma meramente aritmetica dell’insieme delle condotte, ma anche della qualità degli apporti, in rapporto alla teleologia delle norme penali. Nell’apprezzamento dei contributi alla realizzazione comune si dovrà considerare se la condotta lecita pericolosa abbia superato il livello di rischio adeguato, valutando anche la legittimità dell’affidamento a che il bene non venga dolosamente aggredito da altri. Al riguardo, entra in giuoco l’argomento dello scopo di protezione della regola cautelare violata, per ricercare se la salvaguardia del bene imponeva l’accortezza anche verso aggressioni volontarie altrui. Richiamato nella sua generalità, l’argomento di scopo deve essere di volta in volta confrontato rispetto alle singole incriminazioni ed alle specifiche regole cautelari violate (51), considerando, altresì, le relazioni tra le condotte che si intrecciano nel fatto plurisoggettivo. Si precisa, così, un’altra eccezione al principio di affidamento, consistente nel confine posto dal rispetto dello scopo di protezione della regola cautelare. Per la modalità concorsuale della realizzazione, la condotta lecita pericolosa produce un rischio per il bene, del cui livello di tollerabilità l’ordinamento non potrà disinteressarsi. Sarà l’esame dell’accadimento a stabilire che, pur in presenza di una condotta dolosa altrui, l’intervento del(51) 363.

M. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p.


— 85 — l’altro soggetto avrebbe potuto evitare il verificarsi dell’evento, costituendone, così, condizione colposa necessaria. Da un punto di vista oggettivo, residuerebbe l’attesa di un quantum di diligenza, adeguata a salvare il bene, pur in presenza di una collaterale aggressione volontaria. La situazione nella quale si svolge la condotta indica la possibilità di una aggressione volontaria altrui, la quale deve essere tenuta in conto ai fini dell’apprestamento delle migliori cautele per la salvaguardia del bene. Ne potrebbe essere esempio il caso della condotta dell’infermiera, la quale erroneamente somministra un medicinale al posto di quello indicato, anche se poteva accorgersi che il medico chirurgo aveva provveduto alla sostituzione con l’intenzione di realizzare l’evento letale. Che si tratti di situazione concorsuale nessuno potrebbe dubitare. La infermiera ha la consapevolezza di aderire all’azione del medico, senza, per questo, essere in dolo rispetto al verificarsi dell’evento morte. Potendo accorgersi della avvenuta sostituzione del medicamento, ella avrebbe dovuto esercitare ogni più specifica cautela, professionalmente richiestale, al fine di evitare l’evento letale, del quale ben poteva prevedere il possibile verificarsi. Perché il rispetto della regola cautelare possa essere chiesto al soggetto nell’ipotesi considerata, devono essere adempiute talune condizioni. In primo luogo, la realizzazione della volontà della condotta dolosa altrui deve svilupparsi in un certo lasso di tempo. Solo così può sorgere, in capo al titolare dell’altra condotta, il dovere cautelare rivolto a rimuovere gli effetti in itinere verso la verificazione dell’evento, prodotti dall’azione dolosa. Una seconda condizione attiene al rapporto temporale tra le due condotte. Nessuna possibilità di intervenire sugli effetti della condotta dolosa sussisterebbe, se la condotta lecita pericolosa fosse antecedente alla condotta dolosa, oppure si sviluppasse ad evento esaurito. In tal caso, la responsabilità per colpa potrebbe sorgere, solo se la condotta lecita pericolosa, per caratteristiche sue proprie, fosse da giudicare causa concretamente negligente, imprudente, etc. dell’evento. D’altra parte, la consapevolezza della realizzazione comune in chi pone una condizione lecita pericolosa per l’evento postula la antecedenza o concomitanza dell’altro contributo. Se questo fosse successivo, non avrebbe la possibilità di fondare l’elemento soggettivo concorsuale in colui che agisce lecitamente. Pertanto, sarà possibile valutare la condotta lecita pericolosa, soltanto quando essa è successiva o quanto meno concomitante allo svolgersi della volontà dolosa. Né potrebbe entrare in gioco l’art. 41 cpv. c.p., perché il contributo colposo, per il modo del suo inserimento nella realizzazione


— 86 — comune, mai determina un rischio per l’evento, maggiore di quello prodotto dalla condotta dolosa (52). Il contributo colposo rilevante, altresì, deve esplicarsi nella fase esecutiva. Ne restano estranee la fase ideativa e quella preparatoria, perché, trattandosi di condotta colposa, solo l’attività che cagiona l’evento può essere presa in considerazione. La utilità di una disposizione sul concorso colposo in fatto doloso altrui deriva da diverse considerazioni. In primo luogo, il regolamento interverrebbe a colmare una lacuna, in linea con le esigenze di certezza e di determinatezza particolarmente sentite nella redazione della bozza di delega per un nuovo codice penale. Inoltre, impedirebbe che il giudice considerasse il fatto colposo del concorrente alla stregua di una partecipazione dolosa, sulla base dell’elemento soggettivo concorsuale, consistente nella consapevolezza di aderire, con la propria azione, all’azione altrui: conclusione certamente erronea, la quale, tuttavia, viene formulata talvolta. Infine, la previsione della responsabilità concorsuale colposa, rispetto alla considerazione autonoma dei reati, avrebbe il vantaggio di impedire che il fatto doloso del terzo sia sempre in grado di interrompere il nesso causale tra la condotta colposa e l’evento; mentre vi possono essere casi, nei quali una condotta rispettosa delle regole cautelari deve considerare anche la possibilità che il terzo agisca dolosamente (53). Un’ultima questione riguarda la scelta della forma giuridica più congrua alla previsione della responsabilità: se essa vada disposta per singole specifiche fattispecie, oppure, in quanto applicabile a tutti i reati colposi, possa essere contenuta in una clausola generale. La gamma delle soluzioni ipotizzabili è condizionata dall’idea politico-criminale che si abbia della incriminazione. Se si ritiene che si tratti di una eccezione alle regole generali, se ne proporrà un disegno congruamente contenuto (54). La restri(52) Invece, qualora non sia possibile ritenere convertito in una seria realizzazione il contenuto del volere, il successivo contributo colposo attira su di sé l’intero rischio per l’evento ed è la sua unica causa. Al riguardo, si richiama il classico esempio del nipote che invita il vecchio zio nella speranza che egli muoia durante il viaggio, e l’evento si verifica per un incidente addebitabile alla imprudenza del conducente. Mentre sussiste la responsabilità colposa del conducente, è egualmente certa la mancanza di responsabilità del nipote per omicidio doloso. (53) A. PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, cit., p. 20. (54) È la strada percorsa nel progetto di nuovo codice penale a proposito delle previsioni relative alla « agevolazione colposa del reato diverso da quello voluto » (art. 29) ed al « mancato adempimento di reati a mezzo della stampa o trasmissioni radiotelevisive » (art. 31).


— 87 — zione potrà avvenire considerando l’opportunità di riferirsi solo ai delitti, e non anche alle contravvenzioni; oppure, in una prospettiva di maggiore limitazione, predefinendo il tipo di offesa (per esempio, i casi di morte o lesioni di una persona) e/o la classe di attività, cui riferirsi. Invece, qualora la responsabilità colposa del concorrente in fatto doloso altrui venga giudicata conforme ai principi, se ne potrà proporre la previsione in una disposizione generale, la quale indichi le condizioni del suo sorgere. SALVATORE ARDIZZONE Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo


SANZIONI PECUNIARIE E TECNICHE DI CONTROLLO DELL’IMPRESA CRISI E INNOVAZIONI NEL DIRITTO PENALE STATUNITENSE (*)

SOMMARIO: Premessa. — SEZIONE I: TEORIE E PRASSI DELLA PENA PECUNIARIA APPLICATA ALL’IMPRESA NEL SISTEMA STATUNITENSE. — 1. Alle origini del moderno sviluppo delle fines per l’impresa: la soluzione del Model Penal Code. — 2. Il tentativo di superare le aporie delle « fines di impresa » ed il Criminal Fine Enforcement Act del 1984. — 3. Le perduranti carenze della pena pecuniaria: il punto di vista della dottrina. A) Il paradigma economicista di Posner. — 4. (Segue): B) La critica di Coffee: deterrence trap e « effetto di rimbalzo ». — 5. (Segue): C) Il fenomeno della nullification: la disapplicazione giurisprudenziale come argomento critico. — 6. (Segue): D) Le critiche orientate sull’« indifferenza degli azionisti ». — 7. (Segue): E) La teoria della cd. « black box » - La sua critica, orientata sulla divergenza di obiettivi fra proprietà e gestione della persona giuridica. — 8. (Segue): F) Le teorie fondate sull’« agire irrazionale » della persona giuridica. Le singole componenti del paradigma: α) l’« ebrezza da rischio » degli uomini d’affari; β) struttura dell’impresa e comportamenti irrazionali. — 9. (Segue1): G) La tesi della « spiritualizzazione dei fini »: gli obiettivi immateriali perseguibili dall’impresa. — 10. (Segue): H) La critica strutturale. — 11. Le pretese di riforma: a) Il modello della « equity fine » di Coffee-Critica. — 12. (Segue): b) Il modello della « pass-through-fine » - Critica. — 13. La crisi degli anni ’90 ed il disorientamento della prassi. — SEZIONE II: LA SOLUZIONE NORDAMERICANA ALLA CRISI DELLA « FINE D’IMPRESA »: LA RAZIONALIZZAZIONE DEL SENTENCING E IL MODELLO DEI COMPLIANCE PROGRAMS. — 1. Premessa: la riforma della pena pecuniaria d’impresa nel più ampio quadro della Sentencing Reform. — 2. La pena pecuniaria per le persone giuridiche: la ricetta delle Sentencing Guidelines. — 3. (Segue): Le finalità della riforma varata dalla Sentencing Commission. — 4. La struttura del modello commisurativo. — 5. Il fulcro del modello: i compliance programs. — 6. In particolare: i compliance programs ed i loro precedenti - I codici etici. — 7. I meccanismi d’azione dei compliance programs. — 8. I singoli requisiti: (1) la capacità di ridurre la possibilità di commettere reati. — 9. (Segue): (2) La scelta dei vigilantes. — 10. (Segue): (3) La selezione dei dipendenti: il criterio della « propensione al reato ». — 11. (Segue): (4) Le tecniche di comunicazione pedagogica. — 12. (Segue): (5) I meccanismi di controllo e i canali d’informazione interna. — 13. (Segue): (6) L’apparato disciplinare. — 14. (Segue): (7) Compliance programs e modelli premiali: la valorizzazione del postfatto. — 15. Considerazioni conclusive. I compliance programs come criterio di corresponsabilizzazione della persona giuridica: i benefici. — 16. (Segue): I costi. Gli effetti preterintenzionali della corresponsabilizzazione.

(*) Questo scritto costituisce una parte di uno studio monografico, in corso di elaborazione, sul problema della responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto italiano e comparato.


— 89 — Premessa. — In Europa si assiste ad un progressivo sgretolamento del dogma tradizionale « l’uomo e non l’ente può commettere reati ». Anche in ordinamenti ove il principio « societas delinquere non potest » sembrava ben radicato e inattaccabile, la constatazione che, di fatto, sempre più spesso è la « societas » a potere e a volere « delinquere », ha portato ad adottare delle disposizioni che sanzionano l’impresa autrice di reati. In Portogallo la responsabilità penale delle persone giuridiche è prevista da diverse disposizioni del diritto penale accessorio (1); in Francia, il nuovo codice penale del 1994 ha accolto e dato attuazione dopo un travaglio di certo non indolore (2), al principio della responsabilità penale dell’ente morale (3). Ad un livello più generale, la Raccomandazione, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 1988 invita gli Stati membri a « promuovere l’adozione di misure finalizzate a rendere le imprese responsabili per i reati commessi nell’esercizio della loro attività, indipendentemente dai regimi di responsabilità civile in vigore, cui queste raccomandazioni non si applicano » (4). Questa nuova tendenza a colpire direttamente le persone giuridiche non deve peraltro indurre ad opzioni frettolose ed irrazionali pro o contra una criminalizzazione dell’ente: qualunque presa di posizione richiede infatti studi approfonditi ed ampie riflessioni. Una rimeditazione di questa spinosa tematica può partire dall’analisi dell’ordinamento statunitense, da sempre osservatorio privilegiato per questo tipo d’indagine (5). Qui la responsabilità penale della persona giuridica è oggetto di speculazione su due versanti: un primo approccio si occupa dei criteri d’imputazione di tale responsabilità all’ente (6); un secondo si indirizza invece (1) Cfr. DE FARIA COSTA, Contributo per una legittimazione della responsabilità penale delle persone giuridiche, in questa Rivista, 1993, p. 1255 ss. (2) Cfr. AA.VV., La responsabilité pénale des personnes morales, Atti del Convegno di Limoges, 11 maggio 1993, in Les Petites Affiches, n. 120, 1993. (3) Cfr. art. 121-2 cod. pén.: « Gli enti morali, con esclusione dello Stato, sono penalmente responsabili, in base alle disposizioni previste dall’art. 121-4 all’art. 121-7 cod. pén. e nei casi previsti dalla legge o dai regolamenti, dei reati commessi per loro conto da parte dei loro organi o rappresentanti ». (4) Cfr. Raccomandazione N.R. (88) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa - 20 ottobre 1988, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, p. 656. (5) Per una ricostruzione del dibattito statunitense sulla tematica della responsabilità penale delle persone giuridiche cfr. per tutti COFFEE, Corporate Criminal Responsibility, voce in Enc. Crime Justice, vol. I, 1983, p. 253 ss. (6) Cfr. KADISH-PAULSEN, Criminal Law and Processes, 6a ed., in corso di stampa.


— 90 — sull’apparato sanzionatorio applicabile alla persona giuridica e individua le sanzioni più idonee a neutralizzarne la carica di offensività. Ed è su questo terreno che intendiamo svolgere l’analisi, se è indubbio che, come è stato dimostrato, le sanzioni rappresentano il cuore di un sistema penale, il banco di prova del suo funzionamento (7). Come vedremo, nell’ordinamento statunitense si sta attuando una vera e propria rivoluzione copernicana nelle tecniche sanzionatorie utilizzate per il controllo della criminalità d’impresa: la sanzione penale diretta a colpire la persona giuridica ha subito nel corso del tempo una metamorfosi radicale: non si limita più al tradizionale impatto preventivo-afflittivo, ma arriva addirittura a plasmare la struttura interna della società, condizionandone lo stesso statuto. Scopo di questo lavoro è dunque la ricostruzione della parabola della sanzione privilegiata per la criminalità d’impresa: dal tradizionale sistema punitivo alle nuove tecniche invasive della struttura aziendale. Anche in vista di un’eventuale riforma, lo studio di questa esperienza rappresenta un passaggio obbligato.

SEZIONE I TEORIE E PRASSI DELLA PENA PECUNIARIA APPLICATA ALL’IMPRESA NEL SISTEMA STATUNITENSE

1. Alle origini del moderno sviluppo delle fines per l’impresa: la soluzione del Model Penal Code. — Negli Stati Uniti, la dottrina tradizionale considera la pena pecuniaria come il mezzo classico e più adeguato per fronteggiare la responsabilità penale della persona giuridica (8). Quanto alla giurisprudenza, secondo un orientamento anche recente, la « fine » sarebbe addirittura l’unica sanzione adatta alla struttura della persona giuridica. Si afferma infatti che « (...) poiché non avrebbe senso applicare una pena detentiva (...) » (9) « né tantomeno la pena di morte alla persona giuridica (...) » (10), « (...) l’unica sanzione possibile sia sul

(7) Cfr. sul punto BAUMANN, in AA.VV., Metodologia e princìpi fondamentali della riforma del diritto penale, 1981, p. 312 ss. e di recente FIANDACA, Relazione introduttiva, in Valore e princìpi della codificazione penale, Atti del Convegno, Firenze, 1993. (8) Su quest’orientamento dottrinale cfr. per tutti STONE, Where the Law Ends, 1975, p. 36. (9) People v. Mature Enterprises Inc., in 382 N.E.2d, 1974, p. 706. (10) State v. Chapman Dodge Center Inc., in 428 So.2d, 1983, p. 419.


— 91 — terreno penale che su quello civile è perciò rappresentata dal pagamento di una somma di denaro » (11). Il Model Penal Code ha riservato una disposizione relativa alle Fines specificamente destinate alla persona giuridica. Infatti la Section 6.04 stabilisce: « La Corte può sospendere la sentenza di condanna per reato a carico di una società o di una associazione o può condannarla al pagamento di una pena pecuniaria prevista dalla sezione 6.03 ». La sezione 6.03 M.P.C. (Fines) dispone: « La persona condannata per reato può essere obbligata al pagamento di una pena pecuniaria non superiore a: (1) 10.000 $, in caso di condanna per crimine di primo o secondo grado; (2) 5.000 $, in caso di condanna per crimine di terzo grado; (3) 1.000 $, in caso di condanna per delitto; (4) 500 $, in caso di delitto bagatellare o di contravvenzione; (5) qualunque somma più elevata sempreché equivalente al doppio del guadagno patrimoniale che il soggetto attivo ha ricavato dal reato; (6) qualunque somma più elevata specificatamente autorizzata dal singoli Statuti ». Il M.P.C. non prevede dunque pene pecuniarie specifiche per le persone giuridiche: la sez. 6.04 si limita a dettare la regola generale dell’applicazione delle pene pecuniarie alle imprese, rinviando alla norma precedente per la determinazione dei minimi e dei massimi edittali, individuabili a seconda della gravità dei reati. Si deduce che la sez. 6.03 ha come destinatari sia le persone fisiche che le persone giuridiche; il termine « persona » (person) deve perciò essere inteso in senso omnicomprensivo, riferito cioè ad entrambe le categorie di soggetti attivi. Ma è soprattutto in relazione all’applicazione delle sanzioni pecuniarie a carico delle persone giuridiche che la sez. 6.03 M.C.P. è stata per lungo tempo al centro del dibattito. Il tetto massimo di pena recepito dalle leggi di applicazione di alcuni Stati (12) è infatti, specialmente negli ultimi anni, oggetto di critiche serrate per la sua inadeguatezza a prevenire e a reprimere il comportamento criminoso delle persone giuridiche. La con(11) Melrose Distilleries, Inc. v. United States, in 79 S.Ct, 1959, p. 766. (12) Connecticut; Hawaii; Indiana; Ohio; Utah; Washington; Maryland; Massachussetts; Michigan; Oklahoma; Vermont; West Virginia. Cfr. Model Penal Code and Commentaries, Part I - General Provisions, 1985, sub § 6.03, p. 61.


— 92 — statazione che alcuni statuti abbiano adottato un tetto massimo superiore a quello previsto dal M.C.P. per i reati più gravi (13), e che un numero considerevole di legislazioni abbia specificatamente previsto per le persone giuridiche un tetto massimo di fine piuttosto elevato (14) non è riuscita a contenere le critiche e a compensare le insoddisfazioni. La criminalità dell’impresa ha assunto negli ultimi anni dimensioni così drammatiche e forme di aggressione così perniciose da esigere risposte urgenti e adeguate alla gravità dell’offesa. Le pene massime del M.C.P., varate nel maggio del 1961, si rivelano oramai del tutto inconsistenti se non addirittura risibili, né ci si può accontentare dei ritocchi predisposti dalle legislazioni dei singoli Stati, che non sono altro che deboli correttivi, inidonei a contrastare l’impatto durissimo della criminalità delle persone giuridiche. In particolare, la dottrina dominante degli anni ’80 non riconosce alle fines alcuna capacità deterrente e retributiva (leggi: di prevenzione generale e di proporzione alla responsabilità): una pena che assolva a questi scopi deve innanzitutto calarsi nella realtà e nelle dinamiche delle imprese moderne, in cui la commissione di un reato può venir considerata niente di più di una forma di manifestazione — soltanto un po’ più aggressiva — del capitalismo, e quindi essere accettata come una sua fisiologica espressione (15). Ne segue, che la pena pecuniaria viene ritenuta come il prezzo necessario, il pedaggio che si deve pagare se si vogliono realizzare affari vantaggiosi, se ci si vuole imporre sul mercato (16). Inoltre, pene così basse come quelle previste dalla legge sono assolutamente insignificanti rispetto agli enormi profitti che l’impresa moderna è normalmente in grado di conseguire (17). (13) Florida $ 15.000; New Mexico $ 15.000; Pennsylvania $ 25.000; South Dakota $ 25.000; California $ 25.000. Va peraltro notato che in alcuni Stati il tetto massimo di pena pecuniaria è inferiore rispetto a quello fissato dal M.P.C.: Colorado $ 500; Iowa $ 5.000; Nebraska $ 2.500; Tennessee $ 5.000. Per questi dati cfr. Model Penal Code, cit., p. 61, nt. 11. (14) Alaska $ 100.000; Arizona $ 1.000.000; Arkansas $ 30.000; Delaware $ 10.000; Kentucky $ 20.000; Maine $ 50.000; Montana $ 10.000; New Hampshire $ 50.000; New Jersey $ 300.000; New York $ 10.000; North Dakota $ 50.000; Oregon $ 50.000; Texas $ 10.000 per qualunque crimine; Utah $ 10.000. Cfr. Model Penal Code cit., p. 61, nt. 14. (15) Cfr. sul punto ORLAND, Reflections on Corporate Crime: Law in Search of Theory and Scholarship, in Am. Crim. L. Rev., 1980, p. 511. (16) Cfr. NOTE, Corporate Probation Conditions: judicial Creativity or Abuse of Discretion?, in Fordham L. Rev., 1984, p. 639. (17) Cfr. tra gli altri FISSE, Reconstructing Corporate Criminal Law: Deterrence, Retribution, Fault, and Sanctions, in South. Cal. L. Rev., 1983, p. 1217.


— 93 — Anche l’esame della giurisprudenza degli ultimi anni non fa che confermare questo atteggiamento; risalgono peraltro alla fine degli anni ’70 i casi che hanno decisamente portato sul banco degli imputati le fines. Si pensi ad esempio alla condanna a soli 3.000 $ della Transit Lines Inc., una grossa azienda di trattori, per l’omicidio colposo di tre persone ed il danneggiamento di quattordici auto dovuta alla installazione nei mezzi di freni difettosi (18). Si consideri anche la condanna nel 1979 a soli 31.500 $ del Glendale Convalescent Center, una casa di cura per anziani per l’omicidio colposo di un paziente di 78 anni e per omissione dolosa di assistenza ad altri 58 pazienti, dovute all’inadeguatezza dei sistemi di controllo, alla scarsità e cattiva qualità degli alimenti, ed alla insufficienza di strutture igieniche (19). Infine si consideri la condanna nel 1980 a soli 2.000 $ della Mc Ilwain School Bus Line, una nota compagnia di autobus per l’omicidio colposo di una bambina di sei anni, che scesa dall’autobus, era stata dallo stesso travolta. Come afferma la sentenza, l’autobus era privo di « uno speciale specchio obbligatorio per tutti i veicoli destinati al trasporto di bambini » (20). Una particolare attenzione va dedicata al caso « Ford Pinto », destinato a divenire forse una delle decisioni più significative e discusse in tema di responsabilità penale dell’impresa (21). Nell’agosto del 1978 tre ragazze decidono di fare una gita in macchina. Sulla strada statale diretta verso l’Indiana del nord la loro auto viene investita nella parte posteriore da un furgoncino ed è in pochi secondi avvolta dalle fiamme. Due delle ragazze, intrappolate nell’auto muoiono istantaneamente; la conducente viene trasportata ancora in vita all’ospedale con ustioni di terzo grado sul 95% del corpo e muore poche ore dopo. Sin dalle prime indagini gli inquirenti si rendono conto che non si tratta di un « incidente normale ». Infatti, il pavimento anteriore dell’auto è completamente inzuppato di benzina; inoltre il furgone presenta danni trascurabili, il suo conducente è solo lievemente ferito e si appura che al momento dell’incidente guidava a bassa velocità. Ma la Ford Pinto è orribilmente devastata sul retro. Esclusa la responsabilità dell’autista del furgone, la « Ford Company » viene imputata di omicidio colposo. L’accusa rileva che l’auto Ford Pinto presenta un pericoloso difetto di fabbricazione: il serbatoio è infatti piazzato vicino al paraurti posteriore e rischia perciò di bucarsi in seguito ad un tamponamento anche leggero; la conseguente perdita di carburante può portare ad un incendio dell’auto anche quando la velocità non sia sostenuta. La morte delle tre ragazze è perciò dovuta — secondo l’accusa — alla difettosa fabbricazione della Pinto (22). L’obiezione più consistente della difesa fa perno su di un problema di succes-

(18) La decisione è riportata in CULLEN-MAAKESTAD-CAVENDER, Corporate Crime under Attack. The Ford Pinto Case and beyond, 1987, p. 316. (19) Cfr. State v. Screbin, in 350 N.W.2d, 1984, p. 65. Per un commento della decisione cfr. SCHUDSON-ONELLION-HOCHSTEDLER, Nailing an Omelet to the Wall: Prosecuting Nursing Home Homicide, in HOCHSTEDLER (a cura di), Corporations as Criminals, 1984, p. 131 ss. (20) Commonwealth of Pennsylvania v. McIlwain School Bus Lines Inc., in 423 A.2d, 1980, p. 414. (21) Il caso Ford Pinto è interamente riportato e commentato in CULLEN-MAAKESTADCAVENDER, Corporate Crime, cit., p. 145 ss. (22) Cfr. CULLEN-MAAKESTAD-CAVENDER, Corporate Crime, cit., p. 257 ss.


— 94 — sione di leggi penali nel tempo (23). La norma sull’omicidio colposo — si afferma — è entrata in vigore nel codice dell’Indiana nell’ottobre 1977. Peraltro solo il 1o luglio 1978 (41 giorni prima dell’incidente in esame) la fattispecie di omicidio colposo è stata modificata parificando alle ipotesi commissive già disciplinate, quelle omissive. Ed il capo di imputazione a carico della Ford Corporation è stato predisposto utilizzando quest’ultima formulazione, mentre la difettosa progettazione e costruzione dell’auto risale al 1973. Anche se c’è stata colpa — conclude la difesa — il principio costituzionale dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole elimina ogni responsabilità della persona giuridica. Il processo si conclude con un verdetto di non colpevolezza della persona giuridica. La dottrina e l’opinione pubblica, più che dal risultato, vengono colpite dall’arroganza e dall’indifferenza dimostrata durante il processo dai dirigenti della Ford Motor Company rispetto all’eventualità di una condanna della persona giuridica ad una pena pecuniaria. « A dire il vero, la Ford rischia di subire soltanto una pena irrisoria: il massimo di pena pecuniaria e cioè 30.000 $ — 10.000 per ciascun omicidio colposo —. Dal momento che la Ford è una persona giuridica non può, come invece i singoli individui, essere sottoposta a pena detentiva. E una pena pecuniaria di 30.000 $ è assolutamente insignificante per la quarta impresa del mondo » (24).

È chiaro che i tempi sono maturi per una riforma legislativa che riabiliti le pene pecuniarie riattribuendo loro caratteristiche generalpreventive adeguate. 2. Il tentativo di superare le aporie delle « fines di impresa » ed il Criminal Fine Enforcement Act del 1984. — La risposta arriva con il Criminal Fine Enforcement Act del 1984 (25). Questa legge viene emanata allo scopo di « rendere le pene pecuniarie più severe, potenziarne l’utilizzazione in alternativa o in aggiunta alla pena detentiva, facilitarne il pronto e pieno pagamento (...) e infine rendere più efficaci i meccanismi di riscossione in caso di insolvenza da parte dell’imputato » (26). Il punto centrale della legge è rappresentato dal § 3623 introduttivo delle « pene pecuniarie alternative » (Alternative Fines): si tratta di sanzioni pecuniarie con un tetto massimo che eccede di gran lunga le pene previste dai singoli statuti federali. Invece di modificare ciascun statuto, il Congresso ha optato per la creazione di una nuova fattispecie che si è sostituita alle disposizioni emanate dai singoli Stati (27). I nuovi livelli mas(23) Ibidem, p. 282. (24) CULLEN-MAAKESTAD-CAVENDER, Corporate Crime, cit., p. 179 s. (25) Act 30 ottobre 1984, Pub. L. n. 98-596, 1984, U.S. Code Cong., 98 Stat. 3134. (26) Cfr. Criminal Fine Enforcement Act Leg. History Pub. L. n. 98-596, 1984, U.S. Code Cong., 5433. (27) Il § 3623 (Alternative Fines) dispone:


— 95 — simi di pena pecuniaria sono perciò i seguenti, per curiosità da noi sintetizzati in uno specchietto riassuntivo: persona fisica

persona giuridica

— crimine .................................................................... 250.000 $ — delitto da cui deriva la morte della persona offesa 250.000 $ — delitto da cui non deriva la morte della persona offesa, punibile con pena detentiva non inferiore a 6 mesi, ma non superiore ad un anno ...................... 100.000 $ — delitto da cui non deriva la morte della persona offesa, punibile con pena detentiva non inferiore a 30 gg., ma non superiore a 6 mesi ............................. 5.000 $ — delitto da cui non deriva la morte della persona offesa, punibile con pena detentiva superiore a 5 giorni ma inferiore a 30 giorni .............................. 5.000 $ — contravvenzione ...................................................... 5.000 $

500.000 $ 500.000 $

Reato

200.000 $

10.000 $

10.000 $ 10.000 $

a) Un individuo condannato per reato può essere sottoposto a pena pecuniaria non superiore: (1) al limite specificatamente previsto dalla legge per il reato; (2) al limite previsto dalla sottosezione c) di questa sezione; (3) a 250.000 $ in caso di crimine; (4) a 250.000 $ in caso di delitto da cui deriva la morte della persona offesa; (5) a 100.000 $ in caso di delitto punibile con pena detentiva non superiore a sei mesi. b) Una persona giuridica (piuttosto che un individuo) condannata per reato può essere sottoposta a pena pecuniaria non superiore: (1) al limite specificatamente previsto dalla legge per il reato; (2) al limite previsto dalla sottosezione c) di questa sezione; (3) a 500.000 $ in caso di crimine; (4) a 500.000 $ in caso di delitto da cui deriva la morte della persona offesa; (5) a 100.000 $ in caso di delitto punibile con pena detentiva non superiore a sei mesi. c) (1) Se l’imputato ha ottenuto un guadagno finanziario dal reato, o se il reato comporta un danno finanziario per altri, potrà essere punito con una pena pecuniaria non superiore alla maggiore tra quella che rappresenta il doppio del guadagno complessivo e quella che rispecchia il doppio della perdita complessiva, sempreché l’applicazione di una pena pecuniaria prevista da questa sottosezione non complichi o prolunghi ingiustificatamente il processo di commisurazione. (2) Salvo quanto altrimenti disposto, il cumulo di pene pecuniarie imposte all’imputato per reati diversi, commessi contestualmente, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e che non causano tipi di offesa o di danno separabili o distinguibili, è equivalente al doppio dell’ammontare della pena pecuniaria applicabile al reato più grave. Sulla struttura delle alternative fines cfr. BRICKEY, Corporate and White Collar Crime, 1990, p. 615 s.; IDEM, Corporate Criminal Liability. Cumulative Supplement, 1991, p. 6 s.


— 96 — Per la prima volta il legislatore ha tenuto distinte le sanzioni pecuniarie destinate alle persone fisiche da quelle previste per le persone giuridiche, stabilendo per queste ultime pene molto severe. Questa opzione politico-criminale viene così motivata nei lavori preparatori: « Le persone giuridiche hanno di solito risorse economiche molto più consistenti dei singoli: il pagamento di una somma di denaro adeguata a svolgere efficacia retributiva e preventiva nei confronti di una persona fisica può non essere sufficiente per un’impresa; (...) inoltre, visto che la persona giuridica non può essere sottoposta a pena detentiva, è giusto colpirla con pene pecuniarie più pesanti. (...) D’altra parte le sanzioni monetarie rappresentano l’unico mezzo efficace contro la criminalità dell’impresa » (28). Tra le disposizioni specificatamente create per le persone giuridiche, suscita particolare interesse il § 3622(a)(9) che individua i criteri di cui bisogna tener conto nella fase di commisurazione della pena pecuniaria: il giudice deve perciò considerare « la dimensione della persona giuridica, tutte le misure adottate dall’impresa per disciplinare l’attività di funzionari, direttori, impiegati o agenti dell’ente responsabile del reato, nonché tutte le precauzioni adottate al fine di prevenire la recidiva ». Inoltre si segnala il § 3565(f) in virtù del quale, « in caso di condanna di una persona giuridica ad una pena pecuniaria, ciascun soggetto autorizzato a compiere il pagamento per la persona giuridica ha il dovere di effettuare il versamento prelevandolo dal patrimonio dell’ente ». Si tratta di una disposizione diretta a snellire le procedure di riscossione impedendo che la persona giuridica tramite i suoi rappresentanti frapponga ostacoli al pagamento, rifiutandosi con qualche espediente di ottemperare (29). Inoltre la disposizione vieta ogni possibilità di indennizzo da parte della persona giuridica in caso di insolvenza dei dirigenti e soci condannati ad una pena pecuniaria, a meno che non ci sia una esplicita legge dello Stato che lo consenta (30). Infine il Fine Act disciplina anche un’ipotesi di inesecuzione dolosa del pagamento di una pena pecuniaria da parte dell’impresa; si tratta di una disposizione completamente nuova per la legge federale (31), emanata allo scopo di rendere più sicuro il procedimento di riscossione, scoraggiando qualsiasi velleità di aggiramento (32).

3. Le perduranti carenze della pena pecuniaria: il punto di vista della dottrina. — Il Fine Enforcement Act è entrato in vigore il 1o novem(28) Criminal Fine Enf. Act., Leg. History, cit., p. 5448. (29) Cfr. Criminal Fine Enf. Act, Leg. History, cit., p. 5441. (30) Cfr. 18 U.S.C. § 3565 (Supp. II 1984): « In caso di condanna della persona giuridica a pena pecuniaria o ad altra sanzione monetaria, ciascun soggetto autorizzato ad effettuare gli esborsi per conto dell’organizzazione ha l’obbligo di provvedere al pagamento prelevando le somme dal patrimonio della persona giuridica. In caso di condanna a sanzione pecuniaria di un direttore, funzionario, impiegato o agente della persona giuridica, il pagamento non dovrà essere effettuato in via diretta o indiretta utilizzando i fondi dell’organizzazione, salvo che ciò sia espressamente previsto dalla legge dello Stato ». (31) Cfr. Criminal Fine Enf. Act, Leg. History, cit., p. 5445. (32) Cfr. 18 U.S.C. § 3621 (Supp. II 1984) in base al quale la persona giuridica che « volontariamente si sottrae al pagamento di una sanzione pecuniaria (...) è punita con pena pecuniaria non superiore alla maggiore tra quella che ammonta a 250.000 $ e quella che rappresenta il doppio della pena pecuniaria non versata ».


— 97 — bre 1987 (33). Ma, a dispetto delle aspettative, le nuove modifiche introdotte non sono riuscite a depurare le Fines dai caratteri dell’inefficacia e dell’ingiustizia. La dottrina, in particolare, non ha fatto che ripetere e confermare le critiche elaborate prima della riforma del 1984, enfatizzandone i punti cruciali. Sembra perciò opportuno riportare i termini del dibattito sin dalle prime battute. A) Il paradigma economicista di Posner. — Parte delle obiezioni si focalizza sul paradigma economicista autorevolmente elaborato — tra gli altri — da Posner (34). Questa impostazione parte dal presupposto che le persone giuridiche siano massimizzatori di profitti e di utili e che non commettano un reato se dalla sua realizzazione non derivi un qualche guadagno all’impresa (35). Da questa premessa scaturisce la convinzione che soltanto le sanzioni pecuniarie siano in grado di scoraggiare il comportamento criminoso della persona giuridica. Non solo: secondo l’approccio economicista la sanzione monetaria, oltre a svolgere il classico effetto deterrente, sarebbe in grado di indurre la persona giuridica a predisporre tutti gli accorgimenti ed i meccanismi organizzativi interni necessari ad impedire la commissione di un nuovo reato. Invero, secondo questa teoria, la capacità delle fines di promuovere procedure di autoregolamentazione all’interno dell’impresa sarebbe di certo più efficace di qualsiasi presidio di controllo che si intrometta dall’esterno, perché imposto dal giudice: solo la persona giuridica è infatti consapevole di tutte le carenze organizzative e dei punti deboli della gestione e sa perciò dove e come intervenire per porre i rimedi (36). Da qui il rifiuto netto di utilizzare sanzioni diverse da quelle monetarie, come il probation, ritenuto indebitamente intrusivo nella struttura della persona giuridica (37). In base a questo paradigma, l’effetto deterrente massimo si ottiene solo se il costo che deriva dall’applicazione della pena che la persona giuridica si prospetta in caso di realizzazione del reato (cd. expected punishment cost) è superiore al profitto che l’impresa ritiene di ricavare dalla (33) Cfr. BRICKEY, Corporate Criminal, cit., p. 8. (34) Cfr. sul cd. Neo-Classical Economics Approach POSNER, Economic Analysis of Law, 3a ed., 1986, p. 205 ss.; BECKER, Crime and Punishment: An Economic Approach, in J. Pol. Econ., 1968, p. 169 ss. (35) Cfr. POSNER, Economic Analysis, cit., p. 205 s. Per un’esposizione della teoria degli economisti cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines for Organizational Defendants, in Vanderbilt L.R., 1993, p. 203 ss. (36) Cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 204. (37) Cfr. POSNER, Economic Analysis, cit., p. 398.


— 98 — commissione del fatto criminoso (38). Per quantificare questo « expected punishment cost » bisogna tener conto di due fattori: α) il quantum di pena pecuniaria; β) la frequenza della sua applicazione. La necessità di dover far riferimento oltre che all’entità della pena anche all’elemento della « frequenza », deriva dalla constatazione dell’inadeguatezza dell’apparato investigativo che non dispone né di uomini né di mezzi sufficienti a combattere il corporate crime. La probabilità che una persona giuridica sia scoperta, perseguita e condannata sono infatti inferiori all’uno per cento (39). E allora, se le chances di essere inquisiti dall’autorità giudiziaria sono così basse, la previsione di pene anche molto elevate non basta a distogliere la persona giuridica dalla commissione del reato (40). È necessario elevare il cd. expected punishment cost ad un livello di gran lunga superiore al guadagno previsto, in modo da controbilanciare i bassi rischi di condanna. « Se per esempio il guadagno che ci si prospetta è pari a un milione $ ed il rischio di essere scoperti è del 25%, la pena deve essere elevata a 4 milioni $ in modo da compensare con il costo che l’applicazione della pena comporta il guadagno che si prevede di ottenere il reato » (41). 4. (Segue): B) La critica di Coffee: deterrence trap e « effetto di rimbalzo ». — L’impostazione di Posner è stata attaccata negli anni ’80 da Coffee, cui si deve l’elaborazione dell’importante teoria dell’« effetto trappola della deterrenza » (cd. deterrence trap) (42). Recepita anche dalla dottrina più recente (43), questa teoria è stata uno dei cavalli di battaglia contro l’uso della fine tradizionale nei confronti della persona giuridica. Vediamo i passaggi più importanti di questa elaborazione. In primo luogo Coffee sottolinea come il paradigma degli economisti possa risultare efficace solo se applicato ai singoli individui, mentre l’ef(38) Per un’analisi del concetto di « expected punishment cost » cfr. COFFEE, « No Soul to Damn. No Body to Kick »: An Unscandalized Inquiry into the Problem of Corporate Punishment, in Mich. L. Rev., 1981, p. 389; IDEM, Making the Punishment fit the Corporation: The Problems of Finding an Optimal Corporation Criminal Sanction, in Northern Illinois U.L.R., 1980, p. 7 s. (39) Cfr. sul punto MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 204. (40) Cfr. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations: Alternative Fining Mechanisms, in Cal. L. Rev., 1985, p. 447 s. (41) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 389. (42) Cfr. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 389 ss.; IDEM, Making the Punishment, cit., p. 7 ss. (43) Cfr. per tutti MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 207.


— 99 — fetto deterrente sbiadisce qualora la formula posneriana abbia come destinatari le persone giuridiche. Infatti, secondo l’Autore, solo il singolo è in grado di avvertire l’effetto stigmatizzante di una condanna, che invece non sfiora in modo significativo una struttura inanimata come quella della persona giuridica (44). L’impostazione di Coffee merita, sul punto, di essere subito ridimensionata; essa sottovaluta l’importanza che oggigiorno ha l’‘immagine’ anche per la persona giuridica. Sono ormai superate le teorie degli anni ’70 che consideravano colpite dagli strali della ‘stigma’ solo le persone fisiche appartenenti al ceto medio (45). Ora anche le imprese con cospicui capitali tengono alla propria immagine a tal punto da investire ingenti somme di denaro in campagne di promozione e di propaganda (46). Ma veniamo al punto centrale della teoria di Coffee. L’Autore sottolinea la debolezza dell’impostazione posneriana che, ineccepibile sul piano teorico, cede sul terreno dell’efficacia: la pena pecuniaria che colpisce la persona giuridica può lievitare a livelli altissimi ma non deve superare il limite della capacità patrimoniale dell’impresa, se non si vuole annullarne l’effetto deterrente (47). In altre parole, la teoria di Posner, tra i criteri di individuazione della pena, non inserisce quello relativo ai limiti patrimoniali dell’impresa, di cui invece bisogna pur tener conto se non si vuole applicare una sanzione che, perfetta sulla carta, crolli sul versante dell’effettività. L’effetto deterrente di una fine di 50.000 $ sarà infatti equivalente a quello di una fine di 500.000 $, se in entrambi i casi le somme richieste sono superiori alle disponibilità patrimoniali dell’impresa! « Si consideri ad esempio una persona giuridica con un patrimonio di 10.000.000 $ che ha la prospettiva di un guadagno di 1.000.000 $ con la commissione di un reato; questo comportamento non potrà essere sanzionato con una pena pecuniaria qualora il rischio di essere scoperti è per l’impresa inferiore al 10%. Se infatti le probabilità di un perseguimento penale fossero equivalenti all’8% la pena necessaria dovrebbe arrivare a 12.500.000 $. Ma si tratta di una pena pecuniaria che eccede le reali possibilità di pagamento dell’impresa » (48).

Invero, la possibilità di cadere nella « deterrence trap » è un rischio che incombe esclusivamente sulla persona giuridica: si tratta di un possi(44) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 389. (45) Su questa impostazione cfr. NAGIN-BLUMSTEIN, The Deterrent Effect of Legal Sanctions on Draft Evasions, in Stan L. Rev., 1977, p. 243 ss. (46) Come dimostra FISSE, Reconstructing Corporate Criminal Law, cit., p. 1153. (47) Cfr. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 390. (48) Ibidem.


— 100 — bile effetto collaterale collegato alla morfologia e alla struttura dell’impresa. Il problema non si pone infatti qualora il condannato sia il singolo individuo: in caso di sua insolvibilità c’è sempre la rete di salvataggio del meccanismo di conversione delle pene pecuniarie in pene detentive (49). L’importanza dell’individuazione di questa barriera in grado di soffocare ogni aspirazione di deterrenza della pena è dovuta anche alla considerazione che i reati commessi dalla persona giuridica, a differenza di quanto capita per i reati comuni, sono facilmente occultabili: le vittime molto spesso non si rendono conto di essere tali, non sono consapevoli di aver subito un’offesa. Come afferma Coffee « Il soggetto passivo di un illecito accordo di fissazione dei prezzi raramente sa di aver pagato in eccesso; il consumatore di un prodotto malsano, tossico e cancerogeno non è mai consapevole dei rischi che corre (...) » (50). Ciò rende pressante la necessità di adottare sanzioni pecuniarie severe: ma una pena, per essere efficace, non deve solo essere elevata, ma deve essere adeguata alle possibilità economiche dell’impresa, in modo — è questo l’obiettivo — di essere adempiuta. Il principale attacco alle fines generatrici di ingiustizia e di inefficacia si radica però nella convinzione che le pene pecuniarie, oltre a colpire la persona giuridica, investano anche dei soggetti innocenti, che non sono responsabili delle scelte di politica aziendale, perché non fanno parte del gruppo dirigente che decide la gestione interna dell’organizzazione ed i rapporti con l’esterno. « Quando la persona giuridica si prende un raffreddore, starnutisce qualcun altro » (51): così Coffee esemplifica ironicamente l’« effetto rimbalzo » delle fines (il cd. overspill) che, invece di limitarsi ad aggredire la persona giuridica, travolge anche gli interessi di terzi incolpevoli. Individuato fin dagli anni ’60 da autorevole dottrina come un’irrimediabile menomazione dell’efficacia delle fines (52), questo fenomeno è stato lamentato anche di recente come un risultato dell’applicazione delle pene pecuniarie talmente perverso, da annullarne tutte le caratteristiche positive (53). L’« effetto rimbalzo » delle fines si riverbera — (49) Ibidem. (50) COFFEE, Making the Punishment, cit., p. 8. (51) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 401. (52) Il rischio dell’« effetto rimbalzo » delle pene pecuniarie su terzi innocenti è stato segnalato tra i primi da KADISH, Some Observations on the Use of Criminal Sanctions in Enforcing Economic Regulations, in U. Chi. L. Rev., 1963, p. 433 s. (53) Cfr. sul punto FISSE, Howard’s Criminal Law, 5a ed., 1990, p. 597.


— 101 — secondo la dottrina dominante — su livelli diversi, con risultati progressivamente sempre più devastanti (54). Nel mirino sono in primo luogo gli azionisti, che devono tollerare la diminuzione di valore delle azioni di loro proprietà; anche agli obbligazionisti tocca assistere ad una svalutazione dei loro titoli per effetto della situazione di pressione che si abbatte sulla persona giuridica (55). Si ribatte sul punto che le fines non fanno altro che privare gli azionisti dell’ingiusto arricchimento derivato dall’attività illecita perseguita dalla persona giuridica (56). Secondo gli economisti l’effetto overspill sugli azionisti è infatti una mera invenzione, un mito privo di agganci alla realtà (57). Invero, quando un azionista — seppur estraneo al gruppo che decide le strategie dell’impresa — acquista delle azioni che possono arrecargli dei vantaggi che derivano da un comportamento illecito, si assume realisticamente il rischio di una condanna che può abbattersi sulla persona giuridica (58). L’effetto overspill si può infatti verificare solo quando la persona giuridica sta godendo dei vantaggi di una condotta illecita. Le fines non fanno perciò che restaurare l’equilibrio violato: la categoria degli azionisti ha ingiustamente beneficiato degli effetti dell’attività illegale, e la fine viene a compensare il danno che è stato arrecato, eliminando i benefici indebitamente ottenuti (59). Anche una parte minoritaria della giurisprudenza appare insensibile all’argomento dell’innocenza degli azionisti. Si consideri ad esempio una decisione del 1977 in cui la Law King Inc. Corporation viene condannata al pagamento di una pena pecuniaria di 120.000 $ per aver violato la normativa antitrust dello Stato del New Jersey. Secondo la Corte « l’imputato si è impossessato con manovre illecite del denaro pubblico e lo ha utilizzato per interessi interni dell’azienda » (60). La decisione sottolinea come la difesa abbia sollecitato una pena mite, poiché « una sanzione pecuniaria severa potrebbe pregiudicare definitivamente il futuro della società e avere un impatto ne-

(54) Cfr. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 457. (55) Cfr. COFFEE, Making the Punishment, cit., p. 6. (56) Sulla teoria dell’ingiusto arricchimento degli azionisti cfr. MCADAMS, The Appropriate Sanctions for Corporate Criminal Liability: An Eclectic Alternative, in U. Cin. L. Rev., 1977, p. 994 s. (57) Cfr. sul punto METZGER-SCHWENK, Decision Making Models, Devil’s Advocacy, and the Control of Corporate Crime, in Am. Bus. L.J., 1990, p. 328 s. (58) Per queste osservazioni v. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 452. (59) Cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 207. (60) Cfr. State of New Jersey, Plaintiff v. Lawn King, Inc., in 377 A.2d, 1977, p. 1216.


— 102 — gativo nei confronti dei terzi che hanno a che fare con la Law King Corp. e che operano in tutto il Paese. I giudici hanno inoltre ricevuto varie lettere da parte degli azionisti che fanno presente come una pena pesante potrebbe riflettersi negativamente sui loro interessi » (61). Ma la risposta della Corte a questo invito alla clemenza è decisamente drastica: « È assolutamente naturale che in ipotesi di antitrust le imprese coinvolgano nei loro affari anche soggetti innocenti. L’imposizione di una pena pecuniaria sul soggetto attivo ha sempre un risvolto negativo su quelle persone che agiscono nell’orbita della persona giuridica. Ma sarebbe irragionevole pretendere che la Corte imponga una sentenza mite sul soggetto attivo solo perché mossa dal proposito di non danneggiare i terzi incolpevoli. Avrebbe più senso che queste parti innocenti, che hanno ricevuto dei profitti dall’attività illecita dell’impresa, contribuissero al pagamento della pena pecuniaria che grava sulla stessa! » (62).

In realtà, come sottolinea parte della dottrina, il vero effetto overspill più che sugli azionisti si abbatte invece su altre categorie di innocenti, completamente estranee ai giochi di politica d’impresa e non beneficiarie — neppure indirettamente — dei proventi dell’attività criminosa. Sono i creditori, gli impiegati della società ed i consumatori i veri bersagli incolpevoli delle fines (63). I creditori subiscono i contraccolpi di un terremoto finanziario che fa diminuire o vanificare le loro pretese creditizie (64). Quanto agli impiegati. In seguito all’irrogazione di una fine pesante, la persona giuridica può essere costretta a modificare le strategie di imposizione dei suoi prodotti sul mercato; gli obiettivi dell’impresa possono essere ridimensionati a causa della diminuzione della capacità produttiva. L’espansione della persona giuridica può paralizzarsi: le assunzioni rischiano così di diminuire o bloccarsi e il licenziamento divenire una necessità (65). La persona giuridica, infine, per compensare le perdite finanziarie dovute all’esborso delle fines può cercare di rifarsi alzando i prezzi dei prodotti offerti in vendita sul mercato, ed è così che verranno danneggiati irrimediabilmente anche i consumatori (66). 5.

(Segue): C) Il fenomeno della nullification: la disapplicazione

(61) State of New Jersey, Plaintiff v. Lawn King, Inc., cit., p. 1219. (62) Ibidem. (63) Cfr. RUSH, Corporate Probation: Invasive Tecniques for Restructuring Institutional Behaviour, in Suffolk U.L. Rev., 1986, p. 455. (64) Cfr. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 455. (65) Cfr. sul punto COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 401 s. (66) Ibidem.


— 103 — giurisprudenziale come argomento critico. — Un corollario degli « effetti perversi » del cd. overspill è rappresentato dalla tendenza — registrata nella prassi — a non applicare alle persone giuridiche pene pecuniarie severe. Questa riluttanza rappresenterebbe la risposta dei giudici all’ingiustizia che deriva dall’applicazione delle fines. In altre parole, la giurisprudenza si rifiuterebbe di applicare pene eccessive, proprio per non incorrere nell’inconveniente di colpire ingiustamente soggetti innocenti (67). Peraltro, su queste ragioni di equità, generatrici del fenomeno del cd. nullification, la giurisprudenza tende a non dilungarsi e a mantenere invece un contenuto riserbo. Le Corti si limitano cioè a determinare la pena, senza però spiegare il perché della diminuzione, i motivi della scelta verso il minimo sanzionatorio. Come afferma un Autore: « I dati sulla determinazione della pena in concreto, quando sono riportati nelle decisioni, non sono accompagnati da alcun dettaglio fattuale, oppure, sono caratterizzati da indicazioni scarse » (68). Un’eccezione a questo atteggiamento della prassi è data da una decisione del 1969, in cui la J.B. Kramer Grocery Company viene imputata per adulterazione di sostanze alimentari, in violazione della legge del 1938,21 U.S.C.A. § 301, in materia di « prodotti alimentari, farmaci e cosmetici » (69). La motivazione sottolinea che « (...) la mitezza della Corte nella determinazione della pena si basa sul convincimento che imporre una sanzione pesante alla persona giuridica verrebbe a frustrare ogni sforzo diretto ad incrementare il volume degli affari ponendosi così in contrasto, alla lunga, con la stessa ratio delle disposizioni violate » (70). Ma si tratta di un caso isolato. Il più delle volte le decisioni si limitano laconicamente ad affermare che « la pena pecuniaria deve essere ridotta » (71). L’interprete viene così privato della possibilità di cogliere i passaggi principali e le ragioni profonde che retrostanno a questa presa di posizione. Si potrebbe scorgere in questa omissione la volontà di far passare inosservati determinati meccanismi, perché ritenuti scontati, superflui e comunque non degni di attenzione. In realtà, come (67) Sulle caratteristiche dell’effetto « nullification » cfr. per tutti MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 207. (68) Così KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 456. (69) Cfr. United States v. J.B. Kramer Grocery Co., in 294 F. Supp., 1969, p. 65 ss. (70) United States v. J.B. Kramer Grocery Co., cit., p. 66. (71) Cfr. per tutte People v. Nature Enterprises Inc., in 323 N.E.2d, 1974, p. 705, in cui una casa cinematografica viene imputata di proiezione di pellicole oscene per aver trasmesso in un locale il film « Gola Profonda ». In base alle disposizioni di legge vigenti, la persona giuridica rischia una pena pecuniaria di 300.000 $. Ma la Corte opta per una pena più lieve.


— 104 — sottolinea la letteratura che è andata a fondo sull’argomento (72), questa sorta di depenalizzazione processuale ha coperto casi clamorosi. Secondo Elzinga e Breit, negli anni ’50 il processo contro il cd. Heavy Electrical Equipment, relativo « alle più gravi violazioni della legge anti-trust di tutti i tempi » (73), si è concluso con la condanna di ciascuna persona giuridica coinvolta, al pagamento di 16.550 $. La General Electric ha subito la condanna più grave: 437.500 $, equivalente peraltro solo allo 0,1% dei suoi profitti totali (74)! Inoltre gli stessi Autori sottolineano come negli anni ’70 il Dipartimento della Giustizia abbia raccomandato alle Corti di applicare il tetto massimo di pena pecuniaria solo in meno di un terzo dei casi di condanna (75). Il fatto è che alla base di questo orientamento giurisprudenziale non si intravvede solo l’intenzione di non applicare sanzioni che ricadono in larga misura su terzi estranei. È chiaro che i giudici risentono delle pressioni politiche e delle tendenze ideologiche che provengono dal contesto sociale. « Anche se un giudice adamantino decide di imporre sanzioni severe, l’imputato-persona giuridica può cercare di dissuaderlo paventando le conseguenze catastrofiche e orchestrando una reazione politica. Lo scenario non è difficile da immaginare. Saputo che la Corte intende applicare una fine di 25 milioni $, la persona giuridica informa politici, funzionari e dirigenti che potrebbe essere costretta a chiudere gli impianti attivati nelle loro comunità. La reazione è immediata, si forma una coalizione politica per difendere i posti di lavoro minacciati. In breve, la Corte è inondata da lettere, telefonate da parte di politici, articoli di giornali (...). Poche Corti riescono a resistere a pressioni del genere (...) » (76).

La magistratura deve perciò fare i conti con il consenso sociale che — come è noto — è assolutamente inconsistente quando ci si cala nelle manifestazioni di criminalità dei colletti bianchi. Come è stato evidenziato, si tratta infatti di una criminalità caratterizzata da « una scarsissima visibilità sociale, persino da parte delle sue vittime » (77), tant’è che molto spesso si tende a far confluire i reati economici nella categoria dei (72) Cfr. su questa scottante problematica BLOCK-SIDAK, The Cost of Antitrust Deterrence: Why not Hang a Price Fixer Now and Then?, in Geo. L.J., 1980, p. 1131 ss. (73) KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 457. (74) Cfr. ELZINGA-BREIT, The Antitrust Penalties, 1976, p. 56. (75) Ibidem, p. 1. (76) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 406 s. (77) PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p. 915, cui si rinvia per l’approfondimento della tematica del consenso sociale e dei suoi rapporti con la scienza della legislazione penale.


— 105 — reati senza vittima. Inoltre, la posizione sociale elevata rivestita dai soggetti attivi — a maggior ragione quando l’autore non è un singolo, ma una persona giuridica famosa e importante che dà prestigio allo Stato e lavoro a migliaia di persone — induce la collettività ad una sorta di accettazione, se non addirittura ad un’approvazione dei comportamenti illeciti (78), di cui non riesce e non vuole captare la carica di offensività. Il consenso sociale, già flebile, si volatizza definitivamente allorché — come nel contesto che ci occupa — oltre a non percepire l’aggressione al bene giuridico — si avvertono soltanto gli effetti negativi di una condanna: l’ingiustificato abbattersi su soggetti innocenti. 6. (Segue): D) Le critiche orientate sull’« indifferenza degli azionisti ». — Se il fenomeno del cd. « rimbalzo » su terzi può minare profondamente l’efficacia delle pene pecuniarie, anche un atteggiamento di assoluta « indifferenza » degli azionisti rispetto all’applicazione di una fine sull’impresa può annacquare l’effetto deterrente della pena. Una parte della dottrina evidenzia invero come esista un sinallagma funzionale tra azionisti e dirigenti che deve essere tenuto presente perché una sanzione diretta all’impresa risulti efficace (79). Purtroppo, la struttura ed i meccanismi attuali delle fines aventi come destinatari le persone giuridiche non sono sufficientemente sofisticati per far sì che questo collegamento — che dovrebbe essere automatico ai fini dell’effettività della sanzione — si verifichi sempre. Infatti, alcuni azionisti possono essere sfiorati neppure indirettamente dai risvolti negativi dell’applicazione di una fine: ciò si verifica ad esempio perché essi posseggono un numero limitato o di scarso valore di azioni, sicché non risentono finanziariamente in modo sensibile dell’effetto overspill; oppure perché, essendo detentori di un pacco consistente di titoli, la perdita che si verifica può essere controbilanciata da altri vantaggi finanziari (80). In questo caso, l’indifferenza degli azionisti genera l’apatia del gruppo dirigente che decide la politica dell’impresa. Qualora dalla base non si sollevino le critiche e non si manifestino le preoccupazioni, il ver(78) Cfr. sul punto PALIERO, Consenso sociale, cit., p. 916. (79) Sul pericolo che un atteggiamento di « indifferenza » degli azionisti e del gruppo dirigente rispetto all’applicazione di una sanzione pecuniaria diminuisca l’efficacia deterrente e riabilitativa della pena cfr. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 458 ss. (80) Cfr. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 459.


— 106 — tice avvertirà in modo più flebile l’effetto deterrente della pena e sarà meno motivato a modificare le strategie aziendali. Se invece gli azionisti reagiscono all’applicazione di una pena pecuniaria esprimendo pubblicamente il loro disappunto nei confronti del gruppo dirigente, piuttosto che risolvendosi a vendere addirittura le azioni di loro proprietà, ecco che l’effetto deterrente e riabilitativo delle fines sulla persona giuridica sarà maggiormente incisivo (81). 7. (Segue): E) La teoria della cd. « black box » - La sua critica, orientata sulla divergenza di obiettivi fra proprietà e gestione della persona giuridica. — Un’ulteriore serrata critica all’inefficacia delle Fines a reprimere adeguatamente gli illeciti penali commessi dall’impresa ha per oggetto l’impostazione economicista che considera la persona giuridica come una « scatola nera » (la teoria della cd. black box). Questa teoria vede la persona giuridica come un organismo compatto, inanimato, in cui non sono percepibili diversità di aspirazioni tra impresa e dipendenti e tutto è programmato per la realizzazione di uno scopo univoco (82). Gli studiosi dei comportamenti aziendali hanno invece messo in luce come possano essere rintracciabili divergenze e contraddizioni tra le finalità della persona giuridica e quelle dei singoli. Infatti, nelle imprese moderne le funzioni sono altamente specializzate e i compiti rigorosamente divisi: i singoli possono perciò perdere di vista l’obiettivo comune e concentrarsi sugli obiettivi personali. Il rischio è quello di arrivare a violare la legge per raggiungere scopi individuali che contrastano con l’interesse della persona giuridica (83). I casi tratti dall’esperienza e riportati dalla dottrina sono illuminanti. I dirigenti medi possono ad esempio falsificare i dati relativi all’inquinamento causato da un impianto per evitarne la chiusura, anche quando il mantenimento di quella struttura, oltre che dannoso per la salute pubblica, non reca particolari profitti alla persona giuridica: ciò allo scopo esclusivo di salvare la loro reputazione personale (84). Inoltre i singoli individui possono essere spinti a commettere un reato per ot(81) Sul punto v. KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 460. (82) Per un’analisi critica delle caratteristiche e dei difetti del modello della « black box », cfr. STONE, Where the Law Ends, cit., p. 35 ss. (83) Per la messa a fuoco di questo approccio cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 208. (84) Per un’esemplificazione di come gli obiettivi del personale possano divergere dagli scopi della persona giuridica cfr. FISSE, Reconstructing Corporate Criminal Law, cit., p. 1216.


— 107 — tenere una promozione, un avanzamento di carriera piuttosto che un premio in denaro; per evitare un licenziamento possono arrivare a nascondere degli errori commessi nelle fasi di progettazione o di esecuzione di un lavoro, manipolando così le decisioni relative alla linea politica dell’impresa (85). Inoltre, studi di parte della dottrina sostengono che, a dispetto di quanto affermato dagli economisti, i dirigenti non sono massimizzatori di profitti (86): nel decidere le strategie d’impresa essi non vagliano analiticamente tutte le possibilità e le proposte, propendendo quindi per quella ottimale per la persona giuridica — quella cioè che le assicura i benefici economici più elevati ed i costi minori —; scelgono invece la prima che possa soddisfare le minime aspettative. I dirigenti sono perciò dipinti da questa teoria come soggetti che, contrariamente a quanto comunemente si pensa, non mirano affatto alla massimizzazione dei profitti dell’impresa: ciò che loro soprattutto preme è che i minimi risultati siano garantiti. La soluzione migliore non è perciò quella più vantaggiosa per la persona giuridica ma quella che, assicurando la realizzazione delle istanze minimali, comporta la minor perdita di tempo, il maggior risparmio di energie finanziarie ed umane, il minor impegno. Agli occhi di questi soggetti — travolti dagli affari e posti di fronte a disposizioni di legge diverse e tra loro malcoordinate — la soluzione più semplice e che garantisce la sufficienza dei livelli può perciò coincidere con quella che comporta il salto nell’illegalità, richiedendo manipolazioni e falsificazioni dei dati reali (87). 8. (Segue): F) Le teorie fondate sull’« agire irrazionale » della persona giuridica. Le singole componenti del paradigma. — L’« irrazionalità comportamentale » della persona giuridica è un ulteriore argomento portato dalla dottrina per dimostrare l’inadeguatezza delle pene pecuniarie tradizionali a prevenire e reprimere la criminalità dell’impresa (88). Tale irrazionalità propria della persona giuridica si manifesterebbe su due piani diversi: α) quello relativo al comportamento dei singoli all’interno della persona giuridica; β) quello riguardante la struttura stessa della persona giuridica (89). (85) Cfr. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 393. (86) Lo sottolineano METZGER-SCHWENK, Decision Making Models, cit., p. 341. (87) Per queste considerazioni cfr. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 395 s. (88) Sui caratteri di irrazionalità ed imprevedibilità che qualificherebbero la persona giuridica cfr. METZGER-SCHWENK, Decision Making Models, cit., p. 342 ss. (89) Per questa distinzione cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 209.


— 108 — α) l’« ebrezza da rischio » degli uomini d’affari. — Studi approfonditi hanno evidenziato come gli uomini d’affari che svolgono attività all’interno di un’impresa siano affetti da una sindrome particolare denominata « ebrezza da rischio » (il cd. « risky shift ») (90). Il fenomeno, riconducibile ad una patologia simile a quella che affligge i giocatori d’azzardo, colpisce solo i dirigenti che operano in gruppo, mentre non ne sono contagiati quelli che operano nel mondo degli affari a titolo individuale. L’« ebbrezza da rischio » fa sì che questi soggetti manifestino una particolare propensione a compiere le azioni più pericolose, ad agire sul filo del rasoio, a praticare manovre azzardate che spesso superano i confini della legalità. In altre parole, l’agire in gruppo renderebbe queste persone più baldanzose, maggiormente inclini a sopravvalutare le possibilità di successo ed a sottovalutare le percentuali di insuccesso (91). Non è facile orizzontarsi sulla validità di questi dati. È molto probabile — a nostro avviso — che la carica di ottimismo che pervade l’uomo d’affari inserito in un’impresa e non illumina invece l’imprenditore che lavora in proprio sia dovuta alla feroce competitività che caratterizza certi importanti ambienti economico-finanziari, in cui si impongono le regole del cd. « capitalismo d’assalto ». Ma anche la scarsa probabilità di essere scoperti che caratterizza la criminalità dell’impresa contribuisce a rafforzare questa inclinazione. La consapevolezza di poter agire con alte probabilità di impunità certamente rende questi soggetti più temerari e favorisce atteggiamenti avventuristici che non recano beneficio all’organizzazione e sono in aperto contrasto con la legge (92). β) Struttura dell’impresa e comportamenti irrazionali. — Anche la struttura della persona giuridica ed il metodo interno di gestione possono — secondo recenti studi — favorire prese di posizione irrazionali da parte dell’impresa, atte a sfociare nella commissione di reati che la carica preventiva e afflittiva delle fines non è in grado di controllare (93). Le imprese moderne sono infatti caratterizzate da una struttura verticistica e gerarchica. La compartimentazione e la divisione dei compiti possono essere utilizzate per snellire e rendere meno complicata l’attività di gestione. La divisione del lavoro in microorganismi — ognuno specializzato in un (90) Per un’analisi delle caratteristiche del cd. « risky shift », cfr. M. SHAW, Group Dynamics: The Psychology of Small Group Behaviour, 1976. (91) Cfr. sul punto COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 395. (92) Cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 209. (93) Cfr. METZGER-SCHWENK, Decision Making Models, cit., p. 345 ss.


— 109 — ben definito settore — può comportare una ridotta comunicazione tra gruppi facenti parte della medesima impresa, o può addirittura generare una certa diffidenza e rivalità tra di essi. Il fenomeno del « parrocchialismo » è infatti un effetto indesiderato ma quasi inevitabile della compartimentazione intraziendale (94). È prevedibile allora che un soggetto inserito in un sottogruppo faccia di tutto per mettere in buona luce il microorganismo cui appartiene, arrivando addirittura a manipolare dati della realtà e a tenere un comportamento sleale nei confronti dell’impresa. « Così gli ingegneri che lavorano ad un progetto possono appassionarsi ad esso a tal punto da sopprimere elementi negativi che hanno scoperto » (95), prima di sottoporli ai propri superiori. Inoltre la dottrina sottolinea come questa struttura decentralizzata delle moderne imprese favorisca la commissione dei reati da parte dei dirigenti-medi, mentre è difficile che gli alti-dirigenti siano coinvolti in prima persona in attività criminose (96). Infatti, il sistema della divisione dei compiti fa sì che ai vertici spetti lo studio e la predisposizione delle strategie d’impresa, lo stabilire le percentuali dei profitti e le quote di produzione, mentre ai dirigenti medi venga affidata totalmente l’attività di controllo su queste operazioni (97). Vi è dunque una separazione netta tra le due sfere dirigenziali. Può allora accadere che i vertici richiedano ai quadri intermedi la realizzazione di programmi che, perfetti sulla carta, si rivelano poi irrazionali o impraticabili. Gli alti-dirigenti cioè, chiusi nella loro torre d’avorio, spesso non si curano delle difficoltà pratiche che invece la realizzazione comporta, né tantomeno vedono gli ostacoli legali che si possono frapporre alla messa in atto dei loro progetti. Essi decidono l’obiettivo da perseguire, mentre la scelta dei mezzi e dei modi più adatti per raggiungerlo viene lasciata completamente alla discrezionalità dei dirigenti medi (98). La concretizzazione delle proposte dei vertici può perciò spesso implicare, oltre che difficoltà di ordine puramente tecnico-pratico, anche la necessaria violazione della legge penale (99). (94) (95) (96) 348 ss. (97) (98) (99)

Su questi fenomeni cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 209. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 396. Cfr. sul punto l’analisi di METZGER-SCHWENK, Decision Making Models, cit., p. Cfr. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 397. Ibidem, p. 398. Sul punto, Metzger-Schwenk, Decision Making Models, cit., p. 349 s.


— 110 — Comincia così la manovra di pressione sul dirigente medio (100). Egli è infatti pienamente consapevole che se non risolverà il problema nel minor tempo possibile e secondo le aspettative dei vertici, potrà essere sostituito da qualcun altro più zelante rispetto ai desideri dei massimi dirigenti, anche se meno rispettoso della legalità. Condizionato dall’atmosfera di competitività che si respira nel mondo degli affari e che travolge ogni etica professionale, è molto probabile che egli scelga la via dell’illegalità: meglio il rischio di una condanna dell’impresa che si risolverebbe solo indirettamente sulla sua posizione piuttosto che l’elevato rischio che lo riguarda personalmente di cadere in disgrazia agli occhi dei massimi dirigenti, di essere dall’oggi al domani avvicendato nel suo incarico, o addirittura di venir licenziato o costretto alle dimissioni (101). Questo il motivo di fondo — afferma la dottrina — che spiega le ragioni per cui la criminalità dell’impresa si radica prevalentemente nell’ambiente dei dirigenti medi e di quelli di base, mentre è più raro che questa tipologia delittuosa coinvolga in prima persona i massimi dirigenti (102). E d’altra parte, i vertici fanno di tutto per mantenere le distanze dai livelli inferiori e non essere minimamente coinvolti nelle operazioni di controllo; la compartimentazione all’interno dell’impresa funge da perfetto schermo protettivo e li difende dai meccanismi di imputazione della responsabilità penale individuale, consentendo loro, peraltro, di beneficiare dei vantaggi che derivano all’impresa dai reati commessi da altri (103). 9. (Segue): G) La tesi della « spiritualizzazione dei fini »: gli obiettivi immateriali perseguibili dall’impresa. — L’inadeguatezza delle Fines a colpire le manifestazioni della criminalità dell’impresa si avverte, a detta di parte della dottrina, in modo particolarmente eclatante se si considera che molte persone giuridiche non perseguono esclusivamente degli obiettivi finanziari, ma anche degli scopi immateriali, che non sono necessariamente collegati all’incremento dei profitti (104). Ci sono anzi delle per-

(100) Sul fenomeno dell’intensa pressione esercitata dai vertici dell’impresa sui dirigenti medi cfr. SHORRIS, The Oppressed Middle: Politics of Middle Management, 1981. (101) Cfr. COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 399. (102) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 397. (103) Così afferma COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 400. (104) Sul fatto che le grandi società si muovano nel mondo degli affari spinte da motivazioni non necessariamente economiche cfr. BERLE, The American Economic Republic, 1963, p. 200 ss.


— 111 — sone giuridiche, come chiese e università, che hanno di mira la realizzazione esclusiva di obiettivi di tipo non finanziario (105). Gordon, uno studioso delle persone giuridiche, in un’interessante opera risalente al 1945, ha messo a fuoco tutti gli obiettivi non strettamente monetari perseguibili dall’impresa; e questa rassegna sembra ancora attuale per l’approfondimento della materia. Secondo questo A., gli obiettivi non finanziari cui i dirigenti dell’organizzazione possono ambire sono ben sette: il desiderio di potere; la voglia di prestigio; la necessità di identificarsi in un gruppo; l’istinto creativo; il bisogno di sicurezza; l’ebbrezza dell’avventura; l’istinto assistenziale e filantropico (106). Naturalmente può sempre darsi che vi sia un intimo collegamento tra scopo non finanziario e scopo monetario, con un effetto di trascinamento dell’uno nell’altro (107). Ma il punto cruciale sta nella constatazione che segue: una sanzione veramente efficace deve essere in grado di colpire e di neutralizzare anche gli obiettivi non materiali: e non sembra proprio che le Fines, già così bersagliate da critiche per la loro inefficienza a reprimere la criminalità volta ad ottenere vantaggi in denaro, siano in grado di coprire anche quegli interessi così impalpabili e inafferrabili che con il denaro non hanno nulla a che vedere (108). Secondo Fisse, qualora le pene pecuniarie siano in grado di raggiungere anche questi obiettivi, riusciranno solo a lambirli, a colpirli indirettamente; la loro efficacia sarà in ogni caso sbiadita, perché non ci sarà un impatto diretto, severo e deciso su queste finalità (109). 10. (Segue): H) La critica strutturale. Un’ultima questione riguarda l’incapacità delle sanzioni pecuniarie di modificare la struttura interna di una persona giuridica da cui è dipesa la violazione del precetto penale (110). Si afferma infatti che il più delle volte non è sufficiente che la persona giuridica paghi una pena pecuniaria anche severa per evitare una sua ricaduta in futuro nel reato. La fine può al momento esercitare una funzione afflittiva, di restaurazione dell’ordine economico violato. Ma è (105) (106) (107) (108) 1156 s. (109) (110)

Cfr. FISSE, Reconstructing Criminal Law, cit., p. 1155. GORDON, Business Leadership in the Large Corporation, 1945, p. 305 s. Ibidem. Per queste considerazioni cfr. FISSE, Reconstructing Criminal Law, cit., p. FISSE, Reconstructing Criminal Law, cit., p. 1216. Cfr. sul punto FISSE, Reconstructing Criminal Law, cit., p. 1217.


— 112 — spesso necessario, per evitare la recidiva, che sia messo in moto un processo di revisione della gestione dell’impresa, una sorta cioè di « rieducazione » della persona giuridica. In altre parole, oltre alla pena pecuniaria, in determinati casi appare necessario che la persona giuridica modifichi in tutto o in parte determinati meccanismi della sua struttura; può risultare indispensabile l’adozione di misure correttive interne e l’utilizzazione di nuovi sistemi di controllo dell’attività del personale e del modo di impostare la programmazione della gestione (111). Ma le fines, da sole, non riescono a coprire questa area d’intervento, a raggiungere sempre questo obiettivo. È chiaro che con l’applicazione di una pena pecuniaria si lancia alla persona giuridica il messaggio di modificare i meccanismi di gestione interna. Ma sta alla persona giuridica raccogliere o meno questo messaggio, tradurlo in pratica o meno (112). La sfera di capacità d’intervento delle fines non può — per caratteristiche e limitazioni dovute alla loro struttura — arrivare a tal punto (113). « In breve, imponendo una pena pecuniaria, le Corti lasciano alle imprese piena libertà, confidando che esse predispongano adeguati controlli interni, ma questa fiducia resta per lo più delusa proprio perché gli imputati, con il loro comportamento criminoso, hanno dato prova di non esserne degni » (114). 11. Le pretese di riforma. — Questa è, dunque, la visione della scienza penalistica nord-americana sulla capacità delle fines di esercitare una funzione repressiva e preventiva sulla criminalità dell’impresa: il pessimismo cosmico sembra dominare incontrastato. Le critiche sono costanti, i difetti delle pene pecuniarie superano di gran lunga i pregi, e non sembra che la riforma del 1984 sia riuscita a migliorare la situazione: le aspettative sono rimaste completamente deluse; anzi, la dottrina ha, negli ultimi tempi, rinforzato il tiro nei confronti delle fines, richiedendo con urgenza nuove riforme. E sono di questi anni le due principali proposte dottrinali relative all’introduzione di nuovi meccanismi di applicazione delle pene pecuniarie predisposti allo scopo di colpire con maggiore efficacia la persona giuridica. (111) Ibidem. (112) Sull’inadeguatezza delle Fines a costringere la persona giuridica a modificare la struttura interna cfr. HOPKINS, The Impact of Prosecution Under the Trade Practices Act, 34, 1978, p. 20 ss. (113) È questa la posizione scettica di STONE, Where the Law Ends, cit., p. 57. (114) FISSE, Reconstructing Criminal Law, cit., p. 1217.


— 113 — Vale la pena di accennarvi brevemente. a) Il modello della « equity fine » di Coffee-Critica. — Si deve a Coffee l’elaborazione di un sistema alternativo di pagamento delle pene pecuniarie da parte della persona giuridica (115). È interessante notare innanzitutto come l’A. non ritenga necessario abbandonare il terreno delle fines, optando per uno strumento sanzionatorio totalmente eterogeneo. In altre parole, Coffee non delegittima la sanzione pecuniaria in se, contestandola come mezzo inidoneo a contrastare la criminalità della persona giuridica: la proposta dell’A. verte invece sul meccanismo di versamento delle fines da parte dell’impresa: ed è su queste modalità di riscossione che si innesta la sua critica e si inserisce la nuova formula da lui studiata. Coffee propende per la sostituzione del sistema tradizionale, caratterizzato dal pagamento in contanti, con un sistema nuovo — il cd. « equity fine » — in cui il pagamento delle pene pecuniarie avviene con le azioni della persona giuridica. Secondo l’A. la persona giuridica condannata deve versare delle azioni dello Stato che, a sua volta, provvede ad immetterle nei fondi destinati al risarcimento delle vittime. È compito di questi fondi mettere in vendita le azioni sul mercato. « Il numero delle azioni versate dalla società deve equivalere alla pena pecuniaria base, tenuto conto delle variazioni di valore che le azioni avranno sul mercato finanziario » (116). Quali i vantaggi di questo nuovo sistema? Innanzitutto, secondo Coffee, l’effetto primario e fondamentale del meccanismo proposto sarebbe quello di eliminare il cd. overspill nei confronti delle categorie dei creditori e impiegati. Verrebbe infatti ridotto il danno sociale perché non si avvertirebbero crisi di liquidità tali da bloccare la produzione o assottigliare il capitale (117). Peraltro — è questo il nodo cruciale — rimarrebbero comunque colpiti dall’effetto di rimbalzo gli azionisti: si avrebbe quindi di certo un miglioramento rispetto al sistema del pagamento delle fines in contanti, ma non certo la soluzione di tutti i problemi connessi alle fines (118). Inoltre Coffee sostiene che il modello dell’equity fine sarebbe in grado di risolvere o quantomeno di contenere in modo sensibile il fenomeno della nullificazione giurisprudenziale (119). Peraltro non è possibile che la cd. nullification cessi per miracolo per effetto dell’applicazione dell’equity fine, quando esiste una categoria di soggetti innocenti su cui il meccanismo in questione eserciterebbe ancora i suoi effetti perversi (120). Coffee si dice infine convinto che il nuovo modello di pena pecuniaria sarà in grado di contenere il fenomeno della cd. « indifferenza » degli azionisti così da

(115) Cfr. COFFEE, Making the Punishment Fit the Corporation, cit., p. 14 ss.; IDEM, « No Soul to Damn », cit., p. 413 ss.; IDEM, Corporate Criminal Responsibility, cit., p. 259. (116) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 413 ss. (117) Così sostiene COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 414 ss. (118) È la critica di RUSH, Corporate Probation, cit., p. 46. (119) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 416 s. (120) Cfr. sul punto le osservazioni di KENNEDY, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 461.


— 114 — prevenire la recidiva della persona giuridica (121). Può peraltro controbattersi che sarebbe alquanto strano che gli azionisti avvertano gli effetti di un’equity fine sul valore dei loro titoli, più di quanto accadrebbe in caso di applicazione di una pena pecuniaria in contanti. « Ciò potrebbe succedere solo se pene più elevate, rese possibili dalla diminuzione del fenomeno dell’overspill venissero frequentemente imposte » (122). Quanto infine alla certezza di Coffee che la presenza di consistenti pacchi d’azioni sul mercato, potendo rappresentare un’attraente offerta di acquisto al pubblico, avrebbe l’effetto di indurre i dirigenti della persona giuridica a tenere un comportamento più rispettoso della legge (123), va rilevato quanto segue. Vi sono numerosi fattori relativi alla gestione della persona giuridica da tenere in considerazione prima di formulare un piano di prevenzione della criminalità dell’impresa. Bisogna infatti considerare la capacità di acquistare profitti, la liquidità e la capacità di sviluppo della persona giuridica. Inoltre le più svariate strategie di disincentivazione possono impedire che il pubblico proceda all’acquisto delle azioni. « L’effetto deterrente dipende altresì dalla distribuzione della proprietà precedente all’imposizione della pena pecuniaria; le fazioni all’interno della persona giuridica possono bloccare le offerte (...) » (124). In definitiva, il modello dell’equity fine rappresenta di certo un miglioramento rispetto al meccanismo del pagamento in contanti, perché protegge dall’« effetto rimbalzo » creditori e impiegati. Ma presenta altresì dei limiti talmente rilevanti da non riuscire a costituirne un’efficace alternativa. 12. (Segue): b) Il modello della « pass-through-fine » - Critica. — Queste perplessità non sembrano superate da un ulteriore paradigma elaborato dalla dottrina: alludiamo al modello della pena pecuniaria traslativa (cd. pass-through fine) (125). Questo sistema presenta la peculiarità di non prendere di mira direttamente la persona giuridica, bensì di assegnare ad ogni azionista una quota fissa di pena pecuniaria da versare in titoli. Il tetto massimo della pena pecuniaria rappresenta il valore di mercato delle azioni. Ad ogni azionista viene data la possibilità di scegliere in piena autonomia e libertà le modalità con cui effettuare il pagamento (126). Come il modello proposto da Coffee, la formula della « pass-through fine » ha il pregio di proteggere impiegati e creditori dall’« effetto rimbalzo » (127). Inoltre, la facilità con cui può essere calcolata consente di non condizionare la solvibilità dell’impresa o la soppressione dei prezzi sulle azioni (128). Nell’intenzione dei proponenti, il principale pregio di questo modello di pena pecuniaria sarebbe insito nella capacità di eliminare il fenomeno della cd. « indif-

(121) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 418. (122) RUSH, Corporate Probation, cit., p. 47. (123) COFFEE, « No Soul to Damn », cit., p. 418. (124) Cfr. sul punto RUSH, Corporate Probation, cit., p. 47 s. (125) Sul modello delle cd. « Pass-Through Fines » cfr. NOTE, Criminal Sentences for Corporations: Alternative Fining Mechanism, in Calif. L. Rev., 1985, p. 466 ss. (126) Cfr. NOTE, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 468 s. (127) NOTE, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 469. (128) NOTE, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 470.


— 115 — ferenza » degli azionisti (129). E certamente, la constatazione che questo meccanismo colpisce direttamente il singolo, a differenza di quanto capita con l’applicazione del sistema delle fines tradizionali, ha come pendant la capacità di suscitare una maggior attenzione nella classe degli azionisti. Ma il problema è di vedere se e come gli azionisti — una volta risvegliati dal limbo dell’indifferenza — siano in grado di influire sui meccanismi di gestione della persona giuridica. Il punto centrale è accertare che cosa gli azionisti possono fare una volta che sono venuti a sapere che la pena pecuniaria è stata applicata. Il divario tra la classe dirigente e la proprietà è troppo profondo, ed i legami tra la cultura degli azionisti ed il potere troppo deboli » (130). Anche questa proposta, dunque, non si rivela convincente perché non riesce a superare con successo i numerosi problemi di effettività da cui è affetta la pena pecuniaria diretta alla persona giuridica.

13. La crisi degli anni ’90 ed il disorientamento della prassi. — Agli inizi degli anni ’90 viene dunque dichiarata ufficialmente la crisi delle fines, definitivamente bollate come sanzioni inadatte a svolgere un’efficacia deterrente e preventiva della criminalità della persona giuridica. Accanto al profondo disincanto dottrinale, assistiamo al completo disorientamento giurisprudenziale. Abbiamo già potuto notare i tentennamenti della prassi nell’applicare le pene pecuniarie e l’escamotage giurisprudenziale della cd. nullification, dettato sia dal principio umanitario di non ledere terzi innocenti, ma anche generato dalla molla utilitaristica del volersi adeguare alle aspettative del consorzio sociale. Inoltre, approfonditi studi statistici hanno definitivamente messo in luce lo smarrimento della prassi: emblematica è una ricerca di Mark A. Cohen pubblicata nel 1991, in cui l’A. analizza una serie di sentenze emesse dal 1984 al 1990 allo scopo di definire e capire quali fattori sono presi in considerazione dalle Corti nella commisurazione della pena nei confronti della persona giuridica (131). Da questo studio sul campo è emerso come in realtà non ci siano dei fili conduttori, dei punti di riferimento precisi che servano da guida, da criterio indicatore per l’operato dei magistrati. Ma vediamo in dettaglio. La ricerca di Cohen è suddivisa in tre periodi: a) dal 1984 al 1987 sono riportati i dati relativi ai processi di 288 persone giuridiche; b) il secondo periodo riguarda i dati relativi a 324 persone giuridiche processate nel 1988; c) il terzo ri-

(129) Cfr. NOTE, Criminal Sentences for Corporations, cit., p. 471. (130) RUSH, Corporate Probation, cit., p. 49. (131) M. COHEN, Corporate Crime and Punishment: an Update on Sentencing Practice in the Federal Courts, in B.U.L. Rev., 1991, p. 247 ss.


— 116 — porta informazioni relative ai processi di 218 persone giuridiche nel periodo intercorrente tra il 1o gennaio 1989 e il 10 settembre 1990 (132). Quanto alle caratteristiche dei soggetti attivi, l’indagine mette in evidenza come nei processi del primo periodo siano imputate imprese di piccole dimensioni, che non superano il limite di un milione $ di vendite e cinquanta impiegati. Quelli del secondo riguardano invece persone giuridiche di dimensioni maggiori, con cioè il 15% delle vendite superiore a un milione $ e più di cinquanta dipendenti. Infine, i processi del terzo periodo vedono come imputate persone giuridiche di dimensioni decisamente più ampie: in particolare, tra le centosette imprese condannate per antitrust sono incluse trentacinque filiali di importanti compagnie straniere (133). Quanto ai tipi di reato commessi, l’indagine evidenzia come nei primi due periodi — complessivamente cioè dal 1984 al 1988 — il 30% circa delle fattispecie riguardi casi di violazione delle leggi antitrust, mentre il 25% circa è relativo alle frodi in danno della P.A. e il 15% a reati d’inquinamento e contro il patrimonio. Il resto include reati doganali, fiscali e frodi alimentari. Dal 1989 al 1990 invece, si nota come le infrazioni all’« antitrust » facciano la parte del leone (più del 50%), mentre il resto è diviso tra reati d’inquinamento (10%), frodi in danno della P.A. (10%) etc. (134). Ma veniamo alla parte centrale della ricerca. Vengono in primo luogo considerate le sentenze emesse tra il 1984 e il 1988 riguardanti tutti i reati diversi da quello di antitrust (135): in particolare vengono messe a confronto le decisioni antecedenti all’entrata in vigore del Fine Act del 1984 con quelle successive, per verificare l’impatto che la nuova regolamentazione ha avuto sulla prassi (136). E in effetti si nota come il quantum medio di pena pecuniaria (cd. mean fine) sia più che raddoppiato sotto la vigenza della legge del 1984, passando da 45.790 $ a 102.469 $ (137). Circa le ragioni di questo aumento, l’indagine dimostra come, in seguito alla riforma del 1984, i giudici nella commisurazione della pena abbiano tenuto conto del (« danno finanziario ») (monetary harm) arrecato dalla persona giuridica nella realizzazione delle attività illecite. « L’aumento delle pene pecuniarie si interpreta con il fatto che le imprese che causano ingenti danni ora sono nella condizione di ricevere sanzioni adeguate ai danni causati » (138). Quanto invece alle fines applicate tra il 1989 e il 1990, la ricerca riscontra un aumento esponenziale rispetto al periodo precedente (da una mean fine di 10.000 $ applicata nel periodo 1984-1988 si passa ad una pena pecuniaria di

(132) COHEN, Corporate Crime, cit., p. 250 s. (133) COHEN, Corporate Crime, cit., p. 252. (134) Ibidem. (135) Cfr. COHEN, Corporate Crime, cit., p. 253, il quale evidenzia come tradizionalmente sia la dottrina che il legislatore abbiano riservato alle fattispecie di antitrust uno spazio specifico, separato rispetto alle altre manifestazioni della criminalità dell’impresa. (136) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 256 ss. (137) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 257. (138) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 259.


— 117 — 200.000 $!) (139). Ma un accurato riscontro sui criteri seguiti dalle Corti nel processo di commisurazione dimostra come solo nel 16% dei casi sottoposti a giudizio le decisioni hanno tenuto conto del danno finanziario (140). Per quanto infine concerne i reati contro l’ambiente commessi tra il 1984 e il 1990, cui l’indagine dedica una specifica sezione, si nota che — sempre in relazione al Fine Enforcement Act del 1984 — la pena pecuniaria media che ammontava a 26.836 $ prima della riforma, sia passata a 189.506 $ dopo il 1984 (141). A che cosa è dovuto questo aumento significativo? L’A. ipotizza che negli ultimi anni le persone giuridiche abbiano commesso reati più gravi, comportanti danni finanziari più consistenti e che le Corti ne abbiano tenuto conto. Ma questa suggestione viene smentita dalle statistiche: il danno finanziario è stato considerato solo in sedici casi! (142). Quale conclusione trarre da questa ricerca? I dati parlano chiaro: non ci sono criteri univoci che guidano il processo di commisurazione delle Corti nell’applicazione delle fines alle persone giuridiche. Non si capisce infatti come mai, dopo la Riforma del 1984 le pene siano aumentate in modo così rilevante e perché siano aumentate anche nei casi in cui non è stato calcolato il cd. « monetary harm ». Insomma, visto che l’aumento c’è stato, ci si chiede quali altri criteri sono stati seguiti o perché il criterio del danno sia stato utilizzato per così dire a corrente alternata (143). Si tratta di interrogativi inquietanti, cui la genericità e superficialità delle disposizioni del Fine Act (144) non è in grado di rispondere... La realtà è che le Corti sono sostanzialmente disorientate e decidono senza criteri fissi e univoci.

Alla soglia degli anni ’90, teoria e prassi si ritrovano dunque concordi nel richiedere con urgenza al legislatore una risposta decisa alla crisi di effettività: una presa di posizione che superi e risolva i difetti delle fines denunciati dalla dottrina e che ne minano l’efficienza e la praticabilità. Una risposta che rintuzzi lo smarrimento giurisprudenziale dando alle Corti punti di riferimento precisi, capaci di orientare le decisioni, sì da chiarire anzitutto quali siano gli elementi fondamentali che i giudici devono considerare nel processo di commisurazione.

(139) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 254. (140) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 262. (141) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 270. (142) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 271. (143) Cohen, Corporate Crime, cit., p. 276 ss. L’A. sottolinea come la determinazione della pena pecuniaria a carico della persona giuridica non possa prescindere dal requisito del danno finanziario (cd. Monetary Harm) ed auspica un intervento legislativo che obblighi le corti a considerare sempre questo elemento. (144) Cfr. retro § 2.


— 118 — SEZIONE II LA SOLUZIONE NORDAMERICANA ALLA CRISI DELLA « FINE D’IMPRESA »: LA RAZIONALIZZAZIONE DEL SENTENCING E IL MODELLO DEI COMPLIANCE PROGRAMS

1. Premessa: la riforma della pena pecuniaria d’impresa nel più ampio quadro della Sentencing Reform. — La risposta a questa crisi diffusa non si materializza nella tipizzazione di nuove sanzioni; non si cercano sostituti o surrogati delle fines. Il problema non è quali nuove sanzioni applicare, bensì come regolamentare il meccanismo di irrogazione delle sanzioni esistenti: l’obiettivo è quello di rendere questo meccanismo più efficace, con pene proporzionate alla gravità dell’offesa e con una struttura refrattaria a manipolazioni generatrici di disparità di trattamento a seconda che le fines vengano applicate da questo o da quel giudice. La partita si gioca perciò sul terreno dei criteri di commisurazione della pena: si cerca dunque di razionalizzare il potere del giudice nella determinazione della pena disciplinandolo, vincolandolo a requisiti tassativi che ne contengano le sbavature e ne arginino gli eccessi. È interessante ricapitolare brevemente come si arrivi a questa soluzione. Abbiamo già visto come il Congresso con il Sentencing Reform Act del 1984 abbia introdotto nuove pene pecuniarie più severe allo scopo di potenziare l’efficacia dell’arsenale sanzionatorio, destinato sia alle persone fisiche che alle persone giuridiche (145). Ma accanto a questa esigenza di effettività è emersa come altrettanto fondamentale la necessità di assicurare certezza nell’utilizzazione dei criteri di commisurazione e uniformità di trattamento tra i soggetti imputati di medesimi reati (146). In questo contesto il S.R.A. ha creato una nuova struttura bipartita e indipendente all’interno del potere giudiziario: la U.S. Sentencing Commission (147). La Commissione ha l’obiettivo di formulare e sviluppare una razionale ed equa politica di commisurazione della pena: è suo compito costruire delle linee-guida (Guidelines) e dei criteri di politica sanzionatoria (Policy Statements) destinati alle Corti federali che indichino dei precisi indici cui i giudici sono obbligati a far riferimento nel processo di determinazione della pena (148). (145) Cfr. retro § 2. (146) Cfr. BREYER, The Federal Sentencing Guidelines and the Key Compromises Upon which they Rest, in Hofstra L. Rev., 1988, p. 1 ss. (147) Cfr. 28 U.S.C. § 991 (1988). Sulle caratteristiche e la composizione della Commissione cfr. OGLETREE, The Death of Discretion? Reflections on the Federal Sentencing Guidelines, in Harv. L. Rev., 1988, p. 1948 ss. (148) Cfr. 28 U.S.C. § 994 (1988).


— 119 — Il lavoro della Commissione sfocia nel 1987 nell’elaborazione delle Federal Sentencing Guidelines destinate alle persone fisiche (149). A questo punto la Commissione decide di costruire delle linee-guida dirette a disciplinare l’arbitrio giudiziale nella commisurazione della pena anche nei confronti delle imprese: il 1o novembre 1991, dopo l’elaborazione di alcuni progetti rimasti privi di concreta realizzazione (150), entrano in vigore le Federal Sentencing Guidelines destinate alle persone giuridiche (151). 2. La pena pecuniaria per le persone giuridiche: la ricetta delle Sentencing Guidelines. — Certo, questa opzione non è stata indolore: va anzi segnalato come la decisione della U.S. Commission di promulgare lineeguida anche per le imprese abbia suscitato una vera e propria levata di scudi in alcuni settori della dottrina. Invero, non sono tuttora chiare le ragioni che hanno indotto la Commissione ad occuparsi della magmatica e scottante questione delle persone giuridiche. La situazione spirituale che fa da sfondo all’elaborazione delle Guidelines per le imprese è infatti completamente diversa da quella che ha fomentato le corrispettive Guidelines per le persone fisiche. Anzitutto va segnalato che non ci sono studi teorici o indagini empiriche da cui risalti una disparità di trattamento nel processo di commisurazione della pena nei confronti delle persone giuridiche. La sola disuguaglianza che emerge è quella tra imputati dal colletto bianco (imputati cd. eccellenti) e imputati comuni. Ma si tratta pur sempre di una disuguaglianza che riguarda l’applicazione della pena ai singoli individui (152). (149) Cfr. BRICKEY, Corporate Criminal Liability, cit., p. 10. Solo una sezione delle linee-guida, relative alle fattispecie di antitrust prende in esame l’ipotesi che il condannato sia una persona giuridica. Cfr. sul punto MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 22. (150) Tre sono i progetti che hanno preceduto l’emanazione delle Guidelines per le imprese del 1991. Il primo, elaborato nel 1988, è caratterizzato dal primato della pena pecuniaria e dalla valorizzazione del binomio sanzione penale-sanzione amministrativa nei confronti delle persone giuridiche. Nel progetto del 1989 gioca invece un ruolo centrale l’istituto del Probation, considerato come un’alternativa efficace alle fines tradizionali. La proposta del 1990 infine ricalca sostanzialmente il modello del 1989, proponendo peraltro l’applicazione di pene più elevate. Per un esame di questi progetti di legge cfr. PARKER, The Current Corporate Sentencing Proposals: History and Critique, in F.S.R., 1990, p. 133 ss. (151) Cfr. United States Sentencing Commission, Federal Sentencing Guidelines Manual, 1991. (152) Cfr. sulla questione NAGEL-HAGAN, The Sentencing of White Collar Criminals


— 120 — Neppure la prassi lamenta su questo terreno crisi di soffocamento dovute ad un’overdose processuale: la macchina della giustizia funziona in questo versante senza intoppi; non ci sono sfiancanti lentezze procedurali che giustifichino uno snellimento dell’attività dei magistrati. Le persone giuridiche condannate dalle Corti federali sono infatti al massimo trecento all’anno, meno dunque dell’1% di tutti i processi federali. Ciò significa che il giudice di ciascun distretto si occupa della responsabilità penale delle imprese solo una volta ogni due anni (153)! Né l’urgenza di una presa di posizione solenne qual è quella di promulgare delle linee-guida può — secondo alcuni — trovare origine e giustificazione nel dettato legislativo. In effetti, abbiamo già rilevato a suo tempo come il Sentencing Reform Act dedichi alle persone giuridiche solo una manciata di disposizioni (154). È vero che, su un piano astratto, sarebbe sufficiente la presenza anche di una sola norma riguardante la tematica per dedurre l’interesse o quantomeno il non disinteresse del Congresso per il destino delle persone giuridiche; ma è altrettanto vero che pare eccessivo interpretare a tutti i costi l’esistenza di qualche isolata disposizione come il segno inequivocabile della volontà del legislatore di promulgare delle linee-guida per le imprese (155). In particolare, si nota che proprio dalle norme che sanciscono i poteri ed i doveri della Commissione risalta come i principali destinatari del nuovo processo di regolamentazione dei princìpi di commisurazione della pena siano i singoli individui (156). Basti pensare al già citato § 3553: i corsi di istruzione, le scuole professionali e le cure mediche si rivolgono, ovviamente, ad un condannato persona fisica. Ma anche il § 994 che specifica i compiti della Commissione, considera accanto alle Fines ed al Probation la sanzione della pena detentiva (Imprisonment), tipica delle persone fisiche (157). Inoltre la stessa norma, nell’indicare i fattori che posin Federal Courts: a Socio-Legal Exploration of Disparity, in Mich. L. Rev., 1982, p. 1427 ss. (153) Cfr. COHEN, Empirical Trends in Corporate Crime and Punishment, in F.S.R., 1990, p. 121; BLOCK, Guest Editor’s Observations, ivi, p. 117. The New Federal Sentencing Guidelines for Organizational Crimes Questions and Answers. Appendix, Doc. 3 in BNA/ACCA, Compliance Manual, 1993. (154) Cfr. retro, § 2. (155) Per queste osservazioni cfr. NAGEL-SWENSON, The Federal Sentencing Guidelines for Corporations: their Development, Theoretical Underpinnings, and some Thoughts about the Future, in Wash. U.L.Q., 1993, p. 212. (156) Cfr. NAGEL-SWENSON, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 205. (157) Cfr. 28 U.S.C. § 994 (a) (1) (A), cit.: « Le Guidelines devono indicare quando


— 121 — sono incidere in concreto sulla misura della pena, fa riferimento — tra gli altri — ad elementi quali l’età, il grado di istruzione, le condizioni mentali e fisiche, le condizioni famigliari: tutti requisiti esclusivi delle persone fisiche (158). Questo atteggiamento di diffidenza da parte della dottrina può venire peraltro superato da una serie di rilievi, alcuni dei quali in particolare ci sembrano convincenti. Innanzitutto, le stesse disposizioni richiamate per dedurre una limitazione esclusiva alle persone fisiche dell’operatività delle Guidelines possono essere invocate per suffragare la tesi opposta. Come affermano Nagel e Swenson, il § 994 sancisce in generale la necessità di « promulgare (...) le Guidelines (...) per l’applicazione del Probation e della pena pecuniaria (...) ». Non sono quindi ravvisabili specifiche esclusioni per le persone giuridiche; d’altra parte, sia le Fines che il Probation sono sanzioni compatibili con la struttura dell’impresa (159). Non va tra l’altro dimenticato che il § 994(b)(1) affida alla Commissione il compito di stabilire una cornice di pena « per ciascuna categoria di reato che coinvolge ogni tipo d’imputato »: anche qui non ci sono eccezioni esplicite per le persone giuridiche (160). In ogni caso, aldilà dell’argomento formale, può comunque dedursi un dovere generale incombente sulla Commissione di occuparsi della regolamentazione della materia relativa alle persone giuridiche, creando nuove griglie adatte ad indirizzare la discrezionalità giudiziale (161). Né vanno sottovalutate le pressioni politiche esercitate da parte del Senato sul Congresso e tese a sostenere la promulgazione delle Guidelines anche per le imprese (162). Alla base di queste pressioni non appare — a nostro avviso — inverosimile scorgere un’iniziativa da parte delle stesse imprese e dei loro gruppi dirigenti, preoccupati di veder sfumare la possibilità di far riferimento a delle regole in grado di limitare i costi ed i rischi della commissione di reati. Infine va ricordato come, proprio nel periodo che precede l’emanazione delle Guidelines per le persone giuridiche, la Commissione abbia debba essere imposta una sentenza che stabilisce il probation, la pena pecuniaria o la pena detentiva ». (158) Cfr. 28 U.S.C. § 994 (d) cit. (159) Cfr. NAGEL-SWENSON, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 213. (160) Ibidem. (161) Cfr. NAGEL-SWENSON, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 214. (162) Cfr. NAGEL-SWENSON, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 216.


— 122 — pubblicato uno speciale protocollo in cui si dà conto dell’impatto delle Guidelines destinate alle persone fisiche sul fenomeno della disparity (163). Lo studio prende in esame alcuni reati a grande incidenza prasseologica, quali la rapina in banca, il peculato bancario, lo spaccio di cocaina e di eroina e giunge a risultati decisamente lusinghieri: « Prima delle Guidelines le Corti agivano con arbitrio assoluto, limitate esclusivamente dal tetto minimo e massimo stabiliti nei singoli statuti. Le sentenze erano quindi indeterminate (...) » (164). I dati raccolti dalla Commissione suggeriscono invece che « in tutte le categorie menzionate gli imputati con caratteristiche simili condannati per reati simili ricevono un trattamento sanzionatorio più simile sotto il governo delle Guidelines di quanto accadesse prima della loro entrata in vigore » (165). Il primo bilancio dopo l’applicazione delle linee-guida alle persone fisiche è dunque positivo: e certamente anche questo successo ha contribuito a dare via libera all’elaborazione delle Guidelines per le imprese (166). 3. (Segue): Le finalità della riforma varata dalla Sentencing Commission. — Quali sono dunque le finalità perseguite dalle Federal Sentencing Guidelines del 1991? Aldilà degli obiettivi che caratterizzano le linee-guida destinate alle persone fisiche, cui sono certamente ispirate anche le Guidelines dirette alle persone giuridiche (167), alcuni scopi ulteriori e specifici caratterizzano le Guidelines per le imprese e rappresentano una vera e propria rivoluzione copernicana nelle tecniche di controllo dei comportamenti criminosi delle aziende. Invero, già nel 1990 era stato distribuito tra i componenti della Commissione un protocollo contenente quindici punti destinati a condensare (163) Cfr. UNITED STATES SENTENCING COMMISSION, The Federal Sentencing Guidelines: A Report on the Operation of the Guidelines System and Short-Term Impacts on Disparity in Sentencing, Use of Incarceration and Prosecutional Discretion and Plea Bargaining, 1991 (cd. Disparity Report). (164) Disparity Report, cit., p. 31. (165) Disparity Report, cit., p. 43. (166) Per una visione scettica dell’efficacia delle Guidelines sul fenomeno della disparity cfr. invece HEANEY, The Reality of Guidelines Sentencing: No End to Disparity, in Am. Crim. L. Rev., 1991, p. 161 ss.; BROWN, The Sentencing Guidelines are reducing Disparity, ivi, 1992, p. 875 ss.; HEANEY, Rivisiting Disparity: Debating Guidelines Sentencing, ivi, 1992, p. 771 ss. (167) Cfr. per queste considerazioni CHASET-WEINTRAUB, New Guidelines for Sentencing Corporations, in Trial, 1992, p. 42.


— 123 — lo spirito delle Guidelines. Nel testo si legge che « le fines devono essere diminuite per due ragioni principali: devono tener conto del grado di colpevolezza dell’organizzazione, ed incoraggiare i comportamenti aziendali di collaborazione » (168). Quest’ultimo principio si è poi effettivamente concretizzato come uno degli scopi peculiari delle Guidelines per le persone giuridiche. Infatti il commento introduttivo che accompagna le lineeguida in esame sottolinea che le sanzioni previste per le persone giuridiche devono mirare « ad una giusta retribuzione, un’adeguata deterrenza ed a incentivare la persona giuridica a predisporre meccanismi interni diretti a prevenire, scoprire e denunciare i comportamenti criminosi ». Più in là si afferma che « la cornice di pena pecuniaria deve calcolarsi in base alla gravità del reato ed alla colpevolezza dimostrata dall’organizzazione ». E « la colpevolezza si determina in base alle precauzioni prese dalla persona giuridica prima della commissione del reato e dirette a prevenire ed a scoprire i comportamenti criminosi (...) ed in base alla condotta susseguente al reato tenuta dall’impresa » (169). Come vedremo, queste norme richiedono alla persona giuridica l’adempimento di determinati oneri che si sostanziano nell’elaborazione di particolari programmi di autoregolamentazione. In altre parole, si tratta di disposizioni chiaramente dirette a influire sulla formazione delle regole di comportamento applicate all’interno della persona giuridica. Norme che mirano a plasmare i codici interni dell’impresa, in modo tale da far sì che essa ottenga per lo meno uno sconto di pena in caso di condanna per la commissione di un reato (170). Ma analizziamo in dettaglio gli specifici obiettivi cui devono tendere le Federal Guidelines per le persone giuridiche. A) Innanzitutto deve essere assicurata la realizzazione della finalità retributiva della pena. Il che significa che le fines devono essere giuste e proporzionate alla gravità dell’offesa ed al grado di colpevolezza manifestato dalla persona giuridica (171). (168) Cfr. UNITED STATES SENTENCING COMMISSION, Supplementary Report on Sentencing Guidelines for Organizations, 1991, App. A, A-2. Sul punto v. NAGEL-SWENSON, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 227. (169) UNITED STATES SENTENCING COMMISSION, Federal Sentencing Guidelines Manual, cit., Introductory Commentary (corsivi nostri). Cfr. sul punto, MURPHY-MOORE, Compliance Programs and the U.S. Sentencing Guidelines, in BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., p. 14. (170) Cfr. Practice Under the New Federal Sentencing Guidelines, 1992, p. 376.1. (171) Cfr. MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 229.


— 124 — Ciò emerge in primo luogo dalle disposizioni relative all’entità dell’offesa: più è profonda la lesione arrecata con la commissione del reato, più elevate sono, in proporzione, le pene pecuniarie (172). L’ideologia retributiva s’incarna poi nella sanzione prevista per le persone giuridiche che hanno agito principalmente per la realizzazione di uno scopo criminoso, o utilizzando principalmente mezzi criminosi: la fine dovrà essere tale da privare l’impresa di tutto il suo patrimonio (173). B) Peraltro, il punto centrale delle Guidelines sta nella finalità di prevenzione (174). Questo scopo si sostanzia nello scoraggiare la persona giuridica dal commettere reati in futuro. E sin qui, niente di nuovo. Ma, come vedremo, questa finalità preventiva non viene perseguita dalle linee-guida nel modo tradizionale, con la semplice minaccia di una pena. Bensì, accanto all’effetto deterrente classico che si realizza prospettando fines molto elevate per i reati che la persona giuridica può commettere, si richiede all’impresa un particolare comportamento: l’adozione di meccanismi interni diretti a prevenire e a scoprire i comportamenti criminosi (175). In altre parole, la prevenzione non si sostanzia qui con la sola minaccia di una pena che sia in grado di contrastare la spinta verso il delitto; si realizza invece in modo più complesso, perché comporta anche l’adozione di una tecnica diretta ad incentivare la persona giuridica a non a tenere un dato comportamento criminoso, inducendola ad adottare dei dettagliati programmi di autodisciplina. Siamo dunque di fronte ad un nuovo modo di concepire la finalità di prevenzione: viene infatti applicato alla persona giuridica il modello « del bastone e della carota » (cd. carrot-stick model) (176). Da una parte, il classico « bastone », cioè la minaccia di pene pecuniarie ancor più elevate che in passato; dall’altra, la « carota »: le pene sono diminuite se la per(172) Cfr. U.S.C., Federal Sentencing Guidelines, cit., § 8C2.1 ss. (173) Cfr. § 8C1.1. Sul concetto di ‘retribuzione’ nelle Guidelines destinate alle persone giuridiche cfr. MAURER, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 830. (174) Sulla filosofia preventiva delle Guidelines dirette all’impresa v. da ultimo MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 231. (175) Cfr. § 8C2.5 (f). Sul punto v. per tutti MURPHY-MOORE, Compliance Programs, cit., p. 14. (176) Sulla scelta della formula « Carrot and Stick Approach » per indicare le peculiari finalità cui tendono le Guidelines del 1991 cfr. COFFEE, « Carrot and Stick » Sentencing: Structuring Incentives for Organizational Defendants, in F.S.R., 1990, p. 126; SWENSONCLARK, The New Federal Sentencing Guidelines: Three Keys to Understanding the Credit for Compliance Programs, in Corp. Conduct Q., 1991, p. 1.


— 125 — sona giuridica tiene determinati comportamenti diretti a prevenire e scoprire i reati: se cioè adotta un « Compliance Program » (177). Questo approccio retributivo-preventivo-premiale rappresenta la filosofia delle Guidelines. All’interno di esso, la pietra angolare è costituita dall’adozione di un « Compliance Program ». Come vedremo, l’esperienza nordamericana dimostra che il diritto penale, per esercitare un’efficace funzione preventiva nei confronti dei reati commissibili dalla persona giuridica, deve entrare nell’impresa, invadere le sue strutture interne di autoregolamentazione, condizionare la loro formazione ed il loro modo di essere. 4. La struttura del modello commisurativo. — Ma vediamo in particolare qual è il meccanismo prescritto dalle Federal Sentencing Guidelines del 1991 per quanto concerne la commisurazione delle pene pecuniarie. Innanzitutto, le Guidelines dividono le persone giuridiche in due categorie. Nella prima sono incluse le imprese che hanno agito principalmente allo scopo di perseguire obiettivi criminosi o che hanno perlopiù utilizzato, nello svolgimento della loro attività, mezzi criminosi. In questo caso la fine deve essere tale da spogliare completamente l’impresa del suo patrimonio (178). Nella seconda categoria, in cui sono invece raggruppate « le altre persone giuridiche », vengono dettati particolari criteri per la commisurazione della pena pecuniaria. In primo luogo il giudice deve controllare che il reato commesso dall’impresa rientri tra quelli tassativamente elencati nelle Guidelines (179). In caso affermativo, la pena pecuniaria va calcolata per gradi, seguendo un procedimento preciso e dettagliato (180).

(177)

Sulla struttura ed i requisiti dei « Compliance Programs » cfr. per tutti MUR-

PHY-MOORE, Compliance Programs, cit., p. 7 ss.

(178) § 8C1.1. (179) § 8C2.1. (180) Sul procedimento di determinazione delle Fines stabilito dalle Guidelines cfr. BRICKEY, Corporate Criminal Liability, cit., p. 11 ss.; MILLER, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 219 ss.; MAURER, The Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 806 ss.; Practice, cit., p. 376 ss.; BLACK, Corporate Crime and Punishment, in Criminal Justice, 1992, p. 3 ss.; CHASET-WEINTRAUB, New Guidelines for Sentencing Corporations, in Trial, 1992, p. 42 s.; FUNDERBURG, Reducing your Organization’s Exposure Under the Federal Sentencing Guidelines, in Ill.B.J., 1992, p. 448 ss.; RAKOFF, The Corporation as Policeman: At What Price, in Business Crime, 1992, p. 5 s. Per una critica all’irrazionalità ed alla complessità dei meccanismi delle Guidelines definiti addirittura « criptici » cfr. PARKER, Rules without...: Some Critical Reflections on the Federal Corporate Sentencing Guidelines, in Wash. U.L.Q., 1993, p. 397 ss.; ORLAND, Corporate Punishment by the U.S. Sentencing Commission, in F.S.R., 1991, p.


— 126 — Si comincia innanzitutto col calcolare la pena pecuniaria base (Base Fine). In proposito le Guidelines stabiliscono che il giudice deve esaminare i seguenti tre fattori: 1) l’importo in denaro specificato in un apposito elenco (cd. Offence Level Fine Table) che corrisponde alla gravità del reato realizzato e varia da un minimo di 5.000 $ per i reati meno gravi ad un massimo di 72.500.000 $ per i reati più gravi; 2) il profitto in denaro ricavato dalla persona giuridica con la commissione del reato; 3) la perdita in denaro determinata intenzionalmente, consapevolmente o colposamente dall’impresa con la commissione del reato. Tra questi valori il giudice deve scegliere quello che corrisponde al maggior grado di offensività (181). Dopo che la Base Fine è stata calcolata, è necessario valutare il grado della colpevolezza (182). Il diritto nordamericano, con un sistema aritmetico in voga nella teoria del Sentencing, ha qui adottato un procedimento di calcolo della colpevolezza come criterio di commisurazione di tipo aritmetico, facendo corrispondere i diversi indici di aggravamento e di attenuazione della responsabilità a dei valori numerici rispettivamente positivi e negativi. Il computo finale corrisponde ad un certo tipo e/o quantità di pena biunivocamente correlata: ad un tot di colpevolezza corrisponde un quantum di pena (183). Il calcolo della cd. Culpability Score gioca un ruolo centrale nella determinazione della pena, dal momento che dal coefficiente di colpevolezza sono ricavabili determinati « moltiplicatori » che, una volta applicati alla pena base, individuano l’esatta cornice di pena entro la quale il giudice può selezionare la sanzione più adatta al caso concreto. Ma vediamo in dettaglio. Va innanzitutto evidenziato come una persona giuridica condannata per un reato parta con un coefficiente di colpevolezza equivalente a cinque punti. Questa opzione politico-criminale viene così giustificata dalla Commissione: « (...) Il calcolo della pena pecuniaria destinata all’organizzazione non deve partire da livelli minimi per poi aumentare qualora siano presenti determinati fattori aggravanti (...); il coefficiente di partenza deve invece essere sufficientemente elevato da riflettere la presunzione che questi elementi aggravatori sono pre-

50 ss.; IDEM, Beyond Organizational Guidelines: Toward a Model Federal Corporate Criminal Code, in Wash. U.L.Q., 1993, p. 357 ss. (181) § 8C2.4. (182) § 8C2.5. (183) Per una sintesi dei contenuti della sentencing reform nordamericana v., per tutti, MORRIS, Punishment and Sentencing Reform in the United States, in RiDP, 1982, p. 727; von HIRSCH-KNAPP-TONRY, The Sentencing Commission and its Guidelines, BostonNew York, 1987; WASIK-PEASE, Sentencing Reform. Guidance or Guidelines?, 1987. Sui profili di effettività della riforma del sentencing si veda invece PARENT, Structuring Criminal Sentences: The Evolution of Minnesota’s Sentencing Guidelines, Toronto, 1988.


— 127 — senti ». È questo « un approccio desiderabile e leale, poiché le imprese quasi sempre sono più informate del governo sulla presenza di questi fattori » (184). Il coefficiente di colpevolezza è suscettibile di modificazioni a seconda della presenza o meno di circostanze aggravanti o attenuanti. Sono circostanze aggravanti: 1) La partecipazione o l’agevolazione — al limite contenuto in un’atteggiamento di tolleranza nei riguardi di una condotta criminosa (185). — Si fa qui riferimento all’ipotesi in cui qualunque funzionario di alto livello dell’impresa abbia concorso nel reato, o l’abbia giustificato o consapevolmente coperto, o quando l’atteggiamento di tolleranza del gruppo dirigente sia stato sistematico. In ogni caso, la presenza di uno qualunque di questi elementi comporta un aumento di cinque punti, tenuto conto della grandezza della persona giuridica. 2) I precedenti dell’organizzazione. — Si tratta di un’aggravante diretta ad indagare se in passato la persona giuridica abbia commesso reati della stessa indole di quello oggetto del procedimento. In caso affermativo verranno aggiunti uno o due punti (186). 3) La violazione di un ordine. — Uno o due punti sono aggiunti in caso di mancato ottemperamento di un ordine dell’autorità giudiziaria o di una condizione di Probation (187). 4) Resistenza all’autorità giudiziaria. — Un comportamento diretto ad impedire, sviare, bloccare o mettere in difficoltà l’attività giudiziaria durante le indagini comporta un aumento di tre punti (188). Sono circostanze attenuanti: 1) l’aver adottato un « programma effettivo » diretto a prevenire ed a scoprire i reati commessi dall’impresa comporta una diminuzione di tre punti (189). 2) Autodenuncia, collaborazione ed ammissione della responsabilità. Se la persona giuridica denuncia prontamente il reato commesso e offre piena collaborazione agli investigatori prima della scoperta del delitto, nonché si assume la responsabilità dei reati commessi, potrà beneficiare di una diminuzione variabile da uno a cinque punti (190). Una volta determinato il livello di colpevolezza, il giudice deve far riferi(184) Supplementary Report on Sentencing Guidelines, Principles Adopted by the U.S. Sentencing Commission to Guide the Drafting of the November 1990. Draft Organizational Guidelines, Appendix, Doc. 4. (185) § 8C2.5 (b). (186) § 8C2.5 (c). (187) § 8C2.5 (d). (188) § 8C2.5 (e). (189) § 8C2.5 (f). (190) § 8C2.5 (g).


— 128 — mento al § 8C2.6. dove, con l’aiuto di una tabella dettagliata, è possibile tradurre i requisiti della colpevolezza nei corrispondenti coefficienti minimo e massimo (i cd. Multipliers). A questo punto si procede a moltiplicare la Base Fine per ciascuno di questi multipli: va precisato che un grado di colpevolezza basso corrisponde ad un multiplo basso; i multipli oscillano da 0,05 e 0,20 per un grado di colpevolezza corrispondente a 0 o a meno di 0, e da 2.00 a 4.00 per un livello di colpevolezza equivalente o superiore a 10 (191). A questo punto si procede a moltiplicare la Base Fine per ciascuno di questi multipli (minimo e massimo) e si arriva così finalmente a determinare la cornice di pena (Fine Range) entro cui la Corte potrà adeguare la fine al caso concreto (192). Come vediamo, si tratta indubbiamente di un procedimento complesso ed in alcuni punti addirittura macchinoso. Un esempio pratico cercherà di rendere più chiaro questo meccanismo (193). Tizio, dirigente medio di una società specializzata nel confezionamento delle carni offre 1.000 $ ad un ispettore federale perché non faccia rapporto sulla mancata osservanza, da parte dell’impresa, di determinate disposizioni igienico-sanitarie relative alla conservazione dei prodotti alimentari. L’ispettore rifiuta la bustarella e denuncia il fatto all’autorità competente. Benché i massimi dirigenti della persona giuridica siano all’oscuro delle manovre messe in atto da Tizio, l’impresa viene imputata di corruzione di pubblico ufficiale. La corruzione rientra nell’elenco dei reati cui sono applicabili le Guidelines. Perciò la Corte procede in primo luogo a stabilire la Base Fine. Ex § 2C1.1, ritiene di etichettare l’offerta di denaro fatta dal dirigente dell’impresa al P.U. come equivalente alla perdita di denaro (Pecuniary Loss) che la persona giuridica ha rischiato di cagionare. La Corte fissa poi a 20.000 $ la gravità del reato e ritenuto che questo fattore risulti preponderante rispetto al profitto in denaro percepito ed alla perdita di denaro causata dalla persona giuridica, stabilisce la pena pecuniaria base a quota 20.000 $. Passando a calcolare il grado di colpevolezza, la Corte aggiunge tre punti al punteggio base equivalente a cinque, ritenendo che i dirigenti della persona giuridica abbiano « consapevolmente ignorato » il reato. Non ci sono altre aggravanti. L’assenza di un Compliance Program impedisce di applicare l’attenuante. Tuttavia, l’ammissione da parte della persona giuridica della sua piena responsabilità comporta la diminuzione di un punto. Il grado di colpevolezza è quindi equivalente a sette. I corrispondenti multipli minimo e massimo sono, rispettivamente

(191) (192) (193)

§ 8C2.6. § 8C2.7 s. Esempio tratto da MURPHY-MOORE, Compliance Programs, cit., p. 16.


— 129 — 1.40 e 2.80. Se si moltiplicano quei fattori per la pena base di 20.000 $, si arriva a determinare una cornice di pena oscillante tra 28.000 e 56.000 $.

5. Il fulcro del modello: i compliance programs. — Il punto centrale delle Federal Sentencing Guidelines è rappresentato dalla norma che tratteggia i cd. Compliance Programs. Come abbiamo già evidenziato, il § 8C2.5(f) prevede un’attenuante di tre punti qualora il reato sia commesso da una persona giuridica che ha adottato un « effettivo programma diretto a prevenire ed a scoprire i reati ». Invero, le Guidelines non prescrivono un obbligo specifico da parte delle persone giuridiche di predisporre un compliance program. Ma l’adozione di siffatti programmi dà l’opportunità di fruire di tanti e tali vantaggi, cui la maggior parte delle imprese lungimiranti e calcolatrici non vuole rinunciare a priori (194). Gli effetti della criminalità delle persone giuridiche sono ormai così drammatici che non appare più sufficiente una reazione dell’ordinamento focalizzata esclusivamente dopo la commissione del reato: « è necessario incanalare l’attività dell’impresa ed individuare i problemi prima che essi divengano catastrofici » (195). Ma è intuibile che quando si parla genericamente di « effetti catastrofici » non si allude solo ai danni esterni che la persona giuridica può arrecare con la commissione del reato: gli effetti di una condanna possono riverberarsi pesantemente anche all’interno di un’impresa. Infatti, l’applicazione di una sanzione penale elevata può anche risultare satisfattoria per le vittime in senso lato del reato, ma con un effetto boomerang può essere distruttiva degli equilibri interni e della tenuta dell’impresa sul mercato. E certamente, non appare troppo malizioso azzardare che alla base dell’emanazione della norma sui compliance programs, oltre allo scopo di prevenzione puro, consistente nell’obiettivo di impedire che la persona giuridica commetta dei reati, vi sia un obiettivo meramente utilitaristico: quello di proteggere il più possibile l’impresa che ha commesso un reato dall’impatto sanzionatorio che potrebbe squassarla profondamente, scardinandone le strutture portanti. (194) Sulle caratteristiche e la struttura dei Compliance Programs cfr. per tutti AA.VV., BNA/ACCA, Compliance Manual, cit.; KAPLAN-MURPHY-SWENSON, Compliance Programs and the Corporate Sentencing Guidelines, 1993; WEBB-MOLO, Some practical Considerations in Developing Effective Compliance Programs: A Framework for Meeting the Requirements of the Sentencing Guidelines, in Wash. U.L.Q., 1993, p. 375 ss. (195) MURPHY-MOORE, Compliance Programs, cit., p. 3.


— 130 — Il catalizzatore di tutti questi obiettivi è dunque rappresentato dall’adozione da parte dell’impresa di « un compliance program effettivo ». Come vedremo, i requisiti base perché un programma possa aspirare al grado di effettività sono elencati specificatamente dal commento allegato alle Guidelines (196). Si richiede perciò alla persona giuridica di usare il « dovere di diligenza » (due diligence) nel predisporre ed applicare un compliance program; tra i criteri di selezione degli impiegati sono previste anche indagini speciali, dirette ad accertare un’eventuale « inclinazione a violare le leggi » da parte dei candidati; i dirigenti sono ritenuti responsabili qualora abbiano dimostrato « negligenza » nell’accertamento dei reati (197). Si inaugura così una nuova tendenza nel controllo dell’attività delle imprese: d’ora in poi le persone giuridiche saranno giudicate in relazione alla diligenza dimostrata nella predisposizione e nell’applicazione di misure adatte a prevenire la commissione dei reati. Ed i compliance programs rappresentano il metro da utilizzare per valutare questo dovere di diligenza (198). 6. In particolare: i compliance programs ed i loro precedenti - I codici etici. — I compliance programs non sono un enigma, un evento misterioso e imprevedibile che improvvisamente si palesa, uscendo come un coniglio dal cilindro di un prestigiatore, ma hanno radici profonde e ben individuabili nel sistema statunitense: i loro antesignani sono rappresentati dai codici etici adottati all’interno delle aziende (199). Vediamone in breve la genesi e la struttura. Tra gli anni ’60 e ’90 si assiste, nel mondo economico nordamericano, a manifestazioni sempre più aggressive e perniciose della criminalità delle imprese. Si ricordano i famosi « electrical cases » del 1960 che portano alla condanna di ben ventinove imprese per violazione delle disposizioni in tema di antitrust; inoltre i noti processi per corruzione degli anni ’70; infine gli scandali in tema di insider trading degli anni ’80 (200). (196) Cfr. § 8A1.2 Commentaries sub 3 (K). (197) Cfr. sul punto MURPHY-MOORE, Compliance Programs, cit., p. 3. (198) Ibidem. (199) Sulle tecniche di collaborazione tra Stato e imprese nel controllo della criminalità economica, cfr. in generale SIGLER-MURPHY, Interactive Corporate Compliance: an Alternative to Regulatory Compulsion, 1988; SIGLER-MURPHY (a cura di), Corporate Lawbreaking and Interactive Compliance, 1991. (200) Per una rassegna degli scandali nel mondo degli affari statunitensi che hanno


A questa massiccia esplosione di criminalità economica le Corti ed il Congresso, supportate anche da parte della dottrina, tendono a dare risposte draconiane, che potrebbero avere conseguenze devastanti (201): una richiesta di ipercriminalizzazione e di potenziamento dell’arsenale sanzionatorio puntato contro la criminalità delle aziende (202). La reazione difensiva delle persone giuridiche a questa dichiarazione di ostilità è la seguente: l’emanazione di codici etici. Si tratta di forme di autoregolamentazione, di sistemi di autodisciplina che si dà la stessa persona giuridica, senza alcuna imposizione esterna. Lo scopo è quello di opporre una barriera ulteriore, rispetto a quelle rappresentate dalle leggi dello Stato, alla commissione di reati da parte dell’impresa (203). La lettura dei codici etici adottati da alcune società evidenzia infatti come le regole applicate all’interno della persona giuridica debbono considerarsi come dei « (...) segnali stradali. Essi si basano su situazioni tipiche che gli impiegati devono affrontare ogni giorno nei rapporti con i clienti, i fornitori, i colleghi, gli azionisti (...). Danno semplici ed esplicite lineeguida da seguire allo scopo di evitare le ipotesi anche solo apparenti di illecito (...). Lo scopo principale è quello di aiutare gli impiegati dando loro indicazioni ed assistenza in modo da evitare che essi commettano dei reati » (204). Queste regole etiche mirano all’« instaurazione, nell’ambito dell’impresa, di un’atmosfera psicologica che orienti i singoli a prendere posizione in senso non ostile o insofferente, ma ossequiante e osservante nei riguardi delle leggi (...). Sono un’aperta professione di princìpi e di criteri operativi eticamente fondati, (...) idonea a bonificare la mentalità domipreceduto l’adozione dei cd. corporate codes cfr. PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing Corporate Civil and Criminal Liability: A Second Look at Corporate Codes of Conduct, in Geo. L.J., 1990, p. 1574 ss. (201) Cfr. MOKHIBER, Corporate Crime and Violence, 1988, p. 40 ss. che prospetta un programma articolato in cinquanta punti caratterizzato da un orientamento di terrorismo sanzionatorio. Per un’analisi di questa tendenza all’ipercriminalizzazione emersa negli anni ’90 cfr. SIGLER-MURPHY, Corporate Conduct in the 1990 S, in SIGLER-MURPHY (a cura di), Corporate Lawbreaking, cit., p. 154 ss. (202) Cfr. sul punto PITT-GROSKAUFMANIS, Corporate Codes of Conduct and Corporate Self-Regulation, in SIGLER-MURPHY (a cura di), Corporate Lawbreaking, cit., p. 28. (203) Per una ricostruzione delle origini e della filosofia dei cd. Corporate Codes cfr. PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing, cit., p. 1561. (204) Cfr. General Dynamics Corporation, Business, Trust and Ethics — « Why Bother »?, in Ethics Roundtable: Establishing a Code of Business Conduct, 1992, p. 21.


— 132 — nante in azienda, aprendola ai valori della legalità e del civismo » (205). Ma oltre all’obiettivo encomiabile di promuovere già dall’interno il rispetto della legge e contribuire quindi ad impedire la diffusione a macchia d’olio delle manifestazioni criminose dell’impresa, questi codici mirano anche ad un altro scopo, meno sbandierato, ma altrettanto e forse più importante: quello di fare da cuscinetto all’aggressione sanzionatoria del governo (206). Si spera infatti che l’adozione di regole interne di comportamento sia recepita dalla prassi come una valida sostituzione della regolamentazione che proviene dall’esterno ed è imposta dall’ordinamento giuridico. Con la conseguenza di riuscire ad evitare, in caso di reato, la reazione sanzionatoria che proviene dall’ordinamento stesso. Alla luce dei fatti, un intervento esclusivo e diretto della legge penale — senza l’intermediazione del sistema di autodisciplina privata — appare disgregante rispetto all’equilibrio ed alla struttura delle imprese. Il rischio è quello di bloccarne ogni forma di espansione nel mondo degli affari. È questo dunque l’obiettivo fondamentale perseguito dalle persone giuridiche con l’adozione dei codici etici. Dietro di essi si intravvede la speranza che — in caso di commissione di un reato da parte dei dipendenti dell’impresa — la prassi tenga conto della collaborazione alla lotta contro la criminalità economica offerta dall’azienda e la premi non accollandole alcuna responsabilità. Questa speranza sembrerebbe confortata anche dalla constatazione che per determinate situazioni — peraltro molto specifiche — lo stesso legislatore abbia richiesto la predisposizione di alcune regole etiche (207). In ogni caso, a partire dagli anni ’90, i codici etici sono adottati da più del 90% delle imprese nordamericane (208). (205) PEDRAZZI, Codici etici e legge dello Stato, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 1051, cui si rinvia per una lucida analisi dei caratteri dei codici etici e dei loro rapporti con le leggi dell’ordinamento giuridico. (206) Cfr. sul punto PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing, cit., p. 1561. (207) In base all’Insider Trading and Securities Fraund Enforcement Act (ITSFEA) del 1988 (cfr. sec. 78 o (f) 15 U.S.C.A., Supp. 1989), i broker-dealers e gli investment advisors hanno l’obbligo di « stabilire, mantenere e far osservare » regole e procedure scritte dirette a prevenire il reato di insider trading. In precedenza, la Securities and Exchange Commission (SEC) aveva adottato il cd. Investment Company Act Rule che imponeva alle compagnie d’investimento di « adottare dei codici etici scritti », diretti a scoraggiare comportamenti fraudolenti. Per queste indicazioni cfr. PITT-GROSKAUFMANIS, Corporate Codes, cit., p. 28 s. (208) Ibidem.


— 133 — Quanto al contenuto dei codici etici, va osservato quanto segue: α) Anzittutto, sebbene la maggior parte delle persone giuridiche adotti dei codici scritti, periodicamente aggiornati, non esiste un « modello ideale » di codice (un codice-tipo) cui le imprese possano ispirarsi per formulare il proprio (209). I codici etici sono dunque « a forma libera »: ogni persona giuridica può costruirli senza seguire uno schema specifico, dando al proprio uno stampo particolare, con contenuti originali e irripetibili (210). β) Peraltro, a dispetto di questa volubilità e variabilità di contenuti, ci sono degli elementi dominanti riscontrabili in molti codici etici. Approfondite ricerche empiriche elaborate nel 1987 (211) dimostrano che il conflitto d’interessi occupa il primo posto (97,3%) tra le materie trattate (212), seguito dalla corruzione (86,7%) (213), dall’uso disonesto delle informazioni confidenziali (83,3%) (214), e dalla corruzione in affari internazionali (83,3%) (215). Vengono poi il finanziamento dei partiti (78,7%) (216), l’insider trading (73,3%) (217) (217) Cfr. Nynex Co., Code of Business Conduct, cit., p. 189: « Molti di noi hanno accesso a speciali categorie di informazioni della proprietà (...). Si tratta di informazioni non pubbliche che possono influenzare le decisioni di investire in azioni Nynex piuttosto che in azioni di un’altra impresa (...). È vietato che un impiegato della Nynex compri o venda azioni mentre è al (209) Cfr. WHITE-MONTGOMERY, Corporate Codes of Conduct, in Cal. Mgmt. Rev., 1980, p. 85 s. (210) Cfr. PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing, p. 1603. (211) I dati di questa indagine sono interamente riportati da PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing, cit., p. 1603, nt. 261. (212) Cfr. General Dynamics Corporation, Standards of Business Ethics and Conduct, in Ethics Roundtable, cit., p. 98: « In qualità di impiegati dobbiamo considerarci persone degne di fiducia (...). Dobbiamo fare particolare attenzione alle molteplici situazioni all’interno o anche al di fuori dell’ambiente di lavoro in cui può avere origine un conflitto d’interessi o anche solo la parvenza di esso (...) ». (213) Cfr. IBM Corporation, Business Conduct Guidelines, in Ethics Roundtable, cit., p. 111: « Né voi né nessun componente della vostra famiglia può sollecitare o accettare da clienti o fornitori denaro o doni che possano avere un ragionevole collegamento con i rapporti di lavoro che intercorrono tra IBM e quei clienti o fornitori ». (214) Cfr. IBM Corporation, Business Conduct Guidelines, cit., p. 103: « Oltre a non rivelare nessuna informazione riguardante l’IBM a nessun estraneo alla società, avete il compito, in qualità di impiegati, di usare quelle informazioni solo se sono in intima connessione con gli affari IBM ». (215) Cfr. Nynex Co., Code of Business Conduct, in Ethics Roundtable, cit., p. 190: « In base al Foreign Corrupt Practice Act del 1977 è vietato il pagamento o l’offerta di pagamento di una somma di denaro a rappresentanti stranieri, partiti politici o candidati di gruppi stranieri allo scopo di ottenere, mantenere, dirigere degli affari ».


— 134 — corrente di queste « informazioni interne » o passi queste informazioni ad altri che possano comprare o vendere le azioni ». , le violazioni alla normativa antitrust (68%) (218). γ) Qualche osservazione merita poi il problema della capacità di coercizione delle regole etiche, ossia di come venga affrontata nei codici la questione dell’inosservanza delle prescrizioni in essi contenute. Questo è il vero punctum dolens dei codici etici: la mancanza quasi totale di un apparato sanzionatorio adeguato. Tutti i codici, magari molto particolareggiati sulle norme-comando, ossia su quello che conviene o non conviene fare in determinate situazioni, sono assolutamente carenti sul versante della disciplina, delle sanzioni: basti pensare che solo un terzo di essi adotta delle procedure formali in caso d’inosservanza delle prescrizioni (219). Da un attento esame di dieci codici adottati all’interno di alcune importanti società vediamo infatti che solo in casi sporadici si dedica uno spazio adeguato all’apparato delle sanzioni disciplinari. Alcuni di essi si limitano a lanciare dei moniti generici, caratterizzati da affermazioni assolutamente prive di tassatività: « Vista l’importanza delle prescrizioni, l’inosservanza non verrà tollerata. In caso di violazione delle citate disposizioni, gli impiegati verranno sottoposti ad azione disciplinare che può arrivare anche al licenziamento » (220). Altri neppure menzionano la possibilità di un procedimento disciplinare in caso di inottemperanza delle regole etiche (221). La mancanza di un rispettabile reticolato sanzionatorio è dunque il tallone d’Achille dei codici etici statunitensi. Ed è chiaro che una struttura di autoregolamentazione anche molto precisa e dettagliata perde di credibilità se non ha come pendant un proporzionato apparato disciplinare. Al(216) Cfr. General Dynamics Corporation, Standards, cit., p. 92: « (...) I fondi ed il patrimonio della società non devono essere attribuiti o prestati, direttamente o indirettamente a nessun partito politico (...) ». (218) Cfr. General Dynamics Corporation, Standards, cit., p. 89. « Le leggi antitrust degli Stati Uniti e degli altri paesi sono estremamente importanti (...). Nessun accordo può essere fatto tra concorrenti per fissare o tenere sotto controllo i prezzi, per collocare prodotti (...), per boicottare determinati clienti o fornitori (...) ». (219) Cfr. PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing, cit., p. 1604 s.; per una critica all’inconsistenza dell’apparato disciplinare degli Ethical Codes cfr. BERENBEIM, Codes of Conduct, in Compliance Programs, cit., p. 20 ss. (220) Cfr. tra gli altri Sun Company, Business Ethics and Conduct, in Ethics Roundtable, cit., p. 152. (221) Cfr. Nynex Co., Code of Business Conduct, cit., p. 187 ss.; IBM Corporation, Business Conduct Guidelines, cit., p. 99 ss.


— 135 — trimenti non è altro che un sistema che — anche se perfetto — è totalmente disarmato, destinato a restare sulla carta, a rimanere privo di effettività: come il progetto di un’automobile comodissima e dal bell’aspetto esteriore, ma per cui il suo inventore non ha previsto il motore! Ed è questo probabilmente l’elemento che induce la dottrina europea più smaliziata a guardare con estrema diffidenza a siffatti codici etici; a considerarli cioè come una delle tante manifestazioni del puritanesimo americano, specchio di una mentalità in definitiva ipocrita, che vuole a tutti i costi salvare « l’immagine sociale dell’impresa allo scopo di legittimare in tutti i sensi il suo operare » (222). Il rischio è quello della costruzione di « codici-alibi », abilmente creati per rassicurare i consociati sulla moralizzazione e purificazione dell’humus aziendale, ma in realtà privi di un autentico obiettivo di autoregolamentazione (223). La stessa diffidenza manifestata dalla dottrina europea si ritrova ben radicata anche nell’ordinamento della prassi nordamericana: la speranza delle imprese di poter evitare un’incriminazione o quanto meno una condanna grazie al lasciapassare dei codici etici viene ben presto delusa. Alcuni sporadici orientamenti tendono peraltro a dare qualche rilevanza alle regole etiche: queste decisioni si appellano al Model Penal Code (224), oppure cercano la prova di un effettivo radicamento dei codici etici nella mentalità e nella gestione dell’impresa (225), o infine danno spazio a sofisticati meccanismi quali i cd. Chinese Walls (226). Ma si tratta di voci nel deserto. La giurisprudenza dominante è invece assolutamente risoluta: la persona giuridica risponde penalmente dei reati commessi dai propri agenti che hanno agito in nome e per conto dell’impresa ed allo scopo di recare beneficio alla stessa « anche quando questi comportamenti sono in con(222) G. ROSSI, L’etica degli affari, in Riv. soc., 1992, p. 541. (223) Cfr. sul punto DELMAS-MARTY, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, 1992, p. 173 s. (224) Il § 2.07 (5) M.P.C. riconosce infatti una defense « se l’imputato fornisce prove schiaccianti sul fatto che l’appartenente al gruppo dirigente dell’impresa con responsabilità di supervisione sui fatti che hanno portato alla realizzazione del reato ha usato il dovere di diligenza per prevenire la sua commissione ». Cfr. sul punto PITT-GROSKAUFMANIS, Minimizing, cit., p. 1613. (225) Cfr. U.S. v. Beusch, in 596 F.2d, 1979, p. 879. (226) I « Chinese walls » sono procedure speciali in grado di bloccare il flusso delle informazioni all’interno della persona giuridica. Si tratta perciò di strutture-argine che consentono all’impresa di svolgere delle attività che altrimenti sarebbero inquinate dal conflitto di interessi. Per un’analisi di questi meccanismi a barriera cfr. PITT-GROSKAUFMANIS, Corporate Codes, cit., p. 30 ss.


— 136 — trasto con la politica e le regole specifiche adottate all’interno della persona giuridica » (227). Le sentenze si susseguono ribadendo il medesimo concetto con rassicurante costanza (228). Naufraga perciò miseramente il tentativo di frapporre tra l’ordinamento penale ed il reo-persona giuridica un sistema di autoregolamentazione teso a proteggere l’impresa colpevole dalla reazione del braccio armato dello Stato. La prassi si oppone quindi con decisione a questa manovra di salvataggio della forma e del buon nome delle imprese e ne ridimensiona brutalmente le aspirazioni: la presenza di codici etici non riesce a bloccare o a filtrare la reazione dell’ordinamento penale. In altre parole, non basta dimostrare l’esistenza, all’interno dell’impresa, di un programma di autoregolamentazione per evitare, in caso di reato, la sanzione penale; i codici etici possono certamente svolgere un’azione di supporto della legge dello Stato nella prevenzione dei reati, dando delle indicazioni che specifichino, in relazione all’attività e alla sfera di interessi dell’impresa in cui sono applicati, il precetto penale. Ma nulla di più. Questa situazione è destinata a modificarsi dopo l’entrata in vigore delle Guidelines del ’91: la disposizione che introduce i compliance programs consente finalmente di realizzare l’obiettivo di proteggere la persona giuridica che ha commesso il reato dall’aggressività devastante della sanzione penale. Come vedremo, benefici consistenti sono ottenibili dall’impresa che dimostra di aver messo a punto un « effettivo programma di collaborazione ». Invero, ci sono dei punti in comune tra codici etici e compliance programs: entrambi presentano l’aspetto dell’autoregolamentazione, entrambi hanno finalità preventive; ma va fin d’ora evidenziato che le differenze tra i due sistemi sono molto più profonde e rilevanti dei punti di contatto. a) Innanzitutto essi divergono per quanto concerne la fonte di produzione: i codici etici sono il prodotto unico ed esclusivo della persona giuridica: il loro processo fisiologico (decisione se adottarli o meno, ideazione del programma, costruzione pratica dello stesso) si svolge infatti integralmente dentro le mura dell’impresa. I compliance programs per con(227) U.S. v. Basic Constr. Co., in 711 F.2d, 1983, p. 573 (corsivo nostro). (228) Cfr. Standard Oil Co. v. United States, in 307 F.2d, 1962, p. 127; U.S. v. Cadillac Overall Supply Co., in 568 F.2d, p. 1090; U.S. v. Automated Medical Laboratories Inc., in 770 F.2d, 1985, p. 407; U.S. v. Twentieth Century Fox Film Corp., in 882 F.2d, 1989, p. 660.


— 137 — verso sono sì elaborati all’interno della persona giuridica, ma la loro fonte generatrice primaria, che induce l’impresa ad adottarli e che ne specifica i requisiti ed i limiti è la legge federale. Ecco perché, mentre gli ethical Codes possono essere elaborati dalle persone giuridiche con piena libertà di forma e con assoluta creatività, la strutturazione dei compliance programs deve conformarsi a ben determinati princìpi. b) I codici etici possono essere molto generici, limitandosi a fissare dei princìpi generali di « una cultura etica diretta a coinvolgere la comunità » (229). Altri sono più specifici e dettagliati, frutto di una seria programmazione e di un’esperienza anche pluriennale; tant’è che alcuni di essi sono stati successivamente assorbiti negli stessi compliance programs con le opportune modifiche (230). Ma, a differenza dei programmi introdotti dalle Federal Guidelines, i codici etici non hanno alcun valore coercitivo, perché non creano un autentico vincolo giuridico di osservanza da parte dei loro destinatari. Diversamente dai compliance programs i codici etici mancano il più delle volte di un apparato disciplinare che reagisca al mancato ottemperamento delle prescrizioni ivi contenute. Ma veniamo alla struttura dei compliance programs. 7. I meccanismi d’azione dei compliance programs. — Come abbiamo già evidenziato, la riduzione di « tre punti » della dosimetria relativa al grado di colpevolezza è possibile solo se la persona giuridica ha adottato un « effettivo programma diretto a prevenire ed a scoprire i reati ». Peraltro, l’attenuante è esclusa ex § 8C2.5 quando « un soggetto appartenente al gruppo dirigente dell’impresa, o un soggetto facente parte del gruppo dirigente di un’organizzazione con almeno 200 impiegati, o il responsabile della gestione e dell’implementazione di un compliance program ha partecipato ad un reato, l’ha consentito o l’ha consapevolmente ignorato ». L’attenuante è altresì inapplicabile alla persona giuridica che — pur avendo adottato un compliance program effettivo — sia « consapevole della commissione di un reato, e ne abbia senza ragione ritardato la denuncia all’autorità competente ». Infine, la partecipazione al reato di un soggetto che si trova in posizione di « autorità sostanziale » all’interno della persona giuridica costituisce una « presunzione iuris tantum » (re(229) XEROX Co., Ethics and Quality, in Ethics Roundtable, cit., p. 289. (230) Cfr. sul punto WEBB-MOLO, Some Practical Considerations, cit., p. 375.


— 138 — buttable presumption) che l’impresa manca di un compliance program caratterizzato dal requisito dell’effettività (231). Ma quando un compliance program può dirsi « effettivo »? La letteratura nordamericana fiorita negli ultimi anni in materia di responsabilità penale della persona giuridica ha dedicato ampio spazio al concetto di effettività. Si sottolinea in particolare come la nozione offerta dalle Guidelines miri ad orientare la discrezionalità dei giudici nel processo di commisurazione della pena pecuniaria: l’obiettivo è quello di far sì che le Corti riescano ad adeguare la sanzione a quell’universo multiforme e variegato di manifestazioni che caratterizza la criminalità economica delle imprese (232). Il Commento alle Guidelines detta innanzitutto un principio generale diretto a definire il requisito di effettività di un programma di collaborazione: « Un programma effettivo (...) è un programma che è stato con ragionevolezza costruito, che è concretamente applicato ed è provvisto di un apparato sanzionatorio, in modo tale da riuscire efficacemente a prevenire ed a scoprire i comportamenti criminosi ». Il carattere dell’effettività viene posto dalle stesse Guidelines in stretta connessione con il dovere di diligenza (due diligence) che la persona giuridica deve dimostrare di aver usato: « Il punto fondamentale di un effettivo programma diretto a prevenire ed a scoprire l’attività delittuosa sta nel dovere di diligenza che l’impresa deve esercitare nel tentativo di impedire e scoprire i reati commessi dai suoi impiegati e dagli altri agenti » (233). Come sottolinea la dottrina, non è dunque indispensabile che l’impresa dimostri di essere riuscita ad evitare la commissione dei reati; è invece necessario che dia prova di aver fatto tutti gli sforzi possibili diretti a prevenire e reprimere l’attività criminosa (234). « Un insuccesso nell’attività di prevenzione e scoperta delle azioni illecite non significa di per sé che il programma è carente di effettività » (235). A questo punto il commentario diviene più specifico e passa ad elencare sette criteri che devono « come minimo » essere rispettati dall’im(231) Cfr. sul punto Practice Under The New Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 376.23. (232) Cfr. per tutti SWENSON, An Effective Program to Prevent and Detect violations of Law, in KAPLAN-MURPHY-SWENSON, Compliance Programs, cit., p. 16. (233) § 8A1.2 Commentaries sub 3 (K). (234) Cfr. DERMOTT, Compliance Program Design, in AA.VV., BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., p. 5. (235) § 8A1.2 Commentaries sub 3 (K).


— 139 — presa nella progettazione ed applicazione pratica di un programma perché possa ritenersi soddisfatto il dovere di diligenza (236). Come si nota, la legge parla di « requisiti minimi », cioè di requisiti base. Ciò significa che a questi fattori imprescindibili, tratteggiati dalle Guidelines, potranno aggiungersi anche altri requisiti che rispecchino la peculiarità e la struttura di ogni singola impresa, sempreché servano a corroborare la dimostrazione che la persona giuridica ha usato la diligenza necessaria nella messa a punto delle tecniche di prevenzione (237). 8. I singoli requisiti: (1) la capacità di ridurre la possibilità di commettere reati. Analizziamo in dettaglio i singoli requisiti. « La persona giuridica deve aver costruito dei modelli e delle procedure ragionevolmente in grado di ridurre la possibilità dei comportamenti criminosi, in modo che siano osservati da parte degli impiegati e degli altri agenti della società » (238).

La disposizione appare a prima vista pleonastica, ripetitiva del principio generale enunciato nelle Guidelines. La dottrina si affretta peraltro a chiarire che la norma è stata concepita per negare rilevanza a tutte quelle dichiarazioni generiche, miranti a rassicurare che « gli impiegati saranno rispettosi della legge ». Occorrono invece delle regole molto precise, chiare, facilmente comprensibili e che siano in diretto collegamento con l’attività svolta dalla persona giuridica (239). A definire i contorni e le caratteristiche dei modelli e delle procedure capaci di ridurre le probabilità di commissione dei reati provvede lo stesso Commentario, che indica una serie di elementi da tenere in debito conto al momento della progettazione di un compliance program « qualificato ». α) Innanzitutto deve essere considerata « la dimensione della persona giuridica » (240). Come affermano le Guidelines: ‘‘Più grande è l’or(236) Ibidem. Cfr. SWENSON, An Effective Program, cit., p. 16; SWENSON-CLARK, The New Federal Sentencing Guidelines. Three Keys to Understanding the Credit for Compliance Programs, in Corp. Cond. Q., 1991, fasc. 1, p. 1. (237) Cfr. DERMOTT, Compliance Program, cit., p. 5 ss. (238) § 8A1.2 Commentary 3 (K). (239) Cfr. sul punto KAPLAN-PERRY, The High Cost of Corporate Crime. How Firms can Protect Themselves from Potential Huge Liabilities, in MngAcc., dec. 1991, p. 44; STEWART, Basics of Criminal Liability for Corporations and Their Officials, and Use of Compliance Programs and Internal Investigations, in Pub. Con. L.Y., 1992, vol. XXII, p. 91. (240) § 8A1.2 Commentary sub (i).


— 140 — ganizzazione, più formale sarà il programma’’. In altre parole — interpreta la dottrina — per un’impresa di modeste dimensioni e con non più di un’ottantina di dipendenti, sarà sufficiente un manuale scritto, un corso d’istruzione iniziale ed un sistema di denuncie anonime dei reati; un’organizzazione di grosse dimensioni dovrà invece attrezzarsi di moderni sistemi di istruzione degli impiegati consistenti in seminari, proiezioni di audiovisivi, corsi di aggiornamento, sofisticati sistemi di controllo dei comportamenti dei dipendenti; non dovrà mancare un raffinato sistema di denuncia delle condotte illecite attuato per mezzo di linee telefoniche a questo uso esclusivo predisposte, etc. (241). Interessante appare, a questo punto, vedere se e come le persone giuridiche hanno recepito il messaggio legislativo e la relativa tematizzazione dottrinale. Sul punto ci illumina uno studio statistico pubblicato di recente. Esso prende in esame i questionari compilati da 35 imprese. Le risposte sono raggruppate in tre categorie a seconda del profitto annuale che caratterizza ciascuna azienda. Nel primo gruppo rientrano le persone giuridiche con patrimonio non superiore a 100 milioni $; nel secondo sono incluse le imprese con patrimonio che varia tra i 100 e i 500 milioni $; nel terzo quelle con patrimonio superiore a 500 milioni $ (242). Dalle statistiche emerge come nel 1992 tutte le persone giuridiche abbiano sottolineato l’importanza di attribuire un certo rilievo al requisito della dimensione dell’impresa nell’elaborazione dei compliance programs; le indagini svolte nel 1993 dimostrano invece che circa il 32% delle aziende intervistate ha rilevato come il fattore ‘dimensione dell’impresa’ non debba giocare un ruolo particolarmente importante nella costruzione di un compliance program (243). Inoltre si nota che tutte le società esaminate prevedono nei loro programmi di collaborazione l’utilizzazione di mezzi di comunicazione di base, quali i corsi di orientamento degli impiegati (66% delle imprese), la distribuzione di opuscoli esplicativi (90%) e di codici etici; le imprese dotate di consistenti patrimoni fanno maggior uso di programmi audiovisivi rispetto agli altri gruppi (13 imprese su 35): infatti « le trasmissioni tele(241) Cfr. sul punto WEBB-MOLO, Some Practical Considerations, cit., p. 188. (242) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines and Corporate Compliance System: 1993 Status Report, in Prev. L. Rep., 1994, vol. XIII, n. 2, p. 25 ss. (243) Ibidem, p. 46.


— 141 — visive assicurano uniformità didattica e sono l’ideale per la diffusione dei programmi nelle strutture più complesse » (244). β) L’elaborazione di un compliance program deve in secondo luogo considerare « il tipo di attività » svolta dalla persona giuridica: vi è infatti un intimo collegamento tra la natura delle attività esercitate dall’impresa, che la qualificano nel mondo degli affari e il tipo di reato che può scaturirne. « Per esempio, se una persona giuridica ha a che fare con sostanze tossiche, deve aver stabilito dei modelli e delle procedure diretti ad assicurare che quelle sostanze sono maneggiate con cura in ogni circostanza. Se un’impresa impiega personale commerciale che ha la discrezionalità di fissare i prezzi, deve avere predisposto dei modelli e delle procedure diretti a prevenire/reprimere gli illeciti accordi di fissazione dei prezzi (price fixing (245). Se un’impresa impiega personale commerciale che ha la discrezionalità di illustrare le caratteristiche dei prodotti, deve aver stabilito modelli e procedure diretti a prevenire la truffa » (246).

Invero, dalle statistiche del ’93 emerge che tutte le persone giuridiche intervistate pongono, nell’elaborazione dei loro programmi, l’accento sul conflitto di interessi, abuso di sostanze, abuso di dati; le imprese di dimensioni maggiori mirano a disciplinare le violazioni della legge antitrust, inquinamento, abusi in materia di garanzie patrimoniali e di proprietà intellettuale (247). Inoltre, le imprese dotate di ingenti capitali tendono ad elaborare programmi più generici, finalizzati cioè a servire da copertura ad un ampio spettro di comportamenti aggressivi del bene giuridico, senza focalizzare con precisione una determinata condotta illecita. γ) Infine, la « storia precedente dell’organizzazione » provvede a dare preziose indicazioni sulla gamma dei reati che possono più facilmente essere commessi dalla persona giuridica (248). La ricostruzione del curriculum criminale di una persona giuridica consente infatti di individuare i punti deboli dell’attività d’impresa e le sue eventuali patologie. La messa a fuoco dei comportamenti a rischio può rappresentare un utile punto di partenza per l’elaborazione di una profilassi anti-recidiva (249). In proposito, le recenti statistiche confermano come negli ultimi due anni il 42% delle persone giuridiche abbia compiuto un’accurata ricostru(244) Ibidem, p. 27. (245) È definito così negli Stati Uniti l’accordo tra imprese concorrenti diretto a stabilire prezzi o tariffe. Questo tipo di accordo è in contrasto con lo Sherman Antitrust Act. (246) § 8A1.2 Commentary sub (ii). (247) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 46. (248) § 8A1.2 Commentary sub (iii). (249) Cfr. sul punto SWENSON, An Effective Program, cit., p. 18.


— 142 — zione dei precedenti dell’impresa e ne abbia tenuto conto nell’elaborazione dei nuovi compliance programs (250). 9.

(Segue): (2) La scelta dei vigilantes.

« I soggetti appartenenti al personale di alto livello dell’impresa devono essere destinati all’attività di supervisione dell’attuazione dei programmi di collaborazione » (251).

Per « personale di alto livello » le Guidelines intendono coloro che all’interno della persona giuridica hanno il potere e l’autorità di intraprendere tutte le iniziative necessarie ad assicurare la realizzazione pratica di un programma di collaborazione, come dare l’autorizzazione a compiere delle spese dirette ad assicurare la diffusione dei programmi nell’ambito dell’impresa, o dare disposizioni finalizzate alla selezione del personale. Si tratta dunque di singoli soggetti o anche di intere commissioni scelte all’interno del gruppo dirigente (252). Il compliance program adottato dalla General Dynamics Corp. fa ad esempio riferimento ad « una Commissione Guida di cui fanno parte i dirigenti dei vari settori di attività (...) » (253). Il programma adottato dalla Continental Airlines Corp., un’importante compagnia aerea statunitense, istituisce « un comitato esecutivo permanente con il compito di controllare che siano rispettate le disposizioni di legge ed i regolamenti e svolgere funzioni di supervisione per tutte le attività di informazione del personale, predisposizione di sistemi di controllo e di denuncia dei comportamenti illeciti all’interno dell’organizzazione. Della Commissione devono far parte gli appartenenti all’esecutivo dell’impresa (...) » (254). Infine, il compliance program predisposto dalla Borg Warner Security Corp. stabilisce che « Il Consiglio generale della società ed il presidente di ciascun settore operativo hanno il compito di nominare, entro trenta giorni dall’entrata in vigore del programma, un funzionario addetto alla supervisione del programma (compliance officer) che ricopra perlomeno la carica di vicepresidente. In caso di vacanza dell’incarico il nuovo compliance officer dovrà essere eletto entro 15 giorni. I supervisori hanno la piena responsabilità di far rispettare i modelli e le

(250) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 47. (251) § 8A1.2 Commentary 3 (K) (2). (252) Cfr. sul punto SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation and Operation, in BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., p. 5. (253) General Dynamics Standars of Business and Conduct, in BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., Appendix, sec. V. (254) Continental Airlines, Corporate Compliance. Policy and Procedure Manual, 1993, inedito.


— 143 — procedure caratterizzanti i programmi di collaborazione all’interno della persona giuridica » (255). 10.

(Segue): (3) La selezione dei dipendenti: il criterio della « pro-

pensione del reato ». « La persona giuridica deve usare le cautele necessarie per non attribuire alcun potere discrezionale sostanziale a soggetti che manifestano un’inclinazione a commettere reati e sul cui conto la persona giuridica era informata o avrebbe dovuto esserlo se avesse utilizzato la diligenza dovuta » (256).

La disposizione, di stampo vagamente lombrosiano, ha suscitato non poche perplessità. La dottrina non ha voluto sbilanciarsi e, in attesa di una chiarificazione giurisprudenziale, si è limitata a dare delle indicazioni generiche su come interpretare la fattispecie (257). Nei pochi compliance programs effettivamente adottati all’interno di alcune persone giuridiche non vi è traccia di prescrizioni finalizzate a tradurre in pratica la norma; anche le statistiche ignorano il punto. In questa sede va sottolineata la vaghezza della disposizione, costruita su termini come « cautele necessarie » (due care), « diligenza dovuta » (due diligence) e « inclinazione a tenere comportamenti illeciti » (propensities to engage in illegal activities) che rappresentano l’apoteosi della violazione del principio di determinatezza (258). Sarà molto difficile tradurre in pratica la norma: una selezione del personale attuata in base al criterio della tendenza a delinquere manifestata dai candidati comporta l’utilizzazione di meccanismi di investigazione spesso invasivi della privacy individuale, in aperto contrasto con le disposizioni federali, statuali e locali che difendono i diritti degli impiegati (259). In attesa di una reazione della prassi che delimiti i contorni della fattispecie, la dottrina, imbarazzata, propone l’adozione di « ragionevoli criteri di selezione » da adottarsi nei confronti dei soggetti destinati a ruoli dirigenziali all’interno dell’organizzazione, caratterizzati dall’impiego di (255) Borg Warner Security Corp., Policy Statements and Compliance Programs, in BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., cap. IV, doc. 1 [A], p. 101 s. (256) § 8A1.2 Commentary 3 (K) (3). (257) Cfr. sul punto SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 9 ss. (258) Cfr. FREYER-HESSINGER-KLUBES, Care in Delegation Authority, in KAPLAN-MURPHY-SWENSON, Compliance Programs, cit., p. 3. (259) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 9.


— 144 — ampi poteri discrezionali (260). Tra questi si segnalano le ricerche sui precedenti penali e giudiziari e sugli eventuali procedimenti in corso a carico degli aspiranti dirigenti; le indagini sulle attività svolte in passato dai candidati; le informazioni sui comportamenti tenuti nei precedenti posti di lavoro, sul titolo di studio acquisito e sugli eventuali incarichi pubblici ricoperti (261). 11.

(Segue): (4) Le tecniche di comunicazione pedagogica.

« L’organizzazione deve aver adottato delle misure finalizzate a comunicare efficacemente i propri modelli e procedure a tutti gli impiegati ed agli alti agenti della persona giuridica, richiedendo ad esempio la partecipazione a programmi d’indottrinamento o provvedendo alla distribuzione di pubblicazioni esplicative di ciò che in pratica viene richiesto » (262).

La distribuzione all’interno della persona giuridica di materiale scritto, piuttosto che l’organizzazione di conferenze o corsi diretti a divulgare con terminologia tecnica, ma semplice e chiara, la politica della compagnia, rappresenta uno degli elementi fondamentali di un compliance program. Ciò si rivela particolarmente importante per quelle materie — quali ad esempio l’inquinamento o la sicurezza sul lavoro — bersagliate da disposizioni di legge alluvionali; queste aree di attività sono — come nel nostro sistema — oggetto di provvedimenti tra di loro spesso contrastanti, che si succedono con ritmi frenetici ed incontrollabili e non di rado creano disorientamento anche tra gli specialisti del ramo (263). A questo scopo, oltre all’utilizzazione di tecniche di divulgazione generali, destinate cioè alla totalità dei dipendenti della persona giuridica, è prevista l’adozione di tecniche d’informazione speciali, consistenti in pubblicazioni o corsi mirati, organizzati cioè appositamente per gli appartenenti ad ogni singolo settore di attività dell’impresa » (264). Nel compliance program della Continental Airlines si legge ad esempio che « l’attività d’informazione prevede che tutti gli impiegati familiarizzino con il programma; istruzioni specifiche sono poi previste per determinati gruppi, su argomenti degni di particolare attenzione » (265). Inoltre, lo stesso programma pre(260) FREYER-HESSINGER-KLUBES, Care in Delegation Authority, cit., p. 3. (261) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 11. (262) § 8A1.2 Commentary 3 (K) (4). (263) Cfr. sul punto SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 23. (264) Cfr. STEWART, Basics of Criminal Liability, cit., p. 91. (265) Continental Airlines, Corporate Compliance, cit., sec. 25, p. 2.


— 145 — vede che « (...) in caso di assunzione di un nuovo dipendente, o di trasferimento dello stesso in un altro settore di attività, egli riceva dal supervisore le istruzioni relative al nuovo ambito di lavoro ». Più specificatamente, « i gruppi destinati alla depurazione ed allo svuotamento di materiale infiammabile devono aver completato con successo un corso speciale della durata di 24 ore. Ciò significa che gli aspiranti a questo tipo di attività devono aver superato brillantemente almeno il 70% dei quesiti prospettati nel test ». Infine « coloro che svolgono il lavoro nelle zone ove vengono impiegate sostanze chimiche (ma che non sono addetti alla depurazione degli impianti) devono aver frequentato un corso speciale. Questo corso provvede a dare le adeguate informazioni affinché ciascun appartenente al gruppo di lavoro sia in grado di notificare le indicazioni necessarie al servizio d’emergenza in tempo utile » (266).

Quanto agli strumenti destinati a realizzare l’obiettivo « istruzione quadri », le Guidelines menzionano specificatamente: α) la partecipazione a programmi d’informazione; β) la distribuzione di pubblicazioni tra gli impiegati. α) L’organizzazione di seminari o conferenze tenute da professionisti specializzati costituisce il canale di comunicazione privilegiato dalle imprese di notevoli dimensioni, allo scopo di fornire le spiegazioni necessarie alla comprensione delle procedure messe in pratica nell’azienda. È prevista anche la proiezione di filmati e l’utilizzazione di computer o di altri sofisticati strumenti elettronici per facilitare la circolazione delle informazioni all’interno del personale (267). β) La distribuzione di un manuale, di fotocopie o bollettini aggiornati, rappresenta poi il mezzo più usato di « indottrinamento » dei quadri (268). In proposito, si nota come all’interno di alcune imprese vada sempre di più diffondendosi la consuetudine di richiedere a funzionari e impiegati con posizioni di responsabilità che hanno ricevuto copia del compliance program o altre istruzioni scritte, di compilare appositi moduli; in essi i dipendenti attestano di aver preso visione del materiale e di aver recepito i princìpi ivi contenuti (269). Il compliance program della General Dynamics Corp. prevede ad esempio « come condizione dell’assunzione, che tutti i nuovi impiegati debbano firmare una ‘‘carta di conoscenza’’ (Acknowledgement Card) in cui si afferma: ‘‘Ho ricevuto e letto la seconda edizione del Programma della General Dynamics. Sono

(266) Continental Airlines, Enviromental Compliance Manual, 1993, cap. III, p. 5. (267) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 27. (268) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 23 ss. (269) Sul punto v. KAPLAN-PERRY, The High Cost, cit., p. 45.


— 146 — consapevole che le prescrizioni ivi contenute rappresentano la linea di condotta dell’impresa’’ » (270). 12.

(Segue): (5) I meccanismi di controllo e i canali d’informazione

interna. « La persona giuridica deve aver adottato misure adeguate allo scopo di far rispettare i programmi, applicando dei meccanismi di controllo « simultanei » e « ricostruttivi » diretti a scoprire i comportamenti criminosi realizzati dagli impiegati e predisponendo e pubblicizzando un sistema di informazioni con cui il personale dell’impresa può denunciare ufficialmente la commissione di reati realizzati all’interno dell’organizzazione senza timore di essere sanzionato » (271).

Una volta progettato ed applicato un compliance program, la persona giuridica deve dunque predisporre gli accorgimenti necessari per assicurare che il programma funzioni effettivamente. Due sono gli strumenti messi a disposizione dalle Guidelines per verificare il grado di effettività: A) un meccanismo di controlli dell’attività svolta dall’impresa; B) un sistema di canali di comunicazione tramite i quali i dipendenti possono denunciare i comportamenti criminosi di cui sono a conoscenza, senza paura di essere puniti. A) Le Guidelines non forniscono un modello di controllo « universale », che si adatti cioè a tutti i tipi di società. Non vi è dunque uno schema base di controllo cui tutte le persone giuridiche possano far riferimento per modellare il proprio. Ogni impresa adotta il suo, tenendo conto delle dimensioni dell’azienda, del tipo di attività svolta, del numero di dirigenti ed impiegati, dei sistemi di controllo già sperimentati in passato (272). Le linee-guida provvedono invece a distinguere due tipi di controllo: il primo — cd. audit — si rivolge al passato, ha cioè carattere ricostruttivo delle attività svolte dalla persona giuridica; il secondo — cd. monitoring — presenta la caratteristica di dar conto « in contemporanea » dell’attività della persona giuridica. In altre parole questo tipo di controllo può essere attuato durante lo svolgimento dell’attività dell’azienda traducendone come un elettrocardiogramma i comportamenti di adesione o di violazione di un compliance program (273). (270) General Dynamics Standard, cit., sez. VII, p. 13. (271) § 8A1.2 Commentary 3 (K) (5). (272) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 28 s. (273) Ibidem, p. 27. Sulle caratteristiche della tecnica « audit » cfr. MURPHY, Conducting Compliance Audit: 18 Hints for Survival, in Corp. Cond. Q., 1991, p. 4 s.


— 147 — Lo scopo di questi controlli viene ben messo in evidenza dal programma adottato dalla Continental Airlines: « La finalità delle operazioni di controllo è duplice: in primo luogo si individuano le aree di attività in cui il programma non è rispettato; in secondo luogo il controllo dà l’opportunità di individuare le aree future su cui applicare e mantenere un compliance program di alto livello » (274).

Quanto ai soggetti demandati a svolgere questo compito, gli studi statistici compiuti in materia evidenziano come nella maggior parte delle persone giuridiche l’attività di controllo venga affidata a soggetti selezionati all’interno stesso dell’impresa tra il gruppo dirigente (circa il 68% nel 1993). Solo raramente, per attività particolarmente rischiose e complesse, è richiesto l’intervento di un consulente esterno. In alcune grosse società si sta affermando la prassi di utilizzare anche vere e proprie commissioni d’inchiesta (15% nel 1993) allo scopo di verificare l’effettivo funzionamento dei compliance programs (275). Ad esempio, in base al programma della Continental Airlines, « Tutti i servizi più importanti sono oggetto di controllo annuale da parte di un’apposita commissione. Ogni tre anni un ingegnere specializzato scelto all’esterno dell’impresa provvede a svolgere un controllo destinato a sostituirsi alla normale ispezione annuale (...) ». Inoltre « le attività di minor rilievo saranno ispezionate almeno una volta all’anno dal direttore generale (...) » (276).

Per quanto riguarda i requisiti che devono caratterizzare gli investigatori, la dottrina insiste sul concetto di imparzialità: il consulente — interno od esterno che sia — deve apparire estraneo ai giochi della politica d’impresa, in modo da suscitare credibilità nel pubblico ministero e ispirare fiducia negli impiegati indagati. Deve inoltre possedere l’autorità, la professionalità e la capacità personale di accedere a tutte le fonti d’informazione della persona giuridica senza essere ostacolato o impedito da sfiancanti formalità; deve poter prendere visione di documenti e consultare dati relativi all’azienda senza necessità di previa autorizzazione; modificare in qualsiasi momento l’attività di ogni settore operativo dell’organizzazione e, in particolare, di quelli a rischio; avere piena disponibilità di mezzi materiali ed umani che gli consentano di operare in modo rapido ed efficiente (277); deve insomma agire con ampia discrezionalità e con il (274) Continental Airlines, Enviromental Compliance, cap. III, p. 1. (275) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 28. (276) Continental Airlines, Enviromental Compliance, cit., cap. III, p. 2 s. (277) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 29.


— 148 — completo appoggio dei vertici dell’impresa, con cui deve restare in stretto contatto durante le operazioni di controllo (278). Ricevuta l’investitura il consulente passa alla fase operativa. La dottrina elenca una lunga serie di attività che qualificano le procedure di controllo. Tra di esse spiccano: l’indicazione, fatta preferibilmente per iscritto, delle finalità dell’attività investigativa; la predisposizione di una lista delle attività oggetto del controllo; l’individuazione degli impiegati da sottoporre a colloquio; la predisposizione di un questionario su cui si baseranno gli interrogatori; l’indicazione dei documenti da verificare; l’avviso ai dipartimenti prescelti del giorno e dell’ora dell’ispezione, sempreché non si decida un sopralluogo a sorpresa; il metodo con cui l’investigazione sarà svolta; la sottoposizione del programma di controllo all’ufficio legale dell’impresa in modo da determinare con precisione gli strumenti con cui tutelare le informazioni raccolte. L’attività investigativa deve essere dettagliatamente documentata e una copia del resoconto deve essere inviata all’ufficio legale dell’organizzazione (279). Il compliance program della Continental Airlines Corp. fornisce un esempio chiarificatore di come queste attività vengono realizzate. « Le operazioni di controllo si terranno durante la seconda settimana di febbraio di ogni anno. Una lettera con l’indicazione della data fissata per le operazioni e con acclusa una copia della lista delle attività oggetto del controllo sarà inviata due settimane prima dell’inzio delle procedure (...). Compiuto il controllo il consulente ha il compito di inviare una lettera in cui comunica i risultati dell’indagine e dà indicazioni dello svolgimento delle attività ritenute necessarie a correggere la situazione. La relazione dovrà essere compilata entro 15 giorni dall’inchiesta. Il piano di recupero deve identificare con precisione le carenze all’interno dei settori dell’impresa e dare indicazioni su come superarle. Inoltre deve nominare il responsabile dell’attività di recupero (...) che deve completarsi entro 3 mesi dall’emissione del piano di lavoro » (280).

Ci si chiede a questo punto se vi sia un limite all’invadenza di queste procedure di controllo all’interno delle aziende. L’ampia discrezionalità assicurata ai soggetti preposti alle indagini comporta infatti a nostro avviso dei rischi: allo scopo di scoprire e prevenire dei reati all’interno della (278) Continental Airlines, Enviromental Compliance, cit., cap. III, p. 1 « Il direttore generale deve accompagnare il personale addetto al controllo durante le attività di investigazione ». (279) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 33. (280) Continental Airlines, Enviromental Compliance, cit., cap. III, p. 3.


— 149 — persona giuridica si può arrivare a compiere altre non meno gravi violazioni a danno dei diritti personalissimi. La dottrina non si dilunga granché sul punto: si limita soltanto a raccomandare che le tecniche di investigazione siano « rispettose della privacy e dei diritti individuali » (281). Gli studi statistici ignorano la questione. Non resta che attendere — con una certa inquietudine — le reazioni della prassi. B) Allo scopo di garantire il funzionamento dei compliace programs, le Guidelines prevedono l’uso di canali di comunicazione interna per mezzo dei quali i dipendenti possono riferire sui comportamenti criminosi commessi all’interno dell’azienda. La dottrina sottolinea l’utilità di questi canali privilegiati: una condotta illecita scoperta grazie ai meccanismi di comunicazione interni può essere trattata e corretta ‘tra le mura dell’impresa’ prima che diventi indispensabile l’intervento dell’autorità giudiziaria (282). Si tratta dell’applicazione di una tecnica di controllo in grado di contenere il fenomeno prima che assuma delle proporzioni e delle manifestazioni che rendano necessario l’intervento della giustizia penale. In proposito, le ricerche statistiche condotte all’interno delle persone giuridiche dimostrano che la maggior parte delle imprese si affida a « normali » canali di denuncia: la notizia di un comportamento criminoso viene, nel 62% delle imprese, riferita al supervisore o al consulente generale, senza che sia necessario espletare particolari formalità (283). Più raramente si utilizzano i cd. canali « alternativi »: il ricorso a linee telefoniche speciali, come le cd. hot lines, dà la massima garanzia dell’anonimato e protegge in modo totale il denunciante dalla possibilità di ritorsioni e sanzioni indirette; ma si tratta di un mezzo di comunicazione utilizzato solo dal 25% delle imprese, perlopiù di notevoli dimensioni (284). Quanto ai requisiti formali della denuncia interna, le persone giuridiche richiedono il più delle volte che gli impiegati comunichino per iscritto, utilizzando magari appositi formulari (i cd. confidential activity reports); in essi si ribadisce l’obbligo dei dipendenti di denunciare i comportamenti illeciti di cui essi vengono a conoscenza; si indicano i mezzi di comunicazione messi a disposizione dall’impresa, rassicurando gli utenti sulla tem(281)

SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p.

(282)

Cfr. KAPLAN-PERRY, The High Cost of Corporate Crime, cit., p. 45; SHORB-TEI-

36. TEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 41 ss.

(283) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 28. (284) Ibidem.


— 150 — pestiva verifica delle notizie trasmesse. Specifiche garanzie vengono infine date sul fatto che gli informatori non saranno oggetto di alcun provvedimento sanzionatorio (285). Riportiamo, a titolo esemplificativo, la regolamentazione dei Communications Channels contenuta nel compliance program dell’IBM Corp. « Se siete a conoscenza di un comportamento illecito o comunque contrario ai princìpi etici adottati dalla compagnia, IBM vi mette a disposizione diversi mezzi con cui sollecitare l’intervento della società. Potete rivolgervi al vostro diretto superiore o contattare il consulente legale dell’IBM o usare lo speciale canale di comunicazione (speak up program). Potete rivolgervi direttamente anche al personale dirigente della società utilizzando il canale preferenziale (open door policy). Tutte le informazioni saranno prontamente verificate. Non saranno tollerate reazioni di ritorsione o applicazione di sanzioni nei confronti dei dipendenti che hanno utilizzato questi canali » (286). 13.

(Segue): (6) L’apparato disciplinare.

« Il rispetto dei programmi deve essere assicurato con la previsione di appropriati meccanismi disciplinari che includono sanzioni a carico dei soggetti colpevoli di omissione nella scoperta dei reati. L’imposizione di sanzioni appropriate nei confronti dei responsabili costituisce un elemento imprescindibile dell’applicazione di un compliance program. Peraltro, il tipo di sanzione adatta sarà valutata nel caso concreto » (287).

L’apparato sanzionatorio rappresenta perciò il punto di forza di un compliance program. « Un codice di condotta privo del supporto di un sistema di sanzioni dirette agli autori dei reati è una tigre di carta » (288). Con la previsione e l’applicazione di sanzioni in caso di realizzazione di un comportamento criminoso la persona giuridica lancia perciò un messaggio chiaro ai dipendenti, ai clienti ed alle autorità costituite: il compliance program non è un semplice manifesto simbolico dlel’impresa, ma (285) Cfr. SHORB-TEITEL-MACHLOWITZ-KARSON-FRASER, Program Implementation, cit., p. 42. (286) International Business Machines Corp., Business Conduct Guidelines, 1992, in BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., Appendix, Doc. 7, III-A, p. 5. Nel confidential activity report utilizzato nel compliance Program della Continental Airlines Corp. si sottolinea che « l’attività di informazione compiuta in buona fede e attinente alla verità dei fatti non comporta alcuna conseguenza dannosa sul piano lavorativo né l’applicazione di alcuna sanzione. Peraltro ogni informazione inconsistente o consapevolmente falsa rappresenta una grave violazione dei doveri professionali ed è soggetta ad severa disciplina ». Continental Airlines, Policy and Procedure, cit., cap. XXV, Appendix A. (287) § 8A1.2 Commentary 3 (K) (6). (288) LYTTON-DENTON, Employee Discipline, in Compliance Programs, cit., p. 1.


— 151 — un vero e proprio codice interno della società, attivo, funzionante e cogente. Parte della dottrina sottolinea come la previsione di un sistema di sanzioni che vive ed è efficiente all’interno di un’impresa è indicativo di « una parziale privatizzazione dell’amministrazione della giustizia penale » (289). L’apparato disciplinare adottato dall’azienda rappresenta dunque per questa teoria una forza ausiliaria, un utile supporto che si affianca al sistema sanzionatorio governativo per perseguire le sue medesime finalità. Lo Stato trae innegabile beneficio dall’intervento di questo nuovo alleato; la funzione generalpreventiva della pena risulta senz’altro valorizzata: è molto probabile che gli impiegati, consapevoli dei rischi che corrono in caso di reato, cerchino di adeguare il più possibile i loro comportamenti alle linee programmatiche applicate nell’impresa. Sul piano meramente materiale, si perviene poi ad una consistente riduzione dei costi connessi alla messa in moto della macchina della giustizia penale (290). Inoltre, per mezzo di un efficiente sistema di sanzioni, la persona giuridica può dare debito risalto alla sua filosofia di fondo e mettere bene a fuoco i suoi valori fondamentali, dimostrando sia ai suoi dipendenti che ai terzi che l’osservanza delle prescrizioni di legge è importante quanto la realizzazione degli obiettivi economico-finanziari che governano la competizione delle società nel mondo degli affari (291). Peraltro, quest’alleanza tra sistema penale ed impresa nella lotta contro la criminalità economica non va — a nostro avviso — eccessivamente enfatizzata. A parte l’innegabile potenziamento della finalità preventiva della pena, la principale ragione che induce una persona giuridica ad adottare un sistema disciplinare interno è quella di proteggere sé stessa dai comportamenti dei dipendenti che commettono reati (292). Con la codificazione di un apparato di sanzioni interne, la persona giuridica prende le distanze dagli autori dei reati, dimostra di non aver nulla a che spartire con loro, è in grado di provare la sua assoluta estraneità alla commissione di azioni criminose. Vi è una differenza netta rispetto a quanto accadeva con l’applica(289) BAYSINGER, Organization Theory and the Criminal Liability of Organizations, in B.V. L. Rev., 1991, p. 341. (290) Per queste considerazioni cfr. EDWARDS-BANKS-YUSPEH-VALUKAS-STAUFFERHAPKE, Enforcement and Response, in BNA/ACCA, Compliance Manual, cit., p. 5. (291) Cfr. LYTTON-DENTON, Employee Discipline, cit., p. 3. (292) Cfr. sul punto LYTTON-DENTON, Employee Discipline, cit., p. 2.


— 152 — zione dei codici etici: l’assenza di sanzioni ha tolto loro ogni credibilità agli occhi della prassi che, in caso di reato, ha sempre condannato la persona giuridica (293). Con l’entrata in vigore delle Guidelines si volta pagina: le persone giuridiche possono finalmente offrire alla giurisprudenza la prova che la loro regolamentazione interna non è un semplice biglietto da visita o un cartellone pubblicitario, in cui sono retoricamente elencate le buone intenzioni dell’impresa; è invece un programma serio, che deve essere osservato da tutti i dipendenti, tant’è che in caso di violazione, scattano le sanzioni. Naturalmente, perché questo sistema disciplinare possa essere efficiente e suscitare quindi affidamento, deve essere effettivamente comunicato ai dipendenti della società, che devono essere informati in modo dettagliato sulle relative procedure, sui tipi di sanzioni prescelte dalla persona giuridica in caso di reato, sui componenti della commissione disciplinare che provvederà ad irrogarle (294). L’apparato sanzionatorio della General Dynamics Corp. rappresenta un interessante esempio pratico di come questi sistemi interni possono essere concepiti. « Le disposizioni del programma devono essere seriamente tenute in considerazione dai dipendenti. Non verranno tollerate violazioni: in base alle norme stabilite dalla società, ai responsabili verrà applicata una o più delle seguenti sanzioni: — un’ammonizione; — una nota di demerito che verrà trascritta nel curriculum del soggetto; — il probation; — la retrocessione di grado; — la temporanea sospensione dall’incarico; — il licenziamento; — l’obbligo di rimborsare i danni causati; — la comunicazione dell’illecito commesso all’autorità civile o penale competente » (295).

Si tratta peraltro di un caso eccezionale. Le statistiche elaborate nel 1993 evidenziano infatti che finora solo il 22% delle imprese ha messo a punto un vero e proprio sistema ben strutturato di sanzioni. Nonostante l’enfasi data dalle Guidelines al punto, la maggior parte delle imprese preferisce a tutt’oggi scegliere di volta in volta la sanzione che più si adatta al caso concreto, senza tratteggiare nel suo programma (293) Sull’irrilevanza dei codici etici nella giurisprudenza cfr. retro, sez. II, § 6. (294) Cfr. sul punto EDWARDS-BANKS-YUSPEH-VALUKAS-STAUFFER-HAPKE, Enforcement and Response, cit., p. 7 ss. (295) General Dynamics Standards, cit., sez. IX, p. 14.


— 153 — un elenco delle vare opzioni sanzionatorie cui far riferimento di volta in volta (296). In effetti questo metodo può consentire l’individuazione di soluzioni maggiormente adeguate all’ipotesi specifica; ma può dissanguare o comunque fiaccare l’effetto protettivo/preventivo cui tende la persona giuridica e che sta alla base della costruzione di un dettagliato microsistema sanzionatorio interno. 14.

(Segue): (7) Compliance programs e modelli premiali: la valoriz-

zazione del postfatto. « Dopo la scoperta di un reato, l’organizzazione deve prendere tutte le misure necessarie per reagire in modo appropriato e per evitare la recidiva. comprese le modifiche del programma che sono indispensabili per prevenire e scoprire i delitti » (297).

Come abbiamo già rilevato, la realizzazione di un reato dovuta a degli errori commessi nella messa a punto della profilassi preventiva non taccia, per ciò solo, il compliance program di ineffettività. Il giudizio sulla validità di un programma dipende dalla sua valutazione complessiva, che tiene conto anche del comportamento tenuto dall’impresa successivamente al reato (298). La persona giuridica deve dunque dimostrare che la commissione del reato rappresenta solo un episodio isolato, un incidente di percorso che non inquina e non pregiudica un giudizio positivo sul programma di collaborazione. Ma come provare questo « pentimento »? In primo luogo la persona giuridica deve prontamente riesaminare il suo compliance program, individuare i punti deboli che hanno contribuito alla realizzazione della condotta criminosa e quindi, tempestivamente, modificarlo per colmarne le lacune, oppure ristrutturarlo del tutto (299). L’eventuale aggiornamento deve tener conto delle novità legislative intervenute in materia (300); allo scopo di evitare la recidiva la persona giuridica può arrivare a promuovere anche delle campagne di propaganda in(296) Cfr. JAMISON, Federal Sentencing Guidelines, cit., p. 29. (297) § 8A1.2 Commentary 3 (K) (7). (298) Sulla rilevanza della condotta susseguente al reato della persona giuridica cfr. EDWARDS-BANKS-YUSPEH-VALUKAS-STAUFFER-HAPKE, Enforcement and Response, cit., p. 21 ss. (299) Ibidem, p. 22. (300) Cfr. BARR-WEINREICH, The Science of Compliance Program, in Int. Fin. L. Rev., Sept. 1993, p. 34.


— 154 — terna in cui si dà adeguata pubblicità al reato commesso ed alle sanzioni applicate (301). Inoltre, nel comportamento finalizzato a prevenire la recidiva rientrano tutte le condotte lato sensu di cooperazione con l’autorità giudiziaria. Le Guidelines invero assicurano un’attenuazione della pena qualora la persona giuridica provveda ad autodenunciarsi, a collaborare con gli inquirenti, ad ammettere pienamente la sua responsabilità nella commissione del reato. In particolare « (1) se l’organizzazione prima dell’imminente indagine degli inquirenti e in un lasso di tempo ragionevole dopo la scoperta del reato denuncia lo stesso, collabora concretamente all’attività investigativa, riconosce ed accetta pienamente le sue responsabilità, si sottraggono 5 punti al grado di colpevolezza; (2) se l’organizzazione ha collaborato pienamente alle indagini ed ha riconosciuto la sua responsabilità, si sottraggono 2 punti; (3) se l’organizzazione ha ammesso pienamente la sua responsabilità, si sottrae un punto » (302). Si tratta di misure a struttura inequivocabilmente premiale che accordano alla persona giuridica « pentita » un’attenuazione della pena in cambio di una concreta collaborazione con gli inquirenti diretta a contenere gli effetti del reato commesso e ad evitare una ricaduta per il futuro. Non è questa la sede opportuna per approfondire le caratteristiche che qualificano l’attenuante. Basti qui sottolineare che la dichiarazione di responsabilità, per essere rilevante, non deve limitarsi a un’ammissione « passiva » dei fatti contestati alla persona giuridica, ma deve concretizzarsi in modo attivo e tangibile, fornendo all’autorità tutte le indicazioni ed i dati necessari alla ricostruzione del reato commesso (303). Va tuttavia evidenziato che mentre le Guidelines tratteggiano in modo dettagliato i benefici che scaturiscono dalla condotta di collaborazione, tacciono invece completamente sui rischi che da essa possono derivare. Infatti, « la legge non dà garanzie che i fatti di cui si dà conto nella denuncia siano coperti dal segreto » (304). Peraltro, le Guidelines concedono all’impresa « un periodo di tempo ragionevole » prima di decidere se mettere in atto il comportamento di collaborazione: quanto basta per informarsi dall’ufficio legale sul contenuto, sul tono e sulla necessità di (301) Cfr. sul punto EDWARDS-BANKS-YUSPEH-VALUKAS-STAUFFER-HAPKE, Enforcement and Response, cit., p. 23 s. (302) § 8C2.5 (g). (303) Cfr. EDWARDS-BANKS-YUSPEH-VALUKAS-STAUFFER-HAPKE, Enforcement and Response, cit., p. 43. (304) BARR-WEINREICH, The Science of Compliance Programs, cit., p. 34.


— 155 — un’autodenuncia. È fondamentale insomma studiare una strategia tesa a proteggere la persona giuridica nell’impatto con l’organo inquirente (305). 15. Considerazioni conclusive. I compliance programs come criterio di corresponsabilizzazione della persona giuridica: i benefici. — La ricostruzione dei tortuosi e tormentati itinerari che hanno caratterizzato l’evoluzione della pena pecuniaria come strumento privilegiato nella lotta contro la criminalità della societas ha dunque avuto un punto d’approdo nei compliance programs. Le critiche all’inefficienza delle fines non sono riuscite a spodestarle dalla loro posizione di supremazia nel controllo dei reati commessi dall’impresa. Il legislatore non ha bandito le sanzioni pecuniarie ritenendole inadeguate a combattere le manifestazioni della criminalità delle persone giuridiche: ha dato loro un’ultima chance puntando non sulle modifiche della struttura sostanziale, bensì sulla razionalizzazione del processo di commisurazione. La soluzione è stata cercata nei compliance programs. Quali sono, in definitiva i benefici connessi all’utilizzazione di questi programmi? Il primo vantaggio, enfatizzato da parte della dottrina come lo scopo fondamentale dei compliance programs, è quello di svolgere una funzione di prevenzione dei reati: in effetti, la costruzione di un preciso e rigoroso codice di comportamento all’interno dell’impresa contribuisce a creare un’atmosfera di rispetto della legge penale nell’azienda, a rinforzare il codice morale dei dipendenti ed a disincentivarli dall’intraprendere azioni criminose (306). Ma, come abbiamo già sottolineato, la realizzazione della finalità preventiva rappresenta solo l’effetto più eclatante e più pubblicizzato dei compliance programs: il perseguimento del fine di prevenzione rischia infatti di essere gonfiato ad arte dai sostenitori unilaterali della logica d’impresa, perché serve a dare un’immagine positiva della persona giuridica all’interno della collettività (307): preoccupandosi di curare l’aspetto preventivo, le imprese mettono in mostra la loro faccia migliore: quella rispettosa delle leggi; dimostrano così di non essere soltanto delle entità avide di successo economico e pronte ad usare i mezzi più rischiosi, teme(305) Ibidem, p. 35. (306) Cfr. sul punto WEBB-MOLO, Some Practical Considerations, cit., p. 376; KAPLAN-DAKIN, Compliance Programs and Corporate Sentencing Guidelines, in C.L., 1992, p. 22 ss.; OBERMAIER, A Practical Partnership, in Nat’ L.J., Nov. 1991, p. 12 ss. (307) Cfr. retro, sez. II, § 3.


— 156 — rari ed anche illegali pur di affermarsi nel mondo degli affari. Viene perciò garantito anche l’effetto di assicurazione nei confronti dei cittadini: si placano così gli eventuali timori dei consociati sull’aggressività delle persone giuridiche nel mondo degli affari. Accanto all’effetto preventivo vi è invero un’ulteriore finalità, che rispecchia gli autentici interessi della persona giuridica: quella di riuscire ad evitare o quantomeno ad attutire, in caso di reato, gli effetti devastanti della sanzione penale. Nel dettaglio. Innanzitutto, la presenza di un effettivo compliance program comporta — come abbiamo già visto — la riduzione di tre punti del coefficiente di colpevolezza. Ciò significa in pratica un’attenuazione della pena pecuniaria che può arrivare fino all’80% della pena base, con un risparmio economico, per la persona giuridica, di diversi milioni di dollari (308). Non solo: la presenza di un valido compliance program può addirittura persuadere il Pubblico Ministero a non procedere nei confronti di una persona giuridica, nonostante la prova della commissione di un reato. L’esistenza di un compliance program può essere infatti annoverata tra quelle situazioni di « pubblico interesse » che tolgono consistenza alla richiesta di procedere della pubblica accusa (309). Inoltre, l’applicazione di un programma rigoroso può portare ad individuare i comportamenti illeciti prima ancora che divengano penalmente rilevanti e, in ogni caso, prima che vengano a conoscenza dell’autorità giudiziaria; il che consente alla persona giuridica di studiare in anticipo una strategia difensiva che riesca a contenere gli effetti drammatici di una condanna penale ed a ridurre al massimo i danni sul versante civilistico. In quest’ottica l’impresa può valutare l’opportunità di un’utilitaristica autodenuncia o di qualunque altro comportamento di collaborazione con gli inquirenti (310). Infine, come stabiliscono specificatamente le Guidelines, la presenza di un effettivo compliance program evita l’applicazione del probation nei confronti della società condannata (311). Il legislatore del ’91 sembrerebbe perciò aver soddisfatto tutte le esi(308) Cfr. MCKANN-GOEBEL, Corporate Compliance Under the New Federal Sentencing Guidelines, in Prac. Law, 1992, n. 4, p. 88 s. (309) Cfr. sul punto WEBB-MOLO, Some Practical Considerations, cit., p. 378. (310) Ibidem, p. 377. (311) § 8D1.1. Cfr. sul punto BLACK, Corporate Crime and Punishment, in Crim. Jus., Winter 1992, p. 37.


— 157 — genze: sia quelle di prevenzione dei reati, che quella di protezione della persona giuridica da fines troppo debilitanti. 16. (Segue): I costi. Gli effetti preterintenzionali della corresponsabilizzazione. — Ci vorranno alcuni anni per vedere, dalle reazioni della prassi, se i compliance programs sono riusciti a realizzare l’effetto preventivo ed a depurare perciò le fines da quei vizi da sempre denunciati dalla dottrina come malformazioni congenite difficilmente eliminabili (312). Quanto all’effetto di protezione, oltre all’assenza di giurisprudenza, la reticenza delle persone giuridiche a rendere pubblici i loro programmi non aiuta a formulare un giudizio; peraltro, qualche osservazione può essere fin d’ora azzardata. I benefici realizzabili dall’impresa con l’applicazione di un compliance program sono senz’altro considerevoli, ma il prezzo da pagare per ottenerli non è irrisorio. Accanto agli effetti voluti, la messa in pratica di un compliance program si porta a rimorchio un vero e proprio bagaglio di effetti preterintenzionali, non certo previsti e perseguiti dai sostenitori delle imprese che si sono impegnati nello studio e nella predisposizione di queste strategie difensive. Abbiamo visto quando un compliance program può dirsi effettivo. Effettività significa corsi intensivi di istruzione e di aggiornamento, selezione dei supervisori in base a garanzie di totale assenza di prospensione a delinquere, ispezioni continue e controlli anche a sorpresa dell’attività svolta, incentivo alla delazione, sanzioni rigorose. Nel controllo della criminalità dell’impresa, il diritto penale utilizza perciò una tecnica particolare, totalmente invasiva della struttura della persona giuridica. Non si limita quindi — come al solito — a tratteggiare il comportamento offensivo del bene giuridico ed a minacciare la sanzione corrispondente, ma va ben oltre: detta delle disposizioni dirette a modellare e ristrutturare la « condotta di vita » del soggetto attivo — in questo caso della persona giuridica. È come se, nei confronti di una persona fisica, pretendesse di regolarne la vita di ogni giorno e non si limitasse a scoraggiare singoli comportamenti lesivi del bene giuridico! La tecnica usata in quest’opera di rimodellamento è quella dell’onere. (312) Cfr. per tutti sul punto FISSE-BRAITHWAITE, Corporations, Crime and Accountability, 1993, p. 41 ss.; ARLEN, The Potentially Perverse Effects of Corporate Criminal Liability, in J. Leg. St., 1994, p. 833 ss.


— 158 — I termini del sinallagma sono i seguenti: per poter usufruire di determinati benefici, la persona giuridica deve porre in atto degli specifici comportamenti che siano indice univoco di un cambiamento di vita, di una completa revisione dell’organizzazione interna avvenuta in tutte le sue manifestazioni. Si tratta di un intervento ortopedico che modifica, demolisce e ricostruisce tutte le strutture portanti dell’impresa. Non era certo questo l’obiettivo cui miravano le persone giuridiche nell’elaborazione dei compliance programs: la copertura dall’impatto sanzionatorio è stata ottenuta, ma porta con sé morti e feriti: l’impresa rischia di rimanere imprigionata e di soffocare in quella stessa rete tessuta a regola d’arte per proteggerla. I controlli interni, i meccanismi disciplinari, i corsi d’apprendistato, l’utilizzazione degli informatori, il premio in cambio della collaborazione con gli inquirenti danno il ritratto di un diritto penale che, nei confronti della persona giuridica, mostra il suo aspetto peggiore: quello della manipolazione e del sospetto. Un diritto penale invadente e tecnocratico che tutto vuole regolamentare. Sono prime sensazioni, osservazioni abbozzate: solo uno studio più approfondito ci permetterà di formulare delle conclusioni precise e di emettere un giudizio definitivo sulla liceità, necessità ed effettività di queste nuove forme di controllo dell’impresa. Qui ci si è accontentati di gettare un primo sguardo su di una problematica enorme ed oramai esplosiva: i compliance programs — non solo nel sistema statunitense — spalancano la porta su di un universo in cui si propongono e si sperimentano tecniche rivoluzionarie di controllo dei reati commessi dalle persone giuridiche. CRISTINA DE MAGLIE Associato di Diritto penale commerciale nell’Università di Brescia


SUL C.D. PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA NELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE IN MATERIA PENALE. « A PROPOSITO DEL RIFIUTO TOTALE DI PRESTARE IL SERVIZIO MILITARE »

1. La Corte costituzionale, com’è noto, sempre più spesso si occupa di norme (1) dell’ordinamento penale militare (2). In particolare, è interessante considerare le recenti pronunce in materia di rifiuto totale di prestare il servizio militare. Con la prima, la Corte dichiara l’illegittimità dell’art. 8, III co. della L. 15 dicembre 1972, n. 772, in connessione con l’art. 148 c.p.m.p. (« diserzione ») « nella parte in cui non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 della L. n. 772 del 1972 o senza (1) Non è questa la sede per soffermarci sulla questione che impegna da tempo i costituzionalisti in relazione alla coincidenza, o meno, tra « norma » e « disposizione ». Nel ben noto senso che da una disposizione possano essere desunte più norme, CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Palermo, 1984, p. 402 ss. Contra, per tutti, DUNI, L’oggetto dei giudizi di costituzionalità e la problematica dei dispositivi additivi. Additività testuale e additività normativa, in Riv. cir. trasp., 1976, p. 540 ss.; ID., L’oggetto dei giudizi di costituzionalità e la problematica dei dispositivi additivi. Additività testuale e additività normativa, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1978, p. 314; ANCORA, La Corte Costituzionale ed il potere legislativo, in Giur. cost., 1987, p. 3825, ed in particolare, p. 3831 ss. Ritiene che « le pronunce della Corte costituzionale incidono in primo luogo e normalmente sui testi (e non anche sui testi), purché tali norme non siano puramente ipotetiche o immaginarie », ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1977, p. 154 e, nella edizione del 1988, p. 279 ss.; sul punto, cfr., altresì, SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 1981, p. 1696 ss. (2) Vd., da ultima, sent. C. Cost. 30 luglio 1993, n. 358, in Cass. pen., 1994, con nota di MAZZI, Incostituzionalità delle pene militari per gli obiettori di coscienza, p. 27 ss.; nonché in Giur. cost., 1994, p. 2824, con nota redazionale di ROSALIA D’ALESSIO e osservazione di VENDITTI, Reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e tipo di pena applicabile.


— 160 — aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura complessivamente non inferiore a quella del servizio militare di leva ». Si è così inteso circoscrivere il fenomeno della « spirale di condanne », e cioè il susseguirsi di condanne penali discendenti dal « rinnovo della richiesta di inquadramento dopo un primo rifiuto, che va ripetuto, sino all’età del congedo per limiti d’età, ogni volta che sia stata espiata la pena per qualcuno dei reati connessi al rifiuto del servizio militare » (3). I limiti che ineriscono alla natura del giudizio della Corte come giudizio incidentale, impediscono tuttavia alla stessa — in questa occasione — di accogliere la questione anche in relazione al reato di cui all’art. 151 c.p.m.p. (« mancanza alla chiamata »), come invece prospettato dal giudice a quo. Ma la lacuna è stata presto colmata. Una più generica formulazione del fatto nell’ordinanza di rimessione del GIP del Tribunale Militare di Padova (4) — il quale ha omesso di indicare la fattispecie criminosa ricorrente nel giudizio principale, riferendosi, in luogo, ad un non meglio precisato « rifiuto » del servizio militare per motivi diversi rispetto a quelli di cui all’art. 1 della legge cit. — ha infatti consentito alla Corte di superare (con una certa disinvoltura) tale ostacolo. Cosicché, nella seconda pronuncia, immediatamente successiva, l’esonero dal servizio militare è stato esteso (sempre una volta espiata la pena della reclusione in misura non inferiore alla durata del servizio di leva) altresì alle ipotesi diverse da quella di cui all’art. 148 c.p., e dunque a tutti coloro i quali abbiano « in tempo di pace rifiutato totalmente la prestazione del servizio stesso » (5). Sub specie di un ampliamento dell’esonero anche all’ipotesi in cui il (3) C. Cost. n. 343 del 1993, pubblicata per esteso in Cass. pen., 1993, p. 2472 ss., con nota di BRUNELLI, Il rifiuto di prestare il servizio militare nella giurisprudenza della Corte costituzionale, p. 2482 ss.; nonché — insieme a C. Cost. 3 dicembre 1993, n. 422, e a C. Cost. n. 358 cit., altresì, in Foro it., 1994, cc. 342 ss., con commento di SASSI, ‘‘Più che ‘l parlamentare pote’ la Corte’’: indicazioni e nuovo invito del giudice costituzionale al legislatore per la riforma della legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare (sent. nn. 343 e 358 del 1993), cc. 347 ss. (cui si rimanda per le indicazioni bibliografiche sul tema). (4) In G.U., 21 aprile 1993, I serie speciale, 1993. (5) Sent. n. 422 del 18 novembre-3 dicembre 1993, in G.U., I serie spec., 9 dicembre 1993. Ritiene l’organo di legittimità costituzionale essere « chiaro, infatti, che, nel ragionamento svolto da questa Corte nella sentenza n. 343 del 1993, è l’effetto della ‘‘spirale delle condanne’’ a porsi, di per sé, in contrasto con i valori e i fini espressi dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, III co. della Costituzione ». Sent. n. 422 cit., p. 16 della G.U.


— 161 — rifiuto non sia stato tempestivo, ma sia sopravvenuto all’assunzione del servizio militare (6), la sentenza in esame, nel ricalcare la precedente pronuncia, tuttavia, sembra segnare il passaggio (forse involontario) da una prospettiva formale (postulante la prospettazione esatta dei reati in relazione ai quali potesse ricorrere l’esonero de quo) ad una prospettiva sostanziale (che si accontenta dell’indicazione di un non meglio definito comportamento di « rifiuto » del servizio militare) (7). E potrebbe trattarsi di un mutamento di prospettiva non privo di significato. Potremmo, cioè, essere di fronte ad un tentativo di porre rimedio all’incapacità del codice penale militare ad organizzare una efficace tutela della « obbligazione militare », presente solo « sullo sfondo, filtrata attraverso la incriminazione di fatti formalmente violativi di prescrizioni dell’autorità competente inerenti alle modalità di esplicazione » (8). Sarebbe, peraltro, un tentativo non riuscito pienamente, se poi il compito di individuare il significato di disvalore penale che la Corte sembra tacitamente ritenere elemento comune alle differenti manifestazioni del rifiuto (renitenza alla leva, diserzione, mancanza alla chiamata, allontanamento illecito...) è affidato ad un dato del tutto estrinseco qual è la durata della espiazione della pena, piuttosto che ad elementi (oggettivi) rivelatori dell’offesa all’interesse tutelato (la prestazione del servizio militare). In altri termini, ben venga che la Corte costituzionale, a costo di qualche incoerenza, superi la sua originaria (invero troppo rigida) posizione, accontentandosi di una meno rigorosa formulazione del quesitum e non esiga più che il giudice le indichi puntualmente tutti i riferimenti normativi della pronuncia. E ben venga che la Corte, incidendo solo sull’art. 8, III co. L. n. (6) Il principio era già stato statuito — con riguardo alla formulazione originaria dell’art. 8 III co. L. n. 772/1972, da parte della C. Cost., con sent. n. 467/1991, in Giur. cost., 1991, p. 3805 ss., con nota di DI COSIMO, Coscienza individuale e momento di manifestazione dell’obiezione al servizio militare (p. 3818 ss.). (7) Sul grado di specificità del petitum richiesto dalla Corte, e sui vincoli che dalla sua formulazione essa deriva in ordine alla conoscenza della causa, vd., per tutti, ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 208 ss., nonché, su questioni più particolari, MODUGNO, Ancora sulla mancata determinazione del thema decidendum e sull’‘‘eccesso di potere legislativo’’, in Giur. cost., 1982, p. 2072 ss.; e, soprattutto, MODUGNO-CARNEVALE, Sentenze additive, ‘‘soluzione costituzionalmente obbligata’’ e declaratoria di inammissibilità per mancata indicazione del ‘‘verso’’ della richiesta di addizione, in Giur. cost., 1990, p. 519 ss. (8) BRUNELLI, op. cit., p. 2483.


— 162 — 772/1972, abbia reso l’esonero di cui alla stessa norma applicabile a qualunque ipotesi di « rifiuto », mostrando in tal modo di individuare una matrice comune e di ricondurre ad unità fattispecie penali militari prive di una effettiva tipizzazione sostanziale. Quel che è già stato e che probabilmente sarà ancora rimproverato alla Corte è invece che, una volta scelta questa via (vedremo poi in che misura e a quali condizioni praticabile), essa avrebbe forse potuto maggiormente impegnarsi nel recupero di tale tipicità sostanziale. Avrebbe potuto, ad esempio, ricollegare « l’effetto favorevole a un dato di durata dell’assenza, come oggettivamente significativo del rifiuto di prestare servizio », piuttosto che limitarsi a subordinare l’operatività dell’esonero alla « condizione che si sia raggiunto un quantum di pena » (9). Così, al momento attuale, l’esonero non potrà operare nell’ipotesi in cui una lunga assenza dal reparto sia stata punita in maniera leggera; mentre varrà « sol che il giudice abbia ‘‘calcato la mano’’ nel comminare la pena » (10). E queste considerazioni appaiono ancora più vere oggi che — dopo la sent. 422 — l’esonero è divenuto applicabile eventualmente anche in assenza degli estremi di una diserzione, nella condotta del reo. Ove a ciò si aggiunga, su un altro versante (la dottrina non ha tardato ad osservarlo), che con l’assumere la durata del servizio di leva a parametro per la determinazione del quantum di pena necessario a rendere operativo l’esonero di cui al II co. art. 8 L. n. 772, la Corte in realtà ha finito con l’accostare (in assenza di ogni plausibile giustificazione) due entità del tutto differenti (11), ci si avvede di come, in conclusione, la Corte, pur avendo coraggiosamente scelto di intervenire sul tema con una pronuncia manipolativa in nome del principio di ragionevolezza, non abbia poi altrettanto coraggiosamente portato questa scelta alle sue conseguenze, nel senso di fornire una soluzione più drastica e sostanziale. D’altro canto, essa ha inteso eliminare una ineguaglianza formale, senza però preoccuparsi (né poteva farlo) degli effetti che un intervento per sua natura a stretto raggio può comportare in termini di mancato coordinamento e con ripercussioni sul principio di eguaglianza. In realtà, a ben vedere, si è di fronte ad una materia particolarmente (9) BRUNELLI, op. cit., p. 2487. (10) BRUNELLI, op. cit., ibidem. È d’uopo peraltro osservare come il reato di cui all’art. 148 c.p.m.p. è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. (11) Fra l’altro contraddicendo alle sue stesse precedenti affermazioni; vd. sempre BRUNELLI, op. cit., p. 2486.


— 163 — delicata, che richiederebbe una revisione complessiva e coordinata, quale soltanto il legislatore è in grado di assicurare; e a tal proposito, d’altronde, la dottrina non si è mai stancata di avvertire che le sentenze manipolative « rischiano di aprire una catena imprevedibile di conseguenze, appunto perché sostituiscono ad una ‘‘logica’’ del legislatore (giusta o sbagliata che sia), una diversa ‘‘logica’’, che sviluppata coerentemente porta a conseguenze che non è affatto detto che il legislatore avrebbe condiviso o condividerebbe, se investito della questione » (12). D’altronde, le ordinanze di rimessione non si spingevano a richiedere alla Corte un intervento di tal fatta, ma avrebbero potuto essere intese, assai più modestamente, come domande di una semplice caducatoria. 2. A fronte, peraltro, di tutto ciò, non ci si chiede se la scelta della Corte fosse una scelta obbligata, o se — piuttosto e di contro — la Corte non abbia addirittura esorbitato i suoi limiti e le sue attribuzioni. Questo interrogativo ci condurrebbe all’ormai vecchia, sebbene sempre attuale polemica intorno all’ammissibilità delle c.d. ‘‘sentenze manipolative’’ della Corte costituzionale, che — come noto — assume toni ancor più accesi quando viene considerata in relazione alla discussa « potestà legislativa » della Corte in materia penale. A rigore, dovremmo preliminarmente domandarci se l’esonero dal servizio militare costituisca un vero e proprio elemento penale della disciplina, e non, piuttosto, un mero « effetto extrapenale », di carattere amministrativo (13). Tuttavia, anche senza voler aderire alla opinione espressa nell’ordinanza di rimessione dal GIP di Padova (per il quale l’esonero « potrebbe [...] considerarsi come correlato alle peculiarità della pena comminata per il reato di rifiuto, che subisce infatti sospensioni ed estinzioni sui generis (ultimo comma dell’art. 8) », rileviamo qui che esso funge comunque da presupposto (per quanto « in negativo ») per la configurabilità dei reati in esame, e che, in virtù di ciò, la sua incidenza sulla disciplina penalistica (12) G.U. RESCIGNO, Riflessioni sulle sentenze manipolative da un lato e sulla delimitazione della questione di costituzionalità dall’altro, suggerite dalla sentenza n. 139 del 1989, in Giur. cost., 1989, p. 661; con riguardo alla peculiarità del giudizio di ragionevolezza, vd. poi PIZZORUSSO, ‘‘Sotto accusa’’ i poteri della Corte costituzionale, in Corr. Giur., VII, p. 685. Per una proposta de jure condendo sulla possibile regolamentazione legislativa della materia, ancora BRUNELLI, op. cit., p. 2488. (13) Come pare ritenere BRUNELLI, op. cit., p. 2484 s.


— 164 — può ragionevolmente dirsi fuori discussione. Ed allora, sorvolando sull’ampio dibattito in ordine a quella che taluno ha provocatoriamente definito l’immagine di « organo di attuazione della Costituzione », che la Corte avrebbe di sé (14), non si può che prendere atto dei (sempre più estesi) poteri di cui si vale l’organo nel suo funzionamento (15); senza pensare di circoscrivere queste iniziative escludendovi la materia penalistica, in quanto presieduta da un principio di particolare rigore, quale quello di stretta legalità (16). È stato, infatti, osservato che, laddove « la riserva dovesse trarre origine, come si dice, dall’esigenza che la materia penale sia interamente affidata ad un organo più rappresentativo della Corte quale è il Parlamento, ciò dovrebbe valere per tutta l’attività normativa della Corte e non soltanto per le sentenze aggiuntive o sostitutive. Se si ammette che le sentenze di accoglimento della Corte sono atti normativi, infatti, questo carattere spetta indubbiamente, tanto alle sentenze che modificano il diritto vigente mediante l’introduzione di nuovi materiali (parole o frasi da ag(14) SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, p. 1718. Contra, PIZZORUSSO, La Corte Costituzionale tra giurisdizione e legislazione, in Foro it., 1980, c.c. 117 ss. Valuta positivamente i condizionamenti che la Corte costituzionale è in grado di esercitare sul legislatore, MODUGNO, Ancora sui controversi rapporti tra Corte costituzionale e potere legislativo, in Giur. cost., 1988, p. 16 ss., secondo il quale, tra l’altro, la Corte stessa sarebbe andata « trasformando in definitiva la sua funzione concepita originariamente come meramente garantistica in quella di mediazione o moderazione dei conflitti sociali » (ibidem, p. 20). ID., La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, p. 1646 ss. Ricordiamo che l’avvio del dibattito su questo tema è stato segnato da ELIA, del quale — più di recente — vd. Le sentenze additive e la più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Scritti su La giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, Palermo, 1985, p. 299 ss. (in particolare, p. 308 ss.). Ma, sul problema dei delicati equilibri tra i due organi, cfr. altresì le interessanti considerazioni di CRISAFULLI, Giustizia costituzionale e potere legislativo, in Aspetti e tendenze cit., p. 131 ss. (15) Sul tema, per tutti, D’ORAZIO, Le sentenze costituzionali additive tra esaltazione e contestazione, in Riv. trim. dir. pub., 1992, p. 61 ss. Per un inquadramento dogmatico del problema, si rimanda a FALZEA, In tema di accoglimento parziale, in Giur. cost., 1986, p. 2600. (16) Come vorrebbe, ad esempio, PEDRAZZI, Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale?, in questa Rivista, 1975, p. 651. Per una testimonianza dell’iniziale orientamento di self restraint della Corte, vd. FELICETTI, In tema di sentenze ‘‘additive’’ e d’inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale, in Cass. pen., 1984, p. 2107 ss.; ID., nota alla ord. C. Cost. 14 novembre 1984, p. 251, in Cass. pen., 1985, p. 1026 s.; ID., Discrezionalità legislativa e giudizio di costituzionalità, in Foro it., 1986, I, cc. 22 ss.; nonché D’AMICO, Sulla ‘‘costituzionalità’’ delle decisioni manipolative in materia penale, in Giur. it. 1990, cc. 258 ss. (nota n. 9); ma vd. anche CARLASSARE, Le decisioni d’inammissibilità e di manifesta infondatezza della Corte costituzionale, in Foro it., 1986, V, c. 300.


— 165 — giungere o sostituire), quanto a quelle che realizzano un analogo risultato mediante la semplice rimozione di materiali (articoli o commi o singole parole della legge vigente) » (17). Né si vuole sembrare insensibili alla considerazione che — al di là di ogni artifizio argomentativo — la portata, il significato e gli effetti di una sentenza manipolativa divergono, nei fatti, da quelli di una sentenza meramente caducatoria. A questo proposito, tuttavia, ricordiamo (solo di sfuggita) che, comunque, le pronunce della Corte costituzionale non potrebbero — almeno secondo l’attuale sensibilità giuridica — comportare un ampliamento della sfera di illiceità penale, non foss’altro che per il particolare meccanismo processuale attraverso il quale viene sollevata la questione di incostituzionalità (18); dal momento che l’eventuale decisione che si risolvesse in malam partem per il reo non potrebbe essere considerata rilevante — e renderebbe dunque inammissibile la questione — in forza del favor libertatis di cui all’art. 2 c.p. (19). (17) PIZZORUSSO, Sui limiti della potestà normativa della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1982, p. 309; ID., Il controllo della Corte costituzionale sull’uso della discrezionalità legislativa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986, p. 810. Invero, tuttavia, se a confronto delle pronunce caducatorie ovvero del profilo ablativo di quelle manipolative può addursi l’art. 136 Cost., idoneo a bilanciare il peso delle istanze di cui all’art. 25; deve altresì ammettersi che la prima norma non è più invocabile a supporto delle ulteriori attribuzioni espletate dalla Corte: con l’ineludibile conseguenza che, in relazione a queste ultime, la portata del principio di riserva di legge dovrebbe riacquistare la sua originaria espansione e forza preclusiva. Né ci si può qui discostare dall’orientamento secondo il quale la parte additiva delle pronunce manipolative della Corte costituzionale spiegherebbe la sua efficacia vincolante erga omnes (per la famosa distinzione tra « sentenze legge » e « sentenze indirizzo », ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale e il legislatore, in Foro it., 1981, cc. 246 ss.), non solo in relazione al profilo caducatorio, bensì anche in relazione a quello integrativo. Infatti, l’opposta tesi, per cui essa « varrà al più come proposta ermeneutica, capace — eventualmente — di imporsi a tutti i giudici (non ope constitutionis, bensì) attraverso il fatto estrinseco di un conforme e ripetuto comportamento applicativo dell’autorità giudiziaria » (sostenuta, di recente, con vigore, da PUGIOTTO, Dottrina del diritto vivente e ridefinizione delle sentenze additive, in Giur. cost., 1992, p. 3672 ss. e, in particolare, p. 3680, al quale rimandiamo per una chiara esposizione delle varie posizioni sul tema; in termini simili, cfr. la nota posizione di PICARDI, Le sentenze ‘‘integrative’’ della Corte costituzionale, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale cit., p. 599 ss. e, in particolare, p. 631 ss.), trova un insuperabile sbarramento proprio in materia di diritto penale, dove si porrebbe in insanabile contrasto, oltre che con le ragioni della riserva di legge (già messe seriamente in discussione dal potere normativo della Corte), altresì con quelle della tipicità e tassatività (un accenno a questo problema, considerato « un banco di prova molto impegnativo » è nello stesso PUGIOTTO, op. cit., p. 3709 ss., nota n. 113). (18) Cfr., però, i preoccupati rilievi di PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa Rivista, 1983, p. 491 ss. (19) Nel senso che la Corte non incontrerebbe preclusione alcuna, neanche con ri-


— 166 — Data, dunque, per superata (in realtà non lo è affatto) la questione in ordine alla legittimità dell’intervento della Corte costituzionale mediante sentenze manipolative anche in materia penale (20), ammettiamo pure che il problema si risolva — nel caso in esame come in generale — in una valutazione di mera opportunità (ciò che confermerebbe la natura « politica » dell’attività della Corte) (21); per cui la Corte sarebbe chiamata ad operare un raffronto (ovviamente con esiti differenti, a seconda dei casi) tra le incongruenze che — come si è visto — possono derivare da una sua pronuncia ed il rischio inerente alla oramai istituzionalizzata inerzia legislativa sulle materie che hanno costituito oggetto di sindacato di costituzionalità (22). Ciò su cui non si può davvero soprassedere, sono invece i limiti che devono ritenersi imposti al suo intervento. È di rigore, sul punto, il richiamo alla celeberrima posizione di Crisafulli, secondo il quale « la Corte non crea, essa, liberamente, (come farebbe il legislatore) la norma, ma si limita a individuare quella — già implicita nel sistema, e magari addirittura ricavabile dalle stesse disposizioni costituzionali di cui ha fatto applicazione — mediante la quale riempire immediatamente la lacuna che altrimenti resterebbe aperta nella disciplina della materia, così conferendo alla guardo a pronunce in malam partem, LATTANZI, La non punibilità dei componenti del Consiglio superiore al vaglio della Corte costituzionale: considerazioni e divagazioni, commento a sent. C. Cost. 2-3 giugno 1983, in Cass. pen., 1983, p. 1916 ss. In generale, sul rapporto tra sentenze di accoglimento e diritto penale, PARODI GIUSINO, Effetti della dichiarazione di incostituzionalità delle leggi penali, in questa Rivista, 1982, p. 915 ss.; e, per un approfondito esame della posizione della Corte sul punto, VASSALLI, Abolitio criminis e principii costituzionali, in questa Rivista, 1983, p. 388 ss. Prediligono le ragioni di ordine sostanziale di cui alla riserva di legge in materia penale, a quelle meramente processuali, BRANCA, Norme penali di favore: dall’irrilevanza al rifiuto della sentenza-legge, nota a commento della sent. 7 maggio-25 giugno 1981, n. 108, in Giur. cost., 1981, p. 913; PULITANÒ, La ‘non punibilità’ di fronte alla Corte costituzionale (a commento della sent. 3 giugno 1983, n. 148), in Foro it., 1983, I, c.c. 1806 ss. In tal senso, vd., da ultima, ord. C. Cost. 19-23 aprile 1993, n. 188, in Giur. cost., 1993, p. 1310 ss. Cfr., sulla posizione della Corte in ordine alla sindacabilità delle norme penali in bonam partem, anche DOGLIANI, Irrilevanza ‘‘necessaria’’ della quaestio relativa a norme penali di favore, in Giur. cost., 1976, p. 585 ss. (20) Per una rapida, ma puntuale panoramica sui suoi differenti profili, PIZZORUSSO, ‘‘Sotto accusa’’ cit., p. 682 ss. (21) Sul tema, cfr. SORRENTINO, Strumenti tecnici e indirizzi politici nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Scritti su La giustizia costituzionale in onore di Vezio Crisafulli, Palermo, 1985, p. 795 ss. (22) Sulla quale, per tutti, CRISAFULLI, La Corte costituzionale ha vent’anni, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale. Bilancio di vent’anni di attività, Bologna, 1978, p. 80 ss.


— 167 — pronuncia adottata capacità autoapplicativa. Una legislazione, se proprio così vuol dirsi (ma descrittivamente) ‘‘a rime obbligate’’... che, per ciò solo, vera legislazione non è » (23). Il fuoco della presente indagine si sposta, pertanto, alla ricerca di un criterio di discrimen il quale assicuri che la normazione della Corte sia davvero contenuta nei ristretti limiti della necessità; ed a questo proposito, un arduo terreno di prova ci pare per l’appunto offerto da quelle, tra le sentenze manipolative, che più sembrano allontanarsi dalle attribuzioni della Corte, come disegnate in sede costituzionale: le pronunce fondate sulla irragionevolezza delle norme ordinarie. La domanda che ci poniamo è, più specificamente, se possa dirsi a rime obbligate — e dunque legittimo, per quel che ci riguarda, in materia penale — quell’intervento della Corte che trovi la sua unica giustifica(23) CRISAFULLI, Lezioni cit., p. 407 s., il quale riprende un argomento già usato ne La Corte costituzionale ha vent’anni, in La Corte costituzionale tra norma giuridica cit., p. 84. Con riferimento al diritto penale in specie, MARZIALE, Proprio inammissibili le sentenze ‘‘additive’’ in materia penale, in Cass. pen., 1979, p. 51 ss. Ugualmente, ci limitiamo a riproporre — per sommi capi — l’altrettanto nota replica di ZAGREBELSKY, per il quale « ciò che tuttavia non convince [...] non è tanto la spiegazione del carattere solo apparente dell’integrazione (ciò che in qualche caso potrebbe essere contestato) quanto il fatto che spetti proprio alla Corte di indicare vincolativamente la norma che, in virtù del sistema normativo vigente, deve prendere il posto di quella dichiarata incostituzionale » (La giustizia costituzionale cit., p. 159. Analogamente, a p. 301 della ediz. 1988). E non varrebbe neanche la pena di riportare la famosa alternativa delineata — quasi di seguito — dallo stesso autore, per cui « se la norma non è presente nel sistema, spetta ai giudici (tutti i giudici) ricavarla; se non c’è, spetta al legislatore (solo al legislatore) stabilirla » (op. ult. cit., p. 303; p. 161 dell’ediz. 1977), se non per rilevare che la prima soluzione è impraticabile nell’ambito del diritto penale, dove — ammesso pure che l’analogia sia un procedimento interpretativo piuttosto che creativo del diritto (opinione tutt’altro che pacifica in dottrina; per tutti, BARTOLE, Principi del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., Milano, 1986, p. 499; e, per la dottrina penalistica, ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987, p. 45 s.) — vige l’espressa preclusione di cui all’art. 14 disp. prel. sulla legge in generale, costituzionalizzata per il tramite dell’art. 25 Cost. Se, pertanto, i giudici non possono adattare al caso concreto, sprovvisto di un’apposita regolamentazione, una norma penale solo implicita nel sistema, neanche quando la sua applicazione possa dirsi ‘‘a rime obbligate’’; e se, d’altro canto, non è nemmeno immaginabile che il legislatore — in materia penale, a differenza che in altri settori — sia svincolato da qualsivoglia controllo di conformità con i precetti costituzionali; si desume che un sindacato da parte della Corte costituzionale debba necessariamente essere ammesso; e — con qualche sforzo — che esso, come già visto, possa esplicarsi non esclusivamente attraverso pronunce con effetto in toto caducatorio, ma anche attraverso pronunce manipolative; sebbene non siano mancati in passato clamorosi casi di « rivolta dei giudici » alle decisioni della Corte costituzionale (una rassegna dei quali è in PUGIOTTO, op. cit., p. 2693 ss., al quale si rimanda per la bibliografia sull’argomento).


— 168 — zione nell’esigenza (prima di tutto logica) che il sistema positivo sia ricondotto a razionalità; ciò nella speranza di contribuire alla ricerca di una soluzione che permetta di contenere, per quanto possibile, i costi pratici ed ideologici che derivano dalla sua crescente diffusione (24). 3. A questo proposito, è opportuno premettere che il c.d. principio di ragionevolezza, traduzione della massima elementare per cui devono essere disciplinate in modo analogo analoghe situazioni e in modo differente situazioni differenti, non sembra invero aver mai trovato una sistemazione dogmatica chiara e lineare quale la forza e la semplicità stessa della sua logica dovrebbero, teoricamente, garantirgli. Questa significativa circostanza è presto illustrata ricordando i numerosi sforzi compiuti dalla dottrina in materia (25). In tale direzione, si sa, era stata, in un primo momento, adattata all’attività legislativa, la figura dell’eccesso di potere (26), mutuandola dal diritto amministrativo (27). Ma, come noto, la legittimità di questa costruzione fu presto negata, poiché il vizio de quo non si addice all’attività legislativa, in quanto attività politica, e, come tale, « libera nei fini » (28). A quanti opponevano che comunque il legislatore risulta vincolato al rispetto delle norme costituzionali, fu facile obiettare — secondo un primo orientamento — che, in perfetta sintonia con lo spirito liberale e (24) Non è mancato peraltro chi ha visto nella ragionevolezza uno strumento utilizzato dalla Corte in un certo periodo della sua attività per tenere separato, nella lettura, il disposto del primo, dal disposto del secondo comma dell’art. 3 Cost., così da vanificare la portata di quest’ultimo. FERRARA, in La Corte Costituzionale tra norma giuridica cit., p. 89 ss. (25) Per una compiuta ricostruzione delle diverse posizioni e del loro fondamento teorico, LICCI, Ragionevolezza e significatività come parametri di determinatezza della legge penale, Milano, 1988, capitolo I. (26) Per tutti, MORTATI, Sull’eccesso di potere legislativo, in Giur. it., 1949, cc. 457 ss. Nel senso che il sindacato sull’eccesso di potere sia esperibile ogni qual volta ci si trovi in presenza di ipotesi di discrezionalità (in senso amministrativistico) della legge, cioè « quando una norma ponga un fine od uno scopo da raggiungere », vd., ancora, di recente, PISANESCHI, Sulla (dubbia) legittimità costituzionale di una legge di espropriazione a vantaggio della dotazione del Presidente della Repubblica, in Giur. cost., 1988, p. 716. (27) Dove, peraltro, come osserva il PALADIN, l’eccesso di potere « amministrativo » non è ricollegato alla violazione dell’art. 3 Cost. — ché altrimenti, a torto o a ragione, lo si dovrebbe ritenere assorbito nella « violazione di legge » — bensì a norme extra-legem, in ultima analisi facenti riferimento al principio di buona amministrazione, di cui all’art. 97 Cost. PALADIN, Eguaglianza (dir. cost.), in Enc. dir., Milano, 1965, p. 521 s. (28) CRISAFULLI, Lezioni cit., p. 367 ss.; in particolare, p. 399. Contra, PISANESCHI, op. cit., p. 715 ss..


— 169 — con le ragioni storiche della Carta fondamentale, essa dettava limiti in negativo all’operato del legislatore, piuttosto che vincoli positivi; secondo un orientamento successivo (più consapevole del significato e della portata della Costituzione) che le norme programmatiche nella stessa presenti, additano degli obiettivi, ma lasciano pur sempre libero il legislatore nella scelta dei mezzi per realizzarli (29). Perché l’attività legislativa possa essere qualificata attività libera nei fini, pare comunque sufficiente dimostrare che non sono delineabili, in capo al legislatore, specifici obblighi in ordine all’apprestamento di tutela di beni che posseggono rango costituzionale. E questa conclusione è per noi tanto più importante, in quanto rappresenta il risultato anche della ricerca penalistica (30), che più di altre è stata esposta a tentazioni di tal genere: breve essendo il passo tra il ritenere che il diritto penale possa intervenire soltanto a tutela di beni costituzionalmente protetti (o comunque non incompatibili con la Costituzione), ed il ritenere che il legislatore penale debba intervenire per predisporre strumenti di garanzia di beni aventi rango super-primario (31) (il che conferma — ancora una volta e sotto questo aspetto — la bontà della vecchia tesi di Crisafulli, sulla impossibilità di traslare ad un campo ad essa non congeniale la figura sintomatica dell’eccesso di potere). L’interesse per l’argomento non dovette essere ritenuto sopito, se presto la dottrina compì un nuovo tentativo per salvare la categoria dell’eccesso di potere legislativo, avvalendosi dell’ulteriore affinamento della scienza amministrativistica. Infatti, con l’ammettere la possibilità che il vizio di eccesso di potere inerisca, oltre che all’attività, altresì all’atto (che ne rappresenta il prodotto) si è in concreto offerto il destro per aggirare le obiezioni che — come appena ricordato — erano legate alla natura politica dell’attività legislativa (32). Ma, anche qui, non si è tardato a replicare come ad una piena legitti(29) Sui rapporti tra Costituzione e legislatore, per tutti, ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale cit., p. 266 s., ed. 1977. (30) BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nvss. dig., Torino, 1973, p. 18; PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela cit., p. 484 ss. Cfr., sugli stessi temi, ma « dalla parte » del diritto costituzionale, D’AMICO, Note introduttive ad uno studio sulle libertà costituzionali nella materia penale, in Libertà e giurisprudenza costituzionale, Torino, 1992, p. 103 ss. (31) PULITANÒ, Obblighi costituzionali cit., p. 494. (32) Per tutti, MORTATI, Istituzioni di diritto costituzionale, Palermo, 1975, p. 1282; e da ultimo, AZZARITI, Sui limiti del sindacato di costituzionalità sul contenuto delle leggi:


— 170 — mazione del concetto osti il fenomeno dell’« Entfremdung, dell’estraniazione della legge dal suo autore, una volta che essa si sia ‘‘calata nel sistema’’. Un fenomeno che non è comune agli altri atti giuridici: negozi, sentenze, provvedimenti amministrativi » (33). È stato cioè specificato che « l’irragionevolezza delle leggi è [...] un vizio non dell’atto, bensì del prodotto dell’atto: del testo normativo, delle disposizioni, delle norme che da queste emanano, così come esse vivono nel momento nel quale sono chiamate ad operare e in relazione al quale debbono essere giudicate. Ecco perché non può essere assimilata all’eccesso di potere degli atti amministrativi, sia che si consideri questo come vizio dell’attività, sia che lo si consideri come un vizio dell’atto » (34). La forza logica di questa argomentazione, a tutt’oggi insuperata, rende difficilmente sostenibile la natura dell’irragionevolezza come vizio intrinseco dell’atto legislativo (35). Il profilo di irrazionalità legislativa potrebbe infatti per ipotesi non sussistere ab origine, ma sopravvenire a seguito di una modifica legislativa del sistema in cui la disposizione de qua risulta inserita, essendo per l’appunto dalle discrasie nelle reciproche interrelazioni tra « variabili » del sistema (36) e non già dal confronto con precisi (ed in certa misura immol’eccesso di potere legislativo come vizio logico intrinseco dalla legge, in Giur. cost., 1989, p. 660. (33) SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Amm. soc., 1975, p. 1580, il quale ritiene che la irragionevolezza possa manifestarsi come ‘‘applicazione travalicatrice, da parte del legislatore delle ‘formule elastiche’’’ della Costituzione, ovvero come incoerenza legislativa (sotto forma di contraddittorietà, impertinenza o inadeguatezza); ibidem, p. 1584 ss. (34) SANDULLI, op. cit., p. 1581; l’obiezione risale tuttavia all’ESPOSITO, La Costituzione italiana, saggi, Palermo, 1954, p. 276 s. (35) Al di là della prospettata eventualità che la legge sia contraddittoria in sé perché predispone « due discipline tra loro inconciliabili » (AZZARITI, Sui limiti del sindacato cit., p. 658), e con riguardo alle altre ipotesi, non si vede, infatti, come sia possibile asserire (in perfetta conformità con quanto riportato) la « necessità che ogni norma venga inserita nel contesto sistematico » e che dunque « venga rispettata e garantita la coerenza di ogni singola nuova norma con le sue stesse disposizioni e con l’intero ordine sistematico » (AZZARITI, Sui limiti del sindacato cit., p. 659), e poi conseguenzialmente concludere che la violazione dei tratti di « coerenza, non contraddizione e razionalità nella formazione delle leggi » « può essere ricondotta al nomen dell’eccesso di potere legislativo, inteso come vizio logico della disposizione normativa » (op. cit., ibidem). (36) Per usare una espressione esattamente speculare a quella famosa — « costanti del sistema » — di NUVOLONE, I fini e i mezzi nella scienza del diritto penale, in Riv. it. dir. pen., 1948, p. 45 ss., di recente ricordata da PULITANÒ, Quale scienza di diritto penale?, in questa Rivista, 1993, p. 1219 s.


— 171 — dificabili) parametri costituzionali, che trae origine la irrazionalità della legge (37). E poi, tra l’altro, quand’anche si volesse proprio continuare a parlare di « vizio dell’atto », il parallelismo con il diritto amministrativo dovrebbe condurre alla conclusione che la Corte costituzionale può soltanto annullare, e non già modificare il disposto normativo (38). Simili conclusioni — che rappresentano il primo approdo del nostro discorso — paiono coincidere con quanto — in termini diversi — specificano quegli autori i quali (abbandonando la pretenziosa formula dell’eccesso di potere e derivando il principio di ragionevolezza da una accezione dell’« eguaglianza ») affermano ripetutamente e con vigore che il giudizio di ragionevolezza è sempre un giudizio relazionale; che presuppone un tertium comparationis; che non può mai tradursi in un giudizio sulla giustizia o sulla bontà in sé della legislazione; che — infine — se così non fosse, « verrebbe meno ogni divario qualitativo fra merito e legittimità delle leggi sindacate; sicché la sola cautela dei giudici costituzionali potrebbe assicurare — ma in modi assai fluttuanti e accidentali — che non s’invada la sfera della discrezionalità legislativa e non si usurpi il ruolo del Parlamento » (39). 4. Fino ad ora abbiamo sinteticamente esposto i passaggi che dal punto di vista « formale » e della coerenza logico-sistematica hanno condotto all’abbandono della figura sintomatica dell’eccesso di potere. Guardando allo stesso tema in un’ottica (per così dire) sostanzialistica, le ragioni di questo mutamento ci sembrano invece riconducibili ad una rinnovata, preoccupata attenzione della dottrina verso i confini e gli ambiti del controllo operabile dalla Corte costituzionale: a quest’ultima essendo demandato di svolgere una indagine sulla legittimità del dettato positivo, la (37) Nello stesso senso, ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale tra norma giuridica cit., p. 107 s., il quale, peraltro, ritiene « più nominalistico che altro » il problema della qualifica del vizio de quo (p. 108). (38) ANCORA, op. cit., p. 3836 s. Contra, su tutti questi punti, MODUGNO, Legge (vizi della), in Enc. dir., Milano, 1973, p. 1031 ss. (39) PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, in Giur. cost., 1984, p. 219 ss.; in particolare, p. 230, nonché in Strumenti tecnici cit. (dove il testo è pubblicato con note, p. 605 ss.), p. 619. In senso analogo, CERRI, Sindacato di costituzionalità alla stregua del principio di eguaglianza: criteri generali ed ipotesi specifica di pari normazione in ordine a situazioni diverse, in Giur. cost., 1974, p. 2160 ss. Vd., tuttavia, ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 156 s.


— 172 — quale in nessun caso può deviare ed investire le scelte che il legislatore ha inteso operare nel merito (40). Al di là, peraltro, della concordia su questo punto, che è un postulato indiscusso (ed invero indiscutibile, se non altro perché la enunciazione dell’art. 28 L. n. 87/1953 non lascia spazio a dubbi di sorta), quel che la dottrina non pare aver mai compiutamente indagato è, che cosa distingue, poi, nei fatti, il giudizio di legittimità da quello sul merito (41). Mentre, forte è il sospetto che questo silenzio derivi dalla inconfessata (o, a volte, appena « sussurrata ») consapevolezza che — ad onta di ogni altisonante proclamazione garantista — un vero e proprio distinguo tra i due tipi di giudizi non sia possibile operarlo (42). (40) Cfr., per tutti, FELICETTI, In tema di sentenze « additive » e d’inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale cit., p. 2111. (41) Non ci paiono appaganti (perché inidonei a tradursi in pratici strumenti operativi) criteri come quelli proposti, di recente, da A. MOSCARINI, Riflessioni intorno ad una pronuncia di irrazionalità della legge e ad un caso di illegittimità conseguente, in Giur. cost., 1992, p. 2457 ss., la quale distingue « ragionevolezza » (come sindacato sul buon uso del potere legislativo) da « razionalità » (come giudizio sulla rispondenza della formulazione testuale della norma con la sua ratio, fondato sullo schema della inferenza pratica: e cioè come valutazione di adeguatezza dei mezzi scelti al fine perseguito (p. 2461). Per una distinzione, sebbene in termini parzialmente differenti, tra « ragionevolezza » (giustificatezza) e « razionalità » (non contraddizione), vd., ancora, ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 147 ss., nonché, sulla scia di quest’ultimo, le analitiche considerazioni di MICCO, Razionalità legislativa e autonomia collettiva, Napoli, 1993, capitolo I. In senso critico sulla c.d. « razionalità » che, essendo di ostacolo al consolidarsi delle tecniche di giudizio della Corte, non consentirebbe un sindacato sulla loro bontà e con ciò agevolerebbe il trascendere delle stesse in valutazioni di merito, TOSI, Spunti per una riflessione sui criteri di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1993, p. 545 ss. (42) Sulle oscillazioni della giurisprudenza costituzionale riguardo alla discrezionalità legislativa, vd. ROSSI, Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore nel periodo 1987-1989, in La giustizia costituzionale a una svolta, Torino, 1991, p. 214 ss. (in particolare, cfr. p. 220 ss.). Chi si accosti per la prima volta alla messe di interventi sul tema dei poteri — normativi o giurisdizionali — della Corte costituzionale, non può che chiedersi il perché di un dibattito che ha come contraltare una situazione oramai radicalizzata, in cui la Corte non si riconosce altro limite che quello di volta in volta derivante da valutazioni di opportunità. Si tratta di considerazioni già svolte, e che riproponiamo qui, ai margini, solo perché insinuano il legittimo dubbio che la dottrina, la quale pure elegantemente discute sul fondamento (o sull’assenza di fondamento) positivo di quegli interventi della Corte che più si allontanano dalle indicazioni di cui all’art. 136 Cost., non dedichi altrettanta attenzione ad un altro problema, che è invece connesso alle origini di fondo di questo dibattito; e che si prospetta — invero — in rapporto a qualunque pronuncia (sia essa manipolativa, o, come nella maggior parte dei casi, di semplice annullamento), la quale faccia leva esclusivamente sul principio di ragionevolezza. Limitandosi, in altre parole, ad invocare il self-restraint dei poteri della Corte, la dottrina contribuisce forse a contenere, ma non certo ad eliminare gli effetti potenzialmente devastanti che nascono da un sindacato il quale — nel caso appunto


— 173 — In tal senso, illuminanti le affermazioni della Corte costituzionale, secondo la quale il giudizio di merito non è fondato su valutazioni strutturalmente diverse, sotto il « profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione » (43). Nulla quaestio, pertanto, laddove sia additato dalla Costituzione stessa il fine o la ratio che deve presiedere alla emanazione della legge (si pensi alle c.d. riserve di legge rinforzate, di cui, ad esempio, agli artt. 41 e 42 Cost., ovvero all’art. 14, etc.). In queste ipotesi, la difformità rispetto alle indicazioni della Costituzione sarà di per sé idonea a fondare una pronuncia di legittimità costituzionale (44). di ragionevolezza — non potrà di fatto e al di là della squama delle parole — che atteggiarsi assai spesso come un vero e proprio controllo di merito. Né ci confortano le osservazioni di PIZZORUSSO, secondo il quale « Questo problema [...] non deriva dal fatto che il controllo della ragionevolezza non sia astrattamente configurabile come un sindacato di mera legittimità [...], ma dal fatto che in pratica è difficile individuare il limite fra il controllo della ragionevolezza e quello di merito » (Le norme sulla misura delle pene e il controllo di ragionevolezza, in Giur. it., 1971, c. 204). Ad ogni modo, l’autore conclude le sue considerazioni ritenendo ingiustificato l’orientamento di self-restraint della Corte in materia penale ed osserva che ‘‘in linea di diritto, non esistono ostacoli al compimento, da parte della Corte costituzionale, del controllo della ragionevolezza nei confronti delle norme che fissano la misura delle pene, o delle norme penali in genere, secondo gli stessi criteri che essa segue nel controllo di tutti gli altri settori dell’ordinamento giuridico’’ (c. 207). Una posizione critica sul controllo di ragionevolezza delle leggi in generale è stata invece sempre tenuta dall’ESPOSITO. Vd., tra gli altri scritti, La Corte Costituzionale come giudice di non arbitrarietà delle leggi, in Giur. cost., 1962, p. 78 ss.; in particolare, p. 82. Per una ricostruzione del suo pensiero sul punto, SORRENTINO, Carlo Esposito e la giustizia costituzionale, in Giur. cost., 1991, p. 1706. Nel senso che il giudizio di ragionevolezza comporti sempre una valutazione di merito, BALDASSARRE, La Corte costituzionale tra norma giuridica cit., p. 121 ss. (in particolare, p. 126). Criticamente, anche, SORACE, ibidem, p. 155 ss. Sebbene si esprima in termini di moderato ottimismo, rileva le difficoltà che alla Corte derivano in materia di eguaglianza dalla crescente ‘‘frammentazione degli status’’, ELIA, Relazione di sintesi, ibidem, p. 166. (43) Sent. n. 991 del 1988, citata da ANZON, Modi e tecniche del controllo di ragionevolezza, in La giustizia costituzionale ad una svolta, Torino, 1991, p. 34; ed ora anche da TOSI, op. cit., p. 545. « Appare a tale proposito condivisibile quella teoria secondo cui il discrimine tra disparità di fatto irrilevanti ai fini del sindacato di costituzionalità alla stregua dell’art. 3 Cost. e quelle al contrario significative, è costituito dalla incidenza di tali conseguenze fattuali su diritti costituzionalmente garantiti » DOLSO, Ipotesi sulla possibilità di un diverso esito utilizzando il parametro della ‘‘ragionevolezza’’, in Giur. cost., 1993, p. 2113. Non ci si può esimere tuttavia dall’osservare sin da ora che, se le cose stanno realmente in questi termini, il richiamo all’art. 3 Cost. diviene quanto meno ad abundantiam. (44) Cfr., tuttavia, sul tema, ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna,


— 174 — Ma, in altri casi, potrebbe non essere altrettanto agevole appellarsi ad una norma della Costituzione in particolare, o comunque il richiamo ad una disposizione della Costituzione non pare — per varie ragioni — sufficiente a fondare una decisione di illegittimità costituzionale: e tuttavia risulta evidente la mancanza di proporzionalità o di omogeneità di talune previsioni normative (45). Proprio con riguardo a situazioni di questo tipo, che spesso implicano valutazioni ai confini con il merito e la discrezionalità (46) legislativa, la Corte costituzionale ha — oseremmo dire — aggirato l’ostacolo, elaborando il principio di « ragionevolezza » che, in assenza di una specifica disposizione la quale consenta una verifica in ordine alla conformità « risultati-fini », ritiene — come noto e come già detto — costituire una accezione particolare del principio di eguaglianza, di cui al I co. dell’art. 3 Cost.; e per l’appunto nell’art. 3 della Costituzione ha individuato quel « parametro del giudizio formalmente sancito » che permette allo stesso di assurgere, da valutazione di merito, a giudizio di legittimità (47). 1988, per cui, in relazione a norme costituzionali che, pur non contenendo principi informatori, prescrivono « valori, programmi, obiettivi da perseguirsi [...] alla dichiarazione di incostituzionalità si potrà addivenire solo quando in ogni modo, da ogni punto di vista, alla stregua di tutte le scelte possibili, la legge e i mezzi da essa previsti appaiono inconciliabili con le finalità costituzionalmente previste. È il vizio che si denomina della irrazionalità della legge » (p. 128). Nello stesso senso, PISANESCHI, Sulla (dubbia) legittimità costituzionale di una legge di espropriazione cit., p. 718; e anch’egli nella prospettiva dell’eccesso di potere, MODUGNO, Ancora sulla mancata determinazione del thema decidendum cit., laddove ne ammette la configurabilità anche « fuori delle ipotesi della c.d. funzione legislativa specializzata e vincolata al perseguimento di fini espressamente anche se genericamente indicati in Costituzione », nel qual caso, esso « non può non rapportarsi ad un parametro che trascende i riferenti contenuti ed espressi nella Costituzione formale », p. 2090 s. (45) Sul punto, CERRI, Violazione del principio di eguaglianza ed intervento della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1968, p. 613 ss. (46) Il termine è qui usato volutamente in senso atecnico. Sui due differenti significati invalsi nell’uso comune, e sugli equivoci ingenerati, vd. PIZZORUSSO, Il controllo della Corte costituzionale sull’uso della discrezionalità legislativa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1985, p. 796 ss. (47) Per una espressa teorizzazione ed aperta adesione a questo passaggio, PISANESCHI, op. cit., p. 714. Nel senso del carattere di « residualità » che compete al principio di ragionevolezza, FELICETTI, Discrezionalità legislativa e giudizio di costituzionalità cit., cc. 22 ss. Ritiene non riconducibile all’art. 3 Cost. il principio di ragionevolezza, nella sua accezione di razionalità, ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 151; BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Milano, 1988, p. 305 ss.; MIDIRI, ‘‘Precisione testuale’’ del legislatore e controllo di ragionevolezza sulle ineleggibilità amministrative, commento a sent. C. cost. 4-17 giugno 1992, n. 280, in Giur. cost., 1992, p. 3186; e, da ultimo, MICCO, op. cit., p. 13 ss.


— 175 — In ultima analisi, la Corte ha, però, così finito con l’assumere l’eguaglianza paritaria nel suo « senso più estremo », che « non agisce positivamente sulla legge, ma si pone come termine negativo di una dialettica compositiva di interessi il cui dato contrario è rappresentato dal valore perseguito... Da quanto esposto consegue che almeno tendenzialmente tutta l’attività legislativa appare funzionalizzata al perseguimento di finalità costituzionali per la possibilità di sindacare attraverso il principio di eguaglianza la corrispondenza di qualsiasi legge con un interesse tutelato dalla Costituzione » (48), salvo che, in questo caso, l’interesse finirebbe con l’essere, come in una spirale che si avvolge su se stessa, la medesima ragionevolezza della produzione legislativa. Ci chiediamo, a questo punto, se le cose stiano davvero in questi termini: se cioè la ragionevolezza sia un vero e proprio « principio » costituzionale che in materia penale possa condurre eventualmente da solo ad una pronuncia di illegittimità; per cercare, di seguito, di verificare le conclusioni raggiunte con specifico riguardo alle due pronunce della Corte costituzionale da cui hanno preso spunto queste considerazioni. 5. In questo senso, un primo indizio della peculiarità del problema ci pare di poterlo facilmente desumere dal raffronto tra tutti gli altri giudizi e quelli aventi come referente l’art. 3 Cost. appunto nella sua accezione di ragionevolezza. Questi ultimi, infatti (lo si è già detto in relazione all’impossibilità di risolvere l’irragionevolezza in un vizio intrinseco della legge) non possono che articolarsi in uno schema trilaterale, piuttosto che bilaterale. Come già accennato, ed « in altre parole, ciò [la natura relazionale del giudizio di eguaglianza] presuppone che il giudizio della Corte non si svolga entro uno schema binario, esaurendosi nel consueto confronto fra la norma impugnata ed il parametro o la pluralità di parametri costituzionali richiamati; bensì richiede che il giudizio stesso comprenda almeno tre termini, vale a dire la norma impugnata, il principio costituzionale d’eguaglianza ed un tertium comparationis, in vista del quale possa dirsi che la differenziazione o la classificazione in esame sia ragionevole oppure arbitraria, provvista o carente di un adeguato fondamento giustificativo, e (48) AGRÒ, Principi fondamentali, in Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975, p. 135; il corsivo è nostro. Mette in guardia dagli abusi che del principio di eguaglianza tendono a fare le ordinanze di rimessione, PALADIN, Corte costituzionale cit., in Giur. cost., 1984, p. 221; in Strumenti tecnici cit., p. 607.


— 176 — quindi conforme o difforme rispetto al generale imperativo dell’art. 3. Inoltre, se è vero che il tertium e la norma impugnata devono essere omogenei, occorre che il punto od i punti di raffronto della norma medesima siano a loro volta normativi, cioè ricavati dall’ordinamento vigente. Ed anzi, poiché a tal fine l’oggetto delle impugnative promosse dinanzi alla Corte deve consistere in una ‘‘norma di legge o di atto avente forza di legge’’ (in base al I co. dell’art. 136 Cost.), a stretto rigore, bisogna desumerne che la norma o le norme destinate a fungere da tertia debbano a loro volta esser poste da atti normativi quanto meno equiparati e vadano desunte dagli atti medesimi, alla stregua di interpretazioni giurisprudenziali tanto consolidate da costituire ‘‘diritto vivente’’: così da escludere i casi in cui ‘‘la fonte della disparità risulta individuata’’ — come ha precisato la sentenza n. 11 del 1982, circa il trattamento previdenziale dei giornalisti — ‘‘in atti privi di forza di legge’’ » (49). Ora, è stato sostenuto che, con riguardo ad altre branche del diritto, il disposto costituzionale può addirittura mancare, il che accade quando ci si imbatta, come si esprime la dottrina (50), in una violazione ‘‘secca’’ dell’art. 3, cioè « quando la legge non persegua alcun valore apprezzabile (es.: 781 cod. civ. sul divieto di donazione tra coniugi) ovvero quando la discriminazione sia tale da far apparire sintomaticamente un cattivo uso del potere discrezionale del legislatore, senza che si possa pervenire a sindacare il merito della soluzione adottata » (51). (49) PALADIN, op. cit., in Giur. cost., 1984, p. 222 s.; in Strumenti tecnici cit., p. 609 s. Piuttosto artificiosa è la tesi di chi, con riguardo alle sentenze additive, ritiene sussistente il carattere trilaterale del giudizio, anche in assenza di un espresso tertium comparationis; la « conversione dal negativo in positivo mediante l’inversione del segno », rappresentando il momento finale (ed automatico) di un giudizio « il cui vero oggetto iniziale è l’accertamento costitutivo della illegittimità costituzionale che vizia la norma ‘‘negativa’’ di esclusione » (ELIA, Le sentenze additive e la più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Scritti su La giustizia costituzionale cit., p. 304 s.). In verità — come meglio specificheremo di seguito — sono queste le ipotesi in cui si verifica solamente un contrasto con un valore costituzionale, a nulla valendo il c.d. principio di ragionevolezza, se non ad estrinsecarlo. Nel senso che non sempre sia rinvenibile un tertium comparationis nel giudizio di ragionevolezza, ZAGREBELSKY, La Corte costituzionale tra norma giuridica cit., p. 112 ss. (50) AGRÒ, op. cit., p. 140. (51) AGRÒ, Ibidem. Questa affermazione deve tuttavia presupporre — come si è visto — che la conclusione sul cattivo uso del potere discrezionale del legislatore sia il risultato di una indagine « relazionale ». In tal senso, lo stesso PALADIN, Corte costituzionale e principio generale cit., p. 629 ss. (in Strumenti e tecniche cit.); p. 237 ss. (in Giur. cost., 1984). L’essere o meno rinvenibile un principio costituzionale, in veste di tertium comparationis, è tema considerato altresì sotto l’equivoco e mistificante profilo del maggiore o minore


— 177 — Una simile eventualità dovrebbe invece ritenersi esclusa nel campo del diritto penale, almeno per chi ritiene che esso sia tendenzialmente preposto alla tutela (sebbene spesso soltanto ex post: in chiave interpretativa) di valori di rilievo costituzionale. Con riferimento ai giudizi di legittimità di norme penali, fondati sul principio di ragionevolezza, è cioè possibile un recupero ed una utilizzazione del precetto costituzionale (che non sia l’art. 3 Cost.), se non altro per consentire — in quest’ottica — quella valutazione di « bilanciamento » su cui, nella maggior parte dei casi, si fonda la questione stessa (52). Se è così, sorge il sospetto che il confronto tra le due norme ordinarie serva in realtà solo a fornire al giudice un parametro attraverso il quale « decodificare » il criterio usato dal legislatore per valutare il grado di offesa all’interesse costituzionale tutelato dalla disposizione di dubbia legittimità, e conseguentemente ricollegarvi alcuni, piuttosto che altri effetti, ovvero effetti di una certa gravità piuttosto che di un’altra (si tratta ovviamente di un’operazione funzionalizzata a confrontare la valutazione del legislatore con quella compiuta dalla Carta fondamentale). Ma allora, l’unico, vero referente del giudizio sarà (questa volta) il principio costituzionale cui devono ricollegarsi i valori tutelati dalle disposizioni penali (53). « grado di durezza o di reversibilità [...] in tema di applicazione del principio generale di eguaglianza »; su cui ELIA, Le sentenze additive cit., p. 321 s. (52) Per tutti, BIN, Bilanciamento di interessi e teoria della Costituzione, in Libertà e giurisprudenza costituzionale, Torino, 1992, p. 46. Sul giudizio di bilanciamento, vd. DOLSO, Bilanciamento tra principi e ‘‘strict scrutiny’’ nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1991, p. 4152 ss. Con riferimento a norme che attengono all’esercizio di diritti soggettivi (né il discorso pare mutare con riguardo a norme che tutelano oggetti di rilievo costituzionale, il BIN scrive che « La discrezionalità del legislatore incontra [...] un limite ulteriore, che non trova collocazione nello schema usuale e più tipico del controllo di ragionevolezza, ma in quello strettamente connesso del ‘‘bilanciamento’’ degli interessi. Si tratta infatti di considerare sino a che punto la piena tutela del diritto possa essere compressa in nome di qualche interesse contrastante.... ». Note sul controllo di ragionevolezza dei termini fissati dal legislatore, in Giur. cost., 1989, p. 2292. (53) Vedi, tuttavia, PULITANÒ, La ‘non punibilità’ cit. (in particolare, c. 1816), il quale, conformemente al suo assunto sulla non configurabilità di obblighi costituzionali di intervento penale, nega che (in materia di sindacato su cause di non punibilità) ‘‘La logica del riferimento al sistema dei beni’’ possa essere quella del ‘‘bilanciamento di interessi’’, e la rinviene — piuttosto — in ‘‘quelle più flessibile di un riscontro minimo di non irragionevolezza’’. Sebbene in altra direzione, verso il recupero di un differente significato della ragionevolezza in materia penale, si è già mosso LICCI, il quale, pur non negando autonomia al giudizio di ragionevolezza in sé, osserva che « Qualora un enunciato normativo appaia affetto da incongruità logiche, le conseguenze si risolvono, tra l’altro, in un vizio intrinseco al conte-


— 178 — Diversamente detto, ci pare che nell’ottica riduttiva e tradizionale del giudizio di ragionevolezza come inteso dalla Corte, il valore costituzionale sotteso alle due (o più) disposizioni di legge positiva, sia costretto in un ruolo strumentale alla individuazione del vizio di proporzionalità. In questa nuova prospettiva, invece, esso si riscatta ed assume la sua dignità di referente autonomo: e sarà il c.d. tertium comparationis a valere soltanto in chiave interpretativa, come riferimento alla cui luce meglio delineare i tratti di omogeneità che rendono irragionevole il diverso trattamento normativo delle situazioni (54). In modo ancora più esplicito, ci chiediamo, dunque, se non debbano per caso essere ribaltati i termini del discorso secondo il quale il riferimento del giudizio costituzionale in materia penale è l’art. 3 Cost.; e le altre disposizioni servono solo a confermare il giudizio di irragionevolezza. Né la peculiarità della materia penalistica consente di disattendere questa conclusione, anche ove si aderisca all’idea che l’attività legislativa abbia nuto obiettivo della norma e nella conseguenziale inidoneità del testo legislativo ad essere correttamente inteso. Pertanto il valore vulnerato in linea diretta è la determinatezza della norma e solo indirettamente, a fortiori, il principio di eguaglianza ». (op. cit., p. 50; ma vedi anche p. 135 s.). Anche secondo questa lettura, dunque, il giudizio cessa di atteggiarsi come trilaterale e viene ricondotto nell’usuale schema binario, consentendo per lo meno di attenuare i dubbi che investono la zona grigia del sindacato della Corte tra sindacato di legittimità e sindacato sul merito (vd. p. 139 ss.), nonché i dubbi che investono la praticabilità di un eventuale giudizio di ragionevolezza che (coerentemente portato a conseguenze ulteriori), implicherebbe il raffronto tra la norma sospetta e la totalità di « tutte le altre compresenti nell’ordinamento e tutelanti la stessa sfera di valori » (p. 155). (54) Con riferimento esclusivo all’art. 13 Cost. e al sindacato della Corte sulla ragionevolezza delle pene, ricorrono le parole di Bricola, dal cui insegnamento — neanche a dirlo — le considerazioni qui svolte appaiono direttamente discendere. L’autore — pur senza disconoscere il diritto di cittadinanza al giudizio di ragionevolezza nell’universo dei giudizi di legittimità costituzionale — osserva infatti come « la sproporzione tra misura della sanzione penale e valore tutelato dipende, oltre che da un giudizio quasi inevitabile di raffronto con altri beni costituzionalmente rilevanti e tutelati da altre norme penali, altresì e principalmente dal rapporto di gerarchia (e dell’entità di esso) intercorrente fra bene tutelato e libertà personale sacrificata dalla sanzione penale e quindi non solo da un giudizio estrinseco alla norma penale ma anche da un giudizio intraneo ad essa » (Teoria generale cit., pp. 18 e 19, nota 19). Ci pare di poter condividere l’essenza del discorso, se pur espresso dall’illustre Autore in modo necessariamente sintetico. Appare infatti — come è ormai ben noto — improprio riferirsi sic et simpliciter ad una gerarchia tra beni costituzionali, sia per la tradizionale difficoltà di delineare una classe di valori di rango « superprimario », sia per la tendenziale « staticità » delle indicazioni, storicamente datate, della Carta costituzionale. È poi certo che la scelta di penalizzazione dipende, non solo dalla rilevanza del bene offeso, ma anche dalle modalità dell’aggressione, oltre che da una serie di considerazioni stricto sensu esulanti dalla Costituzione. Per tutti PULITANÒ, Obblighi costituzionali cit., p. 502 ss.


— 179 — natura in senso tecnico ‘‘discrezionale’’, essendo volta « a concretare e svolgere appunto il ‘‘programma’’ costituzionale » (55). Anzi, a fortiori secondo questa prospettiva, all’affermazione secondo cui il principio di eguaglianza costituirebbe il « fondamento della inammissibilità di contraddizioni interne alle leggi [...] ogni volta che la loro disciplina determini ingiustificate, arbitrarie e irrazionali discriminazioni, ossia in definitiva discriminazioni non giustificatamente o ragionevolmente fondate sull’assunzione di scopi costituzionali » (56), diviene possibile obiettare che il ricorso a tale parametro è in materia penale superfluo, prima ancora che arbitrario, data comunque la possibilità di un raffronto tra il valore costituzionale sotteso alle norme e quello — sempre presente — della libertà personale. In questa dimensione, sembra utile parlare più che di principio, di « criterio di ragionevolezza » (57). La diversa espressione linguistica, lungi dal ridursi a questione meramente terminologica, pare — al contrario — meglio illustrare l’idea che la ragionevolezza non sia riconducibile — se non a costo di qualche forzatura — tra i « principi », individuabili — sulla scorta dell’insegnamento dato dalla Corte costituzionale nel 1960 — in « quegli orientamenti e quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dall’intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento giuridico vigente » (58). La ragionevolezza, dunque, come criterio — aggiungiamo: argomentativo — e non già come principio costituzionale vero e proprio (59). (55) MODUGNO, Legge cit., p. 1034. (56) ID., op. cit., p. 1035 s. (57) La citazione è di VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in E.N.P.D.E.P., 1992, p. 752. Ad onor del vero, tuttavia, l’autore, nello stesso lavoro, si riferisce alla ragionevolezza come ad un vero e proprio principio, riservando la nomenclatura di « criterio » o « orientamento » del diritto a diversi valori che permeano di sé l’ordinamento, pur senza assurgere a dignità di « principio »; e cita, tra questi, la necessità intesa come extrema ratio e la proporzionalità; in collocazione intermedia rispetto ai principi, la difesa sociale e dei diritti dell’uomo; il favor libertatis; (pp. 747-749); ed infine l’offensività; (p. 773 s.) (58) VASSALLI, op. cit., p. 748 s. (59) Sulla duplice valenza della ragionevolezza, come canone interpretativo e come criterio di giudizio, vd. TOSI, op. cit., p. 550 s., la quale si richiama all’insegnamento di LAVAGNA, secondo il quale la ragionevolezza ‘‘si inserisce probabilmente in ogni questione di legittimità costituzionale, sia pure in forma implicita e inespressa, come momento essenziale


— 180 — Mutuando il discorso — invero — da tutt’altro contesto, si potrebbe cioè proseguire ricordando che con i principi « non possano confondersi... le massime della logica giuridica, né le regole dell’arte e i canoni euristici propri dell’argomentazione giuridica. Si tratta di due ordini di fenomeni, per così dire, distinti, nella misura in cui gli strumenti operazionali e concettuali che permettono di acquisire determinati risultati vanno tenuti separati e differenziati da questi ultimi medesimi. Il che non significa che, de jure condito, la violazione di massime e canoni della logica e dell’argomentazione giuridica non possa costituire occasione di impugnativa per ragioni di legittimità, quando ne sia risultata adulterata o viziata la individuazione dei principi generali » (60), ma, in questo caso, ciò che rileva sarà appunto il contrasto con principi « materiali » della Costituzione, e non già quello con l’art. 3 Cost. È possibile cioè continuare a parlare di controllo di eguaglianza, a patto di intendersi su un punto: la ragionevolezza da parametro di riferimento, diviene metodo conoscitivo del giudizio: « un giudizio non arbitrario, cioè [...] un giudizio che, anche se non è retto dai canoni della logica formale, tuttavia resta un giudizio governato da regole prefissate e relativamente certe, idonee perciò a circoscrivere in maniera accettabile la discrezionalità del giudice delle leggi e a rendere prevedibile e controllabile il suo operato: [...] un giudizio, perciò, da qualificare pur sempre — almeno secondo le più recenti tendenze anti-formalistiche — tra le tecniche argomentative del giurista e non tra gli apprezzamenti e le valutazioni degli operatori politici » (61). Dovrebbe, a questo punto, risultare come — per lo meno nello stretto ambito penalistico — non trovi asilo nessun c.d. « giudizio costituzionale di ragionevolezza » che non si fondi immediatamente e direttamente su uno specifico precetto costituzionale, e su questo soltanto; talché — può osservarsi — il giudizio che usi quale referente l’art. 3 Cost. nella sua presunta accezione di ragionevolezza, oltre che dubbio, non pare avere una sua autonomia concettuale; mentre solo ragioni di comodità ed ineliminabile. Ragionevolezza e legittimità costituzionale, pubblicato ancora di recente su Ricerche sul sistema normativo, Milano, 1984, p. 642. (60) BARTOLE, Principi del diritto cit., p. 524, il quale — come specifica nella nota n. 195 — si riferisce all’impugnazione in Cassazione delle sentenze dei giudici inferiori. Pare tuttavia che il discorso possa adattarsi — mutatis mutandis — altresì al giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi ordinarie. (61) ANZON, op. cit., p. 36.


— 181 — espositiva giustificano l’uso che della ragionevolezza (criterio di interpretazione) si fa come specifico referente del giudizio di costituzionalità. Considerazioni non nuove. E però vale forse la pena di recuperarle con riferimento alla materia penalistica. A voler correre il rischio di sconfinare in valutazioni a sfondo lontanamente ideologico, si potrebbe anche aggiungere, usando le parole di una dottrina, che il diritto penale è permeato dalle medesime istanze che, durante le fasi « straordinarie » nella « gestione dei diritti costituzionali, spingono il testo della Carta fondamentale ad entrare ‘‘nella diretta considerazione del giudice costituzionale’’ (62). Ma, a differenza della citata dottrina, che non esita ad esaltare la fase ‘‘ordinaria’’ (quella nella quale la Corte espleta il suo ruolo più liberamente), pensiamo che la ‘‘marcia’’ utilizzata dall’Organo ‘‘per i percorsi più impervi, in cui bisogna ricorrere alle ruote dentate del riferimento ‘‘forte’’ al testo costituzionale... » (63) non sia di per sé necessariamente indicativa della « criticità » del momento storico, a meno che non si vogliano considerare le esigenze garantiste sottese al diritto penale come espressione di una « crisi istituzionalizzata » di questo settore normativo. Siamo consapevoli che (stanti i limiti insiti in ogni dettato positivo) « la Corte non può raggiungere la decisione attraverso la semplice interpretazione del testo costituzionale » (64), senza ricorrere ad elementi extra-testuali, ma ci pare, d’altro canto, fondato il timore che un riconoscimento così esplicito del potere di provvedere mediante un ‘‘giudizio che non sia strettamente ancorato a [...] parametri ‘certi’ » (65), arrechi un notevole vulnus alle esigenze di certezza che sottostanno al favor libertatis in materia penale, aprendo la strada alla deresponsabilizzazione della Corte costituzionale. Questa, infatti, « nell’operazione di ‘‘individuazione’’ della norma parametro, può, agendo sulle potenzialità del giudizio di ragionevolezza (quale delineato nella sua giurisprudenza), ‘‘nascondere’’ sotto il ‘‘mantello’’ dell’art. 3 Cost. altre (e varie) esigenze, principi e valori costituzionali che essa preferisce (o ritiene di dover) non definire (e quindi delimitare) in modo esplicito » (66); laddove, in materia di diritto (62) BIN, Bilanciamento cit., p. 59. (63) ID., op. ult. cit., p. 61. (64) ID., op. ult. cit., p. 62. (65) ID., op. ult. cit., p. 63. (66) POLITI, La limitazione degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento tra incostituzionalità sopravvenuta e giudizio di ragionevolezza, in Giur. cost., 1992, p. 3940.


— 182 — penale, sarebbe bene che i valori siano sempre individuati perché individuabili. Ci pare, insomma, con riguardo alle norme penali, di poter condividere l’opinione secondo la quale l’ampio ricorso allo schema trilaterale del giudizio di ragionevolezza (certamente legittimo) si comprende in quanto « più rassicurante — per chi lo impiega, s’intende — di quanto non lo siano motivazioni condotte (e decisioni assunte) sulla base del confronto diretto tra mezzo e fine; proprio perché la ‘‘forma triangolare’’ che lo contraddistingue è, almeno in apparenza, una forma chiusa, definita in tutti i propri vertici da norme positive, entro cui il giudice si muove con lo sperimentato strumentario dell’interprete che ha da registrare (per poi valutarne la rilevanza) analogie e diversità esistenti tra fattispecie normative omogenee » (67). Soprattutto, esce da queste osservazioni rafforzato il sospetto — espresso dalla stessa dottrina (ma non in questi termini di « drammaticità ») — che il ricorso privilegiato allo schema trilaterale si spieghi anche perché esso (a differenza delle valutazioni di congruità mezzi — fini, in cui, nel caso di norme penali, il mezzo è rappresentato almeno in linea teorica, dalla restrizione della libertà personale), rende più agevole « limitare la dichiarazione di illegittimità a singole parti della fattispecie normativa » (68). Ci pare cioè che esso consenta alla Corte di mascherare come « rime obbligate » soluzioni che l’assenza di un’« area di contatto con la fattispecie assunta a paragone » (69) rivelerebbe — altrimenti — nella loro natura di pronunce arbitrariamente creative del diritto. 6. Si impone, a questo punto, una precisazione. Come premesso, le osservazioni svolte non possono che presupporre quella particolare visione del diritto penale che prepone quest’ultimo alla tutela di beni di significatività costituzionale. Che questa visione possa avere un valore solo orientativo, è oramai affermazione costante e ripetuta. Eppure, scorrendo velocemente le più recenti pronunce della Corte costituzionale in materia penale, non rinveniamo che pochissime decisioni (67) BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Milano, 1988, p. 291, che — come già accennato, è tuttavia propenso a riconoscere alla Corte un’ampiezza di potere che, per lo meno con riguardo alla normativa penale, noi non condividiamo, ed al quale si rimanda per un’attenta analisi delle diverse tipologie di decisioni assunte dalla Corte in materia di ragionevolezza. (68) ID., op. ult. cit., p. 292. (69) ID., op. ult. cit., p. 293.


— 183 — fondate in modo esclusivo sul principio di ragionevolezza e sull’art. 3 Cost. (70). Al contrario, risulta la costante tensione della Corte verso la individuazione, nelle norme sottoposte al suo vaglio, di interessi di rango costi(70) Così, per restare alla giurisprudenza degli ultimi anni, ricordiamo le sentenze C. Cost. 8-10 gennaio 1991, n. 2 (Giur. cost., 1991, p. 14 ss.), che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 233 c.p.m.p. sul furto d’uso nella parte in cui non estendeva la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione per forza maggiore o caso fortuito (come accade per l’art. 626, I co. c.p. dopo la sent. C. Cost. 1085/1988); sent. C. Cost. 4-13 dicembre 1991, n. 448 (in Giur. cost., 1991, p. 3713), in cui è dichiarata la illegittimità dell’art. 215 c.p.m.p. nella parte in cui prevedeva la modalità distrattiva del peculato militare; sent. C. Cost. 5-23 marzo 1992, n. 119 (in Giur. cost., 1992, p. 1018 ss.), in cui, a seguito della novellazione dell’istituto generale dell’affidamento in prova al servizio sociale, si è ritenuto non compatibile con il principio di eguaglianza la norma che disciplinava (in modo diverso) l’affidamento del condannato militare, e nella quale — pertanto — la disparità di trattamento comunque riguardava, a rigore, una misura alternativa alla detenzione; sent. C. Cost. 5-19 maggio 1993, n. 249 (in Giur. cost., 1993, p. 1829 ss.), in cui è dichiarata la illegittimità delle disposizioni che escludevano l’applicabilità delle pene sostitutive ad alcune ipotesi di lesioni personali colpose con violazione delle norme sulla prevenzione di infortuni sul lavoro. Con riguardo alle pronunce riferite, è possibile, tuttavia, sostenere che esse (con l’eccezione dell’ultima, che peraltro presenta le sue peculiarità) si riferiscono tutte al settore del diritto penale militare e si fondano su un raffronto con le ben più che omogenee (diremmo: identiche) figure criminose del codice penale; tanto che ad essere vulnerato appare l’art. 3 Cost., non già nella sua accezione di ragionevolezza, bensì (come pure è espressamente riconosciuto in alcune di esse), nel suo più rigoroso significato di eguaglianza. Al di là delle ipotesi in cui vi era ab origine massima uniformità tra legislazione comune e speciale, e tale uniformità sia venuta meno a seguito di interventi legislativi o della Corte stessa, ricorreranno ancora le parole di PIETRO GIUSEPPE GRASSO, per il quale, « Benché aggiuntivo e derivato dall’esterno, il criterio di adeguamento al diritto penale comune può, ormai, considerarsi divenuto parte dei caratteri istituzionali costanti del diritto penale militare. [...]. Il suddetto criterio di ‘‘adeguamento’’ è da ritenere figura storicamente distinta, consolidata e definita come regola direttiva per il legislatore. E perciò non pare corretto che esso criterio venga confuso, nonché assorbito, nella più generica ed indeterminata nozione del sindacato di legittimità costituzionale fondato sul principio di eguaglianza e sul corollario della ‘‘ragionevolezza’’ » (Questioni costituzionali in tema di diritto penale militare, in Giur. cost., 1979, p. 473, a commento della sent. C. Cost. 5-25 maggio 1979, p. 288 ss., con nota redazionale di VENDITTI, In materia di reato militare di insubordinazione. Osserviamo incidentalmente come si possa dubitare della scelta operata dalla Corte che, con la sent. n. 26/1979, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 186, I co. c.p.m.p. nella parte in cui equipara ai fini sanzionatori l’insubordinazione consistita nell’omicidio volontario a quella consistita nel tentato omicidio, ritiene il profilo del contrasto con l’art. 27 Cost. assorbito in quello della irragionevolezza). Altrimenti detto, « la specialità dell’ordinamento militare e la peculiarità della situazione soggettiva di chi è tenuto alla prestazione del servizio escludono la possibilità di richiamare quali tertia comparations i regimi di altre categorie » (ord. C. Cost. 2-13 novembre 1992, n. 448, in Giur. cost., 1992, p. 4106. Sull’applicazione « cauta ed avveduta » che la Corte ha da sempre fatto del principio di ragionevolezza in materia penale, VASSALLI, op. cit., p. 752 s. Vd., altresì, PALADIN, op. cit., p. 253 s., in Giur. cost., 1984; p. 653 s., in Stru-


— 184 — tuzionale o comunque l’annullamento delle disposizioni de quibus, nel caso in cui gli interessi tutelati dal legislatore siano ritenuti soccombenti nel confronto con quelli (costituzionalmente rilevanti) che vengono compressi per effetto della previsione normativa. È noto, d’altro canto, che la teoria della necessaria offensività si scontra, oltre che (lo si è già ricordato) con la impossibilità teorica di delineare un catalogo chiuso di beni costituzionali, altresì, in pratica, con la esistenza, nel nostro ordinamento, di una serie vasta di reati (in constante espansione) nei quali — nonostante ogni accanimento dogmatico — non si è riusciti a scorgere un bene costituzionale (71). Sarebbe facile cedere a tentazioni di coordinamento sistematico ed escludere — anche con riguardo a tale classe di reati — la configurabilità, nella ragionevolezza, di un principio che possa fungere come referente costituzionale per una pronuncia di illegittimità. Ma questa conclusione — che meriterebbe ben altro approfondimento — esula dal campo della nostra indagine. Ci limitiamo, pertanto, a prospettare la seguente alternativa. O deve essere, comunque, sempre (anche nel caso dei c.d. reati formali) possibile un sindacato di legittimità basato sul confronto tra l’interesse compresso (libertà personale) e interesse (costituzionale) tutelato; ovvero il legislatore è libero di farsi guidare da valutazioni contingenti, ispirate ad opportunità, nell’uso dello strumento penalistico per disciplinare qualunque situazione, anche priva di rilievo costituzionale. In quest’ultimo caso, le conclusioni del nostro discorso subirebbero una forte attenuazione, essendo chiaro che la situazione non differirebbe da quella che si delinea con riferimento ad altre branche del diritto, e per le quali la Corte si vale come strumento di controllo anche (ed eventualmente in via esclusiva) di quello fondato sul confronto con un tertium comparationis, in chiave — appunto — di ragionevolezza (72). Non pare, tuttavia, esimenti tecnici cit. Si veda, da ultima, ord. 22-30 dicembre 1993, n. 493, in G.U. 5 gennaio 1994, I serie spec. 1. (71) Da ultimi, FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 39 ss. (72) Cfr., tra le pronunce più recenti, ord. C. Cost. 29-31 dicembre 1993, n. 519, in G.U. 12 gennaio 1994, I serie spec. che si richiama, sebbene de relato, alla sent. C. Cost. 524 febbraio 1992, n. 67 in cui, in materia di edilizia abusiva, si trova scritto che non può ritenersi « irrazionale che vengano sottoposte a sanzione penale tutte le modifiche e le alterazioni attuate mediante opere non autorizzate, indipendentemente dalla presenza e dalla entità di un danno paesistico concretamente sussistente nel caso specifico. Infatti, come viene


— 185 — stano precedenti di questo tipo; né si può nascondere che questa circostanza merita di essere assunta come testimonianza significativa dello sforzo (spesso sottovalutato) che la Corte ha compiuto nell’agganciare le sue decisioni a norme materiali della Costituzione: fornendo, dunque, in ultima analisi, un autorevole conforto alla tesi della costituzionale significatività dell’illecito penale, in una prospettiva de jure condito, prima ancora che in una visione utopistica e « deontologica » del diritto penale. Sembra allora di poter affermare (sebbene con le riserve di cui si è detto) che anche i c.d. giudizi di ragionevolezza (in materia penale) possano essere ricondotti al consueto schema binario e che i limiti al potere di intervento della Corte siano ancora una volta da definire nei termini usuali della stretta necessità, per l’individuazione dei quali la Corte si dovrà servire — tra gli altri argomenti logici — del criterio di non contraddizione all’interno dell’ordinamento settoriale del diritto cui appartiene la norma sospettata di incostituzionalità. 7. Poche osservazioni, adesso, con specifico riferimento alle sentenze della Corte, dalle quali abbiamo preso spunto per le riflessioni generali che ci interessava proporre. È possibile notare che già nelle ordinanze con cui è sollevata la prima questione, sono manifestati dubbi di legittimità in relazione ad una serie di norme costituzionali, delle quali l’art. 3 è, nell’ordine della trattazione, ma anche — sembrerebbe — in quello di importanza, soltanto l’ultima. Sinteticamente, si è, cioè, ritenuto che la mancata previsione dell’esonero dal servizio militare fosse in contrasto con la tutela costituzionale della coscienza individuale (art. 2 Cost.); oltre a tradursi, in virtù del fenomeno della c.d. spirale delle condanne, in un « trattamento contrario al senso dell’umanità ». Si accenna — sempre in relazione all’art. 27, III co. Cost., all’annosa questione della incoercibilità del condannato il quale non affermato dalla giurisprudenza ordinaria di legittimità, il reato previsto dall’art. 1-sexies impugnato ha carattere formale e di pericolo, proprio perché il vincolo posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al suo governo » (Giur. cost., 1992, p. 379) (le sottolineature sono nostre). È chiara, nel passo riportato, la oscillazione tra lo sforzo di configurare la fattispecie come offensiva (sia pure in forza di pericolo) di un interesse ed il riconoscimento che — di contro — si fa della sua natura « formale ». Quel che però più preme sottolineare è che la Corte, nel caso concreto, ha dichiarato la non fondatezza della questione sollevata sotto il profilo dell’art. 3 Cost., appellandosi, ancora una volta, alla gradualità della pena e mostrando in tal modo di riconoscere una ampia sfera non costituzionalmente censurabile di discrezionalità legislativa.


— 186 — accetti di essere « rieducato »; alla inviolabilità della libertà di religione (73); mentre, parzialmente più articolato è il discorso sulla prospettata vanificazione del principio di materialità di cui all’art. 25 Cost. Di fronte ad un fatto come il rifiuto, il cui disvalore è suscettibile di assumere diverse sfumature, per l’evidente compenetrazione degli elementi oggettivo e soggettivo (74); di fronte — soprattutto — ad un fatto di contrarietà al diritto sostanzialmente unico e di cui le singole condotte non sono che ‘‘contingenti manifestazioni’’, la spirale delle condanne finisce con il colpire ‘‘in definitiva la personalità dell’individuo, cioè il suo atteggiamento di irriducibile contrarietà allo svolgimento del servizio militare’’. Ancora, viene invocato il principio di democraticità dell’ordinamento militare (art. 52 Cost.) ed infine l’art. 3, in relazione al quale è detto che « i reati di assenza dal servizio previsti nel codice penale militare e il reato previsto dall’art. 8 L. n. 772/72 ledono con modalità offensive analoghe lo stesso bene giuridico: quindi non è possibile una sproporzione eccessiva di trattamento sanzionatorio con riguardo alle suddette fattispecie penali » (75). Risulta chiaro, da quanto accennato, che (anche tralasciando l’art. 3 Cost.) il GIP aveva già offerto materiale sufficiente per una pronuncia di illegittimità, e che, d’altronde, il profilo di irragionevolezza lamentato inerisce essenzialmente al giudizio di bilanciamento tra gli interessi costituzionali dell’obbligatorietà del servizio militare (da un lato) e della libertà personale, della materialità dell’offesa, della finalità rieducativa della pena (e per quanto riguarda la seconda ordinanza) della libertà di religione (dall’altro lato). Il richiamo alla disciplina dettata dall’art. 8 con riguardo al rifiuto che sia sostenuto da particolari motivi di coscienza serve solo ad abundantiam, come strumento ermeneutico per mettere in evidenza (attraverso il raffronto di situazioni « omogenee ») i vizi intrinseci della normativa de qua, la quale, come osservato incidentalmente dal GIP di Roma nel paragrafo conclusivo, « dovrebbe essere accolta a prescindere da ogni comparazione con il reato di rifiuto del servizio militare ». Né questa prospettiva può dirsi radicalmente mutata nella imposta(73) Ord. Trib. mil. Padova, in G.U. 21 aprile 1993, I serie spec. n. 17. (74) Osserva il GIP in altra parte dell’ordinanza come « Ciò che caratterizza la posizione dell’obiettore di coscienza non è il tipo di condotta che può essere posta in essere, ma solo i motivi che presiedono a tale condotta ». (75) Ord. Trib. pen. mil. Roma.


— 187 — zione della Corte: ciò, nonostante le enfatiche dichiarazioni della stessa (nella sent. n. 343, a p. 12, si sostiene trattarsi di un « giudizio che viene innanzitutto svolto sotto il profilo dell’art. 3 della Costituzione » e, poco di seguito è reputato « opportuno sottolineare, sempre in via di premessa, che il giudizio sotto il profilo considerato deve svolgersi nelle forme proprie dello scrutinio di ragionevolezza dell’uso discrezionale del potere legislativo in riferimento alla costellazione di valori costituzionali... »). Infatti, ad onta anche del richiamo compiuto (sempre in motivazione) esclusivamente agli artt. 3 e 27 Cost., la Corte invero appare tutta intenta a sindacare il bilanciamento che il legislatore avrebbe dovuto compiere, tra i valori rappresentati, « da un lato, dall’obbligo di prestare il servizio militare di leva (art. 52, II co. della Costituzione) — obbligo che va annoverato fra i doveri di solidarietà sociale di carattere inderogabile, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, — e, dall’altro lato, dalla libertà personale, connessa all’incriminazione del rifiuto di prestare il predetto servizio (art. 13 della Costituzione), libertà che gode anch’essa della copertura dell’art. 2 della Costituzione in quanto diritto inviolabile ». Ancor più esplicitamente si legge, poi, che « la possibilità reale della c.d. spirale delle condanne in relazione ai reati di rifiuto totale di prestazione del servizio militare diversi da quello disciplinato dall’art. 8 della L. n. 772 del 1972 — conseguente alla mancanza di una clausola di esonero dall’obbligo di leva a pena espiata — è la manifestazione (il corsivo è nostro) della palese irragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore, in sede di trattamento sanzionatorio di quei reati, tra il valore costituzionale del dovere di prestare il servizio militare (art. 52 della Costituzione) e quello della libertà personale (art. 13 della Costituzione) » (76), così dissipando ogni dubbio in ordine alla conclusione che il giudizio è qui — come generalmente accade — un giudizio binario, avente come termini la norma « incriminata », da un lato, e i vari referenti costituzionali, dall’altro, e rendendo pertanto palese che la irragionevolezza è soltanto la sintomatologia di un eventuale conflitto tra siffatti termini (77). (76) P. 14 della stessa sentenza. (77) Ancora più chiaramente, nella sent. n. 467/1991 cit., si legge che « innanzitutto, bisogna individuare quali siano gli interessi di rilievo costituzionale che il legislatore ha ritenuto di far prevalere nella sua discrezionale ponderazione degli interessi attinenti ai due casi trattati differentemente e, quindi, occorre raffrontare il particolare bilanciamento operato dal legislatore nell’ipotesi denunziata con la gerarchia dei valori coinvolti nella scelta legislativa, quale risulta stabilita nelle norme costituzionali » (Giur. cost., 1991, p. 3811).


— 188 — Tuttavia — notiamo solo per inciso e in conclusione — questa sintomatologia assai difficilmente avrebbe potuto consentire la soluzione in termini di additività che la Corte ha mostrato di preferire. Al di là della sua « ragionevolezza » (e nel primo paragrafo non si è omesso di segnalarne qualche limite), infatti, la scelta proposta sarebbe apparsa senz’altro assai meno necessitata, se fatta alla stregua degli altri parametri utilizzati e — come si è visto — assorbenti. OMBRETTA DI GIOVINE Borsista di Diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza della L.U.I.S.S.


NOTE DI DIRITTO COMPARATO E STRANIERO

IL NUOVO CODICE FRANCESE E LA RESPONSABILITÀ PENALE DELLE PERSONNES MORALES

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Il Codice penale napoleonico e i successivi interventi di aggiustamento. — 3. Verso una riforma globale del diritto penale francese: dal progetto della fine del secolo scorso all’approvazione del Codice del 1992. — 4. Breve analisi di alcune delle principali disposizioni contenute nel Libro I del nuovo Codice. — 5. La responsabilità penale delle persone giuridiche: 5.1. i precedenti legislativi; 5.2. l’atteggiamento della dottrina e le timide aperture della giurisprudenza; 5.3. la questione alla luce dei vari Progetti di riforma; 5.4. la disciplina del nuovo Codice.

1. Dopo una lunga e travagliata gestazione, il nuovo Codice penale francese è venuto finalmente alla luce. Il 1o marzo di quest’anno (giorno fissato con la l. n. 93-913 del 19 luglio 1993 (1)) sono infatti entrate in vigore le disposizioni dei suoi cinque libri, introdotti (i primi quattro) con le quattro leggi del 22 luglio 1992 (2) e (il quinto) con la c.d. loi d’adaptation (legge n. 92-1336 del 16 dicembre 1992) (3).

(1) Pubblicata nel Journal Officiel del 20 luglio 1993. L’articolo unico della l. n. 93913 ha modificato l’art. 373 della loi d’adaptation, il quale fissava al 1o settembre 1993 l’entrata in vigore (oltre che di se stessa) delle quattro leggi del 22 luglio 1992: data, questa, già frutto di un compromesso tra il Senato, che era propenso ad un rinvio al 1o gennaio 1994, e l’Assemblea nazionale, che aveva approvato la data (del 1o marzo 1993) prevista nel Progetto governativo. Va rammentato che, per effetto della stessa l. n. 93-913, ha subito un rinvio (al 1o marzo 1995) anche l’entrata in vigore delle nuove disposizioni nei Territori d’Oltremare. (2) Pubblicate nel Journal Officiel del 23 luglio 1992. Ciascuna delle quattro leggi corrisponde ad un libro del nuovo Codice penale: la l. n. 92-683 al libro I (disposizioni generali), la l. n. 92-684 al libro II (crimini e delitti contro le persone), la l. n. 92-685 al libro III (crimini e delitti contro il patrimonio), la l. n. 92-686 al libro IV (crimini e delitti contro la Nazione, lo Stato e la pace pubblica). (3) Pubblicata nel Journal Officiel del 23 dicembre 1992. Il libro V del nuovo Codice penale, dedicato agli « altri crimini e delitti », consta attualmente di un solo capo riguardante le sevizie gravi e gli altri atti di crudeltà verso gli animali. La l. n. 92-1336 è composta da 373 articoli ed è suddivisa in cinque titoli: il titolo I (artt. da 1 a 134) contiene le disposizioni modificative del Codice di procedura penale; il titolo II (art. 135) crea un libro V all’interno del nuovo Codice penale; il titolo III (artt. da 136 a 245) comprende le norme che modificano i Codici diversi da quello di procedura penale; il titolo IV (artt. da 246 a 321) contiene le disposizioni modificative di leggi particolari; il titolo V, infine, racchiude disposizioni di diversa natura (adattamenti di portata generale, disposizioni transitorie, modifica-


— 190 — L’avvenimento ha indubbiamente il carattere di una svolta epocale: il Codice del ’92 ha sostituito il vecchio e glorioso Code pénal napoléonien del 1810 (4), che tanta parte ha avuto nella storia della legislazione penale europea (5). 2. Tale Codice, ispirato più alla filosofia utilitaristica di Bentham — la cui opera più nota fu pubblicata per la prima volta in francese col titolo Traité de législation civile et pénale nel 1802 e solo un secolo e mezzo più tardi apparve nella versione inglese col titolo The theory of legislation (6) — che alla dottrina di Beccaria (7) e rivolto precipuamente alla conservazione delle conquiste della borghesia (8), si caratterizzava per la tendenza a perseguire, in modo pressoché esclusivo, la prevenzione generale dei reati attraverso un rigore esasperato (9): la pena di morte era prevista in un elevato numero di ipotesi; le altre sanzioni (lavori forzati, pene detentive, ecc.) erano improntate alla massima severità; furono reintrodotte le pene infamanti; per il parricidio fu prevista la « mutilazione del pugno »; il tentativo fu assimilato al reato consumato e la condotta del complice a quella dell’autore; fu fissato il principio della solidarietà di tutti i partecipi per il pagamento delle pene pecuniarie (10). Nell’arco di quasi due secoli, il Codice napoleonico ha formato oggetto di numerosi e robusti interventi modificativi, soprattutto nel senso di una progressiva umanizzazione e individualizzazione dei meccanismi sanzionatori (11). In tale direzione, si è provveduto innanzi tutto all’eliminazione delle pene considerate crudeli o anacronistiche (gogna, marchio d’infamia, mutilazione, morte civile, deportazione, ecc.). Anche la pena di morte è stata abolita (per vero, soltanto in tempi relativamente recenti (12)). L’individualizzazione delle sanzioni è stata ottenuta in particolare attraverso la generalizzazione dell’applicazione delle cir-

zioni del nuovo Codice penale, norme abrogative e, come si è già visto, fissazione della data di entrata in vigore del Codice e della stessa loi d’adaptation). Per una sintetica ma esaustiva descrizione dei contenuti di detta legge si rinvia a F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Entrée en vigueur du nouveau Code pénal. Présentation des dispositions de la loi n. 92 - 1336 du 16 décembre 1992, in J. C. P., 1993, Act., 3. (4) Il Code napoléonien era il codice in vigore più antico del mondo. (5) Esso fu esteso, tra l’altro, — così come i precedenti Codici del 1791 e del 1795 — alle regioni italiane cadute sotto la dominazione francese e rimase in vigore in Belgio fino al 1867, allorché fu sostituito da uno « strumento legislativo molto più moderno » (così P. MALAVAL, Le projet de code pénal français, in Le Journal des procès, n. 116, p. 24). (6) Cfr. G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, III, Bologna, 1970, p. 33. (7) V., sul punto, G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, Droit pénal général, 13a ediz., Paris, 1987, p. 84. Nel senso, tuttavia, che le idee di Beccaria e di Montesquieu, che avevano direttamente ispirato il Codice penale rivoluzionario del 1791, lasciarono tracce profonde anche nel Codice imperiale cfr. R. MERLE/A. VITU, Traité de droit criminel, I, 6a ediz., Paris, 1984, p. 151. (8) Cfr., sul punto, F. BRICOLA, in F. BRICOLA/F. SGUBBI, Dispensa per il corso di Istituzioni di diritto penale, Anno accademico 1983-84, p. 17. (9) R. MERLE/A. VITU, op. e loc. cit. (10) Così G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. e loc. cit., i quali, d’altra parte, sottolineano come il Codice del 1810 restasse fedele, nei suoi tratti essenziali, alle idee introdotte con la Rivoluzione: distinzione degli illeciti in crimini, delitti e contravvenzioni; legalità dei delitti e delle pene, utilizzo delle pene privative della libertà personale, rispetto del principio di eguaglianza nella repressione. (11) Cfr. P. MALAVAL, op. cit., p. 24. (12) Con l. 9 ottobre 1981, approvata dal Parlamento francese su impulso del Guardasigilli dell’epoca, M. Badinter. Il Progetto preliminare di Codice penale del 1978 manteneva invece la pena di morte, ma soltanto in taluni casi eccezionali.


— 191 — costanze attenuanti a tutte le categorie d’illecito (13), l’introduzione del sursis simple e del sursis avec mise a l’épreuve (14), l’istituto della recidiva, il differimento della pronuncia della pena (ajournement du prononcé de la peine) (15), l’esenzione da pena (dispense de peine) (16), la liberazione condizionale (17), i permessi (18) e il beneficio della semilibertà. Anche il diritto penale minorile ha formato oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore francese; le radicali riforme intervenute in tale settore sono il sintomo di una marcata influenza del movimento della défense sociale nouvelle. In questo campo, la legislazione francese è a ragione considerata una delle più avanzate: il giudice dispone di un ampio potere discrezionale nella scelta della misura che ritiene più adatta alla personalità del minore (19). 3. La solerzia del legislatore francese non aveva tuttavia sopito le aspirazioni a una riforma globale ed organica del diritto penale. Nonostante i numerosi — e spesso felici — ritocchi intervenuti nel corso degli anni, il Code napoléonien era in effetti invecchiato

(13) Nella sua formulazione originaria, l’art. 463 del Codice prevedeva infatti l’operatività delle circostanze attenuanti soltanto in materia correzionale, cioè rispetto ai delitti, e unicamente allorché il pregiudizio causato dall’illecito fosse inferiore a 25 franchi. La generalizzazione delle attenuanti fu realizzata già con l’importante legge del 28 aprile 1832, adottata sotto la spinta di un largo movimento d’opinione e tendente nel complesso a una consistente mitigazione degli eccessi rigoristici del Codice. Come in seguito si vedrà, proprio in tema di circostanze attenuanti il nuovo Codice penale introduce una novità molto rilevante. (14) Il sursis simple fu introdotto in Francia dalla famosa l. 26 marzo 1891, detta Bérenger dal nome del senatore che la propose; esso consiste in un rinvio dell’esecuzione della pena e cioè « nella facoltà concessa al giudice — a determinate condizioni — di disporre che sia rinviata l’esecuzione della pena che pronuncia, sursis che si trasformerà infine in dispensa dall’esecuzione se il condannato non avrà commesso altro reato che implica la revoca di tale beneficio » (così G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 664); e corrisponde in sostanza alla sospensione condizionale della pena prevista dal nostro sistema. Il sursis avec mise à l’épreuve (rinvio della pena sotto sorveglianza) permette di evitare, al pari del sursis simple — anzi ancor più largamente — l’esecuzione delle pene detentive brevi, considerate più dannose che utili per il condannato. Esso è collegato all’imposizione di determinati obblighi a carico del condannato (per una dettagliata analisi dell’istituto si rinvia a G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 678 ss.). La l. 10 giugno 1983 ha aggiunto infine una terza ipotesi di sursis: quello accompagnato dall’obbligo di compiere un lavoro d’interesse generale. (15) L’ajournement du prononcé de la peine era in origine previsto soltanto per i minori dall’art. 19, comma 2, dell’Ordinanza del 2 febbraio 1945, ai sensi del quale « le Tribunal pour enfants pourra, avant de prononcer au fond, ordonner la mise en liberté surveillée à titre provisoire en vue de statuer après une o plusieurs périodes d’épreuve dont il fixera la durée ». Solo trent’anni più tardi — per effetto della l. 11 luglio 1975 — la possibilità di beneficiare di esso è stata estesa ai maggiorenni. Attualmente l’ajournement è previsto e disciplinato dagli artt. 132-60 ss. del nuovo codice. (16) Anche la dispense de peine è stata introdotta nell’ordinamento francese dalla l. 11 luglio 1975. Per una particolareggiata descrizione del funzionamento e della natura giuridica dell’istituto si rinvia a R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 774 s., 955 s., 988 ss. (17) Introdotta dalla l. 14 agosto 1885. Cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 706 ss.; R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 897 ss. (18) Sul punto vedasi R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 879 ss. (19) R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 154.


— 192 — male (20). Nella presentazione del Progetto di Codice penale svoltasi il 19 dicembre 1985 presso l’Università di Parigi I, il ministro M. Badinter ne indicò quattro fondamentali difetti: l’arcaicità, dovuta alla sopravvivenza di reati, come il vagabondaggio e la mendicità — puniti peraltro con pene detentive assai gravi — oramai privi di qualunque significatività; l’inadeguatezza alle esigenze della società attuale, palesata dalla mancata previsione della responsabilità penale dei principali protagonisti del sistema socio-economico, le società commerciali; il suo carattere contraddittorio, che emergeva chiaramente dal confronto tra talune importanti incriminazioni: il traffico di sostanze stupefacenti, ad esempio, era considerato un delitto mentre l’appropriazione indebita (abus de confiance) commessa da un notaio aveva carattere criminale; l’incompletezza, un cospicuo numero di incriminazioni non figurando più nel Codice ma in numerose leggi speciali, talvolta difficilmente individuabili. Non senza considerare che il Codice imperiale presentava fin dall’origine alcune vistose e non più tollerabili imperfezioni tecniche, come ad esempio la collocazione delle cause di giustificazione nella parte speciale o l’omessa previsione dello stato di necessità e del principio del « non cumulo » di pene (21). Sul piano della forma, fu posto in evidenza il fatto che esso si apriva con l’elencazione delle sanzioni penali, anziché — come sarebbe stato più corretto — con l’esposizione dei principi generali e con la disciplina della responsabilità penale (22). Rappresentava, dunque, uno strumento giuridico obsoleto e doveva essere sostituito da un testo chiaro e compiuto, conforme ai valori della società attuale e alle esigenze del tempo presente (23). Già nel 1887 venne istituita una Commissione che elaborò un Progetto di riforma, il quale però non divenne legge dello Stato. Stessa sorte toccò, per effetto della guerra e dell’occupazione tedesca, al Progetto preliminare del 1934 — c.d. Progetto Matter — che sotto l’influsso delle idee positiviste prevedeva, fra l’altro, l’introduzione di un sistema sanzionatorio « à double voie », cioè fondato sull’applicazione di pene e di misure di sicurezza. Quarant’anni più tardi, con decreti 8 novembre 1974 e 27 febbraio 1975, fu insediata dall’allora Ministro della giustizia Lecanuet una nuova Commissione di riforma, composta da rappresentanti della Magistratura, del Foro e dell’Università, che iniziò i suoi lavori il 18 marzo del 1975 (24) e nel luglio dell’anno successivo pubblicò un Progetto preliminare per la riforma della Parte generale del Codice penale. Conformemente alle istruzioni del Guardasigilli, tale Progetto fu poi inviato agli Uffici giudiziari, agli Ordini forensi, alla Scuola nazio-

(20) Il giudizio è di J. PRADEL, Le projet de loi du 20 février 1986 relatif à la réforme au code pénal, in Le journal des procès, cit., p. 31. (21) J. PRADEL, op. e loc. ult. cit. Il principio del « non cumulo di pene » altro non è che il principio dell’assorbimento, già previsto dall’art. 5 c.p. napoleonico per l’ipotesi di concorso materiale di crimini o delitti (al concorso reale di contravvenzioni s’applicava invece il criterio del cumulo materiale di pene). La disciplina della materia è ora contenuta negli artt. da 132-2 a 132-7 del nuovo Codice e presenta interessanti novità rispetto al passato. Cfr. F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation des dispositions du nouveau Code pénal (Lois n. 92-683 à 92-686 du 22 juillet 1992), in J. C. P., 1992, I, 3615, p. 419 s. (22) Marchand, rapport, Ass. nat., Nr. 896, 1989-90, t. 1, p. 11. (23) Projet de loi, Sénat, Nr. 213, 1988-89, exposé des motifs, p. 5. Sul dibattito che si è sviluppato in Francia in ordine alla necessità di una riforma di carattere globale in materia penale, si rinvia alla dettagliata esposizione di F. ZIESCHANG, Das Sanktionensystem in der Reform des französischen Strafrechts im Vergleich mit dem deutschen Strafrecht, Berlin, 1992, p. 198 ss. (24) I lavori della Commissione erano in realtà iniziati in via ufficiosa fin dal 1973.


— 193 — nale della Magistratura, alle organizzazioni rappresentative delle professioni giudiziarie o giuridiche, alle Università, ai Dipartimenti ministeriali interessati ed anche ad organismi internazionali: sulla base dei rilievi formulati in queste sedi, la Commissione redasse un testo di parte generale — presentato al Ministro della giustizia il 2 giugno 1978 e pubblicato come « Avant-projet définitif » — il quale si caratterizzava, tra l’altro, sul piano terminologico, per la rinuncia all’uso di vocaboli ormai entrati nel linguaggio giuridico-penale ma considerati ideologicamente « compromessi ». Così, il termine peine, che avrebbe evocato l’idea della retribuzione, veniva sostituito con quello meno pregnante di sanction ed erano accuratamente evitate parole come responsable e responsabilité, che avrebbero implicato un immediato collegamento con la dottrina del libero arbitrio (25). Ad esso fu comunque riservata un’accoglienza piuttosto tiepida da parte della dottrina (26). All’inizio del 1981 fu poi pubblicato un Progetto relativo ai primi due settori della parte speciale del Codice, dedicati alla disciplina dei reati contro la persona e contro il patrimonio. Una sensibile battuta d’arresto nell’evoluzione della politica criminale francese si registrò con l’entrata in vigore della legge « Sécurité et Liberté » del 2 febbraio 1981 — significativamente venuta alla luce nello stesso momento storico in cui in Italia si viveva la tragica esperienza del terrorismo e della legislazione dell’emergenza (27) — la quale, prendendo le mosse dalla constatazione del fallimento della politica di difesa sociale realizzata a partire dal 1945, prevedeva un trattamento di estremo rigore nei confronti degli autori recidivi di reati di violenza contro le persone o contro il patrimonio (28). Essa aveva una chiara finalità simbolico-espressiva e suscitò per questo vivaci e giustificate critiche (29). Dopo la svolta politica del maggio-giugno 1981, fu modificata — con decreto 22 ottobre 1981 — la composizione della Commissione incaricata della revisione del Codice penale ed i suoi poteri furono accresciuti. La Commissione, presieduta dal Guardasigilli R. Badinter, pubblicò nel 1983 un nuovo Progetto preliminare per la parte generale del Codice, che sostituì quello del 1978 (rispetto al quale esso conteneva talune interessanti innovazioni, come la modifica dei criteri di classificazione degli illeciti in crimini, delitti e contravvenzioni, il mantenimento della distinzione tra pene criminali, correzionali e contravvenzionali, la reintroduizione dei concetti di peine, di responsabilité pénale e di faute, e l’estensione della responsabilità penale a tutte le categorie di groupements (30)). Né il Progetto del 1978, né quello del 1980 né quello del 1983 furono tuttavia sottoposti all’approvazione del Parlamento. Dopo ulteriori rimaneggiamenti, il 19 febbraio 1986 il Governo socialista presentò al

(25) Vedasi J. H. ROBERT, Droit pénal général, 2a ediz., Paris, 1992, p. 49 s. Anche i termini faute e culpabilité non figuravano più nel Progetto del 1978. (26) Cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 107. All’analisi di questo Progetto dedicò il suo primo congresso l’Association française de droit pénal, da poco istituita (il testo dei lavori è pubblicato in Rev. int. dr. pén., 1980, p. 1 ss.): « fu una pioggia di critiche, di scherni e di rimostranze » (così J. H. ROBERT, Avant-propos, in Le nouveau code pénal - numéro hors série de la Revue Droit pénal et de La Semaine juridique - p. 1). (27) Sulla legislazione dell’emergenza in Italia cfr., per tutti, F. PALAZZO, La recente legislazione penale, 3a ediz., Padova, 1985, p. 168 s. (28) V., sul punto, R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 156. (29) La dottrina non mancò di sottolineare come il Progetto di tale legge fosse intervenuto a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, ciò che lo faceva apparire come « uno degli strumenti demagogici di battaglia elettorale » (R. MERLE/A. VITU, op. e loc. cit.). Cfr., altresì, F. ZIESCHANG, op. cit., p. 192. (30) Cfr. R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 157.


— 194 — Senato un Progetto di legge comprendente i primi tre libri del Codice penale, dedicati rispettivamente alle disposizioni generali, ai crimini e delitti contro le persone e ai crimini e delitti contro il patrimonio. La discussione del I libro iniziò in Senato soltanto nel maggio 1989 e presso l’Assemblea nazionale nell’ottobre dello stesso anno: « l’opposizione si ribellò, sollevò, ma invano, la questione preliminare e furono necessarie quattro letture, scaglionate in tre sessioni, per adottare questa parte generale del nuovo Codice. La responsabilità delle persone giuridiche dette luogo a complesse trattative, si litigò sulla definizione della legittima difesa e ci si scontrò sul periodo di sicurezza » (31). La parte speciale suscitò invece contrasti meno accesi e i dibattiti assunsero un tono più tranquillo. In due sessioni parlamentari del 1991 fu votato il libro II; in altre due (autunno 1991 e primavera 1992) i libri III e IV. Il nuovo Codice penale è stato infine approvato nel suo insieme dall’Assemblea nazionale e dal Senato rispettivamente il 2 e il 7 luglio 1992 (32). Con l. n. 92-1336 del 16 dicembre 1992 è stato poi creato, come già detto, il libro V del Codice (33) e con decreto governativo n. 93726 del 29 marzo 1993 (34) si è provveduto alla realizzazione della parte regolamentare di esso (35). 4. Nel sistema penale francese, il nuovo Codice non assume carattere rivoluzionario ma si colloca piuttosto in una logica di continuità e di evoluzione: le modificazioni da esso apportate sono numerose; non si può tuttavia non riconoscere che la più gran parte delle nuove disposizioni non fa altro che riprendere, sotto una forma rinnovata, quelle del Codice precedente (36). Anche quella che indubbiamente ne rappresenta l’innovazione più significativa — l’introduzione di una responsabilità penale diretta delle persone giuridiche (37) —

(31) J. H. ROBERT, Avant-propos, cit., p. 1. « Periodo di sicurezza » (pèriode de sûreté) è denominato quell’arco di tempo durante il quale a taluni condannati ritenuti particolarmente pericolosi è preclusa la possibilità di usufruire di certi benefici concedibili in fase di esecuzione della pena. Tale limitazione fu introdotta con l. 22 novembre 1978 (cfr. R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 888). (32) Cfr. J. H. ROBERT, op. ult. cit., p. 1 s. (33) Cfr. nt. 3. (34) Pubblicato nel Journal Officiel del 30 marzo 1993. (35) La parte regolamentare del nuovo Codice, annessa al decreto, è composta da sei libri: i primi cinque contengono le disposizioni di applicazione dei cinque libri legislativi corrispondenti; il sesto, invece, riguarda le contravvenzioni. Per una prima, sintetica, esposizione dei contenuti di essa, si rinvia a F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Réforme de la partie réglementaire du Code pénal. Présentation des dispositions du décret n. 93-726 du 29 mars 1993, in J. C. P., 1993, Act., 18. (36) Così, quasi testualmente, F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 412. V. pure J. PRADEL, Il nuovo codice penale francese. Alcune note sulla sua parte generale, in Indice pen., 1994, p. 9, a giudizio del quale nel Codice del ’92 il modernismo ‘‘va di pari passo con un evidente conservatorismo’’. « Le nouveau code pénal » — rileva non senza una certa enfasi il Ministro della giustizia nella circolare del 24 luglio 1992 (in J. C. P., 1992, III, 65633, p. 317) — « constitue un ensemble juridique plus clair, plus efficace et plus juste. Plus clair, car sa présentation entièrement rénovée le rendra compréhensible par tous les citoyens. Plus efficace, car il répond aux exigences de notre société en prévoyant des incriminations adaptées aux formes modernes de délinquance et de criminalité. Plus juste, enfin, car il exprime les valeurs de nostre temps en trouvant son inspiration première dans les droits de l’homme ». (37) Di « svolta veramente rivoluzionaria » parla R. GUERRINI, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Le società, 1993, p. 693.


— 195 — più che il risultato di iniziative isolate o di estemporanee intuizioni, pare essere il frutto della maturazione di idee sedimentate nel corso di diversi decenni. Pur essendo il prodotto di una mentalità giuridica certo non affine alla nostra, che si colloca per così dire a metà strada tra il prammatismo d’impronta anglosassone e il concettualismo (38) tipico della dottrina tedesca (39), questo nuovo Codice offre indubbiamente lo spunto per una rimeditazione di talune rilevantissime tematiche, oggetto di vivaci discussioni anche in Italia: si pensi, ad esempio, alle aspirazioni all’abbandono della centralità della pena detentiva, oppure allo « storico » problema della definizione del dolo eventuale. In questa sede ci si limiterà ad alcuni rapidi cenni sulle disposizioni di parte generale (40) che appaiono più interessanti, prima di addentrarsi nell’analisi della nuova disciplina in tema di responsabilità penale degli enti collettivi. Il nuovo Codice francese è composto da quasi seicentocinquanta articoli, numerati non in modo continuo ma in base ad un metodo certo inusitato per il giurista italiano, tuttavia degno — come si è detto con una punta d’ironia (41) — dei discendenti di Cartesio: le prime tre cifre si riferiscono rispettivamente al libro, al titolo e al capo in cui è collocato l’articolo, mentre le ultime — separate dalle precedenti per mezzo di un trattino — servono a identificare l’ordine progressivo dell’articolo all’interno del capo. Questa tecnica di enumerazione dovrebbe consentire al lettore di orientarsi con una certa facilità (42). Il libro I comprende le disposizioni generali ed è suddiviso in tre titoli, dedicati rispettivamente alla legge penale, alla responsabilità penale ed alle pene. All’interno del titolo I, l’art. 111-1 ribadisce la summa divisio degli illeciti penali in crimini, delitti e contravvenzioni: les infractions pénales son classées, suivant leur gravité, en

(38) Il termine « concettualismo » è qui evidentemente usato in senso generico, come sinonimo di « tendenza all’astrazione concettuale » e non nel suo stretto significato filosofico (in cui esso indica, com’è noto, l’atteggiamento teoretico intermedio tra il realismo e il nominalismo). (39) La differenza di metodo tra la scienza penalistica tedesca e quella francese è scolpita in maniera esemplare nell’introduzione di Emile Garçon alla traduzione in francese del Manuale di von Liszt del 1911: « il y a entre ces deux méthodes toute la distance qui sépare le génie germanique du génie latin. A l’un, l’autre paraît profond mais obscur, ou réciproquement clair mais superficiel, et il y a dans ces deux jugements une double injustice. La vérité est que ces deux mentalités ont beaucoup de peine à se pénétrer et à se comprendre pleinement et completèment » (la citazione è tratta da H.H. JESCHECK, Dogmatica penale e politica criminale nuove in prospettiva comparata, in Indice pen., 1985, p. 510). (40) Per una disamina particolareggiata dei contenuti della parte speciale del nuovo Codice, si rinvia a F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 422 ss. Per quanto concerne la letteratura italiana, cfr. L. SALAZAR, Il nuovo codice penale francese, in Cass. pen., 1992, p. 2272 ss. Va comunque qui rilevata una peculiare novità stilistica che emerge ictu oculi dalla lettura delle norme incriminatrici: la sostituzione della vecchia formula « Quiconque aura... sera puni de... » con quelle « Le fait de... est puni de... » e « telle infraction est le fait de... ». J. H. ROBERT (Avant-propos, cit., p. 2) reputa che questa modifica comporterà un’importante conseguenza sul versante dell’applicazione giudiziale: « i giudici riterranno di avere maggiore libertà che in precedenza nel designare, come autori del reato, persone diverse da quelle che, in modo strettamente materiale, hanno contribuito alla realizzazione dell’infrazione ». (41) L. SALAZAR, op. cit., p. 2271. (42) Secondo qualcuno (J. H. ROBERT, op. e loc. ult. cit.), tuttavia i « giuristi specialisti del diritto privato », fedeli alla procedura orale e all’eloquenza giudiziaria, forse non apprezzeranno molto siffatto metodo di numerazione, « che costringe a sgradevoli balbettii, confonde la memoria e provoca errori ».


— 196 — crimes, délits et contraventions. Tuttavia, nonostante la modifica operata rispetto al testo dell’analoga disposizione di cui all’art. 1 del previgente Codice (43), si deve ritenere che tuttora la distinzione si fondi sulla natura della pena prevista (44) (45). In effetti, è da escludere che con essa il legislatore abbia voluto introdurre un criterio d’ordine sostanziale alla cui stregua il giudice possa procedere — in piena libertà ed eventualmente anche in contrasto con la valutazione già compiuta dallo stesso legislatore — ad una riqualificazione degli illeciti penali. La suddivisione dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni, che corrispondeva appieno alle concezioni criminologiche affermatesi agli inizi del secolo scorso (46) e venne ben

(43) Ai sensi del quale: « L’infraction que les lois punissent de peines de police est une contravention. L’infraction que les lois punissent de peines correctionnelles est un délit. L’infraction que les lois punissent d’une peine afflictive ou infamante est un crime ». (44) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Preséntation, cit., p. 413. Per distinguere i delitti dalle contravvenzioni, anche il Codice penale italiano adotta, com’è noto, un criterio formale, fondato unicamente sulla natura della sanzione prevista (art. 39). Criteri distintivi d’ordine qualitativo-sostanziale sono invece indicati nella circolare 5 febbraio 1985 della Presidenza del Consiglio dei Ministri (in argomento cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale (3a ediz.), Padova, 1992, p. 54; G. FIANDACA/E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, (2a ediz.), Bologna, 1989, p. 126 s.; F. C. PALAZZO, Tecnica legislativa e formulazione della fattispecie penale in una recente circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri, in Cass. pen., 1987, p. 230 ss.; T. PADOVANI, voce Delitti e contravvenzioni, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 329 ss.) e ribaditi nell’art. 54 dello Schema di disegno di legge-delega al Governo per l’emanazione di un nuovo Codice penale, redatto dalla Commissione ministeriale nominata con D.M. 8 febbraio 1988, nel quale, tra l’altro, il numero delle contravvenzioni è stato ridotto rispetto all’attuale e le stesse, anziché essere raggruppate all’interno di un unico libro, sono state distribuite, in base alla loro oggettività giuridica, negli stessi libri che contemplano le fattispecie delittuose. (45) Ad ogni modo, una distinzione di tipo formale basata sulla natura della sanctio juris rinvia necessariamente alle singole incriminazioni di parte speciale, in relazione alle quali è lecito supporre che il legislatore, prima di comminare un certo tipo ed una certa entità di pena, abbia adeguatamente ponderato anche la gravità dell’illecito. Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, 10a ediz., Milano, 1985, p. 163 e, nella letteratura francese, J. PRADEL, Droit pénal général, 9a ediz., Paris, 1994, p. 301. (46) « Lo si è spesso scritto » — ha rilevato J. MOULY (La classification tripartie des infractions dans la législation contemporaine, in Rev. sc. crim., 1982, p. 4) — « il Codice penale era il Codice del crimine e non del criminale. Solo l’illecito era preso in considerazione. La personalità del delinquente era misconosciuta, o piuttosto apprezzata tenendo conto dell’atto commesso. Era il reato che rivelava la personalità criminale ed il grado di asocialità dell’individuo. I crimini, in ragione della loro gravità, non avrebbero lasciato sperare alcuna possibilità di emenda nei loro autori e avrebbero richiesto ‘‘pene esemplari e terrificanti’’; i delitti, per contro, avrebbero presupposto una ‘‘trasgressione di gravità minore, suscettibile di correzione’’; infine, le contravvenzioni, non rivelando alcuna personalità criminale, non avrebbero richiesto che una ‘‘semplice ammonizione’’. La classificazione delle infrazioni imponeva dunque il trattamento penale. Questa penologia astratta non doveva resistere alla prova del tempo. Ci si accorse assai rapidamente che non esisteva un legame necessario tra la gravità dell’illecito e la personalità del delinquente. La commissione di un crimine non implica necessariamente una mentalità criminale incorreggibile; in compenso, la commissione di delitti può benissimo rivelare un delinquente incallito... Non è dunque l’illecito che deve imporre la scelta di una sanzione, ma la personalità stessa del suo autore, che esiste al di fuori dell’atto riprovevole, e di cui esso non potrebbe essere il segno definitivo ».


— 197 — presto adottata da gran parte delle legislazioni penali europee (47), continua ad essere guardata con favore dalla dottrina francese (48). Non sono tuttavia mancate voci autorevoli che ne hanno denunciato l’illogicità e l’artificiosità: sarebbe illogica perché farebbe dipendere dalla gravità della pena la gravità del reato e non viceversa (49); artificiosa in quanto i crimini vengono separati dai delitti sebbene ai fini della configurabilità di tutti i crimini e della maggior parte dei delitti sia richiesto il medesimo elemento soggettivo (c.d. intention criminelle). Artificiosità evidenziata del resto dalla possibilità che, per effetto del concorso di circostanze aggravanti, un delitto si trasformi in crimine (50). L’art. 111-2 disciplina la ripartizione delle competenze tra legge e regolamento in materia penale: l’una determina crimini e delitti e fissa le pene applicabili ai loro autori; l’altro determina le contravvenzioni e fissa, nei limiti e secondo le distinzioni stabilite dalle legge, le pene applicabili ai contravventori. L’art. 111-3 ribadisce il principio costituzionale di legalità — « pietra angolare » del diritto penale francese moderno (51) — già contenuto nell’art. 4 c.p. 1810 ed enunciato per la prima volta nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (artt. 5 e 8): « Nul ne peut être puni pour un crime ou pour un délit dont les éléments ne sont pas définis par la loi, ou pour une contravention dont les éléments ne son pas définis par le réglement. Nul ne peut être puni d’une peine qui n’est pas prévue par la loi, si l’infraction est un crime ou un délit, ou par le règlement, si l’infraction est une contravention ». La norma concerne dunque il primo dei tre sottoprincipi riconducibili all’idea della legalità (nel settore contravvenzionale, sarebbe ovviamente più corretto parlare di « riserva di regolamento » (52)). Le due disposizioni appena indicate si armonizzano perfettamente con il « rivoluziona-

(47) Oltre che da alcuni Codici italiani preunitari — tra cui il Codice penale sardo del 1859 — la classificazione tripartita dei reati fu accolta dal Codice penale belga del 1867, dal Codice penale tedesco del 1871, dal Codice penale del Principato di Monaco del 1874, dai Codici penali ungheresi del 1878 e del 1950, dal Codice penale lussemburghese del 1879, dal Codice penale finlandese del 1889, dal Codice penale danese del 1930, dal Codice penale polacco del 1932 e dal Codice penale greco del 1950. (48) Cfr. J. MOULY, op. cit., p. 6 s. L’Autore sottolinea in particolare come tale classificazione abbia subito nel corso del tempo profonde trasformazioni, perdendo la propria utilità dal punto di vista penitenziario e conservandola in altri settori, in special modo sul terreno del processo penale. Sui riflessi d’ordine sia sostanziale sia processuale legati alla tripartizione cfr. altresì M. DONINI, Il delitto contravvenzionale, Milano, 1993, p. 105. (49) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 125. In realtà, tale critica d’ordine logico — risalente al Rossi — si riduce ad un sofisma giacché, come già detto, la pena è a sua volta determinata in funzione dell’illecito commesso (v., sul punto, J. MOULY, op. cit., p. 5). (50) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. e loc. ult. cit. Gli Autori fanno l’esempio del furto (vol) aggravato dal porto di un’arma, previsto nell’art. 384, comma 2, c.p. 1810. Anche in base al nuovo Codice (art. 311-8), il furto a mano armata costituisce un crimine, non più però punito con la reclusione criminale à perpétuité ma con 20 anni di reclusione criminale e con una pena pecuniaria di un milione di franchi (il furto semplice è invece punito con tre anni di arresto ed una pena pecuniaria di 300.000 franchi). Ma pure questo rilievo non appare convincente. In effetti, il concorso di circostanze quali l’uso di (o la minaccia mediante) un’arma oppure il porto di un’arma sottoposta ad autorizzazione o il cui porto è proibito sono indubbiamente tali da giustificare il passaggio del fatto in altra e più grave categoria di reato. (51) L’espressione è di G. LEVASSEUR, Une révolution en droit pénal: le nouveau régime des contraventions, in Recueil Dalloz, 1959, Chr., p. 122. (52) La locuzione è usata anche da M. DONINI, op. cit., p. 106, nt. 2.


— 198 — rio » regime delle fonti normative in materia penale introdotto dalla Costituzione del 4 ottobre 1958: in forza del combinato disposto degli artt. 34 e 37 cost., infatti, spetta all’Esecutivo disciplinare il settore delle contravvenzioni tramite l’emanazione di règlements d’administration publique (53). In quanto riferito non al fatto genericamente ma ai singoli elementi che lo compongono, il nullum crimen sine lege sembra peraltro assumere nell’ordinamento francese una più pregnante significatività. Tali elementi dovranno essere definiti dalla legge o — per le contravvenzioni — dal regolamento: può ciò significare che, in materia di crimini e di delitti, al potere regolamentare non spetta nemmeno quella puntualizzazione in termini tecnici di elementi della fattispecie, che invece in Italia, al momento attuale, si tende pressoché unanimemente ad ammettere (54)? L’art. 111-4 sancisce per la prima volta il principio di stretta interpretazione della legge penale, espresso solitamente attraverso il brocardo poenalia sunt restringenda e considerato una diretta derivazione del principio di legalità (55). La formula all’uopo impiegata dal legislatore (la loi pénale est d’interprétation stricte) ha tuttavia sollevato qualche dubbio per la sua estrema concisione: non tutte le leggi penali — si è rilevato — sono di « stretta interpretazione » e sarebbe stato opportuno delimitare il campo di applicazione del principio posto; non sarebbe stato inutile, d’altra parte, dare alcune indicazioni sui caratteri che un procedimento deve possedere perché possa definirsi « di stretta interpretazione » (56). Un’altra interessante novità è poi prevista nell’art. 111-5, il quale definisce lo spazio di manovra attribuito al giudice penale in materia d’interpretazione e di controllo della legalità degli atti amministrativi (57). Gli articoli da 112-1 a 113-11 riguardano l’applicazione della legge penale nel tempo e nello spazio. Il titolo II (De la responsabilité pénale), composto da quindici articoli, è suddiviso in due capi: il primo è dedicato alle disposizioni generali, il secondo alle cause d’irresponsabilità o di attenuazione della responsabilità. Il capo I si apre con una disposizione (art. 121-1) che consacra il principio di personalità della responsabilità penale: « nul n’est responsable pénalement que de son propre fait ». Tale principio fu introdotto soltanto all’epoca della presentazione al Senato del Projet Badin-

(53) L’art. 34 cost. sancisce che « la legge fissa le regole concernenti... la determinazione dei crimini e dei delitti, le pene ad essi applicabili, la procedura penale, l’amnistia, la creazione di nuovi ordini di giurisdizioni e lo statuto dei magistrati »; l’art. 37 dispone che « le materie non riservate alla legge hanno carattere regolamentare ». Nel senso che, in Francia, il principio di legalità non esiste più realmente che per i crimini e i delitti mentre per le contravvenzioni esso consiste « nell’esigenza non più di una legge formale ma semplicemente di un regolamento d’amministrazione pubblica », cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 161. Come si è appena visto, però, ai sensi dell’art. 111-2 del nuovo Codice, spetta al legislatore non solo — come in passato — il compito di fissare il limite massimo delle pene contravvenzionali, ma anche quello di stabilire distinzioni all’interno di questa categoria di sanzioni. Sull’argomento cfr., nella dottrina italiana, F. BRICOLA, Limiti di operatività della regola ‘nullum crimen nulla poena sine lege’ nel diritto penale francese, in Indice pen., 1967, p. 22 ss.; nonché M. DONINI, op. cit., p. 105. (54) V., per tutti, G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 59 s. (55) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 193. (56) Così G. ROUJOU DE BOUBÉE, Le projet de la loi portant réforme des dispositions générales du Code pénal: essai d’une analyse, in Recueil Dalloz, 1989, Chr., p. 202. (57) Il giudice penale potrà interpretare gli atti amministrativi e valutarne la legalità a condizione che da tale esame dipenda la soluzione del processo penale.


— 199 — ter (febbraio 1986); nondimeno, nei Progetti preliminari del 1976, del 1978 e del 1983, esso veniva ricavato per via d’interpretazione dalle disposizioni che, definendo la nozione di autore del reato, vi facevano rientrare anche colui che, per omissione volontaria o per negligenza, lasciasse violare, da persone sottoposte alla propria autorità, prescrizioni legali o regolamentari penalmente sanzionate: l’esplicita previsione di queste ipotesi eccezionali (considerate forme particolari di responsabilità penale per fatto altrui) avrebbe significato che per i compilatori di quei Progetti la responsabilità per fatto proprio rappresentava la regola e quella per fatto altrui l’eccezione (58). Si trattava in definitiva della creazione, a livello di definizione generale, di una Garantenstellung avente ad oggetto l’impedimento di fatti illeciti da parte dei sottoposti e adeguatamente supportata da un coefficiente di colpevolezza (59). L’art. 121-3 detta i principi fondamentali in tema di elemento psicologico del reato, svolgendo in pratica una funzione analoga a quella che nel sistema penale italiano spetta all’art. 42, commi 2 e 4, c.p. Ai sensi del comma 1, « non vi è crimine o delitto senza intenzione di commetterlo »: nel settore dei crimini ed in quello dei delitti, l’intention criminelle rappresenta dunque, al pari del dolo nel nostro ordinamento penale, il « criterio ordinario d’imputazione soggettiva » (60). Il concetto di intention criminelle è usato in dottrina come sinonimo della locuzione dol ciminel (61) ed è definito — sulla scorta dell’insegnamento di E. Garçon e di altri criminalisti classici — come « la volontà di compiere un atto che si sa vietato dalla legge penale o di astenersi da un atto che si sa prescritto dalla legge » (62). Una simile definizione — incentrata, diversamente da quella che figura nel nostro Codice, più sulla condotta che sull’evento — parebbe dunque far rientrare anche l’illiceità penale nell’oggetto del dolo. Ciò, del resto, potrebbe forse essere agevolato dal fatto che, in sede di analisi del reato, una parte della dottrina francese adotta un modello tripartito, in cui figura, oltre all’elemento materiale ed a quello morale, anche l’elemento legale, inteso come la legge violata che prevede l’illecito, in

(58) Sul punto cfr. J.Y. LASSALLE, Réflexion à propos de l’article 121-1 du futur Code pénal consacrant le principe de la personnalité de la responsabilité pénale, in J. C. P., 1993, I, 3695, p. 339 ss. (59) Va notato, d’altra parte, come proprio la moltiplicazione artificiosa delle posizioni di garanzia da parte del legislatore potrebbe rappresentare in futuro un modo più raffinato per introdurre forme camuffate di responsabilità penale per fatto altrui. (60) Così, con riferimento al dolo, G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 261. (61) R. MERLE e A. VITU (op. cit., p. 701 ss.), per designare tale « elemento psicologico comune alla maggior parte delle infrazioni » — è questa l’intitolazione del capitolo I, titolo II, libro II, 2a parte, del loro Trattato — preferiscono parlare di dol général, in contrapposizione al dol spécial, vale a dire alla particolare intenzione richiesta ai fini della sussistenza di taluni reati. Come rileva L. PICOTTI (Il dolo specifico, Milano, 1993, p. 433 ss.), la distinzione tra dol général e dol spécial costituisce la « prima » partizione generale del dolo. Essa non corrisponde però alla nostra distinzione tra dolo generico e dolo specifico: il dol spécial si caratterizza piuttosto per essere sottratto a quella presunzione relativa di esistenza che opera invece nei confronti del dol général. Sulle due specie di dolo v. pure J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 486 ss. (62) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 266. I giuristi della Scuola classica ritenevano che ai fini della sussistenza del dolo fosse indispensabile anche la coscienza d’infrangere la legge penale (v., sul punto, R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 706). Per Francesco Carrara il dolo era « la intenzione più o meno perfetta di fare un atto che si conosce contrario alla legge ».


— 200 — difetto della quale non potrebbe sorgere una responsabilità penale (63) (in realtà tale elemento altro non è che il « precitato dogmatico », sul piano dell’analisi del reato, del principio di legalità: più opportunamente la manualistica italiana ne tratta, per consolidata tradizione, nella parte dedicata alla legge penale (64)). Che l’illecità penale non rientri nell’oggetto del dolo risultava tuttavia evidente alla luce del principio ignorantia legis non excusat, accolto nel Codice del 1810 (65). E tale conclusione resta ferma nonostante le modifiche apportate dal nuovo Codice alla disciplina concernente l’errore sul divieto (66). Non avendo il legislatore provveduto a definire il concetto di intention (67), ci si è posti il problema se esso ricomprenda anche il dolo eventuale. A tale domanda si tende a dare una risposta negativa: « in diritto francese » — si è detto — « bisognerà continuare a decidere con la giurisprudenza classica che l’agente cui si può rimproverare un dolo eventuale non ha commesso che un’infrazione involontaria, salvo a far operare il potere d’individualizzazione del giudice nel senso di una maggiore severità; questa concezione conduce a trattare il reato come un delitto poiché le due nozioni di crimine e di dolo eventuale sono inconciliabili » (68). Il comma 2 dell’art. 121-3, disponendo che « lorsque la loi le prévoit, il y a délit en cas d’imprudence, de négligence ou de mis en danger délibérée de la personne d’autrui », riecheggia nei suoi contenuti il principio generale enunciato nell’art. 42, comma 2 ult. parte,

(63) Cfr. R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 474. L’espressione, che fu usata per la prima volta da A. LAINÉ (Traité élémentaire de droit criminel, Paris, 1881, p. 98), da qualcuno è oggi considerata fuori luogo, in quanto pone sullo stesso piano l’élement légal, che descrive, con gli altri due elementi, che invece sono descritti (così J.H. ROBERT, Droit pénal général, cit., p. 112). (64) Cfr., per tutti, il già citato Manuale di diritto penale di Francesco Antolisei (p. 53 ss.). (65) Vigente il Codice napoleonico, in dottrina si riconosceva esplicitamente che la nozione « classica » di dolo generale non si conciliava con la realtà del diritto positivo. Tuttavia, per salvare la costruzione si affermava che « la coscienza dell’illegalità dei fatti è certamente richiesta in linea di principio, essa è dunque inclusa nella definizione del dolo generale. Ma è sempre presunta in maniera irrefragabile » (R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 706). Si trattava evidentemente di un mero escamotage terminologico — del tutto simile, del resto a quello già utilizzato in Italia per conciliare il rigore del principio sancito nell’art. 5 c.p. (ovviamente, prima dell’intervento della Corte costituzionale) con la concezione imperativistica della norma penale — che aggira, ma non elimina, l’ostacolo. (66) Come tra breve si vedrà, il Codice del 1992 ammette la rilevanza dell’errore di diritto invincibile. (67) Il legislatore francese, del resto, diversamente da quello italiano, è sempre stato per tradizione poco propenso a fornire definizioni di carattere generale. (68) Così J. PRADEL, Le projet de loi, cit., p. 33. In Francia, in effetti, dottrina e giurisprudenza, sulla scorta di un’antica pronuncia della Cassazione (Crim., 27 marzo 1902, Bull. crim., n. 128), tendono prevalentemente a ricondurre nell’ambito della colpa la figura del dolo eventuale. Vengono tuttavia citate (cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 277) due disposizioni incriminatrici del vecchio codice in cui il legislatore avrebbe all’opposto applicato il principio dell’assimilazione del dolo eventuale al dolo diretto: la prima (art. 312, ult. comma) puniva con la reclusione criminale a vita le lesioni personali, le percosse e la privazione di alimenti, abitualmente inflitte a fanciulli minori di 15 anni, seguite dalla morte della vittima, anche se questa non fosse stata provocata intenzionalmente; la seconda (art. 437) puniva con la stessa pena colui che appicca volontariamente un incendio da cui fossero accidentalmente derivate la morte o le lesioni di una o più persone. Nel senso che anche nel nuovo codice penale ‘‘il dolo eventuale resta legato alla colpa di cui costituisce il grado più elevato’’, v. J. PRADEL, Il nuovo codice, cit., p. 11.


— 201 — c.p. italiano rispetto al delitto colposo ed a quello preterintenzionale (69). I termini imprudence e négligence richiamano in effetti la figura della faute inconsciente (colpa incosciente); la locuzione mise en danger déliberée de la personne d’autrui è stata invece introdotta con il nuovo Codice e si riferisce ad una condizione psicologica intermedia tra la faute intentionnelle e la faute d’imprudence (70), che presenta notevoli affinità, più che con la figura della colpa cosciente (71), con quella del dolo eventuale (72). Il comma 3 dell’art. 121-3, infine, limitandosi a sancire che il n’y a pas de contravention en cas de force majeure, conferma la natura di infrazioni « puramente materiali » delle contravvenzioni. In effetti, in questo settore la faute viene tradizionalmente identificata con la mera violazione del precetto (73) (sempre che, ovviamente, non si tratti di fattispecie che richieda il dolo ovvero una colpa per negligenza o imprudenza (74)); ciò implica, sul piano probatorio, che ai fini dell’affermazione della responsabilità penale è sufficiente l’accertamento del fatto materiale, mentre il pubblico ministero è dispensato dall’onere di provare una faute intentionelle o non intentionelle (75); solo la prova di una forza maggiore — in-

(69) V’è comunque una rilevante differenza, opportunamente posta in luce (da M. DONINI, op. cit., p. 111 s.), tra le due disposizioni: diversamente dall’art. 42, comma 2, c.p. italiano, l’art. 121-3 c.p. francese non contempla l’esigenza di una previsione espressa della colpa o della deliberata messa in pericolo dell’altrui persona, la quale potrà, dunque, anche essere implicita. Lo stesso DONINI (op. cit., p. 132 s.), a tal riguardo, rileva come, in Francia, proprio la mancanza di una norma simile all’art. 42, comma 2, abbia reso tecnicamente agevole, se non proprio possibile, l’« invenzione » dei delitti c.d. materiali o contravvenzionali categoria di creazione giurisprudenziale, di cui tra poco si dirà. (70) Cfr. F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 414. Nella parte speciale, il legislatore ha previsto tale elemento psicologico in tre fattispecie: morte o incapacità totale al lavoro per più di tre mesi oppure per una durata inferiore o uguale a tre mesi, cagionate mediante violazione deliberata di un obbligo di sicurezza o di prudenza imposto dalla legge o dai regolamenti (delineate, rispettivamente, dagli artt. 221-6, comma 2, 222-19, comma 2, e 222-20 c.p.). Si noti che nell’art. 2 del Progetto del 1983 era prevista, anziché la messa in pericolo deliberata, la coscienza di porre altri in pericolo. (71) Come noto, dalla dottrina italiana le locuzioni « colpa cosciente » e « colpa con previsione » sono usate come sinonimi (cfr., per tutti, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1987, sub art. 43, p. 371; G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 414; F. MANTOVANI, op. cit., p. 341). Per un impiego diversificato di esse cfr. però S. PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993, p. 40 s. (72) Ci sembra che ciò si possa arguire alquanto agevolmente dall’aggettivo (délibérée) utilizzato dal legislatore per qualificare la messa in pericolo. Nel senso, invece, che la locuzione evoca la figura — di derivazione dottrinale — della faute consciente, cfr. J. PRADEL, (Le projet de loi, cit., p. 34), il quale tuttavia, in uno scritto più recente (Il nuovo codice, cit., p. 10 s.), tende a considerare come tertium genus tra dolo e colpa (‘‘terza modalità psicologica’’) la deliberata messa in pericolo dell’altrui persona. Si noti come il legislatore francese abbia — a nostro avviso opportunamente — limitato l’operatività di questo criterio d’imputazione soggettiva alle sole ipotesi di messa in pericolo dell’altrui persona (in pratica, come si è visto, all’interno del nuovo Codice penale, dei soli beni della vita e dell’integrità fisica). (73) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 282. (74) In dottrina (M. DONINI, op. cit., p. 109 s.) si è di recente segnalata la natura composita e residuale degli illeciti contravvenzionali, stante la quale l’elemento soggettivo di imputazione di essi « non riesce a mantenersi davvero unitario come potrebbe apparire da certe decisioni di legittimità che parlano della contravvenzione in genere come di un’infrazione materiale ». (75) R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 717; G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit.,


— 202 — tesa come forza alla quale non si poteva resistere (76) — potrà portare ad escludere la responsabilità (77). Un simile eclissamento dei connotati della colpevolezza all’interno del reato contravvenzionale viene di regola giustificato, oltre che alla luce del carattere essenzialmente preventivo attribuito a questa categoria di illeciti ed alle pene per essi previste (78), in considerazione della minore severità di queste ultime (79). Di fronte alla regola sancita nell’art. 121-3, comma 2, ci si è interrogati sulla sorte dei delitti c.d. contravvenzioni, di quei delitti, cioè, considerati nella prassi giurisprudenziale alla stregua di mere infrazioni materiali ed equiparati, sul piano dell’imputazione soggettiva, alle contravvezioni (80). La dottrina, sul punto, appare divisa: a qualcuno tale regola suona come condanna inequivocabile dell’intera categoria (81), la cui esistenza, secondo altri, non

p. 283. Tale impostazione riecheggia in buona sostanza l’orientamento affermatosi nella dottrina italiana alcuni decenni addietro, secondo il quale l’elemento soggettivo nelle contravvenzioni si esaurirebbe nella mera coscienza e volontà della condotta e non richiederebbe l’effettiva sussistenza del dolo o della colpa (Cfr., sul punto, G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 304 s.). (76) La forza maggiore è inquadrabile all’interno del più ampio concetto di « costrizione » (contrainte), considerata — al pari della démence e dell’errore — una « causa soggettiva di irresponsabilità », già prevista dall’art. 64 del vecchio Codice, ai sensi del quale « il n’y a ni crime ni délit lorsque le prévenu... a été contraint par une force à laquelle il n’a pu résister ». Si suole distinguere (cfr. R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 752 ss.), a tal riguardo, tra una contrainte physique ed una contrainte morale. La prima a sua volta può essere externe (e in tal caso consiste in una forza naturale, animale o umana che agisce sul corpo di una persona) oppure interne (in sostanza, una malattia, la quale opera come causa di esclusione della responsabilità ove sia tale da sopprimere la libertà di agire). Anche la seconda può essere externe (in tal caso consiste in una pressione d’origine esterna esercitata attraverso minaccia, suggestione o provocazione) ovvero interne a quest’ultima sono ricondotti gli stati emotivi o passionali, ai quali, tuttavia, non è riconosciuta alcuna rilevanza in ambito penale). L’operatività della contrainte è subordinata a due requisiti: l’irresistibilità e l’imprevedibilità. Come si vede, nel diritto penale francese, la contrainte è un concetto amplissimo di genere al quale sono riportati fenomeno tra loro molto diversi. Un primo importante passo verso una necessaria differenziazione — già sul piano terminologico — delle varie figure è stato compiuto con l’art. 122-2 c.p. 1992, che distingue la force dalla contrainte. (77) Salva, in ogni caso, la rilevanza, anche rispetto agli illeciti contravvenzionali, del vizio di mente e della minore età. (78) « A proposito delle contravvenzioni » — scrive il Donini (op. cit., p. 108) — « la letteratura francese sottolinea che la funzione essenzialmente preventiva della loro previsione, in vista di uno scopo di polizia (‘‘un but de police’’), fa sì che per lo più irrilevante sia la considerazione del ‘‘risultato’’ della condotta tipica, e che pertanto lo stesso atteggiamento soggettivo dell’agente (od omittente) rispetto ad un possibile risultato o evento, appaia eccentrico all’identità giuridica del fatto ». (79) J. PRADEL, Le projet de loi, cit., p. 34. Come in seguito si vedrà, il nuovo Codice penale (artt. da 131-12 a 131-17) non contempla più sanzioni di tipo detentivo per gli illeciti contravvenzionali. (80) Tale figura è stata elaborata con riferimento ai delitti previsti in taluni particolari settori, ad esempio in materia urbanistica, societaria, d’inquinamento e di pubblicità menzognera. Per un’approfondita analisi dei tratti caratteristici del delitto contravvenzionale in Francia, cfr. M. DONINI (op. cit., p. 110 ss.) cui si rinvia anche (p. 116) per una segnalazione delle ragioni di carattere politico e dogmatico — individuate dalla dottrina francese — su cui si fonda l’edificazione della categoria. (81) J. PRADEL, op. e loc. ult. cit; ID., Droit pénal général, cit., p. 503.


— 203 — sarebbe invece da mettere in discussione « nella misura in cui non è interdetto a testi speciali di derogare ad un testo generale » (82). Per i delitti non intenzionali previsti da leggi anteriori al nuovo Codice, la questione è stata risolta, invero soltanto in apparenza, dall’art. 339 della già citata l. n. 92-1336 del 16 dicembre 1992, a norma del quale, ai fini dell’integrazione di tali delitti, è richiesta la sussistenza (e dunque la prova) di una negligenza, di un’imprudenza o di una messa in pericolo deliberata dell’altrui persona. E diciamo « soltanto in apparenza » giacché l’introduzione di un principio generale di questo tenore non potrà comunque avere la virtù taumaturgica di creare ex nihilo una colpa rispetto a quelle fattispecie che risultano ad essa strutturalmente refrattarie (83). In materia di tentativo, l’art. 121-5, nel profilarne i contorni, non si discosta dal contenuto dell’art. 2 del Codice napoleonico (la tentative est constituée dès lors que, manifestée par un commencement d’exécution, elle n’a été suspendue ou n’a manqué son effet qu’en raison de circonstances indépendantes de la volonté de son auteur). Anche la relativa disciplina, nonostante talune interessanti modifiche di carattere terminologico, è rimasta sostanzialmente invariata: equiparazione al reato consumato (84); punibilità incondizionata rispetto ai crimini, subordinata a un’espressa previsione legislativa in relazione ai delitti. La disposizione successiva sancisce la piena equiparazione, sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, del complice all’autore del reato (« sarà punito come autore il complice... ») (85). La modifica terminologica rispetto al testo dell’art. 59 c.p. 1810, intervenuta a seguito di un emendamento votato in Senato, si ritenne necessaria per effetto dell’introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche: persone fisiche e persone giuridiche — si rilevò — possono concorrere, come autori o complici, nello stesso reato ma sono passibili di pene di natura diversa ed allora non avrebbe avuto senso prevedere che le complice sera puni des mêmes peines que l’auteur de l’infraction (86). Il complice sarà dunque ora passibile delle pene che gli sarebbero state inflitte se fosse stato egli stesso autore del

(82) Così F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC (Présentation, cit., p. 414), i quali, d’altro canto, non mancano di rilevare come alcuni delitti materiali attualmente disseminati in leggi complementari siano stati inseriti nel nuovo Codice penale: dal che si evincerebbe la volontà legislativa di mantenere intatta la loro natura delittuosa, anche se, in applicazione del principio posto dall’art. 121-3, essi si sarebbero dovuti trasformare in contravvenzioni. (83) Si leggano, sul punto, le osservazioni di M. DONINI (op. cit., p. 112), a giudizio del quale « questo gesto di imperio giuspositivistico, pur contribuendo in maniera decisiva all’abbandono culturale della teorica dei delitti materiali, non può avere la forza di modificare la struttura della tipicità soggettiva indifferenziata di delitti costruiti ab origine come contravvenzioni ». Anche nella dottrina francese, d’altra parte, si è posto l’interrogativo se l’abbandono della figura del delitto contravvenzionale appaia realmente concepibile in assenza di modifiche delle incriminazioni che l’hanno occasionata. (84) In realtà, il nuovo Codice non assimila più il tentativo al reato consumato (così come facevano, in rapporto rispettivamente ai crimini e ai delitti, gli artt. 2 e 3 c.p. 1810) ma dichiara autore dell’infrazione non solo colui che realizza un fatto di reato ma anche chi tenta di commettere un crimine oppure, nei casi previsti dalla legge, un delitto (art. 121-4). (85) In materia di concorso di persone nel reato, com’è noto, il sistema penale francese — diversamente dal nostro sistema e similmente a quello tedesco-federale — adotta un modello differenziato di disciplina. Per un’approfondita analisi della nozione di autore e delle condotte di complicità morale e di complicità materiale in tale ordinamento si rinvia a S. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987, p. 86 ss. (86) La medesima formula impiegata nell’art. 59 del vecchio c.p. era stata ripresa nell’art. 121-7 del Progetto governativo del 1986.


— 204 — reato (87). Com’è stato notato (88), tale disciplina conduce di regola ai medesimi risultati derivanti dall’applicazione del principio c.d. dell’emprunt de penalité, salvo che quando ricorrano circostanze aggravanti « miste » (89), le quali, qualora si riferiscano alla persona dell’autore, non potranno più determinare un mutamento del titolo del reato anche nei confronti del complice, mentre opereranno soltanto nei confronti di quest’ultimo ove a lui si riferiscano. La definizione di complicità delineata nell’art. 121-7 non differisce sostanzialmente da quella di cui all’art. 60 del Codice previgente (90); in essa, tuttavia, è venuta meno l’esplicita indicazione della complicità mediante fornitura del mezzo, considerata come forma di complicità attraverso aiuto o assistenza (91). La punibilità del complice continua dunque ad essere subordinata all’esistenza di un fatto principale punibile in astratto (92) e la stessa regola vale anche per l’istigatore, dato che il nuovo Codice non distingue più l’una figura dall’altra, come invece faceva il Progetto presentato dal Governo nel 1986, il quale (art. 121-6, comma 2) prevedeva espressamente l’applicabilità all’istigatore delle stesse pene previste per l’autore del reato, definendo come instigateur anche la persona che mediante dono, promessa, frode, minaccia, ordine, abuso di autorità o di potere, direttamente induce altri a commettere un crimine anche quando, a causa di circostanze indipendenti dalla volontà dell’istigatore, tale induzione resta priva di effetto (art. 121-6, comma 1) (93). Il capo II del titolo II del libro I è dedicato alle cause di esclusione o di attenuazione della responsabilità penale. Sono pertanto trattate unitariamente le cause oggettive e quelle soggettive di « non responsabilità »: e ciò non è parso troppo razionale (94). All’interno di questo capo, va segnalato innanzi tutto l’art. 122-1, il quale ridefinisce la nozione di infermità mentale confermando un orientamento ormai consolidato nella prassi giurisprudenziale e tenendo conto delle più moderne acquisizioni della scienza medica in materia (95). Il comma 2 dello stesso articolo (corrispondente all’art. 89 c.p. italiano) ri-

(87) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. e loc. ult. cit. (88) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. ult. cit., p. 414 s. (89) Sono circostanze aggravanti miste quelle riferite alla persona dell’autore e dalle quali consegue un mutamento del titolo del reato. Tale è, ad esempio, la premeditazione, che trasforma il meurtre in assassinat. Cfr., sul punto, G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 325 s. (90) Art. 121-7: « È complice di un crimine o di un delitto la persona che scientemente, mediante aiuto o assistenza, ne ha facilitato la preparazione o la consumazione. - È egualmente complice la persona che con dono, promessa, minaccia, ordine, abuso d’autorità o di potere abbia indotto a commettere un reato oppure abbia dato istruzioni per commetterlo ». (91) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. e loc. ult. cit. (92) Cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 309 ss.; e J.H. ROBERT, op. cit., p. 372 s. L’ordinamento francese si ispira quindi alla teoria c.d. dell’accessorietà limitata (nella letteratura italiana, sul punto cfr., per tutti, G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 361; M. ROMANO/G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, II, Milano, 1990, sub Pre-Art. 110, p. 124 ss.; S. SEMINARA, op. cit., p. 179 ss. (93) Come si evince dal testo della disposizione, il principio della punibilità dell’istigazione rimasta priva di effetto operava soltanto in relazione ai crimini. (94) Vedasi, in tal senso, J. PRADEL, Le projet de loi, cit., p. 35. (95) La disposizione in parola considera irresponsabile la persona « che era affetta, al momento del fatto, da turbe psichiche o neuropsichiche che avevano eliminato la sua capacità di discernimento o di controllo dei suoi atti ».


— 205 — guarda invece le persone affette da turbe mentali che hanno soltanto alterato la loro capacità di discernimento oppure reso più difficile il controllo dei loro atti (ipotesi non considerata dal Codice precedente): tali soggetti sono penalmente responsabili ma il giudice è obbligato a tener conto delle loro particolari condizioni in sede di concreta determinazione della pena (96). Altra novità di grande rilievo è rappresentata dall’introduzione, tra le cause di esclusione della responsabilità, dell’errore di diritto invincibile (97). Ai sensi dell’art. 122-3, non è penalmente responsabile la persona che dimostra di aver creduto, per un errore che non era in grado di evitare, di poter legittimamente compiere l’atto. Secondo qualcuno, nel prevedere questa norma, il legislatore avrebbe pensato in special modo a due situazioni: quella dell’informazione erronea fornita da un’autorità amministrativa preventivamente consultata e quella della mancata pubblicazione del testo normativo (98). Benché la dottrina francese non sembri avere una chiara consapevolezza della collocazione dogmatica dell’errore di diritto (99), la disciplina tratteggiata nel nuovo Codice riecheggia indubbiamente la c.d. teoria della colpevolezza (Schuldtheorie), consacrata, dopo la riforma del 1975, nel § 17 StGB tedesco-federale e fatta propria della Corte costituzionale italiana nella motivazione dell’ormai storica sentenza n. 364 del 1988 (100). Per quanto concerne le contravvenzioni, è evidente che, stante la regola generale enunciata nell’art. 121-3, comma 3, l’errore di diritto potrà assumere rilevanza soltanto a condizione che sia causato da una forza maggiore (101). Vanno poi menzionati gli artt. 122-5 e 122-7, concernenti rispettivamente la legittima difesa e lo stato di necessità. Il primo, in tema di legittima difesa delle persone, fissa tra l’altro il requisito della proporzione tra azione difensiva ed aggressione (comma 1) ed introduce (comma 2) la figura — di derivazione giurisprudenziale — della legittima difesa dei beni, limitandone tuttavia l’operatività attraverso il richiamo alla « stretta necessità allo scopo difensivo perseguito » ed escludendone espressamente l’efficacia scriminante nei confronti dell’omicidio volontario (102).

(96) Cfr., sul punto, F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 416. (97) Questa causa « di non punibilità », prevista nei Progetti preliminari del 1978 (art. 42) e del 1983 (art. 33) ma non riprodotta nel Projet Badinter del 1986, è stata inserita in virtù di un emendamento approvato in Senato. Il legislatore ha in tal modo accolto una soluzione prospettata in dottrina già da alcuni decenni (Cfr. A. LÉGAL, L’évolution de la jurisprudence française en matière d’erreur de droit, in Rev. pén. suisse, 1961, p. 310 ss.; J. CHEVALLIER, L’erreur invincible en matière pénale, in Rev. sc. crim., 1968, p. 547 ss.). Sull’errore di diritto invincibile e sui problemi interpretativi cui potrebbe dar luogo la sua applicazione cfr., da ultimo, J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 540 s. (98) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. e loc. ult. cit. (99) Nei manuali più accreditati, esso o viene ricondotto, con la démence e con la contrainte, alla categoria, alquanto vaga, delle cause soggettive di non-responsabilità — o cause di non imputabilità — (G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 404 ss.). Oppure viene trattato nella parte dedicata al dolo (R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 700 ss.; J.H. ROBERT, Droit pénal général, cit., p. 344 ss.): ciò farebbe supporre che è considerato come causa di esclusione di questo. (100) Sulla teoria della colpevolezza e sulla contrapposta teoria del dolo (Vorsatztheorie) cfr., da ultima, la lucida esposizione di M. DONINI, op. cit., p. 23 ss. (101) M. DONINI, op. cit., p. 107 s. (102) L’art. 122-6 fissa poi una presunzione juris tantum di legittima difesa in favore di colui che ha commesso il fatto: 1) per respingere, in tempo di notte, l’ingresso, mediante


— 206 — Il secondo rappresenta una novità per il diritto francese. Il Codice napoleonico non conteneva infatti alcuna disposizione di carattere generale sullo stato di necessità: figura tuttavia costantemente ammessa, da tempo immemorabile, in dottrina (103) ed in giurisprudenza (104). La rilevanza di questa causa di giustificazione viene ora subordinata alla contemporanea presenza di tre condizioni: l’esistenza di un pericolo attuale o imminente per la propria o per l’altrui persona o per un bene; la necessità del fatto per la salvaguardia della persona o del bene; la proporzione tra i mezzi impiegati e la gravità della minaccia. I limiti di operatività della scriminante sono chiaramente meno ristretti di quelli tracciati nell’art. 54 c.p. italiano. Innanzi tutto, il pericolo potrà essere non solo attuale ma anche imminente: ciò consentirà probabilmente l’estensione di essa anche a quelle situazioni nelle quali l’aspettare che il pericolo si attualizzi renderebbe poi impossibile l’impedimento del danno (ipotesi in Italia ricondotte da qualcuno allo schema del c.d. stato di necessità anticipato (105)). In secondo luogo, il fatto potrà esser realizzato anche per la tutela di un bene. Non è poi richiesta espressamente l’involontarietà della causazione del pericolo ma, onde evitare applicazioni contrarie al senso di giustizia, quest’ultimo presupposto dovrebbe comunque operare come limite implicito. Appare, d’altro canto, scarsamente plausibile il requisito della proporzione tra i mezzi impiegati e la gravità della minaccia, poiché, com’è noto, rileva non tanto il mezzo in sé e per sé quanto piuttosto il modo in cui esso viene concretamente utilizzato (106). Il titolo III riguarda le pene ed è suddiviso in tre capi, dedicati rispettivamente alla natura, al regime e all’estinzione di esse ed alla cancellazione delle condanne. Il capo I, composto di due sezioni, indica prima le pene applicabili alle persone fisiche e poi quelle applicabili alle persone giuridiche. Sul versante delle sanzioni, il nuovo Codice si segnala per un’interessante novità: l’omessa previsione di limiti minimi, che evidenzia la volontà di attribuire al giudice un ampio

effrazione, violenza o inganno, in un luogo abitato; 2) per difendersi contro gli autori di furti o saccheggi, eseguiti con violenza. La figura della legittima difesa, prima prevista, come si è detto, — al pari dell’ordre de la loi — all’interno della parte speciale (nell’ambito della disciplina concernente l’omicidio, le lesioni personali e le percosse: artt. 327-329 vecchio c.p.), è stata dunque opportunamente ricondotta all’interno della parte generale del Codice. Per un’approfondita analisi di questa causa di giustificazione si rinvia a J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 365 ss. Sulla legittima difesa del patrimonio v. pure J. PRADEL, Il nuovo codice, cit., p. 21 s. (103) G. STEFANI, G. LEVASSEUR e B. BOULOC (op. cit., p. 392), ad esempio, consideravano lo stato di necessità, al pari del consenso della persona offesa, come ipotesi di giustificazione « par la permission implicite de la loi », in contrapposizione alla legittima difesa, causa di giustificazione « par la permission expresse de la loi » (p. 378). (104) G. STEFANI, G. LEVASSEUR e B. BOULOC (op. cit., p. 394 s.) citano il noto affaire Ménard: una madre che, in stato di completa indigenza, dopo due giorni di digiuno, aveva rubato del pane dalla bottega di un panettiere fu assolta dalla Corte di Amiens, che tuttavia motivò la sua decisione con la mancanza, nell’imputata, dell’elemento soggettivo (intention délictueuse). Sullo stato di necessità nel sistema penale francese (anche alla luce della nuova disciplina), cfr. J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 377 ss. (105) F. MANTOVANI, op. cit., p. 112. L’Autore riconduce a tale figura il caso di chi esegue un ordine del superiore « socialmente criminoso ma legittimo per il diritto interno, per non sottostare alle gravi sanzioni della disubbidienza » e quello dell’occupazione di case sfitte da parte dei senza tetto. (106) Cfr., per tutti, F. MANTOVANI, op. cit., p. 272 (con riferimento alla legittima difesa).


— 207 — potere discrezionale nella fase della concreta determinazione della pena. Conseguentemente, è stato eliminato il complesso sistema delle circostanze attenuanti, oramai divenute superflue (107). È stata invece mantenuta la tradizionale distinzione tra pene criminali, correzionali e contravvenzionali. Per quanto concerne le prime, l’art. 131-1, comma 1, prevede quattro diversi gradi di reclusione criminale (à perpétuité, di trent’anni o più elevata, di vent’anni o più elevata, di quindici anni o più elevata). La novità più significativa in questo settore è rappresentata senza dubbio dalla creazione di una pena di trent’anni di reclusione criminale. Con ciò il legislatore ha inteso ripristinare una certa « gradualità » nel trattamento sanzionatorio di condotte criminose che, pur essendo diversamente connotate in termini di disvalore, a seguito dell’abolizione della pena di morte finivano col soggiacere alla medesima pena (108). La sanzione meno elevata comminabile in materia criminale è stata invece innalzata a quindici anni (109). Anche nel nuovo Codice, peraltro, è stata conservata la distinzione tra reclusione criminale e detenzione criminale: la prima prevista per i crimini comuni, la seconda per i crimini politici (collocati all’interno del libro IV c.p., concernente, come si è visto, i crimini e i delitti contro la Nazione, lo Stato e la pace pubblica (110)). Sono state invece soppresse le pene infamanti, cioè il bando e la perdita dei diritti civili (previste e disciplinate negli artt. 8, 28 e da 32 a 35 c.p. 1810) nonché la pena accessoria dell’interdizione legale (art. 29 c.p. 1810).

(107) Va ricordato, a tal proposito, che gli artt. 322 e 323 della c.d. loi d’adaptation provvedono a sopprimere, nel quadro complessivo della legislazione penale francese, tutte le indicazioni dei minimi di pena ed i riferimenti alle disposizioni di cui all’art. 463 del Codice previgente, concernenti le circostanze attenuanti. (108) Erano infatti puniti entrambi con la reclusione criminale a vita l’omicidio volontario semplice (meurtre) e quello con premeditazione o guet-apens (assassinat). Nel Codice napoleonico, la premeditazione era definita come « il proposito, formato prima dell’azione, di attentare alla persona di un individio determinato, o anche di colui che sarà trovato o incontrato, quand’anche tale proposito sia dipendente da qualche circostanza o da qualche condizione » (art. 297), mentre il guet-apens (« agguato ») consisteva « nell’attendere per un tempo maggiore o minore, in uno o in diversi luoghi, un individuo sia per cagionargli la morte sia per esercitare su di lui atti di violenza » (art. 298). Il nuovo Codice punisce invece con la reclusione criminale fino a trent’anni il meurtre (art. 221-1) e con la reclusione criminale a vita l’assassinat (quest’ultimo ora identificato soltanto con l’omicidio commesso con premeditazione: art. 221-3). Attualmente, benché definita in termini più generali (art. 13272: ‘‘la premeditazione è il proposito, formato prima dell’azione, di commettere un crimine o un delitto determinato’’), l’aggravante conserva sostanzialmente lo stesso ambito di operatività, essendo prevista espressamente — come si è appena detto — per l’omicidio ed inoltre per le torture e gli atti di barbarie (art. 222-3), per gli atti di violenza da cui è derivata, non intenzionalmente, la morte (art. 222-8), o una mutilazione o un’infermità permanente (art. 222-10) oppure un’incapacità totale al lavoro superiore agli otto giorni (art. 222-12). (109) Come rilevano F. DESPORTES e F. LE GUNEHEC (Présentation, cit., p. 417), è questa una conseguenza diretta dell’aumento del plafond della pena dell’arresto correzionale. (110) Cfr., in particolare, gli artt. da 411-2 a 411-4, 411-9 e da 412-1 a 412-8. Il libro IV del nuovo Codice penale corrisponde al titolo I del libro III del vecchio Codice, che contemplava i crimini e i delitti contro la « cosa pubblica ».


— 208 — La reclusione e la detenzione sono rimaste dunque le uniche sanzioni « criminali per natura » (111). In materia correzionale, le pene indicate dall’art. 131-3 per le persone fisiche sono: l’arresto (emprisonnement), l’ammenda, il jour-amende, il lavoro d’interesse generale, le pene private o restrittive dei diritti previste nell’art. 131-6 e le pene complementari previste nell’art. 131-10. L’elenco è dunque molto più esteso di quello contenuto nell’art. 9 del vecchio Codice (112). Il legislatore francese ha inteso con ciò evidenziare « che l’arresto non va più considerato come la pena di riferimento ma che esso non è che una pena tra le altre, suscettibili, esse anche, di essere pronunciate a titolo principale » (113). È opportuno soffermarsi brevemente sul sistema dei jours-amende, sulle pene privative o restrittive di diritti e sulle pene complementari. Il primo, introdotto in Francia da oltre un decennio (con legge del 10 giugno 1983 (114)), era disciplinato dagli artt. 43-8 - 43-10 del Codice penale napoleonico. Per i delitti puniti con l’arresto, il giudice poteva pronunciare, a titolo di pena principale, « un’ammenda sotto forma di jours-amende » (115): in tal caso non potevano avere applicazione né la pena dell’arresto né quella dell’ammenda nelle forme ordinarie (art. 43-8). Il numero dei tassi giornalieri veniva fissato tenendo conto delle circostanze (cioè della gravità oggettiva e soggettiva) del reato e non poteva comunque eccedere i trecentosessanta; l’importo di ciascuno di essi, che non poteva essere superiore ai duemila franchi, era determinato sulla base delle condizioni economiche del reo; salvo che non si fosse deciso diversamente, l’ammontare globale dell’ammenda era esigibile alla scadenza del termine corrispondente al numero

(111) Così F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. e loc. ult. cit. A norma dell’art. 131-2, tali pene non escludono l’applicazione dell’ammenda o di una o più delle pene complementari previste nell’art. 131-10. (112) Che prevedeva, come pene correzionali, l’arresto temporaneo in un luogo di correzione, l’interdizione temporanea di certi diritti e l’ammenda. (113) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. e loc. ult. cit. (114) Con la stessa legge fu introdotta anche la pena del lavoro d’interesse generale al servizio della comunità, che consiste nell’eseguire, per un numero di ore non inferiore a 40 né superiore a 240 ed entro un termine fissato dal Tribunale e che comunque non può eccedere i diciotto mesi, un lavoro d’interesse generale non remunerato a beneficio di una collettività pubblica, di uno stabilimento pubblico o di un’associazione. Per ulteriori dettagli su questa sanzione si rinvia a G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 539 ss. All’interno del nuovo Codice, essa è prevista e disciplinata dal disposto combinato degli artt. 1318, 131-9, comma 1, da 131-22 a 131-24 e 131-36, i quali ne hanno lasciato sostanzialmente inalterati i tratti fondamentali, con un’unica rilevante particolarità: la soppressione del presupposto di applicazione della pena indicato nell’art. 43-3-1, comma 1, vecchio c.p. (assenza di una condanna — nel corso dei cinque anni precedenti i fatti — ad una pena criminale o alla pena dell’arresto senza sursis superiore a quattro mesi, per un crimine o, rispettivamente, per un delitto di diritto comune). (115) Si tratta del ben noto sistema, di derivazione scandinava, dei « tassi giornalieri », caratterizzato da una commisurazione « bifasica » della sanzione pecuniaria. Sistema, peraltro, ben noto anche al diritto penale tedesco (§ 40 StGB). Sul punto cfr., per tutti, G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 592; A. BERNARDI, La pena pecuniaria in Italia e Francia, e l’esigenza di una sua armonizzazione a livello europeo, in questa Rivista, 1990, p. 228 ss., per il quale (p. 253) la pena « a tassi » andrebbe privilegiata soltanto nelle ipotesi in cui la capacità economica del reo assuma particolare rilievo e meriti quindi « di essere evidenziata attraverso un apposito parametro »; nonché — con riferimento all’ordinamento tedesco — G. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, p. 489 ss.


— 209 — di jours-amende applicati (art. 43-9) (116). Il mancato pagamento, totale o parziale, di quest’ultimo comportava la carcerazione del condannato per una durata corrispondente alla metà del numero dei tassi giornalieri insoluti (art. 43-10). Nel nuovo Codice (artt. 131-5 e 131-25), tale disciplina è rimasta pressoché invariata. L’unica ragguardevole modifica concerne la possibilità — prima esclusa, come si è appena visto — di una condanna cumulativa all’arresto ed alla pena pecuniaria a tassi giornalieri, che in tal modo cessa di essere una sanzione a questo alternativa (117). Sono pene privative o restrittive di diritti (art. 131-6 del nuovo Codice): la sospensione (per una durata minima di cinque anni) della patente di guida, l’interdizione (per una durata minima di cinque anni) di condurre certi veicoli, la revoca della patente di guida con interdizione (per una durata minima di cinque anni) di richiederne di nuovo il rilascio, la confisca di uno o più veicoli appartenenti al condannato, l’immobilizzazione (per una durata minima di un anno) di uno o più veicoli appartenenti al condannato, l’interdizione (per una durata minima di cinque anni) di detenere o di portare un’arma la cui detenzione o il cui porto sono sottoposti ad autorizzazione, la confisca di una o più armi di cui il condannato è proprietario o di cui ha la disponibilità, il ritiro della licenza di caccia con interdizione (per una durata minima di cinque anni) di richiederne di nuovo il rilascio, l’interdizione (per una durata minima di cinque anni) di emettere assegni e di utilizzare carte di credito, la confisca della cosa che è servita o è stata destinata a commettere il reato o della cosa che ne è il prodotto, l’interdizione (per una durata minima di cinque anni) dall’esercizio di un’attività professionale o sociale. Stante il disposto di cui all’art. 131-9, commi 1 e 3, le pene privative o restrittive di diritti appena indicate sono oramai sanzioni alternative non più soltanto all’arresto ma anche all’ammenda (118). Quanto alle pene complementari, dispone l’art. 131-10 che, quando la legge lo prevede, un crimine o un delitto può essere punito con una o più pene complementari che, rispetto alle persone fisiche, comportano interdizione, decadenza, incapacità o revoca di un diritto, immobilizzazione o confisca di un oggetto, chiusura di uno stabilimento o affissione della decisione pronunciata oppure diffusione di essa sia attraverso la stampa sia attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione audiovisiva. Tale previsione costituisce più che altro una definizione di carattere generale della categoria: solo all’interno delle fattispecie di parte speciale sarà possibile l’individuazione delle singole pene ad essa riconducibili (119). V’è da chiedersi, a questo punto, quali siano i tratti caratteristici di tali « pene comple-

(116) È questa, come rileva A. BERNARDI (La pena pecuniaria, cit., p. 239 nt. 52), una particolarità del modello francese. (117) Ai sensi dell’art. 131-9, comma 5, del nuovo Codice, la pena dei jours-amende continua invece a non essere cumulabile con quella dell’ammenda. (118) Art. 131-9: « L’arresto non può essere pronunciato cumulativamente con una delle pene privative o restrittive di diritti previste all’art. 131-6 né con la pena del lavoro d’interesse generale. - Nei casi di cui all’art. 131-7, l’ammenda o il giorno-ammenda non possono essere pronunciati cumulativamente con una delle pene privative o restrittive di diritti previste all’art. 131-6 ». L’art. 131-7 prevede la possibilità di applicare le pene privative o restrittive di diritti ai delitti puniti con la sola sanzione pecuniaria. (119) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 418. Gli stessi Autori rilevano tuttavia come già dall’analisi delle norme ricomprese nel libro I, concernenti il contenuto e le modalità di applicazione di certe pene (artt. da 131-19 a 131-36), si possa ricavare la quasi totalità delle sanzioni complementari utilizzate nelle diverse incriminazioni.


— 210 — mentari », figura notoriamente estranea alla tradizione penalistica italiana. Nella manualistica francese più accreditata, si suole affermare che sono complementari le pene che, nei casi particolari previsti dalla legge, (al pari delle pene accessorie) si aggiungono alla pena principale e la cui applicazione (al pari di quella delle pene principali e diversamente da quel che accade per le pene accessorie, che conseguono automaticamente alla condanna a certe pene principali) è subordinata ad un’espressa pronuncia — talvolta obbligatoria, talaltra facoltativa — da parte del giudice (120). L’intervento del legislatore ha inciso però, in modo drastico e decisivo, sulla disciplina — e dunque anche sui connotati — di questi meccanismi sanzionatori: già con l. n. 75-624 dell’11 luglio 1975 è stata introdotta la possibilità di applicare talune pene complementari a titolo di pena principale (art. 43-1 c.p. 1810, il cui contenuto è stato poi trasfuso nell’art. 131-11 c.p. 1992 (121)), mentre l’art. 132-17 del nuovo Codice, col prevedere che « nessuna pena può essere applicata se la giurisdizione non l’ha espressamente pronunciata », sancisce in pratica la totale sparizione delle pene accessorie (122). Anche in materia di pene contravvenzionali si registrano interessanti novità quali la soppressione della sanzione detentiva (c.d. emprisonnement contraventionnel), l’aumento dell’importo delle ammende (per le contravvenzioni della 5a classe il limite minimo è stato elevato da 6.000 a 10.000 franchi, ammontare che può essere portato a 20.000 franchi in caso di recidiva, ove un regolamento lo preveda: art. 131-13), la previsione per le contravvenzioni della 5a classe di una norma di portata generale (art. 131-14) che enumera una serie di pene alternative all’ammenda — la sospensione della patente di guida, l’immobilizzazione del veicolo, la confisca di armi, la revoca della licenza di caccia, l’interdizione di emettere assegni o di utilizzare carte di credito e la confisca — applicabili dal giudice anche quando non siano espressamente previste in relazione alle singole fattispecie contravvenzionali (123). 5.

5.1. L’introduzione di una responsabilità penale delle personnes morales (124),

(120) Cfr. R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 798 s.; G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 516 ss. (121) L’applicazione a titolo principale di una o più pene complementari è tuttavia possibile soltanto in materia di delitti e di contravvenzioni (art. 131-18). (122) Nel sistema italiano vigente, com’è noto, si distingue soltanto tra pene principali e pene accessorie. In dottrina si considera caratteristica peculiare di queste ultime l’automaticità della loro applicazione: il concetto « italiano » di pena accessoria coincide dunque con quello « francese ». La constatazione della presenza di casi in cui l’applicazione delle pene accessorie è rimessa alla discrezionalità del giudice ha però indotto qualcuno (G. FIANDACA ed E. MUSCO, op. cit., p. 549) ad individuare la nota caratterizzante di esse nella loro complementarietà astratta, nell’essere cioè « accessorie rispetto ad altre sanzioni nella fase della loro comminazione »: in tal modo viene dunque elevata a caratteristica peculiare di un’unica categoria ciò che i francesi hanno considerato denominatore comune di due distinte figure. Nel linguaggio penalistico italiano, del resto, gli attributi « complementare » e « accessorio », rispetto alle pene, sono di regola usati come sinonimi. (123) Anche per le contravvenzioni sono poi previste pene complementari — applicabili, come già detto, in via esclusiva a titolo principale — il cui numero è aumentato sensibilmente rispetto al passato (artt. 131-16 - 131-18 c.p. 1992). Sul punto si rinvia, ancora una volta, a F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, op. e loc. ult. cit. (124) « Personnes morales » è, come noto, la locuzione con cui vengono indicate le persone giuridiche. La questione della previsione di una responsabilità penale si prospetta ovviamente anche per gli enti sprovvisti di personalità giuridica, in relazione ai quali essa presenta talune peculiarità. Nel corso di questa trattazione, si prescinderà dalla distinzione


— 211 — come già detto, costituisce senz’altro l’innovazione di maggior interesse introdotta nel nuovo Codice (125). Tale responsabilità, per vero, non era del tutto sconosciuta al sistema penale francese. Già l’Ordinanza criminale del 1670 (tit. XXI, art. 1) prescriveva la celebrazione di processi penali a carico di « communautées des villes, bourgs et villages, corps et compagnies qui auront commis quelque rébellion, violence ou autre crime », contemplando l’applicabilità di sanzioni quali l’ammenda, la privazione di privilegi e la demolizione delle mura che cingevano le città (126). Fu nel periodo rivoluzionario, in uno scenario ideologico-politico interamente dominato dall’individualismo, che si procedette al completo smantellamento degli enti associativi, considerati in sé illegali « poiché la libertà di associazione non era riconosciuta e al contrario aderire ad un gruppo appariva un’alienazione intollerabile di una libertà che, per essere ideale, doveva essere assoluta, ed aveva un profumo di cospirazione sovversiva » (127): il problema della « penalizzazione » dei groupements era in tal modo eliminato alla radice. Proprio in quegli stessi anni, in coincidenza con la pubblicazione di un breve ma significativo saggio di Malblanc dal titolo: Observationes quaedam ad delicta universitatum spectantes (128) — nel quale veniva contestata sia la capacità di delinquere sia la « sottoponibilità a pena » degli enti collettivi —, un’analoga inversione di rotta si registrava nel diritto tedesco. Ed anche in tal caso i motivi di questo revirement sono da ravvisare non tanto nel sopraggiungere di scrupoli dogmatici quanto puttosto nel venir meno dell’esigenza politica di una Verbandsbestrafung, dovuto al fatto che intorno alla fine del XVIII sec. la presenza e l’attività delle associazioni non destava più alcuna preoccupazione, avendo esse ormai perduto quasi del tutto il potere e l’importanza accumulati nelle epoche precedenti (129).

tra enti personificati e non, che sarà posta in rilievo soltanto ove ciò risulti strettamente necessario. Saranno inoltre utilizzati, come unità lessicali atte ad esprimere un concetto di genere, i termini collettività, associazioni, enti collettivi ed enti associativi, allo stesso modo in cui, del resto, vengono impiegati dalla dottrina tedesca e da quella francese rispettivamente i vocaboli Verbände e groupements. Cfr., per la dottrina tedesca, l’avvertenza terminologica di E. MÜLLER, Die Stellung der juristischen Person im Ordnungswidrigkeitenrecht, Köln, 1985, p. 1, nt. 1. (125) Va detto che l’introduzione di una responsabilità penale delle persone giuridiche fu guardata con favore — anche se, ovviamente, per motivi tra loro assai diversi — da quasi tutte le forza politiche rappresentate in Parlamento. Sul punto v. J.H. ROBERT, Projet de nouveau Code pénal: dernière nouvelles relatives à la responsabilité des personnes morales et des chefs d’entreprise, personnes physiques, in Droit pénal, luglio 1990, Chr., n. 1. (126) Cfr. G. LEVASSEUR/B. BOULOC, La responsabilité pénale des personnes morales d’après le droit positif français actuel et les projets de réforme en cours d’examen (avant-projet de code pénal), in La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario (Atti della Conferenza di Messina, 30 aprile - 5 maggio 1979), Milano, 1981, p. 199; M. DELMAS-MARTY, La responsabilité pénale des groupements, in Rev. int. dr. pén., 1980, p. 39. Il richiamo all’Ordinanza francese del 1670 rappresenta tuttavia, secondo A. ALESSANDRI (Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984, p. 26 s.), « un’evocazione stonata », dato che fino al XVIII secolo la fictio era « di carattere schiettamente dottrinale » e le universitates di regola non rappresentavano soggetti diversi dai membri che le componevano: « la responsabilità dell’ente era pur sempre costituita dal fascio di responsabilità convergenti degli individui che ne facevano parte, le quali avevano la caratteristica di trovare la propria fonte nell’appartenenza al gruppo ». (127) G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 200. (128) Erlängen, 1792. (129) Cfr. R. SCHMITT, Strafrechtliche Maßnahmen gegen Verbände, Stuttgart, 1958,


— 212 — Tra i testi normativi implicanti una responsabilità penale diretta delle persone giuridiche, la dottrina suole citare tre Ordinanze con valore di legge, emanate dal Governo provvisorio francese nel 1945 (130). La prima, del 5 maggio (131), relativa alla repressione dei fatti di collaborazionismo commessi dalle imprese di stampa durante l’ultimo conflitto mondiale, ammetteva la possibilità di perseguire penalmente, a titolo di autore o di complice, ogni società, associazione o sindacato, di diritto o di fatto, di stampa, di edizione, d’informazione o di pubblicità che, mediante organi di direzione o di amministrazione agenti in suo nome o per suo conto, avesse trasgredito, in tempo di guerra, le leggi penali in vigore. Sul piano oggettivo, i presupposti della responsabilità erano dunque determinati in modo assai rigoroso: sia per quanto concerne l’individuazione dei soggetti-persone fisiche « legittimati » a porre in essere l’illecito (solo i soggetti agenti in qualità di organo) sia in ordine alla puntualizzazione dei criteri di collegamento tra il groupement e l’azione concretamente posta in essere (necessità di un’azione in suo nome e per suo conto) (132). Sul terreno dell’imputazione soggettiva, la disposizione in esame subordinava la punibilità della persona giuridica alla condizione che i fatti commessi rivelassero « l’intenzione di favorire le imprese di qualsiasi natura del nemico ». L’Ordinanza contemplava alcune sanzioni di rara efficacia: dissoluzione con interdizione di ricostituire l’ente, confisca generale del suo patrimonio, confisca speciale, segnatamente del materiale di stampa, pubblicazione della sentenza di condanna. Essa conteneva inoltre una norma (art. 10) — di particolare interesse anche nel contesto di un più ampio discorso sugli ostacoli (reali o presunti) che si opporrebbero al definitivo superamento del principio societas delinquere non potest — la quale, in caso di condanna di una società alla dissoluzione e alla confisca generale o parziale del suo patrimonio a profitto dello Stato, prevedeva l’assegnazione di un indennizzo a quei soci che non avessero esercitato, dal momento della commissione del reato, alcuna funzione di direzione o di amministrazione e che si fos-

p. 27 s. Come rileva Schmitt (op. e loc. cit.), contro le corporazioni si erano combinate due forze tra loro antagonistiche: l’assolutismo regio ed il liberalismo illuministico. Il primo si prefisse l’eliminazione di tutti i poteri interni allo Stato e con questo in qualche maniera concorrenti; il secondo intese riservare soltanto allo Stato quelle poche limitazioni della libertà individuale che era disposto ad ammettere e fu pertanto un fiero oppositore di tutti gli enti associativi intermedi, che in diversi modi potevano vincolare il singolo. Le connessioni tra aspetti giuridici ed aspetti politici della questione sono dunque molto strette. (130) Cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 356 ss.; G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 214 ss.; G. LEVASSEUR, La responsabilité pénale des sociétés commerciales en droit positif français actuel et dans les projets de réforme envisagés, in Rev. int. dr. pén., 1987, p. 36 ss. Una parte della dottrina (v., in tal senso, R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 428; nonché M. DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, Paris, 1990, p. 111), menziona anche l’art. 428 c.p. 1810 — poi abrogato con una legge del marzo 1957 — il quale prevedeva un’ammenda e la confisca degli incassi nei confronti di « toute association d’artistes qui aura fait représenter sur son théâtre des ouvrages dramatiques au mépris des lois et règlements relatifs à la propriété des auteurs ». Come è stato giustamente rilevato (G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 213; G. LEVASSEUR, op. cit., p. 36), tale norma non prevedeva però una responsabilità penale diretta dell’associazione in quanto tale. (131) Per quanto concerne l’Ordinanza del 5 maggio, si rinvia al notissimo saggio, ancor oggi di grande interesse, di J. MAGNOL, Une experience de mise en oeuvre de la responsabilité pénale des personnes morales, in Rev. int. dr. pén., 1946, p. 58 ss. (132) Cfr., Sul punto, F. BRICOLA, Il costo del principio ‘societas delinquere non potest’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 977.


— 213 — sero opposti o avessero tentato di opporsi all’esercizio dell’attività illecita della persona giuridica, o che si fossero trovati nell’assoluta impossibilità di farlo (133). Sul piano processuale, erano poi previste alcune regole particolari: la competenza spettava alla Cour de justice del luogo ove si trovava la sede dell’ente o a quella del luogo in cui era stato commesso il reato (art. 5); l’azione penale doveva essere esercitata contro il o i rappresentanti legali al momento dell’apertura del procedimento, « pris ès qualités ». Regole, come si vedrà, in gran parte riprodotte nella nuova disciplina del titolo XVIII del libro IV del Codice di procedura penale, creato ex novo dall’art. 78 della loi d’adptation (134). La seconda Ordinanza, del 30 maggio 1945, relativa alla repressione delle infrazioni alla regolamentazione dei cambi, prevedeva (art. 12) la sottoponibilità a procedimento penale di una persona giuridica e l’applicabilità nei suoi confronti di sanzioni pecuniarie, nel caso in cui siffatte infrazioni fossero state commesse dagli amministratori o direttori di questa o di uno tra essi agente in nome e per conto della stessa. La terza (45-1484 del 30 giugno 1945), infine, in materia di infrazioni alla legislazione economica, contemplava (art. 49) la possibilità di pronunciare un’interdizione, temporanea o definitiva, dall’esercizio della professione a carico di una persona giuridica di diritto privato, quando il reato fosse stato commesso per suo conto (135). Nonostante la loro innegabile importanza, queste tre Ordinanze non comportarono però una modificazione sensibile nella prassi degli uffici del pubblico ministero (136). Attualmente, soltanto quella del 30 giugno potrebbe trovare applicazione. La loro menzione ha dunque più che altro il carattere di una citazione storica (137).

(133) Per un’opportuna sottolineatura dell’importanza assunta dal meccanismo messo a punto in questa disposizione, « il quale sembra attenuare la portata dell’obiezione di coloro che ravvisano nella responsabilità penale delle società un pericolo per i soci incolpevoli », v. F. BRICOLA, op e loc. ult. cit. (134) La dottrina più autorevole, del resto, già da tempo aveva suggerito un’applicazione in via analogica delle regole dettate dall’Ordinanza in questione a tutte le procedure aventi ad oggetto l’accertamento della responsabilità penale di una persona giuridica. Cfr., in tal senso, B. DAUVERGNE/J.B. HERZOG, Problèmes de procédure concernant la responsabilité pénale des personnes morale, in Rev. sc. crim., 1962, p. 800. Un caso molto noto di applicazione dell’Ordinanza è menzionato da DONNEDIEU DE VABRES (Les limites de la responsabilité pénale des personnes morales, in Rev. int. dr. pén., 1950, p. 343 s.). Il direttore della Rivista l’Illustration — unico soggetto statutariamente abilitato alla scelta dei collaboratori e degli articoli da pubblicare, alla gestione del patrimonio sociale, ecc. — imputato di fatti di collaborazionismo, fu prosciolto in quanto gli articoli oggetto di accusa gli erano stati imposti dall’autorità occupante. Per gli stessi fatti fu iniziato procedimento penale nei confronti dell’Illustration, persona giuridica, in virtù dell’Ordinanza del 5 maggio 1945. La Cour de justice e poi la Chambre d’accusation della Corte d’appello di Parigi ritennero fondata l’accusa e disposero la confisca di una parte del patrimonio sociale. A giudizio dell’Autore, tuttavia, la soluzione contraria sarebbe stata preferibile, sul presupposto che la responsabilità penale del gruppo sarebbe subordinata alla colpevolezza individuale dei suoi membri. (135) Qualcuno (G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 215; G. LEVASSEUR, op. cit., p. 38) rileva che tale sanzione rappresentava in realtà non una pena « propriamente detta » ma una misura di sicurezza. (136) G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. e loc. ult. cit.; G. LEVASSEUR, op. e loc. ult. cit. (137) La prima Ordinanza, una volta superata la situazione eccezionale legata al secondo conflitto mondiale, non ha più potuto trovare applicazione; la seconda è stata parzialmente abrogata (e tra le disposizioni abrogate figura anche l’art. 12); soltanto la terza è tuttora applicabile.


— 214 — Tra i testi in vigore che implicano direttamente una responsabilità penale della persona giuridica (138), va rammentato innanzi tutto l’art. L. 481-1 del Code du travail, che prevede la dissoluzione di sindacati od unioni di sindacati (in Francia aventi personalità giuridica) nel caso in cui i loro dirigenti abbiano esteso la propria azione al di là dell’oggetto esclusivo di essi, che consiste nello studio e nella difesa « dei diritti nonché degli interessi materiali e morali, collettivi e individuali, delle persone indicate nei loro statuti » (art. 411-1). L’art. L. 263-2-1 dello stesso Codice — introdotto dalla l. 6 dicembre 1976 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro — attribuisce all’organo giudicante (il Tribunale) la facoltà di porre parzialmente o integralmente a carico del datore di lavoro (e dunque dell’impresa) il pagamento delle ammende pronunciate e delle spese giudiziarie, tenuto conto delle circostanze del fatto e delle condizioni di lavoro. Spetta quindi, in ultima analisi, al giudice la scelta del soggetto cui applicare la sanzione pecuniaria. Il che non può non suscitare fondate perplessità. A norma dell’art. L. 263-3-1 — anch’esso inserito nel Codice del lavoro dalla l. 6 dicembre 1976 —, inoltre, « in caso di incidenti sul lavoro sopravvenuti in un’impresa in cui siano state rilevate trasgressioni gravi o ripetute alle regole d’igiene e di sicurezza del lavoro, il giudice competente, se non ritiene tenute alla prevenzione la o le persone fisiche imputate in base alle disposizioni del Codice penale citate all’art. 263-2, deve fare obbligo all’impresa di adottare tutte le misure per ristabilire condizioni normali d’igiene e di sicurezza del lavoro ». Che questa disposizione abbia introdotto nei confronti dell’impresa (e quindi, eventualmente, dell’ente collettivo) una vera e propria « misura di sicurezza » è però — a ragione — vivamente contestato in dottrina (139). Merita, infine, una menzione particolare l’art. 13 dell’Ordinanza n. 86-1243 del 1o dicembre 1986, relativa alla libertà dei prezzi e della concorrenza. Ai sensi di tale disposizione, in caso di pratiche anticoncorrenziali di cui agli artt. 7 e 8 della stessa Ordinanza (140), il Consiglio della concorrenza può ordinare agli interessati di porre fine ad esse

(138) La distinzione tra testi normativi che implicano direttamente la responsabilità penale della persona giuridica e testi che la suggeriscono in maniera più vaga è adottata da M. DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, cit., p. 110. In questa sede saranno considerate soltanto alcune disposizioni appartenenti al primo gruppo. (139) V., in particolare, G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 217 s. A giudizio di M. DELMAS-MARTY (op. ult. cit., p. 113), l’art. 263-3-1 sembra fondare « una responsabilità quasi penale » dell’impresa. (140) Art. 7: « Sono proibite, quando hanno per oggetto o possono avere per effetto impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza su un mercato, le azioni concertate, convenzioni, intese espresse o tacite o coalizioni, segnatamente quando tendono a: 1. limitare l’accesso al mercato o il libero esercizio della concorrenza da parte di altre imprese; 2. ostacolare la fissazione dei prezzi attraverso il libero gioco del mercato, favorendo artificiosamente il loro rialzo o il loro ribasso; 3. limitare o controllare la produzione, i mercati, gli investimenti o il progresso tecnico; 4. ripartire i mercati o le fonti d’approvvigionamento ». Art. 8: « È proibito, alle medesime condizioni, l’abuso da parte di un’impresa o di un gruppo d’imprese: 1. di una posizione dominante nel mercato interno o in un settore rilevante di esso; 2. dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi confronti, un’impresa acquirente o fornitrice che non dispone di altra equivalente soluzione. Questi abusi possono segnatamente consistere in un rifiuto di vendita, in vendite vincolate o in condizioni di vendita discriminatorie così come nella rottura di relazioni commer-


— 215 — in un certo termine o imporre particolari condizioni; può inoltre infliggere una sanzione pecuniaria (il cui ammontare massimo — ove il contravventore sia un’impresa — è pari al 5 per cento del fatturato — escluse le imposte — realizzato in Francia nel corso dell’ultimo esercizio chiuso), applicabile immediatamente oppure in caso di mancata esecuzione dell’ingiunzione. In tale settore il legislatore francese ha dunque preferito — almeno in un primo tempo — fare ricorso allo strumento della sanzione amministrativa: soluzione, com’è noto, adottata più di recente anche in Italia con la l. 10 ottobre 1990, n. 287 (artt. 14, comma 5, 15 e 19) (141). L’art. 291 della loi d’adaptation ha poi inserito nell’Ordinanza un articolo 52-1 che punisce il fatto di operare (o di tentare di operare) l’aumento o la diminuzione artificiosa del prezzo di beni o di servizi o di titoli pubblici o privati tramite la diffusione, con qualsiasi mezzo, di informazioni menzognere o calunniose, o tramite il lancio sul mercato di offerte destinate a turbarne il corso o di maggiori offerte fatte sui prezzi richiesti dai venditori, oppure utilizzando ogni altro mezzo fraudolento (142); e il successivo art. 52-2 (inserito dall’art. 292 l. 16 dicembre 1992) stabilisce che, ove ricorrano le condizioni previste nell’art. 122-2 del nuovo Codice penale, di tale reato « possono essere dichiarate penalmente responsabili » anche le persone giuridiche. Analoga previsione è contenuta anche nell’art. 17-1 dell’Ordinanza (introdotto dall’art. 293 della loi d’adaptation), con riferimento agli illeciti contemplati negli artt. 7 e 8. Il che crea evidenti, quanto spinosi, problemi di coordinamento, poiché, come si è visto, quelle stesse violazioni sono già punite (ex art. 13) con sanzione amministrativa. Uno stesso fatto viene quindi ad essere punito due volte, sia pur con sanzioni diverse (con conseguente violazione del ne bis in idem sostanziale (143)). 5.2. La dottrina francese attualmente appare schierata in modo compatto in favore della tesi della responsabilità penale delle personnes morales (144). L’esigenza politico-criminale di superamento dell’antico principio societas delinquere non potest è unanimemente

ciali in atto, per il solo motivo che la controparte rifiuta di sottomettersi a condizioni commerciali ingiustificate ». (141) Per un’attenta analisi del sistema sanzionatorio delineato in questa legge si rinvia a F. MUCCIARELLI, Le sanzioni nella legge ‘antitrust’, in Legisl. pen., 1990, p. 609 ss. (142) Si tratta di una figura affine alla fattispecie di aggiotaggio di cui all’art. 501 c.p. italiano, che però è diversamente strutturata. (143) B. BOULOC, Le domaine de la responsabilité pénale des personnes morales, in Rev. soc., 1993, p. 295. In realtà la possibilità di un funzionamento cumulativo del sistema sanzionatorio penale e di quello amministrativo — considerata un effetto della loro reciproca indipendenza — è in Francia generalizzata, anche se in pratica tale cumulo si realizza molto di rado, giacché negli ambiti nei quali anche la pubblica amministrazione è titolare di un potere sanzionatorio, essa seleziona in modo molto restrittivo gli atti da trasmettere al giudice penale e, pertanto, solo un numero estremamente basso di illeciti è perseguito anche in sede penale (cfr. M. DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, cit., p. 244 ss.). (144) I penalisti francesi, per consolidata tradizione, sono inclini ad ammettere l’applicabilità di sanzioni penali agli enti collettivi. Già nel 1899 A. MESTRE, nella sua celebre tesi dal titolo: Les personnes morales et le problème de leur responsabilité pénale, affermò (p. 5): « ces personnes collectives, comme les individus, peuvent commettre des délits et être punies pour des infractions à la loi pénale ». La dottrina italiana, com’è noto, è invece assai più cauta, prospettando per lo più soluzioni alternative all’impiego della pena stricto sensu. Tra i lavori più recenti, vedasi, in particolare V. MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 101 ss.; nonché C. VIAZZO, Profili di responsabilità penale per reati tributari nelle imprese di grandi dimensioni, in questa Rivista, 1992, p. 220 ss. (in part. p. 261 ss.).


— 216 — avvertita. L’evoluzione della struttura socio-economica ed il progresso tecnologico hanno comportato, col trascorrere dei decenni, un profondo mutamento di protagonisti (145). Gli enti collettivi sono divenuti sempre più numerosi, hanno esteso a dismisura il proprio campo d’intervento ed hanno incrementato sensibilmente i propri poteri (146). La loro attività può arrecare vantaggio alla comunità nazionale, ma è evidente che tale attività può esercitarsi anche in senso antisociale (147); numerosissimi reati parrebbero in effetti direttamente ascrivibili alla persona giuridica (148), al punto che l’imputazione di essi ai soli dirigenti che hanno materialmente agito darebbe luogo ad un’inammissibile forma di responsabilità penale per fatto altrui (149). L’esistenza dell’ente collettivo assume, d’altra parte, un rilievo certo non trascurabile anche in una prospettiva criminologica, posto che « l’appartenenza al gruppo » tende ad operare come fattore criminogeno di rara efficacia: la persona giuridica può in concreto agevolare la commissione di reati che l’individuo isolato non avrebbe né i mezzi né, forse, l’intenzione di realizzare (150). È questo un aspetto posto in luce, con grande acutezza, dalla dottrina tedesca. Bernd Schünemann, in particolare, sottolinea come, attraverso l’inserimento in un Verband con « attitudine criminale », in un individuo socialmente integrato e « fedele al diritto » vengano neutralizzati quei meccanismi d’inibizione che avrebbero bloccato il medesimo comportamento considerato come Individualdelikt (151). E Bruni Ackermann rileva che, rispetto ai delitti determinati da motivi di lucro, il singolo componente del gruppo è indotto a superare con maggiore facilità la propria soglia d’inibizione psichica, avendo la convinzione di agire per motivi altruistici (in favore del gruppo e non di se stesso) e dunque di non impersonare l’immagine del ladro, del truffatore, ecc. (152). Nella stessa prospettiva, non vanno poi trascurate importanti ragioni d’ordine pratico: per quanto concerne le sanzioni pecuniarie, in caso d’insolvibilità delle persone fisiche che agiscono in nome e per conto dell’ente, vi è tutto l’interesse ad ammettere una responsabilità

(145) Di « profondo mutamento di protagonisti » parla A. FALZEA, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 139 s. (146) Già nel 1953 H.H. JESCHECK (Zur Frage der Strafbarkeit von Personenverbände, in Die öffentliche Verwaltung, 1953, p. 539) rilevava che « enti collettivi (persone giuridiche, società di persone ed associazioni non riconosciute) dominano oggi come partiti la politica, come imprese, associazioni di datori di lavoro o sindacati la vita economica, come banche il sistema creditizio. Enti collettivi, in qualità di editori, di aziende giornalistiche o di agenzie di informazione, determinano il volto della pubblicistica, come organizzazioni di categoria hanno un influsso decisivo sul lavoro e sulla vita culturale ». Ma il fenomeno è, come noto, ben più risalente. Già in occasione del secondo Congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale, tenutosi a Bucarest nel 1929 si ebbe modo di constatare la crescita continua e l’importanza assunta dalle persone giuridiche e di riconoscere che esse rappresentavano delle « forze sociali » nella vita moderna. (147) Così, testualmente, G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 202. (148) Secondo G. LEVASSEUR e B. BOULOC, op e loc. ult. cit.), non c’è reato che non possa essere commesso da una persona giuridica, così come non c’è persona giuridica che non possa svolgere un’attività delittuosa. (149) G. VENANDET, La responsabilité pénale des personnes morales dans l’avant projet de code pénal, in Rev. trim. dr. comm., 1978, p. 738. (150) G. VENANDET, op. cit., p. 737. (151) B. SCHÜNEMANN, Unternehmenskriminalität und Strafrecht, Köln-Berlin-BonnMünchen, 1979, p. 22. (152) B. ACKERMANN, Die Strafbarkeit juristischer Personen im deutschen Recht und in ausländischen Rechtsordnungen, Frankfurt a. M., 1984, p. 46.


— 217 — penale anche di ques’ultimo (153), il cui patrimonio offre indubbiamente maggiori garanzie (154). Così prospettata, tale argomentazione appare tuttavia riduttiva, dato che per soddisfare un’esigenza siffatta potrebbe ritenersi sufficiente una responsabilità sussidiaria del tipo di quella contemplata nell’art. 197 c.p. italiano, sulla cui « eccezionale inefficacia » e scarsissima applicazione (155) non è certo qui il caso di indugiare. Come noto, il punto centrale della questione è invece un altro: una sanzione pecuniaria commisurata alle condizioni economiche dell’autore individuale sarebbe del tutto sporporzionata rispetto alla gravità dell’illecito e all’entità del profitto conseguito dall’associazione. Sul terreno dogmatico, attraverso un richiamo più o meno esplicito alla teoria della realtà (156), si perviene senza troppa difficoltà al riconoscimento di una volontà collettiva, derivante dalla somma delle volontà individuali e, come queste, perfettamente capace di commettere illeciti (157). Per questa via si giunge ad ammettere la capacità di azione delle persone giuridiche e, al tempo stesso, la configurabilità dell’elemento soggettivo (c.d. élé-

(153) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 354; M. DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, cit., p. 109. (154) Così già H. DONNEDIEU DE VABRES, op. cit., p. 339. (155) Cfr. sul punto le lucide osservazioni di F. BRICOLA (Il costo, cit., p. 692), che rileva come una siffatta obbligazione, « lasciando in ombra la proiezione ‘societaria’ dell’illecito » si riveli « assai conveniente alla società la quale può continuare a mandare allo sbaraglio i propri amministratori, come teste di ponte, rischiando il meno possibile ». Per un’approfondita analisi circa le origini storiche, le caratteristiche ed il funzionamento di questo meccanismo sanzionatorio si rinvia ad A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., p. 1 ss., 88 ss. (156) Nel senso, però, che la tesi della realtà delle persone giuridiche, escogitata principalmente ad uso delle società commerciali, non provoca più l’infatuazione di un tempo, v. J.H. ROBERT, Projet de nouveau Code pénal, cit., p. 1. Per un’esauriente esposizione dei contenuti di essa (e della contrapposta teoria della finzione), si rinvia ad A. FALZEA, op. cit., p. 148 ss. Sul valore da attribuire al richiamo alla teoria della realtà (denominata anche teoria organica), la dottrina italiana appare divisa. Da una parte si sostiene che esso potrebbe far considerare salvo il principio della responsabilità per fatto proprio « nonostante la duplicità esistente fra esecutore materiale della condotta e soggetto cui si imputano gli effetti lesivi della medesima » (C.F. GROSSO, voce Responsabilità penale, in Noviss. Dig. Ital., vol. XV, Torino, 1968, p. 710) ma non quello della responsabilità per fatto proprio colpevole (con conseguente violazione dell’art. 27, comma 1, della Costituzione), dato che « la teoria ‘‘organicistica’’... non può ‘‘inventare’’ per la società i presupposti su cui si fonda il giudizio di colpevolezza (o di rimproverabilità) » (F. BRICOLA, Il costo, cit., p. 1011). D’altra parte si sostiene invece che « la stampella della teoria organica », cui si ricorre per imputare all’ente il fatto dell’organo, « per intima coerenza, non può essere poi abbandonata di fronte all’elemento della colpevolezza » (A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., p. 56, il quale comunque (p. 58 s.) ritiene che una responsabilità penale diretta degli enti altererebbe irrimediabilmente il « volto » personalistico dell’illecito penale, che si profila alla luce dell’art. 27, commi 1 e 3, cost.). Ribadisce l’assoluta incompatibilità di una responsabilità di soggetti diversi dalle persone fisiche con i contenuti dell’art. 27 cost., richiamandone, però, anche il comma 2, nel quale il termine « imputato » andrebbe riferito soltanto a soggetti individuali (ma tale asserto non ci pare convincente), A. TRAVERSI, La responsabilità penale delle persone giuridiche - Aspetti comparatistici, in Le società, 1993, p. 700. (157) R. MERLE/A. VITU (op. cit., p. 778): « La personne morale est parfaitement capable de volonté; elle postule même la volonté, puisqu’elle naît et vit de la rencontre des volontés individuelles de ses membres. La volonté collective, qui l’anime, n’est pas un myte, elle est concrétisée à chaque étape importante de sa vie par la réunion, la délibération et le vote de l’assemblée générale de ses membres, ou de ses conseils d’administration, de gérance ou de direction. Cette volonté collective est capable de commettre des fautes, tout autant que la volonté individuelle ». V. pure, in termini analoghi, M. DELMAS-MARTY, op. e loc. ult. cit.;


— 218 — ment moral) del reato. Il che risulta indubbiamente agevolato dall’accoglimento, da parte della dottrina francese, della concezione psicologica della colpevolezza (158); mentre la questione appare ben più spinosa ove si assuma come premessa un normativer Schuldbegriff: le accese discussioni sorte da tempo, e tuttora in corso, in seno alla scienza penalistica tedesca (la quale, come noto, intende prevalentemente la colpevolezza come Vorwerefbarkeit der Willensbildung (159)) ne sono la più evidente dimostrazione (160). Questa visione « psicologizzante » della colpevolezza, e probabilmente anche la scarsa consapevolezza del rango sovraordinato dello Schuldprinzip (161), hanno dunque contribuito in misura determinante a « sdrammatizzare », agli occhi della dottrina francese, il problema della Schuldfähigkeit delle persone giuridiche. Alla classica obiezione secondo cui la previsione di sanzioni penali a carico degli enti collettivi contravverrebbe al principio di personalità delle pene, in quanto esse finirebbero necessariamente per ripercuotersi anche sui membri incolpevoli dell’associazione e sugli

nonché G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 353. Per alcuni rilievi critici sull’immagine della « volontà collettiva », v. A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., p. 54. Nel senso che le personnes morales altro non sono che delle finzioni, dei « puri composti di tecnica giuridica », insuscettibili, come tali, di essere colpevoli d’illecito nel senso morale e penale del termine, in quanto privi di una coscienza morale, cfr., tuttavia, E. PICARD, La responsabilité pénale des personnes morales de droit public: fondements et champ d’application, in Rev. soc., 1993, p. 268. (158) Cfr. G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 261; J.H. ROBERT, Droit pénal général, cit., p. 112. Sembrano, invece, aderire alla concezione normativa della colpevolezza R. MERLE e A. VITU (op. cit., 693), che però, come già visto, quando si tratta di enunciare « gli argomenti favorevoli alla responsabilità penale delle persone giuridiche », si limitano, tra l’altro, a ribadire la sussistenza di una volontà collettiva, la quale permetterebbe di affermare che « la persona giuridica è perfettamente capace di volontà ». In dottrina il termine culpabilité è usato di regola in un’accezione schiettamente processuale (cfr. R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 630 s.; J.H. ROBERT, op. ult. cit., p. 209; G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. ult. cit., p. 348) mentre per designare l’elemento soggettivo del reato si usa la locuzione « élément moral (ou psychologique) de l’infraction ». (159) Cfr., per tutti, H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, AT, 4a ediz., Berlin, 1988, p. 363. (160) Quella relativa alla « incapacità di colpevolezza » (Schuldunfähigkeit) è un’obiezione classica sollevata dalla dottrina tedesca contro la tesi della responsabilità penale dei Verbände. Cfr., tra gli altri, i contributi di E. HEINITZ (Gutachten), di K. ENGISCH (Referat) e di F. HARTUNG (Referat) al 40o Deutscher Juristentag, svoltosi ad Amburgo nel 1953, sul tema: Empfiehlt es sich, die Strafbarkeit der juristischen Person gesetzlich vorzusehen? (in Verhandlungen des 40. DJT, vol. II, Tübingen, 1954, rispettivamente p. 85 s., p. E 24 s. e p. E 43). Vedasi inoltre K. SIEGERT, Haftung für fremde Schuld im Steuer-und Wirtschaftsstrafrecht, in Neue Juristische Wochenschrift, 1953, p. 528; W. NIESE, Die moderne Strafrechtsdogmatik und das Zivilrecht, in Juristenzeitung, 1956, p. 463; H.H. JESCHECK, Die strafrechtliche Verantwortlichkeit der Personenverbände, in ZStW (65), 1953, p. 213; H.J. BRUNS, Über die Organ- und Vertreterhaftung im Strafrecht, in Juristenzeitung, 1954, p. 254. Per quanto concerne la manualistica, è sufficiente in questa sede il rinvio ad H.H. JESCHECK, Lehrbuch, cit., p. 204; e ad H. WELZEL, Das deutsche Strafrecht, 11a ediz., Berlin, 1969, p. 139. Va detto comunque che negli ultimi tempi si moltiplicano — e sono molto autorevoli — i tentativi dei penalisti tedeschi di individuare soluzioni originali allo scopo di superare una tale impasse dogmatica. (161) Nell’ordinamento francese, il nullum crimen sine culpa non è costituzionalizzato. In dottrina (M. DELMAS-MARTY, Les conditions de fond de mise en jeu de la responsabilité pénale, in Rev. soc., 1993, p. 301), peraltro, si afferma che il principio societas delinquere non potest sembra essere privo di valore costituzionale.


— 219 — stessi lavoratori, i quali, in caso di chiusura temporanea o definitiva di uno stabilimento o, ancor peggio, in caso di scioglimento dell’ente si vedrebbero privati del posto di lavoro, si replica che lo stesso principio risulta violato allo stesso modo — se non in modo più grave — allorché, perseguendo i dirigenti o gli esecutori, si fa pagare ad essi soltanto « il prezzo di un illecito che fu forse collettivo » (162). La sanzione penale — si rileva inoltre — determina spesso conseguenze pregiudizievoli indirette anche su persone estranee all’illecito, senza che per ciò solo si lamenti la trasgressione di quel principio (163). Ad ogni modo, per ovviare all’inconveniente, si potrebbe prevedere la corresponsione di un indennizzo ai soci rimasti estranei alla commissione dell’illecito (già contemplata, come si è visto, nell’Ordinanza del 5 maggio 1945), oppure il rimborso a carico della società delle loro azioni o quote di partecipazione e il diritto di recedere unilateralmente dal contratto di società (164). Quanto ai lavoratori dipendenti, occorrerebbe garantire ad essi il pagamento del salario durante un periodo minimo (165). Nei confronti delle persone giuridiche sarebbe infine ipotizzabile un’ampia e articolata gamma di sanzioni penali: pene a carattere patrimoniale (ammenda e confisca), l’interdizione dall’esercizio di un’attività professionale, lo scioglimento, ecc. (166). All’uopo sarebbe sufficiente un puro « sforzo d’immaginazione » (167). In tal caso la pena potrebbe, se non realizzare il suo fine primario identificato nell’emenda del colpevole, perlomeno svolgere adeguatamente una funzione di prevenzione e d’intimidazione (168). Fin dal 1954, la Chambre civile della Corte di Cassazione ha riconosciuto che « la per-

(162) G. LEVASSEUR, Les personnes morales victimes, auteurs ou complices d’infractions en droit français, in Rev. dr. pén. crim., 1954-1955, p. 841. V. pure R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 779; M. DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, cit., p. 109; J. BORRICAND, Pour une responsabilité pénale de tous les groupements?, in Annales de la Faculté de droit et de science politique de l’Université de Clermont-Ferrand, 1981, p. 130 s. (163) Quest’osservazione è meno frequente nella dottrina francese. Cfr. tuttavia, sia pur con qualche riserva, G. VENANDET (op. cit., p. 736). Sul punto v. pure F. BRICOLA, Il costo, cit., p. 959; e A. ALESSANDRI (Reati d’impresa, cit., p. 53), a giudizio del quale il problema del coinvolgimento dei soci incolpevoli potrebbe porsi soltanto rispetto alla sanzione dello scioglimento dell’ente, che finirebbe con lo « smembrare autoritativamente il frutto della loro autonomia negoziale ». (164) G. VENANDET, op. cit., p. 763. (165) G. VENANDET, op. e loc. cit., il quale però non specifica a carico di chi dovrebbe sorgere un’obbligazione di questo tipo. (166) G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 353 s.; M. DELMAS-MARTY, op. e loc. ult. cit.; J. BORRICAND, op. cit., p. 144 ss. (167) G. LEVASSEUR, Sanctions pénales et personnes morales, in Rev. dr. pén. crim., 1975-1976, p. 717. (168) Così, testualmente, G. STEFANI/G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 354. In realtà l’emenda altro non è che un modus operandi della prevenzione speciale: è quindi da ritenere che gli Autori intendano riferirsi alla prevenzione generale negativa, come si desume, del resto, dall’uso del termine intimidation. Ad ogni modo, l’idea dell’emenda morale del condannato è oramai definitivamente tramontata: « nei tempi moderni la prevenzione speciale assume a criterio-guida la rieducazione concepita come risocializzazione » (G. FIANDACA/E. MUSCO, op. cit., p. 535 s.). E in questa prospettiva va riconsiderato il problema della Strafempfänglichkeit degli enti associativi. Nella letteratura francese, nel senso che la funzione di retribuzione a fini di emenda della pena si è « socializzata » ed è stata riassorbita nella funzione di riadattamento sociale, « sola redenzione concepibile per le menti contemporanee », che come tale sarebbe perfettamente immaginabile quantomeno nei confronti delle persone giuridiche di diritto privato, cfr. E. PICARD, op. cit., p. 269. Da qualcuno (B. BOULOC, Généralités sur les sanctions applicables aux personnes morales, in Rev. soc.,


— 220 — sonalità civile non è una creazione della legge: essa appartiene, in linea di principio, ad ogni gruppo provvisto di una possibilità di espressione collettiva per la difesa di interessi leciti, degni, pertanto, di essere giuridicamente riconosciuti e protetti » (169), creando in tal modo le premesse teoriche per il superamento del principio societas delinquere non potest. Malgrado ciò, la giuriprudenza francese è rimasta saldamente agganciata al dogma dell’irresponsabilità penale delle persone giuridiche (170). Si è ammesso, nondimeno, che in casi particolari questo sbarramento potesse essere aggirato: innanzi tutto quando i testi normativi individuano il soggetto responsabile attraverso l’indicazione di una qualità giuridica comune a persone fisiche e ad enti collettivi, come la qualità di proprietario (171), di capo dell’impresa (172) o di datore di lavoro; in secondo luogo rispetto alle infrazioni c.d. materiali, ritenute punibili, come si è visto, indipendentemente dalla sussistenza di un’intention criminelle (173); o ancora in certi ambiti peculiari, come in materia d’infrazioni doganali, dove « la responsabilità civile e la responsabilità penale si confondono, come aventi la medesima causa ed il medesimo oggetto », per cui la società si trova ad essere solidalmente responsabile per il pagamento delle penalità pecuniarie (174). 5.3. Già il Progetto Matter del 1934 contemplava la responsabilità penale delle persone giuridiche, nei cui confronti, però, si ammettevano soltanto condanne a sanzioni pecuniarie e a misure di sicurezza di carattere patrimoniale (art. 115, comma 2). Per i reati puniti esclusivamente con pena restrittiva della libertà personale, il giudice doveva operare una conversione in pena pecuniaria (ammenda da 25 a 5.000 franchi in caso di delitto, che poteva essere elevata fino a 20.000 franchi in caso di crimine). Il Progetto risultava tuttavia alquanto lacunoso, non facendo menzione dei presupposti sui quali doveva fondarsi l’ascrizione del

1993, p. 328) si ritiene comunque che, nell’ampio ventaglio di sanzioni previste dal nuovo Codice (art. 131-39) per le personnes morales, gli scopi dell’intimidazione e della retribuzione prevalgano su quello del riadattamento. In Italia, com’è noto, una parte autorevole della dottrina tende ad escludere l’attuabilità di una « rieducazione » nei confronti degli enti collettivi (cfr., in tal senso, A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., p. 58; A. TRAVERSI, op. e loc. cit.). (169) Cass. civ., 28 gennaio 1954, in Recueil Dalloz, 1954, p. 217, con nota di G. LEVASSEUR. V. pure, più di recente, Cass. soc., 23 gennaio 1990, in J.C.P., 1990, II, 21529, con nota di M. NEVOT; e Cass. soc., 17 aprile 1991, in J.C.P., 1992, II, 21856, con nota di H. BLAISE. (170) Cass. crim., 26 novembre 1963, in Gaz. Pal., 1964, I, p. 189: « l’ammenda è una pena ed ogni pena ha carattere personale, salve le particolari eccezioni previste dalla legge; essa non può, pertanto, essere pronunciata contro un ente morale, quale una società anonima, che può soltanto essere dichiarata civilmente responsabile in caso di reato commesso da suoi dirigenti o preposti ». V. pure Cass. crim. 27 febbraio 1968, in Bulletin des arrêts de la chambre criminelle de la Cour de cassation, 1968, n. 61, p. 147 ss. In una decisione del 30 luglio 1982, il Conseil constitutionnel ha comunque dichiarato la piena compatibilità coi principi costituzionali delle ammende inflitte alle persone giuridiche. (171) Cass. crim., 6 marzo 1958, in Recueil Dalloz, 1958, p. 465; Cass. crim., 13 marzo 1989, in Bulletin, cit., 1989, n. 119, p. 313 ss. (concernente la responsabilità penale per fatto altrui prevista, in materia di imposte indirette, dall’art. 1805 del Codice generale delle imposte). (172) Cass. crim., 20 gennaio 1960, in J. C. P., 1960, II, 11774, con nota di R. LEGEAIS. (173) Cass. crim., 6 marzo 1958, cit.; Cass. crim., 25 aprile 1968, in J. C. P., 1969, II, 16100, con nota di M. PUECH. (174) Cass. crim., 14 giugno 1982, in Bulletin, cit., 1982, n. 157, p. 437 ss.


— 221 — fatto illecito all’ente. Tali presupposti venivano ricavati per via d’interpretazione dall’art. 89 dello stesso Progetto, che prevedeva l’applicabilità alla persona giuridica dello scioglimento — come misura di sicurezza — soltanto nell’ipotesi in cui il suo rappresentante avesse agito in suo nome o con mezzi da essa forniti (175). È questa, d’altra parte, un’epoca in cui il problema della Verbandskriminalität fu avvertito in modo particolarmente pressante. Già in occasione del II Congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale tenutosi a Bucarest nel 1929, si auspicò l’adozione di efficaci « misure di difesa sociale » contro le persone giuridiche. L’applicabilità di misure di sicurezza, quali lo sciglimento o la sospensione, fu prevista dal Codice spagnolo del 1928 (176) e a sanzioni della stessa natura fece ricorso, qualche anno più tardi (nel 1936), anche il Codice di difesa sociale di Cuba, d’indubbia matrice positivista (177). In tempi più recenti, nell’Avant-projet del 1978 fu inserita una norma (art. 38) del seguente tenore: « senza pregiudizio delle azioni esercitate contro persone fisiche, ogni ente (groupement) è penalmente responsabile del delitto che è stato commesso con la volontà deliberata dei suoi organi, in suo nome e nell’interesse collettivo »; fu anche prevista (art. 39) la possibilità di sciogliere il groupement « creato o sviato dal suo oggetto per facilitare la commissione del delitto »; e fu attribuito (art. 74) all’organo giudicante il potere di porre, in tutto o in parte, a carico del preponente (e quindi eventualmente anche di enti collettivi) il pagamento di ammende e spese di giustizia, qualora il reato fosse stato commesso dal preposto nell’esercizio delle sue funzioni. La responsabilità penale era tuttavia limitata soltanto ai groupements la cui attività fosse di natura commerciale, industriale o finanziaria (art. 37). Tale locuzione appariva più ampia ma, nel contempo, più ristretta della nozione di personnes morales (178): più ampia perché era ovviamente tale da includere anche gli enti sprovvisti di personalità giuridica (179), più ristretta perché il riferimento a specifici settori di attività — che peraltro rappresentava una novità assoluta nel diritto francese — impediva di farvi rientrare anche i groupements di altra natura, come le associazioni e i sindacati, i quali, pertanto, avrebbero goduto di una sorta d’immunità penale (180). Anche le persone giuridi-

(175) J. MAGNOL, L’avant-projet de révision du code pénal français (partie générale), Paris, 1934, p. 166; ID., Une experience, cit., p. 64. (176) Tali misure erano applicabili a entidades, personas juridicas, sociedades, corporaciones o empresas (artt. 90, n. 10, 92 e 93). (177) Sotto l’influsso delle teorie di Enrico Ferri, il Codice cubano assumeva come presupposto della punibilità non la colpevolezza ma la pericolosità dell’agente: le pene in esso previste erano dunque, in sostanza, misure di sicurezza (sul punto v. F. BRICOLA, Il costo, cit., p. 1000). (178) M. DELMAS-MARTY, La responsabilité pénale, cit., p. 42; cfr. altresì R. GUERRINI, op. cit., p. 694. (179) Nel senso, tuttavia, che la previsione di una responsabilità penale dei gruppi sprovvisti di personalità giuridica rischiava di porre « problemi teorici di definizione delle nozioni », cfr. M. DELMAS-MARTY, op. e loc. ult. cit. (180) La memoria introduttiva al Progetto giustificava questa limitazione adducendo due motivi: innanzi tutto, il fatto che i problemi di una responsabilità penale erano maggiormente avvertiti in materia industriale, commerciale e finanziaria; in secondo luogo, il timore che un’estensione generalizzata di una tale responsabilità potesse comportare il rischio di attentati a diritti costituzionalmente garantiti. Per una valutazione critica di tale motivazione cfr. M. DELMAS-MARTY, op. ult. cit., p. 43 s. Consideravano troppo ristretta la limitazione operata dall’art. 37 del Progetto, tra gli altri, anche LEVASSEUR e BOULOC, op. cit., p. 221 s.; e J. BORRICAND, op. cit., p. 129 ss. Si esprimeva invece in favore dell’impunità accordata agli enti privi di scopo lucrativo G. VENANDET, op. cit., p. 741 s. La questione relativa all’ammis-


— 222 — che di diritto pubblico rimanevano del tutto al di fuori dalla sfera di controllo del diritto penale (181). Quanto ai presupposti su cui era fondata la punibilità degli enti, alcune riserve venivano espresse sull’uso della locuzione « interesse collettivo », considerata oscura e imprecisa (182). Dalle altre due condizioni richieste (commissione del delitto con la volontà deliberata degli organi ed in nome del groupement) si desumeva inoltre che solo la condotta di un organo, e non anche quella di un dipendente, avrebbe potuto far scattare la responsabilità dell’ente (183). Non appariva, poi, giustificata la limitazione di tale responsabilità ai soli delitti (184). Il Progetto del 1986, ribadì la scelta di fondo della « penalizzazione » degli enti collettivi, apportando però alla relativa disciplina alcune rilevanti modifiche. L’art. 121-2 estese, e per altro verso limitò, la responsabilità penale a tutte le persone giuridiche, escludendo espressamente dal novero dei possibili soggetti responsabili le collectivités publiques ed i groupements de collectivités publiques (185). Tale responsabilità, circoscritta ai « casi previsti dalla legge o dal regolamento » (186), presupponeva un reato (187) commesso per conto

sibilità di un controllo penale anche nei confronti di sindacati, di partiti politici e di gruppi in genere a sfondo ideologico, d’altra parte, non è sconosciuta al dibattito penalistico italiano. Già in occasione della prolusione tenuta nella R. Università di Roma il 16 dicembre 1919, A. DE MARSICO (La difesa sociale contro le nuove forme di delitto collettivo, in Studi di diritto penale, Napoli, 1930, p. 94) reclamava la punizione dei gruppi ed in particolare delle organizzazioni di classe, « che pervadono e scuotono gli istituti statuali ». Come nota il BRICOLA (Il costo, cit., p. 958), « l’ardore di queste prospettive finì poi, ovviamente, per stemperarsi allorché, nella cornice del nuovo ordinamento autoritario, l’attività dei sindacati, e cioè dei gruppi che si volevano realmente colpire, venne ad essere altrimenti soffocata ». Lo stesso Autore (F. BRICOLA, Il problema della responsabilità penale della società commerciale nel diritto italiano, in La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 240), rileva inoltre che, rispetto all’introduzione di una responsabilità penale degli enti collettivi, ha operato in senso frenante proprio il timore che questa potesse slittare dal terreno della criminalità economica a quello più strettamente ideologico. (181) Una parte della dottrina riteneva invece auspicabile la sottoposizione alla disciplina di cui agli artt. 37 ss. anche degli enti pubblici svolgenti attività industriale e commerciale (cfr. G. VENANDET, op. cit., p. 742). (182) G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 222; M. DELMAS-MARTY, La responsabilité pénale, cit., p. 47 s. Nel senso che il richiamo all’interesse collettivo rappresenta un mezzo per assicurare, nei confronti dell’ente, il rispetto del principio di personalità delle pene, cfr. G. VENANDET, op. cit., p. 750. Si noti che il testo iniziale del Progetto richiedeva invece che il delitto fosse commesso « dans l’interêt de l’ensemble des membres du groupement ». (183) M. DELMAS-MARTY, op. ult. cit., p. 48 s. Per una più dettagliata analisi delle delicate questioni interpretative poste dall’art. 38 del Progetto preliminare, si rinvia a G. VENANDET, op. cit., p. 739 ss. (184) G. LEVASSEUR/B. BOULOC, op. cit., p. 221. L’esclusione delle contravvenzioni veniva spiegata con il fatto che una semplice contravvenzione non avrebbe giustificato la messa in moto di una procedura così complessa (G. VENANDET, op. cit., p. 744). (185) L’art. 30 del Progetto del 1983 prevedeva invece (art. 30) genericamente la responsabilità penale delle personnes morales senza fare esplicita menzione degli enti pubblici. (186) In base a tale previsione, la scelta della punizione delle persone giuridiche è in pratica rimessa al legislatore (o al potere regolamentare) al momento della tipizzazione delle singole fattispecie. (187) Non più, dunque, soltanto delitti, ma anche crimini e contravvenzioni.


— 223 — della personne morale (188) da parte di suoi organi o rappresentanti (189). Fu inoltre puntualizzato che essa non escludeva una responsabilità penale delle persone fisiche per i medesimi fatti (art. 121-2, comma 2). 5.4. Il testo di questa disposizione è stato poi trasfuso nell’art. 121-2 del nuovo Codice penale, il cui comma 1 recita testualmente: « le persone giuridiche, ad eccezione dello Stato, sono penalmente responsabili, secondo le distinzioni degli artt. da 121-4 a 121-7 e nei casi previsti dalla legge o dal regolamento, dei reati commessi, per loro conto, dai propri organi o rappresentanti ». Si è dunque optato per il riconoscimento di una « capacità penale » a tutte le persone giuridiche, comprese quelle di diritto pubblico, con l’unica eccezione dello Stato (190). Rispetto agli enti pubblici territoriali ed ai loro consorzi (groupements), tuttavia, si è ritenuto opportuno limitare la responsabilità alle sole « infrazioni commesse nell’esercizio di attività suscettibili di formare oggetto di convenzioni di delega di servizio pubblico » (art. 121-2, comma 2) (191). Quest’ultima previsione suscita in dottrina qualche perplessità. Essa — si rileva — non sembra corrispondere pienamente all’intenzione del legislatore di attrarre nell’orbita del diritto penale gli enti territoriali allorché si comportano come soggetti privati, e cioè nell’esercizio di attività private, poiché queste non sono suscettibili di formare oggetto di una convenzione di delega di « servizio pubblico », mancando, per definizione, un servizio pubblico (192). Malgrado ciò, e nonostante qualche scrupolo legato al principio di « stretta interpretazione » della legge penale, si tende ad ammettere che « se un servizio pubblico può

(188) Tale criterio d’imputazione sostituì quello dell’interesse collettivo, che, come si è visto, aveva suscitato in dottrina non poche perplessità. Fu eliminato anche il riferimento alla « volontà deliberata degli organi », che impediva l’imputazione all’ente degli illeciti colposi. (189) Stante il rinvio alle distinzioni di cui agli artt. da 121-4 a 121-7, la persona giuridica poteva rispondere sia come autore, sia come istigatore, sia come complice. Si noti che nel Progetto del 1983 i rappresentanti non erano menzionati come possibili autori dell’Anknüpfungstat. (190) È stata invece confermata la scelta di subordinare la responsabilità degli enti ad un’espressa previsione da parte della norma incriminatrice. Sui motivi d’ordine politico-criminale che starebbero alla base di tale scelta v. P. CONTE, Il riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche nella legislazione francese, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 94. (191) Sulla delimitazione della sfera dei soggetti responsabili, emersero gravi contrasti tra i due rami del Parlamento. L’Assemblea nazionale approvò la scelta, operata nel Progetto governativo, di escludere lo Stato e le collectivités publiques. Il Senato, invece, in prima e in seconda lettura, estese il « beneficio » dell’irresponsabilità penale anche ai partiti e gruppi politici, ai sindacati di professionisti ed alle organizzazioni rappresentative dei lavoratori (mentre le associazioni a scopo non lucrativo, escluse dal novero dei soggetti responsabili nel testo votato in prima lettura, vi furono ricomprese in quello votato in seconda lettura). Nella seduta del 17 maggio 1990, l’Assemblea nazionale ripristinò il testo originario, aggiungendovi un secondo comma concernente i limiti specifici della responsabilità degli enti territoriali. L’atteggiamento di maggiore « indulgenza » assunto dal Senato è stato interpretato come una concessione fatta al partito comunista, che intendeva in questo modo proteggere i movimenti sui quali esercita una forte influenza, e come contropartita di una certa redazione del comma 2 dell’art. 122-2, tendente a limitare le ipotesi di responsabilità penale concorrente dei dirigenti (così J.H. ROBERT, Projet de nouveau Code pénal, cit., p. 2). (192) E. PICARD, La responsabilité pénale des personnes morales de droit public, cit., p. 281.


— 224 — formare oggetto di una delega, un’attività privata è a maggior ragione suscettibile di essere affidata ad un terzo » e che « essa rimane in ogni caso del tutto al di fuori dall’ambito che il legislatore ha inteso escludere » (193). La nozione di servizio pubblico, d’altra parte, sarebbe tutt’altro che definita, abbracciando praticamente tutte le attività pubbliche esercitate da un ente pubblico (194). Occorrerebbe, dunque, fare riferimento all’altra nota caratterizzante individuata nell’art. 122-1, la suscettibilità di delega per convenzione, che a sua volta dipenderebbe dalla non esplicazione, tramite il servizio, di potestà pubbliche (195). In dottrina, peraltro, si è da qualcuno contestata in radice l’opportunità della scelta di estendere la responsabilità penale anche agli enti pubblici: tale responsabilità contrasterebbe con taluni fondamentali principi (quelli di necessità e di continuità del servizio (196)) e potrebbe sortire effetti paradossali, giacché il peso della condanna penale finirebbe col gravare sulle stesse persone offese dal reato: « in effetti, se il servizio ha mal funzionato al punto da causare turbamenti penalmente riprovevoli, i terzi, gli utenti o gli agenti sono già vittime di questi attentati all’ambiente, alla loro salute o alla loro integrità fisica, alle loro condizioni di lavoro..., di modo che al danno che è già stato loro causato dal funzionamento difettoso del servizio, la repressione penale dell’ente va ad aggiungere un altro danno: quello che sarà inflitto agli agenti da una diminuzione dei mezzi del servizio e più ancora agli utenti da un’interruzione di questo servizio, o da un aumento diretto o indiretto del costo del suo funzionamento » (197). Le preoccupazioni di stampa garantistico e i motivi di opportunità, che in un primo tempo avevano indotto a non estendere il « controllo penale » a partiti politici, sindacati ed enti pubblici, comunque, ben lungi dall’essere del tutto obliterati, hanno portato ad escludere nei loro confronti l’applicazione di due delle sanzioni più gravose e provviste di maggiore « forza di penetrazione », quali lo scioglimento e la sottoposizione a sorveglianza giudiziaria (art. 131-39 ult. comma) (198). Alla luce della disciplina introdotta dal nuovo Codice, si ripropone, poi, la questione del trattamento da riservare ai gruppi di società (199). Le alternative astrattamente ipotizzabili sono tre: responsabilità penale del gruppo nella sua interezza, responsabilità della societàmadre, responsabilità solidale della società-madre e della società-figlia cui è direttamente ascrivibile l’illecito. La prima alternativa è da scartare poiché, anche a prescindere dal fatto (pur decisivo) che il gruppo come tale è sprovvisto di personalità giuridica, la sanzione pe-

(193) E. PICARD, op. e loc. ult. cit. (194) Così E. PICARD, op. e loc. ult. cit. (195) Cfr. E. PICARD, op. cit., p. 283. Detto altrimenti: sono delegabili soltanto quei pubblici servizi che non comportano la messa in atto di potestà pubbliche. Ci sembra che, attraverso il richiamo al requisito della delegabilità in via convenzionale, si pervenga all’individuazione di una sfera di attività sostanzialmente coincidente con la nozione di pubblico servizio di cui all’art. 358, comma 2, c.p. italiano. Per un’attenta analisi della figura dell’incaricato di pubblico servizio dopo le modifiche introdotte con la l. 26 aprile 1990, n. 86, cfr., per tutti, S. SEMINARA, in A. CRESPI/F. STELLA/G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1992, sub art. 358, p. 799 s. (196) A. PICARD, op. cit., p. 271. (197) A. PICARD, op. cit., p. 272. (198) Se rispetto ai gruppi a sfondo ideologico sanzioni siffatte appaiono vivamente sconsigliabili, nei confronti degli enti pubblici esse sono addirittura inimmaginabili. Sul punto cfr. anche R. GUERRINI, op. cit., p. 695. (199) Sulla nozione di « gruppo » cfr. da ultimo, nella dottrina italiana, L. FOFFANI, Le aggregazioni societarie di fronte al diritto penale: appunti sulle nozioni di ‘partecipazione rilevante’, ‘collegamento’, ‘controllo’ e ‘gruppo’, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 147 ss.


— 225 — nale colpirebbe tutte indistintamente le società collegate, anche quelle rimaste estranee alla commissione dell’illecito, ed inoltre, come è agevole prevedere, essa avrebbe estensione e intensità tali da farla apparire assolutamente antieconomica (200); la seconda sembra preferibile in relazione a quei gruppi nei quali il potere di controllo e di direzione della società madre, in vista del perseguimento dell’interesse globale, risulta particolarmente accentuato (201); alla terza, infine, si potrebbe fare ricorso allorché i vincoli tra società-madre e società-figlie appaiano meno « stringenti » (e in tal caso la società-figlia dovrebbe rispondere come « autore » dell’illecito e la società-madre a titolo di istigazione) (202). Occorre dire, comunque, che l’utilizzo di forme di responsabilità solidale in ambito penalistico lascia perplessi. Il criterio della solidarietà, infatti, se forse può apparire utilizzabile rispetto a meccanismi sanzionatori di tipo amministrativo (203), risulta difficilmente armonizzabile con i principi che governano il diritto penale (in primis con il principio-cardine di personalità della responsabilità (204), che, com’è ovvio, non può non valere anche nei confronti degli enti collettivi). Quanto ai crimini e ai delitti rispetto ai quali può entrare in azione la responsabilità penale delle persone giuridiche, all’interno del Codice penale basti ricordare, a titolo esemplificativo, nel libro II: l’omicidio e gli atti di violenza involontari, il traffico di stupefacenti, la causazione ad altri di un rischio di morte, il riciclaggio, la sperimentazione sulla persona umana, gli atti di discriminazione; nel libro III: il furto, l’estorsione, la truffa, l’appropriazione indebita, l’insolvenza fraudolenta, la ricettazione, gli attentati ai sistemi informatici; nel libro IV: lo spionaggio, taluni attentati alla difesa nazionale, gli atti di terrorismo, la corruzione attiva, il millantato credito ed i reati di falso. Il decreto n. 93-726 del 29 marzo 1993 ha poi previsto un numero assai elevato di contravvenzioni ad esse direttamente ascrivibili, quali ad esempio gli attentati involontari all’integrità della persona, il danneggiamento lieve e la diffusione di messaggi contrari alla decenza (205).

(200) Come pone in evidenza M. PARIENTE (Les groupes de sociétés et la responsabilité pénale des personnes morales, in Rev. soc., 1993, p. 253), « une fermeture de tous les établissements ou une dissolution globale etraînerait de tels problèmes financiers, sociaux et autres qu’on ne peut l’envisager sérieusement ». (201) M. PARIENTE, op. cit., p. 253. (202) M. PARIENTE, op. cit., p. 254. (203) Osserva A. TRAVI (in C. E. PALIERO/A. TRAVI, La sanzione amministrativa, Milano, 1980, p. 62 s.), con riferimento al modello di sanzione amministrativa pecuniaria delineato nella l. 7 gennaio 1929, n. 4, come il principio di solidarietà, ben lungi dal contraddire il carattere sanzionatorio della « pena pecuniaria », sia sintomo del rilievo assorbente « riconosciuto ai profili oggettivi della violazione che attengono agli effetti materiali del fatto ». Per gli enti e per le imprese, il principio di solidarietà per il pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie è stato sancito, a livello di « parte generale » dell’illecito penale-amministrativo, dall’art. 6, comma 3, l. 24 novembre 1981, n. 689. Per un’opportuna sottolineatura della scarsa funzionalità di questo meccanismo sanzionatorio cfr., per tutti, C.E. PALIERO, op. ult. cit., p. 210 s. (204) Cfr., da ultimo, A. BERNARDI, Natura penale e retaggi civilistici della pena pecuniaria, in questa Rivista, 1993, p. 541 s. (205) Come chiaro sintomo della ferma intenzione del legislatore francese di proseguire sul cammino intrapreso va poi interpretata la recente l. n. 93-122 del 29 gennaio 1993, relativa alla prevenzione della corruzione e alla trasparenza dell’attività economica e delle procedure pubbliche, i cui artt. 18 e 25 introducono nuove ipotesi di responsabilità penale delle persone giuridiche.


— 226 — L’unico criterio di collegamento tra il fatto illecito e l’ente è costituito, come si è visto, dall’agire per conto di questo. Ciò porta innanzi tutto ad escludere la sua responsabilità penale rispetto a quei reati posti in essere dall’autore individuale per suo proprio conto e nel suo esclusivo personale interesse (206) o nell’interesse di un terzo o, a fortiori, rispetto a quelli che contrastano con l’interesse della persona giuridica (207). Al di là di questa ipotesi-limite, a parere di qualcuno, l’espressione potrebbe assumere una colorazione differente a seconda della diversa struttura dell’illecito considerato. In caso di infraction intentionnelle contro il patrimonio (come, ad esempio, la truffa), concorrerebbero all’identificazione del nesso di collegamento sia un parametro di tipo soggettivo (la faute del soggetto agente) sia un parametro di tipo oggettivo (e cioè il profitto conseguito o preso di mira); rispetto ai reati intenzionali contro la persona (come, ad esempio, la discrimination, in ordine alla quale « la nozione di profitto, anche morale, sembra poco pertinente ») prevarrebbe un approccio soggettivo, nel senso che nella valutazione assumerebbe un peso determinante l’intention criminelle del soggetto agente; in materia di reati non intenzionali, infine, s’imporrebbe un approccio di tipo oggettivo, tutto incentrato sul profitto (208). Il voler far dipendere, in talune ipotesi, l’attribuzione del fatto illecito all’ente in via esclusiva dalla volontà dell’autore di agire per conto dell’ente stesso non convince del tutto; ciò anche a prescindere dalle difficoltà di accertamento di una tale intenzione. Sembra pertanto preferibile rimanere comunque agganciati a parametri di tipo obiettivo, quali la concreta attitudine del reato a procurare un vantaggio (perlomeno mediato) alla personne morale (209) oppure l’aderenza del reato all’oggetto sociale o alla politica d’impresa. Certo, un’interpretazione « oggettivizzante » di questo tipo rischia di attenuare l’efficacia del controllo penale sulla Verbandskriminalität. Ma a questo punto il problema riguarda piuttosto la (mancata) tipizzazione legislativa di altri criteri di ascrizione: in primis di quello rappresentato dalla riconducibilità dell’illecito al mancato funzionamento dei meccanismi di controllo interno oppure, in genere, ad una difettosa organizzazione aziendale. Può essere autore del reato sia l’organo (210) sia il rappresentante. Si ripropongono, a tal riguardo, una serie di interessanti questioni già da tempo all’ordine del giorno nel dibattito penalistico. Innanzi tutto: rileveranno anche le azioni poste in essere da organi o rappresentanti al di là dei limiti delle rispettive competenze? Come noto, la dottrina meno recente, sulla scorta del c.d. principio di specialità delle persone giuridiche, dava per lo più una risposta negativa a tale quesito (211). Si è però osservato che in questo modo si finirebbe col

(206) Si vedano, sul punto, F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 415; M. DELMAS-MARTY, Les conditions, cit., p. 302; R. GUERRINI, op. cit., p. 695. (207) Cfr. J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 558; ID., Il nuovo codice, cit., p. 17. (208) M. DELMAS-MARTY, op. cit., p. 303. (209) Come nota J. PRADEL (Droit pénal général, cit., p. 559), agire per conto della persona giuridica è agire a suo profitto, nel suo interesse: può trattarsi di un beneficio materiale o morale, attuale o eventuale, diretto o indiretto. (210) Questa « legittimazione ad agire » spetta ovviamente a tutti gli organi, anche se non v’è dubbio che, come rileva A. COEURET (La responsabilité en droit pénal du travail: continuité et rupture, in Rev. sc. crim., 1992, p. 489 s.), negli enti collettivi che presentano una struttura particolarmente complessa, come le società di capitali, taluni organi (quelli di amministrazione) sono fisiologicamente più esposti rispetto ad altri (quelli di controllo) al « rischio » di commettere illeciti. (211) Cfr. J. PRADEL, Le projet de loi, cit., p. 36.


— 227 — creare larghe ed ingiustificate zone d’irresponsabilità (212), lasciando immuni da pena proprio i reati più gravi, di regola perpetrati « dietro lo schermo » di una personne morale creata a tutt’altri fini (213). Si tende poi correttamente ad ammettere la rilevanza, ai fini di una possibile imputazione all’ente, anche degli illeciti posti in essere dai dirigenti di fatto e questo per non concedergli una fin troppo comoda scappatoia — la nomina come organi di semplici prestanome — attraverso cui evitare il rischio della responsabilità penale (214). Anche ai sensi della disciplina delineata nel nuovo Codice, la responsabilità penale delle persone giuridiche non esclude quella delle persone fisiche autrici o complici dei medesimi fatti (art. 121-2, comma 3). La previsione di una responsabilità concorrente, che non ha mancato di suscitare critiche nel corso dei lavori parlamentari, secondo qualcuno rischia tuttavia di rimanere ‘‘sulla carta’’. Il timore è che gli organi giudicanti possano concentrare la loro attenzione esclusivamente sulla persona giuridica, omettendo di accertare la responsabilità dei suoi dirigenti: « in tal modo la delinquenza economica assumerà un aspetto molto particolare in quanto apparirà come un tipo di criminalità ‘‘disincarnata’’ » (215). La responsabilità della persona fisica non solo non è esclusa dalla responsabilità della persona giuridica, ma di questa rappresenta un presupposto indispensabile, sicché l’ente non avrà da rispondere penalmente del fatto commesso da un suo organo o rappresentante in stato di costrizione (216). All’interno del capo I, titolo III, del libro I, un’intera sezione (la II) è dedicata alle pene applicabili alle persone giuridiche, rispetto alle quali, peraltro, non opera la distinzione tra pene criminali e pene correzionali (entrambe previste, cumulativamente, nella sottosezione I); ragion per cui, per determinare la natura del reato, occorrerà fare riferimento alla pena prevista, per lo stesso reato, a carico della persona fisica (217). Le pene contravvenzionali, che restano distinte, sono invece enumerate in un’apposita sottosezione (la II). Pene criminali o correzionali sono (art. 131-37) l’ammenda — il cui limite massimo è elevato al quintuplo di quello previsto, dalle singole norme incriminatrici, per le persone fisiche — e, nei casi previsti dalla legge, le pene enumerate nell’art. 131-39 (218), cioè: lo scioglimento; l’interdizione dall’esercizio di una o più attività professionali o sociali; la sottoposizione (per una durata non inferiore a cinque anni) a sorveglianza giudiziaria; la chiusura, definitiva o temporanea (per una durata non inferiore a cinque anni) degli stabilimenti o di uno o più stabilimenti dell’impresa utilizzati per commettere il reato; l’esclusione, definitiva o temporanea (per una durata non inferiore a cinque anni), dai pubblici mercati; l’interdi-

(212) R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 783 s. Sul punto v. pure F. BRICOLA, Il costo, cit., p. 976. (213) R. MERLE/A. VITU, op. e loc. ult. cit.; M. DELMAS-MARTY, Droit pénal des affaires, cit., p. 120. (214) Cfr. M. DELMAS-MARTY, Les conditions, cit., p. 305. Contra R. MERLE/A. VITU, op. cit., p. 782 s.; J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 557; ID., Il nuovo codice, cit., p. 16. (215) P. CONTE, Il riconoscimento, cit., p. 96 s. (216) Cfr. J. PRADEL, Droit pénal général, cit., p. 557. (217) F. DESPORTES/F. LE GUNEHEC, Présentation, cit., p. 418. (218) Mentre, dunque, l’ammenda potrebbe essere irrogata dal giudice in virtù di questa disposizione di carattere generale, l’applicazione delle altre pene presuppone una specifica previsione all’interno della norma incriminatrice. Ciononostante, gli autori del nuovo Codice hanno avuto cura di prevedere l’ammenda, caso per caso, nelle singole disposizioni di parte speciale.


— 228 — zione, definitiva o temporanea (per una durata non inferiore a cinque anni) di fare ricorso al pubblico risparmio; l’interdizione temporanea (per una durata non inferiore a cinque anni) di emettere assegni o di utilizzare carte di credito; la confisca della cosa che servì o fu destinata a commettere il reato o di quella che ne costituisce il prodotto; l’affissione della decisione pronunciata o la diffusione di essa tramite la stampa o con ogni mezzo di comunicazione audiovisiva. Le pene contravvenzionali applicabili alle persone giuridiche sono (art. 131-40) l’ammenda — il cui limite massimo, anche in tale ipotesi, è quintuplicato rispetto a quello previsto per le persone fisiche (art. 131-41) — e le pene privative o restrittive di diritti previste all’art. 131-42, comma 2 (l’interdizione — per una durata non inferiore ad un anno — di emettere assegni o di utilizzare carte di credito e la confisca) (219). Il legislatore francese ha ritenuto dunque di poter fronteggiare la « criminalità societaria » facendo ricorso a sanzioni di tipo patrimoniale (ammenda e confisca), a sanzioni interdittive, ad una sanzione avente una spiccata finalità specialpreventiva (sottoposizione a sorveglianza giudiziaria) ed a quella che rappresenta la « pena capitale » per gli enti collettivi (lo scioglimento), la quale è applicabile ai reati più gravi ed unicamente a condizione che la persona giuridica sia stata creata o (trattandosi di crimine o delitto punito, rispetto alle persone fisiche, con pena detentiva superiore a cinque anni, anche) sviata dal suo oggetto per commettere l’illecito (art. 131-39 n. 1). Certo, nel delineare questa ampia ed articolata gamma di meccanismi sanzionatori, il legislatore francese potrebbe aver peccato per eccesso di « interventismo ». In effetti — come è stato puntualmente osservato (220) — alcune pene (ad esempio l’interdizione di emettere assegni o di utilizzare carte di credito) « sembrano risentire di una schematica simmetria rispetto alla corrispodente sanzione relativa alle persone fisiche, o comunque rimangono sospette di dubbia opportunità a livello di strategia sanzionatoria ». Molto dipenderà, comunque, da come in concreto gli organi giudicanti riusciranno a contemperare — ammesso che lo possano — i vari interessi in gioco (interessi economici ad una gestione dell’impresa il più possibile svincolata da controlli autoritativi, ed alla sua stessa sopravvivenza; interesse dei dipendenti al mantenimento del posto di lavoro, ecc.). Quanto alla procedura applicabile ai reati commessi dalle persone giuridiche, la relativa disciplina è tratteggiata in un intero titolo (il XVIII: artt. da 706-41 a 706-46), interpolato nel Codice di procedura penale dalla loi d’adaptation. Salva l’applicazione di regole particolari, sono competenti il procuratore della Repubblica e il giudice del luogo in cui è stato commesso il reato oppure quelli del luogo in cui si trova la sede della persona giuridica (art. 706-42). L’azione penale è esercitata nei confronti della personne morale in persona del suo legale rappresentante all’epoca dell’apertura del procedimento. L’ente può inoltre farsi rappresentare da ogni persona che, in conformità alla legge o allo statuto, sia stata delegata a tal fine (art. 706-43, comma 2); nel caso in cui il legale rappresentante sia sottoposto a procedimento penale per i medesimi fatti o per fatti connessi, oppure in assenza di soggetti abilitati alla rappresentanza alle condizioni previste, il presidente della Corte d’appello provvede

(219) Ai sensi del comma 1 dello stesso art. 131-42, tali pene possono applicarsi in sostituzione dell’ammenda a tutte le contravvenzioni della 5a classe. È poi sancito dall’art. 131-43 che il regolamento che reprime una contravvezione può prevedere nei confronti delle persone giuridiche le pene complementari della confisca e (per le contravvenzioni della 5a classe) dell’interdizione (per una durata non inferiore a tre anni) di emettere assegni. (220) Da R. GUERRINI, op. cit., p. 698 s., cui si rinvia per alcune interessanti osservazioni critiche sul punto.


— 229 — (nell’ultima ipotesi su richiesta del pubblico ministero, del giudice istruttore o della parte civile) alla nomina di un mandataire de justice che lo rappresenti (art. 706-43, ult. comma, c.p.p.) (221). Sono poi previste una serie di « misure di controllo giudiziario » (sottoposizione all’obbligo di deposito di una cauzione, di costituzione di garanzie, reali o personali, in favore della vittima del reato e talune misure di tipo interdittivo) di competenza del giudice istruttore, la cui violazione comporterà l’applicazione alle persone giuridiche delle pene complementari enumerate nell’art. 434-47 c.p. (espressamente richiamato dall’art. 706-45, ult. comma, c.p.p.). È prevista inoltre la creazione di un casellario giudiziale automatizzato, nel quale vengono iscritte le condanne pronunciate nei confronti delle personnes morales (art. 768-1 c.p.p., introdotto dall’art. 115 della loi d’adaptation). La nuova disciplina è ora attesa alla prova dei fatti. Il felice esito della sua attuazione potrebbe forse avere un effetto trainante in vista di analoghe (se non proprio identiche) riforme nell’ordinamento italiano. Ma su ciò è bene essere cauti: in Francia tale decisivo passo è stato reso possibile probabilmente anche perché la cultura giuridica di questo Paese non è così fortemente impregnata degli scrupoli dogmatici e delle preoccupazioni d’ordine costituzionale che invece hanno sempre condizionato la rimeditazione della tematica da parte della dottrina italiana e di quella tedesca. GIULIO DE SIMONE Dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università di Parma

(221) In base al successivo art. 706-44, al rappresentante della persona giuridica sottoposta a procedimento penale non può applicarsi alcuna misura di coercizione oltre quella prevista per il testimone.


COMMENTI E DIBATTITI

FATTO E VERITÀ NELL’IDEOLOGIA DELLA RIFORMA E DELLA CONTRORIFORMA DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE (LE RAGIONI DEI PRATICI)

SOMMARIO: 1. Gli auspici. — 2. Le ragioni dei pratici. — 3. La nozione del ‘‘fatto’’ nell’ideologia dei costituenti e nel codice in vigore. — 4. Conoscenza del ‘‘fatto’’ e ‘‘prova’’ nel codice di procedura penale. — 5. La ‘‘verità processuale’’ nella giurisprudenza della Corte Costituzionale . — 6. ‘‘Fatto’’ e ‘‘verità’’ nella giurisprudenza di legittimità . — 7. ‘‘Fatto’’ e ‘‘verità’’ nelle convenzioni internazionali e nelle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

1. Gli auspici. — Pur non negano che, come per il passato, scopo del processo penale, sia ancora (come peraltro riconosce, anche se incidentalmente, la stessa L. delega 16 febbraio 1987, n. 81, all’art. 2, dir. 73) quello di giungere « all’accertamento della ‘‘verità’’ » (1), il legislatore del 1988, nel fervore di uno slancio innovativo inteso a realizzare, anche nel nostro Paese, « i caratteri del sistema accusatorio » secondo principi e criteri ispirati ai modelli culturali della common law, non solo giudicava « iperbolica » l’affermazione del previgente art. 299, per cui compito precipuo del giudice istruttore era quello di compiere « tutti » e « solo » quegli atti che apparissero « necessari all’accertamento della ‘‘verità’’ » e ormai superate le ideologie a quest’ultima espressione sottese, ma neppure aveva esitato ad allungare quel « salto di civiltà », attuato con la riforma del processo (2) proponendo agl’interpreti un nuovo significato di ‘‘verità processuale’’, più aderente — secondo le intenzioni — anche ai presupposti gnoseologici del nuovo strumento che, finalmente depurato da « ogni atto ed ogni attività non essenziali », riusciva altresì a « coniugare efficienza e garanzie » (3). Nella seduta della commissione parlamentare del 4 febbraio 1987, infatti, l’on. Carlo Russo, citando K. Popper (4), non esitava a rilevare come, essendo ormai ampiamente am-

(1) Cfr. Relazione al progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura penale, p. 60. (2) Cfr. GATTI, Il difensore nel nuovo processo penale, ne « I soggetti nel nuovo codice di procedura penale » incontro di studi sul tema a cura del C.S.M. pubblicato sui Quaderni del C.S.M., 1989, pp. 2-3. (3) Cfr. ancora Relazione etc., cit., p. 163. (4) POPPER, Logik der Forschung, Wien 1934, tr. it. come Logica della scoperta scientifica, Torino 1970, pp. 302 e ss. Vi è da dire, però, che nelle opere della maturità (cfr. ad es. Congetture e confutazioni, edita nel 1962, tr. it., Bologna 1976 e Conoscenza oggettiva, edita nel 1972, tr. it., Roma 1975), Karl POPPER doveva abbandonare le iniziali riserve epistemiche sulla possibilità di raggiungere, partendo dalla somma finita dei casi particolari, conclusioni universali e necessarie. Non esitava, poi, nella revisione critica del proprio pen-


— 231 — messo tra i pensatori del nostro tempo che la ‘‘verità’’ sia un valore in sé irraggiungibile ed inconoscibile, sarebbe stato realisticamente inutile rimettere proprio al giudice il compito di accertarla « nel » e « col » processo. In effetti, adottando una concezione « debole » e « relativistica » di verità il legislatore nella l. delega esplicitava un significato più accettabile e meno roboante di tale espressione, ancorandola agli schemi della « probabilità » e della « variabilità » in riferimento ai caratteri ed al contesto della verifica e facendo chiaramente intendere che il risultato di ogni pretesa affermazione di ‘‘verità processuale’’ sia, in concreto, sempre condizionata dalle regole in base alle quali venga accertata, sia limitata nel suo oggetto e corrisponda, in ogni caso, ai singoli soggetti ed ai diversi momenti del processo (5). La inadeguatezza della tradizionale nozione di ‘‘verità’’ assunta, nella scia degli orientamenti espistemologici allora prevalenti, dai conditores del vecchio codice e generalmente anche oggi proposta, nei termini della c.d. « corrispondenza reale », come adaequatio rei et intellectus o, più modernamente, come « conformità di una data proposizione munita di significato alla realtà dei fatti (naturali) » (6), secondo quanto è stato lucidamente spiegato, si evidenzierebbe, in particolare, già con l’incertezza della stessa nozione di ‘‘fatto’’ in essa assiologicamente assunto. Sostiene, ad es. l’Ubertis che, essendo ormai assodato nell’ambito della attuale cultura filosofico-scientifica, che qualsiasi risultato di un’indagine « fattuale » dipende necessariamente dal contesto in cui questa si svolge, dal metodo seguito e dalle finalità che la ricerca si prefigge, sarebbe anche da escludere che il ‘‘fatto’’ possa rivelarsi come pura e semplice « datità » oggettiva (7). Di conseguenza, sul piano giudiziario, sarebbe del tutto illusorio tendere ad una conoscenza obbiettiva e neutrale del ‘‘fatto’’, ossia tentare di scire per causas i « comportamenti umani » cui fa cenno l’art. 187 c.p.p., per di più, in quanto flashbacks di una vicenda storica irripetibile, in sé sempre unici e infungibili (8). Gli « enunciati fattuali » che stanno alla base della « imputazione » formulata dal p.m. all’atto

siero, a riaccostarsi, dapprima alla tradizionale e prevalente concezione della ‘‘verità oggettiva’’ o ‘‘naturale’’ come « corrispondenza ai fatti » (v. in seguito nel testo) e, quindi, ad ammettere l’esistenza di una ‘‘verità assoluta’’, la quale costituisce la meta (sia pure come ideale regolativo in senso kantiano) del cammino della scienza. V. in proposito BUZZONI, in AA.VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, II ed., Milano, 1993, pp. 880-881. (5) In proposito: NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, p. 115; UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. UBERTIS, Milano 1992, pp. 3, 12 e 38; IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo riformato della Corte Costituzionale, in Cass. pen., 1992, p. 2029 e, in generale, sulla relatività del concetto di « verità »: GEYMONAT, Lineamenti di filosofia della scienza, Milano 1985, pp. 103 e ss. (6) A proposito della concezione di « verità » come ‘‘corrispondenza ai fatti’’ o come ‘‘conformità di una proposizione alla realtà’’ e sulla sua importanza e diffusione nella cultura occidentale, cfr. in generale: ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Torino 1971, pp. 914-915; CARLINI, voce « Verità », in Enc. Filosofica, II ed., vol. VIII, Roma 1979, pp. 646 e ss.; CALABRÒ, voce « Vero/falso », in Enc. Einaudi, vol. XIV, Torino 1981, p. 1035; LANDUCCI, voce « Verità », in Enc. Garzanti di Filosofia, cit., pp. 1992-1993. In particolare: RUSSELL, Logica e conoscenza, tr. it., Milano 1961, pp. 288 e ss.; TARSKI, Introduzione alla logica e alla metodologia delle scienze deduttive, tr. it., II ed., Milano 1978, passim e The Semantic Conception of Truth, tr. it. come La concezione semantica della verità, Milano 1978, pp. 52 e ss.; FERRAJOLI L., Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari 1989, pp. 41 e ss.; FERRUA, Studi sul processo penale, vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino 1992, pp. 65 e ss. (7) UBERTIS, op. cit., pp. 3-10; GEYMONAT, op. cit., pp. 110 e ss. (8) Ancora l’UBERTIS, op. cit., p. 10.


— 232 — della conclusione delle indagini preliminari o da cui dipende l’applicazione di norme processuali oppure « inerenti alla responsabilità civile derivante da reato », sempre secondo la formula dell’art. 187 cit., non sarebbero né potrebbero essere, quindi, oggetto di prova se non negli stretti limiti dell’« asserto » e mai in sé, a meno di cedere all’illusoria aspirazione, tipicamente inquisitoria, alla c.d. ‘‘verità materiale’’ (9). In tal senso, infatti, l’unica possibile affermazione di ‘‘verità’’ non potrebbe che avere natura puramente « semantica », involgendo non già il ‘‘fatto’’ che, in sé non può mai essere né vero, né falso, bensì solo l’enunciato che lo riguarda, cioè l’affermazione della esistenza o no del comportamento umano, ad es. presupposto nella « imputazione » (10). Da questa prospettazione ne è derivato (o, meglio avrebbe dovuto conseguirne) un vero e proprio rovesciamento delle concezioni tradizionali, incidente non solo e non tanto sulla mentalità degli operatori della giustizia, ma più propriamente sulle stesse categorie logiche del processo e, in ispecie, sulla « prova » intesa come « procedimento rivolto alla verifica del ‘‘fatto’’ ed alla comunicazione della ‘‘verità’’ » (11) o, più specificamente, come « procedimento avente funzione di consentire l’accertamento degli enunciati fattuali integranti il thema probandum » (12), mutandone radicalmente ruolo e significato, così come avrebbe dovuto profondamente mutare il compito euristico del giudice, con abbandono di ogni indulgenza inquisitoria. Privilegiando la finalità didascalica dell’azione normativa, il legislatore del 1988 era giunto così a contrapporre alla tradizionale concezione della ‘‘verità materiale’’ o ‘‘corrispondenza ai fatti’’, più o meno consapevolmente ormai radicata nella cultura giuridica del nostro tempo e del nostro Paese, quella di una ‘‘verità pragmatistica’’, più usuale nel contesto della ricerca empirica e significativamente diffusa negli ambienti filosofici d’oltreoceano o, addirittura di una verità c.d. ‘‘performativa’’, pure espressione di un recente indirizzo di pensiero anglosassone, secondo cui una data proposizione è da ritenersi « vera » solo allorché sia suscettibile di « approvazione » a seguito di un procedimento di controllo pubblico e condotto sulla base di regole predeterminate, accettate come tali in un dato contesto spaziotemporale (13). A questa stregua, le conclusioni raggiunte dal giudice nella risoluzione della quaestio facti e, quindi della questio juris, in termini di accertamento della fondatezza della « imputazione » elevata dal p.m., in tanto potranno essere sintomatiche di una sentenza « giusta » (14), a prescindere dal risultato raggiunto, in quanto conseguite « in conformità alle regole ». Il rispetto delle regole nel ruolo epistemico del giudice sostituiva, dunque, quello tradizionale di accertare la « corrispondenza alla realtà » dei fatti evocati nella « imputazione », giustificando ab origine peraltro, a seconda dei casi, del momento processuale e dei soggetti, la prospettazione, anche in riferimento ad una stessa « regiudicanda » e ad una medesima « imputazione », plurime ed anche differenti affermazioni di ‘‘verità’’, tutte però,

(9) UBERTIS, op. cit., pp. 9 e 37. (10) Ancora UBERTIS, op. cit., p. 12. (11) Cfr. GIULIANI, voce « Prova in generale (filosofia del diritto) », in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano 1988, p. 519. (12) UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano 1979, p. 106). (13) Cfr. sulle concezioni alternative a quella della « verità » come ‘‘corrispondenza’’: LANDUCCI, op. cit., pp. 1193-1194; ABBAGNANO, op. cit., pp. 915-918; FERRUA, op. cit., p. 60. (14) In proposito: FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, II ed., Milano 1965, pp. 200 e ss.; FAZZALARI, voce « Sentenza civile », in Enc. Dir., vol. XLI, Milano 1989, p. 1256; FERRUA, op. cit., pp. 51 e ss.).


— 233 — ugualmente valide ed accettabili, in quanto « correttamente » ottenute (15). In quest’ottica, prescelta dal legislatore per escludere, come rileva il Nobili, da un lato, possibili allusioni ad un « qualcosa che si ricerca in assenza di limiti oggettivi » e, dall’altro, qualsiasi indulgenza verso uno scopo di certezza assoluta che, nel processo non può essere mai conseguito, essendo raggiungibile al massimo, come visto, una verità solo « relativa » e « soggettiva » (16), va scorto anche il tentativo di depurare le stesse formule della legge da ogni riferimento alla ‘‘verità’’ dei risultati degli accertamenti giudiziari. In effetti, salvo qualche « svista » (cfr., ad es., gli artt. 146, 198, 226 e 497) è significativo che il c.p.p., tanto nell’art. 187, ove è esplicitato l’« oggetto della prova », quanto nelle disposizioni che, concettualmente, sarebbero identificabili proprio in virtù del riferimento funzionale all’accertamento della ‘‘verità’’, quali, ad es., l’art. 194, 1o comma, sull’« oggetto e limiti della testimonianza » e l’art. 255, che riguarda i sequestri presso istituti bancari o, in genere, nelle disposizioni del III Libro, ove sono prefigurati i « mezzi » con cui la prova deve essere acquisita o ricercata, si guardi bene dal nominare la ‘‘verità’’ come scopo degli accertamenti, né richiede al giudice, ai fini della « deliberazione » della sentenza, altro che di « utilizzare » le prove, addotte in giudizio dalle parti, o eccezionalmente da lui ammesse ex officio, in funzione suppletiva dell’attività delle parti stesse, al solo scopo di « integrare » le loro deduzioni (17), anche se sarebbe stato più onesto ammettere che tale compito a null’altro tende se non all’accertamento della ‘‘verità’’. Un’impostazione concettuale siffatta era destinata inevitabilmente a scontrarsi non solo con alcuni dogmi tradizionali della nostra cultura giuridica, ma altresì con principi ormai radicati nella prassi, quali ad esempio, quelli di « coerenza » delle decisioni e di « univocità » del giudicato. Il nuovo codice di rito, infatti, non solo escludendo in radice ogni possibilità di raggiungere, nel e col processo, qualsiasi certezza e negando, in assoluto, ogni validità alla ricerca della ‘‘verità materiale’’, dimostrava pure di accontentarsi di giudizi di fatto necessariamente solo « probabilistici » e/o « provvisori », dando anche per scontato che le sentenze e le decisioni giudiziali avrebbero potuto essere, ancorché attinenti ad un’identica « regiudicanda », tra loro diverse e pure contrastanti, restando tuttavia « vere » e « valide » in quanto conseguite in un contesto dialogico e nel rispetto di tutte le regole del processo (accusatorio) (18). E sarebbe stata sufficiente per tollerare l’eventuale disparità sostanziale dei dicta nei confronti di coimputati coinvolti in uno stesso episodio criminoso, la circostanza che costoro venissero sottoposti alla stessa tipologia processuale in tempi diversi, oppure che la decisione venisse emessa, per taluno, in sede di indagini preliminari e, per altri, a seguito di dibattimento, ovvero nell’esperimento dei c.d. « procedimenti differenziati » (19).

(15) V. esplicitamente e in senso critico: Cass. S.U. 21 novembre 1992, n. 11227, in Cass. Pen., 1992, 280 e Corte Cost. 26 settembre 1993, n. 111. (16) NOBILI, op. cit., p. 115. Sulla nozione di ‘‘certezza’’, cfr. ABBAGNANO, op. cit., pp. 123-125; CARAMELLA, voce « Certezza », in Enc. Filosofica, cit., vol. II, p. 191; SCHOUN, L’uomo e la certezza, Torino 1967, passim; GIANFORMAGGIO, Certezza del diritto, coerenza e consenso. Variazioni su un tema di McCormick, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Bologna 1988, pp. 459 e ss. (17) Cfr. MANZIONE, Commento all’art. 507 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale a cura di M. CHIAVARIO, vol. V, Torino 1991, p. 390; IACOVIELLO, Processo di parti e poteri probatori del giudice, in Cass. pen., 1993, 286-287). (18) V. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, V, 366. (19) Così, ancora in senso critico: Cass. S.U. 21 novembre 1992, n. 11227 e Corte


— 234 — Comprensibili ed inevitabili riserve avanzate, non solo da chi avesse avuto o potesse avere la ventura di subire trattamenti di tal genere, ma anche da chi dubitava della effettiva validità degli accertamenti « relativistici », sono state elegantemente relegate nel compendio dei « costi sociali » imposti dalla nuova cultura processuale (20). « Prezzo », questo, che a meno di quattro anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, una società forse non in linea con gli ésploits intellettuali del legislatore, non si è, però, più sentita di continuare a pagare. Da sempre adusa alla « coerenza » ed « uniformità » almeno tendenziale delle decisioni, alla par condicio fra gl’imputati, quanto meno in relazione alla stessa « regiudicanda » e, quindi, poco incline a tollerare disparità di trattamento in nome di astratte ideologie, la « pratica » e la « utenza giudiziaria » hanno reagito vivacemente. Né a favore dell’accettazione della nuova ideologia hanno giocato l’evidente spreco di attività processuale, derivante dalla necessità di reiterare atti anche di identico contenuto probatorio, in conseguenza dell’eccessiva proliferazione dei processi originata dalla ‘‘nuova’’ « connessione » prevista dall’art. 12 c.p.p. o la constatazione della limitata valenza delle acquisizioni probatorie, ancorché faticosamente raggiunte (cfr. ad es. artt. 195, 4o comma, 360, 392, 328, 500 e 503 etc.), oppure la diversità della disciplina in materia di prova a seconda dei riti, con connessa necessità di rinnovare accertamenti e modalità di assunzione a seconda del rito in cui, occasionalmente, potesse sfociare la stessa « regiudicanda ». Né a favorire il « nuovo » ha contribuito la quotidiana constatazione dell’ipocrisia degli enunciati degli artt. 187 e 526, secondo cui « prova » sarebbe stata solo quella formata al dibattimento, sia perché l’acquisizione dibattimentale delle prove si rivelava (come peraltro auspicato dallo stesso legislatore all’atto della introduzione dei c.d. « riti differenziati »), eventualità residuale, sia perché dignità di « prova » idonea a determinare una condanna, non poteva non riconoscersi anche agli elementi raccolti fuori del dibattimento ed utilizzati dal giudice proprio nei c.d. « riti differenziati ». Né era agevole comprendere e, soprattutto, giustificare in termini di economia processuale e di effettiva utilità, perché mai elementi di giudizio faticosamente e correttamente acquisiti nel corso dell’attività di indagine dovessero nascere svirilizzati sol perché non sottoposti o non sottoponibili ab origine, a confronto dialogico. 2. Le ragioni dei pratici. — Si è venuta così coagulando, dopo la ‘‘riforma’’, una spinta ideale verso una ‘‘controriforma’’ del sistema che, da un lato, consentisse di liberarne l’impianto da talune astrusità fini a sé stesse e, dall’altro, fosse pure in grado di ricondurre quello che ormai era apertamente considerato (e non solo dai pratici) « un codice di professori » (21), ad una più spiccata « adeguatezza » concreta e ad una maggiore « economicità » (22), ragguagliandolo alle esigenze di una quotidianità fatta di migliaia di processi spesso non risolubili con il ricorso ai c.d. « procedimenti speciali » e di cronica e diffusa ca-

Cost. 26 settembre 1993, n. 111 citt. V. anche, ma in senso contrario al testo: IACOVIELLO, Prova e accertamento dei fatti, cit., 2029). (20) Cfr. sul punto, per la tesi criticata nel testo: IACOVIELLO, op. ult. cit., 2029-2030; ILLUMINATI, Giudizio, in Profili del nuovo codice di procedura penale a cura di G. CONSO e V. GREVI, III ed., Padova 1993, p. 492). (21) Così esplicitamente: COMOGLIO, Prova e accertamento dei fatti nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1990, 122. (22) V. sul principio di ‘‘adeguatezza’’: FOSCHINI, Sistema etc. cit., vol. II, pp. 8 e ss., 34 e 551 e ss.; sul principio di ‘‘economia processuale’’: COMOGLIO, Il principio di economia processuale, vol. I, Padova 1980, pp. 7 e ss.


— 235 — renza di mezzi e strutture nel confronto con una agguerrita e sempre più estesa delinquenza professionale, abilissima nello sfruttare a fini di impunità il puntiglioso ed, talvolta un po’ farraginoso apparato garantistico. E, in questo senso, un po’ per l’urgenza dei problemi da risolvere e, dopo tanto battage sulla bontà ed efficienza del nuovo strumento, un po’ per la fondata convinzione che non sarebbe stato risolutivo attendere l’attivarsi della procedura di integrazione e correzione prevista dall’art. 7 della l. delega posto che, in ogni caso, era chiaro come « le intenzioni del legislatore non fossero del tutto in linea con la cultura giuridica del nostro tempo » (23), il ricorso alla funzione invalidante, interpretativa o, addirittura, additiva della Corte Costituzionale si è prospettata — e con ragione — scelta obbligata per gli operatori. Orbene, sceverando dalle numerosissime ordinanze di rimessione alla corte (24) quelle che hanno avuto risposta favorevole, emerge innanzi tutto come la diffidenza dei « pratici » si sia indirizzata verso i c.d. « riti differenziati », involgendo l’imparzialità del giudice che si sia già pronunciato, rigettando la correlativa richiesta o, in sede di « indagini preliminari », abbia disposto l’adempimento di ulteriori accertamenti, respingendo la richiesta di archiviazione (25). È stato poi denunciato l’eccesso di garantismo di cui all’art. 70 c.p.p. per cui, dell’infermità mentale dell’imputato, doveva tenersi conto solo quando fosse « sopravvenuta al fatto » ed ostacolasse un valido esercizio dei poteri difensivi (26). Né è passato indenne da critica l’esplicito pregiudizio dei conditores nei confronti di pol.g. e p.m. nell’acquisire e registrare, in termini di neutralità, le « dichiarazioni spontanee » dell’indagato e gli apporti delle persone informate sui fatti, di cui agli artt. 350 u.c., c.p.p. e 2, n. 76 della l. delega 16 febbraio 1987, n. 81 (27). Ma è soprattutto contro il coacervo delle rigide limitazioni in tema di « prova dibattimentale », con precostituzione di rigidi canali di ammissibilità e di rigorose modalità di utilizzazione che, in nome dell’‘‘accertamento della verità’’ e del ‘‘libero convincimento del giudice’’, sono stati mossi gli attacchi più numerosi ed incisivi al nuovo codice. Denunciando, in ispecie, la ‘‘irragionevolezza’’ del sistema, per asserita intercorsa compromissione del principio di uguaglianza a causa della « ingiustificata compressione » dei diritti delle vittime dei reati e della « funzione giurisdizionale penale » nell’accertamento dei ‘‘fatti’’, non compensata né giustificata dall’intento di garantire ‘‘immediatezza’’ ed effettiva ‘‘prevalenza’’ delle acquisizioni dibattimentali sui dati raccolti durante la fase delle « indagini preliminari », nonché la sua ‘‘incoerenza’’, per essere lo stesso sistema, da un lato, fondato sul principio della « obbligatorietà dell’azione penale » e, dall’altro chiaramente ispirato ad un preconcetto disfavore verso p.m. e pol.g. (28), i giudici di merito hanno sottoposto al vaglio della

(23) Così GIARDA, La fine del sistema accusatorio, in Corr. Giur., 1993, 515. (24) Cfr. per una visione d’insieme sulle varie ordinanze di rimessione e sui loro esiti avanti alla Corte Costituzionale: Arc. nuova proc. pen., 1994, 181 e ss. (25) Cfr. Corte Cost. 26 ottobre 1990, n. 496; Corte Cost. 12 novembre 1991, n. 401; Corte Cost. 30 dicembre 1991, n. 502; Corte Cost. 25 marzo 1992, n. 124; Corte Cost. 22 aprile 1992, n. 186; Corte Cost. 26 ottobre 1992, n. 399; Corte Cost. 16 dicembre 1993, n. 439. (26) Cfr. Corte Cost. 20 luglio 1992, n. 340. (27) V. Corte Cost. 12 giugno 1991, n. 259 e Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255. (28) Cfr. in proposito: Corte Cost. 12 giugno 1991, n. 259; Corte Cost. 31 gennaio 1992, n. 24; Corte Cost. 30 marzo 1992, n 142; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 241; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 254; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255; Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111 cit.; Corte Cost. 13 maggio 1993, n. 237. V. in generale sul principio di ‘‘ragionevo-


— 236 — Corte proprio le disposizioni che, pur non facendone espressa menzione, in realtà presuppongono una data nozione di ‘‘fatto’’ e di ‘‘verità’’, quali, ad esempio, gli artt. 62, 195, 4o comma, 234, 350 u.c., 500, 3o e 4o comma, 507, 515 e 519 cpv. E gli effetti del rinvio alla Corte sono stati, a dir poco, come rileva l’Amodio (29) « devastanti », soprattutto per l’intercorso progressivo smantellamento della stessa ideologia dei conditores e la riappropriazione di taluni capisaldi della nostra tradizione giuridica quali, ad esempio, in tema di ‘‘verità processuale’’, i noti schemi della ‘‘corrispondenza ai fatti’’ e, in ordine al ‘‘fatto’’, dei connotati di una oggettiva possibilità di accertamento, verificazione e controllo, esercitabili proprio « nel » e « col » processo. Come è dato, infatti desumere dagli argomenti addotti nelle varie ordinanze di rimessione (30) è, in primo luogo, evidente l’addebito al legislatore di essersi fatto abbacinare — per dirla con le parole del Cordero — da un « vago ed iperfasico estro garantistico », che lo ha indotto, talora, ad escogitare macchinose procedure di scarsa utilità pratica e di difficoltosa applicazione, o perché scoordinate dal sistema o perché, addirittura, avulse dal concreto (31), le quali hanno finito col fuorviare o ostacolare lo scopo intrinseco al processo, che è quello di « accertare la verità dei fatti evocati nell’imputazione ». In tal modo, per quanto asseritamente intese ad evitare che, come per il passato, le acquisizioni investigative finissero con l’avere il sopravvento nelle valutazioni del giudice (32), le accennate preclusioni e limitazioni nel settore della prova sono state intese dai remittenti, sia come ingiustificata compressione del « contraddittorio », non più inteso a « consentire alle parti di interloquire, in condizioni di parità, sui temi destinati a formare oggetto della decisione » (33), sia come attentato al ‘‘libero convincimento del giudice’’. È stata, poi, contestata l’apodittica convinzione di una costante e fisiologica inferiorità dell’inquisito rispetto allo strapotere investigativo ed agl’intenti persecutori dell’accusa (34). In realtà, come si desume dalle stesse

lezza’’: SANDULLI A.M., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Amm. e soc., 1975, 1575 e ss.; ZAGREBELSKY G., voce « Processo Costituzionale », in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano 1987, pp. 644 e ss.; PEGORARO, Lavori preparatori della legge e sindacato di costituzionalità, in Giur. Cost. 1988, 1441 e ss.; KURKDJIAN, Il principio di ragionevolezza come strumento di contropotere nei confronti del legislatore, in Dir. e soc., 1991, 247 e ss. (29) AMODIO, Rovistando tra le macerie della procedura penale, in Cass. pen., 1993, 1778. (30) Cfr. in particolare il pretore di Firenze, il tribunale di Roma e il pretore di Venezia in riferimento a Corte Cost. 31 gennaio 1992, n. 24; il tribunale di Roma a Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 254 e la Corte di assise di Bari in riferimento a Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255. (31) CORDERO, Procedura penale, Milano 1991, p. 407 e Codice di procedura penale commentato, II ed., Torino 1992, pp. 494-495. V. ad es. sulle incongruenze dell’istituto della ‘‘riapertura delle indagini’’, di cui all’art. 414 c.p.p.: CARLI, Preclusione e riapertura delle indagini preliminari nell’art. 414 c.p.p., in Giur. it., 1993, II, 642 e sulle singolarità della c.d. ‘‘segretazione’’ e ‘‘desegretazione’’ di cui all’art. 329, 3o comma, c.p.p. ancora: CARLI, Segreto investigativo ed indagini preliminari, in questa Rivista, 1994. (32) Così esplicitamente: ILLUMINATI, op. ult. cit., loc. cit. (33) Cfr. FERRUA, voce « Difesa (diritto di) », in Dig. disc. pen., vol. III, Torino 1989, p. 469. (34) Cfr. in tal senso il pretore di Firenze in riferimento a Corte Cost. 31 gennaio 1992, n. 24, cit.


— 237 — soluzioni fornite dalla Corte (35), al momento dell’accertamento del crimine ai fini della sua perseguibilità, non sembra potersi ipotizzare né quel conflitto d’interessi che rileva, invece, in sede di applicazione della pena, né una discrezionalità dello Stato, il quale ha sempre l’obbligo di riaffermare l’ordine violato, esercitando, per mezzo del p.m., l’azione penale. Qui, infatti, sicuramente prevale su ogni altro, l’interesse costituzionale alla osservanza delle leggi, alla repressione del crimine ed al conseguimento della « giustizia » (36). Né può sottacersi che non sempre il cittadino indagato o imputato si trova effettivamente in stato di inferiorità rispetto ai poteri investigativi (e coercitivi) dell’accusa. Anzi, talvolta sembra vero proprio il contrario, come implicitamente ammesso dallo stesso legislatore, ad esempio, mercé la disciplina del c.d « segreto investigativo » di cui all’art. 329 c.p.p. È comunemente riconosciuto, invero, che il crimine, per sua natura non solo tende a rimanere occulto e impunito, ma pure a celare il suo autore (37), cosicché gl’inquirenti prima, ed il giudice poi, si rivelano tutt’altro che « signori dei fatti » versando, per lo più, in una perenne situazione di « svantaggio conoscitivo » rispetto all’inquisito, non facilmente colmabile, né emendabile neppure col processo (38). E se a ciò si aggiunge, come si evince dagli artt. 24 cpv. e 27 cpv. Cost., che se la prova della colpevolezza deve essere (rettamente) fornita dall’accusa, a favore dell’inquisito vige la presunzione di « non colpevolezza » che opera, non solo quale regola di trattamento dell’imputato, ma altresì come criterio di giudizio (39), per cui egli gode sia del diritto di tacere, sia del diritto di essere prontamente ed adeguatamente informato dell’accusa mossagli, onde poterla « contraddire », di difendersi « provando », di « autodifendersi » o conferire e godere dell’assistenza di un difensore tecnico, a sua volta munito (oltre che di diritti suoi propri) degli stessi diritti dell’imputato (40), per concludere che egli si trova tutt’altro che inerme di fronte all’esercizio dell’azione penale o delle attività investigative che la precedono. In tal senso, sul presupposto della « neutralità garantita » degli accertamenti del p.m. e del rigoroso regime di inutilizzabilità e di invalidità degi atti difformi dalle regole, si è potuto sostenere ed affermare che, in àmbito probatorio, vige pure principio di « non dispersione della prova », per cui appare del tutto irragionevole un sistema che, da un lato, riconosce l’esistenza di un patrimonio di elementi di valutazione, ancorché formatosi prima del dibattimento e lo considera idoneo a « verificare la genuinità ed il peso delle prove che dal dibattimento si sono generate » e, dall’altro, al fine dell’accertamento dei fatti, lo considera tam-

(35) V. Corte Cost. 26 luglio 1979, n. 84; Corte Cost. 15 febbraio 1991, n. 88 e Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111. (36) V. per l’affermazione al prevalere degli accennati valori sui diritti di libertà personale, di difesa giudiziarie e su altri diritti garantiti: Corte Cost. 19 aprile 1972, n. 63; Corte Cost. 15 luglio 1975, n. 211; Corte Cost. 6 maggio 1976, n. 118; Corte Cost. 27 aprile 1977, n. 64; Corte Cost. 28 gennaio 1981, n. 1; Corte Cost. 17 dicembre 1981, n. 191; Corte Cost. 29 dicembre 1989, n. 588. (37) FOSCHINI, Sistema etc., cit., p. 26. (38) Così ALESSI, voce « Processo penale (diritto intermedio) », in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano 1987, p. 400. (39) V. da ultimo: D’ALESSIO, Commento all’art. 27 Cost., in Commentario Breve alla Costituzione a cura di V. CRISAFULLI e L. PALADIN, Padova 1990, pp. 195-196. (40) Cfr. ancora FERRUA, op. ult. cit., pp. 469-471; BELLAVISTA, voce « Difesa giurisdizionale penale », in Enc. dir., vol. XII, Milano 1964, pp. 454 e ss.; CONSO-BARGIS, Glossario etc., cit., pp. 153-155; DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., pp. 141 e ss.


— 238 — quam non esset, negando in ispecie al giudice di apprezzarne fino in fondo la portata (41). E in nome dell’accennato principio, oltre che di quelli di economia processuale e di pari trattamento delle parti è stato criticato il regime di adduzione della prova di cui agli artt. 516, 517 e 518 c.p.p., sostenendo che anche al p.m. ed alle parti diverse dall’imputato, nell’ipotesi di modifica della imputazione, di un fatto nuovo risultante al dibattimento o di contestazione suppletiva, spetta di richiedere l’ammissione di nuove prove (42), nonché di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare ex art. 513 c.p.p., oppure di un processo connesso o collegato, quando abbia rifiutato di sottoporsi all’esame (43). 3. La nozione del ‘‘fatto’’ nell’ideologia dei costituenti e nel codice in vigore. — Si pone, a questo punto, l’opportunità di accertare se l’ideologia del ‘‘fatto’’ e della ‘‘verità’’ così come assunta dai conditores, abbia davvero qualche addentellato nel sistema oppure, al di là dei compiacimenti formali delle formulae juris, non emerga o non possa emergere qualcosa di diverso. Ebbene, ricavabile dalla locuzione ‘‘fatto commesso’’, proposte nel cpv. dell’art. 25 Cost. in riferimento al principio di c.d. « legalità della pena », le concezioni dei costituenti in tema di ‘‘fatto’’ che rileva per l’ordinamento (penal)processuale, sembra far perno su una visione storica e « materiale » dello stesso, all’evidenza considerato come quel comportamento umano volontario, espresso in un’azione o in una omissione, che sia posto concretamente in essere da uno o più soggetti (44). Né una prospettiva del genere, ancorché sia innegabile il difetto di espressa predisposizione, da parte degli stessi costituenti, di un particolare modello di processo penale o, quanto meno, la loro opzione verso una delle note tipologie di sistema (45), sembra estranea all’ideologia del ‘‘fatto’’ da assumersi in relazione a tutte quelle disposizioni della Costituzione che, direttamente o indirettamente, al processo fanno riferimento, come, ad esempio l’accennato art. 25 cpv., ma anche gli artt. 13, 24, 27, 111 e 112. L’accezione del ‘‘fatto’’ come « accadimento » o « fenomeno giuridico » concreto e, in quanto tale, percettibile, descrivibile e controllabile nella sua oggettività in sede di giudizio pare, invero, una adeguata chiave di lettura per intendere portata e significato di norme siffatte. D’altra parte, una concezione del genere non sembra estranea neppure ai principi di teoria generale che, nel 1947, guidavano i lavori della Costituente, in ispecie, là dove questa suggeriva di enucleare dal concetto di ‘‘fatto’’, inteso in senso ampio e generico, quale acca-

(41) Così la Corte di assise di Bari nell’ordinanza di rimessione che ha dato luogo a Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255. (42) V. Corte Cost. 20 maggio 1992, n. 241. (43) V. Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 254. (44) Cfr. FIANDACA, voce « Fatto nel diritto penale », in Dig. disc. pen., cit., vol. V, Torino 1991, 159; BIN, Commento all’art. 25 Cost., in Commentario breve etc., cit., 181: BRICOLA, Commento all’art. 25, 2o e 3o comma, in Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, Bologna-Roma 1981, pp. 262-263; PARESCE, voce « Interpretazione (filosofia del diritto a teoria generale) », in Enc. dir., vol. XXII, Milano 1972, pp. 205 e ss.; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, XII ed., Milano 1991, p. 147; FIORELLA, voce « Reato in generale », in Enc. dir., vol. XXXVIII, p. 770; MANTOVANI, Diritto penale, Parte Generale, III ed., Padova 1992, p. 50. (45) Cfr. NOBILI, La disciplina costituzionale del processo, vol. I, Bologna 1976, pp. 58 e ss.; LEONE-MENCARELLI, voce « Processo penale (diritto vigente) », in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano 1987, pp. 402-409 e da ultimo: IACOVIELLO, Prova etc., cit., p. 2028.


— 239 — dimento del mondo naturale o della realtà sociale, l’‘‘atto’’ in senso proprio riconducendolo, da un lato alla volontà umana ma, dall’altro, ad una precisa dimensione spazio-temporale in un dato contesto storico assoggettabile a verifica (46). E, in effetti, per quanto si dia ampiamente atto che il termine ‘‘fatto’’ venga ancora usato, sia in dottrina che in sede normativa, con disinvolta frequenza senza che, tuttavia, sullo stesso si sia raggiunta la ben che minima univocità concettuale, tanto da giustificare, in sede di principio, solo individuazioni generalissime e, in qualche misura tautologiche come, ad esempio, l’affermazione che ‘‘fatto giuridico processuale penale’’, è « ogni fatto dotato di effetti processuali penali » (47), il nuovo codice di rito sembra ancorare, invece, al di là delle formule dei conditores e delle stesse intenzioni del legislatore, il concetto di ‘‘fatto’’ alle precise connotazioni ontologiche del fenomeno storico o dell’evento « reale » di rilevanza giuridica, da verificare « nel » e « col » processo (48). Ne consegue, peraltro, che come « evento storico », esso è sì sempre e comunque riconducibile, al processo ed ai suoi schemi logici, « quasi logici », « topici », « valutativi » o « retorici », preordinati dall’ordinamento in vista della tutela di determinati interessi o diritti fondamentali (49) ma, inteso come specimen del mondo reale, presenta pure una connotazione di concreta oggettività e di neutralità rispetto alle intenzioni o dalle convinzioni soggettive di chi nel processo agisce (50). Tutto ciò sembra agevolmente emergere da un sia pur sommaria ricognizione delle formule e dei correlati concettuali espressi altresì dalle varie norme del codice di rito che, esplicitamente o indirettamente, menzionano o presuppongono il ‘‘fatto’’. Dalle disposizioni in tema di ‘‘fatto’’ e ‘‘prova’’, di cui agli artt. 187, 189, 192 cpv., 1o,

(46) Cfr. CAMMARATA, Il significato e la funzione del ‘‘fatto’’ nell’esperienza giuridica, in Ann. Un. Macerata 1929, pp. 393-431 e in Formalismo e sapere giuridico, Milano 1963, pp. 245 e ss.; FALZEA, voce « Fatto giuridico », in Enc. dir., vol. XVI, Milano 1967, pp. 942; TARUFFO, Il giudice e lo storico: considerazioni metodologiche, in Riv. proc. 1967, 438 e ss.; COMOGLIO, Le prove, in Trattato di diritto privato italiano, dir. da P. RESCIGNO, vol. III, Torino, 1985, p. 165 e Prove di accertamento dei fatti etc., cit., 113. (47) PAGLIARO, voce « Fatto (dir. proc. pen.) », in Enc. dir., vol. XVI cit., p. 961; CONSO, voce « Atti processuali penali », ivi, vol. IV, Milano 1959, pp. 141-142. (48) Cfr. per una nozione generale del ‘‘fatto’’ nel senso accennato nel testo: ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, cit., p. 379; CARBONARA, voce « Fatto », in Enc. filosofica, cit., pp. 479 e ss., ma anche Relazione al progetto preliminare etc., cit., pp. 60 e 181). (49) Cfr. UBERTIS, La ricerca della verità etc., cit., pp. 3 e ss. Vi è da rilevare, peraltro che il processo (penale), quale strumento destinato ad operare in un dato contesto storicosociale (cfr. sul punto, in ispecie: PICARDI, voce « Processo civile (diritto moderno) », in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano 1987, pp. 101 e ss.; FAZZALARI, voce « Processo civile (diritto vigente) », ivi, pp. 118 e ss.; ALESSI, voce « Processo penale (diritto intermedio) », cit., pp. 388 e ss.; non può non esprimere, anche nel suo divenire, un preciso adeguamento ai valori in atto. Ancorché caratterizzato ex natura da precise finalità euristiche, il processo rivela tuttavia, anche in tal senso, limiti e costrizioni in sintonia con la scala dei valori etico-politici che vige nella compagine sociale che lo ha espresso e, quindi, appare sempre costretto entro schemi più o meno rigidi che possono limitare, inceppare o, addirittura, anche falsare la ricerca e la ricognizione del « fatto reale » (cfr. VERDE, voce « Prova (dir. proc. civ.) », in Enc. dir., vol. XXXVIII, Milano 1988, p. 590 nt. 83); nondimeno ciò non sembra impingere o influire sull’oggettività del dato presupposto. A questa stregua, anche la contingente diversa strutturazione dell’« esperimento conoscitivo conforme al rito e funzionale alla verifica di enunciati fattuali » (così: UBERTIS, Ricostruzione del sistema, giusto processo, elementi di prova, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 314), cioè la ‘‘prova’’, non pare idonea a mutare l’oggettività del ‘‘fatto’’. (50) Cfr. ancora ABBAGNANO, op. cit., p. 379.


— 240 — 2o e 3o comma, 195, 1o, 3o, 6o e 7o comma, 202, 1o comma, 204, 1o comma, 211 e 234, 1o comma, di ‘‘fatto’’ e « notitia criminis » ex art. 335 cpv., di ‘‘fatto’’ e ‘‘imputazione’’ secondo gli artt. 417 lett. b), 423, 516 e 518, di ‘‘fatto’’ nella correlazione tra imputazione contestata e sentenza alla luce dell’art. 521, 1o e 2o comma, di ‘‘fatto’’ nei decreti che dispongono il giudizio o il rinvio a giudizio alla stregua degli artt. 429, 1o comma lett. c) e 555, 1o comma lett. c), di ‘‘fatto’’ e formule di proscioglimento ex art. 530, 1o, 2o e 3o comma, di ‘‘fatto’’ e ‘‘giudicato’’ nell’art. 649, 1o comma, di ‘‘fatto’’ nella revisione prevista dall’art. 630 lett. a) e d), si evince in effetti, che il nuovo codice di rito ha assunto una nozione di ‘‘fatto processuale penale’’ che, pur nella variabilità delle formule, presenta tuttavia taluni connotati costanti, idonei a consentirne la identificazione. Dal sistema delle disposizioni sulla ‘‘prova’’, si ricava innanzi tutto che, essendo un « episodio » del mondo reale (51), tratti ontologici essenziali del ‘‘fatto’’ che rileva ai fini del processo sono, in ogni caso, la sua « concretezza » e, in virtù dell’inserimento in un preciso contesto spazio-temporale, la sua « storicità ». Dal complesso dei principi in tema di ‘‘imputazione’’, dalla tipologia delle formule di proscioglimento e dalle disposizioni sugli effetti delle pronunce giurisdizionali, si evince, poi, che il ‘‘fatto’’ si caratterizza, principalmente, altresì come comportamento umano (azione od omissione) infungibile e irripetibile, presupposto ed oggetto dell’accertamento operato nel processo sulla base degli elementi di prova dedotti dalle parti o reperiti officio juridicis e di una qualificazione giuridica progressiva, conclusivamente protratta fino alla decisione (cfr. ad es. artt. 125, 530-533 c.p.p.). Altra accezione di ‘‘fatto’’, riferita sia a condotte umane, quanto a eventi del mondo naturale o della realtà sociale, affiora però dalle disposizioni sulla punibilità del soggetto (v. ad es. le circostanze attenuanti, le cause di giustificazione, le cause speciali di esenzione dalla punibilità, la dichiarazione di abitualità ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza ed a ciò che la stessa Relazione al progetto preliminare ed al testo definitivo chiama ‘‘fatti processuali’’, (come l’accertamento di nullità, il domicilio o la residenza dell’imputato, i rapporti di convivenza ai fini delle notificazioni) (52), ma anche in questo caso trattasi di eventi caratterizzati, nel senso su accennato, da « concretezza » e « storicità ». Dal compendio delle accennate disposizioni emerge, altresì, l’ulteriore constatazione che, per quanto necessariamente condizionato nella sua « rivelazione » giudiziale, dai metodi di ricognizione, ricostruzione e controllo che l’ordinamento ha predisposto, anche il ‘‘fatto’’ assunto nel processo — quale espressione e specimen della « realtà concreta » — si manifesta come « una oggettiva possibilità di verifica », di modo che, compiuta quest’ultima e accertatane o no la « corrispondenza » alla realtà, possono darsi, in questo senso, affermazioni di « verità ». Ne consegue che la relativizzazione sembra annidarsi non tanto in ciò che viene affermato, quanto nei metodi utilizzati e nell’incompletezza dei risultati, ma certo non nel dato epistemologico presupposto. 4. Conoscenza del ‘‘fatto’’ e ‘‘prova’’ nel codice di procedura penale. — Una visione « obbiettiva » e « realistica » del ‘‘fatto’’, nel senso che, date determinate condizioni, alla conoscenza di esso può accedere, a prescindere dalle concezioni e posizioni soggettive, la generalità degl’interessati e che, allo stesso modo, in virtù di un particolare procedimento mentale di verifica, se ne può pure riscontrare la « corrispondenza » alla « realtà materiale », le-

(51) (52)

V. Relazione al testo preliminare, etc., cit., pp. 60 e 181. Cfr. ancora la Relazione etc., cit., p. 60.


— 241 — gittimando, come sopra si è rilevato, in positivo o in negativo, comunicazioni di ‘‘verità’’ (53), sembra ispirare anche il vigente sistema della ‘‘prova penale’’, significativamente imperniato sugli artt. 187-190-192 c.p.p., in virtù dei quali il legislatore ha inteso specificare i limiti oggettivi e funzionali del thema decidendum su cui deve poi svilupparsi l’attività di accertamento che al giudice compete (54). Dal combinato di tali disposizioni ma, in particolare, dall’art. 187, da cui risulta expressis verbis individuato quale sia l’‘‘oggetto della prova’’, appare identificabile, invero, ciò che i conditores, abbandonando le pericolose (in quanto potevano intaccare l’imparzialità del giudice nella ricerca della prova) generalizzazione del sistema inquisitorio, hanno inteso puntualizzare a proposito di ‘‘fatti’’ rilevanti per il processo penale. Il thema probandun del nuovo processo attiene, in effetti, ai ‘‘fatti’’ che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità ed alla determinazione della pena e della misura di sicurezza, nonché ai ‘‘fatti’’ da cui dipende l’applicazione di norme processuali e, nel caso di costituzione di parte civile, ai ‘‘fatti’’inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato. Dalle disposizioni accennate se ne può anche inferire, come peraltro risulta dalla stessa formula juris e, in ispecie, dall’epigrafe dei Tit. II e III del Terzo Libro del c.p.p., che la ‘‘prova’’ si rivela, innanzi tutto, come uno strumento atto a consentire, in virtù dell’impiego di quel particolare metodo dialettico che è costituito dal contraddittorio, la costruzione della « regiudicanda » nel suo aspetto « fattuale » (55). Appare, poi, in riferimento all’essenziale ruolo di verifica del thema probandum che ad essa è demandato, in quanto « fatto rappresentativo del fatto da provare » (56), anche la sua natura di elemento atto a consentire il giudizio di corrispondenza del fatto ipotizzato nel processo con la realtà materiale e, in tal senso, a giustificare affermazioni di ‘‘verità’’ (57). E tutto ciò risulta particolarmente chiaro a proposito della ‘‘imputazione’’, ossia a quell’enunciato assertorio, ipotetico, controverso, controvertibile e tanto provvisorio da necessitare per natura di una verifica, con cui il pubblico ministero attribuisce ad uno o più soggetti un ‘‘fatto reato’’ (58). La ‘‘verità’’ dell’enunciato del p.m., infatti, ex lege non può che conseguire al ‘‘fatto affermato’’, il che avviene solo in virtù della « decisione » del giudice, allorché egli — quale organo super partes — esprime, nell’esercizio della funzione giurisdizionale che a lui solo compete, un giudizio assoluto e tendenzialmente definitivo sul thema controverso, verificando la correttezza giuridica degli strumenti impiegati nel processo e della ricostruzione del fatto presupposto, ad affermarlo in via assoluta e definitiva, come corrispondente alla realtà presupposta (59). Né l’accennata conclusione in tema di « oggettività » e « neutralità » del ‘‘fatto’’ rispetto al metodo di accertamento ed alle credenze soggettive e personali di chi lo adoperi, sembra

(53) V. GIULIANI A., op. cit., p. 519. (54) Cfr. sul punto ancora la Relazione al progetto preliminare etc., cit., p. 60. (55) FOSCHINI, Sistema etc., cit., vol. I, p. 404; SIRACUSANO, Le prove, in SIRACUSANODALIA-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Manuale di diritto processuale penale, vol. I, Milano 1990, pp. 371 e ss.; CONSO-BARGIS, Glossario etc., cit., p. 584; FORTUNA, Le prove, in FORTUNA-DRAGONE-PASSONE-GIUSTOZZI-PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, III ed., Padova 1993, pp. 336-337; UBERTIS, Ricostruzione etc. cit., loc. cit. (56) SIRACUSANO, op. cit., p. 373; VERDE, voce « Prova (dir. proc. civ.) », cit., p. 588). (57) Cfr. in questo senso: DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., p. 162; MELCHIONDA, voce « Prova (dir. proc. pen.) », cit., p. 651; GIULIANI A., op. cit., p. 519; VERDE, Prova legale e formalismo, in Foro it., 1990, V, 467. (58) CONSO-BARGIS, Glossario etc., cit., p. 290. (59) FOSCHINI, op. ult. cit., p. 198.


— 242 — destinata a mutare in relazione al duplice significato che, anche nel nuovo sistema processuale, può assumere il termine ‘‘prova’’. Conformemente a quanto evidenziato dagli studiosi in relazione ai vari ordinamenti che si sono succeduti nel corso della storia, pare lecito affermare che anche nel codice in vigore, la « prova » potrebbe essere intesa tanto come « procedimento », quanto come un mero « presupposto », oppure come il « risultato » del « procedimento (probatorio) » (60). Secondo una visione « dinamica » e « funzionale », infatti, la « prova » andrebbe sempre ragguagliata ad « una operazione dell’intelletto intesa alla ricerca ed alla comunicazione al giudice di dati fattuali », affinché costui possa giungere all’affermazione di verità che l’ordinamento gli richiede (61). Secondo una concenzione più propriamente « statica », invece, la ‘‘prova’’ sarebbe solo il « risultato » di tale operazione e, quindi, il « presupposto » per il convincimento del giudice, espresso negli atti di sua pertinenza ex art. 125 c.p.p. e, in ispecie nella ricordata decisione ex artt. 526, 544 e 546 lett. e), st. cod. (62). Come è stato osservato, tuttavia, anche questa differenza prospettica non avrebbe particolare incidenza sui valori di fondo del processo e, in ispecie, sulla visione del ‘‘fatto’’ rilevante ai fini del processo, ove sulla stessa non si innestasse l’annosa diatriba sulla « funzione » della ‘‘prova’’, considerata da taluno solo come espediente ‘‘argomentativo’’ o ‘‘retorico’’ da utilizzarsi nel processo al fine di avvalorare una data tesi e, quindi, valida unicamente in questa sede e da altri, per contro, come elemento « dialettico » e « dimostrativo », in vista dell’accertamento di una ‘‘verità materiale’’ che preesiste e si colloca indipendentemente nel mondo oggettivo della realtà storica (63). Nella prima ipotesi, invero, il ‘‘fatto storico’’ non sarebbe mai ragguagliabile ad un ‘‘fatto empirico’’ e, pertanto, giustificherebbe affermazioni di verità solo « probabili »; nell’ipotesi logico-scientifica (o « dimostrativa »), per contro, il ‘‘fatto storico’’ sarebbe omogeneizzabile o ad un dato empirico e, pertanto, giustificherebbe affermazioni di « verità materiale », oppure potrebbe essere ricondotto ad un « fatto relazionabile » legittimando, in tal caso, affermazioni di ‘‘verità formale’’ (64) anche se, come rileva il Verde, in sede penale, permane sempre la preoccupazione di « aumentare in percentuale la media dei casi in cui (questa) possa corrispondere alla verità materiale » (65). Si è costatato, infatti, che, per la peculiarità del sapere giuridico e, soprattutto dei suoi metodi, la convivenza ed il contemperamento fra « retorica » e « dialettica » paiono connaturati al processo e, in ispecie, al diritto probatorio, tanto è vero che, mentre la presentazione dei dati e lo svolgimento delle argomentazioni sono considerate attività tipiche del ruolo « persuasivo » dell’avvocato, l’impiego della dialettica, in quanto « metodologia della rilevanza e teoria della confutazione » si rivela tipico appannaggio del giudice « imparziale »

(60) GIULIANI A., op. cit., p. 519; UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., pp. 89-90; LOMBARDO, Ricerca della verità e nuovo processo penale, in Cass. pen., 1993, 751. (61) Cfr. ancora GIULIANI A., op. cit., p. 519; VERDE, voce « Prova (dir. proc. civ.) » etc., cit., p. 588; UBERTIS, op. ult. cit., pp. 89-90; FOSCHINI, Sistema etc., cit., p. 409. (62) Cfr. ad es., COMOGLIO, Le prove, in Trattato Rescigno cit., p. 166; ZAPPALÀ, Il principio di tassatività dei mezzi di prova nel processo penale, Milano 1982, p. 65; CORBI, La disciplina dell’ammissione della prova nel processo penale, Milano 1975, p. 111; MELCHIONDA, voce « Prova (dir. proc. pen.) », cit., p. 651. (63) GIULIANI A., op. ult. cit., p. 520 e voce « Logica (teoria dell’argomentazione) », in Enc. dir., vol. XXV, Milano 1975, pp. 14 e 22; LOMBARDO, op. cit., loc. cit. (64) Cfr. ancora GIULIANI A., voce « Prova in generale » etc., cit., p. 521. (65) VERDE, Prova legale e formalismo, cit., p. 467.


— 243 — allorché, compiuta la valutazione della rilevanza e della concludenza degli elementi addotti, esprime il suo giudizio sul ‘‘fatto’’ prospettatogli (66). Sembra essere la « dialettica », dunque, ad esprimere la razionalità del dictum iudicis e a tradurre in termini logici l’esigenza di verità implicita nel processo e, quindi, a connotare anche la prova che starà alla base delle decisioni del giudice stesso. E in tal senso, ancorché costretto in precisi limiti gnostici e filtrato dalla scansione dei vari momenti del ragionamento « retorico » delle parti, intese alla persuasione, alla giustificazione ed alla confutazione (67) e, riflettentesi in ispecie sui giudizi di valore più propriamente incidenti — secondo la formula dell’art. 544, 1o comma, c.p.p. — sui motivi di « diritto » della decisione, il ‘‘fatto’’ rilevante ai fini della « prova » sembra presentare pure indubitabili connotati di « oggettività » connessi alla sua utilizzazione « logicorazionale », allorché serve a giustificare le affermazioni di verità che competono al giudice. Non a caso, come sopra accennato, il codice di rito ha assunto — in materia di prova — una particolare nozione di ‘‘fatto’’, caratterizzata dalla « concretezza » e dalla « storicità »; in altri termini ha, anche in relazione al procedimento probatorio, ipotizzato il ‘‘fatto’’ come oggettiva possibilità di verificazione che giustifica affermazioni di « verità materiale ». 5. La ‘‘verità processuale’’ nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. — Per quanto comunemente si sostenga che la nostra Costituzione non avrebbe optato per un significato particolare da riconoscere alla locuzione ‘‘verità processuale’’, rimettendone l’individuazione al giudice (68), in realtà la Corte Costituzionale, sia nelle decisioni che, relativamente al passato regime processuale, coinvolgevano il tema della prova e lo scopo della giurisdizione (69), sia in quelle che, successivamente al 1988 hanno attinto gli stessi temi (70) ha sempre dimostrato, invece, di aver ben presente un preciso concetto di ‘‘verità’’, valido anche per il processo. Anche di recente, infatti, essa è giunta ad affermare che, se il processo è lo « strumento diretto ad accertare la verità », a siffatta espressione — anche alla stregua dell’ideologia fatta propria dai costituenti — non può essere riconosciuto altro significato che quello di piena e assoluta corrispondenza ai fatti, tale essendo il contenuto delle espressioni « realtà effettiva », « materiale » o « naturale », cui devono adeguarsi, dapprima l’attività accertativa del giudice e, poi, sua decisione onde essere « giusta ». Tutto ciò si evince esemplarmente, in particolare, da Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255 e Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111, ove expressis verbis, si afferma non solo che ‘‘fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità (in armonia coi principi della Costituzione’’), ma altresì che a questo scopo è preordinato non solo il metodo dialogico nella formazione della prova (ossia il ‘‘contraddittorio’’), ma pure il principio di ‘‘non dispersione della prova’’, specificamente inteso ad evitare che possa prevalere, su quella « reale », una mera « verità di forma », conseguente solo alla « corretta » applicazione di regole astrattamente fissate dall’ordinamento in vista della risoluzione del conflitto tra pub-

(66) Cfr. ancora GIULIANI A., Logica etc., cit., p. 14. (67) V. GIULIANI, op. ult. cit., p. 520. (68) V., da ultimo: IACOVIELLO, op. ult. cit., p. 2029. (69) Cfr. ad es. Corte Cost. 27 dicembre 1974, n. 300; Corte Cost. 14 gennaio 1979, n. 127; Corte Cost. 24 marzo 1986, n. 54. (70) Cfr. Corte Cost. 12 giugno 1991, n. 259; Corte Cost. 31 gennaio 1992, n. 24; Corte Cost. 30 marzo 1992, n. 142; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 241; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 254; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255; Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111; Corte Cost. 13 maggio 1993, n. 237.


— 244 — blica accusa e privato inquisito, per cui un esito vale l’altro. In tal senso, secondo la Corte, al di là delle ‘‘astratte modellistiche’’, la nostra Costituzione delineerebbe invece compiutamente i principi generali cui deve ispirarsi il processo penale, il quale, per conformarsi alla Costituzione (come, peraltro, stabilisce anche la l. delega 16 febbraio 1987, n. 81), dovrebbe essere, innanzi tutto, imperniato, sul ‘‘principio di legalità’’, scaturente dall’art. 25 cpv., che rende « doveroso » e « paritario » l’esercizio del magistero punitivo in ordine alle condotte penalmente sanzionate (71), nonché su quel suo particolare aspetto, rappresentato dalla ‘‘obbligatorietà dell’azione penale’’ sancita dall’art. 112, per cui il p.m. è organo che non fa valere interessi particolari, ma solo quello generale all’osservanza della legge, ma altresì garantire il ‘‘libero convincimento del giudice’’ nella sua preordinazione, super partes, a rendere affermazioni di ‘‘verità’’ ed a pronunciare decisioni « giuste » (72). Anzi, in riferimento alla prova, si è riconosciuto in dottrina che solo il ricorso al criterio di « non dispersione » consente al giudice di evitare ingiusticati e controproducenti condizionamenti e limiti gnostici, che finirebbero inevitabilmente col pregiudicare la stessa bontà delle sue decisioni ove, ad es. del principio di ‘‘immediatezza’’ si accettasse acriticamente la « astratta » ed « assolutistica » valenza auspicata dai conditores, ad es., negli artt. 392 e 526 c.p.p., dai quali dovrebbe desumersi che una « vera » prova sia acquisibile sempre e solo al dibattimento, o al più, in sede di incidente probatorio (73). Ebbene, ne consegue che, se anche la Costituzione (conformemente alla propria natura di suprema regola di condotta, e non di espistemologia normativa), potrebbe apparire agnostica (o, meglio, reticente) in tema di ‘‘verità’’, essa non si rivela neutra, però, in riferimento al metodo con cui la « verità » stessa va accertata. Gli accennati principi di obbligatorietà dell’azione penale, di terzietà e libero convincimento del giudice, di disponibilità delle prove solo fin quando esso non si risolva in « disponibilità della res iudicanda », compromettendo così la tutela giurisdizionale e l’interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi, nonché di adozione del metodo dialogico nella prospettiva dell’esercizio del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 cpv., come mezzo di accertamento e di conoscenza dei ‘‘fatti reali’’ evidenziano che, pur negando preferenza ad un determinato modello giudiziale, la nostra Costituzione ha, invece, assunto un particolare concetto di ‘‘verità processuale’’ strettamente connesso e complementare ai valori di « giustizia », intesa come « imparziale attuazione della legge » nel caso « singolo » e di « giurisdizionalità » (74), nel senso di « corret-

(71) Cfr. Corte Cost. 15 gennaio 1991, n. 88 e MORELLI M.R., Commento all’art. 112 Cost., in Commentario Breve alla Costituzione a cura di V. CRISAFULLI e L. PALADIN, cit., p. 679 e, in generale: FOIS, voce « Legalità (principio di) », in Enc. dir., vol. XXIII, Milano 1973, pp. 659 e ss. (72) Cfr. in proposito ancora Corte Cost. 15 gennaio 1991, n. 88 e GIARDA, Praxis Criminalis, cit., pp. 530 e ss. (73) Cfr. FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo accusatorio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, 1464 e Studi sul processo penale etc., cit., pp. 162 e ss.; nonché per una completa disamina della tesi contestata nel testo, oltre alla Relazione etc., cit., p. 99; NOBILI, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, in Foro it., 1989, V, 274; GAETA, Controriforma o ‘‘etica della verità’’ nel processo penale? Note sulla valenza probatoria delle disposizioni extradibattimentali ‘‘difformi’’, in Giur. it., 1993, I, 1863; FIANDACA, Modelli del processo e scopi della giustizia penale, in Foro it., 1992, I, 2025. (74) Cfr. ancora Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111; FERRUA, La sentenza etc., cit., p. 464 e, in ispecie, il GIARDA, op. ult. cit., loc. cit., ritenendo che la accennata sentenza sia


— 245 — tezza », « imparzialità », « oggettività » e « neutralità » degli accertamenti e delle decisioni giudiziarie (75). In quest’ordine di principi che necessariamente implicano, da un lato, il superamento e l’abbandono degli schemi classici del « processo-contesa », che l’ordinamento dovrebbe solo limitarsi ad arbitrare in vista del conseguimento di esiti « coerenti » e « conformi » alle regole, utili solo alla pacificazione sociale e, dall’altro, riconoscono all’attività giudiziaria anche un compito conoscitivo finalizzato al raggiungimento di quella che la stessa Corte Costituzionale chiama ‘‘verità reale’’, assolutamente peculiare ed unica fra i grandi sistemi giuridici contemporanei si rivela la concezione del p.m. italiano come « organo di giustizia », indipendente e neutrale, inteso a ricercare, anche a favore dell’indagato la ‘‘verità oggettiva’’ dei ‘‘fatti evocati’’ nella ‘‘imputazione’’ e, quindi, a far valere nel processo, sempre in posizione di assoluta indipendenza, non già interessi particolari, ma quello generale all’osservanza della legge (76). E nello schema di obbligatorietà dell’azione penale che esclude, ab origine — come forse non tenuto in adeguato conto dai conditores del nuovo codice — qualsiasi indulgenza verso spazi di discrezionalità del p.m., non solo in riferimento alla instaurazione del processo, ma pure nel potere di « disporre » della prova, perché in tal modo non divenga disponibile anche la stessa « regiudicanda » e così compromessa la tutela giurisdizionale assicurata dal processo, in vista sia della repressione dei fatti criminosi, sia della necessità di affermare la responsabilità dell’imputato solo in riferimento a fatti realmente commessi, sia di tutelarne la stessa libertà personale (77), corrispondentemente al « principio di legalità », va inquadrato anche « l’obbligo di verità » che compete all’organo della pubblica accusa altresì durante la fase della « indagini preliminari », che per natura, sono propedeutiche all’esercizio dell’azione penale e, quindi, al processo vero e proprio, tanto è vero che, come visto, possono essere condotte, ex art. 358 c.p.p., anche a favore dell’indagato (78). E sicuramente complementare al momento gnostico del processo che, come puntualmente osservato, in tanto esprime la necessità di un confronto dialettico tra le opposte opi-

vera e propria summa dei principi che, secondo la Corte Costituzionale, dovrebbero presiedere ad un « giusto » processo, in sintonia con i canoni della nostra Costituzione. V. anche SATTA, voce « Giurisdizione (nozioni generali) », in Enc. dir., vol. XIX, Milano 1970, p. 221). (75) Cfr. ancora SATTA, op. cit., loc. cit.; BELIZZI, voce « Giurisdizione penale », in Dig. disc. pen. cit., vol. VI, Torino 1992, pp. 1 e ss.; FOSCHINI, Sistema etc., cit., pp. 224 e ss. (76) Cfr. Corte Cost. 5 maggio 1959, n. 22; Corte Cost. 27 dicembre 1974, n. 300; Corte Cost. 29 aprile 1975, n. 96; Corte Cost. 15 febbraio 1991, n. 88; Corte Cost. 3 giugno 1992, n. 255 e Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111; nonché: CARLI, Personalizzazione delle funzioni di p.m., in Quaderni del C.S.M., n. 56, Roma 1992, pp. 23 e ss.; DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., p. 300; CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino 1989, p. 92; PISANI, Il pubblico ministero nel nuovo processo penale: profili deontologici, in Riv. proc., 1988, 187; GIARDA, op. ult. cit., p. 531. (77) Cfr. Corte Cost. 5 maggio 1969, n. 22 cit.; Corte Cost. 16 dicembre 1970, n. 190; Corte Cost. 29 aprile 1975, n. 96; Corte Cost. 26 luglio 1979, n. 84; Corte Cost. 15 gennaio 1991, n. 88 e Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111. (78) Cfr. MORELLI M.R., op. ult. cit.; AGRÒ, Commento all’art. 3 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, cit., vol. I, Bologna-Roma 1975, pp. 153 e ss.; SALVI, Commento all’art. 358 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale a cura di M. CHIAVARIO, cit., vol. IV, pp. 171-172; CARULLI, Notazioni sulle prove nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. pen. ec., 1989, 223; NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, II ed., Milano 1991, p. 37; GIARDA, op. ult. cit., p. 535.


— 246 — nioni delle parti, in quanto tende a raggiungere affermazioni di ‘‘verità’’ in ordine alla responsabilità dell’inquisito rispetto ai ‘‘fatti’’ evocati nella ‘‘imputazione’’, appare l’obbligo — costituzionalmente garantito — di rispettare in tutte le fasi del processo il principio del ‘‘contraddittorio’’ (79). E pur ammettendosi che il dialogo sia suscettibile di diversamente attuarsi a seconda degli atti da compiere e del momento processuale, contraendosi, se del caso in una mera discussione sulla validità dell’atto compiuto, oppure articolandosi nell’esame incrociato diretto a costituire la prova (80), sono state soprattutto le sentenza 255/92 e 111/93 della Corte Costituzionale a fornirne una realistica chiave di lettura, sottraendolo alle astrazioni di un garantismo di maniera, che lo avrebbe voluto sempre e comunque attuato nel suo massimo dispiegamento, mercé l’intervento delle parti nella formazione di qualsiasi prova. In tal senso la valenza costituzionale ed epistemica dell’accennato principio di ‘‘non dispersione della prova’’, che consente, in vista dell’accertamento della ‘‘verità oggettiva’’, l’utilizzazione dibattimentale anche di dati assunti aliunde e, almeno ab origine, senza confronto dialettico, come era prevedibile, non ha avuto pacifica accoglienza da coloro che avevano posto attenzione soprattutto alla ‘‘oralità’’ ed alla ‘‘immediatezza’’, indicandoli non solo quali criteri connaturati al nuovo processo ed alla « verificazione » o « falsificazione » dell’ipotesi accusatoria, ma anche come veri e propri « valori costituzionali » da salvaguardare in ogni caso (81). Si è sostenuto, infatti, che se il far prevalere l’indicato principio di ‘‘conservazione’’ su quello di ‘‘immediato’’ contatto tra giudice e prova, altro non sarebbe che una delle possibili soluzioni tra valori « ordinari » e di pari rango costituzionale, la possibilità di introduzione in sede dibattimentale di una prova « segretamente assunta » da p.m. o pol.g. non potrebbe che ledere il « superiore » valore del ‘‘contraddittorio’’ che, a differenza dei primi due, avrebbe solido fondamento nella Costituzione (82). Ebbene, a parte il fatto che, come riconosce pure chi contesta la correttezza costituzionale del riconoscimento del principio di ‘‘non dispersione’’, esso ha il non indifferente pregio di evitare ingiustificate limitazioni al potere del giudice di accertare la ‘‘verità’’ (83), sembra legittimo dubitare, da un lato che, come visto, sia ‘‘prova’’ solo ciò che viene raccolto al dibattimento e, dall’altro che — come riconosciuto dalla stessa Corte con sentenza 13 gennaio 1992, n. 24, sia ‘‘contraddittorio’’ solo la cross-examination. A ben vedere, invece, se il ‘‘contraddittorio’’ in null’altro consiste se non nella regola audiatur et altera pars (84), nulla vieta che il confronto dialogico tra le parti possa essere esercitato anche in modo differente dall’intervento nella formazione della prova, potendo efficacemente realizzarsi anche mercé un adeguato e « paritario » intervento critico sul dato acquisito al processo, verificandone, ad esempio, la validità, l’ammissibilità, l’efficacia, la pertinenza e la rilevanza rispetto al thema probandum. E tutto ciò risulta in particolare evidente a proposito di quelle che, con

(79) FERRUA, Studi etc. cit., p. 76 e, in generale, sul rapporto dialogico tra interessi dell’individuo e della società: FOSCHINI, Sistema etc. cit., vol. I, pp. 104 e ss., 193 e ss. (80) FERRUA, La sentenza etc. cit., p. 1464; FOSCHINI, op. cit., p. 195 e ss. (81) Cfr. FERRUA, Studi etc. cit., pp. 75 e ss., 164-167, 185-187. (82) Ancora il FERRUA, op. ult. cit., p. 167. (83) Cfr. FERRUA, Sentenza etc. cit., p. 1464. (84) Cfr. CAVALLARI, voce « Contraddittorio (dir. proc. pen.) » in Enc. dir., vol. IX, Milano 1961, p. 738; FOSCHINI, op. ult. cit., pp. 193 e ss.; COMOGLIO, Commento all’art. 24, 1o e 2o comma, Cost., in Commentario della Costituzione, cit., pp. 60 e ss., CORDERO, Guida alla procedura penale, Torino 1986, pp. 288 e ss.; FERRUA, Studi etc., cit., pp. 75 e ss.; DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., pp. 112 e ss.


— 247 — terminologia mutuata dalla dommatica civilistica, sono conosciute come « prove precostituite al processo » e dei c.d. « atti non ripetibili » di cui all’art. 431 lett. b) e c) c.p.p. In effetti, se è vero che il ‘‘contraddittorio’’ si fonda sulla possibilità per le parti di « conoscere » l’oggetto della controversia, nonché di partecipare al dialogo contrastando, in posizione di libertà e parità, le argomentazioni avversarie, adducendo propri elementi di prova e facendosi « ascoltare » dal giudice al fine di ottenere una « decisione » in grado di superare e risolvere il contrasto dialettico (85), non è chi non veda come di ‘‘contraddittorio’’ possa parlarsi anche quando, per qualsiasi ragione, il dato probatorio anziché essere « formato » in giudizio, vi compaia già costituito e l’apporto critico delle parti si sviluppi non più nella « formazione » del dato, ma sulla sua « utilizzabilità » ai fini della decisione. E tutto questo risulta particolarmente significativo, ad esempio, a proposito delle accennate « prove precostituite » le quali, di norma appaiono « formate » prima e, per lo più, fuori del processo per motivi anche diversi da quelli giudiziari (cfr. ad es. gli « atti pubblici » ed i documenti di cui all’art. 234 c.p.p.). Ebbene, una volta « acquisite » al procedimento, rispetto ad esse le parti possono confrontarsi solo intorno alla loro « ammissibilità », « attendibilità » e « rilevanza » (86). Ciò nondimeno, una volta garantito una sorta di contraddittorio « virtuale » o « anticipato » in ordine alla loro confezione, mercé la predisposizione di idonee regole di forma e la rigorosa individuazione dei soggetti legittimati a porle in essere, nonché un ‘‘contraddittorio’’ « posticipato » in relazione alla loro validità ed utilizzabilità processuale, non sembra che la garanzia del dialogo possa ritenersi scalfita e violato il precetto dell’art. 24 cpv. Cost. (87). Né diverse conclusioni sembrano potersi assumere a proposito dei c.d. « atti irripetibili » che — per quanto sopra visto — sono, per definizione, realizzati ante judicium e, precisamente, nella fase delle « indagini preliminari », caratterizzandosi funzionalmente per « urgenza di determinazione » ed effetto « sorpresa » (88). Anche qui, infatti, il presunto strapotere dell’accusa pubblica, che insieme alla pol.g., è l’unica legittimata a porli in essere, appare in realtà condizionato da rigidi schemi formali e la garanzia di un ‘‘contraddittorio’’ « anticipato » appare assicurata oltre che dalla praticabilità della ‘‘autodifesa’’, soprattutto dalla facoltà di intervento del difensore e dal suo potere di controllo sul rispetto delle regole, che si sviluppa con la disamina del verbale, cui ha diritto di accedere in tempi brevissimi (89). In effetti, in tanto gli atti in questione appaiono utilizzabili come prove ai fini della decisione, in quanto siano formalmente ineccepibili e, sostanzialmente, espressione di ‘‘verità’’, perché conformi alla realtà oggettiva dei fatti assunti nella ‘‘imputazione’’. Né può essere sottovalutato, ai fini della realizzazione del ‘‘contraddittorio’’ anche in quella fase del procedimento in cui apparentemente hanno massima esplicazione i poteri del-

(85) CAVALLARI, op. cit., loc. cit.; FOSCHINI, op. cit., pp. 211 e ss.; CRISTIANI, op. cit., pp. 51 e ss. (86) Cfr. TARZIA, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in AA.VV., Le prove nel diritto civile, amministrativo e tributario, Torino 1986, pp. 127 e ss. (87) Cfr. in generale: COMOGLIO, Le prove cit., pp. 171 e ss.; TARZIA, Problemi etc., cit., pp. 125 e ss.; CAVALLONE, Oralità e disciplina delle prove nella riforma del processo civile, ivi, pp. 100 e ss. (88) Così esplicitamente: Corte Cost. 8 maggio 1974, n. 123. (89) Cfr. in genere sugli « atti » in questione: ICHINO, Gli atti irrepetibili e la loro utilizzazione dibattimentale, in La conoscenza del fatto cit., pp. 111 e ss.; FRIGO, Commento all’art. 431 c.p.p., in Commento al codice di procedura penale a cura di M. CHIAVARIO, cit., vol. IV, p. 273; DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., p. 514; D’ANDRIA, Un tentativo di definizione degli atti non ripetibili, in Cass. pen., 1992, 1349.


— 248 — l’accusa, rappresentata dalle « indagini preliminari », il ruolo della ‘‘autodifesa’’ o ‘‘difesa personale’’, che si esplica, per l’inquisito, coi diritti di tacere di fronte alle contestazioni, di controbattere le argomentazioni degli accusatori (che, peraltro, ex art. 358 c.p.p., hanno pure il dovere di investigare a suo favore), di proporre memorie o richieste scritte al giudice, ex art. 121, di rendere tutte le dichiarazioni che considera opportune e, soprattutto, di contestare la ritualità degli atti compiuti, ricorrendo immediatamente all’ausilio della difesa tecnica la quale, peraltro, come detto, ha diritto di intervenire durante la loro confezione e di vedersi immediatamente depositati i verbali degli atti compiuti (90). D’altra parte, la ricorrenza del ‘‘contraddittorio’’, attuale o posticipato, appare condizionare tutta l’attività relativa alle « indagini preliminari », ancorché questa fase del procedimento sia funzionalmente preordinata a reperire i materialia judicii, e a « soggettivizzare » la notitia criminis in capo ad una data persona (91). Il metodo dialogico della verifica immediata o dibattimentale dei dati probatori ha, infatti, un preciso ruolo di condizionamento dell’attività euristica del p.m. che, in tanto può ritenersi idonea a sostenere, nel processo, la validità dei risultati gnostici raggiunti, in quanto gli stessi siano corrispondenti alla ‘‘verità materiale’’ e, quindi, suscettibili di superare senza danni il confronto con le antitesi di controparte (92). Anche per questa via emerge, dunque, come atti, apparentemente posti in essere dal p.m. a propria discrezione per assumere, ex art. 326 c.p.p., le più opportune « determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale », in realtà sono vincolati ad una precisa condizione funzionale poiché, in tanto possono ritenersi, ex art. 125 d.att. c.p.p., « idonei a sostenere l’accusa in giudizio », in quanto sono suscettibili di conseguire il valore di prova valida ai fini della decisione, ossia siano oggettivamente corrispondenti alla ‘‘verità’’ dei fatti ipotizzati nella notizia di reato. Ed a questa stregua appare assai arduo reputare che il riconoscimento del principio di ‘‘non dispersione della prova’’ o le reazioni di segno opposto alle astrusità della legge delega, rintracciabili ad es. nel D.L. 8 giugno 1992, n. 306, o nella sentenza 255/92 della Corte Costituzionale, i quali, hanno fortemente ridimensionato il principio dell’immediatezza nell’assunzione della prova (93) ed i dogmi del processo di parti, della centralità del dibattimento e della origine esclusivamente dibattimentale delle prove utilizzabili per la decisione (94), siano senz’altro frutto di oscurantismo e di indulgenza verso nostalgie inquisitorie. A ben vedere, invece, la discrezionalità del legislatore nel realizzare in concreto uno strumento pro-

(90) FOSCHINI, op. cit., pp. 272 e ss., CORDERO, Guida etc., cit., pp. 300 e ss.; CONSOBARGIS, Glossario etc., cit., pp. 153-154; ICHINO, op. cit., pp. 111 e ss. (91) Cfr. Corte Cost. 16 maggio 1994, n. 181 e Corte Cost. 26 maggio 1994, n. 198. (92) Cfr. FOSCHINI, op. cit., loc. cit.; DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., pp. 116 e ss. e in ispecie 118, rilevando però che nella fase delle « indagini preliminari » il contraddittorio sarebbe solo « eventuale » e, inoltre: CORDERO, Procedura penale, cit., pp. 352 e ss.; TARZIA, op. cit., pp. 124 e ss. (93) TONINI, Cade la concezione massimalistica del principio di immediatezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, 1132 e ss. (94) V. BASSI, Principio dispositivo e principio di ricerca della verità materiale: due realtà di fondo nel nuovo processo penale, in Cass. pen., 1993, 1370; ILLUMINATI, Il giudizio, cit., pp. 462-464 e sulla fallacia della concezione univoca della prova come risultato del dibattimento, NOBILI, Concetto di prova e regime di utilizzazione degli atti nel nuovo codice di procedura penale, cit., 247 e ss. e Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in Commento al nuovo codice di procedura penale a cura di M. CHIAVARIO, cit., vol. II, Torino 1990, pp. 383 e ss.


— 249 — cessuale effettivamente efficace e garantista si rivela solo apparente, essendo, in realtà, rigorosamente circoscritta in riferimento all’accennato ‘‘scopo di verità’’ e ‘‘verità come corrispondenza ai fatti’’ cui inevitabilmente il processo deve tendere. 6. ‘‘Fatto’’ e ‘‘verità’’ nella interpretazione della giurisprudenza di legittimità. — E tale preordinazione funzionale, non solo del processo, ma altresì di tutte le attività (procedimentali) ad esso propedeutiche, risulta in tutta evidenza dalla esegesi delle norme del nuovo codice proposta dalla giurisprudenza di legittimità posteriore alla sua entrata in vigore. Basta scorrere, infatti, la motivazione delle più recenti decisioni della Cassazione in tema di ricerca e valutazione delle prove e di poteri del giudice di assumerne ex officio al dibattimento, per rendersi conto come lo scopo di attingere la ‘‘verità materiale’’ sia inteso quale leit motiv unificante per individuare ratio e limiti di forma e sostanza, di tutta l’attività di accertamento dei fatti compiuta non solo dal p.m. nella fase delle « indagini preliminari », ma anche dai difensori ai sensi dell’art. 38 d.att. c.p.p., e pure dal giudice, in virtù dell’art. 507 c.p.p., nel corso della istruttoria dibattimentale (95), rieccheggiando in ciò l’insegnamento senechiano secondo cui, a prescindere dalle posizioni e dagl’interessi dei singoli, la ‘‘verità’’ rivela sempre una vis una facies (96). Particolarmente utile al proposito, in quanto sintomatica della ricerca del « significato immanente alla legge » (97) a prescindere dalle contingenti intenzioni « storico-soggettive » dei conditores ricavabili, in ispecie, dalla intercorsa (parziale) espunzione dal testo del nuovo codice di ogni riferimento verbale alla ‘‘verità’’, oppure dalla cura posta nell’evitare, nelle formulae iuris, ‘‘pericolose’’ indulgenze in tal senso, si rivela lo sforzo ermeneutico espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione nella ricordata sentenza n. 11277 del 1992. Anteponendo, nell’interpretazione dell’art. 507 c.p.p., al « criterio letterale », quelli « logico-sistematico » ed « obiettivo-teleologico », la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che: a) anche nel processo accusatorio e nella (apparente) vigenza del principio dispositivo della prova, per fini di « giustizia » e di « verità » deve essere riconosciuto al giudice un potere di intervento « suppletivo » nella ricerca della prova stessa, quandanche le parti ne siano state precluse per decadenza o inerzia; b) in effetti, anche il nuovo rito penale, come esplicitato dalla direttiva n. 73 dell’art. 2 della l. delega 16 febbraio 1987, n. 81, ha come scopo essenziale la ‘‘ricerca della verità’’; c) il processo non è mai ‘‘affare delle parti’’, né il giudice un semplice « arbitro » di una contesa fra queste, ma egli deve sempre operare, secondo il suo libero convincimento, perché lo stesso sia definito « secondo giustizia », attivandosi in tal senso; d) la « giustizia » non può che conseguire ad affermazioni di ‘‘verità naturale’’ e questa, come meglio preciserà Corte Cost. 26 marzo 1992, n. 111 (che, per sua espressa ammis-

(95) Cass. 10 ottobre 1990, n. 13279, in Mass. dec. pen., 1990, 185439; Cass. 9 maggio 1992, n. 5453, ivi, 92, 190339; Cass. 22 luglio 1992, n. 8148, ivi, 191400; Cass. 24 luglio 1992, n. 8381, ivi, 191445; Cass. S.U. 22 novembre 1992, n. 11227, cit.; Cass. 1 febbraio 1993, n. 839, in Mass. dec. pen., 1993, 193488; Cass. 15 marzo 1993, n. 215, ivi, 193812; Cass. 8 maggio 1993, n. 588, ivi, 194529; Cass. 28 ottobre 1993, n. 9740, ivi, 196286. (96) SENECA, Epistole, 102, 14. (97) PARESCE, voce « Interpretazione (Filosofia del diritto e teoria generale) », cit., pp. 234-235.


— 250 — sione, alla decisione delle S.U. è strettamente conseguenziale), altro non è se non « corrispondenza » ai fatti (98). Significative del ruolo strumentale del p.m. in vista dell’accertamento della ‘‘verità storica’’ appaiono poi le affermazioni contenute, ad es., in Cass. 10 ottobre 1992, n. 3066, Cass. 15 marzo 1983, n. 215 e Cass. 28 ottobre 1993, n. 9740 (99), secondo cui l’attività di quest’organo, che durante le « indagini preliminari » non è mai parte, « non essendo ancora insorto alcun conflitto fra l’ordinamento e un determinato soggetto privato », a nessun altro obbiettivo gnostico può e deve tendere sia durante la fase anzidetta che nel processo di primo o di secondo grado, tanto è vero che, proprio allo scopo di conseguire tale obbiettivo di ‘‘verità’’ — come « unico organo preposto, nell’interesse generale, alla raccolta ed al vaglio dei dati positivi e negativi afferenti a fatti di possibile rilevanza penale » — gli sono stati da ultimo riconosciuti anche poteri coercitivi che la « riforma » del c.p.p. originariamente non conosceva. Non a caso, infatti, radicalmente innovando ad un precedente atteggiamento di (apparente) neutralità rispetto agli accertamenti del p.m., per cui era riservata al vaglio del dibattimento ogni valutazione sulla « credibilità » dei testi, lo stesso legislatore è intervenuto mercé la riforma dell’art. 500 c.p.p. e l’introduzione dell’art. 371-bis, in virtù degli artt. 7, 4o comma e 11, 1o comma, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, a rafforzare — nella prospettiva di attuazione del principio di « non dispersione della prova » — i poteri del p.m. in questo settore, non solo sanzionando pesantemente in particolare, sulla base dell’art. 371.bis c.p. chiunque, nel corso del « procedimento penale », renda dichiarazioni « false » al p.m. o gli tace ciò che sa sui « fatti » sui quali viene sentito, ma consentendo — in vista dell’accertamento della ‘‘verità’’ — pure l’arresto, in flagranza o quasi flagranza ex art. 381 c.p.p., del mentitore o del reticente (100). Né il « diritto alla prova » del difensore, anche in riferimento alla possibilità di svolgere investigazioni « in proprio » a favore dell’assistito, riconosciutagli dagli artt. 190 c.p.p. e 38 d.att. c.p.p. può ritenersi disgiunta dallo scopo di verità cui tutto il processo tende (101). Connesso al suo ruolo di carattere pubblicistico, quale garante del corretto svolgimento del processo, ancorché svincolato, in vista della tutela degl’interessi dell’imputato che gli compete né, pertanto, tenuto in modo particolare all’affermazione di valori generali o superindividuali compresa, in ispecie, la ricerca della verità (102), appare tuttavia l’obbligo del difensore di comportarsi in modo da non contrapporsi od ostacolare il processo, in ispecie nella sua preordinazione verso l’accertamento e l’affermazione della stessa ‘‘verità’’. In quest’ordine di idee, peraltro, Cass. 25 gennaio 1993, n. 550 e Cass. 15 aprile 1993, n. 3666 (103), hanno affermato che nella richiesta ed ammissione delle prove a carico ed a discarico debbono essere sempre rispettati quei principi di libertà, legalità e correttezza, sanciti dagli artt.

(98) Cfr. RANDAZZO, L’interpretazione dell’art. 507 c.p.p. dopo le decisioni delle Sezioni Unite e della Corte Costituzionale, in Cass. pen., 1993, 2235; GIARDA, Praxis criminalis, cit., p. 529. (99) Rispettivamente in Mass. dec. pen. 1992, 191893 e Mass. dec. pen., 1993, 193812 e 196282. (100) CRISTIANI, Le modifiche al nuovo codice di procedura penale e la giurisprudenza costituzionale, Torino 1993, pp. 58-60. (101) Cfr. CRISTIANI, Commento all’art. 38 d.att. c.p.p., in Commento etc. a cura di M. CHIAVARIO, Norme di attuazione, vol. I, Torino 1992, pp. 158 e 170. (102) Cfr. in particolare FERRUA, voce « Difesa (diritto di) », cit., p. 472; COPPI, Difesa di ufficio ed autodifesa, in Temi rom., 1985, II, 20. (103) Rispettivamente in Cass. pen., 1993, 2103 e Riv. pen., 19944, 46.


— 251 — 188, 189, 190 e 191 c.p.p., la cui preordinazione al conseguimento della « verità oggettiva » non pare contestabile. E simili criteri, quanto meno in riferimento alla deontologia processuale sono talmente chiari, ad es. negli ordinamenti di common law, da giustificare, oltre all’esistenza di un preciso dovere a carico di tutte le parti di adeguare, nella fase predibattimentale, il proprio comportamento allo ‘‘scopo di verità’’ che queste perseguono, altresì, nel dibattimento, a carico del difensore, l’obbligo di osservare il c.d. duty of candor and fairness, il quale implica la possibilità di applicargli non solo sanzioni di carattere processuale, ma pure di natura personale ove vi contravvenga (104). Ebbene, nella prospettiva di consentire l’acquisizione al processo di prove non solo « correttamente » acquisite, ma anche « vere » e « genuine », va considerato quell’indirizzo ermeneutico della Cassazione, secondo cui i « risultati » delle indagini che il difensore, direttamente o per mezzo di suoi sostituti, consulenti tecnici o investigatori privati autorizzati, oggi è legittimato a compiere dall’art. 38 d.att. c.p.p., non sono autonomamente utilizzabili, bensì debbono essere sempre « canalizzati » verso il p.m. affinché costui, nello svolgimento dell’attività di ricerca della « verità dei fatti », che istituzionalmente gli compete svolga, ex art. 358 c.p.p., pure accertamenti su fatti e circostanze favorevoli all’indagato (105). In tal senso, ad es., eventuali dichiarazioni raccolte da investigatori privati incaricati dai difensori degl’indagati, non potranno mai essere portate a diretta cognizione del giudice, ma solo indicate e proposte al p.m. onde stimolarne l’attività investigativa o, al più, potranno giustificare la richiesta di un incidente probatorio (106). Ma la funzione corale di tutte le parti nella ricerca della verità emerge, sempre secondo la Cassazione, in tutta evidenza nella cross-examination dibattimentale o, secondo la terminologia degli artt. 498-499 c.p.p., in sede di esame diretto e controesame. Per i suoi laudatores, l’esame incrociato sarebbe, infatti, piéce maitresse della prova, espressione « tipica » del contraddittorio e dell’oralità del processo accusatorio, nonché « miglior metodo finora escogitato per estrarre la verità dal deponente » (107). Affermazioni ed esaltazione, in realtà non del tutto giustificate, in quanto nulla vieta che, come si è visto, al di là della sua spettacolarizzazione, il contraddittorio possa efficacemente realizzarsi, pur nel pieno rispetto dell’art. 24 cpv. Cost., anche senza un contatto « diretto » delle parti coi testimoni, mercé l’adozione, ad esempio, della procedura — valida nel giudizio pretorile — di cui all’art. 567, 4o comma, c.p.p., che consente alle parti di avanzare « domande » e proporre « contestazioni » tramite il giudice. Il che, come suggerisce la sperimentazione pratica, realizza il non indifferente vantaggio di assicurare, senza detrimento per la dialettica processuale e la ‘‘ricerca della verità’’, un maggior rispetto dei testimoni, spesso assoggettati al trauma di dover subire, perché portatori di tesi sgradite all’interrogante, ingiustificati attacchi personali, intesi ad infirmare la credibilità dei loro assunti ed altresì la loro affidabilità (108).

(104) Cfr. COMOGLIO-ZAGREBELSKY V., Modello accusatorio e deontologia dei comportamenti processuali nella prospettiva comparatistica, in questa Rivista, 1993, 445. (105) Cfr. Cass. 10 ottobre 1992, n. 3066, cit.; Cass. 8 maggio 1992, n. 588, in Mass. dec. pen., 1993, 194529; Cass. 21 marzo 1994, n. 686, ivi, 1994, 196852. (106) Cfr. Cass. 23 marzo 1994, n. 606, cit.; SCELLA, Questioni controverse in tema di informazioni testimoniali raccolte dalla difesa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 1169. (107) DE FRANCHIS, voce « Cross-examination », in Dig. disc. pen., cit., vol. III, Torino 1988, p. 279. (108) Cfr. DE FEO, ne Il processo penale negli U.S.A. a cura di E. AMODIO e C. BASSIOUNI, Milano 1988, p. 201; GAMBINI, La « cross-examination » nel processo penale inglese:


— 252 — Orbene, è significativo che tutta la giurisprudenza in tema di « istruzione dibattimentale » appaia oggi orientata, alla stessa stregua di quella degli ordinamenti di common law, nella direzione di sostenere che se « oralità », « immediatezza » e metodo dialogico restano i criteri maggiormente idonei a consentire la « formazione » della prova nel dibattimento, gli stessi non ne rappresentano, tuttavia, il « veicolo esclusivo », potendosi questa conseguire in altro modo ed in altra sede. Ed è singolare che la riconosciuta preordinazione del processo alla ricerca ed alla conoscenza della ‘‘verità’’ abbia finito con l’introdurre, senza tuttavia suscitare particolare scandalo, rilevanti aspetti inquisitori nella stessa roccaforte del metodo accusatorio (109). In particolare, evidentemente in ossequio al c.d. « principio di non dispersione », con realistico ridimensionamento dell’« oralità », dapprima la Consulta e, poi, anche la Cassazione hanno fornito una significativa chiave di lettura dell’art. 234 c.p.p. in tema di ‘‘prova documentale’’ precostituita al processo, per cui è stato ritenuto documento utilizzabile ai fini della « deliberazione » ex art. 526 st. cod., qualsiasi scritto o mezzo « idoneo a rappresentare non solo fatti ma anche dichiarazioni » (110). Così, possono essere liberamente prodotti ed utilizzati in giudizio: qualsiasi « atto interno » al processo stesso, comprese le decisioni della Cassazione (111) e pure le sentenze non ancora irrevocabili (112), anche se, al proposito, la utilizzabilità sembra circoscritta alla valutazione della personalità dell’imputato, ex art. 236 c.p.p., la relazione del curatore fallimentare (113) e la videoregistrazione di fatti (114). In tal senso appare altresì ridimensionato il divieto di cui all’art. 62 c.p.p. di utilizzare le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagini. L’espressione « comunque rese », infatti, viene ricondotta allo stretto ambito ‘‘procedimentale’’, come dichiarazioni rese « all’interno del procedimento » nel corso di un atto formale che riguardi direttamente l’indagato (115). Così, le dichiarazioni rese dall’imputato al p.m. o al g.i.p. durante la fase delle indagini preliminari di un procedimento « connesso » o « collegato » e usate per contestazioni ex art. 503, 5o e 6o comma c.p.p., sono considerate utilizzabili ai fini della decisione (116). E sempre in vista del raggiungimento dell’obiettivo di ‘‘verità materiale’’ può collocarsi quella giurisprudenza che ha esplicitamente inteso attenuare o elidere molti degli appesantimenti formali che tuttora gravano sulla struttura dibattimentale, affermando, ad esempio che: — la disciplina dell’esame e del controesame vale solo nel giudizio di primo grado, ma non in appello, né nella fase delle « indagini preliminari » (117). Le dichiarazioni regolarmente assunte in precedente dibattimento possono essere confermate in un dibattimento

limiti e inconvenienti, in questa Rivista, 1975, 1217 e, in generale. STONE, La cross-examination, strategie e tecniche, tr. it., Milano 1990, passim. (109) Cfr. in proposito: COMOGLIO-ZAGREBELSKY, op. cit., pp. 437 e ss. (110) Cfr. Corte Cost. 30 marzo 1992, n. 142. (111) Cfr. Cass. 20 ottobre 1992, n. 2753, in Mass. dec. pen., 1992, 192279. (112) Cass. 13 marzo 1992, n. 9758, n. 2753, in Mass. dec. pen., 1992, 190989. (113) Cass. 3 novembre 1992, n. 10309, in Mass. dec. pen., 1992, 192314. (114) Cass. 15 marzo 1993, n. 10309, in Mass. dec. pen., 1993, 195556-57. (115) Cfr. Corte Cost. 13 maggio 1993, n. 237; Cass. 12 novembre 1990, n. 3094, in Mass. dec. pen., 1990, 186081; Cass. 30 maggio 1991, n. 6007, in Mass. dec. pen., 1991, 187367; Cass. 10 febbraio 1994, n. 1708, in Mass. dec. pen., 1994, 196398. (116) Cass. 2 marzo 1993, n. 548, in Foro it., 1993, II, 460. (117) Cass. 2 luglio 1992, n. 7620, in Mass. dec. pen., 1992, 191340; Cass. 21 maggio 1993, n. 1868, ivi, 194716, ma contra: Cass. 5 dicembre 1992, n. 11730, ivi, 1992, 192900.


— 253 — successivo e sono utilizzabili e valide come prova dei fatti ammessi (118). Il « riconoscimento diretto » in udienza ad opera di un testimone rientra tra le prove testimoniali e rende superflua una ricognizione formale (119). La valutazione in ordine alla « pertinenza » ed alla « rilevanza » delle domande in sede di esame, di controesame e di riesame è rimessa al prudente ed insindacabile apprezzamento del presidente o del pretore, in vista dell’accertamento della ‘‘verità’’ (120). Le dichiarazioni dei testi che, prima del loro esame, non siano stati posti in condizione di non comunicare con le parti ex art. 149 d.att. c.p.p., danno luogo a prove affette da mera « irregolarità », priva di conseguenze in ordine alla loro « validità » ed « utilizzabilità » (121). La valutazione della prova testimoniale deve essere condotta in base al principio del « libero convincimento » del giudice, utilizzando anche il criterio della « scindibilità » delle parti da utilizzare ai fini della decisione, dando maggior credito a chi abbia subito gli effetti di una determinata condotta criminosa (122), tanto è vero che ai fini di una pronuncia di condanna sono sufficienti le dichiarazioni della persona offesa dal reato, ove queste siano sottoposte, mediante ‘‘riscontro coi fatti’’, a positiva indagine in ordine alla loro credibilità oggettiva, valutata anche la credibilità soggettiva di chi le abbia rese (123). 7. ‘‘Fatto’’ e ‘‘verità’’ nelle convenzioni internazionali e nelle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. — Se da questo fin qui esposto può conclusivamente rilevarsi — come peraltro si è chiaramente osservato in dottrina (124) — che la Corte Costituzionale, ripensando all’impianto di un modello di processo penale in linea coi principi della nostra Carta fondamentale ha finito col privilegiare forme e strutture che segnano un deciso ripudio delle soluzioni proposte e, sia pure in parte, attuate dal legislatore del 1987, rientrando nel solco della tradizione dei c.d. « sistemi misti », nessun peculiare apporto alla prefigurazione di un particolare modello di processo sembra potersi ricavare invece dalle convenzioni internazionali cui ha aderito il nostro Paese e, in ispecie, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali della L. di ratifica 4 agosto 1955, n. 848 e dal Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici, a sua volta ratificato con l. 25 ottobre 1977, n. 881 (125). Né dalle accennate convenzioni e patti sembra possibile ricavare specifici suggerimenti su che cosa sia da intendersi, alla loro stregua, per ‘‘fatto’’ e ‘‘verità processuale’’. In effetti, a parte la constatazione che nessuna delle norme in questione (cfr. in particolare artt. 5-6 C.E.D.U.) contiene, direttamente o indirettamente, accenni di forma o di so-

(118) Cass. 11 giugno 1992, n. 6692, in Mass. dec. pen., 1992, 190574. (119) Cass. 11 giugno 1992, n. 6922, in Mass. dec. pen., 1992, 190570. (120) Cass. 26 marzo 1993, n. 6437, in Mass. dec. pen., 1993, 194366. (121) Cass. 24 giugno 1992, n. 7399, in Mass. dec. pen., 1992, 190717 e Cass. 11 giugno 1992, n. 6022, ivi 109571. (122) Cass. 23 luglio 1992, n. 3754, in Mass. dec. pen., 1992, 189725; Cass. 11 giugno 1992, n. 6911, ivi, 190554; Cass. 3 novembre 1992, n. 10625, ivi, 192149; Cass. 3 agosto 1992, n. 7568, ivi, 1993, 194774. (123) Cass. 18 marzo 1992, n. 3220, in Mass. dec. pen., 1992, 189916. (124) GIARDA, Praxis Criminalis, cit., pp. 551 e ss. (125) Cfr. in proposito: CHIAVARIO, La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano 1969, pp. 263 e ss. e Processo e garanzie della persona, III ed., vol. II, Milano 1984, pp. 164 e ss. e 196 e ss.; PISANI, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e riforma del processo penale, in Foro it., 1976, V, 33; GIARDA, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’esperienza del processo penale, in Dif. pen., 1984, 47 e ss.; DALIA-FERRAIOLI, Corso etc., cit., pp. 16 e ss., 21-22).


— 254 — stanza allo scopo del processo e, in particolare, all’eventuale sua finalizzazione verso ‘‘l’accertamento dei fatti’’ ed al conseguimento della ‘‘verità’’, vi è solo da notare come l’attenzione dei Contraenti si sia incentrata in particolar modo verso la salvaguardia del diritto alla vita, alla incolumità ed alla libertà personale. Quanto al processo, si è inteso ribadire, invece, il diritto dell’« accusato » ad un giudice « naturale », precostituito per legge, indipendente ed imparziale nonché, dopo adeguata, completa e rapida informazione sull’accusa mossa contro di lui, ad un processo pubblico, ragionevolmente celere, fondato sul contraddittorio delle parti e sulla parità delle armi fra accusa e difesa (126). Ma, allo stesso modo della nostra Corte Costituzionale, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dovuto occuparsi della finalità del processo, del compito dell’accusa e della struttura del giudizio, non sembra aver esitato nell’assumere, del ‘‘fatto’’ e della ‘‘verità’’, una precisa nozione che non pare discostarsi dagli schemi culturali tradizionali. In Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 26 marzo 1982, Affare: Adolf, ad esempio, si legge che il « concetto di accusa » di cui ai nn. 1, 2 e 3 art. 6 C.E.D.U., ha un valore « sostanziale », che prescinde dalle soluzioni « formali » adottate dai vari Stati nei loro ordinamenti, dovendosi fare invece riferimento agli scopi di tutela che l’accennato art. 6 intende conseguire ed alla materia trattata. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 8 luglio 1986, Affare: Lingens, a sua volta, ancorché in riferimento alla libertà di espressione, propone un chiaro concetto del ‘‘fatto’’ rilevante ai fini dell’ordinamento penale e della ‘‘verità’’, assumendo che il primo ha sempre una connotazione tipicamente oggettiva e reale e che la ‘‘verità’’, per essere tale, deve essere identificata nei termini di ‘‘corrispondenza ai fatti’’. Nel puntualizzare, poi, quali siano i tratti caratterizzanti un « equo processo » preordinato a conseguire decisioni « giuste » ed « obbiettive », Corte Europea dei diritti dell’Uomo 24 maggio 1989, Affare: Hauschildt e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 20 novembre 1989, Affare: Kostovski, hanno esplicitamente affermato che il processo in genere ed il ‘‘contraddittorio’’ in particolare, a null’altro possono tendere se non all’‘‘accertamento della verità’’. E questa regola epistemica si rivela tanto più efficace, in quanto il ‘‘contraddittorio’’ risulti condotto in condizioni di reale « parità delle armi » tra accusa e difesa (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 28 agosto 1991, Baudstetter), a seguito di effettiva conoscenza dell’imputazione al dibattimento di un ‘‘accusato’’ che sia concretamente posto in condizione di « poter contraddire », adducendo propri elementi a discarico e contestando le avversarie deduzioni le quali, tuttavia, ancorché delibate in sede di giudizio, possono assumere dignità di « prova », ancorché « formate » fuori del dibattimento (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 24 novembre 1986, Affare: Unterpentiger e 26 maggio 1991, Affare: Asch). D’altra parte, le « prove » a null’altro tendono se non all’‘‘accertamento’’ di quella ‘‘verità’’, che il giudice deve affermare in condizioni di assoluta indipendenza ed imparzialità dopo avere, in piena libertà adeguatamente apprezzato i dati conferiti in giudizio (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 8 giugno 1976, Affare: Engel ed altri) (127). Ne consegue a questo punto che, anche per questa via, risulta ulteriormente confermata l’osservazione di quello studioso che notava come il legislatore del 1987 avesse compiuto il (grave) errore di proporre schemi logici e principi giuridici non in sintonia con l’evoluzione culturale del nostro tempo, determinando le inevitabili reazioni di rigetto di cui si è fatto cenno e dando la stura ad un futuro del tutto incerto, per cui sembra assai difficile prevedere

(126) DALIA-FERRAIOLI, op. cit., pp. 21-22. (127) Cfr. GIARDA, La fine del sistema accusatorio, cit.


— 255 — cosa mai sarà della nostra « sgangherata macchina processuale » (128), ove non soccorresse l’antica esperienza — ancora vanto della nostra cultura giuridica — secondo cui omne jus aut consensus fecit, aut necessitas constituit, aut firmavit consuetudo (129). L’evoluzione futura potrà, infatti, essere quella di un potenziamento del ‘‘contraddittorio’’, quella della giurisdizionalizzazione delle « indagini preliminari », oppure la reintroduzione dell’istruttoria formale o, al limite, l’adeguamento ai modelli stranieri ed alle ‘‘carte dei diritti dell’uomo’’ (130), ma pare assai difficile che i nuovi modelli, per essere accettati e coniugare davvero « efficienza e garanzie », possano ignorare la realtà « oggettiva », le concezioni ideologiche effettivamente dominanti e, soprattutto, le obbiettive esigenze della collettività e della prassi. Dott. LUIGI CARLI Magistrato

(128) Cfr. ancora FERRUA, Studi etc. cit., p. 184; GIARDA, Praxis Criminalis, cit., pp. 545 e ss. (129) Modestino, l. 49, D. de legg. 1,3. (130) V. FERRUA, op. cit., pp. 187-189; GIARDA, op. ult. cit., p. 553.


GIURISPRUDENZA

A) Giustizia costituzionale

I CORTE COSTITUZIONALE — 22-30 giugno 1994, n. 267 Pres. Casavola — Rel. Spagnoli Ricognizione reciproca attiva di persone o cose — Coimputati — Forma di testimonianza — Questione di legittimità costituzionale — Arbitrarietà di un’equiparazione della ricognizione alla testimonianza prescindendo dalla qualità del soggetto attivo dell’atto — Possibilità di esercizio del diritto al silenzio processuale — Non fondatezza della questione di legittimità costituzionale (C.p.p. art. 213; Cost. artt. 3 e 24 comma 2). Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 213 c.p.p., con riferimento agli artt. 3 e 24 comma 2 Cost., in quanto è arbitrario equiparare la ricognizione alla testimonianza prescindendo dalla considerazione della qualità del soggetto attivo dell’atto, che può essere tanto un testimone, quanto un coimputato (o l’imputato in un separato procedimento connesso). In particolare, quando ricorra tale ultimo caso, il soggetto ricognitore è assistito dal diritto al silenzio, ed è applicabile la regola posta, per l’esame, dall’art. 210 comma 4 c.p.p. (1).

II CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 18 febbraio 1994 Pres. Suriano — Rel. De Roberto P.M. (concl. conf.) — Ric. Goddi e altri Ricognizione reciproca attiva di persone o cose — Coimputati — Natura dichiarativa dell’atto di ricognizione — Conseguenze — Possibilità di esercizio del diritto al silenzio processuale — Applicabilità dell’art. 210 comma 4 c.p.p. (C.p.p. art. 213). La ricognizione rappresenta un mezzo di prova che, almeno nel concreto, ap-


— 257 — pare designato da un contenuto dimostrativo minore rispetto all’esame, potendo assumere anche la veste di mero segmento di quell’atto. Dalla natura dichiarativa dell’atto di ricognizione discende la sicura applicabilità delle regole previste dall’art. 210 c.p.p. e la conseguente necessità che sia formalizzato nei confronti del soggetto attivo della ricognizione stessa, quando rivesta la qualità di coimputato o di imputato in separato procedimento connesso, l’avviso della facoltà di tacere, fermo restando il diritto del medesimo coimputato di non prestarsi all’atto ricognitivo, tanto più quando già abbia in precedenza rifiutato di sottoporsi ad esame (2).

I (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. In un’udienza fissata per la trattazione di un incidente probatorio richiesto dal pubblico ministero per l’assunzione di una ricognizione di persona imputata di furto da parte di persona imputata, nel medesimo procedimento, del connesso reato di ricettazione, il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Macerata, con ordinanza in data 16 settembre 1993, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 213 del codice di procedura penale, nella parte in cui consente che siano assunti come autori della ricognizione anche i coimputati dello stesso reato o gli imputati in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 del codice di procedura penale. Premesso che la ricognizione di persona o di cosa deve ritenersi, anche sulla scorta della prevalente dottrina, una forma di testimonianza, atteso che, nel momento in cui effettua la ricognizione il suo autore riferisce al giudice, e cioè testimonia, in ordine alla presenza, all’identità, alle caratteristiche di una certa persona e a quanto altro valga ad attribuire alla medesima la paternità di un fatto rilevante nel processo penale, il giudice a quo osserva che la disciplina relativa a tale atto non prende in considerazione le ipotesi di incompatibilità previste dall’art. 197 del codice relativamente alla testimonianza e, in particolare, non prevede il divieto di assumere come « ricognitori » i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso. Né tale silenzio normativo può essere riempito, secondo il remittente, da un’interpretazione estensiva o analogica, sia per la netta distinzione dei regimi relativi ai due mezzi di prova, sia per la natura eccezionale della disciplina sull’incompatibilità alla testimonianza. A parere del giudice a quo, la disciplina sulle ricognizioni, non consentendo, diversamente dalla testimonianza, al coimputato dello stesso reato o, come nella specie, alla persona imputata di un reato connesso di rifiutare l’« ufficio di ricognitore », ed anzi, ancor prima, non prevedendo il divieto di assumere detti soggetti come autori della ricognizione, si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza. Il costringere un coimputato dello stesso reato o un imputato di reato connesso a rendere dichiarazioni tali da poter pregiudicare la sua posizione processuale senza assicurargli il diritto di rifiutarsi di rispondere o comunque di prestare


— 258 — l’ufficio di ricognitore del coimputato sarebbe inoltre, secondo il remittente, non conforme al dettato dell’art. 24 comma 2 della Costituzione. 2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che si è limitata a chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata, riservandosi di illustrare le proprie ragioni. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Macerata, muovendo dal presupposto interpretativo che l’art. 213 c.p.p. non assicura all’imputato chiamato a riconoscere la persona di un coimputato il diritto di rifiutarsi di rispondere o, comunque, di prestare l’« ufficio di ricognitore », dubita che tale disposizione, in parte qua, sia in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina della testimonianza, che, per il coimputato e per l’imputato in un procedimento connesso, prevede un’incompatibilità all’atto e, quindi, un divieto di assumere le relative dichiarazioni; b) con l’art. 24 comma 2 Cost., in quanto costringerebbe detti soggetti a rendere dichiarazioni tali da poter pregiudicare la loro posizione processuale. 2. Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, in quanto del tutto immotivata. 3. La questione non è fondata. Il rimettente, da un lato, assume che la ricognizione di persona o cosa costituisce « sempre una forma di testimonianza » e, dall’altro, deduce che, non contemplando la disciplina sulla ricognizione « le ipotesi di incompatibilità previste dall’art.197 c.p.p. », tale « lacuna normativa » non potrebbe essere « coperta con un’interpretazione o estensione analogica ». Ma comunque si voglia definire la natura del mezzo di prova-ricognizione, problema non univocamente risolto dall’elaborazione dottrinale, è arbitrato equiparare la ricognizione alla testimonianza prescindendo dalla considerazione della qualità del soggetto attivo dell’atto. E ciò proprio perché, mentre chiamato alla testimonianza non può essere altri che un testimone, vale a dire una persona per definizione disinteressata ai fatti per cui si procede, soggetto attivo della seconda può essere tanto un testimone, quanto il coimputato (o l’imputato in un separato procedimento connesso). In tale ultimo caso, evidentemente, l’atto dichiarativo di ricognizione, provenendo da un soggetto interessato ai fatti, è assimilabile semmai all’esame (a seconda dei casi, dell’imputato o dell’imputato in un procedimento connesso: artt. 208-210 c.p.p.). Sebbene non esplicitato dalla norma, in dottrina non si è mai dubitato che, se il ricognitore è il coimputato (o l’imputato in un procedimento connesso) egli sia assistito dal diritto al silenzio, che è un principio cardine del nostro sistema processuale. Tale impostazione trova conferma anche in una recente decisione della Corte di cassazione (Sez. VI pen., u.p. 18 febbraio 1994, Goddi), secondo cui dalla natura dichiarativa dell’atto di ricognizione discende che, nel caso in cui chiamato ad effettuare la ricognizione sia una persona imputata in un separato procedimento


— 259 — connesso, si rende applicabile la regola posta, per l’esame, dall’art. 210 comma 4 c.p.p. (avviso della facoltà di non rispondere). Più in generale, nella medesima decisione si afferma che dal principio nemo tenetur se detegere deriva il diritto del coimputato o dell’imputato in un separato procedimento connesso di non prestarsi alla ricognizione attiva. 4. In conclusione, sia l’imputato intraneus o extraneus rispetto al procedimento nell’ambito del quale è chiamato a effettuare una ricognizione, l’esercizio del suo diritto al silenzio impedisce di fatto l’espletamento dell’atto. Di qui l’infondatezza delle censure prospettate dal giudice a quo. P.Q.M. — La Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 213 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 comma 2 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Macerata con l’ordinanza in epigrafe. — (Omissis).

II (Omissis). — I fratelli Goddi hanno, con entrambi i ricorsi, denunciato sub specie sia di mancanza e manifesta illogicità della motivazione e di omessa assunzione di una prova decisiva sia della violazione dell’art. 603 c.p.p., la denegata rinnovazione del dibattimento allo scopo di ‘‘procedere al confronto con Delogu Graziano ed Ortu Giorgio ed agli altri atti di ricognizione, o di individuazione personale nei confronti di Goddi Giovanni ad opera degli stessi’’. La censura è priva di fondamento. Va, in proposito, ricordato che l’impugnata sentenza ha addebitato a Giovanni Goddi il ruolo di organizzatore del sequestro del piccolo De Megni, desumibile dall’incontro avvenuto verso la fine dell’estate 1990 nel podere di Delogu Graziano, fra il Goddi, il Murreddu, il Farina e, appunto, il Delogu, nonché di esecutore materiale, insieme al fratello Francesco, al Murreddu ed al Farina, oltre ad altra persona rimasta sconosciuta. Tra gli elementi dotati di forza probante posti a base della statuizione di condanna, la Corte perugina ha indicato gli atti di individuazione fotografica, negativa da parte del Delogu e positiva da parte dell’Ortu, la posizione dei quali è stata separatamente definita con rito abbreviato. Le censure dei ricorrenti, sinteticamente enucleabili sotto il profilo della violazione dell’art. 606 comma 1 lett. d), c.p.p., si riferiscono, in effetti, all’omessa assunzione dei richiesti atti di ricognizione personale, non potendo, certo, venire qui in considerazione né il confronto, per la prevalenza della dichiarazione ricognitiva, né l’individuazione, trattandosi di atto tipico della fase delle indagini preliminari. La Corte di merito ha negato l’espletamento del mezzo di prova richiesto richiamandosi sia all’art. 210 comma 4 c.p.p., sia (come afferma la sentenza, ad abundantiam) alla considerazione che, avvenuto il riconoscimento in base a foto-


— 260 — grafia, il successivo atto di ricognizione personale si sarebbe rivelato ‘‘inutile’’, perché ‘‘ci sarebbe stata una condizione atta a prevenire il ‘riconoscimento’ ’’. Pur dovendo convenirsi sull’infondatezza delle censure, le argomentazioni della decisione denunciata vanno in parte corrette: alla conformità alla legge processuale della statuizione conclusiva non corrisponde sempre, infatti, un’applicazione rigorosa delle norme da ritenere rilevanti in subiecta materia. Più in particolare, non appare ineccepibile l’isolato richiamo all’art. 210 comma 4 c.p.p. che, in relazione a persona imputata in procedimento connesso, impone al giudice di avvertirla della facoltà di non rispondere; e ciò in quanto tale avvertimento non è stato rivolto né al Delogu né all’Ortu. Vero è che dalla natura dichiarativa dell’atto di ricognizione discende la sicura applicabilità delle regole previste dalla norma sopra richiamata (cfr., sia pure indirettamente, sul punto, Sez. I, 11 maggio 1992, Cannarozzo, 190570, in Cass. pen., 1994, p. 125) e la conseguente necessità dell’avviso della facoltà di tacere. Ma la vera ragione che comprova l’esattezza della soluzione adottata sembra risiedere nel fatto che, una volta manifestata la volontà del coimputato di non partecipare al processo sottoponendosi ad esame, a norma dell’art. 210 c.p.p., risulterebbe assolutamente ultroneo — se non addirittura contraddittorio — disporre la ricognizione rivolgendogli l’avvertimento di cui al comma 4 di tale articolo, per avere l’imputato stesso, rifiutando di assoggettarsi ad un atto che, in un certo senso, può anche compendiare un preterito momento ricognitivo, univocamente espresso il suo intento di non prestare il proprio contributo di conoscenze; il tutto anche considerando che la ricognizione rappresenta un mezzo di prova che, almeno nel concreto, appare designato da un contenuto dimostrativo minore rispetto all’esame, potendo assumere anche la veste di un mero segmento di quell’atto di acquisizione categoricamente rifiutato. D’altro canto, se è necessario rimarcare come la ricognizione costituisce un’operazione procedimentale a struttura complessa, non sembra affatto che, relativamente a colui che è chiamato ad effettuare il riconoscimento, essa si presenti con connotazioni diverse dalla dichiarazione, sia pure designata da specifici dati di qualificazione, perché comunque collegati ad un dato gnoseologico diretto ad una verifica individuativa. E ciò soprattutto quando chiamato ad avere parte attiva nella procedura sia non un testimone ma un coimputato ovvero un imputato in reato connesso o collegato, riguardo al quale non operano, ovviamente, le disposizioni di cui all’art. 499 c.p.p., applicabili, invece, agli altri soggetti che procedono a ricognizione. Del resto, anche nel vigore del codice del 1930, il diritto dell’imputato di non prestarsi alla ricognizione veniva dalla dottrina (sono assenti, invece, precedenti giurisprudenziali editi) ritenuto insito nel principio nemo contra se detegere. Un principio del quale la Corte costituzionale — con un’affermazione certo non avente mero valore di obiter — aveva a suo tempo precisato la portata, con inevitabili riverberi anche sulla ricognizione ‘‘attiva’’, per l’identica ratio decidendi a base della tutela, affermando che ‘‘il diritto di non rispondere’’ è stato introdotto in ogni ‘‘ipotesi in cui l’inquisito viene posto a contatto diretto con l’autorità procedente’’ (sentenza n. 34 del 1973), così da ‘‘rafforzare la libertà morale dell’imputato per sollevarlo dallo stato di soggezione psicologica in cui possa venire a


— 261 — trovarsi a cospetto dell’autorità e per porlo a riparo da eventuali pressioni che su di lui possano essere esercitate’’. 4.2. Non può, inoltre, essere trascurato come il diritto alla prova riconosciuto alle parti dall’art. 190 comma 1 c.p.p. (singolarmente non chiamato in causa dai ricorrenti), implica la corrispondente attribuzione del potere di escludere le prove manifestamente superflue ed irrilevanti, secondo una verifica di esclusiva competenza del giudice di merito e che sfugge al sindacato di legittimità quando abbia formato oggetto di apposita motivazione che abbia dato conto del provvedimento adottato attraverso una spiegazione immune da vizi logici e giuridici (Sez. I, 9 arile 1992, Parisi, 191304; cfr., altresì, Sez. VI, 3 settembre 1992, Cocimano, 193755). Nello specifico, quindi, a parte le considerazioni sopra svolte quanto all’integrale effetto preclusivo derivante dal rifiuto di sottoporsi ad esame, la verifica del giudice è rimasta condizionata dall’assoluta posizione negativa assunta dal coimputato che avrebbe reso comunque inattendibile — nel caso, per la verità, del tutto teorico in cui il suo atteggiamento fosse mutato — il successivo atto di ricognizione. Sta anche qui, dunque, la ‘‘condizione atta a prevenire il riconoscimento’’ alla quale si richiama il giudice a quo, non anche nell’avvenuta preventiva individuazione fotografica, non potendo certo affermarsi l’esistenza di un rapporto di alternatività tra individuazione e ricognizione, cosicché, una volta disposta la prima, non potrebbe mai procedersi alla seconda. Una simile linea interpretativa conduce, infatti, a sovrapporre surrettiziamente le nozione di atto non rinviabile e di atto non ripetibile, risultando l’individuazione, come tale, sempre ripetibile (salvo che l’oggetto di esso sia nel frattempo venuto meno) attraverso il ‘‘mezzo di prova’’ rappresentato dalla ricognizione. La nozione di atto irripetibile non va intesa, qui, in senso assoluto, quasi come un dato ontologico come quello derivante dall’essere l’acquisizione collegata alla natura di mezzo di ricerca della prova che contrassegna la fonte. Ci si trova adesso, invece, in presenza di un assetto probatorio in cui il vincolo relazionale che, almeno di norma, è istituibile fra l’atto delle indagini preliminari (o anche dell’udienza preliminare) e la sua corrispondente valenza (salvo che si tratti di atto assunto utilizzando la procedura dell’incidente probatorio), e l’atto acquisito nel dibattimento — la sede per definizione demandata alla formazione della prova — fa sì che debba qualificarsi irripetibile l’atto dell’indagine non riproducibile attraverso i moduli acquisitivi propri del dibattimento (o dell’incidente probatorio). Tale intrinseca coessenzialità funzionale è stata puntualmente avvertita dalla giurisprudenza proprio nell’ambito dei rapporti tra individuazione (lato sensu intesa) e ricognizione: trova così precisa collocazione il principio, ancora di recente affermato da questa Corte Suprema, stando al quale il valore della ricognizione fotografica eseguita dalla polizia giudiziaria, per sé meramente indiziario, viene totalmente meno ove la ricognizione di persona, successivamente eseguita in sede di incidente probatorio, dia esito negativo, potendo conservare valenza indiziaria al riconoscimento fotografico solo la dimostrazione che il detto esito negativo sia l’effetto di un mendacio (Sez. VI, 18 dicembre 1992, Messina, 193796). Un principio da cui pare derivare, a corollario, che l’individuazione consente un’oggettiva


— 262 — ripetibilità attraverso il corrispondente strumento di acquisizione probatoria e, dunque, come ad essa non possa essere assegnato il valore di atto (contenutisticamente) non ripetibile. Quel che contrassegna l’individuazione è, peraltro, la sua necessaria immediatezza che, mentre, per un verso, ne designa, almeno sul piano fenomenico, una maggiore efficacia dimostrativa, per un altro verso, la rende operante entro termini di ‘‘rischio’’ che il pubblico ministero ha l’onere di valutare: lo comprova sia la sua natura di atto ‘‘non garantito’’ dalla partecipazione del difensore sia l’impossibilità per la parte privata di precluderne l’espletamento attraverso la riserva di assunzione di un mezzo di prova, una riserva in altri casi consentita solo riconoscendo l’esistenza del diritto all’acquisizione anticipata della prova stessa (v. artt. 360 c.p.p. e 117 norme att.). Il che porta a ritenere — conformemente, del resto, a quanto risulta dalla Relazione al progetto preliminare (pag. 91), laddove si auspica che il pubblico ministero si avvalga dello strumento previsto dall’art. 361 ‘‘solo nella prima fase delle indagini ad evitare che la necessità del compimento dell’atto possa incidere sul convincimento del giudice’’ — che, anche la presenza di una precedente individuazione rende di norma necessaria una successiva ricognizione nella sede dibattimentale (o dell’incidente probatorio). Un atto qui non potuto espletare sia perché i coimputati la cui posizione è stata definita con sentenza pronunciata in esito a giudizio abbreviato si sono rifiutati di contribuire all’acquisizione della prova al dibattimento, sia perché la ricognizione è stata ritenuta, con motivazione immune da ogni censura, irrilevante dal giudice a quo. 4.3. L’individuazione fotografica eseguita nel corso delle indagini preliminari è stata così utilizzata a norma dell’art. 526 comma 1 c.p.p. stante il diniego dei coimputati di sottoporsi ad esame, facendo corretta applicazione dell’art. 513 comma 2 c.p.p., dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 254 del 1992) proprio laddove prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al comma 1 del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell’art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere. Ma a parte ciò, l’integrale contenuto prescrittivo dell’art. 513 (quale risultante dalla sentenza costituzionale ora ricordata) disvela univocamente l’esistenza del diritto dell’imputato di reato connesso di non essere sottoposto ad esame ed il corrispondente dovere del giudice, riscontrato il rifiuto, di procedere alla lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini. Se si interpreta, infatti, il comma 2 dell’art. 513, alla luce del suo comma 1, si perviene al risultato ermeneutico in forza del quale, poiché quest’ultimo precetto fa scaturire dal rifiuto del coimputato di sottoporsi ad esame, la ‘‘lettura dei verbali delle dichiarazioni rese... al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare’’, deriva dal detto rifiuto e dalle altre condizioni previste dalla legge, l’utilizzabilità, ai fini di decisione, degli atti consistenti in dichiarazioni che provengano dal coimputato e, quindi, anche dell’individuazione: il tutto a prescindere da un’espressa richiesta di prestarsi all’assunzione della ricognizione. Una conclusione che trova riscontro nella diversa tipologia degli atti delle in-


— 263 — dagini preliminari rispetto agli atti da assumere nel dibattimento e che fa ritenere, dunque, assolutamente arbitraria ogni omologazione, anche soltanto morfologica, tra ciascuna delle due categorie. Cosicché, intervenuto il rifiuto di sottoporsi ad esame, consegue l’inevitabile lettura ed utilizzazione degli atti dichiarativi del coimputato indicati nel comma 1 dell’art. 513. Sul piano sistematico — una volta ammessa l’esistenza del diritto del coimputato di non prestarsi quale soggetto (attivo) della ricognizione — l’epilogo è nel senso che anche a tale rifiuto non potrà conseguire se non l’identico effetto scaturente dal comma in questione. È, poi, appena il caso di ribadire che un’evenienza del genere non è stata espressamente contemplata solo perché l’esame, valendo a ricomprendere, quale atto tipicamente dichiarativo, ogni fonte consistente in una dichiarazione, comporta, ex se, in caso di rifiuto, l’utilizzabilità degli atti assunti nella fase anteriore al dibattimento, mentre la ricognizione, quale dichiarazione riproduttiva di una percezione visiva mirata, rappresenta soltanto una specie del più generale concetto di dichiarazione. In questi termini va, quindi, dichiarato il significato ermeneutico, sul punto, delle statuizioni della Corte di merito; da tale precisazione non deriva, peraltro, alcun addebito di essenziale rilievo al contesto motivazionale, donde l’infondatezza delle censure. — (Omissis).

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La ricognizione personale « attiva » all’esame della Corte costituzionale: facoltà di astensione o incompatibilità del coimputato?

1. A distanza ormai di venticinque anni dalla sua introduzione nel sistema processuale penale (1), il principio del diritto al silenzio dell’imputato sembra essere ancora oggetto di qualche incertezza applicativa. Il paradigma del nemo tenetur se detegere parrebbe, infatti, trovare un’eccezione — ad avviso del giudice che ha rimesso la questione qui all’esame della Consulta — a proposito di un mezzo di prova, la ricognizione ex art. 213 ss. c.p.p., al cui svolgimento (nel ruolo attivo) può essere chiamato tanto il coimputato quanto l’imputato in procedimento connesso o di reato collegato, senza che l’ordinamento — che non ne vieta la partecipazione — gli assicuri almeno la facoltà di astensione. La disciplina dell’istituto non offre, in effetti, alcuna esplicita indicazione sotto questo profilo. Non solo, cioè, non v’è traccia — a differenza di quanto è previsto per la testimonianza — della presunzione di inconciliabilità tra l’ufficio del ricognitore ed i soggetti « coinvolti » nel procedimento, ma non si trova espressamente riprodotta neppure la norma che attribuisce al convocato la facoltà di non rispondere.

(1) L’ingresso del principio in parola nel sistema processuale penale risale, infatti, alla l. 5 dicembre 1969, n. 932, che modificava l’art. 78 comma 3 c.p.p. 1930. Per una approfondita analisi della materia e per l’interessante ricostruzione del contesto normativo e culturale in cui la novella si inseriva, resta fondamentale l’opera di V. GREVI, « Nemo tenetur se detegere ». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972. Sul tema v. già G. CONSO, Giustizia penale e diritti dell’uomo, in Ind. pen., 1969, 12.


— 264 — Di qui il dubbio, affrontato e lapidariamente risolto in questa occasione dalla Corte costituzionale, circa la compatibilità con gli artt. 3 e 24 comma 2 Cost. dell’art. 213 c.p.p. « nella parte in cui consente che siano assunti come autori della ricognizione anche i coimputati dello stesso reato o gli imputati in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 c.p.p. ». L’argomentazione trae spunto dall’osservazione dell’oggettiva assimilabilità dei due istituti, la testimonianza e la ricognizione. La ricognizione di persona o di cosa — sostiene il giudice rimettente — costituisce sempre una forma di testimonianza, « essendo innegabile che l’autore della ricognizione non fa che descrivere al giudice, nel contraddittorio dibattimentale o dell’incidente probatorio, una determinata realtà fenomenica caduta (o meno) sotto i propri sensi ed attinente ai fatti oggetto dell’imputazione, con specifico riguardo all’identità di una persona o di una cosa ». Nel momento in cui effettua (positivamente o non) la ricognizione, « il suo autore riferisce al giudice — e cioè testimonia — in ordine all’esistenza, alla presenza, all’identità di una certa persona, alle sue caratteristiche ed a quant’altro valga ad attribuire alla persona (o ad escludere) la paternità di un fatto rilevante nel processo penale » (2). Nonostante, dunque, la marcata identità sotto il profilo contenutistico (3), i due istituti sembrerebbero ingiustificatamente destinati ad una netta differenziazione sul piano delle regole che presidiano tanto l’attendibilità del risultato quanto l’operatività del fondamentale paradigma del nemo tenetur se detegere, attesa l’« evidente volontà del codificatore di tenere distinte le rispettive discipline relative ai due mezzi di prova », cui farebbe riscontro l’impossibilità di procedere all’estensione analogica di una « norma (art. 197 c.p.p.) di natura eccezionale rispetto alla regola generale per cui ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196 c.p.p.) » (4). 2. Giova svolgere, a questo punto, una rapida disamina della disciplina normativa dell’istituto della ricognizione, sotto il profilo che qui rileva, e della sua evoluzione nel passaggio dal codice abrogato al vigente. Inquadrata, come tutti i mezzi di prova tipici, nella parte relativa all’istruzione formale, la ricognizione ex artt. 360 ss. c.p.p. abrogato è strutturata come atto formale di accertamento probatorio « avente come elemento caratteristico l’esame critico di persone o di cose, in vista della loro identificazione » (5). Proprio in considerazione della ritualità dell’esperimento — le cui modalità vengono analiticamente dettate, a pena di nullità, dall’art. 360 — alla ricognizione

(2) G.i.p. Pret. Macerata, 16 settembre 1993, Greco, in G.U., 1a serie spec., 24 novembre 1993, n. 48, 62. (3) In argomento v. F. CORDERO, Procedura penale, 2a ed., Milano, 1993, 641; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Milano, 1992, 277; D. SIRACUSANO, in AA.VV., Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 1994, 409. (4) Così nella motivazione dell’ordinanza del giudice rimettente: cfr. G.i.p. Pret. Macerata, 16 settembre 1993, Greco, loc. cit. (5) In questi termini G. BONETTO, Commento all’art. 360 c.p.p., in G. CONSO-V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 1987, 1049, che aderisce alla tesi dottrinale di E. FLORIAN, Delle prove penali, Milano, 1961, 610 e G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. II, 2a ed., Milano, 1968, 91. Per l’analisi dell’istituto, vigente il codice abrogato, cfr. G. PANSINI, Le ricognizioni nel processo penale, in Arch. pen., 1983, 677; A. SANTORO, voce Ricognizioni e confronti, in Nov.mo dig. it., vol. XV, Torino, 1968, 956; D. VIGONI, La ricognizione personale, in questa Rivista, 1985, 173.


— 265 — formale è assegnato valore di prova (6), a differenza delle operazioni effettuate senza l’osservanza delle specifiche prescrizioni, che assumono, al più, natura di meri elementi indiziari, concorrenti con altri — in base al principio della libertà delle prove e del loro libero apprezzamento — alla formazione del convincimento del giudice (7). Del resto, seppure non manca in dottrina chi precisa che, più che di un mezzo di prova, si tratterebbe di un atto ascrivibile alla categoria delle « operazioni » (8) o degli « atti istruttori informativi », mirati « ad assodare il presupposto e a valutare la credibilità di un elemento di prova » (9), non sembra potersi dubitare che nella categoria delle prove possa rientrare anche il mezzo che ha funzione di « controllo » di un dato conoscitivo « che può assumere un valore logico determinante nella ricostruzione dei fatti e, quindi, per la formazione del convincimento » (10). Con riguardo al soggetto attivo, l’art. 363 c.p.p. 1930 specifica che « quando la persona o la cosa deve essere riconosciuta da chi ha la qualità di testimonio » il giudice, prima di procedere, « gli fa prestare giuramento, a pena di nullità, a’ termini dell’art. 449 ». Dalla formula appena ricordata, e dal generico riferimento contenuto all’art. 360 (« chi deve eseguire » la ricognizione), si trae una duplice conferma: la mera eventualità che chiamato a prestare l’ufficio sia un testimone, e la (conseguente) assenza di espliciti limiti in ordine al novero delle persone abilitate a compiere la ricognizione. Se, dunque, dal testo normativo si deduce chiaramente che il ricognitore non assume, per ciò solo, la veste di testimone, non è però dato comprendere con altrettanta evidenza quali regole siano applicabili, in ordine al consenso ad eseguire il riconoscimento, quando chiamato all’ufficio sia un soggetto diverso dal testimone e, in particolare, un coimputato od un imputato in procedimento connesso; tanto che v’è chi sostiene che solo il testimone « può, ricorrendone i presupposti, astenersi dalla ricognizione così come può astenersi dalla testimonianza » (11). L’impostazione non muta con il codice del 1988: mentre il dato sistematico avvalora la funzione probatoria del mezzo (12), la mancata riproduzione della

(6) Cfr. E. FLORIAN, op. cit., 502: « la ricognizione è un mezzo di prova perché mediante la medesima viene introdotta nel processo ed in questo si acquista la conoscenza certa dell’identità fisica di una persona o di una cosa ». (7) Sul tema, oltre a R. DELL’ANNO, Osservazioni in tema di individuazione e ricognizione di persona nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1991, 1898, si rinvia alla recente indagine di A. CAMPO, Appunti in tema di ricognizione e « ravvisamento », ivi, 1994, 127, utile anche per il panorama bibliografico e giurisprudenziale tracciato. (8) In questo senso A. MELCHIONDA, voce Ricognizione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, 531, che tuttavia sembra convenire « sull’equiparazione della ricognizione a quegli atti che il legislatore mostra di considerare strumenti processuali intesi ad acquisire elementi di valutazione, descrivendone le modalità di assunzione o formazione » riferendosi « alle cosiddette prove nominate, o qualificate, o tipiche descritte nel (...) titolo II, libro II c.p.p. 1930 ». (9) La tesi è di V. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. IV, 6a ed., aggiornata da G. Conso e G.D. Pisapia, Torino, 1972, 217. (10) Così P. MOSCARINI, voce Ricognizione (proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1991, 1. (11) G. BONETTO, op. loc. cit. (12) L’art. 213 c.p.p. è inserito nel titolo II del libro III, dedicato ai mezzi di prova. È la stessa Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, Suppl. ord. n. 2, 64, del resto, a definire la ricognizione un « mezzo di prova tipico », che va


— 266 — norma dedicata alla figura del testimone-ricognitore (13) non sembra di per sé sintomatica di una diversa delineazione dell’ambito soggettivo della ricognizione (14). 3. La Corte costituzionale, come si è accennato, dedica alla questione poche righe, tralasciando la questione relativa alla denunciata lacuna normativa in tema di incompatibilità e concentrando, invece, l’attenzione esclusivamente sull’aspetto relativo al diritto dell’interessato di astenersi dal prestare lo specifico ufficio. Comunque si voglia definire la natura del mezzo di prova, si legge nella sentenza, « è arbitrario equiparare la ricognizione alla testimonianza prescindendo dalla considerazione della qualità del soggetto attivo dell’atto » che, per la ricognizione, può essere tanto un testimone quanto il coimputato; e, in quest’ultimo caso, attesa « la natura dichiarativa dell’atto », « si rende applicabile la regola posta, per l’esame, dall’art. 210 comma 4 c.p.p. ». Vano sarebbe ricercare nella motivazione più analitiche argomentazioni: « dal principio del nemo tenetur se detegere — si conclude — deriva il diritto del coimputato o dell’imputato in un separato procedimento connesso di non prestarsi alla ricognizione attiva »; cosicché, « sia l’imputato intraneus o extraneus rispetto al procedimento nell’ambito del quale è chiamato ad effettuare una ricognizione, l’esercizio del suo diritto al silenzio impedisce di fatto l’espletamento dell’atto » (15). 4. Più articolata è invece la pronuncia, di poco antecedente, della Corte di cassazione, cui la Consulta fa diretto richiamo e rinvio. I giudici della VI Sezione ritengono innanzitutto indubitabile che la ricognizione rappresenti « un mezzo di prova che, almeno nel concreto, appare designato da un contenuto dimostrativo minore rispetto all’esame, potendo assumere anche la veste di mero segmento di quell’atto ». D’altro canto, nel rimarcare come l’istituto configuri un’operazione a struttura complessa, la Corte puntualizza la natura dichiarativa dell’atto compiuto dal soggetto chiamato ad effettuare il riconoscimento; atto che si traduce, appunto, in una dichiarazione connotata da « dati di qualificazione » specifici, perché « comunque collegati ad un dato gnoseologico diretto ad una verifica individuativa ». In sostanza, mentre l’esame ricomprende ogni fonte consistente in una dichiarazione, la ricognizione rappresenta, « quale dichiarazione riproduttiva di una percezione visiva mirata », « soltanto una specie del più generale concetto di dichiarazione ». Di qui discende, secondo la Cassazione, la sicura applicabilità dell’art. 210 c.p.p. al caso di specie (16) e la conseguente necessità che sia formalizzato, prima dell’inizio dell’operazione, l’avviso della facoltà di non rispondere.

tenuto distinto dall’« individuazione di persone o cose disciplinata dall’art. 361, con riguardo alle sole indagini del pubblico ministero, in attuazione della direttiva 37 della legge-delega ». (13) Dovuta, come è noto, all’abolizione del rito del giuramento per i testimoni. In tema T. TREVISSON LUPACCHINI, Dal « giuramento » all’« impegno » dei testimoni nel processo penale, in Giur. it., 1992, II, 367. (14) A. MELCHIONDA, Commento all’art. 213 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 546. (15) Per un primo commento alla sentenza costituzionale annotata cfr. V. GREVI, Quando un imputato può opporsi al giudice, in Corriere della Sera, 11 luglio 1994. (16) Un indiretto precedente, richiamato dalla stessa Corte Suprema nella motivazione qui pubblicata, è rappresentato da Cass. 11 maggio 1992, Cannarozzo, in Cass. pen., 1994, 125, con nota di A. CAMPO, Appunti in tema di ricognizione e « ravvisamento », cit.


— 267 — Del resto, ricorda la Cassazione, la stessa Corte costituzionale si era espressa precisando che « il diritto di non rispondere » costituisce garanzia volta a « rafforzare la libertà morale dell’imputato per sollevarlo dallo stato di soggezione psicologica in cui possa venire a trovarsi a cospetto dell’autorità e per porlo a riparo da eventuali pressioni che su di lui possono essere esercitate »; un diritto, dunque, che trova applicazione in ogni ipotesi « in cui l’inquisito viene posto a diretto contratto con l’autorità procedente » (17). E dunque, così come si fa discendere dal principio del nemo tenetur se detegere il diritto dell’imputato di non prestarsi, come soggetto passivo, alla ricognizione, allo stesso modo (ed a maggior ragione) non potrebbe non riconoscersi il corrispondente diritto del coimputato di non procedere al riconoscimento. 5. Quest’ultima affermazione non pare, a sommesso avviso di chi scrive, del tutto convincente, non rivelandosi particolarmente felice il parallelismo proposto dalla Corte di cassazione tra la posizione « passiva » dell’imputato e quella « attiva » del ricognitore; parallelismo che, anzi, potrebbe risultare fuorviante. Non può sfuggire, infatti, la netta differenza tra le due situazioni soggettive. Mentre nell’una imputato si trasforma in « oggetto di prova » (come nel caso della perizia, della perquisizione o dell’ispezione) e l’operazione è presidiata, nei suoi confronti, dalla necessità di non lederne l’incolumità o la libertà morale (18), nell’altra, invece, questi assume la veste di « organo di prova » (19), e la sua posizione — proprio perché espressiva di un comportamento attivo, dov’è essenziale la libertà del volere — necessita di tutela sotto il diverso profilo del diritto a non cooperare, contra se, con l’autorità procedente. Orbene, ove la dimostrazione dell’esistenza della facoltà di astensione del ricognitore (coimputato od imputato in procedimento connesso) dovesse discendere dalla verifica dell’analoga facoltà dell’imputato di non prestarsi all’esperimento, si potrebbe (per assurdo) accedere alla soluzione negativa, non apparendo così evidente — come pare alla Corte — l’esattezza della premessa. Come è stato puntualmente evidenziato in dottrina, il diritto alla non collaborazione « non riguarda atti quali ispezioni, o per l’appunto ricognizioni, dove l’im-

(17) Corte cost. 4 aprile 1973, n. 34, in Giur. cost., 1973, 341, con nota di V. GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche. La Consulta, per la verità, nell’escludere l’applicabilità del precetto in questione alle « dichiarazioni o ammissioni di responsabilità spontaneamente fatte da un sospettato o indiziato nel corso di una conversazione telefonica intercettata su autorizzazione dell’autorità giudiziaria », in quell’occasione puntualizzava che il diritto di non rispondere all’autorità inquirente è stato « introdotto nel nostro ordinamento unicamente con riferimento alla situazione dell’interrogatorio dell’imputato ». Ma la Corte di cassazione, nella pronuncia qui pubblicata, esclude che possa trattarsi di affermazione « avente mero valore di obiter » e ne fornisce la lettura più ampia esposta nel testo, sottolineandone gli « inevitabili riverberi anche sulla ricognizione ‘‘attiva’’, per l’identica ratio decidendi ». (18) Osserva in proposito Cass. 18 maggio 1987, Pino, in Cass. pen., 1990, 652: « l’atto di ricognizione comporta l’instaurazione di un rapporto materiale, sia pur limitatissimo nel tempo, con la persona fisica del soggetto. Orbene, se la libertà fisica e corporale può farsi rientrare nel più ampio concetto di libertà personale, cui si riferisce l’art. 13 Cost., ciò non toglie che il diritto alla disponibilità del proprio corpo possa subire limitazioni, come espressamente previsto dalla stessa Costituzione, in funzione di superiori interessi di giustizia correlati ad esigenze di carattere processuale volte all’accertamento della verità ». (19) Sottolinea, nel senso esposto nel testo, la differenza tra le due situazioni soggettive Trib. Piacenza, 13 dicembre 1991, Quirici, in Cass. pen., 1993, con nota adesiva di P. VENTURATI, Ricognizione di persona e poteri coercitivi del giudice.


— 268 — putato non interviene come soggetto agente o parlante, ma come corpo, come oggetto di un accertamento disciplinato dalle norme processuali » (20). Naturalmente ben potrebbe l’ordinamento spingere la sua tutela nei confronti delle libertà individuali sino a vietare l’esecuzione coattiva di qualsiasi accertamento; ma là dove il sistema non configuri espressamente un simile divieto, l’atto potrà essere legittimamente eseguito in via coattiva (21). E non pare che, anche a voler accogliere sul punto una diversa soluzione (22), il raffronto tra le due situazioni potrebbe risultare utile all’indagine de qua, posto che l’assenza di un esplicito riferimento normativo (in entrambi i casi) (23), da un lato, e l’evidenziata incomparabilità tra le posizioni soggettive, dall’altro, costituirebbero comunque serio ostacolo ad un rapporto di relazione analogica tra le diverse fattispecie. 6.

Ma il passaggio più delicato dell’intera costruzione argomentativa è un al-

tro. La Corte costituzionale (operando, come si è visto, una diretta relatio con la pronuncia della Cassazione), pur dichiarando irrilevanti le considerazioni del giudice a quo in tema di definizione giuridica del mezzo di prova, fa poi discendere proprio dalla natura dichiarativa dell’atto ricognitivo l’assimilabilità dell’istituto all’esame ex art. 210 c.p.p., e da questa constatazione inferisce l’applicabilità al caso di specie della regola, là codificata, della volontarietà dell’esperimento per il coimputato e l’imputato in procedimento connesso. L’affermazione sembra essere di quelle che, come si dice, provano troppo, nel senso che le stesse ragioni considerate per accogliere la soluzione finiscono per avvalorare la tesi confutata. Ed infatti, posto che ricognizione, testimonianza ed esame sono, dal punto di

(20) Così P. FERRUA, Sulla legittimità della ricognizione compiuta contro la volontà dell’imputato, in Cass. pen., 1990, 653; analogamente P. VENTURATI, op. cit., 454. (21) P. FERRUA, op. loc. cit.; l’A. osserva in proposito che « l’art. 13 comma 2 Cost. ammette, è vero, restrizioni della libertà personale solo ‘‘per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi prevsiti dalla legge’’; ma la coercibilità di posizioni passive, come essere riconosciuto o ispezionato, risulta dalle norme che consentono a tali fini l’accompagnamento coattivo dell’imputato (art. 429 c.p.p. 1930; artt. 132, 490 c.p.p. 1988) ». (22) Sulla questione, invero, sono presenti in dottrina voci discordi: v., nel senso dell’incoercibilità della posizione « passiva », A. MELCHIONDA, voce Ricognizione, cit., 529, secondo cui si potrebbe addirittura dubitare della « liceità di un coattivo accompagnamento dell’imputato nel luogo predisposto per la ricognizione ». In giurisprudenza, al contrario, sembra consolidato l’orientamento favorevole alla coercibilità dell’atto nei confronti dell’imputato da riconoscere: Trib. Piacenza, 13 dicembre 1991, Quirici, cit.; ma v. già Cass. 18 maggio 1987, Pino, cit.; id. 6 febbraio 1986, Triggiani, in Riv. pen., 1987, 279; id. 18 dicembre 1985, Di Napoli, ivi, 1987, 268; id. 25 gennaio 1985, Fasoli, in Giust. pen., 1986, III, 43; id. 4 dicembre 1984, Miano, in Cass. pen., 1987, 334, con nota di S. SAU, In tema di accompagnamento coattivo all’udienza dell’imputato contumace; id. 20 gennaio 1983, Chartier, in Riv. pen., 1983, 1018; id. 10 novembre 1980, Baccetti, ivi, 1981, 436; id. 10 ottobre 1980, Vargiu, ivi, 1981, 96; id. 26 marzo 1979, Alunni, in Cass. pen. mass. ann., 1980, 466; G.i. Trib. Torino, 17 ottobre 1978, Alunni, in questa Rivista, 1980, 326, con nota critica di C. PIACENTINI, In tema di rifiuto dell’imputato a sottostare alla ricognizione personale. (23) Ed anzi, la sicura configurabilità del potere del giudice di disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato che deve essere sottoposto al riconoscimento sembra costituire una indiretta conferma della coercibilità della posizione « passiva », a differenza di quella attiva. In argomento v., però, A. MELCHIONDA, Commento, cit., 544, secondo cui « per assicurare l’effettivo svolgimento dell’operazione il giudice potrà avvalersi dei poteri coercitivi di cui all’art. 131, ed in particolare potrà disporre l’accompagnamento coattivo sia del soggetto passivo (giusta l’art. 132, se già imputato, ovvero a norma dell’art. 399, se ancora meramente sottoposto alle indagini) sia del soggetto attivo (testimone o non) e delle ‘‘comparse’’ ».


— 269 — vista onologico, operazioni del tutto omologabili, presupporre l’estensibilità — in base all’identica natura dell’atto — della disciplina dell’esame e non invece di quella della testimonianza (ossia, nei termini che qui vengono in rilievo, l’operatività del diritto di astensione, anziché della clausola di esonero) appare, sul piano strettamente logico, un’opzione esegetica del tutto arbitraria ed ingiustificata; un’opzione che elude, anziché risolverlo, il dubbio sollevato dal giudice rimettente, che proprio sull’osservazione dell’affinità strutturale tra ricognizione e testimonianza fondava la doglianza di illegittimità costituzionale dell’art. 213 c.p.p. Oltretutto, non si può non notare come, a differenza della ricognizione, l’esame si configuri come istituto appositamente modellato per accogliere il contributo conoscitivo di quegli stessi soggetti cui è preclusa la testimonianza (24); talché la scelta legislativa adottata agli artt. 208 e 210 c.p.p., lungi dal rappresentare l’espressione di un enunciato generale di garanzia, si connota — almeno nei casi in cui l’atto, anziché promosso ad impulso dello stesso interessato, sia sollecitato da terzi — piuttosto come un’eccezione (o, per meglio dire, una limitazione) della più rigorosa regola dell’incompatibilità. È innegabile, infatti, che il precetto dell’incompatibilità racchiuda in sé una garanzia di grado certamente più elevato — tagliando alla radice ogni possibilità di valutazione, da parte del giudice, in ordine al comportamento della persona chiamata a compiere l’atto (25) — di quello offerto dalla regola della facoltà di astensione. Il problema, a questo punto, potrebbe in effetti essere quello — nella scelta tra due soluzioni alternativamente riservate dal legislatore agli stessi soggetti — dell’inestensibilità analogica della norma sull’incompatibilità, trattandosi di fattispecie derogatoria rispetto alla generale enunciazione dell’art. 196 comma 1 c.p.p. Ma la Consulta, comprensibilmente attenta a salvare la norma denunciata da possibili letture inconciliabili con il dettato costituzionale, non si è addentrata su questo terreno, limitandosi a riconoscere il funzionamento della « garanzia minima ». 7. Il punto merita qualche ulteriore riflessione. In generale si è visto come, nel disciplinare i limiti soggettivi dei mezzi di prova a natura dichiarativa, la risposta legislativa si sia orientata, nel delicato equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela della funzione difensiva, verso un duplice ordine di soluzioni. Là dove il legislatore ha voluto risolvere sia il problema della garanzia dell’affidabilità dello strumento che quello dell’inesigibilità di dichiarazioni autoincriminanti da parte di persona assistita dal diritto costituzionale di difesa, quella risposta si è tradotta nella regola dell’incompatibilità, ossia del divieto di prestare l’ufficio per l’imputato, il coimputato e gli altri soggetti processualmente cointeressati (26). È il caso, più volte citato, dell’art. 197 comma 1 lett. a) e b) c.p.p.: « non pos-

(24) Cfr. M. BARGIS, voce Esame di persona imputata in un procedimento connesso, in Digesto pen., vol. IV, Torino, 1990, 275. (25) G. CONSO-M. BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Milano, 1992, 178; S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in questa Rivista, 1990, 906; P. FERRUA, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Studi sul processo penale, Torino, 1990, 96; R. ORLANDI, Commentario all’art. 208 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 490. (26) Sul tema cfr., anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici, V. GAROFOLI, voce Prova testi-


— 270 — sono essere assunti come testimoni » né « i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 », né « le persone imputate di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’art. 371 comma 2 lett. b) ». Quando, invece, l’oggetto della tutela normativa si è concentrato unicamente sull’esigenza di non imporre alla parte un comportamento collaborativo, la scelta si è indirizzata nel senso di prevedere la facoltà di astensione, assistita dal rituale avviso da parte del giudice. In quest’ultima prospettiva rientrano le previsioni formulate, per l’esame, dagli artt. 208 e 210 c.p.p., rispettivamente dedicate, l’una, all’imputato, alla parte civile ed alla persona civilmente responsabile per la pena pecuniaria, che « sono esaminati se ne fanno richiesta o vi consentono », e, l’altra, alle « persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12, nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente », cui il giudice rivolge l’avvertimento che « hanno la facoltà di non rispondere ». La ratio della norma in tema di testimonianza appare, alla luce di quanto si è appena osservato, quantomai chiara, non potendosi costringere la persona a fornire elementi conoscitivi controproducenti alla sua posizione processuale e, al contempo, fare affidamento su contributi probatori provenienti da un soggetto per definizione non disinteressato all’esito del procedimento. D’altra parte, è sufficiente osservare la complementarietà funzionale tra testimonianza ed esame (27) — il secondo istituto è, come si è detto, riservato proprio a quei soggetti cui è inibito l’accesso al primo — per comprendere le ragioni che hanno imposto, per il mezzo di prova ex artt. 208 ss. c.p.p. (28), l’adozione di un meccanismo di tipo « volontario » anziché la previsione del divieto. Peraltro, merita osservare come anche il precetto che vieta l’assunzione della testimonianza dei soggetti indicati dall’art. 197 comma 1 lett. a) e b), c.p.p. abbia per obiettivo principale più la garanzia per l’individuo che la difesa del procedimento da dichiarazioni inattendibili. Il fatto che, in quell’ambito, sia consentito, ad esempio, l’accesso a contributi probatori « sospetti » quale quello della persona prosciolta per estinzione del reato connesso, mentre se ne escluda quello proveniente dalla persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere per evidente estraneità dai fatti, chiarisce come la norma privilegi proprio la funzione di tutela di quei soggetti cui l’obbligo di verità potrebbe, in ragione della precarietà della loro posizione processuale, arrecare pregiudizio (29). La stessa Corte costituzionale, del resto, non aveva esitato ad affermare che « la ratio del divieto di testimoniare previsto per i soggetti indicati nelle lett. a) e

moniale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 769; ID., L’introduzione della prova testimoniale nel nuovo processo penale, Milano, 1992. (27) M. BARGIS, op. loc. cit.; M.G. AIMONETTO, Sull’incompatibilità a testimoniare del responsabile civile - parte, in Giur. cost., 1992, 4341. (28) Che la stessa Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., 62, definisce « testimonianza ‘‘volontaria’’ ». (29) L’osservazione è di G. GIOSTRA, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost., 1992, 991, che, proprio in considerazione dello spirito della norma ritiene che, anche nel silenzio della disposizione, « a fortiori debba essere assicurato un esonero dall’obbligo di testimoniare alla persona sottoposta alle indagini, dopo che il procedimento si è concluso con l’archiviazione: è, infatti, la sua, la posizione più precaria ed esposta alle conseguenze di eventuali dichiarazioni autoindizianti » (in questo senso si era pronunciata Corte cost. 18 marzo 1992, n. 108, ivi, 1992, 984).


— 271 — b) dell’art. 197 va individuata nell’incompatibilità tra l’ufficio di testimone e la situazione di colui che, per l’esistenza di un’interdipendenza tra la posizione dell’imputato e la propria, nello stesso o in altro procedimento collegato, è portatore di un interesse che può contrastare con il dovere di rispondere secondo verità; interesse riconosciuto e garantito dall’ordinamento sulla base del principio ‘‘nemo tenetur se detegere’’ » (30). Orbene, proprio sulla scorta di questa considerazione, la Consulta è giunta, in quell’occasione (31), ad estendere l’ambito di operatività della norma di divieto, riconoscendo al giudice il potere di riscontrare l’incompatibilità « ove in concreto... rilevi l’esistenza di una vera e propria interferenza sul piano probatorio tra due procedimenti » (32). Né, a ben vedere, questa posizione desta particolare stupore: se è vero, come non sembra revocabile in dubbio, che la fattispecie eccezionale è a sua volta diretta espressione di un principio sovraordinato (qual’è quello, appunto, del diritto al silenzio dell’imputato), lo sbarramento all’argomento analogico non si configurerà qui in assoluto, ma agirà solo in funzione di contenere l’espansione della norma all’interno dei limiti imposti dalla eadem ratio (33). Che, dunque, si debba ammettere un certo grado di elasticità della regola nei confronti del precetto (l’art. 196 c.p.p.) rispetto al quale si pone in collisione (34), sembra fatto inconfutabile. Ancor meno problematica dovrebbe, quindi, rivelarsi l’applicazione della disposizione a quelle fattispecie (quali, appunto, la ricognizione, per la quale non è espressamente sancita la generale capacità a prestare l’ufficio) nei cui riguardi il principio in parola non opera in funzione derogatoria. 8. In quest’ottica, l’assunto del giudice rimettente secondo cui l’atto ricognitivo, qualificandosi (sempre) come deposizione testimoniale, sarebbe ciò nonostante escluso dall’ambito dispositivo della norma sull’incompatibilità, perde vistosamente valore. Senonché, è bene precisarlo, l’operazione analogica vietata è proprio quella compiuta dal giudice a quo nel momento in cui propone l’assimilazione dei due istituti. Un conto è, infatti, osservare che entrambi gli esperimenti processuali rivestono identica natura di atti dichiarativi, e ben altro è sostenere — inducendo indirettamente l’applicabilità dell’art. 372 c.p. — che il ricognitore depone « come testimone innanzi all’autorità giudiziaria ». Qui, com’è evidente, l’esegesi si traduce, di fatto, in una tutt’altro che ortodossa estensione di un precetto penale sostanziale.

(30) Corte cost. 18 marzo 1992, n. 109, in Giur. cost., 1992, 996, con nota di M. SCAPARONE, Incompatibilità a testimoniare e discrezionalità legislativa. (31) Il caso all’esame della Corte era rappresentato dalla denunciata omessa previsione, all’art. 179 c.p.p., dell’incompatibilità con l’ufficio di testimone dell’imputato in processo riunito ex art. 17 comma 1 lett. c), c.p.p. (reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre). (32) Corte cost. 18 marzo 1992, n. 109, cit. (33) In generale sull’interpretazione analogica e, in particolare, sull’estensibilità delle fattispecie eccezionali non « esclusive », v. L. CAIANI, voce Analogia. Teoria generale, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1959, 349. (34) Osserva, in termini condivisibili, G. GIOSTRA, op. cit., 991, che, se pure « le norme che introducono ipotesi di incompatibilità a testimoniare derogano al principio generale secondo cui ‘‘ogni persona ha la capacità di testimoniare’’ », « ciò non toglie, peraltro, che l’interprete possa, anzi debba andare al di là del tenore letterale della disposizione per conferirle senso normativo compiuto ».


— 272 — Ma sgombrato il campo da questo equivoco, nulla sembrerebbe essere d’ostacolo, per quelle stesse ragioni che nelle pronunce qui pubblicate conducono all’applicazione analogica dell’art. 210 c.p.p., ad una lettura dell’art. 213 c.p.p. che sottintenda, invece, l’esonero per il coimputato e l’imputato in procedimento connesso dal prestare l’ufficio di ricognitore. Ed anzi, tra le due soluzioni, quella che meglio interpreta l’obiettivo di garanzia perseguito dall’ordinamento non può che risultare preferibile. dott. MASSIMO CERESA GASTALDO


— 273 — B) Giudizi di Casazione

CASSAZIONE PENALE — Sez. II — 23 aprile 1993 Pres. Simeone — Rel. Nardi P.M. (conf.) — Ric. Molfettini Libertà personale dell’imputato — Custodia cautelare — Proroga dei termini — Gravi esigenze cautelari — Sufficienza (c.p.p. artt. 274, 305, 2o comma). Libertà personale dell’imputato — Custodia cautelare — Proroga — Ammissibilità anche dopo l’esercizio dell’azione penale (c.p.p. artt. 305, 2o comma, 416, 419). La necessità degli accertamenti particolarmente complessi ai fini della proroga dei termini della custodia cautelare di cui all’art. 305, 2o comma, c.p.p. non si trova in rapporto di dipendenza diretta con la detta proroga che si collega, invece, immediatamente con il permanere delle esigenze cautelari e con il loro carattere di gravità, mentre la necessità dell’accertamento si limita a fornire l’occasione che rende doverosa la verifica di tali esigenze, le quali, peraltro, sono tutte quelle elencate nell’art. 274 c.p.p., nessuna esclusa (1). La proroga dei termini della custodia cautelare prevista dall’art. 305, 2o comma, c.p.p. può essere disposta anche dopo che il pubblico ministero abbia chiesto il rinvio a giudizio, poiché solo con la chiusura dell’udienza preliminare ha termine la vera e propria fase di indagine (2). (Omissis). — Com’è noto, il 1o comma dell’art. 305 nuovo c.p.p. (in tema di proroga della custodia cautelare) contempla ipotesi di proroga obbligatoria ed automatica dei termini di custodia cautelare, in relazione alla perizia sullo stato di mente dell’imputato, e non lascia margini di discrezionalità all’intervento del giudice, né esige, quale condizione indefettibile, che la scadenza del termine ordinario sia prossima. Ne sono evidenti le differenze fondamentali rispetto alla proroga prevista dal 2o comma, che — rientrando nel potere discrezionale del g.i.p. — è facoltativa, riguarda ogni altro caso di « accertamenti paricolarmente complessi » in rapporto a « gravi esigenze cautelari » e richiede, quale condizione sine qua non, la prossimità della scadenza del termine: un complesso, dunque, di limitazioni e di condizioni, espressamente menzionate dalla legge, inesistenti, invece, per il caso previsto dal 1o comma. Ciò che quindi si vuole dal 2o comma dell’art. 305 è che, nella presenza della permanenza delle esigenze cautelari, gli accertamenti da compiersi siano assolutamente necessari ai fini del procedimento e che la necessità si riferisca a emergenze sopravvenute o, qualora preesistenti, tali da non poter essere soddisfatte utilmente nel termine originariamente prefissato. Sicché al giudice per le indagini preliminari viene preclusa la possibilità di accordare la proroga richiestagli qualora accerti un colpevole ritardo da parte del pubblico ministero nel tempestivo adempi-


— 274 — mento della attività di indagine, non potendo consentirsi che l’inerzia degli inquirenti possa giustificare il protrarsi della privazione della libertà personale dell’indagato. La necessità degli accertamenti particolarmente complessi ai fini della proroga dei termini della custodia cautelare, non si trova quindi in rapporto di dipendenza diretta con la detta proroga che si collega, invece, immediatamente con il permanere delle esigenze cautelari e con il loro carattere di gravità, mentre la necessità dell’accertamento si limita a fornire l’occasione che rende doverosa la verifica di tali esigenze, in prossimità della scadenza dei termini di durata massima di cui all’art. 303 detto codice. Con riguardo, poi, alla sussistenza di « gravi esigenze cautelari » è solo il requisito della gravità quello che deve essere valutato dal giudice, posto che l’esistenza in sé di dette esigenze deve ritenersi presunta per il solo fatto della attualità della misura di cui si chiede, appunto, la proroga giacché, altrimenti, la misura stessa sarebbe già venuta meno in virtù di quanto dispone l’art. 299 del codice. Ne consegue che il giudice, ai fini della decisione sulla richiesta in questione, deve motivare solo sulla gravità e non sulla esistenza delle esigenze cautelari, le quali peraltro sono tutte quelle elencate nell’art. 274, nessuna esclusa. In conclusione, la concessione della proroga della custodia cautelare è subordinata dall’art. 305, 2o comma, alle seguenti condizioni: il permanere, in prossimità della scadenza dei termini massimi di custodia, di quelle gravi esigenze cautelari per le quali la misura era stata disposta; l’impossibilità, conseguente alla particolare complessità degli accertamenti, che possa essere emesso, entro i termini, uno dei provvedimenti tassativamente indicati dall’art. 303, 1o comma, lett. a), dello stesso codice. La detta proroga non è finalizzata all’espletamento di accertamenti, né è graduata in riferimento alla loro durata, essendo sufficiente perché essa possa essere concessa che esista un rapporto tra indispensabilità della custodia e la complessità degli accertamenti. Ne consegue che la proroga va accordata ogni qualvolta le indagini non si possono esaurire nei termini ordinari: e ciò tanto quando gli accertamenti siano ancora da compiere tanto quando il p.m., in prossimità della scadenza dei termini di custodia cautelare, si trovi nella necessità di valutare i risultati di accertamenti già eseguiti. Infine, poiché le indagini preliminari non possono considerarsi indefettibilmente concluse in conseguenza della richiesta di rinvio a giudizio, non può considerarsi irrituale la domanda di proroga dei termini di durata della custodia cautelare avanzata dal pubblico ministero dopo la detta richiesta. La proroga della custodia cautelare può essere disposta ancorché sia prossimo a scadere il termine di conclusione delle indagini preliminari perché fra questo termine e il termine di scadenza della custodia cautelare, e fra le rispettive proroghe, non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità e la scadenza del primo non comporta né la decadenza della potestà di chiedere l’archiviazione o di esercitare l’azione penale, né la estinzione della custodia cautelare già applicata, ma soltanto l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine stesso, secondo il disposto dell’art. 407, 3o comma. La proroga del termine della custodia cautelare può essere disposta ove permagna taluna delle tre esigenze cautelari stabilite dall’art. 274, 1o comma, e non soltanto — giova ribadirlo — per l’e-


— 275 — sigenza attinente alle indagini, sempre che in relazione ad esse si debbano compiere « accertamenti particolarmente complessi » non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi per gli esiti delle stesse. Con tale ultima espressione il legislatore ha evidenziato la necessità che la proroga sia concessa soltanto in quei casi in cui, per la loro particolare complessità, non sia stato possibile, neppure con l’uso della normale diligenza, completare gli accertamenti nel termine di custodia cautelare previsto dalla legge. Il p.m. deve, perciò, nel formulare la richiesta al giudice per le indagini preliminari, specificare dettagliatamente le ragioni per cui non è stato in grado di espletare gli accertamenti nei termini ed evidenziare, in modo dettagliato e convincente, la « particolare » complessità degli accertamenti ancora da svolgere. Il g.i.p., a sua volta, nel concedere o negare la proroga, deve valutare tali giustificazioni per evitare che la eventuale negligenza, inerzia o incuria del p.m. provochi ritardi ingiustificati nelle indagini e si risolva a danno dell’indagato detenuto. Tra gli « accertamenti » ai quali fa richiamo il 2o comma dell’art. 305, che legittimano la proroga della custodia cautelare, rientrano, tra l’altro, tutte quelle attività processuali dirette a rendere utilizzabili nella successiva fase dibattimentale i risultati delle indagini svolte. Anche accertamenti relativamente facili possono eccezionalmente richiedere un congruo periodo di tempo per contingenti situazioni (per es., il numero degli indagati), ma in tal caso è pur sempre obbligo del giudice indicare e giustificare le necessità congiunturali specifiche, spiegando come esse non siano altrimenti ovviabili se non ricorrendo alla proroga del termine. Risulta evidente da quanto detto che la necessità di accertamenti particolarmente complessi menzionata dal 2o comma dell’art. 305 non si trova in rapporto di dipendenza diretta con la proroga dei termini di custodia cautelare (che dipende invece, direttamente ed immediatamente, dal permanere delle esigenze cautelari e dal loro carattere di gravità) ma fornisce soltanto l’occasione per verificare la persistenza di dette esigenze, in prossimità della scadenza del termine di durata massima di cui all’art. 303 stesso codice. Ai fini della sanzione di inutilizzabilità, prevista dall’art. 407, 3o comma, per « atto di indagine », compiuto dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari stabilito dalla legge o prorogato dal giudice, deve poi intendersi soltanto quello con efficacia probatoria. In tale categoria non può pertanto ricomprendersi la richiesta di applicazione di misura cautelare e a fortiori di proroga della stessa, non avendo essa alcuna efficacia probatoria in quanto mira esclusivamente ad ottenere un provvedimento incidente sulla sfera di libertà dell’indagato sussistendo taluna delle tre esigenze cautelari stabilite dall’art. 274. Di conseguenza, non rileva che la richiesta di misura cautelare o di proroga della stessa sia fatta nel corso della udienza preliminare o dopo che sia stata iniziata l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio, o dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari stabilito dalla legge o prorogato dal giudice. In definitiva è da ritenere che la formulazione dell’art. 305, 2o comma non dia adito a difficoltà interpretative in considerazione della sua sufficiente chiarezza. Detta norma va letta nel senso che la proroga della custodia cautelare è concedibile nei casi in cui « sussistono gravi esigenze cautelari » le quali « rendano indispensabile il protrarsi della custodia al fine del compimento di accertamenti parti-


— 276 — colarmente complessi ». Presupposto indefettibile è dunque la permanenza delle gravi esigenze cautelari che legittimarono la emissione del provvedimento coercitivo o la ricorrenza di nuove ferme restando quelle originariamente ritenute sussistenti. Occorre poi che si ravvisi la necessità di procedersi ad « accertamenti » che rivestano il carattere di particolare complessità. Né assolutamente è richiesto, come pure si vorrebbe da alcuni, che proprio in relazione a tali accertamenti si debbano porre le esigenze di cautela. E invero per queste non può non rinviarsi a quelle indicate nell’art. 274, nessuna di esse esclusa non essendo autorizzata una diversa conclusione dell’indistinto richiamo operato dalla norma alle « esigenze » e non solo a taluna di esse, apparendo del resto la opposta interpretazione assolutamente illogica perché irrimediabilmente contrastante con gli stessi preminenti interessi che si tende a proteggere con la preventiva limitazione della libertà personale. Ciò che invece si vuole dalla norma è che gli accertamenti da compiersi siano assolutamente necessari ai fini del procedimento e che la necessità si riferisca ad emergenze sopravvenute o, qualora preesistenti, tali da non poter essere soddisfatte utilmente nel termine originariamente prefissato. E sulla effettiva sussistenza della necessità degli accertamenti ai fini del procedimento in corso e della reale complessità degli stessi deve esercitare il doveroso controllo il giudice per le indagini preliminari al quale è preclusa la possibilità di accordare la proroga richiestagli qualora accerti un colpevole ritardo da parte del pubblico ministero nel tempestivo adempimento della attività di indagine, non potendo consentirsi come si è sottolineato che la inerzia degli inquirenti possa giustificare il protrarsi della privazione della libertà personale dell’inquisito. Della valutazione compiuta il giudice deve fornire adeguatamente conto nel provvedimento con il quale accolga o respinga la richiesta sicché la parte sia posta in grado di conoscere le ragioni che lo hanno guidato e possa censurarne la legittimità avanti quello dell’appello, che, a sua volta, deve accertare la conformità della decisione al dettato normativo. A ben ragione è stato affermato in dottrina che nelle ipotesi di affievolimento del bisogno cautelare il g.i.p. deve non tanto respingere la richiesta di proroga quanto disporre la revoca o, a seconda dei casi, la sostituzione della misura restrittiva (arg. ex art. 299). Sicché appare evidente che la sussistenza delle esigenze in questione — anche se non fosse contemplata dall’art. 305, 2o comma — costituirebbe comunque un ineludibile presupposto del prolungamento dei termini di custodia. A ben vedere, tuttavia, la disposizione in esame opera una rivalutazione di tali esigenze, qualificandole come « gravi ». Deve perciò ritenersi che la proroga sia consentita solo in quanto gli indici di rilevazione del periculum in mora appaiono più consistenti del minimum astrattamente sufficiente a motivare l’originario provvedimento di applicazione della misura coercitiva. Due sono quindi i punti fermi che possono enuclearsi dall’esame della giurisprudenza di questa Corte: a) il periculum in libertate deve — anche nell’ipotesi di proroga — essere valutato alla stregua dei criteri di cui all’art. 274, senza possibilità di operare distinzioni all’interno di tali canoni prognostici, malgrado che, sul piano letterale, tale tesi non sia affatto incontrovertibile; b) gli « accertamenti » cui si riferisce la norma dell’art. 305, 2o comma comprendono tutte le attività capaci di attribuire a taluni dati normativi la « certezza della loro acquisizione alla investigazione », quindi gli strumenti formali ed oggettivi idonei ad attribuire cer-


— 277 — tezza « ad una situazione che altrimenti resterebbe incerta per l’ordinamento », secondo la nozione datane in dottrina. La proroga del termine massimo di custodia cautelare di cui all’art. 305, 2o comma si trova dunque in rapporto di dipendenza necessaria non con la particolare complessità degli accertamenti da compiere, bensì col permanere immutato delle gravità delle esigenze cautelari, valutate in occasione ed in presenza della necessità di espletare gli accertamenti stessi, in considerazione della loro durata ed in proporzione a quest’ultima. L’istituto della proroga in funzione della complessità degli accertamenti è dal codice limitato indubbiamente alla fase delle indagini preliminari. Lo si evince dal dato testuale della norma in esame che espressamente autorizza la proroga della custodia cautelare « nel corso delle indagini preliminari ». Orbene, non è la richiesta di rinvio a giudizio che chiude la fase delle indagini preliminari, anche se con essa viene iniziata l’azione penale, bensì solo il provvedimento che viene adottato all’esito dell’udienza preliminare (sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio). La possibilità di continuare le indagini successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio è infatti prevista espressamente dal 3o comma dell’art. 419, il quale dispone testualmente che « l’avviso comunicato al pubblico ministero contiene inoltre l’invito a trasmettere la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio ». Quindi, sia pure « per incidens » il legislatore del 1988 ha stabilito che il p.m. ha il potere di compiere indagini anche dopo avere adottato le sue determinazioni in ordine all’esperimento dell’azione penale. Solo la scadenza del termine ordinario o prorogato fissato per le indagini preliminari, senza che sia stata avanzata richiesta di rinvio a giudizio, può comportare, se del caso, la inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti successivamente, giammai la estinzione della custodia cautelare, come si desume anche dall’art. 406, 8o comma. Pur se talune disposizioni codicistiche invocate dalla difesa (artt. 114/2, 407/2, 513 e 514) distinguono tra « indagini preliminari » e « udienza preliminare », ciò non esclude che in realtà solo con la chiusura della udienza preliminare, cioè con la emissione del provvedimento conclusivo abbia termine la vera e propria fase di indagini stante il potere del p.m. espressamente riconosciutogli di continuarle anche dopo che abbia esercitato l’azione penale e quindi abbia avuto inizio il vero e proprio processo. Tanto premesso, nella specie: — il rinvio a giudizio è stato chiesto mentre era ancora in corso il termine di cui all’art. 405, come asserito all’udienza di appello dal p.m. e non contestato dai difensori — la richiesta di proroga della custodia cautelare è stata avanzata prima della chiusura della udienza preliminare, anche se dopo la scadenza del termine di cui all’art. 405; — essendo stata esercitata tempestivamente l’azione penale non era operabile la sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine comminata dall’art. 407, 3o comma; né era invocabile l’art. 406, 8o comma, riguardante gli atti di indagine compiuti dopo la presentazione della richiesta di proroga del termine ex art. 405. Legittima, quindi, la richiesta di proroga della custodia cautelare, benché fosse stato già chiesto dal p.m. il rinvio a giudizio dell’indagato, non essendo an-


— 278 — cora avvenuta la chiusura della udienza preliminare con la pronuncia di uno dei provvedimenti previsti dall’art. 424. Il Tribunale di Palermo non si è d’altra parte sottratto al compito di motivare la sussistenza, nel caso in esame, dei presupposti legittimanti la concessione della proroga della custodia cautelare, non avendo omesso di valutare sia la gravità delle esigenze cautelari, quantomeno sotto il profilo probatorio, sia la necessità di procedersi ad accertamenti rivestenti il carattere di particolare complessità, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo. Le doglianze del ricorrente, illustrate da uno dei difensori anche nella discussione orale, concernenti la natura degli accertamenti per cui nella specie sarebbe stata chiesta la proroga delle esigenze cautelari, non hanno pregio considerato che nessuna definizione normativa del concetto di « accertamento » si rinviene nel codice processuale, sicché occorre rifarsi a quanto elaborato dalla dottrina che si è occupata della teoria generale del diritto. Secondo questa deve definirsi come procedimento di accertamento lo strumento formale e oggettivo che è idoneo ad attribuire certezza ad una situazione che altrimenti resterebbe incerta per l’ordinamento, consistendo « l’esito finale di questo procedimento nella attribuzione di efficacia giuridica alla situazione iniziale di incertezza, rappresentando esso il risultato della ricerca condotta attraverso le modalità imposte dall’ordinamento giuridico ». E da parte di una moderna dottrina processuale penalistica, partendosi da tali premesse, si è ritenuto che gli accertamenti, ai quali fanno richiamo alcune norme del codice vigente (si veda l’art. 354), siano « le attività capaci di attribuire a taluni dati normativi la certezza della loro acquisizione alla investigazione ». Orbene, se così è, appare incontestabile che nella categoria debbano necessariamente rientrare, anzitutto, proprio quegli atti che la stessa norma esige che sia indispensabile compiere per la acquisibilità dei risultati delle indagini al fascicolo del dibattimento, e per la conseguente loro successiva utilizzabilità, salva la valutazione che delle indagini legittimamente svolte nei confronti dell’inquisito si farà dal giudice nel contraddittorio tra le parti. Nella specie non può dunque negarsi la « complessità » degli accertamenti da compiersi, tenuto conto della necessità di « acquisire assegni ed altri titoli di credito di rilevante numero », di cui non erano individuabili a priori né il luogo né le persone detentrici, in previsione di un loro sequestro quali cose pertinenti ai reati per cui si procede. « Complessità » non solo per il dato quantitativo costituito dal numero rilevante di detti titoli, ma anche per l’elemento qualitativo dell’indagine stante la non individuabilità a priori dei luoghi e persone detentrici degli assegni medesimi. Ugualmente infondato è anche il secondo motivo del ricorso in esame, prospettante una pretesa violazione dell’art. 597 codice di rito per avere il giudice d’appello violato il limite della « devoluzione » riducendo a tre mesi la durata della proroga della custodia cautelare concessa dal g.i.p. « sino al provvedimento conclusivo delle indagini preliminari ». In effetti il tribunale, investito della questione della proroga della custodia cautelare, ha ritenuto correttamente di applicare l’ultimo inciso dell’art. 305, 2o comma, il quale statuisce che i termini previsti dall’art. 303, 1o comma non possono essere comunque superati di oltre la metà. Ha quindi sostituito ad un limite


— 279 — incerto e indeterminato fissato dal primo giudice quello legalmente esatto, pur in mancanza « di una specifica richiesta del p.m. », potendo il giudice dell’appello prendere in esame anche questioni non specificamente dedotte, purché siano in relazione logica e giuridica con i punti impugnati. Se per « punti » della decisione impugnata devono ritenersi le parti dispositive della pronuncia autonomamente impugnabili, consegue che non può ravvisarsi la violazione dell’effetto devolutivo nel caso in questione in cui, investito della cognizione della disposta proroga della custodia cautelare, fissata sine die, il giudice dell’appello ha ritenuto corretto stabilire, come per legge, la durata della stessa fino alla scadenza del termine di cui al 2o comma dell’art. 305. Ha reputato illegale il termine finale stabilito dal giudice per le indagini preliminari e lo ha sostituito con l’unico termine previsto dalla legge. E ciò rientrava nei suoi poteri, anche in mancanza di una specifica richiesta del p.m., trattandosi di sostituire ad un termine finale, incerto e non consentito dalla normativa vigente, un limite temporale invece ben definito e conforme a legge. — (Omissis).

—————— (1-2)

Punti fermi sulla proroga della custodia cautelare.

1. La sentenza che si annota si pone nella scia del prevalente orientamento giurisprudenziale (1), affermando il principio secondo cui la proroga dei termini massimi della custodia cautelare contemplata dall’art. 305, 2o comma, c.p.p., si collega « immediatamente con il permanere delle esigenze cautelari e con il loro carattere di gravità, mentre la necessità dell’accertamento si limita a fornire l’occasione che rende doverosa la verifica di tali esigenze, in prossimità della scadenza dei termini di durata massima di cui all’art. 303 c.p.p. ». La disposizione del 2o comma dell’art. 305 c.p.p., statuente che « nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero può... chiedere la proroga dei termini di custodia cautelare che siano prossimi a scadere, quando sussistono gravi esigenze cautelari che, in rapporto ad accertamenti particolarmente complessi, rendano indispensabile il protrarsi della custodia... », ad avviso della S.C. richiederebbe come condizione indefettibile la « permanenza delle gravi esigenze cautelari che legittimarono la emissione del provvedimento coercitivo o la ricorrenza di nuove ferme restando quelle originariamente ritenute sussistenti » unitamente alla necessità di procedersi ad accertamenti particolarmente complessi senza che, peraltro, proprio in relazione a tali accertamenti si debbano porre le esigenze di cautela (2). La proroga non sarebbe, pertanto, finalizzata all’espletamento di accerta-

(1) Cfr. Cass., Sez. V, 5 ottobre 1992, Frattini, in Arch. n. proc. pen., 1993, 148; Id., Sez. VI, 4 luglio 1992, Ruvolo ed altri, ibid., 149; Id., Sez. II, 15 giugno 1992, Di Matteo ed altri, ivi, 1992, 786; Id., Sez. I, 17 febbraio 1992, Managò ed altri, in Giust. pen., 1993, III, 18; Id., Sez. I, 3 maggio 1991, p.m. in c. Frezza, in Giur. it., 1992, II, 68; Id., Sez. VI, 11 gennaio 1991, Dagna, in Giust. pen., 1991, III, 254, 66. (2) In senso difforme v. Trib. Trapani, 26 novembre 1990, Barbera, in Arch. n. proc. pen., 1991, 94; cfr., altresì, Cass., Sez. VI, 31 ottobre 1991, Tornetta, ivi, 1992, 784, secondo cui « la proroga del ter-


— 280 — menti, né graduata in riferimento alla loro durata, essendo sufficiente esclusivamente un rapporto di contestualità temporale tra complessità degli accertamenti e indispensabilità della custodia. Da ciò discenderebbe, inoltre, che le esigenze cautelari che legittimano la proroga sarebbero tutte quelle previste dall’art. 274 c.p.p. e non soltanto quella attinente alla tutela delle indagini (art. 274, 1o comma, lett. a, c.p.p.) (3). 2. L’opinione della Corte appare inaccettabile. L’istituto della proroga della custodia cautelare per esigenze « istruttorie » (4) si colloca nell’ambito delle deroghe all’ordinaria disciplina dei termini di durata massima della custodia, in ossequio alla necessità di non cristallizzare « il principio di ragionevolezza » insito nella fissazione di termini di durata massima della custodia « in dimensioni cronologiche rigide e determinate », permettendo, viceversa, « valutazioni caso per caso, idonee a modellare la durata del sacrificio della libertà all’interno del periodo massimo fissato dalla legge, certo comunque insuperabile, ma troppo generale e astratto e, quindi, tale da potere più utilmente assumere la funzione — necessaria, ma non sufficiente — di una garanzia finale o di chiusura » (5). In quest’ottica, il legislatore delegato ha tradotto in termini puntuali, ed anzi restrittivi, l’indicazione contenuta nella direttiva n. 61 della legge-delega, statuente il potere del giudice, su richiesta del pubblico ministero ed in relazione a particolari e gravi esigenze, di prorogare i termini per periodi predeterminati (6). La norma contenuta nel 2o comma dell’art. 305 c.p.p. consente di individuare tre presupposti di legittimità della proroga, tra loro inscindibilmente connessi: la necessità da parte del pubblico ministero di svolgere specifici accertamenti particolarmente complessi che esigano, per gravi esigenze cautelari, la permanenza in

mine della custodia cautelare può essere disposta ove permanga taluna delle tre esigenze cautelari stabilite dall’art. 274, 1o comma, c.p.p., e non soltanto per l’esigenza attinente alle indagini, sempre che in relazione ad esse si debbano compiere « accertamenti particolarmente complessi ». (3) Contra Trib. Trapani, 26 novembre 1990, Barbera, cit.; e, in dottrina, V. BOSCO, Limiti alla proroga della custodia cautelare, in Giur. it., 1992, II, 68; R. BONSIGNORE, Brevi ceni sulle condizioni di proroga della custodia cautelare, in Arch. n. proc. pen., 1991, 95; F.R. DINACCI, Note in tema di proroga dei termini massimi di custodia cautelare per oggettive necessità processuali, in Giust. pen., 1988, III, 581, n. 13. (4) L’istituto in esame era stato introdotto dall’art. 7 L. 28 luglio 1984, n. 398, limitatamente ad alcuni reati e per la sola fase istruttoria; con la L. 17 febbraio 1987, n. 29 la possibilità di proroga era stata estesa « per oggettive necessità processuali » anche alla fase intercorrente tra la pronuncia della sentenza di primo grado e quella di appello: in argomento cfr. G. FRIGO, Commento all’art. 7 L. 28 luglio 1984, n. 298, in Legislazione pen., 1985, 110; P. FERRUA, I termini massimi della custodia cautelare al centro della riforma, in La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale, a cura di V. Grevi, Padova, 1985, 330. Con riferimento all’art. 5 L. 17 febbraio 1987, n. 29, cfr. M. CHIAVARIO, Commento all’art. 5 L. 17 febbraio 1987, n. 29, in Legislazione pen., 1987, 456; F.R. DINACCI, op. cit., 577. (5) In questi termini G. FRIGO, op. cit., 131. (6) Cfr. V. GREVI, Le garanzie della libertà personale dell’imputato nel progetto preliminare: il sistema delle misure cautelari, in Giust. pen., 1988, I, 497. Sulla disciplina della proroga dei termini di custodia cautelare nel nuovo codice di procedura penale v. Gius. AMATO, Art. 305, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, III, p. II, Milano, 1990, 175; G. ILLUMINATI, Art. 305, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, III, Torino, 1990, 243. Sui profili procedimentali della proroga cfr. F.B. COPPI, Il contraddittorio sulla richiesta di proroga dei termini di custodia cautelare, in Giur. it., 1992, II, 609; T. DELLA MARRA, Procedimento per la proroga della custodia cautelare e rapporti con l’art. 127 c.p.p., ibid., II, 593.


— 281 — carcere della persona sottoposta alle indagini (7). Contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza, il rapporto tra le esigenze cautelari e la complessità degli accertamenti non è di mera occasionalità (8), bensì una relazione di tipo strumentale, in quanto il protrarsi della custodia deve configurarsi come indispensabile al fine del compimento degli accertamenti. Tale conclusione è imposta non solo dal dato testuale (« il pubblico ministero può altresì chiedere la proroga dei termini di custodia cautelare quando sussistono gravi esigenze cautelari che, in rapporto ad accertamenti particolarmente complessi, rendano indispensabile il protrarsi della custodia »: art. 305, 2o comma, c.p.p.) (9), ma anche da una lettura sistematica della norma. La proroga della custodia cautelare integra una fattispecie sostitutiva, realizzando « un atto complesso dove una nuova custodia può essere disposta, nei confronti di chi è già in vinculis, sulla base di ulteriori peculiari presupposti » (10). Orbene, se è vero che la custodia cautelare non può essere adottata per esigenze meno che « gravi » (11), configurandosi il ricorso al provvedimento custodiale come extrema ratio, « soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata » (art. 275, 3o comma, c.p.p.) (12) e se, d’altro canto, tali esigenze debbono necessariamente sussistere al momento della presentazione della richiesta di proroga, operando altrimenti la revoca o la sostituzione della misura restrittiva (ex art. 299 c.p.p.), ne deriva che l’ulteriore peculiare presupposto integrante la fattispecie in esame è costituito dalla necessità di compiere accertamenti particolarmente complessi. Ciò, però, richiama, circoscrivendola in senso restrittivo, la norma contenuta nell’art. 274, 1o comma, lett. a, c.p.p. statuente che le misure cautelari possono essere disposte « quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova ». Peraltro, al fine della concessione della proroga, le esigenze debbono riguardare non le indagini nel loro complesso, bensì specifiche attività istruttorie particolarmente laboriose (13). La verifica circa la necessità del compimento di accertamenti particolarmente complessi non è posteriore a quella relativa alla sussistenza delle esigenze cautelari; in altri termini, quest’ultima non si pone in rapporto di antecedenza logico giuridica con la prima: esse vanno, viceversa, valutate assieme, in un unico giudizio (14). Se così è, risulta che gli « accertamenti particolarmente complessi » si configurano come il fine cui deve tendere la proroga della custodia (15) e che,

(7) V.R. BONSIGNORE, op. cit., 95. (8) Nel senso che tale complessità fornirebbe soltanto l’occasione per verificare la persistenza delle esigenze cautelari, in prossimità della scadenza del termine di durata massima delle medesime. (9) Cfr. V. BOSCO, op. cit., 69. (10) Così A. GAITO, Proroga della custodia cautelare e vizi procedurali, in Giur. it., 1992, II, 196. (11) In tal senso G. ILLUMINATI, op. cit., 243, n. 14. (12) In argomento cfr. M. CHIAVARIO, Art. 275, in Commento al nuovo codice di procedura penale, III, cit., 67. (13) V. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1991, 483. (14) Contra, con riferimento alle « oggettive necessità processuali » richieste come presupposto per la concessione della proroga dall’art. 5 Legge n. 29 del 1987, v. F.R. DINACCI, op. cit., 584. (15) Una conferma di ciò si trova nel 2o comma dell’art. 722 c.p.p. (abrogato dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306), che, nel disciplinare la custodia cautelare subita all’estero disponeva la concedibilità della proroga « sempre che la custodia dell’imputato nel territorio dello Stato sia necessaria per il compimento di attività probatorie ».


— 282 — pertanto, l’accertamento circa la sussistenza delle esigenze cautelari va effettuato valutando la indispensabilità del protrarsi della custodia strumentalmente al compimento delle operazioni istruttorie (16). Tale assunto trova conferma, in primo luogo, nella direttiva n. 61 della leggedelega, statuente che, « su richiesta del pubblico ministero, il giudice, in relazione a particolari e gravi esigenze, possa prorogare i termini per periodi predeterminati », ove la utilizzazione di due distinti aggettivi (« particolari » e « gravi ») per qualificare le esigenze cautelari implica che non è sufficiente la mera gravità di esse ai fini della proroga, occorrendo altresì che si tratti di esigenze dotate di caratteristiche peculiari rispetto a quelle richieste in via generale per poter disporre le misure cautelari. Se si leggesse la direttiva identificando la particolarità delle esigenze cautelari con la loro gravità, oltre a commettere una violenza grammaticale, si taglierebbe in due il contenuto della formula buttandone via la metà. Nel provvedimento in esame si afferma in termini apodittici che le esigenze cautelari di cui occorre valutare la sussistenza ai fini della proroga sono tutte quelle comprese nell’art. 274 c.p.p. stigmatizzandosi la opposta interpretazione come « assolutamente illogica perché irrimediabilmente contrastante con gli stessi preminenti interessi che si tende a proteggere con la preventiva limitazione della libertà personale ». Le misure cautelari trovano la loro ratio nel periculum in mora di stampo civilistico (17): pericolo che l’indagato, lasciato libero rimuova o inquini le prove (art. 274, 1o comma, lett. a, c.p.p.); concreto pericolo che la persona sottoposta alle indagini possa sottrarsi, con la fuga, alla esecuzione di una eventuale condanna (art. 274, 1o comma, lett. b, c.p.p.). Vi è poi una ulteriore esigenza connessa alla necessità di tutela della collettività (art. 274, 1o comma, lett. c, c.p.p.). Di difficile configurazione appare, ai fini della concessione della proroga, il pericolo di fuga, dal momento che l’indagato si trova già in carcere (18). Per quanto concerne la cautela « sostanziale », diversamente dalle ipotesi di cui alle lett. a e b dell’art. 274, 1o comma, c.p.p. — obbedienti allo scopo di « assicurare » al processo l’indagato, la cui persona serve in quanto strumento di prova e oggetto dell’eventuale esecuzione, ogniqualvolta vi sia motivo di ritenere che intenda sottrarvisi — nel caso previsto dall’art. 274, 1o comma, lett. c « l’intervento cautelare diventa misura di sicurezza » (19). Ne deriva l’indipendenza di tale con-

(16) Sono le gravi esigenze cautelari che vanno rapportate agli accertamenti e non il contrario, come, invece, sembra sostenere la sentenza in esame asserendo che la proroga di cui al 2o comma dell’art. 305 c.p.p. « riguarda ogni altro caso di « accertamenti particolarmente complessi » in rapporto a « gravi esigenze cautelari ». (17) In argomento, con riferimento al codice di procedura penale del 1930, cfr., per tutti, F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1985, 94. (18) In conformità v. V. BOSCO, op. cit., 70, n. 5, secondo cui « di difficile configurazione sembrerebbe la richiesta di proroga fondata sul pericolo di fuga: tale minaccia, infatti, deve sussistere in modo concreto, non come astratta possibilità. Ci si riferisce ad una probabilità logica desunta da elementi probatori concreti; tali, cioè, da condurre al convincimento che quel determinato imputato stia per fuggire. Riesce difficile immaginare l’emergere di una situazione del genere, dal momento che « l’indagato » è in vinculis ». (19) Così F. CORDERO, Procedura penale, 1991, cit., 451: « Metamorfosi poco felice: la tutela degli interessi collettivi esige rimedi ad hoc; gli ibridi costano più di quanto rendano ». In argomento cfr. altresì L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, 565 e 803.


— 283 — dizione di applicabilità delle misure cautelari dalle esigenze connesse all’attività di indagine e, dunque, l’inutile vessatorietà di una proroga dei termini della custodia cautelare a fini investigativi fondata su siffatto presupposto (20). Resta, dunque, ai fini della concedibilità della proroga, l’esigenza cautelare connessa a finalità c.d. « istruttorie » (21). Una simile interpretazione, lungi dal configurarsi come illogica, si pone, viceversa, come l’unica compatibile con una lettura costituzionalmente ortodossa dei principi vigenti in tema di misure cautelari — « in particolare con l’art. 27, 2o comma, Cost. — sulla base del noto assunto secondo cui le limitazioni di libertà motivate da esigenze probatorie non postulerebbero in via di principio un’equiparazione tra imputato e colpevole, ma più semplicemente verrebbero « a tradurre, specificandolo in termini coercitivi, il dovere dell’imputato di porsi a disposizione della collettività per contribuire fattivamente all’attuazione della potestà di giustizia » (22). D’altronde, anteriormente all’entrata in vigore del c.p.p. 1988, l’istituto della proroga, introdotto dall’art. 7 Legge n. 398 del 1984 limitatamente alla fase istruttoria era stato esteso dall’art. 5 Legge n. 29 del 1987 alla fase intercorrente tra la pronuncia di primo grado e quella di appello, precisandosi, peraltro, che la possibilità di concedere le proroghe era subordinata all’esistenza di « oggettive necessità processuali ». La giurisprudenza, già con riferimento all’originaria formulazione dell’art. 7 Legge n. 398 del 1984, aveva asserito che il requisito della pericolosità sociale era escluso dai presupposti applicativi della proroga della custodia cautelare (23), puntualizzando, con riferimento alla versione della norma modificata dalla Legge n. 29 del 1987, come il penultimo comma fosse stato aggiunto « per escludere in modo certo che possano avere incidenza sulla decisione concernente la proroga esigenze diverse da quella espressamente indicata, come la pericolosità sociale dell’imputato » (24). Il giudice, dunque, nel concedere la proroga dovrà motivare in ordine alla sussistenza di una esigenza cautelare connessa al compimento di atti investigativi di particolare complessità. Inoltre, analogamente a quanto previsto nell’art. 274, 1o comma, lett. a, c.p.p., la proroga dovrà essere graduata con riferimento alla presumibile durata degli accertamenti.

(20) In pari sensi C. TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, 1991, 450-451 secondo cui « è evidente che la cautela deve essere analoga alla finalità del compimento di accertamenti particolarmente complessi... e ciò conduce alla necessità di escludere che possano avere qualcosa da spartire con la tematica che si sta affrontando le esigenze di cui alla lett. c dell’art. 274 perché il pericolo di commissione di qualunque tipo di reato non può incidere nella efficienza degli accertamenti ». In argomento v. anche V. BOSCO, op. cit., 70, asserendo che « ove la proroga si intendesse rivolta anche al soddisfacimento » delle esigenze di cautela finale e sostanziale « dovrebbe essere strutturata in modo da « coprire » l’intera durata delle indagini ». (21) Contra G. ILLUMINATI, op. cit., 243; A. SCELLA, In tema di proroga ‘‘istruttoria’’ dei termini di custodia cautelare, in Cass. pen., 1991, II, 355, 975. In senso parzialmente difforme v. Gius. AMATO, op. cit., 177, il quale sostiene la concedibilità della proroga fondata sulle esigenze cautelari di cui alle lett. a e b dell’art. 274, 1o comma, c.p.p. In quest’ultimo senso v., in giurisprudenza Cass., Sez. I, 4 marzo 1992, Bilardo, in Giust. pen., 1993, III, 152. (22) In tal senso, con riferimento all’esigenza cautelare prevista dall’art. 274, 1o comma, lett. a, c.p.p., M. CHIAVARIO, Art. 274, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., 44. (23) V. Cass., Sez. I, 24 novembre 1986, Signori, in questa Rivista, 1986, 1039, con nota di F. PERONI, Pericolosità dell’imputato e proroga della custodia cautelare. (24) Così Cass., Sez. I, 16 novembre 1988, Rotolo, in Giust. pen., 1988, III, 577. In dottrina, in senso contrario, v. F.R. DINACCI, op. cit., 583-584.


— 284 — 3. Dimostrata la correlazione finalistica fra la concessione della proroga e « gravi congiunture attinenti a operazioni particolarmente laboriose » (25), occorre accertare il significato della locuzione « accertamenti particolarmente complessi » rinvenibile nel 2o comma dell’art. 305 c.p.p. Dalla lettura della motivazione del provvedimento in esame si apprende che il termine « accertamenti » comprende « tutte le attività capaci di attribuire a taluni dati normativi la certezza della loro acquisizione alla investigazione ». L’affermazione della Corte sembrerebbe circoscrivere la portata degli accertamenti alle sole attività dirette ad acquisire e cristallizzare dati probatori, con esclusione di qualsiasi atto di tipo valutativo tendente a verificare che « gli elementi prodotti siano sufficienti a provare un fatto » (26). Senonché, in un successivo passo della sentenza, la S.C., definendo il procedimento di accertamento come « lo strumento formale e oggettivo che è idoneo ad attribuire certezza ad una situazione che altrimenti resterebbe incerta per l’ordinamento » precisa che nella categoria « debbono necessariamente rientrare, anzitutto, proprio quegli atti che la stessa norma esige che sia indispensabile compiere per la acquisibilità dei risultati delle indagini al fascicolo del dibattimento, e per la loro successiva utilizzabilità... ». Dal che sembrerebbe desumersi che gli accertamenti comprenderebbero, oltre agli atti strettamente investigativi, anche attività attinenti alla fase delle indagini preliminari di natura non propriamente probatoria (27). Nulla quaestio, sotto tale profilo, nel caso di specie, trattandosi di acquisire assegni ed altri titoli di credito in previsione di un loro sequestro quali cose pertinenti al reato. Tuttavia, conviene ribadire che il requisito degli « accertamenti particolarmente complessi » può configurarsi solo in relazione a specifiche attività dirette alla ricerca ed alla acquisizione di fonti di prova, e non al compimento di un qualsiasi atto delle indagini, come è dimostrato dal fatto che l’art. 305, 2o comma, c.p.p. non fa riferimento genericamente ad indagini particolarmente complesse, bensì ad « accertamenti », ossia ad atti di ricerca e di acquisizione di dati probatori, esclusivamente nei confronti dei quali, del resto, può logicamente profilarsi quel « periculum in mora », che si è visto essere la sola condizione giustificante il mantenimento in vinculis dell’indagato oltre il termine di durata massima della custodia. Ma vi è di più. L’art. 305, 2o comma, c.p.p. richiede che le esigenze cautelari connesse agli accertamenti rendano « indispensabile » il protrarsi della custodia. Ciò significa che la proroga può essere disposta solo nei casi in cui la persona sottoposta alle indagini sia coinvolta in maniera diretta od indiretta nell’accerta-

(25) La terminologia è di F. CORDERO, Procedura penale, 1991, 483. (26) V. V. BOSCO, op. cit., 74. Sul significato della categoria dell’accertamento cfr. P.P. RIVELLO, Accertamento e valutazione nelle attività di consulenza tecnica del pubblico ministero, in Giust. pen., 1991, III, 241; A. SCELLA, op. cit., 977. (27) Si legge, infatti, nella motivazione del provvedimento in esame che « la proroga va accordata ogni qualvolta le indagini non si possono eaurire nei termini ordinari: e ciò tanto quando gli accertamenti siano ancora da compiere tanto quando il P.M., in prossimità della scadenza dei termini di custodia cautelare, si trovi nella necessità di valutare i risultati di accertamenti già eseguiti ». Cfr. anche Cass., Sez. I, 3 maggio 1991, p.m. in c. Frezza, cit., la quale, partendo dalle stesse premesse del provvedimento che si annota, ha ritenuto idonea a giustificare la protrazione della custodia cautelare ex art. 305, 2o comma, c.p.p. la trascrizione delle intercettazioni telefoniche, in quanto atto avente la funzione di rendere utilizzabili nel dibattimento i risultati delle intercettazioni.


— 285 — mento, non potendo prescindersi « dalla diretta dipendenza del pericolo per l’acquisizione o per la genuinità della prova dal venir meno dello stato di custodia » (28). Non basta, inoltre, ai fini della concessione della proroga, la sussistenza della necessità di compiere « accertamenti particolarmente complessi » che rendano indispensabile la protrazione della custodia. Occorre, altresì, verificare l’impossibilità oggettiva, per l’accusa, di compiere tempestivamente quel particolare atto fondante la richiesta di proroga, accertando anche che l’impossibilità non sia derivata da un ingiustificato ritardo nel compimento di un atto antecedente che ha ritardato l’espletamento degli accertamenti in questione. Al riguardo, la S.C. afferma che al giudice per le indagini preliminari « è preclusa la possibilità di accordare la proroga richiestagli ogniqualvolta accerti un colpevole ritardo da parte del pubblico ministero nel tempestivo adempimento della attività di indagine, non potendo consentirsi che l’inerzia degli inquirenti possa giustificare il protrarsi della privazione della libertà personale dell’inquisito ». Tuttavia, non sembra sufficiente l’accertamento della mancanza di una colpevole negligenza da parte del pubblico ministero. In altri termini « l’involontarietà del ritardo non giustifica la proroga. La involontarietà acquista rilievo, rendendo legittima la proroga, solo se accompagnata dall’imprevedibilità ed inevitabilità del ritardo e, quindi, dall’impossibilità di muovere all’organo giudiziario qualsiasi addebito di leggerezza od imperizia » (29). Graverà, dunque, sull’organo dell’accusa l’onere di provare l’imprevedibilità e l’inevitabilità del ritardo, dandone adeguata motivazione nella sua richiesta al giudice. 4. La seconda questione affrontata nella sentenza concerne il termine per la proposizione della richiesta di proroga. La lettera dell’art. 305, 2o comma, c.p.p. è al riguardo sufficientemente chiara: la proroga può essere disposta esclusivamente « nel corso delle indagini preliminari ». Viceversa, la S.C. asserisce la ritualità della domanda di proroga avanzata dal pubblico ministero dopo la richiesta di rinvio a giudizio, sulla base del postulato per cui la fase delle indagini preliminari può considerarsi indefettibilmente conclusa solo in conseguenza del provvedimento che viene adottato all’esito dell’udienza preliminare (30). Ad una simile conclusione la Corte perviene facendo leva sul potere accordato implicitamente dall’art. 419, 3o comma, c.p.p. all’organo dell’accusa di compiere indagini anche successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio. La suddetta opinione desta non poche perplessità. A parte la considerazione basata sul dato testuale contenuto in diverse disposizioni del codice di rito (31) che distinguono nettamente le indagini preliminari

(28) In tal senso cfr. C. TAORMINA, op. cit., 451, ad avviso del quale « non sarebbe, in breve, legittimamente concessa una proroga per la complessità, anche rilevantissima, di accertamenti ispettivi, perquisizioni, intercettazioni, consulenze tecniche od anche perizie non riguardanti o non coinvolgenti in maniera diretta o indiretta la persona sottoposta a custodia cautelare ». (29) Così, con riferimento all’art. 5 Legge n. 29 del 1987, v. F.R. DINACCI, op. cit., 588. (30) In conformità cfr. Cass., Sez. VI, 5 maggio 1992, Ruvolo ed altri, cit.; Id., Sez. I, 1o ottobre 1991, Drago, in Giur. it., 1991, II, 153, con nota contraria di T. STEMPERINI, Tempi e modi per la proroga della custodia cautelare. (31) Cfr. gli artt. 18 e 20 c.p.p., che qualificano come procedimentale la fase delle indagini preliminari, e come processuale l’udienza preliminare; gli artt. 22, 114, 2o comma, 181, 2o comma, 405, 407, 2o comma, 513 e 514 c.p.p.: v., al riguardo, T. STEMPERINI, op. cit., 156.


— 286 — dall’udienza preliminare, occorre sottolineare che il richiamo all’art. 419 c.p.p., lungi dall’avallare l’opinione della S.C., dimostra, viceversa, l’operatività della proroga esclusivamente nel periodo che precede l’esercizio dell’azione penale. È enucleabile, nel sistema del nuovo codice di procedura penale, un principio di « completezza » delle indagini preliminari emergente, in primo luogo, dagli artt. 326 e 358 c.p.p. (32). Più specificamente, ai fini che qui interessano, viene in rilievo l’art. 326, la cui disposizione individua la finalità delle indagini preliminari nelle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. La « relatività » della completezza delle indagini preliminari, « commisurata e ‘‘mirata’’ esclusivamente alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale » si contrappone « a quella completezza ‘‘assoluta’’ di impronta inquisitoria che era sottesa dall’art. 299 del vecchio codice » (33). La diversità di obiettivi tra le indagini compiute dall’accusa prima dell’esercizio dell’azione penale (ed in funzione di esso) e quelle eventualmente compiute dopo impedisce un allineamento delle eventuali ulteriori indagini ex art. 419 c.p.p. alle indagini preliminari in senso stretto. Ne deriva che la necessità di compiere le indagini previste dall’art. 419, 3o comma, c.p.p. assimilabili, sotto questo profilo alle indagini integrative di cui all’art. 430 c.p.p., non può fondare la richiesta di proroga, appunto perché presuppone una già avvenuta valutazione positiva sulla sussistenza di elementi idonei a sostenere l’accusa (artt. 326 c.p.p. e 125 disp. att.) (34). La dicotomia tra la legittimazione del pubblico ministero a continuare l’attività investigativa dopo la richiesta di rinvio a giudizio e la illegittimità della protrazione della custodia cautelare oltre i termini massimi previsti dalla legge successivamente all’esercizio dell’azione penale si pone, del resto, in armonia con la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale distingue nettamente il termine « ragionevole » per la celebrazione del giudizio (art. 6, 1o comma) commisurabile in funzione della complessità della fattispecie, del comportamento dell’indagato, delle difficoltà oggettive delle indagini, e il termine « ragionevole » per la durata della custodia cautelare (art. 5, 3o comma), termine che deve essere rigidamente predeterminato, indipendentemente dalla complessità dei reati o delle indagini (35). La norma concernente la

(32) V. Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, in Giur. cost., 1991, I, 586, che, con riferimento ad una questione di legittimità dell’art. 125 disp. att. c.p.p., asserisce la sussistenza di un principio di « completezza » (almeno tendenziale) delle indagini preliminari, « che nella struttura del nuovo processo assolve una duplice, fondamentale funzione. La completa individuazione dei mezzi di prova è, invero, necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili... Dall’altro lato, il dovere di completezza funge da argine contro eventuali prassi di esercizio « apparente » dell’azione penale, che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale ». (33) Così G. TURONE, Contro lo sbarramento introdotto dall’art. 407 c.p.p., in Questione giust., 1992, n. 2, 485; sulla non assimilabilità della attività integrativa di indagine alla fase delle indagini preliminari v. G. UBERTIS, Non termini astratti, ma garanzia del contraddittorio, ibid., 483. (34) v. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, 100, ove si legge che le ulteriori indagini contemplate dall’art. 419, 3o comma, c.p.p. sono state previste « alla luce di esigenze di carattere pratico-operativo che hanno sconsigliato di creare un periodo « bianco » ed altresì in considerazione della struttura del nuovo processo che non può negare alla parte pubblica il potere di compiere investigazioni cui è legittimata parallelamente anche la parte privata ». (35) Cfr. G.I.P. Trib. Milano, 4 dicembre 1992, Carollo ed altro, in Questione giust., 1992, n. 2, 473. V. anche Corte Eur., 27 giugno 1968, caso Wemhoff (citata da M. CHIAVARIO, Processo e garanzie


— 287 — proroga della custodia, ponendosi come deroga alle disposizioni statuenti i termini massimi della carcerazione preventiva, non può, quindi, costituire oggetto di interpretazione estensiva. La Corte, in termini alquanto fumosi, afferma che « ai fini della sanzione di inutilizzabilità, prevista dall’art. 407, 3o comma, per « atto di indagine », compiuto dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari stabilito dalla legge o prorogato dal giudice, deve... intendersi soltanto quello con efficacia probatoria. In tale categoria non può pertanto ricomprendersi la richiesta di applicazione di misura cautelare e a fortiori di proroga della stessa, non avendo essa alcuna efficacia probatoria... Di conseguenza, non rileva che la richiesta di misura cautelare o di proroga della stessa sia fatta nel corso della udienza preliminare o dopo che sia stata iniziata l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio ». Ora, è scontato che la sanzione dell’inutilizzabilità, concernente gli atti probatori, non possa applicarsi alla richiesta di proroga della custodia cautelare avanzata fuori termine. Quel che è singolare è che da tale premessa la Corte deduca tout court la legittimità della domanda avanzata successivamente all’esercizio dell’azione penale. In realtà, ciò che è da verificare è se la conclusione della fase delle indagini preliminari coincida con l’esercizio dell’azione penale. In caso affermativo, la domanda proposta tardivamente, difettando la relazione temporale richiesta dalla legge, si configura come inammissibile, posto che ogniqualvolta l’esame del merito di una domanda è subordinato alla sussistenza di prefissati requisiti e predeterminate forme, l’inosservanza della prescrizione determina il verificarsi di inammissibilità anche in assenza della esplicita comminatoria della sanzione in esame da parte del legislatore (36). 5. In sostanza, l’intero discorso della Corte si dimostra pervaso dalla mai sopita tendenza, sia legislativa che giudiziaria, di avvicinare surrettiziamente i tempi della custodia a quelli sempre più elevati del processo (37). Al riguardo si è esattamente evidenziato che « dapprima è prevalsa la logica di aumentare i massimi legali, innalzandoli con progressivi ritocchi alla vertiginosa altezza, per i reati più

della persona, II, Milano, 1984, 346), affermando che una durata eccezionale della custodia, cautelare può trovare giustificazione « nell’eccezionale complessità del caso, in cause addizionali di ritardo che non sia possibile evitare ». (36) Sulla insussistenza di un numero chiuso di cause di inammissibilità cfr. F. CORDERO, Procedura penale, 1991, cit., 1005; T. DELOGU, Contributo alla teoria della inammissibilità nel processo penale, Milano, 1938, 55; M. FAVALLI, L’inammissibilità nel processo penale, Napoli, 1968, 183 (« In linea generale l’analisi della funzione del giudizio di ammissibilità consente di affermare che una valutazione di tale tipo ricorre ogni qualvolta si tratta di accertare se in concreto sussistano dei dati i quali siano conformi allo schema normativo, al fine di stabilire se possa sorgere, conformemente a legge, un procedimento, e se, di regola, esso possa svilupparsi sfociando nell’atto di decisione »); A. GAITO, « Electa una via », Milano, 1984, 150 (L’inammissibilità « va configurata quale categoria logico-giuridica connaturata al fatto che, nel diritto processuale penale, nessuna parte può proporre domande esorbitanti dalla sfera dei poteri ad essa riconosciuti »); ID., Il giudizio direttissimo, Milano, 1980, 348; C. PEYRON, voce Invalidità (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Milano, XXII, 1972, 618. (37) Emblematica è, ai fini che qui interessano, l’affermazione contenuta nella sentenza in esame secondo cui « la proroga va accordata ogni qualvolta le indagini non si possono esaurire nei termini ordinari ». Inutile sottolineare come una simile impostazione, svincolando la concessione della proroga da precisi criteri e limiti entro cui l’istituto è destinato ad operare, si ponga in contrasto con l’art. 13, 5o comma, Cost., statuente una riserva di legge per la determinazione dei « limiti massimi della carcerazione preventiva ».


— 288 — gravi, di undici anni prima della sentenza irrevocabile. Poi ricondotti i massimi a più ragionevoli livelli, si è dovuto ben presto constatare l’impossibilità di contenere in quei limiti la durata dei processi. Ma, ad evitare la sconfitta di un puro e semplice ritorno all’antico, si è mutata rotta, adottando la tattica delle ‘‘sospensioni’’, delle ‘‘proroghe’’, dei ‘‘congelamenti’’; in breve il metodo delle ‘‘finzioni’’ volte ad allungare la custodia, senza formalmente incidere sui suoi termini legali » (38). PAOLA SECHI Dottore di ricerca in procedura penale

(38) Così, testualmente, P. FERRUA, Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, 125; v. altresì L. FERRAJOLI, op. cit., 804.


— 289 — CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 17 maggio 1993 Pres. Pisanti — Rel. Fulgenzi — P.M. (diff.) Ric. P.M. in c. Rizzo ed altri Prova — Testimonianza indiretta — Contrasto tra le dichiarazioni del testimone de relato e le dichiarazioni del testimone di riferimento — Utilizzabilità delle dichiarazioni de relato — Sussistenza (C.p.p. art. 195). In tema di valutazione della prova, il nuovo codice di procedura penale non preclude in assoluto la possibilità di utilizzazione delle testimonianze indirette, essendosi limitato a prevedere l’inutilizzabilità di quelle, in ordine alle quali il dichiarante non possa o non voglia indicare le fonti della notizia che assume di aver appreso. Inoltre, l’art. 195 c.p.p. non esclude che, chiamata a deporre la persona alla quale ha fatto riferimento il testimone de relato, allorché questa affermi la non veridicità di quanto dichiarato da quest’ultimo, il giudice possa valutare le due deposizioni e ritenere attendibile la deposizione de relato anziché quella della persona a cui è stato fatto riferimento (1). (Omissis). — Il ricorso è fondato. In tema di valutazione della prova il nuovo codice non ha inteso espellere completamente le testimonianze indirette, ma solo quelle in cui il dichiarante non voglia o non possa indicare le fonti della notizia che assume di aver appreso (Sez. VI, 23 febbraio 1991, El Annon ed altri, m. 186.466); e l’art. 195 c.p.p. non esclude che, una volta chiamata a deporre la persona alla quale ha fatto riferimento il testimone, allorché questa eventualmente abbia escluso la veridicità di quanto riferito dal teste de relato, il giudice possa valutare le due deposizioni, dando attendibilità a quella de relato e non a quella della persona alla quale è stato fatto riferimento (Sez. V, 30 aprile 1991, p.m. in c. Caruso ed altri, m. 187.554). D’altra parte, se è vero che la rinnovazione del dibattimento nel giudizio di appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso solo quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (v. per tutte Sez. I, 29 luglio 1992, Russo ed altri, m. 191.507), non può andare esente da censura, per manifesta illogicità di motivazione, la sentenza in cui — mentre si esprime il convincimento che taluni documenti avrebbero potuto costituire decisiva conferma della tesi accusatoria — non si indicano in maniera logicamente accettabile le ragioni per le quali la riapertura dell’istruttoria dibattimentale si appalesi come inidonea a portare all’acquisizione dei documenti stessi. — (Omissis).

—————— (1)

Utilizzabilità e valutazione delle dichiarazioni de relato tra principio di oralità e libero convincimento del giudice.


— 290 — 1. Il tema della utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal testimone indiretto costituisce un punto di osservazione privilegiato per uno studio sui nuovi equilibri del sistema della prova penale. Infatti, per una plausibile ricostruzione della materia, l’interprete si trova a dover mediare fra principio del libero convincimento, da un lato, e principio di legalità della prova, dall’altro, con particolare riguardo al principio di oralità, per cui al giudice deve esser fatto divieto di valutare, ai fini della propria decisione, quanto non sia stato acquisito in dibattimento secondo determinate regole. La nuova disciplina normativa della testimonianza indiretta, intervenuta a regolare restrittivamente una materia in precedenza lasciata alla libera valutazione del giudice, pur circoscrivendo l’area di utilizzabilità delle dichiarazioni de relato non si pronuncia esplicitamente sul valore probatorio da attribuire alle medesime, ove non si ricada nelle specifiche ipotesi di inutilizzabilità previste dall’art. 195 c.p.p. Pertanto, a fronte di una norma quanto meno non esaustiva, è compito dell’interprete (1) — ed, in particolare, della giurisprudenza — individuare, in primo luogo, gli esatti limiti posti dal legislatore ad un uso indiscriminato della testimonianza indiretta, e stabilire, in secondo luogo, se dall’analisi dell’art. 195 c.p.p., ovvero dal sistema nel suo complesso, si possano desumere indicazioni circa il valore probatorio delle dichiarazioni di cui si tratta. 2. La sentenza annotata, per quanto scarna ed apodittica nella sua motivazione, è emblematica dell’orientamento giurisprudenziale che si è affermato sul

(1) I contributi scientifici sulla nuova disciplina della testimonianza indiretta non sono numerosi: a livello di trattazione generale, oltre alla letteratura manualistica (tra cui da ultimo, A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 4a ed., Milano, 1995, p. 334 ss.) si veda, I. CALAMANDREI, Commento all’art. 195 c.p.p., in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. II, Torino, 1990, p. 429 ss. Ben più cospicuo risulta l’apporto della dottrina sul tema — implicante una problematica autonoma e particolare — della testimonianza di agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria sulle dichiarazioni acquisite nel corso del procedimento da pesone informate sui fatti. La specificità della disciplina dettata dall’art. 195 comma 4 c.p.p. — dichiarato, come è noto, costituzionalmente illegittimo con la sentenza costituzionale n. 24 del 1992 — con riferimento ad agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria si rinviene nella circostanza per cui la norma non si limita a porre una sanzione di inutilizzabilità in relazione alla mancata indicazione del teste di riferimento, ma fa divieto ai medesimi soggetti di deporre su quelle dichiarazioni che essi avessero « acquisito » nel corso del procedimento e dunque nell’esercizio delle proprie funzioni. La ratio della disposizione è sottolineata — sia pur in forma estremamente concisa — nella Relazione al progetto preliminare del codice, secondo cui « il disposto del comma 4 dà attuazione alla direttiva n. 31 della legge-delega che mira a garantire, ad un tempo, l’oralità della prova ed il diritto di difesa » (v. infra, nota 14). Più precisamente la norma era volta ad evitare che tramite la testimonianza della polizia giudiziaria entrassero nel processo come prove atti formati dalla medesima in funzione accusatoria e, pertanto, finalizzati esclusivamente alle determinazioni di parte (v., in proposito, le lucide osservazioni di G. GIOSTRA, Equivoci sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e sacrificio del principio di oralità, in Riv. dir. proc., 1992, p. 1130 ss.). Sul punto cfr., inoltre, I. CALAMANDREI, op. cit., p. 436 ss., nonché, in senso critico, R. SAMEK LODOVICI, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Cass. pen., 1991, I, p. 2131, n. 1551. V. poi la copiosa produzione successiva alla declaratoria di incostituzionalità: oltre al già citato contributo di G. GIOSTRA, loc. ult. cit., v. in particolare I. CALAMANDREI, Commento all’art. 195 c.p.p. (testimonianza indiretta), in M. CHIAVARIO, Commento, cit., primo aggiornamento, Torino, 1993, p. 100 ss.; M. D’ANDRIA, Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 195 comma 4 c.p.p., in Cass. pen., 1992, p. 925, n. 462 ss.; P. DELL’ANNO, Testimonianza indiretta di polizia giudiziaria e ragionevolezza inquisitoria, in Giust. pen., 1992, I, c. 305 ss.; F. PERONI, La testimonianza della polizia giudiziaria al vaglio della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1992, p. 688 ss.; M. SCAPARONE, La testimonianza indiretta dei funzionari di polizia giudiziaria, in Giur. cost., 1992, p. 127; M. TORNATORE, Testimonianza indiretta e deposizione di appartenenti ad organi di polizia giudiziaria, ivi, 1992, p. 2317 ss.


— 291 — punto nella vigenza del nuovo codice. Un orientamento volto, in linea di massima, ad ammettere in tutti i casi l’utilizzabilità delle dichiarazioni de relato, alla duplice condizione che consti l’identità della fonte diretta e che il giudice non ometta di chiamarla a deporre ove vi sia la richiesta di una parte in tal senso. Il ragionamento sotteso alle (invero non numerose) pronunce in materia si svolge col puntualizzare, anzitutto, che « il nuovo codice di procedura penale non ha inteso espellere completamente le testimonianze indirette, ma solo quelle in cui il dichiarante non voglia o non possa indicare le fonti della notizia che assume di aver appreso, ex art. 195, comma 7 ». Inoltre, proseguendo in una lettura dell’art. 195 c.p.p. priva, in buona sostanza, di accenti di sfavore nei confronti delle testimonianze de relato, l’indirizzo giurisprudenziale in esame sottolinea che, allorché risulti verificata la condizione posta dal comma 7 dell’art. 195 c.p.p., e « salvo che le parti o il giudice, ex art. 195, commi 1 e 2, ritengano di chiamare a deporre direttamente le persone cui il testimone si riferisce, le dichiarazioni de relato costituiscono elementi valorizzabili nel complessivo ed unitario quadro probatorio » (2). Si vuol dire con ciò che — ai fini della inclusione delle dichiarazioni in parola nel quadro probatorio — non è sempre necessaria l’audizione del testimone di riferimento, tanto che la presenza o meno del medesimo in dibattimento è subordinata ad una iniziativa delle parti o del giudice, senza che da una scelta nell’uno o nell’altro senso derivino, di per sé, conseguenze in ordine al valore probatorio delle dichiarazioni rese dal testimone indiretto. In altri termini, stando all’impostazione delle predette sentenze, è opinione dominante che possa essere utilizzata ogni dichiarazione de relato, a condizione che all’iniziativa delle parti o del giudice, ai sensi dell’art. 195 commi 1 e 2 c.p.p., corrisponda — sempre che questo sia possibile — una verifica sulla fonte originaria. Una interpretazione siffatta trova ulteriore riscontro nell’affermazione della Suprema Corte — per quanto non manchino pronunce di segno contrario (3) — secondo la quale la sanzione prevista dall’art. 195 comma 3 c.p.p. è volta a rendere inutilizzabile la deposizione del testimone indiretto, nella sola ipotesi in cui, pur avendone la parte fatto richiesta, sia stata omessa la citazione del testimonefonte (4). Da queste premesse viene quindi fatta discendere l’utilizzabilità delle dichiarazioni de relato non solo allorché l’esame del testimone di riferimento « risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità » (5), come previsto esplicita-

(2) Entrambi i passi sono tratti da Cass. 26 settembre 1990, El Annon ed altri, in Cass. pen., 1991, II, p. 640, n. 223. (3) Sembra, infatti, accogliere una tesi maggiormente restrittiva, Cass. 1 ottobre 1990, Di Biasi, in Cass. pen., 1991, II, p. 640, n. 222, secondo cui, nei limiti segnati dai commi 3 e 7 dell’art. 195 c.p.p., le deposizioni de relato sono sempre utilizzabili, « sia pure con l’obbligata chiamata a deporre del soggetto asseritamente referente ». (4) Fra le ultime pronunce cfr., in particolare, in termini espliciti, Cass. 25 febbraio 1991, Puzzo, in Cass. pen., 1991, II, p. 635, n. 221. (5) È da segnalare, in ordine al concetto di irreperibilità, Cass. 25 gennaio 1993, Mei, in Giur. it., 1994, II, c. 81, con nota di B. MERCURI, La nozione di irreperibilità nella tematica della testimonianza indiretta. Secondo la citata sentenza nel concetto di irreperibilità « rientra il caso della impossibilità sia di rintracciare il soggetto sia di individuarlo e di identificarlo ». È però facilmente obiettabile che l’interpretazione proposta conduce a svilire la garanzia minima dettata dall’ultimo comma dell’art. 195 c.p.p. per l’utilizzazione delle dichiarazioni de relato. Per converso, più restrittiva, ma per alcuni aspetti priva di riscontro normativo, è l’interpretazione data da Trib. Sanremo, 12 luglio 1990, Giametta ed altro, in Dif. pen., 1990, fasc. 28, p. 92, secondo il quale « la normativa di cui all’art. 195 comma 3 c.p.p. sulla deposizione de relato, implica logicamente la disponibilità del teste di riferimento, del quale possa essere richiesta o disposta la citazione a deporre, risultando in seguito l’impossibilità di esame per morte o infermità o irreperibilità ». Non vi è, infatti, al-


— 292 — mente in via di eccezione dall’art. 195 comma 3 c.p.p., ma anche allorché il teste di riferimento, regolarmente citato e comparso in udienza, si rifiuti di sottoporsi all’esame o comunque di rispondere (6). Perfettamente in linea con un simile approccio, tendente a garantire l’autonomia della testimonianza indiretta quale mezzo di prova, appare dunque l’ulteriore affermazione, contenuta nella sentenza annotata, stando alla quale, anche nel caso in cui il testimone diretto abbia deposto, e si rilevi un contrasto tra le due deposizioni, il giudice non perciò dovrà subire un limite alla libera formazione del suo convincimento. Per conseguenza, egli potrà valutarle entrambe liberamente, fino a ritenere attendibile la deposizione de relato anziché quella della persona cui è stato fatto riferimento come fonte originaria (7). 3. L’interpretazione accolta dalla giurisprudenza, come sopra brevemente delineata, discende, se non da un’applicazione piana dell’art. 195 c.p.p., da una ricostruzione complessivamente fedele alla impostazione del legislatore del 1988. Anche ad un esame non approfondito della norma risulta evidente, in primo luogo, che nel disciplinare l’istituto della testimonianza indiretta il legislatore non ha posto alcun limite specifico all’ammissibilità della stessa (8). Essa, infatti, risulta di per sé sempre acquisibile (diversamente da quel che accade in forza del divieto di deporre sul « sentito dire », imposto dalla hearsay rule dei processi di common law) (9), salvo quanto previsto in tema di inutilizzabilità. Con riguardo a quest’ultimo punto, inoltre, l’analisi del testo normativo ex art. 195 c.p.p. porta a ritenere — al di là della previsione di chiusura contenuta nel comma 7, dov’è posto come requisito indispensabile la rivelazione dell’identità della persona da cui il testimone afferma di aver appreso i fatti — che la regola di inutilizzabilità di cui al comma 3 non è volta a sanzionare, sempre e comunque, la mancata escussione del teste diretto con l’esclusione dal quadro probatorio delle dichiarazioni de relato. In particolare, una interpretazione della norma suddetta nel senso di ritenere condizionata l’utilizzabilità delle medesime dichiarazioni alla richiesta delle parti, cui sarebbe rimesso l’onere di sollecitare un controllo sulle dichiarazioni rese dal teste indiretto (pena, in caso di omessa richiesta, l’impossibilità di impiego delle

cuna prescrizione che imponga l’inutilizzabilità delle dichiarazioni riconducibili a persona che, al momento della testimonianza de relato, già fosse defunta o inferma o irreperibile. (6) Cfr. Cass. 1 ottobre 1990, Di Biasi, in Cass. pen., 1991, II, p. 640, n. 222; Cass. 4 febbraio 1993, Bevilacqua, in Foro it., 1993, II, c. 561; nonché Trib. Teramo 28 giugno 1991, Neri, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 767, con nota di A. MANFREDI, Testimonianza de relato: dichiarazioni di imputato in procedimento connesso e loro utilizzabilità. Cfr., inoltre, le osservazioni critiche di M. DEGANELLO, Commento all’art. 1 d.l. 8 giugno 1992, conv. in l. 7 agosto 1992. Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, in Leg. pen., 1993, p. 34. (7) Nei medesimi termini, già in precedenza, Cass. 11 febbraio 1991, Caruso ed altri, in Cass. pen., 1992, p. 1295, n. 685; ed inoltre, nello stesso senso, cfr. Cass. 28 dicembre 1993, Brusca, in Riv. pen., 1994, p. 1308, nonché Trib. Lecce 30 gennaio 1991, Giunca, Foro it., 1992, II, c. 55. (8) Salvo quanto risulta dal comma 6 dell’art. 195 c.p.p., ove, a tutela del segreto professionale o d’ufficio, viene disposto che i testimoni non possano « essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli articoli 200 e 201 in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli, salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati ». (9) Sul divieto di hearsay, regola il cui valore è stato progressivamente svuotato dalle numerose eccezioni individuate dalla giurisprudenza, v. nell’ambito della dottrina comparatistica i contributi di I. CALAMANDREI, L’inammissibilità della prova di « sentito dire », in questa Rivista, 1980, p. 791; G. CORDERO, La testimonianza nel diritto inglese, ivi, 1985, p. 193; M. PAPA, Contributo allo studio delle rules of evidence nel processo penale statunitense, in Indice pen., 1987, p. 299; cfr., inoltre, V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo « adversary », Genova, 1988, p. 274 s.


— 293 — deposizioni de relato) (10) sembra smentita, a tacer d’altro, da una lettura combinata dei primi tre commi dell’art. 195 c.p.p. Risulterebbe, infatti, difficile ammettere che, per effetto dell’inattività delle parti, in ipotesi non interessate alla verifica delle dichiarazioni de relato, si determinasse l’inutilizzabilità delle medesime, mentre nessuna conseguenza sul piano probatorio verrebbe fatta discendere — in presenza di analogo difetto di iniziativa — qualora il giudice decidesse di chiamare a deporre il teste, ai sensi del comma 2 dell’art. 195 c.p.p. È da ritenere, pertanto, che l’esame del testimone diretto non costituisca in assoluto un presupposto necessario per l’utilizzabilità delle dichiarazioni di secondo grado, ma acquisti tale decisiva rilevanza solo nel caso in cui le parti richiedano e il giudice disponga, eventualmente anche d’ufficio, l’esame del medesimo testimone (e sempre che ciò risulti possibile). A ben vedere, inoltre, almeno stando al tenore del testo normativo, non sembra corretto neppure affermare che la sanzione di inutilizzabilità operi in relazione alla mancata escussione del testimone, sia pure nel più ristretto ambito previsto dal legislatore e ricollegabile ad una richiesta di parte. Infatti, non sembra potersi dubitare che laddove il comma 3 dell’art. 195 c.p.p. commina la sanzione di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato ricollegandola alla « inosservanza della disposizione del comma 1 », la suddetta sanzione operi, in concreto, nel solo caso in cui il giudice, nonostante la richiesta di parte, abbia omesso di chiamare a deporre la persona indicata. Resta così escluso, in particolare, che dal combinato disposto delle due norme si possa desumere una diversa regola: quale, ad esempio, la necessità che il testimone diretto, citato a comparire, di fatto si presenti e renda la propria deposizione (11). Questa interpretazione, sebbene sminuisca il valore di garanzia della previsione in discorso — indubbiamente tesa a consentire alla parte, che ne abbia interesse, di provocare una verifica sull’attendibilità delle dichiarazioni de relato — risulta tuttavia formalmente ineccepibile, ed anche più comprensibile, alla luce di quanto precede. Infatti, come si è visto, il legislatore non impone come necessaria la previa escussione del testimone fonte ai fini della valutazione delle dichiarazioni de auditu in chiave probatoria, ma si limita a prevedere che le parti ne possano chiedere al giudice la citazione in giudizio, salvo che ciò risulti impossibile per il determinarsi di una delle situazioni esplicitamente individuate nel comma 3 dell’art. 195 c.p.p. Ciò significa che anche nel caso in cui, in presenza di una richiesta

(10) Così C. TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, Torino, 1995, p. 492 ss., il quale, nel tentativo di suffragare l’opinione per cui « non è dubbio che il nostro ordinamento sia impostato sulla integrale non rilevanza della testimonianza de relato », da un lato, sostiene che « l’unico modo per rendere utilizzabile la testimonianza de relato è quello dovuto alla successiva assunzione della testimonianza della persona dalla quale proviene la notizia », non mancando di rilevare la necessità che le parti si « facciano carico di introdurre la testimonianza » della fonte diretta; dall’altro lato, contraddittoriamente, sembra ritenere che, ottenuta la testimonianza diretta, nessun valore possa essere comunque attribuito alle dichiarazioni de relato, pure divenute utilizzabili per effetto della escussione del testimone di riferimento. Non altro significato sembra poter essere desunto dall’affermazione secondo la quale il ruolo assegnato all’istituto in discorso « appare essere piuttosto quello di porsi come un meccanismo idoneo ad introdurre un tema di prova non conosciuto o non compiutamente conoscibile, giacché l’esclusivo valore della deposizione della fonte blocca sul nascere qualunque operazione analoga in ordine ai contenuti di quella de relato ». (11) Lo afferma esplicitamente M. NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, p. 227; contra V. PERCHINUNNO, I mezzi di prova, in M. PISANI ed altri, Appunti di procedura penale, 2a ed., Bologna, 1994, p. 233, secondo cui « il codice ha stabilito che una testimonianza di tal genere non è utilizzabile se non quando venga esaminata la persona che ha direttamente avuto la percezione dei fatti »; nonché C. TAORMINA, op. cit., p. 494, nota 1.


— 294 — di parte in tal senso, il testimone diretto, pur regolarmente citato e comparso, si rifiuti di rispondere, la sopravvenuta impossibilità di esame in concreto non ha alcun effetto sul valore probatorio della precedente deposizione di secondo grado. 4. A conforto di quanto si è finora affermato, è possibile rinvenire ulteriori elementi di riscontro nella genesi della nuova normativa. L’esigenza di una disciplina che, tenuto conto della peculiarità dell’istituto della testimonianza indiretta, fissasse dei limiti all’utilizzabilità della medesima, era stata posta in luce lungo una duplice prospettiva. Per un verso, sulla scia delle osservazioni della dottrina (12), in linea di principio contraria a riconoscere l’utilizzabilità della testimonianza de auditu come prova del fatto narrato da un soggetto non comparso in giudizio; per altro verso, a seguito degli orientamenti giurisprudenziali che all’epoca del codice abrogato, in assenza di una specifica disciplina (e talora abusando dello strumento del libero convincimento), avevano riconosciuto la possibilità di impiego delle testimonianze in questione, fino ad ammettere che le relative dichiarazioni venissero poste a fondamento anche esclusivo delle sentenze (13). L’intento di soddisfare una simile esigenza risulta evidenziato, inoltre, dalla Relazione al progetto preliminare del codice, nella quale — premesso che la disciplina dettata nell’art. 195 c.p.p. « si richiama alla direttiva 2 della legge delega (adozione del metodo orale) » — esplicitamente si afferma che il medesimo art. 195 c.p.p. « circonda delle dovute cautele la testimonianza indiretta, al fine di consentire una così delicata forma di testimonianza solo quando sia reso possibile un qualche controllo sulla fonte di conoscenza » (14). Se il richiamo al principio di oralità appare un omaggio rituale ed incongruente rispetto a quanto si afferma successivamente, e desta, per tale motivo, alcune perplessità (non essendo possibile negare che l’istituto della testimonianza indiretta comporti una compressione del principio di oralità, che non può certo dirsi rispettato solo perché il testimone indiretto riferisce oralmente in dibattimento sui fatti) (15), è, però, indubbio che il nuovo codice abbia circoscritto in una certa misura il ricorso alla libera utilizzabilità delle dichiarazioni de auditu.

(12) In particolare P. FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Milano, Giuffrè, 1981, p. 285 ss., secondo il quale il divieto di testimonianza indiretta poteva essere fatto discendere, anche nella vigenza del codice abrogato, da una interpretazione ampia del principio di oralità. V. tuttavia, in senso critico circa l’assenza nell’ordinamento di una regola di esclusione che limitasse l’introduzione nel processo di dichiarazioni di secondo grado, E. AMODIO, Libertà e legalità delle prove nella disciplina della testimonianza, in questa Rivista, 1973, p. 328 ss.; M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, p. 304. (13) Si rinvia, in proposito, alle osservazioni di F. PERONI, Brevi appunti in tema di testimonianza de relato, in questa Rivista, 1988, p. 1519 s., ed in particolare alle indicazioni giurisprudenziali richiamate ibidem, note 11, 12, 13. (14) Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, n. 250 (suppl. ord. n. 2), p. 62. (15) Così viene affermato, nel dichiarare illegittima la testimonianza indiretta di agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria, nella sentenza costituzionale n. 24 del 1992, secondo la quale con il principio di oralità « non solo non contrasta ma anzi si conforma pienamente la testimonianza degli appartenenti alla polizia giudiziaria su fatti conosciuti attraverso dichiarazioni loro rese da altre persone, testimonianza da assumersi nei modi e nelle forme rigorosamente prescritte dell’esame diretto e del controesame... L’oralità della prova è fuori discussione, mentre il diritto di difesa è comunque tutelato attraverso l’interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone ». Sul significato del principio di oralità, e sui risvolti processuali che ne garantiscano una compiuta attuazione, oltre agli autori già citati alla nota 12, v. G. UBERTIS, Documenti e oralità nel nuovo processo penale, in Studi in onore di G. Vassalli, vol. II, Milano, 1991, p. 297; E. ZAPPALÀ, L’oralità nel nuovo


— 295 — In tale prospettiva la disciplina codificata nell’art. 195 c.p.p. si dà carico della difficoltà per il giudice di valutare l’attendibilità delle dichiarazioni di un soggetto che non abbia avuto diretta percezione dei fatti costituenti oggetto di prova, ma che si ponga, piuttosto, come fonte di secondo grado in relazione ai fatti medesimi (16). Non si può negare, in realtà, che nel duplice passaggio tra « fatto » e « giudice », i problemi che, in generale, la testimonianza quale mezzo di prova suscita — e soprattutto quelli concernenti (a prescindere dalla volontà di dichiarare il falso) l’erronea percezione dei fatti, ovvero la distorta memorizzazione degli stessi (17) — non solo fatalmente si raddoppino, ma trovino nell’eventuale impossibilità di escutere il testimone diretto una causa di ulteriore aggravamento. Tuttavia, l’esame puntuale della disciplina di cui all’art. 195 c.p.p. induce a ritenere che i limiti posti dalle nuove norme obbediscano ad una diversa esigenza. Essi, infatti, risultano diretti non tanto ad escludere che, in effettivo rispetto del principio di oralità, nella valutazione ai fini della decisione siano introdotti elementi non acquisiti dal giudice in dibattimento tramite il contraddittorio delle parti, bensì ad evitare, per quanto possibile, un uso indiscriminato delle dichiarazioni de relato. Ed appunto a tale scopo sono predisposte opportune cautele in vista della particolare delicatezza correlata alla natura delle medesime. In quest’ottica si stabilisce, in primo luogo, e come garanzia minima, che qualora il testimone si riferisca ad altre persone per la conoscenza dei fatti, delle sue dichiarazioni non si potrà tenere conto ove egli si rifiuti o non sia in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame. Così dispone a chiare lettere — come si rilevava all’inizio — l’ultimo comma dell’art. 195 c.p.p., operando una specificazione, del resto, della norma che impone il divieto di deporre sulle voci correnti nel pubblico sancito nel comma 3 dell’art. 194 c.p.p. (18). In secondo luogo, sempre nella medesima chiave, la regola (incontestabile, per quanto si è visto, alla luce della disposizione in oggetto) che ricollega l’inutilizzabilità della testimonianza indiretta alla sola ipotesi in cui il giudice non abbia ottemperato alla richiesta delle parti di chiamare a deporre il testimone diretto, individua ex adverso un’ulteriore garanzia nell’obbligo così imposto al giudice di dar seguito, prima di valutare le dichiarazioni de auditu già acquisite, alla richiesta delle parti di citare il teste fonte, salvo che ciò non sia possibile a causa di (anche) sopravvenuta « morte, infermità o irreperibilità ». La decisione in ordine alla necessità di ascoltare il testimone diretto viene,

processo penale, ibidem, p. 287; e, prima ancora, S. BUZZELLI, Documentazione magnetofonica e testimonianza indiretta nel nuovo processo penale, in Riv. dir. proc., 1990, p. 947. (16) Ai sensi dell’art. 195 comma 5 c.p.p. le disposizioni sulla testimonianza indiretta « si applicano anche quando il testimone abbia avuto comunicazione del fatto in forma diversa da quella orale ». Sull’ambito di applicabilità della disciplina della testimonianza indiretta, cfr. A. NAPPI, op. cit., p. 339 ss., il quale lo delinea seguendo le indicazioni della dottrina comparatistica in ordine ai sistemi di common law. (17) Sul punto cfr. A. MALINVERNI, Vero e falso nella testimonianza, in La testimonianza nel processo penale (Atti dell’VIII Convegno di studio « Enrico De Nicola »), Milano, 1974, p. 159 s.; ed, anche, L. DE CATALDO NEUBURGER, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Padova, 1988, p. 305 s. (18) Peraltro rileva F. CORDERO, Procedura penale, 2a ed., Milano, 1993, p. 601, come il comma 7 dell’art. 195 c.p.p. solo in apparenza costituisca una regola di esclusione, poiché — in assenza dell’indicazione della fonte originaria — si tratterebbe non di testimonianze, seppur indirette, ma di « pseudotestimonianze... voci fatue, equivalenti al messaggio onirico o medianico ».


— 296 — pertanto, lasciata alla scelta delle parti (19), essendo invece attribuita al giudice — del resto in linea con la tendenziale dispositività del nuovo processo e con il carattere residuale dei poteri istruttori dello stesso giudice — la sola facoltà, e non l’obbligo, di citare il testimone diretto, in assenza di una richiesta di parte (20). 5. Presenta maggiori difficoltà, anche per i risvolti sistematici che si riflettono sul punto, una volta ammessa l’utilizzabilità delle dichiarazioni de relato, il tema del valore che le medesime possono assumere ai fini di una decisione di merito (21). In ordine a quest’ultimo punto, si registra in giurisprudenza una pluralità di interpretazioni più o meno ampie. In particolare, mentre talora si attribuisce alle dichiarazioni de relato il valore di un « mero indizio da verificare e non di una testimonianza » (22), sono più numerose le pronunce volte a sostenere che, sia nell’ipotesi di mancata escussione del teste di riferimento sia in quella di contrasto fra le due deposizioni, quanto riferito dal testimone indiretto debba essere « liberamente valutato dal giudice » (23). In posizione intermedia si colloca, poi, quella tendenza interpretativa che, individuando una « identità di ratio » tra il tema della testimonianza indiretta e quello delle dichiarazioni di cui all’art. 192 comma 3 c.p.p., reputa per tale motivo « applicabili alla testimonianza indiretta le regole e i principi stabiliti in tema di chiamata in correità dall’art. 192 comma 3 »; e ciò specialmente « quando la testimonianza sia resa da soggetto che, ancorché non compreso tra quelli indicati nel citato art. 192, sia comunque imputato in altro processo e collabori con la giustizia » (24). Per quanto lodevole nell’intento di escludere che la decisione si fondi su affermazioni de relato non verificate, « posto che, in tali casi, è oscura e incerta l’origine della conoscenza e notevolmente ridotta la possibilità di contestazione e di controesame » (25), il tentativo di individuare negli « altri elementi di prova » di cui all’art. 192 comma 3 c.p.p. la piattaforma del « controllo » che si reputa necessario in relazione alle suddette dichiarazioni, non trova alcun radicamento normativo. Anzi, ed a maggior ragione, di fronte ad altre disposizioni che modulano in forme differenziate il valore degli elementi probatori (essendo prescritta, per

(19) Osserva N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Milano, 1992, p. 314 che « l’inutilizzabilità prescritta (art. 195 comma 3) a seguito dell’inosservanza delle disposizioni del comma 1 pare in effetti avere conseguenze meno dirompenti rispetto ad una previsione che avesse invece ricollegato la sanzione all’inosservanza da parte del giudice di un obbligo di audizione dei testi diretti, anche in assenza di una volontà manifestata in tal senso dalla parte ». (20) Segnando dei limiti più circoscritti all’utilizzabilità delle dichiarazioni de relato, l’art. 186 del progetto preliminare del 1978 prevedeva invece che il giudice dovesse sempre — « anche d’ufficio » — chiamare a deporre il testimone diretto, salvo l’impedimento derivante da « morte, infermità di mente, irreperibilità o assenza dal territorio dello Stato »: cfr. Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, Roma, 1978, p. 169. (21) Sul diverso tema del valore delle testimonianze de relato ai fini dell’emissione dei provvedimenti cautelari, cfr., da ultimo, PERONI, Chiamate di correo, dichiarazioni de relato e standards di gravità indiziaria nell’adozione di misure cautelari, in Cass. pen., 1994, p. 679, n. 410. (22) Cfr. Cass. 7 febbraio 1991, Bruno ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 130, secondo cui nel caso in cui il testimone diretto non possa essere esaminato per morte, infermità od irreperibilità, « quanto ad esso riferito... può essere utilizzato quale dato storico-processuale, sia pure nei limiti di un indizio da verificare e non di una testimonianza ». (23) Cass. 11 febbraio 1991, Caruso, cit.; Cass. 4 febbraio 1993, Bevilacqua, cit. (24) Cass. 20 maggio 1992, Aversa, in Giur. it., 1993, II, c. 597. (25) Cass. 20 maggio 1992, Aversa, cit.


— 297 — esempio, la necessità di specifici riscontri, come accade nell’art. 192 comma 3 ovvero nell’art. 500 comma 4 c.p.p.), alla secca alternativa posta dall’art. 195 c.p.p. tra utilizzabilità ed inutilizzabilità non può non conseguire, nel silenzio del legislatore sul punto, che la valutazione delle testimonianze de relato reputate utilizzabili sia demandata al « prudente apprezzamento » del giudice. Il quale sarà, pertanto, tenuto a valutarne l’intrinseca attendibilità, e, in caso di giudizio positivo, sarà altresì legittimato ad inferire da essa, sulla base di argomenti logici — anche indipendentemente dalla sussistenza di elementi di riscontro esterni — la prova del fatto principale (26). Queste conclusioni non contrastano, del resto, con le indicazioni offerte al riguardo della più attenta dottrina, secondo cui — se è vero che testimone di un fatto è la persona presente nel momento in cui questo si è verificato — la deposizione del testimone indiretto assumerebbe il valore di una testimonianza non sul fatto che si intendeva provare, bensì sulla circostanza che egli avrebbe appreso da un terzo determinate notizie intorno a tale fatto (27). Ma ciò non esclude che, muovendo da tale deposizione, e sulla scorta degli elementi di attendibilità che la confortano, il giudice possa fondare il proprio convincimento anche in ordine al fatto oggetto del tema di prova principale. Tutto ciò premesso, e venendo ad analizzare, più in particolare, la questione su cui si è pronunciata la sentenza annotata, non si può non condividere quanto in essa affermato, là dove è stato ribadito che — anche nell’ipotesi di contrasto fra le dichiarazioni del teste diretto e quelle del teste di secondo grado — la valutazione delle une e delle altre deve essere operata dal giudice, il quale ne apprezzerà l’attendibilità in base al proprio libero convincimento. Alla luce di quanto si è detto, ed in assenza di qualunque indicazione normativa che consenta di attribuire diverso valore alle dichiarazioni de relato — a seconda che ad esse sia, o non sia, seguito l’esame del testimone di riferimento — risulta difficilmente condivisibile la tesi di chi sostiene che le suddette dichiarazioni potrebbero essere utilizzate al solo fine di valutare l’attendibilità del testimone diretto, eventualmente chiamato a comparire. Esse, cioè, nel caso di contrasto tra le due deposizioni, potrebbero servire a screditare la deposizione del testimone diretto, ma non sarebbero mai sufficienti per fondare la decisione del giudice (28). A parte il silenzio della legge, una volta ammesso che la disciplina della testimonianza indiretta tende, per quanto possibile, a permettere un controllo sulle dichiarazioni del testimone de relato, senza pregiudicarne l’utilizzabilità, non sembra si possano introdurre ulteriori distinzioni sul piano del suo valore probatorio. Non parrebbe logico, in particolare, ammettere il valore di prova delle dichiarazioni rese da quest’ultimo testimone quando, ad esempio per la morte del testimone diretto, il giudice non sia in grado di operare alcun riscontro, e negare, invece, alle stesse qualunque valore probatorio nel caso in cui, a seguito dell’escus-

(26) Alle medesime conclusioni, di recente, ma ancora in applicazione del vecchio rito, è pervenuta Cass., Sez. Un., 22 febbraio 1993, Marino, in Cass. pen., 1993, p. 1939, n. 1126, secondo cui a fronte di una disciplina che non vieti l’utilizzabilità delle testimonianze de relato « è tuttavia necessario che esse siano oggetto di particolare verifica, la quale impone il controllo dell’attendibilità non solo del soggetto dichiarante, ma anche di quello di riferimento, avendo pure riguardo al fatto che il teste de relato non è ‘‘informato dei fatti’’ ». (27) P. FERRUA, La testimonianza nell’evoluzione del processo penale italiano, in Studi sul processo penale, vol. II, Torino, 1992, p. 98 s.; ed inoltre I. CALAMANDREI, Commento all’art. 195 c.p.p., cit., in M. CHIAVARIO, Commento, cit., vol. II, p. 429 ss. (28) Così, in particolare, P. FERRUA, op. cit., p. 99.


— 298 — sione del testimone diretto, vi siano in ipotesi elementi tali da escludere la sua attendibilità e da suffragare, nel contempo, le dichiarazioni del testimone indiretto. LIVIA GIULIANI Ricercatrice di Procedura penale presso l’Università di Trieste


— 299 — CASSAZIONE PENALE — Sez. III — 28 maggio 1993 (30 giugno 1993) Pres. Glinni — Rel. Morgigni P.M. (conf.). — Ric. De Colombi Indagini preliminari — Attività del pubblico ministero — Atti cui ha diritto di assistere il difensore — Avviso di deposito — Omissione — Nullità — Sanatoria — Fattispecie (C.p.p. art. 366). Nell’ipotesi in cui non venga dato avviso di deposito al difensore in riferimento ad un atto, al quale egli aveva diritto di assistere (nella specie sequestro), la conseguente nullità non può essere dedotta, perché sanata, quando la parte si avvalga proprio della facoltà derivante dall’atto omesso. (Nella specie l’indagato aveva proposto rituale e tempestiva istanza di riesame. La Corte ha osservato che era stata conseguita la finalità cui l’avviso è destinato, e cioè porre l’interessato in grado di svolgere ogni utile difesa (1). (Omissis). — Il 15 febbraio 1993 il Procuratore della Repubblica presso la Pretura di Latina convalidava il sequestro probatorio di uno stabile in costruzione nei confronti di De Colombi Pasquale, al quale veniva comunicato che era indagato per il reato di cui all’art. 20 L. n. 47 del 1985 e che aveva facoltà di nominare un difensore di fiducia. Nelle more della discussione del gravame proposto da De Colombi, il 11-12 marzo 1993 il Procuratore predetto disponeva il sequestro preventivo della stessa opera, notificato il 18 marzo 1993 all’interessato. Il 12 marzo detto, il Tribunale accoglieva l’istanza ed ordinava il dissequestro in riferimento al primo decreto. Il 6 aprile 1993 il Tribunale ha confermato il sequestro preventivo. Ricorre l’indagato, deducendo: 1) violazione degli artt. 366, 369, 321 c.p.p., poiché mancherebbe l’informazione di garanzia e non sarebbe stato dato alcun avviso al difensore del decreto di sequestro preventivo ex art. 366. — (Omissis). Il ricorso è infondato. Nell’ipotesi in cui non venga dato avviso di deposito al difensore in riferimento ad un atto, al quale aveva diritto di assistere, la conseguente nullità non può essere dedotta — perché sanata — quando la parte si avvalga (art. 183 c.p.p.) della facoltà inerente all’atto omesso. Ne deriva che la mancanza dell’avviso di deposito del sequestro non è più deducibile qualora l’indagato proponga istanza di riesame. L’avviso di deposito è diretto proprio a consentire all’interessato di svolgere ogni utile difesa ed attraverso la presentazione del gravame emerge il conseguimento della finalità voluta dalla norma. Nella specie inoltre era stata data comunicazione al De Colombi. — (Omissis).

—————— (1)

Omessi avvisi in tema di sequestri. 1.

Le numerose approssimazioni lessicali della sentenza in commento, origi-


— 300 — nate dalla complessa vicenda di un sequestro preventivo relativo ad immobile già sottoposto a sequestro probatorio, non consentono di mettere compiutamente a fuoco l’oggetto della decisione che ha rigettato il ricorso avverso l’ordinanza del tribunale del riesame. Anzitutto, è improprio il richiamo al ‘‘decreto di sequestro emesso dal p.m.’’ e poi ‘‘confermato’’ dal tribunale del riesame. Come noto, la disciplina del sequestro preventivo, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 15 del D.Lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, affida al p.m., in fase di indagini preliminari, un mero potere pre-cautelare (1), oggetto di convalida entro termini perentori, strumentale all’emissione del decreto di sequestro da parte del g.i.p. Quest’ultimo è l’unico organo competente a provvedere in via definitiva (2). Coerentemente con la distribuzione di poteri appena richiamata, il controllo del giudice dell’impugnazione può invocarsi solo nei confronti del decreto emesso dall’organo giurisdizionale, laddove, sia l’ordinanza di convalida (3), sia il decreto ‘‘provvisorio’’ emesso dal p.m. in via d’urgenza sono inoppugnabili. Non solo, la Corte di cassazione, trascinata dall’erronea prospettiva del ricorrente, non opera un doveroso ‘‘distinguo’’ tra l’avviso del deposito del decreto di sequestro preventivo e gli adempimenti di cui all’art. 366. Le due attività, ancorché nella prassi svolte di solito in modo unitario, sono autonome per oggetto e funzioni. La notifica del decreto di sequestro disposto dal giudice, dovuta al difensore ai sensi del combinato disposto degli artt. 128, comma 2, e 322, è volta a consentire l’impugnazione del provvedimento. Diversamente, l’art. 366 riguarda il deposito, e la relativa notifica, della documentazione delle attività cui il difensore ha diritto di assistere, tra cui pare corretto — come fa la sentenza in esame — comprendere, non distinguendo l’art. 365 tra le tipologie del sequestro, anche l’esecuzione della misura cautelare reale. Limitando l’attenzione alla materia in esame, devono essere depositati, ex art. 366, i soli verbali di sequestro redatti a norma dell’art. 81 disp. att., dettato per il sequestro probatorio ma esteso dall’art. 104 disp. att. al sequestro cautelare. È agevole concludere che l’art. 366 non concerne affatto ‘‘il decreto di sequestro’’, rispetto a cui il ‘‘diritto del difensore di assistere’’ appare palesemente privo di senso, bensì il solo ‘‘verbale di sequestro’’. Le inesattezze appena rilevate rendono arduo stabilire se, nella specie, il ricorrente lamentasse l’omesso avviso di deposito del decreto, emanato in via d’urgenza dal p.m. ai sensi dell’art. 321, comma 3-bis, oppure l’omesso avviso di deposito del decreto di sequestro emesso dal g.i.p. all’esito del procedimento di convalida, o, ancora, l’omesso avviso del deposito del verbale delle operazioni di sequestro. L’oscurità dell’intera vicenda induce a soffermare l’attenzione sulle tre differenti situazioni prospettate. 2.

La fattispecie per prima indicata, che poco probabilmente ha innescato il

(1) V. A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Milano, 1992, 461. (2) Si è così attenuata la riserva di giurisdizione stabilita dall’originario dettato codicistico, v. P. BALDUCCI, Il sequestro preventivo nel processo penale, 2a ed., Milano, 1991, 161. (3) In tal senso, Cass., sez. I, 11 dicembre 1991, Zazzarro, in Arch. Nuova Proc. Pen., 1992, 613; contra, nel senso dell’appellabilità di tutti i provvedimenti in materia di sequestro non soggetti alla procedura di riesame, Id., sez. III, 3 dicembre 1993, Sacco, in Cass. Pen., 1994, 2175. V. anche Id., sez. III, 23 novembre 1993, Sbriglio, in Arch. Nuova Proc. Pen., 1994, 425; Id., sez. VI, 22 febbraio 1993, Petrone, ivi, 1994, 130.


— 301 — ricorso, è niente affatto patologica. Al difensore, tanto dell’indagato, come nel caso di specie, quanto di altro soggetto coinvolto nella vicenda, non è dovuto alcun avviso del decreto de quo. Ciò è, del resto, perfettamente conforme alla mancanza di contraddittorio che caratterizza il procedimento di cui all’art. 321, comma 3bis, culminante, da un lato, con l’emissione del decreto da parte del g.i.p., e, dall’altro, con la convalida del sequestro ‘‘provvisorio’’ emesso dal p.m. (4). La discovery dei singoli atti posti a fondamento della misura verrà effettuata, in caso di riesame, ai sensi dell’art. 324, comma 3 (5). Poiché l’art. 253, comma 4, non distingue tra le varie tipologie di sequestro, è da ritenere che copia dell’atto debba essere consegnata all’interessato, se presente (6). 3. Nell’ipotesi in cui venga omesso l’avviso di deposito del decreto, emanato dal g.i.p. all’esito dell’udienza di convalida, le conseguenze sono di agevole individuazione: segnando l’adempimento pretermesso il dies a quo per la proposizione del riesame, è evidente che, ove manchi, o sia invalida, la notifica, non si realizza l’utile decorrenza del termine ex art. 324, comma 1 (7). Il che accade ogni qual volta la decorrenza di un termine inizi dal compimento di una notificazione (8). Se tali erano gli estremi della doglianza prospettata nel ricorso, il rigetto appare condivisibile. Non convince, però, l’assunto secondo cui il ricorrente si era ‘‘avvalso della facoltà cui era preordinato l’atto omesso’’, con la conseguente sanatoria dell’omissione. Altre sono le ragioni per cui la censura relativa all’inottemperanza dell’obbligo notificatorio in discorso non riveste alcun pregio. Stando alle premesse qui accolte, l’impugnazione proposta in carenza di avviso è cronologicamente antecedente al dies a quo della decorrenza del termine. Un gravame così caratterizzato è certo ammissibile, dovendosi ritenere che il termine iniziale non abbia altra funzione all’infuori del consentire il calcolo del termine finale (9). Ne segue che la scelta di impugnare ‘‘anticipatamente’’, magari alla ‘‘cieca’’ o sulla base di una conoscenza acquisita aliunde, non tanto sana l’omissione quanto, più radicalmente, rende inutile l’avviso di deposito perché il diritto d’impugnazione si è definitivamente ‘‘consumato’’ (10) senza possibilità di riviviscenza. Ad ogni buon conto, l’omessa notifica del decreto di sequestro non attiene all’intrinseca legittimità dello stesso che costituisce l’oggetto del giudizio di riesame. Ogni doglianza del genere è, pertanto, inconferente in tale sede. Si consideri, a mo’ d’esempio, la questione, concettualmente identica, del condannato, contumace nel dibattimento, che impugni lamentando l’omessa noti-

(4) Cfr. R. LOFFREDO, Procedimento decisorio e controlli in tema di sequestro preventivo, in Giur. It., 1991, II, 258, in nota a Cass., sez. III, 20 giugno 1990, Spree Venture L.t.d. in c. Sgornella. In giurisprudenza v. anche Id., sez. III, 4 aprile 1991, Veri, in Cass. Pen., 1992, 142. (5) V. E. SELVAGGI, sub art. 324, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, III, Torino, 1990, 378. (6) Cfr. P. BALDUCCI, Il sequestro, cit., 180. (7) V., Cass., sez. VI, 21 marzo 1990, Masciulo, in Giust. Pen., 1990, III, 526; Trib. Catanzaro, 16 febbraio 1990, in Arch. Nuova Proc. Pen., 1990, 442. (8) Si origina il fenomeno delle impugnazioni ‘‘apparentemente tardive’’ o ‘‘diacroniche’’, sul punto, cfr. F. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, 262. (9) V. Cass., sez. VI, 30 maggio 1990, Palmieri, in Foro It., 1992, II, 27; Id., sez. III, 15 luglio 1993, Gatto, in Arch. Nuova Proc. Pen., 1994, 130, chiarisce che la notifica del provvedimento non eseguito non comporta la decorrenza del termine. (10) Cfr., sia pure riguardo alla proposizione del gravame, cui sia seguita la decisione di merito, da parte di uno dei legittimati, Cass., sez. V, 12 ottobre 1992, Caporaso, in Cass. Pen., 1994, 1288.


— 302 — fica ex art. 548, comma 3: è evidente come essa sia del tutto estranea alla validità e giustizia della decisione di condanna, sicché sarà presa in considerazione, pregiudizialmente, solo ove sorga dubbio sulla tempestività dell’impugnazione. È, d’altronde, comprensibile che, in materia di sequestro, ove l’inottemperanza circa l’obbligo dell’avviso di deposito avviene nell’immanente esecutività della misura di coercizione reale, possa suscitare perplessità l’‘‘asettica’’ ricostruzione qui proposta. Ma ciò non appare sufficiente per deviare dal rigore dei principi. 4. Non è agevole, giungendo alla terza ipotesi, districarsi tra le conseguenze che discendono dall’inosservanza dell’art. 366. La norma impone, salva la deroga di cui al comma 2, il deposito degli atti ‘‘garantiti’’ (11), entro il terzo giorno dal loro compimento, presso la segreteria del pubblico ministero. Qualora il difensore abbia facoltà d’intervenire (12), pur in assenza di avvertimento, deve essergli notificato l’avvenuto deposito. Opportuno articolare l’analisi in due momenti: il primo, logicamente prioritario, consiste nel chiedersi se la norma in discorso sia presidiata da una qualche specie d’invalidità, il secondo, nell’individuare gli atti perciò viziati. Nell’affrontare la prima questione, si debbono prendere le mosse dal principio di tassatività delle nullità di cui all’art. 177. Laddove, come nella disciplina in esame, niente venga stabilito circa le sorti dell’atto difforme dello schema tipico, l’interprete si trova di fronte ad una soluzione binaria: ove non ritenga integrata una nullità di ordine generale, non rimane che concludere per la mera irregolarità. Deve, invece, decisamente escludersi la ricorrenza di una nullità relativa (13), in quanto tali invalidità risultano (14) inevitabilmente ‘‘il portato di una previsione speciale’’ (15). Il vero è che l’inosservanza di cui si discorre è presidiata da una nullità generale a regime intermedio (16). Difatti, per un verso, le disposizioni che fondano i poteri, le facoltà ed i diritti del difensore, ineriscono all’‘‘assistenza dell’imputa-

(11) Si tratta dei seguenti atti: sommarie informazioni dal sottoposto alle indagini (art. 350); perquisizioni e sequestri (artt. 352, 356, 365.2); apertura del plico autorizzata dal magistrato (art. 353.2 e 356); rilevazioni urgenti su luoghi, cose o persone ed eventuali sequestri (artt. 354 e 356); accertamento tecnico irripetibile (art. 360), interrogatorio, confronto a cui partecipi il sottoposto alle indagini e ispezione (art. 364). (12) Le ipotesi sono ricavabili dagli artt. 356 e 365.1. (13) Contra, G. SALVI, sub art. 366, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1990, IV, 252; S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, 3a ed., Padova, 1993, 542. (14) Svolgono analogo ragionamento, in riferimento all’art. 304-quater c.p.p. abrogato, M.L. FERROGLIO, Sul ritardo di deposito del verbale inerente all’interrogatorio dell’imputato, in questa Rivista, 1962, 295; G. LOZZI, Omesso deposito dell’interrogatorio dell’imputato e nullità assoluta, in questa Rivista, 1960, 325; in giurisprudenza, sostenevano la nullità relativa, Cass., sez. V, 5 maggio 1983, Savarese, in Giur. It., 1984, II, 166; Id., sez. II, 6 luglio 1981, Albani, in Cass. Pen., 1982, 2031; Id., Sez. I, 3 luglio 1980, Mastini, ivi, 1982, 563; Id., sez. V, 18 novembre 1975, Coccianovich, ivi, 1975, 849; Id., sez. II, 9 febbraio 1970, P.M. in c. Troiani, in Giust. Pen., 1971, III, 248; Id., sez. I, 4 giugno 1959, confl. in c. Creatore, in questa Rivista, 1960, 325; Corte Appello Messina, 7 ottobre 1970, Lipari, in Giur. Mer., 1971, 193. Sulla omessa notifica del decreto di convalida del sequestro operato dalla p.g. v. Cass., sez. IV, 12 agosto 1985, Vasselli, in Cass. Pen., 1987, 625. (15) Così O. DOMINIONI, sub art. 181, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio ed O. Dominioni, Milano, 1989, II, 292; v. anche G.P. VOENA, Atti, in AA.VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, 3a ed., Padova, 1993, 183. (16) In tal senso, V. CAVALLARI, sub art. 178, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II, 1990, 306. In relazione alla violazione dell’art. 304-quater c.p.p. abrogato vedi, oltre agli AA. citati in nota 14, F. CORDERO, Procedura Penale, 7a ed., Milano, 1983, 890.


— 303 — to’’, per l’altro, l’estensione, operata dall’art. 61, comma 1, delle garanzie dell’imputato al soggetto sottoposto alle indagini, senz’altro comprende le relative comminatorie d’invalidità per i casi d’inosservanza (17). Ed infatti, stando alla sentenza che si annota, ed ipotizzando oggetto del giudizio il mancato avviso relativo al deposito del verbale del sequestro, l’omissione integra una nullità. Ma, nella specie, la Cassazione si è astenuta dal pronunciarsi sul suo regime, poiché l’invalidità sarebbe stata, comunque, sanata, ai sensi dell’art. 183, in virtù della proposizione dell’istanza di riesame. Il richiamo al concetto di sanatoria (18) non pare corretto neppure a mettersi nella prospettiva per ultimo indicata. In materia, il legislatore delegato non ha adottato tout court il criterio del raggiungimento dello scopo, che costituisce, invece, il cardine del sistema delle invalidità nel processo civile, ma si è limitato a stabilire che la sanatoria, oltre che per acquiescenza, si verifichi solo in forza dell’esercizio della facoltà cui l’atto omesso o nullo era preordinato. È, perciò, tetragono alla sanatoria, l’atto nullo il quale, ancorché abbia conseguito il suo scopo rispetto all’interessato, non sia seguito dall’esercizio effettivo della facoltà (19). Il vizio del ragionamento consiste nel ritenere gli adempimenti ex 366 finalizzati a consentire la proposizione del riesame. Si confonde, ancora una volta, l’avviso di deposito relativo al decreto e quello avente ad oggetto il verbale di sequestro. Rispetto a quest’ultimo, peraltro, l’art. 366 indica con estrema chiarezza (20) i diritti cui la discovery è strumentale: prendere visione degli atti od estrarne copia. Sono queste, e non altre, segnatamente la proposizione del riesame, le facoltà il cui esercizio sana l’omesso avviso di deposito. Tanto premesso, il ricorso, in quanto volto ad ottenere la declaratoria d’invalidità del sequestro per violazione dei diritti difensivi, non poteva sortire, sul punto, esito diverso dal rigetto: l’omessa notifica del verbale di sequestro non invalida un atto i cui presupposti sono indicati dall’art. 321, commi 1 e 2 (21). In proposito, è appena il caso di rammentare che la nullità è suscettibile di propagarsi ai soli atti cronologicamente successivi dei quali l’atto viziato costituisca la necessaria premessa. Sicché, a prescindere da ogni indagine in ordine all’estensione del concetto di dipendenza giuridica, mai l’invalidità opererà a ritroso (22).

(17) Cfr. O. DOMINIONI, sub art. 178, in Commento, cit., 268; V. CAVALLARI, sub art. 178, in Commentario, cit., 306. (18) V., per la definizione, G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, 1955, 32, secondo cui consisterebbe ‘‘in un fatto successivo, che, combinato con la fattispecie imperfetta, determina effetti equivalenti rispetto alla corrispondente fattispecie perfetta’’. (19) V., G.P. VOENA, Atti, cit., 186. (20) Tanto che F. CORDERO, Procedura Penale, 2a ed., Milano, 1993, 1002, ha preso ad esempio la procedura in discorso per illustrare il modus operandi di una causa di sanatoria. (21) Su cui v. P. BALDUCCI, Il sequestro, cit., cap. II; M. CIRULLI, In tema di presupposti del sequestro preventivo, in Giur. It., 1992, II, 315; F. LATTANZI, Brevi considerazioni sul sequestro del corpo del reato, in Cass. Pen., 1991, II, 758; M. MONTAGNA, Pluralità delle specie di sequestro ed onere di motivare, in Giur. It., 1993, II, 295; E. SELVAGGI, L’oggetto nel sequestro probatorio e nel sequestro preventivo, in Cass. Pen., 1991, I, 936; T. TREVISSON LUPACCHINI, In tema di sequestro preventivo di un immobile, in Giur. It., 1993, II, 1; G. VICICONTE, Il sequestro preventivo tra esigenze cautelari e finalità di prevenzione, in questa Rivista, 1992, 358. (22) Cfr. V. CAVALLARI, Considerazioni in tema di annullamento degli atti processuali penali, in Arch. Pen., 1959, I, 197, ove si precisa che ‘‘gli atti contemporanei ed antecedenti vengono travolti dalla declaratoria solo quando cessi la loro ragion d’essere’’; A. GALATI, voce Nullità (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., XXVIII, Milano, 1978, 935; R. MANCINELLI, voce Nullità degli atti processuali penali, in Nov.mo Di-


— 304 — 5. Più complesso, giungendo al cuore della seconda questione, stabilire quali conseguenze ingeneri la violazione dell’art. 366 (23). Naturale muovere dalla funzione assolta dagli obblighi di discovery. Siffatti adempimenti non garantiscono affatto il diritto di difesa in relazione all’attività, ormai compiuta, di cui i verbali costituiscono la memoria storica, bensì assicurano che la parte ‘‘garantita’’ possa, per il futuro, determinarsi nella piena consapevolezza degli elementi rilevanti nella vicenda che lo vede protagonista. È, quindi, riguardo ad operazioni successive, cui la parte partecipa menomata nel patrimonio conoscitivo, che si configura la compressione del diritto di assistenza difensiva. Pare opportuno insistere sul punto, davvero centrale, proponendo un esempio che, solo a prima vista, parrebbe smentire l’impostazione qui accolta. Si supponga che venga applicata una misura cautelare personale sulla base degli esiti di una perquisizione il cui verbale non sia stato depositato ex art. 366. Una sensibilità in chiave ‘‘garantista’’ potrebbe suggerire l’illegittimità, per violazione dei diritti di difesa, dell’ordinanza cautelare. Tale ricostruzione è però priva di fondamento normativo: ciò che conta, ai fini della legittimità dell’ordinanza cautelare, è solo — e soltanto — che gli esiti della perquisizione siano, di per sé, validamente utilizzabili per concretare i gravi indizi di cui all’art. 273, comma 1, a nulla rilevando che il difensore dell’indagato ne fosse o no a conoscenza. Del resto, si noti che l’ordinanza cautelare ben può essere legittimamente emanata prima del decorso del termine di cinque giorni stabilito dall’art. 366. Infine, i potenziali epiloghi della vicenda cautelare finiscono per corroborare, fornendo un esempio calzante, l’assunto qui sostenuto: sottoposta a riesame l’ordinanza, la facoltà concessa alle parti di esaminare gli atti depositati a norma dell’art. 309, commi 3 e 6, è finalizzata all’attuazione del contraddittorio in sede di udienza camerale. Dunque, la discovery, anche in materia di incidenti cautelari, garantisce un’attività distinta e cronologicamente successiva rispetto a quella rappresentata nei verbali da depositare. La circostanza che la dialettica consentita dalla discovery possa vertere, per l’appunto, sulla validità degli atti che mediante quest’ultima vengono portati a conoscenza, non muta affatto l’assetto dell’istituto: rimane perfetta l’autonomia concettuale tra il compimento dell’atto e l’onere di renderne edotta la parte. Dalla natura servente dell’attività di discovery consegue che, per individuare il segmento procedurale viziato dall’omissione, è necesario e sufficiente stabilire, di volta in volta, quale sia l’atto-fine cui l’atto-strumento risultava preordinato. Da ciò due rilevanti conseguenze. In primo luogo, l’invalidità di cui si discorre inficia originariamente, e non in via derivata, l’atto-fine (24). Quest’ultimo diverge dal modello legale in quanto, come dianzi accennato, è posto in essere nell’immanenza di una lacuna conoscitiva che doveva essere evitata. È sterile, dunque, domandarsi se l’omissione integri una nullità probatoria oppure ‘‘incida sul procedimento’’ (25), atteggiandosi alla stregua di un atto propulsivo (26), per de-

gesto, XI, Torino, 1965, 492. Contra, E. BASSO, sub art. 185, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1990, II, 370. (23) F. CORDERO, sub art. 366, in Codice di procedura penale commentato, 2a ed., Torino, 1992, 436, le definisce garanzie post actum. (24) Per i concetti, rispettivamente d’invalidità originaria e derivata, v. G. CONSO, Il concetto, cit., 80. (25) Su posizioni parzialmente difformi pare orientato A. CAMON, Nullità probatorie, omesso deposito di atti d’indagine e principio di non regressione: un caso emblematico in tema d’intercettazioni telefoniche, in Cass. Pen., 1994, 769, però con specifico riferimento al procedimento di cui all’art. 268. (26) V. F. CORDERO, Riflessioni in tema di nullità assolute, in questa Rivista, 1958, 253, per la


— 305 — cidere se debba disporsi la regressione per i vizi conseguenti all’omessa discovery. Accordato preminente rilievo all’invalidità dell’atto-fine, la questione è risolta, con geometrico rigore, dai principi generali in tema d’invalidità. Qualora l’attività omessa sia prodromica ad un atto propulsivo, la soluzione è senz’altro la regressione del procedimento. Se, invece, la discovery assicuri la consapevolezza delle parti nello svolgimento di un atto probatorio, dovrà eliminarsi il dato spurio del materiale utilizzabile per la decisione. Illuminante, in proposito, considerare, quali esempi delle due categorie, l’incidente probatorio e l’udienza preliminare. Qualora non venga effettuato nei termini il deposito degli atti — così come prescritto dalla sentenza costituzionale 11 febbraio 1991, n. 74 (27) — l’incidente fornirà conoscenze giuridicamente sterili. Qualora, invece, venga omesso, in tutto o in parte, il deposito di cui all’art. 416, l’invalidità (28) dell’udienza preliminare, segmento sine qua non del procedimento, ne travolgerà il seguito. In secondo luogo, affinché ricorra un’invalidità conseguente all’‘‘omessa discovery’’non è sufficiente che, in occasione dell’atto-fine, sia previsto genericamente il diritto di assistenza difensiva, ma occorre che questo si atteggi in modo davvero partecipativo, ossia quale ‘‘possibilità di dialogo’’ (29). Assume valore decisivo, in proposito, l’autonomia concettuale del ‘‘contraddittorio’’ rispetto al diritto di difesa latamente inteso. Solo nei momenti in cui risalti ‘‘un’attività dualistica e paritaria’’ (30), id est il contraddittorio, la minorata consapevolezza di un ‘‘agonista’’ incide sulla regolarità finale dell’atto. Laddove, invece, l’intervento difensivo giochi come mera protezione degli interessi dell’indagato, senza possibilità di incidere sul momento valutativo demandato ad un organo terzo (31), nessun vulnus è in grado di arrecare la mutilazione del patrimonio conoscitivo della parte. Senonché, così tracciati i confini teorici delle invalidità da omessa discovery, ci si trova, in riferimento specifico agli obblighi dettati dall’art. 366, a contemplare un insieme pressocché vuoto. Come è noto, la fase delle indagini preliminari,

definizione di ‘‘atti propulsivi’’ come quelli ‘‘rivestiti di quella caratteristica configurazione per cui ciascuno integra la fattispecie costitutiva del dovere di porre in essere il successivo (secondo una trama legalmente prestabilita che trova il suo punto di chiusura nell’emanazione della sentenza)’’. (27) V., in margine a tale decisione, S. BUZZELLI, Il dossier dell’accusa di fronte all’udienza preliminare, in questa Rivista, 1992, 972. (28) In linea con quanto sostenuto nel testo, nel senso della nullità a regime intermedio, v. Corte Assise Catanzaro, ord., 25 novembre 1992, Rizzardi, in Cass. Pen., 1994, 759, nonché l’intervento dell’Avvocatura generale dello Stato nel giudizio conclusosi con Corte Cost. 5 aprile 1991, n. 145, (che ha negato ogni discrezionalità del P.M. nella cernita degli atti da inserire nel fascicolo trasmesso a norma dell’art. 416). A detta di G. FRIGO, sub art. 416, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1990, IV, 565, la discovery precedente all’udienza preliminare è sanzionata da nullità assoluta. Per O. DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari, in AA.VV., Il nuovo processo penale, Milano, 1989, 68, gli atti estranei al fascicolo non sarebbero ‘‘utilizzabili’’; pare sfuggire all’A. che il congegno potrebbe risolversi a danno dell’imputato qualora gli atti di cui venga omessa la discovery gli siano favorevoli. Nello stesso senso, in giurisprudenza, Cass., sez. VI, 4 giugno 1993, Carvazza, in Cass. Pen., 1994, 2767. (29) La definizione è di F. CORDERO, Procedura Penale, 7a ed., Milano, 1983, 882. (30) G. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. Dir., 1986, 14. (31) Cfr. G.P. VOENA, voce Difesa, in Enc. Giur. Treccani, Roma, X, 1988, 15.


— 306 — coerentemente con la originaria caratterizzazione in senso pre-processuale (32), non consente, di regola, il contraddittorio tra le parti (33). In uno spazio che ‘‘non è ancora processo’’, le uniche occasioni di perfetta pariteticità tra accusa e difesa (34) sono l’udienza di convalida dell’arresto in flagranza e del fermo e gli incidenti probatori. Mentre le udienze di convalida appaiono, per ragioni del tutto intuitive, estranee alla problematica in esame, l’incidente probatorio è dotato di una specifica disciplina in punto di discovery che mette fuori gioco l’operatività dell’art. 366. Un ulteriore procedimento in cui la difesa è in grado di dialogare, influendo sull’esito finale dell’attività, è disciplinato dall’art. 268 in materia di intercettazioni telefoniche. Ma l’art. 366 non rileva neppur qui perché il comma 4 dell’art. 268 detta una disciplina specifica. 6. Escludendo le eccezioni appena esaminate, la garanzia difensiva in fase di indagini preliminari è circoscritta al compimento di determinate attività del p.m. e della polizia giudiziaria alla presenza, talora indefettibile a talora facoltativa, del difensore dell’indagato. Perciò, rimanendo inattuato il principio del contraddittorio, ogni eventuale violazione dell’art. 366 è destinata a non esplicare efficacia invalidante per mancanza dell’atto garantito. Resta fermo che il p.m., in qualunque momento si avveda dell’omissione, dovrà provvedere al deposito ed all’avviso. Difatti l’art. 124 esprime un principio di salvaguardia della legalità del procedimento da ritenersi comprensivo dell’obbligo di osservare, ancorché tardivamente, la norma in questione. Inoltre, in applicazione analogica dell’art. 185, comma 2 (35), il soggetto che abbia omesso, o invalidamente compiuto, un’attività doverosa, può, indipendentemente dall’intervento di una declaratoria d’invalidità ma purché ancora legittimato al compimento dell’atto (36), ripetere il segmento procedurale viziato. È indubitabile che la difesa, già ‘‘istituzionalmente’’ sacrificata (37) nella fase di indagini preliminari possa, così, perdere notevoli chanches. Esiste, infatti, una stretta relazione tra ogni norma che preveda il deposito di documentazione probatoria e l’art. 38 disp. att., nonché, sia pure indirettamente, con l’art. 358 (38). Risulta così evidente il sacrificio dell’attività difensiva ‘‘eteroprocessuale’’ (39) con-

(32) Cfr. P.L. VIGNA, sub art. 326, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1990, IV, 15. V. anche, S. DRAGONE, Indagini, cit., 471. (33) Cfr. A. NAPPI, Guida, cit., 18. (34) Definiti da F. CORDERO, Proc. Pen., cit., 749, assieme al procedimento relativo al sequestro richiesto dall’interessato e rigettato, atti a contraddittorio perfetto, in quanto ‘‘implicano tres personae: attore pubblico (ancora indagante: forse non agirà), imputato futuribile, giudice’’. (35) Non è, infatti, applicabile direttamente la norma in questione in quanto, per un verso, è rivolta al giudice, e, per l’altro, presuppone la previa declaratoria d’invalidità. (36) In argomento, v. G. CONSO, Due apparenti anomalie del processo penale: le nullità assolute « sanabili » e le nullità relative « rilevabili d’ufficio », in Giust. Pen., 1979, I, 268; E. GIRONI, Rilievi in tema di nullità relative nel nuovo processo penale, con particolare riferimento alle ordinanze impositive di misure cautelari, in Foro It., 1992, II, 144. In giurisprudenza, v. Cass., sez. VI, 12 luglio 1991, Boccadifuoco, ivi, 1992, II, 141. (37) Si vedano le riflessioni di M. NOBILI, Prove ‘‘a difesa’’ e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1994, passim e spec. 402. (38) Cfr. A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 767 e nota 21. (39) Così G. PECORELLA, Il difensore nel nuovo processo penale, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, 57.


— 307 — sistente nel ricercare e predisporre elementi probatori in vista della loro acquisizione a dibattimento (40). Ma il lamentato pregiudizio della difesa non sembra attingere la soglia della rilevanza giuridica. Non è sostenibile che le occasioni perdute dalla difesa possano invalidare l’attività posta in essere dalla parte pubblica. Occorrerebbe, a tal fine, che il diritto all’indagine difensiva si atteggiasse alla stregua di condizione di validità dell’attività del p.m. e delle p.g. Ma non vi è chi non veda l’assurdità di tale prospettazione. Solo per un istituto che non attiene, in senso stretto, al compimento di atti d’indagine l’invalidità per violazione dell’art. 366 trova un, sia pur ristretto, margine operativo: la proroga dei termini per le indagini preliminari. L’ipotesi si configura allorché il difensore della persona sottoposta alle indagini, affronti il contraddittorio cartolare di cui all’art. 406, comma 4, ed, a fortiori, il procedimento camerale disciplinato dal comma 5, in situazione di minorata consapevolezza a causa del mancato avviso del deposito di uno o più atti garantiti (41). Secondo la ricostruzione sopra prospettata, l’ordinanza conclusiva del procedimento sarebbe invalida ex art. 178, lett. c, in relazione all’art. 366. Peraltro, il vizio del procedimento in discorso, purché rilevato od eccepito nei termini di cui all’art. 180, si traduce, dovendosi considerare l’ordinanza di proroga invalida tamquam non esset, nell’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti oltre la scadenza del termine (42). Non sfugga il paradosso: una violazione solitamente ‘‘inerte’’ consegue, nel meccanismo della proroga (43), effetti visibilmente sproporzionati al vulnus arrecato al diritto di difesa. È, d’altro canto, agevole presumere, che il discutibile, quanto costante, orientamento giurisprudenziale secondo cui per addivenire ad una declaratoria di nullità è necessario il verificarsi di un pregiudizio effettivo (44), cancellerà anche l’eccezione appena esaminata. Non resta che ritenere l’obbligo di discovery di cui all’art. 366 scritto sull’acqua. Sebbene esso incida sul diritto di assistenza difensiva, la sua violazione, anche se virtualmente sanzionata a pena di nullità, non tocca, per la peculiare struttura delle indagini preliminari, la validità del procedimento. dott. FILIPPO VIGGIANO

(40) V. M. NOBILI, Diritto alla prova e diritto di difesa in fase di indagini preliminari, in Giust. Pen., 1993, III, 137. (41) Si noti che ciò non si verifica nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis: il procedimento inaudita altera parte previsto per tali delitti esclude il contraddittorio e, quindi, la possibilità che la minorata consapevolezza della parte invalidi l’ordinanza che ne segna l’epilogo. (42) In proposito, Cass., sez. un., 6 novembre 1992, Bernini, in Cass. Pen., 1993, 520, nel ritenere inammissibile il ricorso in cassazione avvero l’ordinanza di proroga, ha affermato che i vizi del relativo procedimento potranno comunque essere fatti valere per affermare l’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la proroga. (43) Per F. CORDERO, Proc. Pen., cit., 682, tratta di un istituto figlio di un garantismo bigotto. (44) V., tra le tante, Cass., sez. VI, 11 marzo 1991, Spadari, in Cass. Pen., 1991, 965, con nota di E. RANDAZZO; Id., sez. IV, 28 gennaio 1988, Condorelli, in Riv. Pen., 1989, 299; Id., sez. I, 10 ottobre 1980, Calluso, ivi, 1981, 442; Id., sez. III, 12 giugno 1984, Marzario, in Cass. Pen., 1986, 504; Id., sez. I, 10 giugno 1969, Di Glaudi, ivi, 1971, 406. In dottrina, criticamente v., per tutti, O. DOMINIONI, sub art. 177, in Commentario, cit., 258.


— 308 — CASSAZIONE PENALE — VI Sez. — 2 marzo 1994-22 dicembre 1993 Pres. Di Gennaro — Rel. Buogo P.M. Galgano (conf.). — Ric. Chianese Misure cautelari personali — Presupposti — Gravi indizi di colpevolezza — Dichiarazione rilasciata dalla persona offesa — Necessità di altri elementi di prova — Esclusione (C.p.p. art. 273). Se non sussistono solo elementi di prova indiziaria, bensì qualcosa di più, costituito da prova diretta, è esclusa la necessità di fare ricorso al concetto di « gravità » che inerisce alla prova logica costituente l’indizio, nonché alla verifica dell’attendibilità intrinseca del riscontro esterno, in quanto sul piano probatorio la gravità indiziaria è soverchiata dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita. Ne consegue che la dichiarazione della persona offesa dal reato di concussione è una prova rappresentativa orale di natura testimoniale, da sola sufficiente a legittimare l’adozione di una misura cautelare (1). (Omissis). — Il secondo (motivo n.d.r.) col quale si contesta la presenza dei gravi indizi di colpevolezza e la correttezza della motivazione, fa ricordare che l’art. 273 c.p.p. ne postula la sussistenza (già da prima della emissione di ogni titolo cautelare), quale minimum probatorio che deve inderogabilmente assistere l’adozione della stessa misura; con le conseguenze che allorquando non sussistano soltanto elementi di prova indiziaria bensì qualcosa di più, costituito da prova diretta, ciò esclude la necessità di fare ricorso al concetto di « gravità » che deve inerire alla prova logica costituente l’indizio, e non è neppure necessario fare richiamo all’esigenza di verifica della attendibilità intrinseca o del riscontro esterno appunto perché sul piano probatorio quel minimum di gravità indiziaria è soverchiato dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita (nei limiti in cui si può parlare di prova durante la fase delle indagini preliminari e nel rispetto delle diverse categorie di prova dogmaticamente ipotizzabili). La presenza di una prova testimoniale, quindi, purché non validamente inficiata, di per sé rappresenta un plus, rispetto all’apporto richiesto dell’art. 273 c.p.p. e non abbisogna, per l’emissione di provvedimento cautelare, né di altro elemento di prova né di riscontro esterno. La tesi coltivata col primo motivo di ricorso, secondo cui la dichiarazione del D’Angelo abbisognerebbe di riscontro, è priva di fondamento giuridico perché la dichiarazione rilasciata dalla persona offesa dal reato di concussione è una prova rappresentativa orale di natura testimoniale, da sola sufficiente a legittimare l’adozione di una misura cautelare, e non un semplice indizio. Ogni argomentazione svolta per inficiare la legittimità del titolo dal punto di vista di assenza di prova utilizzabile ai fini cautelari, e concernente la sussistenza del fatto-reato nonché la sua addebitabilità al soggetto sottoposto alle indagini preliminari, è quindi da disattendere. Alle altre argomentazioni svolte col secondo e terzo motivo del ricorso, concernenti le esigenze cautelari, l’adeguatezza e la proporzionalità della misura adot-


— 309 — tata, il ricorrente non ha più interesse perché, giusta comunicazione qui fatta pervenire dal Tribunale di Como con fax del 15 dicembre 1993, l’indagato Vittorio Chianese, per il fatto nel quale è procedimento è stato rimesso in libertà per essere venute meno le esigenze cautelari, giusta revoca della misura, in data 6 luglio 1993 disposta dal GIP. — Omissis.

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« Indizio », segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione?

1. La formula « gravi indizi di colpevolezza » di cui all’art. 273, 1o comma, c.p.p. continua a dare luogo a preoccupanti contrasti interpretativi, puntualmente la sentenza in commento segnala e sintetizza la « confusione fondamentale », che è causa e, al tempo stesso, spiegazione dei diversi indirizzi che caratterizzano la giurisprudenza di legittimità. Pur essendo condivisibile l’affermazione secondo cui, in presenza di una « prova diretta », cioè da sola idonea a « verificare » il thema probandum debba considerarsi realizzata la condizione della sussistenza dei « gravi indizi di colpevolezza » ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, una più rigorosa attenzione per il significato delle parole — allorché queste siano plurivoche per forza di connotazione (e tale, come si cercherà di dimostrare, è il caso del vocabolo « indizio », nel lessico penalprocessualistico) — avrebbe consentito di pervenire alla medesima conclusione, senza mobilitare concetti come quello di « prova indiziaria » e di « prova logica », i quali, rispetto allo scopo, non solo appaiono sovrabbondanti, ma addirittura equivoci. Non sembra inutile, a tal riguardo, ricordare come, nel linguaggio comune avvenga molto spesso o che la stessa parola designi in modo diverso e, dunque, appartenga a simboli diversi, oppure che due parole siano applicate nella proposizione allo stesso modo. Ed è così che nascono le « confusioni più fondamentali ». Pertanto, se per un verso occorrerebbe impiegare un linguaggio segnico, il quale non impieghi, in simboli diversi, lo stesso segno né impieghi nello stesso modo un segno che designi in modo diverso, vale a dire un linguaggio segnico che obbedisca alla grammatica e alla sintassi logica (1), per altro verso è l’analisi dei diversi mondi linguistici che consente di cogliere come i significati delle parole non possano essere fissati in linea generale, là dove, invece, essi dipendono dall’uso. Questi rilievi, contrapponendosi all’opinione di chi — magari nella pur legittima convinzione che « un codice vale più per le idee con le quali è costruito che non per il suo assetto tecnico » (2) — reputa che « alle notazioni lessicali non bisogna dare eccessivo peso » (3), costituiscono l’indefettibile premessa per la rico-

(1) Cfr., sull’esigenza di un uso rigoroso dei simboli, L. WITTGENSTEIN, Tractatus Logico Philosophicus, 1918, traduzione di A.C. CONTE, Torino, 1984, propp. 3.323; 3.324 e 3.325. Sulla stessa linea G. CONSO, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen, 1992, III, c. 385. (2) G. DE LUCA, L’inchiesta preliminare, in Il codice di procedura penale, Esperienze, valutazioni, prospettive — Atti del convegno presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 23-24 ottobre 1992 —, Milano, 1994, p. 47. (3) Così G. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale — Atti del convegno — Perugia 14-15 aprile 1988, a cura di A. GATTO, Padova, 1989, p. 88.


— 310 — gnizione del valore segnico del vocabolo « indizio » nel codice di procedura penale del 1988. 2. Nel linguaggio corrente, la parola « indizio » è usata per designare la traccia, il segno, la circostanza e ogni altro elemento particolare per cui si può indirettamente, ma con qualche fondamento logico, argomentare un fatto passato, presente o futuro; ovvero per designare l’elemento sufficiente a fornire un orientamento soggettivo od oggettivo valido. Si può, dunque, affermare che, nel linguaggio comune, il vocabolo abbia un significato univoco: fatto muto in se stesso che conta quale termine di una catena causale. Nel lessico penalprocessualistico, invece, il vocabolo « indizio », avuto riguardo ai diversi contesti nei quali esso viene utilizzato (art. 192, 2o comma, 273, 1o comma, 292, 2o comma, lett. c, c.p.p.) designa in modo diverso, per cui la ricognizione rigorosa dei significati che di volta in volta assume è operazione ineludibile ai fini di una esatta individuazione delle regole che presiedono alla ratiocinatio intesa alla verificazione del thema probandum. Nell’ambito degli strumenti usati per verificare l’ipotesi storica, gli « indizi » parrebbero contrapporsi alle prove (4). A tale proposito, tuttavia, occorre immediatamente sottolineare che si è in presenza di due species del medesimo genus: gli « indizi », al pari delle « prove » sono « strumenti del giudizio storico » e quelli si oppongono a queste per la struttura, non già per un minor grado di attendibilità. Agevole rendersene conto, sol che si imposti la classificazione sull’« oggetto passibile di sensazione » all’origine di tutti gli svolgimenti probatori, anziché sul procedimento intellettivo con cui si ottiene la conoscenza: non sfuggirà, allora, come gli « strumenti del giudizio storico » si distinguano in « simboli » e « segni », a seconda che si sia in presenza, rispettivamente, di « segni coscientemente intesi a significare qualcosa » (5), ovvero di « oggetti sensibili », siano essi cose, fatti o atti, che non sono stati modellati allo scopo di riprodurre « la specie sensibile di un fatto, affinché lo si possa rivivere contro la legge d’irreversibilità del tempo » (6). Nel linguaggio penalprocessualistico, quando si fa riferimento agli « strumenti del giudizio storico », le « prove storiche » o « rappresentative » o « artificiali » (testimonianze e documenti) — nelle quali « la rappresentazione è frutto di un’attività finalisticamente orientata » (7) e che implicano, dunque, « strategie semantiche » (8) — sono « simboli », mentre gli « indizi » sono « segni ». Diverso rispetto alle une e agli altri è il momento dialettico della probatio. Finalisticamente diretta a riprodurre la specie sensibile di un fatto, la « prova artificiale » prima deve essere percepita, quindi si deve stabilire se essa rappresenti un fatto e, infine, se ne deve verificare la rappresentazione, stabilire cioè se nel mondo della storia o della natura sia esistito il fatto rappresentato o, se si preferisce, riferito; nel caso dell’« indizio », intendimento e critica sono inscindibili: per addivenire alla « conoscenza », prima si individua la massima d’esperienza, cui si

(4) Per quanto attiene alla plurivocità di questo segno semantico, cfr. il nostro Il procedimento probatorio nel linguaggio del vigente codice di procedura penale, in Giust. pen., 1992, III, c. 546 e ss., nonché la letteratura ivi richiamata. (5) S. STEBBING, A Modern Introduction to Logic, London, 1931, p. 11. (6) F. CORDERO, Tre Studi sulle prove, Milano, 1963, p. 10 e s. (7) F. CORDERO, op. ult. cit., p. 13. (8) F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Bari, 1981, p. 530.


— 311 — presta ad essere ricondotto il caso (9), e poi si procede ad un’inferenza: questo procedimento sillogistico viene designato dalla formula « prova critica ». 3. Alla verificazione del thema probandum si può pervenire direttamente, allorché si disponga di una « prova artificiale », la quale enunci o neghi il fatto alla cui esistenza o inesistenza una norma ricollega certe conseguenze: solitamente, però, alla verificazione della proposizione costituente il thema probandum si perviene per approssimazioni successive, poiché spesso si rende necessario argomentare l’esistenza di un « fatto noto » per accertare quella del « fatto ignorato », secondo una serie che può indefinitamente protrarsi, senza, tuttavia, che l’ultimo termine di una proposizione sia sempre anche il primo termine della seguente. Di ciò ha preso atto il legislatore dettando la regola probatoria di cui all’art. 192, 2o comma, c.p.p.: « l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti », ispirantesi al canone retorico « cum quae singula infirma sunt, coniuncta vim veritatis assumunt » e riecheggiante quella dell’art. 2729 c.c., secondo cui « il giudice non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti » (10). Tale regola suppone che l’« indizio » fornisca sempre e soltanto una probabilità compatibile con quella contraria e, conseguentemente, che le « prove critiche », delle quali l’« indizio » costituisce la premessa minore (11) offrano sempre una probabilità compatibile con quella contraria, e, anche con un’indefinita serie di altre probabilità (12). Questo, tuttavia, non sempre è vero: se l’inferenza è fondata su una « legge scientifica », attraverso un solo « indizio » è dato pervenire alla « conoscenza » (13). Possono trarsi di qui alcune conclusioni, l’« indizio », nel contesto semantico dell’art. 192, 2o comma, designa il « segno » (14), cioè il « fatto noto », non desti-

(9) F. STEIN, Das private Wissen des Rechters: Untersuchungen zum Beweisrecht beiden Prozesse, 1893, rist. Aalon, 1969, p. 14, 103. (10) Per l’assimilazione del significato della parola « indizio » a quello della locuzione « presunzione semplice », cfr., per tutti, V. ANDRIOLI, Presunzioni (Diritto civile e diritto processuale civile), in Nss. Dig. it., vol. XIII, Torino, 1966, p. 771; V. GIANTURCO, La prova indiziaria, Milano, 1958, p. 29 ss. (11) Per interessanti notazioni in proposito, v. N. FRAMARINO dei MALATESTA, La logica delle prove in criminale, vol. I, Torino, 1895, il quale pur utilizzando la parola « indizio » per designare l’« argomento probatorio indretto che trae l’ignoto dal noto per rapporto di causalità » (p. 199), individuava una premessa maggiore « che ha per contenuto un giudizio specifico di causalità », esprimente, cioè, « il rapporto fra una specie di cause ad una specie di effetti »; una « premessa minore, che afferma l’esistenza d’un soggetto particolare che si contiene nell’oggetto specifico della maggiore »; una « conclusione che attribuisce quindi, al soggetto particolare in questione, il predicato attribuito nella maggiore al soggetto specifico » (p. 199-200). Nel lessico di questo A., per altro, sebbene nella « conclusione » egli vedesse « riposto propriamente l’argomento probatorio », il « soggetto particolare », del quale si « afferma l’esistenza » nella « premessa minore » del « raziocinio indicativo », designa la « cosa nota, che in quanto serve ad indicare l’ignota può dirsi anche cosa indicante » (p. 200-201), vale a dire l’« indizio », nell’accezione dell’art. 192, 2o comma. (12) Il « Fatto esterno del mondo... che fa da cosa indicante », notava M. FRAMARINO dei MALATESTA, op. cit., p. 201, « se si presenta come potenza causativa, non può provare il suo effetto, che in maniera più o meno probabile; ma in modo certo; poiché nel campo delle cose contingenti, cause (nel senso di semplici potenze causative) che debbono produrre necessariamente un dato effetto, non ve ne sono ». (13) Sottolinea ancora N. FRAMARINO dei MALATESTA, op. cit., p. 202, che « il naturale e sostanziale modo d’essere della cosa può far pensare alla sua causa » e che è su questo terreno « che la mente umana percepisce talora dei rapporti non semplicemente ordinari, ma costanti: ed in questi casi l’indizio non è contingente, ma necessario ». (14) Nella tradizione filosofica, « un segno è l’antecedente evidente del conseguente o, al contrario, il conseguente quando conseguenze simili sono state osservate prima; e più spesso sono state osser-


— 312 — nato, per sua natura, a « rappresentare », ma dal quale può inferirsi, mediante una « massima d’esperienza » o una « legge scientifica », un « fatto ignorato »; se la premessa maggiore del sillogismo di cui l’« indizio » costituisce la premessa minore è una « massima d’esperienza », la conclusione è solo « probabile »; se, invece, la premessa maggiore è una « legge scientifica », la conclusione è « necessaria ». Pertanto, l’inferenza da un solo « indizio » risolve la questione storica; la conclusione necessaria è, al tempo stesso, ultimo termine di una proposizione e primo termine della seguente, quando la verificazione del thema probandum non si esaurisca in essa; se la conclusione è, invece, « probabile », si impone il ricorso ad un ragionamento disgiuntivo e la questione storica può dirsi risolta solo quando siano stati esclusi tutti i termini, eccetto uno. Soltanto questo, sempre che in esso non si esaurisca la verificazione, sarà il termine primo della proposizione successiva. 4. Negli artt. 273, 1o comma, e 292, 2o comma, lett. c, c.p.p., la parola « indizio » perde l’esclusivo riferimento alla « prova critica » di cui all’art. 192, 2o comma: essa vi starebbe a significare, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (15), ogni elemento probatorio, di qualsiasi natura, tale da far apparire probabile la responsabilità dell’indagato in ordine al fatto, o ai fatti, per cui si procede. Là dove si consideri che, per un verso, l’esercizio del potere cautelare implica la verificazione del thema probandum, sia pure mediante conoscenze ottenute « isolando il risultato fino a quel momento raggiunto nell’accertamento del fatto » (16), e che, per altro verso, al fine di verificare un giudizio — e tale è il thema probandum — ne occorre un altro, a cui commisurare il primo (17), l’espressione « sussistono gravi indizi di colpevolezza », nel testo dell’art. 273, 1o comma, indica la coincidenza del giudizio provvisorio (18), « nel quale risiede la conclusione dell’operazione probatoria », con quello in cui si risolve il thema probandum. Così precisato il significato della formula adoperata dall’art. 273, 1o comma, nulla esclude che, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, l’« indizio » possa essere « unico » e consistere anche nelle dichiarazioni o nella denuncia del soggetto passivo del reato (19). È di tutta evidenza, dunque, sia che gli argomenti ai quali ricorre la sentenza in commento sono sovrabbondanti (« Quando non sussistono solo elementi di prova indiziaria, bensì qualcosa di più, costituito da prova diretta, ciò esclude la

vate, meno incerto è il segno » (T. HOBBES, Leviatano, I, 3); ovvero « un ente da cui si inferisce la presenza passata e futura di un altro ente » (Chr. WOLFF, Philosophia prima sive Ontologia, 1729, 952); già gli stoici, per altro, avevano definito il « segno » come « una proposizione costituita da connessione valida e rivelatrice del conseguente » (Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 245). (15) Cfr. Cass., Sez. I, 21 maggio 1990, Bancini, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 129; Id., Sez. I, 15 ottobre 1990, Sepe, ivi, 1991, 293; Id., Sez. I, 18 marzo 1992, Russo, C.E.D. Cass., n. 18993; Id., Sez. I, 28 maggio 1992, Goddi Bachisio, ivi, n. 190813; Id., Sez. V, 20 agosto 1992, Mercuri, in Cass. pen., 1992, p. 3098, m. 1648. (16) D. SIRACUSANO, I provvedimenti penali e le motivazioni implicite, per relationem e sommarie, in questa Rivista, 1958, p. 381. (17) Cfr. F. CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958, p. 129; F. CORDERO, Tre Studi, cit., p. 6; V. DENTI, La verificazione delle prove documentali, Milano, 1957, p. 4 e ss. (18) L’oggettivo « provvisorio » sta a qualificare un giudizio espresso in un momento cronologico nel quale non si è ancora dato fondo alle risorse dell’investigazione e, comunque, almeno di regola basato su « prove artificiali » e/o « prove critiche », non ancora sottoposte al vaglio del contraddittorio. (19) Cfr. Cass., Sez. I, 21 luglio 1992, Alesci, C.E.D. Cass., m. 190813.


— 313 — necessità di fare ricorso al concetto di ‘‘gravità’’ che inerisce alla prova logica costituente l’indizio, nonché all’attendibilità intrinseca del riscontro esterno, in quanto sul piano probatorio la gravità indiziaria è soverchiata dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisito »: i corsivi sono nostri), sia che il tortuoso percorso argomentativo seguìto, là dove viene circoscritto l’ambito di « inerenza » della « gravità » alla sola « prova logica costituente l’indizio », può ingenerare la convinzione errata che la parola « indizio » sia usata quale sinonimo di « prova critica », nell’art. 192, 2o comma, c.p.p., e quale « nome collettivo delle prove imperfette », negli artt. 273, 1o comma, e 292, 2o comma, lett. c, c.p.p. (20). 5. Specie l’ultimo profilo segnalato desta forti perplessità, tanto più considerando che resta sempre aperto il problema se la normativa sulle prove di cui al libro III del codice del 1988 valga anche per gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari. Al riguardo, mentre la dottrina ritiene tendenzialmente applicabili le disposizioni del libro III all’intero arco del procedimento (21), la prassi rivela la tendenza a considerare l’art. 192 c.p.p. non operante in sede di applicazione delle misure cautelari de libertate (22) e a distinguere tra gli « indizi di reità » e la « prova occorrente in sede di merito per l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato », facendo derivare dalla « gravità » che qualifica gli « indizi » un autonomo criterio di valutazione, destinato ad operare in un ambito diverso da quello proprio dell’art. 192 c.p.p. (23). Si tratta di una tendenza preoccupante, dal momento che a tutta una serie di « elementi insuscettibili, per loro natura, di assumere dignità di prova » (24), anzi-

(20) Osservava puntualmente N. FRAMARINO dei MALATESTA, op. cit., p. 197: « Alcuni, postergando la natura di prova indiretta dell’indizio, non vi han visto che un nome collettivo delle prove imperfette. Qualunque prova imperfetta, qualunque ne sia il contenuto, è un indizio. Opinione strana, cotesta, che porta una confusione babelica nel campo delle prove. Per questa opinione, una stessa prova non è indizio, ora non è indizio, senza che nulla cambi nella sua natura... L’indizio preso in questo senso, è qualche cosa d’indeterminato, buono solamente a generare confusione ». A quasi un secolo di distanza, potrebbero ripetersi le medesime osservazioni. Ad un legislatore che, per un verso, designa con la parola « indizio » la premessa minore del sillogismo in cui si sostanzia la « prova critica » (art. 192, 2o comma) e, per altro verso, pone fra gli « indizi » anche le « prove storiche » o « rappresentative » o « artificiali » (artt. 273, 2o comma e 292, 1o comma, lett. c, c.p.p.), fanno da contrappunto una dottrina (D’AMBROSIOVIGNA, Polizia giudiziaria e nuovo processo penale, Firenze, 1989, p. 134; Gius. AMATO-D’ANDRIA, Organizzazione e funzioni della polizia giudiziaria, Milano, 1990, p. 220 ss.) e una prassi (cfr., per tutte, Cass., Sez. V, 20 agosto 1992, Mercuri, in Cass. pen., 1992, p. 3098, m. 1648; Id., 20 agosto 1991, Giordano, ivi, 1992, m. 336; Id., Sez. I, 21 novembre 1991, Mauro, ivi, 1993, m. 223; Id., Sez. II, 14 maggio 1992, Bozzo, C.E.D. Cass., 190693) secondo cui gli elementi che nella fase dibattimentale non potrebbero essere qualificati « indizi » e tantomeno « prove », possono essere considerati « indizi » ai fini dell’adozione di misure cautelari, nella fase delle indagini preliminari, sicché non se ne potrebbe contestare la « gravità » con la prospettazione dell’inutilizzabilità nel futuro dibattimento. (21) Cfr. L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1990, p. 144; P. FERRUA, La formazione della prova: limiti all’oralità e al contraddittorio, in Pol. dir., 1989, p. 243; V. GREVI, Prove (artt. 187-271), in G. CONSO-V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1990, p. 143; M. NOBILI, Il « diritto delle prove », in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, II, Torino, 1990, p. 387; A. SANNA, Parametri di valutazione delle prove e riesame delle misure cautelari, in Giur. it., 1992, II, c. 270; nonché il nostro Il procedimento probatorio, cit., c. 555 ss.; contra F. LATTANZI, Nota a Cass., Sez. I, 23 aprile 1992, in Cass. pen., 1993, p. 2348, n. 1415. (22) Cass., Sez. V, 12 ottobre 1990, Covelli, in Cass. pen., 1991, Romano, in Giur. it., 1993, II, c. 272; Id., Sez. Feriale, 3 settembre 1991, Tartaglia, ivi, 1992, II, c. 270. (23) Cfr., altresì, Cass., Sez. I, 23 febbraio 1990, Sartori, in Arch. nuova proc. pen., 1990, p. 468; Id., Sez. I, 30 aprile 1990, De Rosa, ivi, 1991, p. 123. (24) Così Cass., Sez. I, 17 maggio 1991, Scavuzzo, in Cass. pen., 1992, m. 1278.


— 314 — ché negare ogni rilevanza decisoria, viene riconosciuta un’efficacia persuasiva attenuata, definita « indiziaria » (25). All’affiorare di questa tendenza non appare estranea l’enfatizzazione della « dimensione processuale della prova » (26), in nome della quale si è giunti ad affermare che le categorie dell’« indizio » e della « prova », rilevanti in « fase processuale » non rilevano in « fase procedimentale » (27), senza, per altro, riuscire ad arginare il fenomeno di un largo e variegato impiego dibattimentale del materiale raccolto per fini investigativi. Per approdare a più appaganti risultati, occorrerebbe, invece, tenere nel debito conto che le diverse designazioni della parola « indizio », nei due contesti dell’art. 192, 2o comma, e degli artt. 273, 1o comma, e 292, 2o comma, c.p.p., vanno entrambi raccordate al concetto designato dalla locuzione « strumento del giudizio storico », dal quale hanno origine. Chiarito, allora, che il vocabolo « indizio » non è simbolo « equivoco », bensì « plurivoco per forza di connotazione », non vi dovrebbero essere difficoltà a trarre le conseguenze dalla premessa che gli « strumenti » per risolvere la historische Frage entrano nell’orizzonte decisorio e sempre e soltanto se formati nel rigoroso rispetto delle sequenze del procedimento probatorio, indipendentemente dal momento dell’iter procedimentale in cui essa si ponga e, dunque, anche nella fase delle indagini preliminari, allorché si tratti di stabilire la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura de libertate. Fermo restando che le singole decisioni del giudice per le indagini preliminari — per come emerge dall’esame delle distinte forme procedimentali che, di volta in volta, le precedono — possono, a seconda dei casi, fondarsi su diversi materiali e, quindi, su diversi gradi di conoscenza, appare incontrovertibile che esse vengono, pur sempre, adottate sulla base di materiali ammessi ed acquisiti, ancorché il provvedimento ammissivo sia involuto, talvolta, nell’acquisizione. Agevole, pertanto, ne discende la conclusione che, pur fondandosi le predette decisioni, di regola, su materiali raccolti dal pubblico ministero e/o dalla polizia giudiziaria, fuori dal contraddittorio, non deve mai trattarsi di elementi esclusi dallo spettro conoscitivo del giudice, in virtù di regole generali di inammissibilità (28), le quali si rinvengono, non a caso, nel libro III del codice di procedura penale (art. 191, in relazione agli artt. 26, 62, 63, 103, 195, 203, 228, 240, 254, 270, 271, 343, 360). dott. TIZIANA TREVISSON LUPACCHINI

(25) V. retro, nota 19. (26) L’espressione è di D. SIRACUSANO, Le prove, il procedimento probatorio e il processo, in SIRACUSANO, DALIA, GALATI, TRANCHINA, ZAPPALÀ, Manuale di diritto processuale penale, I, Milano, 1990, p. 402. (27) Qui ci sarebbero « gli atti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, insuscettibili di per sé di qualificazioni concernenti il diverso valore probatorio e, tuttavia, idonei a costituire i ‘‘gravi indizi di colpevolezza’’ » (F. LATTANZI, loc. cit.). (28) Per questa esatta conclusione, v. Corte cost., 11 luglio 1991, n. 366; Cass., Sez. VI, 27 novembre 1990, Rambetti, in Cass. pen., 1991, II, p. 848, n. 293; Id., Sez. I, 25 marzo 1991, D’errico ed altri, in Giur. it., 1991, II, c. 130; contra, Id., Sez. VI, 5 dicembre 1990, Fedeli, ivi, 1992, II, 308.


DOTTRINA

IL SISTEMA SANZIONATORIO: CONSIDERAZIONI IN MARGINE AD UN RECENTE SCHEMA DI RIFORMA (*)

1. Il ruolo della dottrina in vista della riforma. — Di fronte alla smisurata vastità di un tema quale la riforma del sistema sanzionatorio, mi occuperò solo di alcuni aspetti, che denunciano in modo particolarmente visibile le contraddizioni che hanno determinato l’attuale crisi delle sanzioni penali e le conseguenti difficoltà delle prospettive riformatrici. La prima contraddizione si riferisce al divario attualmente esistente tra i livelli molto alti dell’elaborazione dottrinale e le proposte di riforma complessiva del sistema sanzionatorio. La seconda ha per oggetto specifico i rapporti tra il criterio di ultima ratio, cui si richiama pressoché unanimente la dottrina nell’introdurre il tema della pena detentiva, e la sua traduzione nel momento della previsione edittale, quando ci si appresta ad affrontare il nodo cruciale della riforma del catalogo delle sanzioni. All’interno di questa contraddizione si pone la peculiare vicenda delle misure alternative alla detenzione: ci troviamo di fronte ad un segno quanto mai tangibile della crisi dei principi di legalità, certezza, prevedibilità ed uniformità della pena detentiva, ma sinora non ne sono state tratte le necessarie conseguenze sul terreno della riforma del sistema sanzionatorio. Non è mia intenzione condurre una rassegna bibliografica dei contributi della dottrina italiana e straniera — soprattutto tedesca — sulle tematiche della pena. Una simile impresa ci distoglierebbe dai più immediati obiettivi di riforma del sistema sanzionatorio, cui è dedicata questa sezione del Convegno. Mi limiterò piuttosto a segnalare le principali acquisizioni che sono state via via raggiunte nel corso dell’ormai quasi cinquan(*) Testo opportunamente rivisto ed aggiornato della relazione tenuta al XIX Convegno Enrico De Nicola, dedicato a: ‘‘Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali’’. St. Vincent, 6-8 maggio 1994.


— 316 — tennale dibattito sull’art. 27 comma 3o Cost., a conferma di quanto sia importante cercare di superare l’attuale divario tra l’elaborazione dottrinale ed i contenuti delle proposte di riforma. Un ottimo punto di partenza sono due lavori relativamente recenti, rispettivamente di un penalista e di un filosofo del diritto. Il primo è il commento di Giovanni Fiandaca all’art. 27 comma 3o Cost., scritto nel 1986 ma integrato con opportuni aggiornamenti nelle more della stampa del relativo volume, che reca la data del 1991 (1): l’osservatorio privilegiato è evidentemente il progressivo sviluppo della portata del principio secondo cui le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, ma il profilo costituzionale è d’altronde d’obbligo ove, come è doveroso, le prospettive di riforma del sistema sanzionatorio vengano inquadrate nell’ambito dei valori e delle finalità che la Costituzione assegna alla pena. Il secondo è il poderoso volume di Luigi Ferrajoli sulla teoria del garantismo penale (2). Con l’entusiasmo e l’irruenza talvolta dissacratrice dello studioso non vincolato dalla maglie strette del tecnicismo disciplinare dei penalisti, Ferrajoli dedica largo spazio ai rapporti tra le tradizionali garanzie di matrice illuminista e liberale della legalità e della certezza della pena ed il sistema sanzionatorio concretamente operante nell’ultimo ventennio in Italia. Le conclusioni dei due Autori sono diverse, ma è dato registrare una significativa concordanza sulle cause e sulla gravità della crisi del sistema sanzionatorio. Quali utili punti di riferimento, aggiungerei alcuni più recenti contributi, sia perché esprimono una sintesi esaustiva sull’attuale stato del dibattito (3), sia per il sano approccio empirico e realistico alle prospettive di riforma (4), sia perché provenienti da Autori che hanno sempre dedicato particolare attenzione al sistema sanzionatorio (5). Gli apporti degli Autori ora citati, unitamente alla ricchezza complessiva, quantitativa e qualitativa dell’elaborazione dottrinale, delineano un (1) G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, in G. BRANCA e A. PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti civili. Artt. 27-28, Bologna, Zanichelli, 1991, p. 222 ss. (2) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, passim. (3) T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, 419 ss. (4) C.E. PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in questa Rivista, 1992, 510 ss. e, più di recente, L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni in tema di ‘‘crisi della sanzione’’: la diaspora del sistema commisurativo, ivi, 1994, p. 421 ss. (5) V. ad esempio i numerosi scritti di E. DOLCINI, tra cui, di recente, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in questa Rivista, 1991, p. 55 ss.


— 317 — quadro di progressivo approfondimento e affinamento delle tematiche che costituiscono i presupposti di un processo riformatore e dovrebbero indurre ad un ragionevole ottimismo sulle sorti del nostro sistema sanzionatorio. Con il che non voglio sottacere le difficoltà o, meglio, le tensioni di fondo che sottostanno alla legittimazione della pena detentiva, nello stesso tempo strumento irrinunciabile per la tutela di beni giuridici di rilevante valore per l’ordinamento e mezzo legale con cui vengono aggrediti beni fondamentali dell’individuo, a partire dalla libertà personale. E neppure voglio sminuire gli effetti potenzialmente paralizzanti ai fini delle scelte di politica legislativa insiti nel perdurante e, probabilmente, irrisolubile dibattito sul teleologismo della pena detentiva. Lo scontro, filosofico prima ancora che giuridico, sulle funzioni e sugli obiettivi della pena ha certamente contribuito al mantenimento dello status quo e, comunque, ha favorito la tendenza ad affrontare i profili di riforma in termini surrettizi: la prudenza del legislatore nel misurarsi sul terreno dei sommi principi del fondamento di punire e degli scopi della pena era in realtà anche ragionevole timore di non riuscire a trovare sufficienti convergenze culturali e politiche per porre mano alla riforma complessiva del sistema sanzionatorio. Ma queste obiettive difficoltà, ineliminabili perché connaturali all’essenza stessa della pena, non valgono a scalzare la convinzione che i tempi delle scelte siano ormai maturi: ove si ripercorra il dibattito quasi cinquantennale sui principi costituzionali relativi alla pena detentiva, si ha l’impressione che sia stato detto tutto o quasi tutto, che la dottrina abbia fatto la sua parte e che il terreno per piantare i semi della riforma legislativa sia stato ampiamente arato. È vero che talvolta l’esame della dottrina dà l’impressione che sia stato detto non solo tutto, ma il contrario di tutto, ma ove si sappia leggere tra i diversi percorsi, argomentazioni e premesse ideologiche dei singoli Autori, su alcuni punti fermi vi è ormai una significativa convergenza: da questi momenti di convergenza potrebbe e dovrebbe appunto muovere il legislatore per operare le sue scelte. 2. La lunga marcia della dottrina penalistica nel cinquantennio repubblicano. — Tornando alla lunga marcia della dottrina sulla pena nel cinquantennio repubblicano (6), mi limiterò a sintetizzarne le tappe salienti, con tutti i rischi di approssimazione e di omissione che ciò comporta. (6) Per la ricostruzione storica del dibattito dottrinale mi sono rifatto soprattutto a G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 228-262.


— 318 — Le preoccupazioni, già manifestate durante il dibattito dell’Assemblea Costituente (7), che il principio della (tendenziale) funzione rieducativa della pena potesse significare adesione agli enunciati della scuola positiva si riflettono nel decennio successivo: facendo leva sia su argomentazioni testuali-letterali desunte dalla formulazione dell’art. 27 comma 3o Cost., sia sui rischi di violazioni in chiave autoritaria della libertà morale del condannato insiti nell’ideologia rieducativa, sia, infine, sulla limitazione del principio rieducativo alla sola fase dell’esecuzione, le concezioni retributive continuano ad essere prevalenti, accompagnate dall’insistenza sulla funzione generalpreventiva della pena (8). Il primato della concezione retributiva incomincia a essere progressivamente scalzato nel corso degli anni Sessanta. Non viene contestata l’essenza retributiva della sanzione criminale, ma l’affermarsi della concezione polifunzionale (9) della pena consente di attribuirle diverse finalità: satisfattoria, generalpreventiva e specialpreventiva, sia con riferimento ai diversi momenti (previsione edittale, commisurazione giudiziale e fase esecutiva) in cui gli scopi della pena vengono presi in considerazione, sia congiuntamente all’interno delle singole fasi del processo punitivo. La concezione polifunzionale troverà poi un forte e costante avallo nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 12/1966, sino alla recentissima n. 168/1994, dichiarativa dell’illegittimità dell’ergastolo ai minori imputabili (10). In particolare, da un lato la finalità rieducativa viene ammessa, quantomeno nella fase dell’esecuzione, anche dai retribuzionisti più convinti; dall’altro incomincia a prendere piede la convinzione-intuizione che il connotato teleologico rieducativo sia prevalente o, quantomeno, presente (7) Sul non sempre lineare sviluppo del dibattito alla Costituente v. E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 71 ss.; G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 225 ss.; G. NEPPI MODONA, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in Questione criminale, 1976, p. 325 ss. (8) Tra le prese di posizione più significative v. G. BETTIOL, Repressione e prevenzione nel quadro delle esigenze costituzionali, in Riv. it. dir. pen., 1951, p. 369; B. PETROCELLI, Retribuzione e difesa nel progetto del 1949, in questa Rivista, 1950, p. 549; M. SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, Giuffrè, 1953, p. 120 ss. (9) V. soprattutto G. VASSALLI, Funzioni e insufficienze della pena, in questa Rivista, 1961, p. 296 ss. (10) Per un excursus sulla giurisprudenza costituzionale in tema di polifunzionalità della pena v. G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 230 ss.; R. PASELLA, Osservazioni sugli orientamenti della Corte costituzionale in tema di funzioni della pena, in L’indice penale, 1977, p. 311 ss. In particolare, sugli interventi della Corte in tema di flessibilità della pena nella fase dell’esecuzione, v. di recente A. MARGARA, La pena perduta e il carcere ritrovato: riflessione sulla crisi di una delle tante riforme incompiute, in Questione Giustizia, 1993, p. 382 ss.


— 319 — in tutte le fasi del fenomeno punitivo. L’immanenza della funzione rieducativa determina anche però il massimo di incertezza sui contenuti da attribuire a tale finalità: si continua ad esempio a discutere, in termini di contrapposizione, tra emenda e risocializzazione (11). Un salto di qualità si realizza nei primi anni Settanta: da un lato prende vigore l’affermazione che gli obiettivi di prevenzione speciale debbono essere presenti già nel momento della previsione edittale del catalogo delle sanzioni, mettendo a disposizione del giudice anche strumenti sanzionatori diversi dalla pena detentiva (12); dall’altro si assiste ad un decisivo potenziamento della finalità rieducativa nella fase dell’esecuzione (13), che troverà poi largo spazio nella riforma penitenziaria del 1975. Mentre il primo filone non avrà seguito (salvo la timida apparizione delle sanzioni sostitutive introdotte dalla l. 689/1981), il secondo sarà destinato a svilupparsi progressivamente in sede di esecuzione, anche se in termini contraddittori e forieri della crescente crisi della certezza della pena detentiva, poi aggravata dal potenziamento delle misure alternative operato con la l. 663/1986. Lasciando per ora da parte le tormentate ed altalenanti vicende dei rapporti tra principio rieducativo ed esecuzione penitenziaria, interessa piuttosto seguire i più stabili contributi recati dalla dottrina nei due settori dei rapporti tra pena e teoria generale del reato e tra pena e principio di colpevolezza. Nel corso degli anni Settanta assume particolare significato il collegamento tra la funzione rieducativa della pena e la concezione costituzionalmente orientata del reato (14): da un lato, cioè, si incomincia a sostenere che i beni suscettibili di tutela penale sono solo quelli desumibili dai principi e dai valori presenti nel sistema costituzionale, dall’altro che il principio rieducativo agisce sulla selezione dei beni tutelabili, nel senso che debbono essere tutelati penalmente solo quei beni percepibili come entità ben definite e consolidate presso la maggioranza dei consociati, con esclusione dei beni c.d. inafferrabili o non sentiti dalla coscienza sociale come meri(11)

Sul punto v. in particolare G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 240-

241. (12) Questo indirizzo è espresso soprattutto da F. BRICOLA, Il sistema sanzionatorio penale nel codice Rocco e nel progetto di riforma, in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 41 ss. (13) Cfr. ad esempio G. NEPPI MODONA, Vecchio e nuovo nell’ordinamento penitenziario, in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria, cit., p. 11 ss. (14) La tematica è sviluppata da F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XIX, Torino, UTET, 1973, c. 38 ss.


— 320 — tevoli di tutela. Ed ancora: si rileva che la funzione rieducativa può innestarsi solo nei confronti di fatti di reato che effettivamente ledano o mettano in pericolo l’interesse tutelato, attraverso una significativa correlazione tra la costituzionalizzazione del principio di offensività e il principio costituzionale di cui all’art. 27 comma 3o (15). Analogo è il percorso dei rapporti tra funzione rieducativa della pena e principio di colpevolezza (16). Alla costituzionalizzazione del principio di colpevolezza si accompagna il corollario, desunto dall’art. 27 comma 3o Cost., che in tanto si può parlare di un’opera di rieducazione in quanto al reo possa essere mosso un rimprovero quantomeno a titolo di colpa per la violazione dell’interesse tutelato. Sul terreno della teoria generale del reato, il collegamento tra principio di rieducazione e struttura del reato è a questo punto pressoché completo. Ma paradossalmente è proprio a partire da questo momento — siamo ormai alla fine degli anni Settanta — che l’ideologia della rieducazione entra in crisi, nel duro confronto con le difficoltà di attuazione — ma in realtà si dovrebbe parlare di vero e proprio fallimento (17) — della riforma penitenziaria e con la crescente aggressività delle varie manifestazioni della criminalità organizzata, comune e politica: sullo scenario delle funzioni della pena si assiste così ad un rilancio delle esigenze di prevenzione generale (18). Le risposte della dottrina più attenta possono essere sintetizzate nella progressiva affermazione del principio di ultima ratio, sia in generale con riferimento alla legittimazione dell’intervento penale, sia, per quanto qui (15) V. ancora F. BRICOLA, Teoria generale, cit., c. 82. (16) F. BRICOLA, Teoria generale, cit., c. 53 ss. (17) Tra i tanti che hanno affrontato le cause remote e quelle contingenti della crisi del principio di rieducazione e del fallimento della riforma penitenziaria, ci permettiamo rinviare a G. NEPPI MODONA, Le istituzioni penitenziarie: dalle leggi di riforma alle prassi della restaurazione, in AA.VV., Quali garanzie, Bari, De Donato, 1983, p. 266 ss.; ID., Per la difesa della riforma penitenziaria: potenziamento delle misure alterantive e nuovi compiti degli enti locali, in V. GREVI (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna, Zanichelli, 1982, p. 274 ss. (18) Sul tema rimangono fondamentali gli scritti contenuti in M. ROMANO-F. STELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, Bologna, Il Mulino, 1980. Il riaffiorare delle esigenze di prevenzione generale è seguito molto da vicino da G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 258 ss., che si richiama agli Autori più attenti nel denunciare l’inversione di tendenza a partire dalla seconda metà degli anni Settanta: F. BRICOLA, Le misure alternative alla pena nel quadro di una ‘‘nuova’’ politica criminale, in AA.VV., Pene e misure alterantive nell’attuale momento storico, Milano, Giuffrè, 1977, p. 363 ss.; T. PADOVANI, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari: un’evasione dalla legalità, in V. GREVI (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 285 ss.


— 321 — più ci interessa, con riferimento alla scelta della pena detentiva. Tanto è vero che il dibattito dell’ultimo quindicennio sulla (residua) funzione rieducativa della pena detentiva si intreccia in forma sempre più stretta con il principio di ultima ratio. È significativo al riguardo che alla medesima conclusione sui rapporti tra ultima ratio e pena detentiva pervengono due Autori che muovono da concezioni ideologiche e metodologiche assolutamente opposte: mi riferisco a Ferrajoli e Paliero, il primo accusato dal secondo di basarsi su presupposti idealistici ed utopico-concettualistici (19), il secondo saldamente ancorato ad una concezione empirica e di effettività della pena da lui stesso definita come ‘‘minimalismo realistico’’, in cui la riforma del sistema sanzionatorio prende le mosse non dai precetti, ma dalla concreta effettività delle varie tipologie sanzionatorie, anche alla luce dei rapporti tra costi e benefici (20). 3. Il principio di ultima ratio. — Nell’impossibilità di ricostruire analiticamente in questa sede i termini del dibattito più recente, mi limiterò ad elencare i titoli delle tematiche in cui il principio di ultima ratio variamente si intreccia con il problema delle funzioni della pena. Lo si ritrova nei rapporti tra proporzionalità e prevenzione speciale; nelle riflessioni tanto sulla prevenzione generale c.d. negativa che sulla prevenzione generale c.d. positiva o allargata; nelle concezioni neoretribuzionistiche; nei tentativi di trovare un accordo sui contenuti da attribuire alla finalità rieducativa o risocializzatrice della pena; nel rilancio della funzione rieducativa nelle diverse fasi del processo punitivo; nella crescente convinzione che un terreno comune di incontro sui contenuti della funzione rieducativa può essere individuato nell’obiettivo minimo cui mirano le istituzioni penali complessivamente considerate, cioè nel prevenire la commissione di futuri illeciti penali (21). Con particolare riferimento alla pena detentiva, il principio di ultima ratio ispira certamente il tormentato dibattito sui rapporti tra trattamento penitenziario e principio di rieducazione, direi anzi che è al centro delle soluzioni proposte per fronteggiare e risolvere il fallimento dell’ideologia (19) Per richiami al diritto penale minimo v. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 325 ss. e per le pungenti critiche rivolte a tale Autore v. C.E. PALIERO, Metodologie de lege ferenda, cit., p. 513. (20) C.E. PALIERO, Metodologie, cit., p. 560; L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., p. 451-452. (21) Un approfondito excursus su queste tematiche si trova in G. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 263 ss., 278. Sull’obiettivo ‘‘minimo’’ della funzione rieducativa, cfr. E. DOLCINI, La ‘‘rieducazione’’ del condannato tra mito e realtà, in questa Rivista, 1979, p. 472.


— 322 — rieducativa all’interno delle istituzioni penitenziarie, privilegiando le forme di trattamento extramurario (22). Lo stesso vale per il tema delle misure alternative alla detenzione: la denuncia degli elementi di incertezza, imprevedibilità e diseguaglianza della pena detentiva conseguenti al sistema delle alternative alla detenzione in fase di esecuzione e la proposta di trasformare le attuali misure alternative in pene principali sono chiaramente ispirate dal principio di ultima ratio (23). Ma anche al di fuori dei confini della fase dell’esecuzione della pena, nel dibattito sui due momenti antecedenti della previsione edittale e della commisurazione giudiziale è assai forte e diffusa la convinzione che il principio di ultima ratio debba essere il criterio guida del (residuo) ricorso alla pena detentiva: in effetti, la ricorrente aspirazione di poter disporre di una vasta gamma di sanzioni edittali diverse dalla pena detentiva, la denuncia dell’eccessivo ed indeterminato potere discrezionale del giudice in chiave indulgenziale e paternalistica nel momento della commisurazione giudiziale, il ricorso a criteri economicistici ed empirici desunti dalle indagini sull’effettività delle sanzioni hanno nello stesso tempo come presupposto e come sbocco il principio di ultima ratio (24). Prima di verificare se e come questo prezioso patrimonio di elaborazione dottrinale si sia tradotto nell’unica proposta di riforma attualmente disponibile, sarebbe necessario dare atto delle principali cause della crisi del sistema sanzionatorio, nei tre momenti della previsione edittale, della commisurazione giudiziale e dell’esecuzione penale. Mi limiterò ad enunciare per sommi capi i titoli delle ragioni della crisi, ampiamente note in questa sede. 4. L’incertezza della pena nella fase della commisurazione giudiziale. — La mancata riforma del codice Rocco e, conseguentemente, della specie e delle tariffe edittali delle sanzioni, ha comportato la scelta di correggere le eccessive asprezze sanzionatorie ricorrendo all’introduzione di spazi sempre più alti di discrezionalità nella determinazione della concreta misura della pena. Il momento più significativo di questo processo è stata, (22) V. le considerazioni di M. PAVARINI, Fuori delle mura del carcere: la dislocazione dell’ossessione correzionale, in Dei delitti e delle pene, 1986, p. 251 ss. In effetti, la crisi del trattamento colpisce soprattutto il ‘‘mito’’ della rieducazione all’interno del carcere, lasciando aperte prospettive di risocializzazione mediante forme di trattamento in libertà, come bene emerge ad esempio dall’impostazione di E. DOLCINI, La ‘‘rieducazione’’, cit., p. 474 ss. (23) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 404 ss., 749 ss. (24) Cfr. sotto angolazioni diverse T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 423 ss.; C.E. PALIERO, Metodologia, cit., p. 553 ss.


— 323 — come è noto, la legge n. 220/1974, attraverso l’estensione dell’istituto della comparazione tra circostanze, in un’ottica in cui la supplenza giudiziaria in chiave indulgenziale-paternalistica si è sostituita all’inerzia del legislatore (25). Si è così creato un primo rilevante momento di divaricazione tra la comminatoria edittale e la pena applicata in concreto dal giudice. Il collegamento tra la misura delle sanzioni previste dalla legge e le tariffe penali giudiziarie è divenuto meramente indicativo: le pene edittali si sono trasformate in una sorta di generico quanto improbabile catalogo sanzionatorio, destinato ad esaurire la sua funzione più nell’ambito dei manuali di diritto penale che nelle aule giudiziarie. Il giudice si è infatti trovato ad esercitare un ruolo sempre più incisivo di supplenza nei confronti delle mancate scelte del legislatore, talmente radicato nel costume giudiziario da essere ormai considerato come un fatto scontato e ineluttabile, connaturale alla giurisdizione penale. Sappiamo invece che così non dovrebbe essere, perché una cosa è l’esercizio del potere discrezionale di determinare la pena tra il minimo ed il massimo edittale, altro è un modello in cui il giudice applica pressoché sistematicamente pene al di sotto dei minimi previsti dalla legge, al fine di correggere le asprezze e le sperequazioni che caratterizzano l’originaria comminatoria edittale. In altre parole, le sanzioni sono applicate secondo tariffe determinate dallo stesso potere giudiziario, che ha così cercato di interpretare i criteri di valore e le aspettative sociali presenti nella società contemporanea. Il carattere diffuso del potere giudiziario rende peraltro inevitabile che la misura della pena non sia applicata in maniera uniforme da tutti i giudici, ma vi siano tariffe diverse da luogo a luogo, ovvero anche all’interno della medesima sede giudiziaria. Le tradizionali funzioni della pena si sono così parcellizzate in una dimensione quantomeno duplice: quella del legislatore, scritta ormai solo nel codice, e quella ‘‘reale’’, desumibile dall’attività giudiziaria, peraltro non univoca, in quanto soggetta alla mediazione interpretativa dei singoli giudici. Sì che, a prescindere da altre considerazioni attinenti all’esecuzione penale, e facendo per ora riferimento solo alla divaricazione patologica tra pene edittali e commisurazione giudiziale, (25) La letteratura sulla c.d. supplenza giudiziaria è vastissima: oltre agli Autori citati nella nota precedente, cfr. C. FIANDACA, Il comma 3o dell’art. 27, cit., p. 325 ss.; A. STILE, La commisurazione della pena nel contesto attuale del sistema sanzionatorio, in Studi Vassalli, Milano, Giuffrè, 1991, vol. I, p. 289 ss. Per una recente riflessione sul ruolo giudiziale, di legittimità e di merito, in tema di determinazione della pena, v. E. DOLCINI, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in questa Rivista, 1991, p. 55 ss.


— 324 — appare veramente difficile, se non impossibile, dire quale o quali siano attualmente le funzioni svolte dalla pena nell’ordinamento italiano. La mancata riforma globale del codice non ha comportato solo questi elementi di incertezza sulla stessa funzione della pena, ma è probabilmente la ragione per cui il catalogo sanzionatorio edittale, salvo la timida introduzione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi con la l. 689/1981 (26), è rimasto vincolato alle due categorie della pena detentiva e di quella pecuniaria. Al riguardo, può essere utile ricordare che la riforma penitenziaria del 1975 non ha ‘‘scoperto’’ le misure alternative alla detenzione, ma ha recepito gli istituti che figuravano nel progetto di legge di riforma della parte generale del codice penale del 1973 (l’ultimo ad avere avuto l’onore di una sia pure parziale discussione parlamentare) sotto l’etichetta di misure sostitutive, destinate quindi ad essere applicate in sede di giudizio di cognizione. La prospettiva di risolvere la mancata revisione della parte speciale del codice ricorrendo ad un articolato sistema di sanzioni sostitutive non aveva in realtà alcuna possibilità di sbocco. Ove fosse stata prescelta la via di ricorrere ad una clausola generale sostitutiva (27), in base alla quale tutti i reati punibili ad esempio con pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione sarebbero stati sanzionati con una delle varie pene sostitutive contestualmente introdotte nella parte generale, ne sarebbe risultata confermata ed avvalorata la gerarchia dei valori dell’originario codice del 1930, ulteriormente aumentando il divario tra quelle scelte ed i nuovi valori presenti nella società contemporanea. Ove, invece, si fosse attribuito al giudice il potere discrezionale di applicare la sanzione sostitutiva ogniqualvolta ritenesse di comminare in concreto una pena detentiva inferiore ad una certa misura, si sarebbero introdotte ulteriori violazioni dei principi della certezza, della prevedibilità e dell’eguaglianza della pena, consentendo al giudice di cognizione di scegliere, attraverso gli amplissimi poteri discrezionali in tema di determinazione della pena, non solo la misura, ma anche la qualità della pena. Credo che in ultima analisi siano queste le ragioni per cui, in assenza di una completa riforma della parte speciale e della gerarchia dei valori sottostanti ai singoli reati, il sistema sanzionatorio è rimasto formalmente (26) Cfr. per tutti T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 429-430 ed i relativi riferimenti bibliografici. (27) Per cenni in questa direzione v. F.C. PALAZZO, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto, scopi e prospettive di un ulteriore provvedimento di decarcerizzazione, in Politica del diritto, 1988, p. 244.


— 325 — immutato e si è intervenuti, prima con la riforma penitenziaria del 1975, e poi più massicciamente con la l. 663/1986, solo sul terreno dell’esecuzione penale, attraverso il sistema delle misure alternative alla detenzione. 5. Gli ulteriori elementi di incertezza nella fase dell’esecuzione penale. — Anche il rilancio legislativo del principio costituzionale della rieducazione del condannato e della funzione specialpreventiva della pena in sede di esecuzione — da alcuni poi definita criticamente come ‘‘ossessione (o illusione) correzionale’’ (28) — va visto come la necessaria conseguenza di un sistema sanzionatorio bloccato, e non come un’organica e libera scelta inserita nel contesto di una riflessione-ricostruzione globale del sistema penale. Tanto è vero che il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena è stato recuperato intervenendo solo sull’ultimo anello della catena, quello dell’esecuzione penale, mediante il potenziamento delle misure alternative, senza toccare i presupposti ed i meccanismi operanti a monte, dalla comminatoria edittale al potere discrezionale del giudice di cognizione. La natura obbligata di questa scelta ha ulteriormente aggravato la discrasia già esistente tra la pena astrattamente prevista dal legislatore e quella applicata in concreto dal giudice di cognizione, introducendo nuovi elementi di discrezionalità e di incertezza sul se, sul quantum e sulle modalità di esecuzione della pena detentiva (29). Ne è risultata una situazione assolutamente patologica di divaricazione tra la pena determinata dal giudice con la sentenza di condanna e quella che effettivamente il condannato verrà chiamato a scontare. Attraverso la liberazione anticipata è stato scalzato il principio della durata predeterminata dalla pena; grazie alla semilibertà, alla detenzione domiciliare, ai permessi premio e di lavoro non siamo più in grado di prevedere in anticipo quali saranno le modalità di esecuzione della pena, se in quel luogo chiuso chiamato carcere (28) M. PAVARINI, Fuori dalle mura del carcere, cit., p. 251 ss. (29) Questa situazione di incertezza e di imprevedibilità è al centro delle riflessioni dell’ultimo decennio sulla crisi della pena detentiva: si è parlato di ‘‘disintegrazione’’ o ‘‘disfacimento’’ del sistema sanzionatorio (T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 419 e passim), di esecuzione penale ormai sorretta dal principio dello ‘‘scambio penitenziario’’ (E. FASSONE, Luci e ombre della ‘‘legge Gozzini’’, in Questione Giustizia, 1987, p. 654 ss.), di ‘‘disgregazione del carcerario’’ (M. PAVARINI, ‘‘L’inferno esiste, anche se all’inferno non c’è nessuno’’, ivi, 1986, p. 805), di obsolescenza dei principi di legalità certezza, prevedibilità e uguaglianza penale (L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 405 ss. e passim), di pena detentiva che sta ormai scritta solo nel codice, trasformata in una tigre di carta (G. NEPPI MODONA, L’utile sociale nella concezione penalistica di Cesare Beccaria, in questa Rivista, 1989, p. 503), di ‘‘perenne incertezza commisurativa’’ (L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., p. 445).


— 326 — ovvero mediante periodi giornalieri o distribuiti durante l’anno di soggiorni in libertà; infine, attraverso l’affidamento in prova non sappiamo se il condannato trascorrerà in carcere quantomeno un periodo della pena indicata in sentenza, ovvero sconterà l’intera condanna in libertà (30). La funzione specialpreventiva ha così assunto un rilievo preminente, ma in forma surretizia, operante solo in sede di esecuzione penale: il generale contesto normativo del sistema sanzionatorio continua infatti a basarsi, nei due momenti antecedenti della comminatoria edittale e della concreta applicazione dela pena da parte del giudice di cognizione, sui principi della retribuzione (quantomeno nel senso di proporzione tra entità della pena e misura della colpevolezza) e della prevenzione generale. A fianco di questa contraddizione di fondo sta poi il dato che i presupposti della funzione specialpreventiva demandata ai giudici di sorveglianza sono assolutamente aleatori. I giudizi prognostici sul processo di recupero e di riadattamento sociale del condannato sono basati su tassi di discrezionalità e di opinabilità talmente alti da rendere impossibile qualsiasi tentativo di tipicizzazione e da tradursi in valutazioni arbitrarie, al di là dell’impegno professionale e dei tentativi dei giudici di sorveglianza di uniformare i criteri applicativi delle misure. Al giudizio sul fatto, che ancora sorregge il processo di cognizione, si è sostituito nella fase dell’esecuzione un giudizio sull’autore, cioè un ‘‘modello correzionale’’, fondato sull’incontrollabile discrezionalità che caratterizza la fase esecutivo-penitenziaria. L’insostenibilità di tale situazione ha trovato conferma in recenti provvedimenti legislativi (a partire dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, sino dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, poi convertito nella l. 356/1992), che hanno dapprima limitato e poi di fatto escluso l’applicabilità delle misure alternative nei confronti dei condannati per alcuni dei reati tipici della criminalità organizzata (31). Queste considerazioni non sono contraddette dal mantenimento delle misure alternative in favore dei collaboratori di giu(30) A fronte di queste critiche è doveroso menzionare l’appassionata difesa della ‘‘pena flessibile’’ o, meglio, del ‘‘sistema, costituzionalmente garantito, di esecuzione flessibile della pena’’, espressa da A. MARGARA, La pena perduta e il carcere ritrovato, cit., p. 381 ss., 386. (31) Per un esame dell’impatto della nuova normativa sul sistema delle misure alternative alla detenzione e, più in generale, sulla struttura dell’ordinamento penitenziario, v. V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in V. GREVI (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, CEDAM, 1994, p. 3 ss.; F. DELLA CASA, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della ‘‘scommessa’’ anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del ‘‘doppio binario’’, ivi, p. 73 ss., 115 ss.; P. COMUCCI, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975


— 327 — stizia ammessi allo speciale programma di protezione: in particolare, il dato che nei confronti di tali soggetti le alternative alla detenzione e gli altri benefici dell’ordinamento penitenziario siano concedibili anche in deroga alla vigente disciplina (art. 13-ter d.l. 306/1992, convertito nella l. 356/1992), dimostra che l’operatività di tali meccanismi è esclusivamente subordinata alle esigenze processuali-premiali di stimolare la collaborazione con la giustizia e che vi sono estranee considerazioni attinenti alle finalità della pena. Si deve piuttosto rilevare che la crisi del modello correzionale si sta accompagnando a tendenze neoretribuzionistiche, che hanno trovato un fertile terreno di penetrazione proprio nel progressivo deterioramento delle garanzie di certezza, prevedibilità, uniformità ed eguaglianza della sanzione penale, nei termini sopra descritti. Anche le indicazioni che provengono dai sensibili e rapidi mutamenti della composizione della popolazione carceraria concorrono nel segnalare che la stagione delle misure alternative sta volgendo al termine, quantomeno come alternativa generalizzata all’esecuzione in carcere della pena detentiva. Vi sono almeno tre categorie di detenuti nei confronti dei quali, per ragioni diverse e talvolta confliggenti tra loro, l’attuale sistema delle misure alternative non pare più praticabile. Da un lato le modifiche legislative sopra citate hanno sanzionato l’incompatibilità di tali misure nei confronti dei detenuti per reati di stampo mafioso, a cui deve essere applicato un regime di esecuzione penitenziaria idoneo ad impedire quei collegamenti con il mondo esterno che in forma più o meno intensa caratterizzano l’essenza delle alternative alla detenzione; dall’altra i detenuti extracomunitari (che ormai raggiungono il 15% della popolazione carceraria) possono difficilmente usufruire delle misure alternative, in quanto privi di quel minimo di collegamenti sociali (idonei, ad esempio, a favorire la possibilità di un inserimento lavorativo) che giustificano la concessione delle misure. Anche i detenuti tossicodipendenti (la cui percentuale sfiora il 30%) non sempre sono nelle condizioni personali richieste per essere ammessi alla specifica misura alternativa del trattamento terapeutico in una comunità residenziale o mediante altre forme di recupero, e rimangono quindi tendenzialmente esclusi dal sistema delle alternative alla detenzione. Più in generale, il costante e vertiginoso aumento della popolazione ai provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in A. PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, Cortina, 1994, p. 31 ss.; A. PRESUTTI, ‘‘Alternative’’ al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena costituzionale, ivi, p. 82 ss.; F.P.C. IOVINO, Osservazioni sulla recente riforma dell’ordinamento penitenziario, in Cassazione penale, 1993, p. 1257 ss.


— 328 — carceraria (nei primi mesi del 1994 è stata superata la soglia delle 52.000 unità, cioè quasi il doppio dell’ordinaria capienza degli stabilimenti penitenziari) rende pressoché impossibile le valutazioni prognostiche in vista della concessione delle misure anche nei confronti di quelle categorie di detenuti ‘‘tradizionali’’ che non si trovano in situazioni di incompatibilità con i principi ispiratori delle alternative alla detenzione. Ci troviamo di fronte al rischio di perdere il prezioso bagaglio legislativo e culturale che si accompagna dal 1975 alle misure alternative alla detenzione, grazie alle quali è stato possibile rompere l’indissolubilità del binomio pena∃carcere. È infatti indiscutibile che alla stagione delle misure alternative va riconosciuto il grande merito di avere introdotto nella legge, nella cultura giuridica, nelle prassi giudiziarie e, soprattutto, nel costume e nel modo di sentire della gente, la consapevolezza che la pena non è solo e necessariamente privazione della libertà nel chiuso dell’istituzione penitenziaria, ma può tradursi, anche per reati di non lieve entità, in altri strumenti di controllo sociale, in parte affidati al senso di autoresponsabilità del condannato, in parte devoluti a strutture meno coercitive di controllo. La riforma del sistema sanzionatorio deve appunto porsi gli obiettivi di recuperare i valori della legalità, della tipicità e della certezza delle pene, senza disperdere l’eredità legislativa e culturale dalla stagione delle misure alternative, cioè valorizzando in un più meditato e razionale contesto sistematico la funzione specialpreventiva della pena. È appunto in quest’ottica che intendo esaminare le prospettive di riforma del sistema sanzionatorio che emergono dai principi contenuti nella bozza di legge-delega elaborata da una Commissione di professori di diritto penale, istituita nel 1988 presso il Ministero della Giustizia (32). 6. Il recupero della certezza della pena: nuovi criteri di determinazione del potere discrezionale del giudice. — Gli obiettivi di recuperare il principio della certezza della pena sono ampiamente presenti nel progetto di riforma. È opportuno esaminarli separatamente, a seconda che il recupero venga effettuato intervenendo sul terreno edittale, circoscrivendo gli (32) L’articolato dei principi e criteri direttivi e la relazione illustrativa sono pubblicati in Documenti Giustizia, n. 3, 1992, c. 305 ss., nonché in L’indice penale, Quaderno n. 9, 1993, con una presentazione di G. VASSALLI, ove sono esposte anche le tappe essenziali del lungo, e sinora rimasto senza esito, processo riformatore nel corso del cinquantennio repubblicano. Le successive citazioni si riferiscono al testo pubblicato su Documenti Giustizia. Per un inquadramento generale dei principi della riforma cfr. A. PAGLIARO, Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1994, p. 374 ss.; ID., Sullo schema di disegno di legge delega per un nuovo codice penale, in Giustizia penale, 1993, II, c. 170 ss.


— 329 — spazi di discrezionalità del giudice nel momento della commisurazione giudiziale della pena, ovvero sottraendo al giudice di sorveglianza i poteri discrezionali che l’attuale sistema gli attribuisce in sede di esecuzione penitenziaria. 6.1. Il principio formale della certezza della pena è strettamente correlato sul terreno sostanziale al criterio di proporzionalità, sì che può parlarsi di due facce della stessa medaglia (33). Non a caso, la compenetrazione tra certezza e proporzionalità è espressamente richiamata dall’art. 58 comma 1o del progetto di legge-delega, ove si pone l’esigenza di ‘‘prevedere i limiti edittali di pena dei singoli reati, in modo da proporzionarli al disvalore complessivo del fatto, riducendo i livelli spesso eccessivi del codice attuale e restringendo il divario tra minimo e massimo edittale, così da rendere più circoscritta e significativa la scelta legislativa come limite della commisurazione giudiziale della pena’’. L’obiettivo di ridurre i divari tra minimo e massimo edittale trova riscontro anche nel comma 2o dell’art. 58, che nell’introdurre il principio della determinazione delle pene detentive secondo classi progressive, indica il criterio secondo cui il massimo edittale non può superare il quadruplo del minimo. 6.2. Anche i parametri di riferimento del potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena sono stati opportunamente modificati (art. 39 comma 1o), al fine di privilegiare i fattori di ‘‘gravità oggettiva (offesa, modalità della condotta) e soggettiva (intensità del dolo, grado della colpa, motivazione), tenendo conto del disvalore complessivo del fatto’’, relegando la c.d. capacità a delinquere a criterio operante solo ai fini di attenuazione della pena (art. 39 comma 2o). Tali scelte si pongono in evidente sintonia con l’indicazione di cui al già citato art. 58 comma 1o, ove in tema di principi generali della parte speciale è appunto formulato il criterio di prevedere limiti edittali ‘‘in modo da proporzionarli al disvalore complessivo del fatto’’. Per ragione di affinità di materia, converrà qui segnalare che l’obiettivo di determinare con maggior rigore il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena trova attuazione anche nel criterio secondo cui i fattori oggettivi di aggravamento della pena operano solo in quanto riflessi nella colpevolezza (art. 39 comma 2o), nonché nel divieto di una nuova valutazione degli elementi costitutivi o circostanziali che già qualificano la gravità del fatto sul piano edittale (art. 39 comma 3o). (33) Sul punto, con particolare riferimento alle scelte della bozza della legge delega, cfr. A. PAGLIARO, Valori e principi, cit., p. 379.


— 330 — 6.3. La linea di tendenza di limitare il potere discrezionale del giudice trova riscontro anche nell’art. 3 disp. att. della delega, ove al giudice viene imposto un obbligo particolare di motivazione sui fattori presi in considerazione ai fini dell’applicazione di una pena prossima al minimo o al massimo edittale. 6.4. Il fine di potenziare la funzione legislativa di scelta della misura della pena si è tradotto nell’eliminazione dell’istituto della comparazione tra circostanze (art. 25 comma 1o, ove si prevede che in caso di concorso di circostanze, anche eterogenee, si applicano gli aumenti e le diminuzioni per ciascuna di esse). Risulta così rimossa una delle principali cause dell’anomalo divario tra pene edittali e pene applicate in concreto dal giudice, in un quadro in cui la contestuale riforma della parte speciale dovrebbe eliminare la sinora ineliminabile esigenza di ricorrere a forme improprie di supplenza giudiziaria in tema di commisurazione della pena. 6.5. Nella medesima direzione si muove l’abolizione delle circostanze attenuanti generiche, che non ricorrono nell’elenco tassativo delle circostanze attenuanti comuni (art. 22). Da tali criteri direttivi emerge un quadro coerentemente volto a restringere il potere discrezionale del giudice (34) ed a restituire effettività alle scelte del legislatore nell’individuazione della misura delle pene edittali, così recuperando il valore della certezza della pena e ridando cittadinanza ai principi, ormai scritti solo sulla carta, della proporzione tra misura della pena e disvalore complessivo del fatto e della prevenzione generale nel momento della previsione edittale. Stupisce peraltro che gli Autori della bozza di legge delega abbiano rinunciato a proporre una scala gerarchica lungo cui ordinare la misura delle sanzioni, demandando interamente questo compito al futuro legislatore delegato. Una corretta distribuzione delle competenze tra legislatore delegante e delegato avrebbe infatti dovuto suggerire di attribuire al primo scelte squisitamente politiche quali la determinazione quantitativa delle sanzioni previste per le varie categorie di reati. Rimane inoltre irrisolto il problema dei rapporti con i meccanismi del nuovo processo penale che incidono sulla misura della pena (35), con par(34) Le scelte in tema di commisurazione in senso stretto della pena sono invece sottoposte a critica da L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., p. 446-447, secondo cui i principi della delega non hanno introdotto modificazioni di rilievo. (35) Su cui vedi di recente L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., p. 440 ss., nonché F. BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in L’indice penale, 1989, p. 313 ss.; T. PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma


— 331 — ticolare riferimento alle diminuzioni di pena previste dall’applicazione della pena su richiesta delle parti e dal giudizio abbreviato. Queste tematiche esulano evidentemente dalla sfera della riforma della parte generale del codice penale, ma di esse si dovrà comunque tenere conto, sia a livello di inquadramento dogmatico del nuovo sistema sanzionatorio, sia con riferimento alla commisurazione della pena in senso stretto, quantomeno per evitare che gli sforzi volti a ristabilire i principi della certezza e della prevedibilità possano essere frustrati da scelte processuali di segno opposto. 7. La nuova dislocazione delle misure alternative alla detenzione. — Molto più complesse e frastagliate sono le scelte del progetto di riforma volte a correggere l’attuale sistema dei rapporti tra pena detentiva e sanzioni alternative al carcere. Qui vengono in gioco una molteplicità di problemi, che vanno dal catalogo sanzionatorio edittale ai rapporti tra pene principali e pene accessorie, dalla disciplina della sospensione condizionale alle alternative alle pene detentive brevi, dai c.d. diversivi alla pena alle sanzioni sostitutive, sino al nodo di fondo degli strumenti proposti per superare l’attuale abnorme divaricazione tra pena applicata dal giudice di cognizione e pena effettivamente scontata a seguito degli interventi del giudice di sorveglianza. Non è facile districarsi in questo groviglio di problemi, anche perché la logica che sorregge il progetto riformatore non pare idonea a superare l’eccessiva discrezionalità giudiziale che caratterizza la situazione attuale. Le scelte di fondo del progetto possono comunque essere così sintetizzate: 7.1. La gamma delle pene principali è circoscritta, per i delitti, all’ergastolo, alla detenzione (da 6 mesi a 24 anni) e alla multa; per le contravvenzioni, alla semidetenzione (da un mese a 3 anni) e all’ammenda (art. 37). Pene accessorie sono le tradizionali sanzioni interdittive (dall’ufficio pubblico o privato e dall’attività professionale o imprenditoriale nell’esercizio dei quali è stato commesso il reato, dall’esercizio della potestà dei genitori), nonché il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere la prestazione di servizi pubblici (art. 38). Per quanto riguarda le pene principali, caratteri salienti del sistema sanzionatorio proposto sono dunque il mantenimento dell’ergastolo e del codice penale, in questa Rivista, p. 911 ss.; A. PAGLIARO, Riflessi del nuovo codice di procedura penale sul diritto penale sostanziale, ivi, 1990, p. 36 ss.


— 332 — delle pene detentive di lunga durata (sino a 24, e sino a 30 anni in caso di cumulo — art. 41 comma 2o); l’esclusione del ricorso alla pena detentiva per le contravvenzioni, sostituita dalla semidetenzione; la rivalutazione delle potenzialità della pena pecuniaria, attraverso il ricorso alla tecnica dei tassi giornalieri, cui si deve obbligatoriamente ricorrere in tutti i casi in cui la pena pecuniaria sia prevista alternativamente a quella detentiva (art. 37 comma 3o). Va subito detto che il mantenimento dell’ergastolo appare difficilmente spiegabile, specie nel contesto di un progetto di riforma che finora si è mosso solo a livello dottrinale; tanto è vero che nella relazione che accompagna il progetto non è riservato alcun cenno alle ragioni di tale scelta (36). Sul terreno delle altre sanzioni, forti perplessità suscita anche la proposta di restringere alla detenzione e alla multa la gamma delle sanzioni per i delitti: tale scelta va peraltro valutata congiuntamente ai vari meccanismi indicati per rendere operante l’altrimenti contrastante direttiva, a cui ripetutamente si richiama la relazione, di attuare il principio di extrema ratio nel ricorrere alla pena detentiva. 7.2. Con riferimento alle pene detentive brevi o comunque in caso di reati di non rilevante gravità, il principio di extrema ratio trova applicazione in numerosi istituti e meccanismi. Nell’esaminarli, è opportuno tenere presente che il criterio di extrema ratio può essere letto anche come strumento per dare attuazione alla funzione rieducativa della pena. Tanto è vero che uno degli Autori del progetto di riforma li ha appunto collocati nell’ambito delle finalità rieducative della pena (37). Gli strumenti per deflazionare l’applicazione della pena detentiva possa essere così sintetizzati: — Sospensione condizionale ovvero applicazione di una pena sostitutiva in caso di pena dententiva di durata inferiore a sei mesi (art. 39 comma 4o). — Possibilità di astensione dall’inflizione della pena in caso di reato colposo, quando gli effetti pregiudizievoli del reato subiti dal reo siano tali che l’applicazione della pena risulterebbe ingiustificata, sia in relazione (36) Del tema si sono occupati due componenti della Commissione Ministeriale che ha redatto la bozza della legge delega, ma le motivazioni a favore del mantenimento dell’ergastolo paiono piuttosto fragili e opinabili: cfr. T. PADOVANI, La disintegrazione, cit., p. 449, che si richiama alla ratifica dell’istituto in sede di referendum popolare ed alla constatazione che tale pena ‘‘non può certo essere esclusa in una temperie come l’attuale’’, nonché, per considerazioni sostanzialmente analoghe, A. PAGLIARO, Valori e principi, cit., p. 394, secondo cui un progetto di codice che escludesse la pena dell’ergastolo sarebbe certamente respinto dal Parlamento. (37) A. PAGLIARO, Valori e principi, cit., p. 390-391.


— 333 — alla colpevolezza che alle esigenze di prevenzione speciale (art. 40 comma 1o), nonché in caso di reato doloso, purché gli effetti pregiudizievoli si siano verificati esclusivamente a carico del soggetto agente (art. 40 comma 2o). — Possibilità di escludere l’applicazione della pena principale quando la pena accessoria risulti da sola proporzionata alla gravità del reato e sufficiente ad impedire la commissione di reati da parte del condannato (art. 38 comma 4o lett. b). — Possibilità, in caso di condanna ad una pena detentiva breve per la quale non opera la sospensione condizionale, di sostituirla con una delle seguenti sanzioni: semidentenzione, detenzione saltuaria, arresti domiciliari, libertà controllata, lavoro di utilità sociale, pena pecuniaria (art. 43 comma 1o). 7.3. Molto esteso è il campo di applicazione della sospensione condizionale, cui è attribuita la funzione di rendere operante il principio della pena detentiva come ultima ratio anche con riferimento a pene detentive non brevi (almeno, così sembra di capire dal progetto, posto che la determinazione del limite massimo entro cui può essere applicata la sospensione della pena è rimessa al legislatore delegato). Ai fini che qui interessano, i dati più significativi della disciplina proposta dalla legge-delega vanno senza dubbio ricercati nella possibilità di concedere la sospensione sino a tre volte, e nella conseguente possibilità (che diviene necessità in caso di seconda e terza concessione) di accompagnare la sospensione con prescrizioni, divieti, forme di trattamento o di sostegno sociale, sino all’eventuale affidamento in prova al servizio sociale, nonché nella possibilità/necessità di disporre la sospensione condizionale in misura parziale sino ai due terzi della inflitta, con applicazione di una sanzione sostitutiva in luogo della residua pena detentiva (art. 42 comm1 6o e 7o). È facile rendersi conto che i complessi meccanismi, qui sommariamente accennati, attraverso cui si articola la sospensione mirano a recuperare nel momento della commisurazione giudiziale molti degli strumenti che attualmente operano in sede di esecuzione al fine di evitare o rendere meno rigido il ricorso alla pena carceraria. Tale obiettivo si accompagna al superamento dell’attuale concezione meramente indulgenziale-paternalistica della sospensione condizionale, che dovrebbe trasformarsi in una forma di trattamento sanzionatorio ‘‘giudiziale’’, affidato quindi non più al giudice di sorveglianza — come ora accade per l’applicazione delle misure alternative nella fase dell’esecuzione — ma in prima battuta a quello di cognizione: ne dovrebbe così ri-


— 334 — sultare valorizzata la funzione specialpreventiva della pena nel momento della commisurazione giudiziale. 7.3.1. La possibilità di concedere la sospensione sino a tre volte, entro limiti di pena predeterminati anche con riferimento all’ammontare delle condanne subite precedentemente, è ulteriormente allargata da una disciplina che non prende in considerazione, ai fini delle condizioni ostative, le condanne per cui è intervenuta riabilitazione, ovvero le condanne dalle quali sia decorso un congruo periodo di tempo (art. 42 n. 4). Alla stregua di tale disciplina, molte delle situazioni per le quali le attuali misure alternative alla detenzione consentono di evitare il ricorso alla carcerazione, ovvero rendono possibile un’esecuzione della pena detentiva non completamente segregante, dovrebbero essere risolte dallo stesso giudice di cognizione, mediante il ricorso anche reiterato all’istituto della sospensione condizionale. 7.3.2. Questa impressione trova conferma nella specifica disciplina (art. 42 comma 6o) che rende possibile in caso di prima concessione, e impone in caso di seconda e di terza concessione, di sottoporre il condannato a prescrizioni, divieti, trattamenti terapeutici o interventi di sostegno sociale, sino all’affidamento in prova al servizio sociale. Ovvia conseguenza di questa scelta è l’abrogazione dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale previsto dall’ordinamento penitenziario. 7.3.3. Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla disciplina che prevede la possibilità, e impone la necessità in caso di seconda e terza concessione, di disporre la sospensione condizionale solo fino ai due terzi della pena inflitta, applicando in luogo della residua pena detentiva una sanzione sostitutiva, scelta in relazione alle conseguenze sulle relazioni sociali del condannato ed all’idoneità ad evitare la commissione di nuovi reati. Le sanzioni sostitutive indicate sono la semidetenzione, la detenzione saltuaria, gli arresti domiciliari, la libertà controllata, il lavoro di utilità sociale. Come si vede, attraverso i complessi meccanismi della sospensione condizionale parziale vengono recuperati alcuni dei contenuti delle attuali misure alternative (semilibertà, detenzione domiciliare, permessi premio), la cui applicazione risulta ora demandata al giudice di cognizione (art. 42 n. 7). A tale disciplina consegue l’abrogazione delle attuali misure alternative della semilibertà (art. 6 disp. att.) e dell’affidamento in prova, in gran parte riassorbite dai nuovi istituti delle sanzioni sostitutive e della sospensione condizionale parziale, operanti in sede giudiziale.


— 335 — 8. La residua misura alternativa alla detenzione. — L’unica alternativa alla detenzione in fase di esecuzione rimane quindi la liberazione condizionale, prevista nel caso in cui il condannato abbia scontato almeno metà della pena ovvero, in caso di condanna all’ergastolo, un numero di anni determinato in relazione alle fascie di età. Presupposti dell’istituto non sono più un improbabile e difficilmente accertabile ravvidimento, ma l’alta probabilità, desunta dalla condotta del reo nel corso dell’esecuzione, dal suo stato di salute o dai mutamenti intervenuti nella sua situazione personale, che egli si asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 44 n. 1 e 2). Analogamente a quanto previsto per la sospensione condizionale, anche la liberazione condizionale può accompagnarsi a particolari forme di controllo e di trattamento, indicati nel regime di semidetenzione, in prescrizioni, nell’impegno a sottoporsi a trattamenti terapeutici, in divieti, sino all’affidamento in prova al servizio sociale (art. 44 n. 4). 9. I limiti del progetto di riforma: rigidità della commisurazione edittale ed eccessiva discrezionalità nella fase giudiziale. — Dal complesso dei meccanismi proposti per attuare il principio di ultima ratio emerge dunque chiaramente la linea di tendenza di anticipare alla fase della commisurazione giudiziale gli attuali meccanismi ‘‘alternativi’’ alla detenzione. Questa scelta di fondo corregge la patologica divaricazione tra la pena applicata dal giudice di cognizione e quella che il condannato sconterà effettivamente: riconduce quindi in un alveo di maggiore certezza e prevedibilità i rapporti ora completamente distorti tra le fasi giudiziale e dell’esecuzione. L’intenzione è certamente quella di rivitalizzare il criterio di proporzione tra entità della pena e disvalore complessivo del fatto, e di dare una dimensione meno mistificante alla funzione di prevenzione generale, pur senza rinunciare all’eredità culturale delle finalità rieducative, recuperate soprattutto attraverso le varie forme di trattamento sanzionatorio che si accompagnano alla disciplina della sospensione condizionale. È peraltro più che legittima l’impressione che i poteri discrezionali concessi al giudice di cognizione nella scelta tra la pena detentiva ed i possibili diversivi previsti per dare attuazione al principio di ultima ratio si tradurranno ancora una volta in un eccessivo sacrificio dei principi di certezza, prevedibilità ed eguaglianza della pena. In altre parole, dobbiamo domandarci se non vi siano spazi per attribuire allo stesso legislatore in sede di commisurazione edittale alcune delle scelte volte a realizzare il principio di ultima ratio della pena detentiva.


— 336 — Il progetto di riforma ha scartato l’eventualità di introdurre nel momento della commisurazione edittale sanzioni diverse dalla pena detentiva e da quella pecuniaria, di tipo paradetentivo, interdittivo o impositivo, in base al rilievo che, se le offese penalmente rilevanti sono selezionate ‘‘secondo corretti criteri di politica criminale e quindi nel rispetto sia del principio di proporzione che di quello di sussidiarietà, non può escludersi a priori la necessità di ricorrere alla pena criminale più grave e significativa senza con ciò tradire il senso stesso del canone di ultima ratio. Se il ricorso alla pena detentiva o semidetentiva deve concepirsi come ‘estremo rimedio’, è logico ch’essa sia comminata in sede legislativa ogni qual volta possa astrattamente prospettarsene la necessità, rimettendo al giudice l’adozione di un trattamento sanzionatorio diverso e meno pesante’’. Muovendosi lungo quest’ottica, è stata scartata anche la soluzione di una commisurazione edittale alternativa alla pena detentiva, in base al rilievo che si sarebbe prospettata ‘‘una possibilità di scelta di cui il giudice può disporre in sede di commisurazione della pena in senso lato’’ (38). Il limite di fondo del progetto di riforma sta proprio in questa rigida ed aprioristica esclusione della previsione edittale di sanzioni diverse da quelle detentiva e pecuniaria (39). Nel momento in cui si è finalmente aperta la possibilità di una riforma contestuale della parte generale e della parte speciale del codice, non si sarebbero dovute scartare a priori le opportunità offerte dall’individuazione di una nuova gerarchia di valori per introdurre a livello edittale nuovi modelli di sanzione, più adeguati agli interessi meritevoli di tutela penale di quanto siano le tradizionali sanzioni detentiva e pecuniaria. A tacere dalla sin troppo ovvia constatazione che mal si comprende come il mantenimento della pena pecuniaria possa conciliarsi con il principio di ultima ratio, la prospettazione di un nuovo catalogo sanzionatorio avrebbe tra l’altro potuto essere l’occasione per realizzare l’aspirazione, condivisa da buona parte della dottrina, di anticipare alcuni dei contenuti della funzione rieducativa sin dal momento della previsione edittale. D’altro canto, la giusta preoccupazione che ha ispirato la scelta di non attribuire al giudice un potere discrezionale eccessivo, quale quello che sarebbe derivato da una previsione edittale alternativa alla pena de(38) Relazione alla bozza di legge delega, cit., c. 328. V. anche A. PAGLIARO, Valori e principi, cit., p. 391. (39) Sostanzialmente analoghi i rilievi di L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., p. 448, che parlano di ‘‘permanente ‘centralità’ della pena detentiva’’ e di conseguente mancata attuazione del principio di extrema ratio, pur affermato con forza nella bozza della legge delega.


— 337 — tentiva, si ripropone puntualmente nel momento in cui allo stesso giudice vengono concessi amplissimi poteri di ricorrere a trattamenti sanzionatori diversi dalla pena detentiva, dalle sanzioni sostitutive alla disciplina della sospensione condizionale. Le preoccupazioni circa la violazione dei principi di certezza, prevedibilità ed eguaglianza della sanzione penale risultano quindi tutt’altro che superate: sono semplicemente anticipate dal momento dell’esecuzione a quello della commisurazione giudiziale della pena. Il principio di ultima ratio, che a parole costituisce il criterio ispiratore del progetto di riforma, non ha in realtà trovato coerente attuazione in sede di previsione edittale, ma si è ancora una volta tradotto nell’attribuzione di eccessivi poteri discrezionali al giudice, questa volta individuato nell’organo di cognizione. Si sarebbe quantomeno dovuto verificare, attraverso un’indagine analitica condotta sulle varie fattispecie di parte speciale inserite nello stesso progetto di riforma, se tutti gli interessi suscettibili di tutela penale fossero effettivamente meritevoli di una risposta sanzionatoria detentiva (o pecuniaria), ovvero se non esistessero, già nel momento della previsione edittale, possibilità di diversi e più articolati interventi sanzionatori. Le scelte del progetto di riforma appaiono come una conseguenza obbligata dell’opzione preliminare — di per sé indimostrata e indimostrabile — di conservare la sanzione dell’ergastolo e di prevedere un massimo edittale di 24 anni per la pena detentiva temporanea, estensibile a 30 anni in caso di cumulo. In effetti, tale scelta rende pressoché ineluttabile il ricorso edittale alla privazione della libertà per qualsiasi offesa penalmente rilevante, ma tale conseguenza discende non tanto, come si sostiene nella relazione, da una selezione delle offese penalmente rilevanti secondo corretti criteri di politica criminale, quanto da astratte esigenze di coerenza logica e sistematica tutte interne alla bozza del progetto di riforma; esigenze che peraltro discendono da una scelta preliminare sulla cui validità è lecito esprimere le più ampie riserve. La scelta di fondo del progetto rende infatti quanto mai aleatoria la dichiarata volontà di ispirare il nuovo sistema sanzionatorio al canone di ultima ratio. Basti pensare che il superamento dell’attuale sistema delle misure alternative applicate dalla magistratura di sorveglianza, ad eccezione della liberazione condizionale, non accompagnato da un catalogo edittale di pene diverse da quella detentiva, determinerà alla prova dei fatti un aumento dell’area della carcerazione anche per le pene di media durata: quantomeno in tutti i casi in cui non potranno trovare applicazione i meccanismi di fuga dalla sanzione detentiva previsti in sede di sospensione condizionale (40). (40)

Per analoghe considerazioni v. A. MARGARA, La pena perduta, cit., p. 400, ove


— 338 — Un sia pur sommario esame del progetto di legge delega dedicato alla parte speciale del codice consente di stendere un corposo catalogo di reati per i quali da un lato il ricorso edittale alla pena detentiva appare sproporzionato per eccesso, dall’altro, specie con riferimento alle contravvenzioni, la sola pena pecuniaria potrebbe dimostrarsi inadeguata. In linea di massima, si tratta di quei reati per i quali è prevista la perseguibilità a querela, nonché di buona parte di quelli per cui è prevista anche una pena accessoria interdittiva. Va segnalato che tale catalogo sarebbe destinato ad allargarsi notevolmente ove l’esame venisse esteso alla legislazione penale speciale. In via di prima approssimazione, si possono indicare i seguenti titoli di reato per cui lo stesso legislatore potrebbe prevedere sanzioni diverse dalla pena detentiva: — Tra i reati contro la persona (art. 59): percosse; lesioni personali colpose non accompagnate da circostanze aggravanti. Tra i reati contro la gestazione (art. 62): aborto colposo, nonché le ipotesi meno gravi di produzione di embrioni umani, ad esempio per fini di procreazione in numero superiore a quello necessario. È significativo che per tali reati sia prevista anche la pena accessoria dell’interdizione dalla professione sanitaria. — Tra i reati contro la dignità della persona defunta (art. 68): quando ricorre la circostanza attenuante dell’avere commesso il fatto per scopi scientifici, didattici, di trapianto o di produzione di estratti per uso terapeutico. — Tra i reati contro la libertà morale (art. 70): minaccia semplice. — Tra i reati contro l’altrui sentimento di discrezione sessuale (art. 73): atti osceni; produzione, detenzione e diffusione di oggetti pornografici; spettacoli pornografici, sempreché non ricorrano le circostanze aggravanti che l’oggetto pornografico riguardi immagini di minori, ovvero che gli oggetti o gli spettacoli siano offerti o rivolti a minori. — Tra i reati contro l’onore (art. 80): ingiuria; diffamazione; uso diffamatorio di un mezzo di pubblicità. — Tra i reati contro la tranquillità personale e l’altrui sentimento di decenza (art. 81): disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone; molestia o disturbo delle persone; atti contrari alla pubblica decenza e turpiloquio. — Tra i reati contro il patrimonio (art. 82): furto semplice; dannegsi parla, tra l’altro, di un’‘‘ultima ratio molto diffusa’’. La scelta di utilizzare il fallimentare istituto della sospensione condizionale per concentrarvi i meccanismi di deflazione della pena detentiva è sottoposta a vivace critica anche da L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., 449.


— 339 — giamento perseguibile a querela; deturpamento o imbrattamento di cose altrui; turbativa immobiliare; truffa semplice; sfruttamento dell’errore altrui; abuso di mezzi informatici; scrocco; acquisto di cose di sospetta provenienza. — Tra i reati contro l’altrui affidamento (art. 94): commercio di cose d’arte falsificate; autenticazione di cose d’arte falsificate. Per tali reati è prevista quale pena accessoria l’interdizione dalla professione. — Tra i reati contro l’economia imprenditoriale (art. 112): illegale riduzione del patrimonio; infedeltà patrimoniale; vendita di prodotti industriali con segni mendaci; frode in commercio. Per tali reati è prevista la pena accessoria dell’interdizione dall’attività imprenditoriale e dagli uffici direttivi presso qualsiasi impresa. — Tra i reati contro gli animali e il patrimonio faunistico (art. 121): maltrattamento di animali; abbandono di animali domestici. — Tra i reati contro l’esercizio delle funzioni giurisdizionali (art. 133): esercizio arbitrario delle proprie ragioni. — Tra i reati dei pubblici agenti (art. 138): indebita accettazione di utilità; assenteismo. 10. Un possibile schema alternativo. — Questi rilievi critici offrono l’occasione per proporre quale tema di discussione una possibile alternativa al sistema delineato dal progetto di riforma. La verifica condotta sui vari reati previsti dai criteri direttivi della parte speciale del codice rende evidente che per alcuni reati o categorie di reati sarebbe possibile anticipare al momento della previsione edittale sanzioni diverse da quella detentiva (e da quella pecuniaria), assumendo come modello alcune delle attuali misure alternative, le sanzioni sostitutive, le prescrizioni, i divieti, i trattamenti e gli interventi disciplinati in tema di sospensione condizionale, nonché le pene accessorie, cioè alcune o tutte le forme sanzionatorie a vario titolo previste nello stesso progetto di riforma; beninteso, senza trascurare le più recenti acquisizioni in tema di effettività delle sanzioni e dei rapporti costi-benefici, con particolare riferimento all’esigenza di ridurre il numero delle sanzioni alternative ai modelli già sperimentati ed affidabili (41). Gli spazi per muoversi in questa direzione esistono: in primo luogo per quelle categorie di reati per i quali l’esperienza storica dell’applica(41) Sono questi i criteri di scelta suggeriti da C.E. PALIERO, Metodologie, cit., p. 547 ss.; L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., p. 452 ss., anche con riferimento all’esperienza nordamericana.


— 340 — zione delle misure alternative alla detenzione ha dimostrato che il ricorso alla pena detentiva appare non adeguato per eccesso. Vi sono poi certamente situazioni in cui gli scopi di prevenzione generale e speciale ed il criterio di proporzione possono essere più efficacemente realizzati ricorrendo a trattamenti ed interventi fuori dal carcere, ovvero a sanzioni di carattere interdittivo od a divieti incidenti sulle attività nell’esercizio delle quali è stato commesso il reato: in particolare, i casi per i quali da anni andiamo ripetendo che la pena detentiva è un’arma spuntata, al punto che lo stesso legislatore e le prassi giudiziarie hanno rispettivamente indicato ed attuato strumenti ed atteggiamenti idonei ad evitare che gli autori di quei reati scontino la pena carceraria. Ma nei fatti la conseguenza è che ora quei soggetti non sono sottoposti ad alcuna sanzione. L’eliminazione dell’ergastolo ed una congrua riduzione della durata massima della pena detentiva temporanea sono le premesse necessarie per riequilibrare il sistema sanzionatorio in un’ottica capace di superare la rigidità del binomio pena detentiva-pena pecuniaria che ancora connota la commisurazione edittale del progetto di riforma. Per le ragioni già espresse da parte della dottrina, la pena detentiva, ridotta nella durata massima a 15-20 anni (42), dovrebbe essere riservata esclusivamente agli autori dei reati più gravi, portatori di un’alta carica di pericolosità sociale. Il pensiero corre evidentemente ai reati tipici delle varie manifestazioni della criminalità organizzata, ai reati contro l’incolumità pubblica, la vita e la libertà morale, ai più gravi reati contro la pubblica amministrazione, nonché contro il patrimonio commessi con violenza e minaccia, ecc. Salvo situazioni assolutamente eccezionali (ad esempio, condizioni di salute, la grazia), la pena detentiva così ridotta nella sua misura dovrebbe essere interamente scontata. Sarebbe questo il primo gradino per recuperare i valori di certezza, prevedibilità ed eguaglianza della pena, attualmente messi in crisi prima dalla discrasia tra commisurazione edittale e giudiziale della pena, poi dallo scarto tra pena inflitta e pena scontata in concreto a seguito degli interventi del giudice di sorveglianza. Il secondo passo è, appunto, quello di allargare la previsione edittale a sanzioni diverse dalla pena detentiva, intermedie tra questa e la sanzione pecuniaria, per tutti quei reati che, alla stregua di un’attuazione diretta ed effettiva del principio di ultima ratio, vengano ritenuti a priori non meritevoli della segregazione carceraria. Il timore che la funzione di prevenzione generale del sistema penale (42)

V. soprattutto L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 409 ss. e passim.


— 341 — risulti in tale modo indebolita, specie in un contesto culturale che continua a riconoscere una forte efficacia deterrente alla pena detentiva, può essere fugato muovendosi in due direzioni. Da un lato articolando i contenuti delle nuove sanzioni secondo moduli idonei a costituire un’effettiva controspinta alla commissione di quei reati o categorie di reati per cui sono specificamente previsti (si pensi alle pene interdittive, ovvero a forme di controllo sociale e di trattamento parzialmente limitativo della libertà personale); dall’altro prevedendo, in caso di violazione degli obblighi, divieti, prescrizioni propri delle nuove sanzioni, forme di conversione automatica in pena detentiva. Lo schema qui prospettato non ha carattere rigido: in questa materia nessuno può presumere di avere una formula risolutiva magica (43). Va piuttosto inteso, nel momento in cui la dottrina penalistica è finalmente chiamata a confrontarsi su un progetto di riforma contestuale della parte generale e della parte speciale del codice, come uno stimolo per riaprire il dibattito sulla previsione edittale di nuove sanzioni, e per recuperare a più di due secoli di distanza, gli insegnamenti di Cesare Beccaria in tema di certezza, dolcezza ed infallibilità della pena. L’ipotesi di fondo su cui la dottrina italiana è invitata a misurarsi è la ricerca di un nuovo sistema sanzionatorio capace di superare la sempre più impropria dislocazione tra le funzioni della prevenzione generale e della prevenzione speciale: la prima apparentemente demandata solo alla ormai inadeguata ed anacronistica previsione edittale del codice del 1930 (sulla quale si sono necessariamente modellate anche le modifiche al codice penale e la legislazione penale speciale nel periodo repubblicano); la seconda confusamente distribuita tra i due momenti della commisurazione giudiziale e dei successivi aggiustamenti sulla durata e sulle modalità della pena detentiva in sede di esecuzione. Dico confusamente, perché in realtà il vastissimo potere discrezionale riconosciuto al giudice di cognizione, e il modo in cui è stato sistematicamente e concretamente usato, hanno di fatto surrettiziamente trasformato il momento della commisurazione giudiziale in un nuovo catalogo edittale, che si è impropriamente sostituito alla funzione tipica del legislatore. Per cui il giudice di cognizione si è trovato ad esercitare contemporaneamente la doppia funzione di prevenzione generale e di prevenzione speciale: quest’ultima poi ulteriormente attuata dal giudice di sorveglianza. È mia impressione che la ricchissima elaborazione dottrinale dell’ul(43) V. ad esempio lo schema proposto da L. MONACO-C.E. PALIERO, Variazioni, cit., 452, 454, basato su due distinti modelli di commisurazione, rispettivamente per la pena detentiva e per le opzioni non detentive, operanti anche sul terreno della previsione edittale.


— 342 — timo ventennio abbia posto le basi per la ridefinizione sia delle nozioni di prevenzione generale e speciale, sia delle relative aree di intervento, mediante una redistribuzione dei compiti rispettivamente spettanti al legislatore, al giudice di cognizione ed a quello dell’esecuzione più consona alle funzioni istituzionali di questi tre soggetti. È agevole rendersi conto che i due profili di riflessione sono in realtà strettamente connessi. Dalla ridefinizione delle funzioni di prevenzione generale e di prevenzione speciale deriveranno conseguenze obbligate sul terreno della redistribuzione dei compiti tra il legislatore, il giudice di cognizione e quello dell’esecuzione; specularmente, ove si assuma come punto di partenza l’attuale sovrapposizione di funzioni tra questi tre soggetti, ne discenderà l’esigenza di ridefinire i rapporti tra i tradizionali obiettivi di prevenzione generale e speciale della pena. Sarà così possibile in primo luogo rivalutare il momento della previzione edittale, mediante cataloghi e modelli sanzionatori capaci nello stesso tempo di superare l’astratto schematismo della contrapposizione tra prevenzione generale e speciale e l’ormai plurisecolare ed esaustiva bipartizione tra pena detentiva e pena pecuniaria. GUIDO NEPPI MODONA Ordinario di Istitutizioni di Diritto nell’Università di Torino


DALLA TUTELA DI BENI ALLA TUTELA DI FUNZIONI: TRA ILLUSIONI POSTMODERNE E RIFLUSSI ILLIBERALI (*)

1. A partire dal sorprendente, pregevolissimo, breve contributo di Ugo Grozio (1) alla nascita del diritto penale moderno, con la sostituzione dell’autorità divina da parte della ragione umana, è divenuto un dato fondamentale, ai fini di un corretto e funzionale intervento penale, il fatto che la legge penale, in mancanza di altri interventi meno incidenti su libertà e personalità individuale (2), si preoccupi di punire solo quei comportamenti che realmente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza in libertà e vengano generalmente avvertiti come tali: risultino, cioè, contrassegnati da dannosità sociale (3), che si esprime, secondo una più recente, accreditata terminologia, nell’offesa di beni giuridici (4) particolarmente significativi. Il connotato dell’indiscutibile dannosità sociale costituisce la condizione indispensabile, perché, da un lato, la generalità dei consociati possa approvare la criminalizzazione di un fatto e, d’altro canto, il singolo possa (*) Relazione svolta al seminario « La politica criminal i el sistema del dret penal », Università di Barcellona, 17-18 giugno 1994, a cura del Department de Justicia - Generalitat de Catalunya. (1) Ci riferiamo ai capitoli XX e XXI del secondo libro del De jure belli ac pacis libri tres (1625), da noi consultato nell’edizione annotata da J.F. GRONOW e J. BARBEYRAC e commentata da H. e S. VON COCCEJ, 4 tomi, Lausanne 1751-52. (2) Lo stesso principio di sussidiarietà del diritto penale viene chiaramente enunciato da Grozio: « qui delinquit in eo statu est ut puniri licite possit: sed non ideo sequitur debere eam exigi: quia hoc pendet ex connexione finium, ob quos poena instituta est, cum ipsa poena. Quare si fines poenae propositi alia via obtinere possint, jam apparet, nihil esse quod ad poenam exigendum praecise obbliget », De jure, lib. 2, cap. XX, tit. XX, n. 1; v. anche tit. XIII, n. 1; tit. XXI; tit. XXIII. (3) De jure 2, XX, XX, 1; il requisito della dannosità sociale del reato divenne, poi, uno dei capisaldi del garantismo illuminista, cfr. BECCARIA, De’ delitti e delle pene (1764), in Opere scelte, Milano, 1839, § II, p. 7 ss. (4) Risalente, com’è noto, a BIRNBAUM, Über das Erfordernis einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderer Rücksicht auf den Begriff der Ehrenkränkung, in Archiv des Criminalrechts 1834, 175 ss.


— 344 — legittimamente, nonché, eventualmente, con proficuità essere avviato al recupero sociale: l’azione di risocializzazione, o l’effetto di non-desocializzazione, richiede, innanzitutto, che il soggetto percepisca con chiarezza l’antisocialità del proprio comportamento, ovvero l’offesa significativa ad un bene giuridico meritevole di tutela penale. Proprio dalla necessità dell’aderenza, in termini di dis/valore, dell’oggetto della tutela alla realtà sociale, dalla quale doveva trarre origine l’intervento penale, scaturì la teoria del bene giuridico, nella prospettiva del superamento dell’impostazione formalistica ed inappagante data al problema, da Anselm Feuerbach, con il ricorso alla figura del diritto soggettivo quale oggetto dell’offesa (5). E lo stretto legame con la realtà sociale ha fatto sì che il bene giuridico finisse con l’assumere un’importanza essenziale nella ricostruzione del tipo nell’illecito e, quindi, un ruolo fondamentale di garanzia nella delimitazione dell’intervento penale. Accanto alla tradizionale funzione dommatico-interpretativa, il bene giuridico ha, dunque, assunto una funzione critica, trascendente (6) il sistema penale, ponendosi come criterio decisivo di una politica criminale espressiva dello stato sociale di diritto. Certamente il concetto di bene giuridico non è in grado di offrire una formula con la quale, attraverso operazioni di sussunzione e deduzione, si possa facilmente separare la condotta punibile da quella non punibile; tuttavia, esso, anche tramite l’utilizzazione della finalità della pena (7), è in grado di fornire l’indicazione di ciò che può essere legittimamente tutelato con il diritto penale (8). In questo senso può pure parlarsi di funzione negativa di legittimazione del bene giuridico (9). Anche in questa accezione più limitata, il bene giuridico soffre attualmente di una crisi che finisce per porre in discussione proprio la funzione (5) Cfr. FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültingen peinlichen Rechts (1801), 14a ed., Giessen 1847, ristampa anastatica Aalen 1973, § 21 ss., p. 45 ss.; una concezione analoga era stata sostenuta in precedenza anche da FILANGIERI, La scienza della legislazione (1788-89), Paris 1853, lib. III, p. II, capp. XV, XXXVIII ss., pp. 188 ss., 223 ss., e PAGANO, Principj del codice penale (1785-86), Napoli 1815, capp. I, XIII, XIV, pp. 16 ss., 50 ss.; v. anche ID., Saggi politici (1783-1792), V, Delle società polite e colte, in Opere filosofiche - politiche ed estetiche, Napoli, 1848, capp. XIV-XV, p. 208 ss. (6) Per questa terminologia cfr. HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, Frankfurt am Main 1973, pp. 19-20. (7) In proposito ci sia consentito il rinvio al nostro Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p. 173 ss. (8) Cfr. ROXIN, Fragwürdige Tendenzen in der Strafrechtsreform, in Radius 1966, 34 ss.; ID., Franz von Liszt und die kriminalpolitische Konzeption des Alternativentwurfs (1969), in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin-New York 1973, p. 42 ss. (9) Cfr. HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbrechens, cit., pp. 115 ss., 169 ss.


— 345 — più significativa, quella cioè di delimitazione dell’intervento penale. L’argomento principale è dato dalla considerazione in base alla quale nei confronti di taluni beni giuridici, per lo più a titolarità diffusa o ad ampio raggio, sarebbe necessaria una tutela fortemente anticipata, impostata sulla criminalizzazione di condotte ancora profondamente distanti dalla realizzazione effettiva di un’offesa. Si è affermato (10), cioè, che, in presenza di una generale pericolosità dell’azione o in relazione a norme con funzione organizzatoria, i reati di pericolo astratto risulterebbero pienamente compatibili con il sistema penale garantistico dello stato sociale di diritto. Con particolare riferimento ai reati contro l’ordine economico, si è affermato che essi esprimono « un’offensività di tipo particolare, che si misura in termini non di conseguenze concrete, ma di incompatibilità con le tendenze programmatiche del sistema » (11). È evidente come, ritenendo legittima la criminalizzazione di condotte ben lontane dall’offesa, venga del tutto a cadere la funzione di delimitazione del bene (12), dal momento che la criminalizzazione di qualsiasi condotta, anche la più innocua, sul piano della dannosità sociale, può essere sempre ricollegata alla tutela di fondamentali, pur se remoti, beni giuridici. L’ordinamento finisce con il dettare una disciplina meramente dirigistica, che si esprime in una dettagliata regolamentazione a presidio della quale pone la sanzione penale, rinunciando alla repressione delle condotte che immediatamente sono orientate all’offesa del bene (13). Si punisce, dunque, l’inosservanza di norme organizzative e non la realizzazione di fatti socialmente dannosi. L’esigenza che viene sottolineata, in questo contesto, è quella, tutta pragmatica, dell’efficienza del controllo (14), a cui, in una visione deideologizzata della vita di relazione, va sacrificata una rigida difesa di principi astratti o di valori che trascendono il problema della risoluzione del sin(10) Per tutti, autorevolmente, PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, a cura di C. PEDRAZZI e G.S. COCO, Milano 1979, p. 32 ss., e, ancora oggi, TIEDEMANN, Strafrecht und Marktwirtschaft, in Festschrift für W. Stree und J. Wessels, Heidelberg 1993, p. 527 ss. (11) Così PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. STILE, Napoli 1985, p. 304. (12) Sul punto, lucidamente, VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität. Kriminalpolitische Probleme und dogmatische Schwierigkeiten, in JZ 1982, 88. (13) Cfr. in proposito SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna 1990, pp. 16-17, 21. (14) Tale esigenza viene ancora rimarcata nell’ambito di un’ampia stimolante indagine, da PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista 1992, 915 ss.


— 346 — golo caso, quale impone, invece, la coerenza del sistema. In nome di un pragmatismo efficientistico esasperato si accredita una compresenza, una sinergia di elementi e prospettive, lontani gli ani dagli altri, che danno vita ad una convivenza « debole » e non ad una sintesi « forte » di componenti conciliabili. Ciò si è espresso nella surrettizia utilizzazione dell’intervento penale per la tutela della funzionalità dei meccanismi d’intervento della pubblica amministrazione, con la creazione artificiosa di beni giuridici di riferimento (15) al duplice scopo di aggirare difficoltà di redazione della fattispecie e di superare, disinvoltamente, problemi di prova (16). Laddove, a noi sembra che, a ben vedere, solo da un’armonica interazione di garanzie formali e sostanziali, che richiede una visione ed un’indagine sistematica complessiva in relazione ad ogni singolo problema da risolvere, potranno aversi soluzioni realmente efficienti. Difficilmente scorciatoie rispetto all’effettiva osservanza dei principi fondamentali portano a risultati soddisfacenti: la caduta di garanzie reca inevitabilmente con sé conseguenze negative, anche dal punto di vista del mero controllo sociale. Certamente il condizionamento storico fa sì che, sotto il profilo contenutistico, possa mutare la fisionomia del bene (17) e, quindi, possano, per così dire, variare le prestazioni ad esso connesse; è vero, infatti, che in molti casi i beni seguono e segnano l’evoluzione della realtà sociale — si pensi, ad esempio, al patrimonio (18) — ed appaiono nell’esperienza normativa come risultati dei conflitti di interessi individuali e/o sociali, presenti nella vita interindividuale. Tuttavia, questa possibile mutazione sotto il profilo strutturale e funzionale, non può assolutamente porre in discussione la validità dei principi su cui si fonda — o si deve fondare — il sistema, dando luogo soltanto ad una diversa fenomenologia delle offese. Ciò significa che la presenza di un’offesa reale, effettiva, dovrà presidiare la fattispecie, sia astratta che concreta, al fine di scongiurare, in via immediata, la surrettizia, illegittima esaltazione di un’ottica di mera violazione dell’obbligo, cominciando, con la svalutazione dell’elemento sogget(15) Per una ricostruzione critica di questo processo cfr. MÜLLER-DIETZ, Aspekte und Konzepte der Strafbegrenzung, in Festschrift für R. Schmitt, Tübingen 1992, p. 95 ss. (16) Si veda in proposito la serrata analisi di VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 90 ss. (17) Sul tema cfr. HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in AA.VV., Jenseits des Funktionalismus. Arthur Kaufmann zum 65. Geburtstag, a cura di H. SCHOLLER e L. PHILLIPS, Heidelberg 1989, p. 89 ss. (18) Ci sia consentito in proposito il richiamo al nostro Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova 1988, passim.


— 347 — tivo, così a ridimensionare la stessa prospettiva del diritto penale del fatto (19). 2. Il porsi di rinnovate esigenze di tutela e la ricerca di efficienza, spesso solo illusoria, hanno contribuito a determinare la crisi che attualmente soffre il bene giuridico, almeno nella sua funzione, fondamentale, di delimitazione dell’intervento (20). Va qui ricordato che già altre volte il bene giuridico è andato incontro a vere e proprie svalutazioni che hanno coinciso con l’affermarsi di sistemi autoritari. Ci riferiamo sia all’esperienza del tecnicismo formalistico di derivazione positivistica, cha ha fatto da supporto alla codificazione fascista italiana del 1930, sia all’esperienza del sostanzialismo della scuola di Kiel, che ha legittimato, sul versante opposto, l’involuzione autoritaria del diritto penale nazista. In entrambi i casi si assisté ad un’emarginazione del bene giuridico dalla teoria dell’illecito o con la sua utilizzazione, riduzionistica, in chiave meramente interpretativa (21) nel sistema penale italiano, o con la sua espulsione di fatto, nel sistema tedesco, a favore di una prospettiva di violazione del dovere (22). Dalla fine degli anni Sessanta si è assistito, sia pur in tempi e modi differenziati, nei vari ordinamenti, ad un progressivo, giustificato aumento dell’attenzione nei confronti di beni collettivi, che, sovente, tra di loro s’intersecano e risultano legati all’evoluzione tecnologica, all’evoluzione del sistema economico ed all’evoluzione della struttura socio-statuale. Essi coinvolgono interessi legati all’ambiente, alla salute, alla sicurezza ed igiene del lavoro, agli alimenti, all’economia e pongono problemi di benessere a livello sia individuale che superindividuale. Si può, quindi, affermare l’esistenza di un processo di assimilazione delle legislazioni di paesi fra loro diversi, storicamente e geograficamente (19) Cfr. sull’argomento SGUBBI, Il reato come rischio sociale, cit., p. 21 ss.; DONINI, Il delitto contravvenzionale, Milano 1993, p. 200 ss. (20) Cfr. in proposito BARATTA, Funzioni strumentali e funzioni simboliche del diritto penale. Lineamenti di una teoria del bene giuridico, in Studi in memoria di G. Tarello, vol. II, Milano 1990, pp. 94-95; LAMPE, Gedanken zum materiellen Strafbegriff, in Festschrift für R. Schmitt, cit., p. 93 ss.; FRISCH, An den Grenzen des Strafrechts, in Festschrift für W. Stree und J.Wessels, cit., p. 104 ss. (21) Cfr. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Milano-TorinoRoma 1913, p. 553 ss.; in precedenza anche BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, vol. I, Leipzig 1872, p. 187 ss. (22) SCHAFFSTEIN, Das Verbrechen als Pflichtverletzung, in Grundfragen der neuen Rechtswissenschaft, Berlin 1935, p. 16 ss.; DAHM, Der Streit um das Rechtsgutsverletzungsdogma, in Deutsches Strafrecht 1937, 335 ss.


— 348 — distinti l’uno dall’altro, ma, comunque, accomunati da un quadro istituzionale di valori riconducibili alla medesima civiltà socio-politica, sottoposta nell’epoca attuale, in un modo abbastanza omogeneo, ad ampi rivolgimenti e profonde trasformazioni culturali e strutturali (23). È emersa una valutazione più attenta da parte dei consociati dei « nuovi » fenomeni criminali, una sensibilità più raffinata nei confronti del problema ambientale, in tutte le sue variegate componenti (aria, acqua, territorio), una maggiore attenzione in rapporto all’utilizzazione delle risorse, una considerazione più accurata della gestione globale dei sistemi produttivi, una consapevolezza più matura che è propria del corretto esercizio delle libertà economiche e di un’equilibrata disciplina dei fattori di produzione e dei meccanismi idonei a garantire una razionale ed equa distribuzione dei redditi, un corretto ed equilibrato sistema fiscale ed una produttiva utilizzazione del gettito dei tributi. Da questo complesso di dati, è fondamentale distinguere situazioni che possono assurgere ad oggetti di tutela penale, da mere finalità che, in un contesto giuspenalistico, possono correttamente assumere la, ben diversa, funzione di rationes di tutela. Dunque, « non sono beni giuridici in senso tradizionale, ma obiettivi di organizzazioni politiche, sociali, economiche... Il diritto penale qui non tutela vittime, ma funzioni » (24). E il rischio dell’assunzione di schemi di tutela di funzioni è quello di trasformare l’illecito penale in un illecito di mera trasgressione (25), che, nei fatti, resta tale, anche se al concetto di funzione si sostituisce quello, nella (23) Si confrontino, ad esempio, le analisi svolte, rispettivamente, da TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht - Einführung und Übersicht, in JuS 1989, 689 ss., BUSTOS RAMIREZ, Manual de derecho penal. Parte especial, Barcelona 1991, p. 264 ss., e FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, Milano 1994, p. 131 ss. (24) Così HASSEMER, Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, in Dei delitti e delle pene 1984, 108; nello stesso senso, cfr. MAZZACUVA, La legislazione penale in materia economica: normativa vigente e prospettive di riforma, in questa Rivista 1987, 509; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, cit., p. 16 ss.; FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, cit., p. 142 ss.; v. anche PADOVANI, Il problema del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, in Dei delitti e delle pene 1984, 119; ID., Tutela dei beni e tutela di funzioni nella scelta fra delitto, contravvenzione e illecito amministrativo, in Cass. pen. 1987, 675-676, che, tuttavia, sullo sfondo della tutela delle funzioni vede pur sempre il bene giuridico in un ruolo di centralità; sul tema cfr. PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, cit., p. 296. (25) Sia pur attraverso argomentazioni, talvolta, abbastanza differenziate, a questo risultato sembra giungere una parte, anche autorevole, della dottrina tedesca, cfr. ZIELINSKI, Handlungs- und Erfolgsunwert im Unrechtsbegriff, Berlin 1973, p. 79 ss.; WEIGEND, Über die Begründung der Straflosidkeit bei Einwillgung des Betroffenen, in ZStW 1986, 54-55; JAKOBS, Strafrecht. Allgemeiner Teil, Berlin-New York 1988, p. 27 ss.; KINDHÄUSER, Strafe, Strafrechtsgut und Rechtsgüterschutz, in AA.VV., Modernes Strafrecht und ultima-ratio-


— 349 — sostanza equivalente, di « bene sociale » proposto da autorevole dottrina (26). Sicuramente siamo di fronte ad una multiforme fenomenologia di comportamenti fortemente connotati da dannosità sociale, tanto più insidiosi, in quanto abituati a nascondersi, per lo più, nel sottobosco del sistema politico-economico, a godere spesso della copertura di un malcostume di interessata tolleranza, se non di diffusa complicità, negli stessi ambiti deputati all’amministrazione della cosa pubblica. Tutto ciò ha dato vita ad un tradizionale privilegio per gli autori di questi fatti, di particolare odiosità; ma lo stato sociale di diritto deve eliminare ogni riserva di immunità, pur senza ricorrere a ritorsioni persecutorie, di natura simbolico-emotiva. Si tratta della disciplina di settori di attualità che, una volta entrati nella sfera di interesse del sistema penale, deve in tutto e per tutto essere soggetta agli stessi principi di fondo che regolano la disciplina degli altri settori (27). L’orientamento di massima per la disciplina di questi settori, pur nelle varie articolazioni all’interno dei singoli ordinamenti, ha assunto delle caratteristiche di fondo comuni, che riguardano sia la tecnica di redazione della fattispecie, sia l’individuazione dell’oggetto della tutela, con il risultato di avere spesso norme pletoriche, di taglio casistico, lontanissime dall’effettiva offesa di un bene giuridico: un esito, questo, totalmente inappagante, e sul piano dell’efficienza e sul piano delle garanzie. In effetti, il naturale adattamento dell’intervento penale alla peculiarità del fenomeno non può mai implicare un adattamento dei principi alle esigenze di controllo, ma sempre il contrario; la relativa « novità » dell’intervento non può giustificare una sua modificazione rispetto alle esigenze del sistema, quale si è venuto delineando intorno ai principi dello stato sociale di diritto. 3. Un settore di indagine molto interessante appare quello relativo all’economia e, al suo interno, la parte che riguarda la finanza pubblica. Prinzip, a cura di K. LÜDERSSEN - C. NESTLER TREMEL - E. WEIGEND, Frankfurt-Bern-New York-Paris 1990, p. 29. (26) Cfr. TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, vol. I, Reinbeck b. H. 1976, pp. 50-51; in proposito, criticamente, VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 87-88. (27) Cfr. sull’argomento VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 88 ss.; WEBER, Konzeption und Grundsätze des Wirtschaftsstrafrechts (einschließlich Verbraucherschutz). Dogmatischer Teil II: Das Wirtschaftsstrafrecht und die allgemeinen Lehren und Regeln des Strafrechts, in ZStW 1984, 381 ss.


— 350 — Vengono in evidenza condotte dannose, di cui non era stata riconosciuta una particolare gravità, come l’evasione fiscale, o che non si erano manifestate in precedenza, come l’abuso nelle pubbliche sovvenzioni. In rapporto a questi fatti, che presentano il tratto comune della sottrazione di risorse pubbliche, si è tentato di sperimentare oggetti di tutela di nuovo conio, che hanno fatto da supporto a soluzioni normative per molti versi inappaganti; mentre, un richiamo ad un bene tradizionale, che nei fatti viene in rilievo in queste ipotesi, avrebbe di molto semplificato le cose. La storia del diritto penale, tra le sue costanti, non presenta affatto l’esplicazione della sua, peraltro naturale, funzione di difesa di beni fondamentali indispensabili per la libera espressione della personalità individuale nel quadro di un corretto sviluppo della vita sociale. Anzi, sovente, assecondando autoritarismi di varia natura, è stata operata una criminalizzazione di fatti innocui o lesivi di beni poco significativi che realizzava una vera e propria aporia e come tale veniva avvertita. Non era possibile giustificare, ad esempio, la discrepanza tra il rigore della disciplina in materia di patrimonio e la mancata adozione di un’efficace strategia per combattere il diffuso e non tollerabile fenomeno della criminalità economica, caratterizzata da una dannosità sociale largamente avvertita, anche in termini patrimoniali, ed i cui esiti apparivano ben più gravi di quelli derivanti dalla commissione di reati patrimoniali tradizionali (28). Può, quindi, affermarsi che, in linea di principio, un’accentuazione dell’intervento punitivo in materia economica ha recepito le istanze di mutamento profondamente avvertite e largamente condivise dai consociati. Le modalità di questi interventi lasciano, tuttavia, perplessi dal punto di vista delle ragioni dello stato sociale di diritto. È vero che gli interessi e le modalità di tutela sono condizionati storicamente, così come i principi ispiratori, ma, fintantoché i principi restano invariati, gli assetti e le modalità di tutela, pur differenziati sotto il profilo della fenomenologia, devono essere coerenti con quei principi. Il diritto penale è, infatti, uno (28) Si faceva interprete di questo stato di cose Baumann, quando affermava: « non sarà un compito facile penalizzare finalmente nell’ambito del diritto penale condotte socialmente dannose, che sconvolgono la comunità più intensamente del furterello di un borseggiatore. Ma questo compito va assolto. Il codice penale non può più essere un codice per i poveri e per gli stupidi, ai quali non viene in mente nulla di meglio che infilare goffamente le mani nelle tasche del prossimo », cfr. BAUMANN, Über die notwendigen Veränderungen im Bereich des Vermögensschutzes (1972), in Strafrecht im Umbruch, Neuwied und Darmstadt 1977, p. 55; considerazioni analoghe furono svolte anche da NUVOLONE, Antinomie fossili e derivazioni nel codice penale italiano (1951), in Trent’anni di diritto e procedura penale, vol. I, Padova 1969, p. 713.


— 351 — strumento notevole di coesione e di credibilità dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, rilevante sia dal punto di vista individuale che collettivo, ma, purché i suoi interventi risultino caratterizzati dall’integrale rispetto delle regole del gioco. Una diversa strutturazione della fattispecie si è, invece, sperimentata per il controllo di condotte offensive di interessi funzionali al benessere della collettività — e, quindi, di ogni persona che ne fa parte — che autorevole dottrina ha definito beni-prestazione: « cioè i beni rappresentati dalle disponibilità economico-finanziarie, senza le quali è impossibile l’assolvimento delle funzioni tipiche di uno stato sociale di diritto, da avvicinare, pertanto, nella tutela, a quelli che compongono il repertorio, per così dire storico e tradizionale di derivazione liberale » (29). Il riferimento oggettivo viene dato da beni quali la corretta gestione economica, la creazione dei presupposti necessari per un razionale svolgimento della vita economica, il corretto funzionamento del sistema economico, l’ordine stabile dell’economia, la regolare percezione dei tributi (30). L’oggetto della tutela di riferimento appare qui essere, sul piano strutturale, a ben vedere, qualcosa di simile all’ordine pubblico ideale, più che un interesse di tipo patrimoniale-economico (31). Al pari dell’ordine pubblico (32), tali beni non sembra possano essere ridotti ad oggetti di tutela; infatti, visti in questi termini, essi appaiono concettualmente inafferrabili, i loro limiti sfuggono ad una chiara delimitazione: in realtà essi non sono oggetti di tutela, ma rationes di tutela (33). Ciò significa che la loro utilizzazione, in quanto oggetti di tutela, è proponibile solo a costo di accettare la concezione metodica del bene giuridico, che, come è noto, costituisce uno schema mentale riassuntivo per esprimere il significato e lo (29) Cfr. ROMANO, Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, cit., p. 189 nota; v. anche ID., Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice penale italiano, in AA.VV., Teoria e prassi della prevenzione generale, a cura di M. ROMANO e F. STELLA, Bologna 1990, p. 173; ID., Osservazioni sul nuovo diritto penale tributario, in Dir. e prat. trib. 1983, I, 740; ID., Legislazione penale e consenso sociale, in Jus 1983, 425; nello stesso senso anche CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Padova 1988, p. 637 ss. (30) Cfr. PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, cit., p. 19 ss.; ROMANO, Diritto penale in materia economica, cit., p. 190 ss. (31) Cfr. PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, cit., pp. 303-304. (32) Ci sia consentito, in proposito, il rinvio al nostro Ordine pubblico, in Enc. giur. Treccani, vol. XXII, Roma 1990, p. 2 ss. (33) Come riconosce lo stesso PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, cit., pp. 303-304. (34) Cfr. HONIG, Die Einwilligung des Verletzten, vol. I, Mannheim-Berlin-Leipzig 1919, p. 94; SCHWINGE, Teleologische Begriffsbildung im Strafrecht, Bonn 1930, pp. 21, 95;


— 352 — scopo dei singoli precetti (34), per individuare, cioè, la ratio legis delle singole fattispecie. Questa impostazione, in realtà, vanifica il concetto di bene giuridico che è, invece, indispensabile per la costruzione del reato in termini di garanzie formali e sostanziali. Si finisce, così, per favorire la proliferazione di oggetti di tutela fittizi, che avallano scelte di criminalizzazione ipertrofica (35). Ben altra, invece, è la funzione del concetto di ratio, considerato autonomamente rispetto a quello di bene: un tale concetto, infatti, è in grado di adempiere, se correttamente adoperato, almeno a due funzioni fondamentali. Innanzitutto, va utilizzato per una sistematizzazione della parte speciale improntata a criteri di razionalità e di efficienza; esso, inoltre, è uno strumento indispensabile per l’interpretazione teleologica delle norme e per la ricostruzione del sistema. Anche da un punto di vista politico-criminale l’utilizzazione della ratio in termini di oggetto di tutela non soltanto è inadeguata, ma anche pericolosa per le garanzie individuali. In questa prospettiva essa risulta incapace, per la sua stessa natura, di offrire una nozione significativa di bene e, pertanto, appare assolutamente inidonea a svolgere una funzione di delimitazione dell’intervento statuale in materia penale. Infatti, la difesa del « bene-ratio » porta alla criminalizzazione di condotte che possono pur essere contrarie alla ratio di una o più disposizioni, ma, invero, sono lontanissime dall’effettiva lesione del bene che la condotta mira in realtà ad aggredire. Pertanto, non ci sembra proficuo il ricorso ai cosiddetti « beni-prestazione » (36). Tali beni sembrano rappresentare, in sostanza, delle abbreviazioni, di tipo concettualistico, delle varie finalità, per il soddisfacimento delle quali si costituisce, si mantiene o si incrementa il patrimonio

GRÜNHUT, Methodische Grundlagen der heutigen Strafrechtswissenschaft, in Festgabe für R. Frank, vol. I, Tübingen 1930, p. 8, a cui si deve la nota definizione del bene giuridico come « Abbreviatur des Zweckgedankens ». Sulla concezione metodica del bene giuridico cfr., per tutti, STELLA, La teoria del bene giuridico e i cd. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista 1973, 3 ss.; AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt am Main 1973, p. 130 ss. (35) Per una decisa, autorevole difesa della funzione critica del bene giuridico, fondata sulla sua accentuata dimensione garantistica cfr. HASSEMER, Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, cit., 112-113; ID., Symbolisches Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in NStZ 1989, 353 ss. (36) Sul punto cfr. anche INSOLERA, Reati artificiali e principio di offensività: a proposito di un’ordinanza della Corte Costituzionale sull’art. 1, IV comma l. n. 516 del 1992, in questa Rivista 1990, 736 ss.


— 353 — dello Stato o, comunque, di soggetti superindividuali (37). Le singole prestazioni possono, invero, costituire oggetto di un interesse da tutelare, anche penalmente, ma i titolari saranno i veri destinatari delle stesse e non lo Stato che, nelle persone dei titolari degli uffici o delle specifiche mansioni, rivestirà, in caso di mancata o carente corresponsione della prestazione, la qualifica di soggetto attivo e non, certamente, di titolare dell’interesse. Quest’ultima qualifica potrà essere rivestita dagli organi statuali soltanto nel momento in cui essi verranno ad essere intralciati in rapporto alla tutela di quegli interessi, di tipo patrimoniale, che li pongano nella condizione di esplicare la loro funzione in un ambito che richiede l’impiego di risorse economiche. Se si perde di vista la dimensione patrimoniale e si utilizzano beni di scarsa afferrabilità, come la tutela del corretto funzionamento del sistema economico o di un programma di politica economica, individuando, ad esempio, l’offesa dell’abuso nelle sovvenzioni o dell’evasione fiscale in termini di intralcio a determinati obiettivi programmatici (38) — il che è pur presente — e non in termini di quantità di risorse sottratte indebitamente all’ente erogatore o allo Stato, l’offesa si diluisce e si fa sfuggente, la sua stessa natura rende ardua l’individuazione di precisi correlati fenomenici. Il legislatore dovrà, allora, ripiegare su fasi preliminari dell’iter criminoso, impostando la fattispecie su di una vasta tipologia di comportamenti, astraendo, quindi, da una rilevazione delle conseguenze dannose o pericolose, per concentrare l’incriminazione su schemi di comportamento, che l’esperienza segnala come atti ad incidere negativamente sugli interessi che si intendono tutelare. Le conseguenze nocive verrebbero, al più, confinate su di un piano esclusivamente psicologico, come oggetti di dolo specifico; ma potranno anche restare del tutto estranee alla fattispecie legale astratta. Si ritorna, dunque, ad affidare alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria (39). Non si tratta, infatti, di colpire manifestazioni concretamente dannose o pericolose, ma di rafforzare col deterrente pe(37) Cfr. in proposito PADOVANI, La problematica del bene giuridico e la scelta delle sanzioni, cit., 116-117. (38) Sul tema cfr., per tutti, TIEDEMANN, La recente evoluzione del diritto penale dell’economia in Germania con particolare riferimento al diritto penale delle società commerciali, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, cit., p. 119; PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, cit., p. 305 ss. (39) Sul punto, per tutti, limpidamente PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, in Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale. Studi in onore di G. Vassalli, vol. I, Milano 1991, p. 634.


— 354 — nale una disciplina preventiva già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo (40). A parte le obiezioni tradizionali a questa concezione della norma, va qui messo in risalto il fatto che le fattispecie di questo tipo assumono un’intonazione formalistica (41), che non risale alla condotta partendo da un evento di danno o di pericolo, ma si sforza di cogliere, sulla base dell’esperienza, le manifestazioni salienti dell’attività lesiva. La norma è inevitabilmente lacunosa, di qui una tendenza alla proliferazione delle fattispecie in funzione preventiva — come avviene per le disposizioni penali che disciplinano la materia penale tributaria in Italia (42) — o alla creazione, sempre in funzione preventiva, di fattispecie pletoriche, ridondanti, di taglio casistico — come si verifica per le norme del codice penale tedesco che puniscono fatti di truffa nel credito e di truffa nelle sovvenzioni (43), ma questa caratteristica contrassegna anche la già richiamata normativa italiana di diritto penale tributario. Si tratta di esiti che si pongono in un contrasto pressoché insanabile con le acquisizioni di una politica criminale razionale e garantista, ma anche di una tecnica legislativa adeguata a quest’ultima. Allo scopo può anche risultare funzionale lo schema della norma penale in bianco (44) — di largo impiego nell’ambito della legislazione a tutela dell’ambiente (45) —; essa, come è noto, è posta a presidio di precetti emanati da organi non legislativi; si tratta di riempire spazi vuoti della norma penale attraverso prescrizioni ed autorizzazioni amministrative, cioè provvedimenti di rango inferiore. Vengono così a costituirsi dei veri e propri precetti individualizzati, modellati sulle particolari esigenze di ogni situazione concreta. La duttilità di questo genere di disciplina presenta sicuramente notevoli vantaggi, ma non si capisce perché questo tipo di precetto, che dà anche vita ad enormi problemi sul piano della legalità, non debba essere accompagnato da una sanzione amministrativa, lasciando il (40) Cfr. sul tema FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, cit., p. 153 ss., con ulteriore ampia bibliografia. (41) Cfr. in proposito PEDRAZZI, L’evoluzione del diritto penale economico, in Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale. Studi in onore di G. Vassalli, vol. I, cit., p. 621. (42) V. infra, p. 19 ss. (43) V. infra, p. 16 ss. (44) Cfr. sull’argomento SGUBBI, Il reato come rischio sociale, cit., p. 59 ss. (45) Cfr., ad esempio, artt. 21 comma 1, 2, 3; 22; 23; 23 bis l. 10 maggio 1976 n. 319 e successive modifiche, in materia di inquinamento idrico; artt. 25 comma 1, 2, 3; 26, 27 comma 1, 2; 29 comma 1, 2 d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, in materia di smaltimento di rifiuti; art. 20 lettera a, l. 28 febbraio 1985, n. 47 in materia di urbanistica.


— 355 — diritto penale al riparo dai gravi rischi connessi alle aporie sistematiche (46). Tra i possibili modelli di norma penale la tradizione dello stato di diritto privilegia, com’è noto, quello che si sforza di esprimere una regola di condotta facilmente comprensibile dai consociati e agevolmente accertabile sul piano della verifica giudiziaria (47). Ciò ha luogo con una fattispecie imperniata su di un risultato esteriore rispetto alla condotta del soggetto, nel quale si esprima la dannosità sociale del fatto; esso potrà configurarsi come evento di danno o di pericolo, quando si voglia realizzare una tutela più avanzata di interessi ritenuti di particolare significatività. Ma sarà, in ogni caso, un evento di danno o di pericolo concreto da accertare caso per caso. Una volta che si sia ben delineato l’evento, emergerà nei suoi contorni definiti la condotta tipica e l’elemento soggettivo assumerà una evidente nota di disvalore: la previsione e la volontà del danno o del pericolo. Questo tipo di norma presenta il pregio della chiarezza che agevola non poco la possibilità di recezione da parte dei consociati, anche perché, in rapporto alla loro redazione, tendenzialmente il linguaggio adoperato più si avvicina a quello della realtà sociale. 4. La costruzione di una norma così delineata, adeguata ad una prospettiva garantistica, oltre alla cura particolare sotto il profilo della determinatezza/tassatività, esige un’affidabile ricostruzione strutturale del bene giuridico. Un primo referente che opera per la corretta ricostruzione dell’oggetto della tutela penale, è dato dal fatto che, in un assetto normativo-istituzionale espressivo dei valori dello stato sociale di diritto, l’ordinamento deve risultare funzionale alla tutela della libertà e personalità dell’individuo, nel contestuale rispetto di prerogative superindividuali. Vanno, allora, privilegiate le esigenze, solidaristicamente connotate, di una vita di relazione in una società vista non come un’entità statica, ma in costante evoluzione; pertanto, il bene va considerato nel suo rapporto, in termini (46) Per un’acuta, originale indagine sull’incompatibilità della norma penale in bianco con il contesto ordinamentale dello stato sociale di diritto, fondata su di un argomento teleologico relativo alla funzione della pena, cfr. MAIELLO, Dogmatica e politica criminale nelle interpretazioni in tema di riserva di legge: a proposito di un’ipotesi di depenalizzazione « giurisprudenziale », in Arch. pen. 1988, 381 ss. (47) Sull’argomento si vedano le fondamentali considerazioni svolte da VOLK, Wahrheit und materielles Recht im Strafprozeß, Konstanz 1980, p. 29 ss.


— 356 — di interesse, con il titolare: esso va visto in funzione dello sviluppo, dell’espressione della personalità nella società civile (48). La funzione del bene non si esaurisce in un « esserci » meramente statico, ma si compie nel fatto che esso apre al titolare effettive e concrete possibilità di realizzazione delle proprie finalità (49), secondo la tradizione dello stato sociale di diritto (50); ragion per cui, in questo contesto, la dimensione dell’interesse, nel senso dell’attitudine del bene a soddisfare le esigenze del titolare, pretende una decisa valorizzazione, proprio perché diviene il presupposto per aprire il bene a quelle prospettive di funzione sociale, che passano attraverso la relazione individuo-oggetto dell’interesse (51). Si tratta, dunque, di « situazioni di valore offendibili e tutelabili » (52), la cui difesa si pone come compito fondamentale del diritto penale dello stato sociale di diritto. Questa impostazione non postula un’idea sistematica di valore assolutamente pre-data, in base alla quale ricostruire un ordine normativo in via assiomatico-deduttiva. Si vuole configurare un sistema « aperto », che sia, cioè, capace di adattarsi alle concrete contingenze della tutela penale, tenendo effettivamente presente la realtà entro cui va ad operare. Le valutazioni ordinamentali non sono, dunque, cristallizzate in un modulo normativo immodificabile, ma attraverso le clausole generali, di livello costituzionale, della difesa dei diritti fondamentali, è possibile un loro adeguamento all’evoluzione dei rapporti sociali. (48) Cfr. sul tema RUDOLPHI, Die verschiedenen Aspekte des Rechtsgutsbegriffs, in Festschrift für R. M. Honig, Göttingen 1970, p. 150 ss., che si ricollega all’elaborazione di WELZEL, Studien zum System des Strafrechts (1939), in Abhandlungen zum Strafrecht und zur Rechtsphilosophie, Berlin-New York 1975, p. 140 ss. (49) Cfr. M. MARX, Zur Definition des Begriff « Rechtsgut ». Prolegomena einer materialen Verbrechenslehre, Köln 1972, p. 62 ss.; la concezione personalistica del bene è stata recentemente ripresa da Arthur KAUFMANN, Vorüberlegungen zu einer juristischen Logik und Ontologie der Relationen, in Rechtstheorie 1986, 257 ss., e HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, cit., p. 94 ss.; per la dottrina italiana cfr. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in questa Rivista 1992, 463 ss. A quest’ordine di idee può essere riportata, nell’ambito della dottrina spagnola, la posizione di SILVA SANCHEZ, Aproximaciòn al Derecho penal contemporàneo, Barcelona 1992, p. 268 ss. (50) Cfr. in proposito MAIHOFER, Rechtstaat und menschliche Würde, Frankfurt am Main 1968, passim, spec. pp. 108 ss., 153 ss. (51) Si veda sull’argomento OTTO, Rechtsgutsbegriff und Deliktstatbestand, in AA.VV., Strafrechtsdogmatik und Kriminologie, a cura di H. MÜLLER-DIETZ, Köln-BerlinBonn-München 1971, p. 3 ss. (52) Così ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, cit., p. 13.


— 357 — Un forte legame tra quest’ultima e le regole ordinamentali rappresenta il presupposto essenziale per l’elaborazione di un sistema che, prescindendo da incerte prospettive di tipo ontologico, si ponga obiettivi di reale effettività, oltre che di legittimità, esprimendo una logica chiaramente comprensibile da parte dei destinatari (53). Un tale risultato può essere ottenuto soltanto con l’enucleare le effettive esigenze di tutela dovute allo sviluppo dei rapporti sociali, apprestando per esse una disciplina adeguata ai principi fondamentali. Ciò implica una incisiva correzione di assetti di tutela — sovente una vera e propria rifondazione — che appaiono obsoleti, al fine di porre rimedio sia all’eccesso che al difetto di tutela in rapporto alle esigenze del presente: esemplare appare la vicenda dei fatti tradizionali contro il patrimonio (54). L’esistenza di uno scarto tra esigenze di tutela ed assetto normativo, impone, dunque, sovente, profondi interventi di riforma, compresa l’introduzione di nuove fattispecie di reato. Se, infatti, l’imporsi dei principi di sussidiarietà, frammentarietà, proporzione, nonché la valorizzazione di prospettive di efficienza, spinge ad una riconsiderazione globale della normativa nel senso dell’arretramento della soglia dell’intervento penale, ciò non può escludere il fatto che l’evoluzione dei rapporti sociali possa esigere l’attenzione del legislatore penale nei confronti di fenomeni connotati da dannosità sociale che non erano stati presi in considerazione — o lo erano stati in maniera inadeguata —, perché non avevano ancora, oggettivamente, assunto una caratteristica di gravità che rendesse consigliabile l’attivazione dello strumento penale, o perché, infine, non si erano affatto verificati in precedenza (55). E questa appare la situazione dei settori relativi ad ambiente ed economia collegati ad interessi individuali e superindividuali, la cui significatività appare esaltata in un contesto ordinamentale di stato sociale di diritto. In rapporto a queste materie appare auspicabile l’inserimento di alcune fattispecie — creandole ex novo o modificando quelle già esistenti — (53) Cfr. ROXIN, Einige Bemerkungen zum Verhältnis von Rechtsidee und Rechtsstoff in der Systematik unseres Strafrechts, in Gedächtnisschrift für G. Radbruch, Göttingen 1968, p. 265 ss. (54) Cfr. sul tema il nostro Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 14 ss. (55) Sul punto cfr. ROXIN, Zur Entwicklung der Kriminalpolitik seit den Alternativentwürfen, in JA 1980, 547; MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dogmatiche e politico-criminali, in AA.VV., Il diritto penale in trasformazione, a cura di G. MARINUCCI e E. DOLCINI, Milano 1985, p. 200.


— 358 — nel codice penale (56). Da un lato, infatti, la loro conoscenza da parte dei consociati risulta sicuramente agevolata; dall’altro, tale inserimento ha una significativa valenza in termini di prevenzione integratrice (57), in quanto serve a correggere la, ancora abbastanza diffusa, erronea opinione che tali fatti, spesso gravissimi sul piano della dannosità sociale, costituiscano dei Kavaliersdelikte, specialmente per quel che concerne i reati contro l’economia; mentre, per quanto riguarda i fatti contro l’ambiente, essi siano visti quasi come una fatale conseguenza del progresso scientifico e tecnologico. 5. Da un punto di vista della tecnica di normazione (58), l’aspirazione è verso una tutela penale sussidiaria e frammentaria — dunque strettamente connessa all’azione di tutela di altri settori dell’ordinamento —, espressa attraverso norme redatte secondo criteri di chiarezza, semplicità ed anche consapevolmente collegate, nella loro matrice finalistica, in un rapporto di funzionale organicità. Ciò implica l’individuazione e l’inquadramento in tipologie fondamentali sia degli oggetti da tutelare che delle modalità di aggressione da sanzionare. A questi criteri non sembrano ispirarsi — volendo esemplificare — né le disposizioni del codice penale tedesco in tema di truffa nelle sovvenzioni, § 264 StGB, né il reticolo normativo predisposto dal legislatore italiano in tema di evasione in materia d’imposte sui redditi e sul valore aggiunto, l. 7 agosto 1982 n. 516 modificata dalla l. 15 maggio 1991 n. 154. Il § 264 StGB rappresenta, in un certo senso, l’archetipo delle fattispecie relative alla truffa nelle sovvenzioni, via via inserite nei vari ordinamenti. Si tratta di una fattispecie di pericolo astratto, improntata, quindi, (56) Sul tema, per tutti, cfr. C. FIORE, Prospettive di riforma: il ruolo della legislazione speciale, in Dem. dir. 1977, 689 ss. (57) Nel senso della componente positiva della prevenzione generale secondo l’indicazione di ROXIN, Zur jüngsten Diskussion über Schuld, Prävention und Verantwortlichkeit im Strafrecht, in Festschrift für P. Bockelmann, München 1979, p. 306. (58) Sulle tematiche attinenti alla tecnica della legislazione, con particolare riferimento alla materia penale, rappresentano un referente imprescindibile i lavori di Peter NOLL, Prinzipien der Gesetzgebungstechnik, in Festschrift für O.A. Germann, Bern 1969, p. 63 ss.; ID., Gesetzgebungslehre, Reinbeck b. H. 1973, passim; ID., Wert und Wirklichkeit (Zur Möglichkeit rationaler Wertentscheidung in der Gesetzgebung), in Festschrift für H. Schelsky, Berlin 1978, p. 353 ss.; ID., Strafrechtsweissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW 1980, 73 ss.; ID., Symbolische Gesetzgebung, in ZfSchwR 1981, 347 ss.; ID., Über die soziale Wirksamkeit von Gesetzen, in AA.VV., Schweizerische Beiträge zur Rechtsoziologie, a cura di M. REHBINDER, Berlin 1984, p. 65 ss.


— 359 — a criteri estremamente formali e posta a presidio, secondo l’autorevole indicazione di Tiedemann (59), il suo artefice, della libera pianificazione statale in materia economica (60); dato il valore emblematico del § 264 StGB, conviene riportarne il testo: § 264 - Truffa nelle sovvenzioni (Subventionsbetrug) 1) È punito con pena detentiva fino a cinque anni o con pena pecuniaria chi: 1) fornisce dati falsi o incompleti, vantaggiosi per sé o altri intorno a fatti rilevanti ai fini di una sovvenzione, ad un’autorità competente per la concessione di una sovvenzione o ad altro ufficio o persona inseriti nel procedimento di sovvenzione o ad altro ufficio o persona inseriti nel procedimento di sovvenzione (sovvenzionatore); 2) nasconde al sovvenzionatore, contrariamente alle prescrizioni di legge sulla concessione di sovvenzioni, fatti rilevanti ai fini di una sovvenzione, oppure 3) usa, in un procedimento di sovvenzione, un certificato relativo ad autorizzazione ad una sovvenzione o a fatti rilevanti ai fini di una sovvenzione, ottenuto attraverso la prestazione di dati errati o incompleti. 2) In casi particolarmente gravi la pena è detentiva da sei mesi a dieci anni. Di regola un caso si presenta particolarmente grave quando l’autore: 1) per smodato interesse personale o servendosi di documenti falsi o contraffatti, ottiene per sé o per altri, indebitamente, una sovvenzione di rilevante importo; 2) abusa dei suoi doveri o della sua posizione di pubblico funzionario, oppure 3) si serve dell’aiuto di un pubblico funzionario che abusa dei suoi poteri o della sua posizione. 3) Chi, nei casi previsti dal comma 1, nn. 1 e 2, agisce con colpa grave (Leichtfertigkeit) è punito con pena detentiva fino a tre anni o con pena pecuniaria. 4) Non è punito, ai sensi dei commi 1 e 3, chi spontaneamente impedisce che la sovvenzione sia concessa sulla base del fatto di reato. Se la (59) Cfr. TIEDEMANN, Der Subventionsbetrug, in ZStW 1974, 910 ss.; per una ricostruzione dell’oggetto della tutela in termini patrimoniali cfr. MAIWALD, Besprechung a D. SANNWALD, Rechtsgut und Subventionsbegriff, in ZStW 1984, 78. (60) L’inserimento di una norma di questo tipo fu auspicato in Italia da autorevole dottrina, cfr. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, cit., p. 32 ss.; ROMANO, Diritto penale in materia economica, cit., p. 212 ss.; FLICK, Problemi attuali e profili costituzionali del diritto penale d’impresa, in questa Rivista 1983, 436.


— 360 — sovvenzione, senza l’intervento dell’autore, non è concessa, questi va esente da pena, se spontaneamente e seriamente si attiva per impedire la concessione della sovvenzione. 5) Per i fatti di cui ai commi 1 e 2 il giudice, oltre alla pena detentiva di almeno un anno, può infliggere l’interdizione dai pubblici uffici e la perdita dei diritti elettorali (§ 45, comma 2). Gli oggetti attinenti al fatto di reato possono essere confiscati; va applicato il § 74a. 6) Sovvenzione ai sensi di questa disposizione è una prestazione data con fondi pubblici, secondo il diritto federale o dei Länder, ovvero secondo il diritto delle Comunità europee ad una azienda o ad un’impresa che, almeno in parte, 1) sia concessa senza le controprestazioni del libero mercato e 2) debba servire alla promozione dell’economia. Azienda o impresa nel senso della prima proposizione è anche la pubblica impresa. 7) Rilevanti ai fini di una sovvenzione nel senso del comma 1 sono fatti che 1) per una legge o sulla base di una legge sono indicati dal sovvenzionatore come rilevanti ai fini di una sovvenzione, oppure 2) quelli da cui dipende, per legge, l’autorizzazione, la concessione, la richiesta di rimborso, il rinnovo o la proroga di una sovvenzione o il profitto di una sovvenzione. Già prima facie questa fattispecie si segnala per la lontananza della condotta dall’offesa al bene in questione, ma, soprattutto, per la tecnica di redazione adottata, estremamente problematica dal punto di vista ermeneutico, con ampie possibilità di errore. Tale norma presenta allineate in maniera confusa, se non intrecciate, definizioni tecnico-amministrative, elementi normativi, ipotesi di reato, circostanze aggravanti, figure di non punibilità, cause di maggiore o minore punibilità. Si tratta in definitiva di una norma pletorica, ridondante, pedantemente casistica e, quindi, carente anche sotto il profilo della determinatezza. Essa rappresenta, invero, il contrario di come dovrebbe essere una norma penale che, privilegiando la sintesi, deve immediatamente rappresentare, con chiarezza, il fatto nei suoi termini reali di dannosità sociale (61). (61) In Italia, in tempi più recenti, si è provveduto a disciplinare il fenomeno dell’abuso nelle sovvenzioni, con l’introduzione nel codice penale di due nuove fattispecie di danno, l’art. 640 bis (art. 22 l. 55/1990) e l’art. 316 bis (art. 3 l. 86/1990) (cfr., per tutti, COPPI, Appunti in tema di « malversazione a danno dello Stato » e di « truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche », in Studi in onore di G. Vassalli, vol. I, cit., p.


— 361 — Per quanto riguarda la normativa penale tributaria italiana richiamata, essa esprime un modello, del tutto negativo, di amministrativizzazione della tutela penale opposto a quello della difesa di beni giuridici (62); va subito detto che questa è una caratteristica che impronta tutta la legislazione penale fiscale italiana, ben al di là, quindi, della materia relativa alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (63). Sotto il profilo contenutistico vengono, infatti, criminalizzati atti solo prodromici all’evasione (64) (art. 1 comma 1 l. 516/82 in tema di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o della dichiarazione I.V.A.), che, talvolta, possono essere anche non univocamente diretti all’evasione, come infrazioni relative a scritture contabili, dichiarazioni, annotazioni (65) (art. 1 comma 2 lettere a) e b) e art. 1 comma 6 l. 516/82, che dispone: « si considerano non tenute le scritture contabili non bollate e non vidimate per almeno due anni consecutivi »). Può anche verificarsi l’ipotesi di pagamento dell’imposta e realizzazione di una figura di reato: si pensi, ad esempio, al reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o della dichiarazione I.V.A., di cui all’art. 1 comma 2 l. 516/82; la formula legislativa rende configurabile l’ipotesi di reato, a prescindere dall’ammontare del tributo evaso, per cui il fatto sussiste anche in mancanza di evasione d’imposta: basti considerare l’ipotesi di avvenuto 549 ss.). La prima, collocata fra i fatti contro il patrimonio, disciplina ipotesi di truffa aggravata per il conseguimento di pubbliche erogazioni concesse dallo Stato, da altri enti pubblici e dalle Comunità europee. La seconda fattispecie, malversazione a danno dello Stato, è un esempio deprecabile di sciatteria da parte del legislatore (sul punto cfr. PADOVANI, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, in Corriere giuridico 1990, 540); pur essendo, infatti, inserita tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, essa disciplina, in realtà, il fatto di un soggetto estraneo alla pubblica amministrazione che distrae i finanziamenti, legittimamente ottenuti, non destinandoli alla realizzazione di pubbliche finalità. Si tratta, a nostro avviso, di un’ipotesi rapportabile al tipo dell’infedeltà che avrebbe trovato una sede più adeguata nell’ambito dei reati contro il patrimonio. (62) Cfr., in proposito, per tutti, PADOVANI, Problemi generali e analisi delle fattispecie previste dai nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 4 legge 516/82, in AA.VV., Responsabilità e processo penale nei reati tributari, a cura di C.F. GROSSO, Milano, 1982, p. 190 ss. (63) Un quadro sintetico ed efficace delle opzioni normative fondamentali e degli orientamenti giurisprudenziali è offerto dal lavoro di CARACCIOLI, Tutela penale del diritto di imposizione fiscale, Bologna 1992. (64) Cfr. sull’argomento ROMANO, Osservazioni sul nuovo diritto penale tributario, cit., 755-756; GROSSO, Le contravvenzioni previste dall’art. 1 l. 516/82, in AA.VV., Responsabilità e processo penale nei reati tributari, cit., p. 135 ss. (65) Sul punto cfr. FLORA, La l. n. 516/82 otto anni dopo: orientamenti giurisprudenziali e modifiche legislative, in Riv. trim. dir. pen. ec. 1991, 443 ss.


— 362 — versamento dell’imposta autoliquidata non seguito dall’invio della dichiarazione (66). Dal punto di vista della tecnica di normazione, il processo di amministrativizzazione si manifesta ancora più evidente: essa, infatti, appare fortemente indiziata dalla tecnica normativa propria del diritto tributario. È sufficiente scorrere il testo della legge per trovare riferimenti a concetti di natura squisitamente tecnico-tributaristica: « redditi fondiari », « ricavi », « corrispettivi » (art. 1 comma 1 l. 516/82); « redditi fondiari e di capitale, redditi d’impresa » (art. 1 comma 2 n. 2 l. 516/82); « periodo d’imposta » (art. 2 comma 1 e 2 l. 516/82), perfino « metodi d’impostazione contabile » (art. 1 comma 4 lettera d) l. 516/82); sono concetti di competenza del diritto tributario e non del diritto penale (67). Tutto ciò ha comportato l’adozione di una tecnica di normazione di taglio casistico, che ha come immediata conseguenza negativa quella di rendere estremamente disorganica la legislazione (68). Si consideri soltanto l’art. 1 l. 516/82 che, tra testo ed integrazioni, occupa quasi dieci colonne del codice, risulta diviso in ben sei commi, il secondo ed il quarto dei quali sono a loro volta suddivisi, rispettivamente in tre e quattro parti: se c’è una lettura difficile anche per un penalista esperto — figuriamoci per un normale cittadino — è certo quella di tale norma, ma questo non è un caso isolato in materia penale tributaria (69). Questo stato di cose — com’è facilmente intuibile —, oltre che in rapporto alla definizione e percezione delle condotte in termini di vera e propria dannosità sociale, crea problemi non facilmente superabili quanto al rispetto dei principi di certezza del diritto, di eguaglianza e di legalità. 6. Indubbiamente i tipi che vengono in considerazione in materia di tributi e di sovvenzioni pubbliche si riferiscono ad una fenomenologia molto ampia e diffusa, che presenta una elevatissima cifra oscura ed una notevole dannosità sociale sotto il profilo patrimoniale. Come si è visto, da un lato, si tratta di condotte di captazioni abusive che si verificano in (66) Cfr. sul tema ASSUMMA, I delitti tributari, Firenze 1985, p. 9 ss. (67) Cfr. sul punto, per tutti, DASSANO, I principi generali del reato tributario, Torino 1989, p. 167 ss. (68) In proposito cfr. CERQUETTI, Reati tributari, in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano 1987, pp. 1046-1047; INSOLERA, Reati artificiali e principio di offensività, cit., 741. (69) Si pensi anche ai ventidue commi dell’art. 3 d.l. 20 dicembre 1984, n. 853, recante disposizioni in materia di imposta sul valore aggiunto e di imposte sul reddito e disposizioni relative all’amministrazione finanziaria, di cui il primo distinto in cinque lettere ed il dodicesimo in tre lettere, o addirittura ai trentuno commi dell’art. 2 dello stesso provvedimento legislativo.


— 363 — quell’ambito molto ampio di erogazioni di danaro pubblico a favore di privati sotto forma di finanziamenti, sovvenzioni, premi o contributi; dall’altro, degli innumerevoli artifici escogitati e posti in essere per evadere la corresponsione di tributi, ma anche delle diffusissime, non meno dannose, mere omissioni della corresponsione dei tributi. Entrambe le tipologie comportamentali presentano anche una forte carica criminogena, sia perché fanno da supporto ad ulteriori fenomeni criminosi di considerevole gravità, come fatti di corruzione, di falsificazione di atti, e così via; sia perché stimolano negli altri operatori riflessi di ordine ora imitativo, ora difensivo (70). Si tratta, sotto il profilo del tipo, di condotte essenzialmente fraudolente che per caratteristiche strutturali, diffusività, disvalore, esigono fattispecie codicistiche da strutturare, per le ipotesi fondamentali, secondo il modello della truffa, ma con fattispecie di danno, a cui potrebbero aggiungersi due fattispecie d’infedeltà, sia nel caso di mancata corresponsione del tributo da parte del sostituto d’imposta, che nel caso di chi distragga fondi legittimamente ottenuti tramite una sovvenzione. Il bene di riferimento, anche per queste ipotesi, va individuato nel patrimonio, come per la fattispecie tradizionale di danno della truffa ai danni dello Stato, da intendersi, come vedremo, in una accezione che armonizzi il dato della perdita effettiva di risorse con quello dello sviamento di fondi pubblici ovvero della vanificazione dell’interesse pubblico connesso alla prestazione economico-finanziaria (71). E questa, in linea di massima, sembra la caratteristica della soluzione normativa adottata dal legislatore spagnolo in tema di tributi e di sovvenzioni, agli artt. 349 e 350, introdotti nel codice penale nel 1985; all’art. 349, in materia penale tributaria, è stato aggiunto l’art. 350 bis, che disciplina alcune figure di condotte prodromiche all’evasione che, probabilmente, avrebbero trovato una più felice collocazione in una sede extrapenale (72). Ciò implica il superamento delle concezioni tradizionali di patrimo(70) Cfr. sull’argomento, per tutti, TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, vol. I, cit., p. 25; ID., Subventionskriminalität in der Bundesrepublik. Erscheinungsformen, Ursachen, Folgerungen, Reinbeck b.H. 1974, pp. 357-358. (71) Privilegia quest’ultima prospettiva TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, vol. I, cit., p. 106. (72) Il bene giuridico alla base dei reati contro la « Hacienda publica » viene ricostruito da una parte della dottrina in termini di « ordine economico », cfr., ad esempio, MUa ÑOZ CONDE, Derecho penal. Parte Especial, 8 ed., Valencia 1990, p. 791; MARTINEZ PEREZ, Teoria general de los delitos contra la Hacienda Publica, in Comentarios a la Legislaciòn


— 364 — nio a vantaggio di una visione del patrimonio quale unità strutturata secondo le esigenze del titolare; le prime, pur nella diversità delle varie articolazioni, presentano, infatti, il dato comune di considerare il patrimonio in termini statici di mera somma di singole componenti (73). Siano esse diritti soggettivi, come per la concezione giuridica (74), siano esse oggetti aventi un valore economico di scambio sui quali basta esercitare una mera signoria di fatto, come per la concezione economica (75), siano esse, infine, oggetti aventi valore economico sui quali si esercita una signoria non disapprovata dall’ordinamento giuridico, come per la più diffusa variante della concezione giuridico-economica (76), il risultato non cambia. In tutte queste teorizzazioni manca il riconoscimento di quella dimensione personale che cementa le singole parti, ne fa un tutto organico e, soprattutto, conferisce ad esso una dimensione di valore che supera quella derivante dalla somma delle singole componenti (77), realizzando « una concreta unità funzionale », tesa ad assicurare al titolare « un ambito di presenza in un campo di azione economico » (78). In questa prospettiva, tutela del patrimonio viene a significare tutela Penal, Tomo VII, Delitos contra el segreto de las comunicaciones. Delitos contra la Hacienda Publica, Madrid 1986, p. 101 ss. Per una dimensione di tipo fondamentalmente patrimoniale, con particolare riferimento alla materia tributaria cfr. BUSTOS RAMIREZ, Bien juridico y tipificaciòn en la riforma de los delitos contra la Hacienda Publica, in Box Reig-Bustos Ramirez, Los delitos contra la hacienda publica. Bien juridico y tipos legales, Madrid 1987, pp. 21-22; cfr. RODRIGUEZ DEa VESA, Derecho penal espanol. Parte especial, 13 ed. a cura di A. SERRANO GOMEZ, Madrid 1990, p. 576 ss.; ravvisa mera dimensione patrimoniale nella frode nelle sovvenzioni ARROYO ZAPATERO, Delitos contra la hacienda publica en materia de subvenciones, Madrid 1987, p. 95. (73) Sul tema cfr. il nostro Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 47 ss. (74) Cfr., per tutti, BINDING, Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts. Besonderer Teil, vol. I, Leipzig 1902, p. 238 ss.; DELOGU, Il momento consumativo della truffa, in Giur. Comp. Cass. Pen. 1944, 68 ss. (75) Cfr., per tutti, RG, 44, 223; HEGLER, Betrug, in Vergleichende Darstellung des Besonderen Teils, vol. VII, Berlin 1907, p. 426 ss.; BETTIOL, Concetto penalistico di patrimonio e momento consumativo della truffa (1947), in Scritti giuridici, vol. II, Padova 1966, p. 713 ss. (76) Cfr. GALLAS, Der Betrug als Vermögensdelikt, in Festschrift für E. Schmidt, Aalen 1961, p. 401 ss.; WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, Berlin-New York 1969, p. 372; CRAMER, Vermögensbegriff und Vermögensschaden im Strafrecht, Bad Homburg-Berlin-Zürich 1968, p. 100 ss.; RANIERI, Considerazioni sui delitti contro il patrimonio, in Sc. pos. 1966, 525 ss., e, sostanzialmente, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, Milano 1960, p. 216. (77) Cfr. OTTO, Die Struktur des strafrechtlichen Vermögensschutzes, Berlin 1970, p. 62 ss. (78) Cfr. RUDOLPHI, Die verschiedenen Aspekte des Rechtsgutsbegriffs, cit., p. 164.


— 365 — della personalità del soggetto titolare. Pertanto, una tutela del patrimonio assume rilevanza sociale e, quindi, ordinamentale, non perché, o non solo perché, determinati oggetti o diritti aventi valore economico sono attribuiti ad un soggetto, ma per il fatto che la disponibilità di questi beni assicura al soggetto un margine di sviluppo della sua personalità in quegli ambiti dell’esperienza socio-individuale « nei quali si tratta dell’acquisto e della perdita, del profitto o del possesso, della ricchezza e della povertà » (79). Il concetto di patrimonio che ne deriva, è un concetto dinamico-funzionale, fortemente caratterizzato da elementi personalistici: potenzialità del titolare in un ambito economico e la tutela si giustifica nel senso della garanzia della disponibilità dei beni al fine di assicurare al titolare lo sviluppo del proprio essere in campo economico. Se a venire qui in evidenza è la potenzialità economica di un soggetto, che questi sia persona fisica o giuridica, le cose non cambiano. E tale concezione apre, a nostro avviso, interessanti prospettive in rapporto al controllo di fatti di criminalità economica e, in particolare, per il settore della finanza pubblica. Se, infatti, si considera il patrimonio come entità strutturata secondo le esigenze del titolare e funzionale al raggiungimento delle finalità che questi si propone, tale concetto può essere proficuamente utilizzato come oggetto della tutela in relazione a fatti che aggrediscono il patrimonio dello Stato, quale complesso di risorse produttive destinate alla funzione sociale: programmazione economica, intervento assistenziale, investimenti produttivi, commercio con l’estero, redistribuzione delle risorse e così via. Si tratta, cioè, di un complesso di valori economici funzionalmente orientati al perseguimento di finalità superindividuali (80). Parlare in termini di danno non significa necessariamente intendere (79) Così BOCKELMANN, Der Unrechtsgehalt des Betruges, in Probleme der Strafrechtserneuerung. Festschrift für E.Kohlrausch, Berlin 1944, p. 248. (80) Nell’ambito di un significativo lavoro recentemente apparso, FORNASARI, Il concetto di economia pubblica, cit., — in cui si propone un’ampia, condivisibile, revisione critica del rapporto tra diritto penale ed economia, con una decisa valorizzazione delle garanzie legate ad una consapevole utilizzazione dei principi di offensività, sussidiarietà ed effettività —, è stata avanzata l’ipotesi di utilizzare, quale bene di riferimento in questa materia, il concetto di economia pubblica, in un’accezione profondamente diversa da quella alla base della normativa codicistica, come « fine di realizzare il miglioramento delle condizioni di libero dispiegamento della personalità umana nel contesto sociale », op. cit., p. 224. Ora, a noi sembra che questa finalità possa rappresentare una più che legittima ratio di tutela, la cui realizzazione passa, però, attraverso la difesa del bene giuridico patrimoniale ad essa correlato, che rappresenta, tuttavia un’entità diversa dalla medesima. In altri termini, a nostro avviso, affinché si realizzi la finalità di migliorare le condizioni di una libera espressione della personalità nel contesto sociale è necessario che restino impregiudicate quelle risorse patrimoniali


— 366 — « un grave nocumento all’economia nazionale », o qualcosa di analogo, ipotizzando, enfaticamente, un evento di difficilissima realizzazione, come si verifica, ad esempio, nelle norme contenute nel capo I del titolo ottavo del codice penale italiano, relative ai delitti contro l’economia pubblica (artt. 499 ss. c.p.) (81). Si dovrebbe, bensì, intendere, più realisticamente, il fatto di arrecare, secondo i parametri normalmente seguiti per i reati contro il patrimonio, un pregiudizio, di porre, cioè, un ostacolo all’esercizio della funzione economica. È questo il contenuto criminoso di aggressione patrimoniale che certamente può essere visto come caratterizzante i fatti di evasione fiscale e di illecita captazione di sovvenzioni, nel momento in cui vengono sottratte o sviate risorse utilizzabili per le funzioni sociali. La costruzione, dunque, di una fattispecie di evento, con l’affidabilità, sotto il profilo dell’efficienza e delle garanzie, che la caratterizza, dipende dunque dalla qualità dell’interesse, la cui offesa deve risultare rilevabile senza eccessiva difficoltà, come avviene indubbiamente in rapporto al patrimonio, dove il danno, ma anche lo stesso pericolo concreto, si estrinseca in una situazione accessibile all’analisi e spesso anche alla misurazione. Non più danni macroscopici, quindi, naturalmente collegati a beni connotati da una struttura a spettro amplissimo, come l’ordine stabile dell’economia, il corretto funzionamento dell’economia, la programmazione economica dello Stato e così via, oppure, in tema d’ambiente, l’intero ecosistema o qualcosa di simile, che richiedono un avanzamento esasperato della tutela penale, ma ricerca di un’offesa chiaramente ipotizzabile e verificabile nel suo rapporto con un bene dai contorni definiti che realmente viene in questione attraverso la condotta illecita (82). Una conferma della riconducibilità al patrimonio dei fatti di criminalità economica in generale, non solo, quindi, di quelli contro la finanza pubblica che abbiamo considerato più da vicino, ci è offerta anche dall’osservazione dei tipi di aggressione che maggiormente ricorrono. Se prendiamo, ad esempio, in considerazione la sezione dedicata ai delitti contro pubbliche che, in quanto oggetto della tutela penale, sono funzionali al perseguimento di quella finalità. (81) Cfr. PEDRAZZI, Economia pubblica, industria e commercio (delitti contro la), in Enc. dir., vol. XIV, Milano 1965, pp. 280-281; PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, cit., p. 632 ss.; FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, cit., p. 23 ss. (82) Cfr. sul punto PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, cit., pp. 635-636.


— 367 — l’economia dal Progetto alternativo (83), che continua a rappresentare un modello di codificazione moderna, in essa troviamo distinti in sette titoli reati contro la concorrenza e i consumatori, reati contro l’impresa, reati contro l’esercizio del credito ed il regolare corso dei pagamenti, reati in materia di borsa, reati attinenti alle procedure concorsuali, reati relativi al bilancio ed altre comunicazioni d’impresa ed infine reati contro la finanza pubblica, oltre ad un’appendice in cui sono formulate fattispecie attinenti alla criminalità da computer, alla tutela dei diritti d’autore e di inventore, nonché un’ampia riformulazione dei reati di usura. Ebbene, pur nelle loro accentuate peculiarità specifiche, le fattispecie concretamente prospettate sono, per lo più, rapportabili ai tipi dell’aggressione unilaterale, della frode e dell’infedeltà che, in un certo modo, tradiscono la loro natura di aggressioni patrimoniali, in quanto pregiudicano la disponibilità di risorse economiche; il che, senza dover fare ricorso ad ipotesi irrealmente macroscopiche, integra perfettamente l’offesa al bene in materia patrimoniale come limitazione arrecata alla funzionalità del bene. Se, invece, si fa ricorso a poco affidabili, inafferrabili, giganteschi oggetti di tutela, « di tipo postmoderno » (84), come la funzionalità del credito, l’ordine economico, la percezione dei tributi, in una parola la corretta funzionalità della vita economica, a prescindere dai danni provocati in termini di risorse collettive e individuali, si viene a porre al centro della tutela delle rationes e non dei beni giuridici, consentendo la realizzazione della fattispecie penale a prescindere dalla reale offesa al bene giuridico effettivamente in questione. Con il risultato di consentire forme esasperate di tutela anticipata, che vanno ben oltre la soglia di tollerabilità per un diritto penale del fatto. Si dimentica, però, che la corretta funzionalità della vita sociale in generale, che pur sta a cuore del legislatore penale, passa anche attraverso la tutela dei beni giuridici elementari e non attraverso la criminalizzazione di condotte solo « sintomatiche » di disfunzionalità, che rischiano di fondare l’intervento penale sulla mera violazione dell’obbligo, se non sulle qualità soggettive dell’autore; anzi, una scelta del genere sarebbe, ed è, sicuramente « disfunzionale » alle esigenze di una corretta convivenza secondo i parametri dello stato sociale di diritto. (83) Cfr. Alternativ-Entwurf eines Strafgesetzbuches. Besonderer Teil. Straftaten gegen die Wirtschaft, a cura di E.J. LAMPE, T. LENCKNER, W. STREE, K. TIEDEMANN, U. WEBER, Tübingen 1977, pp. 5-6. (84) Secondo la felice definizione di VOLK, Zur Abgrenzung von Tun und Unterlassen. Dogmatische Aspekte und kriminalpolitische Probleme, in Festschrift für H. Tröndle, Berlin-New York 1989, p. 231.


— 368 — 7. In questo contesto vorremmo ribadire l’incompatibilità, sotto diversi profili, dell’utilizzazione di fattispecie di pericolo astratto in un sistema penale, garantistico, in senso formale e sostanziale (85). Si tratta, com’è noto, di ipotesi il cui compimento, sotto il profilo dell’offensività, non prevede né la causazione di un danno, né la creazione di un reale pericolo per il bene in questione. Infatti, la totale mancanza di lesività della condotta nei reati di pericolo astratto, a parte ogni altro rilievo, rende difficilmente percepibile il disvalore del fatto, sia per la generalità dei consociati, sia per l’eventuale reo, che potrà non rendersi affatto conto, all’atto dell’inflizione e dell’esecuzione della sanzione, dell’estrema gravità — tale cioè da richiedere l’attivazione dello strumento statuale di intervento che più incide su libertà e personalità individuale — della sua condotta solo « astrattamente » pericolosa: che non abbia, quindi, creato una situazione di effettivo pericolo per il bene (86). D’altra parte, alla difficile interiorizzabilità della norma relativa ad una fattispecie di pericolo astratto, si accompagna il rischio elevato di una perdita di credibilità per il sistema che, dovendo intervenire con la sanzione penale per fatti di lieve entità, spunta le sue armi. Tale caratteristica dovrebbe, infatti, contraddistinguere le fattispecie di pericolo astratto, dato il loro disvalore d’evento pressoché nullo, a meno di non voler incorrere in ulteriori forme di illegittimità, derivanti, quanto meno, dalla violazione dei principi di ragionevolezza e di personalità della personalità penale, qualora si riconnettessero a tali figure sanzioni particolarmente dure. Va qui anche posto in evidenza il fatto che, in generale, nella dottrina italiana si auspica l’introduzione di fattispecie di pericolo astratto non indiscriminatamente (87), ma solo in rapporto a determinati settori di tutela (85)

Criticamente rispetto alla tecnica della « criminalizzazione anticipata » HASSE-

MER, Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto naturale, cit., 110,

113; FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma 1989, pp. 480481. (86) Ci sia consentito in proposito il rinvio al nostro Aspetti problematici del rapporto tra funzione della pena e struttura dell’illecito, in AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale, a cura del CRS, Milano 1987, pp. 103-104. Per una particolare accezione dei reati di pericolo astratto come « reati di mera condotta (pericolosa) », a differenza dei reati di pericolo concreto visti come « reati di evento (di prossimità della lesione) », cfr. MIR PUIG, Derecho penal. Parte general, 3a ed., Barcelona 1990, p. 222 ss. (87) Cfr. FIANDACA, Note sui reati di pericolo, in Scritti in memoria di G. Bellavista, vol. I, in Il Tommaso Natale 1977, p. 204; PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, cit., p. 35; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, cit., p. 200 ss.; ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano 1983, p. 108 ss.; ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, cit., 418; GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in Riv. it. dir. proc. pen. 1986, 717 ss.; contra cfr. M. GALLO, I reati di pericolo, in


— 369 — — relativi, per lo più, a beni di tipo superindividuale, di recente valorizzazione — come quello ambientale o economico, in cui l’offesa, in molti casi, è il risultato di effetti combinati di condotte differenziate, in relazione alle quali appare difficile l’accertamento del nesso eziologico (88), unicamente però, a nostro avviso, se la si riferisce ad un evento di dimensioni macroscopiche. Tuttavia, una volta disattesa la regola dell’offensitività, non ci pare che esistano criteri certi, di tipo strutturale-sistematico, che possano vincolare la discrezionalità legislativa — e, quindi, impedire altre deroghe a tale principio — relativamente a beni la cui tutela anticipata al pericolo astratto, esaltando il disvalore di azione e deprimendo il disvalore di evento, finisce per dar vita, in effetti, ad illeciti di mera disobbedienza (89). Com’è evidente, in questi casi si rischia di porre in discussione le libertà fondamentali e con esse gli stessi principi su cui si fonda lo stato sociale di diritto: si pensi, ad esempio, soltanto ai settori della « personalità dello Stato » — relativamente ai reati di opinione — e della « salute » — in materia di A.I.D.S. o di stupefacenti —, per rendersi conto dei rischi gravissimi che corrono i diritti degli individui. In realtà, si finisce per legittimare la criminalizzazione di condotte di per sé insignificanti, sotto il profilo della dannosità sociale, sulla base di una remota connessione con beni giuridici di rilievo. Il tentativo — così come la previsione del titolo colposo sul versante soggettivo — resta, a nostro avviso, il limite invalicabile dell’anticipazione della tutela in un diritto penale del fatto; per ulteriori interventi maggiormente distanti dall’offesa al bene va adottato uno strumento di controllo diverso dal diritto penale (90); pensiamo innanzitutto all’illecito amminiForo pen. 1969, 5 ss.; E. GALLO, Riflessioni sui reati di pericolo, Padova 1970, p. 31 ss.; BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. D.I., vol. XIX, Torino 1973, p. 81 ss.; PATALANO, Significato e limiti della dommatica dei reati di pericolo, Napoli 1975, p. 67 ss. (88) Cfr. TIEDEMANN, Wirtschaftsstrafrecht und Wirtschaftskriminalität, vol. I, cit., p. 85 ss. (89) Sull’argomento cfr. SANTAMARIA, Evento, in Enc. dir., vol. XVI, Milano 1967, 133; v., inoltre, MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano 1971, pp. 182-183; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, cit., p. 51 ss. Non è un caso, allora, che una decisa valorizzazione delle fattispecie di pericolo astratto sia stata auspicata anche da Armin KAUFMANN, Tatbestandsmäßigkeit und Verursachung im Contergan-Verfahren, in JZ 1971, 575 ss., autorevole antesignano del neofinalismo della Bonner Schule, nell’ambito della quale, com’è noto, si propone una versione estremizzata del personales Unrecht, fondata sull’esclusivo valore della condotta; cfr. in proposito, per tutti, ZIELINSKY, Handlungs- und Erfolgsunrecht im Unrechtsbegriff, cit., passim, v. p. es. p. 5 ss., che sviluppa una completa elaborazione della teoria generale del reato da un punto di vista soggettivistico. (90) Sulla vasta tematica delle nuove esigenze di tutela e la ricerca di alternative al


— 370 — strativo, a cui è possibile collegare un’articolata, efficace gamma di sanzioni pecuniarie ed interdittive. Una soluzione di tal genere rispecchierebbe criteri di efficienza, quanto all’apprestamento di una tutela anticipata del bene, e non risulterebbe problematica sotto i profili sistematico e politico-criminale. Il rispetto del principio elementare di proporzione impone una scelta del genere, se si vuole perseguire con il diritto penale finalità di integrazione sociale (91): una politica criminale poco attenta al rispetto di regole di ragionevolezza è funzionale soltanto ad una impostazione di tipo repressivo-deterrente. È quanto esige anche il principio di sussidiarietà che, per essere orientato alla difesa della libertà e personalità individuale, assume, a nostro avviso, una rilevanza costituzionale. Infatti, anche al di là di prospettive illiberali di mera deterrenza — che il nostro assetto costituzionale non consente di perseguire (92) —, la pena rappresenta comunque la più grave limitazione alla libertà e personalità individuale; questo dato, raffrontato con il principio di tutela della libertà e personalità individuale — che si desume da tutto l’assetto della nostra legge fondamentale, ed in particolare dagli artt. 2, 3, 13, 25 comma 2 e 3 Cost. — comporta la notevolissima conseguenza della costituzionalizzazione del principio di extrema ratio. Il legislatore è allora tenuto ad intervenire con la sanzione penale, solo se non può fare ricorso ad altri mezzi e ciò ha come corollario l’inesistenza di un obbligo alla criminalizzazione (93). Una volta abbandonate prospettive irrazionalistiche in rapporto ad « essenza » e funzioni della pena, le stesse finalità attribuite alla sanzione penale condizionano la conformazione dell’illecito (94). Ciò significa che, se la pena persegue finalità di integrazione sociale, il fatto illecito dev’essere, nelle sue componenti di disvalore della condotta e di disvalore dell’econtrollo penale cfr. NAUCKE, Die Wechselwirkung zwischen Strafziel und Verbrechensbegriff, Stuttgart 1985, p. 35 ss.; HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, in ZRP 1992, 378 ss.; LÜDERSSEN, Alternativen zum Strafen, in Festschrift für Arthur Kaufmann, Heidelberg 1993, p. 487 ss. (91) Per il concetto di integrazione sociale in termini di sintesi delle compone positive della prevenzione speciale e generale, cfr. il nostro, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 83 ss. (92) Ci sia consentito in proposito il rinvio al nostro Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 97 ss. (93) Sul tema cfr. MÜLLER-DIETZ, Zur Problematik verfassungsrechtlicher Pönalisierungsgebote, in Festschrift für E.Dreher, Berlin-New York 1977, p. 97 ss.; PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen. 1983, 684 ss.; BRICOLA, Carattere « sussidiario » del diritto penale e oggetto di tutela, in Scritti in memoria di G. Delitala, vol. I, Milano 1984, p. 99 ss. (94) Cfr. il nostro Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 65 ss., 121 ss.


— 371 — vento, facilmente percepibile come tale. Tutto ciò comporta, da un lato, la selezione degli oggetti di tutela penale che, anche in ossequio al principio di ragionevolezza, va limitata ai beni fondamentali (95), di rilievo paragonabile al bene della libertà dell’individuo; ed implica, d’altro canto, la considerazione di modalità di offesa particolarmente significative: ci riferiamo al danno ed al pericolo che dev’essere connotato da concretezza: « la giustizia penale è un male necessario, se essa supera i limiti della necessità resta soltanto il male » (96). Per altre forme di aggressione o per la tutela di beni di minor rilievo i sistemi di controllo di tipo amministrativo, civilistico, disciplinare, politico-sociale, a seconda dei casi, appaiono più adeguati sotto il profilo della sanzione e della tutela. Alla pena viene, infatti, mantenuto quel rigore di extrema ratio che conferisce credibilità all’intervento statuale, assicurando, nello stesso tempo, la difesa ed il rispetto di libertà e personalità individuale. Ai beni più significativi viene, inoltre, garantita la possibilità di una tutela, extrapenale, anticipata, senza che venga, per questo, in alcun modo turbato quel delicato equilibrio di garanzie formali e sostanziali sul quale deve fondarsi un diritto penale che abbia a cuore il rispetto dell’uomo e dei suoi diritti. 8. Anche sotto il profilo della legalità le fattispecie di pericolo astratto possono risultare problematiche. Esse puntano, com’è noto, sulla descrizione della condotta tipica (97), rischiando di scivolare nella trappola della casistica con i consueti corollari delle formule di chiusura e, quindi, della caduta proprio in termini di tipicità-legalità, ma anche di efficienza. Infatti, a parte il rischio di lacune nella tutela, l’adozione di una tecnica di tipo casistico dà luogo a cospicui problemi di ordine interpretativo, con notevoli implicazioni in termini di uguaglianza, certezza, nonché di funzionalità della risposta sanzionatoria relativamente ad esigenze di integrazione sociale. Anche a tali inconvenienti è possibile ovviare favorendo una reale armonizzazione della normativa penale con quella amministrativa e civile, puntando sull’accuratezza della legislazione extrapenale (95)

Per una forte riduzione, in termini « marginali », dell’intervento penale cfr. BA-

RATTA, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e li-

miti della legge penale, in Dei delitti e delle pene 1985, 443 ss.; FERRAJOLI, Il diritto penale minimo, ivi, 44 ss.; ZAFFARONI, Alla ricerca delle pene perdute. Delegittimazione e dommatica giuridico-penale (1989), trad. it., Napoli 1994, p. 229 ss. (96) Così ROXIN, Fragwürdige Tendenzen in der Strafrechtsreform, cit., 37. (97) Così ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, vol. I, Sassari 1980, p. 131.


— 372 — di riferimento che preveda criteri generali articolati in materia di requisiti, obblighi, meccanismi di controllo, etc. (98). Volendo riprendere l’esempio dell’abuso nelle sovvenzioni, si tratta dunque di procedere a regolamentazioni valide, efficaci che, oltre ad indicare con precisione i presupposti richiesti facendo appello a norme definitorie ed a puntuali riferimenti cronologici, si soffermino ad individuare, ove sia possibile, anche in maniera analitica, le modalità e le tecniche che l’esperienza addita come le più consuete per una creazione artificiosa dei presupposti stessi, ponendo in rilievo con la massima chiarezza le finalità della singola misura di incentivazione e dando spazio, per reagire nei loro confronti già con rimedi extrapenali, ai comportamenti più noti e frequenti dati da negozi giuridici o atti reali incompatibili con una ragionevole funzione economica del finanziamento. Alla stessa stregua, per quel che concerne il fenomeno dell’evasione fiscale, va affidato allo schema illecito-sanzione amministrativa, il controllo delle varie condotte di pericolo legate alla specialità delle diverse imposte, secondo le regole della tecnica tributaria. Vanno espunte, dunque, dal diritto penale tutte quelle fattispecie-ostacolo tendenti a prevenire il realizzarsi di situazioni di remoto pericolo, esprimendosi, rispetto al bene, in meri atti preparatori, infrazioni, omissioni, irregolarità, incompletezze: semplici trasgressioni formali poste solo a tutela anticipata del bene. All’illecito amministrativo vanno, dunque, riportate quelle condotte in cui si ravvisa solo un sintomo dell’inadempimento del debito d’imposta, secondo regole di esperienza tratte dalla tecnica della polizia fiscale: si tratta, per lo più, di trasgressioni agli obblighi di controllo preordinati a diretta difesa dei tributi. In questo modo, quanto meno, s’impegna il legislatore ad una valutazione più approfondita dei fatti oggetto delle sue norme, affrontando correttamente il problema delle condotte di aggiramento in una fase ancora lontana dai momenti dell’offesa, cercando di risolverlo efficacemente, senza porre in discussione le garanzie formali e sostanziali del sistema penale dello stato sociale di diritto, dalla legalità all’offensività, alla ragionevolezza, alla sussidiarietà, garantendo nel perseguimento dei fatti illeciti soddisfacenti livelli di uniformità (99). In questi settori l’intervento penale avrà, quindi, ben poca efficacia, (98) Sul tema cfr. VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 85 ss.; SCHÜNEAlternative Kontrolle der Wirtschaftskriminalität, in Gedächtnisschrift für Armin Kaufmann, Köln-Berlin-Bonn-München 1989, 629 ss.; OTTO, Außerstrafrechtliche Voraussetzungen des Wirtschaftsstrafrechts, in AA.VV., Wirtschaftsethik - Wirtschaftsstrafrecht, a cura di H.J. MÜLLER e J. ISENSEE, Padeborn-München-Wien-Zürich 1991, p. 57 ss. (99) Cfr. VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 16 ss. MANN,


— 373 — se risulterà svincolato da un supporto organizzativo di carattere extrapenale che ne consentirà l’effettiva operatività. Il primo, necessario intervento va riservato ai controlli preventivi e ai rimedi di tipo civilistico ed amministrativo, solo sussidiariamente rafforzati da un controllo penalistico, modellato, però, secondo gli schemi consueti del diritto penale (100). Emerge allora l’esigenza che, attraverso l’uso di un linguaggio sempre omogeneo alla terminologia tradizionale del diritto penale, le incriminazioni siano costruite in modo tale che ne risulti univoca l’identificazione della struttura di illecito penale. Ciò esige, innanzitutto, un’efficace caratterizzazione, secondo parametri di determinatezza, della condotta e dell’evento, la cui descrizione sappia corrispondere alla funzione propria della tipicizzazione, ma anche degli altri elementi del reato, come le circostanze, le condizioni obiettive di punibilità, le cause di non punibilità etc., in coerenza con i criteri usuali del diritto penale. In una parola va privilegiato il linguaggio penalistico, che è poi il linguaggio del senso comune, rispetto al linguaggio tecnicistico di altri settori dell’esperienza giuridicoeconomica. Si dovranno, quindi, isolare e rafforzare quei comportamenti per così dire fondamentali, a cui riconoscere la qualifica dell’illiceità penale; rapportabili ad affidabili tipi di reato — che, nel nostro caso, sicuramente sono dati dalla truffa e dall’infedeltà —, caratterizzati da disvalore di evento. Ed un tale modo di procedere dovrà connotare, al di là della finanza pubblica, tutti gli altri settori che fanno riferimento ad interessi a titolarità diffusa o ad ampio spettro. Contro frenesie di efficienza, che nascondono spesso disegni illiberali, va riproposto, quando appare veramente indispensabile, un modello penale di controllo che, rispettando le prerogative dello stato di diritto, si esplichi attraverso fattispecie chiare, determinate, « rare » e affidabili sotto il profilo dell’interesse tutelato. Va, dunque, fermato quel processo di trasformazione progressiva dalla tutela di beni alla tutela di funzioni che contrassegna la dinamica della più recente produzione legislativa in materia penale. Si tratta di un percorso molto rischioso, perché diametralmente opposto all’asse del principio di offensività — ma anche di sussidiarietà — e, quindi, eccentrico rispetto alla funzione garantistica che il bene giuridico in senso reale (100) Di diverso avviso TIEDEMANN, Die Bekämpfung der Wirtschaftskriminalität durch den Gesetzberger, in JZ 1986, 865 ss.; v. anche ROMANO, Osservazioni sul nuovo diritto tributario, cit., 752.


— 374 — è ancora destinato a svolgere rispetto all’esercizio della potestà punitiva (101). In un’epoca che preannuncia profondi cambiamenti, a cui non possono non abbinarsi gravi perplessità in ordine alle ragioni dello stato sociale di diritto, la netta riaffermazione dei principi fondamentali, di tutti i principi fondamentali posti a garanzia dei diritti dell’individuo — con il diritto penale ma anche dal diritto penale — appare come un dovere, che va ben oltre la difesa dei postulati di una scuola, per assumere il significato di una volontà di resistere ad un nuovo che voglia perseguire prospettive inquietanti. SERGIO MOCCIA Straordinario di Diritto penale nell’Università di Salerno

(101) Così, esplicitamente, PADOVANI, Problemi generali e analisi delle fattispecie previste dai nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 4, legge n. 516/82, cit., p. 912.


« INDIZIO » E « PROVA INDIZIARIA » NEL PROCESSO PENALE

SOMMARIO: 1. L’« indizio » nel nuovo codice di procedura penale: significato tecnico-giuridico e natura di « prova provvisoria ». — 2. La prova storica e la prova indiziaria. — 3. Il procedimento di verifica e la conseguente rilevanza della prova indiziaria rispetto a quella storica. — 4. L’attuale disciplina della prova indiziaria: a) Il contenuto e la formula del comma 2 dell’art. 192 c.p.p.; b) La certezza del dato indiziante e gli indizi mediati; c) La gravità e la precisione; d) La concordanza: pretesa pluralità e valore del singolo indizio. — 5. Dubbi sull’opportunità dell’art. 192 comma 2 c.p.p. e le anomalie del sistema.

1. Il nuovo codice di procedura penale, a differenza di quello previgente, fa ora espressamente uso del termine « indizio » sotto una duplice prospettiva. A prescindere dalla novità rappresentata dalla considerazione dell’espressione « indizi » nell’accezione propria del termine (ossia come prova critica) all’art. 192 comma 2, l’« indizio » viene assunto nelle altre ipotesi con un significato e una portata del tutto differente. L’auspicio di una formulazione normativa che evitasse, con le ambiguità terminologiche, le sovrapposizioni concettuali è stato quindi disatteso: accanto alla natura di prova indiziaria, il legislatore attribuisce all’« indizio » natura di « prova provvisoria » (1), sottolineandone la funzione di avvio processuale o di supporto iniziale al procedere ulteriore. (1) Sul tema, A. SANNA, Parametri di valuazione della prova e riesame delle misure cautelari (nota a Cass. 3 settembre 1991, Tartaglia), in Giur. it., 1992, II, 272; M. BONETTI, Gli indizi nel nuovo processo penale, in Ind. pen., 1989, 494; E. FASSONE, Primi appunti sulla valutazione della prova, in Quest. giust., 1989, 859; A. PIGNATELLI, Presupposti per la restrizione della libertà personale, in Problemi della libertà personale (Chianciano 5-7 giugno 1987), Quaderni del C.S.M., Roma, 1988, 28 ss.; G. CHELAZZI, La valutazione della prova in fase istruttoria e in sede dibattimentale, in Problemi attuali della prova nel procedimento penale (Chianciano 5-7 dicembre 1986), Quaderni del C.S.M., Roma, 1987, 64 ss.; E. FASSONE, La valutazione della prova, in Manuale pratico dell’inchiesta penale, a cura di L. VIOLANTE, Milano, 1986, 139 ss.; ID., Riflessioni sul tema della prova, in Quest. giust., 1985, 507 ss.; N. LAURO, Note in tema di prova indiziaria e presunzioni (nota a Cass. 25 marzo 1976, Bozano), in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 1409 ss., 1413 ss.; P.B. AMICARELLI,


— 376 — In quest’ottica l’indizio è inteso non come un qualcosa che dimostra meno della prova, ma semplicemente come una prova piena non ancora completamente verificata, non ponendosi in discussione la sua forza probante bensì l’incidentalità e l’incompiutezza della relativa verifica processuale. L’elemento discriminante non attiene, cioè, alla qualità o alla struttura del dato probatorio ma alla modalità cronologico-funzionale con cui quest’ultimo si inserisce nel processo. Pertanto, « indizio » è « qualsiasi elemento di prova già acquisito agli atti che, conformemente assunto nel giudizio, sarà prova » (2), un accertamento in fieri in quanto mancante della verifica definitiva, una prova in formazione ma non per questo meno convincente di quella attuale. Ed è in tale accezione che il termine « indizi » viene menzionato agli articoli 207 comma 2, 267 comma 1, 273 comma 1, 292 comma 2, lettera c), 312, 384 comma 1 e 3, 705 comma 1 c.p.p. (3). Oggetto di particolare interesse da parte della giurisprudenza di legittimità è l’art. 273 che, richiedendo la sussistenza di « gravi indizi di colpevolezza » affinché si possa applicare una misura cautelare, ha dato origine ad un acceso dibattito interpretativo costantemente alimentato dalla prassi giudiziaria. In relazione a questa norma (4), il tradizionale requisito della « sufficienza degli indizi » è stato sostituito con quello della « gravità » dei medesimi (5), in conformità con quanto anticipato in via novellistica dalla Indizio e libero convincimento, in Dialectica, 1971, 104; G. GRANATA, La psicosi per i più grandi processi indiziari e la normalità giuridica, in Giust. pen., 1962, I, 18; ID., La tutela della libertà personale nel diritto processuale penale, Milano, 1957, 372; E. BATTAGLINI, Gli indizi nel processo penale (nota a Cass. 22 giugno 1945, Tridente ed altri), in Giur. compl. cass. pen., 1946, I, 225. (2) Così A. BAUDI, Il potere cautelare nel nuovo processo penale, Milano, 1990, 46. (3) L’art. 207 comma 2 considera gli indizi allo stato semplice con funzione attivante nei confronti del processo per falsa testimonianza; l’art. 267 comma 1 richiede la sussistenza di « gravi indizi » al fine di autorizzare le intercettazioni telefoniche; l’art. 292 comma 2 lettera c) prevede che l’ordinanza con cui si dispone la misura cautelare indichi gli indizi che la legittimano; l’art. 312 impone la previa verifica della presenza di « gravi indizi della commissione del fatto » al fine dell’applicazione in via provvisoria della misura di sicurezza; l’art. 384 comma 1 e 3 disciplinano il fermo indicandone il soggetto passivo nella « persona gravemente indiziata »; l’art. 705 comma 1 richiede la sussistenza di « gravi indizi di colpevolezza » per la sentenza favorevole all’estradizione ove si versi in mancanza di strumento convenzionale. (4) La riformulazione della norma con l’introduzione dell’espressione « gravi indizi » riguarda anche gli articoli 267 comma 1, 384 comma 1 e 3, 705 comma 1. (5) Sul punto, la giurisprudenza ha comunque precisato che « non sussistono ostacoli


— 377 — legge 5 agosto 1988, n. 330 (6), al fine di « ridurre l’area delle situazioni indizianti che possono legittimamente dar luogo all’adozione di misure cautelari » (7). Come è stato da taluni precisato (8), si tratta di una modifica che comunque non ha fatto venir meno i caratteri di « provvisorietà » e di « incompletezza » che le valutazioni probatorie normalmente possiedono nel momento in cui si pone un’esigenza cautelare. Riferendosi ad un elemento di prova non consolidato, d’assoggettare a successiva verifica, la sua valutazione si presenta, infatti, necessariamente anticipata rispetto a quella più completa operabile ai fini del rinvio a giudizio e, di conseguenza, temporanea (9). logici o giuridici che impediscono al giudice di merito di qualificare ‘‘gravi’’ gli indizi di colpevolezza, precedentemente ritenuti ‘‘sufficienti’’ con il provvedimento restrittivo della libertà emesso prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito; la sufficienza, infatti, non esclude la gravità degli indizi e l’avere il primo giudice qualificato sufficienti (come richiesto dalla norma allora vigente) alcuni indizi non comporta di necessità che questi non fossero gravi » (Cass. 26 aprile 1990, Ceruti, in Critica del diritto, 1991, no 1, punto 25). Contra, Id. 12 agosto 1993, Alberino, in Giust. pen., 1993, III, 691. (6) Vedi l’art. 12 legge 330/1988. In tema, AA.VV., Problemi applicativi della legge 330/88, Quaderni del C.S.M., Roma, 1990; E. FISCHETTI, La nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale prevista dalla legge 5 agosto 1988 no 330: anticipazione del nuovo processo penale?, in Accusa e difesa nel nuovo processo penale, Padova, 1989, 175; L.F. DI NANNI - G. FUSCO - G. VACCA, Nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale. Commento teorico-pratico alla legge 5 agosto 1988, no 330, Napoli, 1988; G. LOZZI, Sulle principali innovazioni apportate al codice di procedura penale del 1930 dalla legge 5 agosto 1988 no 330, in Giust. pen., 1988, III, 620; L. MUSTI - G. SPANGHER, La libertà personale dell’imputato tra interventi novellistici e riforme del processo, in Quest. giust., 1988, 833. (7) Testualmente la Relazione al Progetto preliminare del 1988, 71. La prescrizione della gravità degli indizi è utile al fine di richiamare il giudice ad « un più attento e meditato esame delle acquisizioni probatorie, per cui il ricorso al provvedimento restrittivo può essere giustificato solo allorché il quadro dell’indagine giudiziale offra consistenti riscontri di reità e non invece quando s’intenda ricercare la prova attraverso la custodia cautelare o il suo mantenimento (al riguardo, la Relazione al Progetto preliminare ha posto più volte l’accento sulla rigorosa esclusione di ‘‘ogni strumentalizzazione delle misure cautelari’’ o sulla loro utilizzazione ‘‘a scopi, più o meno direttamente, estorsivi di confessioni’’) »: così C. ASCIONE - D. DE BIASE, La libertà personale nel nuovo processo penale (teoria e pratica del diritto), Milano, 1990, 246. (8) Vedi M. CHIAVARIO, Art. 273 - Condizioni generali di applicabilità delle misure, in Commento al nuovo codice, vol. III, a cura di M. CHIAVARIO, Torino, 1990, 32. (9) A favore, invece, dell’equiparazione tra i presupposti richiesti per l’adozione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e quelli necessari per il rinvio a giudizio, A. PIGNATELLI, op. cit., 33; G. AMATO, Art. 273 - Condizioni generali di applicabilità delle misure, in Commento del nuovo codice di procedura penale, vol. III, a cura di B. AMODIO - O. DOMINIONI, Milano, 1990, 20, ove l’adozione di una misura cautelare solo in presenza di


— 378 — Invero, la locuzione « gravi indizi » esclude ogni valenza quantitativa (10), presupponendo un accertamento in ordine all’efficacia probatoria del dato o dei dati acquisiti che si risolve, non già in un giudizio di certezza (una certezza non verificata non è altro che un’ipotesi, una probabilità di certezza), ma bensì in un giudizio che dimostri in modo altamente probabile la colpevolezza dell’imputato (11). Cosicché gli indizi potranno definirsi « gravi », sia pure nell’ambito di « indizi a carico non inferiori al quadro probatorio richiesto per il rinvio a giudizio », viene giustificata per il fatto che « la compressione della libertà personale deve rappresentare la regola estrema ». Ciò si ricaverebbe sia dal principio di proporzionalità, che pone un freno agli ingiustificati sacrifici in tema di libertà personale, sia e « soprattutto, dalla ratio che ha ispirato, nell’ambito del nuovo codice, l’inserzione del requisito dei ‘‘gravi’’ indizi e, prima, nel codice del 1930, ha indotto ad una corrispondente modifica dell’art. 252 ». (10) Specificamente nel senso che anche un unico indizio può costituire idoneo supporto al provvedimento restrittivo, Cass. 13 ottobre 1993, Malorgio, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 117; Id. 30 luglio 1993, Amalfi, in Giust. pen., 1993, III, 692; Id. 23 novembre 1992, Bottaro, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 467; Id. 8 settembre 1992, Sacco ed altri, ibid., 633; Id. 21 luglio 1992, Alesci ed altri, ibid., 319; Id. 4 settembre 1984, Oliva, in Cass. pen., 1986, 524; Id. 8 marzo 1983, Gallizio, ivi, 1984, 1495. (11) In tal senso, pur nella varietà delle formulazioni (a seconda dei casi si parla di « consistente », « elevata », « alta », « rilevante » o « qualificata » probabilità), Cass. 27 febbraio 1993, Cusimano ed altri, in Cass. pen., 1993, 2317; Id. 28 gennaio 1993, P.M. in proc. Caputo, in Riv. pen., 1994, 92; Id. 7 luglio 1992, Di Pietrangelo, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 146; Id. 3 marzo 1992, Biacca, in Cass. pen., 1993, 1504; Id. 24 febbraio 1993, Rannesi, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 634; Id. 19 febbraio 1992, Papale, ibid., 147; Id. 17 gennaio 1992, Alferi, in Cass. pen., 1993, 1767; Id. 11 novembre 1991, Nemolato ed altro, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 447; Id. 17 ottobre 1991, Zamboni, ibid., 447; Id. 28 agosto 1991, Salvini, in Riv. pen., 1992, 511; Id. 12 giugno 1991, Scavuzzo, ibid., 416; Id. 30 maggio 1991, Birra, in Cass. pen., 1992, 1279; Id. 27 maggio 1991, Di Mauro, ibid., 1279; Id. 4 aprile 1991, Clemente, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 456; Id. 15 gennaio 1991, Dresia, in Cass. pen., 1992, 96; Id. 15 gennaio 1991, P.M. in proc. Halhal, in Giur. it., 1991, II, 201, con nota di L. MARAFIOTI; Id. 9 luglio 1990, Morra, in Cass. pen., 1991, 505; Id. 5 luglio 1990, De Rosa, ibid., 504; Id. 30 aprile, 1990, Rasa, ibid., 504; Id. 23 aprile 1990, Coppolino, in Riv. pen., 1991, 319; Id. 6 febbraio 1989, Siracusa, in Giust. pen., 1990, III, 44. Richiedono, invece, il raggiungimento di una « ragionevole » probabilità della colpevolezza dell’indagato, Id. 17 marzo 1993, Mottola, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 634; Id. 19 ottobre 1992, Luca, ibid, 320; Id. 23 aprile 1992, Montebello, in Cass. pen., 1993, 2348, con nota di F. LATTANZI; Id. 9 settembre 1991, Mercuri, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 120; Id. 23 marzo 1991, Fiore, ivi, 1991, 456; Id. 19 aprile, 1990, Gierola, in Riv. pen., 1991, 209. Si accontenta della mera probabilità in ordine alla commissione del fatto, non facendo uso di aggettivazione alcuna, Id. 21 ottobre 1992, Bianco, ivi, 1993, 1061. In realtà, « tale grado di probabilità è minore o maggiore a seconda del momento in cui si opera la relativa valutazione, cosicché se questa interviene in un momento iniziale della fase delle indagini preliminari, non può pretendersi che esso sia particolarmente elevato, essendo in corso le investigazioni destinate appunto a controllare e corroborare gli indizi emersi » (Id. 28 luglio 1992, Quarticelli, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 320). Per una rassegna di ulteriori pronunce sull’argomento vedi R. GUARINIELLO, Schede su Corte di Cas-


— 379 — una valutazione allo stato degli atti, quando possiedono l’effettiva potenzialità per concretarsi in quell’elemento probatorio che costituisce e determina la dimostrazione di verità del fatto da provare (12). Elevata probabilità di consolidarsi in modo certo che, se per un verso li differenzia dalle prove già formate, per l’altro è comunque ben diversa dalla mera possibilità che, in quanto tale, può assistere un qualsiasi dato probatorio, anche il più labile e sfumato (13). Non che sia necessario, dunque, raggiungere lo stesso grado di certezza o concludenza che presentano gli elementi di prova occorrenti per il rinvio a giudizio o ai fini della condanna (14), ma nemmeno è possibile accontentarsi di « un apprezzabile fumus di colpevolezza, compatibile con l’esistenza di lacune, punti oscuri e spiegazioni alternative », così come la Suprema Corte sosteneva in riferimento al concetto di « sufficienti indizi » di cui all’art. 252 abrogato (15). L’indizio può essere considerato « grave » solo se, valutando il suo contenuto oggettivo, la fonte da cui proviene, le modalità di acquisizione e il rapporto con il fatto sottoposto ad indagine, ne discende una ridotta sazione e codice di procedura penale: misure cautelari personali e gravi indizi di colpevolezza, in Foro it., 1992, II, 309 ss. e ID., Il nuovo codice di procedura penale: un anno di applicazione della giurisprudenza della Corte di Cassazione, ivi, 1990, II, 559. (12) Così Cass. 19 ottobre 1992, Luca, cit.; Id. 8 maggio 1992, Rapisarda, in Giur. it., 1993, II, 10, con nota di S. PRESTIPINO. (13) Per un’analisi del concetto di « sospetto » (peraltro non più menzionato nelle disposizioni del nuovo c.p.p.) in contrapposizione a quello di « indizio », vedi G. CHELAZZI, op. cit., 69; N. LAURO, op. cit., 1412 ss.; G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, 118; R. GAGLIARDI, Sospetto e indizio. Presunzione e congettura, in Riv. pol., 1969, 720; V. GIANTURCO, La prova indiziaria, Milano, 1958, 70 ss.; L. GRANATA, loc. ult. cit.; G.C. ANGELONI, Il sospetto, in Giust. pen., 1949, I, 91; U. ALOISI, Sentenze di proscioglimento, prova, indizio, sospetto di reato, in Riv. pen., 1946, II, 627. A favore, invece, della fungibilità della locuzione « indizio » con quella di « sospetto » in riferimento alle disposizioni che nel codice abrogato ne facevano menzione, P. DE LALLA, Logica delle prove criminali, Napoli, 1973, 267 ss. (14) Si tratta dell’orientamento consolidato presso la giurisprudenza di legittimità, in linea con l’indirizzo prevalso sotto la vigenza del codice Rocco. Al riguardo si rinvia alle decisioni citate supra alla nota no 11. (15) Vedi, fra le molte, Cass. 23 gennaio 1987, D’Alessandro, in Cass. pen., 1988, 655; Id. 30 luglio 1984, Palmucci, ivi, 1986, 525; Id. 22 novembre 1983, De Rose, ivi, 1985, 714; Id. 21 marzo 1983, Bortolotti, ivi, 1984, 2006. Per un esame critico sul punto, E. FASSONE, Valutazione della prova, cit., 137, secondo il quale, consistendo l’indizio in una prova piena non ancora sottoposta a verifica, l’insegnamento giurisprudenziale citato va precisato nel senso che « le lacune non devono minare logicamente i punti acquisiti e le spiegazioni alternative, devono essere confinate in un ambito di probabilità estremamente ridotto, tali che solo la verifica successiva le possa fare emergere e non già l’attuale verosimiglianza ». In proposito vedi anche ID., Riflessioni sul tema della prova, cit., 514.


— 380 — possibilità di un suo ribaltamento o di una sua interpretazione alternativa (16), sebbene mai del tutto eliminabile e in quanto tale difficilmente censurabile allo stato degli atti. D’altro canto, il fatto che la valutazione del fumus di colpevolezza richiesto alluda ad un giudizio di probabilità, se pur elevata, e non di certezza trova ulteriore riscontro nel dato testuale dello stesso art. 273 comma 1 ove, diversamente da quanto previsto all’art. 192 comma 2, la « gravità » degli indizi non è accompagnata dai requisiti di « precisione » e « concordanza » (17). Differenza che rinviene una plausibile spiegazione (16) Così Cass. 12 agosto 1993, Alberino, cit.; Id. 23 novembre 1992, Bottaro, cit.; Id. 2 aprile 1992, Mangone, in Riv. pen., 1993, 359; Id. 6 marzo 1992, Perri, ibid., 359; Id. 26 febbraio 1992, La Rocca, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 597: « l’indizio è grave quando sia capace di resistere ad interpretazioni alternative »; Id. 31 ottobre 1990, Pirovano, in Riv. pen., 1991, 756; Trib. Roma 30 agosto 1990, Vanacore, in Giur. di Merito, 1991, 106: « i gravi indizi di colpevolezza... debbono essere seri ed univoci e non inficiati da altri elementi opposti ed equivoci ». A favore della possibile « presenza di spiegazioni alternative dei fatti, destinate ad essere verificate in prosieguo », Cass. 14 aprile 1992, Santine, ined.; Id. 4 febbraio 1992, Caparrotta, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 597; Id. 27 agosto 1991, Romano, ibid., 120, la quale asserisce che « a fondamento dell’applicazione di una misura cautelare personale da adottarsi nella fase delle indagini preliminari non può richiedersi la allegazione di prove incontrovertibili, non essendo equiparabili situazioni processuali (in senso lato) sicuramente diverse, quali quelle della decisione circa l’applicazione di una misura di cautela personale e quella della decisione di merito sulla fondatezza dell’accusa »; Id. 28 agosto 1991, Iermanò, in Riv. pen., 1992, 520; Id. 13 giugno 1991, Gonnella, in Cass. pen., 1992, 2420. Resta comunque vero che, come in ogni giudizio, anche in quello relativo alla valutazione della gravità degli indizi non è possibile eliminare ogni margine di opinabilità e, dunque, di possibili oscillazioni in base a criteri soggettivi di apprezzamento. In tal senso, si esprimono M. CHIAVARIO, op. cit., 33; G. LOZZI, op. cit., 624. Analogamente, la Relazione al Progetto preliminare del 1988, 71, esterna « la consapevolezza dell’impossibilità di tracciare, in questo campo, linee di demarcazione nettissime ». (17) Cfr. la Relazione al Progetto preliminare del 1978, 212, ove si afferma di non avere ritenuto opportuno seguire il Parere della Commissione Consultiva (p. 73) che, sul punto (art. 263 Prog. 1978, poi sostituito dall’art. 273 c.p.p.), richiedeva un’espressa qualificazione normativa degli indizi come « gravi, precisi e concordanti ». In giurisprudenza, Cass. 12 giugno 1993, Longo, in Giust. pen., III, 692; Id. 30 luglio 1993, Amalfi, cit.; Id. 8 giugno 1993, Moccia, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 115; Id. 6 aprile 1993, Cafari ed altri, ivi, 1993, 791; Id. 3 marzo 1993, Marras, ibid., 790: « i gravi indizi di colpevolezza richiesti dall’art. 273 c.p.p. possono essere desunti anche da circostanze che singolarmente esaminate appaiono equivoche »; Id. 18 gennaio 1993, Bono ed altro, in Cass. pen., 1993, 2324, con nota di F.M. IACOVIELLO, Il diritto imprevedibile: le contraddittorie pronunce della Suprema Corte sulla motivazione delle ordinanze cautelari fondate su chiamate in reità de relato; Id. 3 settembre 1992, Butera, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 320; Id. 3 settembre 1992, Oliva, ibid., 320; Id. 20 agosto 1992, Panigritti, ibid., 320; Id. 7 luglio 1992, Di Pietrangelo, cit.; Id. 17 giugno 1992, Palermo, ibid., 147; Id. 4 giugno 1992, Pisano, ibid., 146; Id. 1 aprile 1992, Genovese, in Riv. pen., 1993, 359; Id. 9 marzo 1992, Criscuolo, ibid., 649; Id.


— 381 — proprio nella non coincidenza di significati che il concetto di indizio assume nei due diversi contesti (18). Nell’ambito della fase processuale interessata dalle disposizioni citate, l’« indizio » non è, quindi, inteso nel suo significato tecnico-giuridico 9 settembre 1991, Gusmerini, in Cass. pen., 1992, 698, con nota adesiva di S. RAMAJOLI, I « gravi » indizi di colpevolezza e l’adozione di misure cautelari personali; Id. 9 settembre 1991, Mercuri, in Riv. pen., 1992, 599; Id. 27 agosto 1991, Romano, cit.; Id. 3 settembre, Tartaglia, in Giur. it., 1992, II, 270; Id. 28 agosto 1991, Iermanò, cit.; Id. 28 agosto 1991, Giordano, in Riv. pen., 1992, 511; Id. 18 giugno 1991, Mongoli, in Foro it., 1992, II, 308; Id. 9 luglio 1990, Morra, cit.: « il concetto di ‘‘gravità’’ dell’indizio è diverso da quello di univocità o di convergenza, sicché in sede cautelare il criterio giuridico di sua valutazione è diverso da quello richiesto dall’art. 192 c.p.p. che disciplina i criteri di valutazione della prova in sede decisoria »; Id. 5 luglio 1990, De Rosa, cit., ove si precisa che « l’indizio richiesto dall’art. 273 c.p.p. ai fini della emissione di una misura cautelare non coincide con quello di cui all’art. 192 comma 2 stesso codice, indicante i criteri di valutazione della prova logica e indiziale, in quanto la prima disposizione non richiede anche l’univocità e la convergenza (e quindi la pluralità) dei dati indizianti, bensì, e soltanto, la gravità dell’indizio che implica un concetto quantitativamente e qualitativamente diverso »; Id. 30 aprile 1990, Rasa, cit.; Id. 25 novembre 1989, Sartori, in Giur. it., 1990, II, 428, con nota di G. DE ROBERTO. Tra le sporadiche pronunce in senso contrario, Id. 31 ottobre 1990, Pirovano, cit. Numerose, invece, sono le decisioni concernenti l’ipotesi della chiamata di correo le quali asseriscono che essa, per costituire fondamento di una misura cautelare, deve essere suffragata da altri elementi di prova. Tra le tante, Cass. 7 maggio 1993, Giampiccolo, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 116; Id. 27 aprile 1993, Marazzotta, ibid., 115; Id. 27 aprile 1993, Sinatra, ibid., 115; Id. 23 aprile 1993, Surrenti, ivi, 1993, 791; Id. 27 febbraio 1993, Cusimano ed altri, cit.; Id. 24 febbraio 1993, Rannesi, cit.; Id. 23 aprile 1990, Coppolino, cit.: « una chiamata in correità, isolata e non suffragata da elementi estrinseci, potrà costituire un indizio, ma non certo valere come grave indizio ». In dottrina, richiedono che gli indizi di cui all’art. 273 c.p.p. siano « gravi, precisi e concordanti », A. SANNA, op. cit., 273 ss.; D. CARCANO - G. IZZO, Arresto, fermo e misura coercitiva nel nuovo processo penale, Padova, 1990, 75; S. MESSINA, Il guado della riforma processuale penale tra mafia e camorra, in Giust. pen., 1990, I, 89. Conformemente, si era pronunciato sotto la vigenza del Codice Rocco, G. FALCONE, La necessità di qualificare gli indizi utilizzabili, in Ind. pen., 1983, 736: « La soluzione ottimale sarebbe forse quella di richiedere che sussista una prova per l’emissione di un ordine o di un mandato di cattura. Ci rendiamo conto, però, che in questo modo si ridurrebbero enormemente gli spazi di manovra, per cui è giocoforza accontentarsi degli indizi. Ma, per ridurre al massimo gli errori del giudice, e esprimere una cultura nuova, aderente ai valori costituzionali, il legislatore deve qualificare gli indizi utilizzabili e dire chiaramente che un ordine o un mandato di cattura può essere emesso solo se sussistono indizi di colpevolezza gravi, precisi e concordanti ». Più in là nel tempo, il problema era già stato trattato e risolto nel senso testé formulato da G.D. PISAPIA, Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale, in Riv. dir. proc., 1965, 86. (18) Così Cass. 12 agosto 1993, Alberino, cit.; Id. 4 febbraio 1993, P.M. in proc. Lipari ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 633; Id. 28 agosto 1991, Giordano, cit. Tale diversità di significato è messa in luce da S. RAMAJOLI, op. cit., 701 ss.; M. CHIAVARIO, op. cit., 31; ID., La riforma del processo penale. Appunti sul nuovo codice, Torino, 1990, 162 ss.; M. NOBILI, Art. 192 - Valutazione della prova, in Commento al nuovo codice, a cura di


— 382 — di prova indiziaria (19), ma sottende un elemento probatorio « provvisorio » il quale può indifferentemente rientrare sia nel procedimento per dati di prova critica che in quello per dati di prova storica (20). Si giungerebbe, altrimenti, alla paradossale conclusione di ritenere impossibile l’adozione di una misura cautelare o di un provvedimento di fermo in presenza di prove dirette. 2. Volgendo ora l’attenzione alla nozione di prova indiziaria, si rileva che essa riposa su un passato di lunga tradizione, dalla fondazione del sistema occidentale, al suo evolversi nella rigidità della prova legale, per poi giungere all’affermazione del principio del libero convincimento del giudice e della ricerca della verità materiale (21). La diversità funzioM. CHIAVARIO, Torino, 1990, 417, nota no 9; E. FASSONE, Primi appunti sulla valutazione della prova, cit., 859. (19) In particolare, Cass. 10 dicembre 1991, Nemolato ed altro, cit., precisa che gli indizi di cui all’art. 273 c.p.p. « si sostanziano negli elementi probatori individuati nell’indagine preliminare, anche non costituenti indizi in senso proprio ». Invece, sotto la vigenza del codice abrogato (forse per la mancanza di una norma quale quella contenuta all’art. 192 comma 2) numerose sono state le pronunce giurisprudenziali che consideravano l’indizio, pure nell’ambito della fase investigativa, nell’accezione di prova critica. Al riguardo vedi, per tutte, Cass. 23 gennaio 1976, Bertoni, in Giust. pen., 1976, III, 287. (20) Che in tal ambito la locuzione « indizi » faccia riferimento anche alle prove dirette è confermato dal prevalente orientamento sia giurisprudenziale che dottrinale (al riguardo G. CHELAZZI, op. cit., 62; E. FASSONE, Riflessioni sul tema della prova, cit., 511; N. LAURO, op. cit., 1414), affermatosi sotto la vigenza del codice Rocco. In riferimento all’art. 273 nuovo c.p.p., in giurisprudenza, Cass. 31 agosto 1993, Di Corrado, in Giust. pen., III, 693; Id. 9 giugno 1993, Marazzo ed altri, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 117; Id. 23 novembre 1992, Bottaro, cit.; Id. 15 maggio 1992, Russo, ivi, 1992, 619; Id. 18 giugno 1991, Mongoli, cit.; Id. 15 gennaio 1991, Dresia, cit.; Id. 15 gennaio 1991, P.M. in proc. Halhal, cit.; Id. 6 novembre 1990, Sepe, in Riv. pen., 1991, 762; Id. 5 giugno 1990, Bencini, ibid., 429; Id. 30 aprile 1990, Rasa, cit., Id. 14 marzo 1990, Bortolomeo, in Cass. pen., 1990, 207; Id. 25 novembre 1989, Sartori, cit. In dottrina, M. CHIAVARIO, Art. 273 - Condizioni generali di applicabilità delle misure, cit.. Tale fatto è anche rinvenibile analizzando l’evoluzione della norma. La legge delega del 1974, infatti, al fine di disporre misure di coercizione personale, richiedeva la sussistenza di sufficienti elementi di colpevolezza, espressione appositamente generica al fine di poter alludere sia agli indizi che alle prove storiche; anche se non è da sottovalutare che, in realtà, scopo di non minor rilevanza se non addirittura determinare l’inserimento di tale locuzione, era stato quello di legittimare l’adozione di misure cautelari soltanto in presenza di situazioni probatorie più consolidate (obiettivo poi perseguito attraverso l’uso di una più intensa aggettivazione). (21) Per un’analisi della prova indiziaria sotto il profilo storico, R. LI VECCHI, Rischi e pericoli del processo indiziario, in Riv. pen., 1992, 327 ss.; A. MELCHIONDA, voce Prova (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, 653 ss.; F. CORDOPATRI, voce Presunzione (dir. proc. civ.), ivi, vol. XXXV, Milano, 1986, 278 ss.; E. PALMIERI, Contributo in tema di prova di indizi, in Riv. pol, 1980, 502 ss.; G. BELLAVISTA, voce Indizi, in Enc. dir.,


— 383 — nale attribuita lungo i tempi a tale categoria probatoria non ne ha però mutato i connotati peculiari, peraltro rinvenuti in modo non del tutto univoco nell’ambito degli studi condotti sull’argomento dalla dottrina più accreditata (22). La complessità del tema, invero, risiede proprio nel pervenire ad un’esauriente definizione di prova critica in grado di differenziarla compiutamente dalla prova storica; dicotomia che ha quale presupposto indefettibile l’assunzione del termine « indizio » nella sua accezione tecnicogiuridica, prescindendo da ogni interpretazione meramente valutativa (23). vol. XXI, Milano, 1971, 225 ss.; M. NOBILI, Il principio del libero convincimento, Milano, 1974, 113 ss.; V. MANZINI, Trattato di diritto processuale italiano, vol. III, Torino, 1970, 410 ss.; V. GIANTURCO, op. cit., 3 ss.; S. MESSINA, Il regime delle prove nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1914, 296 ss. (22) L’elaborazione del concetto di prova indiziaria contrapposta a quello di prova storica, infatti, si presenta talvolta con diversità decisamente notevoli a seconda degli autori che hanno trattato l’argomento e varia addirittura presso lo stesso autore qualora questi abbia scritto in tempi diversi (per rendersi conto di ciò è sufficiente considerare lo sviluppo del pensiero di F. CARNELUTTI sul tema tra le sue opere La prova civile, Roma, 1947, 19, 66 ss. e Diritto e processo, Napoli, 1958, 128 ss.). (23) In passato, il termine indizio è stato impiegato in un’accezione esclusivamente valutativa soprattutto presso la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, al fine di legittimare l’ingresso in giudizio di dati probatori che, in quanto atipici od invalidi, non si sarebbero dovuti tenere in alcun conto. Ritengono, invece, in via di principio che la prova e l’indizio abbiano natura diversa, pur nella varietà delle formulazioni, Cass. 19 settembre 1988, Agresta, in Cass. pen., 1989, 2243; Id. 29 maggio 1987, Senapa, ivi, 1988, 2128; Id. 27 aprile 1987, Mazzotta, ibid., 1699; Id. 3 giugno 1986, Greco, ivi, 1987, 161; Id. 17 febbraio 1986, Bizziachero e Id. 13 gennaio 1986, Frassetto, in Rep. Foro it., 1986, voce Prova penale, no 46 e 40; Corte d’Assise Bologna, 18 dicembre 1985, Petrelli, in Critica pen., 1986, 90, ove si asserisce che la diversità di natura fra prova e indizio « si coglie avendo riguardo al diverso modo di presentarsi dell’ingerenza probatoria e dell’ingerenza indiziaria: ...la conclusione del sillogismo indiziario è soltanto e sempre possibile mentre quella del sillogismo probatorio è sempre necessaria »; Cass. 26 settembre 1985, voce Prova penale, no 48; Id. 16 novembre 1983, Ragusa, in Cass. pen., 1985, 1177; Id. 1 dicembre 1981, Massimi, ivi, 1983, 701; Id. 8 maggio 1980, Geraci, ivi, 1981, 1842; Id. 22 giugno 1945, Tridente ed altri, in Giur. compl. cass. pen., 1946, I, 223: « L’indizio... è un elemento di per se stesso incerto ai fini della prova », con nota critica di E. BATTAGLINI, cit. In dottrina, si ricorda G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. UBERTIS, Milano, 1992, 27 ss. e ivi nota no 95; ID., Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., 110 ss., il quale contrappone la nozione di indizio a quella di prova in senso stretto. Secondo l’Autore, « la distinzione tra prova in senso stretto (tanto critica quanto rappresentativa) e indizio (o presunzione semplice) concerne la modalità logica della conclusione successiva all’inferenza fondata sull’elemento di prova » (p. 115). L’indizio si differenzierebbe, cioè, dalla prova piena non per motivi strutturali — ossia per il fatto che la mediazione logica sia più o meno automatica (ratio distinguendi, invece, tra prova rappre-


— 384 — Abbandonata l’idea di una classificazione di tipo ontologico, di conseguenza, la distinzione in questione non può che vedere coinvolto il profilo strutturale; considerazione che funge da mera premessa del discorso, essendo molteplici gli elementi discriminanti sui quali fondare la dicotomia prova storica-prova indiziaria pur sempre dal punto di vista della loro differenza di struttura. Secondo un’autorevole voce dottrinale (24), la prova storica si identisentativa e prova critica) — ma sulla base di una divesa natura, consistente nella qualità dell’attività intellettiva esercitata. Quando il passaggio dall’elemento al risultato probatorio risulta univocamente determinato, si parla di prova in senso stretto; in caso contrario, di semplice indizio. D’altra parte, il carattere di equivocità ed incertezza del citato passaggio logico permane anche nel caso in cui la conclusione soltanto ipotetica possa essere in seguito verificata, dando luogo, così, ad un’ipotesi meramente indiziaria e non probatoria la quale si verifica, invece, solo di fronte alla necessarietà del risultato (rinvenibile peraltro anche nelle prove di tipo critico: vedi l’esempio dell’alibi a p. 114). In modo sostanzialmente conforme, A. NAPPI, Azione e prova nel nuovo codice di procedura penale. Valori culturali e politici della riforma, in Quest. giust., 1991, 107, afferma che « l’indizio è inevitabilmente ambiguo. Il fatto indiziante è per definizione compatible con una pluralità pressoché infinita di possibili ricostruzioni della vicenda in cui esso si inserisce »; ID., Prova e indizi: la giurisdizione tra razionalità e consenso (nota a Cass. 11 luglio 1989, Ferro), in Cass. pen., 1990, 468, ove precisa che, a differenza dell’ipotesi indiziaria, « per aversi prova occorre fare ricorso a una regola di inferenza che consenta di desumere il fatto da provare come conseguenza necessaria, non soltanto come conseguenza possibile, del fatto noto ». Anche questo Autore pertanto considera l’alibi una prova e non un indizio (vedi al riguardo quanto asserito a p. 469). Analogamente, G. TORREBRUNO, La prova nella motivazione, in Nuovo dir., 1987, 509; P. DI RONZA, Elemento probatorio, indizio e massime di esperienza (nota a Cass. 7 dicembre 1977, Ponza), in Giur. di merito, 1979, II, 124 ss.; G. BETTOCCHI, Libero convincimento, prova, indizio: verifica giurisprudenziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 718; M. MASSA, Contributo all’analisi del giudizio di primo grado, Milano, 1964, 115 ss., 120 ss., 301, che considera l’indizio come un « dato intrinsecamente incerto », ontologicamente incapace di provare in modo pieno, cosicché la differenza tra prova e indizio risulta « tutta nell’impossibilità dell’indizio di determinare un giudizio di valore sulla sua ‘‘verità’’ »; R.A. FROSALI, Sistema penale italiano, Pt. II (Diritto e processo penale), vol. IV, Torino, 1958, 271: « Gli indizi non sono mai prove sicure e ‘‘prova indiziaria’’ equivale a prova di possibilità »; U. ALOISI, op. cit., 627, 639 ss., che ritiene quale caratteristica peculiare dell’indizio quella della equivocità e asserisce che « ...per tale sua limitata efficacia, la quale si riduce ad essere indicativa, l’accertamento, di cui trattasi, costituisce quel che appunto si suol definire un indizio ». Da un punto di vista storico, poi, la concezione dell’indizio quale dato probatorio ad efficacia dimostrativa limitata presenta, si può dire, una tradizione secolare entrata in crisi agli inizi del secolo scorso in coincidenza con l’avvento delle codificazioni. Sul punto, A.A. SAMMARCO, La chiamata di correo, Padova, 1990, 25 ss.; M. NOBILI, op. ult. cit., 81 ss.; M.A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966, 20 ss. (24) In tal senso, F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1991, 529 ss., il quale afferma: « abbiamo definito le funzioni narrative distinguendovi l’emittente, un testo, i destinatari. Ogni prova non definibile così è funzione induttiva » (p. 534); ID., Guida alla procedura penale, Torino, 1986, 322 e ss.; ID., Manuale di procedura penale, Torino, 1985, 932


— 385 — ficherebbe con le dichiarazioni di prova (testimonianza lato sensu e documento), sia quelle aventi per oggetto il fatto asserito dall’accusa, sia quelle aventi per oggetto un fatto diverso ritenuto rilevante ai fini decisionali in quanto da esso sia ricavabile l’esistenza del primo, mentre la prova critica consisterebbe nell’inferenza attraverso la quale si risale da un fatto noto all’accertamento di quello ignoto. Cosicché il concetto di prova indiziaria finirebbe con l’esaurirsi nell’attività logica del giudice, non ricomprendendo in sé il momento relativo a quell’attività che, necessariamente presupposta, fornisce al processo il datto fattuale da cui si argomenta, grazie ad una regola di esperienza, l’esistenza del fatto da provare. Ne segue quale corollario che, ai fini dell’acquisizione e valutazione di una testimonianza o di un documento che abbia per oggetto un fatto diverso dal thema probandi, il giudice si troverebbe di fronte non ad una prova soltanto bensì a due, una di tipo storico, l’altra di tipo critico (25). Senonché, riflettendo partitamente sulle singole fasi del procedimento probatorio, sembra opportuno considerare i due distinti momenti — quello volto a procurare la conoscenza della circostanza da cui diparte il ragionamento del giudice e quello concernente appunto l’attività logicoinferenziale impiegata da quest’ultimo per risalire da tale circostanza al ss., ove si legge: « la vera linea di discriminazione corre fra le prove consistenti in dichiarazioni e tutte le altre. A queste ultime abbiamo conservato la denominazione ‘‘prove critiche’’, per sottolineare il carattere induttivo dell’operazione mentale che stimolano nell’osservatore... La testimonianza e il documento sono le due specie nelle quali si presenta il fenomeno della dichiarazione di prova »; L. MONTESANO, Le « prove atipiche » nelle « presunzioni » e negli « argomenti » del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, 244, che definisce prova critica « ogni prova che non narri (come il testimone) o non rappresenti (come il documento) il fatto da provare, ma consenta di argomentarne l’esistenza ». Di recente, in modo sostanzialmente conforme si è pronunciato P. FERRUA, Studi sul processo penale penale, Torino, 1990, 106 e 48: « nella dichiarazione di prova il fatto è espresso, descritto con i segni linguistici (parole o altri simboli, dove il rapporto tra le due facce del segno è di equivalenza, cioè di stare per); nella prova indiziaria il fatto è indotto (‘‘abdotto’’, come è di moda dire oggi) da un altro fatto, secondo una regola di implicazione (la c.d. massima di esperienza) ». (25) Tale tesi è sostanuta da P. FERRUA, op. cit., 106, che, riferendosi alle dichiarazioni di prova, afferma: « ovviamente, quando esse vertono su un fatto ‘‘secondario’’, sarà su quest’ultimo che dovrà poi svilupparsi l’induzione giudiziaria », meccanismo tipico della prova indiziaria. Alla stessa conclusione, pur partendo da una definizione diversa di prova indiziaria (vedi al riguardo quanto si dice infra alla nota no 31), sembra anche pervenire F. CARNELUTTI, op. ult. cit., 132, il quale asserisce che « la prova storica può servire alla prova critica, nel senso che il testimonio o il documento invece di narrare alcuno dei fatti, sui quali il giudice ha da pronunciare il giudizio finale, gli narrino invece un fatto, che gli servirà per la prova critica ».


— 386 — fatto da provare — come fenomeno onnicomprensivo dell’uno e dell’altro (26). In altre parole, è l’unitarietà del fenomeno nel suo atteggiarsi pratico, ossia in riferimento al giudizio di rilevanza, formazione e controllo della prova, la ragione che consiglia di risolversi per una diversa costruzione della prova indiziaria (27). In tal modo, quest’ultima viene a coincidere con l’intero meccanismo indiretto attraverso il quale « da un fatto noto, attraverso un giudizio logico che si adagia nello schema caratteristico del sillogismo probatorio (28), si può argomentare l’esistenza di altro fatto igno(26) In linea, P. SARACENO, La decisione sul fatto incerto, Padova, 1940, 110 ss., ove si dice che « voler fornire una prova critica con la sola massima di esperienza è inconcepibile come voler fare un sillogismo con una sola premessa, o voler camminare, senza saltare, con un solo piede. Possiamo concretamente raffigurare la massima di esperienza alla leva di primo genere costituita da una comunissima sbarra di ferro. Tentiamo di fare agire la leva senza un punto di appoggio ossia senza un ‘‘fulcro’’, e vedremo come ciò sia impossibile: sulla massima di esperienza il punto di appoggio è dato dall’elemento indiziante, il quale deve essere già provato ». (27) Come è facile rilevare, infatti, nella fase di ammissione della prova avente per oggetto la circostanza indiziante (ossia il dato che funge da premessa minore dell’argomentazione sillogistica) i giudizi di rilevanza sono calibrati non solo su tale circostanza che, di per sé, è indifferente al thema probandum (oggetto d’accertamento nell’ambito del processo penale) ma considerando necessariamente anche la conclusione di fatto che da essa è possibile desumere. Se fosse unicamente tale circostanza ad essere presa di mira mai sarebbe possibile valutare come rilevante un oggetto di prova incentrata su di essa. Invero, in tale momento, si pone l’attenzione necessariamente anche alla conclusione logica che da essa è possibile inferire: c’è, dunque, un giudizio di ammissione che si forgia prefigurando come risultanza probatoria la conoscenza di un fatto da cui ne discende l’accertamento di un altro. Quanto, poi, alla formazione della prova risulta problematico concepire che nella prassi essa si esaurisca in un interiore lavoro logico del giudice, senza alcuna proiezione esterna già prima del giudizio finale che si concreta nella decisione. Infine, la fase del controllo si realizza in un’attività di verificazione impegnata a ripercorrere anche gli elementi di fatto su cui si fonda l’argomentazione logica. (28) Vedi Cass. Sez. Un. 4 giugno 1992, Musumeci, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 171; Cass. 30 gennaio 1991, Vassallo, in Giust. pen., 1991, III, 319; Id. 22 giugno 1988, Loi, in Riv. pen., 1989, 424; Id. 17 febbraio 1986, Bizziachero, cit.; Id. 24 maggio 1984, Parnoccia, ivi, 1985, 96; Id. 11 marzo 1984, Pinto, ibid., 608; Id. 11 febbraio 1984, Piredda, ivi, 1984, 855; Id. 3 dicembre 1983, Turrini, ivi, 1983, 1020; e più in là nel tempo Trib. Roma 20 giugno 1962, Fabrizi, in Arch. pen., 1963, II, 37; Id. 16 marzo 1950, Paris, in Giust. pen., 1950, III, 623. Sull’argomento, in dottrina, G. BELLAVISTA - G. TRANCHINA, Lezioni sul processo penale, Milano, 1987, 313; L. DE CATALDO NEUBURGER, Approccio psicologico all’interpretazione delle prove penali, in Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, a cura di G. GULOTTA, Milano, 1987, 364 ss.; F. CORDERO, op. ult. cit., 934 ss.; G. BETTOCCHI, loc. ult. cit.; P. DE LALLA, op. cit., 364 ss.; G. BELLAVISTA, op. cit., 227 ss.; V. MANZINI, op. cit., 417; E. BATTAGLINI, op. cit., 228; S. MESSINA, op. ult. cit., 301; N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, Logica delle prove in criminale, vol. I, Torino, 1895, 199 ss. Tali


— 387 — to (29), costituente il thema probandum » (30); fondando la distinzione tra prova storica e prova critica sull’oggetto passibile di cognizione piuttosto che sulle operazioni mentali del giudice (31) e creando, così, una situazione di perfetta coincidenza tra tale dicotomia e quella che vede conautori concordano nel ritenere che nel sillogismo indiziario la premessa maggiore sia costituita da una massima di esperienza o da una proposizione logica, la premessa minore dalla circostanza indiziante, mentre la conclusione consiste nella dimostrazione del fatto formante oggetto di prova. Con riserve si esprimono P. DI RONZA, op. cit., 118, 124 ss.; M. MASSA, op. cit., 105 ss.; ID., Massime di esperienza e sillogismo indiziario, in Foro pen., 1963, 16 ss.; Gius. SABATINI, voce Prova (dir. proc. pen. e dir. proc. pen. mil.), in Nss. Dig. It., vol. XIV, Torino, 1957, 307 ss. In senso decisamente contrario, V. GIANTURCO, op. cit., 35, il quale afferma che il meccanismo della prova indiziaria è tutto imperniato sull’illazione, su « un giudizio logico-critico che valuta il fatto presente secondo l’esperienza del passato,... coglie il rapporto tra il fatto e la regola di esperienza, trova questa e la applica al caso ». Tale giudizio « non va confuso col sillogismo che dimostra, sulla base di una regola (premessa maggiore), già posta e riconosciuta ». Secondo l’Autore, infatti, il meccanismo sillogistico non si confarrebbe alla prova indiziaria proprio in quanto caratterizzato, non da funzione ideativa o inventiva, ma da funzione meramente dimostrativa. (29) Cfr. Cass. 25 ottobre 1983, Salemi, in Riv. pen., 1984, 646; Id. 3 febbraio 1982, Panozzo, ivi, 1982, 790; Id. 28 marzo 1979, De Santis, ivi, 1980, 186: « il convincimento del giudice di merito può basarsi non solo su prove dirette, ma anche su prove indirette, e cioè su un processo logico mediante il quale, da un fatto provato e certo, si trae per induzione logica, una conclusione circa l’esistenza o meno del fatto da provare »; Id. 30 gennaio 1973, Albanesi, in Cass. pen., 1973, 1061; Id. 22 giugno 1945, Tridente ed altri, cit. (30) Testualmente V. GIANTURCO, op. cit., 2. Nel medesimo senso, G. BELLAVISTA G. TRANCHINA, op. cit., 312; G. LEONE, Manuale di diritto processuale penale, Napoli, 1978, 426; G. BELLAVISTA, op. cit., 224; P.B. AMICARELLI, op. cit., 105; V. MANZINI, op. cit., 416; M. PISANI, La tutela delle prove formate nel processo penale, Milano, 1959, 125; P.O. EKELOF, La libera valutazione delle prove, in Studi in onore di A. Segni, vol. II, Milano, 1957, 94; E. MASSARI, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, Napoli, 1934, 385 ss.; L. LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze, 1920, 170. Definizioni sostanzialmente conformi sono rinvenibili anche presso la dottrina più antica. Vedi N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 2, 19 e 199; C.G.A. MITTERMAYER, Teoria della prova, Milano, 1858, 508 ss.; E.F.G. KLEINSHROD, Della prova indiziaria nelle cause criminali, in Scritti germanici di diritto criminale, vol. II, Livorno, 1846, 357; G. BENTHAM, Teoria delle prove giudiziarie, trad. it. a cura di B.V. Zambelli, Bruxelles, 1842, 170; M.F. PAGANO, Logica de’ probabili, Milano, 1806, 10. (31) Così F. COPPI, Il problema della prova nei maxi-processi, in Temi Romana, 1986, 278: « Limitato forse dalla mia idea secondo cui la prova non si discosta... dai due poli della prova diretta e della prova indiretta, non riesco a trovare legittimazione per questa cosiddetta prova logica. Se infatti con questo termine si vuole fare riferimento al ragionamento che il giudice svolge intorno alle prove e, in particolare, intorno agli indizi per ricavare, attraverso una argomentazione rigorosa, certezze relativamente al fatto da provare, l’espressione ‘‘prova logica’’ è impiegata indubbiamente in modo inesatto e fuorviante poiché, come è ovvio, il ragionamento e le argomentazioni non sono esse stesse ‘‘prova’’ ».


— 388 — trapposta la prova diretta a quella indiretta (32) sulla base del dato fattuale che ne costituisce l’oggetto. Pertanto, si definisce prova storica quella che ha per oggetto un fatto di reato (33), prova indiziaria quella che pertiene ad un fatto diverso dal (32) Nell’ambito degli studi condotti al fine di enucleare la ratio distinguendi tra prova storica e prova indiziaria, si nota come la maggior parte delle relative teorie si fondano proprio sulla coincidenza, o talvolta sulla combinazione, della distinzione menzionata con quella concretata dal binomio prova diretta-prova indiretta. Infatti — a prescindere da coloro che risolvono il concetto di prova critica nel tipo di attività intellettiva compiuta dal giudice per risalire dal fatto noto a quello ignoto (vedi supra gli autori citati alla nota no 24) e da chi ritiene che la prova di un giudizio possa differire per l’elemento personale o reale, ossia o per l’homo iudicans o per la res iudicanda (così F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, 162 ss.; ID., Diritto e processo, cit., 129 ss.; M. PISANI, op. cit., 129) — la maggior parte degli autori pone in evidenza, pur con sfumature diverse, il meccanismo rispettivamente diretto e indiretto della prova storica e di quella indiziaria. Così, l’elemento classificante può concretarsi, oltre che nell’oggetto della prova (criterio qui accolto), nel carattere immediato o mediato dell’operazione mentale da cui emerge l’immagine del fatto da provare. Come precisa F. CARNELUTTI, La prova civile, cit., 64 ss., 79, « il tipo semplice della prova diretta presenta il contatto immediato tra il giudice e il fatto da provare; qui il mezzo della conoscenza si limita a un’attività del giudice che è l’attività diretta alla percezione del fatto da provare. Il tipo complesso della prova indiretta presenta invece il distacco tra il giudice e il fatto da provare, mentre il contatto è stabilito da un fatto intermedio, che forma l’anello di congiunzione fra quei due termini: qui la conoscenza non si ottiene soltanto per mezzo dell’attività del giudice, ma ancora per mezzo di un fatto esteriore, sul quale l’attività percettiva e deduttiva viene esercitata ». Nel medesimo senso, C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, vol. II, Torino, 1991, 137; G. LEONE, op. cit., 406; ID., Trattato di diritto processuale penale, vol. II, Napoli, 1961, 175; M.P. RANDAZZO, La valutazione delle prove nel processo penale, in Arch. pen., 1957, 315; Gius. SABATINI, op. cit., 304 ss.; F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. I, Roma, 210; E. REDENTI, Profili pratici del diritto processuale civile, Milano, 1939, 406, che configura la prova diretta « quando dalle constatazioni empiriche il giudice può giungere, in modo immediato, a quelle proposizini di fatto che devono servire di base alla sua decisione »; la prova indiretta « quando il giudice può giungere in un primo tempo solo a stabilire una proposizione di fatto, che non è in sé e per sé quella che gli serve per gli effetti della decisione »; F. CARNELUTTI, Sistema di diritto processuale civile, vol. I, Padova, 1936, 677; Gugl. SABATINI, Teoria delle prove nel diritto processuale penale, vol. II, Catanzaro, 1911, 152 ss. In un’ottica del tutto differente, invece, si pone quell’indirizzo secondo il quale, « se il fatto cade immediatamente sotto i sensi del giudice, si ha la prova diretta, mentre se tra i sensi del giudice e i fatti si inseriscono altre attività, si ha la prova indiretta, la quale a sua volta si distingue in prova storica e critica » (così V. ANDRIOLI, voce Presunzioni (dir. civ. e dir. proc. civ.), in Nss. Dig. It., vol. XII, Torino, 1968, 821). Conformemente, F. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit., 321; ID., Manuale di procedura penale, cit., 932, il quale precisa che la prova diretta, ossia quella prova ove « chi giudica ha sperimentato personalmente i fatti », consistendo « nel ‘‘medesimo fatto da provare’’... è configurabile solo nei reati commessi in udienza » (art. 476 nuovo c.p.p.); A. DE MARSICO, Diritto processuale penale, Napoli, 1966, 194 ss. (33) Per ragioni di maggior snellezza e semplicità di linguaggio la definizione menzionata si riferisce alla figura del fatto-reato anche se sarebbe più corretto impiegare la gene-


— 389 — quale, mediante un procedimento logico, si può risalire all’illecito penale (34). Messo a punto in questi termini il quadro concettuale e ridotta perciò la prova storica entro i confini di quella prova che concerne in modo totale o parziale (35) il fatto di reato, si comprende allora come non si possa affermare in astratto che un determinato tipo di prova appartenga alla specie storica piuttosto che a quella critica. Si faccia il caso della testimonianza (e l’osservazione vale per ogni prova consistente in una dichiarazione, documento compreso): secondo che il suo tema coincida con

rica locuzione thema probandum, verificandosi, nell’ambito del processo penale, l’esigenza di accertare la sussistenza di circostanze attenuanti e aggravanti (sul punto Cass. 26 settembre 1989, Solano, in Riv. pen., 1990, 681), le quali, come è noto, non rientrano nella costruzione propria dell’illecito penale ma ne costituiscono elementi eventuali ed accessori. Per una definizione di thema probandum, vedi F. CORDERO, op. ult. cit., 932, che intende, con tale formula, « il giudizio da provare » o, se si preferisce, « il fatto costituente quel giudizio »; ID., Tre sudi sulle prove penali, Milano, 1963, 4 e ivi la nota no 4, ove si precisa che il tema probatorio concerne « l’enunciazione di un fatto corrispondente ad un modello legale ». (34) Tra le tante, vedi Cass. 11 luglio 1985, Gentile, in Cass. pen., 1986, 120, la quale asserisce che la prova diretta « pertiene al fatto-reato e consente in via immediata la conclusione sulla sussistenza di tale fatto » mentre quella indiretta « attiene ad un fatto diverso da quello oggetto di prova ». In dottrina, in tal senso, A. BASSI, Il controllo del giudice di legittimità sulla valutazione della prova indiziaria: una nuova invasione di campo (nota a Cass. 5 marzo 1991, Calò), in Cass. pen., 1992, 1016; M. NOBILI, La nuova procedura penale (Appunti delle lezioni agli studenti), Bologna, 1990, 170 ss.; G. LOZZI, Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1990, 106; D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - A. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, Principi di diritto processuale penale, vol. I, Milano, 1990, 392; G. e R. BETTIOL, Istituzioni di diritto e procedura penale, Padova, 1989, 159; F. COPPI, op. cit., 275; E. FLORIAN, Principi di diritto processuale penale, Torino, 1932, 350 ss.; A. CONIGLIO, Le presunzioni nel processo civile, Palermo, 1915, 176; C. LESSONA, Trattato delle prove in materia civile, Firenze, 1914, vol. I, 91 ss.; N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 138 ss. In modo sostanzialmente conforme, pur facendo un uso improprio dei termini, si esprime G. FOSCHINI, Sistema del diritto di procedura penale, vol. I, Milano, 1965, 376 ss., 396 ss., 450 ss., il quale parla di prova generica alludendo alla prova diretta, di prova specifica riferendosi a quella indiretta. (35) La maggior parte della dottrina sottolinea, infatti, come non si possa in alcun caso provare l’elemento soggettivo del reato attraverso prove dirette. Sul punto, L. Jr. SANGUINETTI, La valutazione della prova penale (teoria e pratica del diritto), Milano, 1979, 91 ss.; P.B. AMICARELLI, loc. ult. cit.; V. GIANTURCO, op. cit., 108 ss.; Gius. SABATINI, op. cit., 305; N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 141. Tuttavia non va dimenticata l’eventualità che l’elemento psicologico dell’illecito penale sia oggetto della confessione dell’imputato la quale, pur avendo efficacia meramente indiziaria (intendendo per indizio, in questo caso, una probatio minor), riveste comunque il carattere di prova storica, in quanto verte direttamente sul fatto oggetto di reato.


— 390 — il fatto criminoso o consista in un fatto diverso da cui sia argomentabile l’esistenza di quello, essa è da ricondurre all’una o all’altra classe (36). Detto ciò, pare opportuno considerare un ulteriore aspetto attinente la dicotomia probatoria presa in esame. Si allude al concetto di rappresentazione, dato sul quale parte della dottrina ha spesso elaborato, seppur con sfumature diverse e ripensamenti (37), la costruzione della prova storica. A prescindere dai motivi riguardanti meramente il profilo denominativo (38), ragioni sostanziali hanno condotto alcuni autori a credere che il carattere rappresentativo o no dei vari strumenti gnoseologici possa fungere da elemento qualificante. Così, mentre le prove rappresentative, aventi come aspetto peculiare quello rappresentativo-artificiale, consisterebbero in atti o cose compiute o costruite « in tal guisa da far presente un avvenimento », le prove critiche ricomprenderebbero, per esclusione, « i casi in cui la traccia passibile di sensazione non è offerta da un atto o una cosa nati dall’artificio rivolto ad evocare o a fissare l’immagine di un fatto, in base ad una certa convenzione » (39). (36) In tal senso, A.A. SAMMARCO, Sui requisiti della prova indiziaria nella nuova disciplina processuale penale, in Giust. pen., 1991, III, 275 e ivi la nota no 10; G. LOZZI, loc. ult. cit.; E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 114; N. LAURO, op. cit., 1416; V. GIANTURCO, op. cit., 56 e ss.; M.P. RANDAZZO, loc. ult. cit.; L. LUCCHINI, op. cit., 185 ss.; A. CONIGLIO, op. cit., 198: « l’indizio può essere il risultato d’una prova testimoniale, d’una prova scritta, d’una confessione stragiudiziale, ed in genere d’ogni mezzo di prova »; Gugl. SABATINI, op. cit., 161; N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 140. (37) Vedi al riguardo l’evoluzione del pensiero di F. CORDERO intercorrente tra i Tre sudi sulle prove penali, cit., 7 ss. e il Manuale di procedura penale, cit., 327 ss., 931 ss. (38) Tale aspetto è preso in considerazione da F. CORDERO, Tre sudi sulle prove penali, cit., 12, ove si dice che « la denominazione ‘‘prove rappresentative’’ è forse preferibile all’altra, ormai classica, ‘‘prove storiche’’; la ragione della preferenza dipende dall’ambiguità dell’aggettivo: gli indizi fanno storia non meno della testimonianza o del documento e, del pari di quest’ultimi, costituiscono la traccia sensibile da cui muove un giudizio storico ». (39) Testualmente F. CORDERO, op. ult. cit., 7 e 12. Nel medesimo senso, E. FASSONE, op. ult. cit., 114 ss.; ID., Riflessioni sul tema della prova, cit., 512 ss.; F. CORDERO, Manuale di procedura penale, cit., 331. In ordine alle ripercussioni che tale classificazione ha sotto il profilo della falsità e dei rischi che la prova storica-rappresentativa e quella critica importano, vedi F. CORDERO, Procedura penale, cit., 530 ss.; ID., Manuale di procedura penale, cit., 947 ss.; E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 116 ss., ove si legge che « il rischio della prova storica risiede nella non genuinità... essa può essere artatamente costruita o manipolata perché manifesti il falso... il rischio della prova critica risiede nell’inferenza costruita attraverso una regola non sufficientemente probante... il limite della prova critica non sta nella falsità del messaggio ma nella pluralità delle deduzioni possibili... Beniteso anche la prova critica può essere alterata, ma ciò si riconduce alla problematicità della prova storica, con la quale si intende introdurre la prova critica nel processo ».


— 391 — Ma a siffatta teoria il meno che possa obbiettarsi « è che essa costituisce una vera e propria tautologia indicando come rappresentative le prove già costituite come prove » (40), senza considerare il fatto che la denominazione suddetta risulta fuorviante laddove induce a comprendere nella relativa categoria prove che vanno invece incluse tra quelle indiziarie (41). Si pensi alle fotografie, alle riproduzioni sonore e cinematografiche, ai dischi o nastri magnetici, dati probatori che pur non avendo direttamente per oggetto il fatto di reato, possiedono un’indubbia efficacia rappresentativa (42). È del tutto evidente, infatti, che in una classificazione delle prove operata dal solo punto di vista del loro valore rappresentativo gli oggetti nei quali è stata riprodotta meccanicamente la specie sensibile di un accadimento si collochino a pieno diritto accanto alla testimonianza e al documento. D’altronde, « rappresentare un fatto significa costruirne uno equivalente, in modo da poterlo percepire quando non sia più presente » (43); (40) Così Gius. SABATINI, op. cit., 305. (41) In tal senso P. FERRUA, loc. ult. cit. (42) Ad esempio, prendendo in considerazione la fotografia, è possibile notare come tale prova sia di tipo indiziario, in quanto essa « è dell’oggetto fotografato solo la traccia sensibile, l’impronta dovuta all’azione della luce su certe sostanze (pressapoco come un’orma lo è dell’agente impressore) ». Essa non verte direttamente sul fatto di reato ma riguarda quegli elementi che la luce ha impressionato sulla carta, dai quali si può risalire all’accertamento dell’illecito penale. In un’ottica differente, ritengono le prove menzionate nel testo quali prove critiche, non perché indirette, bensì per il carattere induttivo che stimolano nell’osservatore, F. CORDERO, Procedura penale, cit., 543 ss.; P. FERRUA, op. cit., 106 (del quale è l’espressione sopra virgolettata); F. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit., 333: « Prodotti artificiali, fissano eventi sensibili o sonori, con una fedeltà impossibile alla mimesi manuale o parlata: in senso lato, dunque, costituiscono documenti e così vengono comunemente denominati (vedi oggi l’art. 234 comma 1 del nuovo c.p.p.); senonché vi manca il nucleo delle prove storiche, ossia l’enunciato, e, correlativamente, varia la chiave in cui li intendiamo »; ID., Manuale di procedura penale, cit., 937 e 943: « L’accento probatorio dell’operazione probatoria cade su una massima di esperienza e non sull’efficacia mimetica dell’oggetto ». Sempre per l’inclusione delle riproduzioni fotografiche, cinematografiche, magnetiche e sonore tra le prove indiziarie, ma per una ragione ancora diversa in quanto tali esemplari « recano al giudice non tanto un altro giudizio quanto un’altra cosa da giudicare », è F. CARNELUTTI, Diritto e processo, cit., 131. Contra, nel senso della classificazione di tali prove come storiche-rappresentative in contrapposizione a quelle critiche, E. FASSONE, Primi appunti sulla valutazione della prova nel nuovo processo, cit., 854; ID., La valutazione della prova, cit., 114; ID., Riflessioni sul tema della prova, cit., 512; A. DE MARSICO, op. cit., 193; F. CORDERO, Tre sudi sulle prove penali, cit., 7 e ivi la nota no 15; F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, cit., 226; ID., La prova civile, cit., 119; ID., Sistema di diritto processuale civile, cit., 286. (43) Testualmente F. CORDERO, op. ult. cit., 328. In modo conforme, E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 116; F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960,


— 392 — risultato che si può ottenere sia attraverso un atto, sia attraverso l’elaborazione di una cosa — sia essa il prodotto di una dichiarazione ovvero di un artificio meccanico — purché « espressivi e cioè idonei a suscitare un’immagine » (44). In questo modo, però, si rischia di confondere fenomeni che dovrebbero essere tenuti ben distinti: la vera linea di discriminazione non può che porsi tra le prove dirette e quelle indirette, facendo sì che il genere rappresentativo-artificiale si configuri, tutt’al più, come comprensivo di alcune manifestazioni di entrambi i fenomeni (45). E così, una volta rinvenuto nel diverso oggetto della prova l’elemento che contrappone la figura indiziaria a quella storica, è facile rilevare come il divario intercorrente tra le due distinte categorie sia assai meno marcato di quanto potesse sembrare a prima vista. In realtà, a differenza del passato — quando si sosteneva che la prova storica, rappresentando immediatamente il fatto di reato, esentava il giudice da qualsivoglia lavorio intellettuale che non fosse quello della mera percezione del fatto stesso — oggi si è consci che comune ad entrambi i tipi di prova è l’esigenza di un momento valutativo, il quale deve necessariamente succedere al momento percettivo (46). Nell’una e nell’altra ipo163; ID., La prova civile, cit., 122 ss., il quale sottolinea, peraltro, la relatività della funzione rappresentativa di un fatto: « Un fatto non rappresentativo non può funzionare da fatto rappresentativo; viceversa un fatto rappresentativo può funzionare anche da fatto semplice (non rappresentativo)... Un fatto rappresentantivo può essere portato nel processo, anziché per procurare la conoscenza del fatto rappresentato,... perché costituisce una fonte di prova non rappresentativa (fonte di presunzione o indizio) ». (44) Ancora F. CORDERO, loc. ult. cit. Si parla di atto, in riferimento alla figura della testimonianza; di cosa, in relazione ai documenti (espressione di un giudizio del loro autore), alle riproduzioni fotografiche, cinematografiche, magnetiche e sonore, ai contrassegni (oggetti convenzionalmente indicativi di un fatto). Per un’analisi del concetto di documento in contrapposizione a quello di prove reali critiche vedi F. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit., 133; ID., Manuale di procedura penale, cit., 329 e 331. (45) È opportuno, cioè, costruire la figura delle prove rappresentative-artificiali come categoria a sè comprensiva sia di prove storiche che di prove critiche. Così le prove si distinguerebbero in artificiali o naturali a seconda che consistano o meno in porzioni di materia elaborata dall’uomo, al fine di evocare un fatto. In un’accezione ancora più lata, la recente Cass. 11 ottobre 1991, Pernice, in Foro it., 1992, II, 150, precisa che « ogni elemento, acquisito agli atti, ha una propria capacità ‘‘rappresentativa’’, nel senso che esso ‘‘ri-presenta’’, e cioè fa rivivere nella mente di colui che lo esamina, un determinato avvenimento ». (46) Sul punto, tra le tante, Cass. 28 novembre 1986, Giordano, in Riv. pen., 1988, 199: « In tema di prova critica (così come nella prova diretta) si distinguono due momenti: uno meramente percettivo ed uno relativo alla valutazione; il primo presuppone l’esistenza di un dato di fatto che consente la ricostruzione indiziaria con estremo rigore; deve, cioè,


— 393 — tesi (47) è dunque indispensabile la verifica (48), la quale riposa sulle regole di esperienza e che, se positivamente superata, rende in ogni caso la prova idonea ai fini della decisione penale. « Deve essere decisamente respinta, invece, l’idea che la prova indiretta o l’indizio provino qualcosa meno della prova diretta » (49): invopresentarsi certo, sicuro, inoppugnabile affinché sia lecito prenderne le mosse per ogni ulteriore ricerca e valutazione; il momento valutativo, invece, attraverso la individuazione di una regola di esperienza, con un procedimento induttivo, permette di far discendere dal dato indiziante la conclusione probatoria ». (47) Anche l’intendimento delle prove storiche « non si esaurisce in un atto intuitivo, ma è mediato da momenti che impegnano la ragione »: testualmente F. CORDERO, Note sul procedimento probatorio, in Jus, 1961, 6. In quest’ottica l’art. 192 comma 1 nuovo c.p.p. sembra ancorare l’analisi del materiale decisorio a caratteristiche minime, comuni indipendentemente dalla categoria probatoria di appartenenza, nelle quali la libertà di approccio dell’informazione non è disgiunta dalla razionalità del corrispondente vaglio. « Ne deriva che la presunta immediatezza della rappresentazione dell’accaduto offerta dalle prove storiche non è affidata ad alogiche intuizioni o a privilegiate immedesimazioni tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto, né sfugge, perciò, alle cadenze della elaborazione mentale di tipo discorsivo... Diversamente, non si potrebbe render conto in motivazione della ratio seguita in sede di valutazione ». Così M. MENNA, Chiamata in correità e canoni di valutazione probatoria tra sindacato di merito e giudizio di legittimità, in Cass. pen., 1991, 168. Sotto la vigenza del codice Rocco, analogo discorso, veniva fatto da E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1988, 209. (48) Sul punto, tra le tante, Cass. 13 novembre 1991, Cosseddu ed altri, in Foro it., II, 1993, 247: « Devesi ritenere superata la tradizionale distinzione tra la prova rappresentativa e quella critica, dovendo riconoscersi all’una e all’altra identica attitudine alla dimostrazione del thema probandum una volta che abbiano superato il controllo della verifica »; Id. 20 giugno 1991, Pernice, cit.; Id. 30 maggio 1991, Piredda, in Riv. pen., 1992, 519, ove si asserisce che la prova testimoniale « al pari di ogni altra prova, va sottoposta al vaglio critico del giudice, di cui quest’ultimo deve dare valida contezza in sede di motivazione »; Id. 10 marzo 1989, Verdiglione, in Rep. Foro it., 1989, voce Prova penale, no 28; Id. 29 novembre 1988, Bedon, ibid., no 29; Id. 7 giugno 1984, Russo, in Giust. pen., 1985, III, 397; Id. 14 novembre 1983, Bertocchi, in Rep. Foro it., 1985, voce Prova penale, no 46: « Gli indizi devono e possono essere utilizzati dal giudice come qualsiasi altro mezzo di prova per la formulazione del convincimento; del resto non è possibile una distinzione tra prova e indizio in quanto ogni elemento probatorio — diretto o indiretto — impone un’attenta valutazione da parte del giudice ». In dottrina, tale comune esigenza è ampliamente analizzata da S. LODOVICI, Utilizzazione e valutazione della prova, in Il principio del libero convincimento del giudice nel nuovo processo penale (Roma 30 novembre - 2 dicembre 1990), Quaderni del C.S.M., Roma, 1992, 126; M. BONETTI, op. cit., 488; E. FASSONE, Primi appunti sulla valutazione della prova nel nuovo processo, cit., 853 ss.; ID., La valutazione della prova, cit., 117 ss., 139; ID., Qualche altra riflessione in tema di prova, in Quest. giust., 1986, 722 ss.; ID., Riflessioni sul tema della prova, cit., 513 ss.; P. SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., 1565; F. CORDERO, Tre studi sulle prove penali, cit., 11 ss., 15; P.O. EKELOF, op. cit., 94, 110 ss. (49) Testualmente F. COPPI, op. cit., 275. « La parola indizio, come presunzione, allude a un minor valore della prova critica in confronto con la prova storica... ma si tratta di un’impressione fallace in quanto, a priori, non è possibile stabilire un più o un meno di vali-


— 394 — care tale distinzione per esprimere valutazioni di maggior o minor efficacia dimostrativa si risolverebbe in un vero e proprio ‘‘pregiudizio’’ (50). Anche perché sovente la prova critica serve a verificare quella storica e, comunque, prove di un tipo sono inestricabilmente intrecciate con prove dell’altro tipo (51). Cosicché è plausibile concludere che, « in ogni caso, ciò che determina l’attendibilità del giudizio non è la categoria in cui la prova può essere collacata, ma il contenuto ed il fondamento della regola di inferenza che il giudice deve esibire a garanzia della sua argomentazione, indicando le esperienze e i valori cui si richiama e le ragioni per cui li ritiene universalmente accettati » (52). dità di uno o dell’altro tipo di prova » (così F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, cit., 197). (50) Al riguardo, Cass. Sez. Un. 4 giugno 1992, Musumeci, cit.; Cass. 24 febbraio 1992, Barbieri ed altro, in Riv. pen., 1993, 519; Id., 14 febbraio 1992, Lionetti, ibid., 661; Id., 21 ottobre 1991, Cosseddu, cit.; Id. 11 ottobre 1991, Pernice, cit., ove si dice che « nel processo penale non è possibile stabilire un’ordine di precedenza fra prove dirette (o storiche) e prove indirette (o critiche), poiché, in relazione alle une o alle altre resta fondamentale l’attività raziocinante del giudice che vale ad accertarne la credibilità e l’incidenza »; Id. 8 giugno 1989, Monformoso, in Rep. Foro it., 1989, voce Prova penale, no 19 e 24; Id. 10 marzo 1989, Verdiglione, cit.; Id. 4 aprile 1987, Freda, in Cass. pen., 1988, 1486, la quale asserisce che sotto il profilo della certezza, prova diretta e indiretta non differiscono perché « entrambe, diverse soltanto nel metodo di indagine, debbono condurre allo stesso risultato di piena dimostrazione della responsabilità, essendo del tutto erroneo ritenere che la prova indiretta possa essere incompleta o sempiena e che il giudice possa colmare attraverso il libero convincimento, quanto manchi agli elementi di accusa per un giudizio di certezza »; Id. 28 febbraio 1972, Pace, in C.E.D., no 121090. In dottrina, A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 275; A. DI MARCO, Prova logica e prova storica nel processo per delitto di mafia, in Mafia ’ndrangheta e camorra, a cura di G. BORRÈ e L. PIPINO, Milano, 1983, 211; V. ANDRIOLI, op. cit., 771; V. GIANTURCO, op. cit., 169 ss., il quale afferma che « tanto l’indizio, quanto la prova diretta possono dare un risultato probante pieno ed intero... e ciò riconferma l’evidente errore di chi, nel diritto moderno, considera l’indizio come una prova mancata o come probatio levior » (p. 173); E. BATTAGLINI, op. cit., 228; L. LUCCHINI, op. cit., 170; A. CONIGLIO, op. cit., 178 e 224; S. MESSINA, op. ult. cit., 304. In tema, vedi anche il discorso proposto da V. GIANTURCO, op. cit., 165 ss., in riferimento alla possibilità, sotto la vigenza del codice Rocco, da parte della prova indiziaria di rivestire la qualità di prova evidente, « tale, cioè, da persuadere immediatamente il giudice della sua corrispondenza alla realtà ». (51) In tal senso F. CORDERO, Manuale di procedura penale, cit., 946. « È pertanto assai raro il caso, nel quale il giudice possa servirsi di uno solo tra i due tipi di prova; per lo più nell’adempimento del suo lavoro egli abbisogna così dell’uno come dell’altro strumento » (F. CARNELUTTI, Diritto e processo, cit., 132). Sulla funzione accessoria della prova indiziaria in sede di valutazione e controllo dell’attendibilità della prova diretta vedi anche M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, vol. I, Milano, 1962, 180 ss. e F. CARNELUTTI, La prova civile, cit., 237 ss. (52) Testualmente A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Mi-


— 395 — 3. Alla luce di quanto appena asserito, allora, « se tutto è indizio, nel senso che nessun mezzo di prova dispensa dalla verifica, il problema è quello di individuare le corrette regole di esperienza che legittimano l’inferenza » (53), avvertendo peraltro che, sebbene di fronte alla dichiarazione di prova occorre pur sempre verificare se nel mondo della storia o della natura sia davvero esistito il fatto enunciato (54), il vaglio della prova indiziaria comporta un’operazione mentale non qualitativamente diversa (55) ma di certo più complessa (56). Una volta superata la fase meramente percettiva, nel caso della prova storica (si pensi al teste che dice di aver visto l’imputato rubare l’auto) il giudice deve compiere un’unica valutazione attraverso l’applicazione di una sola regola di esperienza, in quanto la prova pertiene direttamente all’illecito penale. Di conseguenza, se in virtù del criterio inferenziale impiegato la prova può ritenersi seria ed affidabile (ossia nel caso di specie se è dato affermare l’attendibilità del teste che non si è sbagliato, non ha mentito o non è stato indotto per qualsiasi motivo a dichiarare il falso) (57), il fatto risulterà senz’altro provato. lano, 1993, 121. Conformemente, E. FASSONE, loc. ult. cit.; F. CORDERO, op. ult. cit., 945. (53) Così E. FASSONE, Riflessioni sul tema della prova, cit., 514. Conformemente, E. AMODIO, loc. ult. cit.; G. FOSCHINI, op. cit., 415. (54) Cfr. F. CORDERO, Tre studi sulle prove penali, cit., 11. Quanto asserito permette allora di comprendere il reale significato dell’affermazione, solo apparentemente paradossale, secondo cui « la testimonianza è una prova, la quale... esige a sua volta di essere provata » (ivi, 23, nota no 56 e ID., Manuale di procedura penale, cit., 945). In riferimento alla prova storica, infatti, le regole di esperienza « costituiscono il metodo con cui saggiare la genuinità della proposizione predicata (è larghissimo il loro impiegho innavvertito quando affermiamo che ‘‘il teste non ha motivo per mentire’’, ‘‘è indifferente’’, o al limite è semplicemente ‘‘credibile’’) » (E. FASSONE, loc. ult. cit.). In tema vedi P. FERRUA, Studi sul processo penale (Anamorfosi del processo accusatorio), vol. II, Torino, 1992, 51 ss. (55) Sull’indentità della natura inferenziale del vaglio della prova storica e di quella critica, M. TARUFFO, Certezza e probabilità nelle presunzioni, in Foro it., 1974, 84; ID., Studi sulla rilevanza della prova, cit., 231 ss.; ID., Il giudice e lo storico: considerazioni metodologiche, in Riv. dir. proc., 1967, 438 ss.; F. CARNELUTTI, Diritto e processo, cit., 132, secondo cui il testo dell’art. 2727 c.c. non è che « una parafrasi del giudizio, il quale procede sempre dal noto all’ignoto »; A. CONIGLIO, op. cit., 182, il quale asserisce che « la differenza tra il lavoro logico di argomentazione che si compie per la prova storica o diretta e quello che occorre per la prova indiretta nella ricerca del legame logico che intercede tra il fatto fonte di prova (o di presunzione) e il thema probandum, non è che una differenza di grado, mai di qualità »; G. BENTHAM, loc. ult. cit. (56) Ancora A. CONIGLIO, op. cit., 176, sottolinea « la maggiore e più difficile elaborazione del giudizio logico indiretto ». (57) Sul punto Cass. 27 marzo 1992, Di Leonardo, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 623. In dottrina, E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 118 ss.; F. CORDERO, op. ult.


— 396 — Nell’ipotesi della prova indiziaria, invece (il teste che asserisce di aver visto l’imputato usare l’auto rubata), proprio perché il fatto di reato è indotto (o per meglio dire abdotto) da un altro fatto, il giudice deve compiere due valutazioni e pertanto due applicazioni di regole di esperienza. Dopo aver ritenuto credibile il teste (prima verifica), egli dovrà procedere ad un secondo vaglio critico che, attraverso l’impiego di un ulteriore e diverso criterio inferenziale, gli permetta di risalire dal fatto accertato, non coincidente con il thema probandum, alla prova del fatto di reato stesso (58). Nell’esempio menzionato, una volta provato l’uso dell’auto, bisognerà, cioè, risalire all’esistenza del furto. Secondo parte della dottrina, affrontando il problema in termini logici, dal semplice raffronto fra la struttura delle due distinte categorie probatorie e, precisamente, dalla constatazione che la prova diretta comporta una sola inferenza mentre quella indiretta ne importa almeno due, discenderebbe l’inferiorità della seconda rispetto alla prima (59); specie se si tiene presente il principio per cui una prova è tanto più debole quanto maggiore è il numero degli anelli della catena inferenziale in cui essa consiste (60). cit., 946 ss.; ID., Guida alla procedura penale, cit., 322 ss.; ID., Tre studi sulle prove penali, cit., 22 ss. e ivi la nota no 56. (58) Tale diverso meccanismo valutativo riguardante le due distinte categorie probatorie è posto in evidenza da A. BASSI, op. cit., 1017 ss.; G. LOZZI, loc. ult. cit.; V. SERIANNI, Prova e giudizio di legittimità, in Problemi attuali della prova nel procedimento penale (Chianciano 5-7 dicembre 1986), Quaderni del C.S.M., Roma, 1987; V. GIANTURCO, op. cit., 176 ss. Analogamente si è espresso in passato N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 145 ss.: « Un testimone viene a deporre in giudizio di aver visto Tizio esplodere uno schioppo contro Caio. Di fronte a questa prova personale diretta dell’esplosione quando la ragione del giudice ha fissato per agomenti logici la credibilità del testimone, non può non affermare il contenuto della testimonianza... Ma non è così quando si tratta di prova indiretta... Un testimone viene a deporre in giudizio d’aver visto l’imputato a fuggire nel giorno tale, all’ora tale. Siamo di fronte a una testimonianza indiretta. Dopo aver stabilita la credibilità del testimone, e dopo aver quindi concluso alla verità della fuga, che è la cosa immediatamente provata, non si è nulla fatto relativamente alla concludenza finale della prova, relativamente, cioè, al delitto che vuole accertarsi. Occorre una seconda valutazione, ... la valutazione del rapporto che il fatto della fuga ha col delitto; bisogna che la ragione, tenendo conto delle condizioni personali di colui che è imputato, e delle condizioni di tempo e di luogo, arrivi a concludere con lavoro raziocinale, che quella fuga è indicativa del delitto già commesso. Ecco come la ragione ha bisogno, per la prova indiretta di fare un secondo lavoro, che non occorre per la prova diretta ». (59) Vedi Cass. 5 marzo 1991, Belleri, in C.E.D., no 188.129. (60) In tal senso, A. MELCHIONDA, op. cit., 653; P.O. EKELOF, op. cit., 101; F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, cit., 243, ove precisa che « quanto più si eleva il grado


— 397 — Tuttavia, la considerazione del maggior rischio di errore (61) insito nel ragionamento sotteso al sillogismo indiziario, considerazione indubbiamente esatta in astratto ovvero in termini probabilistici o statistici, non giustifica affatto la conclusione che, in concreto, un giudice al quale si offrano una prova critica e una prova storica, debba necessariamente attribuire alla prima una forza dimostrativa inferiore alla seconda. Evidentemente l’apprezzamento dell’una e dell’altra non è condizionato soltanto dalla loro peculiare struttura logica, ma anche e soprattutto, dalla concludenza delle regole di esperienza rispettivamente impiegate nella loro valutazione. Cosicché, una volta superata positivamente la fase di verifica, la consistenza della prova critica è uguale a quella propria di qualsivoglia prova storica. Anzi, è indubbio che in alcune ipotesi la prova indiziaria può risultare più attendibile della dichiarazione di prova: è il caso, ad esempio, dell’alibi, dell’impronta digitale o della fotografia (62), specie se si raffrontano alla testimonianza dei fanciulli o alla voce isolata della parte civile o della persona offesa (63). Molto dipende, cioè, dalla resistenza e dalla validità della regola di della prova e con esso cresce la distanza tra la prova e il fatto da provare di tanto ne scema il valore ». (61) Sul punto, L. Jr. SANGUINETTI, op. cit., 4 ss.; G. BELLAVISTA, op. cit., 225; G. LEONE, op. ult. cit., 164; V. GIANTURCO, op. cit., 75, il quale pone in rilievo che la duplice valutazione inerente alla prova indiziaria fa sì che il falso e l’errore relativi a tale tipo di prova riguardino due aspetti: « uno attinente all’indizio come punto di partenza della congettura; l’altro il procedimento logico dell’illazione che se ne desume »; G. BRICCHETTI, L’evidenza nel diritto processuale, Napoli, 1950, 171; C. LESSONA, op. cit., 91. (62) In tal senso, P. FERRUA, op. ult. cit., 107; G. LOZZI, loc. ult. cit.; A. NAPPI, I presupposti per l’applicazione delle misure cautelari e personali, in Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CANZIO - D. FERRANTE - A. PASCOLINI, Milano, 1989, 192. (63) Sul punto, E. AMODIO, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 327, 331, 332 ss. Del resto, è opinione costante della giurisprudenza il ritenere che tali prove abbisognino di una valutazione particolarmente prudente, provenendo da soggetti non indifferenti all’esito del giudizio. In riferimento alla parte civile, vedi Cass. 29 ottobre 1985, Bagarella, in Cass. pen., 1987, 1430; Id. 20 settembre 1985, Curzi, in Giust. pen., 1986, III, 539; relativamente alla persona offesa, Id. 5 marzo 1993, Russo ed altro, in Riv. pen., 1994, 50; Id. 18 marzo 1992, Simbula, in Arch. nuova proc. pen., 622; Id. 15 maggio 1990, Testa, in Riv. pen., 1991, 326; Id. 30 aprile 1990, Imperiale, ivi, 1991, 217; Id. 5 novembre 1981, Minati, ivi, 1982, 935; Id. 20 febbraio 1980, De Stefano, ivi, 1980, 888: « La persona offesa dal reato, pur avendo capacità di testimoniare, non può, sul piano dell’attendibilità sostanziale, essere equiparata al testimone estraneo, il quale non abbia alcun interesse all’esito del processo »; Id. 8 marzo 1978, Caso, ivi, 1978, 822; Id. 10 marzo 1975, Sivalli, in Cass. pen., 1976, 112; Id. 3 dicembre 1974, De Rosa, in Riv. pen., 1975, 1034. In particolare, un ripristino del principio unus testis nullus testis è accolto dalla nostra giurisprudenza con riguardo alla testimonianza della persona


— 398 — esperienza su cui si regge la relativa inferenza (64): forte, se si tratta di leggi logiche o scientifiche — rispettivamente l’alibi, che discende dal principio di non ubiquità, l’impronta digitale, dalla quale si può risalire con certezza all’identificazione di colui che l’ha impressa qualora sia accertata all’identificazione di colui che l’ha impressa qualora sia accertata la presenza di almeno 16-17 punti di contatto (65), ovvero le fotografie, i filmati, le registrazioni foniche o televisive, che « ‘‘indicano’’ qualcosa con un effetto mimetico la cui conformità all’originale storico risulta da leggi fisiche » (66) — debole, se si tratta di regole di natura empirica o fondate su un’opinione corrente — si pensi alla fuga, che autorizza a presumere la pregressa commissione di un reato, al possesso di un’ingente ricchezza non giustificata che fa ritenere illecita la sua acquisizione, alle prove psioffesa in tema di reati sessuali, conformemente a quanto previsto dalla law of evidence inglese. (64) In tale senso, Cass. 11 febbraio 1984, Piredda, cit.; Id. 7 aprile 1981, Marangoni, in Cass. pen., 1982, 2049; Id. 4 aprile 1968, Colaiani, in Giust. pen., 1969, III, 59. In dottrina, vedi P. FERRUA, Studi sul processo penale (Anamorfosi del processo accusatorio), cit., 54 ss.; ID., Studi sul processo penale, cit., 107; F. CORDERO, Procedura penale, cit., 539: « Che poi siano conclusioni plausibili e quanto, dipende dalle massime empiriche (o ‘‘d’esperienza’’) immesse nella macchina deduttiva... »; ID., Guida alla procedura penale, cit., 332 ss.; E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 116; ID., Qualche altra riflessione in tema di prova, cit., 729 ss.; ID., Riflessioni sul tema della prova, cit., 513 ss.; M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 88; ID., Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, 400; E. BATTAGLINI, op. cit., 228: « il grado di attendibilità e la forza probatoria derivano dal grado di certezza della circostanza indiziante e dal grado di consistenza della massima di esperienza su cui si basa l’efficacia della illazione: e può essere perciò non inferiore al grado di certezza delle altre prove ». Conferiscono ulteriore importanza alle regole di esperienzsa P. DE LALLA, op. cit., 373 e L. DE CATALDO NEUBURGER, op. cit., 364, i quali entrambi affermano che « gli indizi esistono sol perché esistono le massime di esperienza »; V. GIANTURCO, op. cit., 39: « quest’arte di argomentare in concreto non è affidata ai voli della più libera fantasia, ma è saldamente fondata sulle basi della comune esperienza, i cui incontrollabili principi costituiscono il fulcro essenziale e la garanzia di legittimità della prova indiziaria ». (65) Cfr. Cass. 2 febbraio 1989, Pastore, in Riv. pen., 1990, 89; Id. 29 marzo 1982, Mistroni, in Cass. pen., 1982, 2063; Id. 8 luglio 1977, Cardarella, ivi, 1978, 1443; Id. 20 maggio 1982, Fanolla, in Riv. pen., 1983, 439: « Le risultanze delle indagini dattiloscopiche offrono piena garanzia di attendibilità, senza bisogno di ulteriori elementi sussidiari di conferma, anche quando riflettono una sola impronta, purché evidenzino la sussistenza di almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione ». Questa la massima di esperienza: « le impronte palmari, al pari di quelle digitali, sono dotate di una propria individualità, sono immutabili nel tempo e permettono raffronti d’identità assolutamente significativi ». Se l’attività di prelievo delle impronte è effettuata in modo corretto, dunque, l’uso della massima di esperienza approda ad una incontrovertibile conclusione sull’identificazione del soggetto. (66) Cfr. F. CORDERO, Procedura penale, cit., 571.


— 399 — cologiche fondate sul carattere del soggetto, sul movente dell’azione (67), le quali permettono di ritenere tale soggetto come il possibile autore del fatto criminoso (68). Ma è ovvio che, anche nell’ipotesi in cui la prima valutazione eseguita nell’ambito della prova indiziaria conduca ad una conclusione inoppugnabile, risulta pur sempre necessaria un’ulteriore inferenza attraverso la quale dal fatto ormai noto si risalga a quello ignoto. Di conseguenza, di cruciale importanza è anche il grado di concludenza della successiva argomentazione; non solo si deve applicare una regola di esperienza forte o cosiddetta iper-codificata (quale può essere appunto una legge logica o scientifica) bensì è indispensabile che di tale legge si faccia applicazione a garanzia di un argomento di tipo deduttivo. Un’ipotesi siffatta può essere la seguente: presumendo che x segua necessariamente a y, si consideri presente nel singolo caso z, che si sa incompatibile con x; perciò x non è accaduto e allora non può essere accaduto nemmeno y. Tale la figura logica della prova negativa denominata « alibi », ossia, quella circostanza che, qualora provata, in base al principio di non ubiquità, accerta in modo inequivocabile che l’imputato non abbia partecipato materialmente al reato (69). Tuttavia, a prescindere dal fatto che le argomentazioni analitico-de(67) Vedi Cass. 27 marzo 1992, P.M. in proc. Tropea ed altro, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 622; Id. 5 marzo 1991, Calò, in Cass. pen., 1992, 1014, la quale sostiene che « pur a voler negare all’esistenza di una valida causale la natura di indizio autonomamente valutabile... viene attribuita la capacità di incementare un quadro indiziario che si presenti... contrassegnato da incapacità di fornire convincente dimostrazione del fatto ignoto »; Id. 14 settembre 1990, Maiolo, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 298, la quale afferma che il movente funziona da « elemento catalizzatore di altri elementi indizianti »; Id. 27 novembre 1989, Pizzichetta, in Riv. pen., 1990, 791; Id. 2 febbraio 1989, De Dominicis, in Cass. pen., 1991, 606; Id. 22 giugno 1988, Boscolo, in Riv. pen., 1989, 314; Id. 27 novembre 1987, Bossolo, ibid., 314; Id. 29 aprile 1987, Marcianò, in Cass. pen., 1988, 2126; Id. 8 giugno 1984, D’Errico, ivi, 1986, 332; Id. 15 aprile 1981, Tavola, in Riv. pen., 1981, 835; Id. 11 ottobre 1971, Mancuso, in C.E.D., no 67. (68) « Dati dei perfetti sistemi casuali, le prove critiche garantiscono esiti molto attendibili nella sfera scientifico-naturale (ad esempio, se x sia morto avvelenato e quale veleno fosse): e sono ‘‘natura’’ i fatti umani, psiche inclusa, ma a trama enormemente complicata, sicché i fattori risultano poco calcolabili; nessuno, ad esempio, viene condannato quale omicida soltanto perché odiasse mortalmente l’ucciso; è solo un indizio l’odio; l’animale umano compie anche atti apparentemente gratuiti e talvolta gli odiatori reprimono l’impulso a nuocere o addirittura lo invertono in gesti amabili. Riesce dunque inadeguata ogni inferenza da pure premesse psicologiche »: così F. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit., 333. Conformemente, ID., Procedura penale, cit., 542 ss.; P. FERRUA, loc. ult. cit.. (69) Infatti, l’alibi viene considerato addirittura quale prova piena, in contrapposizione all’indizio, perché fondato su un’inferenza univoca da G. UBERTIS, A. NAPPI (op. cit.


— 400 — duttive sono tautologiche e, in quanto tali, non possono che offrire conclusioni già implicite nelle premesse (non importando alcun aumento di sapere empirico) (70), è noto che raramente esse sono impiegate nell’ambito del processo penale, specie a sostegno della proposizione finale nella quale si sostanzia l’affermazione di responsabilità. Sebbene le pronunce giurisprudenziali abbondino di locuzioni quali « si deduce che... », « si ricava induttivamente... » e simili (71), è infatti inconsueto che l’argomentare giudiziale riposi realmente su una deduzione o un’induzione, piuttosto che su un ragionamento di carattere abduttivo (72). In modo particolare, poi, « tipicamente abduttiva è la crimisupra alla nota no 23); G. BELLAVISTA - G. TRANCHINA, op. cit., 316; G. BELLAVISTA, Considerazioni sulla prova d’alibi, in Scritti in onore di S. Pugliatti, vol. III, Milano, 1978, 23 ss.: « la circostanza d’alibi, una volta accertata, opera così radicalmente sul piano della decisione giudiziale da non consentire spazio alcuno a quei margini di dubbio che sono connaturali alla prova indiziaria. Essa è prova lgoica piena sempre sul piano della non partecipazione materiale del prevenuto al delitto..., una volta accertato rigorosamenmte l’alibi, senza margine alcuno di dubbio su di esso, ogni altra ricerca probatoria appare sterile e vana e serve soltanto a far perdere tempo alla giustizia e farlo guadagnare al vero colpevole »; G. BELLAVISTA, voce Indizi, cit., 224 e 231; V. MANZINI, op. cit., 422, il quale però sottolinea che l’alibi « si presta facilmente alle simulazioni precostituite »; R.A. FROSALI, op. cit., 88 e 251; P. SARACENO, op. cit., 145. Da un’altra prospettiva, l’alibi è considerato un indizio altamente probante da P. FERRUA, Studi sul processo penale (Anamorfosi del processo accusatorio), cit., 56 ss.; M. NOBILI, op. ult. cit., 170 ss.; F. GIANNITI, I rapporti tra procedimento civile e procedimento penale, Milano, 1988, 116; F. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit., 332; ID., Manuale di procedura penale, cit., 936 ss.; P.B. AMICARELLI, op. cit., 105. (70) Così F. CORDERO, Procedura penale, cit., 539; M. MENNA, op. cit., 170; A. NAPPI, Guida alla procedura penale, cit., 100; ID., Le ragioni del giudice: osservazioni in tema di struttura logica della motivazione e di valutazione della prova (nota a Cass. 24 novembre 1986, Pravatà), in Cass. pen., 1987, 1798; E. FASSONE, Qualche altra riflessione in tema di prova, cit., 723 ss. (71) Asseriscono che « nel procedimento indiziario... la deduzione del fatto noto rientri in un procedimento logico ispirato al massimo rigore ed alla più assoluta correttezza... », Cass. 10 maggio 1990, De Maria, in Riv. pen., 1991, 326; Id. 11 luglio 1989, Ferro, in Cass. pen., 1990, 459; Id. 22 novembre 1988, Condello, in Riv. pen., 1989, 669; Id. 10 maggio 1988, Seggio, in Cass. pen., 1991, 607; Id. 3 maggio 1988, Fabiani, ivi, 1990, 1554; Id. 8 aprile 1988, Loi, cit.; Id. 22 giugno 1987, Minghetti, ivi, 1988, 2127; Id. 27 aprile 1987, Mazzotta, cit.; Id. 27 gennaio 1987, Freda, cit.; Id. 29 ottobre 1985, Bagarella, cit.; Id. 12 ottobre 1981, Schwienbacher, in Riv. pen., 1982, 934; Id. 24 febbraio 1981, Pressi, ivi, 1981, 775; Id. 1 marzo 1978, Pinna, ivi, 1978, 729; Id. 6 ottobre 1976, Sozzi, in Cass. pen., 1978, 174; Id. 25 marzo 1976, Bozano, cit. Esempi di sentenze che si riferiscono all’induzione, invece, sono Id. 26 maggio 1989, Lopes, in Cass. pen., 1991, 606; Id. 4 novembre 1983, Pinelli, in Riv. pen., 1985, 96, la quale afferma che « gli elementi indizianti... collegano, mediante un corretto processo induttivo, i fatti noti a quelli da dimostrare ». (72) Per un’analisi approfondita del ragionamento abduttivo vedi G. GULOTTA, Strumenti concettuali per agire nel nuovo processo penale (metodologia giudiziaria), Milano,


— 401 — nologia indiziaria, che dalle tracce lasciate da un delitto risale all’autore » (73). « Abduzione » che consiste in un modello di inferenza in cui conoscendo il risultato e la regola si risale al fenomeno che ha prodotto il risultato. Così, dall’effetto si giunge alla causa e, quindi, dalla traccia più vicina al reato sino alla commissione del medesimo secondo lo schema per cui è reputata causa di un fenomeno l’antecendente più probabile fra gli infiniti possibili. Si tratta di un ragionamento di tipo meramente probabilistico tant’è che, anche quando faccia applicazione di criteri scientifici, consente conclusioni soltanto in termini di possibilità; le leggi scientifiche, infatti, consentono, di regola, di affermare che « dato l’evento x, seguirà l’evento y », ma raramente consentono di considerare come unica causa dell’evento y sempre e soltanto x. In altri termini, se è indubbio che l’accertamento dattiloscopico possa documentare il passaggio di una persona in un determinato luogo in modo inequivocabile e, quindi, con una eloquenza non certo minore della prova testimoniale, non può necessariamente discenderne la prova della responsabilità dell’imputato per i fatti a lui contestati (74). 1990, 42 ss. e 260 ss.; M. BONFANTINI, La semiosi e l’abduzione, Milano, 1987; E. FASSONE, op. ult. cit., 725 ss.: « È interessante notare come il ragionamento abduttivo, pure essendo l’ultimo a venir percepito ed analizzato dalle scienze epistemologiche, è l’unico tipo di argomento che origina una nuova idea, o che estende la nostra conoscenza dei fatti. Mentre l’induzione conduce dall’osservazione di un fatto alla formulazione di una regola, e mentre la deduzione produce la semplice applicazione di una regola già nota, l’abduzione conduce da un fatto particolare ad un altro fatto particolare »; D. PEIRCE, Le leggi dell’ipotesi (1931), Milano, 1984; AA.VV., Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, a cura di U. ECO - T.A. SEBEOK, Milano, 1983. (73) Così E. FASSONE, op. ult. cit., 723, il quale comunque precisa che lo schema abduttivo è tipico del ragionamento giudiziario in genere e, quindi, ne estende l’applicabilità anche alle prove storiche (vedi ivi 731 ss.). (74) In proposito, G. FOSCHINI, op. cit., 450: « l’accertamento, su una cosa rubata, delle impronte digitali di Tizio » stabilisce « solo il fatto che Tizio ha avuto contatto con quell’oggetto; ma contatti di Tizio con la cosa possono essere avvenuti in tempi e per ragioni diversissime »; P. FERRUA, op. ult. cit., 57, precisa che « anche la videoregistrazione o l’impronta digitale, pur dotate della massima efficacia persuasiva, difficilmente potrebbero da sole fondare una sentenza di condanna senza altri accertamenti, a cominciare dalla testimonianza di chi ha prelevato l’impronta o installato la telecamera »; A. BASSI, op. cit., 1019; U. FERRANTE, Gli indizi nel nuovo codice di procedura penale (nota a Cass. 4 aprile 1990, Tassinari ed altri), in Giur. Mer., 1991, 127; E. FASSONE, op. ult. cit., 725; G. BETTOCCHI, op. cit., 720. Ciononostante la prova dattiloscopica è considerata dalla giurisprudenza particolarmente consistente tanto che risulta costante l’orientamento che la pone quale unico elemento probatorio alla base della decisione penale. Al riguardo, Cass. 2 febbraio 1989, Pastore, cit.; Id. 8 luglio 1987, Priore, in Riv. pen., 1988, 361; Id. 8 maggio 1986, Faraone, ivi,


— 402 — In realtà, non si può quasi mai asserire con sicurezza che un fatto conduca ad un altro con esclusione di qualsiasi alternativa, specie se ci si riferisce all’inferenza finale legittimante la decisione giudiziale. Assumendo che un evento possa avere una pluralità di cause, bisognerà in primo luogo tentare un’elencazione di tutti gli antecedenti configurabili per poi selezionare, tra quelle proponibili, l’ipotesi di ricostruzione della vicenda che appare più probabile (75). Per tali motivi, infatti, la giurisprudenza da sempre richiede la presenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (76) quali caratteri indispensabili perché l’inferenza indiziaria possa considerarsi idonea come fondamento della decisione penale; ossia la menzionata aggettivazione si limita a tradurre le caratteristiche proprie del criterio di cui il giudice deve avvalersi e dare conto nella valutazione della prova critica. In particolare, in molte pronunce si è presa in considerazione l’ipotesi della « costellazione di indizi » (77), i quali, se isolati, non possono condurre ad una af1987, 696; Id. 20 maggio 1982, Fanolla, cit.; Id. 14 marzo 1980, Scognamiglio, ivi, 1980, 986; Id. 8 luglio 1977, Caldarella, cit.; Id. 12 febbraio 1973, Pizzardi, in Cass. pen., 1974, 88; Id. 12 gennaio 1972, Storace, ivi, 1972, 751; Id. 26 ottobre 1970, Tocca, ibid., 1143; Id. 21 ottobre 1970, Semeraro, ibid., 1018; Id. 10 giugno 1969, Costa, ivi, 1970, 1428; Id. 14 novembre 1959, Casati, in Giust. pen., 1960, III, 359. (75) Sul punto ampiamente, F. CORDERO, op. ult. cit., 541 ss.; ID., Guida alla procedura penale, cit., 332; ID., Manuale di procedura penale, cit., 936; E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 133 ss.; V. GIANTURCO, op. cit., 149. Per una rassegna dei più frequenti vizi logici in tema di prova indiziaria vedi A. DI MARCO, op. cit., 212 ss. (76) In tal senso, Cass. 10 maggio 1990, De Maria, cit.; Id. 11 luglio 1989, Ferro, cit.; Id. 22 novembre 1988, Condello, cit.; Id. 19 settembre 1988, Agresta, cit.: « Gli indizi... quando sono gravi, precisi e concordanti, possono acquistare nel loro complesso l’efficacia giuridica propria della prova »; Id. 10 maggio 1988, Seggio, cit.; Id. 3 maggio 1988, Fabiani, cit.; Id. 8 aprile 1988, Loi, cit.; Id. 22 giugno 1987, Minghetti, cit.; Id. 29 maggio 1987, Senapa, cit.; Id. 27 aprile 1987, Mazzotta, cit.; Id. 27 gennaio 1987, Freda, cit.; Id. 29 ottobre 1985, Bagarella, cit.; Trib. Milano, 15 ottobre 1985, Tribisonna, in Giur. Mer., 1987, 733, che richiede indizi « certi, univoci e concordanti »; Pret. Napoli, 12 marzo 1984, Guillari, in Riv. giur. lav., 1985, IV, 763, che menziona indizi « gravi, concordanti e logicamente connessi tra loro »; C. App. Bari 14 marzo 1983, Gallo, in Riv. pen., 1983, 503 e Id. 20 febbraio 1982, De Leonardis, ivi, 1982, 709, le quali si riferiscono a indizi « seri, gravi, univoci, concordanti e convergenti in un’unica direzione »; Cass. 12 ottobre 1981, Scwienbacher, cit.; Id. 24 febbraio 1981, Pressi, cit.; Id. 1 marzo 1978, Pinna, cit.; Trib. Roma 7 dicembre 1977, Ponza, in Giur. Mer., 1979, 116, che allude a « gravi e precisi indizi i quali possono essere posti a fondamento della decisione solo se accuratamente coordinati tra loro con una severa disamina logico-giuridica; solo allora la prova indiretta acquista dignità ed efficacia di prova diretta »; Cass. 6 ottobre 1976, Sozzi, cit.; Id. 25 marzo 1976, Bozano, cit.; Id. 29 luglio 1936, Albenga, in Giust. pen., 1937, IV, 617. (77) Cfr. Cass. 6 luglio 1988, Proc. gen. C. App. Palermo, in Giust. pen., 1989, III, 258: « La prova della responsabilità penale può essere raggiunta anche per via indiziaria,


— 403 — fermazione di responsabilità ma, se valutati nella loro globalità, assurgono al rango di prova in senso pieno (78). Orientamento che, oggi, sembrerebbe avvalorato anche dall’atteggiamento del nostro legislatore. 4. a) Testualmente l’art. 192 comma 2 c.p.p., riproponendo quanto già previsto nel Progetto del 1978 (79), stabilische che « l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti ». purché vi sia una pluralità di indizi concordanti (c.d. costellazione di indizi o c.d. indizi qualificati) »; Id. 9 maggio 1988, Ciancabilla, ivi, 1989, III, 282; Id. 8 aprile 1988, Loi, cit.; Id. 29 ottobre 1985, Bagarella, cit.; Id. 11 luglio 1985, Gentile, cit.; Id. 11 febbraio 1985, Geromin, in Riv. pen., 1986, 340; Id. 7 febbraio 1985, Romeo, ivi, 1985, 989; Id. 19 ottobre 1984, Cortese, ibid., 1033; Id. 6 ottobre 1983, Incantalupo, in Mass. dec. pen., 1984, m. 163.196; Id. 16 novembre 1983, Ragusa, in Riv. pen., 1984, 977 e Id. 16 novembre 1983, Feoli, ibid., 977: « In un processo indiziario, che è quello che offre una serie di indicazioni non sufficienti, se analizzati singolarmente, per l’attribuzione della responsabilità, può il convincimento del giudice fondarsi sul loro collegamento, quando questo non sia occasionale e l’operazione logica del coordinamento degli indizi nasca dalla loro oggettiva confluenza in una direzione unica, così che ognuno di essi alimenti gli altri e ne tragga alimento »; Id. 27 aprile 1983 Foggia, ibid., 264; Id. 3 dicembre 1982, Turrini, ivi, 1983, 1020; Id. 12 ottobre 1982, Angelini, in Cass. pen., 1983, 148; Id. 8 ottobre 1982, Basile, in Riv. pen., 1983, 826; Id. 6 giugno 1982, Casula, ibid., 440; Id. 3 marzo 1982, Mutti, ibid., 440: « Ai fini della decisione, gli indizi hanno valore probatorio allorché siano qualificati e presentino, nella loro globalità, la stessa certezza della prova »; Id. 29 settembre 1981, Ruzzon, in Cass. pen., 1982, 694; Id. 8 maggio 1980, Geraci, ivi, 1981, 105; Id. 5 maggio 1981, Canfarotta, in Riv. pen., 1982, 312; Id. 21 dicembre 1981, Ballerini, ivi, 1982, 105; Id. 16 gennaio 1980, Martello, ivi, 1980, 797; Id. 19 gennaio 1981, Triola, ivi, 1981, 835; Id. 8 maggio 1980, Funari, ibid., 200; Id. 10 dicembre 1979, Garofalo, ivi, 1980, 722: « Anche gli indizi possono costituire fonte di prova, quando siano logica conseguenza di fatti oggettivi e univoci, risultanti dal processo e collegati tra loro sul piano logico »; Id. 26 febbraio 1979, Bettoni, ivi, 1979, 1067; Id. 20 gennaio 1975, Sergio, in Cass. pen., 1975, 746; Id. 3 novembre 1971, Cazzanti, in Riv. pen., 1972, 467; Id. 23 febbraio 1968, Martino, in Cass. pen., 1968, 417; Id. 25 giugno, Petroni, ivi, 1966, 459; Id. 30 marzo 1962, ivi, 1962, 1148, che sottolinea la necessità di un « complesso imponente degli indizi, la cui convergenza risolva la loro individuale equivocità »; Id. 6 novembre 1961, Truzzolini, ivi, 1962, 195. (78) Tra gli autori in dottrina che attribuiscono all’indizio efficacia dimostrativa inferiore a quella della prova convenzionale, molti lo recuperano, sul piano probatorio, quando si tratta di « indizi qualificati ». Così G. e R. BETTIOL, op. cit., 160; T. EPIDENZIO, Le cause di non punibilità in senso lato come oggetto di prova nel c.p.p. 1930 e nel c.p.p. 1988, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 672; G. BELLAVISTA - G. TRANCHINA, op. cit., 315; E. PALMIERI, op. cit., 507; G. BETTOCCHI, op. cit., 719; P. SEVERINO DI BENEDETTO, op. cit., 1565; M. PISANI, op. cit., 128; V. GIANTURCO, op. cit., 172; G. MONTALBANO, La confessione nel diritto vigente, Napoli, 1958, 19; E. DOSI, Sul principio del libero convincimento del giudice nel processo penale, Milano, 1957, 29; M.P. RANDAZZO, loc. ult. cit.; U. ALOISI, op. cit., 623. (79) Al riguardo vedi l’art. 183 comma 2, il quale ripete pari pari la formula dell’attuale art. 192 comma 2 c.p.p. La tematica della valutazione della prova non trova uno speci-


— 404 — Si tratta di una disposizione che, come la gran parte di quelle che assurgono ad elementi costitutivi del nuovo « diritto delle prove », si pone come limite al principio del libero convincimento del giudice o, per meglio dire, a quelle sue dilatazioni arbitrarie tanto frequenti e di vasta portata le quali hanno condotto il legislatore a regolare normativamente il momento inerente alla valutazione delle prove. Ma ai fini di una corretta interpretazione dell’effettiva portata e incidenza di questa norma sulla libertà di convincimento del giudice, molto dipende dalla definizione del concetto di indizio che da essa si considera accolta. A prima vista il dettato normativo sembrerebbe alludere esclusivamente all’efficacia probatoria limitata del dato indiziario rispetto alla prova in senso stretto. Il legislatore del 1988, codificando i requisiti della gravità, precisione e concordanza, avrebbe, cioè, recepito la nozione pratica dell’indizio quale probatio minus quam plena (80). Di questo avviso, peraltro, risultano essere i compilatori del nuovo codice di rito laddove asseriscono che « è sembrato opportuno che in una materia di così grande rilievo come quella investita dal giudizio penale intervenga una regola che serva da freno nei confronti degli usi arbitrari e indiscriminati di elementi ai quali, sul piano logico, non è riconosciuta la stessa efficacia persuasiva della prova » (81). fico referente, invece, né nella legge delega 3 aprile 1974, no 108, né in quella del 16 febbraio 1987, no 81. (80) In tal senso, A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, cit., 120; ID., Libero convincimento, regole di esclusione, regole di assunzione, in Il principio del libero convincimento del giudice nel nuovo processo penale (Roma 30 novembre - 2 dicembre 1990), Quaderni del C.S.M., Roma, 1992, 57; ID., I presupposti per l’applicazione delle misure cautelari reali e personali, cit., 192: « In realtà nel mondo anglo-americano la distinzione tra prova e indizio come prova maggiore e prova minore è stata anche di recente rivalutata, nel presupposto che qualsiasi prova comporti un’argomentazione. Anche la prova diretta, qual’è la testimonianza, ci può condurre a una certezza o ad una probabilità, soltanto in ragione di una massima di esperienza che ci consenta di affermare che il teste è attendibile... Quindi... nell’art. 192 si parla della necessità che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti, nel presupposto che gli indizi siano una prova minore, perché, se si facesse riferimento all’indizio come prova indiretta, non ci sarebbe stata ragione di chiedere questi ulteriori requisiti »; G.D. PISAPIA, Lineamenti del nuovo processo penale, Padova, 1989, 96; G. CONTI - A. MACCHIA, Il nuovo processo penale, Roma, 1988, 136. Già in riferimento all’art. 183 comma 2 del Progetto preliminare del 1978, G. GUARNIERI, Tassatività dei mezzi di prova, in Riv. pen., 1980, 790, aveva affermato che tale norma « introduce una gerarchia tra le diverse prove di cui il giudice può avvalersi, collocando gli indizi in una classe di prove leviores ». (81) Così si legge nella Relazione al Progetto preliminare del 1988, 127, la quale ricalca esattamente il contenuto della Relazione al Progetto preliminare del 1978, 167.


— 405 — Senonché, è da ritenere che i menzionati requisiti richiesti dall’art. 192 comma 2, « più che ai fatti indizianti, quali fonti di prova, sono collegabili alle ‘‘indicazioni’’ che da essi promanano in quanto ‘‘gravità’’, ‘‘precisione’’ e ‘‘concordanza’’ possono riferirsi non ai fatti ma alle indicazioni che fatti noti e certi danno di fatti ignoti sulla base di un rapporto che, secondo regole di esperienza, sussista tra gli uni e gli altri » (82). Ne segue quale corollario che la nozione di indizio accolta dalla disposizione presa in esame non può essere che quella tecnica-giuridica di prova indiziaria (83) la quale, come già chiarito, si contrappone alla prova storica non certo per motivi di idoneità dimostrativa, ma per ragioni meramente concernenti la loro diversità strutturale. Il termine « indizio » e cioè ivi impiegato come sinonimo di presunzione intesa nel senso civilistico (84), (82) Testualmente U. FERRANTE, op. cit., 127. In modo conforme P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 141 ss. (83) In tal senso A. BASSI, op. cit., 1018; N. CAPITANIO, I nuovi criteri di valutazione della prova previsti dall’art. 192 c.p.p. con particolare riferimento alla chiamata di correo. Prime puntualizzazioni alla luce della recente giurisprudenza della Cassazione, in Cass. pen., 1991, 1316; G. CONSO - V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1990, 159; F. CORDERO, Procedura penale, cit., 539; U. FERRANTE, op. cit., 126; P. COMOGLIO, op. cit., 142; F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, sub art. 192, 228; P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit., 48 e 106; G. LOZZI, op. ult. cit., 105; M. NOBILI, Art. 192 - Valutazione della prova, cit., 417; ID., La nuova procedura penale, cit., 17 e 169 ss., ove si precisa che « la locuzione ‘‘desumere’’, tra l’altro, ci mette sulla giusta via per definire esattamente la definizione di indizio, da intendere come ‘‘prova critica’’ »; S. RAMAJOLI, Il nuovo processo penale, Padova, 1990, 201; D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, op. cit., 392; G. e R. BETTIOL, op. cit., 159; M. BONETTI, op. cit., 497; T. EPIDENDIO, op. cit., 668; E. FASSONE, L’utilizzazione degli atti. La valutazione della prova, in Incontri di studio sul nuovo codice di procedura penale, Quaderni del C.S.M., vol. I, Roma, 1989, 541; ID., Primi appunti sulla valutazione della prova nel nuovo processo penale, cit., 859. (84) Ritengono vi sia identità strutturale tra prova indiziaria e presunzione civile, A. SANNA, op. cit., 272; P. COMOGLIO, loc. ult. cit.; G. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 121; N. LAURO, op. cit., 1417 ss.; G. LEONE, op. ult. cit., 162; V. ANDRIOLI, op. cit., 766; F. CARNELUTTI, Diritto e processo, cit., 132; V. GIANTURCO, op. cit., 17 ss., 177 ss.; S. BORGHESE, voce Presunzioni (dir. pen. e dir. proc. pen.), in Nss. Dig. It., vol. XIII, Torino, 1957, 773; M.P. RANDAZZO, op. cit., 298; F. CARNELUTTI, La prova civile, cit., 113; ID., Prove civili e prove penali, in Riv. dir. proc. civ., 1925, 3 e ss.; ID., Studi di diritto processuale, Padova, 1925, 10 ss.; C. LESSONA, op. cit., 96. « In relazione al procedimento logico non c’è, quindi, a nostro avviso alcuna differenza tra prova indiziaria e prova presuntiva: ambedue appartengono al genere delle prove chiamate critiche o indirette perché esse non fissano direttamente il fatto in riferimento al quale una determinata conseguenza giuridica è voluta, ma servono all’accertamento di un fatto al quale per connessione logica si arriva al fatto indiziato o presunto » (così G. BETTIOL, Sulle presunzioni nel diritto e nella procedura penale, Padova, 1938, 8). Tuttavia, « i diversi principi che ispirano il processo civile da una parte, ed il processo penale dall’altro, sono tali da cambiare nettamente il volto stesso della prova che fini-


— 406 — designando il meccanismo indiretto che dal fatto noto risale al fatto ignoto. Così, prevedendo un’esplicita disciplina della prova critica con una « formula linguistica ispirata a diffidenza, non a caso svolta in profilo negativo » (85), il nuovo legislatore, a differenza di quello passato (86), « introduce nel diritto processuale penale una regola operante nel processo civile in virtù dell’art. 2729 c.c. » (87), facendo però sorgere dubbi e perplessità proprio in ordine alla correttezza nella formulazione e all’effettiva opportunità dell’art. 192 comma 2. Rimandando ad un momento successivo eventuali giudizi di valore, già da un’analisi meramente formale della norma, infatti, non si può fare a meno di osservare che la sua costruzione in termini di divieto dell’uso degli indizi dimostri una certa insistenza nel voler configurare, sul piano dell’efficacia probatoria, una distinzione tra prova storica e prova critica. Occorre riconoscere che essa è formulata in modo tale che, alla regola dell’inutilizzabilità degli indizi ai fini dell’accertamento dell’esistenza di un fatto, segua un’eccezione e, cioè, l’utilizzabilità dei medesimi solo in quanto gravi, precisi e concordanti (88). Sembra, dunque, che il legislatore abbia considerato la possibilità di vietarne l’impiego, ma abbia anche sce per assumere diverse funzioni e diverse conformazioni in seno all’uno o all’altro dei due processi » (così E. PALMIERI, op. cit., 512). Pertanto mentre gli indizi penali attengono alla valutazione della prova, le presunzioni civili « hanno gradatamente perduta questa funzione esplicando principalmente la loro efficacia relativamente all’onere e alla distribuzione della prova tra le parti » (così G. BETTIOL, op. cit., 10). (85) L’espressione è di M. BONETTI, op. cit., 437. (86) Sotto la vigenza del codice Rocco non vi era una previsione normativa in ordine alla prova indiziaria. Ciò nonostante, secondo parte della dottrina, tale tipo di prova poteva ritenersi contemplata e disciplinata, implicitamente, dalle disposizioni processuali inerenti alla ricerca, acquisizione e conservazione del « corpo del reato », delle « tracce », delle « cose pertinenti al reato » e da quelle norme che, nel codice penale, tutelano e reprimono l’alterazione del materiale probatorio. In tal senso N. LAURO, op. cit., 1416 ss. Più genericamente, sul fatto che le materialità menzionate rientrino, da un punto di vista sistematico, nell’area della prova critica e sull’importanza rivestita dalle disposizioni processuali e di tutela penale ad esse riferite, vedi F. CORDERO, Manuale di procedura penale, cit., 170; V. MANZINI, op. ult. cit., 360 ss.; G.U. DEL POZZO, voce Corpo del reato, in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, 650; V. GIANTURCO, op. cit., 62 ss., 75 ss.; F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, cit., 263. (87) Vedi la Relazione al Progetto del 1988, 127. (88) Pongono in evidenza tale costruzione della disposizione presa in esame, U. FERRANTE, loc. ult. cit.; G. GIANZI, Il dibattimento: la valutazione della prova e la decisione, in Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CANZIO - D. FERRANTE - A. PASCOLINI, Milano, 1989, 251; A. VIVIANI, Il nuovo codice di procedura penale: una riforma tradita, Milano, 1989, 109.


— 407 — ritenuto che siffatto divieto (peraltro non ignoto alla storia del diritto) avrebbe ampliato notevolmente l’area dell’impunità obbligando il giudice ad assolvere anche nel caso in cui, pur in mancanza di prove dirette, egli fosse convinto della responsabilità dell’imputato, non per una sorta di intuizione o per una personale convinzione, ma sulla base di indizi che dimostrassero, al di là di ogni ragionevole dubbio, la fondatezza dell’ipotesi accusatoria: « d’altra parte il delitto quanto è più grave tanto più tende a rimanere nascosto ed è chiaro che chi delinque né convoca il notaio né invita i testimoni onde si spiega che nel maggior numero dei casi, o quanto meno, in numerosi casi gli indizi sono il solo elemento per pervenire all’accertamento del delitto e del suo autore » (89). Ma, nonostante le riserve avanzate e le continue proposte di una sua riformulazione, la disposizione di cui all’art. 192 comma 2 è stata mantenuta inalterata fino alla stesura definitiva, a nulla essendo valsi i numerosi pareri espressi dai vari Consigli giudiziari (90). È quindi opportuno esaminarla attentamente, anche alla luce dei problemi interpretativi sollevati in passato in ordine all’art. 2729 comma 1 c.c., i quali hanno condotto, in sede di lavori per la riforma del processo civile, alla proposta di ricorrere a formule alternative, come quella contenuta all’art. 179 del Progetto Liebman (91) in cui si fa riferimento solo alla « univocità e concludenza » delle presunzioni. (89) Così U. FERRANTE, loc. ult. cit. Conformemente, G. LEONE, Il processo indiziario, in Scritti giuridici, Napoli, 1987, vol. II, 781, ove, in relazione all’accertamento indiziario, l’A., pur riconoscendone la necessarietà, avanza seri dubbi: « La giustizia umana, purtroppo, non può rinunziare a questo pauroso strumento di accertamento perché, a differenza della giustizia divina, non può leggere nei cuori e nelle menti e non può affondare il suo occhio nell’ignoto. Non può rinunziarvi, perché altrimenti i delinquenti più astuti — quelli che architettano il delitto perfetto — ne resterebbero avvantaggiati e premiati. Strumento perciò irrinunziabile, ma strumento pauroso di giustizia, perché porta in sé il nucleo dell’errore ». Sull’utilità degli indizi senza riserve si esprimono, invece, L. GRANATA, La psicosi per i più grandi processi indiziari e la normalità giuridica, cit., 21; F. CARNELUTTI, La prova civile, cit., 65; A. CONIGLIO, op. cit., 177. (90) Per le ragioni menzionate nel testo e per la circostanza che tale disposizione è imprecisa, considerando solamente che « l’esistenza di un fatto » e non anche « l’inesistenza » possa essere desunta da indizi, si è ritenuto, infatti, opportuno sostituire la formula dell’art. 183 comma 2 Prog. 1978 con quella che recita che « gli indizi sono valutati soltanto se siano gravi, precisi e concordanti ». Tale opionione, sostenuta in relazione al progetto del 1978, nei Pareri della Commissione consultiva (p. 166), della Procura generale presso la Corte di Cassazione (p. 17) e del Consiglio nazionale forense (p. 19), non è stata, però, accolta, come si è detto, dal legislatore del 1988. (91) Si tratta del Progetto E.T. Liebman proposto il 25 gennaio 1977 al Ministro di grazia e giustizia, senatore Bonifacio, e riportato per intero in Riv. dir. proc., 1977, 461 ss.,


— 408 — 4. b) Venendo ora all’analisi dei singoli requisiti previsti affinché gli indizi possano rivestire la qualità di prova in senso pieno, occorre innanzitutto prendere in esame il preteso carattere di certezza dell’elemento indiziante contrapposto alla ipoteticità dello stesso. Da sempre, si ritiene, presso la giurisprudenza di legittimità e di merito, che il fatto da cui si risale, attraverso un ragionamento di tipo inferenziale, al thema probandum debba essere certo, sicuro, inoppugnabile e che la necessarietà della presenza di tali attributi facenti capo al dato indiziante non possa non costituire un punto fermo e indiscusso relativamente alla struttura e alla modalità del processo logico-mentale in cui lo stesso rientra. Secondo quanto affermato in dottrina, infatti, « l’indagine razionale e logica più rigorosamente esatta menerebbe con inesorabile fatalità all’errore, se i dati che le servono di premessa non rivestissero i caratteri assoluti della certezza » (92). Del resto, non è un caso che qualsiasi concezione si segua in campo logico in ordine alla configurazione strutturale dell’accertamento indiziario, sia vista in chiave sillogistica che secondo una « prassi di conferma », abbia come presupposto la pregressa acquisizione obbiettiva di un fatto certo (93). Addirittura sulla base di semplici considerazioni di buon senso, intuitive e pacifiche, non può che derivarne la medesima conclusione. Così, se dal punto di vista della logica formale l’esigenza di certezza è ampiamente giustificata, tanto da costituire un dato costante in giurisprudenza (94), nessuna obiezione pare scaturire a livello normativo, ove preceduto da una breve relazione. In particolare, l’art. 179, rubricato « Presunzioni semplici », asserisce che « il giudice può argomentare dall’esistenza di un fatto noto per accertare un fatto ignorato, quando tale conseguenza sia univoca e concludente » (sul punto vedi anche quanto precisato nella Relazione a p. 457). (92) Così Gugl. SABATINI, Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale, vol. II, Catanzaro, 1911, 175, del quale vedi anche ivi, 153 ss. Di recente si esprimono in modo del tutto analogo, R. LI VECCHI, op. cit., 332; A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 277; M. BONETTI, op. cit., 487. In passato, F.M. PAGANO, op. cit., 16: « Se l’esistenza dell’indizio sia probabile soltanto, il fatto di cui si cerca la verità, sarà sempre più dubbio. Conviene di necessità che vacilli un edificio, che poggi su di una vacillante base: se è probabile che esista un indizio, cioè un fatto, il quale additi un probabile avvenimento, avremo allora una probabilità di probabilità, cioè una probabilità composta ». (93) Sul punto, nell’ottica della concezione sillogistica, vedi P. DE LALLA, op. cit., 347; nella prospettiva della « prassi di conferma » vedi invece M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 249, il quale afferma che lo schema logico dell’inferenza indiziaria presenta « una struttura caratterizzata dall’assenza di fattori ipotetici. (94) Il concetto è ripetuto nelle più svariate formulazioni. Tra le tante, vedi Cass. 25


— 409 — tale pretesa è oggi implicita (95) nel dettato dell’art. 192 comma 2 (96). Si impongono, a questo punto, alcune precisazioni sull’esatto significato del concetto di certezza riferito al fatto indiziante e, in particolare, sulla portata dell’antico principio praesumptum de praesumpto non admittitur. È risaputo che la base dell’argomentazione indiziaria deve consistere in un fatto noto, concretamente rilevato, accertato, non potendo rinvenirsi in un semplice sospetto (97), in una mera ipotesi che, seppure razionale, sia poi priva di ogni riscontro obbiettivo nella realtà dei fatti. Se così gennaio 1993, Bianchi, in Riv. pen., 1994, 104; Id. 9 aprile 1992, Pirisi, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 171; Id. 9 settembre 1991, Gusmerini, cit.; Id. 3 settembre 1991, Tartaglia, cit.; Id. 8 febbraio 1991, Ventura, in Cass. pen., 1992, 2160; Id. 22 giugno 1987, Minghetti, cit.; Id. 27 aprile 1987, Mazzotta, cit.; Id. 1 aprile 1986, Morabito, in Riv. pen., 1987, 279: « Nella valutazione della prova indiziaria il giudice di merito deve prima accertare che gli indizi che la compongono siano ontologicamente certi e poi esaminarli criticamente sotto l’aspetto della loro convergenza ed intima interdipendenza, nella loro attitudine a giustificare sul piano logico l’esistenza del fatto-reato da accertare »; Id. 30 settembre 1985, Martoriello, in Mass. dec. pen., 1986, m. 171.509; Id. 16 ottobre 1984, Di Paola, in Giust. pen., 1985, III, 574; Id. 16 giugno 1982, Casula, cit.; Id. 29 giugno 1979, Sfridegatto, ivi, 1980, 295: « In tema di valutazione di prove indiziarie è necessario che il fatto noto... sia certo non solo nella sua sussistenza, ma anche nelle sue modalità »; Id. 25 marzo 1976, Bozano, cit.: « Gli indizi per poter essere valutati ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato debbono essere certi e non soltanto ipotetici »; Id. 15 giugno 1965, La Marca, in Giust. pen., 1965, III, 57: « Requisito precipuo della prova indiziaria è la certezza della circostanza indiziante »; Trib. Roma 20 giugno 1962, Fabrizi, cit.: « È indispensabile che la circostanza o le circostanze indizianti, assunte nella premessa minore, siano rigorosamente accertate in fatto ed appaiono certe e concrete; se tale condizione non sia soddisfatta, potrà aversi solo una parvenza di costruzione logica, che maschera delle mere congetture soggettive ed è semplice espressione di dubbi ». (95) In tal senso, Cass. 25 gennaio 1993, Bianchi, cit.; Id. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, cit.: « Tale requisito, benché non espressamente indicato dall’art. 192 c.p.p., è da ritenersi insito nella previsione di tale precetto. Con la certezza dell’indizio, infatti, viene postulata la verifica processuale circa la reale sussistenza dell’indizio stesso, posto che non potrebbe essere consentito fondare la prova critica (indiretta) su un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, inammissibilmente valorizzando, contro indiscutibili postulati di civiltà giuridica, personali impressioni o immaginazioni del decidente »; Id. 28 agosto 1991, Giordano, cit. (96) Analogamente, sotto la vigenza del codice Rocco, si affermava in dottrina che la « necessarietà » del carattere di certezza spettante all’elemento probatorio sul quale si articola il procedimento indiziario emergeva a livello normativo dalla nozione di presunzione semplice dell’art. 2727 c.c. (che parla di « fatto noto ») e dal disposto dell’art. 2729 c.c. (corrispondente all’attuale art. 192 comma 2 c.p.p.). Così N. LAURO, op. cit., 1419. (97) Sul punto Cass. 16 ottobre 1984, Di Paola, cit., parla di « mere espressioni dello stato d’animo del giudicante », in riferimento ai sospetti, alle congetture, alle supposizioni di fatto. Il sospetto e la congettura, cioè, « si riducono a deduzioni soggettive non essendo an-


— 410 — fosse, il ragionamento congetturale risulterebbe del tutto arbitrario ed illegale e sarebbe censurabile in Cassazione, sotto il profilo giuridico del vizio di motivazione. Ma se la base dell’illazione deve essere certa, occorre anche domandarsi se tale caratteristica permanga nell’ipotesi in cui l’indizio discende da un altro indizio, ossia nel caso di indizi cosiddetti mediati; con la conseguenza che, se si ritenesse di dover applicare rigidamente la regola espressa dal broccardo latino, si dovrebbe respingere dal novero delle prove gli indizi di secondo, terzo ed ulteriore grado. Si tratta di una conclusione, quest’ultima, a cui è pervenuta buona parte della dottrina (98) la quale suole affermare che, nel caso di indizio mediato, non sussiste la possibilità di individuare, tra il fatto noto e quello ignorato, un collegamento certo, univoco e logicamente corretto (99). L’indizio di secondo grado, infatti, essendo in relazione immediata non con il fatto-reato ma con un indizio di primo grado, a sua volta indirettamente connesso con l’ipotesi di reato stessa, risulterebbe, in sostanza, un corate, a differenza delle presunzioni e degli indizi, a circostanze oggettive acquisite al processo » (Id. 23 febbraio 1968, Martino, cit.). « Altra cosa è l’indizio ed altra cosa il sospetto: il primo è elemento obbiettivo indicante, secondo la sua stessa etimologia, un rapporto sia pure lontano ed incerto fra l’azione del presunto colpevole e l’evento; il secondo è elemento subbiettivo del giudice non avvalorato da dati obbiettivi, sia pure incerti, in base ai quali non è logicamente possibile costruire il sillogismo per qualsiasi pronuncia del giudice di condanna o di assoluzione con formula dubitativa » (Id. 21 maggio 1949, in Arch. pen., 1952, 495). Per un’analisi dottrinale più accurata in ordine al concetto di sospetto e a quello di mera congettura, vedi i rinvii bibliografici menzionati supra alla nota no 13. (98) Cfr. L. MONTESANO, op. cit., 246, il quale asserisce che non è possibile « presumere dal presunto »; G. BETTOCCHI, op. cit., 721; Gius. SABATINI, op. cit., 307. (99) In tal senso M. TARUFFO, Certezza e probabilità nelle presunzioni, cit., 83, nota no 2; P.O. EKELOF, op. cit., 101, ove si dice che « il valore probatorio di una circostanza dipende anche dal grado di probabilità con cui tale circostanza è stata (a sua volta) provata... e più sono gli anelli della catena, più la dimostrazione dell’ultimo anello... è debole ». Sulla base di un assioma del calcolo delle probabilità, secondo il quale il valore della probabilità composta si ottiene moltiplicando tra loro i denominatori delle frazioni rappresentanti le probabilità semplici, si esclude l’ammissione di indizi mediati, dato che il valore di ogni singolo indizio, nell’ottica menzionata, decresce a misura che il suo oggetto si allontana dal thema probandi. Si tratta, in realtà, di una conclusione insostenibile dal momento che si fonda sull’ingiustificata premessa inerente alla possibilità di applicare le leggi matematiche del calcolo delle probabilità alla prova indiziaria. A conferma di ciò, si rileva, infatti, che la teoria matematica poggia su due presupposti che non ricorrono mai in tema di prova indiziaria: « il primo è la predeterminazione esatta di tutti gli eventi possibili; il secondo, la conoscenza precisa dei supposti di fatto » (cfr. V. GIANTURCO, op. cit., 143 ss. e C. LESSONA, op. cit., 332 ss.).


— 411 — mero sospetto (100), che soltanto attraverso un evidente salto logico od un’arbitraria illazione potrebbe assurgere ad indizio rilevante ai fini dell’accertamento indiretto. D’altro canto, non costituiscono una voce isolata coloro che ammettono che il dato indiziante certo possa discendere da altri indizi, pur con le dovute cautele che il caso in questione richiede (101). Secondo l’indirizzo prevalente, la giustificazione di una tale asserzione sarebbe da rinvenire nel principio del libero convincimento del giudice, al quale osterebbe una limitazione quale quella appena menzionata (102). In realtà, a nostro avviso sembra più opportuno ribadire che un’applicazione indiscriminata dell’antica regola per la quale praesumptum de praesumpto non admittitur implichi l’adesione a quell’orientamento che considera la prova indiziaria meno efficace di quella storica, opinione da noi assolutamente non condivisa. Pur rappresentando un caso limite, è di immediata percezione che nella pratica il problema non si pone nei confronti degli indizi necessari. In tali ipotesi, invero, la conclusione dell’illazione si presenta come matematicamente certa, ossia come un dato di fatto obbiettivo ineccepibile ed è, quindi, impossibile negare che il risultato della prima inferenza possa costituire la base di un’ulteriore argomentazione. Anche in riferimento ad altri casi di prova critica, però, dall’esigenza minima di una duplice applicazione delle regole di esperienza per la sua valutazione, non discende necessariamente una capacità dimostrativa inferiore rispetto alle prove dirette e, di conseguenza, una volta superata positivamente la fase di veri-

(100) Così Cass. 3 settembre 1991, Tartaglia, cit., ove si dice che il sospetto « si individua nel rapporto in cui si pone con il fatto ignoto, nel senso che non porta a questo se non attraverso un’ulteriore passaggio di carattere logico-inferenziale. Il sospetto è, insomma, l’indizio dell’indizio, o indizio di secondo grado, chiaramente inutilizzabile nel processo penale ». In dottrina, G. BETTOCCHI, loc. ult. cit., il quale asserisce che « gli indizi di secondo grado, in quanto sospetti, sono assolutamente irrilevanti per la formazione del convincimento giudiziale ». (101) In tal senso, G. LEONE, Elementi di diritto e procedura penale, cit., 444; G. BELLAVISTA, voce Indizi, cit., 229; G. MANZINI, op. cit., 366; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, cit., 164; V. GIANTURCO, op. cit., 142 ss. (102) Così G. MANZINI, loc. ult. cit. e V. GIANTURCO, op. cit., 145, i quali appunto si avvalgono di tale principio, malamente inteso, per opporsi a coloro che sostengono il divieto di indizi mediati, ritenendo che in tal modo si introdurrebbe « nel diritto processuale una limitazione arbitraria che urta col principio della libertà della prova e del libero e razionale convincimento del giudice ».


— 412 — fica, è possibile che ogni prova indiziaria sia posta a fondamento di un ulteriore accertamento indiretto (103). Pertanto, se si deve ritenere pienamente ammesso l’uso dei considdetti indizi mediati (104), va comunque ribadito che, soprattutto nelle ipotesi in cui gli indizi-base non siano necessari, essi vadano valutati dal giudice con particolare oculatezza e prudenza (105). 4. c) Si prenda ora in considerazione il requisito della gravità (106). Essa consiste nell’elevato grado di « rilevanza-pertinenza del fatto noto rispetto al thema probandum » (107), cosicché si definisce (103) « Più precisamente per fatto certo deve intendersi non soltanto il fatto provato direttamente ma anche quello ammesso o non contestato dall’imputato o, comunque, da questo non seriamente contestabile e, quindi, anche un fatto indiziariamente accertato (cosiddetto indizio primario) dal quale possa desumersi l’esistenza del fatto incerto (cosiddetto indizio secondario) ». Così N. CAPITANIO, op. cit., 1316. Conformemente P. COMOGLIO, op. cit., 141 ss. (104) Secondo quanto osservato da V. GIANTURCO, op. cit., 146, « una riprova dell’ammissibilità dell’indizio mediato nel nostro diritto positivo è data dal disposto dell’art. 309 comma c.p.p. (oggi sostituito pari pari dall’art. 244 comma 2 c.p.p.), in cui è prevista la ricostruzione ideale di un indizio da altri segni materiali: invero, se dalle tracce o altri effetti materiali del reato si ricava un indizio, nel caso in cui questi siano scomparsi o siano stati, comunque, cancellati o dispersi, alterati o rimossi, il giudice della verifica dello stato attuale dei luoghi e delle cose argomenta quello preesistente e su questo indizio mediato fonda la sua congettura in ordine al delitto, e per quanto possibile, al suo autore ». (105) In tal senso, Cass. 2 settembre 1985, Alberti, cit.: « Ai fini probatori bene può essere utilizzato anche il cosiddetto indizio mediato, cioè l’indizio che discende da altro indizio, purché sia usata la necessaria cautela, in quanto esso non deriva da una semplice intuizione del giudice, ma è fondato sul collegamento tra i vari elementi accertati »; Id. 7 maggio 1985, Carbone, in Riv. pen., 1986, 349; Id. 6 maggio 1985, Soci, ibid., 742; Id. 7 aprile 1981, Marangoni, ivi, 1982, 743 e Id. 27 febbraio 1962, Caputo, in Gius. pen., 1962, III, 510: « Gli indizi mediati, cioè gli indizi a loro volta derivati da altri indizi, non possono essere banditi dal quadro degli elementi utili alla formazione del convincimento giudiziale ma data la minore quantità e gravità del loro indice probatorio, dovrà assumere, nell’attività critica di deduzione un più preciso rilievo la regola di un loro necessario cumulo e concorso, ai fini di un reciproco controllo e completamento ». (106) A questo proposito si qualifica tradizionalmente l’indizio come prossimo. Vedi N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 205. (107) Così Cass. 3 settembre 1991, Tartaglia, cit. e Id. 27 agosto 1991, Gusmerini, cit., le quali proseguono asserendo che « la rilevanza-pertinenza dell’indizio rinviene dalla corretta applicazione della regola di inferenza ». Conformemente, Id. 25 gennaio 1993, Bianchi, cit.: « con il requisito della gravità si puntualizza la capacità dimostrativa, la pertinenza, cioè, del dato rispetto al thema probandum »; Id. 26 febbraio 1992, La Rocca, cit.: « L’indizio è grave... quando sia conferente all’oggetto del giudizio, cioè allo specifico reato contestato e non di illeciti non ancora individuati con precisione o comunque non contestati, essendo la gravità dell’indizio direttamente proporzionale alla sua congruità e conferenza al


— 413 — grave l’indizio che dimostra in modo altamente probabile l’accadimento del fatto di cui deve essere verificata l’esisteza (108). In altri termini, il concetto di gravità fa perno sulla determinazione di « un grado adeguato di probabilità dell’inferenza relativa al fatto da accertare » (109). Ne consegue inevitabilmente che la gravità deve sempre (110) contraddistinguere il dato indiziante allorché questo sia utilizzato in funzione probatoria (111). Invero, « mancando qualsiasi relazione di tipo logico-inferenziale tra gli elementi utilizzati a fini probatori e il fatto da provare si legittimerebbe una dimostrazione fondata su elementi sforniti di ogni valore dimostrativo » (112), in quanto prescindere dalla gravità significherebbe ammettere l’accertamento di un fatto processualmente rilevante (qual è per definizione il fatto da provare) sulla base di circostanze che, se pure concordi, rispetto a quel fatto non sono però pertinenti. Per quanto concerne il connotato della precisione, consistente nell’univocità dell’indizio (113), il discorso si fa più complesso. Che l’inferenza indiziaria dia luogo a risultati attendibili in quanto essa non sia equivoca è un dato intuitivamente evidente, ma le numerose pronunce giurisprudenthema probandi »; Id. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, cit.; Id. 28 agosto 1991, Giordano, cit. (108) Cfr. Cass. 24 giugno 1992, Re, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 171; Id. 27 marzo 1991, Bizzantino, cit.; Id. 30 gennaio 1991, Vassallo, cit.: « Gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e, quindi attendibili e convincenti »; Id. 31 gennaio 1989, Condello, in Giur. it., 1990, II, 1: « ...gravi, nel senso, cioè, che la loro valutazione globale consenta una costruzione precisa e non controvertibile del fatto contestato ». (109) Testualmente M. TARUFFO, Note per una riforma del diritto delle prove, in Riv. dir. proc., 1986, 280. Analogamente, A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 274 e 277; D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, op. cit., 394; M. TARUFFO, Certezza e probabilità nelle presunzioni, cit., 98; A. CONIGLIO, op. cit., 211; G. LESSONA, op. cit., 322. (110) Un’ipotesi particolare è quella dell’indizio necessario ove o il fatto ignoto è deducibile con assoluta certezza dal fatto noto, o quest’ultimo è del tutto privo di efficacia probatoria. Ci si troverebbe, cioè, secondo una certa opinione, in uno schema composto da due alternative assolute (l’inferenza è possibile e certa, o impossibile), nel quale non c’è spazio per un concetto relazionale e graduabile, come quello di gravità. L’indizio necessario non è grave, bensì logicamente cogente senza possibili alternative, mentre l’indizio grave conferisce al fatto ignoto un alto grado di attendibilità ma non esclude in assoluto la possibilità logica del contrario. Sul punto vedi M. TARUFFO, loc. ult. cit., nota no 60. (111) Sul punto Cass. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, cit. (112) Così A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 277. (113) Si tratta del requisito che nella classificazione tradizionale corrisponde all’urgenza. « Sono dunque gli indizi urgenti quelli che a pochi avvenimenti si rapportano » (così F.M. PAGANO, Logica de’ probabili, Milano, 1806, 99).


— 414 — ziali che, specie in passato, sia in sede penale che civile, hanno postulato l’esistenza di un nesso di derivazione necessaria (114) del fatto ignoto dal fatto noto, tale da non lasciare spazio ad alternativa alcuna (115), inducono a precisare l’esatta portata della nozione di univocità come requisito dell’indizio (116). Com’è facile rilevare, sul piano meramente logico, si ottiene un concetto rigoroso di univocità dell’illazione inferenziale, cosicché è possibile asserire che y sia conseguenza univoca di x quando esiste una relazione tale per cui in ogni caso x implica y e soltanto y; si avrebbe invece equivocità qualora la regola fosse tale per cui x possa implicare y o z. Infatti, l’univocità dell’argomentazione è strettamente correlata alla natura della regola di esperienza impiegata, nel senso che, nell’ottica men(114) Il concetto di necessità risulta fuorviante in quanto la portata effettiva dell’orientamento giurisprudenziale in esame pare si esprima meglio nella fissazione del requisito della univocità delle conclusioni sul fatto ignoto, che in quello della necessità di tali conclusioni come conseguenza del fatto noto. Sul punto M. TARUFFO, op. ult. cit., 95. (115) In tal senso, Cass. 25 gennaio 1993, Bianchi, cit.; Id. 24 giugno 1992, Re, cit.; Id. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, cit.: « Ai fini previsti dall’art. 192 c.p.p., con la precisione degli indizi si stigmatizza la circostanza indiziante inidonea a prestarsi ad interpretazione diversa (alternativa) da quella della prova del fatto ignoto (da dedurre): indizio preciso è, perciò, quello che la ricorrente dottrina qualifica indizio ‘‘necessario’’ »; Id. 30 gennaio 1991, Vassallo, cit.; Id. 4 ottobre 1990, Cersosimo, in Riv. pen., 1991, 763; Id. 25 gennaio 1988, Manocco, in Cass. pen., 1989, 2052; Id. 19 gennaio 1987, Cillari, in Riv. pen., 1988, 405: « Nel momento valutativo della prova indiziaria, il procedimento induttivo deve restringersi alla regola di una necessaria derivazione logica del dato ignoto da quello ignoto da cui si è partiti, tale da escludere ogni altra possibile ricostruzione equivalente, con la conseguenza che una affermazione di responsabilità può essere fondata su elementi indiziari soltanto se gli stessi, partitamente indicati in motivazione ed esattamente nel loro nesso logico, diano la sicura certezza dell’attribuibilità del fatto ad azione dell’imputato, nel senso che, non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma venga altresì dimostrato che il fatto stesso non può essersi svolto in modo diverso »; Id. 21 aprile 1983, Bastasin, ivi, 1984, 549; Id. 11 maggio 1982, Scali, ivi, 1983, 398; Id. 19 ottobre 1982, Contri, ivi, 1983, 919; Id. 26 gennaio 1976, Raffo, in Giust. pen., 1977, III, 57; Id. 1 febbraio 1972, Tessari, ivi, 1973, III, 138; Id. 19 febbraio 1971, Baldo ed altro, in Cass. pen., 1972, 1403: « in tema di prova indiziaria, l’accertata equivocità ed ambivalenza dell’elemento indiziante si traducono in un difetto dei requisiti necessari per fare assurgere lo stesso a livello di indizio e di prova (indiziaria) e, quindi, in una assoluta mancanza di prova »; Id. 19 gennaio 1971, Lentini, in Giust. pen., 1972, III, 302; Id. 11 novembre 1970, Centra ed altri, in Cass. pen., 1971, 1781; Id. 15 giugno 1965, La Marca, cit. (116) « In tema di prova per indizi, il requisito dell’univocità non è richiesto in relazione ai singoli elementi indizianti, bensì alla valutazione di essi, nel loro complesso, secondo il prudente apprezzamento delle prove operato dal giudice ai fini della formazione del proprio libero convincimento ». Così Cass. 7 luglio 1986, De Masi, in Riv. pen., 1987, 890 e Id. 26 aprile 1983, Del Fossà, ivi, 1984, 572. Nel medesimo senso, Id. 4 marzo 1981, Gatti, ivi, 1981, 836; Id. 24 febbraio 1981, Maron, ivi, 1981, 744.


— 415 — zionata, si avrebbe illazione univoca quando la conseguenza che la massima consente di trarre dalla premessa data è la sola configurabile (117), mentre si avrebbe equivocità se dalla regola possano discenderne svariate e diverse conclusioni. In sostanza, il carattere di necessità dell’asserzione del fatto ignoto sulla base del fatto noto sussiste se e solo in quanto risulti disponibile un criterio conoscitivo generale (quale una legge di tipo logico) che fondi la validità in ogni caso (e dunque la necessità in ogni singola ipotesi) dell’inferenza che consente di dedurre l’esistenza del fatto incerto dall’esistenza di quello certo (si pensi alla prova dell’alibi che discende inequivocabilmente dal principio di non ubiquità). Tuttavia, ai limitati fini dell’accertamento indiziario, l’analisi del concetto di univocità non deve essere compiuta sotto un profilo esclusivamente di teoria logica, ma va calato in quello che è il contesto pratico concernente il giudizio. L’equivocità teorica o logica non coincide cioè con l’equivocità che la dottrina definisce « pratica » (118): se, data una premessa x cui si applica una determinata regola di esperienza, ne risulta che la conseguenza y è abbastanza probabile da poter essere ritenuta « certa » ai fini processuali, la diversa conseguenza z può non essere logicamente esclusa in assoluto, ma lo è di fatto in quanto sussistano elementi per una scelta razionalmente fondata a favore di y (119). (117) In tal senso, G. LEONE, Elementi di diritto e procedura penale, cit., 445; G. BELLAVISTA, loc. ult. cit.; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, cit., 164; ID., Prova e indizio nel processo penale (con particolare riferimento alla formula dubitativa), in Riv. dir. proc. pen., 1956, 399; ID., Spunti sul problema della prova nel processo penale, in Scuola positiva, 1965, 327: « La correlazione logica non va intesa solo in senso positivo, come sbocco degli indizi in una conclusione che in essi trovi l’indefettibile ed unica spiegazione; ma anche in senso negativo, come esclusione radicale ed assoluta che altra sia la verità ». (118) L’espressione è di M. TARUFFO, op. ult. cit., 100. (119) « La prova indiziaria, disciplinata dall’art. 192 comma 2 c.p.p., è quella che consente, sulla base di indizi ‘‘gravi, precisi e concordanti’’, da valutare secondo criteri di rigida conseguenzialità logico-giuridica, la ricostruzione del fatto e delle relative responsabilità in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche da escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza e in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili. Se così fosse, infatti, non si dovrebbe più parlare di ‘‘prova indiziaria’’ e di indizi atti a sostenerla, ma di dimostrazione per absurdum, secondo regole che sono proprie soltanto delle scienze esatte, la cui osservanza non può quindi essere pretesa nell’esercizio dell’attività giurisprudenziale » (Cass. 24 marzo 1992, Di Palma, in Arch.


— 416 — In una situazione di questo genere, è quindi chiaro che la configurabilità di un’equivocità logica — che si verifica quando il criterio conoscitivo adottato non ammetta un’unica implicazione necessaria ma dà luogo alla possibilità di conclusioni diverse — non preclude la formulazione di un’inferenza valida ed efficace sul fatto ignoto, mentre non sarebbe utilizzabile a tal fine nel caso rendesse ugualmente attendibile l’affermazione del fatto ignoto e la sua negazione, o l’esistenza del fatto ignoto e quella di un altro fatto con esso incompatibile. « Allora, la qualificazione di univocità/equivocità non dipende dalla potenzialità teorica, o dalla possibilità logica, che la regola d’inferenza applicata alla premessa data dal fatto noto ammetta più conclusioni diverse, ma dal fatto che essa produca o meno più conseguenze dotate dello stesso grado di attendibilità, o comunque di gradi di attendibilità non diversificati in modo tale da consentire la scelta di un’ipotesi e il rigetto dell’altra » (120), tant’è che si parla di equivocità qualora ne discendano argomentazioni parimenti credibili (121); ma si tratta di un caso limite che difficilmente si verifica nella pratica. Ovviamente, poi, allorché risultasse più attendibile un fatto contrastante col fatto ignoto, ci si troverebbe nuovamente in un’ipotesi di non equivocità, intesa nel senso ora delineato, in quanto sarebbe univocamente fondata la conclusione negativa circa l’esistenza del fatto ignoto. Dal che segue quale corollario il fatto dell’insussistenza di uno stretto nuova proc. pen., 1992, 620). Si definiscono precisi, dunque, gli indizi « non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, perciò non equivoci » (Id. 27 marzo 1991, Bizzantino, cit. e Id. 30 gennaio 1991, Vassallo, cit.). (120) Ancora M. TARUFFO, loc. ult. cit. Analogamente, F. CORDERO, Procedura penale, cit., 541 ss.; A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 274; E. FASSONE, Primi appunti sulla valutazione della prova nel nuovo processo penale, cit., 859, il quale precisa che in tema di prova indiziaria, ai fini dell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, « non può riscuotere consenso razionale una regola-ponte che sia vaga e dubbiosa, vale a dire quando altri antecedenti del fatto affermato siano non già confinati in un campo di probabilità così infimo da poter essere convenzionalmente escluso, ma abbiano una loro apprezzabile consistenza »; ID., La valutazione della prova, cit., 133 ss.; V. GIANTURCO, op. cit., 149. In giurisprudenza, Cass. 24 giugno 1992, Re, cit.: « Il rigoroso ed obbiettivo accertamento del dato ignoto, cui è possibile pervenire su base indiziaria, deve essere, pertanto, lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziale, sul piano giuridico, delle premesse indiziarie in fatto, con esclusione di ogni altra soluzione prospettabile, in termini di equivalenza o di alternatività ». (121) In linea generale, infatti, il convincimento del giudice inerente ad una determinata ricostruzione dei fatti è compatibile con la possibilità logica di una ricostruzione differente, ma non lo è con l’esistenza di dati probatori idonei a rendere probabile questa diversa ricostruzione. Sul punto P.O. EKELOF, op. cit., 112.


— 417 — rapporto dicotomico secondo lo schema univocità-necessità/equivocitàprobabilità, in quanto la stessa argomentazione probabile può essere, a seconda dei casi, univoca od equivoca. E ciò trova conferma presso la giurisprudenza più recente, sia penale che civile, ove pare affermarsi in modo costante l’impiego del criterio per il quale, in sede di accertamento indiziario, sulla base del fatto noto risulta probabile l’esistenza del fatto ignoto secondo un’inferenza non deduttiva, certa e necessaria ma ragionevole e probabile, fondata sull’id quod plerumque accidit (122). D’altra parte, la maggior plausibilità di quest’ultimo orientamento rispetto all’altro sopra menzionato — il quale richiede che il rapporto tra i due fatti sia caratterizzato da certezza deduttiva e necessità logica — risulta con evidenza laddove esso si fonda su una più adeguata percezione della natura delle regole di esperienza che vengono nella maggior parte dei casi applicate in sede di valutazione della prova indiziaria (123), specie con riguardo all’inferenza finale che conduce all’affermazione di responsabilità. Pertanto, nel significato che si è definito, il criterio dell’univocità, se (122) In tal senso, Cass. 3 settembre 1991, Tartaglia, cit.; Id. 27 agosto 1991, Gusmerini, cit.; Id. 16 novembre 1989, Contessa c. Ruggiero, in Mass., 1989, no. 4878; Id. 24 febbraio 1981, Maron, cit.; Id. 23 maggio 1986, Marmolino c. Soc. Ansaldo trasp., in Rep. Foro it., 1986, voce Presunzione, no 4: « In tema di prova indiziaria non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto ignoto derivi da quello noto come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile secondo criteri di normalità »; Id. 22 agosto 1984, Mantovani c. Gerevini, ibid., no 1; Id. 18 ottobre 1982, Zorelli, in Cass. pen., 1983, 234; Id. 29 settembre 1978, Tafuri, in Riv. pen., 1979, 328; Id. 18 marzo 1966, Bergamasco, in Giust. pen., 1967, III, 393; Id. 2 dicembre 1964, Botti, ivi, 1965, III, 349. In dottrina, sostanzialmente conformi, D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, loc. ult. cit.; G. TORREBRUNO, Struttura logica ed argomentativa dei vizi di motivazione, in Nuovo dir., 1987, 499; M. TARUFFO, op. ult. cit., 98. Criticamente T. EPIDENDIO, op. cit., 669 ss., il quale afferma che « in questo modo, però, si risolve il limite della ‘‘gravità e precisione’’ nel divieto, per il giudice, di affidarsi esclusivamente alle proprie emozioni od intuizioni irrazionali, in quanto non si vede quale nesso più debole di quello basato sull’id quod plerumque accidit possa essere usato per collegare il fatto noto a quello ignorato ». (123) « Non pare tuttavia che la giurisprudenza della Cassazione si impegni in un vero e proprio problema di principio riguardo alle condizioni occorrenti per il valido impiego delle presunzioni. Si ha invece l’impressione che l’oscillazione della giurisprudenza, e il prevalere dell’uno o dell’altro criterio, siano legate alle peculiarità del caso concreto. In altri termini, l’adesione all’orientamento più rigoroso o a quello più elastico appare come la razionalizzazione della valutazione che la Corte opera, probabilmente andando oltre i limiti istituzionali dei suoi poteri di controllo, sull’attendibilità dell’inferenza presuntiva formulata dal giudice di merito: se questa è poco attendibile, il criterio della ‘‘necessità’’ serve ad annullare la sentenza; se invece l’inferenza appare ragionevole, il criterio della ‘‘probabilità’’ serve a confermarla ». Così M. TARUFFO, Le prove, in Riv. dir. proc., 1986, 1368 ss.; ID., Cer-


— 418 — da un lato finisce con l’avere un’efficacia discriminante molto più sfumata e ridotta rispetto a quella che emerge dalla formulazione puramente logica del concetto, in quanto essa esclude soltanto la situazione limite di contrasto tra illazioni parimenti attendibili, dall’altro risulta più opportuno, perché consente e legittima, al contempo razionalizzandolo, un impiego più ampio delle varie regole di esperienza. Si tratta, tuttavia, di un requisito accessorio (124), benché in qualche caso decisivo, non tale da condizionare in linea di principio la configurazione della prova critica. Una scelta consapevolmente fondata tra le diverse conclusioni cui l’illazione indiziaria mette capo può, infatti, essere compiuta qualora altre inferenze tratte da diversi fatti noti concordino con una di tali conclusioni, attribuendo così a quest’ultima un grado maggiore di probabilità (125). Nell’ipotesi in cui l’indizio equivoco converga con altri elementi verso un unico risultato, esso pur non perdendo il suo originario carattere di imprecisione, può validamente contribuire a fondare la dimostrazione del thema probandum. La concordanza, cioè, pur non escludendo l’equivocità dei singoli indizi, la rende irrilevante ai fini dell’accertamento del fatto ignoto (126), accrescendo la probabilità di una effettiva dimostrazione. 4. b) Una volta analizzati i concetti di gravità e precisione, non resta quindi che volgere l’attenzione a quest’ultimo requisito previsto dall’art. 192 comma 2: la concordanza (127). Essa consiste nella convergenza di più indizi verso uno stesso fatto da tezza e probabilità nelle presunzioni, cit., 86 ss.; A. D’ANGELO, Il controllo della Cassazione sui requisiti delle presunzioni semplici, in Foro it., 1973, II, 152. (124) In senso contrario, Trib. Catania 7 settembre 1993, Castro, in Foro it., 1994, II, 47: « Non è operabile la sintesi di indizi privi dei caratteri della certezza e dell’univocità, come tali non utilizzabili ai fini probatori ». (125) Inoltre, altre inferenze possono operare nel senso di escludere l’attendibilità di un’alternativa, rafforzando di conseguenza la probabilità del suo accadimento. (126) Sul punto vedi M. TARUFFO, Le prove, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 292 ss. Diversamente, sostiene che la concordanza attenui il tasso di equivocità degli indizi singolarmente considerati e non, invece, che aumenti il grado di probabilità dell’ipotesi sul fatto incerto, A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 277 ss. (127) A questo proposito gli antichi processualisti richiedevano l’unione degli indizi. Così F.M. PAGANO, op. cit., 103: « Gli indizi si possono e debbono accoppiare tra loro. Per aversi la morale certezza conviene dimostrare la cagione connessa col fatto dubbio: e per ottenere ciò conviene dimostrare che l’altre cause siano benanche concorse con la principale, onde si conchiuda che ella abbia realmente operato. Accoppiandosi pertanto siffatte cagioni si vengono ad unire gli indizi ».


— 419 — provare, cosicché si definiscono concordanti quegli indizi che risultano tutti compatibili con una medesima ricostruzione del fatto (128) e invalidano altre ipotesi concorrenti (129). La concordanza si realizza nel momento in cui vi sia coincidenza tra le conclusioni di varie argomentazioni probatorie condotte a partire da diverse circostanze indizianti tra loro indipendenti, non invece quando le illazioni tratte derivino in realtà dal medesimo fatto noto. Come precisa parte della dottrina, infatti, « l’effetto rafforzativo della convergenza degli indizi si verifica solo nel caso di concorso di vari indizi autonomi, posti sul medesimo piano orizzontale, e non nella concorrenza di indizi mediati, che, snodandosi l’uno dall’altro e coordinandosi in sorite, pervengono ad un’unica congettura conclusiva: in tal caso l’illazione congetturale definitiva avviene per gradi, è sostanzialmente unica, rispetto al thema probandum, e si presenta meno evidente ed immediata di come potrebbe essere un’inferenza tratta direttamente da un determinato elemento indiziante, con un’unica argomentazione, conducente, direttamente e di primo acchito, dal cognito all’ignoto » (130). Inoltre, diversamente da quanto taluni affermano (131), non pare vero che se si valutano congiuntamente più circostanze indizianti ciò abbia come effetto che ognuna di esse acquista, quasi di riflesso, un valore probatorio maggiore di quello che avrebbe se venisse considerata da sola (132). Ogni dato di prova e ogni indizio, invero, conserva il proprio valore (ossia il valore che può essergli attribuito in virtù di una specifica regola di esperienza), anche quando venga messo in correlazione con altri elementi idonei a fondare la medesima conclusione. Le circostanze indizianti non interagiscono l’una sull’altra aumentando a vicenda la propria (128) In giurisprudenza, gli indizi « concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi » (Cass. 27 marzo 1991, Bizzantino, cit. e Id. 30 gennaio 1991, Vassallo, cit.) ovvero « che valutati nel loro complesso e nelle reciproche connessioni e implicazioni, siano idonei a fornire la prova compiuta del fatto da provare, salvo l’obbligo di raccordare... la proposizione argomentativa, scaturente dagli indizi, con tutti gli altri elementi emersi nel processo e delle eventuali contrarie deduzioni delle parti » (Id. 7 dicembre 1990, Urli, cit.). (129) In tal senso F. CORDERO, Manuale di procedura penale, cit., 946. Sul punto vedi anche A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, cit., 124 ss.; ID., Prova e indizi: la giurisdizione tra razionalità e consenso, cit., 469 ss. (130) Così V. GIANTURCO, op. cit., 151. Analogamente, A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 274; D. SIRACUSANO, A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, op. cit., 393 ss. (131) Vedi A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 278. (132) Cfr. Cass. 26 giugno 1993, Di Iorgi, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 648.


— 420 — consistenza probatoria « in una sorta di infinito gioco degli specchi » (133); ciò che aumenta quando vi sono più indizi concordanti è il grado di attendibilità dell’ipotesi sul fatto ignoto, per la buona quanto ovvia ragione che essa è credibile se, invece di un solo elemento indiziante, vi è una pluralità di inferenze indiziarie convergenti a sostegno della stessa ipotesi. In altre parole, è il valore probatorio della combinazione di indizi (134) a risultare superiore a quello di ogni singolo indizio, non il valore del singolo indizio che si combina con gli altri. Messo a punto in questi termini il concetto di « concordanza », occorre precisare quale sia la sua portata se calato nel contesto dell’art. 192 comma 2 c.p.p. Innazitutto, la concordanza, per definizione, presuppone l’esistenza di una pluralità di circostanze dotate di valore probatorio che insieme convergono verso un unico risultato. In secondo luogo, la norma in questione richiede che la concordanza risulti tra « indizi », escludendo la convergenza con altri elementi strutturalmente diversi dalla prova indiziaria. Ebbene, stando alla lettera della legge, parrebbe che il riferimento alla concordanza degli indizi, unitamente all’uso del plurale, legittimi la statuizione dell’irrilevanza ai fini probatori dell’indizio isolato (135). La (133) L’espressione è di M. TARUFFO, op. ult. cit., 293. (134) Vedi Cass. 24 marzo 1993, Bianchi, cit.; Cass. Sez. Un. 4 giugno 1992, Musumeci, cit.: « L’apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un’univocità indicativa che dia la certezza logica dell’esistenza del fatto da provare, costituisce un’operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquista la valenza indicativa — sia pure di portata possibilistica e non univoca — di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell’esame globale e unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto »; Cass. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, cit.: « Con la concordanza si intende affermare che la verifica circa la concludenza e certezza del fatto da provare va saggiata non singolarmente, per ciascuna circostanza indiziante — che sia fornita, ovviamente, dei requisiti della certezza e della gravità — ma simultaneamente, nel senso che è necessario procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi che presentino singolarmente in una positività parziale o, almeno, potenziale di efficienza probatoria, al fine di accertare se, nella composizione dei singoli apporti utili, si possa pervenire al risultato proposto al decidente ». (135) Cfr. Cass. 9 aprile 1992, Pirisi, cit.; Id. 21 gennaio 1992, Pappalardo, in Riv. pen., 1992, 497; Id. 2 luglio 1991, Maiolo, cit.; Id. 5 marzo 1991, Calò, cit.; Id. 5 marzo 1991, Bellesi, in C.E.D., no 188.129; Id. 8 febbraio 1991, Ventura, cit.; Id. 30 gennaio 1991,


— 421 — disposizione citata, cioè, in quanto allusiva ad una necessaria concordanza degli indizi, ne esigerebbe in sostanza la pluralità, mentre nessuna norma detta un’analoga condizione per le prove dirette, « liberamente valutabili ». Al punto che, in quest’ottica, il comma 2 dell’art. 192 conterrebbe una vera e propria regola di prova legale (« un solo indizio non può assurgere a dignità di prova ») (136) del tutto analoga a quella che in altri tempi esigeva la pluralità delle testimonianze (unus testis nullus testis), la cui soppressione si è ampiamente plaudita. In realtà, il legislatore, mutuando dalla dottrina e dalla giurisprudenza la dizione « indizi gravi, precisi e concordanti », ha inteso soltanto riferirsi in modo espresso alla prova critica la quale, come si è più volte spiegato, non riveste di per sé un’efficacia probatoria inferiore a quella della prova storica, ben potendo, sia pure in casi che raramente si verificano nella pratica, essere posta sola a fondamento di un’affermazione di responsabilità penale. D’altra parte, la formula della norma in esame, ricalca quella contenuta all’art. 2729 comma 1 c.c., riproponendo problemi interpretativi già sollevati in sede civile e che in tale ambito hanno condotto a soluzioni alle quali è qui opportuno rifarsi (137). Così, conformemente a quanto sostenuto in linea generale in ordine Vassallo, cit.; Id. 3 luglio, Urli, cit.; Id. 10 maggio 1990, Allegra, in C.E.D., no 6760; Cass. Sez. Un. 3 febbraio 1990, Belli, cit.; Cass. 31 gennaio 1989, Condello, cit. (136) Infatti, secondo M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, vol. I, Milano, 1962, 165, rientrano tra le regole di prova legale « anche quelle che, limitando od escludendo l’ammissione di una prova, vincolano il giudice ad escluderne a priori la credibilità ». Di recente, G. VERDE, Prova legale e formalismo, in Foro it., 1990, V, 465, ha ribadito che « il fenomeno è più ampio di quel che possa ritenersi a prima vista, giacché la prova sarà libera (e, quindi, non legale) solamente quando la legge si limita a pretendere dal giudice una valutazione ‘‘prudente’’ (ossia non arbitraria o capricciosa). Già ci si incammina sul sentiero della valutazione ‘‘legale’’ quando la norma inserisce criteri o direttive circa il modo con cui lo strumento probatorio deve essere apprezzato. Così, persino la prova indiziaria finisce con l’apparire ‘‘legale’’, atteso che il giudice civile ed oggi anche quello penale possono desumere l’esistenza di un fatto dagli indizi solamente se questi siano ‘‘gravi, precisi e concordanti’’ ». (137) Tra le diverse proposte formulate in merito alla valutazione delle presunzioni semplici, è da ricordare la soppressione del requisito della concordanza, implicitamente prevista dall’art. 179 del Progetto Liebman (vedi supra alla nota no 91), la quale, di conseguenza, costituiva una conferma del carattere eventuale della pluralità degli indizi e della natura composita della prova presuntiva. A favore di questa innovazione vedi B. CAVALLONE, Sulle prove, in Sulle proposte di riforma del processo di cognizione, in Riv. dir. proc., 1979, 259 ss. Contra, con riferimento però alla sua eventuale applicazione in tema di prove atipiche, L. MONTESANO, Le prove, in Riv. dir. proc., 1978, 481 ss.


— 422 — alle presunzioni semplici (138), si riconosce al connotato della concordanza valore virtuale, in presenza (non necessaria) di una pluralità di indizi, con il risultato che anche una sola prova indiziaria può fondare il convincimento del giudice (139). « La ragione di questa particolare interpretazione del requisito della concordanza è molto semplice: la pluralità (138)

Vedi, M. TARUFFO, op. ult. cit., 292; V. ANDRIOLI, op. cit., 772; G.M. UBER-

TAZZI, La prova per presunzioni e il processo davanti alla Corte di giustizia delle comunità

europee, in Riv. dir. civ., 1976, I, 248 ss.; C. LESSONA, op. cit., 15 e vol. V, 323 ss.; A. CONIGLIO, op. cit., 198, 212, 230 ss. Più restrittivamente M. TARUFFO, Note per una riforma del diritto sulle prove, cit., 280, asserisce che « la concordanza indica la necessità di più inferenze presuntive convergenti verso la stessa conclusione », implicando « che una sola presunzione non è in linea di principio sufficiente a fondare l’accertamento del ‘‘fatto ignorato’’, salvo che la natura dell’inferenza presuntiva sia tale da conferire carattere di certezza alla conclusione che su questo fatto deriva dal ‘‘fatto noto’’ ». In direzione decisamente contraria, ossia a favore della necessaria pluralità degli indizi, L. MONTESANO, Le « prove atipiche » nelle « presunzioni » e negli « argomenti di prova » del giudice civile, cit., 247. (139) Di tale opinione, sono S. LODOVICI, Utilizzazione e valutazione della prova, in Il principio del libero convincimento del giudice nel nuovo processo penale (Roma 30 novembre-2 dicembre 1990), Quaderni del C.S.M., Roma, 1992, 127; F. CORDERO, Procedura penale, cit., 542, 570 ss.; ID., Codice di procedura penale commentato, cit., 228; M. NOBILI, op. ult. cit., 171; E. FASSONE, op. ult. cit., 121; Id., Riflessioni sul tema della prova, cit., 515; G. LEONE, Elementi di diritto e procedura penale, cit., 444; E. PALMIERI, op. cit., 508, che nega valore al requisito della pluralità « quasi che la forza della prova indiziaria trovi il suo conforto in un principio aritmetico piuttosto che in un’intrinseca sua consistenza »; N. LAURO, op. cit., 1426; G. BELLAVISTA, loc. ult. cit.; V. MANZINI, op. cit., 526 ss.; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, cit., 165, il quale precisa che « quando si parla di concordanza di indizi, non si vuole stabilire la necessità di una pluralità di indizi; la prova può essere derivata anche da un solo indizio. È evidente però che — pur non dando alcuna prevalenza al dato quantitativo — più sono gli indizi (naturalmente certi e gravi) più facile è il giudizio di probabilità »; F. CARNELUTTI, Diritto e processo, cit., 132; V. GIANTURCO, op. cit., 135 ss. Contra, ossia nel senso che ritengono sempre indispensabile la pluralità degli indizi ai fini di una decisione di condanna, A. BASSI, loc. ult. cit.; N. CAPITANIO, op. cit., 1316; P. COMOGLIO, op. cit., 142; D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, op. cit., 394 ss., il quale precisa che considerare la pluralità degli indizi prescindibile, « oltre a non essere perfettamente in linea con la chiara prescrizione dell’art. 192 comma 2 c.p.p., incoraggerebbe pericolose prassi: disincentiverebbe l’approfondimento dell’indagine e la connessa elaborazione di ulteriori indizi, per evitare i rischi di una possibile disarmonia fra le varie e più complete acquisizioni »; M. BONETTI, op. cit., 497; A. VIVIANI, op. cit., 109; G. BETTOCCHI, op. cit., 720; E. DOSI, op. cit., 29; Gius. SABATINI, op. cit., 307; F.M. PAGANO, op. cit., 16: « Gli indizi imperfettamente provati, benché si possono accoppiare fra loro, e sommandosi divengono più sussistenti, pure, contro l’opinione de’ forensi se ne richiede una quantità molto maggiore perché facciano la prova. Perciocché formano una probabilità composta, cioè probabilità di probabilità ». Più cautamente, c’è poi chi asserisce che, al limite, « la regola di cui al comma 2 dell’art. 192 c.p.p. potrebbe escludere la possibilità di dedurre da un unico indizio la responsabilità dell’imputato ma non già la possibilità di dedurre da un unico indizio l’esistenza di un fatto rilevante per la ricostruzione dell’episodio giudiziario » (così U. FERRANTE, op. cit., 127 e in modo conforme, P. FERRUA, loc. ult. cit.).


— 423 — degli indizi è una circostanza del tutto eventuale. Può infatti verificarsi talvolta l’ipotesi in cui agli atti sussista un solo indizio da cui sia desumibile l’esistenza o l’inesistenza del fatto da provare (140). In questo caso sarebbe illogico e assurdo prescindere dall’unico elemento che consente di accertare il tema di prova. Il problema è semmai quello di stabilire quali debbano essere le caratteristiche intrinseche di questo elemento » (141); trattandosi, al limite, di decidere se l’indizio unico acquisito agli atti debba pur sempre essere grave e preciso o se si possa anche prescindere da tali connotati. In sostanza, si deve stabilire se i requisiti della prova indiziaria debbano sempre sussistere simultaneamente (142) oppure se sia possibile fare talora a meno di uno di essi e cioè della concordanza, per poi vedere se in questo caso sia comunque necessaria la coesistenza degli altri due. Ovviamente, il problema non si pone in riferimento all’indizio cosiddetto necessario il quale, concretando l’ipotesi in cui il fatto noto è collegato al fatto ignoto con rapporto di necessarietà (nel senso che dato x ne discende inequivocabilmente y), risulta per definizione grave e preciso (143). Ci si domanda, invece, se la pertinenza e l’univocità debbano sempre caratterizzare l’indizio unico qualora si versi in situazioni diverse rispetto (140) Vedi, Cass. 25 gennaio 1993, Bianchi, cit.; Cass. Sez. Un. 4 giugno 1992, Musumeci, cit.; Cass. 13 dicembre 1991, Grillo, cit. Invero, « nonostante l’opinione comune (da cui nascono formule quali gli artt. 2729 comma 1 c.c. e 192 comma 2 c.p.p.), talvolta basta l’indizio singolo: è reo flagrante il rapinatore apparso sullo schermo del circuito televisivo chiuso; e segni altrettanto singoli può darsi che servano da alibi ». Così F. CORDERO, op. ult. cit., 542 e 570. Più in là nel tempo, vedi N. FRAMMARINO DEI MALATESTA, op. cit., 204: « Bisogna andar cauti nell’affidarsi agli indizi; ma non si può negare che la certezza può talora scaturire da essi. Fate l’esempio che Tizio sia stato in America, lontano da sua moglie, rimasta in Italia; fate che in capo all’anno, al suo ritorno trovi incinta sua moglie, non vi pare che Tizio debba esser legittimamente certo dell’adulterio? ». (141) Testualmente A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 276. (142) In tal senso, Cass. 6 maggio 1992, Di Giorgio, in Riv. pen., 1993, 373; Id. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 619; Id. 9 aprile 1991, Cultrera ed altri, ivi, 1991, 637; Id. 27 marzo 1991, Bizzantino, ibid., 637; Id. 30 gennaio 1991, Vassallo, cit.; Id. 7 dicembre 1990, Urli, in Riv. pen., 1991, 871; Id. 21 novembre 1990, Di Giuseppe, ivi, 1991, 871; Cass. Sez. Un. 3 febbraio 1990, Belli, in Giur. it., 1990, II, 145. (143) « I requisiti della precisione e della concordanza non possono, quindi, coesistere in ciascun indizio da valutare, dato che, ove uno di essi possegga quello della precisione (nel senso della ‘‘necessarietà’’), di per sé e da solo risulta idoneo e sufficiente a provare il fatto ignoto; al contrario in presenza di più indizi, nessuno dei quali sia fornito del requisito della precisione, occorre che essi siano concordanti ». Così, Cass. 25 gennaio 1993, Bianchi, cit.; Cass. 13 dicembre 1991, Grillo ed altro, cit.


— 424 — a quella dell’indizio necessario. E la risposta non può che essere positiva se si vogliono evitare i possibili abusi del convincimento giudiziale. Così, se l’indizio isolato è sufficiente a fondare la decisione di merito su un fatto processualmente rilevante, ciò non significa che il giudice disponga di un margine troppo ampio di discrezionalità valutativa in ambito probatorio, sempre che l’indizio possieda, però, i requisiti della gravità e della precisione. Ne discende, allora, l’inviolabilità solo della regola sulle caratteristiche proprie dell’inferenza indiziaria, non quella del criterio sulla valutazione della prova stessa (144) che, in quanto legata a particolari condizioni di operatività, diviene applicabile soltanto in presenza di indizi plurimi. Ma la norma sulla concordanza acquista a sua volta carattere di imprescindibilità nel caso si verifichi tale condizione, ossia qualora risulti la pluralità degli elementi indiziari acquisiti. « In conclusione la regola di cui al comma 2 dell’art. 192 va letta in modo diverso a seconda che vi sia in atto la sussistenza di un solo indizio o di una pluralità di indizi. Nel primo caso l’indizio unico può essere utilizzato a fini probatori, purché grave, preciso e certo (145). Nel secondo caso invece oltre alla gravità e alla certezza si richiede la concordanza, che quando sussiste, è in grado di rimediare anche all’eventuale equivocità degli indizi » (146), rendendo maggiormente attendibile l’ipotesi sul fatto ignoto. 5.

Detto ciò, non resta che valutare la congruenza della formula im-

(144) Come precisa A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 274, « la concordanza definisce una regola di valutazione; cioè un criterio che il giudice deve seguire nell’attribuire valore di prova all’elemento acquisito agli atti. Si tratta di una regola di ricerca, un canone metodologico da osservare nella ricostruzione storica dei fatti processualmente rilevanti. Si verifica così l’indizio acquisito, alla stregua degli altri elementi di fatto acquisiti agli atti del processo ». Analogamente N. LAURO, loc. ult. cit. (145) In linea E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 121, riferendosi all’art. 2729 comma 1 c.c., asserisce che tale norma « sta ad indicare che anche la singola prova critica può fondare un’affermazione di responsabilità, a patto che sia grave e precisa, vale a dire a condizione che la regola di esperienza applicata abbia un intrinseco elevato grado di concludenza. Se la massima d’esperienza applicata non è sufficientemente univoca (ad esempio l’attribuibilità di sostanza stupefacente trovata su un auto non solo al proprietario del veicolo ma anche all’occupante), allora occorre la concordanza degli indizi, cioè la convergenza di prove critiche ». (146) Ancora A.A. SAMMARCO, op. ult. cit., 278, il quale peraltro, come già visto (note no 62 e no 69), ritiene che la concordanza attenui, « l’equivocità degli indizi singolarmnete considerati ».


— 425 — piegata all’art. 192 comma 2 c.p.p. e l’opportunità di una disciplina esplicita sull’utilizzo della prova indiziaria nell’accertamento dei fatti. Già sotto il profilo meramente formale, tale norma non può che riscuotere dissensi, in quanto l’ambiguità che la caratterizza circa il concetto di « indizio » da essa accolto e la confusione interpretativa che solleva in ordine alla necessarietà della simultanea presenza di tutti i requisiti prescritti, sebbene trovi un’attenuante nella bontà dell’obbiettivo con essa perseguito (147), è ben lungi dal presentarsi quale strumento idoneo al suo raggiungimento. Innanzitutto, come si è chiarito, è da escludere che con il termine « indizi » si sia qui voluto alludere ad entità spurie o a dati illegittimamente formati o acquisiti, in quanto, se così fosse — a prescindere dal rilievo che non potrebbe non ritenersi recepita dalla norma in questione la nozione pratica dell’indizio inteso quale probatio minor (interpretazione invece da noi respinta) — risulterebbero vanificate buona parte delle disposizioni che contribuiscono oggi alla creazione del cosiddetto « nuovo diritto delle prove ». Infatti, mentre nell’ambito del processo civile, proprio sulla base della mancanza di uno stringente principio di tassatività nei modi di acquisizione delle fonti di convincimento, viene profilata la possibilità di prendere in considerazione, ai sensi degli artt. 2727-2729 c.c., elementi ottenuti indipendentemente da ogni controllo del giudice in sede di formazione della prova (148), tale discorso non può ora più valere nell’ambito del processo penale, dopo l’intervento del legislatore del 1988. (147) Indicando i criteri da seguire nella valutazione della prova si cerca di far venir meno gli eccessi interpretativi ai quali, in passato, è spesso incorsa la giurisprudenza, la quale ha gravemente abusato del principio del libero convincimento del giudice, al fine di supplire ad una carente acquisizione probatoria. È noto che, alla libertà di apprezzamento si era collegato e confuso, attraverso un procedimento di sovrapposizione del tutto arbitrario, il diverso profilo della libertà di acquisizione e di ammissione della prova, concretandosi nel potere del giudice di ricercare ed assumere ex officio quegli elementi probatori non addotti dalle parti e di utilizzare come fonte della decisione qualsiasi dato fornito di forza persuasiva, ancorché acquisito in violazione di un esplicito divieto di legge. Inoltre, sul presupposto che la libertà di valutazione escludesse a priori qualsiasi « gerarchia » tra i vari elementi probatori, era stata resa vana la differenza esistente tra il concetto di prova e quello di indizio, attribuendo loro, sempre e in ogni caso, uguale consistenza ai fini decisionali. Di modo che quei dati di prova spuri che, loro malgrado trovavano ingresso nel giudizio, non solo erano considerati a livello di meri indizi (intendendo con ciò declassare la loro valenza probatoria in contropartita dell’avvenuta acquisizione processuale), ma venivano apprezzati come prove aventi efficacia piena, vanificando del tutto la ratio garantistica che stava alla base della normativa procedurale dettata d’allora vigente codice di rito. (148) Tant’è che in sede di riforma del processo civile, da parte di alcuni è stata av-


— 426 — Con il nuovo codice di rito si è, cioè, imboccata la via del ritorno ad un regime di « legalità della prova », che si concreta in una serie di limiti o vincoli normativi in corrispondenza dei diversi momenti in cui si scompone il procedimento probatorio: l’ammissione, l’assunzione e la valutazione delle prove. In proposito, l’attuale normativa sembra predisporre un filtro rigoroso, sia pure a maglie differenti a seconda delle singole fasi, in grado di impedire l’introduzione nel processo di quel materiale conoscitivo che, sebbene caratterizzato da un’effettiva valenza gnoseologica ai fini della decisione, risulta comunque atipicamente o invalidamente assunto. Così, se pure per le prove « il sistema non recepisce il principio della tassatività » (149), presenta una sua propria e severa modulazione l’assunzione delle « prove non disciplinate dalla legge ». L’art. 189 prevede un procedimento di massima che ovvia all’incontrollata ammissione nel processo di prove atipiche (150) appunto perché circoscritta nel pieno rispetto del contraddittorio (151). Si parla, al riguardo, di « prove normativamente innominate » (152) che, in quanto tali, non potranno essere surrettiziamente e con massimalismo introdotte in giudizio, nemmeno attribuendo loro valore di meri indizi: « di queste prove non deve essere appurata soltanto la rilevanza ex post, nel momento in cui il giudice procede alla valutazione delle complessive acquisizioni probatorie, ma deve essere vagliata l’ammissibilità ex ante, nel momento della ‘‘richiesta’’ del mezzo di prova o del mezzo di ricerca della prova » (153). Per quanto concerne, poi, le modalità della formazione probatoria, la versata la soppressione del requisito della concordanza in tema di presunzioni semplici (art. 179 del Progetto Liebman), proprio per il timore di non avere più sufficienti freni legislativi da opporre al crescente peso probatorio attribuito da numerose pronunce giurisprudenziali alle prove atipiche. Sul punto vedi quanto osservato supra alla nota no 138. (149) « ...senza peraltro ignorare la portata garantista », prosegue la Relazione al Progetto preliminare del 1988, 125. Il principio di tassatività dei mezzi di prova era invece stato introdotto nel progetto preliminare del 1978, in seguito ad un annoso dibattito, nonostante la legge delega non prevedesse nulla al riguardo. Per un’analisi delle ragioni a favore di tale principio, vedi la Relazione al progetto preliminare del 1978, 162 ss.; per le obiezioni, il Parere della Commissione consultiva, 159 ss., la Relazine al testo definitivo, 125. (150) I parametri alla stregua dei quali il giudice può assumere una prova non disciplinata dalla legge sono che essa « risulti idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e che non pregiudichi la libertà morale della persona » (art. 189 c.p.p.). (151) « Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova » (art. 189 c.p.p.). (152) L’espressione è di M. BONETTI, op. cit., 500. (153) Così D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, op. cit., 389.


— 427 — garanzia si palesa più stringente che nel settore civile. Oltre all’aumento delle ipotesi di regole di esclusione della prova (154) e all’enunciazione di principi generali (artt. 177 ss.) per cui il mancato rispetto dei criteri da seguirsi per l’assunzione rileva sotto il profilo della nullità dell’atto, è oggi prevista la nuova e più grave sanzione della inutilizzabilità delle « prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge » (artt. 191 e 526) (155) la quale, configurandosi come una sanzione tipica del procedimento probatorio e, in quanto tale, deducibile in ogni stato e grado di tale iter, « si sottrae al meccanismo delle sanatorie e può essere rilevata anche d’ufficio » (156). Pertanto, se la disciplina descritta è ciò che il legislatore del 1988 ha prospettato in materia di prove atipiche ed invalide, non sembra residuare alcuna possibilità di una loro acquisizione legittima nel processo (se non nei limiti stabiliti dall’art. 189), nemmeno degradandone, in contropartita, l’efficacia probatoria a livello meramente indiziario. Non possiamo che condividere, allora, l’opinione di chi ritiene allar(154) Vedi al riguardo la fitta serie di diveti probatori prevista dal nuovo codice di procedura penale: non possono essere utilizzati metodi o tecniche influenti sulla libertà di autodeterminazione o capaci di alterare la capacità di ricordare o di valutare fatti (art. 188); non possono essere utilizzate prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (art. 191); di regola non è utilizzabile la prova indiretta (art. 195); il testimone non può deporre su voci correnti né esprimere apprezzamenti (art. 194); egli non può essere obbligato a testimoniare su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale (art. 199); sono protetti i segreti (artt. 200-202); è vietata l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla normalità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti (art. 234); l’acquisizione dei verbali di prove di altro procedimento penale è emessa soltanto se le parti vi consentono (art. 238); non possono essere utilizzati i documenti anonimi (art. 240); vi sono norme che fissano come e quando è ammissibile l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni e come e quando è possibile utilizzarne i risultati (artt. 267 e 271). (155) Su tale figura, vedi A. BARGI, Procedimento probatorio e giusto processo, Napoli, 1990, 249 ss.; G. LOZZI, op. ult. cit., 102 ss.; M. NOBILI, op. ult. cit., 148 ss.; N. CARULLI, Dell’archiviazione e delle prove, Napoli, 1989, 98 ss.; G. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, V, 355 ss.; A.A. SAMMARCO, Considerazioni sul divieto di utilizzazione di atti nel sistema vigente della delega per il nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1987, 1961. La norma contenuta all’art. 526 c.p.p., vietando al giudice di « utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento », ribadisce in sede di sentenza dibattimentale la regola prevista in termini generali dall’art. 191 comma 1 c.p.p. Si tratta di una regola pleonastica che potrebbe essere ritenuta implicita nel sistema, ma che enunciata espressamente costituisce una « preziosa barriera contro le note degenerazioni del libero convincimento ». Così P. FERRUA, op. ult. cit., 102. Conformemente sul punto G. GIANZI, op. cit., 244 ss. (156) Ancora D. SIRACUSANO - A.A. DALIA - G. GALATI - G. TRANCHINA - E. ZAPPALÀ, op. cit., 384.


— 428 — mante il passo della Relazione al Progetto preliminare, ove si afferma che la regola contenuta nel secondo comma dell’art. 192 serve « da freno nei confronti degli usi arbitrari e indiscriminati di elementi ai quali, sul piano logico, non e riconosciuta la stessa efficacia persuasiva delle prove ». In tal modo, l’indizio tornerebbe « pericolosamente a contrapporsi alla prova, con tutte le implicazioni negative che ne possono derivare: possibilità di utilizzare come indizio ciò che non è prova perché illegittimamente assunto, inapplicabilità all’indizio delle disposizioni generali sulle prove, ecc. In realtà, il freno nei riguardi ‘‘degli usi arbitrari e indiscriminati’’ di elementi che non sono prova va ricercato non già in fragili cautele valutative (sempre aggirabili nella prassi), ma più semplicemente nel regime di irrilevanza decisoria cui devono sottostare questi elementi » (157). È, perciò, decisamente da escludere che con il termine « indizi » la disposizione menzionata abbia voluto alludere « ad entità spurie, a dati illegittimamente formati o acquisiti; fossero anche mille, questi elementi resterebbero sempre irrilevanti ai fini decisori » (158). Ma l’aver stabilito che la locuzione « indizi » di cui all’art. 192, correttamente interpretata, è da intendersi in senso tecnico-giuridico di prova indiziaria, non implica ancora la nostra adesione, né in ordine all’opportunità di una sua esplicita disciplina, né in riferimento alla formula impiegata. Rinviando a quanto già detto su quest’ultimo aspetto, si ricorda che una riformulazione in senso positivo del comma 2 dell’art. 192, così come auspicata dalla Commissione Consultiva, consentirebbe almeno all’interprete di constatare con più facilità che la disposizione in esame si riferisce alla nozione cosiddetta colta di indizio; pur trattandosi di un discorso che vede mancare il suo presupposto logico qualora si metta in discussione l’opportunità stessa della sua esistenza. Invero, è possibile constatare che, « mentre si sono infittiti i ‘‘paletti’’ in termini di esclusione e di assunzione delle prove, non uno si registra invece in tema di valutazione che abbia carattere di novità » (159). L’art. 192 comma 2, non facendo altro che codificare una regola conoscitiva (157) Così P. FERRUA, op. ult. cit., 107. (158) Ancora P. FERRUA, op. ult. cit., 48. (159) Testualmente E. FASSONE, op. ult. cit., 858. Sottolineano, invece, l’importanza di siffatta previsione normativa, anche sotto il profilo innovativo, M. BONETTI, op. cit., 502 ss.; G. CONTI - G. MACCHIA, op. cit., 136; E. FORTUNA - A. PADOAN, Un nuovo codice per una nuova giustizia (Atti del Convegno Venezia 7-9 ottobre 1988), Padova, 1988, 211; M. PISANI, Le prove, cit., 207.


— 429 — collaudata da decenni di esperienza giudiziaria, desta in tal modo serie perplessità sulla convenienza della normativizzazione dei criteri inferenziali concernenti la prova critica (160). Non perché sia generalmente possibile una condanna fondata su una sola prova indiziaria, dalla quale anzi, nella maggior parte dei casi, risulta difficile argomentare il fatto oggetto di dimostrazione, bensì in quanto tale formula postula, se letta a contrario, un primato della prova testimoniale sulla prova critica che è ben lungi dall’essere indiscriminatamente generalizzabile. Tale asserzione è certamente ovvia per coloro che intendono la prova indiziaria come prova che, contrapponendosi a quelle consistenti in dichiarazioni (ove il tramite espressivo è di tipo linguistico-descrittivo), si caratterizza per l’induttività dell’operazione inferenziale, compiuta dal giudice al fine di risalire dal fatto noto al thema probandum. In quest’ottica, infatti, la prova critica, non coincidendo con il meccanismo indiretto complessivo, avente come obbiettivo, in ogni caso, la dimostrazione del fatto di reato, potrebbe essere in grado, da sola, di condurre in modo inequivocabile all’accertamento di singoli fatti secondari che, seppure intermedi rispetto all’oggetto del processo, risultano utili per l’accusa o per la difesa: è evidente, ad esempio, che nel documentare il passaggio di una persona in un dato luogo l’impronta digitale non è certo meno efficace della dichiarazione di un testimone. Né si può astrattamente escludere che il comma 2 dell’art. 192 si riferisca anche a tali ipotesi, in quanto prevede che « l’esistenza di un fatto », e non più precisamente del fatto di reato, possa essere desunta da indizi che rivestano i connotati della gravità, precisione e concordanza. Tuttavia, anche a prescindere dalla tesi seguita in ordine alla costruzione della prova indiziaria, le ragioni enunciate sull’inopportunità della norma in esame mantengono inalterata la loro effettività. Se da un lato non è possibile mettere in dubbio che l’invito alla cautela e al rigore nell’apprezzamento degli indizi esprime un’opzione di politica giudiziaria, condizionata e influenzata dalle violente critiche della dottrina al vecchio sistema e dalle numerose polemiche nate in seguito a discutibili decisioni giurisprudenziali, dall’altro la scelta concernente tale esortazione diventa pericolosa, come già detto, là dove a contrario finisce (160) « In ordine agli indispensabili requisiti degli indizi... sembra utile sottolineare che, da una parte, essi erano già da tempo entrati nel nostro patrimonio giurisprudenziale, per cui il comma 2 dell’art. 192 c.p.p. non fa altro che codificare una prassi giudiziaria già consolidata, e, dall’altra, che, a ben guardare, essi si addicono anche alle ‘‘prove’’ » (così Cass. 20 giugno 1991, Pernice, cit.).


— 430 — fatalmente per significare che regole simili non valgano per il vaglio delle altre prove, quasi che la testimonianza possa disinvoltamente valutarsi (161). In realtà, sebbene nei confronti della prova storica il meccanismo di verifica è semplificato rispetto all’ipotesi di prova indiziaria, in quanto alla duplice applicazione di regole di esperienza si sostituisce un’applicazione unica, il giudice non può prescindere da tale valutazione ai fini dell’utilizzo della dichiarazione probatoria per la condanna, non discendendone necessariamente conclusioni univoche. Si pensi soprattutto al caso della testimonianza della parte civile, della persona offesa o del fanciullo le quali, pur essendo prove storiche, risultano spesso scarsamente affidabili, in quanto rese da soggetti interessati all’esito del processo o comunque influenzabili. Inoltre, senza voler negare l’esistenza di severità nella verifica degli indizi, è doveroso rilevare che, quando l’invito alla cautela proviene dal legislatore, non può prescindere dal coordinamento sistematico delle norme; e allora è difficile capire perché criteri analoghi a quelli indicati all’art. 192 comma 2 non siano stati dettati per le ipotesi di prova storica sopra menzionate o addirittura per la voce isolata dal testimone. Infine, va considerato che, quanto alla valutazione della prova, la fondamentale garanzia per l’imputato risiede nella regola di giudizio scaturente dalla presunzione di innocenza (162), che vuole pienamente accertata la colpevolezza del condannato; al di là di questa direttiva riesce sempre inadeguato il tentativo di subordinare a criteri più rigorosi l’apprezzamento di singoli elementi probatori (163), più che per l’evanescenza delle relative formule legali, per l’effetto indiretto di una non accurata valuta(161) Al contrario, « è tanto vulnerabile la verità storica costruita sulla ‘‘fede’’ ». Così F. CORDERO, Procedura penale, cit., 531. In modo conforme, P. FERRUA, Studi sul processo penale (Anamorfosi sul processo accusatorio), cit., 78 ss. (162) Tale regola è prevista a livello costituzionale dall’art. 27 comma 2 e dalle convenzioni internazionali negli artt. 6 no 2 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 14 no 2 Patto internazionale dei diritti civili e politici, ai quali il nuovo codice deve adeguarsi, per espressa previsione dell’art. 2 della legge delega (art. 2, prima parte, legge no 81/1987 - art. 2, prima parte, legge no 108/1974). Sul valore di questa disposizione anche come guida per l’interpretazione cfr. M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale. Appunti sulla legge delega e sul progetto del nuovo codice, Torino, 1988, 27 ss. (163) Al contrario, sostengono che i criteri dettati dall’art. 192 comma 2 siano a favore di un’effettiva applicazione del principio di non colpevolezza che potrebbe, invece, risultare ingiustificatamente sacrificato da una non regolata libertà di convincimento, T. EPIDENDIO, op. cit., 670 ss.; M. PISANI, Le prove, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 206 (che più precisamente si riferisce all’art. 183 comma 2 Prog. 1978).


— 431 — zione delle altre prove che ne può derivare. Pertanto, il carattere di severità a cui deve ispirarsi il vaglio degli indizi deriva inequivocabilmente dalla regola di giudizio che impone il proscioglimento dell’imputato quando non ne sia provata appieno la colpevolezza; regola enunciata con chiarezza sia in sede di proscioglimento (artt. 529-531 c.p.p.) sia in sede di condanna (art. 533 c.p.p. ove si precisa che « se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli, il giudice pronuncia sentenza di condanna applicando la pena e l’eventuale misura di sicurezza ») (164). Dunque, « per chi vuole intendere, questa direttiva suona più eloquente di quelle faticosamente espresse dall’art. 192 (165). Per chi equivoca sull’una, le altre riescono non meno evanescenti » (166). Nonostante le esigenze di razionalità sottese all’argomentazione di tipo indiziario, invero, si mostra inadeguata la pretesa di rinchiuderla in formule legali. « Queste o si risolvono in meri richiami allusivi e pedagogici (del tipo: il giudice valuta le prove con ‘‘prudenza’’), sempre aggirabili nella discrezionalità applicativa; o instaurano un sistema di prove legali (positivo o negativo) che cristallizza in termini oggettivi massime e frammenti di sapere, sottraendoli rischiosamente al vaglio da condurre in concreto, alla luce dei dati. Insomma, la fondamentale garanzia per l’imputato contro gli errori di giudizio stà, prima nel contraddittorio (167), poi nell’obbligo di moti(164) In tal senso P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit., 123 ss.; E. FASSONE, La valutazione della prova, cit., 111. È opportuno precisare, però, che il nesso tra condanna e colpevolezza non è così chiaro nell’applicazione della pena su richiesta delle parti e nel giudizio abbreviato. Al riguardo vedi i richiami bibliografici riportati da P. FERRUA, op. ult. cit., nota no 22. (165) Queste, infatti, se letteralmente e isolatamente intese, potrebbero addirittura pregiudicare l’imputato, ostacolandolo nell’accertamento di singoli fatti vantaggiosi, dalle circostanze attenuanti alle esimenti. Per l’inapplicabilità del comma 2 dell’art. 192 alla prova delle cause di non punibilità, vedi T. EPIDENDIO, op. cit., 672 ss. (166) Così P. FERRUA, op. ult. cit., 124. (167) Sul punto, si è detto, che è naturale che l’indizio abbia un’importanza maggiore in un processo di tipo accusatorio. « Solo un processo che tenda, così, a costruire come onere la partecipazione degli interessati, può efficacemente risolvere l’ambiguità degli indizi » (così A. NAPPI, Azione e prova nel nuovo codice di procedura penale. Valori culturali e politici della rifoma, cit., 114; in modo sostanzialmente conforme, G. UBERTIS, op. ult. cit., 117 ss.). L’importanza del contraddittorio è comprovata, inoltre, dalle proposte avanzate in tema di chiamata di correo da quella parte della dottrina che, invece di incoraggiare il legislatore ad agire sotto il profilo valutativo, riteneva più oppurtuna « l’anticipazione del contraddittorio tra l’accusatore e gli accusati, condotto secondo le regole del sistema accusatorio, cioè l’esame incrociato del ‘‘pentito’’ da parte dell’accusa e dei difensori degli imputati chiamati in correità condotto davanti ad un giudice terzo... Bisogna però farsi carico del dato che le esigenze di immediatezza del contraddittorio si scontrano con l’altrettanto irrinuncia-


— 432 — vare, il cui adempimento spiana la via alla critica della decisione » (168). In ordine alla controllabilità interna sulla formazione del convincimento indiziario, va tuttavia rilevato che, secondo la vigente normativa, il solo momento in cui il contraddittorio può aver luogo riguarda l’ammissione e l’assunzione delle prove, volte a procurare al processo la conoscenza del dato fattuale da cui diparte il ragionamento del giudice che, sulla base di una regola di esperienza, argomenta l’esistenza del fatto da provare. Questa possibilità non realizza, però, la garanzia in esame essenzialmente per la ragione che il contraddittorio verte direttamente sul fattoindizio, più che sul thema probandum, intorno al quale l’organo giudiziario decide al di fuori del dibattito delle parti. È evidente che il contraddittorio sulla prova indiziaria coinvolge anche le conseguenze che dalla circostanza nota potrebbero derivare, ma si tratta, comunque, solo delle conseguenze teoricamente possibili, e non delle specifiche conclusioni che il giudice intende trarne al fine di fondare la decisione. Al contrario, per ritenere pienamene garantito il diritto di difesa, il dibattito tra le parti dovrebbe concernere, più che uno schema di decisione puramente ipotetico, gli orientamenti concreti che il giudice intende seguire (169). Quanto alla questione inerente alla controllabilità esterna, è da nobile esigenza di non ‘‘bruciare’’ anzitempo il contributo del collaboratore, portando a conoscenza della difesa il suo nome e le sue accuse, e così preavvisando tutti gli imputati che potrebbero essere raggiunti dalle chiamate in correità ovvero esponendo a rischi eccessivi il ‘‘pentito’’. Per fronteggiare queste opposte esigenze si potrebbe pensare ad un meccanismo che riproduce a grandi linee il modello dell’incidente probatorio, introdotto appunto dalla legge delega per il nuovo codice di procedura penale al fine di anticipare la formazione della prova prima del dibattimento, nonché, più in generale, lo schema dei rapporti tra indagini preliminari del pubblico ministero ed intervento del giudice nella formazione della prova prima del giudizio » (testualmente G. NEPPI MODONA, Dichiarazioni dei « pentiti » e problema della prova, in Quest. Giust., 1985, 773). Ampiamente sul punto vedi ivi, 773 ss.; G. ESPOSITO, Aspettando il nuovo c.p.p.: chiamata di correo, incidente istruttorio e recupero professionale del giudice, in Arch. pen., 1986, 533 ss. In senso critico O. DOMINIONI, La valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, in Riv. dir. proc., 1986, 764 ss. Contraria all’introduzione dell’art. 192 comma 3 c.p.p., in quanto sostiene che « miglior soluzione sarebbe stata sottoporre al vaglio del controesame tutte le dichiarazioni rese dal coimputato o dalla persona imputata in un procedimento connesso, idonee a fondare la decisione », M. BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di procedura penale, in Giur. it., IV, 1990, 45. (168) Ancora P. FERRUA, loc. ult. cit. (169) Il problema del contraddittorio preventivo è stato affrontato prevalentemente dalla dottrina civile in riferimento alle presunzioni semplici, ove, dato il tipo di processo, è risultato di certo più grave e maggiormente avvertito. In tema, M. TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1984, 98 ss.; G. TARZIA, Problemi del contraddit-


— 433 — tare che, mentre per un verso la nuova normativa sottolinea l’importanza della motivazione quale « requisito indispensabile per il contraddittorio sulla decisione » (170) e, quindi, quale momento essenziale di garanzia (171), per l’altro, essa svela gravi carenze e anomalie soprattutto sotto il profilo del giudizio di legittimità. In realtà, ciò che di apprezzabile si ricava dal comma 2 dell’art. 192 — l’invito alla cautela nella formulazione di inferenze — è ovvio e già sottinteso dal sistema (172), a maggior ragione oggi (173) di fronte all’esplitorio nell’istruzione probatoria civile, 1984, ivi, 653 ss.; L. MONTESANO, op. ult. cit., 238; M. TARUFFO, Problemi e linee evolutive nel sistema delle prove civili in Italia, ivi, 1977, 1573 ss.; ID., Certezza e probabilità nelle presunzioni, cit., 107 ss., il quale aggiunge che « si potrebbe pensare che un obbligo di questo tipo discenda direttamente dall’art. 24 della Costituzione, ma è dubbio se l’individuazione della portata della norma... consenta siffatta conclusione ». Recentemente presso la dottrina penale vedi M. MENNA, op. cit., 172 ss. (170) Così M. TARUFFO, Problemi e linee evolutive nel sistema delle prove civili in Italia, cit., 1575. (171) Tra le tante, vedi Cass. 6 dicembre 1991, Bartone, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 623: « il disposto dell’art. 192 comma 1 c.p.p. 1988 sottolinea l’attribuzione esclusiva al giudice di merito del potere di valutazione della prova e dell’obbligo di esplicitare, nel modo più rigoroso e completo, la motivazione posta a base della decisione adottata e devesi ritenere che si sia inteso ribadire in pieno il principio del libero convincimento, ancorandolo soltanto alla necessità di indicazione specifica ‘‘dei risultati acquisiti e dei criteri adottati’’, al fine di evitare che lo stesso trasmodi in uso arbitrario di tale principio »; Id. 5 marzo 1991, Calò, cit., che considera la motivazione quale « strumento di controllo della giustizia dei provvedimenti e di rigorosa autodisciplina di chi li emette »; e più lontano nel tempo, Trib. Roma 1 dicembre 1972, Migliaccio, in Giust. pen., 1973, III, 217, ove si asserisce che « la motivazione del provvedimento opera dall’interno, come momento predisposto alla meditazione del magistrato sulla gravità della limitazione dell’altrui libertà, e, dall’esterno, come mezzo per assicurare il controllo (sia pure non immediato) dell’operato del magistrato medesimo ». In tal senso, in dottrina, A. BASSI, op. cit., 1016; A. BARGI, op. cit., 300; G. GIANZI, op. cit., 252; G. TORREBRUNO, Il controllo delle decisioni giurisprudenziali ed il suo riflettersi sui contenuti della motivazione, in Nuovo dir., 1987, 670 ss.; M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, cit., 374 ss., 381 ss., 384 ss.; E. AMODIO, op. ult. cit., 1988 ss., ove si precisa ulteriormente che la motivazione ha non solo una funzione endoprocessuale, e cioè di controllo del provvedimento ad opera delle parti e del giudice investito dell’impugnazione, ma anche « natura di garanzia posta in funzione di un interesse che fa capo all’intera collettività e non al singolo individuo nei confronti del quale si è emanato il provvedimento »; R. PANNAIN, La certezza della prova, in Scritti giuridici in onore di A. De Marsico, vol. II, Milano, 1960, 270 ss. (172) Sul punto, E. FASSONE, L’utilizzazione degli atti. La valutazione della prova, cit., 542: « Il primo dei limiti ora ricordati (la qualità degli indizi) è nulla più che un promemoria, già spontaneamente ed ampiamente praticato da qualsiasi operatore giudiziario che si proponga di ragionare correttamente: non vi può essere consenso universale su una massima di esperienza soggettiva o equivoca, o frutto di culture particolari e circoscritte ». (173) In realtà, il fatto che il giudice debba dar conto nella motivazione dell’uso discrezionale o libero che egli abbia fatto nell’apprezzamento delle prove non rappresenta


— 434 — citazione della rilevanza del collegamento tra libero convincimento e obbligo di motivare (174). Al fine di una corretta utilizzazione della prova indiziaria, infatti, dovrebbe bastare la regola contenuta nel comma 1 dell’art. 192 (175), secondo cui « il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati », specie se la si collega con l’art. 546, che, nel dettare i requisiti della sentenza, enuncia al un’innovazione sostanziale rispetto al passato; laddove tale necessità, non richiesta dal codice previgente, veniva, tuttavia, implicitamente a desumersi dalla norma costituzionale (art. 111 comma 1 Cost.), che impone la motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali, e dalla norma di rito del codice Rocco, che indicava la motivazione tra i requisiti richiesti a pena di nullità per la sentenza (artt. 474 no 4 e 475 no 3 abrogati). In riferimento all’art. 111 comma 1 Cost. vedi, per tutti, E. AMODIO, op. ult. cit., 185 ss.; M. TARUFFO, op. ult. cit., 93 ss.; E. AMODIO, L’obbligo costituzionale della motivazione e l’istituto della giuria, in Riv. dir. proc., 1970, 444. (174) « Su un piano generale, esso mira a segnalare, anche a livello legislativo, come la libertà di apprezzamento della prova trovi un limite in principi razionali che devono trovare risalto nella motivazione; sotto un profilo più strettamente operativo, il nesso vuol far risultare il contenuto della motivazione in fatto, che si esprime nella enunciazione delle risultanze processuali e nella indicazione dei criteri di valutazione (massime di esperienza) utilizzati per vagliare il fondamento della prova » (così Relazione al testo definitivo, 127 e Relazione al progetto del 1978, 167). In senso conforme, A. BARGI, op. cit., 302; P. COMOGLIO, op. cit., 140; E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, cit., 207 ss., il quale distingue puntualmente quanto ai contenuti della motivazione tra « fatti probatori » e « criteri di valutazione » adottati, in quanto « motivare significa rendere esplicito anche il canone di argomentazione utilizzato ». D’altronde, la precisazione secondo cui, nel valutare la prova, il giudice deve dar conto « dei risultati acquisiti e dei criteri adottati » risponde ad una analiticità nella tecnica del motivare su cui, in buona sostanza, la Corte di Cassazione ha più volte insistito, in passato, a fronte delle ricorrenti formule generiche e di maniera presenti nelle motivazioni dei giudici di merito. Vedi al riguardo Cass. 30 marzo 1992, Macrì, in Cass. pen., 1994, 124; Id. 3 maggio 1988, Randazzo ed altro; ined: « Il giudice di merito è tenuto... ad esporre con adeguatezza le ragioni logiche che lo hanno portato a preferire talune risultanze rispetto ad altre »; Id. 18 febbraio 1988, Greco ed altri, in Giust. pen., 1988, III, 155: « La certezza in ordine agli elementi probatori specificatamente considerati e la conseguente impossibilità o difficoltà di ricostruire l’iter valutativo seguito dal giudice di merito nell’affermazione di responsabilità costituisce vizio di motivazione censurabile in Cassazione »; Id. 31 marzo 1987, Morgara, ivi, 1989, III, 146; Id. 18 maggio 1984, Adenolfi, ivi, 1985, III, 427. (175) « L’art. 192 comma 1, pur nella strenua sintesi dei concetti impiegati, e specie se letto in collegamento con altre norme che traducono la stessa opzione di fondo, appare la chiave di volta per tentare una sistemazione non solo del rituale della prova, ma anche e finalmente della sua valutazione... Il ‘‘dare conto’’ di cui al comma 1 dell’art. 192, è la più felice e sintetica delle espressioni usabili per significare la democraticità del processo. Accanto alla pubblicità del rituale (art. 471), il ‘‘dare conto’’ traduce la pubblicità del meccanismo inferenziale » (così E. FASSONE, Primi appunti sulla valutazione della prova nel nuovo processo, cit., 851 ss.). Del resto, libero convincimento del giudice non significa intuizione ma libertà di convinzione secondo canoni di ragione oggettivamente riscontrabili (sul punto G. e R. BETTIOL, op. cit., 159).


— 435 — comma 1 lett. e), « la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per cui il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie ». Così la costruzione dell’intero procedimento probatorio riveste significato ed effettività in ragione della sua proiezione sulla decisione e i criteri di valutazione delle prove si riflettono nella motivazione (176). L’ancoraggio della decisione alla prova significa quindi che gli elementi di contorno, gli elementi che possono avere un peso come significazione psicologica, quelli solo suggestivi, di sospetto o appartenenti ad una mera logica soggettiva, perdono consistenza e sono dichiarati estranei ad un corretto e legale libero convincimento del giudice, quale espressione di libera valutazione della prova ma non di libertà della prova (177). D’altra parte, l’astratta fissazione, ad opera del legislatore, di limiti logici o scientifici al ragionamento indiziario del giudice, non risolverebbe comunque il problema del loro rispetto, assai difficilmente controllabile in concreto (178). Argomento che acquista oggi un’ulteriore motivo di effettività, alla luce dell’attuale disciplina normativa riguardante il sindacato sul vizio di motivazione ad opera della Corte Suprema. È di immediata percezione, infatti, che l’invito alla prudenza nella formulazione di inferenze indiziarie, sancito dal comma 2 dell’art. 192, « rischia di essere impunemente disatteso per i limiti che incontra il sindacato della Cassazione: serve a poco predicare ‘‘gravità’’, ‘‘precisione’’ e ‘‘concordanza’’ degli indizi, se poi slanci ed arbitri della fantasia induttiva sono censurabili solo in quanto segnalati da manifeste illogicità o macroscopiche carenze della motivazione, restando escluso ogni raffronto con gli atti del processo. E ovviamente, l’insidia non sta tanto nel rischio che l’inconsistenza o la fragilità degli indizi, fedelmente enunciati dall’estensore, non (176) « L’art. 192 c.p.p. sanziona, infatti, il necessario raccordo fra valutazione e motivazione, dovendo il giudice non solo esplicitare la massima di esperienza adottata nel valutare i fatti, i criteri adottati, ma altresì giustificare logicamente i risultati che da tale operazioni si sono ottenuti » (così A. BASSI, loc. ult. cit.). (177) In tal senso, A. BARGI, op. cit., 304; G. GIANZI, op. cit., 251. (178) « Si tratta di un problema che, come tutti quelli che attengono alla valutazione discrezionale delle prove, non può trovare risposte sicure ed esaustive in norme di legge, ma solo soluzioni in termini di correttezza, razionalità e controllabilità dei criteri ai quali i giudici dovrebbero ispirare la formulazione del loro convincimento sui fatti » (così M. TARUFFO, Note per una riforma del diritto sulle prove, in Riv. dir. proc., 1986, 283, che asserisce ciò in riferimento alla disciplina delle presunzioni civili). In modo analogo si esprime L. MONTEo SANO, Le prove, cit., 482, nota n 17.


— 436 — raggiungano il grado di evidenza richiesto per la censura della Cassazione; quanto nel pericolo che esse vengano istintivamente dissimulate in sede decisoria con una deformazione degli esiti processuali che non ‘‘risulta dal testo del provvedimento impugnato’’ » (179). DOTT. SILVIA BATTAGLIO

(179)

Testualmente P. FERRUA, op. ult. cit., 125.


ERRORE E DOLO NEI REATI IN RAPPORTO DI SPECIALITÀ

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. L’errore sul consenso nella fattispecie ex art. 579 c.p.: a) limiti ed aporie delle posizioni espresse dalla dottrina. — 3. (Segue): b) relativa utilizzabilità delle indicazioni fornite dai Lavori Preparatori. — 4. (Segue): c) l’elemento specializzante come elemento costitutivo ovvero come circostanza del reato. — 5. Necessità di approfondimento dei connotati del dolo nei reati in rapporto di specialità: a) divaricazione tra specialità per specificazione e per aggiunta. — 6. (Segue): b) riflessi soggettivi dell’analisi dei rapporti strutturali tra fattispecie generale ed elemento specializzante. — 7. Il nodo problematico dell’erronea supposizione dell’elemento specializzante nella relazione di specialità per aggiunta. — 8. Considerazioni conclusive.

1. Premessa. — L’art. 15 primo capoverso dello schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale (1), prendendo esplicita posizione sul tema dell’errore sugli elementi differenziali tra reati, contiene una disposizione del tutto nuova rispetto alle precedenti esperienze codicistiche italiane. La disciplina progettata è nel senso di affermare, sempre e comunque, la punibilità per il reato meno grave, troncando così, con una norma ispirata ad una ragione di favore per il reo, il viluppo pressocché inestricabile delle questioni teoriche che da sempre caratterizza il dibattutissimo tema. Le trattazioni scientifiche dell’errore sugli elementi differenziali dei reati per solito traggono spunti esemplificativi da due coppie di disposizioni presenti nel nostro codice penale, i cui contenuti normativi ben si prestano, con la nitida essenzialità delle loro strutture, a scandire i risultati teorici progressivamente acquisiti: da un lato la coppia delle fattispecie ex art. 594 (ingiuria) e 341 (oltraggio a un pubblico ufficiale), e dall’altro la coppia delle fattispecie ex art. 575 (omicidio) e 579 (omicidio del consenziente). La relativa povertà di contributi scientifici in tema di errore sugli elementi differenziali del reato deriva probabilmente anche dalla mancata pressione esercitata dalla prassi, a livello della quale la questione è ben (1) 340.

In DOCUMENTI GIUSTIZIA, La riforma del codice penale, 3a disp., marzo 1992, p.


— 438 — lontana dal proporsi con caratteri di frequenza ed urgenza. Ciò fa sì che l’utilità degli studi in materia consista piuttosto nell’approfondimento dei temi connessi all’indagine e nel naturale stimolo alla ricerca di nuovi approcci, che finiscono col favorire, quasi casualmente, la scoperta di settori dogmatici poco esplorati e tuttavia meritevoli di riflessione. Dei due ormai classici dualismi sopra richiamati è il secondo, per vero, a destare maggiori perplessità, per la quasi istintiva avversione all’idea che chi suppone erroneamente il consenso della persona uccisa non possa essere punito alla stregua dell’art. 579 c.p. e debba invece essere trattato come un comune omicida a norma dell’art. 575 c.p. Sembrerebbe essere questa infatti, a prima vista, la conclusione obbligata se si considera che del più grave reato previsto dall’art. 575 c.p. sarebbero presenti gli estremi oggettivi e soggettivi (2). Ed è probabile che il legislatore del ’30, che ha introdotto l’art. 579 c.p. per dare un’adeguata disciplina all’omicidio consentito (3) non abbia intuito la complessità dei problemi che con quella norma si sarebbero sviluppati. È per questa intrinseca problematicità dell’art. 579 c.p. che abbiamo ritenuto opportuno muovere da questa norma i primi passi dell’indagine. I due binomi dell’ingiuria e dell’oltraggio da un lato e dell’omicidio comune e del consenziente dall’altro rispecchiano, tra l’altro, una dicotomia ormai familiare nell’ambito delle relazioni di specialità, e cioè quella tra la specialità per specificazione — che connota il primo dei dualismi — e la specialità per aggiunta (4): infatti, mentre nella prima coppia di norme l’elemento specializzante del delitto di oltraggio consiste in una (2) Così STELLA, L’errore sugli elementi specializzanti della fattispecie criminosa, in questa Rivista, 1964, p. 81 ss. (3) L’art. 370 del codice Zanardelli, infatti, prevedeva, in modo speciale, la partecipazione all’altrui suicidio, ma non l’omicidio del consenziente. Nella pratica, però, al fine di poter applicare sanzioni lievi in relazione ad ipotesi di omicidio che, per la presenza del consenso della vittima, apparivano certamente meno gravi delle comuni uccisioni, esse venivano equiparate a casi di concorso in suicidio oppure si dava luogo a poco convincenti assoluzioni (così la Relazione introduttiva della Commissione Ministeriale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Vol. IV, Parte I, Roma, 1929, p. 478). Fu pure scartata la proposta di arricchire la fattispecie che si andava ad inserire nel nuovo codice con un particolare movente di pietà, dato che la prassi aveva evidenziato casi meritevoli di comprensione benché non originati da impulsi caritatevoli. Per cui il movente pietoso, ove acceduto ad un omicidio del consenziente, avrebbe determinato un’ulteriore attenuazione della pena in base all’art. 62 n. 1), mentre di per sé solo, in caso di mancanza di valido consenso della vittima, avrebbe soltanto mitigato la pena prevista per l’omicidio comune. In quella occasione fu ribadita la netta opposizione alla depenalizzazione dell’eutanasia (v. Relazione sui libri II e III del Progetto, in Lav. prep., Vol. V, Parte II, Roma, 1919, p. 374). (4) Per tutti cfr. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 469, nota (89).


— 439 — species di un corrispondente elemento generico presente nella fattispecie generale di ingiuria (la qualità di pubblico ufficiale della persona offesa), nella seconda coppia l’elemento specializzante è rappresentato da un quid pluris (il consenso della vittima) che non specifica alcun elemento generico del reato di omicidio comune, ma ne restringe la portata con l’aggiunta di un ulteriore dato. Un altro dei nodi essenziali che nell’indagine è stato tenuto ben presente è quello rappresentato dalla contrapposizione tra errore in senso stretto, cioè ignoranza di un dato della realtà, ed erronea supposizione di un elemento che non trova invece oggettivo riscontro. Si tratta di due atteggiamenti psicologici che devono essere tenuti ben distinti nonostante che, nella pratica, si sia portati a parificarne gli esiti: chi suppone erroneamente il consenso della vittima non sembra trovarsi in una condizione diversa da chi ne ignora il dissenso, così come colui che ignora la qualità di pubblico ufficiale della persona offesa non sembra differire da colui che suppone erroneamente trattarsi di una persona comune. Ancora, non si è trascurato di considerare l’efficacia qualitativa degli elementi differenziali, distinti, secondo una ormai consueta nomenclatura, in elementi degradanti o privilegianti (Privilegierung) della fattispecie ed elementi qualificanti (Qualifizierung) (5): il consenso della persona uccisa e la qualità di pubblico ufficiale della persona offesa esemplificano rispettivamente i due tipi di efficacia che caratterizzano gli elementi specializzanti nelle due emblematiche relazioni di specialità. Le più recenti analisi (6) hanno poi evidenziato l’opportunità di integrare la tipicità delle fattispecie correlate con elementi impliciti, ricavati a contrario dall’esame comparativo delle stesse fattispecie: per restare agli esempi proposti, dal raffronto tra gli artt. 579 e 575 c.p. si desume che la fattispecie di omicidio sarebbe integrata dall’elemento implicito del dissenso della vittima (7), ovvero che il consenso della persona uccisa rappresenterebbe un elemento negativo dell’omicidio comune (8). Questo escamotage offre la possibilità di affrontare il nodo dell’errore sugli elementi differenziali affrancando l’analisi dal circoscritto perimetro della fattispecie speciale ed allargando la prospettiva in modo tale da abbrac(5) Una particolare valorizzazione della dicotomia in PALAZZO, « Voluto » e « realizzato » nell’errore sul fatto e nell’aberratio delicti, in Arch. giur., 1973, p. 71 ss. (6) Cfr. FIORELLA, L’errore sugli elementi differenziali del reato, Tivoli, 1979; PALAZZO, « Voluto », cit., 1973, p. 27 ss. (7) FIORELLA, L’errore, cit., p. 56. (8) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 83.


— 440 — ciare sia la fattispecie differenziata sia quella generale. Ciò consente altresì di ‘‘trasferire’’ l’errore da una fattispecie all’altra, superando così i punti nevralgici delle rispettive elaborazioni (9). Ora, mentre è certamente condivisibile il taglio ‘‘strutturale’’ conferito a tali ricerche, non può però accettarsi la manipolazione del dato legislativo che esse implicano, attraverso la ricostruzione delle tipicità delle fattispecie generali, integrate arbitrariamente con elementi impliciti tratti non già dalle stesse fattispecie ma da quelle speciali. E ciò senza considerare le peculiarità dei risvolti soggettivi delle relazioni di specialità per specificazione e per aggiunta, le cui diversità sono ancor più profonde di quanto già non si manifesti sul piano oggettivo. Sotto il profilo soggettivo, infine, ci è sembrato opportuno posare brevemente l’attenzione anche sulle ipotesi di errore colposo, per solito trascurate. 2. L’errore sul consenso nella fattispecie ex art. 579 c.p.: a) limiti ed aporie delle posizioni espresse dalla dottrina. — Il caso emblematico della disciplina dell’errore sul consenso nel delitto di omicidio ha suscitato un comprensibile interesse speculativo che, come già rilevato, va ben al di là delle concrete esigenze della prassi, la quale, salvo isolate pronunce, non ha mai offerto, in buona sostanza, casi pratici da decidere (10). A voler sintetizzare schematicamente lo stato della questione, occorre dire che nella materia prevalgono gli orientamenti che, sia pure con una certa disparità di argomentazioni, attribuiscono tuttavia positivo rilievo (9) Così, la possibilità di risolvere l’erronea supposizione del consenso ex art. 579 c.p. in un errore su elemento essenziale della fattispecie ex art. 575 c.p. permette a PALAZZO, « Voluto », cit., p. 83, di affermare che il reato « diverso » per il quale è stabilita, ex art. 47 comma 2 c.p., la punibilità, è l’omicidio del consenziente, che è il reato voluto e che è diverso da quello oggettivamente realizzato sul quale sarebbe caduto l’errore. Analogamente FIORELLA, L’errore, cit., p. 71, attribuisce all’errore sul consenso della persona uccisa la capacità di escludere l’applicabilità dell’art. 575 c.p., sia pure in un diverso itinerario argomentativo. (10) Per la dottrina, oltre ai citati saggi di Fiorella, Palazzo e Stella, v. pure PIACENZA, Aspetti in parte meno noti della dottrina dell’errore sul fatto costitutivo del reato, in Arch. pen., 1956, II, p. 136; ID., L’errore su elementi di fatto che degradano il reato, in Giust. pen., 1949, p. 769; VANNINI, In tema di omicidio del consenziente, ivi, 1948, II, p. 15. Più in generale v. pure MARINI, Omicidio, in Dig. disc. pen., VIII, 1994, p. 491 ss.; PATALANO, Omicidio (dir. pen.), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 970. Per la giurisprudenza v. Corte Assise Catania 24 ottobre 1977, in Giur. merito, 1978, p. 121; Corte Assise Roma 25 febbraio 1984, in Giur. merito, 1986, p. 143; Corte Assise Trieste 2 maggio 1988, in Foro it., 1989, p. 184, nonché Cass., sez. I, 27 giugno 1991.


— 441 — all’erronea supposizione del consenso, affermando così l’applicabilità dell’art. 579 c.p. (11) quando si cagioni la morte di un uomo in tale condizione psicologica. Nello specifico ambito dell’errore sul consenso della persona uccisa, e con riflessi di carattere generale, si segnalano le teorie che fanno ricorso, sulla base del procedimento per analogia, all’art. 59 primo ed ultimo comma, c.p. (12). In particolare, si sostiene che, a rigore, l’art. 59 ultimo comma c.p. non è applicabile all’ipotesi di erronea supposizione di un elemento specializzante degradante; tuttavia è lecito fare applicazione di detta disposizione in via analogica, poiché l’errore caduto sull’elemento attenuante esclude la presenza del dolo del reato-base, e ciò nonostante la relazione di specialità che lega le due fattispecie (13). Sempre per via analogica si procede all’accostamento tra l’errore (come ignoranza) sulla sussistenza dell’elemento specializzante attenuante e l’errore sulla presenza di una causa di giustificazione: a norma dell’art. 59 comma 1 c.p. si deve fare anche qui applicazione della norma privilegiata (14). Decisamente minoritarie appaiono le teorie ‘‘rigoriste’’, quelle cioè che negano efficacia all’errore sul consenso e propugnano l’applicabilità della più grave norma sull’omicidio comune (15). Premesso che gli elementi specializzanti costituiscono elementi essenziali del reato al cui ‘‘statuto’’ obbediscono senza eccezioni con riguardo sia all’aspetto oggettivo sia a quello soggettivo, si desume che nel caso di ignoranza dell’elemento specializzante la mancata rappresentazione di una nota essenziale del fatto fa sì che la sola norma generale trovi compiuta applicazione, esaurendo i compiti di tutela ad essa assegnati dall’ordinamento (16). (11)

Così FIORELLA, L’errore, cit., pp. 66 e 72; PALAZZO, « Voluto », cit., p. 82; PA-

GLIARO, Principi di diritto penale, Parte gen., Milano, 1993, p. 473; ANTOLISEI, Manuale di

diritto penale, Parte spec., I, Milano, 1992, p. 60; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987, pp. 419 e 567; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, VII, Torino, 1985, p. 97; BOSCARELLI, Compendio di diritto penale, Parte gen., Milano, 1988, p. 87; GALLO, Il dolo, oggetto e accertamento, in Studi Urbinati, 1951-52, pp. 188 e 235. (12) ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 60; ROMANO, Commentario, cit., p. 567; GALLO, Il dolo, cit., p. 235 (in nota); PIACENZA, Aspetti, cit., p. 140; VANNINI, In tema, cit., p. 16. Per la critica alle teorie che fanno ricorso all’analogia v. per tutti PALAZZO, « Voluto », cit., p. 77. Sul punto, v. anche. infra, p. 6 ss. (13) Così ROMANO, Commentario, cit., p. 567. (14) ROMANO, Commentario, cit., p. 419. (15) MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 378; STELLA, L’errore, cit., p. 103. Sul punto v. infra, p. 8 ss. (16) STELLA, L’errore, cit., p. 101.


— 442 — Nel caso opposto dell’erronea supposizione di un elemento specializzante, nella quale si realizza una « atipicità della fattispecie oggettiva speciale », l’applicazione della norma generale passa attraverso il disposto dell’art. 49 comma 3 c.p.: la non punibilità per il reato speciale, voluto ma non realizzato, infatti, non esclude l’applicazione della norma generale della quale ricorrono sia i requisiti oggettivi sia quelli soggettivi (17). L’applicazione dei suddetti principi alla relazione tra omicidio comune ed omicidio del consenziente comporta un esito particolarmente rigoroso poiché determina in ogni caso di errore — ignoranza o erronea supposizione — la ricorrenza della fattispecie generale, cioè dell’omicidio comune, a discapito di quella attenuata di cui all’art. 579 c.p. Del tutto singolare è, infine, la posizione di chi rileva l’inapplicabilità sia dell’art. 575 c.p. sia dell’art. 579 c.p. e conclude per la non punibilità dell’omicidio caratterizzato da errore sul consenso della vittima (18). Ora, contro la legittimità del ricorso analogico all’art. 59 c.p. è stato mosso un triplice rilievo: che nella specie difetta uno dei due presupposti dell’analogia, e cioè la mancanza di disciplina giuridica; che l’applicazione analogica dell’art. 59 ultimo comma c.p. dovrebbe essere coerentemente spinta fino all’affermazione della punibilità a titolo di omicidio colposo ove l’errore sia dipeso da colpa; che l’efficacia ‘‘negativa’’ dell’art. 59 ultimo comma c.p. non potrebbe giammai fondare la punibilità del putativo (19). Con riferimento alla prima obiezione, infatti, si osserva che uno dei due presupposti del procedimento analogico — e cioè la mancanza di una norma ad hoc — non è sempre presente; è assente, ad esempio, nel caso di ignoranza del consenso della vittima. In questa ipotesi la norma disciplinatrice esiste, ed è, appunto, quella contenuta nell’art. 579 c.p. La seconda obiezione muove dalla considerazione che l’applicazione analogica dell’art. 59 ultimo comma c.p. non può essere parziale e deve tenere conto del disposto finale dell’articolo, il quale prevede, nel caso in cui l’erronea supposizione della scriminante sia dipesa da colpa, che si punisca in base alla fattispecie-base colposa, ove questa sia tipizzata. Nel caso dell’omicidio del consenziente, allora, ove l’erronea supposizione del (17) STELLA, L’errore, cit., p. 103. (18) BATTAGLINI, Diritto penale, Bologna, 1949, p. 264; FROSALI, L’errore nella teoria del diritto penale, Roma, 1933, p. 425. Questi Autori sostengono che nel caso di errore sull’elemento degradante non sia configurabile, in definitiva, alcuna specifica fattispecie di reato. (19) Così PALAZZO, « Voluto », cit., pp. 78, 79 e 80. Anche FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, Parte gen., Bologna, 1989, p. 281, trovano discutibile il ricorso all’analogia.


— 443 — consenso riveli profili di colpa, si dovrebbe coerentemente fare applicazione della fattispecie di cui all’art. 589 c.p., che prevede e punisce l’omicidio colposo; conseguenza, questa, ritenuta però inappagante (20). Infine, quale che sia l’orientamento dogmatico preferibile sull’efficacia elidente dell’erronea supposizione di una scriminante — oscillante tra l’esclusione del dolo o della colpevolezza — non sembra potersi negare che la funzione del disposto contenuto nell’ultimo comma dell’art. 59 c.p. non possa andare al di là della mera esclusione dell’elemento soggettivo del reato effettivamente commesso e dunque non sia idonea alla positiva fondazione della punibilità del putativo (21). A questi convincenti argomenti non può, infine, non essere aggiunto quello attinente, più in generale, alla problematica agibilità penale dell’analogia, sulla quale perdurano fondate perplessità (22). L’introduzione nel dibattito teorico della necessaria considerazione della qualificazione dell’errore, che sostanzia la seconda obiezione alla ipotizzata operatività dell’analogia, è senz’altro opportuna e meritevole di un approfondimento sinora mancato. In tal senso occorre avvertire che chiunque voglia prospettare l’applicabilità — anche a prescindere dal ricorso all’analogia — dell’art. 579 c.p. al caso di erronea supposizione del consenso, deve comunque farsi carico del problema della qualificazione dell’errore (sia pure, al limite, per negare la rilevanza dei profili di colpa eventualmente accertati). Infatti, ove l’errore sul consenso sia dipeso da colpa, l’applicabilità dell’art. 579 c.p. appare interdetta dalla considerazione che di tale figura il legislatore non ha previsto la forma colposa (23), sembrerebbe quindi doversi applicare l’art. 589 c.p. Se, invece, si ritenesse del tutto irrilevante l’eventuale colposità dell’errore, si parificherebbero irragionevolmente le conseguenze penali a carico di chi ha cagionato la morte di un dissenziente, l’accertamento (erroneo) della cui volontà sia stato però immune da colpa, con quelle a carico di chi, invece, è incorso nell’erronea supposizione del consenso per grave ed ingiustificabile negligenza. (20) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 78. Sul punto, v. infra, n. 7. (21) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 79. (22) V. in tal senso NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1975, p. 117; MARINI, « Nullum crimen, nulla poena sine lege », in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1973, p. 958. (23) PATALANO, Omicidio, cit., p. 970, esclude la configurabilità colposa del delitto in questione perché l’art. 579 c.p. punisce soltanto la forma dolosa e perché la necessità che il consenso si concretizzi in un vero e proprio accordo osta alla possibilità che l’evento sia cagionato non intenzionalmente e dunque, eventualmente, con colpa.


— 444 — Sotto tale ultimo riguardo l’indicazione proposta dai sostenitori dell’indirizzo analogico, ove svolta con coerenza sino in fondo, comporta esiti paradossali, poiché mentre l’erronea supposizione colposa del consenso, in applicazione dell’ultima parte del quarto comma dell’art. 59 c.p., dovrebbe essere punita, ai sensi dell’art. 589 c.p., con una pena edittale compresa tra i sei mesi ed i cinque anni di reclusione, invece, nel caso in cui l’errore sia incolpevole, l’applicazione analogica dell’art. 579 c.p. comporterebbe una sanzione assai più severa, da sei a quindici anni di reclusione (24). In definitiva, la teoria ‘‘analogica’’ comporta comunque risultati inaccettabili, poiché se si ritiene irrilevante l’origine colposa dell’errore, appare iniqua la parificazione di disciplina nel segno dell’art. 579 c.p.; se invece si ritiene rilevante l’origine colposa dell’errore, appare iniqua la diversificazione sanzionatoria emergente dal raffronto tra i livelli di pena previsti dall’art. 589 c.p. e dall’art. 579 c.p. La teoria che nega ogni rilievo all’errore sul consenso ed afferma in tutti i casi l’applicazione della norma generale più grave ritiene di dover svolgere con un’assoluta coerenza postulati di carattere generale. Essa afferma che dato il carattere costitutivo del consenso, il quale integra il fatto tipico ex art. 579 c.p., non è assolutamente possibile disconoscere la necessità che esso sia oggetto di rappresentazione da parte dell’agente, di guisa che la mancata conoscenza del consenso escluderebbe l’applicabilità dell’art. 579 c.p. per difetto di dolo, così come la supposizione erronea di esso non consentirebbe l’applicazione della stessa disposizione per difetto di un elemento costitutivo: in entrambe le situazioni, dunque, si tratte(24) Contra ROMANO, Commentario, cit., p. 568, il quale esclude in ogni caso l’applicazione dell’ultima parte dell’art. 59 c.p. sul presupposto che questa norma si riferisca soltanto al caso in cui l’assenza di dolo escluda qualsiasi profilo di responsabilità penale: poiché l’assenza del dolo del reato di omicidio comune non esclude totalmente la responsabilità penale, lasciando sussistere, sia pure per analogia, quella ex art. 579 c.p., viene meno la necessità — di cui è testimone l’ultima parte dell’art. 59 c.p. — di ricorrere residualmente alla fattispecie colposa. A dire il vero l’ultima parte dell’art. 59 c.p. sembrerebbe muoversi più nell’ordinaria logica della integrale valutazione di tutti i risvolti soggettivi del fatto, enunciando ad abundantiam la regola che eventuali profili di colpa non possono perdere rilievo; e ciò indipendentemente dalla considerazione che l’esclusione della punibilità del fatto a titolo di dolo possa lasciare il fatto eventualmente privo di copertura penale. La considerazione che l’assenza del dolo dell’omicidio comune non lascia il fatto privo di risposta penale, facendosi appello in via analogica all’art. 579 c.p., non può soddisfare l’esigenza che alla fattispecie concreta si applichi non già una disposizione purchessia che ne sanzioni l’illiceità penale ma piuttosto quella che le si attagli compiutamente e che perciò tenga conto di tutti i profili, non solo oggettivi, ma anche soggettivi del fatto. Sui profili soggettivi delle relazioni di specialità v. infra, n. 5.


— 445 — rebbe di un omicidio comune poiché di esso ricorrerebbero tanto l’elemento oggettivo quanto la colpevolezza (25). Nonostante il rigore dei suoi passaggi, la teoria non convince perché, nell’assimilare all’omicidio doloso comune sia il caso di chi uccide un consenziente ignorando la sua adesione sia il caso di chi uccide un dissenziente supponendo erroneamente il suo consenso, finisce per negare rilievo ora ad un dato oggettivo ora ad un dato soggettivo, che sono tuttavia presenti e dei quali non è possibile non tener conto. La propugnata riduzione delle due ipotesi problematiche allo schema dell’omicidio comune, inoltre, appare ancor meno plausibile sul piano specifico della colpevolezza, laddove riscontra in entrambe le situazioni il dolo tipico dell’omicidio, ad onta del fatto che in una delle due l’agente non voleva un omicidio comune ma quello, ben diverso, di un consenziente (26). Quest’ultimo rilievo propone all’analisi il tema più generale dell’incidenza dell’elemento soggettivo nella relazione di specialità, facendo emergere sin d’ora l’inaccettabilità dell’approccio offerto da quella dottrina che, sulla premessa che il dolo è criterio di imputazione, cioè di « addebito », procede ad una preliminare esclusione dal suo oggetto di tutti quegli elementi di fattispecie che, come i fattori degradanti, comportando un’attenuazione della responsabilità, non possono essere considerati fattori, per l’appunto di addebito (27). La teoria, invero assai suggestiva, propone un’opinabile circoscrizione dell’oggetto del dolo secondo un criterio di valore che non appartiene alla sua intrinseca struttura, essendo il dolo un criterio, è ben vero, di imputazione soggettiva, ma di natura psicologica e non di tipo assiologico (28). Nell’ambito delle teoriche che danno positivo rilievo all’errore sul consenso della vittima, si può osservare come uno degli approcci che, nel (25) STELLA, L’errore, cit., p. 101, rileva che nel caso di errore sul consenso effettivamente esistente non è configurabile il concorso apparente di norme e la norma generale esaurisce la funzione di tutela predisposta dall’ordinamento. PATALANO, Omicidio, cit., p. 971, trae le medesime conclusioni nell’ambito, però, della normativa prevista dall’art. 47 comma 2 c.p., mentre, più correttamente, si dovrebbe far riferimento all’art. 49 comma 3 c.p. (26) Sul punto v. infra, n. 5 e n. 6. (27) BOSCARELLI, Compendio, cit., p. 88. (28) Per una recente messa a punto degli originali postulati del Gesinnungsstrafrecht in tema di dolo con conseguente caratterizzazione dell’elemento soggettivo in termini spiccatamente valutativi v. invece MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, nonché L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, in questa Rivista, 1991, p. 87.


— 446 — dibattuto tema, mostra una certa costanza (29), è quello che, muovendo dall’analisi del rapporto tra l’elemento specializzante e quello generico, rileva come sia possibile isolare, più in generale, in tutte le fattispecie caratterizzate, come appunto l’art. 579 c.p., dalla presenza di elementi degradanti, un elemento implicito, nella fattispecie generale, di significato opposto a quello proprio dell’elemento degradante esplicitamente presente nella fattispecie speciale (30). In questo tipo di costruzione è agevole avvertire l’eco delle essenziali cadenze della teoria degli elementi negativi del fatto (31), dalla quale ci si discosta per il particolare che l’erronea supposizione di un elemento negativo del fatto vale ad escluderlo del tutto, mentre l’erronea supposizione di un elemento soltanto degradante attenua il disvalore del fatto, senza però escluderlo. Inoltre, mentre gli elementi negativi del fatto troverebbero un fondamento positivo diretto ed esplicito nell’art. 59 ultimo comma c.p., questa stessa norma fornirebbe agli elementi degradanti una base normativa soltanto indiretta, ricavata per via di analogia. Si è autorevolmente affermato che ogni elemento di fattispecie speciale che degrada un certo titolo di reato rappresenta un elemento negativo della fattispecie generale. L’errore che cade sull’elemento degradante può quindi essere riportato, per via analogica, nell’ambito dell’errore sulla presenza di una causa di giustificazione (32). Pertanto, se ne deve desumere che così come le scriminanti integrano, implicitamente e negativamente, le fattispecie criminose, anche gli elementi meramente degradanti integrano implicitamente le fattispecie costruite in termini di generalità; e se l’art. 59 c.p. disciplina espressamente l’errore sulle cause di giustificazione, (29) Per la dottrina più risalente cfr. GALLO, Il dolo, cit., p. 235 (in nota); VANNINI, In tema, cit., p. 16. In argomento v. pure GROSSO, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, p. 27 e passim. (30) Per FIORELLA, L’errore, cit., p. 62, dal rapporto tra gli artt. 575 e 579 c.p. si desume che la eventuale mancanza del dissenso della vittima di un comune omicidio configura la mancanza di un « dato aggravante positivo implicito, costruito negativamente, della fattispecie di omicidio comune ». E ciò perché l’elemento differenziale « sul piano della struttura del fatto, ovunque si atteggi in via esplicita, assume anche una valenza contraria nella fattispecie limitrofa » (p. 71). Nello stesso senso si muove PALAZZO, « Voluto », cit., p. 83, laddove afferma che il consenso della vittima « è un elemento negativo dell’omicidio comune, la cui mancanza cioè è necessaria affinché sussista il reato di cui all’art. 575 c.p. ». (31) In PALAZZO, « Voluto », cit., p. 83, l’accostamento alla tematica delle cause di giustificazione è esplicito. La teoria è troppo nota per doverne ripercorrere qui, sia pure sinteticamente, i momenti essenziali. Per i riferimenti dottrinali basterà confrontare ROMANO, Commentario, cit., p. 269. (32) Così GALLO, Il dolo, cit., p. 235 (in nota).


— 447 — cioè sugli elementi negativi del fatto, la stessa norma può ben regolare l’analogo tema dell’errore sugli elementi degradanti delle fattispecie. Si è già affermato (33), però come l’espediente del ricorso all’analogia non sia affatto pacifico, tanto che le versioni più recenti delle teorie che si àncorano al postulato degli elementi impliciti di fattispecie, per affermare l’applicabilità della disposizione più mite nel caso di errore sull’elemento degradante, preferiscono percorrere, come si vedrà, itinerari diversi. Così è stato affermato che l’errore sull’elemento implicito, che concorrerebbe ad integrare la struttura della fattispecie generale più grave, precluderebbe l’applicazione di questa a norma dell’art. 47 comma 1 c.p., stante il principio che a nessuno può essere imputato un dolo diverso da quello che lo ha realmente motivato (34). Il rapporto tra gli artt. 575 e 579 c.p., infatti, evidenzierebbe, come sopra accennato, l’introduzione, nella fattispecie di omicidio comune, di un presupposto negativo (anzi, positivo costruito negativamente), ricavato implicitamente e simmetricamente dalla fattispecie di omicidio del consenziente: il dissenso della vittima. Da qui si desume che l’erronea supposizione del consenso ex art. 579 c.p. equivarrebbe ad erronea supposizione della mancanza di dissenso ex art. 575 c.p. L’errore si tradurrebbe così in un errore sul fatto ex art. 47 comma 1 c.p., poiché l’agente non si rappresenterebbe un dato di fatto (il dissenso della vittima) che integrerebbe la fattispecie di omicidio comune. Esclusa così la ricorrenza del reato più grave, si osserva come l’error in mitius non possa però escludere l’illiceità penale ma soltanto degradare il titolo del reato. Infatti, ai sensi del secondo comma dell’art. 47 c.p. l’error in mitius comporterebbe sempre l’applicazione della fattispecie degradata, che risulterebbe integrata non soltanto sotto il profilo psicologico ma anche sotto quello materiale (35). La debolezza di fondo della teoria risiede, com’è comprensibile, nel(33) V. supra, p. 6 ss. (34) FIORELLA, L’errore, cit., p. 71, àncora il principio alla norma ricavabile dai commi 1 e 2 dell’art. 47 c.p. Sul punto, v. infra, n. 6. (35) FIORELLA, L’errore, cit., p. 72. Per vero appare poco chiara la ricorrenza dell’art. 47 cpv., del quale è generalmente riconosciuta l’applicabilità a condizione che del diverso reato siano presenti anche i requisiti oggettivi, cioè materiali. Ora, mentre nel caso di error in gravius, cioè di ignoranza del consenso effettivamente prestato, il fatto materiale coincide con la fattispecie degradata, nel caso opposto di error in mitius, cioè di erronea supposizione di un consenso giammai prestato, il dato oggettivo è diverso dalla tipizzazione contenuta nella norma privilegiata. Il passaggio indimostrato è quello ove si afferma che « se l’error in mitius implica necessariamente l’applicazione della fattispecie meno grave, vuol dire che


— 448 — l’affermazione risoluta che l’elemento implicito integrerebbe la fattispecie (generale) come qualsiasi altro elemento esplicitamente tipizzato dal legislatore (36); peraltro non sembra molto rigoroso il ragionamento che conduce, in un certo senso obtorto collo, all’applicazione della norma più mite (37). Parimenti arduo sembra il percorso logico seguito da chi, limitando l’applicabilità dell’art. 49 comma 3 c.p. al caso di colui che realizza la fattispecie più mite col dolo di quella più grave (38), risolve il caso opposto di erronea supposizione dell’elemento degradante attraverso l’art. 47 comma 2 c.p., che « punisce per il reato voluto senza, peraltro, richiedere espressamente che di tale reato siano presenti anche gli estremi oggettivi » (39). Allo scopo di sottrarsi all’inaccettabile prospettiva di lasciare del tutto impunito chi agisce col dolo di un reato privilegiato e realizza invece quello più grave, ed escludendo la impraticabile soluzione di tipo ‘‘analogico’’, questa dottrina ha ritenuto di rinvenire nel disposto di cui al secondo comma dell’art. 47 c.p. la chiave risolutiva del problema, essendo questa l’unica disposizione che consentirebbe la punizione di un reato (soltanto) voluto, senza però richiedere che esso sia stato oggettivamente questa è perfetta nel suo ‘‘tipo’’, non solo psicologico, ma anche materiale » (FIORELLA, op. cit., p. 74). La petizione di principio consiste nel fatto che la tesi per cui l’error in mitius comporterebbe l’applicazione della fattispecie meno grave non è assodata e dunque non può costituire la base di alcuna deduzione. (36) Sul punto v. più diffusamente, infra, n. 5. (37) Il ragionamento, ad un dipresso, si articola così: posto che un fatto illecito è stato comunque perpetrato e dunque non può passare sotto silenzio; posto che manca il dolo della fattispecie più grave per via dell’error in mitius; allora sarà giocoforza applicare la norma meno grave. (38) Cfr. PALAZZO, « Voluto », cit., p. 80, il quale osserva che soltanto ex parte objecti si realizza lo schema dell’art. 47 comma 2 c.p., poiché non è dubbio che del reato generale sussistano sia l’elemento oggettivo che il dolo; ma la norma che consente di integrare compiutamente, cioè ex parte subjecti, l’aspetto soggettivo della fattispecie è l’art. 49 comma 3 c.p., il cui schema comprende i casi di divergenza tra voluto e realizzato allorché « del reato diverso realizzato sussistono tutti gli estremi oggettivi e soggettivi »; e nel caso di specie il dolo di omicidio comune, contenendo necessariamente quello di omicidio del consenziente, rende possibile l’applicazione dell’art. 49 comma 3 c.p. L’apparente concorso di norme convergenti sull’ipotesi di omicidio del consenziente realizzato col dolo dell’omicidio comune, ‘‘sovraccaricandola’’ di disciplina giuridica, viene poi risolto, in omaggio al principio di materialità, applicando la norma che descrive il reato oggettivamente realizzato, e cioè l’art. 579 c.p. L’art. 47 comma 2 c.p., dunque, non risulta applicabile perché, disponendo la punibilità per il reato voluto (e non realizzato), dimostra di privilegiarne l’aspetto subiettivo. (39) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 82.


— 449 — realizzato; e soltanto così colui il quale vuole l’omicidio di un consenziente ma realizza un omicidio comune può essere punito in base alla disposizione più mite ex art. 579 c.p., poiché quest’ultimo è il reato da lui voluto, nulla importando che questo stesso reato non sia stato effettivamente realizzato (40). Il ragionamento muove dall’assunto che il consenso della vittima sarebbe un elemento negativo dell’omicidio comune, tale che la sua mancanza sarebbe necessaria per l’integrazione del reato ex art. 575 c.p. (il rapporto di discendenza dalla teoria degli elementi negativi del fatto è, come si vede, strettissimo). Colui il quale suppone erroneamente il consenso della vittima non erra sulla fattispecie ex art. 579 c.p., come potrebbe sembrare a prima vista, ma sulla fattispecie di cui all’art. 575 c.p.: in altre parole, l’agente non ha già supposto erroneamente la presenza di un elemento della fattispecie di omicidio del consenziente, ma egli, invece, ha ignorato la presenza di un elemento essenziale del delitto di omicidio comune, e cioè la mancanza di consenso: l’erronea supposizione dell’elemento degradante si risolve così in un errore su un elemento essenziale, negativo ed implicito, della fattispecie generale più grave. Lo stravolgimento dei reali termini psicologici della situazione, che la dottrina qui esposta praticamente propone, consegue però il risultato tecnico di incardinare nell’art. 47 c.p. il problema dell’errore e la sede della sua soluzione. Concludendo l’iter argomentativo così avviato, questa dottrina afferma conseguentemente che data l’inapplicabilità alla specie, ex art. 47 comma 1 c.p., del reato di omicidio comune, del quale l’agente ignorerebbe un dato (negativo) essenziale, occorre guardare al secondo comma della stessa disposizione, che disciplina appunto ipotesi, come quella in esame, in cui la divergenza del dolo si pone tra reati in rapporto di specialità. (40) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 48 ss. Muovendo dalla ricerca dell’oggetto dell’errore di cui al capoverso dell’art. 47 c.p., l’Autore perviene alla corretta conclusione che il reato « diverso » sia quello voluto, che è appunto diverso da quello realizzato. Il discorso, però, diviene inaccettabile quando la contrapposizione tra reato voluto e reato realizzato travalica l’ambito della individuazione dell’oggetto dell’errore e pretende di scolpire una (asserita) diversificazione nella fisionomia costitutiva dei due reati, laddove si argomenta che il capoverso dell’art. 47 c.p. stabilirebbe la punibilità per il reato soltanto voluto e non realizzato. In altre parole, mentre è lecito affermare che l’art. 47 comma 2 c.p., allorché l’agente erra su un elemento del fatto che attiene al reato A, correlato per specialità al reato B, stabilisce la punibilità per quello che è assistito in ogni sua parte dal dolo (in ipotesi il reato A), è arbitrario affermare, perché la norma non lo impone, che questo reato non debba trovare anche oggettivo riscontro, nonostante che il fatto « realizzato » coincida perfettamente con il reato B.


— 450 — Il coordinamento con l’art. 49 c.p. viene operato nel senso che mentre l’art. 47 c.p. opererebbe nell’ambito dei reati qualificati allorché la specialità va dal voluto al realizzato (e cioè l’agente realizza il reato speciale più grave mentre voleva il reato generale meno grave), e nell’ambito dei reati privilegiati allorché la specialità va dal realizzato al voluto (nel senso che l’agente realizza il reato generale più grave mentre voleva quello speciale meno grave), l’art. 49 c.p. disciplinerebbe le ipotesi inverse: punibilità per il reato realizzato del quale sussista anche il dolo (41). Anche in questa teoria è rilevabile lo stesso difetto, congenito a tutte quelle che postulano la presenza di un elemento implicito nella fattispecie generale, consistente nella ipostatizzazione di questo dato, ricavato con una deduzione a contrario, al quale si attribuisce dignità di elemento tipico che concorrerebbe ad integrare la fattispecie. Peraltro, è inquietante l’effermazione che il nostro sistema, sia pure in una singola ipotesi, farebbe scattare la pena per un reato soltanto voluto « senza peraltro richiedere espressamente (42) che di tale reato siano presenti anche degli estremi oggettivi ». L’aggiunta dell’avverbio « espressamente » denota l’esigenza, avvertita dall’Autore, di una certa cautela; ma si tratta di un espediente meramente nominalistico, che non riesce ad attenuare la problematica risolutezza dell’asserzione: poiché non è ipotizzabile che la medesima disposizione, contraddittoriamente, possa al contempo postulare implicitamente ciò che espressamente non richiede, ne deriva che in un quadro così delineato la mancanza di esplicita richiesta di obiettiva ricorrenza degli elementi costitutivi del reato si traduce in mancanza tout court degli elementi stessi, con una evidente deroga al principio di materialità, giustificabile però in altri ordinamenti che non si ispirino, come il nostro, a concezioni oggettivistiche del reato (43) e prevedono la punibilità del reato putativo (44). Al contrario, deve ribadirsi che tutti i casi di divergenza tra « voluto » e « realizzato » devono risolversi nel rispetto del principio di materialità, che postula la ricorrenza, nello schema della fattispecie con(41) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 84. (42) Il corsivo è nostro. (43) Sul fondamento costituzionale del principio di materialità del fatto, ex art. 25 Cost., non sussistono dubbi. Per un articolato quadro di riferimento dei vari sistemi penali è sempre fondamentale la lettura delle belle pagine di BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, p. 4 ss. (44) Riferimenti al sistema tedesco in ROMANO, Commentario, cit., pp. 431 e 432. Un’utile sintesi degli elementi del diritto penale d’oltralpe è stata redatta da FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993.


— 451 — cretamente disciplinatrice, dei requisiti oggettivi (45); esigenza avvertita, ma in modo contraddittorio, dalla stessa dottrina criticata laddove, rilevata la scarsa sensibilità del nostro sistema alle esigenze della rieducazione, riconosce che esso risulta informato, oltre che al principio di colpevolezza, anche a quello di oggettiva gravità del fatto (46). Questo principio è rispettato anche nel disposto di cui all’art. 47 cpv., che non può essere interpretato, nel senso voluto dalla dottrina criticata, come norma che punirebbe per il reato voluto anche se esso non si è oggettivamente realizzato. Invero, la norma punisce per un reato non soltanto voluto, ma che si è anche tradotto nella realtà effettuale delle cose, benché il ‘‘realizzato’’ comprenda anche degli elementi che effettivamente appartengono ad un diverso tipo di reato, ma che però non possono aver rilievo penale perché non assistiti dal dolo. Il punto di partenza imprescindibile è il primo comma dell’art. 47 c.p., che regola il caso di mancata rappresentazione di un elemento costitutivo del fatto: l’esclusione della punibilità per il titolo di reato realizzato soltanto oggettivamente non può però riguardare anche eventuali e diverse ipotesi criminose che siano state contemporaneamente realizzate sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo, poiché a queste ipotesi provvede il secondo comma dell’art. 47 c.p. Il reato « diverso » per il quale l’art. 47 cpv. c.p. dispone la punibilità è certamente quello voluto dall’agente, ma la diversità non può però consistere in una ipotesi criminosa che non abbia trovato interamente riscontro nella realtà, poiché questa implicazione non è affatto desumibile dal tenore della norma in oggetto e contrasta, come detto, con il fondamentale principio di materialità. Il secondo comma dell’art. 47 c.p., interpretato in stretta correlazione con il primo comma dello stesso articolo, finisce così col riferirsi alle norme in rapporto di specialità in cui l’agente non si rappresenta l’elemento specializzante, e non già all’ipotesi inversa di erronea supposizione dello stesso. Quest’ultimo caso, invece, è regolato dall’art. 49 comma 3 c.p. Infatti, come sarà chiarito più oltre (47), il coordinamento tra l’art. 47 c.p. e l’art. 49 c.p. è corretto se riconosce il carattere ‘‘rovesciato’’ delle situazioni rispettivamente descritte, posto che la prima norma si riferisce all’i(45) Così GALLO, Il dolo, cit., p. 190. (46) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 83, rileva come il sistema si ispiri « oltre che al principio di colpevolezza anche a quello di proporzione oggettiva tra gravità del reato e gravità della sanzione ». (47) V. infra, n. 6.


— 452 — gnoranza di un dato della realtà effettivamente presente mentre la seconda attiene all’ipotesi inversa di erronea supposizione di un elemento in realtà insussistente (48). Come si vede, traendo le conclusioni, l’assillo dell’individuazione di una norma che consentisse di punire per il reato voluto ha, in un certo senso, indotto la dottrina criticata a rifugiarsi nel secondo comma dell’art. 47 c.p. (dato che il terzo comma dell’art. 49 c.p. punisce, invece, per il reato effettivamente realizzato). Ma questo approdo si è rivelato assai infido poiché ha avviato la dottrina che vi si è accostata ad un triplice ordine di aporie: 1) l’ipostatizzazione di un dato meramente logico; 2) il conseguente trasferimento arbitrario dell’oggetto dell’errore da una fattispecie all’altra; 3) la forzatura interpretativa dell’art. 47 comma 2 c.p. 3. (Segue): b) relativa utilizzabilità delle indicazioni fornite dai Lavori Preparatori. — La questione dell’errore sul consenso della persona uccisa, nella tensione tra omicidio comune o degradato, ridurrebbe drasticamente il suo coefficiente di problematicità ove si concludesse, in sede esegetica, che il consenso della vittima debba essere manifestato all’agente (49). In questo senso, peraltro, sembrerebbe orientare la lettura dei lavori preparatori. La Relazione al Re (50) chiarisce, infatti, che l’introduzione della norma di cui all’art. 579 c.p. muove dall’avvertita esigenza di riconoscimento che il consenso della vittima attenua il dolo dell’agente e così la sua pericolosità sociale, legittimando una valutazione della sua personalità in termini più benevoli, di minor biasimo (51). Sembra dunque che la minore gravità del reato debba connettersi unicamente al profilo soggettivo del fatto, che nella oggettività non differi(48) Appare ineccepibile il modo di impostare e risolvere il contrappunto normativo di STELLA, L’errore, cit., pp. 101 e 102. (49) Così MARINI, Omicidio, cit., p. 527, il quale trova ragionevole e non contrastante con i principi desumibili dall’art. 1 c.p. legare « la rilevanza del prestato consenso alla sua percezione da parte dell’agente », conferendogli così natura di « atto recettizio ». Che il consenso debba essere comunque esteriorizzato è un postulato di per sé ovvio, poiché un consenso rimasto chiuso nell’interiorità del soggetto che lo ha concepito non sarebbe accertabile ed il problema della soluzione del conflitto di norme applicabili in caso di divergenza tra voluto e cagionato non sorgerebbe neppure. Ma consenso « esteriorizzato » non significa ancora consenso « reso manifesto all’agente ». (50) V. Relazione Ministeriale al progetto definitivo, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Vol. V, Parte II, 1929, p. 373 ss. (51) Negli stessi termini la Relazione introduttiva, in Lav. prep., cit., Vol. IV, Parte I, 1929, p. 478.


— 453 — sce da un comune omicidio, data l’assoluta irrilevanza scriminante del consenso (52), che ne lascia inalterati i profili lesivi. L’impressione esce rafforzata dal raffronto, operato dal Guardasigilli, con il previgente sistema, che non conosceva una norma analoga poiché, secondo il ministro Zanardelli, l’esecuzione di un omicidio doveva essere valutata indipendentemente dalla volontà dell’ucciso. Il ministro Rocco, invece, concordava soltanto in parte col suo predecessore, accettando la premessa dell’irrilevanza del consenso sui connotati oggettivi del fatto, data l’indisponibilità del bene della vita, ma rifiutando al contempo la perequazione del dolo del comune omicida con quello di chi avesse agito col consenso della vittima (53). Ora, se il criterio di attenuazione della gravità dell’omicidio del consenziente è correlato al temperamento dell’indice di colpevolezza, pare evidente che il dato privilegiante della fattispecie, e cioè il consenso del soggetto passivo, debba costituire un momento ineliminabile del processo cognitivo dell’agente, nel senso che esso deve essere stato a lui manifestato (54). (52) Sarà opportuna la trascrizione integrale della Relazione Min., cit., p. 373: « Il Codice vigente non prevede l’omicidio del consenziente, ed il Ministro Zanardelli, nella sua Relazione, aveva espressamente dichiarato che l’uccisione del consenziente è un vero e proprio omicidio, la cui esecuzione sia da considerare indipendente dalla volontà dell’ucciso. Siffatta proposizione sembra accettabile solo in parte: in quanto afferma, cioè, che il consenso del soggetto passivo non esclude il reato, quando concerna beni indisponibili; tale ipotesi si verifica appunto per quel particolare bene giuridico che concerne l’esistenza fisica delle persone, la cui conservazione rappresenta un prevalente interesse sociale. Il principio riceve una enunciazione generale nella norma contenuta nell’articolo 54 del Progetto, il quale limita ai soli beni disponibili l’efficacia discriminatrice del consenso validamente manifestato dalla persona offesa; e, poiché all’individuo non si riconosce la libera disponibilità della propria vita, anche il Progetto esclude che il consenso della vittima discrimini il reato di omicidio. Altra è la questione se il consenso della persona offesa possa influire nella valutazione della gravità del reato. Il principio della indisponibilità del bene della vita non può far disconoscere l’influenza, veramente notevole, che il consenso della vittima esercita nell’apprezzamento del dolo in genere e della personalità del colpevole. Il minore grado del dolo e la minor pericolosità del delinquente erano stati così sentiti nella pratica che per superare la inconciliabilità tra le rigide disposizioni del Codice vigente e le esigenze della realtà, i giudici spesso erano tratti ad inesatte interpretazioni, estensive o analogiche della norma regolatrice del delitto di istigazione o aiuto al suicidio, ovvero ad assoluzioni ispirate a senso di pietà ». La lunga citazione serve ad evidenziare la svolta che ha caratterizzato l’introduzione dell’attuale art. 579 c.p. In dottrina, tuttavia, non era mancato chi negava il carattere personale ed individuale del bene leso dall’omicidio del consenziente, affermando che in realtà veniva offeso l’interesse demografico dello Stato (VANNINI, Il delitto di omicidio, Milano, 1935, p. 115). (53) Cfr. Relazione min., cit., loc. ult. cit. (54) Sempre della Relazione min., cit., p. 374: « Ciò che deve esigersi è che la vittima faccia una valida manifestazione di volontà ».


— 454 — Resterebbe così eliminata, siccome irrilevante ai fini della configurabilità dell’omicidio ex art. 579 c.p., l’ipotesi in cui l’agente sia ignaro del consenso prestato dalla vittima (55): la mancata manifestazione all’agente del (pur sussistente) consenso impedirebbe la configurabilità, già sul piano oggettivo, della fattispecie privilegiata, liquidando in limine ogni possibilità di conflitto con la fattispecie generale, che troverebbe incontrastata applicazione. I problemi di coordinamento delle due fattispecie sarebbero decisamente ridotti, ma non del tutto azzerati, come già detto, restando enigmaticamente impregiudicata la questione della regolazione penale dell’erronea supposizione e della ignorata revoca del consenso (56), dove è evidente che l’errore sul consenso, dovendo necessariamente passare attraverso una esteriore manifestazione della volontà adesiva della vittima potrebbe rilevare soltanto in collegamento con una esternazione del soggetto passivo, erroneamente interpretata come espressione di valido e perdurante consenso. Ma anche questo residuo risvolto problematico potrebbe parzialmente essere annullato da un ulteriore intervento di ‘‘ortopedia’’ esegetica che affermi la necessità che la manifestazione del consenso sia inequivoca. Con la ipotizzata assimilazione della equivoca manifestazione del consenso alla (irrilevante) supposizione erronea della sua presenza sarebbe del tutto bandita la rilevanza dell’errore in subjecta materia, dal momento che l’errata valutazione della volontà della vittima significherebbe inoppugnabilmente che il consenso non era inequivoco. Ma neppure i Lavori Preparatori autorizzano, con piena certezza, una conclusione siffatta (57); ed in ogni caso resterebbero impregiudicati i casi di ignorata revoca del consenso. (55) Come nel caso, invero un po’ improbabile, di chi, venuto a conoscenza di un piano omicida ai suoi danni, decida di non sventarlo perché, afflitto da male incurabile, preferisce approfittare... dell’occasione insperata di porre fine alle sue sofferenze. (56) Può ipotizzarsi al riguardo il caso, anch’esso per vero avventuroso, di un paziente inguaribile e assai sofferente che, avendo richiesto al medico un intervento ‘‘risolutore’’, abbia, in assenza del sanitario recatosi a preparare l’iniezione letale, mutato volontà e, sentendo venir meno le forze, affidi ad un biglietto, scritto con le residue energie, la revoca del suo consenso. Caso vuole, però, che questo biglietto scivoli sotto il letto ed il medico, per questo motivo, non prenda contezza del mutamento di volontà se non dopo l’uccisione, allorché il biglietto fortuitamente viene scoperto. (57) È singolare che il problema dell’erronea supposizione del consenso — inesistente o revocato — sia, nei Lavori Preparatori, semplicemente ignorato. Vi è soltanto un riferimento all’ipotesi di colui che uccide una persona il cui consenso sia stato da altri estorto o carpito con frode, ad insaputa dell’agente. Si tratta, come si vede, di una ipotesi di errore


— 455 — 4. (Segue): c) l’elemento specializzante come elemento costitutivo ovvero come circostanza del reato. — Alcuni dei problemi evidenziati dalla relazione di specialità per aggiunta, che caratterizza l’art. 579 in rapporto all’art. 575 c.p., sarebbero eliminati se gli elementi specializzanti potessero configurarsi non già come elementi costitutivi ma come circostanze (58). Nel caso di mancata rappresentazione dell’elemento specializzante degradante (59) esso rileverebbe comunque oggettivamente, consentendo l’applicazione della norma più mite; così se l’agente, ignorando il consenso della vittima, ha voluto un omicidio comune, risponderebbe di omicidio del consenziente. Ove, invece, l’elemento specializzante abbia natura qualificante, la sua rilevanza sarebbe legata ad un momento di colpevolezza, dovendosi verificare la possibilità di muovere un rimprovero di colpa nei confronti dell’agente che, pur potendo, non ne abbia avuto cognizione. Resterebbero tuttavia tagliati fuori, a norma del comma 3 dell’art. 59 c.p., i casi di erronea supposizione dell’elemento specializzante. sulla validità del consenso, sensibilmente diversa dall’ipotesi di consenso inesistente o revocato: il consenso estorto o carpito fraudolentemente è storicamente sussistente ma non dispiega alcuna efficacia. Il Guardasigilli, al riguardo, sembrerebbe affermare l’applicabilità della figura più tenue, poiché « persisterebbero in favore del colpevole le ragioni psicologiche sulle quali si adagia questo titolo di omicidio meno grave », ma senza darsi cura di enunciare il meccanismo tecnico di questa opzione (v. Relazione min., cit., p. 375). In giurisprudenza il tema dei requisiti di validità del consenso si è talvolta intrecciato con quello dell’errore (cfr. Corte Assise Roma 25 febbraio 1984, in Giur. merito, 1986, II, p. 144) allorché si è ritenuto che l’agente, in buona fede, abbia interpretato come inequivoca volontà di morte espressioni di sconforto della vittima. Molto più concreto è, invece, il problema della validità del consenso espresso da un soggetto che, per giungere a tale drastica decisione, difficilmente è pienamente padrone della propria psiche. Si è precisato che in caso di grave malattia l’infermità non deve essere tale da determinare una deficienza psichica invalidante del consenso (cfr. Cass. 18 novembre 1954, in Giust. pen., 1954, II, p. 271). È comunque significativo che la giurisprudenza abbia, secondo i casi, ritenuto sussistente, cioè valido, il consenso, o invalido e dunque insussistente il presunto consenso, ma non abbia mai preso posizione sul problema dell’ignoranza di un valido consenso o dell’erronea supposizione di un consenso del tutto inesistente. (58) L’ipotesi, risalente a CARNELUTTI, Teoria generale del reato, Padova, 1933, p. 176, è stata poi ripresa da SANTUCCI, Errore, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, p. 283, e da STELLA, L’errore, cit., p. 105. Dello stesso avviso MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Torino, 1985, p. 87, il quale rileva che la configurazione del consenso come circostanza attenuante specifica dell’omicidio comune sarebbe stata più aderente alle caratteristiche ontologiche del dato, che non arreca alcuna sostanziale modifica al fatto di omicidio. (59) È opportuno evidenziare il carattere tutto sommato convenzionale della nomenclatura (elementi « degradanti », « qualificanti ») dato che non è certo che il legislatore abbia voluto stabilire una relazione di valore tra le disposizioni correlate, e si tratti invece di relazioni strutturali individuate a posteriori. Si tenga presente che gli unici elementi legislativamente « degradanti » sono le circostanze attenuanti.


— 456 — Purtroppo, però, quella del rapporto tra elementi specializzanti e circostanze è una zona tuttora grigia del sistema e dunque poco attraente per chi voglia saggiare la praticabilità di questa ipotesi. Sembrerebbe, peraltro, che l’aspetto più problematico di questa relazione sia ravvisato nella difficoltà di individuazione di un valido criterio di discriminazione, mentre sul versante della ricerca di eventuali dati sostanziali che caratterizzino le due figure sembra prevalere un diffuso scetticismo, laddove si afferma che tra gli elementi costitutivi e le circostanze non esiste una ontologica differenza, potendo la medesima situazione rilevare nell’un senso o nell’altro secondo la discrezionale scelta del legislatore (60). Del carattere meramente formale dei criteri di discriminazione delle circostanze dagli elementi costitutivi è testimone non soltanto il naufragio di tutti i tentativi, soprattutto meno recenti (61), di individuazione di un criterio distintivo sostanziale, ma anche la cruda realtà normativa: gli artt. 61 e 62 c.p., infatti, nell’elencare le circostanze aggravanti e attenuanti, fanno salva la possibilità che le medesime situazioni possano, in altri casi, avere natura di elementi costitutivi (62). Eppure la non insignificante disparità di regime giuridico che caratterizza (va, ieri più di oggi) gli elementi costitutivi e le circostanze avrebbe dovuto indurre gli studiosi ad un serio approfondimento critico delle ragioni di scelta, da parte del legislatore, nei singoli casi, dell’una formulazione piuttosto che dell’altra: non avrebbe dovuto lasciare indifferenti la constatazione che una medesima situazione potesse, secondo i casi, imputarsi oggettivamente o secondo colpevolezza (63). E ancor più criticamente non ci si è posti il problema se la discrezionalità legislativa non debba incontrare limiti di alcun genere a mente dei conseguenti riflessi sul principio di eguaglianza e di coerenza del sistema. Ora, il fatto è che il consenso di cui all’art. 579 c.p., come pare indubitabile, ha natura di elemento costitutivo (64). In tal senso depongono, infatti, i vari criteri — storico, nomen juris, rubrica... — proposti dalla (60) Cfr. CONCAS, Circostanze del reato ed elementi specializzanti costitutivi, in Arch. pen., 1974, I, p. 363; GUERRINI, Elementi costitutivi e circostanze del reato, Milano, 1989, p. 24. (61) Cfr. SANTORO, Le circostanze del reato, Torino, 1952, p. 19 ss. (62) Appare esatto il rilievo di SANTORO, Le circostanze, cit., p. 22. (63) Posto che il consenso ex art. 579 c.p. è elemento descrittivo del fatto e non circostanza, non è però dimostrato che si tratti di elemento essenziale imputabile soltanto su base soggettiva. Sul punto cfr. CONCAS, Circostanze, cit., p. 361, nota (35). (64) Dottrina pacifica. V., per tutti, ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte spec., I, p. 55.


— 457 — dottrina (65). Nessun indizio, per contro, sembra dar credibilità all’ipotetica prospettiva che il consenso possa qualificarsi come circostanza attenuante dell’omicidio comune. Peraltro l’ipotizzata eventualità di attribuire natura circostanziale a taluni elementi specializzanti aggiuntivi non riguarderebbe le ipotesi in cui l’effetto degradante (o qualificante) non si collega ad una relazione di vera e propria specialità. Come sarà detto più oltre, infatti (66), esistono gruppi di disposizioni caratterizzati da un nucleo comune che rende possibile la realizzazione obiettiva dell’una fattispecie col dolo dell’altra, proprio come nei casi di norme speciali; solo che tra le norme in oggetto non c’è alcun legame di specialità poiché i restanti elementi sono tra loro in rapporto di incompatibilità. Non avendo carattere di specialità, gli elementi in questione non potrebbero giammai essere trattati alla stregua delle circostanze, dato che queste hanno strutturalmente natura di elementi specializzanti del reatobase. Queste norme, peraltro, sfuggirebbero pure alla previsione normativa della progettata riforma del codice penale, che all’art. 15 comma 2 raccomanda la punibilità per il reato meno grave nel caso di « errore sugli elementi differenziali tra più reati », dove per elementi « differenziali » si devono intendere, secondo una terminologia indiscussa, gli elementi specializzanti delle fattispecie che determinano una variazione di gravità del reato (67). 5. Necessità di approfondimento dei connotati del dolo nei reati in rapporto di specialità: a) divaricazione tra specialità per specificazione e per aggiunta. — Le aporie che vuoi sul piano propriamente dogmatico e sistematico, vuoi sul piano delle conseguenze applicative, caratterizzano le posizioni espresse dalla dottrina sul tema dell’errore sugli elementi differenziali, sollecitano lo studioso ad una più attenta considerazione della consistenza del dolo nei reati in rapporto di specialità. Invero, l’approfondimento teorico delle relazioni strutturali delle fat(65) V. GUERINI, Elementi, cit., p. 32 ss. (66) V. infra, n. 6 e nota (96). (67) Cfr. FIORELLA, L’errore, cit., p. 24 ss. Anche in considerazione dei differenti trattamenti giuridici, soprattutto in tema di dolo ed errore, il mantenimento della discriminazione legislativa tra elementi differenziali e circostanze si dimostra sempre più irrazionale e comporta un ‘‘costo’’ sempre più gravoso. L’accertata indifferenziazione sul piano ontologico delle due figure reclama che se ne traggano le conseguenze anche sul piano formale, parificandole nel segno del riconoscimento della loro natura costitutiva dell’illecito penale.


— 458 — tispecie, che di recente ha registrato un rinnovato impulso (68), non ha esplorato però, con analogo impegno, i profili di colpevolezza ad esse connessi. Se si prendono le mosse dalle esemplificazioni per solito proposte dalla dottrina, si può rilevare che mentre non si avvertono particolari difficoltà ad affermare che chi è in errore (indifferentemente in mitius od in gravius) sulla qualità di pubblico ufficiale della persona offesa risponde comunque del delitto di ingiuria, perché di questo reato è certamente presente il dolo (69), altrettanta disinvoltura non si riscontra allorché oggetto di riflessione sia l’alternativa omicidio comune/omicidio del consenziente. Infatti, se da un lato v’è chi sostiene che il dolo del reato speciale contiene necessariamente quello del reato generale (70), dall’altro v’è chi reputa necessario distinguere preliminarmente tra specialità « qualificata » e specialità « privilegiata », affermando che nel primo tipo di specialità chi vuole il fatto speciale più grave vuole « logicamente e presumibilmente » anche quello generale meno grave, mentre nel secondo tipo di specialità non è affatto vero che il dolo del reato speciale meno grave contenga necessariamente il dolo del reato generale più grave (71). E più particolarmente, nel caso in cui si voglia il reato generale più grave e si realizzi invece quello speciale meno grave si dovrà applicare l’art. 49 comma 3 c.p. e dunque punire in base alla fattispecie speciale (72); invece, nel caso opposto di realizzazione del reato generale col dolo di quello speciale l’appli(68) Cfr., nell’ambito di una lucida indagine di tipo strutturale, la monografia di DE FRANCESCO G.A., Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980. Sull’argomento sia consentito di rinviare anche a CAMAIONI, Specialità ed interferenza: appunti sulla comparazione strutturale delle fattispecie nel concorso e nella successione di norme penali, in Giust. pen., II, 1992, p. 230 ss. (69) V. per tutti PALAZZO, « Voluto », cit., p. 74 ss. (70) Cfr. STELLA, L’errore, cit., p. 103. (71) PALAZZO, « Voluto », loc. ult. cit. (72) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 73 ss. L’applicazione dell’art. 49 comma 3 c.p. rappresenta l’esito di una scelta operata nell’ambito di un ideale concorso normativo con l’art. 47 comma 2 c.p., pure applicabile nella specie. Secondo l’A., mentre oggettivamente ricorre il caso disciplinato da tale ultima disposizione, ex parte subjecti si verificherebbe, invece, lo schema dell’art. 49 comma 3 c.p. Senza qui approfondire le ragioni che sottostanno alla definitiva scelta della norma contenuta nell’art. 49 c.p., e che destano per vero qualche perplessità, non sembra potersi condividere l’osservazione che il dolo del reato generale — esemplificativamente l’omicidio comune — contenga quello del reato speciale privilegiato, e cioè dell’omicidio del consenziente. Si può anche convenire che in termini di « valore » è ben vero che il dolo dell’omicidio comune sia capace di ‘‘straripare’’ tanto da coprire anche la più tenue ipotesi prevista dall’art. 579 c.p. Ma questa componente assiologica, la cui collocazione dogmatica sembra oscillare tra i due piani del dolo e della colpevolezza, non può certo elidere o mettere tra parentesi la componente conoscitiva del dolo la quale, peraltro, in tema


— 459 — cazione invariata della norma speciale passa attraverso l’art. 47 comma 2 c.p. (73). La prima teoria, in buona sostanza, non fa che estendere alla colpevolezza, in un modo forse eccessivamente automatico, il medesimo meccanismo di assorbimento che caratterizza sul piano oggettivo e strutturale la relazione di specialità: così come sul piano oggettivo la fattispecie speciale assorbe in sé quella generale, anche sul piano soggettivo si manifesta l’identico fenomeno di contenenza del dolo generale in quello speciale, in modo del tutto indipendente dai risvolti di maggiore o minore gravità del fatto. La seconda teoria, per contro, pur condividendo le premesse strutturali di questo approccio (74), segna certamente un punto a suo favore nel riconoscere che la colpevolezza non si adatta automaticamente alle articolazioni logico-formali delle fattispecie, ma obbedisce a propri ritmi fisiologici, in certo senso incoercibili. E pertanto, osservato che « la relazione di specialità non opera esclusivamente sul piano della struttura del fatto, ma anche su quello della sua qualità » modificando la gravità del reato, si argomenta che questa duplice efficacia del principio di specialità avrebbe di errore svolge una funzione essenziale, anzi preminente rispetto alla componente volitiva. Resta dunque l’ostacolo consistente nel fatto che del reato minore l’agente non si è rappresentato l’elemento costitutivo del consenso della vittima e di conseguenza il dolo, nella dovuta considerazione integrata di tutte le sue componenti, è assente. La mancata rappresentazione di un dato di fatto oggettivamente esistente ricade nell’ambito della norma di cui all’art. 47 c.p., che non può certo concorrere con l’art. 49 c.p. (73) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 81 ss. Il ragionamento si sviluppa attorno a due poli: l’uno attribuisce al consenso della vittima ex art. 579 c.p. natura di « elemento negativo dell’omicidio comune » e l’altro configura l’art. 47 comma 2 c.p. come l’unica « norma che punisce per il reato voluto senza, peraltro, richiedere espressamente che di tale reato siano presenti anche gli estremi oggettivi ». Ora, sul primo punto, e salvo quanto sarà detto più oltre, si può osservare che solo alle cause di giustificazione può riconoscersi — al di fuori di inammissibili accostamenti analogici che anche l’A. ha in altra sede rigettato, e in adesione ad una impostazione dogmatica autorevole, seppure contestata — natura di elementi negativi dell’illecito. L’elemento differenziale — in questo caso privilegiante — non « nega » alcunché perché il fatto permane nella sua antigiuridicità; è quest’ultima, semmai, a subire una variazione di intensità. Quanto al secondo punto, non può disconoscersi che la situazione di chi suppone erroneamente la presenza di un elemento di fattispecie che nella realtà non trova riscontro non può in nessun caso essere regolata dall’art. 47 c.p., che si riferisce esclusivamente alla inversa ipotesi di omessa rappresentazione di un dato oggettivamente esistente. Peraltro, affermare l’esistenza di una norma che avrebbe il significato ‘‘eversivo’’ di punire una condotta voluta ma non del tutto conforme, sul piano oggettivo, ad una fattispecie di reato, significa semplicemente frantumare il principio di materialità che sicuramente, anche per l’A., rappresenta un inattaccabile pilastro del nostro sistema penale. (74) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 73.


— 460 — corrispondenti riflessi sul dolo, stante che — si afferma —, nel volere un certo fatto « il soggetto non si basa solamente sulla rappresentazione degli elementi di struttura costitutivi, bensì anche, e forse soprattutto, sulla rappresentazione della qualità complessiva del fatto » (75). Si spiegherebbe così il fenomeno per il quale, se è presumibile che la volontà del fatto più grave contenga quella del reato meno grave, si deve anche presumere che la volontà del reato meno grave non possa contenere quella del reato più grave. Salvo quanto sarà rilevato più oltre, questa teoria non convince, intanto, sul piano empirico: se è ben vero che, presumibilmente, chi vuole uccidere un (supposto) dissenziente non si arresterebbe di fronte all’eventualità che la vittima designata sia in verità consenziente, tuttavia non può essere preventivamente scartata l’ipotesi inversa (76). Sul piano dogmatico la teoria criticata finisce per operare uno scambio tra il dolo in astratto ed una concreta volontà criminosa, attraverso la generalizzazione di uno dei possibili atteggiamenti psicologici dell’omicida: dalla constatazione che, in concreto, è assai probabile che chi vuole il reato più grave vorrebbe anche quello meno grave, si passa all’affermazione dogmatica, di carattere generale, che il dolo del reato più grave conterrebbe necessariamente quello del reato « privilegiato ». L’enunciato sembra assumere due distinte dimensioni, una di carattere eminentemente psicologico ed una di carattere assiologico. La validità del primo profilo dell’enunciato esce ridimensionata dal ragguaglio con la consistenza strutturale del dolo, la cui componente conoscitiva viene ingiustamente svalutata laddove si ritiene implicitamente irrilevante la mancata rappresentazione di un elemento essenziale della fattispecie privilegiata (77). La dimensione assiologica dell’enunciazione filtra, invece, attraverso la valorizzazione dell’aspetto « qualitativo » del fatto, contenuta nell’affermazione che accanto alla rappresentazione degli elementi di struttura troverebbe posto, nella ‘‘volontà’’ dell’agente, anche una distinta valutazione della complessiva gravità del fatto stesso. Non è questa la sede adatta per un approfondimento del tema appena indicato ma si potrebbe pronosticare, a seguito della ormai definitiva (75) PALAZZO, « Voluto », cit., p. 74. (76) È infatti ipotizzabile che colui il quale intende uccidere una persona nei confronti della quale nutre sentimenti di profonda avversione, proprio per questa ragione non agirebbe ove sapesse che la vittima designata consente alla propria uccisione. (77) V. supra, nota (72).


— 461 — ‘‘consacrazione’’ della concezione normativa della colpevolezza derivante dalla nota sentenza 364/88 della Corte Costituzionale, un progressivo affievolimento della componente assiologica del dolo, destinata a trovare, probabilmente, definitiva e coerente sistemazione dogmatica nell’ambito della colpevolezza, e più esattamente nella coscienza dell’illiceità, riservando al(l’oggetto del) dolo i soli elementi descrittivi e normativi della fattispecie. Un fatto sembra, però, certo, ed è che all’interno della relazione di genere a specie le differenze tra le sue forme di manifestazione sono più profonde di quanto sinora sia apparso e che il terreno della colpevolezza è quello che in maggior misura le mette in evidenza. Così, sembra a noi che, se un principio di distinzione tra l’elemento soggettivo della dicotomia ingiuria/oltraggio a quello della coppia omicidio comune/omicidio del consenziente esiste, questo non possa ravvisarsi nella rispettiva dimensione assiologica, qualificante o privilegiante, degli elementi specializzanti delle due alternative, ma piuttosto nella strutturale diversità che le caratterizza. Infatti, il dolo, come rappresentazione e volontà degli elementi essenziali del fatto, non può non modulare la sua consistenza che sui connotati strutturali delle fattispecie (78). L’analisi delle relazioni strutturali delle fattispecie ha evidenziato, com’è noto, due tipi di specialità unilaterale, per specificazione e per aggiunta. Mentre nella prima relazione l’elemento specializzante è costituito dalla specificazione di un elemento presente nella fattispecie generale, nella seconda, invece, la componente di specialità è data da un quid pluris che si aggiunge alla fattispecie generale e che pertanto, non trovando in essa alcun elemento corrispondente, è diverso (79). Dunque, mentre l’elemento specializzante della relazione di specialità per specificazione appartiene al medesimo genere del corrispondente elemento, tipizzato in forma generica, della fattispecie generale da cui geneticamente non si distingue, l’elemento specializzante della relazione di specialità per aggiunta è connaturalmente estraneo alla fattispecie generale, dove non trova tipizzato alcun elemento corrispondente (80). (78) Tra gli studi sul dolo, particolarmente fiorenti in questo scorcio, possono segnalarsi i lavori di PROSDOCIMI, Dolus eventualis, Milano, 1993; EUSEBI, Il dolo come volontà, Brescia, 1993; PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993; LICCI, Dolo eventuale, in questa Rivista, 1990, p. 1498. (79) Cfr. DE FRANCESCO, Lex, cit., p. 26, nonché CAMAIONI, Specialità, cit., p. 236, in particolare la nota (23). (80) MORO, Unità e pluralità di reati, Padova, 1951, p. 51 ss., aderisce al pensiero di Sabatini laddove afferma che la differenza tra la fattispecie generale e quella speciale « de-


— 462 — Questa congenita diversità delle due indicate relazioni di specialità reagisce in modo differenziato sul piano oggettivo e su quello della colpevolezza. Sul primo piano il rapporto di contenenza si sviluppa in modo identico quale che sia il tipo di relazione di specialità cui afferisce: la norma generale contiene sempre quella speciale di modo che, in termini di efficacia, ove non esistesse la norma speciale, il fatto ad essa corrispondente sarebbe disciplinato dalla norma generale. Sul piano soggettivo, invece, il rapporto di contenenza tra la fattispecie generale e quella speciale risente della genetica diversità delle due relazioni sopra evidenziata e si svolge in modo differenziato, come sarà qui di seguito precisato. È stato autorevolmente affermato che la componente conoscitiva del dolo non implica una rappresentazione attuale di tutti i requisiti del fatto ma include anche momenti di conoscenza soltanto potenziali (81). Questa dinamica psicologica spiega come il dolo attuale di un certo fatto di reato possa contenere implicitamente quello di un altro nella misura in cui taluno degli elementi costitutivi di questo sia oggetto di rappresentazione virtuale, nell’ambito di un fenomeno di apprensione gnoseologica direttamente ed attualmente calibrata su oggetti diversi; dinamismo psicologico che ha avuto un formale riconoscimento negli artt. 47 comma 2 e 49 comma 3 c.p., che prevedono esplicitamente la realizzazione di un certo reato col dolo di un altro. È generalmente riconosciuto che questa possibilità di contestuale integrazione del dolo di più fattispecie non è senza limiti ma è condizionata dalla relazione di specialità che deve sussistere tra le fattispecie stesse (82): si afferma, infatti, che soltanto se le fattispecie sono in rapporto di specialità è possibile che il dolo dell’una comprenda anche quello dell’altra. È necessario, a questo punto, fare un passo ulteriore nell’analisi dei rapporti tra la struttura oggettiva delle fattispecie ed il dolo, facendo compiutamente emergere la connaturale diversità che separa la specialità per aggiunta da quella per specificazione in una direzione sinora trascurata in dottrina. v’essere quella che corre tra genere e specie, non tra meno e più (...) gli elementi del reato specifico devono essere più intensi per la loro specificità, non quantitativamente maggiori e diversi ». (81) V. ROMANO, Commentario, cit., p. 379; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 265. (82) Dottrina pacifica. V. ROMANO, Commentario, cit., p. 418.


— 463 — Quest’ultima non ha mostrato di apprezzare, sul versante del dolo, le peculiarità delle due relazioni di specialità, ponendole così sul medesimo piano. Senonché, nella relazione di specialità per specificazione, la rappresentazione attuale e diretta dell’elemento specializzante implica necessariamente quella virtuale dell’elemento generico corrispondente, poiché si tratta di elementi appartenenti alla medesima famiglia concettuale. Lo stesso non può dirsi, invece, con riferimento alla relazione di specialità per aggiunta, in cui l’elemento specializzante non è specifico rispetto ad alcun elemento della fattispecie generale, ma è ulteriore. Poiché questo elemento ulteriore è, per sua natura, diverso da tutte le componenti della fattispecie generale correlata, non si capisce come sia possibile sostenere che il dolo dell’una sia compreso nell’altra quando la rappresentazione del fatto descritto nella norma speciale, proprio per la presenza dell’elemento aggiuntivo e diverso, risulta incompatibile con la rappresentazione del fatto descritto nella norma generale. Così, è legittimo affermare che chi ha il dolo di oltraggio ha necessariamente quello di ingiuria, perché la qualità di « persona » comprende necessariamente, come dato omogeneo appartenente alla medesima famiglia concettuale, quella di « pubblico ufficiale », posto che ogni pubblico ufficiale è, inoppugnabilmente, anche una persona. Al contrario, non è altrettanto lecito affermare che chi ha voluto uccidere una persona consenziente abbia voluto necessariamente e comunque realizzare un omicidio comune. In termini dogmatici questa peculiarità si spiega proprio per la presenza, nella fattispecie speciale per aggiunta, dell’elemento diverso, che impedisce al dolo di ‘‘riversarsi’’ dalla realtà ivi descritta in quella tipizzata dalla fattispecie generale. E viceversa: anche la concreta esperienza ammonisce che non è affatto vero, che chi vuole uccidere una persona della quale ipotizza, come generalmente accade, il dissenso ucciderebbe comunque, anche se la vittima fosse consenziente, con una volontà del reato generale che conterrebbe necessariamente la volontà del reato speciale (83). Dunque, mentre sul piano oggettivo è configurabile il necessario passaggio dalla fattispecie generale a quella speciale — dato che l’omicidio del consenziente passa necessariamente attraverso l’omicidio —, su quello soggettivo il dolo non manifesta analoga duttilità. In definitiva, dunque, è possibile concludere che mentre nella specia(83)

Contra PALAZZO, « Voluto », cit., p. 80.


— 464 — lità per specificazione il dolo del reato speciale contiene implicitamente quello del reato generale, nella specialità per aggiunta il dolo del reato speciale non racchiude quello della fattispecie generica. È appena il caso di avvertire che, inversamente, in entrambe le relazioni di specialità il dolo del reato generale non contiene anche quello del reato speciale per la mancata rappresentazione dell’elemento specializzante — specifico o aggiuntivo — ivi descritto. Dunque, come non è vero che chi vuole uccidere una persona della quale ipotizza il dissenso agirebbe comunque anche se conoscesse il consenso della vittima, così non è neppure vero che chi è determinato ad ingiuriare sarebbe implicitamente propenso ad oltraggiare, ove conoscesse la qualità di pubblico ufficiale dell’offeso. 6. (Segue): b) riflessi soggettivi dell’analisi dei rapporti strutturali tra fattispecie generale ed elemento specializzante. — L’inidoneità del dolo, nelle relazioni di specialità per aggiunta, al trasferimento, nei due sensi, da una fattispecie all’altra, trova spiegazione ulteriore sotto un diverso profilo, anch’esso di tipo strutturale, attinente al rapporto tra l’elemento specializzante e la fattispecie generale. Le norme giuridiche, com’è noto, non vivono isolate le une dalle altre ma integrano, ciascuna di esse e tutte nel loro insieme, un sistema unitario e, potenzialmente, coerente in tutte le sue parti. Di conseguenza, il significato e l’efficacia delle norme derivano anche dalle relazioni logiche e sistematiche tra le stesse intercorrenti (84). Nella relazione di specialità questo effetto di interdipendenza e di eterolimitazione è facilmente osservabile. La relazione di specialità che, per rimanere al classico caso delle norme di cui agli artt. 594 e 341 c.p., caratterizza i rapporti tra i delitti di ingiuria ed oltraggio implica che dal novero delle persone fatte segno a condotta ingiuriosa ex art. 594 c.p. bisogna escludere i pubblici ufficiali — che trovano tutela nell’art. 341 c.p. —, con la conseguenza che lo spettro dei significati in cui può specificarsi l’idea di « persona » subisce, a cagione della presenza della norma sull’oltraggio, la riduzione di una unità. Questa compressione dei possibili significati di ciascun elemento di fattispecie varia proporzionalmente alla pluralità di relazioni logiche e si(84) Cfr. MODUGNO, Norma (teoria gen.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 376, nonché Ordinamento giuridico (dottrine), ivi, XXX, 1980, p. 704. V. pure FIORELLA, L’errore, cit., p. 22 ss.


— 465 — stematiche che sono configurabili tra la norma che lo contiene e gli elementi delle altre fattispecie correlate. Dal raffronto delle fattispecie contenute negli artt. 575 e 579 c.p. si evince che dal novero dei possibili omicidi realizzabili ai sensi dell’art. 575 c.p. deve essere escluso quello che si riferisce ad una vittima consenziente. In altri termini, dall’analisi comparata degli artt. 575 e 579 c.p. si desume che l’art. 575 c.p. punisce l’omicidio di qualunque persona purché non si tratti di soggetto che abbia acconsentito alla propria uccisione. Inoltre, e contrariamente a quanto per solito sostenuto, il dissenso non è il solo atteggiamento psicologico, diverso dal consenso, che teoricamente può essere assunto dalla vittima di un omicidio comune; tra gli atteggiamenti ‘‘alternativi’’, infatti, deve essere inclusa anche l’indifferenza, come radicale assenza di qualsiasi articolazione mentale o emotiva (85). Riassumendo, dunque, il dissenso o l’indifferenza sono gli elementi che, con riferimento alla volontà del soggetto passivo, sembrerebbero integrare implicitamente la fattispecie di cui all’art. 575 c.p.; è come se il legislatore avesse detto: « chiunque cagiona la morte di un uomo, con il dissenso o l’indifferenza di lui, è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno ». Ma sul valore di questi elementi è bene fare chiarezza. Infatti, è stato sostenuto al riguardo (86) che sotto il profilo strutturale il rapporto di specialità non è un rapporto gerarchico ma di mero condizionamento normativo delle fattispecie. Una visione non ‘‘atomistica’’ ma organica dell’ordinamento giuridico impone di riguardare le disposizioni « alla luce di un principio di relatività », secondo cui anche la norma generale risente, nella sua struttura, della presenza, nella fattispecie speciale, degli elementi specializzanti. In particolare, la norma generale sarebbe integrata da « clausole negative implicite », ricavabili dall’analisi del significato dell’elemento specializzante. Così, ad esempio, l’art. 594 c.p., comparato con la norma speciale ex art. 341 c.p., delineerebbe una norma nella quale è implicitamente contenuto l’inciso « ... che non sia un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni ». Sicché l’elemento differenziale esplicitamente formulato avrebbe sempre una « duplice valenza » nel senso che oltre alla funzione sua propria di elemento che concorre ad integrare positivamente la fattispecie (speciale) che lo contiene, svolgerebbe altresì la funzione di integrare negativamente ed implicita(85) In dottrina, invece, si fa esclusivamente riferimento all’atteggiamento di dissenso (cfr. FIORELLA, L’errore, cit., p. 56). (86) FIORELLA, L’errore, cit., p. 22 ss.


— 466 — mente la fattispecie (generale) correlata; inoltre sarebbe soltanto una mera modalità di tecnica legislativa poco significativa la tipizzazione dell’elemento specializzante nell’una o nell’altra fattispecie correlata. La teoria, però, non può essere del tutto condivisa. Sviluppando in questa sede quanto già era stato appena accennato in precedenza (87) bisogna preliminarmente sottolineare le marcate differenze che caratterizzano, al di là di superficiali assonanze, le cosiddette clausole negative implicite da un lato e gli elementi negativi del fatto dall’altro (88). Questi ultimi, infatti, svolgono una ben diversa funzione rispetto alle clausole negative implicite, poiché mentre i primi escludono l’illiceità del fatto le seconde si limitano a graduarne il disvalore penale. Inoltre i cosiddetti elementi negativi del fatto non sono tratti implicitamente dall’analisi strutturale di altre fattispecie, ma sono situazioni (scriminanti) espressamente tipizzate dal legislatore. Infine, la loro efficacia integratrice delle fattispecie penali sembra fondarsi su una espressa previsione normativa, l’art. 59 ultimo comma c.p., mentre per i presunti elementi impliciti delle fattispecie differenziate non è stata individuata alcuna fonte legale esplicita. È innegabile che l’esame comparativo delle strutture delle fattispecie, ed in particolar modo di quelle in rapporto di specialità, consente di precisare i limiti esegetici di ciascuna norma sottraendo ad essa i significati contenuti nella disposizione correlata. Ma questa operazione di coordinamento ha soltanto valore esegetico: cioè, i cosiddetti requisiti impliciti delle fattispecie, desumibili dall’analisi delle relazioni logiche e sistematiche tra le norme, non possono giammai assumere consistenza, dignità e valore di elementi tipici (89). La ipostatizzazione degli esiti delle relazioni normative in termini di configurazione di pretesi elementi negativi impli(87) V. supra, p. 12. (88) Per la teoria degli elementi negativi del fatto è fondamentale la lettura di GALLO, Il dolo, cit., p. 228. (89) Diverso è il caso degli elementi ricavabili implicitamente dall’analisi della singola fattispecie (si pensi all’atto di disposizione patrimoniale, che secondo la corrente dottrina — cfr. per tutti ANTOLISEI, Manuale, cit., Parte spec., I, Milano, 1992, p. 302 — integra la fattispecie di truffa ex art. 640 c.p.). Mentre questo elemento implicito si ricava all’interno della norma e potrebbe per ciò definirsi « omonomico », l’elemento implicito ricavabile dal confronto sistematico con altre fattispecie palesa in ciò la sua fondamentale diversità e potrebbe per questo qualificarsi « eteronomico ». I due tipi di elementi hanno in comune il solo fatto di non essere espressamente tipizzati e di ricavarsi, quindi, implicitamente; ma mentre il primo appartiene alla singola fattispecie, il secondo appartiene al sistema normativo. Mentre il primo ha natura particolare e si desume con metodo analitico, il secondo ha natura generale e astratta e si ricava con metodo sintetico, sistematico. L’elemento implicito omonomico non aggiunge nulla ma soltanto rende esplicito ciò che esiste già seppure in modo inespresso; l’elemento implicito eteronomico, invece, aggiunge un dato che dalla sin-


— 467 — citi all’interno della norma generale è dunque un’operazione arbitraria, non foss’altro perché, com’è evidente, attribuisce all’interprete una funzione che deve essere riservata al legislatore, cui spetta in via esclusiva il compito discrezionale di descrivere i tipi di reato: la insanabile lesione del principio di frammentarietà, che conseguirebbe alla ipotizzata abilitazione a ‘‘colmare’’ esegeticamente i ‘‘vuoti’’ normativi delle fattispecie penali, sarebbe evidentissima (90). Ma altre ragioni ostano all’accoglimento della teoria delle cosiddette clausole negative implicite come elementi che integrerebbero le fattispecie, ed un ulteriore esempio renderà più agevole il discorso. Così, per restare nell’ambito dell’omicidio, se si fosse operato il raffronto tra l’art. 575 c.p. e l’abrogato art. 587 c.p. — che puniva l’omicidio e le lesioni per causa d’onore — si sarebbe dovuto ritenere che la prima disposizione, di carattere generale, contenesse implicitamente nella sua struttura anche il seguente inciso: « ... che non sia del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia ». Ed ancora, riguardando la disposizione contenuta nell’art. 578 c.p., bisognerebbe concludere che la struttura della norma di cui all’art. 575 c.p. è anche composta dall’inciso « ... che non sia del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto ecc... ». E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Ora, se ciascuna fattispecie dovesse effettivamente considerarsi composta, non soltanto dagli elementi ivi tipizzati, ma anche da tutti gli eventuali elementi ‘‘differenziali’’ impliciti, ricavabili a contrario dall’esame sistematico di tutte le altre fattispecie correlate, ne deriverebbe una incontrollata espansione, una gigantesca ipertrofia della fattispecie, la cui struttura non avrebbe più la necessaria ‘‘staticità’’, perché varierebbe secondo le plurime relazioni logico-formali intercorrenti tra le medesime. Sotto il profilo psicologico, poi, ai fini dell’integrazione del momento rappresentativo del dolo, il soggetto agente avrebbe dinanzi un compito gnoseologico praticamente irrealizzabile, dovendo rappresentarsi, oltre agli elementi costitutivi esplicitamente tipizzati, un complesso, più o meno ampio, di elementi ‘‘impliciti’’. gola norma non è ricavabile neppure in modo inespresso. Il dolo deve rimanere, com’è ovvio, nell’ambito di ogni singola norma e non può abbracciare più fattispecie. (90) Anche FIORELLA, op. cit., p. 44, riconosce che la valorizzazione dell’elemento implicito della fattispecie differenziale, ricavato esegeticamente dal raffronto con quella correlata, probabilmente collide col principio di legalità.


— 468 — Si deve, dunque, affermare risolutamente che, indipendentemente dalle relazioni sistematiche che ciascuna fattispecie è capace di stabilire all’interno di un dato ordinamento, essa è rigorosamente delimitata, quanto alla sua tipicità, dai soli elementi espressamente descritti dal legislatore. Tornando, adesso, al rapporto tra omicidio comune ed omicidio del consenziente, esso è del tipo elemento tipizzato-elemento mancante, poiché i possibili elementi desumibili in via sistematica — dissenso ed indifferenza — hanno la capacità di circoscrivere la sfera di efficacia della norma ma non quella, come visto, di integrarne la tipicità. Anche nella relazione di specialità per specificazione è possibile assistere al medesimo fenomeno di eterolimitazione dell’efficacia normativa delle disposizioni attraverso l’analisi delle loro connessioni logiche e sistematiche; ma il rapporto non è già del tipo elemento tipizzato-elemento mancante, bensì del tipo elemento generico-elemento specifico. In questo genere di relazione l’elemento correlato a quello specializzante è tipizzato in forma generica, e dunque è sussistente, non già mancante. Il rapporto che intercorre tra l’elemento tipizzato in forma speciale ed il corrispondente elemento tipizzato in forma generale è veramente ed effettivamente di genere a specie, poiché tra tali elementi sussiste un legame di logica discendenza dell’uno dall’altro. Non è vero rapporto di genere a specie, invece, quello che caratterizza la c.d. specialità per aggiunta, perché tra l’elemento specializzante tipizzato e quello non tipizzato — cioè mancante —, ricavato implicitamente per relationem, non sussiste alcuna relazione di genus ad speciem, cioè di concettuale derivazione dell’uno dall’altro. Infatti, analizzando il consenso tipizzato nell’art. 579 c.p. ed il dissenso (o indifferenza), non tipizzato ma desumibile dall’art. 575 c.p., non esiste tra di loro rapporto di logica derivazione, trattandosi di concetti incompatibili o di significato opposto (91). (91) La specialità vera e propria, in senso stretto, è dunque la sola specialità per specificazione. Quella c.d. per aggiunta è, in definitiva, una pseudo-specialità: infatti, l’elemento ‘‘mancante’’ viene riempito con un elemento ricavato al di fuori della disposizione, in modo eteronomico. Esso, dunque, non può ‘‘integrare’’ neppure implicitamente la fattispecie. È per questo che esso non può rientrare nell’oggetto del dolo e di conseguenza la vicenda dell’errore non lo può riguardare. La sua origine sistematica gli attribuisce natura esclusivamente logica, che gli impedisce di ‘‘materializzarsi’’ in un vero e proprio elemento di fattispecie. Al contrario, nella specialità per specificazione l’elemento generale contiene implicitamente tutti i concetti di specie ad esso riferibili. Il rapporto di derivazione dell’elemento specifico da quello generico richiama il modello di integrazione « omonomico » perché ri-


— 469 — Anche il concetto di « pubblico ufficiale » è ‘‘diverso’’ da quello di « persona », ma si tratta della diversità che caratterizza e distingue l’ideamadre dall’idea-figlia; è una diversità che non può essere assimilata, omologata, a quella che caratterizza il concetto di « consenso » rispetto a quelli di « dissenso » o « indifferenza ». Tra questi ultimi tre concetti non è possibile isolarne uno che funga da genus rispetto agli altri; questi concetti non possono schematicamente ed idealmente essere inseriti in una linea (di discendenza) verticale, ma piuttosto possono collocarsi su un medesimo piano orizzontale, uno accanto all’altro. Ciascuno di questi non può assumere il valore di idea-madre perché ciascuno di essi è idea-figlia, derivante da un concetto di genere che non è tipizzato: l’atteggiamento interiore del soggetto passivo. Il consenso, il dissenso e l’indifferenza sono, infatti, le forme, le species che può assumere la volontà (concetto di genere) di una persona rispetto ad una certa prospettiva — cioè la propria uccisione — che può essere voluta, disvoluta o puramente trascurata. Sotto il profilo soggettivo, mentre la rappresentazione dell’elemento tipizzato in forma specifica comprende per relationem quello tipizzato in forma generica, non può invece comprendere quello mancante, perché il procedimento mentale di apprensione gnoseologica consente la contestuale rappresentazione, in modo attuale e virtuale, dei concetti legati da una relazione di genere a specie ma non anche di quelli che non presentano analogo tipo di rapporto. Mentre è agevole il passaggio dall’idea di « pubblico ufficiale » a quella di « persona », così come quello dall’idea di « consenso » a quella di « volontà », non è altrettanto spontaneo il passaggio dall’idea di « consenso » a quella di « dissenso » (o « indifferenza »). Tradotto in termini dogmatici, quanto sopra osservato in termini psicologici significa che mentre il dolo dell’elemento (specializzante e) specifico comprende necessariamente quello dell’elemento generico, il dolo dell’elemento (specializzante) tipizzato non comprende quello dell’elemento non tipizzato, cioè mancante nella fattispecie generale. È ben vero che un omicidio di un consenziente comprende un (fatto di) omicidio, perché il primo passa necessariamente attraverso il secondo; ma questa scomposizione di un fatto tipico alla ricerca dei suoi elementi mane nell’ambito dei significati compresi nell’elemento generico. Le norme poste in rapporto di specialità per specificazione sono collegate da un elemento veramente ‘‘comune’’, perché si tratta dello stesso elemento che si presenta in una fattispecie sotto l’aspetto generico e nell’altra fattispecie assumendo l’aspetto di uno dei possibili significati implicitamente contenuti nell’elemento generico stesso. L’elemento specifico integra implicitamente la fattispecie generica e dunque il dolo della fattispecie specifica integra implicitamente anche il dolo di quella generica.


— 470 — costitutivi è possibile soltanto sul piano logico e astratto della struttura oggettiva della fattispecie. Il dolo, invece, è un fenomeno psicologico concreto e soggettivo, cioè storicamente individuato ed irripetibile, che non può frazionarsi secondo le componenti strutturali delle fattispecie cui attiene. Soltanto le leggi della psicologia decidono cosa includere nel dolo e cosa escludere in relazione ad una fattispecie tipica, e non già le leggi della logica. Per questo, mentre è logicamente corretto affermare che l’omicidio del consenziente è un omicidio comune più il consenso della persona uccisa, non è psicologicamente lecito affermare che il dolo dell’omicidio del consenziente è il dolo dell’omicidio comune più la rappresentazione del consenso della vittima, in modo tale che se si eliminasse il dato oggettivo del consenso, e correlativamente il dolo ad esso corrispondente, resterebbe il fatto oggettivo dell’omicidio comune con il ‘‘residuo’’ dolo ad esso relativo. Il dolo dell’omicidio del consenziente, per così dire, nasce e muore con tutte le note caratteristiche iniziali, che sono insuscettibili di aggiunte o ‘‘amputazioni’’ che consentano, per ipotesi, di adattarlo a realtà oggettivamente difformi. Per questo, se l’agente voleva l’omicidio di un dissenziente (o indifferente) non poteva ‘‘contemporaneamente’’ volere l’omicidio di un consenziente; e così pure bisogna concludere nell’ipotesi inversa, per cui se l’agente voleva l’omicidio di un consenziente non voleva certamente anche un omicidio di un dissenziente (o indifferente), vale a dire un omicidio comune. 7. Il nodo problematico dell’erronea supposizione dell’elemento specializzante nella relazione di specialità per aggiunta. — Conviene a questo punto affrontare la problematica in discorso, in vista di una ulteriore e definitiva verifica, dall’angolo visuale delle norme in tema di errore contenute nel codice penale, che ad essa possono attagliarsi. L’errore sull’elemento specializzante può certamente essere riguardato, in termini più generali, nell’ambito della divergenza tra « voluto » e « realizzato », problematica che coinvolge più istituti (92). (92) Alle norme cui tradizionalmente viene assegnata la funzione di risolvere tale problematica — e cioè gli artt. 47, 49 e 83 c.p. — bisogna aggiungere l’art. 56 c.p. Infatti, tutte le volte in cui la volontà di realizzare un certo fatto non riesca a tradursi in un compiuto reato, ma gli atti posti in essere configurino di per sé un diverso illecito, si verifica una divergenza tra voluto e realizzato, cioè la contestuale ricorrenza dell’elemento oggettivo di una fattispecie e del dolo di un’altra (es. omicidio tentato e lesioni personali: in tal caso è


— 471 — Il terreno specifico sul quale si muove il presente studio, però, impone di escludere dall’analisi sia il tentativo che l’aberratio. E ciò perché le sole ipotesi di divergenza tra « voluto » e « realizzato » che ci proponiamo di approfondire sono quelle in cui l’errore si situa nella fase cognitiva, ideativa del reato, mentre le due figure che vengono pretermesse sono caratterizzate da una anomalia dello sviluppo esecutivo della condotta illecita (93). A ciò si aggiunga che lo schema dell’art. 83 c.p. non sarebbe certo riferibile alla dicotomia omicidio comune/omicidio del consenziente — emblematicamente assunta come uno dei due poli di riferimento dell’intera indagine — poiché l’aberratio implica una diversità di eventi (94) che nella specie non è ravvisabile. Senza contare che non pare neppure raccomandabile una soluzione che faccia ricorso ad un istituto che si ispira al principio del versari in re illecita (95). Quanto all’istituto del tentativo, così come è disciplinato dall’art. 56 c.p., occorre precisare che il suo campo di operatività sarebbe comunque ristretto ai casi in cui il reato voluto sia rimasto inseguito o per l’incompiutezza della condotta o per la mancata produzione dell’evento. Per cui, nell’ambito dei reati in rapporto di specialità — che costituisce l’oggetto della presente analisi — lo schema del tentativo sarebbe configurabile soltanto quando l’elemento specializzante, su cui incide l’errore, rappresenta un momento del complessivo iter criminis ovvero l’evento tipico del reato. Ma se è così, la figura del tentativo non può certo ricorrere nel caso di erronea supposizione del consenso del soggetto passivo di un delitto di omicidio: non è, cioè, configurabile un tentativo di omicidio del consenesclusa la configurabilità del reato aberrante perché gli eventi — omicidio e lesioni — non sono diversi, ma rappresentano una graduazione di intensità dell’offesa al medesimo bene giuridico). (93) Così ROMANO, Commentario, cit., p. 687. Questo tradizionale punto di vista non è tuttavia pacifico. In senso contrario v., ad es., MARINI, Omicidio, cit., p. 528. Nel senso che anche l’aberratio andrebbe comunque sistemata nell’ambito del reato doloso cfr. per tutti, LEONE, Il reato aberrante, Napoli, 1964, p. 58. Un’accurata analisi dei rapporti tra art. 47 e art. 83 c.p., con esiti tuttavia problematici, in PALAZZO, « Voluto », cit., p. 52 ss. (94) ROMANO, Commentario, cit., p. 687. Non ci sono preclusioni, invece, per PALAZZO, « Voluto », cit., p. 30, che nell’esame delle ipotesi di divergenza tra voluto e realizzato, include anche l’art. 83 c.p., come norma che concorre alla loro disciplina. (95) È prevalente, infatti, l’opinione di chi ravvisa nell’aberratio delicti un caso di responsabilità oggettiva. Cfr., sul punto, per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 292.


— 472 — ziente ‘‘in concorso’’ con un omicidio comune perché le fattispecie previste negli artt. 579 e 575 c.p. non si differenziano, nell’elemento specializzante, né per un diverso grado di sviluppo dell’azione né in relazione alla produzione dell’evento, dal momento che in entrambe le tipizzazioni sia l’una che l’altro sono perfettamente identici. La discrasia tra le due fattispecie, infatti, poggia su un dato che non ha alcuna attinenza con la dinamica del reato poiché, invece, riguarda un dato statico, e cioè l’atteggiamento interiore della vittima, che nell’art. 579 c.p., a differenza dell’art. 575 c.p., è esplicitamente tipizzato in forma di adesione alla condotta omicida (96). Ridotto così l’ambito normativo rilevante all’area disciplinata dagli artt. 47 e 49 c.p., occorre ribadire che il rapporto tra queste due disposizioni è di inversione (97), nel senso che mentre la prima norma ipotizza un agente che ritiene assente un elemento di fattispecie in realtà presente, nel reato putativo, invece, si verifica l’ipotesi opposta di erronea supposizione di un requisito del fatto in realtà assente (98). In entrambe le norme si verifica un errore che esclude la punibilità della condotta realizzata dall’agente; ma mentre l’art. 47 c.p. prevede la realizzazione oggettiva di un (96) Il problema sinora analizzato dell’errore sull’elemento specializzante di una fattispecie speciale per aggiunta non esaurisce l’intero spazio teorico della regolazione giuridica dei casi di divergenza tra voluto e realizzato, appartenendo a questo ambito anche le ipotesi in cui le fattispecie ‘‘confliggenti’’ non siano inserite in una relazione di specialità. Questa ipotesi è emblematicamente esemplificata da due disposizioni non più vigenti, gli abrogati artt. 545 e 546 c.p., che punivano, con sanzioni differenziate, l’aborto di donna non consenziente e quello di donna consenziente (e un’ipotesi simile è quella rappresentata dagli artt. 314 e 315 c.p. prima della novella del 1990: il peculato, infatti, riguardava beni della pubblica amministrazione mentre la malversazione si riferiva a beni ad essa non appartenenti). La peculiarità strutturale di questa coppia di norme, rispetto a quella ex artt. 575 e 579 c.p., consiste nel fatto che nella fattispecie più grave, cioè l’aborto di donna non consenziente, il dissenso è esplicitamente tipizzato. Viene meno, così, ogni possibilità di individuazione di una relazione di specialità purchessia tra gli artt. 545 e 546 c.p., dato che il consenso previsto in quest’ultima disposizione non può considerarsi né genus, né species, né quid pluris rispetto al dissenso tipizzato nell’art. 545 c.p. Ad un nucleo comune di azione ed evento le due fattispecie aggiungono elementi tra di loro antitetici: il consenso ed il dissenso del soggetto passivo. L’equivalenza delle articolazioni strutturali delle due fattispecie, inoltre, osta alla configurazione del rapporto elemento tipizzato-elemento mancante che caratterizza tutte le relazioni di specialità per aggiunta (sul punto cfr. CAMAIONI, Specialità, cit., p. 234). La relazione può, dunque, definirsi di alternatività. Benché l’errore sul consenso — o, inversamente, sul dissenso — della donna che ha abortito non possa qualificarsi come errore sull’elemento specializzante della fattispecie, tuttavia si verifica anche qui la singolarità dell’oggettiva realizzazione di un reato con il dolo tipico di un altro. (97) ROMANO, Commentario, cit., p. 430; MARINI, Omicidio, cit., p. 527 ss. (98) Contra PATALANO, Omicidio, cit., p. 972, il quale ritiene che al caso di erronea supposizione del consenso vada applicato l’art. 47 c.p.


— 473 — fatto che costituisce reato, l’art. 49 c.p. ipotizza il caso inverso di un reato soltanto supposto perché in realtà insussistente. L’attinenza col tema del presente lavoro risiede nel fatto che le due norme descrivono anch’esse ipotesi di divergenza tra « voluto » e « realizzato », e pertanto concorrono a pieno titolo a regolare il caso problematico ed emblematico di chi uccide una persona ignaro del di lei consenso alla propria morte e, inversamente, di chi sopprime un altro individuo supponendo erroneamente la sua adesione al fatto. Le norme che specificamente disciplinano le due situazioni sono contenute sia nel capoverso dell’art. 47 c.p. che nel terzo comma dell’art. 49 c.p. Entrambe le disposizioni sanciscono la (residua) punibilità per il reato ‘‘diverso’’, ma poiché le situazioni descritte nelle due norme sono inverse anche l’esito normativo non può che essere opposto: infatti, mentre l’art. 47 cpv. c.p. punisce per il reato voluto (99), l’art. 49 comma 3 punisce invece, come testualmente recita la disposizione, per « il reato effettivamente commesso ». Ora, l’imprescindibile rispetto del principio di materialità, prima che di colpevolezza, impone di ritenere che i reati ‘‘diversi’’, dei quali si risponde rispettivamente ai sensi degli artt. 47 cpv. e 49 comma 3 c.p., devono comunque aver trovato oggettivo riscontro. L’avvertenza riveste un particolare significato per la situazione disciplinata dall’art. 47 cpv. c.p., che punisce, come già detto, per il reato (soltanto?) voluto: si potrebbe, infatti, essere indotti ad ipotizzare la punibilità di un fatto oggettivamente non realizzato ma soltanto ideato e inutilmente perseguito (100). Se si chiede come possa accadere che si voglia realizzare un reato e se ne commetta invece un altro ponendo in essere un’unica condotta, la dottrina concordemente risponde che il fatto realizzato costituisce il nucleo di due diverse disposizioni, tra le quali, quindi, deve necessariamente sussistere un rapporto di specialità (101). Esaminando quindi l’art. 47 cpv. c.p., bisogna allora ritenere che il (99) Così PALAZZO, « Voluto », cit., p. 82, il quale però conclude che l’art. 47 comma 2 c.p. non postulerebbe altresì la ricorrenza, nel fatto realizzato, di tutti gli estremi oggettivi del reato voluto, e dunque si potrebbe essere chiamati a rispondere di un reato soltanto voluto ma oggettivamente non realizzato. Contra, però, GALLO, Il dolo, cit., p. 189. (100) Cfr. nota precedente. (101) Ciò di regola, poiché è anche possibile che le norme abbiano in comune soltanto una parte del fatto e non si trovino in rapporto di specialità, come nel caso degli abrogati artt. 545 e 546 c.p., nonché artt. 314 e 315 c.p. prima della riforma. Sul punto, v. supra, nota (96).


— 474 — reato del quale si risponde è quello generico poiché, come detto, l’errore consiste nella mancata rappresentazione di un elemento costitutivo del fatto, e cioè dell’elemento specializzante. E poiché, come già rilevato, la stessa norma punisce per il reato voluto, non c’è alcun dubbio che il titolo soggettivo della punibilità del reato generico non può che essere quello doloso. Si può quindi affermare che nelle ipotesi di norme in rapporto di specialità, l’agente che per errore sul fatto omette di rappresentarsi l’elemento specializzante effettivamente esistente ha comunque il dolo del reato generale e di questo risponde perché i suoi estremi, ‘‘attraverso’’ la obiettiva realizzazione del reato speciale, sono stati anch’essi realizzati. Si tratta ora di verificare gli esiti di questo contrappunto normativo nello specifico ambito problematico prefisso, e cioè nella dicotomia tra le due forme di specialità, per specificazione e per aggiunta. Così, nel caso di specialità per specificazione, chi oltraggia una persona ignorandone la qualità di pubblico ufficiale risponde del delitto di ingiuria — reato generale rispetto a quello di oltraggio — perché di questo reato, effettivamente voluto, sono certamente presenti, nella condotta dell’agente, sia i requisiti oggettivi che quelli soggettivi: l’applicazione dell’art. 47 cpv. c.p. consente di risolvere agevolmente l’ipotesi esemplificata. Esaminando adesso l’art. 49 comma 3 c.p., il carattere ‘‘putativo’’ della disposizione implica che l’elemento specializzante sia oggettivamente inesistente, e dunque soltanto erroneamente supposto. La norma sancisce, in tema di punibilità, l’applicabilità della pena prevista per il reato effettivamente commesso. Nel caso precedentemente esemplificato, allora, l’agente che offende l’onore di una persona della quale suppone erroneamente la qualità di pubblico ufficiale risponde, ovviamente a titolo di dolo, del reato di ingiuria effettivamente realizzato. La relazione di specialità per aggiunta, invece, proprio a cagione delle peculiarità in precedenza evidenziate, riassumibili nella eterogeneità dell’elemento specializzante, reagisce alle due normative ex artt. 47 e 49 c.p. in modo particolare. Ora, l’ipotesi di mancata rappresentazione dell’elemento specializzante aggiuntivo viene regolata senza difficoltà dal capoverso dell’art. 47 c.p., e dunque chi uccide ignorando il consenso della vittima effettivamente esistente risponde del diverso reato di omicidio comune da lui voluto e del quale, peraltro, sussistono gli estremi oggettivi. Nell’ipotesi inversa di erronea supposizione dell’elemento specializ-


— 475 — zante aggiuntivo, l’applicazione dell’art. 49 comma 3 c.p. appare invece problematica. Infatti, il reato effettivamente commesso, del quale l’agente dovrebbe rispondere, non è voluto e dunque non gli può essere attribuito a titolo di dolo: come si è già osservato, nelle ipotesi di specialità per aggiunta la compenetrazione dei momenti soggettivi non soltanto non è implicita — come nella specialità per specificazione — ma è in linea di principio addirittura da escludere. Ciò dipende, come detto, dalla presenza dell’elemento ‘‘aggiuntivo’’ che, per la sua eterogeneità rispetto agli elementi tipizzati nella fattispecie generica, osta alla interagibilità dei rispettivi doli delle fattispecie correlate; sicché, chi vuole un omicidio del consenziente non soltanto non vuole implicitamente un omicidio comune ma addirittura, in linea di principio, non può volerlo del tutto. Pertanto, se in applicazione dell’art. 49 comma 3 c.p. l’agente deve rispondere del reato effettivamente commesso, e cioè di omicidio comune, non può però risponderne a titolo di dolo (102). In sintesi, mentre nella specialità per specificazione l’erronea supposizione dell’elemento specializzante consente la punibilità, per dolo, del reato generico, nella specialità per aggiunta ciò non è possibile. Sintetizzando, pertanto, il risultato sin qui acquisito, si deve concludere che mentre le ipotesi di errore che incide in una relazione di specialità per specificazione trovano agevole soluzione nel combinato disposto degli artt. 47 e 49 c.p., l’errore che cade in una relazione di specialità per aggiunta risulta soddisfacentemente regolato soltanto nel caso ipotizzato dal capoverso dell’art. 47 c.p. Invece l’art. 49 comma 3 c.p. non pare applicabile a questo tipo di specialità nella misura in cui disciplina la punibilità per dolo del reato effettivamente commesso, data l’impossibilità di riscontrare in esso il necessario contributo di volontà. L’art. 49 comma 3 c.p., però, diversamente dall’art. 47 c.p. — che postula una punibilità esclusivamente dolosa — non pone alcuna preclusione rispetto a forme di colpevolezza diverse dal dolo, e dunque risulta virtualmente applicabile ai casi di responsabilità colposa. In altre parole, l’art. 49 comma 3 c.p. offre la sua disciplina non soltanto al caso in cui il reato effettivamente commesso sia stato realizzato con dolo ma anche ove esso sia dipeso di colpa. L’acquisizione di questo dato non è di scarso rilievo, perché si profila così la teorica possibilità che dell’omicidio comune effettivamente com(102) È ovviamente diverso il caso di colui che sia intenzionato ad uccidere il consenziente senza però escludere l’eventualità del dissenso. In tal caso la punibilità ex art. 575 c.p. dipenderebbe, però, dalla presenza di due distinti doli.


— 476 — messo l’agente risponda, a norma dell’art. 49 comma 3 c.p., a titolo di colpa, ai sensi dell’art. 589 c.p. Naturalmente questa ulteriore chance dipende, a sua volta, dalla possibilità di riscontrare concretamente profili di colpa; il che è quanto dire che la punibilità per omicidio colposo dipende dalla eventualità che l’agente abbia, per negligenza, erroneamente supposto la presenza del consenso della vittima. Si potrebbe però obiettare che questo tipo di errore, e cioè quello che cade sulla sussistenza del consenso della vittima, non incide su un elemento costitutivo della fattispecie di omicidio comune, del quale in ipotesi si dovrebbe rispondere, ma su una componente della fattispecie ex art. 579 c.p., della quale, però, l’agente non è chiamato a render conto. A ciò si potrebbe anche aggiungere che la regola di diligenza che si assume ipoteticamente violata non costituisce il primo polo del nesso condizionalistico alla fine del quale si pone l’evento-morte, ma determina soltanto l’erronea supposizione di una certa condizione del soggetto passivo — il suo consenso — ed in definitiva il mero passaggio da un titolo di reato ad un altro: non si tratterebbe, dunque, di un omicidio cagionato per colpa. Né si potrebbe sostenere che l’erronea supposizione del consenso ex art. 579 c.p. si traduce in un errore sul dissenso ex art. 575 c.p., consentendo così all’errore di ‘‘trasferirsi’’ da una fattispecie all’altra. Questa operazione è dogmaticamente scorretta perché, come già rilevato, ipostatizza un elemento — il dissenso del soggetto passivo nel reato ex art. 575 c.p. — in realtà non tipizzato e dunque insussistente, ma ricavato a contrario dal raffronto sistematico con la fattispecie ex art. 579 c.p. (103). Nonostante la serietà delle obiezioni che a prima vista sembrerebbero ostare alla configurabilità dell’ipotesi colposa, la direzione del loro superamento potrebbe forse trovarsi nella considerazione che imputare di colpa un omicidio non significa esclusivamente che l’evento-morte sia stato cagionato con una condotta negligente, ma soltanto che la realizzazione dell’omicidio è dipesa da un comportamento nel quale sono ravvisabili profili di colpa. In questo caso, però, la colpa non si innesta nella catena causale che conduce alla produzione dell’evento tipizzato, rispetto al quale, dunque, non assume rilievo eziologico; essa, invece, esaurisce la (103) È l’espediente tecnico cui si ricorre da parte di chi, attraverso l’analisi strutturale e sistematica delle fattispecie, ritiene di poter conseguire risultati valevoli non soltanto sotto un profilo interpretativo ma anche sotto quello della tipicità (così PALAZZO, « Voluto », cit., p. 83; FIORELLA, L’errore, cit., p. 70). Però v. n. 6.


— 477 — sua funzione nella mera qualificazione giuridica del fatto di reato. In altri termini, ciò che si rimprovera all’agente non sarebbe già di aver realizzato, per colpa, un reato, ma piuttosto di aver causato, per colpa, un reato diverso da quello voluto; la colpa, in tal caso, non determina il reato ma il mutamento del suo titolo. Questa particolare prospettiva passa attraverso la necessità di rinunciare ad individuare nell’evento naturalistico descritto dalla fattispecie causalmente orientata l’unico risultato della progressione eziologica innescata dalla colpa, perché così ragionando la possibilità di introdurre un momento colposo nell’erronea supposizione del consenso viene meno: infatti, l’evento-morte è stato certamente cagionato intenzionalmente e non per colpa. È necessario quindi allargare la prospettiva dal semplice evento all’intera fattispecie, globalmente intesa, in modo da valorizzare tutte le sue note oggettive, ivi comprese quelle ulteriori rispetto all’evento: la colpa così non va più collegata al solo evento ma a ciascun elemento di fattispecie e ad essa stessa, nella sua globalità e nel suo titolo giuridico. Solo così è possibile affermare che colui il quale voleva un omicidio del consenziente, e supponendo colposamente esistente il consenso della vittima abbia invece cagionato la morte di un dissenziente, ha colposamente realizzato un omicidio comune. Peraltro, al nostro sistema non è estranea la radicazione di un momento colposo in seno ad una divergenza tra fatto voluto e fatto realizzato: l’art. 116 c.p., nella interpretazione correttiva della Corte Costituzionale (104), sembra infatti esprimere un rimprovero di colpa che assume ad oggetto non tanto la realizzazione del reato quanto il mutamento del suo titolo. Il reato punibile, infatti, come prodotto di una individuale variante al piano comune, volontariamente apportata da uno dei concorrenti, è realizzato con dolo e non trae origine, per ciò stesso, da un impulso causale colposo. Poiché al concorrente che voleva il reato diverso viene rimproverato di aver contribuito, con un comportamento tendenzialmente colposo, alla realizzazione di un reato da altri commesso con dolo, si configura una ‘‘colpa’’ che non è causalmente collegata con l’evento effettivamente prodotto ma con la variazione di reato determinatasi. A questo concorrente si rimprovera non già di aver materialmente contribuito alla realizzazione di un certo reato, ma di aver concorso alla realizzazione di un reato diverso da quello progettato, nonostante fosse preve(104)

V. Corte Cost. 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, II, p. 598.


— 478 — dibile (∃ colposa) la variazione di programma. La colpa è quindi connessa con la variazione del reato (105). Nel caso di omicidio di persona della quale si sia erroneamente supposto il consenso, si potrebbe quindi affermare che ciò che si rimprovera all’agente non è già di aver determinato per colpa la morte di una persona, ma di aver determinato, per colpa, un reato (di omicidio) diverso da quello programmato (106). Allo stesso risultato si potrebbe pervenire con una adeguata valorizzazione del carattere di concretezza che deve contrassegnare l’evento (107). Se si riconosce che l’evento effettivamente voluto non si è realizzato, mentre l’agente ha cagionato un evento soltanto in astratto assimilabile a quello prefisso, ma concretamente diverso per la presenza, o l’assenza, di note peculiari colposamente non considerate, o erroneamente e colposamente supposte, bisogna concludere che l’evento concreto è stato realizzato con colpa e non con dolo. Esemplificando: se l’agente voleva l’evento-morte consentita ed invece ha cagionato, per errore colposo, un evento-morte non consentita, soltanto in astratto può dirsi che l’agente abbia voluto l’evento-morte effettivamente realizzato, poiché non si tiene conto della nota peculiare — il consenso — che caratterizza l’evento voluto e lo diversifica dall’evento realizzato. Se si accetta che anche sul piano fenomenico una uccisione consentita è diversa da una uccisione non consentita, non c’è alcuna difficoltà a riconoscere che l’evento effettivamente realizzato non è stato cagionato intenzionalmente ma, semmai, con colpa. L’agente che vuole sopprimere una persona consenziente deve diligentemente verificare la presenza del consenso; ove questo accertamento sia stato negligente e a cagione di ciò si sia determinato un (diverso) evento, di esso l’agente può e deve rispondere a titolo di colpa. Non sembrano sussistere, dunque, sul piano dogmatico, difficoltà insuperabili. Ma bisogna anche rilevare — ricordando quanto già osservato (105) Sul tema, in generale, v. FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990. La configurabilità della fattispecie ex art. 116 c.p. come illecito colpevole non è pacifica in dottrina. Cfr. al riguardo, INSOLERA, Concorso di persone nel reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 486 ss. (106) Anche nel caso di chi intendeva oltraggiare è ipotizzabile che l’erronea supposizione della qualità di pubblico ufficiale della persona offesa sia dipesa da colpa; ma la volontà di offendere è comunque presente e dunque il momento colposo è, per così dire, surclassato dal dolo che caratterizza entrambe le fattispecie. (107) Cfr. ROMANO, Commentario, cit., p. 325.


— 479 — a proposito della soluzione ‘‘analogica’’ (108) — che ciò che sembra ostare a questa soluzione è la considerazione integrata dei livelli edittali di pena previsti per le varie ipotesi, che evidenzia discrasie illogiche ed assai inique. Infatti, mentre chi cagiona la morte di una persona col suo consenso subisce una pena detentiva da sei a quindici anni, colui che invece uccide una vittima del tutto dissenziente e della quale ha erroneamente, ma colposamente, ipotizzato il consenso, se si accogliesse la soluzione qui prospettata beneficierebbe paradossalmente di una sanzione penale assai più blanda per omicidio colposo, che prevede una pena detentiva da sei mesi a cinque anni (109). Ancora, ove l’erronea supposizione del consenso sia del tutto incolpevole, l’art. 49 comma 3 c.p. non risulta in alcun modo applicabile perché, a meno di non voler introdurre in controtendenza una ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva, la punibilità per il reato effettivamente commesso non può che essere connessa ad una responsabilità colpevole. In termini di punibilità l’assoluta impunità di questa ipotesi stride ancor di più con i livelli sanzionatori dell’ipotesi di omicidio di persona effettivamente consenziente. Queste considerazioni risulterebbero certamente meno ostative ove si ritoccassero legislativamente i livelli edittali di pena, e segnatamente quelli dell’omicidio colposo, in una misura che, valorizzando maggiormente il disvalore del reato di cui all’art. 589 c.p., attenui la ormai anacronistica ‘‘forbice’’ con le ipotesi, maggiori e minori, di omicidio doloso. Riassumendo quanto sin qui analizzato, si deve trarre un bilancio della questione invero non molto lusinghiero: se da un canto appare innegabile che in linea di principio alle ipotesi di erronea supposizione di un elemento specializzante debba applicarsi la norma contenuta nel terzo comma dell’art. 49 c.p., è però emersa la contraddittorietà della sua applicazione all’ipotesi di erronea supposizione di un elemento aggiuntivo, dato che il dolo del reato soltanto voluto è incompatibile con quello del reato effettivamente realizzato. Ed è apparsa problematica anche la regolazione, sempre ai sensi dell’art. 49 comma 3 c.p., dell’ipotesi colposa, per (108) Cfr. supra, n. 2. (109) Per questo non è condivisibile la teoria di chi (MARINI, Omicidio, cit., p. 528), applicando lo schema dell’art. 83 c.p., perviene all’identica conclusione che l’erronea supposizione del consenso andrebbe trattata alla stregua dell’omicidio colposo. Peraltro nei casi in cui l’erronea supposizione dell’elemento specializzante si riferisca a reati dei quali non è prevista la punibilità a titolo di colpa, l’esito sarebbe ancor più iniquo perché comporterebbe l’assoluta impunità dell’agente.


— 480 — via dei paradossi sanzionatori emersi dal raffronto tra gli artt. 589 e 579 c.p. Infine, si è anche riscontrata l’inapplicabilità dell’art. 49 comma 3 c.p. alle ipotesi di errore incolpevole. 8. Considerazioni conclusive. — Mentre l’analisi del dolo e dell’errore nella relazione di specialità per specificazione non ha evidenziato momenti di particolare difficoltà, l’esame delle soluzioni proposte al problema dell’errore sul consenso della persona uccisa, e più in generale a quello dell’errore sugli elementi differenziali delle fattispecie in rapporto di specialità per aggiunta, sembra ancora una volta non aver dischiuso alcuna prospettiva realmente appagante. Riassumendo quanto sin qui esposto, la tuttora prevalente teorica che fa ricorso al procedimento analogico per affermare, ex art. 59 c.p., l’applicazione della norma più mite ai casi di ignoranza e di erronea supposizione dell’elemento differenziale (110) presta il fianco alla obiezione che — anche a voler ammettere la legittimità dell’analogia in materia penale (111) — si determinerebbe la ingiustificabile, ma inevitabile, equiparazione delle ipotesi di errore colposo ed incolpevole (112). Si è anche rilevato come le teorie di coloro che postulano la presenza di elementi impliciti nelle fattispecie (113) propongono in tal guisa un intervento manipolativo sul dato normativo che all’interprete non può essere consentito, poiché l’articolazione strutturale delle disposizioni appartiene in modo esclusivo al legislatore (114). La imprescindibile valorizzazione dei profili di storica concretezza del dolo e del suo carattere unitario, che ne impedisce la frammentazione in ragione della struttura logico-formale della fattispecie, d’altro canto toglie fondamento alla tesi che, sia nel caso di error in mitius che nell’ipotesi opposta di error in gravius, ritiene sempre applicabile la norma generale, sull’errato presupposto che in entrambe le situazioni la discordanza verificatasi lascerebbe tuttavia sussistere il dolo della disposizione generale (115). (110) Cfr., per tutti, ROMANO, Commentario, cit., pp. 419 e 567. (111) Ma, in senso contrario, v. supra, n. 2. (112) Infatti, come già rilevato, la considerazione dei profili di colpa dell’errore sul consenso, con la conseguente applicazione dell’ultima parte dell’ultimo comma dell’art. 59 c.p., comporterebbe un esito paradossale poiché all’ipotesi di errore colposo sarebbe riservato un trattamento penale assai più vantaggioso per il reo rispetto alle ipotesi di errore incolpevole. (113) FIORELLA, PALAZZO. (114) V. supra, n. 6. (115) V. supra, n. 6.


— 481 — Inoltre, come si è per ultimo accertato, una impostazione del problema che tenga conto degli eventuali profili di colposità dell’errore, benché dogmaticamente plausibile, comporta tuttavia esiti, allo stato attuale della normativa, tutt’altro che soddisfacenti (116). Anche l’ipotesi — peraltro poco credibile — che l’elemento differenziale delle relazioni di specialità per aggiunta possa, in qualche modo, essere trattato oggettivamente, in guisa di vera e propria circostanza, non farebbe progredire granché la soluzione del problema dell’errore. Si tratterebbe, infatti, di una soluzione parziale, poiché lascerebbe irrisolti i casi in cui gli elementi differenziali non si innestino in un rapporto di specialità (117). Nell’ambito più specifico della problematica relativa all’errore sul consenso della persona uccisa, lo stesso carattere di parzialità inficia anche la soluzione impostata su una lettura restrittiva del consenso ex art. 579 c.p., il quale, anche sulla scorta dei Lavori Preparatori, dovrebbe considerarsi sussistente soltanto nei casi in cui esso sia stato prestato all’agente in modo assolutamente inequivoco (118). Come già osservato, anche una interpretazione così restrittiva della nozione di consenso non potrebbe comprendere i casi di ignorata revoca dell’adesione, che rimarrebbero insoluti (119). Prende dunque sempre più corpo l’idea che ci si trovi di fronte ad uno di quei ‘‘vicoli ciechi’’ in cui un certo sistema giuridico può cacciarsi per il difettoso coordinamento di alcune delle sue parti. La correlazione degli artt. 575 e 579 c.p. — qui assunta a modello di tutta la casistica di fattispecie speciali per aggiunta —, indiscutibile sul piano oggettivo, denuncia risvolti soggettivi che sembrano sfuggire ad ogni ragionevole inquadramento. Né si potrebbe parlare di una antinomia, dal momento che, a ben guardare, le due disposizioni non sono tra di loro incompatibili (120). Ma se non si tratta di norme antinomiche non si può però negare la (116) V. supra, n. 7. (117) È il caso proposto dagli abrogati artt. 545 e 546 c.p. (118) V. supra, n. 3. (119) V. supra, p. 18 e nota (56). (120) L’incompatibilità può manifestarsi o come contrarietà o come contraddittorietà. La possibilità di antinomie normative deriva dalla molteplicità e diversità che caratterizzano le norme di un dato ordinamento. Sui quattro criteri — cronologico, specialità, gerarchico, competenza — di risoluzione delle antinomie v. MODUGNO, Norma, cit., p. 378, nonché, da ultimo, RUGGERI, Fonti e norme nell’ordinamento e nell’esperienza costituzionale, Torino, 1993, p. 35 ss.


— 482 — presenza di un vuoto normativo problematico (121), cioè l’assenza di una disposizione che disciplini taluni casi di divergenza tra voluto e realizzato (come quella, appunto, derivante dall’errore sul consenso della persona uccisa) e più in generale le ipotesi di realizzazione oggettiva di un certo reato col dolo di un altro, comprese quelle in cui i reati interessati non siano in rapporto di specialità (122). Deve essere stato questo apparentemente inestricabile groviglio di difficoltà a far concludere a taluno, in modo un po’ disarmante, che l’omicidio caratterizzato da errore sul consenso, in quanto privo di positiva disciplina, dove considerarsi penalmente irrilevante (123). Questa conclusione, però, non può essere accettata, non tanto per una sorta di horror vacui, quanto per il suo palese contrasto con la voluntas legis e con il principio costituzionale di eguaglianza. Sotto il primo profilo, infatti, non può essere trascurato il fatto che con l’introduzione della particolare figura di cui all’art. 579 c.p. il legislatore ha chiaramente manifestato la volontà di introdurre una più dettagliata disciplina dell’omicidio; volontà che sarebbe frustrata ove si accettasse l’opinione che la mera eventualità di un errore, in un senso o nell’altro, sull’elemento specializzante del consenso comporti l’inapplicabilità di qualsiasi disposizione, lasciando priva di tutela una situazione penalmente tanto rilevante da costituire oggetto di specifico intervento legislativo. Inoltre, la considerazione della (ipotizzata ) irrilevanza penale dell’omicidio ‘‘viziato’’ da errore sul consenso, confrontata con l’ipotesi ‘‘fisiologica’’ dell’uccisione di persona realmente consenziente, che invece è penalmente sanzionata, non può non richiamare, per contrasto, i principi contenuti nell’art. 3 Cost. Infatti, il complessivo disvalore espresso dall’omicidio caratterizzato da errore sul consenso non è certo minore di quello racchiuso nell’omicidio del consenziente, e per questo appare iniquo, se non addirittura paradossale, il diverso rilievo penalistico che alle due situazioni si vorrebbe conferire. Dunque, l’omicidio caratterizzato da errore sul consenso della persona uccisa non può essere penalmente irrilevante. Possiamo considerare questo dato come uno dei pochi elementi di certezza da cui muovere alla ricerca di una soluzione infine plausibile. (121) La mancanza di una norma che risolva la questione denota chiaramente una « lacuna » dell’ordinamento. Infatti, la situazione derivante dall’errore sul consenso della persona uccisa non può certo qualificarsi come giuridicamente irrilevante per la forte carica di disvalore penale che la connota. (122) E sono, cioè, in rapporto di alternatività. (123) V. supra, nota (18).


— 483 — Le relazioni di specialità, per specificazione e per aggiunta, nonché quelle circostanziali e quelle che caratterizzano disposizioni come gli abrogati artt. 545 e 546 c.p. (124), sembrano essere accomunate dal fatto che al loro interno è possibile isolare un’ipotesi normativa principale rispetto a cui l’altra assume carattere gradato, in un certo senso accessorio. Mentre nelle relazioni di specialità e circostanziali l’ipotesi normativa principale è individuata rispettivamente nella fattispecie generale e in quella comune, nella relazione di alternatività, del tipo di quella che attiene alle fattispecie ex artt. 545 e 546 c.p., l’identificazione della norma principale è meno agevole e implica un compito interpretativo più impegnativo (nel caso di specie la disposizione principale dovrebbe essere quella di cui all’art. 545 c.p. — aborto di donna non consenziente — cosicché quella di cui all’art. 546 c.p. — aborto di donna consenziente — assumerebbe carattere gradato). In termini di gravità l’ipotesi normativa principale non deve coincidere necessariamente con quella che comporta esiti di maggior rigore: nella relazione circostanziale, infatti, l’ipotesi-base è ora più grave ora più mite secondo che la fattispecie circostanziata sia attenuante o aggravante. Ora, se questi gruppi di norme vengono riguardati come costitutivi di nuove e distinte unità normative — prevalentemente binarie — rispetto alle quali le singole norme che le integrano perdono la loro individualità, è possibile indicare, in ciascuna norma accessoria, gli elementi differenziali come quelli che attenuano o aggravano il disvalore contenuto nella norma-base di carattere principale. La comune natura differenziale di questi elementi assume un rilievo decisivo tale da mettere tra parentesi le differenze strutturali che dividono, ponendoli su sponde opposte, gli elementi costitutivi da quelli circostanziali: l’indifferenziazione ontologica delle circostanze rispetto agli elementi costitutivi ha modo così di evidenziarsi appieno nell’ambito della superiore categoria degli elementi « differenziali ». Ma anche gli elementi strutturalmente costitutivi subiscono un analogo processo di ‘‘trasfigurazione’’ allorché si ricompongono sotto la comune matrice ‘‘differenziale’’; infatti l’acquisizione di una funzione ‘‘differenziale’’ conferisce agli elementi costitutivi di fattispecie che possiedono tale peculiarità, e proprio a causa di ciò, una speciale qualità, che li distin(124)

Cfr., supra, n. 7 e nota (96).


— 484 — gue da tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie che non svolgono la stessa funzione (differenziale). Ora, la prospettiva ‘‘aggregata’’ delle norme che compongono una qualsiasi relazione differenziale consente di riguardare colui che realizza la fattispecie accessoria e differenziata col dolo di quella principale ad essa correlata come autore di un fatto illecito di carattere formalmente composito ma sostanzialmente unitario. Egli non appare più — come accadrebbe con l’ottica ‘‘disaggregata’’ ordinaria — coinvolto in due distinte ipotesi normative realizzate pro parte, l’una oggettivamente e l’altra soggettivamente; al contrario, i frammenti di reati interessati dalla sua azione si ricompongono in una originale vicenda normativa che presenta un fondamentale carattere unitario, indivisibile (125). La sostanziale unitarietà dell’illecito complessivamente realizzato impedisce radicalmente ogni possibilità di trattamento penale di tipo cumulativo e impone una soluzione (dell’apparente concorso) di tipo selettivo. Ma mentre la relazione differenziale circostanziale trova nella legge la disciplina dell’elemento soggettivo — con un trattamento attualmente diversificato tra attenuanti ed aggreganti —, nessuna specifica regolazione legislativa consente di risolvere il problema della realizzazione oggettiva di un reato col dolo di un altro nelle altre relazioni differenziali (specialità e alternatività). Si è visto in precedenza come l’applicazione coerente e congiunta dei postulati generali di materialità e colpevolezza raggiunge una plausibile sintesi soltanto nella relazione di specialità per specificazione, dove è stata verificata la realtà della contestuale compresenza del dolo delle fattispecie correlate, seppure nella sola direzione che va dallo speciale al generale: è (125) Analogamente al meccanismo concorsuale di unificazione soggettiva delle condotte di esecuzione frazionata, che ricongiunge, nella unitaria cornice della fattispecie plurisoggettiva eventuale, la originaria pluralità degli agenti all’unicità del reato, così nell’ambito delle fattispecie differenziali la originaria pluralità dei reati si riconduce ad unità in ragione della singolarità dell’agente. La soluzione prospettata differisce sensibilmente da quella acutamente delineata da FIORELLA (op. cit., p. 42 ss.). Questo A., infatti, cui va riconosciuta l’intuizione della sostanziale unitarietà della vicenda normativa che lega tra loro le fattispecie differenziate, non può essere però seguito quando pretende di ‘‘riempire’’ il vuoto legislativo della fattispecie che non contiene l’elemento differenziale con un contenuto normativo ricavato implicitamente attraverso l’analisi correlata delle fattispecie interdipendenti. Il sospetto, che lo stesso A. affaccia, di lesione del principio di legalità finisce con lo schiacciare sotto il suo irresistibile peso tutta la costruzione, ed appare poco più che un contraddittorio espediente nominalistico il tentativo di superamento dell’ingombrante ostacolo attraverso la considerazione che « una previsione implicita è pur sempre una previsione espressa » (op. cit., p. 44).


— 485 — stato infatti accertato che il dolo della fattispecie speciale contiene implicitamente quello della fattispecie generale, cosicché è possibile ‘‘trasferirlo’’ dall’una all’altra, configurandosi così la realizzazione compiuta della fattispecie generale ove questa sia stata oggettivamente integrata. Al contrario, nelle residue ipotesi di specialità per aggiunta e di alternatività, il dolo non manifesta analoga flessibilità, ma un’assoluta rigidità che gli impedisce di adattarsi alla fattispecie (soltanto) oggettivamente realizzata. A questo punto, come possibile ‘‘via di uscita’’ potrebbe sondarsi l’eventualità di separare l’intralciante connubio tra i principi di materialità e colpevolezza privilegiando solo uno di essi. Così, se si dovesse optare per il principio di oggettività bisognerebbe punire per il reato materialmente realizzato anche se incompleto dal lato soggettivo; e viceversa, privilegiando il momento della colpevolezza, si dovrebbe guardare alla sola fattispecie della quale è presente il dolo, senza alcuna considerazione per quella oggettivamente realizzata. Questo criterio, però, non soltanto si manifesta bisognevole di un corredo argomentativo tutt’altro che agevole, ma non riesce nemmeno ad appagare quelle esigenze ‘‘garantiste’’ o, se si vuole, di equità, che costituiscono lo sfondo neanche tanto implicito della quasi totalità delle teorie che sono state elaborate al riguardo: infatti continuerebbero a destare perplessità i casi in cui l’ipotizzata applicazione del criterio ora oggettivo ora soggettivo comporterebbe la punibilità per il reato più grave. Ora, l’unico criterio che consente di soddisfare adeguatamente le istanze di garanzia è quello che, senza sacrificare pregiudizialmente il principio di oggettività né quello di colpevolezza, individua volta per volta il principio da far prevalere nei singoli casi, orientando la scelta nella direzione che riesce meno gravosa per l’agente (126). La regola da tener pre(126) Nonostante un’autorevole dottrina neghi validità al principio del favor rei nell’ambito del diritto penale sostanziale (v. VASSALLI, Analogia, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 166), bisogna invece ritenere che questo postulato informa di sé il nostro sistema e funge da criterio sussidiario di soluzione di tutte le conflittualità normative non altrimenti appianabili, imponendo l’applicazione della disposizione che comporta le conseguenze più benevole per il reo. Si potrebbe azzardare che il principio del favor rei rappresenti l’anima, per così dire, dei sistemi penali moderni, i quali contengono tutti un variamente articolato complesso di norme che, dal punto di vista del reo, si traduce in un ‘‘pacchetto’’ di garanzie un suo favore. I fondamentali principi garantistici di stretta legalità, materialità, lesività, colpevolezza, ad esempio, sono chiaramente ispirati ad una ragione di favore nei confronti di chi è venuto in qualche modo a contatto col diritto penale (risale al VON LISZT, Die deterministichen Gegner des Zweckstrafe, in ZStW, Vol. XIII, p. 357, la definizione del codice penale come Magna Charta del reo). A questo principio non è informato il solo art. 2 comma 3 c.p., ma anche gli artt. 15, 59, 60, 81 e 84 c.p. sembrano dettati da un atteggiamento di fa-


— 486 — sente dovrebbe essere quella per cui il dolo non può superare la oggettiva gravità del fatto e quest’ultima non può, a sua volta, superare la misura della colpevolezza. Questo criterio, per così dire relativistico, offre una soluzione de jure condito ai casi che non riescono ad attingere una disciplina corretta (ed equa) in applicazione dei criteri regolatori dell’errore di cui agli artt. 47 e 49 c.p.: nella presente indagine sono stati esaminati i casi problematici della specialità per aggiunta (del tipo omicidio del consenziente) e dell’alternatività (del tipo delle abrogate fattispecie dell’aborto di donna consenziente o dissenziente) (127). Pertanto, nel caso di chi uccide ignorando il consenso della vittima il rispetto del principio di colpevolezza imporrebbe l’applicazione della norma sull’omicidio comune, sacrificando così l’oggettiva consistenza del fatto, mentre il privilegio del dato materiale, connesso all’applicazione della norma sull’omicidio del consenziente, comporterebbe una forzatura dell’elemento psicologico del reato, esteso in modo da ricomprendere un dato — il consenso dell’ucciso — in effetti sfuggito alla previsione dell’agente. Ora, mentre la prima opzione comporta il sacrificio del principio di oggettività con esiti ‘‘punitivi’’ per l’agente, quest’ultimo sarebbe invece più garantito dalla seconda opzione, che però deve registrare al passivo il sacrificio del principio di colpevolezza, che nella fattispecie concreta è maggiore rispetto a quella tipizzata nella più tenue fattispecie applicata. Esiti opposti, invero, caratterizzerebbero l’ipotesi di omicidio di una persona della quale si è erroneamente supposto il consenso. Infatti, il rispetto del principio di colpevolezza, in questo caso, comporterebbe l’applicazione della norma sull’omicidio del consenziente, con esiti di indubbia garanzia per il reo ma con un’implicita negazione del principio di materialità. All’inverso, ove si consideri intoccabile il dato oggettivo, l’applicazione della norma sull’omicidio comune non rispecchierebbe fedelvorevole attenzione per la situazione del reo nella misura in cui stabiliscono, per ragioni diverse, l’esclusione del cumulo materiale (artt. 15, 81 e 84) e un trattamento differenziato di situazioni analoghe (artt. 59 e 60). (127) La soluzione è tuttavia parziale perché non consente di risolvere convenientemente, come già visto, il problema dell’ignoranza e dell’erronea supposizione dell’elemento aggiuntivo (o alternativo) determinate da colpa. Nei casi, come quelli evidenziati dalla vicenda normativa dell’omicidio del consenziente, in cui l’eventualità di errore colposo, per via dell’insufficiente coordinazione tra i livelli edittali di pena, può sortire esiti talora curiosi, non resta che operare convenientemente sui limiti minimi e massimi in modo da conseguire un trattamento sanzionatorio ragionevolmente equo.


— 487 — mente i profili di colpevolezza del fatto concreto, con un risvolto sanzionatorio ad essi non proporzionale. Indicare un criterio che ponga in primo piano le esigenze di garanzia per il reo significa ‘‘mediare’’ tra i complementari principi di oggettività e di soggettività allorché essi si trovino incidentalmente in conflitto. Il principio dell’applicazione della disposizione più favorevole al reo evita così l’imbarazzo di una pregiudiziale e assai problematica scelta di fondo tra due principi — di materialità e di colpevolezza — che nel nostro sistema hanno eguale dignità, ribadendone al contempo il valore fondante e la funzione di reciproco limite. Le ipotesi di specialità per specificazione, invece, non necessitano del criterio relativistico sopra delineato, perché trovano negli ordinari principi soluzioni tecnicamente plausibili. Va così precisato che la ‘‘trasferibilità’’ del dolo da una fattispecie all’altra consente di disciplinare l’errore (nei due sensi di ignoranza ed erronea supposizione) applicando la norma più grave o più mite, in base ai criteri desumibili dagli artt. 47 comma 2 e 49 comma 3 c.p., secondo il seguente schema: a) ignoranza dell’elemento specializzante della specialità per specificazione (art. 47 comma 2 c.p.): a1) ignoranza dell’elemento qualificante: si applica la norma più mite (generale); a2) ignoranza dell’elemento privilegiante: si applica la norma più grave (generale); b) erronea supposizione dell’elemento specializzante nella specialità per specificazione (art. 49 comma 3 c.p.): b1) erronea supposizione dell’elemento qualificante: si applica la norma più mite (generale); b2) erronea supposizione dell’elemento privilegiante: si applica la norma più grave (generale). Come si vede, la punibilità privilegia sempre la norma generale; però, nel caso di ignoranza, l’applicazione dell’art. 47 comma 2 prevede la punibilità per il reato voluto, mentre nel caso di erronea supposizione l’applicazione dell’art. 49 comma 3 c.p. prevede la punibilità per il reato effettivamente commesso. L’errore (nei due sensi) in gravius comporta l’applicazione della morma più mite, mentre l’errore (nei due sensi) in mitius comporta l’applicazione della norma più grave (128). Dal raffronto tra le ipotesi di specialità per specificazione da un lato e (128) L’applicazione in tutti i casi della norma generale a titolo di dolo esclude in radice la configurabilità di qualsiasi spazio di rilevanza per la problematica della eventuale in-


— 488 — di specialità per aggiunta (e di alternatività) dall’altro emerge una inevitabile discrasìa di esiti normativi, poiché mentre nella specialità per aggiunta il principio ‘‘relativistico’’ consente un indiscriminato indulgenzialismo, nella specialità per specificazione l’applicazione dei principi ordinari prevede talvolta la prevalenza della norma più grave. Se a ciò si aggiunge il diverso rilievo dell’eventuale incidenza della colpa, del tutto insignificante se l’errore si innesta in una relazione di specialità per specificazione a differenza di quello che cade in una relazione di specialità per aggiunta, la penetrante divaricazione tra le due forme di specialità non potrebbe risultare più evidente. L’esperienza giuridica d’oltralpe sembra confortare soltanto in parte questo orientamento; il § 16 Abs. 2 StGB, infatti, punisce a titolo di dolo (wegen vorsätzlicher Begehung) in base alla legge più mite (nur nach den milderen Gesetz) colui che ha erroneamente supposto circostanze che integrerebbero una fattispecie legale meno severa (irrig Umstände annimmt, welche den Tatbestand eines milderen Gesetzes verwirklichen würden) (129). L’art. 15 comma 2 del Progetto di Riforma del Codice Penale del nostro Paese afferma a sua volta, come già accennato, che « in caso di errore sugli elementi differenziali tra più reati » occorre « prevedere la punibilità per il reato meno grave » (130). Ove si ritenga che nel concetto di « errore » siano compresi sia i casi di ignoranza sia i casi di erronea supposizione, la disciplina proposta avrebbe un’ampia portata innovativa rispetto a quella attualmente in vigore, poiché quest’ultima non è ispirata ad un assoluto principio induncidenza di profili colposi nell’ignoranza od erronea supposizione dell’elemento specializzante, che non viene neppure in considerazione [v. supra, nota (106)]. (129) Cfr. DELRE, Il nuovo codice penale tedesco, Milano, 1984, p. 9 ss. Per il sistema tedesco il discrimine fondamentale è tra ignoranza (Wer nicht kennt) ed erronea supposizione (Wer irrig annimmt). Nel primo caso si applica sempre la disposizione-base qualunque sia il suo esito sanzionatorio; nel secondo caso (errore rovesciato) l’erronea supposizione di un elemento di maggior punibilità realizza un tentativo inidoneo, che è punibile, mentre l’erronea supposizione di un elemento di minor punibilità fa prevalere, come visto, la fattispecie più mite. Naturalmente resta impregiudicata la possibilità di punire per colpa ove il fatto ne denoti gli estremi (Die Strafbarkeit wegen fahrlässiger Begehung bleibt unberührt). (130) Il progetto non specifica se l’errore debba essere inteso in senso stretto come ignoranza o se debba abbracciare anche l’erronea supposizione. È certo però che mentre le relazioni circostanziali trovano una specifica disciplina negli artt. 20-25, per quelle alternative (tipo artt. 545 e 546 c.p.) non è prevista alcuna particolare regolazione né ad esse è applicabile la norma di cui al citato art. 15, dato che questo si riferisce, come sembra, alle sole relazioni di specialità differenziale.


— 489 — genzialista ma, come si è visto in relazione alla specialità per specificazione, distingue varie ipotesi che danno esiti differenziati. I criteri regolatori desumibili dal combinato disposto degli artt. 47 comma 2 e 49 comma 3, sarebbero contraddetti e superati, nella disciplina progettata, con riferimento alle ipotesi di ignoranza ed erronea supposizione dell’elemento specializzante degradante, poiché verrebbero sovvertiti gli esiti ‘‘punitivi’’ desumibili da tali norme nel segno di un indiscriminato favore per il reo. Tale soluzione avrebbe il pregio di superare la discrasìa di trattamento penale, più sopra segnalata, tra le relazioni di specialità per specificazione e per aggiunta. Siamo tuttavia dell’avviso che nella progettata riforma andrebbe comunque recuperata la dimensione assiologica dell’errore, prevedendo una disciplina differenziata per l’errore, o erronea supposizione, determinato da colpa. Potrebbe al riguardo stabilirsi un congruo aumento della pena prevista per la fattispecie colposa di base, tale da evitare il paradosso di un errore colposo trattato più benevolmente da un errore incolpevole; e stabilirsi anche, nel caso di errore incolpevole, un congruo aumento della pena prevista per la fattispecie differenziata privilegiata (131) per evitare l’analogo paradosso di un reato oggettivamente più grave trattato allo stesso modo di un reato oggettivamente meno grave (132). SALVATORE CAMAIONI Ricercatore di Diritto penale nell’Università di Messina

(131) In caso di errore sull’elemento privilegiante. (132) Non appare equo che chi ha ucciso una persona dissenziente supponendo erroneamente il suo consenso riceva lo stesso trattamento di chi uccide una persona effettivamente consenziente: mentre il dolo è uguale il fatto oggettivo è più grave nella prima ipotesi.


IL CONTRIBUTO DELL’IMPUTATO IN UN DIVERSO PROCEDIMENTO: FORME ACQUISITIVE E GARANZIE DI ATTENDIBILITÀ

SOMMARIO: 1. Le opzioni in campo. — 2. Le dichiarazioni sul fatto altrui rese dal coimputato: la pluralità delle forme di assunzione. — 3. L’esame ex art. 210 c.p.p. come tecnica privilegiata di formazione della prova nel sistema originario del codice. — 4. La disciplina delle contestazioni e l’allegazione al fascicolo dibattimentale. — 5. Le letture: l’art. 513, comma 2, c.p.p. nel disegno originario del codice. - 5.1. ...e nell’interpretazione datane dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 254/92. - 5.2. Gli effetti della declaratoria di illegittimità. — 6. L’acquisizione di verbali di altri procedimenti. - 6.1. ...e lo svuotamento di contenuto e funzioni dell’art. 210 c.p.p. — 7. La testimonianza della polizia giudiziaria: un ulteriore veicolo di assunzione? — 8. Una prospettiva di intervento.

1. Le opzioni in campo. — Sul piano strutturale l’apporto conoscitivo della persona imputata o sottoposta ad indagine nel corso di un separato procedimento, non diverge dalla narrazione del teste. Medesima la natura della fonte, poiché trattasi di soggetto che non è parte; medesima la fisionomia dell’elemento di prova (1), dove l’esperienza è comunicata attraverso la parola; medesima l’operazione logica richiesta dal giudice, che si snoda in una doppia verifica di attendibilità: sulla fonte e sul contenuto della dichiarazione (2). Le differenze sfuggono alle categorie logico-formali perché attengono (1) Con ‘‘elemento di prova’’ si allude a ciò che, introdotto nel processo, viene posto dal giudice alla base dell’inferenza induttiva (in questo caso la dichiarazione orale), così G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, 103 e ss. (2) Si distinguono, al riguardo, le funzioni narrative (o dichiarazioni di prova) dalle funzioni induttive, definibili, le prime, come attività o mezzi materiali con cui una persona comunica un fatto, le seconde come segni sensibili la cui capacità indicativa dipende dalle leggi dell’esperienza e della logica. In un caso il giudice recepisce il messaggio e, in un momento successivo, verifica se è veritiero, nell’altro non è chiamato a vagliare le narrazioni dei suoi interlocutori ma a formulare un proprio giudizio: cfr. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1993, 526.


— 491 — al piano della pratica (3). È intuibile il carattere peculiare del contributo di chi, pur imputato altrove, può esser comunque portatore dell’interesse a che prevalga una certa ricostruzione dei fatti rispetto ad altre emergenti nel corso del giudizio (4). Ciò prospetta al legislatore un’alternativa: un reciso ostracismo alla conoscenza perché ‘‘impura’’ oppure la via più moderata di subordinarne l’ingresso nel procedimento ad una serie di cautele tese a colmare il deficit di attendibilità. Mai le soluzioni normative escogitate fino ad oggi sono giunte a negare rilevanza probatoria al sapere del coimputato aliunde (5). L’opzione è ineccepibile, specie ove si considerino le difficoltà che la verifica processuale dei reati associativi semina sul terreno probatorio. Piuttosto, a fronte di una disciplina particolarmente attenta nel porre una serie di garanzie per il narrante, a tutela della sua posizione nel corso del separato iter procedurale, balza agli occhi, ieri come oggi, la debolezza delle regole poste a salvaguardia della genuinità della conoscenza offerta dal correo. Si noti, tuttavia, come l’attuale bilancio negativo dipenda pressoché per intero, dalle modifiche subite dall’impianto del codice. L’originario disegno realizzava, infatti, un apprezzabile equilibrio tra tutela della persona e l’esigenza di incanalare la ricerca giudiziale entro schemi capaci di condurre a risultati dall’alto grado di probabilità. (3) È questa ‘‘unità teorica fondamentale’’ che induce autorevole dottrina ad estendere la nozione di testimonianza anche alle dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, così F. CARNELUTTI, La prova civile. Parte generale, Milano, 1993, 133. (4) Il legislatore attinge dal senso comune la nota differenziale del contributo del terzo altrove imputato rispetto alla testimonianza, v., sia pure con riguardo al codice abrogato, A. MELCHIONDA, La chiamata di correo, in questa Rivista, 1967, 172. (5) Si pensi al disegno accolto dal codice abrogato con la legge 7 agosto 1977, n. 534, che parve la diretta conseguenza della generale linea legislativa tesa ad attenuare la rilevanza del vincolo connexitatis causae e, parallelamente, a favorire la separazione delle regiudicande. La scelta imponeva, infatti, una modifica del regime probatorio sì da evitare che lo svolgimento autonomo delle vicende processuali si risolvesse in una perdita del patrimonio conoscitivo; cfr., in argomento, E. AMODIO, Il regime probatorio conseguente alla separazione di procedimenti connessi, in Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico. Le leggi dell’8 agosto 1977, a cura di E. AMODIO, O. DOMINIONI, E. GALLI, Milano, 1978, 37. Se, da un lato veniva prevista l’incompatibilità a testimoniare per i coimputati dello stesso reato o di uno connesso (art. 348, comma 3, c.p.p. abrog.), dall’altro, si apprestava uno strumento acquisitivo ad hoc (‘‘l’interrogatorio libero’’ ex art. 348-bis), idoneo a meglio tutelare il nemo tenetur se detegere riconosciuto al narrante. Che il principio e non piuttosto la preoccupazione di tutelare l’attendibilità della conoscenza, costituisse il fondamento del divieto a testimoniare, è chiarito da M. BARGIS, Incompatibilità a testimoniare e connessione di reati, Milano, 1980, 12 e ss.


— 492 — 2. Le dichiarazioni sul fatto altrui rese dalla persona aliunde imputata: la pluralità delle forme di assunzione. — La disciplina scaturente dall’art. 210 c.p.p. costituisce solo una delle modalità con cui si acquisisce il contributo del coimputato sull’altrui responsabilità. Al riguardo, bisogna tener conto non solo dello sviluppo delle fasi di un medesimo procedimento ma altresì della circostanza che si tratti di un processo cumulativo ovvero di procedimenti separati. Ove le dichiarazioni sul fatto altrui siano rese nel corso di un giudizio con una pluralità di inquisiti, il mezzo di acquisizione sarà costituito dall’esame dell’imputato (art. 208 c.p.p.). Nel caso in cui le vicende processuali seguano, invece, un corso separato, mutando la qualifica del loquens (da parte a terzo), variano anche gli strumenti di assunzione della conoscenza, costituiti, oltre che dall’art. 210, operante nel giudizio e nell’incidente probatorio, dall’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero (art. 363 c.p.p.), dall’audizione di fronte alla polizia giudiziaria (art. 351, comma 1-bis, c.p.p.) ovvero dall’interrogatorio del giudice nel corso dell’udienza preliminare (art. 422, comma 1, c.p.p.). Simili linee discretive emergono alquanto nebulose dalla lettura del codice, con un isolato sprazzo di limpidezza nell’art. 392 c.p.p. che, nel selezionare le ipotesi di incidente probatorio, con precisione distingue tra ‘‘l’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri’’ (comma 1, lett. c) e ‘‘l’esame delle persone indicate nell’art. 210’’ (lett. d). È questo l’unico caso in cui si enuclea il dato gnoseologico costituito dalle dichiarazioni del correo sul fatto altrui, diversificandole da quelle sul fatto proprio. All’unicità del mezzo acquisitivo (entrambe sono rese nel corso dell’esame dell’imputato ex art. 208 c.p.p.) non corrisponde, infatti l’identità del mezzo di prova, poiché muta l’oggetto della narrazione. Simile identità, invece, emerge dal raffronto tra l’ipotesi prevista dall’art. 392, lett. c) con quella contemplata dalla lett. d): alla diversità dei mezzi di assunzione (i due tipi di esame rispettivamente delineati dagli artt. 208 e 210 c.p.p.) non fa eco alcuna variante ontologica della conoscenza, vertendo entrambe le dichiarazioni sul medesimo oggetto. Altro discorso vale per gli atti narrativi raccolti nelle fasi anteriori al dibattimento. Il rapporto corrente tra l’interrogatorio (artt. 351, commi 1bis; 363; 364, comma 1; 421 e 422, comma 1 e 3, c.p.p.) e l’esame (art. 208 e 210 c.p.p.), incide sulla qualità del sapere acquisito. Quando all’attendibilità sospetta della fonte si sommi l’impossibilità di una verifica ra-


— 493 — zionale tramite le forme dell’escussione condotta dalle parti, il dato conoscitivo si depaupera fino a mutare essenza (6). La garanzia del pieno contraddittorio, idonea ad assicurare un grado di probabilità soddisfacente all’induzione giudiziaria (7), diviene imprescindibile nell’ipotesi in cui l’apporto di conoscenza venga dall’imputato. Qui, di fronte ad un soggetto narrante portatore di un interesse proprio, potenzialmente in conflitto con quello di un’attendibile ricostruzione del fatto, non paiono sufficienti criteri irrazionali di verifica (8). Oltre all’assenza di una pressione etico-giuridica, come quella esercitata sui testimoni attraverso il giuramento o la creazione di apposite fattispecie incriminatrici a tutela della genuinità della prova, bisogna considerare il rischio di accuse formulate allo scopo di lucrare possibili vantaggi. Il fenomeno della collaborazione degli imputati all’accertamento non avrebbe avuto l’attuale sviluppo se non per effetto dell’uso mirato di alcuni istituti processuali, piegati a ritagliare spazi di premialità. Si pensi alle scelte in tema di libertà personale, all’impiego a cui si presta la separazione dei giudizi ed il consenso all’imbocco di uno dei riti alternativi, fino all’ambito di manovra consentito dalla qualifica del reato (9). Per non parlare delle agevolazioni oggi previste in fase di esecuzione della pena (10). Non trascurabile, infine, la disciplina dettata dall’art. 11, comma 3, l. (6) Sembra pervenire alla stessa conclusione, A. AVANZINI, L’esame dibattimentale delle fonti di prova personali, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. UBERTIS, Milano, 1992, 41. (7) La conoscenza del giudice non è mai diretta ma costituisce il frutto di un’induzione che muovendo dai ‘‘segni di eventi passati’’ giunge alla vicenda storica oggetto di prova, v., in tal senso, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, 26. Il contraddittorio — da intendersi essenzialmente come diritto delle parti ad interloquire su un piano di parità in ordine al thema probandum — si dimostra il metodo di ricerca più duttile alla logica induttiva, così trascendendo l’interesse della difesa per offrire al risultato dell’indagine giudiziale la soglia più alta di probabilità: cfr. P. FERRUA, Studi sul processo penale II. Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, 76. (8) È inconfutabile come il giudizio sull’affidabilità del narrante, teste o parte, si formi seguendo canoni in gran misura sottratti a dimostrazione e controllo, cfr. F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, vol. IV, Milano, 1949, 25. (9) V. G. FRIGO, Problemi deontologici, tecnici e psicologici nella gestione giudiziaria del ‘‘pentito’’: la posizione del difensore, in Cass. pen. 1991, 1181 e, analogalmente, P.L. VIGNA, La gestione giudiziaria del pentito: problemi deontologici, tecnici e psicologici, in ISICS, Atti e documenti. Chiamata in correità, Padova, 1992, 131. (10) Cfr., in particolare, l’art. 13 della l. 7 agosto 1992, n. 356 che ha modificato l. 15 marzo 1991, n. 82, sulle misure di protezione per coloro che collaborano con la giustizia, i quali possono usufruire dei benefici oltre i limiti stabiliti dalle leggi in vigore.


— 494 — 15 marzo 1991, n. 82, che, nel dettare le condizioni per far luogo allo speciale programma di protezione a favore chi collabori ‘‘con la giustizia’’, richiede il parere del procuratore della Repubblica sull’‘‘importanza del contributo offerto o che può essere offerto’’ dall’interessato ‘‘per lo sviluppo delle indagini o per il giudizio penale’’. La disposizione è carica di insidie là dove, implicando uno status di inevitabile dipendenza nel collaboratore, lascia che il rapporto di forza, già sbilanciato a favore dell’inquirente, riverberi i suoi effetti sulla sfera del processo. Subordinando, infatti, la tutela dell’incolumità personale del dichiarante, al giudizio — formulato in chiave accusatoria — circa la rilevanza delle conoscenze raccolte, si espone la narrazione al rischio di un adeguamento forzoso alle aspettative dell’investigatore. È necessario, pertanto, che il contributo dell’imputato trovi il supporto di altre prove ed esca vittorioso al vaglio di prova contrarie. Ciò deve accadere sin dalla fase di costruzione della prova ad opera delle parti, là dove, soprattutto, la verifica per modus tollens (ossia attraverso la controprova) sarà proficua, per la sua capacità di mettere a nudo incongruenze e contraddizioni, più facilmente mascherabili nel corso del dialogo a due con l’inquirente. Né queste affermazioni paiono di solo spessore teorico: è l’esperienza giudiziaria a dimostrare come ‘‘assolutamente impossibile che una mente umana, in ipotesi menzognera, regga stabilmente ad una serie di confutazioni analitiche, puntigliose, spesso cattive, protratte e multiformi’’ (11). Anche per questa via l’attenzione si incentra, dunque, sul metodo. Posta l’imprescindibilità dell’apporto del coimputato per l’accertamento di certe specie di reati e la conseguente necessità di adottare criteri idonei a garantirne l’affidabilità, le scelte relative non possono esser lasciate al singolo magistrato. Non si vuole metter in discussione la bontà dei metodi posti a frutto in seguito ad una pratica estesa, ma simile patrimonio andrebbe disperso, e comunque sarebbe sempre precario, se non confluisse in una disciplina codificata, delegando caso per caso all’inquirente le forme di approccio alla fonte probatoria. La professionalità e, ancor di più, la capacità introspettiva o la conoscenza della psicologia non sono caratteristiche immanenti ad ogni individuo ma, coltivate da alcuni, rischiano di essere sconosciute ad altri, fosse pure una minoranza (12). L’attendibilità delle (11) In tal senso: E. FASSONE, Il processo penale e la valutazione dell’apporto probatorio del chiamante in correità, in Chiamata in correità, cit., 1992, 107. (12) D’altro canto ‘‘proclamare la scientificità delle proprie deduzioni non equivale a


— 495 — dichiarazioni del correo deve essere vagliata attraverso il dialogo pubblico tra le parti, il solo che possa garantire un’applicazione uniforme e generalizzata dei metodi che l’esperienza giudiziaria ha dimostrato essere i più proficui allo scopo. Sottolinea la rilevanza del contraddittorio, sarà opportuno a fini classificatori, affiancare l’esame della persona imputata in un procedimento connesso o collegato (artt. 210 e 392, lett. d, c.p.p.) all’esame assunto nel corso di un rito cumulativo (artt. 208 e 392, lett. c, c.p.p.) come species della medesima prova. Mentre in altra categoria gnoseologica confluiscono i residuali atti narrativi, accomunati da una genesi esterna al dibattimento o alla vicenda processuale in corso (art. 238 c.p.p.). 3. L’esame ex art. 210 c.p.p. come tecnica privilegiata di formazione della prova nel sistema originario del codice. Il legislatore disegna, dunque, uno strumento ad hoc per l’assunzione delle dichiarazioni rese da soggetti formalmente terzi eppure portatori di interessi non estranei alla vicenda processuale in corso (13). L’art. 210 c.p.p., in origine inserito nel corpus regolante il contraddittorio dibattimentale (14), deve l’attuale collocazione all’intento di sottolineare la natura probatoria del sapere del coimputato, purché acquisito secondo date modalità, spazzando via le incertezze che avevano contrassegnato la disciplina del codice abrogato. dimostrarle, specie quando non si opera nel campo dei ‘linguaggi formalizzati’ quali le teorie scientifiche, ma in quello, infido, dei linguaggi ‘tramandati’ con possibilità di interpretazioni diverse’’, in tal senso, G. DI LELLO FINUOLI, Associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) e problema probatorio, in Foro it., 1984, V, 251. (13) Circa l’ambito soggettivo di applicazione, sebbene il testo si limiti a menzionare ‘‘le persone imputate in un procedimento connesso’’, le forme ivi previste si estendono anche all’esame di coloro che ancora non abbiano assunto tale qualifica nel corso dell’iter separato (argomentando ex art. 61, comma 2, c.p.p.), cfr. L. D’AMBROSIO, sub art. 210, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, 516; contra: E. FASSONE, Il giudizio, in Manuale pratico del nuovo processo penale, 3a ed., 1993, 710. La Corte costituzionale (sent. 18 marzo 1992, n. 108), inoltre, ha esteso l’incompatibilità a testimoniare a colui che abbia perso la qualifica di indagato in seguito ad un provvedimento di archiviazione (cfr. G. GIOSTRA, Sull’incompatibilità a testimoniare anche dopo il provvedimento di archiviazione, in Giur. cost., 1992, 992). Specularmente l’art. 210 si allarga a ricomprendere le persone sottoposte alle indagini preliminari in un procedimento connesso ex art. 12 (ovvero collegato ex art. 371, lett. b), nei confronti delle quali ‘‘si è proceduto separatamente’’. (14) Ci si riferisce alle stesure preparatorie del progetto preliminare del 1988: cfr. L. D’AMBROSIO, sub art. 210, cit., 523.


— 496 — Sotto questo profilo il disegno è lineare. L’incompatibilità con l’ufficio di testimone sancita per i soggetti indicati all’art. 210 c.p.p. non si risolve in un divieto di utilizzare il loro sapere ma, più plausibilmente, di assumerlo secondo i modi stabiliti per le narrazioni testimoniali. La ratio dell’art. 197, comma 1, lett. a) e b) non è di espungere dal processo il contributo del coimputato, bensì di differenziarne le modalità di ingresso tenendo presenti le peculiarità della fonte. Sullo sfondo si intravvede una strategia tesa a moderare gli effetti che la separazione della regiudicante, incentivata dal nuovo codice, comporta sul piano probatorio, riflettendosi sulla completezza e sull’unitarietà dell’accertamento. L’art. 210 nasce, quindi, con l’intento di surrogare l’esame della parte nel processo cumulativo mutuandone, per quanto possibile, la fisionomia. Ci si preoccupa così di non ledere la posizione del dichiarante nel corso del diverso procedimento in cui egli riveste la qualifica di imputato (o di indagato) (15). Non è parsa all’uopo sufficiente la facoltà, propria del teste, di astenersi dal deporre sui fatti dai quali potrebbe emergere la propria responsabilità penale (art. 198, comma 2, c.p.p.)., ma si è ritenuta preferibile la più estesa garanzia del diritto al silenzio (art. 210, comma 4, c.p.p.), ulteriormente rafforzata dall’assistenza del difensore (art. 210, comma 3). Ma la necessità di realizzare il nemo tenetur se detegere non esaurisce la ratio della disciplina. L’esame ex art. 210 nel modellare sul contraddittorio la tecnica di escussione della prova, raggiunge l’ulteriore intento di garantire la difesa di chi sia chiamato in causa dal contenuto delle dichiarazioni. Costui, analogamente a quanto accade nel corso del processo cumulativo, potrà opporre una ricostruzione del fatto alternativa rispetto a quella proposta dal narrante o comunque contribuire a smascherarne la fallacia e i punti deboli. Si realizza così — ulteriore meta — l’ottimale garanzia per la genuinità della prova: la narrazione del coimputato capace di reggere alle confutazioni della parte sarà dotata di un alto grado di attendibilità. Allo scopo, non è egualmente proficua la verifica condotta unilateralmente dall’accusa. Come dimostra l’esperienza maturata sotto il codice (15)

Sul nemo tenetur se detegere quale principio guida della disciplina, cfr. M. BAR-

GIS, L’esame della persona imputata in un procedimento connesso nel nuovo codice di pro-

cedura penale, in Giur. it., 1992, IV, 31; V. GREVI, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, 1154.


— 497 — abrogato, l’insidia che si nasconde nell’uso delle dichiarazioni del correo scaturisce dal rapporto esclusivo tra questi e l’inquisitore (16). Il pubblico ministero è naturalmente spinto a salvaguardare la rilevanza e la credibilità di dichiarazioni accusatorie del coimputato, impegnandosi nella ricerca e nel vaglio di elementi a conferma piuttosto che di quelli a smentita dell’ipotesi ivi emergente. Contro simili distorsioni, connaturate al sistema inquisitorio, la giurisprudenza era scesa in campo elaborando una serie di regole destinate ad operare in fase di valutazione della chiamata in correità. L’invito ad una maggiore cautela nell’uso di simili conoscenze non ebbe, tuttavia, accoglimento né unanime né univoco, risolvendosi in un semplice appello alla coscienza ed alla professionalità dei giudici (17). Di qui la necessità, sempre più avvertita, di ampliare il terreno della disciplina, spostandone il fulcro dal piano valutativo a quello formativo della prova. Va letta in questa chiave anche la regola stabilita dall’art. 192, comma 3, c.p.p., per cui l’attendibilità della narrazione del coimputato, posta in forse dallo stesso legislatore, deve essere assicurata per altra via, tramite conferme ab extrinseco. Valendo a coronare il momento finale dell’iter probatorio, dove i riscontri ivi richiesti si costruiscono già all’atto di formazione della conoscenza, perde ogni forza, divenendo perfino dannosa (18), ove operi sopra un dato scevro da ogni cautela in punto di acquisizione (19). Il nuovo codice si impegnava, quindi, a costruire regole capaci di salvaguardare, sin dalla nascita della prova, l’inscindibilità del nesso tra le dichiarazioni del correo sul fatto di un altro ed il contraddittorio a tutela (16) Chi svolge l’attività istruttoria non può essere qualificato terzo rispetto alle dichiarazioni del collaboratore, così: G. NEPPI MODONA, Dichiarazioni dei ‘‘pentiti’’ e problema della prova, in Quest. giust., 1985, 775. (17) Sottolinea oscillazioni ed ambiguità delle pronuncie giurisprudenziali in tema: E. FASSONE, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, in Cass. pen., 1986, 1894. (18) L’art. 192, comma 3, c.p.p. si colora di ambiguità dove sembra incentivare atteggiamenti più lassivi nella valutazione di prove diverse da quella a cui si riferisce: cfr., in tal senso, P. FERRUA, Studi sul processo penale II, cit., 180. (19) Al riguardo pare interessante il tentativo di ancorare l’art. 192, comma 3, alle modalità acquisitive delle dichiarazioni del coimputato, individuandone la ratio nell’esigenza di ‘‘restituire sul terreno della valutazione probatoria quanto indebitamente sottratto alla difesa in termini di oralità e contraddittorio’’, cfr., F. CAPRIOLI, Le Sezioni Unite e il caso Calabresi: ancora segnali confusi sul tema dei riscontri alla chiamata in correità, in Giur. it., 1993, 797. L’operazione, pur apprezzabile, è destinata a scarsi risultati: distinto il piano della formazione da quello della valutazione della prova, non è dato rimediare alle carenze dell’uno intervenendo sull’altro.


— 498 — di quest’ultimo. La scelta traspariva in maniera limpida dal combinato disposto dagli artt. 392, comma 1, lett. c) e d); 401, comma 6 e 403 c.p.p. (20). L’incidente probatorio anticipa la formazione della conoscenza imponendo una sorta di litisconsorzio necessario (21), tanto più utile perché, accelerando la verifica sul contenuto delle dichiarazioni, impedisce che le indagini si cristallizzino in assunti destinati a sgretolarsi nel corso dell’esame dibattimentale. Nella prospettiva coltivata dal legislatore delegato, pertanto, le modalità acquisitive ex art. 210 c.p.p. rappresentavano la condizione perché il contributo dell’imputato assurgesse a dignità di prova. Come nell’ipotesi di cumulo delle regiudicande, così in quella di vicende processuali separate, era il contraddittorio aperto al chiamato in causa dalle dichiarazioni del correo lo strumento che permetteva di attenuare la fragilità intrinseca del dato conoscitivo. Non a caso l’incipit dell’art. 210 circoscrive il proprio ambito applicativo allo spazio dibattimentale. In tal modo il legislatore (distaccandosi dalla linea seguita, invece, per la testimonianza) (22), identifica senz’altro l’esame del coimputato con il modello basato sull’escussione diretta ad opera delle parti, guardando alla genesi di tale prova solo attraverso lo scontro di due contrapposte visuali. La conclusione trova supporto nella severità con cui il disegno originario del codice scavava i canali di accesso al dibattimento dell’interrogatorio reso dalle persone indicate sub art. 210 c.p.p. al pubblico ministero (art. 363 c.p.p.) o al giudice ex art. 422, comma 1, c.p.p. Si noti — per inciso — come prudentemente non si era, invece, ritenuto di affidare analogo potere alla polizia giudiziaria. Mentre nella prima ipotesi manca qualsiasi previsione circa la difesa del chiamato in correità, nella seconda, l’efficacia dell’intervento difensivo è smorzata dal metodo inquisitorio di (20) In tal senso, M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, Secondo aggiornamento, Torino, 1994, 269. (21) ‘‘... in vista della possibile incidenza delle dichiarazioni dell’imputato su una molteplicità di posizioni processuali’’, così: D. GROSSO, L’interrogatorio libero tra i due codici, in Giust. pen., 1990, III, 299. (22) Cfr., in argomento, v. FANCHIOTTI, L’esame testimoniale nel modello adversary statunitense e nel progetto preliminare, in Psicologia del processo: lo scenario di nuovi equilibri, Padova, 1989, 174, il quale osserva come l’identificazione sia pressoché completa nel processo statunitense, dove l’esame testimoniale è‘‘naturalmente’’ scandito in ogni fase dalla direct e cross-examination.


— 499 — assunzione nonché dai limiti in sede di udienza preliminare imposti al bagaglio probatorio spendibile. Come si vede, il disegno di perseguire l’attendibilità del contributo fornito dal coimputato, tramite una tecnica di escussione improntata alla pienezza del contraddittorio, correva lungo due binari. L’uno, costituito da una disciplina che dava riconoscimento e spessore alla figura dell’esame, l’altro improntato ad un’attenta sorveglianza dei modi di acquisizione della conoscenza previsti in alternativa dal codice. S’intuisce, infatti, che il maggior spazio concesso all’uso degli atti investigativi restringe proporzionalmente il perimetro lasciato alla formazione della prova in giudizio. Ma simili condizioni attuative, ancorché non pienamente rispettate nella versione originaria del codice, sono state in seguito disconosciute. Dall’abiura sono espressione sia la giurisprudenza costituzionale tramite la sentenza n. 254 del 1992 sia l’opera legislativa approdata alla l. 7 agosto 1992, n. 356. L’ampliamento delle possibilità di recupero delle dichiarazioni raccolte nelle fasi anteriori (art. 513, comma 2, c.p.p. alla luce dell’interpretazione datane dalla Corte), nonché l’esagerata dilatazione dell’impiego degli atti formati in altri procedimenti (art. 238 c.p.p. nel testo attuale), disgregano le garanzie strumentali all’operare del contraddittorio, segnandone la sconfitta di fronte all’anarchia imperante sul piano acquisitivo e valutativo della prova. Si dissolve così quella corrispondenza biunivoca tra l’esame ex art. 210 e il valore probatorio attribuibile alle dichiarazioni del correo, come episodio del più vasto fenomeno che vede tramontare la fiducia sulla bontà euristica dell’escussione orale, già linea ispiratrice del diritto sulle prove (23). Del tutto sguarnito si presenta ora il fronte delle garanzie di genuinità delle dichiarazioni nonché, parallelamente, la riserva degli strumenti per la difesa del chiamato in correità. Né si confidi, quale rinforzo, nell’operare dei parametri richiesti dall’art. 192, comma 3, c.p.p., ad arte innalzati a rivestire una funzione non propria (24). Le carte di un accertamento giudiziale aperto a criteri razionali di verifica, si giocano all’atto (23) Cfr., in specie, le amare considerazioni di P. FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo accusatorio, in questa Rivista, 1992, 1457 e G. ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale nella motivazione della sentenza n. 255 del 1992, in Giur. cost., 1992, 1973. (24) Lo sottolinea M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al codice, cit., 268.


— 500 — genetico della prova, mentre la partita condotta in esclusiva sul piano valutativo si risolve in un inganno (25). Il bilancio appare fallimentare là dove polverizza il sistema di regole poste a legittimare l’utilizzo nel processo delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Se è vero che l’involuzione subita dal codice pone in crisi l’intero diritto sulle prove, attraverso il generale deprezzamento di valore delle forme imposte per la genesi delle basi decisorie, è vero, altresì, che per le dichiarazioni dei coimputati la misura del danno inferto si aggrava. Il contraddittorio non solo disciplinava il modo ma condizionava l’an della prova, altrimenti intaccata da un’endemica fragilità che ne avrebbe imposto l’ostracismo processuale. Eluso il contraddittorio, s’insinua nel materiale per la decisione un elemento dalle alte potenzialità inquinanti senza che si appresti alcun rimedio se non quello, di fonte extragiuridica, dato dall’intuito e dalla capacità del singolo magistrato inquirente. In sostanza, di fronte alla domanda, particolarmente sentita nell’ambiente sociale, di tutela del cittadino contro il rischio di accertamenti erronei pilotati dai c.d. ‘‘pentiti’’, l’attuale assetto codicistico incrocia le braccia, limitandosi ad un’appello alla coscienza dei giudici in sede di valutazione della prova. 14. La disciplina delle contestazioni e l’allegazione al fascicolo dibattimentale. — Si è già detto del rapporto corrente tra l’esame della persona imputata in un procedimento connesso o collegato e la qualità giuridica del sapere acquisito e di come l’escussione diretta ad opera delle parti sia il meccanismo che permette di attenuare la fragilità intrinseca dell’atto narrativo. Se ne dovrebbe desumere, quale logica conseguenza, la necessità di un uso parsimonioso delle forme di acquisizione alternative all’esame. Così, se la disciplina sulle contestazioni è destinata a modellare anche la tecnica elaborata all’art. 210 c.p.p., la lettura di quanto dichiarato dal coimputato nelle fasi anteriori al dibattimento sarà finalizzata, in via esclusiva, a sondare la credibilità del narrante (art. 503, comma 4, c.p.p.) (26). (25) È quanto accadeva con il sistema delle prove legali. L’‘‘equivoco paralogico’’ sul quale si basava quel sistema è ben evidenziato da L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 112. (26) Cfr., analogamente, G. FRIGO, sub art. 2 d.l. n. 306/92, in Le misure antimafia,


— 501 — L’affermazione non suoni anacronistica. Se la regola che impone l’impiego in chiave critica delle dichiarazioni rese al di fuori del dibattimento — liquidata come irragionevole dalla Corte Costituzionale — costituisce ormai un ramo secco nell’ambito dell’art. 500 c.p.p. (27), la disciplina relativa all’esame delle parti continua, tuttavia, a differenziarsi rispetto a quella dettata per l’esame testimoniale (28). Nell’un caso, l’uso probatorio pieno viene confinato ad un’ipotesi circoscritta, nell’altro diviene la regola. Qualunque sia la ratio del discrimine (29), il rinvio operato dall’art. 503, comma 4, all’omologo 500 c.p.p., restituisce linfa vitale al divieto ormai espulso dall’ambito delle contestazioni testimoniali (30). E l’operazione ha un buon esito specie con riguardo all’esame di chi sia coimputato aliunde. Ancor oggi, infatti, è lecito ed opportuno negare che il contributo da questi reso nelle fasi anteriori al giudizio, davanti all’accusatore o, su delega, alla polizia giudiziaria, una volta utilizzato per le contestazioni, possa assurgere a dato probatorio confluendo nel fascicolo del dibattimento (31). L’accesso del canale aperto dall’art. 503, comma 5, presuppone che l’atto destinato a rivestire valenza di prova sia assistito supplemento al Sole - 24 Ore, 7 agosto 1992, 5 e M. DEGANELLO, sub art. 2 d.l. n. 306/92, in Leg. pen., 1993, 44. (27) ‘‘Nella sostanza, c’è un solo caso in cui il precedente ‘difforme’ serve soltanto in chiave ‘critica’: quando il teste al quale viene contestato,... lo riproduca fedelmente e, dunque, non sia più ‘difforme’’’. Così, P. FERRUA, Studi sul processo penale II, cit., 177. (28) Smentendo le prognosi circa un rinnovato intervento della Corte costituzionale teso questa volta a sanzionare i contenuti dell’art. 503. Indubbiamente, un passo nella parte motiva della sent. n. 254/92 faceva illo tempore paventare simile eventualità, v. G.P. VOENA, voce ‘‘Investigazioni ed indagini preliminari’’, in Dig. disc. pen., 4a ed., vol. VII, Torino, 1993, 271. (29) L’art. 503, pur dettato in generale per le parti private, si rivolge principalmente all’imputato. Si consideri come le dichiarazioni da questi rese nella fase investigativa siano sempre assistite dalle garanzie difensive: ad eccezione delle sommarie informazioni ex art. 350 c.p.p., la confluenza nel fascicolo dibattimentale è, quindi, sempre possibile attraverso la strada aperta dal comma 4. Il che, a ben vedere, rende in gran parte superflua l’omologazione con la disciplina sull’esame testimoniale. (30) In tal senso, M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, 1994, 104. (31) La questione si poneva anche prima della novella n. 306/92, in seno alla dottrina che riteneva in via analogica l’operatività dell’art. 503 c.p.p. nel corso dell’esame del coimputato in separato procedimento; contra, nel senso della confluenza delle dichiarazioni nel fascicolo dibattimentale, M. BARGIS, L’esame di persona imputata in un procedimento connesso, cit., 38; V. GREVI, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, cit., 1161, il quale riteneva di privilegiare la necessità di un trattamento uniforme tra gli imputati in un processo cumulativo e coloro che figurino tali nel corso di un iter separato; M. TERRILE, Utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, in Cass. pen., 1990, 1638.


— 502 — dalle necessarie garanzie difensive a tutela dell’inquisito (32). La condizione non è realizzabile per l’interrogatorio ex art. 363 c.p.p., in quanto spazio chiuso al difensore della persona sottoposta alle indagini (33). Si consideri, inoltre, come l’audizione del coimputato nella fase delle indagini preliminari, oltre ad essere naturalmente incompatibile con le forme del contraddittorio, non riproduca i limiti circa l’oggetto e le modalità della deposizione (art. 194 c.p.p.), né quelli che riguardano la testimonianza de relato. Cautele forse sovrabbondanti, là dove si configuri un atto dalle finalità investigative, ma che si traducono in gravi costi per l’attendibilità della conoscenza ove l’interrogatorio diventi lo strumento per acquisire la prova (34). Né il comprensibile ostacolo all’operare dell’art. 503, comma 5, c.p.p. determina un calo complessivo nella quantità delle conoscenze da utilizzare ai fini della decisione. Le dichiarazioni dell’imputato sull’altrui responsabilità figurano, accanto alle testimonianze, nel novero dei dati gnoseologici che possono formarsi mediante l’incidente probatorio. In altri termini, il sistema chiude sì la porta delle allegazioni ex art. 500, comma 5, ma apre, contemporaneamente, un’alternativa più garantita e, comunque, idonea ad evitare perdite di contributi conoscitivi. Quanto alle dichiarazioni rese dal coimputato nel corso dell’udienza (32) V., al riguardo, G. GROSSO, L’interrogatorio libero tra i due codici, cit., 303 e M. MURONE, Presupposti e limiti di utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni di imputato di reato connesso o collegato, in Giust. pen., III, 1991, 571. (33) Si ricordi come le dichiarazioni utilizzabili non siano solo quelle precedentemente rese ex artt. 363 o 351, comma 1-bis c.p.p. in qualità di persona imputata od indagata nel corso di un iter connesso o collegato, bensì anche quelle raccolte nel corso di indagini cumulative o nell’udienza preliminare prima di un avvio separato della fase procedimentale o di un provvedimento di separazione; v., per un quadro esauriente, M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate, cit., 100. In questa sede ci si limiterà a prendere in considerazione l’ipotesi in cui le regiudicande, unite dal vincolo connexitatis causae o collegate ex art. 371, comma 1, lett. b), c.p.p., seguano sin dall’incipit binari autonomi, pendendo dinanzi ad uffici diversi del pubblico ministero ovvero, pur di competenza del medesimo ufficio, trovandosi in fasi diverse; cfr., in argomento, G. BARONE, voce ‘‘Separazione e riunione dei giudizi’’, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1992, 8; L. D’AMBROSIO, sub art. 363, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. CHIAVARIO, vol. IV, Torino, 1990, 227. È appena il caso di notare, tuttavia, come le considerazioni esposte circa l’incompatibilità tra la disciplina dell’art. 363 c.p.p. e l’operare delle garanzie per il chiamato in correità, si attaglino anche all’interrogatorio dell’imputato (od indagato) nel processo cumulativo ove le dichiarazioni vertano sull’altrui responsabilità. (34) Sottolinea il profilo, A.A. SAMMARCO, La chiamata di correo, Padova, 1990, 117.


— 503 — preliminare ex art. 422 c.p.p., l’inoperatività dell’art. 503, comma 5, va ribadita. A parte la tutela dell’immediatezza nell’iter valutativo del giudice — principio comunque da salvaguardare anche se appannato da pesanti eccezioni — sono, in specie, i metodi inquisitori di assunzione (35) nonché i limiti posti alla ricerca istruttoria a deporre per l’uso endofasico degli elementi acquisiti. 5. Le letture: l’art. 513 c.p.p. nel disegno originario del codice. — Il regime delle letture (artt. 511-515 c.p.p.) rappresenta il banco di prova di un sistema tendenzialmente accusatorio, segnando l’inevitabile linea di compromesso tra la ripartizione funzionale delle fasi e l’esigenza di evitare la perdita di conoscenze in qualche modo già formate. Sul discrimine si colloca anche l’art. 513 c.p.p., il quale dosa l’impiego in giudizio delle dichiarazioni rese al p.m. o al g.i.p. da chi figuri imputato o coimputato nel corso di un processo cumulativo (comma 1) o da colui che rivesta simile qualifica nell’ambito di un iter connesso o collegato (comma 2). Lo spazio di operatività della disposizione non si spinge oltre il raccordo tra le fasi della medesima vicenda processuale (36). L’assunto, contrastato senza fondamento alcuno dalla giurisprudenza (37), vanta a suo favore un nutrito gruppo di solidi argomenti. La collocazione sistematica della norma — all’interno del corpus dedicato al recupero in dibattimento del materiale investigativo — e la formula testuale, che seleziona gli atti leggibili tramite il richiamo a specifici momenti dell’arco procedimentale — ‘‘nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare’’ — già non lascierebbero margini al dubbio. Si aggiunga la presenza di un’apposita disciplina circa l’uso di atti aliunde formati (art. 238 c.p.p.) e il silen(35) Le modalità acquisitive fanno sì che la prova non possa essere utilizzata in dibattimento ‘‘per il suo carattere atipico rispetto alla regola dell’esame diretto che trova invece applicazione nell’incidente probatorio’’, così, con buoni propositi in seguito disattesi, Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. Uff., supplemento ordinario n. 2, 22 ottobre 1988, n. 250, 56. (36) La dottrina è unanime al riguardo, v. M. BARGIS, L’esame della persona imputata, cit., 42; L. D’AMBROSIO, sub art. 210, in Commento, cit., 511; V. GREVI, Le dichiarazioni rese dal coimputato, cit., 1172; M. MURONE, Presupposti e limiti, cit., 564; L. PETRILLO, L’utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese dall’imputato ‘‘connesso’’, in Cass. pen., 1991, 177. (37) Cfr., Trib. Roma, 28 giugno 1991, Rinversi, in Gazz. Uff., 1a serie speciale, 9 ottobre 1991, n. 40, 57; Id. 22 giugno 1991, Mazza, ivi, 28 agosto 1991, n. 34, 13; Trib. Pesaro, 14 gennaio 1991, Pazzaglia, in Cass. pen., 1991, II, 534; Trib. Milano, 18 dicembre 1990, p.m. c. Tasca, in Arch. n. proc. pen., 1991, 772; contra, Cass., Sez. III, 3 luglio 1991, Cerra, in Giur. it., 1992, 204.


— 504 — zio serbato dall’art. 513 sulle narrazioni rese in dibattimento: omissione inspiegabile ove la norma fosse destinata a rivestire efficacia riguardo ad un diverso iter procedimentale (38). Alquanto impegnativa risulta la comprensione dei rapporti tra l’art. 513 e l’art. 512, disciplina-madre della categoria di atti ad irripetibilità sopravvenuta ed imprevedibile. Ricondotti entrambi alla direttiva n. 76 della legge delega, il legame tra loro parrebbe porsi alla stregua di un rapporto tra genus e species, pur nel rispetto degli ambiti di reciproca autonomia, la cui misura va colta attraverso un’analisi diversificata tra il primo ed il secondo comma dell’art. 513 c.p.p. Riguardo all’imputato, perplessità suscita la scelta di far confluire tra le cause idonee ad ostacolare la ripetizione dell’atto, l’indisponibilità all’esame (39). La contumacia, l’assenza, il rifiuto di sottoporsi all’escussione ad opera delle parti, sono tutti comportamenti riconducibili ad una scelta difensiva (40) e, prima ancora, alla libertà riconosciuta all’imputato circa il se ed il quando apportare il proprio contributo all’accertamento del fatto. Simile libertà è certo l’emblema dei modelli di stampo accusatorio, là dove la ricerca giudiziale non fa perno su tecniche tese a carpire all’inquisito ‘‘la verità’’, ma mostra di volerne e di saperne prescindere (41). L’art. 513 c.p.p. tradisce i buoni propositi sanzionando con il recupero di materiale investigativo l’opzione per l’autodifesa passiva ed azzerando gli effetti dell’ontologica diversità tra interrogatorio ed esame. Se così è, la mancata inclusione tra i presupposti legittimanti la lettura, dell’ipotesi di esercizio dello ius tacendi va segnalato come gesto di un residuo pudore legislativo. Mentre nel caso di rifiuto dell’imputato all’esame, infatti, l’attività acquisitiva non si svolge affatto — sì che la dichiarazione (38) Così M. NOBILI, sub art. 513, Secondo aggiornamento, cit., 270. (39) Cfr. F. CORDERO, Codice di procedura penale, Torino, 1990, 580; P. FERRUA, Studi sul processo penale I, Torino, 1990, 96; L. PETRILLO, op. cit., 542; G. UBERTIS, voce ‘‘Giudizio di primo grado’’, in Dig. disc. pen., 4a ed., Torino, vol. IV, 1991, 536. (40) La disciplina della contumacia assicura ‘‘con un ragionevole margine di sicurezza che l’eventuale assenza sia dovuta ad una scelta volontaria’’, v. G. ILLUMINATI, Giudizio, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. CONSO-V. GREVI, 3a ed., Padova, 1993, 478. (41) Si concorda nel ritenere caratteristica del metodo inquisitorio la concezione dell’imputato come ‘‘paziente’’ a cui si impone un obbligo di verità, cfr., in argomento, O. CAMPO, voce ‘‘Interrogatorio’’, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 334; M. NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 55. Nella tradizione accusatoria, invece, ‘‘l’impianto delle prove non ruota necessariamente intorno alla persona incriminata’’ privilegiando gli aspetti argomentativi, v. S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in questa Rivista, 1990, 888.


— 505 — resa in una precedente fase può a rigore ritenersi ‘‘irripetibile’’ — il silenzio opposto alle singole domande (art. 209, comma 2, c.p.p.) non impedisce il compimento dell’atto, il quale esiste come fatto processuale sebbene dia luogo, mercé l’esercizio di una facoltà legittima, a risultati diversi da quelli raggiunti nella fase di indagine (42). Tanto è vero che del rifiuto di rispondere è fatta menzione nel verbale come dato probatoriamente valutabile (43). Quanto all’art. 513, comma 2, l’incipit del testo nasce monco (‘‘Se le dichiarazioni sono rese...’’) con un implicito rinvio al comma precedente che ne integra il significato. Così gli atti a cui si riferisce saranno le narrazioni delle ‘‘persone indicate nell’art. 210’’, raccolte dal p.m. e dal g.i.p. durante le indagini. Le affinità si fermano qui, registrandosi, per il resto, contenuti difformi: contumacia, assenza e rifiuto a sottoporsi all’esame sono situazioni non proponibili per il coimputato, sul quale grava l’obbligo di comparire. In alternativa, il legislatore aveva indicato l’impossibilità di ottenere la presenza del narrante al giudizio, curando al contempo di prevenire il verificarsi della condizione tramite l’obbligo di esperire l’accompagnamento coattivo, l’esame a domicilio ovvero la rogatoria internazionale. Non si considerava (e non si considera) sufficiente accertare il presupposto per la lettura (ossia la mancata presenza della fonte di prova nel testo del codice) ma occorreva dimostrare che ci si era attivati, attraverso i mezzi all’uopo predisposti, perché la ‘‘ripetizione’’ dell’atto avesse luogo. Da sottolineare come, analogamente a quanto stabilito dal comma 1 per l’imputato (44), l’esercizio del diritto al silenzio non innescava, nel disegno ordito dal legislatore delegato, il meccanismo di recupero probatorio (45). Simili rilievi consentono di riprendere l’argomento circa i rapporti tra (42) Per l’impossibilità di dar corso alla lettura nel caso di rifiuto di rispondere alle singole domande, cfr. S. BUZZELLI, op. cit., 905; M. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., 299; contra E. FASSONE, Il giudizio, in Manuale pratico, cit., 780. (43) Una volta che l’imputato abbia chiesto o consentito al proprio esame, perde la facoltà di sottrarsi ‘‘impunemente’’ alle domande, il rifiuto a rispondere assumerà ‘‘il valore di argomento di prova’’, cfr. Relazione al progetto preliminare, cit., 64. Vi è comunque chi limita l’uso probatorio ‘‘al solo scopo di verificare e controllare l’attendibilità delle dichiarazioni rese’’, così R. ORLANDI, sub art. 209, in Commento al nuovo codice, vol. II, cit., 507. (44) Alcuni distinguono tra la facoltà di non rispondere alle singole domande concessa all’imputato nel corso dell’esame (art. 209, comma 2, c.p.p.) ed il diritto al silenzio globale, invece, previsto (oltre che durante l’interrogatorio ex art. 64, comma 3, c.p.p.) per il coimputato aliunde (art. 210, comma 4, c.p.p.). In altre parole, una volta che l’imputato abbia scelto di sottoporsi all’esame non potrebbe più esercitare lo ius tacendi nella sua inte-


— 506 — la disposizione de qua e la disciplina che prevede la lettura del materiale investigativo ‘‘quando per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione’’. Può ben dirsi che le dichiarazioni oggetto dell’art. 513, comma 1, siano totalmente estranee alla categoria generale degli atti contemplati dall’art. 512. L’irripetibilità del contributo dell’imputato è re ipsa, essendo ipotizzata e disciplinata in via specifica non può mai considerarsi nel sistema evento imprevedibile. L’irripetibilità ex post deriva, invece, da fatti extraprocessuali (morte, malattia) o da comportamenti processuali che, comunque, si pongono in contrasto con precisi obblighi giuridici (si pensi al teste che rifiuti di rispondere). In simili ipotesi il sistema reagisce al fenomeno naturale non prevedibile oppure alla condotta contraria alle regole poste dalla legge che costituisce ostacolo all’ordinario svolgimento dell’iter procedimentale. Da qui nascono le eccezioni ai principi. È, invece, contraddittorio prevedere come conforme al sistema un certo comportamento per poi, al suo verificarsi, sanzionarlo sul piano processuale tramite il recupero della dichiarazione resa in fase di indagini, di regola inutilizzabile ai fini del giudizio. Se, prescindendo da simili considerazioni, di irripetibilità si vuol parlare con riguardo al contributo reso dall’imputato, si tratterà, comunque di irripetibilità intrinseca, poiché perfettamente prevedibile fin dal momento in cui nasce l’atto narrativo. L’anomalia rispetto al materiale destinato a confluire nel fascicolo del dibattimento ex art. 431 lett. c), c.p.p. è data dalla duplice circostanza che l’impossibilità di ripetizione non è certa ab origine ma solo eventuale e non scaturisce da un fatto esterno al processo — non regolato o non regolabile dal sistema — bensì da una fonte normativa. La categoria includente gli atti ex art. 513, comma 1, si configura, quindi, come autonoma. Al suo esterno si collocano gli ostacoli allo svolgersi dell’esame riconducibili ad eventi estranei alla volontà dell’imputato quali, ad esempio, l’infermità od altro analogo impedimento che, pacificarezza, soggiacendo alle domande della controparte a cui dovrebbe di volta in volta opporre il silenzio; v., al riguardo, M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate, cit., 137; P. FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimentale dell’imputato: l’operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, 8; N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Milano, 1992, 331. Il distinguo, accettabile sul piano teorico, non pare abbia grande rilevanza pratica, almeno a non voler ravvisare nella mancata risposta alla singola domanda il presupposto per le contestazioni; cfr., più oltre, paragrafo 6. (45) In tal senso, E. FASSONE, Il dibattimento, in Quad. C.S.M., 1989, 443; G. FRIGO, Problemi deontologici, cit., 1181; G. ICHINO, Il giudice del dibattimento e la formazione della prova, in Quad. C.S.M., 1989, 516; M. MURONE, Presupposti e limiti, cit., 573.


— 507 — mente catalogabili tra le cause di irripetibilità sopravvenuta ed imprevedibile, segnano i confini per una residuale operatività dell’art. 512 c.p.p. (46). Altre considerazioni si attagliano al comma 2 dell’art. 513, dove si riafferma il rapporto di genere a specie con l’art. 512. Al pari del testimone, il coimputato deve presentarsi, sicché il mancato assolvimento dell’obbligo, configurando un ostacolo sopravvenuto allo svolgersi dell’esame, giustifica la lettura di quanto già dichiarato nel corso dell’interrogatorio. Al di fuori di tale ipotesi, il recupero dell’atto investigativo, formato davanti al pubblico ministero o al giudice, non era ammissibile nella versione originaria del codice. La natura della conoscenza, debole quanto ad attendibilità, spingeva il legislatore ad adottare una cautela inutilmente auspicata per delimitare l’intera categoria ex art. 512 c.p.p. (47), rendendo esplicita la situazione idonea a determinare l’impossibilità di acquisire la prova in giudizio, sia pure non indicandone le cause. L’art. 513, comma 2, ritagliava, in tal modo, all’interno della classe degli atti ad irripetibilità sopravvenuta, uno spazio più ristretto, esauriente le condizioni per la lettura delle dichiarazioni del coimputato. La differenza corrente tra i due comma dell’art. 513 non atteneva, quindi, soltanto all’ambito applicativo ma si allargava a comprendere la natura delle rispettive categorie di riferimento: l’una di derivazione autonoma, l’altra confluente nel genus ex art. 512 c.p.p. Da qui l’ostacolo a qualsiasi estensione analogica che mirasse ad integrare reciprocamente due discipline da tenersi ben distinte. Di contrario avviso si era mostrata parte della dottrina che, allarmata per la perdita del contributo del coimputato, derivante dalla mancata inclusione del rifiuto di rispondere tra i presupposti per la lettura, propen(46) L’art. 513, comma 2, c.p.p. nel prevedere l’accompagnamento coattivo, l’esame a domicilio o la rogatoria internazionale, pare presupporre l’esistenza in vita del narrante, cfr. M. TERRILE, op. cit., 1365. Si dubita, tuttavia, che anche nell’ipotesi di accadimenti imprevedibili possa darsi lettura delle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria ex art. 350 c.p.p. La Corte costituzionale (sent. 476/92) nel respingere la questione di legittimità dell’art. 513, comma 1, c.p.p., dove non include la lettura di simili dichiarazioni, ha ritenuto ragionevole la scelta compiuta dal legislatore in base alla considerazione per cui, di fronte alla p.g. non operano le medesime garanzie, invece, previste per l’interrogatorio condotto dal p.m. (art. 65 c.p.p.). (47) Sono palesi i rischi derivanti dalla omessa indicazione del parametro rivelatore dell’intera categoria, cfr., al riguardo, M. CHIAVARIO, La riforma del processo penale, 2a ed., Torino, 1990, 138; G. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in Foro it., 1988, 360; M. NOBILI, sub art. 512, in Commento, cit., vol. VII, 435.


— 508 — deva per un’interpretazione analogica del comma 1 dell’art. 513, là dove prevede il rifiuto all’esame come espediente idoneo al recupero dell’atto investigativo (48). Fungeva da sostegno sistematico la pretesa disparità di trattamento che, altrimenti, sarebbe venuta a crearsi tra il coimputato nell’ambito di un processo cumulativo e chi figurasse tale nel corso di un iter separato. 5.1. ...e nell’interpretazione datane dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 254/92. — L’argomento viene senza esitazioni condiviso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 254/92 dove, rilevatosi come minoritario l’indirizzo teso ad omologare le due discipline contemplate dalla norma in esame e non ravvisandosi ragionevole giustificazione nella diversità di trattamento ivi prevista, si dichiarava l’illegittimità dell’art. 513, comma 2, ‘‘nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone (sic!) la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al comma 1 del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell’art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere’’. La Corte ravvisa, quindi, un’identità di ratio nelle situazioni rispettivamente previste dal comma 1 e 2 dell’art. 513 c.p.p. Anche gli imputati in vicende processuali connesse o collegate, infatti, ‘‘hanno la possibilità di sottrarsi, in tutto o in parte, all’esame, così determinando, nel caso in cui avessero reso precedenti dichiarazioni, quel tipo di situazione che lo stesso legislatore delegato ha inteso qualificare come un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell’atto’’. La tesi poggia su un’analisi sistematica alquanto approssimativa. L’analisi dei rapporti correnti tra l’art. 512 e l’art. 513 c.p.p. ha posto in luce l’estraneità dei presupposti per la lettura delle dichiarazioni dell’imputato in un processo cumulativo alla categoria dell’irripetibilità sopravvenuta ed imprevedibile, destinata, invece, a ricomprendere le situazioni di impedimento previste per la persona aliunde imputata (art. 513, comma 2). Contumacia, assenza, rifiuto di sottoporsi all’esame, sono accadimenti non configurabili per i soggetti di cui tratta l’art. 210 c.p.p. Il vizio dell’iter argomentativo seguito dalla Corte, si annida nell’erronea equivalenza tra il rifiuto opposto all’esame da parte dell’imputato nel simultaneus processus ed il silenzio verso cui opta il coimputato in una vicenda connessa o collegata. La distinzione concettuale tra le due ipotesi — di(48) V. M. BARGIS, L’esame della persona imputata, cit., 30; L. D’AMBROSIO, sub art. 210, in Commento, cit., 1171; contra, pur auspicando un intervento di modifica legislativa, D. GROSSO, op. cit., 304.


— 509 — niego allo svolgersi dell’attività acquisitiva ed esercizio dello ius tacendi nel corso di essa — sopra evidenziata con riguardo all’imputato, ben si attaglia anche alla posizione di chi figuri tale nel corso di un separato procedimento. Solo il rifiuto di sottoporsi all’esame vale ad integrare l’irripetibilità (l’atto non si compie e non dà luogo ad alcun risultato) mentre il silenzio della parte rappresenta una delle modalità in cui l’esame può in concreto svolgersi (49). Trattasi di un atto inesistente sul piano fenomenico, ma percettibile nel mondo processuale dove vive ed è disciplinato (50). Occorreva, pertanto, tenere distinte le due situazioni ed equiparare il rifiuto di rispondere da parte di uno dei soggetti indicati dall’art. 210 c.p.p. all’esercizio di analoga facoltà da parte dell’imputato. Nell’una come nell’altra ipotesi sarebbe stata preclusa la lettura delle dichiarazioni rese anteriormente. Quanto all’ulteriore argomento, circa l’irrazionalità di un regime di acquisizione diverso dalle dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, a seconda che si opti per il cumulo ovvero per la pluralità di procedimenti, affatto pacifico è il postulato da cui muove, ossia l’accampata diversità di disciplina. Al contrario, dal sistema, ancora intonso dalle riforme novellistiche, avrebbe potuto emergere un’uniformità di trattamento. L’ambito del comma 1 dell’art. 513 poteva, difatti, essere agevolmente circoscritto, sì da indirizzare la lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso di un processo cumulativo verso un uso limitato alla responsabilità del narrante, escludendo, invece, l’utilizzabilità nei confronti di altri (51). (49) Definire in simile ipotesi irripetibili le dichiarazioni rese dall’imputato, ‘‘significa abbandonare l’idea di una irripetibilità legata al concetto di dispersione, che è la sola concepibile come deroga al principio di oralità-immediatezza’’ cfr., in tal senso, M. FERRAIOLI, Dubbi sull’acquisibilità delle dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato (o coimputato) che rifiuti l’esame in dibattimento, in Giur. cost., 92, 1958. Ma è proprio questa la strada, inaugurata con la sentenza n. 254/92, che la Corte costituzionale mostra di voler ancora percorrere: cfr., da ultimo, sent. n. 179 del 16 maggio 1994, dove si ammette la confluenza tra gli atti irripetibili ex art. 512, delle dichiarazioni rese in fase di indagini dal teste che in dibattimento si sia avvalso della facoltà di astensione. (50) Può dubitarsi dell’opportunità che il rifiuto posto all’esame, là dove l’imputato sia presente, figuri tra le circostanze idonee a legittimare la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza. Ma, una volta individuata un’eccezione irragionevole — ed il 513, comma 1, è tale dove equipara l’impossibilità di ripetizione alla libera scelta dell’imputato che si opponga all’esame — la mossa successiva non è quella di estenderne analogicamente l’ambito, sì da crearne un’altra di pari irragionevolezza. (51) Sebbene non sia in concreto agevole scindere il contenuto delle dichiarazioni ac-


— 510 — Simile interpretazione realizzava una migliore armonia con il testo costituzionale rispetto a quella di senso inverso, avvallata dalla Corte, che finisce per ampliare il novero degli atti assunti senza le garanzie difensive, per di più sottraendoli alla verifica del contraddittorio (52). Ma la conclusione verso un regime uniforme per le dichiarazioni che vertano sul fatto altrui — rese tanto nel corso del processo cumulativo quanto aliunde nell’ambito di una vicenda processuale conessa o collegata — si nutriva anche di coerenza sistematica. Oltre alla disciplina sull’incidente probatorio, dove l’elemento conoscitivo in discorso gode di spiccata autonomia (art. 392, lett. c, c.p.p.) e non risulta opponibile ai soggetti rimasti estranei al contraddittorio (art. 403 c.p.p.), si consideri come anche l’allegazione ex art. 503, comma 5, c.p.p. appaia strumentale ad un impiego ad personam. Né si ravvisano ostacoli ad una confluenza nel fascicolo mirata ad un uso probatorio circoscritto (53). In realtà, l’argomento posto a sostegno dell’ipotesi di lettura in seguito al rifiuto dell’imputato all’esame, non è spendibile quando la narrazione raccolta al di fuori del contraddittorio verta sul fatto altrui. Quanti giustificano la fattispecie ritenendola nient’altro che la conseguenza di una libera scelta dell’imputato, destinata a ripercuotersi sulla propria sfera processuale, non hanno, infatti, buon gioco ove la dichiarazione affermi la responsabilità di terzi: qui il chiamato in correità viene travolto da una sanzione — che si traduce nella perdita di ogni spazio per il confronto con il teste di accusa — legata a comportamenti sottratti al suo dominio (54). Nel sistema emergente dall’originario tessuto codicistico, le dichiarazioni dell’inquisito sul fatto del terzo, considerate quale mezzo gnoseologico autonomo, ben potevano ritenersi estranee al regime di acquisibilità dettato dall’art. 513, comma 1, e confluire in quello generale (art. 512) se quisite al fascicolo, pareva utile allo scopo ‘‘una diligente verbalizzazione’’, così: D. GROSSO, op. cit., 303. (52) È il c.d. right of confrontation dell’ordinamento nordamericano (cfr. G. FRIGO, Problemi deontologici, cit., 1182) recepito, nei suoi fondamentali contenuti, dall’art. 6, lett. d), Convenzione europea dei diritti dell’uomo. (53) L’allegazione al fascicolo del verbale utilizzato ex artt. 500 e 503 c.p.p., non comporta necessariamente una valenza probatoria ‘‘a tutto campo’’, bensì limitata alla persona nei cui confronti si è proceduto alle contestazioni, cfr. M. NOBILI, sub art. 513, in Commento al codice, cit., 273. (54) Cfr., criticamente al riguardo, M. MURONE, Deformazione della prova dibattimentale e lettura di interrogatori resi da imputato dello stesso reato o di reato connesso, in Giust. pen., 1992, 335.


— 511 — rese nel corso di un procedimento cumulativo oppure in quello speciale (art. 513, comma 2) ove la fonte fosse costituita da chi altrove rivestiva la qualifica di imputato. L’innegabile affinità con la disciplina prevista per le testimonianze sarebbe stata coerente, essendo nient’altro che il riflesso delle affini modalità di assunzione nel corso della fase di indagini. Pesava, per entrambe le tipologie di atto narrativo, la cortina del segreto calata sull’attività genetica. 5.2. Gli effetti della declaratoria di illegittimità. — L’ampliamento dell’art. 513, comma 2, rompe il disegno teso a stabilire l’identificazione del mezzo di prova costituito dalle dichiarazioni del coimputato con le forme dell’esame dibattimentale, trascurando del tutto le esigenze che a quel disegno erano sottese. Prima facie gli effetti dell’intervento della Corte Costituzionale possiedono un vasto raggio di portata: non operandosi alcuna distinzione al riguardo, parrebbe che la lettura, con relativa acquisizione in toto dei verbali dell’atto narrativo, debba seguire non solo dal silenzio opposto all’intero esame, ma altresì dal rifiuto di rispondere alle singole domande. Parte della dottrina, nel tentativo di ridurre l’ampiezza della falla aperta, s’ingegna di interpretare ‘‘per via logica’’ l’art. 500, comma 2-bis, sì da estenderlo all’esame delle persone imputate in un procedimento connesso ex art. 210 (55). La disposizione, infatti, nel legittimare l’uso delle contestazioni anche quando il teste ‘‘rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere’’, non è stata recepita dall’art. 503 per l’esame delle parti. Il legislatore potrebbe essere incorso in una svista: eventualità non peregrina, alla luce del basso livello di precisione e coordinamento in genere riscontrato negli ultimi interventi novellistici. Simile chiave di lettura incontra, tuttavia, difficoltà non facilmente superabili attraverso i consueti strumenti interpretativi. Il contenuto dell’art. 500, comma 2-bis, non è l’unica nota che distingue la disciplina sulle contestazioni ai testi da quella omologa prevista per le parti. Diverso è, infatti, anche il regime di allegazione al fascicolo, là dove in un caso le narrazioni impiegate per far risaltare la difformità tra il contributo attuale e (55) Cfr. in tal senso, v. GREVI, Facoltà di non rispondere delle persone esaminate ex art. 210 c.p.p. e lettura dei verbali di precedenti dichiarazioni, in questa Rivista, 1992, 1130 e, allargando l’operatività delle contestazioni anche nel caso in cui sia l’imputato a non rispondere alle singole domande nel corso dell’esame ex art. 209, M. BARGIS, Dichiarazioni di imputati, cit., 139; M. TERRILE, Utilizzabilità dibattimentale, cit., 1623.


— 512 — quello reso nelle fasi anteriori ‘‘sono acquisite nel fascicolo del dibattimento e sono valutate come prova dei fatti in esse affermati’’, mentre nell’altro continua a vigere la regola che limita l’impiego dei dati raccolti al di fuori del contraddittorio al fine di ‘‘stabilire la credibilità della persona esaminata’’. Il divario è troppo consistente per riferirlo ad una semplice svista e non, invece, ad una precisa volontà di tenere distinte le due discpline allo scopo di restringere l’ampiezza del recupero probatorio delle dichiarazioni rese dalle parti. Che poi simile scopo venga frustrato, con riguardo alla persona aliunde imputata, dall’estensione all’apparenza più vasta oggi assunta dall’art. 513, comma 2, è conseguenza che il legislatore plausibilmente non raffigurò tra le sue previsioni. All’uniformità di disciplina delle contestazioni si oppone, comunque, un dato normativo fin troppo esplicito e, pertanto, non aggirabile, almeno de iure condito. Piuttosto si potrebbe dubitare che il responso della Corte Costituzionale implichi necessariamente l’equiparazione tra l’esercizio a tutto campo e quello solo parziale della facoltà di non rispondere. Si è detto come il percorso argomentativo seguito nella sentenza faccia perno sull’asserita identità di situazioni tra l’ipotesi dell’imputato che scelga di sottrarsi all’esame (art. 513, comma 1) e quella del coimputato che rifiuti ‘‘in tutto o in parte’’ di rispondere (comma 2). È anche vero, tuttavia, che l’art. 513, comma 1, non considera affatto il silenzio opposto alle singole domande. Più in generale, può dirsi che il sistema non riconosce l’esercizio dello ius tacendi quale condizione legittimante la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza dall’imputato. L’equiparazione tesa dalla Corte, almeno così come argomentata, potrà al più valere tra il mancato svolgimento dell’esame per scelta dell’imputato ed il rifiuto di rispondere alla totalità delle domande proveniente dalla persona aliunde imputata, ma non tra il primo termine di paragone ed il silenzio solo parziale, pena la creazione — ultra petita e non motivata — di un’ennesima ipotesi di lettura da inserire nella categoria prevista dall’art. 513, comma 1, in contrasto con quella che parrebbe una precisa, nonché ribadita, scelta sistematica. Tutto ciò sembra un risultato francamente eccessivo, specie ove sia raggiunto per via derivata da una declaratoria di illegittimità riguardante non già la posizione dell’imputato, bensì quella di uno dei soggetti ex art. 210 c.p.p. Anche dopo la sentenza n. 254/92 deve, pertanto, ritenersi che l’esercizio della facoltà di non rispondere alle singole domande resti ipotesi


— 513 — estranea all’area dei presupposti idonei a promuovere al rango di prova le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio. 6. L’acquisizione di verbali di altri procedimenti. — L’art. 238 c.p.p. si muove nell’alveo infido del flusso probatorio tra diverse vicende processuali. Se, per un verso, si affianca alla disciplina sull’esame della persona aliunde imputata, condividendone l’intento di fronteggiare la dispersione del patrimonio di conoscenze causata dal favor separationis, dall’altro, se ne distacca in maniera netta, perché non predispone strumenti alternativi per la formazione della prova, bensì mira al recupero di conoscenze scritte di provenienza esterna (56). Il dissidio tra le esigenze istruttorie e quelle sottese alla oralità nella formazione della prova, veniva composto dal legislatore del 1988 tramite il consenso delle parti, richiesto in linea di massima quale condicio sine qua non per l’impiego di dati altrove raccolti. In seguito, il turbinoso mutamento del sistema ha travolto quella linea di compromesso, adottando, di fatto, la libera circolazione del materiale probatorio. Senza limiti si configura l’acquisibilità dei verbali ‘‘di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento’’, dove controversa è la portata della seconda precisazione, alcuni riferendola alle sole conoscenze formate in dibattimento (57), altri interpretandola in senso più ampio come comprensiva degli atti ivi acquisiti tramite lettura (58). Sembra preferibile la prima delle due soluzioni. Depongono in tal senso la stessa dinamica dell’iter legislativo — nel passaggio del decreto alla legge di conversione scompare dal testo la formula ‘‘verbali di cui è stata data lettura’’ — oltre alla scelta lessicale, là dove il participio ‘‘as(56) Di qui la consapevolezza che una gestione poco accorta dell’istituto ‘‘avrebbe finito per operare una breccia non indifferente nel sistema congegnato al fine di garantire l’oralità e l’immediatezza del dibattimento’’, cfr. Relazione al Progetto preliminare al codice, cit., 67. La disciplina s’ispira in gran parte all’art. 144-bis c.p.p. 1930, v., al riguardo E. AMODIO, Il regime probatorio conseguente alla separazione di procedimenti connessi, cit., 37; F. CORDERO, Tre studi sulla prova penale, Milano, 1963, 43; G. LOZZI, I limiti all’acquisizione degli atti processuali ex art. 144-bis c.p.p., in questa Rivista, 1988, 316. (57) Cfr., in particolare, J. CALAMANDREI, Verbali di prove e documenti acquisibili da altri procedimenti dopo la riforma del 1992, in Giust. pen., III, 93. (58) In tal senso, F. CORDERO, Procedura, cit., 673; G. FRIGO, sub art. 3 d.l. n. 306/92, in Le misure antimafia, cit., 6; R.S LODOVICI, Regime differenziato di formazione della prova nei procedimenti di criminalità organizzata, in Cass. pen., 1994, 484; P.P. RIVELLO, sub art. 3 d.l. 8 giugno 1992, in Leg. pen., 1993, 48; G. SANTALUCIA, Prova penale e criminalità mafiosa nei recenti interventi legislativi, in Giust. pen., 1992, III, 679.


— 514 — sunte’’ pare evocare in esclusiva il momento genetico della prova (59). Si noti, inoltre, come l’opposta interpretazione renderebbe pleonastici sia il richiamo alle conoscenze formate nell’incidente probatorio che l’espressa disciplina circa l’impiego degli atti non ripetibili: per entrambe le categorie il modo di acquisizione al dibattimento è costituito dalla lettura. Altro nodo concerne la compatibilità degli artt. 401, comma 6; 402 e 403 c.p.p. (60), intesi tutti a far coincidere, almeno nel disegno del legislatore delegato, l’impiego della prova raccolta nel corso dell’incidente probatorio con lo spazio accordato alle parti al momento della sua formazione. La méta si è però rilevata velleitaria e, alla luce dell’‘‘onnivoro’’ principio della non dispersione dei mezzi di prova (61), l’insieme di quelle norme è parso ingombrante. Si prospettava il rischio di incidenti macroscopici con le intuitive difficoltà di gestione che ne sarebbero seguite (62). Se simili profezie fossero fondate, invero, non ci è dato sapere: l’incidente probatorio è caduto in desuetudine, svuotato dallo più spiccio strumento delle letture dibattimentali degli atti di indagine (63). Pur così ristretta nella sua applicazione, la disciplina dell’istituto ha continuato, tuttavia, a suscitare un certo allarme se la Corte costituzionale, con la sentenza n. 181 del 1994, ha ritenuto opportuno intervenire, circoscrivendo drasticamente la portata dell’art. 403 c.p.p. Qualificato il divieto alla stregua di una ‘‘sanzione processuale per violazione del contraddittorio’’, dalla sua sfera esula la conoscenza formatasi ‘‘nei confronti di soggetti che solo suc(59)

Analogamente, A. BRACAGLIA, sub art. 3 d.l. n. 306/92, in Crit. dir., 1992,

57. (60) Cfr. per la soluzione positiva, G. BONINSEGNA, Brevi note intorno al nuovo art. 238 del codice di procedura penale, in Arch. n. proc. pen., 1993, 363; G. FRIGO, op. cit., 6; J. CALAMANDREI, op. ult. cit., 96; P.P. RIVELLO, op. cit., 49. (61) Si tratta del principio che la Corte costituzionale ha ritenuto implicito nel sistema (v., in particolare, la sent. n. 255 del 1992) dove vivrebbe contrapposto e naturalmente destinato a prevalere su quello di oralità. Così intesa l’esigenza ‘‘di non dispersione dei mezzi di prova’’ ha fornito il grimaldello per forzare le regole probatorie analogalmente a quanto accadeva (e tutt’ora accade) con il principio del libero convincimento del giudice, spesso imbracciato dalla giurisprudenza al medesimo scopo. (62) Cfr., in particolare, P.L. VIGNA, Il processo accusatorio nell’impatto con le esigenze di lotta alla criminalità organizzata, in Giust. pen., 1991, 474. (63) È vero che l’art. 512 c.p.p. richiede un ostacolo non prevedibile alla formazione della prova in dibattimento, ‘‘ma ben sappiamo come sia difficile valutare con rigore ex post tale dato; e, del resto, l’esperienza dimostra che la semplice irreperibilità del teste, per la concomitanza di un viaggio all’estero, è ritenuta condizione sufficiente ad integrare l’irripetibilità sopravvenuta della deposizione’’, così, G. ICHINO, Alcuni spunti di riflessione sul tema delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1993, 695.


— 515 — cessivamente all’assunzione della prova (...) sono stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che, per definizione, nessun contraddittorio poteva essere nei loro confronti assicurato’’. Facile obiettare come simile lettura ammicchi a facili mosse elusive della ‘‘sanzione’’ in discorso ed intenda il contraddittorio nella limitata ottica del diritto di difesa, trascurandone l’ulteriore ruolo all’interno di un metodo di accertamento improntato a criteri di verifica razionale. Ma, tant’è, imboccata la strada, la Corte prosegue nello stesso senso di marcia là dove affronta il nodo più scottante della questione, ossia i rapporti correnti tra gli artt. 403 e le disposizioni tese a regolare l’impiego dei verbali di diverso procedimento. La censura (sentenza n. 198 del 1994) investiva in via principale l’art. 238 c.p.p., il giudice remittente prospettando un contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., sulla base di un’interpretazione che coglieva nella norma processuale una deroga all’art. 403, sì da permettere l’impiego delle prove formate in altro procedimento anche al di fuori delle garanzie ivi sancite. Il prologo della motivazione faceva ben sperare: pur cogliendo l’elemento di novità apportato dalle modifiche legislative (art. 3, l. n. 356/92), ‘‘nell’esigenza di valorizzare la prova scritta consentendo l’acquisizione di prove assunte in altri procedimenti a prescindere dal consenso delle parti’’, l’interprete deve pur sempre ispirarsi alla ‘‘salvaguardia del contraddittorio, espressione del più generale diritto di difesa’’. L’art. 238, comma 1, potrà, quindi, ricevere applicazione ‘‘di fronte ad una prova assunta con incidente probatorio senza la presenza del difensore, in quanto i soggetti nei confronti dei quali la prova dovrà essere utilizzata non avessero o non potessero assumere la qualità di persone sottoposte alle indagini’’. Prima che emerga, infatti, una notizia di reato ‘‘e che essa si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona, non può esistere un problema di diritto di difesa’’. Ciò equivale ad ammettere l’operatività del divieto ex art. 403 c.p.p. anche nel corso di un diverso procedimento, per questa via subordinando l’uso del materiale di provenienza esterna alla regola generale operante in tema di acquisizione. Si tratta di una tesi condivisibile e già auspicata in quanto rispettosa del valore della coerenza sistematica (64). L’avallo del giudice costituzio(64) V., per simile soluzione, C. SQUASSONI, sub art. 238, in Commento al nuovo codice, vol. II, cit., 662. Si tratta di una tesi sostenuta anche con riguardo alla disciplina del codice abrogato, cfr., per tutti, F. CORDERO, Scrittura e oralità nel rito probatorio, in Tre Studi, cit., 234.


— 516 — nale è però tardivo, giungendo solo dopo lo svuotamento delle norme poste a tutelare la dialettica tra le parti durante la formazione della prova nel procedimento di origine. La Corte, infatti, sulle orme della sentenza n. 181 del 1992, assicura la ‘‘salvaguardia’’ di un contraddittorio amputato della funzione di metodo di ricerca. Ne usufruiscono i soggetti già investiti della qualifica di indagati e non anche coloro i quali ‘‘solo successivamente all’assunzione della prova ovvero proprio sulla base di essa sono stati raggiunti da indizi di colpevolezza’’. Con riguardo al contributo reso dal coimputato aliunde in sede di incidente probatorio, l’esito più plausibile consisterà nell’esclusione del difensore di colui che sia chiamato in causa dal contenuto delle dichiarazioni. Accadrà così che, in alternativa alla richiesta di esame anticipato dei soggetti ex art. 210, da svolgersi nel dialogo tra tutte le parti interessate, si potrà più semplicemente domandare l’acquisizione di quanto altrove dichiarato pur in assenza del principale interlocutore, ossia di colui a cui si attribuisca la responsabilità del fatto. Il costo dell’intera operazione pare molto elevato. Si pensi al collaboratore di giustizia che rilasci dichiarazioni a tutto campo, coinvolgenti una pluralità di fatti e persone. Qui è il contraddittorio aperto a ciascuno dei chiamati in correità l’unico strumento di verifica attendibile del contenuto dell’atto narrativo, anche in vista dei riscontri postulati dall’art. 192, comma 3, c.p.p. Il fenomeno, tanto corteggiato dai mass-media, dell’imputato ‘‘eccellente’’ protagonista sulla scena di più dibattimenti, chiamato più volte a rendere dichiarazioni sul medesimo tema, peserà con indubbio dispendio di energie sul narrante e sui suoi interlocutori (65), eppure non pareva lecito giocare al risparmio. Per questo, è altrettanto criticabile la scelta di consentire senza limiti l’acquisizione delle prove assunte in altro dibattimento (art. 238, comma 1, c.p.p.). Ove si tratti dei risultati dell’esame di colui che in quella od in diverse sedi figuri come imputato (artt. 208 e 210 c.p.p.), il contraddittorio può svolgersi monco della partecipazione di chi rivesta analoga qualifica nel procedimento a quo: questi, non necessariamente è stato parte nell’iter dove si è formato il dato conoscitivo. A suo tempo, si era pensato di imporre simile condizione per l’im(65) Cfr. le considerazioni in tema di L. VIOLANTE, La formazione della prova nei processi di criminalità organizzata, Relazione della commissione parlamentare antimafia, in Cass. pen., 1992, 484.


— 517 — piego del verbale di prova (66), ma partito migliore sarebbe stato conservare come limite l’accordo delle parti. Il filtro della volontà consensuale, infatti, secondo una logica non estranea al sistema, se pareva idoneo a legittimare una deroga alla disciplina in punto di prova (ossia al di fuori degli artt. 401 e ss.), ben poteva, d’altro canto porsi come garanzia alternativa al contraddittorio (67). Neanche si distinguono per cautela le modifiche apportate al comma 3 dell’art. 238, dove si specifica che la condizione di non ripetibilità ivi indicata per l’ingresso dei verbali aliunde formati sia da intendersi come comprensiva dell’irripetibilità ex post. In tal modo, assurgono a dignità di prova, non solo atti raccolti nella fase investigativa con un simulacro di contraddittorio, ma altresì la ‘‘documentazione’’ di materiale prodotto al di fuori di qualsiasi garanzia difensiva (68). In particolare, il varco è praticabile per le dichiarazioni rese dal coimputato in separato procedimento, ove la non reiterabilità derivi da una delle ipotesi configurate dall’art. 513, comma 2, la cui portata — nei termini precisati dalla sent. 254/92 Cost. — viene così a coprire anche i rapporti tra dibattimento e fasi anteriori di diverse vicende processuali (69). Al riguardo può porsi in dubbio che un rapporto di irripetibilità corra tra atti non perfettamente omologhi, quali l’audizione dell’imputato ed il mancato esame ex art. 210. Ci si domanda cioè, se le dichiarazioni rese al(66) Si trattava di un’indicazione proveniente dall’Unione delle Camere Penali, cfr. G. FRIGO, op. ult. cit., 6. (67) È la Corte costituzionale a tracciare, nella sent. n. 189/94, un interessante parallelo tra la disciplina dell’art. 238 c.p.p. e l’incidente probatorio, a sua volta contrassegnato, quale istituto tipico della fase delle indagini preliminari (dove ‘‘la prova è suscettibile di dilatazioni quanto alla sua dimensione soggettiva’’), dalla possibilità di ‘‘utilizzazione congiunta della prova in processi diversi’’. Il fine restava, tuttavia, sempre condizionato alla salvaguardia dei diritti delle persone interessate. ‘‘Ove ciò non si fosse verificato’’, ossia non si fosse provveduto ad estendere il contraddittorio ex art. 403 c.p.p., il testo originario dell’art. 238 c.p.p. ‘‘subordinava l’acquisizione della prova assunta nell’incidente probatorio al consenso delle parti’’. (68) Sotto questo profilo non era certo ‘‘irragionevole’’ (così P.P. RIVELLO, op. cit., 50) l’esclusione dall’originario testo dell’art. 238 degli atti ad irripetibilità ex post, venuti alla luce in uno spazio sconosciuto alla difesa. (69) Non osta a simile ricostruzione l’art. 511-bis c.p.p., il quale nel prevedere che il giudice disponga ‘‘anche d’ufficio... lettura degli atti indicati dall’art. 238’’, sembra occuparsi delle modalità di acquisizione piuttosto che dei requisiti a cui subordinare l’uso dei verbali probatori di origine esterna, cfr., in argomento, M. BARGIS, Dichiarazioni di imputati, cit., 179. In assenza di una disciplina speciale, pertanto, le dichiarazioni rese in altro procedimento dai soggetti indicati all’art. 210, confluiranno nel processo a quo nelle ipotesi figurate all’art. 513, comma 2.


— 518 — trove, in qualità di imputato, possano equipararsi a quelle da rilasciare nel giudizio in corso nelle vesti di imputato in diversa vicenda processuale. Deve, ad ogni modo, riconoscersi l’influenza esercitata dal contesto in cui le dichiarazioni vengono raccolte (70). Circostanze oppure omissioni giudicate utili all’interno di un disegno di tattica difensiva, potrebbero non esserlo altrettanto se rapportate alla posizione altrui. Né può invocarsi il contraddittorio, eludibile in entrambe le vicende processuali, per approfondire i temi meno trattati e vagliare affermazioni suscettibili di esser travisate se avulse dal contesto di provenienza. Non dovrebbe, invece, destare preoccupazione il comma 4 dell’art. 238, dove è previsto un residuale modo di impiego per le dichiarazioni — non molte in verità — irrecuperabili attraverso le forme descritte dai commi precedenti. I relativi verbali potranno essere utilizzati solo dietro consenso di parte ovvero, in mancanza di questo, ‘‘a norma degli artt. 500 e 503’’. L’uso del contributo altrove reso da uno dei soggetti ex art. 210 c.p.p. sarà, pertanto, limitato a sondare la credibilità del narrante (art. 500, comma 3, c.p.p.) mentre è da escludere l’allegazione al fascicolo, posta l’assenza del difensore dell’imputato all’atto genetico della prova (art. 503, comma 5). 6.1. ...e lo svuotamento di contenuto e funzioni dell’esame ex art. 210 c.p.p. — La blanda disciplina dettata dall’art. 238 per regolare il flusso di conoscenze tra diversi i procedimenti, è il fattore che più di altri pone in crisi il ruolo del mezzo di prova configurato all’art. 210 c.p.p. Concepito come canale privilegiato per l’assunzione del contributo della persona altrove imputata, l’esame rischia di essere relegato ad una funzione marginale. Basterà che il narrante, pur comparendo al dibattimento, si rifiuti di rispondere, per consentire a dichiarazioni rese nel segreto delle indagini di confluire tra le fonti decisorie senza neppure il vaglio del contraddittorio tra le parti. Mentre si materializza lo spettro dell’antica prassi delle conferme, non si può fare a meno di pensare all’entità della strada percorsa rispetto al disegno originario del codice che individuava nella cross-examination la tecnica di acquisizione indispensabile per conferire dignità di prova alle narrazioni sul fatto altrui. Il nuovo testo dell’art. 238, comma 2, si affianca all’art. 210, di fatto ponendo sullo stesso piano l’interrogatorio segreto e l’esame svoltosi con le garanzie del(70) Sottolinea la ‘‘diversa valenza che una stessa dichiarazione può assumere secondo l’ambito in cui viene resa’’, G. UBERTIS, Le modifiche del legislatore, in Italia Oggi, 23 ottobre 1992, 10.


— 519 — l’oralità. Anzi, il fastidio del legislatore verso il metodo del contraddittorio pare raggiunga livelli ancor più elevati, addirittura privilegiando il materiale probatorio formato in altri procedimenti. Si allude al combinato disposto degli artt. 468, comma 4-bis e 495, comma 1, dove, in maniera per molti versi stupefacente, si scandiscono i tempi per l’ammissione dell’esame di persone che abbiano altrove reso dichiarazioni, da acquisire attraverso il meccanismo dell’art. 238. La citazione chiesta dalle parti, ‘‘è autorizzata dal presidente solo dopo che in dibattimento il giudice ha ammesso l’esame a norma dell’art. 495’’, il quale, a sua volta, subordina ‘‘la nuova assunzione della stessa prova’’ alla previa acquisizione dei verbali di altro procedimento. Ogni aspetto della disciplina, ad iniziare dal linguaggio utilizzato, là dove si equipara disinvoltamente l’escussione orale (‘‘nuova assunzione’’) allo scritto di origine esterna (‘‘stessa prova’’) (71), sino ai contenuti che impongono un iter defatigante alla richiesta dell’esame, tradisce la bassa fortuna in cui oggi versa la garanzia del contraddittorio. Più dell’esplicito intento di scoraggiare la formazione orale della prova, maggiori preoccupazioni suscita l’eventualità che il giudice, acquisiti i verbali ex art. 238, valuti superfluo lo svolgimento dell’esame (72), sempre all’interno di un quadro in cui, smarrito il valore del contraddittorio, le relative forme divengono inutili orpelli. Né, per allontanare simili fantasmi, si può far affidamento sull’ausilio del comma 4 dell’art. 238, là dove riconosce ‘‘il diritto delle parti di ottenere a norma dell’art. 190 l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite a norma dei commi 1, 2 e 4 del presente articolo’’. Solo in apparenza la formula salvaguarda il contraddittorio, in realtà, la scelta circa i modi di assunzione della prova è rimessa alla volontà dell’accusatore, il quale, di volta in volta deciderà se sia più proficuo esporre il coimputato alle domande delle parti oppure indurlo a tacere. Si noti come, a tal punto, la distanza tra la disciplina esaminata ed il controverso testo dell’art. 190-bis c.p.p., diventi più apparente che reale. La disposizione, dal raggio operativo circoscritto ai ‘‘procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis’’, conculca in maniera (71) Cfr., criticamente, G. FRIGO, sub art. 7 d.l. n. 306/1992, in Le misure antimafia, cit., 13; B. PETRALIA, Esame di persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato. Acquisizione di prova documentale, in Giust. pen., 1994, 349; P.P. RIVELLO, Commento all’art. 7 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, cit., 94. (72) Lo sottolinea, C. TAORMINA, Il processo di parti di fronte al nuovo regime delle contestazioni e delle letture dibattimentali, in Giust. pen., 1992, III, 454.


— 520 — espressa il diritto alla prova subordinando, nell’ipotesi in cui le dichiarazioni siano già state acquisite ex art. 238, alla mera discrezionalità del giudice l’ammissione dell’esame della persona aliunde imputata. Accolta da una gragnuola di critiche, la normativa nasce in aperto conflitto, oltre che con i principi costituzionali (artt. 3, 24, comma 2 e 27 Cost.) (73), con gli artt. 6, lett. d), Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 14, n. 3, lett. e), Patto internazionale sui diritti civili e politici, disposizioni entrambe accomunate dallo scopo di assicurare l’esercizio dell’attività difensiva tesa ad esaminare i testimoni a carico (74). Eppure, l’art. 238, comma 3, con modi meno eclatanti — acquattato com’è tra le pieghe del sistema — realizza una violazione della difesa se possibile ancor più grave. L’art. 190-bis, pur sottraendo alle parti un diritto, affida la tutela delle esigenze sottese a quel diritto, ad un organo super partes, mentre la disposizione in discorso, finisce per far dipendere il rispetto delle garanzie difensive e di attendibilità dell’accertamento degli umori del pubblico accusatore. Ecco un altro effetto della sentenza n. 254 del 1992: il diritto al silenzio previsto a salvaguardia dei soggetti indicati all’art. 210 si trasforma in un ostacolo per la difesa dell’imputato e in un serio intralcio alla ricostruzione del fatto. Lo svuotamento dello ius tacendi, piegato a strumento di recupero degli atti investigativi, non solo rende inutile, ma, addirittura, nociva l’estensione ai coimputati in diverso procedimento delle garanzie dettate per l’imputato. 7. La testimonianza della polizia giudiziaria: un ulteriore veicolo di acquisizione? — È noto come la sentenza costituzionale n. 24 del 1992, abbia cancellato il divieto per gli appartenenti alla polizia giudiziaria di ‘‘deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni’’ (art. 195, comma 4, c.p.p.), ritenendolo ‘‘sfornito di ragionevole giustificazio(73) Non si può discriminare un individuo solo perché accusato di un grave delitto senza calpestare il principio di non colpevolezza, cfr., in tal senso, P.P. RIVELLO, op. cit., 54; per altro verso, insistono sulla violazione dell’art. 24 Cost., G. ICHINO, op. ult. cit., 698; G. LOCATELLI, Alcune osservazioni sulle modifiche al codice di rito conseguenti al d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito nella legge 7 agosto 1992 e alle pronunzie della Corte costituzionale n. 24, 254 e 255 del 1992, in Cass. pen., 1992, 3178. (74) La disciplina processuale non deve trovarsi in contrasto ‘‘con le prescrizioni che riguardano un giusto processo’’, cfr. G. UBERTIS, op. ult. cit., 10. Tanto basta a motivare l’espulsione dal sistema di questo vero e proprio monstrum giuridico: così M. BARGIS, Dichiarazioni di imputati, cit., 216.


— 521 — ne’’ rispetto alla restante disciplina approntata in tema di testimonianza de relato. Puntuali le critiche sollevate in seno alla dottrina che esattamente ha fatto osservare come quella regola non inibisse alla polizia giudiziaria la testimonianza indiretta, bensì quel particolare tipo di testimonianza avente ad oggetto la dichiarazione da altri resa nel contesto di un atto processuale (75). Rimarchevoli sono le conseguenze che la peculiarità riflette: la narrazione non è spontanea ma nasce sollecitata dall’agente o dall’ufficiale di polizia, i quali agiscono nell’ambito di un’attività istituzionalmente loro demandata come quella investigativa. Sarà inevitabile che le sollecitazioni esercitate sul dichiarante ubbidiscano ad un disegno di tattica accusatoria, così come la medesima prospettiva sarà destinata a guidare le eventuali testimonianze sul contenuto dell’atto da parte del funzionario di polizia giudiziaria. Per questa via, potrà accadere che il contributo delle persone informate sui fatti venga ad arte plasmato, accentuando il carattere unilaterale in vista di un recupero ai fini decisori già prefigurabile (76). La vicenda coinvolge le dichiarazioni rese dai soggetti indicati all’art. 210 c.p.p., grazie al richiamo ivi contenuto alla disciplina sulla testimonianza de relato. Nonostante l’originaria mancanza di una fattispecie come quella oggi prevista all’art. 351, comma 1-bis — che esplicitamente attribuisce alla polizia giudiziaria il potere di assumere dichiarazioni dalla persona imputata in un procedimento connesso o collegato — al divieto in discorso poteva riconoscersi egualmente un margine di operatività ove l’audizione dell’imputato aliunde si ritenesse possibile tanto nell’ambito dell’attività autonoma di polizia giudiziaria quanto nell’esercizio di quella delegata (77). Senza parlare dell’ipotesi usuale in cui l’agente o l’ufficiale di polizia assiste all’interrogatorio condotto dal pubblico ministero per documentarne l’esito (78). (75) Esulavano dal divieto le dichiarazioni solo occasionalmente percepite dall’operatore di polizia giudiziaria e non sollecitate nell’esercizio dell’attività di indagine. In tal caso la narrazione altrui diviene ‘‘mero elemento fattuale del comportamento tenuto dal dichiarante’’, cfr. F. PERONI, La testimonianza della polizia giudiziaria al vaglio della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1992, 688, nonché M. TORNATORE, Testimonianza indiretta e deposizione di appartenenti ad organi di polizia giudiziaria, in Giur. cost., 1992, 2317. (76) V., in tal senso, G. GIOSTRA, Equivoci sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e sacrificio del principio di oralità, in Riv. dir. proc., 1992, 1131. (77) Cfr., in tal senso, G. AMATO-M. D’ANDRIA, Organizzazione e funzioni di polizia giudiziaria nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 139; L. D’AMBROSIO-P.L. VIGNA, Polizia giudiziaria e nuovo processo penale, Roma, 1989, 244. (78) Benché in simili ipotesi l’ufficiale od agente di p.g. possa considerarsi un ausilia-


— 522 — È plausibile, tuttavia, ritenere che, se anche la disciplina dettata per l’esame del coimputato in diverso procedimento non avesse inglobato l’art. 195, comma 4, pure in nessuno dei giudizi svoltisi fino alla sentenza n. 24/92, un funzionario di polizia giudiziaria sarebbe comparso a deporre su quanto da lui stesso appreso dal soggetto in questione. In realtà, prima dell’intervento della Corte, sarebbe parsa idea balzana l’eventualità di una testimonianza di siffatto contenuto. Ed ecco il punto. L’effetto dirompente della sentenza in esame, tale da propiziare addirittura il superamento del sistema (79), si coglie nel principio in essa implicito per cui ‘‘tutte le risultanze investigative della fase delle indagini preliminari potranno — veicolate dalla testimonianza della polizia giudiziaria — essere ‘travasate’ nel dibattimento’’ (80). Si pone così sul tappeto una nuova questione, affatto rilevante prima dell’intervento della Corte costituzionale. Sembra opportuno vagliare la possibilità di estendere al contributo reso dai soggetti ex art. 210 il divieto di deporre sulle ‘‘dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall’imputato o dalla persona sottoposta alle indagini’’. Scopo eminente dell’art. 62 c.p.p. è di far sì che l’atto narrativo giunga ‘‘a conoscenza del giudice attraverso l’esclusivo veicolo della documentazione formale con le garanzie ad essa connesse’’ (81). Da notare come la matrice sia la medesima dell’art. 195, comma 4, entrambe le disposizioni mirando a salvaguardare la separazione tra la fase investigativa e quella processuale (82), attraverso il rafforzamento delle regole che sanciscono l’ordinaria inutilizzabilità degli atti compiuti prima del giudizio. rio del pubblico ministero, soggetto in quanto tale all’incompatibilità ex art. 198, comma 1, lett. d); cfr., per la soluzione positiva, Cass., Sez. VI, 21 aprile 1994, Tigani, in Arch. n. proc. pen., 1994, 522; Id., Sez. I, 21 luglio 1993, Maiorano, ivi, 1994, 135. (79) Si è parlato al riguardo di ‘‘avvio del meccanismo degenerativo’’, v. P. FERRUA, Studi sul processo penale II, cit., 158. (80) Così, G. GIOSTRA, op. cit., 1137. Vero è che la ratio dell’art. 195, comma 4, non si identificava nel ‘‘sottrarre l’appartenente alla polizia giudiziaria all’imbarazzo della testimonianza’’ bensì nell’‘‘impedire che per tale via penetrasse nel materiale per il giudizio ciò che l’organo pubblico avesse acquisito nel corso della sua attività investigativa’’, in tal senso: G.P. VOENA, voce ‘‘Investigazioni e indagini preliminari’’, cit., 270; analogamente, v. J. CALAMANDREI, sub art. 195, in Commento al nuovo codice, cit., vol. II, 438 e M. SCAPARONE, La testimonianza indiretta dei funzionari di polizia giudiziaria, in Giur. cost., 1992, 127. (81) In questi termini: Corte cost., sentenza 13 maggio 1992, n. 237, dove, nel respingere una questione di legittimità dell’art. 62 c.p.p. sotto il profilo degli artt. 3, 76 e 111 Cost., correttamente si precisa la ratio del divieto. (82) Lo conferma il fatto che, in sede di progetto preliminare, il divieto ex art. 195, comma 4, comprendeva, oltre alle dichiarazioni assunte dai testi, anche quelle apprese ‘‘dall’indiziato non assistito dal difensore’’, cfr., in argomento, F. PERONI, op. cit., 694.


— 523 — Il divieto ex art. 62 possiede, tuttavia, più forza dell’omologo ormai abrogato, comprendendo le dichiarazioni ‘‘comunque’’ rese (spontaneamente o dietro sollecitazione) a qualsiasi soggetto, anche se privo della qualifica di ufficiale od agente di polizia giudiziaria ovvero di magistrato. L’ampiezza dell’ambito applicativo si spiega con la qualità della posta in gioco: tramite la testimonianza di p.g. potrebbero approdare al dibattimento narrazioni rese dall’imputato al di fuori delle garanzie difensive ed, in particolare, senza l’adeguata tutela del diritto al silenzio (83). La considerazione vale anche per il sapere delle persone imputate in separato procedimento: l’uniformità delle forme di acquisizione rispetto a quelle previste per il contributo dell’imputato, richiede una disciplina egualmente idonea a tutelarne il rispetto. Il nemo tenetur se detegere insieme all’assistenza difensiva del narrante connotano l’interrogatorio dei soggetti indicati all’art. 210 rispetto alla testimonianza, giustificando l’estensione del divieto probatorio sancito all’art. 62 c.p.p. All’argomento analogico, basato sull’identità di ratio, si aggiungono, a favore della lettura proposta, le conseguenze aberranti verso cui guiderebbe una diversa soluzione. Si pensi al pericolo, già evidenziato con riguardo alla testimonianza, consistente nell’immettere nel processo elementi conoscitivi modellati a misura della tesi accusatoria. La tentazione guadagnerebbe forza di fronte al contributo di uno dei soggetti menzionati all’art. 210 c.p.p., in vista della possibilità, sempre aperta, che costoro adottino la scelta del silenzio in sede dibattimentale, determinando così l’irripetibilità dell’atto. Ancora, sul piano dell’uniformità di trattamento, si noti come il coimputato altrove risulterebbe svantaggiato rispetto al proprio omologo nel simultaneus processus, il quale può senz’altro usufruire della garanzia ex art. 62 c.p.p. La testimonianza della polizia giudiziaria sulla narrazione raccolta nelle forme dell’art. 351, comma 1-bis (ovvero ex art. 363, quando l’atto sia delegato dal pubblico ministero) si presterebbe, infine, ad aggirare il (83) La dottrina ne coglie ‘‘la funzione precipua nei confronti delle dichiarazioni che la persona sottoposta alle indagini o i soggetti individuabili ex art. 63 rendono alla polizia giudiziaria al di fuori dell’assistenza del difensore’’, v. G.P. VOENA, Atti, in Profili, cit., 57. Escludendo la testimonianza de auditu, si elimina ‘‘un incentivo non secondario ad approfittare della mancanza del difensore al compimento dell’atto per impiegare indebiti strumenti di pressione al fine di ottenere l’apporto dell’indagato’’, così: R.E. KOSTORIS, sub art. 62, in Commento al nuovo codice, cit., vol. I, 317.


— 524 — divieto probatorio sancito per l’imputato. Tramite il meccanismo regolato dall’art. 238 c.p.p., il verbale della dichiarazione trasmigrerebbe in diverso processo e potrebbe essere utilizzato contro colui che ivi figuri come persona imputata. Viceversa, può configurarsi l’ipotesi del funzionario di p.g. chiamato a deporre sulle dichiarazioni rese in altro procedimento da colui che risultasse imputato in quella sede. Si ammetterebbe in tal modo una via di acquisizione parallela o addirittura alternativa all’esame ex art. 210 c.p.p., con intuibili effetti sui valori sottesi al contraddittorio. A sua volta, la deposizione testimoniale, debitamente documentata, potrebbe trovare ingresso nel procedimento a carico dell’imputato cui le narrazioni si riferiscono ed ivi essere utilizzata nei suoi confronti, in patente deroga all’art. 62. Si tratta, come si vede di una reazione a catena che sarebbe saggio non innescare, poste le conseguenze devastanti sull’ordito, già compromesso, del tessuto probatorio. 8. Una prospettiva di intervento. — Il punto finale della parabola involutiva subita dal codice ci indica un risultato opposto rispetto a quello ambito agli albori del nuovo modello di processo. Se lo scopo, a suo tempo suggerito dall’esperienza, si identificava in una disciplina che condizionasse l’uso delle dichiarazioni del coimputato ad una maggior accortezza nei modi di formazione della prova — sì da sgravare il momento valutativo delle tensioni indotte dalla presenza di elementi probatori ‘‘impuri’’ — la soluzione attualmente adottata dal codice latita soprattutto sul piano delle garanzie per il chiamato in correità. Segue il corollario per cui lo svilimento delle potenzialità difensive si riflette in negativo sulla verosimiglianza dell’accertamento del giudice. Fattore decisivo in simile bilancio sembra essere l’intervento con cui la Corte costituzionale ha ricondotto l’esercizio del diritto al silenzio da parte di uno dei soggetti sub art. 210, tra i presupposti legittimanti la lettura delle dichiarazioni rese nelle fasi anteriori al giudizio. La scelta di tacere al dibattimento diventa così il veicolo per l’uso di dichiarazioni rese di fronte ad organi investigativi del medesimo (art. 513, comma 2, c.p.p.) o di altro procedimento (art. 238, comma 5) nella totale assenza di contraddittorio tra l’imputato ed il teste di accusa. Valutati i costi, è bene riflettere sull’opportunità di conservare il diritto al silenzio in capo all’imputato, nella stessa o in diversa vicenda pro-


— 525 — cessuale, quando il tema della dichiarazione consista nell’altrui responsabilità. In teoria, non vi sono ostacoli a considerare l’atto narrativo de quo come autonomo rispetto al contributo che l’imputato renda sul fatto proprio. Si è detto come l’art. 392, comma 2, lett. c), c.p.p., muova i primi passi in questa direzione. D’altro canto il diritto al silenzio trova fondamento nel principio del memo tenetur se detegere, in astratto non intaccabile dalle narrazioni che abbiano ad oggetto ‘‘fatti concernenti la responsabilità di altri’’. In realtà, quasi mai è possibile scindere in maniera netta la pluralità di imputazioni soggettive, donde il tema della narrazione può facilmente scivolare fino ad investire il fatto proprio. Se ciò è vero, bisogna, inoltre, considerare che l’obbligo di deporre su responsabilità concernenti soggetti diversi, specie nell’ambito di un processo cumulativo, striderebbe inevitabilmente con la presunzione di non colpevolezza (84). Tanto basta a consigliare di mantenere l’integrità del diritto al silenzio, almeno con riguardo ai coimputati in procedimenti, cumulativi o separati, che ancora non abbiano ultimato il loro corso. Residua, invece, il dubbio sulla necessità di conservare quel diritto in capo alle persone condannate con sentenza irrevocabile. Durante i lavori preparatori, la scelta, poi prevalsa, di estendere l’area dell’incompatibilità a testimoniare fino a comprendere coloro che avessero dismesso la qualifica di imputato in seguito ad una condanna, ancorché passata in giudicato (art. 197, comma 2, lett. a, c.p.p.), è stata particolarmente dibattuta (85). La giustificazione fornita illo tempore dai suoi assertori era, in realtà, piuttosto debole. Il pericolo paventato, di dichiarazioni menzognere strumentali ad una richiesta di revisione, costituisce un’eventualità, oltre che remota, già altrimenti fronteggiabile attraverso il vaglio a cui è sottoposta la domanda della parte (artt. 630 e ss.). In relazione ai fatti definitivamente accertati svanisce l’esigenza di tutelare lo ius tacendi secondo l’ampiezza che esigono i principi costituzio(84) ‘‘... è sostenibile che l’imputato debba ‘parlare’ pure in relazione ai complici solo qualora si presupponga la sua colpevolezza’’, cfr., in tal senso, G. UBERTIS, ‘‘Nemo tenetur se detegere’’ e dialettica processuale, in Giust. pen., 1994, 99. (85) Il progetto preliminare al codice del 1988, restringeva l’area dell’incompatibilità a quanti conservano la qualifica di imputato. Intervenuta la sentenza (di proscioglimento o di condanna) non più soggetta ad impugnazione, la persistenza del divieto non appariva ‘‘giustificata da ragioni di tutela contro autoincriminazioni’’, cfr. Relazione al progetto preliminare, cit., 129-130.


— 526 — nali (artt. 24, comma 2 e 27, comma 2, Cost.) a salvaguardia della persona sottoposta al procedimento penale (86). In simili ipotesi pare, viceversa, sufficiente la garanzia contro l’autoincriminazione predisposta dalla disciplina sulla testimonianza (art. 198, comma 2, c.p.p.). Ben può dirsi, pertanto, che i soggetti chiamati a depore ex art. 210 c.p.p. in seguito a condanna divenuta definitiva godono di una facoltà sfornita di giustificazione. E si tratta di ipotesi destinate a verificarsi con una certa frequenza: ogni volta si opti per uno dei riti speciali. Al riguardo, lo studio di diritto comparato rivela come nel modello processuale statunitense, il procuratore — salvo i casi di urgenza — si impegni ad ottenere la collaborazione dell’imputato, solo dopo che questi sia stato riconosciuto colpevole dalla giuria (87). La scelta, guidata proprio dalla necessità di operare in uno spazio posto al riparo dal ‘‘privilege against self incrimination’’, appare altresì ottimale sul piano delle garanzie di attendibilità della prova, là dove svanisce l’interesse dell’imputato a mentire in sostegno della propria vicenda processuale. All’accoglimento nel nostro sistema di una soluzione di tal genere, sicuramente auspicabile, si è opposta in passato l’inesistenza di forme c.d. di premialità negoziale (88) che consentissero, grazie all’accordo intervenuto tra le parti, la rapida uscita di scena dell’imputato disposto a collaborare. Pur con le debite distinzioni, anche il nostro modello processuale conosce attualmente fattispecie di giustizia ‘‘negoziata’’ in cui, ferma la presenza forte del controllo giurisdizionale, le parti dispongono in ordine sia ai tempi e modi dell’accertamento sia alla quantità di pena da irrogare. (86) Seguendo la logica della presunzione di innocenza va escluso ‘‘che la ricerca delle prove prenda le mosse dalle ‘discolpe’ dell’imputato, il quale non è tenuto a fornirne perché può contare su un risultato favorevole se le prove di accusa sono insufficienti’’, in tali termini: G. ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, 164. Il silenzio dell’imputato costituisce, quindi, un’espressione della scelta per un’autodifesa passiva e come tale va rispettato; al riguardo, cfr. per tutti, V. GREVI, Nemo tenetur se detegere, Milano, 46. (87) Cfr. G. NEPPI MODONA, I ‘‘collaboratori della giustizia’’. Le garanzie per gli accusati e la protezione degli accusatori nel sistema processuale nord-americano, in Quest. giust., 1988, 165. (88) Il modello della premialità negoziale, adottato nei paesi di common law, si contrappone al modello della premialità legale, tipico dei sistemi processuali del Continente europeo. Mentre in un caso le varie forme di esenzione del processo e della pena sono gestite in esclusiva dal prosecutor, nell’altro, le fattispecie premiali, delineate dal diritto sostanziale, richiedono un penetrante controllo del giudice: cfr. E. AMODIO, Maxiprocessi e ‘‘pentiti’’ nell’esperienza continentale e del sistema di common law, in Doc. giust., 1988, 93.


— 527 — Non sembra allora azzardato, in analogia con quanto accade nei sistemi di marca anglosassone, caldeggiare una soluzione legislativa che, salvo casi eccezionali dettati dalla necessità di tempi più ristretti, circoscriva l’uso delle chiamate in correità all’ipotesi in cui l’imputato-collaboratore abbia abbandonato in via definitiva il palcoscenico del processo. Lungo la medesima direttrice, un intervento più circoscritto e realisticamente praticabile nell’immediatezza, porterebbe a riconoscere il diritto al silenzio solo in capo alle persone imputate nell’ambito di procedimenti, cumulativi o separati, ancora in itinere. Una limitazione in tal senso potrebbe inserirsi nel testo dell’art. 210, nonché, ancor prima, all’interno della disciplina sugli interrogatori delineati agli artt. 351, comma 1-bis e 363 c.p.p. Non è, invece, consigliabile la via alternativa di restringere l’area dell’incompatibilità a testimoniare. L’effetto di una simile operazione sarebbe quello di escludere le dichiarazioni rese dai soggetti de quo dal campo operativo dell’art. 192, comma 3, c.p.p. Malaugaratamente le potenzialità della regola si estrinsecano in negativo: attenuando il rigore nella valutazione delle prove ivi non comprese. Dr. ALESSANDRA SANNA


GIURISPRUDENZA

B) Giudizi di Cassazione

CASSAZIONE PENALE — Sez. Un. — 18 giugno 1993 Pres. Brancaccio — Rel. Buogo — Ric. Dell’Omo Misure coercitive — Revoca — Motivi — Richiamo a fatti sopravvenuti alla definitività del titolo custodiale — Necessità — Questioni concernenti la sussistenza originaria dei presupposti della misura — Proponibilità solo con richiesta di riesame. La revoca di una misura coercitiva può avere luogo solo in conseguenza di elementi acquisiti successivamente alla definitività del titolo custodiale e tali da inficiare le condizioni in base a cui questo venne emesso. Pertanto la richiesta di revoca non può fondarsi su questioni attinenti la sussistenza originaria dei presupposti della misura (ad esempio dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p.), queste ultime potendo essere dedotte esclusivamente con richiesta di riesame del provvedimento restrittivo (1). (Omissis). — Si rileva in fatto che a seguito di una rapina consumata il 3 luglio 1991 nell’abitazione di Sabri Mohamed ed in conseguenza del riconoscimento fotografico di due dei tre rapinatori, in data 24 marzo 1992, il G.i.p. del Tribunale di Napoli emetteva a carico di Dell’Omo Francesco e Ceparano Salvatore un’ordinanza di custodia cautelare in carcere siccome indagati in ordine ai delitti di rapina aggravata, detenzione e porto illegale di arma comune da sparo, violazione aggravata di domicilio. Poiché il Dell’Omo ed il Ceparano si davano alla latitanza, l’ordinanza predetta poteva essere eseguita solo il 10 agosto 1992 nei confronti di Dell’Omo e l’11 ottobre 1992 nei confronti del Ceparano, ossia dopo che, già il 14 maggio 1992, il p.m. aveva chiesto l’emissione del decreto che dispone il giudizio. Nell’interesse di Dell’Omo il 16 settembre 1992 veniva chiesto il riesame della misura coercitiva, confermata dal Tribunale di Napoli con ord. 30 ottobre 1992. Successivamente ambedue gli imputati chiedevano al G.i.p. la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere lamentando di non essere stati interrogati entro i cinque giorni previsti dall’art. 294 c.p.p. e comunque deducendo che erano venuti meno gli indizi di colpevolezza: il Dell’Omo deduceva inoltre che l’ordinanza del riesame 30 ottobre 1992 era stata adottata oltre il decimo giorno dalla


— 529 — ricezione degli atti sicché il titolo custodiale aveva perso efficacia ai sensi dell’art. 309 comma 10 c.p.p., ed egli doveva essere rimesso in libertà. Con ord. 23 novembre 1992 il G.i.p. respingeva le istanze confermando la presenza dei gravi indizi di colpevolezza ed osservando, in ordine al mancato interrogatorio entro i cinque giorni, che l’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stata eseguita dopo che si era già chiusa la fase delle indagini preliminari. In ordine all’ulteriore censura del Dell’Omo rilevava che essendo pervenuti in tribunale gli ultimi atti il 22 ottobre 1992, l’ord. 30 ottobre risultava emessa nel rispetto del termine perentorio di dieci giorni fissato dall’art. 309 commi 9 e 10 c.p.p. Il provvedimento del G.i.p. era gravato dagli appelli dei due imputati e il Tribunale di Napoli, riuniti i due procedimenti, respingeva le impugnative con ord. 15 gennaio 1993. Propongono ricorso i difensori deducendo: 1) per il Dell’Omo la violazione dell’art. 309 commi 9o e 10o c.p.p. perché la menzione della data del 22 ottobre 1992 come quella in cui erano arrivati gli atti non era esatta in quanto, come risultava dalla documentazione che produceva, gli atti relativi alla richiesta di riesame erano pervenuti in tribunale il 15 ottobre 1992, il 16 ottobre 1992 il tribunale aveva chiesto ulteriori atti e questi erano quelli pervenuti il 22 ottobre 1992. Sostenendo che dovevasi avere riguardo alla data di arrivo dei primi atti (15 ottobre 1992) e non alla data di ricezione degli atti ulteriori, il ricorrente osservava che la data del 30 ottobre 1992 oltrepassava il termine di 10 giorni entro cui avrebbe dovuto essere deciso il riesame, sicché esso Dell’Omo doveva esere rimesso in libertà. 2) per il Ceparano si esprimono censure sia per il mancato soddisfacimento, nell’udienza preliminare delle richieste istruttorie avversanti gli indizi di colpevolezza, sia per la mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 274 c.p.p. in ordine alle esigenze cautelari, sia, infine, per il mancato interrogatorio dell’imputato entro i cinque giorni dall’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 294 c.p.p. La decisione sui ricorsi anzidetti è stata devoluta a queste Sezioni unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p., per i contrasti insorti fra le singole Sezioni di questa Corte in ordine al dies a quo iniziano a decorrere i 10 giorni di cui all’art. 309 commi 9 e 10 c.p.p. quando gli atti vengono trasmessi al tribulane per il riesame non tutti contemporaneamente, oltre che per il rilevante, generale interesse alla risoluzione della questione. La problematica sollevata dal ricorrente Dell’Omo in ordine all’esegesi dell’art. 309 comma 9 c.p.p., com’è stato da taluno evidenziato in dottrina, riflette l’anomalia di un termine perentorio (così voluto dal successivo comma 10 della stessa norma) caratterizzato dalla mobilità del dies a quo. Essa peraltro non può non essere risolta, nel rispetto del sistema nel quale è inserita la norma, tenendo conto della funzionalità del riesame e dell’esigenza incoercibile per il tribunale di avere completa cognizione degli atti sulla cui base è stata emessa l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Devesi ovviamente tenere in evidenza particolare che la disposizione in


— 530 — esame, ponendo il termine perentorio di 10 giorni entro il quale il tribunale deve decidere sulla richiesta di riesame, si colloca fra quelle che meglio fissano e pongono in luce l’intento legislativo di accelerare al massimo quel procedimento, imponendone una rapida definizione al fine di contemperare le esigenze del processo penale con il diritto di libertà e con la presunzione di non colpevolezza di cui agli artt. 13 e 27 Cost., sacrificando questi ultimi solo nei casi previsti dalla legge e con una verifica su di essi la più rapida possibile. Secondo il dato letterale dell’art. 309 c.p.p. e secondo interpretazione logica, quando il comma 9 stabilisce il suddetto termine per la decisione, lo fa decorrere dalla ricezione degli atti, e questi non possono essere che quelli indicati nel precedente comma 5 il quale chiarisce trattarsi degli « atti presentati a norma dell’art. 291 comma 1 c.p.p. » ossia degli atti prodotti dal p.m. a sostegno della richiesta di misura coercitiva. Ciò basta già ad escludere che sulla decorrenza del termine in questione possa avere influenza la eventuale produzione, nel corso delle udienze di riesame, di ulteriori elementi addotti dalle parti, a ciò abilitate dal medesimo comma 9 dell’art. 309 c.p.p. Per contro, la stessa formulazione del testo, secondo cui il dies a quo si attiva « dalla ricezione degli atti » sta a significare, secondo la comune accezione, che deve trattarsi di tutti gli atti e non solo di parte di essi, perché se ciò avesse consentito il legislatore avrebbe specificato la possibilità di frazionamento. Se si tiene presente che il tribunale, nel procedere al riesame della misura, non ha alcun potere istruttorio e che, d’altra parte, deve essere messo in condizione di esercitare il compito per il quale è stato istituito, secondo un criterio di mirata funzionalità, devesi ritenere — anche in via sistematica oltre che letterale — che gli atti dal cui arrivo inizia a decorrere il termine di 10 giorni sono solo — ma anche tutti — quelli a suo tempo inviati dal p.m. al g.i.p. a sostegno della richiesta di misura cautelare, nonché ogni altro che si trovi con quelli in rapporti di connessione essenziale, come lo sono gli atti necessari alla verifica di ammissibilità dell’impugnazione (es. verbali esecuzione o notificazione del titolo) e l’interrogatorio dell’indagato, cioè tutti quelli assolutamente indispensabili per un corretto riesame. Poiché il legislatore ha fissato il termine di 10 giorni dalla ricezione degli atti per il procedimento di riesame, ritenendo perciò stesso iuris et de iure, che un tale lasso di tempo sia sufficiente all’esaurimento degli adempimenti necessari all’espletamento di un procedimento di natura urgente (avvisi, notifiche, studio degli atti, decisione e redazione del provvedimento) va escluso che sul termine predetto possano influire, postergandolo, gli atti inerenti allo stesso procedimento del riesame, come sopra elencati a titolo esemplificativo. Va quindi ribadito che non basta l’arrivo parziale di atti rientranti fra quelli di cui all’art. 291, comma 1 c.p.p. per fare iniziare il decorso del termine in questione, essendo indispensabile che il tribunale sia posto in grado di esercitare con piena cognizione il compito istituzionalmente demandatogli; sicché il dies a quo inizia a decorrere solo dal momento in cui si perfeziona l’arrivo in tribunale di tutti — e non solo di parte degli — atti sopramenzionati, specificamente riguar-


— 531 — danti quel determinato procedimento incidentale e quindi il singolo indagato che chiede il riesame. Con la ulteriore conseguenza che, nel caso di indagini preliminari particolarmente corpose e con numerosi soggetti sottoposti a misure coercitive, l’arrivo degli atti dei primi coindagati che chiedano il riesame, ancorché comprensivi pure di quelli concernenti altri coindagati postulanti il riesame tempestivamente ma in tempo successivo, non è utile a fare decorrere anche per questi ultimi il termine di cui all’art. 309 comma 9 c.p.p. prima che il tribunale riceva o gli atti specificamente riguardanti gli ultimi richiedenti o, quanto meno, notizia che tutti gli atti indispensabili al riesame anche per costoro siano già in suo possesso in tal modo ponendolo in condizione di avviare le ulteriori procedure di riesame anche nei confronti di chi potrebbe averlo chiesto, seppure tempestivamente, ma in tempo addirittura successivo alla scadenza del termine di 10 giorni dell’arrivo dei primi atti, elasso in conseguenza delle precedenti richieste di riesame. La disposizione di cui all’art. 100 delle norme di attuazione del nuovo codice di rito penale non può avere alcuna incidenza sulla individuazione del dies a quo di cui all’art. 309 comma 9 c.p.p. non solo perché nulla dice, né esplicitamente né per connessione implicita, che sia utile a porre un collegamento fra le due norme ai fini del predetto dies a quo, ma soprattutto perché si riferisce in genere ad ogni caso in cui sia impugnato un provvedimento concernente la libertà personale, imponendo alla cancelleria o segreteria del giudice procedente di trasmettere al giudice competente gli atti necessari per decidere sull’impugnazione, così riferendosi anche agli appelli ed ai ricorsi, relativamente ai quali gli artt. 310 e 311 c.p.p. non pongono invece alcun termine perentorio entro cui decidere. Egualmente deve ritenersi che le disp. att. dell’art. 101 c.p.p. non abbiano valenza utile a farle ritenere come eccezione ad un principio generale, le quali si pongano, da sole, come uniche cause di spostamento del termine. Invero, a parte ogni considerazione che può farsi in ordine alla incapacità delle norme di attuazione a prevalere od a modificare la legge al cui servizio sono state emanate, va osservato che nell’art. 101 predetto sono considerate le due ipotesi (legittimo impedimento dall’indagato od imputato che ha chiesto di essere sentito personalmente e non sia detenuto in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice del riesame; indagato od imputato detenuto in luogo posto fuori dal circondario del tribunale competente) in cui viene specificato un diverso momento in cui, arrivando in tribunale parte degli atti (qui consistenti nell’esame dell’indagato) si perfeziona il completamento degli atti necessari al riesame, spostando il dies a quo ad una data successiva unicamente perché questa è conseguenziale ad una specifica richiesta d’essere sentito da parte dell’indagato, e quindi nel suo interesse. Il che — anzi — conferma la necessità che il momento iniziale di decorrenza dei 10 giorni previsti dall’art. 309 comma 9 c.p.p. coincida con il completamento degli atti indispensabili ad una esauriente loro cognizione da parte del tribunale ai fini del riesame, pur se non strettamente annoverabili fra quelli di cui all’art. 291 comma 1 c.p.p. ma con loro in stretta connessione. Né con ciò si realizza (trovandosi ordinariamente gli atti di cui all’art. 291 comma 1 c.p.p. in possesso del p.m.) una ingiustificata disparità di trattamento in


— 532 — favore della posizione del p.m. perché, anche nei casi in cui al momento del riesame quegli atti si trovino presso quell’ufficio, egli non è portatore di alcun interesse che ostacoli o ritardi l’immediata ed integrale trasmissione al tribunale di tutti quegli atti, nella loro interezza, ciò costituendo oltre tutto uno specifico dovere di quell’ufficio che ne dispone, rispetto al quale ogni eventuale ritardo od ingiustificato frazionamento troverebbe una sanzione quanto meno disciplinare. Il ricorso di Dell’Omo, che assume come data iniziale di decorrenza dei 10 giorni quella di arrivo in tribunale dei primi ed incompleti atti, anziché quella in cui si perfezionò la completezza degli atti medesimi è quindi infondato e va respinto. Eguale sorte deve avere il ricorso del Ceparano il quale, col primo motivo, insiste nell’invocare la perenzione del titolo custodiale per non essere stato interrogato entro cinque giorni dall’esecuzione del provvedimento. Va premesso che la perenzione di un titolo può intervenire solo nei casi tassativamente previsti dalla legge, con esclusione di applicazione analogica od estensiva. Nella specie viene invocata la disposizione dell’art. 302 c.p.p., che prevede una delle ipotesi in cui perde efficacia il provvedimento che ha disposto la custodia cautelare: ciò in conseguenza del mancato interrogatorio dell’indagato entro il termine di cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia, come disposto dall’art. 294 comma 1 c.p.p. Ambedue le norme fanno esplicito ed ineludibile riferimento al « corso delle indagini preliminari », richiamate sul punto anche dalla relazione al nuovo codice di rito penale perché « muovendo delle considerazioni della natura di strumento di difesa dell’interrogatorio, si è ritenuto di dovere concedere in taluni casi al giudice il potere-dovere di esaminare l’imputato con le modalità dell’interrogatorio, ma con finalità sostanzialmente diverse da quelle dell’interrogatorio del p.m., vale a dire a fini di controllo e di garanzia, non di investigazione ». Cioè al fine di assicurare in termini brevi, attraverso il contatto diretto con l’indagato e l’attivazione di una immediata discolpa, l’acquisizione di ogni elemento utile per un’urgente verifica — da parte del giudice — della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura cautelare. Il che deve intendersi superato — nel sistema processuale — quando, essendo stata conclusa l’indagine preliminare e non essendo stata chiesta l’archiviazione, il p.m., che è il gestore di quella fase, investe del procedimento il giudice mediante la promozione dell’azione penale con la formulazione dell’imputazione in uno dei modi previsti nei tit. 2, 3, 4 e 5 del lb. 6, ovvero, con la richiesta di rinvio a giudizio. Se, quindi, la custodia cautelare viene disposta in una fase successiva alla chiusura delle indagini preliminari oppure anche se il soggetto contro cui è stato emesso il provvedimento di custodia cautelare in carcere viene catturato successivamente alla conclusione di quella fase, ancorché l’ordinanza custodiale sia stata emessa durante dette indagini preliminari, non vige più l’obbligo del suo interrogatorio entro cinque giorni e non può attivarsi la relativa comminatoria di cessazione di efficacia del titolo ex art. 304 c.p.p. Devesi quindi convenire con la consolidata giurisprudenza delle singole se-


— 533 — zioni di questa corte che hanno escluso la perenzione del titolo custodiale per omesso interrogatorio dell’imputato nei casi predetti, cui corrsponde quello del ricorrente Ceparano, poiché l’ordinanza di custodia cautelare venne emessa nei suoi confronti il 24 marzo 1992, la richiesta di rinvio a giudizio venne formulata dal p.m. il 14 maggio 1992 ma egli venne catturato solo l’11 ottobre 1992, ossia successivamente alla chiusura della fase delle indagini preliminari. Non vale obiettare che, nel caso in esame, siavi stato un rinvio dell’udienza preliminare, perché la fase delle indagini preliminari non si conclude con il decreto del g.i.p. che dispone il giudizio, bensì con la presentazione della richiesta del p.m., ormai irretrattabile perché sostanzia uno dei modi con cui viene promossa l’azione penale. Le ulteriori argomentazioni svolte col ricorso del Ceparano, per quanto è consentito intendere dato che non evidenziano con chiarezza né petitum né causa petendi, non possono trovare ingresso nel presente procedimento. Se, infatti con esse si è voluto proporre doglianza perché il decreto che ha disposto il giudizio è stato emesso senza la previa audizione di testi a discolpa, depositari di alibi, con ciò il ricorrente, necessariamente, impugna il provvedimento col quale è stato disposto il giudizio che è, invece, sottratto ad ogni mezzo di impugnazione in base al principio della tassatività dei mezzi di impugnazione, invece esperibili nelle fase successive del processo. Se, con esse, si intende invece esprimere censura perché non sono stati escussi testimoni che avrebbero potuto fare venire meno, ai fini delle ordinanze di custodia, i gravi indizi di colpevolezza, va sottolineato che la contestazione di quei gravi indizi avrebbe potuto e dovuto essere mossa mediante richiesta di riesame, non attraverso un’istanza di revoca (paludante una tardiva richiesta di riesame) dell’ordinanza che aveva disposto la custodia, laddove la revoca può avere luogo, ai sensi dell’art. 299 c.p.p., solo in conseguenza di quanto acquisito successivamente alla definitività del titolo custodiale e sostanzialmente o processualmente inficiante le condizioni in base alle quali era stato emesso quel determinato provvedimento. Anche sotto questo ulteriore profilo, pertanto, sarebbe stato inammissibilmente richiesto, sotto forma di revoca, ciò che avrebbe dovuto formare oggetto di riesame, nel cui corso, come già rilevato, il tribunale può tenere conto anche degli elementi dedotti dalle parti in udienza. Sotto qualsivoglia profilo si intendono esaminare le ulteriori censure del Ceparano, queste si rivelano inammissibili. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. dalla reiezione dei ricorsi discende il solidale onere delle spese del procedimento. — (Omissis).

—————— (1)

Revoca e riesame delle misure coercitive.

1. Con lo stabilire nell’art. 299, comma 1o c.p.p. che le misure cautelari coercitive sono revocate dal giudice quando i loro presupposti risultano mancanti


— 534 — ‘‘anche per fatti sopravvenuti’’, il legislatore ha evidentemente inteso consentire la revoca di tali misure pure in base ad una semplice riconsiderazione degli elementi che originariamente ne determinarono l’imposizione, e quindi in base alle stesse ragioni che possono addursi a sostegno di una richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p. (1). Ciò comporta che la richiesta di revoca e la richiesta di riesame delle misure in discorso vengano ad avere un’area di applicazione parzialmente coincidente, con il rischio che l’imputato, valendosi di entrambi i rimedi, provochi dannose duplicazioni di procedimenti. Per ovviare a tale eventualità la giurisprudenza prevalente ha adottato un orientamento restrittivo sostenendo, in contrasto con la lettera dell’art. 299, comma 1o c.p.p., che la richiesta di revoca delle misure coercitive è ammissibile solo quando deduca fatti sopravvenuti all’applicazione di queste, mentre il mezzo, con cui la parte può contestare la sussistenza originaria dei presupposti del provvedimento restrittivo, è la richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p. Pertanto l’esperimento del procedimento di riesame (con esito sfavorevole all’indagato o imputato) ovvero l’inutile decorso del termine per la presentazione della relativa richiesta comporta la definitività del titolo custodiale e la conseguente impossibilità per l’imputato di far valere con la richiesta di revoca l’assenza originaria dei presupposti della misura (2). 2. L’esigenza di evitare che l’imputato reiteri le medesime doglianze con un indiscriminato ricorso agli istituti previsti dagli artt. 309 e 299, comma 1o c.p.p è senz’altro rilevante, sì che non concordiamo con la dottrina secondo cui nessun limite sussisterebbe alla facoltà di chiedere la revoca delle misure coercitive per carenza originaria dei relativi presupposti, sia o non sia stata attivata la procedura di riesame (3). Peraltro nemmeno l’orientamento giurisprudenziale sopra citato può condividersi pienamente. Riteniamo doversi distinguere l’ipotesi in cui l’imputato che chiede la revoca della misura non abbia presentato richiesta di riesame (e non sia più legittimato a presentarla per decorso del termine ex art. 309, comma 1o c.p.p.) da quella in cui egli abbia esperito il gravame ed il procedimento incidentale si sia concluso con decisione definitiva a lui sfavorevole. Nel primo caso la richiesta di revoca deve senz’altro considerarsi ammissibile. Infatti, ove si ritenesse il provvedimento de libertate non fatto oggetto di impugna-

(1) La Relazione al progetto preliminare del codice, in Gazz. Uff., 1a serie spec., suppl. ord. n. 2, 24 ottobre 1989, p. 75, definisce infatti la revoca un fenomeno estintivo che presuppone una ‘‘valutazione sulla sussistenza ex ante e sulla persistenza ex post delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari’’. (2) V. in tal senso, oltre alla sentenza annotata, Cass., Sez. I, 5 novembre 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 421; Sez. I, 1 ottobre 1993, ibid., 420; Sez. III, 2 settembre 1992, ibid., 274; Sez. VI, 10 giugno 1993, ibid., 275; Sez. VI, 23 marzo 1993, ibid., 274; Sez. I, 4 febbraio 1993, ibid., 574; Sez. I, 13 novembre 1992, in C.E.D. Cass., n. 188852; Sez. I, 2 aprile 1992, ivi, n. 190121; Sez. I, 10 marzo 1992, ivi, n. 190190; Sez. fer., 25 agosto 1991, in Cass. Pen., 1993, 887. V. anche CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, 1993, 72, secondo cui la revoca non consente ‘‘una nuova valutazione critica delle esigenze cautelari a cui sia direttamente ascrivibile lo stato restrittivo dell’imputato, ma si limita a verificare l’attualità (delle ragioni) del provvedimento in essere’’. (3) CORDERO, Procedura penale, 2a ed., 1993, 485 e 504; MANZIONE, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, II, 1990, 212; ZAPPALÀ, in AA.VV., Manuale di diritto processuale penale, I, 1991, 491.


— 535 — zione revocabile solo per ‘‘fatti sopravvenuti’’, lo stesso rimarrebbe intangibile quando, pur in assenza di tali fatti, emergesse un palese errore di valutazione circa la sussistenza originaria dei presupposti di cui agli artt. 273, 274 o 280 c.p.p. Ciò si tradurrebbe in una violazione del principio di legalità ex art. 13, comma 2o Cost., giacché la misura cautelare verrebbe mantenuta al di fuori dei casi previsti dalla legge. Potrebbe obiettarsi che, ferma l’inammissibilità della richiesta di revoca delle misure coercitive, sarebbe pur sempre possibile la revoca d’ufficio da parte del giudice il quale si accorgesse dell’errore di valutazione compiuto in sede di applicazione della misura. Peraltro, poiché la revoca d’ufficio è consentita solo nelle ipotesi tassativamente elencate dall’art. 299, comma 3o ult. parte c.p.p. (vale a dire quando il giudice assuma l’interrogatorio dell’imputato a norma dell’art. 294 c.p.p., o sia richiesto dell’incidente probatorio o della proroga delle indagini preliminari, ovvero proceda all’udienza preliminare o al giudizio) (4), tale soluzione non eliminerebbe i dubbi di costituzionalità, ben potendo accadere che l’errore incorso nell’originario apprezzamento dei presupposti della misura emerga in un momento dell’iter procedimentale diverso da quelli di cui all’art. 299, comma 3o c.p.p. (ad esempio dopo l’interrogatorio dell’imputato, ma prima dell’udienza preliminare): in tale caso la restrizione della libertà personale rimarrebbe intangibile quantomeno fino al momento in cui l’intervento d’ufficio del giudice sia consentito. Si ricordi che già sotto il codice del 1930, senz’altro meno garantista dell’attuale, la giurisprudenza osservava che la mancata proposizione dei gravami previsti dalla legge contro i provvedimenti de libertate poteva al massimo precludere l’ulteriore deduzione dei vizi formali di questi, ma non certo sanarne l’illegittimità sostanziale, che ‘‘originaria o sopravvenuta, resta soggetta al permanente controllo del giudice in ogni stato e grado del procedimento, e, in pendenza di questo, può essere sempre fatta valere dall’imputato’’ (5). 3. Qualora, invece, la richiesta di revoca della misura coercitiva venga formulata dopo che il procedimento di riesame si è concluso con esito negativo, è necessario contemperare le esigenze di tutela della libertà dell’imputato con l’esistenza di una decisione definitiva del giudice dell’impugnazione. Concordiamo con la giurisprudenza prevalente circa l’inammissibilità della richiesta di revoca che adduca gli stessi motivi già ritenuti infondati dal giudice del riesame. Consentire all’imputato di riproporre le medesime doglianze svuoterebbe di significato la decisione di tale giudice e comprometterebbe l’economia processuale (6). Occorre invece considerare attentamente l’ipotesi in cui la richiesta di revoca si fondi su motivi che non sono stati portati all’attenzione del tribunale della libertà, né sono stati da questo presi in esame d’ufficio ai sensi dell’art. 309, comma

(4) FERRAIOLI, Il riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, 1989, 186-187, riconduce le ipotesi di intervento d’ufficio del giudice ex art. 299, comma 3o all’opportunità di ‘‘utilizzare ogni occasione di giurisdizionalità per rivalutare il quadro cautelare’’. (5) Cass., Sez. I, 25 settembre 1985, in Giust. Pen., 1986, III, 425; Id., Sez. I, 29 settembre 1976, ivi, 1977, III, 149. (6) Resta da chiedersi se sia corretto parlare di inammissibilità in senso tecnico dell’istanza di revoca o non sia più opportuno, alla luce del principio di tassatività delle cause di inammissibilità (v. per tutti CORDERO, op. cit., 1003), considerare la situazione in esame come semplice motivo di reiezione della suddetta istanza.


— 536 — 9o c.p.p. (secondo cui il tribunale può confermare la misura pure in base a motivazioni diverse da quelle enunciate nel provvedimento impositivo della stessa (7)), o che comunque non sono stati valutati ai fini della decisione per essersi questa soffermata soltanto su questoni formali, senza scendere nel merito dell’esistenza dei presupposti della misura (si pensi ad un’ordinanza che dichiari inammissibile la richiesta di riesame o che, nulla dicendo sul merito della misura, si limiti a respingere un’eccezione di nullità del provvedimento dispositivo della medesima). È ovvio che la decisione, sia pure definitiva, del giudice dell’impugnazione non può precludere una successiva richiesta di revoca quando tale giudice abbia preso in esame non il merito della vicenda cautelare, ma suoi profili soltanto formali. In caso contrario si porrebbero, infatti, i medesimi dubbi di costituzionalità già sottolineati in relazione all’ipotesi di mancata presentazione della richiesta di riesame. In proposito è indicativa la giurisprudenza formatasi sul problema, opposto a quello qui trattato, della reiterabilità della misura cautelare dopo che una decisione definitiva dell’organo del riesame ne ha disposto la caducazione. Si asserisce invero che la misura non è reiterabile (in assenza di fatti nuovi) solo quando il provvedimento irrevocabile abbia accertato l’insussistenza delle condizioni ex artt. 273, 274, 281 c.p.p., mentre può essere nuovamente applicata quando la sua perdita di efficacia od il suo annullamento sia dipeso da ragioni meramente formali (8). Se in tale ultimo caso è possibile superare, in danno dell’imputato, la decisione definitiva del giudice del riesame, a maggiore ragione tale decisione deve potersi superare in favore dell’imputato stesso, sì che, almeno allorché il tribunale della libertà abbia respinto il gravame per ragioni formali, l’imputato deve poter contestare con la richiesta di revoca la sussistenza originaria dei presupposti della misura. Riteniamo, peraltro, che tale richiesta sia proponibile anche quando l’organo del gravame si sia pronunciato nel merito (vale a dire abbia preso in esame i presupposti della misura) a condizione che essa, pur non richiamando nuovi fatti, adduca nuovi argomenti, cioè censure concernenti la sussistenza originaria dei presupposti applicativi della misura non prospettate al tribunale, né comunque prese in esame da questo. Infatti, come una parte minoritaria della giurisprudenza giustamente osserva, i provvedimenti restrittivi della libertà personale ‘‘non determinano situazioni intangibili, sicché gli effetti preclusivi del giudicato, normalmente correlati al dedotto e al deducibile, operano con modalità particolari’’, con la conseguenza che la modifica o revoca di una misura deve intendersi possibile sulla base non solo di elementi sopravvenuti alla conclusione del procedimento di riesame, ma anche di ‘‘elementi preesistenti, ma non presi in considerazione’’ (9).

(7) Sui poteri d’ufficio del tribunale del riesame v. Cass., Sez. I, 24 settembre 1992, in C.E.D. Cass., n. 192172; Sez. I, 5 febbraio 1992, ivi, n. 189727; Sez. VI, 13 dicembre 1991, ivi, n. 189421; Sez. I, 3 luglio 1991, ivi, n. 188560. (8) Cass., Sez. VI, 2 aprile 1992, in C.E.D. Cass., n. 191346; Id., Sez. II, 25 marzo 1992, ivi, n. 189942; Id., Sez. I, 15 gennaio 1992, ivi, n. 189232. (9) Cass., Sez. I, 10 marzo 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1993, 793; Id., Sez. I, 6 luglio 1992, in C.E.D. Cass., n. 192030; Id., Sez. I, 31 ottobre 1990, in Cass. pen. mass. ann., 1990, II, 166; v. anche Id., Sez. I, 14 dicembre 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 421 e Id., Sez. I, 12 novembre 1993, ivi, 420, che, pur collegando la revoca delle misure coercitive esclusivamente alla sopravvenienza di fatti


— 537 — A conforto della tesi qui sostenuta può richiamarsi la giurisprudenza della Cassazione in tema di misure cautelari reali. Per la Suprema Corte la revoca del sequestro preventivo (la quale, a norma dell’art. 321, comma 3o c.p.p., come quella delle misure coercitive va disposta ‘‘quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dal comma 1’’) può essere richiesta pure adducendo l’insussistenza ex ante dei presupposti applicativi della misura, e ciò nonostante l’avvenuto esperimento del riesame, alla sola condizione che con la richiesta di revoca non vengano addotti i medesimi argomenti già oggetto di decisione definitiva del tribunale della libertà (10). È appena il caso di osservare che la menzionata eccezione ai principi del giudicato, ispirandosi al favor libertatis, non può essere invocata dal pubblico ministero allo scopo di ottenere la reiterazione di una misura cautelare dopo che la decisione definitiva del tribunale del riesame abbia accertato l’insussistenza dei relativi presupposti. In tale caso un nuovo provvedimento restrittivo sarà possibile solo a fronte della sopravvenienza di nuovi fatti, da cui emerga una modifica vuoi del quadro indiziario vuoi delle esigenze cautelari (11). 4. Chiarito che con la richiesta di revoca di una misura coercitiva può farsi valere, con le sole limitazioni testè evidenziate, anche l’assenza originaria dei presupposti della misura, sorge il quesito se, una volta che la predetta richiesta sia stata proposta per tale motivo e la stessa sia stata rigettata dal giudice prima del decorso del termine ex art. 309 comma 1o c.p.p., la parte possa ancora formulare istanza di riesame. Il problema si pone in quanto l’imputato, ai sensi dell’art. 310 c.p.p., ha diritto di appellare l’ordinanza reiettiva della richiesta di revoca, sì che, ove fosse legittimato anche alla richiesta di riesame, potrebbe investire il tribunale della libertà due volte della stessa questione. Riteniamo che non sia possibile negare l’ammissibilità dell’uno o dell’altro gravame, ciascuno di essi avendo per oggetto un diverso provvedimento. Va peraltro richiamato quanto si è detto circa l’efficacia delle decisioni definitive del tribunale della libertà, alle quali, pur non potendosi attribuire il valore della vera e propria cosa giudicata, deve riconoscersi portata preclusiva di una reiterazione dei medesimi argomenti. Ove, quindi, l’imputato proponga le stesse doglianze sia con la richiesta di riesame sia con l’atto di appello, la conclusione, con decisione definitiva, di uno dei due procedimenti precluderà la prosecuzione dell’altro (12). 5. Va infine considerato il problema dell’esperibilità della richiesta di riesame contro l’ordinanza impositiva di una misura coercitiva quando di questa si sia in precedenza chiesta inutilmente la revoca in base non all’asserita insussi-

nuovi, considerano tali anche gli elementi ‘‘preesistenti’’, nonché quelli ‘‘acquisiti al procedimento, ma non oggetto di specifica valutazione’’. (10) Cass., Sez. III, 1 giugno 1992, in C.E.D. Cass., n. 190938. (11) Cass., Sez. Un., 10 settembre 1992, in C.E.D. Cass., n. 191183; sottolinea l’esigenza dell’emersione di nuovi fatti anche CERESA GASTALDO, op. cit., 222; invece, secondo GARAVELLI, voce Riesame dei provvedimenti limitativi della libertà personale, in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, 782, la misura precedentemente caducata può essere riapplicata anche sulla base di ‘‘una differente valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, che tenga però conto degli argomenti addotti dal tribunale in caso di precedente revoca’’. (12) Per uno spunto in questo senso Cass., Sez. VI, 16 giugno 1992, in C.E.D. Cass., n. 190664.


— 538 — stenza originaria dei presupposti della misura, ma alla cessazione degli stessi per fatti sopravvenuti (si pensi ad una richiesta di revoca con cui si sostenga che a seguito dell’interrogatorio dell’imputato le esigenze cautelari sono venute meno). La Cassazione ha negato l’ammissibilità di tale gravame adducendo sia il principio per cui la scelta di uno fra più mezzi di impugnazione consentiti contro la medesima decisione (nel caso di specie la richiesta di revoca e la richiesta di riesame) consuma la facoltà di ricorrere agli altri, sia la considerazione che il riesame si pone ‘‘concettualmente e logicamente in contrasto con la richiesta di revoca, che implicitamente sconta la legittimità del provvedimento adottato, essendo fondata sulla sopravvenienza di una nuova situazione incompatibile con il permanere della misura stessa’’ (13). Neppure tale orientamento appare condivisibile. Anzitutto non si vede come la richiesta di revoca possa farsi rientrare tra i mezzi di impugnazione, i quali devono individuarsi, in materia di libertà personale, nei soli riesame, appello e ricorso in cassazione. Inoltre, quand’anche volessimo equiparare la richiesta di revoca ad un gravame, l’applicabilità, nei rapporti fra tale richiesta e quella di riesame, del principio electa una via non datur recursus ad alteram sarebbe dubbia, posto che in materia di libertà personale il legislatore, quando ha inteso informarsi a tale principio, lo ha fatto espressamente (ci riferiamo all’art. 311, comma 2o c.p.p., secondo cui la proposizione del ricorso per saltum avverso l’ordinanza dispositiva di una misura cautelare rende inammissibile la richiesta di riesame della stessa ordinanza) (14). Infine non comprendiamo perché l’inammissiblità della richiesta di riesame discenderebbe dal fatto che la richiesta di revoca della misura per fatti sopravvenuti alla sua applicazione denota l’implicita ammissione dell’originaria legittimità del provvedimento restrittivo. È infatti ben possibile che l’imputato, pur convinto dell’illegittimità del provvedimento e della conseguente opportunità di chiederne il riesame nel termine di cui all’art. 309, comma 1o c.p.p., a seguito dell’emersione, ad esempio in sede di interrogatorio, di nuove circostanze a lui favorevoli, cerchi di valersi immediatamente delle stesse per ottenere la revoca della misura, fermo restando il suo interesse alla richiesta di riesame ove l’istanza di revoca non dia esito positivo. È vero che l’imputato ha anche facoltà di proporre appello avverso il rigetto della richiesta di revoca, ma non si vedono ostacoli alla cumulabilità dei due gravami quando gli stessi, oltre ad avere per oggetto due provvedimenti diversi, deducano doglianze diverse: da un lato l’assenza originaria dei presupposti per la restrizione della libertà, dall’altro la loro cessazione, pur se ritenuti esistenti, per fatti sopravvenuti all’imposizione della misura. Dott. BARBARA LAVARINI

(13) Cass., Sez. VI, 10 settembre 1992, in Giust. Pen., 1994, III, 258; Id., Sez. VI, 18 agosto 1992, in C.E.D. Cass., n. 191961. (14) V. anche GRADILONE, Aspetti problematici del rapporto fra richiesta di revoca e richiesta di riesame delle misure cautelari coercitive, in Giust. Pen., 1994, III, 267.


— 539 — CASSAZIONE PENALE — SEZIONE FERIALE, 6 agosto 1992 Pres. Consoli — Rel. Grassi P.M. (conf.) — Liotti ricorrente Misure cautelari reali — Sequestro preventivo — Presupposto — Esistenza di un fatto di reato. Misure cautelari reali — Sequestro preventivo — Condizioni di applicabilità — Accertamento della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato o dell’imputato — Non necessità. Misure cautelari reali — Sequestro preventivo — Oggetto — Cose pertinenti al reato — Nozione. Misure cautelari reali — Sequestro preventivo — Impugnazioni — Ricorso per cassazione — Ambito di applicabilità. Il richiamo normativo, costante e reiterato, al « reato » — sotto i due profili che solo cose ad esso pertinenti possono essere oggetto della misura cautelare e che questa deve evitare l’aggravarsi o il protrarsi dello stesso nonché le commissioni di altri fatti di reato — rende incontrovertibile che presupposto del sequestro preventivo è l’esistenza di un fatto di reato, non potendo l’autorità giudiziaria sostituirsi a quella amministrativa in attività di pura prevenzione non finalizzate al contestuale accertamento di un reato. Pur potendo essere ancora indefinita la qualificazione giuridica del fatto o esserne ancora ignoti gli autori, è necessario che il giudice accerti se nel fatto come prospettato siano ravvisabili precisi indizi e non meri sospetti di reato. Il collegamento tra indizi e fatto di reato dev’essere certo, logico ed univoco (1). Esula dall’accertamento del giudice in materia di misure cautelari l’indagine in merito alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato o dell’imputato (2). « Cose pertinenti al reato » sono non solo tutte quelle sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso, ovvero che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo, o che sono prova della commissione di esso o delle sue conseguenze, ma anche le cose la cui fabbricazione, detenzione o alienazione, ovvero il cui uso a porto, costituiscono reato (3). Avverso le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo dal tribunale della libertà, può essere proposto ricorso per cassazione solo per violazione di legge, non anche per difetto di motivazione (4). (Omissis). — Con ordinanza del 20 febbraio 1992, il Tribunale di Crotone, davanti al quale erano stati rinviati a giudizio, fra gli altri, Antonino Liotti, Cataldo Leto Russo e Mario Siciliani, imputati — ciascuno in concorso con altri — dei reati di costruzione edile, in zona sismica, in violazione dello strumento urbanistico del Comune di Cirò Marina e senza l’autorizzazione del Genio civile, disponeva, onde evitare che la prosecuzione ed ultimazione dei lavori di edificazione portasse detti reati a conseguenze ulteriori, il sequestro preventivo — in Cirò Ma-


— 540 — rina — dei fabbricati, ancora in corso di costruzione, del Liotti in località Punta Alice, del Leto Russo in via Torrenova e del Siciliani in via Libertà. Argomentava, il detto Tribunale — rifacendosi alla motivazione di analoga, precedente propria ordinanza del 30 luglio 1991, poi annullata in sede di riesame per ravvisata sua incompetenza funzionale del momento — che: a) il fumus delicti dei reati dei quali gli imputati erano chiamati a rispondere si evinceva a chiare note dagli atti d’indagine preliminare effettuati e disposti dal P.M., fra cui una consulenza tecnica, dagli accertati abusi di ufficio contestati ai componenti della Commissione edilizia nonché al Sindaco del tempo e anche all’Assessore ai lavori pubblici del Comune e da altri atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento; b) i reati di cui in imputazione ben potevano essere considerati commessi con la realizzazione di opere non solo in assenza o in totale difformità di concessione edilizia, ma anche in base a concessione edilizia illecita, in quanto frutto di attività criminosa dell’organo pubblico che l’aveva rilasciata; c) la libera disponibilità dei fabbricati ancora in corso di costruzione avrebbe certo aggravato e protratto le conseguenze dei reati per i quali gli imputati erano già stati rinviati a giudizio. Tale provvedimento veniva poi confermato, in sede di riesame, dal Tribunale di Catanzaro che, con ordinanza del 10 marzo 1992, evidenziava fra l’altro: a) che l’avvenuto rinvio a giudizio degli imputati induceva a ritenere che le ipotesi di reato oggetto della imputazione non fossero infondate; b) che in sede di riesame di misura cautelare reale non è consentita alcuna valutazione sulla responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti; c) che non essendo le costruzioni ancora ultimate, la libera disponibilità di esse da parte degli imputati rendeva attuale il pericolo — da prevenire — che i reati in contestazione venissero portati a conseguenze ulteriori. Avverso l’ordinanza di riesame il Liotti, il Siciliani ed il Leto Russo hanno proposto ricorso per Cassazione chiedendone l’annullamento per violazione di legge, difetto ed illogicità di motivazione. Deducono, in particolare, i ricorrenti: a) che il Tribunale del riesame avrebbe omesso di motivare in ordine all’eccezione di nullità dell’ordinanza di sequestro da loro formulata sotto il profilo che essa sarebbe priva dell’esatta indicazione degli immobili da sequestrare e ne avrebbe demandato arbitrariamente la individuazione agli organi di polizia; b) che illogicamente sarebbe stata ritenuta provata, sebbene non contestata, la collusione fra loro e gli organi preposti al rilascio delle concessioni edilizie; c) che mancherebbe, in atti, qualsiasi indizio circa l’illegittimità delle concessioni edilizie loro rilasciate. MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il vigente codice di rito prevede ben tre tipi di sequestro, quello penale, quello conservativo e quello preventivo. Quest’utimo, per quanto non espressamente codificato, era — sotto l’imperio del codice Rocco — ritenuto legittimo come intervento coercitivo di polizia giudiziaria posto in essere, a norma dell’art. 219 di quel codice, proprio per interrompere una condotta criminosa tipica, in corso di esecuzione.


— 541 — Ciò perché, anche in tale ipotesi, non poteva affatto prescindersi dal requisito di pertinenza, al reato, delle cose sequestrande e — dunque — dalla configurazione di un fatto di reato su cui poi sarebbe intervenuta la pronuncia giurisdizionale destinata a decidere anche sulle cose in sequestro. La misura cautelare reale del sequestro preventivo, ora descritta e normativamente regolata dall’art. 321 del vigente c.p.p., ha la propria matrice nel sequestro di cose pertinenti al reato previsto dall’art. 337 dell’abrogato codice di rito, ma da questo funzionalmente si distingue in quanto il vincolo di indisponibilità delle cose mira a prevenire il protrarsi dell’iter criminoso o il ripetersi della condotta delittuosa e, così, si colloca in un’area distinta sia da quella che l’art. 253 c.p.p. riserva al sequestro penale come mezzo di acquisizione della prova, sia da quella che l’art. 316 c.p.p. attribuisce al sequestro conservativo, preordinato ad una tutela privilegiata del danno derivante dal reato. A mente del richiamato art. 321 c.p.p., il sequestro preventivo può essere disposto solo « quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati ». La misura cautelare in questione può, dunque, essere legittimamente adottata nei casi in cui, in pendenza dell’accertamento di un fatto di reato, il non assoggettamento a vincolo della cosa al reato pertinente consentirebbe il protrarsi del comportamento penalmente illecito, ovvero la reiterazione della condotta criminosa o la realizzazione di ulteriori pregiudizi. Il richiamo normativo costante e reiterato al « reato » — sotto i profili che solo cose ad esso pertinenti possono essere oggetto della misura cautelare e che questa deve evitare l’aggravarsi o il protrarsi delle conseguenze dello stesso, nonché la commissione di altri fatti delittuosi — rende chiaro ed inequivocabile che al sequestro preventivo può farsi ricorso solo a fronte di fattispecie criminose in atto. L’esistenza di un fatto di reato costituisce, così, il primo dei presupposti legittimanti la misura in questione. Può non essere ancora definita la qualificazione giuridica del fatto stesso, possono non esserne ancora identificati, in tutto o in parte, gli autori, ma che storicamente si sia verificato un fatto avente i connotati dell’illecito penale e sul quale si indaga, è imprescindibile. Ciò vale anche per il sequestro penale che, se pure preordinato a fini esclusivamente probatori, può avere ad oggetto, secondo la previsione dell’art. 253 c.p.p., solo il corpo di reato o le altre cose a questo pertinenti. Le misure cautelari reali non debbono, in sostanza, come rilevato anche in dottrina, esorbitare dalla « cornice della imputazione », non potendo l’autorità giudiziaria sostituirsi a quella amministrativa in attività di pura prevenzione, non finalizzate al contestuale accertamento di un reato. In presenza di un sequestro preventivo o penale il giudice deve, dunque, anzitutto verificare se il fatto, in relazione al quale la misura è stata disposta, coincide con la fattispecie legale ipotizzata o se dal raffronto questa non risulta attagliarsi perfettamente al primo; deve indi esaminare se comunque, nel fatto come prospettato, siano ravvisabili precisi indizi, non semplici sospetti di reato. In tal caso, il collegamento fra indizi e fatto di reato deve essere certo, logico ed univoco.


— 542 — Esaurito e superato tale primo controllo, il giudice deve stabilre se oggetto della misura cautelare siano, o meno, a seconda dei casi, cose pertinenti al reato o delle quali è consentita la confisca, o corpi di reato. La nozione di « cosa pertinente al reato », già nota al codice Rocco, è stata elaborata sotto la vigenza di questo dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità che l’hanno concordemente ritenuta estensibile ad ogni cosa su cui o a mezzo della quale il reato fu commesso, ovvero che ne costituisce il prodotto, il profitto o il prezzo o che è prova della commissione di esso o delle sue conseguenze (v. conf. Cass. sez. I, 20 febbraio 1986, Fiorentino; sez. I, 12 novembre 1990, Galluzzo). Ciò con riferimento, ovviamente, alla finalità tipicamente probatoria del sequestro previsto dall’art. 337 del codice Rocco. La finalità preventiva del sequestro di cui all’art. 321 del vigente codice di rito e la prevista sua adozione anche con riguardo alle cose confiscabili, inducono a ridisegnare le categorie di cose sottoponibili alla misura cautelare di cui si discute ricomprendendovi, da un canto, le cose la cui fabbricazione o uso, porto, detenzione o alienazione costituiscono reato ed escludendovi, dall’altro, quelle la cui apprensione servirebbe solo a scopo di prova. Va ulteriormente precisato che, a mente dell’art. 325 c.p.p., avverso le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo dal Tribunale del riesame può essere proposto ricorso per Cassazione solo per violazione di legge, non anche per difetto di motivazione. Premessi tali concetti e passando all’esame delle impugnazioni proposte avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di Catanzaro, va — anzitutto — rilevato, in ordine alla prima delle censure formulate dai ricorrenti, che la dedotta nullità dell’ordinanza di sequestro non sussiste in quanto — come si evince dal tenore letterale di essa — gli immobili da sottoporre alla misura cautelare reale furono individuati con precisione a mezzo della indicazione di coloro che ne stavano curando la edificazione e della loro ubicazione. Non risponde a verità che la individuazione di essi sia stata demandata a organi di polizia giudiziaria. Il secondo motivo di ricorso, con cui si sono dedotti difetti ed illogicità di motivazione della ordinanza di riesame, è inammissibile in quanto con riferimento a questa possono essere denunziate, ex art. 325, primo comma, c.p.p., come detto, solo violazioni di legge. In ordine agli indizi di reità, sui quali si incentra l’ultima delle censure dei ricorrenti, va ribadito che in materia di misure cautelari reali ciò che il giudice deve accertare è che vi sia il fumus commissi delicti, vale a dire che un reato appaia essere stato commesso, non che vi siano gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato o dell’imputato. Nel caso in specie, i giudici di merito hanno ritenuto sussistente il detto fumus delicti con motivazione che va ritenuta giuridicamente corretta. Essi, infatti, hanno argomentato che dagli atti di indagine preliminare compiuti e, in particolare, da due consulenze tecniche disposte dal P.M., era emerso che gli immobili dei quali veniva disposto il sequestro preventivo erano stati edificati senza concessione edilizia, ovvero in totale difformità da questa o in virtù di concessioni edilizie illecitamente rilasciate. Hanno poi esattamente argomentato


— 543 — che l’avvenuto rinvio a giudizio degli imputati escludeva che i reati a costoro contestati potessero essere ritenuti manifestamente insussistenti. Siffatte argomentazioni, in presenza di non contestate esigenze cautelari, rendono legittimo il provvedimento di sequestro preventivo adottato e fanno apparire destituite di fondamento le impugnazioni proposte avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che lo ha confermato. Omissis.

—————— (1-4)

Accertamento dei presupposti e problematiche applicative in tema di sequestro preventivo.

1. Particolarmente degna di nota per la chiara enucleazione di taluni punti nodali del problema, la pronuncia che precede si colloca nell’ambito della tematica concernente l’individuazione dei presupposti applicativi delle misure cautelari reali e, segnatamente, di quella figura di sequestro preventivo che, prevista e disciplinata dagli artt. 321 e segg. c.p.p., costituisce forse la più interessante innovazione introdotta in tema di cautela reale dal nuovo rito (1). Le statuizioni del Supremo Collegio, in particolare, si inseriscono in un ampio ed articolato dibattito che ha vivacemente coinvolto la giurisprudenza e la dottrina senza peraltro consentire, a tutt’oggi, di intravvedere con sufficiente chiarezza i confini di una soddisfacente soluzione ermeneutica. La necessità di delineare in maniera esaustiva i presupposti applicativi del sequestro preventivo si è posta immediatamente all’attenzione degli interpreti a causa dell’imperfetta e lacunosa formulazione dell’art. 321 c.p.p. Tale disposizione, infatti, cui spetterebbe individuare la struttura e gli obiettivi del nuovo istituto nonché chiarire le condizioni in presenza delle quali ne è consentita l’applicazione, non contiene alcun elemento dal quale sia ricavabile il c.d. fumus commissi delicti, indefettibile primo requisito di ogni misura cautelare in materia penale, né, conseguentemente, si cura di delineare l’ambito e l’intensità dell’accertamento che, in ordine ad esso, va compiuto dal giudice. Lo stesso è a dirsi con riferimento

(1) In generale, sull’istituto del sequestro preventivo, si vedano, BALDUCCI, Il sequestro preventivo nel processo penale, Milano, 1991; GALANTINI, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio e O. Dominioni, vol. III, p. 2a, Milano, 1990, p. 241 ss.; SELVAGGI, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, vol. III, Torino, 1990, p. 359 ss.; CORDERO, Procedura penale, 2a ed., Milano, 1993, p. 514 ss.; SIRACUSANO, Manuale di diritto processuale penale, 2a ed., Milano, 1994, vol. I, p. 512 ss.; NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Milano, 1992, p. 458 ss.; CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 2a ed., Padova, 1991, p. 263 ss.; MELCHIONDA, voce Sequestro per il procedimento penale, in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, p. 148 ss.; TAORMINA, Dir. proc. pen., vol. I, Torino, 1991, p. 275 ss. Per un’articolata descrizione del processo di elaborazione giurisprudenziale che, attraverso una graduale dilatazione dell’ambito applicativo del sequestro penale in funzione probatoria, è giunto ad enucleare una nuova figura di sequestro con finalità preventive, si vedano, AMODIO, Dal sequestro in funzione probatoria al sequestro preventivo: nuove dimensioni della « coercizione reale » nella prassi e nella giurisprudenza, in Cass. pen., 1982, p. 1072 ss.; BETOCCHI, Il sequestro penale preventivo: delimitazione dell’ambito di operatività; presupposti; conseguenze peculiari dell’autonomia funzionale; tutela dei soggetti passivi, in questa Rivista, 1983, p. 970 ss.; RAMAJOLI, Il sequestro preventivo nel nuovo codice: oggetto, presupposto, area di operatività, in Cass. pen., 1991, II, p. 290.


— 544 — all’ulteriore condizione del c.d. periculum in mora che, pur enunciata espressamente nella locuzione « pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati », non è accompagnata da una puntuale indicazione dell’intensità probatoria con cui tale situazione debba presentarsi per rendere accoglibile la richiesta e dunque legittima l’imposizione della misura (2). Da tale quadro normativo deriva conseguentemente un’incerta delimitazione del contenuto dell’indagine che il giudice deve compiere al fine di stabilire se disporre o meno la misura richiesta dall’organo d’accusa e, correlativamente, un’altrettanto confusa individuazione dell’ambito del sindacato che, in tema di misure cautelari reali, l’ordinamento rimette al tribunale della libertà in sede di riesame, secondo quanto previsto dall’art. 322 c.p.p., disposizione anch’essa fonte di analoghe incertezze tra gli interpreti (3). La scelta del legislatore delegato di sottoporre al controllo di tale organo anche le misure di coercizione reale, frutto dell’affermazione della centralità del principio del contradditorio nel nuovo quadro processuale (4), finirebbe infatti per risultare di ben scarsa portata ove non fosse determinato con puntuale previsione l’ambito oggettivo sul quale tale sindacato può esplicarsi. Ben diverso è invece il quadro normativo che emerge dalla disamina della disciplina delle misure cautelari personali: qui il legislatore delegato ha provveduto, ricalcando le orme della recente l. 5 agosto 1988, n. 330, a compiutamente delineare in sede di disposizioni generali i due capisaldi (5) intorno ai quali ruota l’in-

(2) In termini pressoché analoghi si pone il problema relativo ai presupposti del sequestro probatorio. Se infatti per tale mezzo di ricerca della prova il legislatore delegato si è curato di precisare che l’indisponibilità del bene è strumentale all’accertamento dei fatti, nulla ha invece detto in merito al fumus commissi delicti, rimettendo così all’interprete l’individuazione dell’intensità del quadro indiziario legittimante il ricorso alla misura. Sui rapporti tra le diverse forme di sequestro, si vedano, MELCHIONDA, op. cit., p. 160 s.; MONTAGNA, Pluralità delle specie di sequestro ed onere di motivare, in Giur. it., 1993, II, c. 295 ss. (3) Al riguardo, l’opinione ormai consolidata della giurisprudenza è nel senso che dal sindacato del tribunale della libertà debba esulare ogni e qualsiasi valutazione sulla fondatezza dell’accusa, dovendo tale organo limitarsi ad accertare la coincidenza tra la fattispecie concreta oggetto del procedimento e la norma penale astratta e a rilevare le sole divergenze che risultino ictu oculi. Si vedano, tra le altre, Sez. III, 8 novembre 1991, Graziuso, in Cass. pen., 1993, p. 399, m. 244; Sez. I, 21 gennaio 1991, Deorsola, ivi, 1992, p. 2176, m. 1179, con nota di ulteriori pronunce conformi; Sez. III, 7 novembre 1990, Lo Bianco, in Foro it., 1991, II, c. 140. Con riguardo al rito abrogato, si vedano, Sez. V, 8 gennaio 1988, Legnaro, in Cass. pen., 1989, p. 445, m. 442; Sez. V, 1 dicembre 1987, Cassa Risp. Asti, ivi, 1989, p. 654, m. 605, con nota di precedenti conformi. La dottrina risulta invece orientata su posizioni più garantiste, richiedendo che l’accertamento dell’organo del riesame verta sulla concreta ricorrenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora; sul punto, BALDUCCI, op. cit., pp. 148 ss. e 154; GRIFANTINI, Riesame del sequestro e valutazione dei presupposti nella giurisprudenza sul c.p.p. del 1930 e nel c.p.p. del 1988, in questa Rivista, 1990, p. 192 s.; MONTAGNA, In tema di presupposti per il sequestro preventivo di una cava ubicata in zona di diversa destinazione urbanistica, in questa Rivista, 1992, p. 1192. (4) La rilevanza riconosciuta nel nuovo ordinamento processuale al principio del contraddittorio risulta solo in parte attenuata dalla speciale disciplina dettata per le misure cautelari reali. In tali ipotesi, infatti, per ovvie esigenze di sorpresa e di riservatezza nel momento dell’adozione della misura, il contraddittorio viene differito ad un momento successivo e si svolge dinanzi all’apposito organo de libertate. Sul punto, CORDERO, op. cit., p. 517. Sul collegamento tra l’accertamento dei presupposti applicativi della misura e il controllo del tribunale della libertà, cfr., VICICONTE, Il sequestro preventivo tra esigenze cautelari e finalità di prevenzione, in questa Rivista, 1992, p. 360 s.; GALANTINI, op. cit., p. 270; MONTAGNA, In tema di presupposti..., cit., p. 1197. (5) Un’ulteriore condizione, limitatamente alle misure cautelari personali, è imposta dagli artt. 280 e 287 c.p.p. in riferimento ai limiti edittali di pena previsti per il reato per cui si procede. Sul punto, SIRACUSANO, op. cit., p. 453 s.


— 545 — tero sistema processuale: 1) il fumus commissi delicti, individuato dall’art. 273 c.p.p. nei « gravi indizi di colpevolezza » e 2) il periculum libertatis, specificato nelle esigenze cautelari enunciate nell’art. 274 c.p.p. ed imperniate intorno ai tre concetti della: a) cautela processuale [art. 274 lett. a)]; b) cautela strumentale [art. 274 lett. b) e c) prevenzione speciale [art. 274 lett. c)]. In una posizione intermedia tra sequestro preventivo e misure cautelari personali si colloca il sequestro conservativo di cui agli artt. 316 e segg. c.p.p. Entrambe le condizioni applicative della misura risultano infatti agevolmente individuabili, pur non essendo espressamente enunciato il requisito del fumus commissi delicti. In particolare, perché tale forma di sequestro possa essere disposta è necessario, come si evince dall’impiego della locuzione « beni... dell’imputato », che l’azione penale sia già stata esercitata (6) e, correlativamente, che siano stati acquisiti elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, come impone al riguardo l’art. 125 disp. att. c.p.p.; il fumus commissi delicti, quindi, per quanto non espressamente previsto, risulta comunque agevolmente ricavabile per relationem, mentre nessuna difficoltà pone la determinazione dell’intensità della prova di esso, dovendosi accertare, come appena visto, la sussistenza di un quadro indiziario di spessore pari a quello richiesto per la formulazione dell’imputazione. Altrettanto è a dirsi in merito al periculum in mora, enunciato nelle locuzioni « se vi è... ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato » e « se vi è... ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato », né, del pari, sorgono dubbi in merito all’intensità dell’accertamento che di tale presupposto deve fare il giudice ai fini dell’adozione della misura, essendo chiaramente precisato sia nel primo che nel secondo comma dell’art. 316 c.p.p. che il pericolo deve essere « fondato », il che implica un quadro indiziario di intensità analoga a quella enunciata nell’art. 273 c.p.p.; in altre parole, che vi siano gravi indizi dai quali possa desumersi la situazione di pericolo sopra descritta. 2. Le incertezze interpretative scaturite dalla mancata delimitazione dei presupposti applicativi del sequestro preventivo hanno comportato, come precedentemente già accennato, il formarsi di due contrapposti orientamenti facenti capo rispettivamente alla giurisprudenza e alla dottrina. La prima, in particolare, traendo spunto dal diverso oggetto della cautela nelle misure personali rispetto a quello delle misure reali (7), conclude, come nella sentenza in epigrafe, per l’assoluta inutilizzabilità dell’analogia nella materia de qua e conseguentemente sancisce l’inammissibilità dell’estensione anche alle misure reali dei « gravi indizi di colpevolezza » indicati nell’art. 273 c.p.p. quale condizione generale di applicabilità delle misure cautelari personali (8). Facendo leva sulla locuzione « cosa pertinente al reato » impiegata nell’art. 321 c.p.p. per de-

(6) Sez. III, 7 novembre 1990, Lo Bianco, in Cass. pen., 1991, II, p. 756. In dottrina, si vedano, GALANTINI, op. cit., p. 256; CORDERO, op. cit., p. 514; CONSO-GREVI, op. cit., p. 263; NAPPI, op. cit., p. 457; SELVAGGI, op. cit., p. 316. (7) Sez. VI, 7 giugno 1991, Mattiolo, in Cass. pen., 1992, p. 3108, m. 1658; Trib. Brescia, 10 aprile 1991, in questa Rivista, 1992, p. 353, in motivazione; Trib. Potenza, 21 maggio 1990, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 60. (8) Sez. V, 22 gennaio 1992, Giuliani, in Giur. it., 1993, II, c. 135; Sez. VI, 7 giugno 1991, Mattiolo, cit.; Sez. V, 25 giugno 1992, Marsiglia, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 798; Sez. I, 23 novembre


— 546 — scrivere l’oggetto del sequestro preventivo, si richiede invece che risulti la sussistenza di un fatto di reato, pur riscontrandosi divergenze d’opinione in merito all’approfondimento con cui il giudice deve condurre l’accertamento in parola: secondo alcune pronunce, relative alla delimitazione dei poteri cognitivi del tribunale della libertà, ma significative, per quanto detto in precedenza, anche in ordine al profilo in indagine, il giudice, nel disporre la misura, dovrebbe unicamente accertare la conformità in astratto della fattispecie in ordine alla quale si procede, così come enunciata nella richiesta del pubblico ministero, con la norma incriminatrice (9); per altre decisioni, invece, quale quella in commento, l’accertamento andrebbe ancorato a parametri più rigorosi, sicché il giudice potrebbe disporre il sequestro soltanto in presenza di precisi indizi di commissione del reato (10). Divergenze interpretative emergono parimenti dall’esame delle decisioni in tema di accertamento della pertinenza al reato, condizione oggettiva richiesta dall’art. 321 c.p.p. per i beni da sottoporre a sequestro. Sul punto, infatti, mentre la giurisprudenza più attenta (11) richiede il supporto di gravi indizi, altre pronunce (12) reputano sufficiente che tale relazione di pertinenza risulti prima facie. Scarso approfondimento d’indagine, invece, risulta a tutt’oggi riservato dai giudici al periculum in mora; pur essendo infatti pacifica, stante il tenore letterale dell’art. 321, primo comma, c.p.p., la necessità di accertare in concreto la sussistenza di un rischio di consolidamento o di aggravamento del quadro criminoso in atto (13), nessuna pronuncia si cura di delineare con precisione quale intensità di prova debba caratterizzare l’accertamento di tale presupposto. 3. Maggiormente orientato in chiave garantistica risulta invece essere il pensiero della dottrina, la quale, sin dall’adozione delle nuove disposizioni, ha vivacemente criticato l’eccessiva genericità con la quale il legislatore delegato ha delineato i presupposti delle misure cautelari reali, invocandone una maggiore tipizzazione (14). Si è in particolare sottolineato, sulla scia del resto di quanto già affermato da-

1992, Giuffrè, ivi, 1993, p. 329; Sez. un., 23 aprile 1993, Gifuni, ivi, 1993, p. 472; con riferimento al sequestro conservativo, Sez. III, 3 gennaio 1991, Lo Bianco, ivi, 1991, p. 464. (9) Su tali posizioni è fermo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza; cfr., Sez. un., 23 aprile 1993, Gifuni, cit.; Sez. III, 8 novembre 1991, Graziuso, cit.; Sez. I, 26 aprile 1990, Bux, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 127; Sez. III, 11 giugno 1990, De Leonardis, ivi, 1991, p. 127; Sez. I, 2 novembre 1990, Polimeni, ivi, 1991, p. 290; Sez. I, 9 settembre 1992, Orrù, ivi, 1993, p. 165; Sez. I, 2 dicembre 1992, Corsini, ivi, 1993, p. 328; Sez. I, 21 gennaio 1991, Deorsola, in Cass. pen., 1992, p. 2176, m. 1179, con nota di precedenti anche relativi al pregresso regime processuale. Con riferimento al rito abrogato, Sez. V, 1o dicembre 1987, Cassa Risp. Asti, in Cass. pen., 1989, p. 654, m. 605, con ampia indicazione di precedenti conformi. (10) Sez. VI, 7 giugno 1991, Mattiolo, cit.; Sez. III, 9 aprile 1992, Gerace, in Giur. it., 1993, II, c. 98; Sez. V, 12 luglio 1990, Marin, in Cass. pen., 1991, II, p. 283, m. 91. (11) Sez. V, 12 luglio 1990, Marin, cit. (12) Sez. III, 4 aprile 1991, Veri, in Cass. pen., 1992, p. 142, m. 104; Trib. Chieti, 5 novembre 1991, Di Zio, in Giur. it., 1992, II, c. 314; Trib. Trapani, 4 gennaio 1990, Asaro, in Arch. n. proc. pen., 1990, p. 446. (13) Sez. I, 26 aprile 1990, Nuovo, in GUARINIELLO, Il nuovo codice di procedura penale: un anno di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in Foro it., 1990, II, c. 566 e, con riferimento al sequestro conservativo, Sez. V, 28 gennaio 1992, Del Pizzo, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 613; Trib. Piacenza, 6 agosto 1991, ivi, p. 257; Pret. Verona, 5 febbraio 1992, Grimolizzi, ivi, p. 423. (14) BALDUCCI, op. cit., p. 152 ss.; LOFFREDO, Procedimento decisorio e controlli in tema di sequestro preventivo, in Giur. it., 1991, II, c. 257; BETOCCHI, op. cit., p. 990 s.; TAFI, Brevi note sui presupposti del sequestro preventivo, in Cass. pen., 1991, II, p. 285.


— 547 — gli stessi compilatori del codice (15), come le misure cautelari reali possano in determinati casi presentare un contenuto afflittivo ben maggiore di quello proprio di talune misure personali (si pensi, a mero titolo di esempio, al ben più grave nocumento derivante ad un imprenditore dal sequestro preventivo del proprio stabilimento rispetto a quello causato dall’imposizione, nei confronti dello stesso soggetto, della misura del divieto di espatrio prevista dall’art. 281 c.p.p.) (16) e come le stesse abbiano la caratteristica di realizzare « un’indisponibilità di cose e beni con un’incisività analoga a quella che nasce dalla custodia cautelare e da altre forme di misure cautelari personali » (17), sicché attraverso tali limitazioni della sfera patrimoniale del soggetto si viene ad incidere su libertà costituzionalmente garantite ed il vincolo dalla cosa finisce per passare alla stessa persona (18). L’incidenza su posizioni soggettive di rilievo costituzionale (19) e, in particolare, la possibilità che attraverso l’adozione del sequestro preventivo si realizzino delle forme di compressione, in via diretta o di riflesso, della libertà personale (art. 13 Cost.), della libertà di domicilio (art. 14 Cost.), della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e della proprietà privata (art. 42 Cost.) (20), situazioni in relazione alle quali nessuna limitazione è tollerata al di fuori di quelle introdotte dalla legge e nei soli casi e modi dalla stessa fissati (artt. 13 e 14 Cost.), hanno indotto la dottrina a ricercare nel tenore letterale delle disposizioni dedicate alla disciplina della misura in parola e nella ratio ispiratrice dell’istituto gli spunti per una soluzione ermeneutica che consentisse di delimitarne i gravi effetti pregiudizievoli alle sole ipotesi accompagnate da un quadro probatorio sufficientemente qualificato. Con unanime orientamento la dottrina è quindi approdata al convincimento secondo cui, per quanto non espressamente enunciato dal codice, sia comunque preclusa al giudice l’adozione del sequestro ove questi non abbia previamente accertato la ricorrenza di quegli stessi « gravi indizi di colpevolezza » che sono richiesti dall’art. 273 c.p.p. quale condizione generale per l’applicazione di una misura cautelare personale (21). Pur in questa sostanziale identità delle conclusioni cui sono pervenuti i diversi autori non sono peraltro mancate divergenze nei percorsi ermeneutici seguiti, avendo taluno in particolare (22) rilevato come il requisito dei gravi indizi risulterebbe già implicitamente dalla locuzione « cosa pertinente al reato » conte-

(15) Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, p. 79. (16) BETOCCHI, op. cit., p. 988; AMODIO, op. cit., p. 1081; VICICONTE, op. cit., p. 362; LOFFREDO, op. cit., c. 255 ss. (17) Relazione, cit., p. 79. (18) Relazione, loc. ult. cit., « nel senso — si precisa — che il sequestro non mira semplicemente a trasferire nella disponibilità del giudice ciò che deve essere utilizzato a fini di prova, ma tende piuttosto ad inibire certe attività (la vendita o l’uso) che il destinatario della misura può realizzare mediante la cosa ». (19) BALDUCCI, op. cit., p. 153. (20) AMODIO, op. cit., p. 1081; VICICONTE, op. cit., p. 360; BETOCCHI, op. cit., p. 972; SELVAGGI, op. cit., p. 362. (21) Si vedano, al riguardo, CORDERO, op. cit., p. 516; GALANTINI, op. cit., p. 270; BALDUCCI, op. cit., p. 143 ss.; MONTAGNA, In tema di presupposti..., cit., p. 1191 s.; VICICONTE, op. cit., p. 358 ss.; NAPPI, op. cit., p. 461; CIRULLI, In tema di presupposti del sequestro preventivo, in Giur. it., 1992, II, c. 316 s.; GIARDA, L’impresa ed il nuovo processo penale, in questa Rivista, 1990, p. 1243 ss.; TAFI, op. cit., p. 285; TREVISSON LUPACCHINI, In tema di sequestro preventivo di un immobile, in Giur. it., 1992, II, c. 3 s. (22) CORDERO, op. cit., p. 516.


— 548 — nuta nell’art. 321 c.p.p.; lo stesso poi, si è aggiunto, dovrebbe essere oggetto d’accertamento esclusivamente nel corso delle indagini preliminari, giacché l’esercizio dell’azione penale renderebbe superflua ogni indagine in merito, risultando i gravi indizi necessariamente presupposti nell’imputazione formulata dal pubblico ministero. Lo strumento di gran lunga più utilizzato per pervenire alle conclusioni in precedenza delineate è stato peraltro il metodo analogico con il quale si sono poste in luce le affinità strutturali e di ratio ispiratrice che l’istituto del sequestro preventivo presenta con la categoria delle misure cautelari personali. Fra i seguaci di tale linea ermeneutica si segnala, in particolare, per l’approfondita articolazione dell’indagine, il pensiero di coloro (23) i quali hanno operato una ripartizione delle diverse ipotesi di sequestro preventivo contemplate all’art. 321 c.p.p. in due autonome categorie, distinte sulla base della differente matrice cautelare che le caratterizza: da un lato, le ipotesi di sequestro preventivo preordinato alla confisca, espressive di una tutela cautelare in senso stretto, in relazione alla quale la realizzata indisponibilità provvisoria opera come strumento essenziale per assicurare il definitivo provvedimento espropriativo (24), dall’altro, le ipotesi di sequestro preventivo non preordinate alla confisca, caratterizzate dall’attuazione di una cautela di tipo preventivo-interdittiva, preordinata a scongiurare un deterioramento del quadro criminoso. Evidenziate le rilevanti omogeneità che, sotto il profilo strutturale e funzionale, le due categorie così delineate presentano rispettivamente con gli istituti dell’applicazione provvisoria di misure di sicurezza (nella specie il sequestro preventivo preordinato alla confisca potrebbe essere ricondotto ad una forma di applicazione provvisoria di quest’ultima misura) e delle misure interdittive personali (l’ipotesi di sequestro preventivo delineato al primo comma dell’art. 321 c.p.p. presenterebbe infatti in maniera più accentuata l’effetto inibitorio dell’esercizio di un diritto di natura sostanzialmente personale tipico delle misure interdittive, piuttosto che il vincolo di indisponibilità sul bene che costituisce l’essenza della misura cautelare reale) (25), si è ritenuta la ricorrenza dei presupposti per un richiamo analogico della disciplina codicistica rispettivamente contemplata per quelle misure, onde ovviare alle lamentate carenze ed incertezze della regolamentazione positiva. In particolare, in relazione alle ipotesi di sequestro non preordinato alla confisca, si è ritenuto estensibile in via analogica il presupposto dei « gravi indizi di colpevolezza » che caratterizza il fumus commissi delicti di tutte le misure cautelari personali, comprese le stesse misure interdittive, mentre, in relazione alle ipotesi di sequestro preordinato alla confisca, l’accennata assimilazione alle ipotesi di applicazione provvisoria di misure di sicurezza, unitamente al profilo strumentale che la misura presenta rispetto alla definitiva ablazione, hanno costituito per l’orientamento in parola elementi di adeguato supporto per ritenere la concreta applicabilità in via analogica del requisito dei « gravi indizi di commissione del fatto » che l’art. 312 c.p.p. pone come presupposto dell’applicazione provvisoria di quelle misure e che altro non è che l’adattamento della locuzione impiegata nel-

(23) AMODIO, op. cit., p. 1081 s.; VICICONTE, op. cit., p. 362 ss.; MELCHIONDA, op. cit., p. 158. (24) VICICONTE, op. cit., pp. 362 e 365. (25) VICICONTE, op. cit., p. 362.


— 549 — l’art. 273 c.p.p. alle peculiari caratteristiche delle fattispecie in relazione alle quali è consentito l’impiego di tali strumenti (26). 4. Sia pur per antitetiche ragioni, le soluzioni interpretative prospettate dalla giurisprudenza e dalla dottrina non appaiono pienamente soddisfacenti. L’opinione giurisprudenziale, infatti, pur muovendo dell’incontestabile esigenza di non gravare il giudice di un’indagine troppo approfondita sul quadro indiziario ed evitare di conseguenza che, soprattutto nel corso delle indagini preliminari in cui tale quadro può risultare appena abbozzato, un eccessivo rigore nell’accertamento dei presupposti della misura e, in particolare, la richiesta di gravi indizi di colpevolezza possano risultare di ostacolo al soddisfacimento delle esigenze cui la stessa è preordinata, nondimeno non pare tenere nel debito conto le implicazioni di rilievo costituzionale che l’impiego dell’istituto presenta, né l’impronta garantistica che ha caratterizzato l’intervento del legislatore delegato nella contigua materia delle misure cautelari personali. Si è in precedenza già evidenziato, infatti, come la misura del sequestro preventivo possa in numerose ipotesi presentare un contenuto afflittivo ben maggiore di quello proprio di talune misure personali (oltre all’esempio, in precedenza riportato, del sequestro preventivo di uno stabilimento rispetto all’imposizione del divieto di espatrio, si pensi all’incidenza che il c.d. « blocco dei beni del sequestrato » (27) applicato in relazione ad ipotesi di sequestro di persona viene ad

(26) VICICONTE, op. cit., p. 365 s.; AMATO, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., p. 218 s., dove si evidenzia come nel Progetto preliminare in luogo della locuzione « gravi indizi di commissione del fatto » si dicesse « quando sussistono le condizioni previste dall’art. 273 ». La modifica venne apportata a seguito di un suggerimento della Commissione parlamentare, in considerazione del fatto che la locuzione « gravi indizi di colpevolezza » contenuta nell’art. 273 c.p.p. non teneva conto che le misure di sicurezza possono essere applicate in via provvisoria anche a seguito della commissione di un quasi-reato. Sul punto, cfr. Relazione, cit., p. 184. (27) Tale ipotesi, come risulta dalla stessa Relazione al progetto preliminare (p. 80), fu tenuta ben presente dai compilatori del codice nella stesura dell’art. 321 c.p.p.; infatti, la formulazione dell’articolo, con il parziale abbandono del nesso di strumentalità necessaria tra sequestro e confisca, relegato nel secondo comma, fu scelta al fine di evitare che l’accoglimento dell’orientamento che voleva caratterizzare il sequestro preventivo in funzione anticipatoria e strumentale della confisca precludesse l’impiego della misura proprio nelle ipotesi in parola, la cui immunità dalla confisca risulta chiaramente dall’art. 240, terzo comma, c.p.p., causa l’appartenenza del bene a persona estranea al reato. Nel quadro di una più incisiva forma di lotta al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, il c.d. « blocco dei beni » è divenuto poi oggetto dell’autonoma previsione normativa contenuta nei primi tre commi dell’art. 1 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modifiche dalla l. 15 marzo 1991, n. 82 recante « Nuove misure in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia » (sull’argomento, si veda, MANZIONE, Commento all’art. 1 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, in Legisl. pen., 1992, p. 632 ss.). Secondo tali disposizioni: 1) Quando si procede per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, il pubblico ministero richiede ed il giudice dispone il sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti e affini conviventi. Il pubblico ministero può altresì richiedere ed il giudice può disporre il sequestro dei beni appartenenti ad altre persone quando vi è fondato motivo di ritenere che tali beni possano essere utilizzati, direttamente o indirettamente, per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima. 2) Si osservano le disposizioni relative al sequestro preventivo. Il sequestro ha la durata massima di un anno, ma prima della scadenza, può essere rinnovato se permangono i fondati motivi di cui al comma 1. In ogni caso, il sequestro è revocato, su istanza di un interessato o del pubblico ministero, quando risulta cessata la permanenza del reato. 3) Il sequestro dei beni non comporta limitazioni ai poteri di amministrazione e di gestione, ai diritti di godimento dei beni medesimi e non incide sui rapporti giuridici preesistenti. In caso di necessità o quando ne sia fatta richiesta per motivi familiari, professionali, economici o imprenditoriali, il giudice, sentito il pubblico ministero, può autorizzare atti di disposizione aventi ad oggetto beni sottoposti al sequestro. Le principali divergenze del nuovo istituto rispetto alle ordinarie forme di sequestro preventivo sono sintetizzabili nei termini seguenti: 1) l’obbligatorietà della misura, una volta accertata la commissione del reato previsto


— 550 — avere per i familiari della vittima di tale reato) e, conseguentemente, un’interferenza sul godimento di libertà costituzionalmente garantite (in particolare, come già sottolineato, quelle contemplate agli artt. 13, 14, 21, 42 e 43 Cost.) ben più significativa di quella realizzata da queste, come d’altronde puntualmente evidenziato dalla stessa relazione ministeriale (28). Ne deriva l’insostenibilità, pena la possibile prospettazione di una questione di legittimità costituzionale della normativa in parola con riferimento alle norme citate nonché all’art. 3 (principio di eguaglianza), di una soluzione ermeneutica che trascuri l’incontestabile collegamento che la misura presenta con le cautele personali e, correlativamente, con le condizioni applicative per queste previste. Nel delineare la nuova disciplina delle misure cautelari personali, infatti, il legislatore delegato, nel conflitto fra le opposte esigenze della salvaguardia delle libertà costituzionalmente garantite, prima fra tutte la libertà personale, e della necessità di non rendere eccessivamente difficoltoso per l’autorità procedente l’esercizio del potere cautelare attraverso l’imposizione di un previo approfondito accertamento del quadro indiziario, ha preferito sacrificare quest’ultima, attraverso una scelta che, per il principio informatore che sottende, non può non essere tenuta nel debito conto quando si tratti di individuare le condizioni applicative delle misure cautelari reali. Se l’orientamento giurisprudenziale risulta eccessivamente disinvolto nel delineare l’ampiezza dei confini del potere cautelare reale, la dottrina, dal canto suo, sembra improntata ad un eccessivo rigore garantista. Non convince in primo luogo l’opinione del Cordero, secondo il quale il requisito dei gravi indizi sarebbe implicito nella locuzione « cosa pertinente al reato » contenuta nell’art. 321 c.p.p. e dovrebbe costituire oggetto di valutazione da parte del giudice soltanto nel corso delle indagini preliminari, in quanto durante la fase processuale l’avvenuta formulazione dell’imputazione necessaria-

dall’art. 630 c.p. e l’appartenenza dei beni al sequestrato, al coniuge, ai parenti e agli affini conviventi, laddove per l’art. 321 c.p.p. la richiesta della misura e la conseguente sua adozione da parte del giudice presuppongono una valutazione discrezionale in merito alla sussistenza di una relazione di pertinenza tra res e reato e in ordine al periculum derivante dalla persistenza della libera disponibilità del bene. Va peraltro evidenziato che tale divergenza tra le due forme cautelari tende a venir meno allorquando il blocco dei beni abbia ad oggetto beni appartenenti a terzi, essendo in tal caso l’oggetto dell’accertamento richiesto dalla seconda parte del primo comma dell’art. 1 d.l. 8/1991 affine se non identico a quello vertente sulla sussistenza del periculum in relazione alle ipotesi ordinarie; 2) la durata, non essendo prevista per il sequestro preventivo la causa di perenzione automatica prevista dal secondo comma del citato art. 1; 3) l’oggetto della misura, indicato nell’art. 321 c.p.p. col termine « cosa », al fine di circoscrivere quelle « prassi devianti » che, praticate dalla giurisprudenza sotto l’impero del codice previgente, avevano consentito di sottoporre a vincolo non solo le res in senso proprio, ma anche i diritti sulle cose e i beni immateriali (GALANTINI, op. cit., p. 272), e descritto invece nell’art. 1 con il termine « bene » senza aggettivazione alcuna, tale da rendere sufficientemente chiaro come oggetto della misura possano essere anche beni non corporali (crediti verso istituti bancari, quote di partecipazione societarie, etc.); 4) il rapporto con l’oggetto della misura rilevante ai fini dell’adozione del sequestro, che nel primo caso è incentrato sulla relazione di pertinenza, intesa come legame ad un tempo di causalità consumata in relazione al reato commesso e di causalità potenziale rispetto ai temuti sviluppi criminosi (BALDUCCI, op. cit., p. 149 s.), mentre nel secondo si esaurisce nella mera appartenenza dei beni stessi a determinati soggetti, salva l’ipotesi in cui i beni appartengano a terzi, nel qual caso, come già visto, vi è una sostanziale assimilazione alle ordinarie ipotesi di sequestro preventivo; 5) la titolarità dei beni oggetto della misura, assolutamente irrilevante nell’ipotesi ordinaria, mentre condicio sine qua non per l’adozione della misura nelle ipotesi di blocco obbligatorio. Per un ulteriore approfondimento dei rapporti intercorrenti tra le due forme di sequestro e della possibile funzione sostitutiva del sequestro preventivo ordinario, si rinvia a MANZIONE, op. cit., p. 642 s. (28) Op. cit., p. 79.


— 551 — mente ne presupporrebbe l’esistenza (29). Non si capisce infatti come dal semplice impiego della locuzione « cosa pertinente al reato » sia possibile per l’illustre Autore ricavare l’intensità del supporto probatorio tra res e reato richiesto dal legislatore ai fini dell’adozione della misura cautelare. L’espressione in parola, invero, mira sì a chiarire che la misura del sequestro preventivo non può essere richiesta né adottata se non sussiste un legame di tipo causale (30) tra la res e il reato per cui si procede, ma non indica minimamente se detto reato possa essere solo ipotizzato, ovvero se in relazione ad esso sia richiesta la presenza di una prova certa o di semplici indizi e se, in quest’ultimo caso, gli stessi debbano essere « sufficienti » ovvero « gravi ». Né, parimenti, può ritenersi opportuno circoscrivere l’accertamento della sussistenza dei gravi indizi alle sole ipotesi in cui la richiesta di sequestro sia formulata nel corso delle indagini preliminari: se è vero, infatti, come già rilevato in sede di descrizione dei presupposti applicativi del sequestro conservativo, che l’esercizio dell’azione penale attraverso la formulazione dell’imputazione dovrebbe implicare necessariamente, per espresso disposto dell’art. 125 disp. att. c.p.p., la sussistenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e, conseguentemente, un quadro indiziario sufficientemente consolidato, la prospettata eliminazione, nelle ipotesi in parola, del controllo del giudice sulla effettiva ricorrenza dei gravi indizi priverebbe l’impiego del sequestro preventivo nella fase processuale di una connotazione che costituisce il tratto saliente del procedimento di adozione di tutte le misure cautelari nel nuovo regime processuale: la giurisdizionalizzazione (31). Seguendo il pensiero dell’illustre Autore, infatti, esercitata l’azione penale, il giudice richiesto di disporre il sequestro preventivo dovrebbe limitarsi a riscontrare la sussistenza di una situazione di periculum in mora: ne conseguirebbe il riconoscimento implicito in capo al pubblico ministero del potere di influenzare l’adozione della misura attraverso la formulazione dell’imputazione. Una simile soluzione sarebbe certamente foriera di gravi inconvenienti e di possibili abusi specialmente in relazione ai procedimenti per i reati di competenza pretorile: per tali ipotesi, infatti, non è prevista quella forma di controllo sulle imputazioni azzardate che l’udienza preliminare realizza nei procedimenti di competenza del tribunale; ne consegue che, almeno fino alla sentenza di primo grado, la semplice formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero, purché accompagnata dalla seria prospettazione di una situazione di periculum in mora, renderebbe in tali casi pressoché automatico l’accoglimento della richiesta di sequestro preventivo e ciò, si badi, anche in quei casi nei quali l’imputazione stessa fosse destituita del benché minimo fondamento. L’integrale rispetto del principio di giurisdizionalizzazione delle misure in ogni fase del processo penale e l’inammissibilità di ogni e qualsiasi soluzione ermeneutica cui consegua la realizzazione di disparità di trattamento in situazioni sostanzialmente uguali (nella specie non si comprende la ragione per cui il mero

(29) CORDERO, op. cit., p. 516. (30) BALDUCCI, op. cit., pp. 131 s. e 149 ss. Tale nesso di causalità, precisa l’autrice, va inteso in un duplice senso: a) nel senso di correlazione logico-giuridica con il reato già commesso; b) nel senso di causalità potenziale con i temuti sviluppi criminosi agevolati dalla libera disponibilità della cosa. (31) Sull’argomento, si vedano, BALDUCCI, op. cit., pp. 132 ss. e 163 ss., con raffronti con la disciplina del sequestro probatorio e accenni al regime previgente ed ai lavori preparatori; SELVAGGI, op. cit., p. 363; DOMINIONI, in Commentario, cit., p. 3 s.; AMODIO, in Commentario, cit., p. 242; GALANTINI, op. cit., p. 278; CORDERO, op. cit., p. 516; CONSO-GREVI, op. cit., p. 263; NAPPI, op. cit., p. 459; MELCHIONDA, op. cit., p. 158.


— 552 — esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero dovrebbe far venir meno la garanzia del controllo del giudice sull’esistenza di un congruo quadro indiziario ai fini dell’adozione dell’invocata misura) impongono la reiezione della soluzione prospettata: il giudice è quindi sempre tenuto a vagliare la ricorrenza in concreto dei gravi indizi e ciò quand’anche l’azione penale sia già stata esercitata (32). Né maggiormente persuasiva risulta l’opinione della prevalente dottrina, la quale, come già evidenziato, facendo leva sulle affinità strutturali e funzionali tra le misure cautelari personali e quelle reali, estende in via analogica il requisito dei gravi indizi di colpevolezza, fissato dall’art. 273 c.p.p. per le prime, anche a queste ultime. Se è indubbio, infatti, che, per le caratteristiche operative e per la finalità inibitoria che perseguono, le ipotesi di sequestro preventivo preordinate alla confisca possono essere avvicinate all’istituto dell’applicazione provvisoria di misure di sicurezza così come quelle non preordinate alla confisca risultano affini, per struttura e finalità interdittive, alle misure delineate agli artt. 287 e segg. c.p.p., la trasposizione pura e semplice delle condizioni applicative previste dalla legge per quegli istituti ai casi di sequestro preventivo può risultare non del tutto adeguata alle differenti connotazioni che la funzione cautelare viene ad assumere nelle ipotesi in cui essa venga esplicata nei confronti di una res. La scelta del legislatore delegato di subordinare l’applicabilità delle misure cautelari personali alla sussistenza, in capo al soggetto destinatario, di « gravi indizi di colpevolezza » è infatti la conseguenza della centralità che il nuovo ordinamento processuale intende riconoscere al principio dell’intangibilità della libertà personale (art. 13 Cost.), il cui sacrificio diviene legittimo nelle sole ipotesi nelle quali, oltre ad un quadro probatorio particolarmente qualificato, sussistano altresì delle esigenze cautelari connotate dalla « concretezza » del pericolo [art. 274 lett. a), b), c) c.p.p.]. Più precisamente, la situazione di pericolosità che la misura personale tende a fronteggiare proviene direttamente dal soggetto al quale le stessa va applicata e nei cui confronti si svolge il procedimento penale: logico quindi che, accertata la sussistenza del quadro indiziario richiesto dall’art. 273 c.p.p. e la ricorrenza di almeno una delle esigenze cautelari enunciate nell’art. 274 c.p.p., l’applicazione della misura non presenti alcun ulteriore problema interpretativo. In termini pressoché analoghi si presenta il quadro processuale richiesto dal legislatore in relazione alla figura del sequestro conservativo: in tal caso, infatti, per quanto la misura cautelare non si applichi direttamente al soggetto nei cui confronti si svolge il procedimento penale, nondimeno la stessa ne colpisce la sfera patrimoniale o quella di chi (responsabile civile) è tenuto a rispondere verso la collettività delle conseguenze patrimoniali del comportamento del reo. Logico quindi che l’applicazione della misura venga subordinata ad un accertamento (33)

(32) In termini sostanzialmente analoghi si pone il problema con riferimento al sequestro conservativo: il fatto che tale misura possa essere richiesta soltanto nella fase processuale, ad imputazione già formulata, non deve peraltro esimere il giudice dal puntuale controllo sulla ricorrenza delle condizioni applicative di essa e, in particolare, del fumus boni juris. Contra, in giurisprudenza, Sez. I, 23 novembre 1992, Giuffrè, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 329; Sez. III, 3 gennaio 1991, Lo Bianco, in Foro it., 1991, II, c. 140. (33) Come già visto in precedenza per il sequestro preventivo, anche per il sequestro conservativo l’accertamento del quadro indiziario costituisce momento indefettibile e non può in alcun modo considerarsi presupposto nell’imputazione.


— 553 — del quadro indiziario emergente a carico del soggetto che dovrà sopportare gli effetti della misura, ovvero a carico del soggetto della cui condotta il destinatario della misura è garante (34). Ben diverso è invece il quadro nel quale si inserisce la figura del sequestro preventivo: qui, infatti, la situazione di pericolosità che la misura è preordinata a rimuovere proviene direttamente dal bene, più precisamente dal collegamento tra il bene e il reato commesso, e solo in via mediata da un soggetto, il quale, tra l’altro, non necessariamente è colui nei confronti del quale si svolge il procedimento penale, ma ben può essere un soggetto estraneo (è il caso del blocco dei beni dei familiari del sequestrato, ipotesi in relazione alla quale l’atto dispositivo che si mira a prevenire proviene da un soggetto sprovvisto di alcuna veste processuale) o, addirittura, la stessa persona offesa dal reato (come avviene nell’ipotesi in cui il blocco dei beni riguardi il patrimonio dell’ostaggio del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione). Lo stesso bene che costituisce l’oggetto del sequestro, poi, non necessariamente appartiene al soggetto nei cui confronti si procede (35), come attestano i due esempi riportati, sicché il sacrificio patrimoniale determinato dalla sopravvenuta indisponibilità della res ben può non riflettersi minimamente nella sfera dell’autore del reato. Le osservazioni sin qui svolte unitamente all’ulteriore considerazione che il soggetto nei cui confronti si procede può essere ancora ignoto al momento in cui insorge la necessità dell’adozione della misura (oltre alle già richiamate ipotesi di blocco dei beni in relazione al reato di cui all’art. 630 c.p., ovviamente attivabili anche prima dell’individuazione degli autori di esso, si pensi al sequestro di un immobile abusivo di cui non risulti al momento il responsabile dell’edificazione) inducono a considerare inadeguata la soluzione dottrinale che richiede, per l’adozione della misura, la sussistenza di « gravi indizi di colpevolezza ». Tale locuzione, infatti, per il suo stesso tenore letterale, implica un accertamento sul quadro indiziario volto in una duplice direzione: da un lato, al fine di verificare se sia stato commesso un fatto oggettivamento antigiuridico; in altri termini, se sussistano gravi indizi che consentano di ricondurre il fatto descritto dal pubblico ministero nella sua richiesta di applicazione della misura ad una fattispecie penale tipica; dall’altro, al fine di accertare l’attribuibilità soggettiva del fatto oggettivamente antigiuridico a colui nei confronti del quale si procede; in sostanza, la sussistenza di gravi indizi che consentano l’imputabilità a titolo di dolo o colpa del fatto stesso al suo autore. Da quanto sin qui esposto emerge in maniera evidente come, data la particolarità del quadro processuale nel quale si inserisce la misura del sequestro preventivo, il tipo di accertamento richiesto dalla citata dottrina e, in particolare, la verifica dell’attribuibilità del fatto al soggetto verso cui si procede, possa risultare inu-

(34) In questo caso l’accertamento ha ad oggetto il presupposto dal quale dipende l’insorgenza dell’obbligo di garanzia. Sui presupposti del sequestro conservativo, si veda, BALDUCCI, op. cit., p. 138 ss., ove si evidenzia come in relazione al periculum in mora il codice richieda un quid pluris rappresentato dalla « fondata ragione » di tale pericolo. Il semplice sospetto sarebbe quindi del tutto inidoneo a giustificare l’adozione della misura. Sul punto, si veda anche, DINACCI U., Il sequestro conservativo nel nuovo processo penale, Padova, 1990, p. 46. (35) Difformemente da quanto avviene per il sequestro preventivo di cose pertinenti al reato, quello che ha ad oggetto i beni dei quali è consentita la confisca, contemplato al secondo comma dell’art. 321 c.p.p., presuppone necessariamente la proprietà o comunque la disponibilità in capo all’indagato o imputato dei beni sequestrandi.


— 554 — tile e talvolta addirittura di grave ostacolo. Di grave ostacolo, in tutti i casi in cui, pur essendo particolarmente intensa l’esigenza processuale di rendere indisponibile la cosa pertinente al reato, nondimeno manchino del tutto i gravi indizi di colpevolezza, poiché al momento risulta risulta ancora ignoto l’autore del reato, ovvero poiché, pur essendovi un indagato a carico del quale sussistono alcuni indizi, questi non possano essere definiti « gravi »; inutile, invece, nelle ipotesi in cui il pericolo collegato alla libera disponibilità del bene non provenga direttamente dal soggetto nei cui confronti si procede, ma, come visto nelle ipotesi in precedenza esemplificate, da un estraneo o dalla stessa persona offesa, ovvero nell’ipotesi in cui il bene da assoggettare a vincolo non appartenga all’indagato o all’imputato: in questi casi, invero, ciò che conta è che vi sia un quadro indiziario sufficientemente qualificato in ordine all’avvenuta commissione di un fatto oggettivamente contrastante con un precetto penale; l’accertamento dell’attribuibilità soggettiva di tale fatto, invece, risulta del tutto irrilevante, essendo in questa sede svincolato da quella funzione di garanzia che soddisfa nei casi in cui è presupposto dell’applicazione di misure cautelari personali. Mentre infatti in queste ipotesi un simile accertamento è preordinato a giustificare il sacrificio della sfera di libertà di un soggetto in relazione al quale sussistono determinate esigenze cautelari, non altrettanto può dirsi con riguardo al sequestro preventivo, ove la sfera patrimoniale intaccata dalla misura e le esigenze cautelari non siano riconducibili al soggetto verso cui si procede. Se quindi l’orientamento dottrinale volto a subordinare l’esercizio del potere cautelare nelle ipotesi di sequestro preventivo alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza finisce per porre troppo spesso un insuperabile ostacolo al soddisfacimento delle esigenze di prevenzione e di difesa sociale considerate preminenti dal legislatore nella materia de qua, occorre peraltro prestare uguale attenzione agli opposti rischi cui potrebbe condurre l’adozione di una soluzione ermeneutica che, quale quella adottata dalle pronunce giurisprudenziali citate in apertura, omettesse di subordinare l’adozione delle misure in parola a stretti requisiti legislativamente determinabili: si darebbe spazio alla perpetrazione di gravi abusi e sarebbe elevato il rischio di incorrere in fondate censure di illegittimità costituzionale. 5. Un giusto e soddisfacente contemperamento delle antitetiche esigenze (36) di garanzia e di prevenzione e difesa sociale emergenti dalla contrapposizione tra le posizioni della dottrina e della giurisprudenza può peraltro già realizzarsi attraverso un attento esame delle condizioni legittimanti il sequestro preventivo enunciate nelle disposizioni contenute nell’art. 321 c.p.p. Dall’esame dell’articolo in parola può infatti ricavarsi come tre siano le condizioni cui il legislatore delegato subordina l’adozione della misura (37): 1) il fumus commissi delicti, requisito, questo, non espressamente enunciato, ma ricavabile dalla locuzione « cosa pertinente al reato » dalla quale emerge con evidenza come l’adozione del sequestro preventivo presupponga il previo accertamento dell’avvenuta commissione di un reato. Da tale quadro emergono due ovvii corollari:

(36) MELCHIONDA, op. cit., p. 151 s. (37) BALDUCCI, op. cit., p. 140 ss.; MELCHIONDA, op. cit., p. 149; CIRULLI, op. cit., c. 315 s.; TREVISSON LUPACCHINI, op. cit., c. 3 s.


— 555 — a) che i semplici atti preparatori non legittimano l’adozione della misura, essendo a tal fine richiesta la realizzazione quantomeno di un tentativo di delitto (38); b) che, conseguentemente, il sequestro preventivo non può in nessun caso svolgere finalità di prevenzione svincolate dalla commissione di un reato, essendo queste di esclusiva competenza dell’autorità amministrativa (39). La disposizione non contiene invece alcun elemento utile al fine di determinare il grado di approfondimento con cui il giudice debba accertare l’avvenuta commissione del reato, potendosi al riguardo spaziare dalla semplice prospettazione di esso, la c.d. ipotesi di reato, fino alla prova certa di questo, attraverso le soluzioni intermedie costituite dai sufficienti e dai gravi indizi; unica indicazione ricavabile dalla norma è quella che risulta, in via implicita, dalla possibilità, contemplata dal legislatore delegato, di applicare il sequestro anche nel corso delle indagini preliminari; ciò implica, se non si vuole vanificare la fruibilità dell’istituto, che a base del sequestro possa porsi un quadro probatorio di intensità minore di quella richiesta dall’art. 125 disp. att. c.p.p. per la formulazione dell’imputazione. 2) La pertinenza al reato del bene da sottoporre a sequestro o la confiscabilità dello stesso. Sul punto, precisato come il primo requisito attenga ad un legame causale tra bene e reato visto in una prospettiva statica (40), considerando cioé il reato per cui si procede come fatto compiuto, può richiamarsi, per la nozione di cosa pertinente al reato, il costante orientamento giurisprudenziale (41), ribadito tra l’altro anche in una delle massime tratte dalla pronuncia che si annota, secondo il quale costituiscono cose pertinenti al reato non solo tutte quelle sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso, ovvero che ne costituiscono il prodotto il profitto o il prezzo, o, ancora, che costituiscono prova della commissione di esso o delle sue conseguenze, ma anche le cose la cui fabbricazione, detenzione o alienazione, ovvero il cui uso o porto, costituiscono reato (42). In merito alla confiscabilità, condizione che l’oggetto del sequestro deve presentare in alternativa alla pertinenza al reato e per la cui nozione vale il richiamo all’art. 240 c.p., essa si pone nei confronti di quest’ultima in un rapporto di species a genus, essendo la categoria descritta dal primo comma dell’art. 321 c.p.p. più ampia di quella delineata al secondo comma dello stesso. Infine, come già per la precedente condizione del fumus commissi delicti, an-

(38) Ne consegue che i semplici atti preparatori non consentono l’adozione del sequestro preventivo. Cfr. BALDUCCI, op. cit., p. 142, con ampio richiamo in nota di precedenti giurisprudenziali. (39) Sez. III, 19 dicembre 1989, Ciampanella, in Cass. pen., 1991, II, p. 804, m. 702, con indicazione di precedenti in termini; Sez. III, 19 gennaio 1989, Fiorani, ivi, 1991, II, p. 804, m. 703; Sez. III, 22 maggio 1989, Damiani, ivi, 1990, II, p. 1774, m. 1431, con nota di F. LATTANZI. In dottrina, si vedano, AMODIO, op. cit., p. 1080; BETOCCHI, op. cit., p. 977 s.; GALANTINI, op. cit., p. 269; VICICONTE, op. cit., p. 362; COPPI, in nota a Pret. Perugia, 12 marzo 1990, in Giur. it., II, c. 150. (40) Cfr., BALDUCCI, op. cit., p. 149. (41) Sez. VI, 11 gennaio 1991, Carollo, in Cass. pen., 1992, p. 2801, m. 1490; Sez. I, 30 giugno 1990, Baglioni, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 130; Sez. I, 28 febbraio 1992, Rossi, ivi, 1992, p. 614. Circa le differenze intercorrenti tra il concetto di corpo del reato e quello di cosa pertinente al reato, si vedano, Sez. VI, 11 gennaio 1991, Carollo, cit.; Sez. VI, 28 novembre 1990, Grimaldi Satelli, in Cass. pen., 1991, II, p. 758, m. 271, con nota critica di F. LATTANZI; Sez. I, 26 aprile 1990, Bux, in GUARINIELLO, op. cit., c. 565. In dottrina, sull’argomento, si vedano, GALANTINI, op. cit., p. 272 s.; BALDUCCI, op. cit., p. 148 ss.; CORDERO, op. cit., p. 704 s.; GRIFANTINI, op. cit., p. 203 ss.; CIRULLI, op. cit., c. 319. (42) Per una nozione di pertinenza basata sul legame causale tra res e reato si veda, BALDUCCI, op. cit., p. 149 s.


— 556 — che in questo caso il legislatore ha omesso di specificare il quantum di prova richiesto ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito in parola. 3) Il periculum in mora, enunciato con riferimento alle sole ipotesi di sequestro preventivo contemplate all’art. 321, primo comma, e consistente nel « pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati »: il legame tra bene e reato è qui impostato in una prospettiva dinamica e di previsione futura, in relazione ai temuti sviluppi criminosi che la libera disponibilità del bene può agevolare (43). Il pericolo va quindi qui inteso in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro in conseguenza dell’effettiva e concreta disponibilità materiale e giuridica della cosa o del suo uso (44). Per le ipotesi di sequestro preventivo preordinato alla confisca di cui all’art. 321, secondo comma, c.p.p., si ritiene, conformemente alla dottrina pronunciatasi sul punto (45), che il periculum sia implicito nella stessa confiscabilità del bene. Anche con riguardo al presente requisito manca, a differenza di quanto dispone l’art. 316 c.p.p. in tema di sequestro conservativo, in virtù del quale il periculum dev’essere « fondato », ogni indicazione in ordine all’intensità della prova di esso. La sussistenza delle sopraelencate condizioni va accertata dal giudice che dispone la misura e, successivamente, dall’eventuale giudice del riesame nell’ordine logico descritto: ne consegue che la carenza dei primi presupposti dispensa l’interprete dell’indagine volta all’accertamento dei successivi (46). Nessuna ulteriore condizione per l’adozione della misura viene richiesta dall’art. 321 c.p.p. né, tantomeno, può ricavarsi, ancorché implicitamente, dalle successive disposizioni disciplinanti il sequestro preventivo: in particolare, nessun accenno è fatto ai gravi indizi di colpevolezza, a differenza di quanto avviene in materia di misure cautelari personali, ove l’art. 273 c.p.p. ne fa espressa richiesta, ed in tema di sequestro conservativo, che necessariamente li presuppone nel concetto stesso di imputazione. A ben vedere, peraltro, il silenzio serbato dal legislatore delegato sul punto più che frutto di una semplice svista, da colmare con il ricorso allo strumento analogico, come sostiene la già citata dottrina, sembra invece essere dettato da una precisa scelta di politica legislativa volta a non gravare l’applicazione della misura di presupposti e condizioni tali da ostruirne il tempestivo ed efficace impiego. La differente tecnica adottata dal legislatore nell’individuare i presupposti applicativi del sequestro preventivo rispetto a quella seguita per le misure personali e per il sequestro conservativo è infatti strettamente correlata, come già visto, con la peculiare strumentalità garantistica che in queste ipotesi viene ad assumere l’accertamento dei gravi indizi di colpevolezza: esso infatti implica una valutazione,

(43) BALDUCCI, op. cit., p. 149. (44) Sez. I, 26 aprile 1990, Nuovo, in GUARINIELLO, op. cit., c. 565 s. (45) SELVAGGI, in Commento, cit., p. 366 s.; CORDERO, op. cit., p. 516; MELCHIONDA, op. cit., p. 158; LATTANZI, Questioni vecchie e nuove sul sequestro preventivo di costruzioni abusive, in Cass. pen., 1990, II, p. 1777, il quale rileva come la differenza tra i primi due commi dell’art. 321 c.p.p. attenga non alla funzione del provvedimento, ma alla nascita e all’esercizio del potere di sequestro: nel primo caso, infatti, il giudice deve valutare, oltre alla pertinenza della cosa al reato, anche la pericolosità ad essa connessa; nel secondo, invece, la valutazione è operata tipicamente dal legislatore. Contra, NAPPI, op. cit., pp. 460 e 462. (46) CIRULLI, op. cit., c. 320.


— 557 — con un buon grado di approssimazione, della riferibilità oggettiva e soggettiva di un dato fatto di reato ad un determinato soggetto ed è preordinato, si ripete, a garantire che la limitazione di una posizione costituzionalmente rilevante di un individuo, sia essa di natura personale o patrimoniale, realizzata in dipendenza ed in funzione del suo coinvolgimento nella commissione di un fatto di reato, avvenga solo e soltanto in presenza di un adeguato riscontro probatorio in merito alla responsabilità dello stesso nella commissione di quel fatto. Non pare logico, invece, né tantomeno utile che la stessa condizione venga richiesta allorquando quella limitazione venga a gravare su un soggetto diverso da quello in relazione al quale viene effettuato l’accertamento descritto: ne deriverebbe infatti, come già delineato, l’assoluta preclusione dell’impiego del sequestro preventivo, pur in presenza di un pressante quadro cautelare, in tutte le ipotesi in cui non sia possibile, al momento, identificare l’autore del reato, ovvero nelle quali, pur essendovi un indagato, manchi nei suoi confronti un quadro indiziario che possa definirsi « grave ». Accertata l’inapplicabilità dei gravi indizi di colpevolezza e risultando conseguentemente circoscritta l’individuazione dei presupposti della misura de qua alle tre indicate condizioni emergenti dal tenore letterale dell’art. 321 c.p.p., occorre ancora domandarsi, stante il silenzio del codice al riguardo, che grado d’intensità debba presentare l’accertamento di esse: se in particolare sia bastevole riscontrare l’esistenza di sufficienti indizi in ordine rispettivamente all’avvenuta commissione di un reato, alla pertinenza ad esso del bene sequestrando ed alla sussistenza del c.d. periculum in mora, ovvero se siano richiesti gravi indizi o, ancora, indizi gravi, precisi e concordanti, cioé la prova certa di tali condizioni. Pur non essendo mancato sia chi (47) ha richiesto, almeno in ordine all’accertamento della sussistenza del fatto di reato, « indizi gravi, precisi e concordanti », sia chi, al contrario, ha evidenziato (48) come « il nostro sistema processuale ha sempre fissato in modo espresso i casi in cui occorra accedere alla soglia della gravità degli indizi », con la conseguenza che in difetto di un’espressa indicazione legislativa in tal senso non potrebbero richiedersi che indizi sufficienti, la soluzione più corretta e che maggiormente realizza un soddisfacente contemperamento delle contrapposte esigenze di garanzia e di prevenzione e difesa sociale in precedenza delineate risulta essere quella intermedia, confermata d’altronde dalla stessa suprema corte nella pronuncia che si annota. Infatti, mentre l’orientamento che subordina l’applicabilità della misura all’accertamento di indizi meramente « sufficienti » risulta poco attento alle gravi implicazioni che il sequestro può avere in relazione a posizioni soggettive di rilievo costituzionale e finisce per dare spazio a possibili prassi applicative « disinvolte », l’opposto orientamento restrittivo che richiede invece la certezza della prova del reato, in quanto risultante da indizi gravi, precisi e concordanti, finisce per ostacolare eccessivamente l’esercizio del potere cautelare del giudice e ciò soprattutto nella fase delle indagini preliminari, sede privilegiata per l’impiego dell’istituto, nella quale è ben difficile avere l’assoluta certezza che il reato, sia pur sotto l’esclusivo profilo oggettivo, sia stato perpetrato. Come infatti ha avuto modo di chiarire la stessa cassazione (49) in relazione al requisito della pertinenza al reato, « la natura e la funzione dell’istituto nonché il fatto stesso che

(47) GIARDA, op. cit., p. 1244 s. (48) TAFI, op. cit., p. 285. (49) Sez. V, 12 luglio 1990, Marin, in Cass. pen., 1991, II p. 283, m. 91 (in motivazione).


— 558 — il sequestro può essere disposto anche prima dell’inizio dell’azione penale, allorché l’acquisizione della prova è necessariamente in itinere e pur si rende necessario sottrarre la cosa alla libera disponibilità, al fine di garantire gli scopi voluti dalla norma, comportano che ai fini del rapporto di pertinenza non è necessario che sia stata raggiunta una prova certa, ma è sufficiente che esistano gravi indizi, tali da ricollegare le cose al tipo stesso di reato oggetto delle indagini ». La soluzione più soddisfacente risulta quindi essere quella intermedia che condiziona l’esercizio del potere cautelare alla sussistenza di un quadro indiziario grave sia in ordine all’avvenuta commissione del reato per cui si procede, sia in ordine alla pertinenza del bene da sottoporre a sequestro al reato stesso, sia, infine, in ordine al rischio che la libera disponibilità della cosa pertinente può costituire in relazione al quadro criminoso attuale (unica eccezione al riguardo è rappresentata dall’accertamento del periculum in mora che, in relazione alle ipotesi di sequestro preordinato alla confisca di cui all’art. 321, secondo comma, c.p.p., è da ritenersi implicito nella stessa confiscabilità del bene), con la conseguenza di assicurare un’interpretazione delle condizioni applicative indicate dal codice orientata al rispetto delle garanzie costituzionali e al tempo stesso adeguata al prevalente impiego in sede di indagini preliminari che l’istituto in parola è destinato ad avere. 6. Individuati i presupposti applicativi del sequestro preventivo e stabilito il grado di approfondimento con cui il giudice deve accettarne la ricorrenza, resta ancora da domandarsi se anche in relazione a tale misura, nonostante il silenzio serbato dal legislatore al riguardo, possano ritenersi applicabili quei principi di adeguatezza, proporzionalità e gradualità che il codice enuncia all’art. 275 quali criteri informatori della scelta della misura cautelare personale da applicare al caso concreto e che sono preordinati a garantire che la stessa, sia in sede di individuazione, che in sede di determinazione delle concrete modalità applicative, si attagli perfettamente al fatto di reato, alle sanzioni per questo previste nonché alla natura e al grado delle esigenze cautelari, sì da assicurare alla cautela personale l’ottimizzazione del risultato con il minimo sacrificio di diritti costituzionalmente tutelati (50). Più specificamente, occorre accertare se il pubblico ministero nel formulare la richiesta, ma soprattutto il giudice nel decreto che dispone la misura, debbano modellare la stessa alle concrete sfumature che presenta la realtà processuale e sostanziale sulla quale essa viene ad incidere: in particolare, circoscrivendo l’oggetto del sequestro preventivo a quelle soltanto tra più cose pertinenti al reato dalle quali possa derivare il pericolo di consolidamento o di aggravamento del quadro criminoso (ad esempio, nel caso di sequestro preventivo di uno stabilimento, limitando la misura ai soli reparti dove vengono svolte le lavorazioni pericolose o inquinanti in relazione alle quali è in corso il procedimento penale), ovvero limitando il vincolo di indisponibilità del bene ai soli impieghi di esso contrastanti con le norme penali ed autorizzandone, di converso, l’utilizzo ai fini della rimozione della situazione di pericolo (ad esempio, autorizzando l’accesso al re-

(50) Sull’argomento, si vedano, Sez. III, 13 luglio 1990, Serlenga, in GUARINIELLO, op. cit., c. 566. Contra, Sez. I, 26 aprile 1990, Bux, cit. In dottrina, BALDUCCI, op. cit., pp. 155, 179, 203 ss., 260; SELVAGGI, op. cit., p. 371; GALANTINI, op. cit., p. 387. Contra, NAPPI, op. cit., p. 461. Per taluni autori, peraltro, il principio di gradualità sarebbe privo di autonoma rilevanza e costituirebbe una logica conseguenza dell’operare congiunto dei principi di adeguatezza e proporzionalità; cfr. AMATO, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, cit., p. 42 s.; SIRACUSANO, op. cit., p. 458 s.


— 559 — parto sotto sequestro al solo fine di adeguarne i macchinari alla normativa antinfortunistica), ovvero delimitando sin dalla sua adozione l’efficacia temporale della misura per il tempo necessario a scongiurare il pericolo, con il conseguente automatico venir meno del vincolo di indisponibilità, senza bisogno di alcun provvedimento di revoca, allo scadere di un determinato termine (sequestro preventivo a termine) o al verificarsi di un determinato evento (sequestro preventivo condizionato) (ad esempio l’entrata in funzione di un nuovo impianto di depurazione degli scarichi dello stabilimento sotto sequestro) (51), ovvero, infine, circoscrivendo in chiave soggettiva il vincolo di indisponibilità del bene (ad esempio, limitando ai soli manutentori l’accesso ad un forno industriale dal quale derivino emissioni nocive, onde realizzarne il graduale spegnimento al fine di evitare che una repentina interruzione dell’attività dello stesso finisca per danneggiarlo irrimediabilmente). La soluzione ermeneutica più corretta non può che essere quella di estendere in via analogica anche al sequestro preventivo i principi summenzionati e ciò sia per ragioni di identità di ratio ispiratrice, sia per alcuni riscontri ricavabili dalla disamina degli artt. 85 disp. att. e 324 c.p.p. Invero, a differenza dell’art. 273 c.p.p. e al presupposto dei gravi indizi di colpevolezza ivi enunciato, inapplicabili in via analogica alla disciplina del sequestro preventivo in quanto, come visto in precedenza, incompatibili con le peculiarità che la cautela penale assume quando abbia ad oggetto una res, l’art. 275 c.p.p. è epressione di un principio generale informatore del nostro ordinamento processuale penale relativo ad ipotesi nelle quali, per fini processuali, debba realizzarsi la compressione di una posizione giuridica costituzionalmente rilevante: come tale, ben può essere esteso in analogica a situazioni non dallo stesso espressamente disciplinate. In virtù di detto principio infatti, che potrebbe definirsi « del sacrificio minimo », la limitazione di una situazione soggettiva costituzionalmente tutelata per fini processuali può ammetttersi solo e soltanto nella misura strettamente necessaria al concreto soddisfacimento di tali finalità: più precisamente, il principio in parola, come enunciato nell’art. 275 c.p.p. in relazione alle misure cautelari personali, legittima determinate forme di compressione della libertà personale purché le stesse siano strumentali al soddisfacimento di soli interessi di rilievo costituzionale, quali sono quelli cui è preordinato il processo penale, e purché siano salvaguardate tre condizioni ineludibili: a) che la limitazione imposta sia idonea ad assicurare il soddisfacimento, in relazione al tipo e all’intensità, dell’esigenza cautelare che la determina (principio di idoneità o adeguatezza); b) che la limitazione sia proporzionata, nel pregiudizio che cagiona, alla rilevanza dell’interesse per la cui lesione è in corso il procedimento penale e all’entità delle conseguenze che la lesione medesima farà presumibilmente scaturire (principio di proporzionalità); c) che, infine, non vengano adottate forme di compressione particolarmente intense quando l’esigenza per cui si ricorre alla misura possa egualmente essere soddisfatta facendo ricorso a forme di limitazioni più attenuate (principio di gradualità). Per la portata generale che tale principio assume esso, per quanto espressa-

(51) L’operatività dell’automatismo potrebbe essere temperata, subordinando la cessazione degli effetti della misura all’esito positivo di apposita verifica, demandata agli organi di polizia giudiziaria, sull’avvenuta rimozione della fonte di pericolo.


— 560 — mente enunciato con riferimento ad ipotesi di limitazione della libertà personale, ben può essere esteso, stante l’identità della ratio ispiratrice, ad ogni altro caso in cui, per fini processuali, vengano operate delle restrizioni a situazioni soggettive di rilievo costituzionale. Ne consegue, come concordemente evidenziato in giurisprudenza e dottrina (52), che anche l’applicazione del sequestro preventivo, misura, come già visto, ampiamente incidente su posizioni costituzionalmente tutelate, dev’essere effettuata nel rispetto dei principi enunciati all’art. 275 c.p.p. e che, ove ciò non ricorra, il vizio da cui sia conseguentemente affetto il provvedimento applicativo o confermativo potrà essere fatto valere con i rimedi indicati agli artt. 322 e 322 bis c.p.p. (riesame o appello). L’esattezza della soluzione indicata trova inoltre ulteriore conforto in due disposizioni specificatamente dettate in materia di sequestro preventivo e direttamente riconducibili al « principio del sacrificio minimo »: l’art. 85 disp. att. c.p.p. e l’art. 324 c.p.p. Secondo la prima disposizione, prevista in relazione al sequestro probatorio e resa applicabile alla materia de qua dal richiamo contenuto all’art. 104 disp. att. c.p.p., « quando sono state sequestrate cose che possono essere restituite previa esecuzione di specifiche prescrizioni, l’autorità giudiziaria ... ne ordina la restituzione impartendo le prescrizioni del caso... ». Non è chi non veda, invero, come la norma enunciata in tale disposizione costituisca diretta applicazione del menzionato principio generale: con essa, infatti, si prescrive all’autorità giudiziaria di rimuovere il vincolo d’indisponibilità sul bene ogniqualvolta il soddisfacimento delle esigenze cautelari cui lo stesso è preordinato possa egualmente realizzarsi attraverso l’imposizione di idonee prescrizioni che, senza sacrificare la libera fruibilità del bene, consentano la eliminazione della situazione di pericolo (53). Espressione del medesimo principio generale è altresì la norma contenuta nell’art. 324, settimo comma, c.p.p., che, descrivendo le possibili decisioni del tribunale della libertà in sede di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo, dispone che « la revoca del sequestro può essere parziale ». Con l’impiego della locuzione « revoca parziale del sequestro », infatti, il legislatore delegato ha inteso fare riferimento non già alle ipotesi nelle quali la misura sia stata disposta in assenza delle condizioni normativamente stabilite, che, in tal caso, dovrebbe annullarsi in relativo decreto, né, parimenti, ai casi in cui la situazione di pericolo mancasse ab origine o sia successivamente venuta meno, dovendosi qui revocare in toto la misura: la situazione in presenza della quale deve disporsi la revoca parziale del sequestro è invece proprio quella fino ad ora esaminata, in cui cioé la misura adottata sia eccessiva rispetto alle finalità cautelari perseguite. In particolare, la disposizione in esame riguarda le ipotesi in cui siano stati assoggettati a sequestro preventivo beni in eccedenza rispetto a quelli dai quali provenga la situazione di pericolo: con la revoca parziale si impone quindi al tribunale della libertà (ma la disposizione contiene implicitamente una prescrizione che vale già in sede di adozione della misura) di ridurre il novero dei beni sotto sequestro a quelli soli dai quali può derivare il rischio. Anche quest’ultima norma, quindi, per quanto destinata a regolare un profilo ristretto (in particolare, l’eccedenza della misura sotto il profilo quantitativo) della

(52)

Sez. III, 13 luglio 1990, Serlenga, cit.; BALDUCCI, op. cit., pp. 153, 179, 203 ss., 260; SEL-

VAGGI, op. cit., p. 371.

(53)

BALDUCCI, op. cit., p. 203 ss.; GALANTINI, op. cit., p. 287.


— 561 — più ampia problematica fino ad ora trattata, costituisce, al pari di quella in precedenza esaminata, estrinsecazione del principio generale ricavabile dall’art. 275 c.p.p. e conferma l’ampia portata di quest’ultimo e delle sue articolazioni nei sottostanti principi di adeguatezza, proporzionalità e gradualità. 7. In merito alla nozione di cosa pertinente al reato (54), mentre da taluno in dottrina si evidenzia il significato scarsamente delimitativo dell’espressione (55), altri (56) rileva come tale locuzione abbia una portata profondamente diversa da quella, identica, impiegata dall’art. 253 c.p.p. in tema di sequestro probatorio; in particolare, si afferma, mentre quest’ultima disposizione, attraverso il riferimento alle cose necessarie per l’accertamento dei fatti, circoscrive il potere di sequestro dell’autorità giudiziaria alle sole cose che hanno un legame probatorio con il fatto per il quale si procede, la nozione di cosa pertinente contenuta nell’art. 321 c.p.p. delimita l’ambito applicativo del sequestro preventivo in relazione allo scopo cui è preordinata la misura, finendo per assumere una connotazione di natura sostanziale attraverso il collegamento del bene da sottoporre a cautela con il reato o le conseguenze che si intendono prevenire attraverso l’imposizione del vincolo. Il legame di pertinenza recepito nell’art. 321 c.p.p. viene quindi ad esprimere un nesso causale tra res e reato che va rilevato in due distinte direzioni: 1) nel senso di vincolo logico-giuridico con il reato già commesso, in una prospettiva, cioè, di causalità consumata; 2) in una prospettiva di causalità potenziale con i temuti sviluppi criminosi agevolati dalla libera disponibilità del bene (57). Ben diversa e conseguentemente ben più ampia (58) è la nozione di cosa pertinente al reato che viene in rilievo ai fini del sequestro probatorio: essa infatti, come afferma Cordero (59), comprende « ogni reperto utile a convinzione o a discolpa » e, più specificamente, qualunque cosa che direttamente o indirettamente conduca all’accertamento del reato e della sua commissione nonché delle circo-

(54) Sull’argomento, si vedano, Sez. I, 30 giugno 1990, Baglioni, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 130; Sez. I, 28 febbraio 1992, Rossi, ivi, 1992, p. 614; con riferimento al rapporto tra sequestro probatorio e sequestro preventivo, cfr., Sez. V, 25 giugno 1992, Moro, ivi, 1992, p. 799; Sez. VI, 11 gennaio 1991, Carollo, in Cass. pen., 1992, p. 2801, m. 1490, nella quale vengono precisate le differenze tra la nozione di cosa pertinente al reato e quella di corpo di reato, con nota di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali anche relativi al precedente regime normativo. Secondo il LATTANZI, Brevi considerazioni..., cit., p. 759, che riprende alcuni spunti contenuti nella Relazione ministeriale (p. 68), nell’art. 253, primo comma, si è distinto il corpo del reato dalle cose pertinenti al reato per dare una definizione sufficientemente comprensiva del concetto di corpo del reato e per mettere in risalto che la categoria dei beni pertinenti al reato non comprende solo il corpo del reato, ma abbraccia tutte le cose legate anche indirettamente alla fattispecie criminosa. In dottrina, sul concetto di cosa pertinente al reato, si vedano anche, GALANTINI, op. cit., p. 272 s.; CORDERO, op. cit., p. 704 s.; LATTANZI, Questioni..., cit., p. 1776. (55) CIRULLI, op. cit., c. 319; GRIFANTINI, op. cit., p. 205; SOTTANI, Problemi vecchi e nuovi in tema di sequestro, in Giur. it., 1990, II, c. 369 s.; NAPPI, op. cit., p. 459. (56) BALDUCCI, op. cit., p. 148. (57) BALDUCCI, op. cit., p. 149; SELVAGGI, op, cit., p. 365. (58) Sul punto si veda, però, la diversa ricostruzione del SOTTANI, op. cit., c. 370, il quale, muovendo da un approccio di natura più testuale, evidenzia che se il requisito di pertinenza costituisce il comune presupposto per l’emissione sia del sequestro probatorio che del sequestro preventivo, quest’ultimo finisce per presentare un oggetto più ampio del primo, in quanto, mentre in relazione al sequestro preventivo il presupposto della relazione di pertinenza tra bene sequestrando e reato è condizione sufficiente per l’adozione della misura, nella distinta fattispecie del sequestro probatorio è ulteriormente richiesto che le cose da sequestrare siano necessarie per l’accertamento dei fatti per i quali si procede. (59) Op. cit., p. 705.


— 562 — stanze del fatto e persino degli elementi dai quali si desume la personalità del reo e i moventi del reato (60). In ordine, infine, ai rapporti intercorrenti tra cose pertinenti al reato e corpo del reato, è opinione pacifica in dottrina e giurisprudenza che il primo termine sia comprensivo del secondo (61), intercorrendo tra i due concetti un rapporto di species a genus (62), anche se sotto l’impero del codice abrogato non è mancato chi riteneva che le due locuzioni esprimessero concetti equivalenti (63). Analogo rapporto di species a genus è da ritenere sussista tra la nozione di cosa sottoponibile a confisca di cui al secondo comma dell’art. 321 c.p.p. e quella di cosa pertinente al reato oggetto del primo comma della medesima disposizione. Al proposito, di particolare interesse risulta quanto specificato nella relazione al progetto preliminare (64), ove è precisato che la bipartizione risultante tra l’oggetto del sequestro, quale previsto rispettivamente nel primo e nel secondo comma della disposizione citata, rappresenta il punto di arrivo di un’approfondita discussione imperniata sulla strumentalità tra sequestro e confisca. L’obiettivo dei compilatori, si legge, « era quello di delimitare, mediante un rinvio alla nozione di ‘‘cose di cui è consentita la confisca’’, l’area di operatività del sequestro preventivo, così da escludere che esso potesse trovare applicazione fuori dei confini segnati dall’art. 240 c.p. e dalle leggi speciali in cui è espressamente riconosciuto al giudice il potere di confisca ». L’adozione dell’attuale formulazione dell’articolo incentrata sulla finalità della misura cautelare più che sulla caratterizzazione delle cose materiali che ne possono costituire l’oggetto è stata peraltro determinata dall’osservazione che la configurazione dell’istituto in funzione strumentale alla confisca avrebbe precluso l’iniziativa del giudice almeno in due casi di primario rilievo nell’ottica preventiva: quello delle costruzioni abusive, in relazione all’assenza del potere di confisca in capo al giudice penale, stante il preminente potere di demolizione attribuito al sindaco dalle leggi amministrative, e quello del prezzo del riscatto nei reati di sequestro di persona, in cui lo stesso non è confiscabile in

(60)

Cass., 25 maggio 1971, Cazzani, in Cass. pen., 1972, p. 1068, m. 1449. In dottrina, GALAN-

TINI, op. cit., p. 272 s.; SELVAGGI, op. cit., p. 365.

(61) Sez. VI, 11 gennaio 1991, Carollo, cit.; Sez. I, 26 aprile 1990, Bux, cit. In dottrina, BALDUCCI, op. cit., p. 151; SOTTANI, op. cit., c. 366 ss.; CIRULLI, op. cit., c. 319; PAOLOZZI, Il sequestro penale, Padova, 1984, p. 18; BETOCCHI, op. cit., p. 973 s. (62) MELCHIONDA, op. cit., p. 150; GRIFANTINI, op. cit., p. 203 s. (63) LATTANZI, Brevi considerazioni..., cit., p. 759; Questioni..., cit., p. 1776; GRIFANTINI, op. loc. ult. cit. Il problema dei rapporti tra il concetto di cosa pertinente al reato e quello di corpo del reato si è posto soprattutto in relazione alla figura di sequestro probatorio prevista dall’art. 253 c.p.p. e, in particolare, in relazione all’obbligatorietà o meno del sequestro del corpo del reato. Il contrasto ermeneutico conseguentemente insorto era determinato dall’imperfetta formulazione del primo comma di tale norma, che, enunciando che « l’autorità giudiziaria dispone... il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti », non chiarisce se la necessità per l’accertamento dei fatti sia condizione necessaria per la sequestrabilità delle sole cose pertinenti o anche dello stesso corpo del reato. Il dubbio aveva determinato la formazione di due diversi orientamenti giurisprudenziali che sostenevano rispettivamente la necessità di accertare sempre l’utilità ai fini probatori del sequestro e ciò quand’anche tale misura avesse ad oggetto il corpo del reato (Sez. I, 28 maggio 1990, Baglioni, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 130) e, al contrario, l’esclusione di tale accertamento e la conseguente obbligatorietà della misura in quest’ultimo caso (Sez. III, 28 settembre 1990, Monti, in Cass. pen., 1991, II, p. 286, m. 92). Solo recentemente le sezioni unite del supremo collegio hanno sciolto il dilemma (Sez. un., 18 giugno 1991, Raccah, in Cass. pen., 1991, II, p. 925, m. 330, con nota di SELVAGGI), sancendo la necessità, del resto propugnata da tempo da parte della dottrina più attenta (LATTANZI, Brevi considerazioni..., cit., p. 758; contra, NAPPI, op. cit., p. 183), che l’accertamento in ordine alla strumentalità ai fini probatori del bene sequestrando venga effettuato anche quando oggetto della misura sia il corpo del reato. (64) Relazione, cit., p. 80.


— 563 — quanto, ai sensi dell’art. 240, terzo comma, c.p., appartenente a persona estranea al reato (65). 8. Per nulla condivisibile, infine, risulta quanto enunciato dalla suprema corte nell’ultima delle massime tratte dalla pronuncia che si annota: in essa, in particolare, si afferma che ogniqualvolta il codice di rito contempli la possibilità di ricorrere per cassazione « per violazione di legge » il rimedio debba intendersi limitato alla possibilità di dolersi dei vizi indicati alle lettere b) e c) dell’art. 606 c.p.p. e, comunque, non comprenda i casi di mancanza o manifesta illogicità della motivazione previsti alla lettera e) della medesima disposizione (66). La decisione in parola si pone quindi in stridente contrasto con quanto di recente affermato dalla stessa corte di cassazione in un’analoga vicenda (67), in relazione alla quale era stato dalla dottrina evidenziato (68) come con la locuzione « violazione di legge » il legislatore avesse inteso unicamente escludere ogni sindacato della suprema corte in ordine al merito, non già corcoscrivere o cumunque limitare il novero dei vizi di legittimità che possono esser fatti valere in quella sede. Il problema ermeneutico, in particolare, come posto in luce dalla citata dottrina (69), nasce dal fatto che la mancanza di motivazione integra già di per sé l’inosservanza di una norma processuale, precisamente l’art. 125 c.p.p., che sanziona con la nullità la mancata motivazione delle sentenze e delle ordinanze, nonché dei decreti nei casi in cui questi ultimi debbano essere motivati. Come tale, la mancanza di motivazione potrebbe essere già fatta valere come vizio dinanzi al supremo collegio, ai sensi della lettera c) dell’art. 606 c.p.p. Da ciò consegue che la previsione, nella lettera e) dello stesso articolo, di un autonomo motivo di doglianza incentrato sulle patologie della motivazione e, segnatamente, sulla mancanza o manifesta illogicità di questa che risulti dal testo del provvedimento impugnato, dev’essere necessariamente interpretata in uno soltanto dei due seguenti modi: 1) nel senso che la lettera e) prevede e disciplina ipotesi che non possono comunque essere ricondotte alle precedenti lettere, esulando in particolare da quanto previsto dalla lettera c), il che è quanto in sostanza afferma la cassazione nella massima in discorso; 2) nel senso, antitetico, secondo il quale la norma in parola avrebbe la funzione di realizzare una « specificazione limitativa » delle censure relative alla mancanza di motivazione proponibili in cassazione, così ridotte ai soli vizi che risultino dal testo del provvedimento giurisdizionale impugnato. La norma, quindi, non avrebbe altro scopo che quello di ridurre la sfera di sindacabilità di un vizio che sarebbe comunque già ricompreso nella precedente lettera c) dello stesso articolo. Che sia quest’ultima e non altra la lettura della norma più rispondente all’intendimento perseguito dai compilatori del codice emerge in maniera incontrovertibile dal riscontro con quanto enunciato nella Relazione al progetto preliminaare: in particolare, vi si legge (70) che la scelta di affidare ad un’autonoma previsione l’individuazione dei limiti entro i quali è circoscritta la possibilità di far valere in

(65) Relazione, ibidem. (66) Sull’argomento, si veda, FERRARO, in nota a Sez. III, 7 novembre 1990, Lo Bianco, in Foro it., 1991, II, c. 140 s. (67) Sez. III, 7 novembre 1990, Lo Bianco, cit. (68) FERRARO, op. cit., p. 141. (69) FERRARO, op. cit., p. 140. (70) Relazione, cit., p. 132 s.


— 564 — cassazione i vizi della motivazione, a differenza del sistema previgente, in relazione al quale questi risultavano indirettamente previsti attraverso il riferimento alle ipotesi di nullità della sentenza, è stata ispirata dall’intendimento di delimitare l’area di sindacato della corte al piano della stretta legittimità e, in particolare, all’accertamento dei requisiti minimi di esistenza, completezza ed unicità della motivazione, onde evitare che attraverso una dilatazione in via ermeneutica del vizio di motivazione si potesse verificare una sovrapposizione dell’apprezzamento del giudice di legittimità su quello del giudice di merito. Ad ulteriore conferma della correttezza della soluzione interpretativa prospettata, vanno evidenziate le abnormità cui condurrebbe, in accoglimento di quanto affermato dalla cassazione nella massima in commento, l’esclusione di ogni forma di sindacato del supremo collegio sulla motivazione nelle ipotesi nelle quali il ricorso per cassazione sia previsto dal codice per « violazione di legge ». Le insopprimibili esigenze di immediatezza e di sorpresa che rappresentano il profilo più caratterizzante della funzione cautelare hanno imposto al legislatore delegato di differire ad un momento successivo all’adozione delle misure personali e reali di cui si discorre la piena attuazione del diritto costituzionalmente riconosciuto al contraddittorio. In particolare, si è affidata ad un apposito procedimento incidentale, il procedimento di riesame dinanzi al tribunale della libertà, l’onere d’instaurazione del quale grava sul soggetto nella cui sfera incidono le misure, la funzione di controllo sull’effettiva ricorrenza delle condizioni prescritte dall’ordinamento per l’esplicazione del potere cautelare. Proprio al fine di assicurare una base di riscontro sulla quale impostare il successivo ed eventuale contraddittorio in sede di riesame è stata imposta, per ogni provvedimento cautelare, l’adozione di una congrua motivazione. La motivazione dei provvedimenti applicativi di misure cautelari, quindi, oltre che di giustificazione dell’esercizio del potere giurisdizionale, svolge anche l’essenziale funzione di parametro sulla scorta del quale raffrontare la legittimità del provvedimento (71). Il legislatore, peraltro, sulla scia, del resto, di quanto già disponeva la l. 12 agosto 1982, n. 532 che ha introdotto l’istituto, non ha demandato al riesame una mera funzione di controllo in ordine alla sussistenza delle condizioni di legge per l’adozione della misura impugnata, ma, al contrario, ha configurato lo stesso come uno strumento attraverso il quale viene operata una rimeditazione della situazione in presenza della quale è stata attivata la misura. Una simile scelta di fondo ha necessariamente inciso anche sulle modalità attraverso le quali il tribunale della libertà svolge la sua funzione di controllo sulla motivazione del provvedimento applicativo della misura: l’art. 309 c.p.p., infatti, come già il previgente art. 163-ter, prevede la possibilità per il tribunale di confermare la misura, integrando la motivazione carente, in tutte le ipotesi nelle quali, malgrado tale vizio, si ritenga giustificata, nella sostanza, l’adozione del provvedimento cautelare. La motivazione in tali casi diviene quindi completa e definitiva solo a seguito del giudizio di riesame. Ne consegue che l’unico controllo attuabile sulla motivazione, in simili ipotesi, è quello che si realizza con la proposizione del ricorso per cassazione ai sensi della

(71) Sul punto e, in particolare, sulla necessità di motivare non solo al fine di garantire una verifica sulle condizioni legittimanti l’adozione del provvedimento, ma anche al fine di permettere l’identificazione della natura propria della misura adottata, stante la pluralità delle figure di sequestro contemplate nel nuovo ordinamento processuale, si veda, Sez. un., 18 giugno 1991, Raccah, cit., e, in dottrina, MONTAGNA, Pluralità delle specie di sequestro..., cit., c. 299.


— 565 — lett. e) dell’art. 606 c.p.p., il che, stando a quanto sostiene la massima in esame, sarebbe possibile solo per le misure cautelari personali, non contenendo l’art. 311 c.p.p. la limitazione risultante dall’impiego della locuzione « per violazione di legge » riportata, invece, nel testo dell’art. 325 c.p.p. In presenza di una misura reale, invece, l’adozione del criterio ermeneutico che si censura precluderebbe totalmente all’interessato ogni forma di sindacato sulle ragioni addotte a fondamento del provvedimento. Il sacrificio che una simile lettura del disposto dell’art. 325 fa sia del principio del contraddittorio che dei principi di pari rilievo costituzionale sui quali, come già visto, vengono ad incidere le misure cautelari reali, unitamente alla già considerata portata afflittiva, talvolta anche superiore a quella di talune misure personali, che le misure cautelari reali possono in concreto presentare, impongono di disattendere quanto affermato dalla cassazione, assicurando, al contrario, proprio attraverso l’extrema ratio rappresentata dal ricorso ai sensi della lett. e) dell’art. 606 c.p.p., un controllo effettivo sulle argomentazioni logico-giuridiche poste a fondamento delle misure ed una garanzia contro un utilizzo distorto o addirittura abusivo delle stesse. dott. LUCA FIORE


— 566 — CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 1 settembre 1992 Pres. Consoli — Rel. Losapio P.M. Scardaccione (concl. conf.) — Ric. Bruzzese Prova — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Richiesta di misura cautelare fondata su conversazioni telefoniche intercettate — Previo deposito dei verbali di intercettazione — Necessità — Esclusione — Trasmissione di detti verbali al tribunale del riesame — Necessità — Esclusione (C.p.p. 1988, artt. 266-271, 291, 309). Prova — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Deposito dei verbali e delle registrazioni entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni — Inosservanza di tale prescrizione — Nullità — Esclusione — Inutilizzabilità — Esclusione (C.p.p. 1988, artt. 178, 180, 268, 271). Prova — Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni — Utilizzazione in altri procedimenti — Deposito dei decreti di autorizzazione — Necessità — Sussistenza — Termine — Individuazione (C.p.p. 1988, artt. 270, 268, 416). Poiché nessuna norma prescrive né che i verbali di intercettazione telefonica (e tanto meno la trascrizione e la traduzione del contenuto dei colloqui registrati) debbano essere depositati a disposizione del difensore prima dell’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, né che tale deposito debba avvenire in un momento immediatamente successivo, il pubblico ministero, quando richiede l’applicazione di una misura cautelare personale, non è tenuto ad esibire tale documentazione, ancorché gli elementi indizianti, posti a fondamento della richiesta, emergano dalle intercettazioni. Né il detto deposito è prescritto nel procedimento davanti al giudice del riesame della misura cautelare, in quanto, a norma dell’art. 309, comma 5o, c.p.p., il pubblico ministero deve trasmettere al tribunale della libertà gli atti da lui esibiti al momento della richiesta di applicazione della misura (1). L’inosservanza dell’art. 268, comma 4o, c.p.p., il quale prescrive che i verbali e le registrazioni delle intercettazioni telefoniche siano depositati, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, in segreteria, insieme ai decreti che abbiano autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione, non è sanzionata a pena di nullità, né comporta l’inutilizzabilità delle intercettazioni, riferibile esclusivamente all’inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268, commi 1o e 3o, c.p.p. (2). Anche se l’art. 270 c.p.p., il quale stabilisce i termini di utilizzabilità delle intercettazioni disposte in altro procedimento, non prevede l’obbligo del deposito, nel procedimento ad quem, dei decreti con i quali le operazioni intercettative furono autorizzate in quello d’origine, deve escludersi che il legislatore abbia voluto impedire alla difesa l’esercizio di un significativo controllo su tali provvedimenti, la cui irritualità, illegittimità o inadeguatezza comporterebbe la nullità delle intercettazioni e l’inutilizzabilità dei risultati dalle stesse conseguiti. Al di là del dato testuale, deve perciò ritenersi che, unitamente ai verbali d’intercettazione ed al materiale magnetofonico cui fa riferimento l’art. 268, commi 6o, 7o e 8o, c.p.p., ri-


— 567 — chiamato dall’art. 270, comma 2o, c.p.p., nel procedimento diverso vanno depositati anche i decreti di autorizzazione adottati dal giudice per le indagini preliminari nel procedimento d’origine. Il momento ultimo in cui tale deposito deve essere effettuato coincide con la richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 c.p.p. (3). (Omissis). — Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato il quale, dopo avere accennato agli accadimenti dai quali il procedimento prese le mosse, si duole perché non si sarebbe provveduto al deposito dei verbali di intercettazioni telefoniche, poste a base del provvedimento impugnato, eseguite presso altro ufficio giudiziario su disposizione di altro magistrato, mentre dei provvedimenti di autorizzazione all’esecuzione delle intercettazioni non vi sarebbe traccia materiale in atti. È ben vero, osserva il deducente, che dei risultanti delle intercettazioni telefoniche viene effettuato utilizzo rituale, ai sensi dell’art. 270 del codice di rito penale, tuttavia si sarebbe dovuto procedere al deposito dei verbali e dei provvedimenti che autorizzarono tali atti, prima (pare di capire) dell’emissione del provvedimento restrittivo. Non sarebbe seguibile l’opinione, esplicitata dal Tribunale del riesame, secondo il quale solo la inosservanza di alcune disposizioni di legge in materia sarebbe causa di nullità o di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Secondo la difesa il mancato deposito dei verbali comporterebbe la violazione di tutte le disposizioni di cui agli artt. 178 e 179 del codice di procedura penale. — (Omissis). Nel corso dell’odierna discussione il difensore ha insistito, richiamando una decisione della Corte costituzionale, nell’illustrare le ragioni per le quali i decreti che autorizzano le intercettazioni telefoniche nel procedimento originario debbono essere depositati anche nel procedimento diverso, profilando un dubbio di legittimità costituzionale nel caso sia data una diversa interpretazione al dettato del secondo comma dell’art. 270 del codice di rito penale. Osserva il Collegio che il ricorso non può trovare accoglimento. Nessuna norma dispone che i verbali di intercettazione telefonica, tanto meno la trascrizione e la traduzione del contenuto dei colloqui registrati, deve essere depositato a disposizione del difensore prima dell’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale. Tale prescrizione non è prevista neppure per il momento immediatamente successivo, in tempi tali cioè da soddisfare le esigenze prospettate dalla difesa, posto che sia i decreti di autorizzazione che i verbali di intercettazione e registrazione vanno depositati a conclusione delle relative operazioni (art. 268, quarto comma 4o, codice di procedura penale). Ne consegue che il pubblico ministero, quando richiede l’applicazione di una misura di cautela personale, non è tenuto ad esibire tale documentazione, ancorché gli elementi indizianti, posti a fondamento della richiesta, emergano dalle intercettazioni (cfr.: Sez. Feriale, C.c. 30 luglio 1992, Agostino ed altri, mass. prov. n. 2194; Sez. VI, C.c. 5 dicembre 1990, Fedeli, in C.E.D. Cass. massima n. 187020). Né la situazione procedimentale subisce modifica in relazione al momento del riesame (sul provvedimento di cautela), posto che, a mente del quarto comma dell’art. 309 del codice di rito, l’‘‘autorità giudiziaria procedente’’ deve trasmettere al


— 568 — tribunale della libertà gli ‘‘atti presentati a norma dell’art. 291 comma 1’’, vale a dire gli atti esibiti dal pubblico ministero al momento della richiesta di applicazione della misura e dal giudice a tal fine valutati. D’altra parte, è stato anche rilevato, come peraltro esattamente richiamato dal Tribunale a quo, che la prescrizione di cui al quarto comma dell’art. 268 del ridetto codice di rito non è sanzionata di nullità né comporta inutilizzabilità, testualmente riferibile solo all’‘‘inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268, commi 1 e 3’ (articolo 271, primo comma; cfr.: Sez. I, C.c. 27 maggio 1991, Di Mauro, in C.E.D. Cass., massima n. 187491; Sez. VI, C.c. 20 marzo 1991, Trovato, in C.E.D. Cass., massima n. 187573). Passando all’esame del secondo profilo del motivo di ricorso, centrato sulla interpretazione del secondo comma dell’articolo 270 del codice di rito penale, nella parte in cui non prevede (esplicitamente), ai fini dell’utilizzazione delle intercettazioni nel procedimento ‘‘diverso’’, l’obbligo del deposito dei decreti di autorizzazione [alle intercettazioni] emessi nel procedimento di origine, e, quindi, al dedotto dubbio di legittimità costituzionale della norma, subordinato all’esito [negativo] dell’indagine ermeneutica, il Collegio rileva la necessità di dare ordine logico alla questione distinguendo, e separatamente discutendo, i più aspetti nei quali essa si scompone. a) È esatta, perché fondata sul dato testuale, l’osservazione che il secondo comma dell’articolo 270 del codice di procedura penale, il quale stabilisce i termini di utilizzabilità, nel procedimento ‘‘diverso’’, delle intercettazioni disposte in altra procedura, non prevede l’obbligo del deposito, nel secondo, dei decreti con i quali, in quello di origine, furono autorizzate le intercettazioni ma, osserva il Collegio, il dato formale appare insufficiente a far ritenere che il legislatore, senza che si possa intravedere una qualche ragione e nonostante la precisa presa di posizione della Corte costituzionale, con la sentenza dallo stesso difensore richiamata (11 giugno 1987, n. 223, sia pure con riferimento all’omologa disposizione del codice di procedura penale abrogato — art. 226-quater —), abbia voluto impedire alla difesa l’esercizio di un significativo controllo su tali provvedimenti, la cui irritualità, illegittimità o inadeguatezza comporterebbe certamente la nullità delle intercettazioni e la inutilizzabilità dei risultati dalle stesse conseguiti. Né potrebbe farsi riferimento alla circostanza che quei decreti debbono essere posti a disposizione delle parti nel procedimento di origine, perché una tale riflessione, da una parte, sarebbe estensibile anche ai verbali di intercettazione e al materiale fonico realizzato (per il quale, invece, è previsto l’obbligo del deposito nel procedimento ‘‘diverso’’), dall’altra, implicherebbe, semplicemente, che l’autorità giudiziaria che procede deve provvedere alla duplicazione, per fotocopiatura e trasposizione, del materiale cartaceo e di quello magnetofonico, onde consentire alle parti l’esercizio delle facoltà connesse all’ufficio di cui ciascuna è investita, secondo i rispettivi ruoli. Deve, pertanto, concludersi che, al di là del dato testuale, unitamente ai verbali di intercettazioni e al materiale magnetofonico, cui fanno riferimento il sesto, il settimo e l’ottavo comma dell’articolo 268, richiamati dal secondo comma dell’articolo 270, del codice di rito penale, nel procedimento ‘‘diverso’’, vanno depositati anche, ovviamente in copia, i decreti di autorizzazione resi dal giudice delle


— 569 — indagini preliminari del procedimento di origine. Ne consegue la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, dedotta peraltro in linea subordinata, visto che cade il presupposto sul quale il dubbio è stato articolato. b) Ma, è così si passa all’esame del secondo aspetto della questione, la difesa non può essere seguita laddove, centrata la portata della disposizione in esame (comma secondo dell’articolo 270 del codice di procedura penale), individua una causa di nullità dell’ordinanza impositiva della cautela (e del provvedimento impugnato, nella parte in cui ha respinto il corrispondente motivo di gravame), nel mancato deposito, prima dell’emissione del provvedimento, ovvero, come con maggior plausibilità potrebbe interpretarsi l’intenzione del deducente, subito dopo, nelle more del giudizio di riesame, dei decreti di autorizzazione alle intercettazioni telefoniche. Qui l’errore nel quale cade il ricorrente appare chiaro, alla luce delle sopra svolte considerazioni, essendo evidente la eadem ratio che presiede alla regolamentazione della fase processuale de qua sia nel procedimento di origine che in quello ‘‘diverso’’. Infatti, è stata dimostrata la insussistenza di ragioni di nullità o di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, in relazione all’emissione di provvedimento di cautela e al conseguenziale procedimento di riesame, per effetto del mancato deposito degli atti de quibus, prima della decisione di riesame, essendo, invece, rituale che a tanto si provveda sino al momento della chiusura delle indagini preliminari. In conclusione, riassumendo complessivamente i termini della questione prospettata dal ricorrente, può affermarsi che nell’ipotesi di utilizzo dei risultati di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche in altro procedimento, nei limiti fissati dal comma primo dell’art. 270 del codice di rito penale, va depositato, in copia, presso l’autorità competente per il ‘‘diverso procedimento’’, anche il decreto (o i decreti) di autorizzazione (alle intercettazioni), emesso dal giudice del procedimento a quo, al fine di consentire ai difensori delle parti interessate nel procedimento ‘‘diverso’’ le verifiche connesse al loro ufficio. Ne consegue la manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità della disposizione di cui al secondo comma del richiamato art. 270, fondato sul presupposto (estraibile dal dato testuale) che tale atto non vada depositato presso l’autorità del procedimento di utilizzo. Il momento ultimo in cui tale deposito deve essere effettuato, unitamente agli altri atti del procedimento, va individuato in quello della richiesta di rinvio a giudizio, ex art. 416 del codice di procedura penale. — (Omissis).

—————— (1-3)

Questioni in tema di deposito delle intercettazioni telefoniche.

1. Dalle risultanze di intercettazioni telefoniche eseguite in altro procedimento erano desunti gli elementi posti a sostegno dell’ordinanza che disponeva la custodia cautelare. La difesa, esperito vanamente il riesame, proponeva ricorso: l’impiego dei risultati di intercettazioni disposte ed eseguite nell’ambito di altro


— 570 — procedimento avrebbe dovuto essere preceduto — a pena di nullità — dal deposito, nel procedimento ad quem, dei verbali e dei decreti di autorizzazione. La Suprema Corte ha rigettato l’impugnazione svolgendo una serie di affermazioni discutibili, sia per l’imprecisione ermeneutica che rivelano, sia per gli angusti confini entro i quali relegano i diritti della difesa. In ordine alla prima massima, nel ragionamento della Cassazione, si avverte un’indubbia sovrapposizione di piani tra la necessaria conoscenza, da parte del giudice adito a seguito della richiesta cautelare, dei risultati delle intercettazioni da cui desumere i gravi indizi di colpevolezza, per un verso, e l’ostensione della relativa documentazione alla difesa, per l’altro. Qui si discorre del ‘‘deposito’’, imposto al pubblico ministero — in funzione difensiva — entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni intercettative (ex art. 268, comma 4o, c.p.p.), ovvero alla chiusura delle indagini preliminari (ex art. 268, comma 5o, c.p.p.) e di cui sono oggetto le registrazioni, i verbali delle operazioni, le trascrizioni sommarie del contenuto delle conversazioni intercettate (c.d. brogliacci d’ascolto), nonché, infine, i decreti autorizzativi. L’adempimento è ben distinto — per finalità e contenuto — dalla ‘‘presentazione’’, al giudice per le indagini preliminari, delle risultanze delle intercettazioni dalle quali si ricavino gli elementi indizianti in sede cautelare. Le intercettazioni telefoniche, come tipico mezzo di ricerca della prova (1), trovano la loro sede naturale nella fase delle indagini preliminari. Così, la salvaguardia dei diritti della difesa inizia ancora nel corso di tale fase (2), con il deposito degli atti relativi alle operazioni intercettative entro cinque giorni dalla loro conclusione. La discovery prescinde da ogni eventuale impiego endoprocessuale dei risultati delle intercettazioni: pone le premesse affinché le successive fasi della procedura di acquisizione delle conversazioni captate si svolgano nella pienezza del contraddittorio (3). La ‘‘presentazione’’, al giudice per le indagini preliminari, degli ‘‘elementi’’ (4) dai quali desumere, tra l’altro, il fumus commissi delicti discende, invece,

(1) Cfr. Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, in G.U., n. 250, Supplemento ordinario n. 2 del 24 ottobre 1988, 59. (2) Ciò non accade, invece, in due ipotesi: qualora dal deposito ‘‘ordinario’’ ex art. 268, comma 4o, c.p.p. possa derivare un grave pregiudizio per le indagini ed il giudice autorizzi, perciò, il pubblico ministero a ritardarlo, ex art. 268, comma 5o, c.p.p., fino alla loro chiusura, ovvero laddove la conclusione delle operazioni intercettative sia seguita immediatamente dalla richiesta di rinvio a giudizio, sì da far coincidere il deposito ‘‘ordinario’’ con la discovery ex art. 416, comma 2o, c.p.p. A ben vedere, entrambi i casi non rivestono, nella prassi, carattere eccezionale. (3) Del deposito è dato immediato avviso ai difensori, i quali possono esaminare gli atti ed ascoltare le registrazioni entro un termine prefissato. Scaduto il termine, può avere inizio il procedimento d’acquisizione dei dati probatori captati, mediante l’attività di stralcio (anche d’ufficio) delle registrazioni inutilizzabili (ex art. 271 c.p.p.) o manifestamente irrilevanti, di acquisizione (su richiesta delle parti) di quelle legittime e rilevanti, nonché, infine, di trascrizione delle registrazioni così acquisite (con le forme e le garanzie previste per l’espletamento delle perizie). Sulla distinzione tra procedimento di formazione (mediante l’esecuzione delle operazioni d’intercettazione) e procedimento d’acquisizione della prova, v. in dottrina, con riguardo al codice previgente, G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 95-134 e 158-163, nonché, con riguardo al codice vigente, A. CAMON, Nullità probatorie, omesso deposito di atti d’indagine e principio di non regressione: un caso emblematico in tema di intercettazioni telefoniche, in Cass. pen., 1994, 764 e ss.; G. FUMU, sub art. 268, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, vol. II, 1990, 793-795; A.V. SEGHETTI, Sui limiti di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per l’adozione di provvedimenti coercitivi, in Giur. it., 1992, II, 432; C. TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, vol. I, 1991, 314-315 e 324-325. (4) Qui si accoglie la distinzione — delineata da G. ICHINO, Il giudice del dibattimento, le parti e la formazione della prova nel nuovo processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 699, nt. 37; da E.


— 571 — dall’esigenza di attuare, anche in tema di misure cautelari, il principio della separazione fra l’attività, di parte, del pubblico ministero e quella, giurisdizionale, propria del giudice (5). Il pubblico ministero — in quanto ‘‘soggetto necessariamente ‘richiedente’ senza legittimazione a disporre’’ — ha l’onere di dedurre, a sostegno dell’istanza cautelare, gli ‘‘elementi’’ probatori idonei a convincere il giudice — quale ‘‘soggetto decidente, ma non ex officio’’ — della sua fondatezza (6). Anche quando gli elementi posti a fondamento della richiesta cautelare si desumano da intercettazioni, deposito e presentazione costituiranno adempimenti tra loro distinti, caratterizzati da sfere autonome di disciplina (7). Una diversa scelta rivelava l’art. 268, comma 5o, seconda parte, prog. prel.

FASSONE, L’utilizzazione degli atti, la valutazione della prova, in Quaderni del CSM, Incontri di studio sul nuovo codice di procedura penale, Riflessioni e contributi, vol. I, 1989, 537-540, nonché, ancor prima, da G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, 102 e ss. — tra fonte di prova, elemento di prova, mezzo di prova e risultato di prova. Con l’espressione ‘‘elemento di prova’’, dunque, si vuole individuare — all’interno della sequenza probatoria — il dato conoscitivo utilizzabile a fini decisori, offerto dalla fonte di prova ed introdotto nel processo mediante il mezzo di prova. G. UBERTIS, Ricostruzione del sistema, giusto processo, elementi di prova, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 313-315, esclude che agli ‘‘elementi di prova’’ si possa attribuire ‘‘una determinata e sempre uguale potenzialità persuasiva’’; in proposito distingue gli ‘‘elementi’’ ai quali fa riferimento l’art. 421, comma 2o, c.p.p. (scaturenti dalle attività di indagine ed utilizzabili per la pronuncia che chiude l’udienza preliminare ovvero per soluzioni a modulo negoziale) da quelli di cui agli artt. 192, comma 3o e 500, comma 4o, c.p.p. (conseguiti conformemente alle regole che disciplinano l’istruzione dibattimentale ed ivi utilizzabili a fini decisori). V., in senso difforme, D. SIRACUSANO, Prova: III) nel nuovo codice di procedura penale, in Enc. giur., vol. XXV, Roma, 1991, 5 e 13. V., altresì, L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 122-128, il quale nota come gli ‘‘elementi’’ siano, talvolta, indicati mediante il ricorso alla variante ‘‘risultati’’ (riferendosi, per l’appunto, anche agli artt. 270, comma 1o e 271, comma 1o, c.p.p.). Gli ‘‘elementi’’ ai quali si riferisce l’art. 291, comma 1o, c.p.p. individuano i dati conoscitivi utilizzabili da parte dell’organo giurisdizionale per le decisioni in tema di misure cautelari. Si tratta dei ‘‘gravi elementi di prova a carico’’ (diretti o indiretti) emergenti dagli atti di indagine ed idonei a dar corpo al fumus commissi delicti richiesto, ex art. 273, comma 1o, c.p.p., per l’adozione delle cautele (cfr. M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘garante’ del giudice per le indagini preliminari, Padova, 1993, 141-143), ovvero degli ‘‘elementi di fatto’’ in forza della cui rilevanza si motiva, ex art. 292, comma 2o, lett. c), c.p.p., circa la sussistenza del fumus suddetto (previa indicazione del tipo, della fonte e del contenuto dell’elemento probatorio impiegato a fini cautelari: cfr. G. CIANI, sub art. 292, in Commento, cit., vol. III, 1990, 168). È di tutta evidenza — qualora ci si muova nel contesto delle indagini preliminari — una tendenziale coincidenza degli ‘‘elementi’’ ex art. 291, comma 1o, c.p.p. con gli ‘‘elementi di prova’’ di cui agli artt. 65, comma 1o e 421, comma 2o, c.p.p. (5) Cfr. G. CIANI, sub art. 291, in Commento, cit., 159, nonché, in generale, E. AMODIO, Introduzione, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio e O. Dominioni, Milano, vol. I, 1989, XXXIII-XXXV. (6) Relazione al progetto prel., cit., 74. Dinnanzi ad una richiesta cautelare ‘‘puntuale, precisa e dettagliata’’ sarà il giudice adito a verificare con ‘‘obiettività ed imparzialità’’ la sussistenza dei presupposti necessari per l’adozione della misura richiesta e, quindi, a disporla: G. CIANI, sub art. 291, cit., 159-161. Cfr., tra gli altri GIUS. AMATO, sub art. 291, in Commentario, cit., vol. III-2, 1990, 113-114; F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato da Franco Corderoq, 2a ed., Torino, 1992, 339, nonché F. CORDERO, Procedura penale, 2a ed., Milano, 1993, 477. Viene qui in gioco il giudice per le indagini preliminari nella sua funzione tipica di ‘‘organo di garanzia e di controllo nella fase investigativa’’: cfr., per tutti, V. GREVI, La garanzia dell’intervento giurisdizionale nel corso delle indagini preliminari, in Giust. pen., 1988, I, 359. V., altresì, M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘garante’, cit., 122-134, la quale, pur riconoscendo il valore della ‘‘distinzione tra chi richiede e chi esamina la richiesta’’, sottolinea la carenza di contraddittorio in sede cautelare e la sua incidenza sull’effettività dell’intervento giurisdizionale (non caratterizzato da una posizione di terzietà del giudice). (7) In questo senso va letta Cass., Sez. VI, 5 dicembre 1990, Fedeli, in Giur. it., 1992, II, 39 (con nota di R. LOFFREDO, Sul ritardato deposito dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni telefoniche, nonché ivi, 1992, II, 308, con nota critica di R. LOPEZ, Intercettazioni telefoniche, custodia cautelare e parità delle armi). Secondo la rammentata decisione, con l’art. 268, comma 5o, c.p.p. il legislatore ha inteso rinviare


— 572 — c.p.p. Contemplando il caso in cui le intercettazioni fossero utilizzate a fini endoprocessuali (8), vi si imponeva il deposito della relativa documentazione — anche se ne fosse stato in precedenza autorizzato il ritardo fino alla chiusura delle indagini preliminari — entro cinque giorni dal compimento dell’atto che avesse tenuto conto dei dati captati (9). In tal modo si creava un’area di interferenza tra la disciplina delle intercettazioni e quella delle misure cautelari, poiché l’utilizzazione delle prime per l’adozione delle seconde comportava una immediata e totale discovery circa le risultanze del mezzo di ricerca della prova in discorso. Caduta una siffatta previsione, l’impiego, a fini cautelari, degli elementi tratti dalle intercettazioni non vale ad intaccare la linea di separazione tra i due ambiti: la presentazione di una parte dei risultati delle intercettazioni non implica una anticipata discovery, in favore dei difensori, di tutto il materiale probatorio captato (10). Per converso, il fatto che le risultanze delle intercettazioni non siano —

soltanto il momento in cui l’indagato potrà verificare la regolarità formale delle intercettazioni telefoniche e prendere conoscenza del contenuto sostanziale delle conversazioni captate, senza incidere, però, sulle esigenze investigative e cautelari, impedendo l’adozione dei relativi provvedimenti: dall’esigenza di motivare un’eventuale ordinanza de libertate (che impone al giudice soltanto di evidenziare gli elementi di natura probatoria posti a base della misura) non scaturirebbe il diritto della difesa di conoscere tutto il materiale raccolto in sede di intercettazioni, ovvero le modalità di autorizzazione e di esecuzione delle stesse. La disciplina delle intercettazioni non interferisce sul procedimento cautelare: anche laddove si proceda secondo il regime del deposito ‘‘ritardato’’ ex art. 268, comma 5o, c.p.p., non si potrà evitare di rendere conoscibili gli specifici elementi indizianti posti a base della richiesta cautelare e della successiva ordinanza restrittiva; né, per converso, l’avere utilizzato una parte delle intercettazioni a fini cautelari comporterà la conoscibilità di tutti i dati captati. (8) V. Relazione al progetto prel., cit., 70. (9) La figura del c.d. deposito ‘‘anticipato’’ non ha trovato conferma nel testo definitivo del codice; ci si è adeguati ‘‘ai rilievi della Commissione parlamentare relativi ai pericoli per le indagini derivanti da un troppo precipitoso deposito dei verbali e delle registrazioni’’: cfr. Relazione al testo def., cit., 183, nonché G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, Il progetto preliminare del 1987, Padova, 1990, 677, ove si riporta, altresì, l’incisivo rilievo critico della Commissione sui maxiprocessi. Si noti come per F. CORDERO, Procedura, 2a ed., cit., 722, nt. 9, il deposito ‘‘anticipato’’ fosse espressione di ‘‘garantismo outré e vessatorio, rispetto all’indagante’’. Rievocando la figura del deposito ‘‘anticipato’’, il G.I.P. Trib. Paola, 28 novembre 1990, Marafioti ! 9, in Giust. pen., 1992, III, 48, sollevava questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 268, comma 5o, c.p.p., per contrasto con l’art. 24, comma 2o, Cost. La Corte Costituzionale, tuttavia, con la sentenza n. 474 del 19 dicembre 1991 dichiarava manifestamente inammissibile la questione de qua. La Cassazione, con sentenza Sez. I, 2 dicembre 1992, Liggieri, in Arch. n. proc. pen., 1993, 333, dichiarava la medesima questione manifestamente infondata. (10) Di contrario avviso A. GAITO, Limiti all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche nelle decisioni sulla libertà personale, in Giur. it., 1992, II, 516, nonché A.V. SEGHETTI, Sui limiti, cit., 433, secondo i quali, gli artt. 268, comma 4o e 291, comma 1o, c.p.p., integrandosi reciprocamente — stante la necessità di interpretare il disposto dell’art. 291 c.p.p. in specifico riferimento, ratione materiae, alla normativa speciale disciplinante le intercettazioni telefoniche — non lascerebbero ‘‘al p.m. alcuna discrezionalità nella predisposizione della piattaforma ‘probatoria’ da sottoporre al g.i.p. ai fini dell’ottenimento della misura’’ cautelare: l’uso delle intercettazioni comporterebbe l’integrale deposito di tutta la documentazione ad esse relativa. In senso difforme si esprimono, invece, A. DIDDI, Regime ed utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ordinanza di custodia cautelare nelle indagini preliminari, in Giust. pen., 1992, III, 60-61, nonché U. FERRANTE, Utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche nelle varie fasi del procedimento, in Giur. merito, 1993, II, 800. L’impostazione sopra delineata non pare condivisibile. A ben vedere, fatte salve le ipotesi in cui si dia luogo al deposito ‘‘ritardato’’ ex art. 268, comma 5o, o in cui si faccia uso, a fini cautelari, di intercettazioni ancora in corso — casi in cui non si potrebbe mai avere un deposito integrale, nonostante l’impiego dei risultati delle intercettazioni ai noti fini — la discovery imposta dal comma 4o dell’art. 268 — entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni — avrà da effettuarsi indipendentemente dall’utiliz-


— 573 — nel momento in cui vengono utilizzate a fini cautelari — ancora conoscibili dai difensori, non comporta la loro sottrazione alla conoscenza del titolare del potere cautelare (11). 2. La Cassazione esonera il pubblico ministero dall’‘‘esibire’’ la documentazione relativa alle intercettazioni, ancorché gli elementi indizianti emergano dalle comunicazioni captate. L’art. 291, comma 1o, c.p.p. — con terminologia più vaga — si limita, però, ad imporre all’organo richiedente di ‘‘presentare’’ gli ‘‘elementi’’ indizianti suddetti. Qui l’alternativa è netta: la ‘‘presentazione’’ ex art. 291, comma 1o, c.p.p. equivale all’‘‘indicazione’’ — nel contesto della richiesta cautelare — della fonte e del contenuto di un dato elemento indiziante, ovvero implica la necessaria ‘‘allegazione’’, alla richiesta, degli atti dai quali si desume il dato indiziante. Nella specie, la Corte opta per il primo significato, ma non è dato capire se l’affermazione valga solo nel caso in cui gli elementi indizianti si desumano da intercettazioni o assuma portata generale. Fra gli oneri imposti dall’art. 291 c.p.p. al pubblico ministero vi sarebbe l’indicazione analitica degli elementi probatori su cui si fonda la richiesta cautelare, ma non l’allegazione della relativa documentazione (12). Si fa osservare, seppure in chiave critica, che, in effetti, la lettera della norma nulla dispone sulla possibilità o la necessità che la richiesta del pubblico ministero sia accompagnata da un qualche supporto documentale (13). Numerose considerazioni, tuttavia, spingono in senso contrario. Si noti, anzitutto, come l’art. 292, comma 2o, lett. c), c.p.p. richieda, per la motivazione dei provvedimenti de libertate, una ‘‘maggiore analiticità’’ rispetto all’art. 264 del codice previgente. L’esposizione dei motivi concernenti il presupposto probatorio è tenuta distinta da quella circa le esigenze cautelari e si prescrive ‘‘per entrambe la specificità e per la prima anche l’argomentazione delle ragioni di idoneità e di sufficienza [rectius: gravità] del fattore indiziante considerato’’ (14). L’esercizio di una funzione di controllo tanto penetrante non potrebbe realizzarsi

zazione delle conversazioni captate e, quindi, dal disposto dell’art. 291, comma 1o. Per converso, quest’ultima regola, stabilendo un particolare regime — eccezionale — di ostensione degli elementi di prova utilizzati a fini cautelari, siano essi segreti (ex art. 329) oppure conoscibili (ad esempio, ex artt. 364 e 365), comporta la discovery delle (sole) intercettazioni utilizzate ai detti fini anche nei casi — sopra visti — in cui non operi il deposito ‘‘ordinario’’ ex art. 268, comma 4o. (11) La presentazione ex art. 291, comma 1o, c.p.p. è indirizzata alla volta del solo giudice; la difesa ha, degli ‘‘elementi’’ così presentati, una conoscenza solo indiretta, mediante la motivazione del provvedimento de libertate che li menzioni (art. 292, comma 2o, lett. c), c.p.p.). (12) Cfr., Cass., Sez. VI, 14 gennaio 1991, Conciatori, in Giust. pen., 1991, III, 315, nonché in Cass. pen., 1991, 302, 857: più esattamente, secondo la Corte, il pubblico ministero non avrebbe l’onere — ex art. 291 — di allegare i provvedimenti riguardanti il mezzo di ricerca della prova; legittimo, perciò, chiedersi se la Corte abbia inteso escludere l’onere di allegazione in ordine a tutti gli atti relativi alle intercettazioni, ovvero solo con riguardo ai provvedimenti autorizzativi. (13) Cfr. G. CIANI, sub art. 291, cit., 161-162. (14) Cfr. Relazione al progetto prel., cit., 75. V., altresì, GIUS. AMATO, sub art. 292, in Commentario, cit., 124-126, nonché G. CIANI, sub art. 292, cit., 168, secondo i quali nella motivazione ex art. 292 c.p.p. debbono indicarsi — in modo articolato — il tipo, la fonte ed il contenuto dell’elemento probatorio utilizzato a fini cautelari. Secondo la giurisprudenza, al contrario, laddove siano indicati il tipo di prova ed il suo contenuto, non sarebbe necessario indicarne la fonte: cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 23 novembre 1992, Carfora, in Arch. n. proc. pen., 1993, 326; Cass., Sez. I, 17 febbraio 1992, Carbonaro, ivi, 1992, 609; Cass., Sez. I, 27 marzo 1991, Matina, in Cass. pen., 1992, 71, 94. A ben vedere, l’art. 292 c.p.p., a differenza dell’art. 264 c.p.p. abr., non prevede un obbligo di motivazione ‘‘compatibile con il segreto istruttorio’’ (v., su tale norma, G. GIOSTRA, Sui rapporti tra motivazione del mandato di cattura e segreto istruttorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 878).


— 574 — se il giudice dovesse basare le proprie valutazioni solo sulla mera richiesta del pubblico ministero, senza verificare l’esistenza di un principio di prova di ciò che in essa si espone (15). Il vaglio giurisdizionale degli elementi indizianti non può che investire, da un lato, la loro rilevanza ed effettiva desumibilità dagli atti, dall’altro, la conformità di questi ultimi alle regole d’acquisizione fissate per gli atti investigativi. Il giudice per le indagini preliminari, inoltre, emette l’ordinanza cautelare inaudita altera parte, senza che si instauri alcuna forma di contraddittorio (16). In un procedimento così strutturato, affermare che la richiesta cautelare non debba essere documentata mediante l’invio degli atti ai quali faccia riferimento, significa, in definitiva, appiattire il giudice sulle posizioni del dominus della fase: l’organo d’accusa (17). Operando in tali condizioni, il giudice non sarà mai in grado di porre a fondamento dell’ordinanza de libertate una motivazione che non sia meramente riproduttiva delle ragioni poste a sostegno della richiesta cautelare. La circostanza per cui il giudice provvede inaudita altera parte, comporta che la decisione non possa dar conto delle ragioni di una scelta tra richieste contrapposte, ma non che egli debba limitarsi a recepire il tenore dell’unica richiesta considerata, senza dar conto delle ragioni dell’attendibilità della medesima. Alla luce di queste considerazioni, si può qui prescindere tanto da quella giurisprudenza che si preoccupa della necessità che gli ‘‘elementi’’ dedotti a fondamento della richiesta cautelare risultino da atti di indagine ‘‘debitamente documentati’’ (18), quanto da quell’indirizzo dottrinale secondo cui ‘‘l’attore pubblico’’, nel richiedere una misura cautelare, deve esibire i materiali raccolti o, almeno, ciò che ritiene opportuno svelare (19). Al di là del contrasto con puntuali precedenti giurisprudenziali o con autorevoli letture, infatti, l’interpretazione fatta propria dalla Corte alimenta il pericolo che la sottrazione del potere cautelare all’organo d’accusa e la sua attribuzione esclusiva all’organo giurisdizionale costitui-

(15) V., in tal senso, G. CIANI, sub art. 291, cit., 161-162. (16) M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‘garante’, cit., 130, sottolinea ‘‘il pericolo di vanificazione della garanzia di legalità in un sistema che impone al giudice di decidere inaudita altera parte e consente a chi ne sollecita la decisione di orientarla nel senso auspicato’’; gioca a favore dell’organo d’accusa anche ‘‘l’onere di rappresentare solo gli elementi sui quali basa la richiesta e non tutti gli esiti degli accertamenti svolti’’. (17) È stata manifestata a più riprese — v., tra gli altri, M. CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, 124 — la preoccupazione che il pubblico ministero, pur dovendo effettuare ‘‘accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini’’ (art. 358 c.p.p.), in sede di richiesta cautelare ex art. 291 c.p.p., selezioni e presenti solo il materiale raccolto a sostegno dell’accusa. Si noti che l’art. 3 del decreto-legge n. 440 del 1994 (G.U. n. 163 del 14 luglio 1994), poscia decaduto, imponeva al pubblico ministero la ‘‘presentazione’’, non solo degli atti d’indagine posti a fondamento della richiesta cautelare, ma anche di eventuali memorie difensive. (18) Cfr. Cass., Sez. II, 20 febbraio 1991, Ascione, in Cass. pen., 1992, 75, 96, nonché, tra le altre, Cass., Sez. VI, 19 dicembre 1990, De Rosa, ivi, 1992, 215, 82; Cass., Sez. II, 21 novembre 1990, Esposito, in Giur. it., 1991, II, 496; Cass., Sez. VI, 22 maggio 1990, X ed altro, ivi, 1991, II, 418. A ben vedere, si collocano in tale orientamento anche Cass., Sez. VI, 5 dicembre 1990, Fedeli, cit. (laddove si richiede che le registrazioni da utilizzare a fini cautelari siano evidenziate e trascritte al fine di consentirne il diretto apprezzamento da parte del giudice), nonché Cass, Sez. VI, 20 agosto 1992, Agostino, in Arch. n. proc. pen., 1993, 333 (laddove si afferma che a sostegno di una richiesta cautelare, il pubblico ministero può presentare al giudice anche le trascrizioni sommarie — ex art. 268, comma 2o, c.p.p. — del contenuto delle intercettazioni). (19) Cfr., F. CORDERO, Codice, cit., 339, nonché F. CORDERO, Procedura, 2a ed., cit., 477. V., altresì, GIUS. AMATO, sub art. 291, cit., 129, nonché G. CIANI, sub art. 291, cit., 162.


— 575 — scano mere affermazioni di facciata: il pubblico ministero, già dominus della fase investigativa, allo stesso modo si rivela — in concreto — dominus della vicenda cautelare. 3. Secondo la Corte, poi, il pubblico ministero, non essendo ‘‘tenuto ad esibire’’ al giudice per le indagini preliminari la documentazione relativa alle intercettazioni, non sarebbe neppure obbligato a trasmetterla, in seguito, al giudice del riesame. In forza dell’art. 309, comma 5o, c.p.p., l’autorità giudiziaria procedente dovrebbe limitarsi a trasmettere al tribunale della libertà solo gli atti ‘‘già esibiti’’ al momento della richiesta cautelare. La semplice lettura del combinato disposto degli artt. 291, comma 1o e 309, comma 5o, c.p.p. dimostra la debolezza dell’assunto. Sia che la ‘‘presentazione’’ menzionata dall’art. 291, comma 1o, c.p.p. debba intendersi come ‘‘allegazione’’ dei verbali di trascrizione sommaria del contenuto delle intercettazioni (ex art. 268, comma 2o, c.p.p.), sia che essa debba leggersi come ‘‘indicazione’’, nella richiesta, di tali ‘‘elementi di prova’’, ciò che deve trasmettersi al giudice del riesame non cambia. La ‘‘trasmissione’’ ha per oggetto ‘‘atti’’ e quel che viene ‘‘presentato’’ al giudice per le indagini preliminari ex art. 291, comma 1o, c.p.p. viene ‘‘trasmesso’’ al tribunale del riesame ex art. 309, comma 5o, c.p.p., a prescindere dal fatto che sia stato, in precedenza, ‘‘allegato’’ (20) oppure soltanto ‘‘indicato’’ (21). Mercé il riferimento operato dall’art. 309, comma 5o, c.p.p. agli ‘‘atti presentati a norma dell’art. 291 comma 1’’ si risolvono pure le incertezze circa l’onere imposto al pubblico ministero che intenda ottenere l’applicazione di cautele: trattandosi di ‘‘atti’’, la ‘‘presentazione’’ non potrà che risolversi in una ‘‘allegazione’’ (22). In verità, la giurisprudenza non ha mai messo in dubbio che il combinato disposto degli artt. 291, comma 1o, 309, comma 5o, c.p.p. e 100 disp. att. c.p.p., imponga la trasmissione, alla volta del giudice investito del riesame, di tutti gli atti già posti a corredo della richiesta cautelare (23). D’altro canto, l’interpretazione letterale è confermata dalla ratio legis: il duplice scopo perseguito dal dettato dell’art. 309, comma 5o, c.p.p. In primo luogo, in combinato disposto con il successivo comma 8o, la norma de qua pone le premesse per la pienezza del contraddittorio camerale con la difesa del soggetto ristretto, garantendogli la conoscibilità degli ‘‘elementi’’ indizianti utilizzati a fini cautelari tramite il deposito in cancelleria degli atti che li illustrano (24). In secondo luogo, la prescrizione vuole consentire un effettivo esercizio dei poteri di controllo, di legittimità e di merito, attri-

(20) Si tratterà, dunque, degli stessi verbali. (21) Si dovrà avere riguardo agli atti di indagine dai quali si desumano gli ‘‘elementi’’ di prova evidenziati nelle richiesta cautelare. (22) V., in tal senso, G. CIANI, sub art. 291, 162. (23) Dagli artt. 291, comma 1o e 309, comma 5o, c.p.p. e 100 disp. att. c.p.p., si ricava che al giudice del riesame debbono essere trasmessi tutti gli atti presentati — ex art. 291 c.p.p. — a sostegno della richiesta cautelare, in quanto ‘‘necessari per decidere sull’impugnazione’’: cfr., Cass., Sez. fer., 21 luglio 1992, Cirillo, in Giust. pen., 1992, III, 203, 587; Cass., Sez. II, 11 maggio 1992, Rolletto, in Arch. n. proc. pen., 1992, 790; Cass., Sez. fer, 29 settembre 1991, De Cambio, in Giust. pen., 1992, III, 64, 247; Cass., Sez. fer., 20 agosto 1991, Mercurio, in Cass. pen., 1992, 1648, 3098; Cass., Sez. I, 26 novembre 1990, Platania, ivi, 1647, 3093. (24) Sotto questo profilo, l’inosservanza dell’obbligo di trasmissione e, conseguentemente, di deposito, venendo a ledere il diritto di difesa del soggetto ristretto, integra una causa di nullità a regime intermedio: v., in tal senso, Cass., Sez. fer., 21 luglio 1992, Cirillo, cit.; v., in dottrina, M.G. COPPETTA, Mancata trasmissione al giudice del riesame degli atti a base del provvedimento restrittivo: un’ipotesi di


— 576 — buiti al giudice del riesame, non potendo questi prescindere da una piena ed autonoma conoscenza degli ‘‘atti’’ rilevanti ai fini della decisione (25). Il riferimento al solo materiale probatorio di cui all’art. 291, comma 1o, c.p.p., ancorché oggetto di critiche (26), appare, a tal punto, ben comprensibile. Nel caso in cui la trasmissione avesse riguardato tutti gli atti del procedimento in corso, infatti, il successivo deposito di ogni atto trasmesso avrebbe comportato una sorta di anticipata ed integrale discovery non giustificata nell’economia della procedura in discorso (27). Affermare, però, che il pubblico ministero possa non trasmettere alcun atto al tribunale della libertà disattende le linee portanti del nuovo procedimento di riesame, arretrando le garanzie rispetto allo schema, ancora inquisitorio, che modellava il corrispondente istituto al tempo del codice abrogato (28).

annullamento senza rinvio?, in Cass. pen., 1992, 3094-3095, nonché GIUS. AMATO, sub art. 309, in Commentario, cit., 199. L’art. 7, comma 1o, del decreto-legge n. 440 del 1994, sostituiva l’ultimo periodo del comma 8o dell’art. 309 c.p.p. con il seguente disposto: ‘‘fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria, con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia’’. (25) Il tribunale del riesame può decidere senza particolari vincoli sul piano della cognizione, annullando l’ordinanza de libertate anche per motivi diversi da quelli enunciati nella richiesta di riesame, o successivamente ad essa, oppure confermandola anche sulla base di ragioni diverse da quelle già indicate nella sua motivazione: cfr. Relazione al progetto prel., cit., 78; cfr., inoltre, GIUS. AMATO, sub art. 309, cit., 200-203, nonché A. GIANNONE, sub art. 309, in Commento, cit., vol. III, 1990, 270-274. Per Cass., Sez. II, 3 febbraio 1992, Rolletto, cit., il tribunale del riesame può sollecitare la trasmissione degli atti, proprio al fine di rendere effettivo il controllo di legittimità e di merito sul provvedimento oggetto di gravame. V., inoltre: Cass., Sez. VI, 9 novembre 1992, Maviglia, in Arch. n. proc. pen., 1993, 326; Cass., Sez. fer., 21 luglio 1992, Cirillo, cit.; Cass., Sez. fer., 20 agosto 1991, Mercurio, cit., nonché Cass., Sez. I, 26 novembre 1990, Platania, cit. Per M.G. COPPETTA, Mancata trasmissione, cit., 3095, pur non essendo ‘‘facile comprendere come si possa esercitare un controllo di legittimità e di merito, o più semplicemente instaurare un’udienza ‘al buio’, senza cioè la conoscenza da parte del giudice degli elementi a fondamento dell’ordinanza impugnata’’, l’inosservanza della norma in discorso non parrebbe produrre, da quest’angolo visuale, alcun vizio ulteriore rispetto a quello scaturente dall’ipotesi di nullità che consegue alla violazione del diritto di difesa (v. sopra, alla nota 24). (26) G. ASCIONE - D. DE BIASE, La libertà personale nel nuovo processo penale, Milano, 1990, 326, secondo i quali, la trasmissione, ex art. 309, comma 5o, c.p.p., dei soli atti già presentati ex art. 291, comma 1o, c.p.p. rappresenterebbe ‘‘una residua e non più accettabile connotazione del modello inquisitorio’’. (27) V. Relazione al testo def., cit., 185, laddove vengono illustrate le ragioni della mancata trasposizione nel testo definitivo del codice del disposto dell’art. 309, comma 4o del progetto preliminare (in base al quale l’autorità giudiziaria procedente avrebbe dovuto trasmettere al tribunale del riesame ‘‘gli atti del procedimento’’). Si è fatto affidamento ‘‘su un’applicazione (moderata ma coerente) della logica del ‘processo delle parti’’’; ‘‘si è voluto che la difesa ed il giudice del riesame fossero, quanto a conoscenza dei dati probatori, nella stessa condizione’’, senza, tuttavia, fornire all’indagato uno strumento per ottenere trasversalmente un’anticipata e totale caduta del segreto, anche con riguardo a dati che fosse opportuno conservare ‘‘al coperto’’: cfr. M. CHIAVARIO, Libertà personale - dir. proc. pen., in Enc. giur., cit., vol. XIX, 1990, 17. Si vedano, altresì: M. CERESA GASTALDO, Il riesame, cit., 122-125; A. GIANNONE, sub art. 309, cit., 269-270, nonché P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, Il nuovo codice di procedura penale illustrato per articoli, Piacenza, 1989, 568. (28) La nuova disciplina del procedimento di riesame è diretta a soppiantare una procedura modellata ‘‘secondo uno schema essenzialmente inquisitorio’’ (quella introdotta con la l. 12 agosto 1982, n. 532) tramite un meccanismo a schema accusatorio (v., in tal senso, A. GIANNONE, sub art. 309, cit., 267268). I due capisaldi della precedente impostazione dovevano individuarsi (v., tra gli altri, M. GARAVELLI, Riesame dei provvedimenti, in Enc. dir., Milano, vol. XL, 1989, 780) nell’intangibilità del segreto istruttorio (cioè nella contrapposizione tra la piena conoscibilità, da parte del giudice del riesame, di tutto il materiale istruttorio raccolto dall’inquirente e la conservazione del segreto, circa tali risultanze probatorie,


— 577 — 4. Resta da chiedersi se il pubblico ministero debba allegare alla richiesta cautelare — prima — e trasmettere al tribunale del riesame — poi — anche i decreti di autorizzazione o di convalida, nonché di proroga, delle intercettazioni. La giurisprudenza sembra orientata in senso negativo (29). La soluzione, tuttavia, si fonda soltanto sull’erroneo assunto che il controllo sui decreti comprobanti il rispetto delle regole poste dagli artt. 266-271 c.p.p. sia imprescindibile per la valutazione dei risultati delle intercettazioni come prova ai fini della decisione sulla responsabilità dell’imputato, e non per il loro impiego a fini cautelari nella fase delle indagini preliminari (30). Dinnanzi alla operatività della disciplina dei mezzi di ricerca della prova già nella fase delle indagini preliminari (31) e dinnanzi alla spe-

nei confronti della difesa) e nella mancanza di contraddittorio (ovvero nell’esclusione di ogni intervento partecipativo della difesa in camera di consiglio). La previsione — ex art. 25 della l. 5 agosto 1988, n. 330 — della facoltà del difensore di intervenire in camera di consiglio non era ancora sufficiente a realizzare una compiuta riforma del procedimento di riesame; per gli atti posti a sostegno della decisione impugnata continuava ad operare la copertura del segreto istruttorio, mancando così ‘‘la base essenziale per un autentico contraddittorio, vale a dire la conoscenza comune della materia in discussione’’ (G. ILLUMINATI, Ulteriori aggiustamenti nella disciplina delle impugnazioni in tema di libertà personale, in AA.VV., La libertà personale dell’imputato verso il nuovo processo penale, a cura di V. Grevi, Padova, 1989, 240). Dinnanzi al potere, oggi riconosciuto alla difesa, di prendere conoscenza degli elementi probatori rilevanti a fini cautelari nello stesso modo in cui li conosce il tribunale, la limitazione della facoltà di accesso agli atti della prima passa attraverso l’esclusione della trasmissione di questi al secondo. (29) Cfr., Cass., Sez. I, 2 dicembre 1992, Perre, in Arch. n. proc. pen., 1993, 475; Cass., Sez. VI, 28 agosto 1992, Ferlin, in Cass. pen., 1993, 2896; Cass., Sez. VI, 20 agosto 1992, Agostino, in Arch. n. proc. pen., 1993, 325; Cass., Sez. VI, 14 gennaio 1991, Conciatori, cit., nonché, prima, Cass., Sez. VI, 5 dicembre 1990, Fedeli, cit. (30) In tal senso, Trib. Milano, 28 dicembre 1991, Rebuscini, in Giur. merito, 1993, 795. (31) La disciplina generale della prova regola, ‘‘almeno tendenzialmente’’, anche l’attività della fase investigativa: v. Relazione al testo def., cit., 181. V., altresì, L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento, cit., 144; F.M. GRIFANTINI, Inutilizzabilità, in Digesto (disc. pen.), Torino, vol. VII, 1993, 247; M. NOBILI, ‘‘Diritto delle prove’’ ed un rinnovato concetto di prova, in Commento, cit., vol. II, 1990, 387-388; G.P. VOENA, Attività investigativa ed indagini preliminari, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, a cura di Gaito, Padova, 1988, 45-47. Invero, sulla scorta della Relazione al progetto prel., cit., 5960, s’impone una distinzione tra i mezzi di ricerca della prova — nel servirsi dei quali il pubblico ministero procedente deve senz’altro applicare le norme che li disciplinano (indirizzandosi le stesse all’autorità giudiziaria) — ed i mezzi di prova — per i quali, viceversa, occorrerebbe accertare di volta in volta, in via interpretativa, l’operatività delle norme che li regolano in relazione agli autonomi atti omologhi di indagine del pubblico ministero (ritenendosene, peraltro, esclusa, in linea di massima, l’applicabilità): cfr. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Milano, 1992, 191 e ss.; ID., Inosservanza di limiti probatori e conseguenze sanzionatorie, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, 179; V. GREVI, Prove, in G. CONSO - V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Padova, 1993, 195-197; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, 3a ed., Milano, 1992, 164-166; D. SIRACUSANO, Le prove, in D. SIRACUSANO, A.A. DALIA, A. GALATI, G. TRANCHINA, E. ZAPPALÀ, Manuale di diritto processuale penale, Milano, vol. I, 1990, 404. Le intercettazioni, dunque, quale mezzo di ricerca della prova, sono sottoposte alla disciplina del libro III, titolo III del codice, a prescindere dalla fase del procedimento nella quale vengano eseguite ed utilizzate. Pare si debba tenere in debito conto la notazione di A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 212-213, secondo il quale non è possibile, ‘‘da un punto di vista logico ancor prima che giuridico, qualificare come inutilizzabili le operazioni’’, ovvero le attività di ricerca materiale, nelle quali si risolvono i mezzi di ricerca della prova; pur risultando senz’altro sindacabili sotto il profilo della legittimità o, addirittura, della liceità, esse non possono essere oggetto di utilizzazione processuale né, di conseguenza, risultare inutilizzabili. Correttamente, però, gli artt. 270, comma 1o e 271 c.p.p. definiscono inutilizzabili, non le intercettazioni, ma ‘‘i risultati’’ delle stesse, impedendo l’uso istruttorio delle ‘‘dichiarazioni dotate di attitudine probatoria’’ captate (Relazione al progetto prel., cit., 59). Sulla scarsa fondatezza della distinzione tra mezzi di prova e mezzi di ricerca della prova, si veda G. UBERTIS, Sul progetto preliminare del codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 12931294.


— 578 — cie di invalidità — inutilizzabilità assoluta (32) — da cui sono affetti, ex art. 271 c.p.p., i risultati delle intercettazioni compiute in violazione dei divieti, delle forme e delle modalità previste dagli artt. 266, 267, 268, commi 1o e 3o, c.p.p. (33), il giudice per le indagini preliminari ed il tribunale del riesame non possono non verificare che le conversazioni captate poste a sostegno delle richieste cautelari costituiscano l’esito di operazioni legittimamente eseguite. Le operazioni intercettative effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge, ovvero senza autorizzazione e non convalidate, raffigurano il paradigma storico dell’atto da cui scaturiscono ‘‘elementi di prova’’ dei quali ‘‘non si può tener conto’’ (34). La verifica dell’osservanza delle regole in discorso è, dunque, imprescindibile ogniqualvolta il materiale intercettato integri la base conoscitiva per decisioni endoprocessuali (35), di rito (36), o di merito. Identica è la necessità che non sia mai emessa una decisione sulla responsabilità ovvero disposta (o confermata) una misura cautelare, in forza di risultati inutilizzabili scaturiti da intercettazioni illegittime (37).

(32) Cfr. A. NAPPI, Guida al nuovo codice, cit., 99-106. Cfr., altresì, G. CONSO e M. BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Milano, 1992, 345-349; F.M. GRIFANTINI, Inutilizzabilità, cit., 249251, per il quale l’inutilizzabilità assoluta impedisce qualunque effetto della prova viziata, mentre quella relativa, escludendo determinati impieghi di essa, ne gradua l’efficacia. (33) La giurisprudenza più recente distingue talune violazioni a causa delle quali le intercettazioni risultano di per sé illegittime come mezzo di indagine — ad esempio nel caso in cui siano eseguite senza autorizzazione o al di fuori dei casi previsti dalla legge — dall’inosservanza delle altre disposizioni di cui agli artt. 267 e 268, commi 1o e 3o, c.p.p., sanzionata, ex art. 271 c.p.p., con l’inutilizzabilità dei dati captati: le prime avrebbero rilievo anche ai fini della deliberazione dell’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, a giustificazione dell’adozione di una misura cautelare; le seconde varrebbero solo a rendere i risultati delle intercettazioni inutilizzabili ai fini del giudizio (Cass., Sez. VI, 10 novembre 1992, Lattanzio, in Arch. n. proc. pen., 1993, 649; Cass., Sez. V, 5 ottobre 1992, Di Corato ed altro, ivi, 1993, 320, nonché Cass., Sez. I, 6 dicembre 1991, Loreto, in Cass. pen., 1993, 651, 398). Il distinguo non sposta i termini della questione: anche riducendo il novero delle violazioni idonee ad impedire l’utilizzazione delle intercettazioni a fini cautelari, il controllo sulla legittimità delle stesse — e, quindi, sui decreti autorizzativi — rimane necessario. (34) Come è ben noto, la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 aprile 1973, n. 34, aveva tratto ‘‘dall’intero sistema garantistico della Costituzione’’ il divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni telefoniche non consentite dalla legge; la pronuncia aveva trovato pronta eco nella legge 8 aprile 1974, n. 98, che introduceva l’art. 226-quinquies c.p.p. abr. (Relazione al progetto prel., cit, 61). La Corte, nella sentenza in discorso, enucleava la categoria delle ‘‘prove incostituzionali’’ (ottenute con modalità, metodi e comportamenti realizzati in dispregio dei fondamentali diritti garantiti dalla Costituzione e, perciò, non suscettibili di essere assunte ‘‘a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi [tali] attività costituzionalmente illegittime [avesse] subito’’); si veda, sul tema, V. GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte Costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche, in Giur. cost., 1973, 338, nonché G. ALLENA, Riflessioni sul concetto di incostituzionalità della prova nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, I, 509-512. In senso contrario, v., tra gli altri, F. CAPRIOLI, Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, ivi, 1991, 161, secondo il quale, non conformità alla Costituzione di un atto, illiceità di quest’ultimo e sua irrilevanza ai fini probatori nel processo penale sarebbero categorie tra loro autonome. (35) ‘‘Non potrà essere disposta la custodia cautelare dell’indiziato nel caso in cui la richiesta del pubblico ministero si basi, ad esempio, sui risultati di una intercettazione telefonica eseguita senza autorizzazione e non convalidata’’: Relazione al progetto prel., cit., 59. (36) ‘‘Il rilevamento della violazione delle disposizioni poste a pena di inutilizzabilità ovvero di nullità verificatesi nelle indagini preliminari’’ rientra a pieno titolo tra le funzioni del giudice dell’udienza preliminare: v., in tal senso, tra gli altri, G. FRIGO, sub art. 421, in Commento, cit., vol. IV, 1990, 618619; D. GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991, 167-168; A. NAPPI, Udienza preliminare, in Enc. dir., cit., vol. XLV, 1992, 525; G. PANSINI, Udienza preliminare, regole probatorie e procedimenti speciali, in L’udienza preliminare, Atti del Convegno di Urbino 20-22 settembre 1991, Milano, 1992, 85 e ss., nonché G.D. PISAPIA, Introduzione, in L’udienza preliminare, Atti, cit., 7. (37) Per F. CORDERO, Codice, cit., 340-341, le ‘‘fonti della diagnosi cautelare includono ogni dato risultante da verbali, note, documenti, reperti, che possano essere accolti in uno dei due futuri fascicoli


— 579 — Comprensibili ragioni di segretezza e di urgenza possono giustificare l’impiego a fini cautelari — da parte del pubblico ministero — dei risultati delle intercettazioni, senza che sia stato operato lo stralcio di cui all’art. 268, comma 6o, c.p.p., ma non l’omissione del controllo sulla legittimità del mezzo di ricerca della prova da parte degli organi giurisdizionali che valutino i dati captati a fini decisori. La verifica della legittimità delle intercettazoni e, quindi, della utilizzabilità dei risultati precede e condiziona il loro impiego. Qualora i decreti di autorizzazione o di convalida non siano allegati alla richiesta cautelare, le conversazioni intercettate non saranno valutabili ai fini dell’adozione delle cautele. La documentazione attestante la legittimità delle intercettazioni dovrà, poi, costituire oggetto di verifica anche da parte del giudice del riesame (38). L’omessa trasmissione dei decreti al tribunale de quo non potrà che comportare, da un lato, l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in tale sede, dall’altro, il conseguente annullamento del provvedimento de libertate oggetto di gravame che su di essi si fondasse (39). 5. La Corte — per venire alla seconda massima — pur dopo aver escluso che dall’utilizzazione delle intercettazioni a fini cautelari discenda l’obbligo di depositare i relativi atti a disposizione della difesa, giudica irrilevante l’omissione del deposito de quo. Si ripropongono, così, i termini di una disputa già avviatasi vigente il codice abrogato. La giurisprudenza soleva ravvisare, nell’omissione del deposito di cui all’art. 226-quater, comma 7o, c.p.p. abr., una nullità a regime relativo o, addirittura, una mera irregolarità. L’omissione del deposito, infatti, comportando un semplice ritardo nella conoscenza di determinati atti istruttori — in seguito, comunque, conoscibili in sede di deposito ex artt. 372 o 397 c.p.p. abr. — non avrebbe pregiudicato in modo radicale l’esercizio del diritto di difesa (40). La dottrina, invece, osservava che il contraddittorio sui risultati delle intercettazioni — sempre posticipato per la natura di atti ‘‘a sorpresa’’ di tali operazioni (41) — si sarebbe attuato, per l’appunto, mediante lo specifico deposito per

(artt. 431 e 433): tali non sono, ad esempio, intercettazioni illegittimamente eseguite (art. 271.1)’’. V., in tal senso, tra gli altri: A. DIDDI, Regime ed utilizzabilità, cit., 60-63; U. FERRANTE, Utilizzabilità, cit., 799800; A. GAITO, Limiti all’utilizzabilità, cit., 513 e ss.; A.V. SEGHETTI, Sui limiti, cit., 433. V. in giurisprudenza, Cass., Sez. I, 21 novembre 1991, Li Pera, in Cass. pen., 1993, 651, 399, nonché Cass., Sez. VI, 20 marzo 1991, Trovato, ivi, 1992, 1010. In tal senso, Trib. Palermo, 8 novembre 1991, Caccamo, in Giur. it., 1992, II, 514 e Trib. Trapani, 25 maggio 1991, XY, in Arch. n. proc. pen., 1991, 428. (38) Potrebbe ipotizzarsi il deposito dei decreti autorizzativi, per la prima volta, in sede di udienza di riesame (al fine di attestare l’utilizzabilità di elementi indizianti già acquisiti al procedimento cautelare): v. in tal senso, Trib. Milano, 2 gennaio 1992, Rebuscini, in Giur. merito, 1993, 795); v. in senso prolematico U. FERRANTE, Utilizzabilità, cit., 801 ed in senso contrario A. GAITO, Limiti all’utilizzabilità, cit., 517. (39) Sulla sorte del provvedimento giurisdizionale nella cui motivazione ci si serva dei risultati di intercettazioni illegittime, v. G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 150-153; v., altresì, in generale, A. SCELLA, L’inutilizzabilità, cit., 219, con ampi richiami. (40) Affermavano la nullità relativa, tra le altre, Cass., Sez. VI, 24 maggio 1989, Scognamiglio, in Cass. pen., 1990, 2169, 1722; Cass., Sez. I, 21 marzo 1988, Bottaro, ivi, 1989, I, 852, 764; Cass., Sez. I, 29 maggio 1985, Erra, in Riv. pen., 1986, 731; Cass., Sez. I, 13 gennaio 1983, Giudice, in Giust. pen., 1984, III, 289; Cass., Sez. I, 26 aprile 1982, Barbaro, in Cass. pen., 1983, 2059, 1549; Cass., Sez. II, 16 dicembre 1981, Albani, ivi, 1982, 2031, 1818; Cass., Sez. I, 22 febbraio 1979, Pino, in Giust. pen., 1980, III, 494. Nel senso della irregolarità Cass., Sez. VI, 20 settembre 1988, Gido, ivi, 1989, III, 343. (41) G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 121-127.


— 580 — esse previsto (artt. 226-quater, comma 7o e 304-quater, c.p.p. abr. (42)). La discovery suonava funzionale alla successiva attività di trascrizione del materiale captato — con le forme, i modi e le garanzie previste dagli artt. 314 e seguenti c.p.p. abr. per le perizie — previo stralcio, ad opera del giudice, delle intercettazioni affette da nullità o ritenute irrilevanti (43). L’omissione del deposito (o del relativo avviso) avrebbe, perciò, costituito una trasgressione a disposizioni dirette a consentire ‘‘l’intervento’’ del difensore nella successiva procedura di acquisizione della prova (44), integrando, in forza del combinato disposto degli artt. 226-quater, comma 7o, 304-quater e 185, n. 3, c.p.p. abr., una causa di nullità ‘‘assoluta affievolita o relativamente insanabile’’ (45). Irrilevante che gli atti venissero comunque depositati al termine dell’istruzione: ciò non avrebbe costituito sanatoria dell’invalidità, poiché il deposito prescritto dagli artt. 226-quater, comma 7o e 304-quater era indipendente da quello degli artt. 372 e 397, dando luogo ad una garanzia ulteriore ed autonoma delle prerogative difensive (46). Le considerazioni svolte dalla dottrina sotto il codice abrogato valgono anche per la nuova disciplina delle intercettazioni. Qui si impone, però, con maggior rigore, un ‘‘distinguo’’: all’omissione del deposito ‘‘ordinario’’, infatti, può far seguito lo svolgimento — nel corso delle indagini preliminari — della procedura acquisitiva ex art. 268, commi 6o, 7o e 8o, c.p.p., oppure la posticipazione della procedura suddetta alla fase processuale (in cui essa avrà luogo previo l’integrale deposito di cui all’art. 416, comma 2o, c.p.p. (47)). In ordine alla prima ipotesi, pare fin troppo evidente che le eventuali trasgres-

(42) Il deposito doveva dar modo, tra l’altro, di conoscere il contenuto delle intercettazioni e di formulare, in funzione difensiva, istanze ed osservazioni (cfr. 304-quater, comma 4o, c.p.p. abr.). (43) Con riguardo alla procedura acquisitiva che dal deposito prendeva le mosse, G. ILLUMINATI, Intercettazioni illegittime e sanzioni processuali, in Giur. it., 1981, II, 389, rimarcava giustamente ‘‘la carenza di un adeguato contraddittorio nel momento cruciale dell’individuazione delle parti da stralciare e di quelle da trascrivere’’, attività alla quale i difensori non erano ammessi. (44) A proposito della distinzione tra procedura di esecuzione e procedura d’acquisizione, si veda quanto detto supra, alla nota 3. Gli adempimenti disciplinati dall’art. 226-quater, commi 7o, 8o e 9o, c.p.p. abr. erano diretti a consentire l’esercizio del diritto di difesa ed una — pur limitata — instaurazione del contraddittorio in ordine ai dati captati mediante l’esecuzione delle intercettazioni; il deposito, poi, era presupposto inderogabile e condizione di validità delle successive operazioni di stralcio e di traduzione, con riguardo alle quali l’esercizio del diritto di difesa assumeva un rilievo determinante: v., diffusamente, G. ILLUMINATI, La disciplina, 121-136 e 158-163, nonché ID., Intercettazioni, cit., 389; cfr., altresì, L. MARAFIOTI, In tema di nullità ed inutilizzabilità in altro procedimento dei verbali di intercettazioni telefoniche, in Giur. it., 1986, II, 61. (45) A tacer d’altro, l’interpretazione giurisprudenziale che ravvisava la sussistenza d’una nullità relativa si poneva contra legem: ‘‘non essendo prevista una nullità speciale, l’alternativa [poteva] solo essere fra nullità assoluta (‘affievolita’) e semplice irregolarità’’: G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 159-160; ID., Intercettazioni, cit., 388; L. MARAFIOTI, In tema di nullità, cit., 59 e ss.; V. PALTRINIERI, Riflessioni in tema di intercettazioni telefoniche, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, 1603-1605. V., inoltre, sul tema generale dell’omissione del deposito ex art. 304-quater: G. CONSO, La ‘doppia pronuncia’ sulle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria: struttura ed efficacia, in Giur. cost., 1965, 1141. Si veda, infine, l’efficace iter argomentativo di G. LOZZI, Omesso deposito dell’interrogatorio dell’imputato e nullità assoluta, ivi, 1960, 325 e ss. (46) V., sulle intercettazioni, G. ILLUMINATI, Intercettazioni, cit., 389; ID., La disciplina, cit., 159160, nonché, L. MARAFIOTI, In tema di nullità, cit., 60. V., altresì, in generale, G. CONSO, La ‘doppia pronuncia’, cit., 1142; G. LOZZI, Omesso deposito, cit., 327, nonché C.U. DEL POZZO, Deposito di atti (dir. proc. pen.), in Enc. dir., cit., vol. XII, 1964, 274 e ss., il quale, pur sottolineando l’omogeneità dell’istituto contemplato dall’art. 304-quater con quello previsto dall’art. 372, evidenzia la specifica funzione difensiva connessa al deposito svolto nel corso dell’istruttoria. (47) Si crea, di fatto, una situazione analoga a quelle — del tutto legittime, sotto il profilo processuale — delineate sopra, alla nota 2.


— 581 — sioni alle regole che disciplinano la ‘‘procedura di controllo e garanzia’’ (48) mediante la quale si acquisiscono i risultati delle intercettazioni, integrino altrettante violazioni di precise garanzie difensive. L’omissione del deposito, del relativo avviso, nonché del preavviso dello stralcio, così come l’espletamento della perizia senza l’osservanza delle connesse garanzie difensive (49), si traducono in altrettante menomazioni del diritto di conoscenza o di partecipazione della difesa. Costringendo la difesa a partecipare all’udienza di stralcio (50) senza aver preso conoscenza delle risultanze delle intercettazioni (51), ovvero impedendole di intervenire o di nominare un consulente tecnico che partecipi alle operazioni di trascrizione, integrano sicure ipotesi di nullità a regime intermedio (52). Più precisamente, da tale specie di nullità sono inficiate le trascrizioni ricavate da un procedimento probatorio caratterizzato da uno o più dei vizi suddetti (53). La declaratoria di nullità innesca il meccanismo di recupero ex art. 185, commi 2o, 3o e 4o, c.p.p.: la rinnovazione della procedura acquisitiva nella stessa fase processuale in cui viene dichiarata l’invalidità (54).

(48) L’espressione è di G. FUMU, sub art. 268, cit., 794. (49) V. rispettivamente: Trib. Brescia, Sez. II, 15 giugno 1992, Rodengo, in Arch. n. proc. pen., 1993, 110 (per l’omissione dell’avviso di deposito); A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 765-766 (con riguardo all’omissione del deposito); P. BRUNO, Intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, in Digesto (disc. pen.), cit., vol. VII, 1993, 200 e 197 (rispettivamente, per l’omissione del preavviso — di almeno ventiquattro ore — dello stralcio e per la violazione delle garanzie previste per l’espletamento della perizia trascrittiva). (50) V. E. FORTUNA e S. DRAGONE, Le prove, in E. FORTUNA, S. DRAGONE, E. FASSONE, R. GIUa STOZZI, A. PIGNATELLI, Manuale pratico del nuovo processo penale, 3 ed., Padova, 1993, 416, secondo i quali si può propriamente parlare di ‘‘udienza di stralcio’’; in senso contrario G.P. VOENA, Udienza in genere (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XLV, Milano, 1992, 508. (51) ‘‘L’acquisizione dei risultati dell’intercettazione viene disposta dal giudice, sulla base delle richieste delle parti (comma 6). A questo scopo ai difensori viene espressamente consentito (dato che la prassi normalmente lo [negava]) di ascoltare le registrazioni, oltre che di prendere visione degli atti. L’acquisizione e l’eventuale stralcio (che può essere disposto anche di ufficio) debbono aver luogo nel contraddittorio delle parti, cui è dovuto tempestivo avviso’’: Relazione al progetto prel., cit., 70. V., altresì, A.V. SEGHETTI, Sui limiti, cit., 434, la quale sottolinea come il deposito sia rivolto ‘‘a rendere effettivo l’intervento della difesa nelle successive operazioni di stralcio e traduzione delle registrazioni’’. Si soffermano sul punto anche A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 765-766 e P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, Il codice, cit., 510. Per rilievi critici in ordine alla prassi formatasi sotto la disciplina previgente — per cui non si ammetteva che il difensore prendesse conoscenza del contenuto delle registrazioni, dovendosi limitare a constatare la loro esistenza — v. M. CERVADORO, Intercettazioni telefoniche, comunicazioni non tradotte in verbali e giudizio direttissimo, in Giur. it., 1981, II, 347 e ss., nonché G. ILLUMINATI, La disciplina, 121127. (52) In questo senso, si vedano: P. BRUNO, Intercettazioni, cit., 195-197 e 200-202; A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 765-766; G. FUMU, sub art. 268, cit., 793-795, nonché A.V. SEGHETTI, Sui limiti, cit., 434. Nello stesso senso si esprimono P. DUBOLINO - T. BAGLIONE - F. BARTOLINI, Il codice, cit., 509, eccezion fatta per il semplice ritardo degli avvisi. (53) Con riguardo alla disciplina previgente, L. MARAFIOTI, In tema di nullità, cit., 61, osservava che il mancato rispetto delle prescrizioni contenute negli ultimi tre commi dell’art. 226-quater c.p.p. abr. — poiché dirette a tutelare l’intervento e l’assistenza dell’imputato — avrebbe determinato la nullità, ex art. 185, n. 3, c.p.p. abr., dei verbali in cui fosse stato integralmente trasfuso il contenuto delle comunicazioni registrate. (54) V., in tal senso — con riguardo all’omissione dell’avviso di deposito ex art. 268, comma 6o, c.p.p. — Trib. Brescia, Sez. II, 15 giugno 1992, Rodengo, cit. V., con riguardo al codice abrogato, G. ILLUMINATI, Intercettazioni, cit., 389: dichiarata la nullità, quando la decisione istruttoria fosse dipesa dalla prova in questione, si sarebbe travolto anche l’atto di rinvio a giudizio; ‘‘il ritorno in istruttoria [sarebbe servito] a rinnovare l’acquisizione della prova nel rispetto delle garanzie di difesa — e tutti gli atti dipendenti, fino alla formulazione dell’accusa — a partire dal momento in cui [era] avvenuta la violazione’’: da ripetere, dunque, le operazioni di stralcio e di trascrizione (cfr., altresì, G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 161-162).


— 582 — Questioni più complesse sorgono quando l’omissione abbia ad oggetto, non un singolo adempimento della procedura di acquisizione, ma quest’ultima per intero, posticipata — in violazione dell’obbligo di deposito ex art. 268, comma 4o, c.p.p. (55) — alla fase processuale. Per degradare l’invalidità al rango di una nullità relativa o, addirittura, di una mera irregolarità (come affermato, implicitamente, dalla Corte) si potrebbe sostenere che un successivo deposito degli atti relativi alle intercettazioni ex art. 416 c.p.p. ed il conseguente svolgimento della procedura suddetta nella fase processuale equivalgano all’omesso deposito rituale ex art. 268, comma 4o, c.p.p. (56). Si impongono, tuttavia, due obiezioni. In primo luogo, bisogna dar conto dell’autonomo potere investigativo attribuito al difensore dal nuovo codice (57): venuto a conoscenza dei dati captati, questi potrà utilizzarli a fini difensivi sin dalla fase d’indagine, traendone spunto per investigazioni difensive. In secondo luogo, non si può ignorare il disposto dell’art. 268, comma 5o, c.p.p.: il deposito degli atti relativi alle intercettazioni può essere ritardato fino alla chiusura delle indagini preliminari, solo qualora il deposito ‘‘ordinario’’ ex art. 268, comma 4o, c.p.p. risulti pregiudizievole per le investigazioni in corso e previa autorizzazione del giudice della fase. Se il deposito ‘‘ordinario’’ non costituisse un adempimento obbligatorio, non avrebbe senso esigere i presupposti sostanziali e formali suddetti al fine di consentire — in via del tutto eccezionale — il deposito ‘‘ritardato’’. L’omissione del deposito ‘‘ordinario’’ — senza ricorso alle forme ed alle garanzie previste per la deroga ex art. 268, comma 5o, c.p.p. e laddove la conclusione delle operazioni intercettative non coincida, in concreto, con la chiusura delle indagini preliminari (58) — impedisce, dunque, la discovery di una prova che, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe essere acquisita, in regime di contraddittorio, già nell’ambito delle indagini preliminari (59). Qui si discorre, non di un vizio inficiante un atto di acquisizione probatoria, ma della lesione delle prerogative conoscitive della difesa — latamente intese — conseguente all’omessa discovery. Se individuare la species dell’invalidità che ne consegue è agevole, non lo è altrettanto determinarne gli effetti. Taluno ipotizza che dal vizio di omessa discovery discenda la declaratoria di nullità per il combinato disposto degli artt. 268, comma 4o e 178 lett. c), con susseguente restituzione degli atti al pubblico ministero; questi dovrebbe, poi, proce-

(55) Il deposito ex art. 268, comma 4o, c.p.p. sembra dare contenuto alla clausola di cui all’art. 366 c.p.p. ‘‘salvo quanto previsto da specifiche disposizioni’’. Tale ultima norma prescrive il deposito dei verbali degli atti d’indagine ai quali il difensore avrebbe il diritto di assistere; la prima, invece, prevede il deposito di atti sino ad allora segreti (v. F. CORDERO, Procedura, 2a ed., cit., 751). (56) Si è notato sopra come tale soluzione si porrebbe in linea con quanto ritenuto dalla giurisprudenza formatasi sotto il codice previgente. (57) Cfr., art. 38 disp. att. c.p.p. (58) V. sopra, alla nota 2. (59) Per A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 767, la volontà del legislatore è che tale ‘‘prova sia non solo ‘svelata’, ma acquisita [...] nell’ambito delle indagini preliminari’’; l’omissione del deposito ordinario, facendo ‘‘saltare contra ius atti che ‘scoprono le carte’’’, rischia di provocare la perdita irrimediabile di ‘‘certe chances difensive’’. Con riguardo alla disciplina previgente, L. MARAFIOTI, In tema di nullità, cit., 64, evidenziava ‘‘la scelta [del legislatore] di anticipare la tutela del diritto di difesa e l’instaurazione del contraddittorio in ordine agli atti acquisitivi delle intercettazioni ad una fase antecedente a quella di chiusura dell’istruzione’’; v., altresì, G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 121-122, nonché ID., Intercettazioni, cit., 389, laddove si individua l’intento del legislatore di ‘‘anticipare un parziale contraddittorio in ordine a determinati atti istruttori’’.


— 583 — dere al deposito delle registrazioni ed alla successiva acquisizione delle stesse in contraddittorio: solo a tal punto potrebbe presentare la richiesta di rinvio a giudizio (60). Occorrerebbe però, così argomentando, in prima battuta, superare la barriera eretta dall’art. 185, comma 4o, c.p.p. — ‘‘le nullità concernenti le prove’’ non inducono ‘‘la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo’’ — e, in seconda battuta, rinvenire il fondamento di una declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio, destinata ad essere travolta nel corso dell’ipotizzato arretramento. La tesi, pur apprezzabile nel proposito che l’anima, non persuade: un tragitto siffatto condurrebbe, invero, ‘‘al di fuori di quel cerchio chiuso di elementi dalla cui necessaria correlazione scaturisce la figura ‘minima’ del procedimento’’ (61). Se così è, non è dato né saltare, a ritroso, lo steccato normativo che impedisce la regressione dell’iter procedimentale, né ipotizzare singolari itinerari nei quali il passaggio attraverso un immancabile stadio progrediente — come la richiesta di rinvio a giudizio — dipenda dall’aver previamente percorso tratti solo accidentali — come la procedura acquisitiva della prova de qua (62). Se non vizia — sì da comportarne la rinnovazione — una procedura acquisi-

(60) A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 767-769, propone l’indicata soluzione, mirando a trovare un congegno che — dinnanzi ad un vizio integrato dalla mancata discovery — consenta il recupero della conoscenza senza compromettere i diritti dell’imputato. Rilevati taluni inconvenienti generati dall’omissione della procedura acquisitiva ex art. 268 c.p.p. nella fase delle indagini preliminari, l’unica soluzione accettabile gli appare la regressione del procedimento. Al di là dell’ovvia considerazione per cui adducere inconveniens non è ancora risolvere l’argomento, le incongruenze lamentate sono solo apparenti; né potrebbe essere altrimenti, giacché spesso la procedura d’acquisizione della prova de qua è destinata a svolgersi a fase processuale iniziata, mercé il deposito degli atti relativi alle intercettazioni unitamente a quello — ex art. 416, comma 2o, c.p.p. — di tutti gli atti d’indagine (v. sopra, alla nota 2). La sentenza C. Cost. 23 febbraio 1994, n. 77, pur dichiarando l’illegittimità degli artt. 392 e 393 c.p.p. e consentendo l’espletamento dell’incidente probatorio anche nella fase dell’udienza preliminare, non ha mutato il quadro. La procedura ex art. 268 c.p.p., infatti, rimane autonoma e distinta (per presupposti, oggetto e disciplina) rispetto all’incidente probatorio; di esso mutua talune regole ‘‘in quanto applicabili’’ e ‘‘laddove necessario’’(v., in materia, G.I.P. Trib. Roma, 15 aprile 1991, in Giur. it., 1992, II, 50 e ss.). Su tali temi si veda, volendo, M. CIAPPI, Stralcio e trascrizione delle intercettazioni telefoniche nell’iter procedimentale, in Giur. it., 1995, II, 125 ss., seppure antecedente alla pronuncia della Corte Costituzionale. (61) F. CORDERO, Riflessioni in tema di nullità assolute, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 253. (62) In questa direzione si muove A. CAMON, Nullità probatorie, cit., 769, individuando la categoria degli ‘‘atti (e vizi) a natura per così dire ‘bivalente’. Si tratta di quei casi in cui vi è un obbligo di comunicare alla controparte una conoscenza entro un dato termine. Il ricorso ad un mezzo di prova è eventuale; ma, una volta che esso sia avvenuto, l’atto di discovery è un vero e proprio passaggio obbligato del processo’’. La sua omissione, pur rientrando tra le nullità concernenti le prove, ‘‘incide contemporaneamente sull’iter procedimentale ‘base’, non diversamente da quanto avverrebbe se fosse saltata l’udienza preliminare (nel rito ordinario); qui l’unico rimedio è la regressione’’. La discovery di cui si tratta (il deposito ‘‘ordinario’’ ex art. 268 c.p.p.) non conclude, ma avvia la nota procedura acquisitiva dei risultati delle intercettazioni, sicché la sua omissione integra un’ipotesi di nullità concernente l’attività di acquisizione della prova in discorso. Stando, però, all’assunto esposto — che finisce per richiamare una nota distinzione — tale discovery rappresenterebbe non solo una garanzia inerente ad un atto di acquisizione probatoria (il quale, ben si sa, pur inserendosi nel procedimento, non ne integra un immancabile stadio progrediente: cfr. F. CORDERO, Riflessioni, cit., 253), ma anche un ‘‘atto propulsivo’’ (il quale si inserisce a guisa di elemento necessario nella sequela procedurale, di talché la sua imperfezione implica l’invalidità degli atti successivi, ‘‘in forza del nesso di necessaria correlazione tra i componenti della serie effettuale del procedimento’’: F. CORDERO, Nullità, sanatorie, vizi innocui, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, 694). Omessa la discovery — definita alla stregua di un atto propulsivo — dal vizio dovrebbe discendere l’invalidità del procedimento e, quindi, degli elementi di prova in esso successivamente acquisiti, giacché scaturenti da un’attività d’indagine svolta all’insaputa dell’indagato ed in violazione delle sue prerogative difensive. Non si dubita, invero, che ‘‘l’invalidità del procedimento, dipendente dal vizio d’un atto propulsivo, travolga le risultanze istruttorie in esso acquisite’’; si debbono rite-


— 584 — tiva di risultati di intercettazioni, l’omissione del deposito in discorso (ex art. 268, comma 4o, c.p.p.), non incidendo sulla trama necessaria del procedimento, ha il senso di una nullità solo ‘‘virtuale’’. Invero, pur potendo ridurre — di fatto — le potenzialità investigative della difesa, con l’impedire l’accesso a talune conoscenze, l’omesso deposito non spiega effetti né su uno specifico atto d’indagine o (rectius) di acquisizione probatoria (63), né sulla fase procedimentale in cui avrebbe dovuto collocarsi, né, infine, sull’atto che tale fase viene a concludere: il vizio, dunque, se rilevato durante il ‘‘processo’’, non ne comporta la regressione alla fase preprocessuale (64). 6. Nell’ultima massima, infine, si colgono i tratti di una interpretazione estensiva dell’art. 270, comma 2o, c.p.p. Nel procedimento ad quem, pur in difetto di un’espressa previsione, debbono depositarsi anche i decreti di autorizzazione,

nere ‘‘processualmente irrilevanti’’ le acquisizioni probatorie di un dibattimento ‘‘nel quale la mancata citazione dell’imputato si sia risolta in una flagrante trasgressione del principio del contraddittorio’’ (v., con riguardo al codice abrogato, F. CORDERO, op. ult. cit., 698, nt. 50). Così dovrebbe considerarsi l’omissione della discovery ex art. 268, comma 4o, c.p.p. nella fase delle indagini preliminari: ‘‘una flagrante trasgressione del principio del contraddittorio’’, non relativa ad un singolo atto d’indagine, ma all’intera fase nel suo complesso, con inevitabili ripercussioni sull’atto che la conclude. L’atto (ed il vizio) a natura ‘‘bivalente’’, tuttavia, costituirebbe una prerogativa di un dato tipo di procedimento: quello in cui vengano eseguite intercettazioni ed in cui le operazioni siano concluse prima della chiusura delle indagini, senza che vi sia, però, l’autorizzazione al deposito ‘‘ritardato’’ — ex art. 268, comma 5o, c.p.p. — degli atti ad esse relativi (v. nota 2). Ma effetti di tale portata, a ben vedere, erano negati, sotto il codice abrogato, anche con riferimento all’omissione della comunicazione giudiziaria. Ad essa, infatti, non veniva riconosciuto ‘‘il ruolo di presupposto processuale di legittimità delle funzioni istruttorie del p.m. del g.i. e del pretore, il ruolo cioè di atto introduttivo della fase istruttoria, così come la richiesta del decreto di citazione [lo era per] la fase degli atti preliminari al giudizio o il decreto di citazione [lo era per] il dibattimento’’; il ruolo di un adempimento iniziale ed autonomo in difetto del quale tutta la successiva attività istruttoria sarebbe stata irrimediabilmente nulla (Cass., Sez. V, 17 gennaio 1973, Melandri, in Cass. pen., 1974, 1214 e ss., nonché Cass., Sez. I, 1 marzo 1978, Pinna e altri, ivi, 1980, 465): il ruolo, in una parola, di un atto propulsivo. Col nuovo codice, ad ogni modo, il contesto è mutato: non è previsto alcun adempimento prodromico all’inizio dell’attività d’indagine (l’obbligo dell’informazione di garanzia decorre solo ‘‘dal compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere’’), mentre la fase ad essa destinata, pur sempre più simile al vecchio rito sommario, non è processo; mal le si adatta, dunque, un adempimento di natura probatoria idoneo a condizionarne la validità. A chiudere le indagini preliminari, poi, interviene la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero; si tratta — è noto — di un atto non decisorio ed immotivato attraverso il quale si esprime, in virtù di una prognosi probatoria, una mera ipotesi accusatoria: su di essa non spiega effetti l’eventuale invalidità di uno o più atti d’indagine. Né la procedura d’acquisizione della prova de qua può configurarsi come ‘‘un antecedente necessario della fase propriamente processuale’’ (v., invece, in tal senso, A. CAMON, op. cit., 769) e, quindi, della richiesta di rinvio a giudizio che la introduce. Tra il procedimento probatorio in discorso e l’atto conclusivo della fase preprocessuale può rinvernirsi, al più, una relazione di mera — benché auspicabile — successione cronologica, ma non certo un ‘‘rapporto di dipendenza causale e necessaria, logica e giuridica’’ (Relazione al progetto prel., cit., 58) tale da configurare lo svolgimento del primo in guisa di una condicio sine qua non della validità del secondo (v., sugli ‘‘atti consecutivi dipendenti’’, E. BASSO, sub art. 185, in Commento, cit., vol. II, 1990, 367-371, con ampi richiami). (63) Il deposito non rientra tra le modalità esecutive delle operazioni di intercettazione, di talché la sua omissione non ne inficia i risultati; costituendo, inoltre, il primo atto del procedimento di acquisizione dei risultati delle intercettazioni, la sua omissione, laddove tale procedura non abbia avuto luogo, non vizia alcunché. (64) Ass. Catanzaro, 25 novembre 1992, Rizzardi ed altro, in Cass. pen., 1994, 759, 486, pur trovandosi dinnanzi alla duplice inosservanza degli artt. 268, comma 4o e 416, comma 2o, c.p.p., ha dato rilievo solo alla seconda trasgressione, dichiarando la nullità dell’udienza preliminare e di tutti gli atti successivi per violazione del diritto di difesa, ma non travolgendo — in un cammino a ritroso — la richiesta di rinvio a giudizio.


— 585 — convalida o proroga delle intercettazioni emessi nel procedimento a quo, poiché essi costituiscono un fondamentale parametro di valutazione della legittimità delle operazioni e della utilizzabilità dei risultati (65). Qui si esaurisce l’ispirazione garantista della Suprema Corte (66): il deposito non ha da precedere l’utilizzazione, nel procedimento ad quem, dei dati captati aliunde provenienti; esso deve avvenire ex art. 416, comma 2o, c.p.p., alla chiusura della fase investigativa del procedimento diverso (67). A ben vedere, invece, la norma, laddove prescrive, ‘‘ai fini della utilizzazione’’ nel procedimento ad quem dei risultati delle intercettazioni in altra sede disposte, che i verbali e le registrazioni debbano essere depositati presso l’autorità ivi competente, prevede una condizione di utilizzabilità, nella nuova sede, dei materiali captati (68). I risultati delle intercettazioni effettuate all’interno di un procedimento non potranno mai venire utilizzati nell’ambito di un altro tramite un semplice ‘‘passaggio’’ delle registrazioni e dei verbali dall’una all’altra autorità giudiziaria (69), quasi che tale acquisizione fosse ‘‘un puro fatto materiale che segna l’ingresso di un verbale in un fascicolo diverso da quello che lo ha raccolto al suo nascere’’ (70). È, dunque, necessità primaria che gli atti relativi alle intercettazioni trasmigrino nel procedimento ad quem, non solo materialmente, ma secondo le

(65) La lacuna dell’art. 270, comma 2o, c.p.p. è oggetto di preoccupate critiche da parte della dottrina: v. G. FUMU, sub art. 270, cit., 799-800. F. CORDERO, Procedura, 2a ed., cit., 723, ritiene sottinteso che gli interessati del procedimento ad quem abbiano accesso ai decreti autorizzativi esistenti nella sede a qua; P. BRUNO, Intercettazioni, cit., 205, propone, invece, un’interpretazione estensiva della norma in discorso — negli stessi termini di quella operata dalla Suprema Corte nel caso di specie — attribuendo la riscontrata lacuna ad una distrazione della Commissione redigente. (66) Ancorché la soluzione sia scontata, alla luce della sentenza interpretativa di rigetto 11 giugno 1987, n. 223, della Corte Costituzionale, con cui veniva risolta, negli stessi termini, la medesima questione già sorta con riferimento all’art. 226-quater, comma 7o, c.p.p. abr. (67) Sulla nozione di procedimento diverso si veda, in generale, G.G. DE GREGOGIO, Brevi considerazioni in margine ai concetti di ‘stesso procedimento’ e di ‘procedimento diverso’ ai fini dell’utilizzabilità dibattimentale del contenuto degli interrogatori, in Cass. pen., 1991, II, 1000 e ss., il quale osserva come ‘‘nell’attuale sistema i concetti di ‘reato diverso’ e di ‘procedimento diverso’ [siano], nello svolgersi fisiologico del processo, intercambiabili’’. Si veda, in senso difforme, F. DE LEO, Vecchio e nuovo in materia di intercettazioni telefoniche riguardanti reati non previsti nel decreto di autorizzazione, in Foro it., 1989, II, 19 e ss. (in particolare 26). Cfr., sul tema, tra gli altri: P. BRUNO, Intercettazioni, cit., 202-204; P. FELICIONI, L’utilizzazione delle prove acquisite in altro procedimento penale; problema interpretativo o necessità di intervento legislativo?, in Cass. pen., 1992, 1824 e ss.; V. GREVI, La nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, Milano, 2a ed., 1982, 60-83; G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 163-169. (68) ‘‘Sono divieti tanto le proibizioni esplicite (del tipo ‘è vietato’, ‘non è ammesso’, ‘non possono essere utilizzati’), quanto le norme che subordinano il compimento o l’uso di un atto a particolari forme, casi o presupposti, ponendo così un divieto implicito per tutti quelli non contemplati’’: F.M. GRIFATINI, Inutilizzabilità, cit., 248; in tal senso, v. N. GALANTINI, Inosservanza, cit., 177; M. NOBILI, sub art. 191, in Commento, cit., vol. II, 1990, 411. Con riguardo al tema specifico, T. TREVISSON LUPACCHINI, Il sequestro a fini probatori tra obbligatorietà dell’azione penale, inutilizzabilità della prova e diritto di difesa, in Giur. it., 1993, II, 97-98 (annotando Cass., Sez. III, 9 aprile 1992, Gerace ed altro, ivi, 98), sottolineava che ‘‘l’omesso deposito degli atti presso l’autorità competente per il procedimento diverso, rispetto a quello nel quale si sono disposte le intercettazioni’’, implica, ‘‘per quanto previsto dall’art. 270, comma 2o, che i risultati ottenuti non possano essere utilizzati’’, mentre non hanno rilievo i motivi dell’omissione. (69) Cfr. V. GREVI, La nuova disciplina, cit., 76-77, il quale sottolinea la necessità di garantire ai difensori il diritto di interloquire in ordine all’ingresso degli atti relativi alle intercettazioni nel procedimento ad quem. (70) E. AMODIO, Il regime probatorio conseguente alla separazione di procedimenti connessi, in E. AMODIO - O. DOMINIONI - G. GALLI, Nuove norme sul processo penale e sull’ordine pubblico, Milano, 1978, 44.


— 586 — forme del rito: siano, cioè, ivi depositati. Prima di tale adempimento, nel procedimento diverso, nessuna forma di utilizzazione pare ipotizzabile. L’acquisizione avviene mediante la rinnovazione — nella nuova sede — della procedura giurisdizionale ex art. 268, commi 6o, 7o e 8o, c.p.p.: avviso ai difensori, nonché al pubblico ministero (ignorato dall’art. 268, comma 6o, in quanto autore del deposito), poiché l’instante ben potrebbe essere una parte privata; consultazione dei verbali ed ascolto dei nastri; selezione del materiale rilevante ed ammissibile in eventuale contraddittorio; trascrizione dei reperti sonori (71). Le valutazioni sulla legittimità delle intercettazioni e sulla utilizzabilità dei risultati competono, sia pure con efficacia incidenter tantum, esclusivamente al giudice ad quem, senza alcun vincolo derivante dalle decisioni prese dal giudice a quo (72). Il quadro normativo pare sufficientemente delineato: l’utilizzazione — del tutto eccezionale (73) — dei materiali captati aliunde immessi, a fini cautelari, nel procedimento ad quem, potrà precedere — per ovvie ragioni d’urgenza — la procedura d’acquisizione sopra delineata (e, segnatamente, lo stralcio ex art. 268, comma 6o, c.p.p.), ma, avvenire prima del deposito ex art. 270, comma 2o, c.p.p. Nessuno stupore susciterebbe un uso cautelare simultaneo al deposito, poiché la conoscibilità della documentazione da parte della difesa consentirebbe l’esercizio dei relativi diritti. La giurisprudenza, tuttavia, non inclina verso una siffatta ermeneutica. Si ritiene che la lettura del dato normativo escluda l’inutilizzabiltà — nel procedimento diverso — dei dati altrove captati quale conseguenza dell’omesso deposito ex art. 270, comma 2o, c.p.p.; tale violazione non rientrerebbe, infatti, tra le gravi trasgressioni sanzionate a pena di inutilizzabilità ex art. 271, comma 1o, c.p.p. (74). Ma l’argomento suona debole per due ordini di considerazioni.

(71) Cfr. F. CORDERO, Procedura, 2a ed., cit., 723. Nello stesso senso G. FUMU, sub art. 270, cit., 799. Si vedano, altresì, P. BRUNO, Intercettazioni, cit., 205, nonché F. DE LEO, Vecchio e nuovo, cit., 27. Nella vigenza della disciplina abrogata, secondo L. MARAFIOTI, In tema di nullità, cit., 63-64, si sarebbe dovuto immediatamente procedere allo svolgimento delle attività previste dall’art. 226-quater, commi 7o, 8o e 9o, c.p.p. anche nel procedimento ad quem, stante l’operatività dell’art. 304-quater. Per l’applicabilità dell’art. 226-quater, commi 7o, 8o e 9o comma, c.p.p. anche nel procedimento ad quem, si esprimevano V. GREVI, La nuova disciplina, cit., 74-83, nonché G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 168. L’art. 270, comma 3o, c.p.p. prevede, altresì, la facoltà, per pubblico ministero e difensori, di esaminare i verbali e le registrazioni depositati nel procedimento a quo; ciò allo scopo di evitare che materiali probatori rilevanti, in chiave accusatoria o difensiva, vengano pretermessi. (72) G. FUMU, sub art. 270, cit., 799; così F. CORDERO, Procedura, 2a ed., cit., 723. Sotto la vigenza del codice abrogato v., in tal senso, L. MARAFIOTI, In tema di nullità, cit., 64, secondo il quale il sindacato sulla validità degli atti trasmigrati, da parte del giudice ad quem, sarebbe stato precluso ‘‘solo nell’ovvia ipotesi di espressa dichiarazione d’invalidità [degli stessi] nel procedimento d’origine’’. (73) L’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni nel procedimento diverso, in deroga al canone fondamentale della correlazione tra motivi del provvedimento autorizzativo ed area di utilizzabilità processuale del materiale probatorio captato (v., sul punto, in relazione alla disciplina previgente, V. GREVI, La nuova disciplina, cit., 60-74 e G. ILLUMINATI, La disciplina, cit., 77-79; v., altresì, sul nuovo codice, C. Cost., sent. 23 luglio 1991, n. 366, in Cass. pen., 1991, II, 916-917), è prevista — ex art. 270, comma 1o, c.p.p. — solo per talune gravi ipotesi di reato ed in presenza di specifiche condizioni di necessità. (74) Il mancato deposito dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento, presso l’autorità giudiziaria competente per il diverso procedimento, non è causa di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni; tale sanzione processuale consegue solo alla esecuzione delle operazioni fuori dei casi previsti e alla mancata osservanza delle disposizioni degli artt. 267 e 268, commi 1o e 3o, c.p.p., e non anche all’omissione del deposito ex artt. 268, comma 4o o ex art. 270, comma 2o, c.p.p.; così Cass., Sez. fer., 6 agosto 1991, Luise, in Cass. pen., 1992, 729, 388, nonché Cass., Sez. VI, 26 gennaio 1993, Miano, in Arch. n. proc. pen., 1993, 649.


— 587 — L’immunità dai vizi considerati dall’art. 271, comma 1o, c.p.p. è davvero la condicio sine qua non dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. L’esistenza dei presupposti di cui all’art. 270, comma 1o, c.p.p. integra un ulteriore presupposto affinché dati captati utilizzabili nel senso suddetto, lo siano anche nel procedimento diverso (75). Le due norme, dunque, disciplinano segmenti procedimentali distinti. L’art. 270, comma 1o, c.p.p., inoltre, pur ponendo una chiara regola d’esclusione probatoria (76), non rinviene la sanzione per la sua inosservanza nell’art. 271, comma 1o, c.p.p.; il divieto probatorio, pur implicito, palesa la propria autonomia. Le stesse considerazioni valgono in relazione all’art. 270, comma 2o, c.p.p.: da un lato, l’adempimento ivi prescritto costituisce una condizione necessaria affinché materiali captati utilizzabili ai sensi dell’art. 271, comma 1o, c.p.p. lo siano anche nel procedimento diverso; dall’altro, il divieto probatorio che ne scaturisce opera indipendentemente dal presidio sanzionatorio di cui all’art. 271, comma 1o, c.p.p. In conclusione, la sentenza in esame fornisce un’ulteriore conferma dell’estrema difficoltà in cui la Cassazione si dibatte ogniqualvolta si debbano calibrare le apposite garanzie dirette a mitigare l’insidiosità del nostro mezzo di ricerca della prova: l’oscura ermeneutica dei dati normativi conferisce poi alla decisione un tono tetro sotto cui si cela un irragionevole sacrificio dei diritti dell’imputato. Dott. MANUELE CIAPPI

(75) C. Cost., 23 luglio 1991, n. 366, cit., 917, interpreta l’art. 270, comma 1o, c.p.p. ‘‘come divieto di utilizzabilità, quali fonti di prova in procedimenti diversi, dei risultati delle intercettazioni legittimamente disposte in un determinato giudizio’’. (76) P. BRUNO, Intercettazione, cit., 204.


— 588 — c) Giudizi di merito

TRIBUNALE DI GENOVA — 8 giugno 1993 Pres. Noli — Est. Ivaldi — P.M. Monetti Imp. Pietrolungo ed altri Sequestro di persona a scopo di estorsione — Condotta di privazione della libertà personale a danno della moglie di soggetto passivo di rapina — Esclusione. La privazione della libertà personale a danno di taluno, che viene tenuto in ostaggio da alcuni rapinatori durante il tempo in cui i complici costringono il proprietario di una gioielleria, marito dell’ostaggio, a recarsi, sotto la minaccia delle armi, presso la gioielleria, ivi consegnando i valori contenuti in cassaforte, non perfeziona il reato di cui all’art. 630 c.p., che è assorbito nel reato di rapina. Infatti, indipendentemente dal sequestro della moglie, il gioielliere non avrebbe comunque potuto sottrarsi al volere degli aggressori e la consegna dei gioielli non può in alcun modo ricollegarsi ad un suo atto di volontà. Sussistono, di contro, i reati di rapina e sequestro di persona, uniti dal vincolo della continuazione, con l’esclusione dell’estorsione che caratterizza il reato di cui all’art. 630 c.p. (1). (Omissis). — I fatti dei quali sono chiamati a rispondere Umberto Pietrolungo e Francesco Tripicchio possono essere così ricostruiti sulla base delle precise e concordanti dichiarazioni dei coniugi Matone/Sivilotti che ne furono vittime: il 25 ottobre 1991 il gioielliere Marco Matone, accortosi del furto della sua auto, presentò denuncia ai carabinieri; la sera di quello stesso giorno, verso le otto, qualcuno suonò alla porta dell’abitazione dei Matone, appena rientrati dal lavoro, e disse loro che l’auto era stata ritrovata; aperto l’uscio, Marco Matone vide un uomo che portava sul capo un cappello che gli parve quello dei Carabinieri; subito l’uomo si spostò, cedendo il passo ad un altro individuo, dal volto celato da un passamontagna; questi puntò una pistola sul Matone, dicendogli che si trattava di una rapina; il gioielliere e sua moglie vennero fatti entrare nella stanza da letto e qui, subito bendati e legati, vennero trattenuti, mentre altre persone (a parere dei Matone, si trattava in tutto di un gruppo di quattro persone) entravano nell’appartamento; in un momento successivo, il marito venne condotto nella sala e qui gli vennero chieste le chiavi e la combinazione della cassaforte della gioielleria; il Matone dimostrò qualche difficoltà nell’indicare la combinazione, non riuscendo a ricordare con certezza i movimenti a destra e a sinistra; i rapinatori dubitarono che si trattasse di un trucco da parte sua e lo minacciarono con un coltello; gli venne richiesto (analoga richiesta venne fatta alla signora Sivilotti) di accompagnarli presso la gioielleria e di aprire la cassaforte; ciò non venne tuttavia eseguito subito: i Matone ebbero modo di sentire che uno dei rapinatori si era recato sul posto ed aveva notato che c’era ancora molta gente per strada; i coniugi, sempre sotto la minaccia di una pistola, vennero trattenuti nella camera da letto per alcun


— 589 — ore, durante le quali ebbero modo di sentire le voci dei rapinatori e di notarne l’accento meridionale, di percepirne il numero (che, come si è detto, viene indicato in quattro), di avvertire che venivano fatte e ricevute dall’appartemento delle telefonate; verso le cinque del mattino seguente, i rapinatori fecero alzare Marco Matone, lo condussero in bagno affinché potesse lavarsi il viso e riassettarsi e gli dissero che doveva recarsi con uno di loro alla gioielleria per aprire la cassaforte; gli fecero presente che sua moglie sarebbe rimasta in ostaggio nell’appartamento e che se avesse incontrato qualcuno per strada doveva dire che si recava in gioielleria a quell’ora per consegnare un pacco ad un amico; quindi, il gioielliere, accompagnato dal rapinatore che gli si era presentato con il cappello « da carabiniere » si recò alla gioielleria, dove, disattivato l’allarme e aperta la cassaforte, consegnò al predetto rapinatore tutto quanto era ivi contenuto; mentre compiva tali operazioni, scorse un uomo che seguiva la scena dall’esterno, seminascosto da un muro; usciti e risaliti sull’auto con cui il rapinatore aveva portato il Matone alla gioielleria, vennero raggiunti dall’uomo che poco prima il Matone aveva scorto dietro al muro; questi prese posto sul sedile posteriore e il Matone non ebbe modo di vederlo in viso, anche perché teneva il bavero della giacca rialzato; al rientro nell’appartamento, i rapinatori legarono e bendarono nuovamente il gioiellere, facendogli prendere posto con la moglie nella sala; quindi lasciarono l’appartamento, dopo aver prelevato dal medesimo del denaro contante e dei gioielli di proprietà della signora Sivilotti; quest’ultima, nel periodo in cui il marito aveva dovuto recarsi alla gioielleria era rimasta sempre sotto la sorveglianza di uno dei rapinatori, con il quale aveva avuto modo di parlare, in particolare ottenendo una descrizione dell’arma con la quale la minacciava, che, ad un certo punto, egli aveva scaricato facendogliela sfiorare con le dita; la donna aveva potuto sentire che questo rapinatore, che le era parso, per la direzione da cui proveniva la voce, più alto degli altri, veniva chiamato « Giovanni »; entrambi i coniugi avevano sin dall’inizio dichiarato di essere in grado di riconoscere il rapinatore che si era mostrato a viso scoperto. Sulle indagini che vennero svolte in seguito ai fatti che si sono riassunti è stato sentito in udienza il Mllo. dei CC Francesco Putzolu. Egli ha riferito che il 15 dicembre 1991 vennero sequestrati a tale Antonio Benedetto dei gioielli provenienti dalla rapina in danno dei Matone, gioielli che il Benedetto aveva portato ad un gioielliere di Voltri per averne una stima; poiché il Benedetto aveva indicato in Umberto Pietrolungo la persona che gli aveva fornito i preziosi (l’indicazione è stata confermata in udienza dal Benedetto) veniva immediatamente perquisita l’abitazione di quest’ultimo dove veniva trovata una cassetta metallica, chiusa a chiave, contenente una parte della refurtiva provento della rapina di Arenzano. Il fermo del Pietrolungo veniva seguito dall’individuazione nel Tripicchio di un altro possibile autore della rapina. Infatti, in epoca vicina alla data del fatto i Carabinieri avevano fermato per due volte il Pietrolungo per controlli ed in entrambe le occasioni (l’una a Cambiago il 22 ottobre 1991, l’altra a Cogoleto il 30 novembre 1991) lo avevano trovato insieme al Tripicchio, che con la famiglia risiede a Cetraro. Vi è, inoltre, un’altra occasione nella quale è accertata la presenza in Liguria del Tripicchio. Si tratta di un incidente automobilistico verificatosi il 10 ottobre 1991 sull’autostrada in prossimità di Celle. Il Tripicchio, a bordo della sua


— 590 — R5 in seguito ad una collisione con un camion andò ad urtare contro il guard-rail, intervenne il soccorso stradale (teste Marvaldi) e il Tripicchio, con un giovane non identificato che era con lui, venne portato al casello di Albisola, dove lo raggiunse il Pietrolungo, che poi curò il ricovero e la riparazione della R5 presso un’autoofficina di Cogoleto (testi Rioma e Bianchi). Per i suoi rapporti con il Pietrolungo e per la sua presenza in Liguria in epoca prossima a quella della rapina di Arenzano, il Tripicchio venne individuato come un possibile autore della rapina. Pertanto, la polizia effettuò una ricognizione fotografica, sottoponendo la sua fotografia con quelle di altri quindici soggetti ai coniugi Matone, che riconobbero con certezza nel Tripicchio il solo rapinatore che avevano visto a volto scoperto. Venendo all’esame degli elementi complessivamente emersi a carico degli imputati, si osserva che il Pietrolungo, circa il possesso dei gioielli, ha sostenuto di essersi un giorno recato a trovare la sorella a Milano; di averle telefonato da un bar, senza trovarla in casa; di essere quindi stato avvicinato, mentre attendeva di richiamare la sorella, da uno sconosciuto, che gli aveva offerto i gioielli; di avere, quindi, acquistato i medesimi per il prezzo di L. 1.800.000, essendosi convinto che si trattava di oro dopo averli sfregati contro il muro. Non vi è molto da dire circa la totale inverosimiglianza di tale versione: il Pietrolungo, che (secondo quanto detto da lui stesso) non svolgeva alcuna attività dall’agosto, avrebbe investito 1.800.000 nell’acquisto, del tutto casuale, a Milano di preziosi, sottratti a poca distanza dalla sua abitazione di Cogoleto. All’epoca dell’arresto l’imputato aveva fornito, oltre alla predetta giustificazione del possesso dei preziosi, anche un alibi per il 26 ottobre 1991, alibi che si è subito rivelato falso. Affermava, infatti, il Pietrolungo che quel giorno egli si trovava a Cetraro, dove con uno zio, con la moglie di questi e con degli amici si era recato al ristorante, fermandosi a conversare con Rubens Saraceno, gestore del locale. Sentito, il Saraceno confermava l’alibi del Pietrolungo, dichiarando però che questi era venuto da solo nel suo ristorante; il PM gli contestava le diverse dichiarazioni del Pietrolungo e il teste ribadiva che questi aveva pranzato e cenato da solo nel suo ristorante; per tali dichiarazioni veniva aperto un procedimento a carico del Saraceno per il reato di cui all’art. 378 cp. Al dibattimento, sia il Pietrolungo che il Saraceno hanno cercato di modificare le rispettive versioni, il primo sostenendo che non era andato al ristorante con amici, ma che aveva trovato lì persone da lui conosciute che mangiavano ad altri tavoli e il secondo affermando che non aveva seguito il Pietrolungo nella sala del ristorante, ma che aveva chiacchierato con lui in una saletta privata, prima che questi entrasse nella sala e non aveva quindi potuto vedere se era solo oppure in compagnia. Non si può evidentemente prestare fede neppure ora al Saraceno, dal momento che si è in presenza di un tentativo di far concordare versioni contrastanti; in nessun caso comunque le dichiarazioni dello stesso avrebbero potuto essere credute: egli infatti ha affermato con certezza la presenza del Pietrolungo a Cetraro nel giorno della rapina ad Arenzano, ma non è stato in grado di ricordare se quell’anno l’amico fosse stato in paese durante le vacanze estive o a Natale. Anche il Tripicchio ha fornito un alibi che non può essere creduto per il giorno della rapina. Prima di passare ad esaminarlo, si osserva che l’imputato, in


— 591 — sede di incidente probatorio, è stato riconosciuto con assoluta certezza dalle vittime della rapina, che avevano entrambi potuto vederlo a viso scoperto. Poiché la difesa ha molto insistito sul punto, si osserva che del predetto riconoscimento non può dubitarsi per il fatto che né il Matone né la Sivilotti, nel descrivere il rapinatore « col cappello da carabiniere » accennarono alla mancanza di un incisivo superiore. È vero che il Tripicchio ha tal caratteristica; essa tuttavia non venne notata dai predetti testi e ciò è facilmente comprensibile se si considera che la Sivilotti vide il rapinatore solo per un breve periodo di tempo, mentre il Matone, pur avendolo visto più a lungo (venne condotto dal rapinatore alla gioielleria e di lì di nuovo a casa) poté osservarlo soprattutto di profilo, quando era alla guida dell’auto; che, inoltre, è normale, in chi è privo di un dente, la tendenza a parlare senza aprire troppo le labbra, celando così istintivamente l’imperfezione (palese quando l’imputato ride o sorride, ma presumibilmente di ciò non vi fu occasione nel corso della rapina). A tale consistente elemento di prova se ne aggiungono altri. Vi sono, innanzitutto, le ripetute presenze, nell’ottobre e nel novembre del 1991, del Tripicchio in Liguria ed anche in Lombardia, sempre in compagnia del Pietrolungo. La cresima di un parente residente a Cambiago non pare motivo sufficiente a giustificare la presenza, accertata per ben due volte nell’autunno, nel ponente ligure di persona che con la famiglia risiede a mille chilometri di distanza. Inoltre, il Tripicchio ha fornito per il 26 ottobre 1991 un alibi tanto incredibile quanto quello del Pietrolungo. Anche lui, come il Pietrolungo, quel giorno si sarebbe trovato a Cetraro e con i coniugi Paletta sarebbe andato a raccogliere castagne nella vicina località Sant’Agata. I coniugi non ricordano se fu Tripicchio o la sua convivente a prendere accordi con loro per la gita a Sant’Agata; non ricordano che tempo facesse quel giorno; smentiscono il Tripicchio circa i mezzi con i quali andarono sul luogo della raccolta delle castagne (il Tripicchio sostiene che il Paletta viaggiava sul suo trattore, mentre lui portò la convivente e la moglie di Paletta, Rosa Sbarra, con la sua auto; il Paletta ha però detto che all’epoca non possedeva alcun trattore e che tutti viaggiarono sull’auto del Tripicchio); sono solo assolutamente certi che si trattava proprio del 26 ottobre 1991, anche se poi non riescono a ricordare con chi hanno trascorso il Natale del 1992; sostengono di poter affermare con certezza che il giorno in cui raccolsero castagne con Tripicchio era il 26 ottobre, perché si trattava di un sabato e perché la raccolta delle castagne avviene alla fine di ottobre. Ad essi non si può credere (come non si può credere, anche per lo stretto vincolo che la lega all’imputato a Paola Vattimo, convivente del Tripicchio), ma, anche se proprio non si volesse ritenere che hanno mentito, nulla consentirebbe di escludere che la raccolta di castagne abbia avuto luogo sabato 19 ottobre o sabato 2 novembre. In sintesi, il Pietrolungo è stato trovato in possesso di parte della refurtiva un mese e mezzo dopo il fatto e di tale possesso non ha fornito giustificazione plausibile; il Tripicchio è stato riconosciuto con certezza da entrambi le vittime della rapina (che non avevano ovviamente alcun motivo di mentire); il Pietrolungo e il Tripicchio si conoscevano e si frequentavano ed erano insieme nel ponente ligure nell’autunno del 1991; gli alibi forniti da entrambi per il giorno dei fatti si sono rivelati falsi.


— 592 — Non si può dunque dubitare della responsabilità degli imputati per i reati loro ascritti. In proposito deve tuttavia osservarsi, per quanto riguarda il reato di cui all’art. 630 cp. che esso è assorbito nel reato di rapina contestato sub c). Infatti, la Sivilotti venne effettivamente trattenuta dai rapinatori mentre il marito veniva condotto alla gioielleria dal Tripicchio, al fine di evitare che il Matone potesse giovarsi di qualche evento imprevisto per sottrarsi alla minaccia su di lui esercitata dall’imputato; è, tuttavia, evidente che tale minaccia venne direttamente esercitata per tutto il tempo necessario all’impossessamento dei gioielli e alla fuga dei rapinatori; in altri termini, indipendentemente dal sequestro della moglie, il Matone si trovò sempre in una situazione nella quale non poteva sottrarsi al volere dell’aggressore e la consegna dei gioielli non può in alcun modo ricollegarsi a un suo atto di volontà. Ciò porta ad escludere la configurabilità dell’estorsione, sussistendo invece i reati di rapina e di sequestro di persona, unificati dal vincolo della continuazione, con esclusione dell’estorsione che caratterizza il reato di cui all’art. 630 cp. Non vi sono motivi che consentano la concessione delle attenuanti generiche agli imputati: si è in presenza di un episodio particolarmente grave, per il tempo per il quale si sono protratti il sequestro e la minaccia, per il numero degli aggressori e per il tipo di organizzazione richiesta dalle modalità della rapina; inoltre, il comportamento processuale degli imputati, che non hanno esitato a ricorrere ad alibi falsi, inducendo così al mendacio altre persone, non può che essere valutato sfavorevolmente. Pertanto, ritenuta la continuazione tra i reati contestati e ritenuto quale reato più grave quello di cui al capo c), la pena viene determinata per entrambi in anni tredici di reclusione e L. 4.000.000 di multa (p.b.: anni dodici e L. 3.000.000, aumento ex art. 81 cp.). Alle pena come sopra inflitta conseguono le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena. — (Omissis).

—————— (1) Profili problematici sul rapporto tra fattispecie a tutela della libertà personale e delitto di rapina. SOMMARIO: 1. Il complesso quadro dei reati posti a tutela della libertà personale. - 2.1. Privazione della libertà personale finalizzata ad ottenere la collaborazione della vittima di una rapina: l’impostazione del Tribunale di Genova ed un’ipotesi di inquadramento alternativo. - 2.2. ...segue. — 3. Cenni sulla tutela della « libertà personale » nello Schema di legge-delega per un nuovo Codice penale.

1. In via preliminare, appare utile rilevare come la sentenza in epigrafe offra spunto per formulare alcune, seppure in questa sede necessariamente succinte, considerazioni in ordine alle disposizioni normative, nonché alle relative applicazioni giurisprudenziali, circa la tutela penale della libertà individuale dei consociati. L’esigenza di « fare il punto » sulla materia de qua scaturisce infatti dalla lettura della decisione del tribunale genovese, procedendo alla analisi della quale paiono emergere talune lacune nell’affrontare e risolvere il profilo relativo alla


— 593 — qualificazione giuridica della condotta di privazione della libertà ai danni di due coniugi proprietari di una gioielleria. Ciò posto, al fine di rendere intellegibile la motivazione che ci ha indotto ad operare una sintesi ricognitiva circa la tutela penale della libertà personale, sembra necessario sottolineare come l’assetto normativo relativo alle ipotesi penalistiche di tutela della libertà personale appaia ictu oculi caratterizzato dalla presenza di molteplici norme penali, alcune delle quali incriminatrici di condotte dotate di plurioffensività (così, con riferimento ai delitti dei pubblici ufficiali contro la libertà personale di cui agli artt. 606-609 C.P. (1), al delitto di cui all’art. 289 bis C.P., nonché, seppure il connotato di plurioffensività sembri progressivamente sfumare a vantaggio della preponderante tutela della libertà personale, il sequestro di persona a scopo di estorsione) (2). È dunque possibile rinvenire, all’interno del nostro ordinamento giuridico, i reati di sequestro di persona (art. 605 C.P.), di arresto illegale (art. 606 C.P.), indebita limitazione di libertà personale (art. 607 C.P.), abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 C.P.), nonché perquisizione ed ispezione personali arbitrarie (art. 609 C.P.), contenuti nella Sezione II (Dei delitti contro la libertà personale), del Capo III (Dei delitti contro la libertà individuale), del Titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona. Accanto al nucleo tradizionale delle fattispecie poste a tutela della libertà personale, è tuttavia necessario ricordare la presenza del sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione — introdotto con l. 18 maggio 1978, n. 191 —, nonché la fattispecie del sequestro di persona sorretto dal dolo specifico di profitto, di cui all’art. 630 C.P. Nel tentativo di fornire un quadro il più possibile esaustivo in ordine alla tutela penale della libertà personale — la cui definizione, tanto in ambito costituzionale (3), che in diritto penale (4), pone consistenti difficoltà all’interprete — pare necessario collocare all’interno della riferita categoria i delitti di ratto, almeno per quanto riguarda le ipotesi di ratto « proprio » di cui agli artt. 522-523 C.P. Infatti, se, come tradizionalmente si ritiene, oggettività giuridica dei delitti di ratto può rinvenirsi nella tutela della libertà sessuale, non può tuttavia negarsi la comprensione della medesima nell’ambito della più generale categoria della libertà personale, ciò che, se, da un lato, depone a favore della tesi sulla cui base si provvede ad inquadrare le ipotesi di cui agli artt. 522-523 C.P. nel panorama delle norme penali a tutela del riferito bene giuridico, dall’altro induce a sostenere l’inadeguatezza della soluzione accolta dal legislatore del 1930, il quale ha posto in essere, ingiustificatamente, a nostro sommesso avviso, una tutela differenziata del medesimo bene giuridico, in relazione alla sua titolarità, nonché al particolare dolo specifico che sorregge la condotta di ratto. Ricordate, seppure sommariamente, come ci è imposto in questa sede, le principali figure criminose a tutela della libertà personale presenti nel Codice penale, preme, a tal punto, spendere alcune considerazioni in ordine ad una fattispe-

(1) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Milano, 1986, 146. (2) DALIA, I sequestri di persona a scopo di estorsione terrorismo od eversione, Milano, 1982, passim; ID., Sequestro di persona a scopo di estorsione, in Enc. dir., XLII, 1990, 200; ID., Sequestro di persona a scopo di terrorismo od eversione, in Enc. dir., XLII, 1990, 219. (3) Per tutti, v. BARBERA, Principi costituzionali della libertà personale, Milano, 1971, 54 ss.; CARETTI, La libertà personale, in AA.VV., Libertà costituzionali e limiti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da Santaniello, vol. XII, Padova, 1990, 7 ss. (4) FLICK, Libertà individuale (delitti contro la), in Enc. dir., XXIV, 1974, 535.


— 594 — cie prevista nella legislazione speciale: con la legge 26 novembre 1985, n. 718 l’Italia ha infatti conferito esecuzione e ratifica alla Convenzione internazionale contro la cattura di ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979. La norma contenuta nella legge de qua, afferma che « Chiunque, fuori dai casi indicati negli artt. 289 bis e 630 del Codice penale, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica od una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da 25 a 30 anni. Si applicano i commi secondo, terzo, quarto e quinto dell’art. 289 bis del Codice penale. Se il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall’art. 605 del Codice penale aumentate dalla metà a due terzi ». Appare necessario affrontare l’esame della norma dell’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718, prendendo le mosse dall’individuazione della sfera di operatività della medesima, attesa la presenza di una clausola di riserva espressa (5) a favore degli artt. 289 bis e 630 C.P. Sembra dunque possibile individuare, sulla base del dolo che sorregge la condotta di sequestro di persona, una sorta di climax secondo il quale si realizzerà: 1) Sequestro di persona tout court allorquando la privazione della libertà personale ai danni di taluno sia posta in essere senza alcuna finalità specificamente tipizzata dalla legge (art. 605 C.P.); 2) Ratto (cfr. gli artt. 522-524 C.P.), qualora la condotta sia informata allo scopo di costringere la persona a tenere una condotta tipizzata dalla legge (fine di matrimonio o di libidine) (6); 3) Sequestro a scopo di estorsione, quando la condotta è sorretta dal dolo specifico di profitto; 4) Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, nel caso in cui il fine ultimo della condotta risulta consistere nel terrorismo ovvero nell’eversione dell’ordine democratico; 5) Cattura di ostaggi, di cui all’art. 3 legge 26 novembre 1985, n. 718, ove il dolo dell’agente possa rinvenirsi nel fine di costringere taluno a compiere o ad astenersi dal compiere qualsiasi, non meglio specificato atto (7). Per quanto riguarda la condotta incriminata dall’art. 3 legge 26 novembre 1985, n. 718, deve sottolinearsi come la privazione della libertà personale a danno di taluno sia strumentale rispetto alla coartazione della volontà del terzo: ciò emerge ictu oculi dalla circostanza che la condotta de qua si accompagna alla minaccia, rivolta verso il terzo dal quale s’intende ottenere una condotta attiva ovvero omissiva, di uccidere, ferire o continuare a tenere sequestrato il soggetto passivo.

(5) Per quanto riguarda la risoluzione dei conflitti apparenti tra norme incriminatrici da parte del legislatore attraverso apposite clausole di riserva, cfr., per tutti, MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, 475. (6) DALIA, Ratto, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 747. (7) PAGLIARO, Commento alla legge 26 novembre 1985, n. 718. Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura di ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979, in Leg. pen., 1986, 246.


— 595 — In altre parole, trattasi di ipotesi di sequestro di persona il cui dolo specifico è costituito dallo scopo di costringere taluno a fare od omettere qualcosa. Ciò posto, è doveroso interrogarsi ancora circa l’ambito di operatività della norma de qua, domandandosi — in particolare — se l’art. 3 legge 26 novembre 1985, n. 718, possa, almeno potenzialmente, trovare applicazione in ogni situazione connotata da una condotta di sequestro di persona sorretta dal dolo specifico di cui alla norma medesima, ovvero se l’applicabilità della norma de qua sia subordinata al realizzarsi di una condotta delittuosa caratterizzata dal requisito dell’internazionalità (8). Allo scopo di prospettare una soluzione esegetica in merito a tale profilo, sembra utile prendere in considerazione, comparandoli, da un lato, il tenore letterale della pertinente disposizione contenuta nella Convenzione internazionale contro la cattura di ostaggi (New York 1979), dall’altro quanto predisposto dall’art. 3 legge 26 novembre 1985, n. 718. L’art. 13 della Convenzione di New York prevede l’inapplicabilità delle disposizioni della convenzione medesima « se il reato viene commesso nel territorio di un solo Stato, l’ostaggio e l’autore presunto del reato sono cittadini di detto Stato e l’autore presunto del reato viene scoperto nel territorio » dello Stato medesimo; ciò induce decisamente a ritenere la necessaria « internazionalità » della vicenda. Tanto premesso, deve, di contro, negarsi la presenza di siffatto requisito per quanto concerne la disposizione dell’art. 3 legge 26 novembre 1985, n. 718, nella quale « la connotazione internazionale rimane in secondo piano, mentre prevale la finalità di tutelare la libertà fisica di ogni persona e la libertà morale di coloro, la volontà dei quali sarebbe forzata attraverso la minaccia di non liberare gli ostaggi » (9). Può dunque affermarsi che il legislatore italiano, allo scopo di garantire una più pregnante protezione della libertà personale rispetto a quanto previsto dalla Convenzione di New York, abbia provveduto, in sede di ratifica della stessa, ad eliminare la connotazione d’internazionalità della fattispecie trasfusa nell’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718. Taluno potrebbe essere, di contro, indotto a ritenere che l’omesso riferimento al carattere internazionale della vicenda sia piuttosto frutto di una involontaria svista del legislatore: tuttavia, anche ove s’intendesse accogliere tale prospettazione, sarebbe comunque doveroso dare applicazione alla norma sulla base del tenore letterale della medesima (10). Infine, va ricordato che, sotto il profilo sistematico, la presenza, nel nostro ordinamento, della norma ex art. 3 legge 26 novembre 1985, n. 718, consente all’interprete di ricondurre nel proprio ambito « naturale » il dolo specifico di profitto di cui all’art. 630 C.P. Infatti, ogni qualvolta il terzo sia costretto a compiere od omettere una condotta non suscettibile di valutazione in termini economici, la fattispecie di sequestro di persona andrebbe qualificata ai sensi dell’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718; con ciò sottraendosi ad interpretazioni (allo stato peraltro ingiustificate stante la presenza, nel nostro ordinamento, di tale norma) che conducono, inevitabilmente, a « snaturare » la nozione di profitto di cui all’art. 630 C.P.

(8) PAGLIARO, op. cit., 247. (9) PAGLIARO, op. cit., 247. (10) In ordine alle vicende relative ad esecuzione e ratifica dei trattati internazionali, v. CANNIZZARO, Trattato (adattamento al), in Enc. dir., XLIX, 1992, 1394.


— 596 — Accanto ad ipotesi nelle quali la condotta posta in essere dall’agente dovrebbe necessariamente ricomprendersi nell’ambito dell’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718, pena un’eccessiva dilatazione della categoria del dolo di profitto, sembra potersi individuare un ulteriore campo di operatività della norma in ipotesi, quale il caso dell’« Achille Lauro » — cui la norma risultò però inapplicabile ex art. 2 terzo comma C.P. — di fronte alle quali soltanto un’evidente forzatura della finalità di terrorismo od eversione di cui all’art. 289 bis C.P., renderebbe possibile qualificare tali condotte ai sensi di quest’ultima disposizione (11). 2. Quanto fin’ora riferito in ordine ad alcune importanti problematiche relative alla tutela del bene giuridico « libertà personale » nel nostro ordinamento, sembra costituire utile piattaforma sulla quale costruire l’esame della fattispecie concreta sottoposta alla nostra attenzione. La particolare articolazione fattuale della fattispecie oggetto di decisione da parte del giudice genovese impone di ripercorrere, seppure brevemente, i tratti più significativi della vicenda. Come si narra in sentenza, nelle ore serali, alcuni individui riuscirono ad introdursi, a mezzo di condotte connotate da inganno, all’interno dell’abitazione di un gioielliere, che ivi si trovava in compagnia della moglie. Apparso immediatamente chiaro il motivo dell’irruzione, i malviventi provvidero a rinchiudere gioielliere e consorte nella stanza da letto dell’abitazione, impedendo così a costoro di lasciare la stanza medesima. Qualche tempo dopo, secondo il piano prefissato, i malviventi si rivolsero al gioielliere domandandogli chiavi e combinazione della cassaforte custodita nei locali della gioielleria. Essi infatti sembravano determinati, come predisposto dall’originario piano delittuoso, a recarsi presso l’esercizio commerciale in compagnia del proprietario al fine di impossessarsi dei preziosi in quel luogo custoditi. Uno dei rapinatori persuase però i complici a mutare il piano criminoso dal momento che, a quell’ora della sera, le vie del paese risultarono ancora frequentate da numerosi passanti, che forse avrebbero potuto rilevare qualcosa di strano nel gruppetto composto dal noto gioielliere accompagnato da individui sconosciuti e, conseguentemente, avvertire dell’accaduto la Forza Pubblica. I rapinatori si determinarono dunque ad attendere un momento maggiormente propizio per il compimento dell’azione delittuosa; i coniugi furono così trattenuti, fino alle ore cinque della mattina successiva, all’interno della stanza da letto della loro abitazione. Non appena albeggiò il gioielliere fu costretto ad alzarsi, per accompagnare alcuni dei rapinatori presso la gioielleria, consegnando loro i valori in essa custoditi. Costoro decisero che, nel frattempo, la moglie del gioielliere avrebbe dovuto restare nell’appartamento in qualità di ostaggio. Ciò posto, tutto si svolse secondo le intenzioni dei rapinatori: essi conseguirono il possesso dei valori custoditi nella cassaforte, nonché del denaro e dei gioielli reperiti nell’abitazione, questi ultimi di esclusiva proprietà della moglie del gioielliere. Dapprincipio, può rivestire qualche utilità prospettare l’inquadramento giuri-

(11) RICCI, Delitti contro la personalità dello Stato e « terrorismo internazionale »: considerazioni sul caso Achille Lauro, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 651.


— 597 — dico che avrebbe dovuto essere conferito al fatto qualora fosse stato attuato, da parte dei rapinatori, il disegno criminoso che, inizialmente, costoro si prefissero di realizzare. Ove, non appena giunti nell’abitazione del gioielliere i rapinatori avessero provveduto a condurre costui, insieme alla moglie, presso la gioielleria allo scopo di impossessarsi immediatamente dei valori, non avrebbe potuto essere a costoro contestato che il reato di cui all’art. 628 cpv., n. 2, C.P. Infatti la privazione della libertà personale ai danni dei coniugi, costretti ad accompagnare i rapinatori presso il proprio esercizio commerciale avrebbe dovuto essere considerata, posta la strumentalità nonché la contenuta dilatazione temporale della privazione della libertà, quale semplice modalità esecutiva della rapina e, dunque, come dottrina (12) e giurisprudenza (13) unanimamente ritengono, sarebbe stata sussunta nel delitto di cui all’art. 628 cpv. n. 2 C.P. Perplessità sarebbero, di contro, sorte nel caso in cui la moglie fosse stata trattenuta all’interno dell’abitazione durante il tempo in cui il marito, in « in compagnia » dei malviventi, si fosse recato in gioielleria al fine di consegnare quanto richiesto dai rapinatori. In tal caso, infatti, la coartazione della volontà del marito non sarebbe verosimilmente stata esclusivo risultato delle minacce rivoltegli dai rapinatori bensì, unitamente a tale minaccia, avrebbe giocato un ruolo determinante la circostanza che la moglie veniva tenuta in ostaggio dai rapinatori. Sotto il profilo penale, quanto riferito può tradursi nella configurabilità, a carico dei soggetti attivi della condotta, del delitto di cui all’art. 630 C.P.: la privazione della libertà personale a danno della moglie avrebbe infatti potuto ritenersi sorretta dal dolo specifico di profitto in quanto la liberazione di costei sarebbe apparsa subordinata al conseguimento del possesso dei gioielli in capo ai rapinatori. Tornando all’esame degli accadimenti realmente verificatisi, è doveroso nuovamente sottolineare la particolare complessità della fattispecie de qua, in relazione alle ipotesi sopra prospettate. Sembra utile, al fine di una migliore comprensione dell’accaduto, suddividere la vicenda in base ai diversi segmenti temporali di cui essa pare essersi composta. Nella prima fase della condotta criminosa è ravvisabile a danno dei coniugi proprietari della gioielleria il sequestro di persona « semplice » ex art. 605 C.P. In particolare, posta la duplice violazione, tramite un’unica azione, della medesima norma di legge (art. 605 C.P.), deve concludersi per la configurabilità del concorso formale di reati ove si ponga mente alla natura altamente personale del bene giuridico « libertà personale » (14). Quanto riferito costituisce diretta applicazione dei menzionati principi in ordine ai rapporti tra il delitto di rapina ed il reato di sequestro di persona. Infatti la privazione della libertà personale a danno dei coniugi posta in essere anteriormente all’impossessamento dei valori custoditi nella cassaforte non può ritenersi semplicemente configurare la circostanza aggravante di cui all’art. 628 cpv. C.P.; di contro, ci si trova di fronte ad una situazione caratterizzata dal fatto che la privazione della libertà personale ha apprezzabilmente preceduto la con-

(12) DALIA, Arresto e sequestro illegale, cit., 198. (13) Fra le molte, v. Cass. Sez. II, 16 maggio 1990, in Cass. pen., 1992, 1518. (14) MANTOVANI, op. cit., 467.


— 598 — dotta volta ad attuare la rapina e, dunque, non è possibile sia considerata quale semplice modalità di esecuzione della rapina medesima (15). Per quanto riguarda l’esaminato profilo va dunque accolta la decisione dei giudici di merito che, infatti, sono pervenuti a ravvisare la sussistenza degli estremi del reato di cui all’art. 605 C.P. Problema ulteriore, di ardua soluzione per l’interprete è costituito dalla qualificazione della condotta successiva posta in essere dai malviventi nel momento in cui si determinarono da un lato, a condurre il gioielliere presso l’esercizio commerciale al già ricordato scopo di impossessarsi dei valori ivi contenuti, dall’altro a trattenerne la moglie in ostaggio all’interno dell’abitazione. In ordine alla condotta de qua fu richiesta dalla pubblica accusa la condanna per il delitto di cui all’art. 630 C.P., in concorso materiale con la rapina aggravata. Va sottolineata altresì la richiesta, compiuta in sede di formulazione delle conclusioni, di integrazione dell’imputazione con il delitto di cui all’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718. Ciò posto, va fin d’ora ricordato che il tribunale genovese è pervenuto ad una soluzione parzialmente difforme rispetto alle imputazioni de quibus. Infatti si è esclusa la configurabilità tanto del sequestro di persona a scopo di estorsione, quanto del delitto di presa d’ostaggio, pervenendo dunque a condannare gli imputati dei reati, uniti dal vincolo della continuazione, di cui agli artt. 605-628 C.P. Sembra utile prendere in esame, in via preliminare, l’iter argomentativo seguito dai giudici genovesi nell’approdare alla decisione. A fronte dell’incriminazione ex art. 630 C.P., sostenuta sulla base del fatto che la liberazione della moglie del gioielliere è stata subordinata al conseguimento dei valori detenuti in cassaforte, la motivazione della sentenza in epigrafe adduce, a sommesso avviso di chi scrive, argomenti che sotto il profilo logico-giuridico si appalesano non condivisibili. Infatti in sentenza si afferma testualmente che « per quanto riguarda il reato di cui all’art. 630 C.P., esso è assorbito nel reato di rapina ». Il tribunale, chiamato a giudicare della condotta degli imputati sostanziatasi nel conseguimento di profitto ingiusto in seguito, da un lato, alla coercizione esercitata sul gioielliere, dall’altro alla privazione della libertà personale a danno della moglie, sembra fare ricorso, pur omettendo qualsiasi espresso riferimento, al criterio di soluzione dei conflitti apparenti di norme denominato ne bis in idem sostanziale, rectius, al principio di consunzione che di tale criterio rappresenta espressione. Secondo autorevole dottrina (16), la cui opinione trova accoglimento in alcune pronunce giudiziali (17), la materia del conflitto apparente di norme penali — ossia della situazione in cui, a fronte di un fatto criminoso, l’interprete, sebbene in astratto una pluralità di norme incriminatrici appaia applicabile al fatto medesimo, ritenga di contro di dare esclusiva applicazione ad una di esse — non è suscettibile di trovare esclusiva soluzione nella norma dell’art. 15 C.P.

(15) Cass. Sez. II, 16 maggio 1990, cit. (16) MANTOVANI, op. cit., 475; ROMANO, Commentario, sistematico al Codice penale, I, Milano, 1987, 143; FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale. Parte generale, Bologna, 1989, 508. (17) Cass. 6 aprile 1964, in Giust. pen., 1964, II, 977; Cass. 18 novembre 1971, in Mass. Cass. pen. 1972, 1932; Cass. 26 febbraio 1970, in Foro it., 1970, II, 95; Cass. 23 marzo 1979, in Mass. Cass. pen., 1980, 522.


— 599 — Infatti, presupposto indefettibile per l’operatività dell’art. 15 C.P. è costituito dall’esistenza, tra le norme astrattamente riconducibili al fatto commesso, di un rapporto denominato di « specialità » che può ritenersi sussistere qualora alla norma generale si riferiscano tutte le ipotesi comprese nella norma speciale, mentre non accade il contrario, posto che non è vero che ogni caso ricompreso nella norma generale sia contemporaneamente contenuto anche nella norma speciale. Ciò posto, nel caso in cui, dunque, l’interprete abbia ravvisato un rapporto di genere a specie tra più norme penali in concorso — che risulti essere apparente — egli potrà ricorrere alla norma di cui all’art. 15 C.P., attribuendo in tal modo applicazione alla norma penale speciale rispetto a quella generale. Omettendo di fare considerazioni in ordine alla ratio nonché all’utilità ed operatività pratica del principio di cui all’art. 15 C.P., preme, di contro, riflettere, in relazione alla stretta connessione con alcune affermazioni contenute nella sentenza in epigrafe, circa i criteri elaborati da autorevole dottrina in ordine alla soluzione di ipotesi di concorso apparente. Accanto al principio di specialità, che, da solo, non permette di risolvere quei casi in cui le fattispecie non si presentino in relazione di genere a specie, sono stati dunque individuati due criteri residuali denominati principio di sussidiarietà e di consunzione. Brevemente: per quanto riguarda il principio di sussidiarietà, esso indica « la disponibilità vicaria della norma, il suo intervento legato alla concreta non utilizzabilità di altra norma, il prevalere di quest’ultima sulla prima » (18). Al fine di evitare un’eccessiva operatività del criterio di sussidiarietà, che, da un lato, tende ad occupare gli spazi propri del principio di specialità, dall’altro andrebbe ad operare nelle ipotesi in cui una norma penale esaurisce già di per sé l’intero disvalore del fatto, alcuni autori fanno ricorso al principio di consunzione altrimenti detto di assorbimento il quale, fondandosi sul principio del ne bis in idem sostanziale, da autorevole dottrina (19) ritenuto immanente nel sistema, consente di risolvere nel senso del concorso apparente ipotesi in cui più norme — di regola incriminatrici — appaiono contemporaneamente applicabili ad un fatto criminoso, ma soltanto una di esse deve trovare applicazione contenendo in sé l’intero disvalore, tanto sotto il profilo oggettivo, che sotto il profilo soggettivo, del fatto commesso. In tal caso, l’esclusiva applicazione della norma più grave esaurisce l’intero disvalore del fatto, posto che in essa si ritiene assorbita l’offesa arrecata a mezzo della violazione della norma penale di minore gravità. 2.2. Quanto fin’ora riferito appare inquadramento, seppure necessariamente sintetico, utile al fine di un corretto esame della fattispecie concreta sottoposta alla nostra attenzione. Come si è infatti già avuto modo di sottolineare, il tribunale ha motivato l’esclusione del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione ritenendolo assorbito nel reato di rapina. Preme, a tal punto, evidenziare come l’erroneità di tale affermazione si applesi sotto molteplici profili. Innanzi tutto, va ricordato che presupposto indefettibile del concorso appa-

(18) ROMANO, op. cit., 153; DE FRANCESCO, Concorso apparente di norme, in Dig. disc. pen., II, 1988, 416. (19) MANTOVANI, op. cit., 469.


— 600 — rente di norme, come, più in generale, della teoria del concorso formale di reati — sia esso dunque concorso apparente ovvero reale di norme — è costituito dall’unità dell’azione posta in essere dall’agente. Nell’ambito di un’azione caratterizzata dal requisito dell’unitarietà, è dato all’interprete, qualora più norme penali appaiano astrattamente applicabili alla fattispecie concreta, sciogliere il nodo interpretativo nel senso dell’individuazione del concorso apparente di norme — a seguito dell’operatività dei principi di specialità, sussidiarietà, consunzione oppure, sulla base dell’accoglimento di teorie « monistiche » (20) dell’esclusivo utilizzo del criterio del ne bis in idem sostanziale — ovvero, di contro, qualificando il concorso come reale, ossia quale concorso formale di reati. Nel caso in cui non sia possibile rinvenire un’azione unitaria, nulla quaestio. Si escluderà, infatti, a priori l’eventualità di trovarsi di fronte ad un concorso sia apparente che reale di norme, aprendosi, di contro, la prospettiva del concorso materiale di reati. Ciò premesso, l’individuazione di un’azione unitaria è subordinata al requisito della contestualità degli atti compiuti dall’agente nonché, come autorevole dottrina ritiene essenziale, al presupposto della lesione dello stesso bene giuridico realizzata attraverso gli atti medesimi. Rilevata la presenza dei riferiti presupposti all’interprete si porrà la soluzione dell’ulteriore problema di verificare l’unicità ovvero la pluralità di reati nella condotta dell’agente. Come la dottrina va da tempo affermando (21) la configurazione di una pluralità di reati è fuori di dubbio qualora, attraverso una medesima azione, sia violata una norma incriminatrice posta a tutela di beni altamente personali (quali vita, libertà personale, integrità fisica, onore) ove facciano capo a più soggetti passivi. A contrariis, si ritiene in dottrina realizzato un unico reato nel caso in cui venga posta in essere, attraverso un’azione unitaria, la lesione di beni giuridici a carattere non personale, quale, per esempio, il patrimonio, anche ove il bene giuridico medesimo faccia capo ad una pluralità di soggetti passivi (22). Ciò posto, per tornare alla sentenza in epigrafe, sembra doveroso negare decisamente che l’attività compiuta dai malviventi sia caratterizzata nel senso dell’unitarietà, essendo assente tanto l’unità di tempo, quanto l’unità di luogo nell’attività medesima. Inoltre, è necessario evidenziare la natura altamente personale del bene « libertà personale », ciò che induce ad escludere pure la sussistenza del secondo presupposto per la configurabilità di un’azione unitaria. Detto questo, anche nel caso in cui si ipotizzasse la compresenza, nella fattispecie concreta, dei ricordati presupposti del concorso apparente di norme, grave errore logico-giuridico risulterebbe comunque avere inficiato la decisione in esame. In seguito, infatti, all’applicazione del principio di consunzione altrimenti de-

(20) MANTOVANI, op. cit., 164. (21) MANTOVANI, op. cit., 164; FIANDACA-MUSCO, op. cit., 492. (22) Nel senso che l’impossessamento di un oggetto appartenente a più soggetti passivi costituisce unico furto, cfr. Cass. Sez. Un., 3 luglio 1971, in Mass. Cass. pen., 1971, 1537; contra, qualora l’impossessamento abbia avuto ad oggetto più cose in proprietà di diversi soggetti passivi, v. Cass. Sez. II, 1981, in Cass. pen., 1983, 1318.


— 601 — nominato di assorbimento, il tribunale ha infatti ritenuto di trovarsi di fronte ad un’ipotesi di concorso apparente di norme penali; ulteriore problema consiste nell’individuare quale, tra le norme in concorso, risulti applicabile alla fattispecie concreta. La dottrina (23) fornisce, quale criterio per l’individuazione della norma prevalente, il parametro del trattamento penale più severo, il quale trova, di regola, fondamento nelle diverse comminatorie edittali previste per i singoli reati ovvero, qualora queste ultime non vengano in soccorso all’interprete, nell’esame comparato dei beni giuridici tutelati dalle norme in concorso apparente. Ciò posto, emerge ictu oculi l’erronea applicazione, anche sotto il profilo ora in esame, del principio di consunzione da parte dei giudici genovesi. Infatti, lungi dall’applicare la norma incriminatrice che prevede il trattamento penale più severo — naturaliter, l’art. 630 C.P. — il tribunale ha, di contro, concluso per l’esclusiva operatività dell’art. 628 C.P. Un’ulteriore osservazione va formulata al fine di una migliore comprensione della fattispecie sottoposta alla nostra attenzione. Con riferimento al meccanismo dell’assorbimento della norma incriminatrice meno grave nell’ambito della norma che contempla il trattamento sanzionatorio più rigoroso, va sottolineato che ovviamente, una volta accertata la presenza del concorso apparente tra le norme incriminatrici astrattamente riconducibili alla fattispecie concreta, la norma caratterizzata da minore severità sarà, nel suo complesso, interamente assorbita dalla norma più rigorosa. Il riferito procedimento logico-giuridico non pare però essere stato seguito nella fattispecie in esame. Sembra, a sommesso avviso di chi scrive, che il tribunale abbia operato, per così dire, un’applicazione parziale del principio di consunzione, posto che, come risulta dalla sentenza in epigrafe, il sequestro ai danni della moglie non risulta — e non potrebbe essere diversamente — assorbito in toto nel reato di rapina. In altre parole, si è fatto ricorso al principio di consunzione al fine di affermare soltanto l’assorbimento dell’elemento soggettivo della fattispecie ossia del dolo specifico di profitto, nell’ambito del reato di rapina e non anche, come richiede dottrina unanime, tanto dell’elemento soggettivo, quanto di quello oggettivo del reato di cui all’art. 630 C.P. D’altra parte, a riprova della prospettata ricostruzione depone, come si è già accennato, la condanna degli imputati per sequestro di persona perpetrato ai danni della moglie del gioielliere, prolungatosi ulteriormente rispetto alla privazione subita dal marito. Sembra dunque che il tribunale avrebbe dovuto pervenire alla condanna degli imputati per i reati, uniti dal vincolo della continuazione (art. 81 cpv. C.P.), di cui agli artt. 630, 605, 628 C.P., atteso, per inciso, che la privazione della libertà patita dai coniugi nella notte precedente alla rapina non può ritenersi assorbita, come già evidenziato, nella rapina non risultando qualificabile come semplice modalità esecutiva di quest’ultima. Deve, al contrario, respingersi la tesi del giudice genovese secondo cui « indipendentemente dal sequestro della moglie il Matone si trovò sempre in una situazione nella quale non poteva sottrarsi al volere dell’aggressore e la consegna dei gioielli non può in alcun modo ricollegarsi a un suo atto di volontà ».

(23)

Per tutti, cfr. FIANDACA-MUSCO, op. cit., 509.


— 602 — Il tribunale pare, tra l’altro, contraddirsi sul punto in esame dal momento che, immediatamente prima della riferita affermazione, sostiene che la moglie fu trattenuta dai rapinatori al fine di evitare che il marito potesse loro sfuggire. A poco vale, dunque, affermare che l’esercizio della condotta minacciosa direttamente contro il gioielliere abbia consentito, indipendentemente dal ruolo di ostaggio esercitato dalla moglie, di ottenere la consegna dei preziosi. Infatti, l’aver trattenuto la moglie all’interno dell’abitazione ha costituito un indubbio rafforzamento della posizione dei rapinatori, in quanto per nessun motivo, anche ove se ne fosse presentata l’opportunità, il marito avrebbe tentato di sfuggire ai rapinatori mentre la moglie sarebbe comunque restata nella mani di costoro. Non può tacersi che l’esclusione del reato di cui all’art. 630 C.P. come si è poco sopra riferito, trova forse fondamento e motivazione nella volontà, che pare indirettamente trasparire dalla pronuncia dei giudici genovesi, volta ad evitare la condanna dei responsabili del fatto per due reati sorretti dal medesimo dolo specifico di profitto. Resta però fermo che, seguendo tale interpretazione si è completamente omesso di considerare, sotto il profilo giuridico, il rafforzamento della posizione dei malviventi a seguito della costrizione della moglie durante il tempo in cui il marito fu condotto alla gioielleria. Il dolo specifico che ha sorretto la condotta di ulteriore privazione della libertà personale a danno della moglie sembra meglio attagliarsi, in verità, alla struttura soggettiva del reato di cattura di ostaggio di cui all’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718. Infatti, come si è già ricordato (24), il dolo specifico del delitto in esame consiste nel costringere un terzo a compiere qualsiasi atto o ad astenersene, ciò che sembra essere accaduto nella fattispecie de qua, dove la liberazione della moglie è stata subordinata alla consegna da parte del marito dei valori custoditi nella gioielleria. Deve dunque escludersi, qualora la privazione della libertà personale sia subordinata al perseguimento di tale precipua finalità, la configurabilità del sequestro di persona « semplice », incriminazione residuale ove una norma speciale sia prevista dall’ordinamento giuridico. La presenza di un particolare dolo specifico, costituito dal fine di ottenere una certa condotta, attiva od omissiva, dal terzo rende infatti nell’opinione del legislatore, l’attività criminosa dotata di maggiore offensività rispetto alla semplice privazione della libertà personale a danno di taluno. Nel caso in ispecie non può essere dunque ignorato che la condotta di sequestro sia stata finalizzata ad ottenere un comportamento maggiormente « accomodante » da parte del gioielliere e, conseguentemente, la condotta non può essere inquadrata nell’art. 605 C.P. Parimenti, deve altresì escludersi la qualificazione della condotta nell’ambito dell’art. 630 C.P., posto che la privazione della libertà personale a danno della moglie risulta strumentale, non tanto rispetto al conseguimento del profitto — risultato di agevole perseguimento già sulla base dell’attività crimonosa compiuta a danno dello stesso gioielliere — quanto allo scopo di garantirsi, sia per la durata dell’operazione, sia successivamente all’avvenuto impossessamento della refurtiva, a fronte di una possibile fuga del gioielliere.

(24)

Vedi supra, par. I.


— 603 — Quanto premesso in ordine alla ravvisabilità del reato di cattura di ostaggi, risulta peraltro avvalorato dalla circostanza che, sulla base della vigente legislazione in materia, l’applicazione della norma di cui all’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718 lungi dall’essere subordinata alla caratterizzazione internazionale della vicenda, può, di contro, altresì avvenire ove la condotta criminosa abbia ricevuto intero compimento all’interno del nostro Paese, nonché abbia avuto a protagonisti esclusivamente cittadini italiani. In conclusione, sembra doveroso ribadire come l’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718 costituisca utile strumento per garantire efficace tutela alla libertà personale in ipotesi in cui la lesione del bene medesimo, risultando sorretta da un particolare dolo specifico, renda necessaria un’energica risposta sanzionatoria (25). D’altro canto, il potenziamento dell’operatività della norma in esame se, come si è detto, può contribuire ad una più salda tutela del bene « libertà personale » rappresenta al contempo valido ausilio al fine di ricondurre nei propri confini naturali il dolo di profitto di cui all’art. 630 C.P., la cui nozione risulta, soprattutto nell’applicazione giurisprudenziale, spesso oltremodo dilatata fino a ricomprendervi ipotesi con esso concettualmente incompatibili. 3. Collocati nell’ambito della più generale categoria dei reati contro la libertà, accanto ai reati contro la libertà morale ed ai reati contro la libertà sessuale, i reati contro la libertà personale hanno subìto, nello Schema di legge-delega per un nuovo Codice penale (26), alcune importanti innovazioni. Va innanzi tutto sottolineata la rinnovata attenzione del legislatore penale nei confronti della tutela della persona, nonché, conseguentemente, dei beni giuridici ad essa facenti capo, ciò che emerge ictu oculi dalla circostanza che il Libro Primo del nuovo Codice penale dovrà essere riservato, nell’intenzione dei redattori dello Schema di legge-delega, alle fattispecie penali a tutela della persona fisica. Il Titolo V del Libro I verrà dedicato ai reati contro la libertà, al cui interno il Capo I — come si è peraltro già ricordato — conterrà le norme a tutela della libertà personale. La fattispecie « cardine » del sistema di reati a tutela della libertà personale, è previsto debba restare, com’è ovvio, il sequestro di persona, per il quale dovranno essere contemplate, quali circostanze aggravanti speciali, l’essere il fatto commesso: a) da un pubblico agente in danno di persona minore d’età, o malata di mente o che versi in condizione di inferiorità fisica o psichica, o sia stata affidata al colpevole per ragioni di cura, di vigilanza o di custodia; b) da un pubblico agente con abuso di poteri inerenti alle sue mansioni; c) per scopi sessuali o per costringere al matrimonio la persona offesa. Accanto al sequestro di persona « semplice », dovrà essere altresì previsto il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, correttamente collocato nell’ambito dei delitti contro la persona, a differenza della previsione contenuta nel Codice Rocco, che poneva, di contro, il reato de quo nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, ritenendo prevalente l’offesa arrecata al patrimonio del soggetto

(25) (26)

Vedi supra, par. I. V. Documenti Giustizia, 1992, n. 3.


— 604 — passivo ovvero del terzo, rispetto alla lesione del bene giuridico « libertà personale » (27). Ciò posto, a completare la rosa dei delitti contro la libertà personale residuano, nell’intenzione dei compilatori dello Schema di legge-delega, i reati di arresto arbitrario, nonché di perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie. Già ad una superficiale analisi delle direttive offerte al legislatore delegato dallo Schema di legge-delega è possibile formulare alcune considerazioni in ordine al differente assetto conferito al sistema dei delitti contro la libertà personale da parte dei redattori dello Schema medesimo. Innanzi tutto, è ravvisabile la tendenza, da un lato, alla semplificazione del quadro normativo di riferimento, dall’altro una precisa volontà di attribuire più pregnante tutela al bene giuridico de quo. Per quanto riguarda il primo aspetto, lo si reperisce, ad esempio, nell’espunzione delle norme relative all’incriminazione dell’indebita limitazione di libertà personale (art. 607 C.P.) nonché dell’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 C.P.). Lungi però dal rendere penalmente lecite le condotte ricomprese, nella vigenza del Codice Rocco, all’interno degli artt. 607-608 C.P., il legislatore delegato dovrà, nell’opinione dei compilatori della legge-delega, provvedere a disporre, nel quadro del generale delitto di sequestro di persona, circostanze aggravanti speciali relative alle ipotesi anteriormente oggetto di specifiche disposizioni incriminatrici. Laddove avvenga la lesione, in seguito a condotte oggi sanzionate sulla base degli artt. 607-608 C.P., del bene giuridico « libertà personale » ad opera di soggetti attivi qualificati, tali condotte dovrebbero essere colpite con sanzioni maggiormente rigorose rispetto all’ipotesi in cui il sequestro venga realizzato da individui non qualificati, sulla base di una scelta legislativa di segno opposto rispetto a quanto previsto nel vigente Codice penale, secondo il quale il reato proprio del pubblico ufficiale contro la libertà personale di persone affidate alla sua custodia o vigilanza gode di un più favorevole trattamento sanzionatorio rispetto al sequestro di persona « semplice » (28). Dunque, il sequestro di persona si presenterà nella forma aggravata qualora soggetto attivo sia un pubblico agente, che agisca in danno di persona minore d’età, malata di mente, o che versi in condizione d’inferiorità fisica o psichica: ciò ove l’agente non abbia fatto uso dei poteri inerenti la propria funzione. La particolare qualifica del soggetto attivo quale pubblico agente, sarà inoltre causa dell’applicazione di un aggravamento di pena qualora la condotta di sequestro sia posta in essere nei confronti di persone affidate a costui per ragione di istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero sia avvenuta con abuso di poteri relativi alle proprie funzioni. Di notevole momento appare, accanto alle riferite modifiche in tema di privazione della libertà personale compiuta da soggetto qualificato, la collocazione dei delitti di ratto nell’ambito del sequestro di persona, previsti quali forme aggravate di quest’ultimo. Come da tempo sostenuto in dottrina (29), oggettività giuridica del delitto di ratto va individuata non tanto nella tutela della libertà sessuale, come emerge

(27) Vedi supra, par. I. (28) ANTOLISEI, op. cit., 146. (29) DALIA, Ratto, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 745.


— 605 — dalla sedes materiae — Titolo IX del Codice Rocco dedicato ai delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume — che tali reati possiedono nel vigente Codice penale, quanto del bene primario di riferimento, rinvenibile nella libertà personale. Posto che la direttiva 69 lett. c) dello schema di legge-delega omette qualsiasi riferimento, per quanto concerne i soggetti passivi del reato di sequestro di persona aggravato dalla finalità di perseguire scopi sessuali o per costringere al matrimonio la persona offesa, al sesso di costoro, sembra potersi ricavare, mediatamente, l’applicazione di detta norma tanto quando soggetto passivo sia persona di sesso femminile, quanto nel caso in cui si tratti di individuo di sesso maschile. Ciò posto, va detto che le disposizioni normative fin’ora esaminate non esauriscono l’ambito delle incriminazioni che il Codice penale dovrà contenere a tutela della libertà personale. Il bene giuridico de quo sembra infatti oggetto di concorrente tutela in seno ai reati « contro la comunità » (Libro III dello Schema), in particolare all’interno dei reati contro le genti (Titolo I). Dall’esame delle riferite fattispecie normative si prevede l’inserimento nel futuro codice del reato di cattura di ostaggi — consistente nel fatto di chi cattura o trattiene uno o più ostaggi per indurre l’organo di un ente internazionale di uno Stato o di un ente pubblico, a fare od omettere qualche cosa — nonché del reato di dirottamento (dirottare, con sequestro di persone, un mezzo di trasporto oltre i confini di uno Stato). La struttura che il reato di cattura di ostaggi presumibilmente presenterà nel nuovo Codice penale sembra alquanto differente rispetto all’attuale previsione di cui all’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718: infatti il reato sarà necessariamente connotato dal profilo dell’internazionalità della vicenda criminosa. La riferita caratteristica, se, da un lato, ricondurrebbe il reato di cattura di ostaggi nel proprio naturale alveo, dall’altro non sembra comunque ad oggi elemento in grado di inficiare l’interpretazione che autorevole dottrina (30) ha fornito dell’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718, norma che attualmente pare dunque suscettibile di trovare applicazione nei confronti (anche) di vicende esauritesi totalmente all’interno del nostro Paese. Come infatti risulta dalla relazione di accompagnamento al Progetto, si è inteso evidenziare, collocando la presa di ostaggi nell’ambito dei reati contro le genti, l’esigenza di introdurre nel tessuto codicistico figure criminose volte a colpire condotte cui spesso viene fatto ricorso quali mezzi di lotta politica o di ricatto verso gli Stati o altre comunità politicamente organizzate. Conseguentemente, si è scelto di limitare l’ambito dei soggetti passivi del reato, rectius, di coloro nei cui confronti la condotta di sequestro dovrebbe importare il compimento ovvero l’omissione di un’attività richiesta dal sequestratore ad Enti internazionali, Stati, ovvero Enti pubblici. Bene giuridico primariamente tutelato dalla norma risulta, nelle previsioni dei compilatori del Progetto, la libertà politica degli Stati e dei restanti soggetti indicati nella disposizione in esame, mentre, di contro, resterebbe in secondo piano la libertà personale dei consociati, benché oggetto di concorrente tutela. Si giunge perciò ad escludere, rispetto a quanto previsto dalla norma di cui all’art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718 — nonché in relazione all’art. 1 della

(30)

PAGLIARO, op. cit., passim.


— 606 — Convenzione di New York sulla cattura di ostaggi del 18 dicembre 1979 — la rilevanza della condotta ai sensi della riferita disposizione, quando l’induzione a compiere ovvero ad omettere una certa attività sia rivolta ad un privato cittadino. Nel caso in cui, ad esempio, Tizio rapisca il figlio al fine di ottenere un determinato comportamento dalla moglie, la condotta non sarà qualificabile alla luce del reato di presa d’ostaggio, tanto ove la moglie sia cittadina italiana, quanto allorché si tratti di cittadina straniera. La rinnovata struttura conferita dalla direttiva di cui all’art. 96 n. 4 del L. III del Progetto comporterebbe, se recepita nel nuovo Codice penale, la conseguente, residua qualificazione di condotte del tipo sopra riferito nell’ambito del sequestro di persona. Ciò considerato, potrebbero però riproprorsi all’interprete le note difficoltà connesse alla delimitazione del dolo specifico di profitto, allorché la finalità che sorregge la condotta non presentasse alcuna connotazione patrimoniale. Il ricorso all’art. 630 C.P. costituirebbe infatti un’evidente forzatura, poiché si tratterebbe di un’utilizzazione mirata a colmare una grave aporia del sistema. All’interprete sarà dunque dato di qualificare condotte quale la sopra riferita, in alternativa, come sequestro di persona a scopo di estorsione ovvero sequestro « semplice ». Conseguentemente, nella prima ipotesi si giungerà ad un’eccessiva dilatazione dell’ambito applicativo della norma, in contrasto con il principio di legalità; nella seconda si rischierà invece di fornire una risposta sanzionatoria inadeguata all’offensività della condotta realizzata. Tutto ciò considerato, sembra utile prospettare quali conseguenze importerebbe la differente disciplina del reato di cattura d’ostaggi prospettata nel Progetto. Sulla base delle disposizioni contenute nella Convenzione di New York, il legislatore potrebbe conservare una norma incriminatrice analoga alla vigente, salvo introdurre, come la Convenzione prevede, il requisito dell’internazionalità della vicenda, che diverrebbe in tal modo presupposto indefettibile per l’applicabilità della disciplina de qua. Da un lato, la norma potrebbe operare, parimenti a quanto attualmente avviene, allorché oggetto del ricatto sia (anche) una persona fisica, dall’altro non sarebbe ravvisabile la violazione della norma ove la vicenda si sia interamente svolta all’interno di un solo Stato. In tal caso, assumendo che il reato de quo presenti la medesima obbiettività giuridica tanto se la condotta possieda connotazione esclusivamente nazionale, quanto ove sia presente il requisito dell’internazionalità, sembra profilarsi contrasto di una siffatta norma rispetto all’art. 3 Cost., apparendo irragionevole ed immotivata la scelta di disporre una differente risposta sanzionatoria al verificarsi di fatti di pari offensività. Posto l’eventuale conflitto di una disposizione così strutturata nei confronti dell’art. 3 Cost., pare interessante interrogarsi — per pura curiosità scientifica dato che l’ipotizzata norma non costituisce diritto vivente — circa il possibile esito che un intervento della Corte costituzionale potrebbe produrre. Con riferimento al passato, anche recente, va ricordata l’esistenza di un orientamento piuttosto restrittivo della giurisprudenza costituzionale nell’accogliere le questioni fondate sulla violazione, da parte di norme penali, dell’art. 3 Cost.


— 607 — Emblematica si rivela così la vicenda relativa alla legge (31) 8 febbraio 1948, n. 47 (con precipuo riferimento agli artt. 1, 9, 12, 13) che, anteriormente all’emanazione della legge 6 agosto 1990, n. 223, è stata oggetto di svariate pronunce della Corte costituzionale, rilevato il contrasto, ad opera dei giudici a quibus, delle citate norme in relazione al parametro dell’art. 3 Cost. Ebbene, nonostante l’evidente disparità nel trattamento sanzionatorio di fattispecie omogenee apparisse in violazione del principio di uguaglianza, la Corte costituzionale si è ostinata a negare la fondatezza della questione, trincerandosi dietro al principio di discrezionalità dell’attività legislativa (32). È doveroso sottolineare, al riguardo, un mutamento in atto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che pare diversamente orientarsi rispetto al passato (33): è accaduto infatti che, in tema di oltraggio, sia stata dichiarata la parziale incostituzionalità dell’art. 341, comma 1 C.P., con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per sei mesi. Quanto riferito induce a ben sperare per il caso in cui, in futuro, accada che siano emanate norme incriminatrici in contrasto con l’art. 3 Cost.: si potrebbe, sulla base dei più recenti orientamenti della Corte costituzionale, a buon titolo sperare in un salvifico intervento della medesima. Dott. MARIA EUGENIA OGGERO Dottoranda di ricerca nell’Istituto di Diritto e Procedura Penale dell’Università di Genova

(31) Legge 8 febbraio 1948, n. 47 contenente disposizioni sulla stampa; in particolare, l’art. 13 colpisce con sanzioni maggiormente rigorose rispetto alle previsioni dell’art. 595 C.P., il reato di diffamazione consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, ove commesso con il mezzo della stampa. (32) Corte cost., 20 gennaio 1977, n. 42, in Giur. cost., 1977, 154; Corte cost., 11 dicembre 1985, n. 330, in Giur. cost., 1985, 12. (33) Corte cost., 25 luglio 1994, n. 341, in G.U., serie spec., n. 32.


— 608 — GIP TRIBUNALE DI BARI — 23 novembre 1994 G.I.P. Iacovone — P.M. Colangelo Imp. Fortunato Reati tributari — Liquidazione coatta amministrativa — Commissario liquidatore — Sostituto di imposta — Esclusione — Obbligo del versamento delle ritenute di acconto — Insussistenza. Il commissario liquidatore di un istituto di credito in regime di liquidazione coatta amministrativa, in quanto P.U. ed organo della procedura non è, al tempo stesso, un sostituto di imposta. Consegue che nei suoi confronti non sussiste l’obbligo del versamento delle ritenute di acconto di cui all’art. 2 d.l. 10 settembre 1982 convertito in l. 7 agosto 1982, n. 516 (1). FATTO E DIRITTO. — Con richiesta in data 7 marzo 1994 presso il Tribunale di Bari domandava disporsi il rinvio a giudizio di Sabino Fortunato per rispondere del reato come in epigrafe riportato. (Omissis). L’odierno imputato è stato liquidatore della Banca di S. Maria Assunta di Castelgrande in Potenza, congiuntamente ad altro commissario liquidatore, nominato dal governatore della Banca d’Italia a seguito del provvedimento di messa in liquidazione coatta amministrativa della banca predetta di cui al d.m. del tesoro in data 27 febbraio 1988. Orbene, il commissario liquidatore è un pubblico ufficiale secondo l’espressa previsione dell’art. 199 l.f. ed il suo compito è del tutto analogo a quello del curatore fallimentare, ossia accertamento delle attività e passività dell’ente sottoposto a liquidazione coatta, formazione dello stato passivo e dei riparti in favore dei creditori al fine di assicurare la par condicio creditorum. Egli attua un’ipotesi di gestione coatta e sostitutiva dell’altrui patrimonio per cui la sua posizione è quella di soggetto investito di un munus pubblicum in posizione di autonomia rispetto a quella dell’Ente, come ribadito al riguardo dalla Cassazione (sent. 27 luglio 1973, n. 2189, in Dir. fall., 1974, 2a, 310.) Chiarita tale qualità, consegue che il liquidatore al pari del curatore fallimentare non può essere qualificato sostituto d’imposta. In tal senso si è espressa la giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass., sez. I, 14 settembre 1991, n. 9606 in Giur. it., 1992, 1a, 1, 466, Cass. 8 settembre 1986, n. 5476). In senso analogo si è espressa anche la giurisprudenza tributaria, in particolare la commissione tributaria centrale secondo cui « il curatore del fallimento, quale organo dell’Ufficio Fallimentare, non è ricompreso tra i soggetti per i quali gli artt. 23 e ss. del d.P.R. n. 600/73 — con elencazione che consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di carattere tassativo — prevedono l’obbligo di effettuare ritenuta in qualità di sostituto di imposta » (cfr. Comm. Trib. Centr., sez. 24a, 10-25 marzo 1994, n. 8999, Comm. Trib. Centr. 10 aprile 1992, n. 2798, Comm. Trib. Centr. 4 ottobre 1991, n. 6612).


— 609 — Va inoltre osservato che il commissario liquidatore nella sua qualità di garante della par condicio creditorum non può comunque procedere a pagamenti di crediti riferibili a periodi precedenti alla messa in liquidazione coatta al di fuori della procedura concorsuale di accertamento dello stato passivo. L’art. 83 t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia stabilisce infatti che « dalla data di emanazione del provvedimento che dispone la liquidazione coatta è espresso il pagamento delle passività di qualsiasi genere salvo il disposto dell’art. 91 », ossia fatta salva l’effettuazione dei riparti secondo le regole concorsuali. (Omissis). Pertanto il commissario liquidatore deve predisporre lo stato passivo in cui inserire i crediti accertati e procedere, dopo il deposito presso la Banca d’Italia e Tribunale competente, ad effettuare i riparti. Sicché anche i crediti del Fisco vanno insinuati nel passivo nella misura in cui siano riferiti a periodi precedenti alla dichiarazione di fallimento o al provvedimento di liquidazione coatta amministrativa. (Omissis). In ossequio a tali principi i commissari liquidatori della Banca di S. Maria Assunta di Castelgrande non hanno effettuato i pagamenti connessi, pur avendo presentato le relative dichiarazioni riferite al periodo pregresso alla messa in liquidazione coatta dell’impresa (1 gennaio 1988-28 febbraio 1988). (Omissis). Né d’altra parte, secondo quanto stabilito dalla Comm. Trib. Centr. (decisione 10 aprile 1992, n. 2798), a carico del curatore fallimentare che non abbia provveduto al versamento dell’imposta risultante dalla dichiarazione da lui prodotta ai sensi del 1o co. dell’art. 74-bis d.P.R. n. 633/72, per le operazioni effettuate anteriormente al fallimento, può essere applicata la sovrattassa di cui all’art. 44 cit. decreto, sia perché nessuna norma prevede l’obbligo di tale versamento sia in quanto il curatore (e quindi il commissario liquidatore) non è rappresentante né un sostituto né un alter ego del fallito ma un ausiliario del giudice, per cui può effettuare solo i pagamenti autorizzati da questi, nel rispetto della par condicio creditorum. Per tutte le sue sposte considerazioni si ritiene quindi di dover pronunciare sentenza di n.l.p. nei confronti del Fortunato perché il fatto non sussiste in ordine al reato ascrittogli. (Omissis).

—————— (1)

È sostituito di imposta il commissario liquidatore di una banca in liquidazione coatta amministrativa?

SOMMARIO: 1. Introduzione. Ricostruzione del fatto storico e posizione del problema. — 2. Cenni sulla qualifica di sostituto di imposta del curatore fallimentare. Lo stato della prassi e gli orientamenti della dottrina. — 3. Si conferma che, anche il commissario liquidatore, in quanto organo della procedura e P.U., non può essere giudicato sostituto di imposta. — 4. Conclusioni.


— 610 — 1. Il G.U.P. di Bari, con la sentenza che qui si annota ha sancito l’insussistenza della qualità di sostituto d’imposta del commissario liquidatore di un istituto di credito in regime di liquidazione coatta amministrativa. La sentenza non è la prima ad affrontare il tema della compattibilità tra la qualità di sostituto d’imposta e quella di P.U.; è (probabilmente) la prima, tuttavia, a porre a base di tale verifica la figura del commissario liquidatore di un istituto di credito in regime di liquidazione coatta amministrativa (1). Essa, pertanto, merita di esser brevemente annotata, proprio per la novità del tema e per quei profili di discussione che si intravedono aperti e non soddisfacentemente risolti. In estrema sintesi i fatti possono così essere riassunti. A seguito di segnalazione dei competenti uffici finanziari, il P.M. di Bari, richiedeva il rinvio a giudizio di Tizio perché resosi responsabile della violazione dell’art. 2 l. n. 516/82, per non avere, nella qualità di sostituto di imposta versato nei termini previsti dalla legge le ritenute di acconto per l’anno 1988. Il G.U.P. di Bari, invece, pronunziava sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste osservando che « il commissario liquidatore nella sua qualità di garante della par condicio creditorum non può procedere a pagamenti di crediti riferibili a periodi precedenti alla messa in liquidazione coatta » e, comunque, ritenendo tale soggetto « investito di un munus pubblicum in posizione di autonomia rispetto a quella dell’Ente ». 2. Iniziamo, dunque, ponendoci all’interno dell’iter motivazionale adottato dal giudicante col chiederci, innanzitutto, se siano effettivamente tra loro cumulabili le qualità di sostituto d’imposta e di P.U. 2.1. Con particolare riferimento al curatore fallimentare, si è già sostenuto che quest’ultimo è un organo del fallimento e non un mero rappresentante del fallito cosicché egli non può essere ricompreso tra i soggetti per i quali gli artt. 23 e ss. del d.P.R. n. 600/73, prevedono l’obbligo di effetttuare le ritenute di acconto (2). Consegue che avendo tale disposizione natura tassativa il curatore non ha l’obbligo di operare l’accantonamento di somme appartenenti alla messa dei creditori in forza di una funzione sostitutiva di quella degli uffici finanziari (3). In linea con questa posizione lo stesso G.U.P. di Bari riconosce che « il curatore quale organo dell’ufficio fallimentare non è ricompreso tra i soggetti per i quali gli artt. 23 e ss. d.P.R. n. 600/73 prevedono l’obbligo di effettuare le ritenute in qualità di sostituto di imposta » (fol. 3 sent.). Ma sono, proprio tali rilievi, che pure ci trovano consenzienti, che meritano di essere ulteriormente controllati. È possibile, infatti, ad essi muovere i seguenti rilievi:

(1) Costituisce orientamento sufficientemente consolidato in giurisprudenza, l’esclusione della qualità di sostituto d’imposta, in quanto pubblico ufficiale del curatore fallimentare, tra le altre si veda Cass., sez. I, 14 settembre 1991, n. 9606, in Giust. it., 1992, I, 1, p. 466 nonché Comm. Trib. Centr. 4 ottobre 1991, n. 6612, in Comm. Trib. Centr., 1991, I, p. 744; Trib. Sondrio 8 maggio 1989, in Il fallimento, 1989, p. 1153. In dottrina cfr. GODINO, Ritenute d’acconto e fallimento, in Dir. e prat. trib., 1981, II, p. 964; PIERANTONIO, Sull’obbligo delle ritenute alla fonte da parte del curatore fallimentare, in Cons. trib., 1981, II, p. 360; LO CASCIO, Redditi d’impresa e responsabilità del curatore fallimentare; la Cassazione consolida il proprio orientamento giurisprudenziale in Giust. civ., 1986, I, p. 3076. (2) Così, tra le altre, Comm. Trib. Centr. 10 aprile 1992, n. 2798, in Il Fisco, 1992, p. 8066. (3) Così Comm. Trib. Centr. 4 ottobre 1981, cit.


— 611 — — il curatore è, sicuramente, amministratore del patrimonio del fallito, di talché egli subentra in tutte le operazioni di ordine documentale-contabile del fallito, cosicché i sostituti di imposta che per effetto della disposizione di cui all’art. 23 d.P.R. n. 600/73, sono caratterizzati da un obbligo contabile-documentale, sono compatibili con la qualità e la funzione di curatore; — l’art 10 d.P.R. n. 600/73 qualifica espressamente il curatore sostituto d’imposta. Ebbene, come avremo modo di dimostrare, nessuno dei rilievi sopra indicati, possiede forza sufficiente ad inficiare la tesi di base dalla quale abbiamo preso le mosse. Il primo di essi, infatti, si fonda sulla non dimostrata possibilità di interpretazione analogica delle disposizioni di cui all’art. 23 1o co. d.P.R. n. 600/73. La tesi, in verità, non convince proprio per la sicura natura tassativa tanto degli obblighi che delle relative sanzioni tributarie. L’obbligo della ritenuta alla fonte e la conseguente imposizione tributaria sorge, infatti, in testa al sostituto non già in relazione alla natura del reddito bensì in forza del particolare « rapporto con lo Stato » nei cui confronti quest’ultimo opera per espressa indicazione normativa. E ciò giustifica da un lato la tassatività degli obblighi tributari e dell’altro la tassatività dei soggetti sui quali essi gravano (4). Né la qualifica di sostituto d’imposta, può susseguire alla funzione di amministratore dei beni del fallito che, pure, per effetto della disposizione di cui all’art. 31 l.f. spetta al curatore. È facile osservare in verità che il curatore in quanto P.U., non è tenuto ad adempiere anche a quelle particolari attività cui avrebbe dovuto provvedere personalmente il fallito qualora l’impresa fosse rimasta in vita, proprio perché egli è solo ed esclusivamente « organo del fallimento ». Ma a ben vedere la qualità di sostituto di imposta non sorge neppure per la presenza del sistema della disposizione di cui al 5o co. dell’art. 10 D.P.R. n. 600/73. La disposizione de qua, infatti, deve essere letta sistematicamente all’art. 9 4o co. e sancisce solo ed esclusivamente che mentre le dichiarazioni iniziali e finali dei redditi nei vari casi di liquidazione (compreso il falimento e la liquidazione coatta amministrativa) debbono effettuarsi nei termini espressamente previsti dalla legge, i sostituti d’imposta, invece, debbono continuare a depositare la dichiarazione nei termini ordinari previsti, appunto, dalla citata norma. 3. Acquisito, dunque, che il curatore non può essere considerato « sostituto d’imposta » si tratta di verificare, ora, se alle medesime conclusioni si possa giungere anche, relativamente al commissario liquidatore. Occorre precisare preliminarmente che il commissario, così come previsto espressamente dalla disposizione di cui all’art. 199 l.f., è un P.U. a cui la legge assegna una funzione del tutto ana-

(4) Secondo MICCINESI (Il fallimento nel diritto tributario, in Riv. dir. fin., 1990, I, p. 254), invece, l’obbligo di versare le ritenute di acconto, sorge nei confronti del curatore come conseguenza inevitabile in relazione alle funzioni, che gli sono proprie, di amministrazione del patrimonio del fallito e di gestione delle attività di liquidazione. Nello stesso senso P. PAJARDI (Fallimento e ritenute di acconto per i professionisti dell’impresa, in Dir. e prat. trib., 1982, II, p. 289) secondo cui la ritenuta va operata « né più né meno come il pagamento fosse stato fatto dall’imprenditore prima di fallire ». In verità, così come vedremo meglio in seguito, tali opinioni non convincono troppo proprio perché esse non tengono conto che altro è l’obbligo in sé di versare le ritenute altro è il momento nel quale esse devono essere materialmente effettuate. Si vuole, cioè, dire che se è fuori dubbio che sussiste effettivamente un obbligo del curatore di versare le ritenute non può parimenti, non considerarsi che il curatore non può disporre pagamenti di crediti al di fuori delle regole che disciplinano la par condicio creditorum. Conseguentemente, anche la liquidazione delle ritenute dovrà seguire le regole generali.


— 612 — loga a quella svolta dal curatore fallimentare, e cioè, di accertare le passività dell’ente sottoposto a liquidazione coatta, formare lo stato passivo e procedere ai riparti in favore dei creditori nel rispetto della par condicio creditorum. Sotto questo profilo il commissario liquidatore, che è figura ben diversa dal liquidatore volontario di società, attua un’ipotesi coatta e sostitutiva dell’altrui patrimonio, per cui la sua posizione non è quella di organo dell’ente sottoposto a liquidazione coatta bensì di « soggetto » investito di un munus pubblicum in posizione autonoma (5). Si sostiene, concordemente, in giurisprudenza, infatti (6) che il commissario liquidatore esercita le sue funzioni « in modo relativamente autonomo e responsabile », al di fuori di un rapporto d’impiego sia con l’amministrazione che lo nomina sia con l’ente che deve essere liquidato. Egli, cioè, è titolare di un ufficio che lo pone, in un certo senso, super partes, in considerazione della tutela imparziale e della più conveniente composizione degli interessi e dei diritti impegnati nella liquidazione. Si parla, infatti, qui di organi o ufficio della procedura di liquidazione coatta (7) in maniera del tutto analoga agli organi o ufficio del fallimento cosicché al curatore corrisponde il commissario liquidatore, al comitato dei creditori, il comitato di sorveglianza ed al giudice delegato l’autorità amministrativa di vigilanza e nella specie la Banca d’Italia. Deve, dunque, concludersi per l’assenza di elementi distintivi tra il curatore ed il commissario liquidatore significativi nella prospettiva di ricerca che qui stiamo svolgendo, di talché anch’egli non può essere qualificato sostituto d’imposta. 4. Ma, a ben vedere, non sussiste in ogni caso l’obbligo di versare le ritenute preesistenti al di fuori delle regole proprie della procedura concorsuale. Al commissario liquidatore, infatti, così come al curatore fallimentare, non può sicuramente imporsi tale obligo, anche perché nella sua qualità di garante della par condicio creditorum, egli non potrebbe in alcun modo procedere a pagamenti di crediti riferibili a periodi precedenti alla messa in liquidazione coatta al di fuori della procedura concorsuale di accertamento dello stato passivo, di ammissione dei crediti nello stesso e di riparto dei medesimi sulla base delle attività realizzate. Insomma, e ciò sembra un ulteriore punto di contatto tra le due figure, anche nella liquidazione coatta trovano integrale applicazione le regole fallimentari, secondo cui opera il principio di cristallizzazione delle posizioni giuridiche di terzi nei confronti del patrimonio a liquidazione coatta. È infatti stabilito che « dalla data di emanazione del provvedimento che dispone la liquidazione coatta è sospeso il pagamento delle passività di qualsiasi genere, salvo il disposto dell’art. 91 », e salva cioè l’effettuazione dei riparti secondo le regole concorsuali (art. 83 T.U. legge in materia bancaria e creditizia). Ciò è poi ribadito dall’art. 51 l.f. che è richiamato nella sede della liquidazione coatta sia del 2o co., art. 83 cit. (sia dal precedente art. 70 l.b.) sia dell’art. 201 l.f. (effetti della liquidazione per i creditori e sui rapporti giuridici preesistenti) (8). E si badi che anche sotto questo profilo, la liquidazione coatta è in tutto assi-

(5) Cfr. BONSIGNORI, op. cit., pp. 111-112. (6) Cfr. Cass. 27 luglio 1973, n. 2189, in Dir. fall., 1974, II, p. 310. (7) Così BONSIGNORI, op. e loc. cit. (8) Nello stesso senso cfr. BOCCHIOLA, Esiste l’obbligo delle ritenute di acconto nelle procedure fallimentari?, in Corriere trib., 1984, p. 1008; MAZZARELLI, Il curatore fallimentare è sostituto d’imposta?,


— 613 — milabile al fallimento. Dovere del commissario è dunque quello di predisporre lo stato passivo in cui inserire i crediti accertati e procedere, dopo il deposito presso la Banca d’Italia e il Tribunale competente (nella specie quello di Potenza), ed effettuare i riparti. Ma « ogni credito, anche se munito di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge » (art. 52 l.f.), e per l’Amministrazione finanziaria non è prevista eccezione alcuna. Anche i crediti del Fisco vanno dunque insinuati al passivo, nella misura in cui siano riferiti a periodi precedenti alla dichiarazione di fallimento o alla messa in liquidazione coatta amministrativa. Né deve ingannare la circostanza che il curatore o il commissario liquidatore procede a presentare le dichiarazioni tributarie per i periodi pregressi per i quali siano ancora aperti i termini all’epoca della dichiarazione di fallimento o di messa in liquidazione coatta. L’eventuale presentazione delle dichiarazioni per i periodi (compreso quello fra l’inizio dell’anno e la data di adozione del provvedimento di rigore) assolve solo all’eventuale obbligo dichiarativo e di collaborazione con l’Amministrazione finanziaria, ma non può e non deve accompagnarsi al versamento di alcuna somma che risultasse a credito dell’Amministrazione finanziaria, poiché diversamente si lederebbe il principio — irrinunciabile nelle procedure concorsuali — della par condicio creditorum. Nel caso concreto, infatti, il commissario liquidatore della S.M.A. di Castelgrande, dopo aver presentato le dichiarazioni (e non solo quella delle ritenute d’acconto) riferibili al periodo pregresso (1 gennaio 1988-28 febbraio 1988) alla messa in liquidazione coatta dell’azienda, ha correttamente effettuato i pagamenti connessi, procedendo, tuttavia, ad inserire il relativo credito nello stato passivo, dandone comunicazione all’Amministrazione finanziaria. E in sede di riparto esso è stato integralmente soddisfatto (9). VITO MORMANDO Professore a contratto nell’Università di Bari

in Corriere trib., 1981, p. 586; TESAURO, Appunti sugli adempimenti fiscali del curatore fallimentare, in Rass. trib., 1990, I, p. 241; G. FIANDACA, Sui poteri-doveri del curatore fallimentare in materia fiscale, in Impresa, 1990, p. 1089. (9) Il principio è nettamente colto da Comm. Trib. Centr. 10 aprile 1992, n. 2708 secondo cui « a carico del curatore fallimentare che non abbia provveduto al versamento dell’imposta risultante dalla dichiarazione da lui prodotta ai sensi del 1o co., art. 74-bis, d.P.R. n. 633/1972, per le operazioni effettuate anteriormente al fallimento, non può essere applicata la sopratassa di cui all’art. 44 cit. decreto, e perché nessuna norma prevede l’obbligo di un tale versamento e perché il curatore fallimentare non è un rappresentante, né un sostituto né un alter ego del fallito, ma un ausiliare del giudice, per cui può effettuare solo i pagamenti autorizzati da questi, nel rispetto della par condicio creditorum ». Nello stesso senso: « Il curatore fallimentare non ha alcun obbligo di presentare la dichiarazione di sostituto d’imposta per i periodi di imposta alla data del fallimento una con termini di presentazione ancora in corso, poiché il curatore fallimentare non assume la figura di sostituto d’imposta né esiste alcuna norma che stabilisca un tale obbligo; pertanto l’eventuale omissione di tale attività reato » (Trib. Sondrio 8 maggio 1989).


DOTTRINA

LA RESPONSABILITÀ PENALE DELLE PERSONE GIURIDICHE NEL DIRITTO COMPARATO (*) (**)

Introduzione. 1. L’argomento è di estrema attualità. Ricordiamo, soltanto a livello legislativo, da un lato, l’entrata in vigore, nel 1994, del Nuovo Codice Penale francese, che istituisce la responsabilità penale delle persone giuridiche, dall’altro lato, la pubblicazione, nel 1993, di analoghe proposte di legge, in Belgio, in Finlandia e in Canada. A questo aumento dell’interesse legislativo si aggiungono i lavori, in corso di svolgimento, della Commissione delle Comunità Europee, relativi ai principi applicabili alle sanzioni amministrative, e la Raccomandazione n. 18 del 1988, pronunciata dal Consiglio d’Europa sulle sanzioni applicabili alle imprese. Al di fuori dell’Europa, un maggiore interesse legislativo nei confronti della criminalità delle persone giuridiche si rileva, ad esempio, in Brasile; la Costituzione Federale del 1988 dà mandato al legislatore affinché preveda la loro responsabilità, e le assoggetti « alle sanzioni compatibili con la loro natura » (art. 173 par. 5). Per quanto riguarda il dibattito dottrinale, ricordiamo il caso della Germania in cui, soltanto negli anni 1993 e 1994, vennero pubblicate, su questo tema, cinque monografie — senza contare l’impressionante numero di articoli che hanno, tra l’altro, influenzato e impegnato il dibattito nelle giornate di studio dei penalisti tedeschi, svizzeri e austriaci, organizzate a Basilea nel maggio 1993. Anche il quattordicesimo Congresso Internazionale di Diritto Comparato, nel 1994, ha inserito questo tema all’ordine del giorno. Le osservazioni che seguono sono basate sulla relazione generale da me presentata a questo congresso. (*) Testo della Conferenza tenuta dal Prof. Tiedemann il 4 aprile 1995 nell’Università di Pavia ed il 5 aprile 1995 nell’Università di Firenze. La strutturazione del saggio come Conferenza ha reso non indispensabili le note: i riferimenti bibliografici correlativi agli Autori citati sono comunque contenuti nel testo in lingua inglese pubblicato nel volume: DOELDER-TIEDEMANN (a cura di), ‘‘Criminalisation of Corporate Behaviour’’, 1995. (**) La traduzione italiana, approvata dall’Autore, del testo francese della Conferenza, è stata curata dalla Dott.ssa Alessandra Szegö.


— 616 — 2. In via introduttiva, si rileva come, dopo i cambiamenti degli ultimi anni, si tenda ora, visibilmente, ad una maggiore conformità. Il sistema socialista, che era restio a riconoscere la responsabilità penale degli enti giuridici è naufragato di fronte al mutare della realtà politica; il sistema di Common Law, che ammette tale responsabilità dal XIX secolo, ed i sistemi che si reggono su di una legge scritta, come quelli dell’Europa continentale, si stanno reciprocamente avvicinando. Questa assimilazione si percepisce immediatamente, oltre che nel già menzionato modello francese, nei Paesi Bassi e in Scandinavia, che adottano soluzioni molto simili a quelle, di stampo pragmatico, tipiche del mondo anglosassone. Molti Paesi anglosassoni si dedicano poi, da qualche anno, vista l’enorme incidenza del ‘‘corporate crime’’, allo studio teorico dei fondamenti e dei limiti della responsabilità penale degli enti collettivi. Infine, nell’ambito dell’attività economica comune dell’Unione Europea, la responsabilità parapenale delle imprese, a livello sovranazionale è spesso considerata, dagli Stati membri, come un modello legislativo e giurisprudenziale dotato di autonomia. Quest’opinione ha trovato conferma nella previsione, dal 1990, di sanzioni amministrative (para-penali) nei confronti delle imprese in materia di disciplina della concorrenza, del mercato dei titoli e dei media audiovisivi, da parte del legislatore italiano, che ha così interpretato l’art. 27 comma 1o della Costituzione, che stabilisce che « la responsabilità penale è personale ». Questo principio, la cui formulazione risale alla Rivoluzione francese, non impedisce quindi necessariamente la previsione, per le società, di una responsabililtà quasi (o para) penale. E la recente esperienza francese dimostra che tale principio forse non ostacola neppure una vera e propria responsabilità penale delle società commerciali, responsabilità ampiamente riconosciuta in Europa prima della Rivoluzione francese. 3. La parte che segue farà riferimento tanto alla situazione a livello comunitario, nell’ambito dell’Unione Europea, quanto agli ordinamenti giuridici degli Stati membri che verranno posti a confronto soprattutto con i sistemi dei Paesi di Common Law, ma anche con il Giappone, la cui legislazione, dopo la seconda guerra mondiale, ha subìto fortemente l’influenza degli Stati Uniti. Si analizzerà, in primo luogo, il sostrato criminologico da cui sono scaturiti i bisogni individuati dalla politica criminale. In seguito, si esamineranno le possibilità della dogmatica di fronte a tali difficoltà, per terminare con l’analisi dei problemi collegati agli autori-persone fisiche. La politica criminale di fronte alla realtà moderna. 4.

Alla base delle diverse concezioni della politica criminale attuale


— 617 — vi è una situazione criminologico-empirica pressoché identica in molti Paesi, soprattutto in quelli industrializzati, ma anche in buona parte dei Paesi in via di sviluppo nei quali, sempre di più, accanto alla divisione del lavoro che sfuma i contorni della responsabilità dei singoli, gli enti collettivi prendono il posto delle imprese individuali. Da una parte, la sociologia insegna che la società stessa crea un ambiente, un clima che aiuta ed invoglia gli autori materiali a commettere reati a favore della società commerciale. Nasce così l’idea di non limitarsi a punire i soli autori materiali (che possono mutare ed essere sostituiti) ma anche, e soprattutto, le stesse persone giuridiche. Dall’altra parte, le nuove forme di criminalità quali i delitti commessi nell’ambito dell’attività d’impresa, compresi quelli contro il consumatore, i danni all’ambiente e i reati-fine delle organizzazioni criminali, pongono i sistemi ed i metodi tradizionali del diritto penale di fronte a difficoltà tali che un nuovo approccio appare indispensabile. Non è un caso che, nell’Europa continentale, la legge abbia previsto, sin dagli anni ’20 di questo secolo, ossia dalla nascita del moderno diritto dell’economia, una serie di eccezioni al brocardo societas delinquere non potest (ad esempio, in materia fiscale e finanziaria o nel settore della disciplina della concorrenza). Il Giappone ha seguito questa tendenza a partire dagli anni ’30. Oggi, la maggior parte dei reati contro l’economia è commessa con l’aiuto di un’impresa, e sempre più spesso il crimine organizzato si serve delle istitutizioni tipiche della vita economica: istituti finanziari, società di import-export ecc. La presenza, nel mondo del crimine, delle persone giuridiche e delle imprese non è più l’eccezione ma è ormai divenuta la regola. Ed è per questo che ci si chiede se le eccezioni al famoso brocardo non debbano diventare, anch’esse, la regola. 5. Di fronte a simili problemi, i legislatori dei singoli Paesi sono o sono stati costretti a diventare ingegnosi. Essi hanno individuato, — a seconda dei casi e dei tradizionali principi-base dei rispettivi sistemi penali nazionali — cinque diversi modelli generali di responsabilità. (a) Responsabilità civile (sussidiaria o cumulativa) della persona giuridica per i reati commessi dai suoi dipendenti; (b) Misure di sicurezza che fanno ormai parte del sistema del diritto penale moderno, senza dimenticare però la loro provenienza dal diritto amministrativo, rectius, dal diritto di polizia; (c) Sanzioni amministrative (pecuniarie e di altro genere) imposte dall’autorità amministrativa, ma profondamente modificate, di recente, sotto vari aspetti, in molti Paesi, allo scopo di creare finalmente un sistema di diritto ‘‘quasi-penale’’; (d) Responsabilità penale vera e propria, ultimamente reintrodotta da molti Stati europei e conosciuta anche in Australia, nell’America del


— 618 — Nord e in Giappone; in questo caso è necessario che il diritto non trascuri le differenze che, di fatto, esistono tra autore-persona fisica e persona giuridica; (e) Misure miste, di carattere penale, amministrativo e civile, quale lo scioglimento della società o la sua sottoposizione a sequestro; misure già conosciute, ad esempio, nel diritto francese prima della recente riforma (di cui supra al n. 1) e ultimamente proposte, ad esempio in Germania, da alcuni orientamenti di politica criminale. 6. Da un punto di vista comparatistico, i vantaggi e gli svantaggi di queste sanzioni non sono facili da individuare, data la diversa tradizione giuridica di ogni sistema e l’assenza di analisi empiriche. Ma possiamo formulare qualche asserzione preliminare, che non sempre, tuttavia, appare dotata di una base empirica sufficiente. Il giudizio definitivo sulle conseguenze della scelta di una determinata sanzione è reso difficile dalla constatazione, pressoché unanime, della criminologia moderna, secondo cui le sanzioni potrebbero essere vicendevolmente sostituite senza che il risultato pratico muti; l’importante sarebbe, invece, che le sanzioni, di qualunque genere esse siano, venissero effettivamente applicate. Si è in dubbio se estendere questa constatazione ai reati dei colletti bianchi e, soprattutto, a quelli realizzati da autori non ‘‘materiali’’. Così, nonostante che in Germania gli illeciti commessi nel settore della concorrenza siano stati perseguiti in modo sistematico per tre decenni, le imprese edilizie continuano a reiterare le trasgressioni in materia di determinazione dei prezzi, e le associazioni di categoria sottolineano pubblicamente e a gran voce che in questi casi si tratta soltanto di illeciti amministrativi (Ordnungswidrigkeiten) dotati di sanzioni non penali. Ci sono quindi tutte le ragioni per dare inizio ad un’analisi appropriata che si liberi, almeno in parte, delle ricerche svolte e dei risultati ottenuti per gli autori-persone fisiche. 7. Cominciamo la nostra breve indagine proprio con l’ultima delle misure menzionate supra al n. 5, ossia con le sanzioni miste, non necessariamente penali, la definizione della cui natura si fa via via più vaga. Tra le nuove misure si segnala l’introduzione, negli Stati Uniti, del ‘‘regime di sorveglianza’’ per le società commerciali (‘‘corporation’s probation’’) che consente l’imposizione di vari obblighi e l’intervento nella gestione dell’impresa. Lo scioglimento della società, quale effetto della commissione di illeciti, è prevista talvolta dalla legge penale, più spesso dal diritto commerciale o societario. In ogni caso, questa sanzione rappresenta soltanto l’extrema ratio. Date le gravi conseguenze che questa sorta di ‘‘pena di morte’’ produce per la persona giuridica, le condizioni legali per la sua applicazione sono generalmente, assai rigorose, e, nella pratica, i tribunali la


— 619 — adottano assai raramente. La legge brasiliana, poi, non la contempla affatto, ritenendola troppo rigorosa, e si limita al massimo a prevedere l’interdizione temporanea dell’attività di impresa. Una misura meno definitiva, ma anch’essa assai rigorosa, è considerata con favore non solo dalla cosiddetta criminologia critica, ma anche dai moderni penalisti austriaci e tedeschi: alludo all’imposizione alla società di un amministratore (‘‘public interest director’’) o di un sequestratario (tutore). Il vantaggio di queste soluzioni, ivi comprese la ‘‘organizational probation’’ statunitense e il ‘‘community service’’ australiano, sta nella loro capacità di sfuggire alla maggior parte delle difficoltà dogmatiche, concentrandosi in modo particolare su misure di carattere strutturale e ‘‘terapeutico’’ invece di limitarsi ad infliggere una sanzione punitiva. Il principale svantaggio, oltre alle spinose questioni di diritto costituzionale che sorgono in ogni Paese, è di carattere pratico, e consiste nella difficoltà di trovare delle persone adatte per gestire e per controllare, d’ufficio (e senza il pericolo di elevare richieste di indennizzo), grandi imprese che, almeno negli Stati Uniti, sembrano essere agli apici del ‘‘corporate crime’’. Infatti, proprio l’assenza di persone qualificate ha impedito all’istituto del sequestro di rivestire, in Francia, una consistente importanza critica. E non si capisce molto bene quale possa essere l’effetto della ‘‘curatela’’, recentemente proposta in Germania, da un gruppo di penalisti (SCHÜNEMANN e altri), nel caso di pericolo di recidiva, soprattutto quando il curatore risulta privo di potere decisionale nelle questioni relative alla struttura o alla politica dell’impresa. Le sanzioni ‘‘miste’’ riescono perciò ad offrire, al massimo, una soluzione soltanto parziale. E così il ‘‘community service’’ australiano è, in via di principio, limitato ai delitti contro l’ambiente, dove, peraltro, può risultare molto difficile, per una persona estranea all’impresa, stabilire ciò che si può fare per riparare al danno ambientale. 8. Una soluzione generale, nella stessa direzione, è proposta dal modello che applica alle persone giuridiche un insieme di misure di sicurezza, quali la confisca e l’interruzione dell’attività d’impresa. Di queste misure, che il diritto penale conosce già da qualche decennio, si consigliò l’adozione, per le persone giuridiche, già nel Congresso dell’Associazione Internazionale di Diritto penale, tenutosi a Bucarest nel 1929, e in questo stesso senso si è mosso il dibattito di politica criminale nato in Germania nel secondo dopoguerra. Una parte della dottrina italiana, ad esempio CARACCIOLI, vede, nei delitti commessi nel quadro dell’attività dell’impresa, l’espressione della pericolosità di quest’ultima, pericolosità che è poi il presupposto fondamentale per l’applicazione delle misure di sicurezza. PALIERO, nella relazione nazionale presentata al XIV Congresso Internazionale di Diritto Comparato, non ritiene però che queste misure siano sufficienti. Si rileva, d’altronde, che queste misure producono sui


— 620 — terzi (azionisti, lavoratori dipendenti), gli stessi effetti negativi che scaturiscono dalle pene vere e proprie, inflitte alle imprese. Se si pensa, ad esempio, che la Parte Generale del Nuovo Codice Penale brasiliano del 1985 non prevede più nemmeno le misure di sicurezza contro le persone giuridiche, questa scelta legislativa verrà criticata come superata e dogmaticamente infondata. Il mandato al legislatore contenuto nella nuova Costituzione brasiliana imporrà un riesame di tale sanzione (MARCELO ARAUJO jr.). Quanto alla confisca, non ci si riferisce soltanto a quella dei beni, dei mezzi o dei prodotti che derivano dalla realizzazione del reato, ma anche a quella confisca speciale che priva la società commerciale dei profitti illeciti derivanti dall’attività criminosa — strumento che può far parte della pena pecuniaria oppure costituire una sanzione a se stante, soprattutto quando il sistema dei giorni-ammenda non consente di tener conto, nella determinazione della sanzione pecuniaria, dei profitti illecitamente conseguiti. Tuttavia, privare l’autore (persona fisica o ente giuridico) dei guadagni illeciti non sembra essere una sanzione sufficientemente gravosa, dotata di un considerevole effetto preventivo. Se l’agente può limitare le sue perdite alla rimozione dei profitti illecitamente conseguiti o i prodotti dell’attività criminosa, egli non corre praticamente alcun rischio reale ed avverte intorno a sé un’aura di impunità. Un effetto preventivo si potrebbe produrre soltanto se egli venisse privato del doppio, del triplo, ecc. dei guadagni illeciti, o di una somma corrispondente ad una certa percentuale del giro di affari, soluzione, questa, tradizionalmente adottata in campo fiscale, finanziario, e, più di recente, nell’ambito della disciplina della concorrenza. Si sa, inoltre, che numerosi Stati hanno reintrodotto, nonostante alcuni dubbi di natura costituzionale, una sanzione che, salvo che nei Paesi socialisti, si credeva da lungo tempo dimenticata: la confisca generale dei beni del soggetto — ad esempio in materia di crimine organizzato. Così, dal 1991, in base alle Federal Sentencing Guidelines degli Stati Uniti, è possibile adottare, per le organizzazioni a scopo essenzialmente criminale, sanzioni pecuniarie tali da privare l’organizzazione della sua intera base finanziaria. È chiaro che simili sanzioni non potranno essere applicate alle comuni imprese senza che se ne provochi lo scioglimento. Tutte queste misure sono considerate ora come delle vere e proprie pene, ora come delle misure di sicurezza. Tuttavia questa classificazione dogmatica non incide sui loro effetti pratici, sempreché le misure siano applicate dagli organi della giustizia penale, con un procedimento penale (o para-penale) che, per il suo carattere pubblico e per i mezzi d’indagine utilizzati, produca un effetto deterrente che non sia necessariamente identico a quello della sanzione stessa. Resta da risolvere il problema se un simile modello di misure di sicurezza, con l’eccezione di quelle che preve-


— 621 — dono l’esclusione dall’attività di affari, abbia un sufficiente effetto dissuasivo per la criminalità societaria, o se comunque l’applicazione di una pena, o in aggiunta alla misura di sicurezza, o in via esclusiva, sia sempre necessaria. 9. La soluzione del problema non è resa in alcun modo più facile dalla previsione, per le persone giuridiche, di una semplice responsabilità civile. Questa forma di responsabilità, che riguarda soprattutto le pene pecuniarie che colpiscono i dirigenti delle società, può essere cumulativa o sussidiaria. Essa è tipica di Paesi quali il Belgio, la Svizzera e l’Italia, che rifiutano l’idea di una responsabilità penale per le persone giuridiche — così è per la Svizzera, con l’eccezione dell’illecito di sottrazione di imposte federali, che consente l’imposizione, alle persone giuridiche, di una sanzione amministrativa pecuniaria; l’Italia, che ha ammesso solo da poco tempo una responsabilità quasi penale, limitatamente ad un ridotto campo di materia (v. supra n. 2); il Belgio, infine, prevede, sin dagli anni ’70 delle sanzioni amministrative, ma soltanto in alcune leggi sociali. Il Portogallo consente questo tipo di responsabilità accanto alla previsione, per gli enti collettivi, di una responsabilità penale e para-penale. Il fondamento teorico di questa responsabilità è rappresentato dall’idea secondo cui la pena pecuniaria costituisce, dal momento in cui la sentenza che la infligge acquista il valore di cosa giudicata, un titolo esecutivo di natura civilistica. Questa teoria è però rifiutata, e a ragione, dalla maggior parte dei sistemi giuridici moderni, che sottolineano il carattere personale e la funzione retributiva della pena pecuniaria. Questa specie di garanzia dell’esecuzione della pena pecuniaria irrogata agli autori fisici, non è accolta, tra l’altro, né dalla Germania, dalla Grecia, dall’Inghilterra, dall’Irlanda, dai Paesi Bassi, né dalla Russia, dal Giappone, dall’Australia. Si deve perciò distinguere, dalla responsabilità della persona giuridica per le pene pecuniarie imposte alle persone fisiche, la responsabilità civile (o amministrativa) della persona giuridica per il pagamento dei debiti fiscali e finanziari contratti nel caso di frode fiscale o finanziaria commessa dai dirigenti o dai rappresentanti (v. ad esempio in Germania) e la sua responsabilità solidale per le restituzioni, i danni e gli interessi (per esempio in Belgio, in Lussemburgo nonché in Spagna, sotto forma di responsabiltà civile sussidiaria). In ogni caso, queste misure civilistiche sembrano troppo fiacche per combattere efficacemente la criminalità, soprattutto quella dei colletti bianchi. Il diritto civile trova la sua legittima collocazione e la funzione che gli è propria nel campo degli eventi colposi, in cui la semplice riparazione del danno può svolgere in modo sufficiente un’efficace funzione preventiva. È per questo motivo che PALIERO, nella sua relazione, segnala giustamente come praticamente tutti siano oggi d’accordo nel ritenere necessarie delle misure punitive, quanto meno nel senso ampio del termine.


— 622 — 10. In passato, numerosi Stati ritenevano che fosse possibile applicare alla societas (come agli autori materiali) delle sanzioni amministrative, irrogate ed eseguite dalle autorità amministrative. Il regime di queste sanzioni era di diritto amministrativo, soluzione che, ancor oggi, la Grecia continua ad adottare. Altri Stati applicano da qualche tempo a queste sanzioni, in ragione del loro effetto punitivo, le garanzie costituzionali previste per il diritto penale (principio di legalità, principio di colpevolezza). Si parla così di sanzioni penali-amministrative che fanno parte del sistema del diritto penale in quanto costituiscono delle sanzioni penali lato sensu. L’aspetto caratteristico di queste sanzioni ‘‘quasi’’ o ‘‘per metà penali’’ è dato dal fatto che esse perseguono, di fatto o di diritto, oltre allo scopo preventivo, anche una finalità retributiva. Questo nuovo sistema, che è nato in Germania e in Francia dall’influenza della giurisprudenza costituzionale, ma che si ritrova anche, ad esempio, in Spagna e in Canada, consente di ‘‘punire’’ le società commerciali con sanzioni che posseggono un’efficacia intimidatrice ma che, tuttavia, non sono identiche a quelle previste dal diritto penale stricto sensu. In altri termini, questo modello, di recente creazione, dà la possibilità, agli ordinamenti che riservano la sanzione penale ai soli esseri umani, di colpire le persone giuridiche con misure punitive prive però di qualsiasi colorazione etico-morale. Questa nozione venne elaborata, in modo sistematico, dal legislatore tedesco del dopoguerra, con la legge sugli illeciti amministrativi (‘‘Ordnungswidrigkeitengesetz’’), il cui art. 30 prevede l’imposizione alle società commerciali di una sanzione amministrativa pecuniaria (‘‘Geldbusse’’) non solo per gli illeciti amministrativi, ma anche per gli illeciti penali commessi dai dirigenti nell’interesse della società stessa. Questa sanzione, che porta un nome diverso da quello della pena pecuniaria (‘‘Geldstrafe’’), persegue, allo stesso tempo, finalità preventive e retributive, senza però esprimere alcun rimprovero etico-morale. Possono essere ricondotte a questa categoria le sanzioni inflitte alle imprese in base al diritto comunitario (soprattutto in materia di disciplina della concorrenza e nell’ambito del mercato del carbone e dell’acciaio) per le quali anche la Corte di Giustizia della Comunità Europea riconosce una finalità retributiva, ricordando tuttavia che queste sanzioni ‘‘non hanno carattere penale’’ (così l’art. 15 comma 4o del regolamento n. 17/62 sulla disciplina della concorrenza). Di questa natura sono anche le sanzioni amministrative recentemente introdotte in alcuni settori del diritto italiano, come pure le sanzioni previste in Belgio da alcune leggi sociali: per queste ultime sorgono tuttavia dubbi di legittimità a fronte del principio di separazione dei poteri, dato il carattere quasi penale di queste ‘‘sanzioni penali sostitutive’’ (LEGROS e altri). Tali dubbi non sono però condivisi dagli altri ordinamenti, che ammettono questa soluzione a condizione che sia sempre possibile un ricorso agli organi giurisdizionali ordinari con effetto sospensivo. Quanto si è detto vale


— 623 — anche per la Francia e il Portogallo, oltre ai casi in cui è prevista, per gli enti giuridici, una vera e propria responsabilità penale. 11. Una vera e propria responsabilità penale è prevista, per le società commerciali, oltre che dal diritto inglese, scozzese, irlandese, olandese, norvegese, nordamericano, compreso il diritto canadese e australiano, anche — dopo l’entrata in vigore del Nuovo Codice Penale (NCP) — dalla Francia, dietro parere favorevole del Consiglio costituzionale, sebbene solo per gli illeciti per i quali la legge o il regolamento prevedono questa forma di responsabilità (come, ad esempio, per la truffa e per il falso). Ad un’analoga tecnica legislativa ha fatto ricorso il Portogallo, con il Codice penale del 1982, che è integrato, su questo punto, da tre decretilegge concernenti le violazioni fiscali, finanziarie e in materia di sovvenzioni. Altri Stati dell’Unione Europea prevedono questa vera responsabilità penale solo in via eccezionale, come, ad esempio, il Lussemburgo in materia fiscale; essa diventa, tuttavia, pressoché la regola in Danimarca, dove più di 200 leggi speciali regolano l’esercizio dell’attività d’impresa, la produzione agricola, il settore dell’ambiente e quello dei mass-media. Anche in Giappone molte leggi speciali prevedono tale responsabilità. Il progetto preliminare svizzero del 1993 di revisione del Codice penale prevedeva l’introduzione, nella Parte Generale del Codice penale, di alcune norme concernenti la responsabilità penale dell’impresa. Tuttavia, si è ritenuto che questo problema andasse trattato separatamente dalla riforma parziale in corso, per essere esaminato in maniera più approfondita nell’ambito della riforma globale della Parte Generale del Codice penale svizzero. Per quanto riguarda il mondo anglosassone, basta ricordare che l’Inghilterra e gli Stati Uniti, sin dalla metà del XIX secolo, avevano (re)introdotto, per motivi per lo più pragmatici e di politica criminale, la responsabilità penale delle persone giuridiche, dapprima per i reati colposi ed omissivi, poi per le ‘‘public welfare offences’’, ammettendola, infine, in via generale. Tale responsabilità si applica, però, nella pratica, soprattutto agli illeciti commessi nell’ambito dell’attività d’impresa. Secondo l’immagine creata da Lord Justice DENNING, il ‘‘superiore’’ (organo o persona fisica) è considerato come ‘‘il cervello’’ e quindi come l’alter ego dell’associazione, di modo che le sue condotte si identificano con quelle della persona giuridica stessa (‘‘dottrina dell’identificazione’’); il ‘‘subordinato’’, di livello inferiore, non è che ‘‘il braccio’’ dell’ente: quindi, la responsabilità penale della società non è in questo caso, personale ma si fonda sull’idea della delegazione o imputazione (‘‘vicarious liability’’). Questa concezione trova conferma e sostegno nella presenza, non solo per le persone giuridiche, ma per tutti gli autori — anche persone fisiche —, di una responsabilità penale oggettiva, che sorge senza che occorra provare la col-


— 624 — pevolezza (‘‘strict liability’’). Anche in Australia si riscontra una situazione simile; è, tuttavia, la responsabilità principale, la ‘‘primary responsibility’’ della corporation, mentre negli Stati Uniti è più importante la ‘‘vicarious liability’’. Anche in Giappone la dottrina ha adottato una giustificazione corrispondente della responsabilità delle persone giuridiche (prevista solo da leggi speciali), senza ammettere però una responsabilità oggettiva. Tuttavia, in certi settori, come nel diritto giapponese dell’ambiente, la prova della responsabilità è resa più facile da un sistema di presunzioni. Il Canada, da parte sua, riserva, in via di principio, la ‘‘identification doctrine’’ per i ‘‘delitti veri e propri’’ (‘‘true crimes’’) ammettendo invece una responsabilità penale più ampia per le società, in relazione alle ‘‘absolute or strict liability (regulatory) offences’’. Si nota chiaramente che gli ordinamenti che prevedono la responsabilità penale della societas sono soprattutto quelli che, in questa materia, seguono un approccio pragmatico e che, fatta eccezione per il Giappone, non mostrano grande interesse per i problemi dogmatici. Questi problemi sono invece centrali nei Paesi che hanno una grande tradizione dogmatica, come, per ricordarne solo qualcuno tra i più importanti Stati europei, la Germania, la Spagna, la Grecia, e l’Italia. Lo stesso discorso vale per gli altri Stati non europei che sono stati influenzati da questo tipo di pensiero, come i Paesi dell’America latina. Esiste dunque, per riassumere, un contrasto tra le necessità della politica criminale e le possibilità della dogmatica tradizionale. Nel denunciare questo contrasto, l’eminente penalista spagnolo ZUGALDÍA ESPINAR ha constatato: ‘‘se la dogmatica penale non è in grado di soddisfare i bisogni della politica criminale, allora tanto peggio per la dogmatica’’. Esiste tuttavia un’altra soluzione, ed è questo stesso Autore ad individuarla, insieme ad altri Autori spagnoli contemporanei e a penalisti inglesi e australiani che criticano la dottrina ‘‘antropomorfica’’ di Lord DENNING, che abbiamo ricordato prima: sviluppare una nuova dogmatica penale per colpire, con categorie penalistiche create ex novo o riadattate, le attività criminose degli enti. E sono proprio i sistemi che ammettono la responsabilità penale delle società commerciali che possono essere d’aiuto nel trovare le basi di questo nuovo edificio dogmatico che, di certo, non sarà lo stesso della dogmatica penale creata sul modello individuale, ma che risulterà costruito parallelamente al primo. Le possibilità della dogmatica penale. 12. Le difficoltà che incontra la dogmatica tradizionale nel colpire la criminalità delle persone giuridiche risiedono nel contenuto delle nozioni basilari della dottrina penale: azione, colpevolezza, capacità penale. A prima vista sembra che l’azione, nel diritto penale sia connaturata all’a-


— 625 — gire umano, e la colpevolezza consista in un rimprovero etico-morale che non sarebbe concepibile nei confronti delle società commerciali; queste, inoltre, non potrebbero essere i destinatari, o i soggetti passivi, delle sanzioni penali, data la finalità, sia preventiva che retributiva, che le ultime posseggono. Chiaramente, queste difficoltà appaiono assai meno gravi dove si adottino, nei confronti della societas non pene vere e proprie, ma sanzioni para-penali, che consentono di ampliare o di rendere più elastiche le categorie e i principi penalistici. 13. Un primo, importante punto dogmatico, nella discussione sull’applicabilità delle sanzioni penali nei confronti delle società commerciali, è individuato dalla dottrina inglese, olandese e nordamericana. Se la persona giuridica può stipulare dei contratti, ad esempio di compra-vendita, il soggetto degli obblighi che nascono da questi contratti sarà proprio essa, e sarà sempre essa che potrà violare tali obblighi. Ciò vuol dire che la persona giuridica può agire in maniera illecita. Inoltre, nel diritto sociale e dell’economia, si rinvengono norme che si rivolgono esclusivamente alle imprese e non agli individui. Basti ricordare, a titolo di esempio, le norme che disciplinano la concorrenza che, tanto a livello comunitario quanto a livello dei singoli Stati membri dell’Unione Europea, si riferiscono solamente all’impresa. Di conseguenza, chi esercita l’attività di concorrenza sleale è l’impresa. Negli Stati Uniti, il Foreign Corrupt Practises Act rivolge i suoi divieti di carattere penale soprattutto alle imprese. Le azioni delle persone fisiche che agiscono per conto dell’impresa sono da considerarsi come realizzate dall’impresa stessa, senza dare importanza al modo in cui questo risultato è ottenuto, se attraverso l’imputazione delle azioni del soggetto all’impresa o ricorrendo all’immagine descritta supra al n. 11, secondo cui è lo stesso ente societario che agisce direttamente attraverso i suoi organi. Ora, questo modo di concepire l’attività dell’impresa non è assolutamente un’invenzione dei paladini della responsabilità penale delle persone giuridiche. Al contrario, la giurisprudenza tedesca ha ammesso di recente che per il diritto penale propriamente detto, ossia quello che concerne la responsabilità penale individuale, l’azione o l’omissione realizzate nell’ambito dell’attività imprenditoriale sono condotte proprie dell’impresa, perché è proprio essa che vende un prodotto pericoloso o che omette di adottare le misure sufficienti a garantire la sicurezza della gestione di un impianto — e quest’azione od omissione saranno imputate, secondo la Corte Federale di Giustizia, alle persone fisiche responsabili, contrariamente all’idea, più tradizionale, secondo cui le azioni degli autori materiali andrebbero imputate alla persona giuridica (caso Erdal). L’idea di responsabilità non esclude dunque, ma piuttosto esige la previsione di criteri normativi per delimitare le sfere di responsabilità e stabilire in quali casi la viola-


— 626 — zione dei doveri rende un determinato soggetto (fisico o giuridico) autore del fatto. 14. Due obiezioni sono state formulate nei confronti di questa concezione. In primo luogo, vi sono Autori che negano la possibilità di imputare l’azione di una persona fisica ad una persona giuridica, perché il diritto penale punirebbe una persona per le sole azioni che le sono proprie (BARBERO SANTOS, ENGISCH e altri). Tuttavia, nell’ambito del concorso di persone molti ordinamenti ammettono che l’azione di un autore possa essere attribuita ad un altro, purché i concorrenti si siano accordati per realizzare tale azione. Al di fuori dei casi di accordo, si tende generalmente ad attribuire la responsabilità penale al titolare dell’impresa, che risponde dei reati commessi dai dipendenti, alla sola condizione che egli potesse impedirne la realizzazione. Da questo punto di vista, nei Paesi Bassi si parla della società come dell’autore indiretto o ‘‘funzionale’’, in Portogallo come dell’autore morale. Non è, infine, un caso che nel mondo anglosassone si sia cominciato ad ammettere la responsabilità delle persone giuridiche e delle associazioni in relazione ai reati omissivi e colposi, dato che, in questi casi, non è (o non è tanto) l’azione fisica che conta, ma è l’inosservanza delle misure e la violazione delle attese normative che rileva per poter imputare un determinato risultato lesivo ad un determinato autore (persona fisica o giuridica). Anche la scuola finalista tedesca, che mostra di dare grande importanza alla ‘‘natura delle cose’’, non esclude — o comunque ora non lo esclude più — che sia possibile imputare alla persona giuridica delle azioni umane, e ciò indipendentemente dalla famosa, storica querelle sulla natura fittizia o reale della persona giuridica (HIRSCH). In secondo luogo, si è detto che le norme che si rivolgono alle persone giuridiche, previste, ad esempio, dalla disciplina della concorrenza o dal diritto fiscale, non danno alcuna indicazione su chi debba adempiere agli obblighi in esse contenute. Così gli obblighi fiscali si rivolgerebbero anche ai neonati, che non potrebbero però essere ritenuti responsabili della frode fiscale commessa dal padre nel loro interesse. La norma penale non coinciderebbe così con la norma extrapenale che impone o proibisce (GRACIA MARTÍN). Tuttavia, se l’età del minore ne esclude la responsabilità penale e se un rappresentante può agire per conto del minore, ciò non dimostra che il legislatore non abbia la possibilità di introdurre la responsabilità penale delle società commerciali per le azioni realizzate dai loro dirigenti. L’argomento fondato sulla teoria delle norme giuridiche contrasta soltanto con l’idea di una simile responsabilità de lege lata. Ammettere che una persona giuridica possa essere l’autore di una violazione (delle norme in materia di concorrenza o di diritto fiscale) non significa nulla di più che lasciare che il diritto esprima lo stesso giudizio formulato, su que-


— 627 — sti enti, dalla realtà sociale. Ora, le disposizioni dei Codici penali sulla responsabilità dei rappresentati per i reati propri (art. 14 del Codice penale tedesco, art. 15-bis del Codice penale spagnolo, artt. 172 e 326 del Codice penale svizzero etc.) partono anch’esse, chiaramente, dall’idea secondo cui la persona giuridica può essere il destinatario principale delle norme del diritto penale fiscale, fallimentare, etc. Le stesse osservazioni valgono per la regola giapponese del ‘‘ryobatsu’’. 15. Tradizionalmente, si pensa che sia più difficile imputare ad una persona o ad un ente la responsabilità di un altro soggetto. Per quanto riguarda gli autori — persone fisiche — è il principio di colpevolezza (spesso costituzionalmente sancito) che, fatta eccezione per il mondo anglosassone, impedisce tale imputazione: la responsabilità dev’essere quella personale del soggetto che verrà punito. Tuttavia, per quanto riguarda le società commerciali, il tribunale costituzionale federale tedesco non ha esitato a dichiarare possibile, da un punto di vista costituzionale, l’imputazione della responsabilità di una persona fisica ad una persona giuridica (caso Bertelsmann). Dall’altra parte, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha la tendenza a parlare di una responsabilità propria dell’impresa, determinata, però, in base a criteri tipici del diritto civile e amministrativo, in cui la struttura, l’importanza etc. dell’impresa determinano il contenuto e l’estensione dei suoi obblighi, quale, ad esempio, quello di informarsi sulle regole di diritto attualmente in vigore. I diritti degli Stati Uniti, del Giappone, dei Paesi Bassi, della Norvegia etc., da parte loro, rilevano come sia la colpa d’organizzazione che permette la realizzazione di illeciti a favore della società ed è conseguentemente la causa della responsabilità penale di quest’ultima. La stessa soluzione è stata proposta dall’inglese HARDING, per giungere ad una nozione di colpevolezza collettiva. Noi abbiamo sostenuto una tesi analoga per il diritto delle Ordnungswidrigkeiten tedesco che si baserebbe quindi sul principio del difetto (e così della colpa) d’organizzazione per giustificare la responsabilità della persona giuridica, alla quale verrebbe in tal modo attribuita la responsabilità individuale dei dirigenti. Tale imputazione è chiaramente richiesta dall’art. 30 della legge sulle Ordnungswidrigkeiten ed appare una soluzione obbligata anche per il diritto giapponese (con la conseguenza che si dovrà dimostrare non solo l’azione o l’omissione dell’autore-persona fisica, ma anche la sua colpevolezza). Su questa soluzione concordano la recente letteratura tedesca (OTTO) e parte della dottrina (e della giurisprudenza costituzionale) spagnola (ZUGALDÍA). Un’altra parte recente della dottrina italiana e spagnola (PALIERO, SUÁREZ GONZÁLEZ) utilizza il concetto di rischio d’impresa per legittimare la responsabilità penale della società o giustificare l’attribuzione ad essa dei reati commessi dal rappresentante. Un criterio abbastanza simile, che si basa sul vantaggio economico che l’im-


— 628 — presa ricava dall’attività criminosa, è utilizzato sia dalla legge federale svizzera sull’imposta federale diretta del 1990, sia dall’art. 30 della citata legge tedesca. Questo criterio è stato proposto in via generale dal nostro parere per le 49e Giornate giuridiche tedesche del 1972. STAUFFACHER osserva che, nel caso della legge svizzera, si è in presenza ‘‘di una responsabilità più a titolo originario, che per imputazione’’ (opinione da accogliersi con riserva quanto alla legge tedesca sulle Ordnungswidrigkeiten, dove questo criterio non sostituisce l’imputazione della responsabilità, ma ne rappresenta la base). Ad ogni modo, in molti ordinamenti, ivi compreso quello della Comunità Europea, si riscontra un’evidente tendenza all’elaborazione di una categoria di responsabilità propria dell’impresa, responsabilità fondata non solo sull’imputazione ma anche su criteri che tradizionalmente appartengono, piuttosto, al diritto civile. Questa tendenza emerge altresì dallo studio della giurisprudenza portoghese in tema di responsabilità penale delle persone giuridiche, ed è presente anche in Australia, nella relazione finale sul Model Criminal Code, pubblicata nel 1992. All’imputazione si potrebbe, quindi far ricorso limitatamente ai problemi relativi al dolo o ai motivi, mentre la responsabilità propria dell’impresa riguarderebbe soprattutto i reati colposi (e omissivi). La citata relazione finale australiana si spinge ancora più lontano, poiché prevede l’accertamento del dolo in base alla ‘‘corporate culture’’ della società alla quale l’illecito potrebbe essere attribuito: questa nozione è definita come ‘‘an attitude, policy, rule, course of conduct or practise existing within the body corporate’’. Di nuovo questa nozione è un’espressione del concetto di colpa di organizzazione, che appare così non solo un criterio per legittimare la punizione della societas ma anche un criterio per attribuire o fondare la sua responsabilità. 16. Di certo gran parte della giurisprudenza continua a vedere nella colpevolezza penale un biasimo di carattere morale, sostenendo, di conseguenza, che un rimprovero di questo tipo non può essere rivolto a persone giuridiche. La colpevolezza penale, intesa come ‘‘risposta’’ negativa alla richiesta di comportamento contenuta nelle norme giuridiche non può sorgere, secondo quest’opinione, che in capo agli individui, i soli che potrebbero abusare della libertà, che è loro accordata, di rispettare o di trasgredire le norme di diritto. Tuttavia, nulla impedisce di considerare le persone giuridiche come destinatarie di norme giuridiche che presentano anche un carattere etico (supra n. 13) e come soggetti in grado di violare queste. Non si parla forse, nella realtà della vita sociale, della responsabilità dell’impresa che ha inquinato un fiume, o che ha fraudolentemente ottenuto delle sovvenzioni? Nel modo di vedere e nelle espressioni della societas si riconosce tranquillamente l’esistenza di una responsabilità che non è del tutto priva di un carattere etico o morale, anche se la colora-


— 629 — zione morale assume qui un contenuto parzialmente diverso. Questa responsabilità dell’impresa non è però identica alla responsabilità cumulativa, che nasce dalla somma delle responsabilità individuali (come, per esempio, secondo la giurisprudenza penale degli Stati Uniti), né essa è, o non è soltanto, fondata sull’imputazione della responsabilità altrui. Chi riconosce, in diritto penale, questa responsabilità, di origine sociale, dell’impresa non fa che tirare le conseguenze che derivano, da una parte, dalle indicazioni della realtà sociale, e dall’altra, dalla presenza, per l’impresa, di obblighi corrispondenti ai diritti. Una parte rilevante della dottrina anglosassone arriva a concepire, in questo modo, una ‘‘corporate blameworthiness’’. Introdurre, mediante la legge, accanto alla responsabilità individuale un concetto di responsabilità collettiva o dell’impresa, appare impossibile a chi segua quell’impostazione ideologica che, nella realtà sociale, limita la responsabilità agli individui. Non si nega che una simile concezione individualista sia possibile. Ma si deve ammettere che essa è costretta a vedere, almeno nel diritto penale, le persone giuridiche e le società commerciali come delle pure finzioni: e questa interpretazione risulta difficilmente compatibile con l’enorme potere che esse posseggono, soprattutto se si pensa alle multinazionali. 17. La capacità di essere soggetto passivo di sanzioni penali può essere esclusa solo seguendo la tesi che rifiuta la possibilità di rivolgere rimproveri ‘‘morali’’alle società commerciali e che nega che esse siano destinatarie di norme giuridiche. Se, al contrario, si ammette la possibilità di una responsabilità morale o sociale della persona giuridica (v. supra n. 16), allora anche l’idea di retribuzione avrà la sua importanza in questo campo. BOULOC cita le critiche della dottrina francese di un tempo nei confronti dell’irresponsabilità penale delle persone giuridiche rilevando che ‘‘poiché esse hanno un patrimonio, esse potrebbero perfettamente subire delle sanzioni patrimoniali’’. Per quanto riguarda la finalità preventiva della pena, sorgono, a priori, minori problemi che per la retribuzione (nel senso che le teorie che riconoscono alla pena una funzione esclusivamente preventiva non si oppongono ad una responsabilità penale delle società). Questo vale soprattutto per l’efficacia preventiva che la pena svolge nei confronti dei membri della comunità sociale: essi verranno intimiditi dalla condanna dell’autore, e/o rafforzeranno l’atteggiamento rispettoso nei confronti delle norme (cosiddetta prevenzione generale). In questo senso la condanna dell’impresa chiarisce perfettamente che la norma violata è diretta all’impresa, e che tale violazione è socialmente riprovevole. Ma la prevenzione opera anche come prevenzione speciale nei confronti del condannato, che dovrebbe essere così dissuaso dal commettere ulteriori reati. L’esperienza dei Paesi di tradizione anglosassone dimostra che, quando la pena è appli-


— 630 — cata alle società commerciali l’effetto specialpreventivo si fa sentire. E, praticamente in tutti gli Stati, le norme di diritto commerciale etc., relative al controllo interno sull’amministrazione della società sono, più o meno, in grado di garantire che i dirigenti che hanno commesso dei reati non continuino nella commissione dello stesso reato, o non ripetano azioni delittuose similari. Da qui la spiegazione, o la giustificazione, data da HARDING, della ‘‘deterrence as a mean of persuading the corporation as an organization to monitor its own internal activities for compliance with the law’’. 18. Riassumendo, si osserva come il contenuto delle fondamentali categorie del diritto penale non rimanga immutato quando occorre sanzionare penalmente le società commerciali che abbiano commesso dei reati. Ma la corrispondenza di contenuto che sussiste tra queste categorie consente di inserire nel sistema, accanto alla responsabilità individuale, la responsabilità della societas dando così rilievo, a livello di sanzioni, alla collettivizzazione intervenuta nella vita economica e sociale. Dato che si tratta di una notevole estensione della materia penale, i moderni principi degli Stati di diritto richiedono che tale decisione sia riservata al legislatore. La terminologia non è decisiva, visto che anche delle importanti Corti Costituzionali tendono a non rispettare le definizioni legislative quando si tratta di stabilire la natura e la portata di una sanzione. Persino la forma giuridica della società (persona giuridica etc.) non sarebbe decisiva, e le imprese pubbliche dovrebbero essere incluse, come accade nella gran parte degli ordinamenti considerati. La questione che resta in sospeso e che occorre dunque esaminare è se sia utile dare una nuova denominazione alle sanzioni nei confronti delle persone giuridiche. Una risposta positiva faciliterebbe forse il loro inserimento nel sistema, mentre una risposta negativa potrebbe richiamare l’attenzione sul fatto che si tratta di una responsabilità non identica ma parallela a quella degli individui. In ogni caso, si deve tener conto della recente esperienza delle sanzioni penali-amministrative e dall’uso di nuove denominazioni in Germania (‘‘Geldbusse’’) e in Portogallo (‘‘coima’’), e di particolari nomina juris per le pene pecuniarie previste per le imprese in Danimarca (‘‘bodeansvar’’) e in Svezia (‘‘företagsbot’’), che hanno modificato, abbastanza velocemente, la concezione giuridica e sociale in merito. Restano da esaminare le regole processuali, che dovrebbero soprattutto garantire la possibilità di perseguire gli enti separatamente dagli autori-persone fisiche. Gli agenti persone-fisiche. 19. L’idea che si aveva una volta, di intensificare la lotta al crimine soltanto nei confronti degli autori-persone fisiche, per esonerare le società


— 631 — da ogni sanzione penale o para-penale, è stata abbandonata ormai da tempo e, al giorno d’oggi, non viene proposta che molto raramente. La soluzione inversa concepisce soltanto la responsabilità dell’impresa senza prevedere la responsabilità degli autori-persone fisiche (o autori ‘‘materiali’’), come ha fatto la Comunità Europea in materia di disciplina della concorrenza e del mercato del carbone e dell’acciaio. La moderna criminologia, però, critica questa visione unilaterale, dato che essa ignora la presenza degli autori-persone fisiche, che possono certamente cambiare, ma che restano all’origine dell’attività criminosa (TIEDEMANN). Conviene perciò mettere insieme le due soluzioni, prevedendo delle sanzioni sia per l’autore ‘‘fisico’’ che per la persona giuridica (v. supra, n. 4) — modello, questo, espressamente adottato dal Nuovo Codice Penale francese e definito, a ragione, come una ‘‘punizione parallela’’ nel diritto giapponese. Si ricordi che il Barone CONSTANT, nella sua relazione generale al 10o Congresso Internazionale di Diritto Comparato, sosteneva che ‘‘le due responsabilità si completano e si rafforzano reciprocamente’’. Certo è che la determinazione dell’entità della pena, per la societas, dovrebbe dipendere dalla situazione e dalle condizioni di questa e non da quelle dell’autore persona-fisica — soluzione dettagliatamente elaborata negli Stati Uniti e recentemente adottata dal diritto giapponese che, in precedenza, collegava l’entità della sanzione collettiva a quella della pena pecuniaria inflitta all’autore persona-fisica. Dobbiamo ancora stabilire, in questo modello di responsabilità cumulativa, quale sia l’autore fisico che può far scattare la responsabilità della società. Perché, se ogni persona fisica che realizza l’azione o l’omissione prevista dalla norma penale può essere punita come autore, con la sola eccezione dei reati propri, diventa necessario ricorrere a dei criteri ulteriori per individuare chi possa far sorgere la responsabilità della persona giuridica, diventandone così, in qualche modo, un complice. 21. Per la soluzione del problema la legge e la giurisprudenza propongono tre differenti modelli. Spesso, la responsabilità dell’impresa sorge soltanto ove l’azione o l’omissione siano realizzate dai suoi organi o rappresentanti legali, giuridicamente legittimati ad agire in nome dell’impresa. Questa delimitazione corrisponde alla teoria civilistica e alla concezione classica, secondo cui la persona giuridica agisce per mezzo dei suoi organi. La soluzione contraria ritiene sufficienti, a tal fine, le azioni di ogni persona che operi in nome o a favore dell’impresa. Questa concezione, di tipo pragmatico, ha conseguenze importanti, poiché facilita estremamente la prova e rende superflue le distinzioni tra le varie categorie di rappresentanti, compresi i rappresentanti di fatto. I modelli misti, infine, si collocano tra queste due opposte soluzioni, introducendo, come fa il Model Penal Code degli Stati


— 632 — Uniti, un ‘‘managerial test’’ — in questo modo la responsabilità ricavata dal secondo modello, troppo estesa, viene limitata, scartando le azioni delle persone che non hanno alcun potere decisionale. 22. A livello di singole legislazioni europee, il primo modello, per così dire classico, è quello che prevale in Germania, in Francia e in Portogallo. La stessa soluzione è adottata dal progetto preliminare svizzero del 1993. Per quanto riguarda il Belgio, nel 1993 è stata avanzata una proposta di legge per regolare i procedimenti nei confronti delle persone giuridiche, le cui norme si rivolgono a chi ricopre ‘‘una funzione dirigente all’interno dell’impresa’’. Un’analoga tendenza è segnalata in Spagna (BACIGALUPO), dove però né la giurisprudenza, né la dottrina si sono finora occupate della questione. Per capire quale sia la portata di questa concezione, a prima vista assai restrittiva, occorre tener presente il fatto che il diritto tedesco (contrariamente, ad esempio, al diritto spagnolo), in realtà, ammette per le società una responsabilità ben più ampia, dato che la legge sulle Ordnungswidrigkeiten prevede, come un illecito distinto, l’omissione di controllo, di organizzazione e di vigilanza, cosicché un organo che realizzi tale illecito renderà responsabile l’ente per il fatto commesso da un dipendente di rango inferiore (sempreché l’organo potesse impedire tale fatto). La dottrina giapponese ricorre ad un argomento analogo per spiegare la responsabilità penale delle società commerciali per i reati commessi dai dipendenti di rango inferiore. E anche il progetto preliminare svizzero intendeva stabilire la responsabilità dell’impresa ‘‘quando, in seguito alle carenze organizzative, la violazione di un obbligo giuridico penalmente sanzionato non può essere imputata ad un soggetto determinato’’. Il Model Penal Code degli Stati Uniti, contrariamente alle soluzioni adottate dalla Federazione e dai singoli Stati, prevede la responsabilità penale della persona giuridica per le sole azioni degli ‘‘high managerial agents’’, nel caso di reati ‘‘comuni’’ (truffa etc., v. supra n. 21); invece, nel caso dei reati ‘‘propri’’ delle persone giuridiche e delle imprese (reati di concorrenza sleale etc.), in cui la responsabilità dell’impresa sorge per il fatto di qualsiasi soggetto, la prova della ‘‘due diligence’’ dei funzionari ‘‘with supervisory responsibility’’ esclude tale responsabilità. La relazione canadese descrive un sistema analogo, in cui è sufficiente, per la responsabilità dell’ente, nel caso di ‘‘true crimes’’, il fatto di un soggetto con ‘‘some managerial capacity’’. 23. Al contrario, a livello di Comunità Europea, e soprattutto per quanto riguarda la disciplina della concorrenza, ci si accontenta generalmente, come avviene in Giappone e nella prassi statunitense, dell’azione di un qualsiasi autore materiale. Lo stesso vale per la Danimarca, dove la responsabilità penale dell’impresa consegue alle azioni od omissioni di


— 633 — tutti coloro che agiscono per essa. Un’analoga tendenza si registra in Italia dove, in assenza di una regolamentazione legislativa espressa, la prassi è incline ad interpretazioni modellate sulla disciplina comunitaria della concorrenza. Tuttavia, è escluso che la responsabilità dell’impresa possa derivare da un’azione che eccede i limiti del potere dell’agente: l’eccesso di potere limita la responsabilità soltanto a colui che ha realizzato la violazione. 24. Il modello misto è conosciuto soprattutto in Gran Bretagna, dove la cerchia dei soggetti che possono determinare la responsabilità penale dell’impresa è limitata, a priori, a coloro che posseggono una ‘‘sufficient seniority’’. Allo stesso modo, il diritto olandese ritiene decisivo il potere del soggetto di prendere decisioni e di determinare il corso degli eventi (o comunque, produrre su di essi anche solo ‘‘some influence’’). Anche il progetto di legge finlandese si concentra sulle persone ‘‘with decision making power’’ e sull’omesso controllo da parte della società. L’ultima proposta di Convenzione, concernente la tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee, presentata a Bruxelles, nell’estate ’94, dalla Commissione al Consiglio dei Ministri richiede, anch’essa, l’attività di una persona che eserciti ‘‘un potere di prendere decisioni, delegato o di fatto’’ per rendere responsabile la persona giuridica (art. 8). 25. Concludendo, la soluzione ideale sembra essere quella intermedia, a metà fra le teorie classiche e il bisogno di provare la responsabilità e di perseguire il responsabile: oltre agli organi e ai rappresentanti legali andrebbero però ricompresi i soggetti del ‘‘middle management’’. Si dovrebbe poi aggiungere una norma speciale che punisca l’omissione di organizzazione, di sorveglianza e di controllo, per sanzionare i casi in cui, per colpa di un soggetto di rango elevato o medio, un dipendente di rango inferiore abbia potuto realizzare l’illecito. Questo suggerimento riprende l’idea di base, adottata da molti ordinamenti, secondo cui l’organizzazione corretta della società rappresenta l’elemento chiave per la vita e la responsabilità dell’ente. KLAUS TIEDEMANN Ordinario di Diritto penale, Procedura penale e Diritto penale dell’economia presso la Albert-Ludwigs-Universität di Freiburg im Breisgau


DIRITTO PENALE DELLA PREVENZIONE E MERCATO FINANZIARIO (*)

SOMMARIO: 1. Introduzione: alcuni rilievi sul concetto di ‘‘prevenzione’’ e di ‘‘diritto penale della prevenzione’’. — 2. La prevenzione come anticipazione della tutela. — 3. I reati ad offesa funzionale. — 4. La disciplina penale del mercato finanziario nel quadro dei reati ad offesa funzionale. — 5. Tipologia delle ‘‘regole del gioco’’: neutralità e identità del mercato finanziario. — 6. ‘‘Regole del gioco’’ e ricorso alla sanzione penale.

1. Il titolo della relazione si presenta in termini ambigui, essenzialmente perché il termine ‘‘prevenzione’’ assume, nel sistema penale, una molteplicità di significati, che solo il contesto può definire e precisare. Altro è parlare di ‘‘prevenzione’’ nell’ambito delle misure per l’appunto dette ‘‘di prevenzione’’; altro è parlare di ‘‘prevenzione’’ a proposito dell’efficacia dissuasiva esercitata dalla norma incriminatrice, o di prevenzione esercitata sul reo in seguito ad una condanna; altro ancora parlare di ‘‘prevenzione’’ in termini di anticipazione teleologica della tutela, e quindi di arretramento della soglia di punibilità, dal danno al pericolo (nei suoi varî gradi). In ciascuno di questi contesti, poi, la ‘‘prevenzione’’ assume una duplice valenza ‘pratica’, essendo talora utilizzata per esprimere il carattere reale di un fenomeno normativo; altre volte, invece, quale semplice vernice ideologica di fenomeni che presentano un ben diverso assetto strutturale. Alla ‘‘prevenzione’’ basata su dati euristici effettuali si contrappone così una ‘‘prevenzione’’ puramente mistificatoria, invocata solo per fornire, occasionalmente, paraventi concettuali e falsi titoli di legittimazione. Nell’ambito delle ‘‘misure di prevenzione’’ ad es., la ‘‘prevenzione’’ è chiamata ad assicurare e corroborare lo statuto apparente di provvedimenti che dovrebbero impedire, ‘‘ante’’ o ‘‘praeter’’ delictum, il verificarsi di fenomeni criminali riconducibili a soggetti in varia guisa connotati (*) Testo della relazione (integrato con alcuni riferimenti bibliografici essenziali) presentato il 25 giugno 1994 al 4o Congresso Nazionale dell’Association Internationale de droit pénal - Gruppo italiano, svoltosi a Saint-Vincent il 24-26 giugno 1993, sul tema ‘‘Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario’’. Il titolo originale della relazione era: ‘‘L’attuale funzione del diritto penale della prevenzione: l’estensibilità ad altri settori’’; ma poiché il suo significato può essere apprezzato soltanto nel contesto del tema generale del congresso, si è ritenuto opportuno modificarlo.


— 635 — come ‘pericolosi’. Ma nessuno ignora che si tratta in realtà di misure dirette a colpire attività criminose per le quali non esiste prova sufficiente, ma solo il sospetto: il loro statuto reale consiste quindi in una repressione meramente sintomatica. Paradossalmente, le misure di prevenzione tendono a recuperare una funzione preventiva ‘‘reale’’ solo quando vengono utilizzate post delictum e cioè in connessione ad una sentenza di condanna, in contrasto col loro conclamato ruolo ‘‘ante’’ o ‘‘praeter’’ delictum. In tal caso esse assumono infatti, surrettiziamente, le veci di misure di sicurezza. Non v’è dubbio peraltro che le misure di prevenzione, quale che ne sia l’uso, non sono riconducibili ad un concetto di ‘‘diritto penale della prevenzione’’, almeno sin tanto che il diritto penale continuerà ad essere (o a essere postulato) come diritto penale del fatto (e non dell’autore). La loro sede è piuttosto il c.d. ‘‘diritto della prevenzione criminale’’, i cui titoli di legittimazione continuano peraltro a rimanere problematici (1). Nella complessa orbita della ‘‘prevenzione’’ speciale, e cioè diretta ad un determinato reo, si collocano le misure di sicurezza, la cui funzione reale si è peraltro risolta in un supplemento di pena (nei confronti dei soggetti imputabili o semi-imputabili) o in un abnorme succedaneo di essa (nei confronti dei non imputabili), sin tanto che il loro volano applicativo è stato costituito dalle presunzioni di pericolosità. Venuto meno questo volano, esse sono in larga parte deperite, per ragioni ben note che sarebbe superfluo richiamare in questa sede (2). Per quanto legate al carro del diritto penale, non è certo da una loro ipotetica rivitalizzazione che potrebbe emergere un ‘‘diritto penale della prevenzione’’: ancorate alla commissione di un reato, esse finiscono comunque col partecipare alla tematica del trattamento punitivo; svincolate da un tale riferimento, collassano nel buco nero delle misure di prevenzione. La ‘‘prevenzione’’ — come ‘‘prevenzione generale’’ — si colloca invece al centro del sistema penale, quando in essa si riconosce lo scopo della comminatoria punitiva, il cui senso primario sta nell’impedire la commissione della condotta criminosa, vuoi in termini di dissuasione-persuasione, secondo una virtualità preventiva attribuita alla minaccia di pena, vuoi come risultato di una repressione ‘efficiente’, e cioè come effetto preventivo (per il reo e per i consociati) derivato dall’applicazione, (1) Su tali questioni v., per tutti, P. NUVOLONE, La prevenzione nella teoria generale del diritto penale, in Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova 1969, p. 269 s.; F. BRICOLA, Forme di tutela ante delictum e profili costituzionali della prevenzione, in Le misure di prevenzione (Centro Naz. Prev. Dif. Soc. - Atti del convegno), Milano 1975, p. 29 s.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione - Teoria del garantismo penale, Bari 1989, p. 818 s. (2) Sulla vicenda delle presunzioni di pericolosità, v. per tutti, G. GRASSO, in M. ROMANO - G. GRASSO - T. PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, III, Milano 1994, p. 371 s.


— 636 — giudiziale ed esecutiva, della norma violata (3). Anche in questo ambito, tuttavia, la prevenzione può assumere un carattere mistificatorio: all’uso della comminatoria punitiva come strumento razionale di controllo della condotta si contrappone in effetti il ricorso alla minaccia di pena per scopi puramente simbolici, o per finalità di stigmatizzazione. In tal caso, la prevenzione rappresenta soltanto uno stilema vuoto di contenuti effettuali. D’altro canto, la prevenzione generale non può comunque qualificare il diritto penale come un ‘‘diritto della prevenzione’’. La definizione non potrebbe essere connotativa, non soltanto perché ogni comminatoria riferita ad una sanzione punitiva (penale o extrapenale), ed anche ad una sanzione reintegratoria-risarcitoria, può assumere funzione preventiva, ma anche perché, nell’ambito del sistema penale, la prevenzione generale rappresenta (quando rappresenta) il senso del circuito punitivo, dalla comminatoria all’esecuzione. Si tratta dunque di una dimensione teleologica che esprime modo e ragion d’essere dell’intero sistema (sostanziale e processuale). Inerente al tema si prospetta, invece, il ricorso alla ‘‘prevenzione’’ nella struttura della norma incriminatrice. Si tratta allora di una particolare tecnica di costruzione della fattispecie, che consiste, essenzialmente, nell’arretrare la soglia di punibilità (intesa come limite obiettivo di rilevanza della condotta tipica), rispetto alla lesione effettiva dell’interesse protetto (4). Va subito precisato che anche in questo ambito la ‘‘prevenzione’’ può assumere carattere mistificatorio. Ciò si verifica quando l’arretramento non assume come punto di riferimento la lesione dell’interesse protetto, bensì la prova di tale lesione: esso non si svolge quindi sul terreno sostanziale, ma su quello processuale, determinando la formazione di fattispecie a base sintomatico-presuntiva: incentrate cioè su elementi che, se provati, determinerebbero una diversa qualificazione di rilevanza penale. Un esempio recente, particolarmente vistoso, di tale tecnica è rappresentato dall’art. 12-quinquies comma 2, l. n. 356/1992, di cui la Corte costituzionale ha peraltro decretato la fine, per ragioni che forse neppure esauriscono le pesanti connotazioni negative della disposizione (5). (3) In argomento v., in particolare, H.L. PACKER, The Limits of the Criminal Sanction, 1968, trad. it. I limiti della sanzione penale, Milano 1978, p. 63 s.; C. ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe, in Strafrechtliche Grundlagen-probleme, Berlin-New York 1973, p. 12 s.; F. STELLA, Il problema della prevenzione della criminalità, in Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, a cura di M. Romano e F. Stella, Bologna 1980, p. 24 s.; A. BARATTA, Integrazione-prevenzione. Una ‘‘nuova’’ fondazione della pena all’interno della teoria sistemica, in Dei delitti e delle pene 1984, p. 5 s. (4) V., per tutti, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, Milano 1987, p. 299 s. (5) Cfr. Corte cost. 17 febbraio 1994, n. 48, che si è riferita essenzialmente alla violazione della presunzione di non colpevolezza. Ma è in realtà dubbio che la norma descri-


— 637 — 2. Concentrando l’attenzione sulla prevenzione intesa in termini ‘‘reali’’, e cioè riferita alla lesione di un interesse dato, di cui sarebbe possibile ipotizzare l’offesa attuale, è opportuno rilevare come l’arretramento della tutela, in cui si sostanzia la prevenzione, possa riferirsi, dal punto di vista fenomenologico, ora alla struttura della fattispecie, ora alla funzione della norma. Nel primo caso, ci si trova in presenza di un’anticipazione contrassegnata da un elemento di fattispecie che definisce, in modo obiettivo, la soglia di punibilità della condotta rispetto all’evento offensivo che determinerebbe la lesione del bene. Si inseriscono in questo ambito le fattispecie di pericolo concreto e quelle di pericolo astratto, a seconda che il giudizio di pericolo sostanzi l’evento costitutivo del reato (come nell’ipotesi dell’art. 432 comma 1 c.p.), o si riferisca invece alla modalità della condotta, la cui rilevanza tipica dipende dalla sua idoneità a prospettarsi come causa di futuri eventi lesivi (come nell’ipotesi dell’art. 440 comma 1 c.p.). L’attributo di ‘‘concreto’’ e di ‘‘astratto’’ finisce dunque col caratterizzare un diverso stadio dell’attività criminosa: nella prima ipotesi essa è giunta a determinare una situazione di fatto in grado di provocare il probabile passaggio ad un evento di danno (dal ‘‘pericolo per la sicurezza dei pubblici trasporti’’ nell’esempio dell’art. 432 comma 1 c.p., al ‘‘disastro’’ contemplato come aggravante dal comma 3 della disposizione); nella seconda ipotesi, invece, la situazione di pericolo gràvita sulla condotta, nelle cui modalità è insito un pericolo che, per attualizzarsi, implica un passaggio ulteriore (nell’esempio dell’art. 440 comma 1 c.p. il fatto che le acque o le sostanze destinate all’alimentazione rese ‘‘pericolose alla salute pubblica’’, siano ‘‘attinte o distribuite per il consumo’’) (6). In definitiva, fattispecie di pericolo concreto e fattispecie di pericolo astratto si caratterizzano soltanto per il diverso stadio della rispettiva ‘‘progressione’’ verso l’evento lesivo, più o meno prossimo alla futura realizzazione del danno; ma sono accomunate dal fatto che, in entrambe, la soglia del pericolo (e il relativo arretramento funzionale della tutela) si colloca, per così dire, all’interno della fattispecie stessa, nel senso che essa è strutturalmente atteggiata in termini di anticipazione rispetto ad eventi lesivi che rappresentano l’oggetto stesso della prognosi di pericolo. Distinte si prospettano invece le fattispecie nelle quali l’anticipazione vesse un ‘‘fatto’’ attribuibile al soggetto, posto che i connotati di ‘offensività’ dipendevano da situazioni di stampo sintomatico-presuntivo, riducibili all’‘‘essere’’, e non all’‘‘agire’’. (6) Sui reati di pericolo v., per tutti, nella letteratura più recente: G. FIANDACA, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene 1984, p. 441 s. e in Beni e tecniche della tutela penale, a cura del CRS, Milano 1987, p. 49 s.; G. JAKOBS, Kriminalisierung in Vorfeld einer Rechtsgutsverletzung, in ZStW 1985, p. 751 s.; G. GRASSO, L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in questa Rivista 1986, p. 689 s.; M. PARODI GIUSINO, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano 1990; F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, La struttura oggettiva, Milano 19942.


— 638 — della tutela non si esprime all’interno di esse, ma al più presto e solo in termini sistematici. Si tratta precipuamente dei reati a pericolo c.d. presunto, il cui rapporto con l’interesse suscettibile di essere leso si risolve nella ratio dell’incriminazione, ma non caratterizza alcun elemento di fattispecie. In questi casi, dunque, l’evento lesivo non costituisce l’oggetto di alcuna valutazione prognostica e non svolge in realtà alcuna funzione nel contesto del fatto tipico. Esso è caratterizzato da una situazione disfunzionale ad es. rispetto ad esigenze di natura cautelare (come nel caso delle contravvenzioni anti-infortunistiche), suscettibili bensì di provocare eventi lesivi di varia natura, senza che peraltro il grado di questa possibilità influisca minimamente sulla rilevanza penale (7). D’altro canto, nell’accogliente grembo dei reati a pericolo presunto finiscono col confluire fenomeni almeno in parte eterogenei, riconducibili a due filoni fondamentali. Il primo è costituito dalla fattispecie a pericolo presunto il cui modulo politico-criminale ricalca, in sostanza, quello delle fattispecie di pericolo concreto ed astratto, cui poc’anzi si è fatto cenno. Si tratta in sostanza di anticipazioni della tutela essenzialmente determinate dalla peculiare importanza dell’interesse di riferimento (ad es. l’incolumità pubblica), che sconsiglia di ancorare la repressione utile ed efficace ad un evento lesivo di portata spesso devastante: un criterio di proporzione si sposa così ad un parametro di sussidiarietà, suggerendo di arretrare, ora più ora meno, la tutela. Nell’arretrare ‘‘di più’’ si inserisce l’ipotesi di un irrigidimento del giudizio di pericolo oltre il margine del pericolo astratto desumibile dalla condotta (8). La ‘‘presunzione’’ è in sostanza un’astrattezza ‘‘pietrificata’’ nella condotta tipica, sulla base di elementi tipici che, per lo più, difficilmente si sottrarrebbero ad una valutazione di almeno generica idoneità lesiva: così, ad es., il fatto di chi ‘‘omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro’’ (art. 437 comma 1 c.p.) si caratterizza per requisiti di tipicità tali che l’ambito applicativo della fattispecie si vedrebbe ristretto solo marginalmente dall’eventuale richiamo espresso alla pericolosità (in astratto) dell’omissione. In effetti, i reati di pericolo astratto e quelli di pericolo c.d. presunto presentano confini che in linea di principio risultano netti, ma in pratica si sovrappongono con relativa facilità: al punto che — com’è noto — la stessa praticabilità della distinzione non è sempre ammessa o riconosciuta. 3. Ma non è sempre, o non è solo, l’importanza del bene ad ispirare l’arretramento della tutela. Molto spesso esso scaturisce dalla difficoltà (o (7) Per un’acuta distinzione fra pericolo astratto e pericolo presunto, in termini vicini a quella sostenuta nel testo, cfr. M. PARODI GIUSINO, op. cit., p. 289 s. (8) Sul punto v., in particolare, G. FIANDACA, op. cit., p. 61 s.


— 639 — addirittura dall’impossibilità) di identificare la lesione destinata a costituire l’evento di danno di riferimento. Si prospetta allora un diverso filone di reati a pericolo presunto, caratterizzati dalla loro destinazione alla tutela di una funzione o di una struttura organizzata (reati che, per brevità, possono essere designati come reati ad offesa funzionale). Essi ineriscono a contesti normativi, o ‘‘luoghi giuridici’’, materialmente caratterizzati dalla confluenza di interessi disomogenei suscettibili di presentarsi in termini conflittuali, senza che sia possibile (od opportuno) stabilire a priori la prevalenza dell’uno sull’altro. L’esigenza di evitare il conflitto (mediante regole di prevalenza) o di contemperarlo (mediante regole di coesistenza) viene soddisfatta da prescrizioni modali e, soprattutto, dal controllo e dalla vigilanza di un’autorità amministrativa chiamata ad esercitare la ‘‘polizia’’ del settore (e cioè la disciplina in forma coercitiva delle attività inerenti al contesto dato). Si può, ad es., richiamare la c.d. tutela del territorio, che si presenta in realtà come tutela del governo del territorio (9). Non sarebbe invero possibile affermare che una certa costruzione contrasta la corretta utilizzazione dello spazio, se non riferendosi alla rete disciplinare che regola l’attività edilizia, in vista di un complesso contemperamento di interessi eterogenei, variamente dislocati e considerati nella normativa di settore. Ed è per questo che le incriminazioni si incentrano — com’è noto — sul difetto di provvedimenti abilitanti o sul contrasto dell’attività svolta con le prescrizioni di volta in volta rilevanti. In pratica, dunque, si tratta di reati che reprimono condotte disfunzionali rispetto alle esigenze di controllo espresse da una normativa diversa da quella incriminatrice. Da un punto di vista formale, si potrebbe addirittura sostenere che, in questi casi, si tratta di reati con un’offesa reale, identificata per l’appunto nelle modalità stabilite dalla legge per lo svolgimento di una certa attività: così, l’oggetto giuridico dei reati in materia di armi sarebbe costituito dall’interesse al rispetto delle procedure imposte per il porto, o per la detenzione o per la vendita, di un’arma. Ma è chiaro (come già Birnbaum osservava più d’un secolo e mezzo fa) (10) che viene così spacciata come bene giuridico la mera osservanza di una norma: la norma penale, postulando per l’appunto il rispetto delle prescrizioni da essa richiamate, finirebbe col tutelare se stessa, in un circolo vizioso che disvela l’artificiosità della costruzione, il suo risolversi in un semplice gioco di specchi. In realtà, i reati ad offesa funzionale sono riconducibili alla categoria dei reati di pericolo presunto, perché il senso teleologico della loro previ(9) In materia urbanistica v., in questo senso, R. BAJNO, La tutela penale del governo del territorio, Milano 1980, p. 29 s. (10) Cfr. J.M.F. BIRNBAUM, Über das Erfordernis einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderen Rücksicht auf den Begriff der Ehrenkränkung, in N. Arch. Crim. Rechts 1834, p. 149 s.


— 640 — sione gràvita intorno all’idea che, in determinati settori, l’identificazione dell’interesse possa avvenire solo in concreto, ed attraverso una specifica mediazione amministrativa (sarà ad es. la concessione rilasciata in presenza di tutti i requisiti stabiliti dalla legge a stabilire hic et nunc l’interesse alla salvaguardia del territorio ed al suo corretto uso). In presenza di un’attività tenuta in difetto di questa mediazione, o in contrasto con essa, la presunzione di pericolo è in re ipsa, perché manca l’identificazione dell’interesse negli unici modi riconosciuti legittimi per riconoscerlo. In questo gruppo di reati, dunque, la presunzione, piuttosto che rivolgersi al giudizio di pericolo (cristallizzandolo nella realizzazione di determinati elementi di fattispecie), finisce con l’investire l’oggetto stesso del giudizio, che, proprio per la mancanza di una identificazione nei termini previsti, non risulta nemmeno ‘‘disponibile’’ per una valutazione in termini di prognosi lesiva (11). La fondatezza di questa ricostruzione si apprezza ex adverso nelle ipotesi in cui sia prevista l’efficacia estintiva di un provvedimento in sanatoria: la verifica ex post della corrispondenza di quanto è stato realizzato a quanto risulta normativamente assentibile consente la valutazione retrospettiva di esclusione del pericolo originariamente costituito dall’inosservanza delle modalità stabilite per l’identificazione dell’interesse in concreto. 4. La disciplina penale del mercato finanziario rappresenta un settore particolarmente significativo per l’analisi dei problemi connessi allo sviluppo dei reati ad offesa funzionale (12). Nonostante le perplessità autorevolmente manifestate (13), non sembra esservi dubbio sul fatto che tale disciplina debba a pieno diritto ascriversi alla categoria poc’anzi delineata. Il mercato finanziario non rappresenta in effetti un bene giuridico, (11) Cfr. M. PARODI GIUSINO, op. cit., p. 294. (12) Sulla disciplina penale del mercato finanziario v., per tutti, M. ROMANO, Il diritto penale e la borsa, in Giur. comm. 1978, I, p. 693 s.; Comportamenti economici e legislazione penale, Milano 1979 (con particolare riferimento al contributo di C. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, p. 17 s.); F. GUERRINI, La tutela penale del mercato azionario, Padova 1984; Nuove forme di criminalità economica e finanziaria: sanzioni e garanzie (Atti del Congresso internazionale del 22-24 maggio 1987 - Milano), Roma-Milano 1989; F. BRICOLA, Profili penali della disciplina del mercato finanziario, in Banca Borsa 1990, p. 31 s.; P. D’AGOSTINO, I reati bancari, in Trattato di diritto penale dell’impresa, diretto da A. Di Amato, Padova 1992, p. 25 s.; Mercato finanziario e disciplina penale (Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale - Convegni di studio ‘‘E. de Nicola’’, 17), Milano 1993 (con particolare riferimento al contributo di F. BRICOLA, Il diritto penale del mercato finanziario, p. 27 s.); C. PEDRAZZI, Mercati finanziari (disciplina penale), in Dig. (disc. pen.) VII, 1993, p. 652 s.; ID., La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in Verso un nuovo codice penale (Centro studi giuridici e sociali Cesare Terranova), Milano 1993, p. 350 s. (13) Cfr. D. PULITANÒ, L’anticipazione dell’intervento in materia economica (relazione presentata al Convegno cui si riferisce il presente testo), p. 2 s. (del dattiloscritto).


— 641 — perché esso, lungi dal costituire un assetto suscettibile di essere valutato in termini di ‘‘prevalenza’’ o di ‘‘soccombenza’’ normativa rispetto a diversi, contrapposti o coesistenti, interessi, è il tipico ‘‘luogo giuridico’’, che non potrebbe esistere, senza una previa regolamentazione che definisca e disciplini il suo oggetto e la sua struttura. Né si potrebbe ripiegare sull’idea che la tutela si rivolga al ‘‘corretto funzionamento’’ del mercato stesso, identificato quale bene giuridico reale: parlare di ‘‘corretto’’ funzionamento come interesse dato significa introdurre una contraddizione in termini, qualora si convenga che il funzionamento è corretto quando corrisponde alla disciplina di settore (e cioè nell’osservanza delle prescrizioni stabilite per accedere ed operare nel mercato stesso); oppure ripiegare su un concetto metagiuridico, qualora si supponga che il ‘‘corretto funzionamento’’ rappresenti un assetto ideale del mercato indipendente dalle norme positive dettate per regolamentarlo. Scriveva lucidamente Cesare Pedrazzi, riferendosi alla tutela dell’economia, che ‘‘l’attività organizzata in impresa può attentare a una grande varietà di beni, attingendo praticamente a tutti i ‘titoli’ della parte speciale, per tacere della legislazione complementare (...). Ciò significa che questa prospettiva inquadra l’economia come oggetto non di tutela, ma di disciplina’’ (14). La stessa affermazione, mutatis mutandis, può senza dubbio essere riferita al mercato finanziario. E, del resto, lo stesso Cesare Pedrazzi, puntualizzando specificamente i termini della disciplina penale del mercato finanziario, precisava come siano le ‘‘ ‘regole del gioco’ che la norma penale è chiamata a codificare e a presidiare nei loro momenti salienti: a tutela, in primo luogo, degli interessi, sia individuali che collettivi, dei terzi, che un esercizio spregiudicato dell’iniziativa economica potrebbe compromettere, ma anche a salvaguardia dei concorrenti più scrupolosi; e, più in generale, a garanzia di un corretto funzionamento del sistema’’ (15). È indiscutibile (e le ultime parole di Pedrazzi lo ribadiscono nitidamente) che nel mercato finanziario convergano interessi disomogenei o potenzialmente conflittuali di singoli, risparmiatori, operatori finanziari e bancari, imprenditori, nonché interessi collettivi variamente enucleati dalla circostanza che il risparmio rappresenta nel suo complesso una risorsa di fondamentale importanza per l’economia di ogni paese industriale. Altrettanto indiscutibile è il rilievo che la struttura funzionale del mercato finanziario non consente, né può consentire, di stabilire a priori criteri assoluti di coesistenza o di prevalenza degli interessi in esso pre(14) Cfr. C. PEDRAZZI, Interessi economici e riforma della parte speciale, in Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A.M. Stile, Napoli 1985, p. 296 (anche se l’affermazione è precipuamente riferita alla prospettiva ‘‘funzionale’’ del reato economico). (15) Cfr. C. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, cit., p. 19.


— 642 — senti. Essendo per definizione basato sullo scambio, il mercato non consente una definizione preventiva dei risultati finali suscettibili di derivare dalle contrattazioni: se così fosse, esso non sarebbe libero, e non sarebbe neppure un mercato. In realtà, il fattore ‘‘rischio’’ è coessenziale alla natura del mercato finanziario (ed a qualunque mercato), nel senso che è impossibile conoscere in anticipo se l’iniziativa intrapresa sarà premiata, o se essa risulterà negativa: a decidere dell’esito concorre una molteplicità di fattori eterogenei e di variabili, che, nel loro insieme, rappresentano la linfa vitale della struttura. La disciplina penale del mercato finanziario è dunque essenzialmente e necessariamente costituita dalla sanzione delle ‘‘regole del gioco’’: espressione solo in apparenza ludica, che richiama in realtà le norme di organizzazione e di funzionamento del mercato finanziario, relative all’accesso, alle garanzie di affidabilità dei soggetti legittimati, allo svolgimento delle contrattazioni, alla tutela delle pari opportunità di intervento, e così via (16). Si deve tuttavia rilevare subito che è difficile, per non dire impossibile, definire un unico modello di riferimento positivo della disciplina penale del mercato finanziario. Dal punto di vista normativo, esso si prospetta infatti, non già come disciplina di settore, ma piuttosto come regolamentazione di sottosettore, nel senso che essa si articola per tipologia di soggetti (banche; intermediari finanziari; imprese assicurative), per tipologia di oggetti finanziari (azioni e obbligazioni; fondi comuni di investimento mobiliare, aperti e chiusi; fondi di investimento immobiliare; quote di organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, e così via), nonché per tipologia di interventi (offerta pubblica di acquisto; offerta pubblica di vendita), spesso intersecati fra loro in un unico contesto normativo (17). In altri termini, dal punto di vista penalistico, il mercato finanziario si configura come un Idealtypus la cui consistenza effettuale si apprezza e si coglie, al più presto, soltanto in specifiche discipline di singoli aspetti del mercato stesso. Tale caratteristica non dipende dalla natura delle cose, ma piuttosto dalla formazione alluvionale della normativa, dipanata nell’arco di alcuni lustri, con ritmi vie più incalzanti, e in difetto di interventi riordinatori capaci di rendere più omogenea e decifrabile la distribuzione della sanzione penale. Se la sua presenza è consistente e cospicua, ad es., nella disciplina dei fondi di investimento, essa risulta eccezionale in quella delle società di intermediazione mobiliare. Non si tratta, nelle due ipotesi (e, in genere, nelle diverse leggi dedicate a questo o a quell’aspetto del mercato finan(16)

In argomento, cfr. F. BRICOLA, Il diritto penale del mercato finanziario, cit., p.

38 s. (17) Cfr. R. COSTI, Il nuovo ordinamento del mercato finanziario, in Mercato finanziario e disciplina penale, cit., p. 17 s.


— 643 — ziario), di diverse esigenze sanzionatorie: esse sono fondamentalmente le stesse, sia pure con talune varianti suggerite o imposte dalla peculiarità del sottosettore di volta in volta considerato; si tratta invece di un diverso modo di soddisfare tali esigenze, ricorrendo talora in misura più massiccia alla sanzione penale, talaltra limitandone il ruolo in favore della sanzione amministrativa. 5. Il nodo centrale da sciogliere è allora costituito dall’identificazione di un criterio che consenta di stabilire quali ‘‘regole del gioco’’ (se non tutte) debbano essere presidiate da una sanzione penale, anziché da una sanzione amministrativa (o, eventualmente, civile). Per affrontare il problema sembra necessario introdurre qualche precisazione sul concetto funzionale di ‘‘regole del gioco’’, in generale e con riferimento alla disciplina del mercato finanziario. Un primo gruppo di regole è stabilito a garanzia che il gioco determini, per tutti i giocatori, pari opportunità, e cioè che il mercato possa agire come strumento neutrale rispetto a tutti i soggetti interessati. La tutela si rivolge dunque ai profili organizzativi ed alle tecniche operative. Un esempio ricavato (visto che di regole del ‘‘gioco’’ si parla) dai giochi di carte, potrà forse chiarire l’idea. La regola che impone il taglio del mazzo da parte del giocatore che siede alla destra del mazziere e quella che prescrive una distribuzione alternata delle carte, una per ciascun giocatore in senso orario, sino al raggiungimento del numero di carte stabilito, non servono certo ad assicurare un certo risultato della partita a favore di questo o di quel giocatore, ma a garantire in termini obiettivi e impersonali l’alea che concorre a costituire il gioco. Nell’ambito del mercato finanziario, appartengono a questa tipologia le regole che disciplinano l’accesso al mercato da parte degli operatori e sanzionano lo svolgimento dell’attività in difetto di un particolare provvedimento abilitante; le norme che impongono determinati criteri e limiti gestionali; le prescrizioni riferite alle richieste o alle disposizioni dell’organo di controllo, e così via dicendo. Un secondo gruppo di ‘‘regole del gioco’’ si preoccupa invece di assicurare l’identità del gioco stesso, e cioè di garantire che il gioco non sia truccato. L’asso nella manica, o le carte segnate trasformano la partita in un semplice espediente che simula artificiosamente il gioco, ma che dissimula in realtà un’operazione fraudolenta, il cui esito è scontato, o gravemente ipotecato, in favore del baro. Nel contesto del mercato finanziario si possono richiamare innanzitutto forme di abuso ‘‘interno’’, che incidono sui termini del rischio insito nell’attività: l’insider trading rappresenta un tipico esempio di ‘‘gioco truccato’’ in favore di chi, disponendo di particolari informazioni riservate (il cui oggetto costituisce per la generalità degli operatori parte dell’alea insita nell’attività), può intervenire con le spalle coperte, sottraendosi al rischio che tutti gli altri corrono, o


— 644 — riducendone l’entità (18). Anche l’aggiotaggio rappresenta una forma di abuso strutturalmente affine, per contrapposizione speculare: in esso non viene sfruttata l’informazione vera riservatamente posseduta, ma creata e diffusa una notizia falsa, parimenti in grado di alterare la rappresentazione del rischio e quindi i comportamenti degli operatori (19). Tra le regole volte a garantire l’identità del mercato finanziario si possono collocare anche quelle vòlte ad impedire ch’esso si trasformi in mezzo o sede di occultamento o di consolidamento di profitti criminosi. Si tratta in sostanza delle disposizioni vòlte a tutelare i confini del mercato (e la sua identità) verso l’esterno. Così la normativa antiriciclaggio non riveste soltanto la funzione di impedire che il circuito delittuoso, sottraendosi alla matrice originaria, si perfezioni in termini economici e risulti quindi inattaccabile, ma anche quella di evitare che il mercato finanziario sia inquinato da capitali che, non derivando da una lecita attività economica, soggiacciono per la loro stessa natura ad un rischio anomalo e possono essere quindi investiti secondo logiche ed in base a criteri essenzialmente preoccupati di garantire l’invisibilità della matrice, e quindi, non di rado, distorsivi rispetto al corretto funzionamento del mercato. Un’operazione finanziaria in sé poco attraente, ma capace di assicurare il riciclaggio di vasti capitali d’illecita provenienza, può così ottenere un pieno successo, determinando peraltro assetti e rappresentazioni distonici rispetto ad una corretta valutazione finanziaria, con evidenti rischi di ulteriori distorsioni. 6. Per rispondere alla domanda: quali ‘‘regole del gioco’’ debbano essere presidiate da sanzione, occorre interrogarsi circa il senso della tutela anticipata che tali regole perseguono e realizzano. La previsione di illeciti correlati alla loro inosservanza è essenzialmente vòlta a garantire una repressione utile, e non meramente simbolica. Bloccando la situazione disfunzionale per così dire sul nascere, si tende ad assicurare una neutralizzazione tempestiva della condotta irregolare ed un impedimento efficace dei suoi effetti pregiudizievoli. Anche se tale condotta non è di per sé indicativa di un pericolo specifico riferibile agli interessi sostanziali (18) Sull’insider trading v., per tutti, G. VASSALLI, La punizione dell’insider trading, in questa Rivista 1992, p. 3 s.; S. SEMINARA, Insider trading e diritto penale, Milano 1989; C. AMATUCCI-A. DI AMATO, Insider trading, Milano 1993; E. MUSCO, I reati di insider trading, in Riv. pen. econ. 1993, p. 375 s.; A. BARTALENA, Insider trading, in Trattato delle società per azioni, diretto da G. Colombo e G. Portale, Torino 1993; A. BARTULLI, Insider trading nel diritto penale, in Dig. (disc. pen.) VII, 1993, p. 111 s. e, di recente, F. MUCCIARELLI, Speculazione mobiliare e diritto penale, Milano 1995. (19) Sulle problematiche delle fattispecie di aggiotaggio, v., per tutti, F. FORNASARI, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale - Spunti esegetici e prospettive di riforma, Milano 1994, p. 47 s.


— 645 — in gioco (il superamento di certi limiti gestionali di investimento può, ad es., produrre anche risultati positivi di gestione e non implicare alcuna delle conseguenze negative che la legge mira ad evitare), è evidente che postergare la repressione al verificarsi di un evento di danno, o anche solo di un pericolo concreto, finirebbe col renderla vana e inconsistente. Chiudere la stalla, sia pure con fragore di chiavacci, non è mai servito a farvi rientrare i buoi che ne sono fuggiti. E d’altra parte, i rischi sottesi ad un ‘‘ritardo’’ normativo nell’attribuire rilevanza sanzionatoria a condotte in contrasto con i meccanismi di corretto funzionamento del mercato così come definiti dalla legge, possono assumere portata deflagrante, per l’estensione e la consistenza complessiva degli interessi in gioco. In termini di proporzione dell’intervento penale, la valutazione sembra dunque risolversi in senso positivo: salvo verifica in concreto, le ‘‘regole del gioco’’ del mercato finanziario possono senza dubbio assumere un rilievo tale da rendere congruo il ricorso alla sanzione penale. D’altra parte, è ben noto che la pena criminale non può fondarsi soltanto sul criterio di proporzione; essa soggiace anche ad un criterio di sussidiarietà, o di ultima ratio, per cui il ricorso alla pena criminale presuppone il difetto di alternative sanzionatorie parimenti efficaci. La verifica alla stregua di questo criterio fornisce risposte diversificate a seconda del tipo di regola del gioco che venga in considerazione. Per quanto riguarda le ‘regole del gioco’ a tutela della neutralità del mercato finanziario (retro, 5), occorre rilevare che l’accertamento della loro violazione dipende sempre dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti all’autorità di controllo o di vigilanza. O meglio: il senso della tutela anticipata che tali violazioni mirano ad assicurare implica che il loro accertamento risulti, per così dire, anticipato anch’esso, rispetto ad ogni eventuale e futuro evento di danno dipendente dalla violazione stessa. Se la constatazione che i gestori di un fondo di investimento hanno allegramente ignorato i criteri ed i limiti gestionali imposti dalla legge, emerge in sede fallimentare, è evidente che il senso preventivo delle disposizioni violate è del tutto perduto: la repressione si riduce ad un’appendice di valore simbolico rispetto a quella dipendente dagli eventi di danno successivi. Ora, non v’è dubbio che l’organo di vigilanza dispone (o può disporre) di tutti i poteri sufficienti per accertare tempestivamente le violazioni, e di tutti i poteri sufficienti a neutralizzarla, e a reprimerla: poteri di inibizione di sospensione, di sostituzione, nonché potestà sanzionatoria ampiamente modulabile sulla tipologia della violazione stessa. Ovviamente, se si presuppone l’inefficienza del controllo, il ricorso alla sanzione penale non solo non rappresenta alcun tipo di rimedio, ma costituisce la ratifica, per tabulas, di un atteggiamento sostanzialmente mistificatorio, perché esso non è di per sé in grado di assicurare la neutralizza-


— 646 — zione tempestiva e l’impedimento efficace che costituiscono la ragion d’essere della regola violata. A queste considerazioni si sottraggono soltanto le regole che si riferiscono all’accesso degli operatori istituzionali al mercato, e cioè al possesso di un provvedimento abilitante, nel cui rilascio si sostanzia la verifica di affidabilità del soggetto. L’attività svolta in difetto di autorizzazione implica infatti, per sua stessa natura, una sottrazione al controllo che può risultare particolarmente insidiosa e, talora, difficile da accertare (anche se taluni clamorosi esempi recenti attestano piuttosto al contrario; ma solo per quella sorta di ignavia istituzionale che spesso immunizza, paradossalmente, le macrolesioni). Non è un caso, del resto, che le discipline di sotto-settore riferite ai varî segmenti del mercato finanziario presentino una precisa concordanza sistematica nell’attribuire rilevanza penale all’attività svolta senza l’autorizzazione di volta in volta prevista, pur con talune oscillazioni sanzionatorie di scarsa, o nulla, plausibilità (20). Per quanto riguarda le regole vòlte a garantire l’identità del mercato (retro, 5), non possono sorgere dubbi sulla rilevanza penale di condotte suscettibili di determinare gravi fenomeni distorsivi, quali l’insider trading o le attività di riciclaggio. Del resto, se dall’angolo visuale finanziario esse costituiscono violazioni di ‘‘regole del gioco’’ di mercato, in una prospettiva più generale assumono connotati di accentuata offensività rispetto a interessi giuridici determinati: così, nel riciclaggio, ad es., l’accento lesivo cade piuttosto sull’occultamento e sul consolidamento di profitti criminosi, che l’ordinamento è tenuto ad impedire per ragioni che superano mere considerazioni di ‘‘corretto funzionamento’’ del mercato finanziario, ed attengono in realtà ad interessi di portata comune e generale. In termini diversi si profila la questione in riferimento alle regole, per così dire, ‘‘strumentali’’, la cui osservanza è imposta agli operatori finanziari allo scopo di assicurare la concreta e tempestiva possibilità di accertamento di questa categoria di illeciti: doveri di segnalazione e di collaborazione variamente connotata che rappresentano il volano indispensabile per garantire l’effettività della disciplina ‘‘finale’’. Basterà in proposito ricordare gli obblighi sanciti dall’art. 3, d.l. n. 143/1991 (convertito in l. n. 197/1991), e le correlative sanzioni previste dall’art. 5. In questa materia, dominata da un’esigenza di fedeltà e di tempestività della segnalazione, il cui contenuto deve spesso essere mediato da valutazioni e da apprezzamenti di portata alquanto elastica, il ricorso alla sanzione penale è probabilmente di scarsa efficacia, vuoi per la difficoltà di personalizzazione dell’addebito, vuoi per la modesta consistenza del rischio di repressione. Quest’ultimo rilievo è destinato a coinvolgere peraltro anche il ricorso alla (20) In argomento v. l’ampia analisi di G.M. FLICK, Accessi al settore finanziario e segnalazioni degli intermediari: obblighi, responsabilità, in questa Rivista 1994, p. 1201 s.


— 647 — sanzione amministrativa; per cui non sarebbe forse fuori luogo affiancare alla sanzione punitiva meccanismi di incentivo alla segnalazione ed alla collaborazione (e cioè, in buona sostanza, sanzioni premiali), rendendo utile ed appetibile, per l’operatore bancario finanziario, l’osservanza della regola strumentale imposta. TULLIO PADOVANI Ordinario di diritto penale nella Scuola Superiore di Studi e di Perfezionamento ‘‘S. Anna’’ di Pisa


PRINCIPIO DI LEGALITÀ E PROCESSO PENALE (IN RICORDO DI FRANCO BRICOLA) (*)

SOMMARIO: 1. Cenno introduttivo. — 2. Tre prospettive implicate dal tema. — 3. Diagnosi complessive su legalità e sistema penale negli anni ’90. — 4. (Segue): atteggiamenti odierni rispetto al ‘‘prodotto legislativo’’ (concetto di norma giuridica); primato della legge e primato della magistratura (incongruenze di modelli). — 5. Usi linguistici: ‘‘legittimazione-delegittimazione’’; ‘‘risposta giudiziaria’’ (‘‘misure di contrasto’’). — 6. La legalità sostanziale in funzione del processo (fattispecie incriminatrici; sistema sanzionatorio; regime penitenziario). — 7. Dal ‘‘nulla poena sine praevio judicio’’, agli atti processuali usati come controllo sociale. — 8. Cenno finale.

1. L’occasione è preziosa: esser qui a trattare del principio di legalità nel processo (anzi, per dir subito meglio: della legalità nel rapporto fra diritto e processo), in un convegno che è non soltanto dedicato alla memoria di Franco Bricola, ma già tutto tessuto e imperniato sul rivivere il suo insegnamento. L’han detto bene Alfredo Molari e Giorgio Marinucci; addirittura la primissima notazione che ci ha offerto Marinucci — nella commemorazione che ha aperto questo simposio — è consistita nel sottolineare l’importanza dell’insegnamento di Bricola per il processo penale. Vorrei soltanto precisare che, nel dir questo, ci riferiamo soprattutto alla potenzialità che hanno le sue opere, pur di diritto sostanziale, e i valori da lui affermati, a essere letti e ripensati anche per la procedura penale. Il tema di cui mi dovrò occupare — si consenta di dirlo — è di quelli che fanno tremar le vene: parlare della legalità del processo e dei suoi rapporti con il diritto sostanziale negli anni ’90. Proprio tale vastità, complessità, difficoltà della materia impediscono di svolgere la premessa che mi sarebbe stata più a cuore. Avrei voluto segnalare quelli che sono stati momenti di confluenza e convergenza: non soltanto di temi, ma anche e soprattutto di contenuti fra l’insegnamento del diritto sostanziale e quello del diritto processuale penale, qui nell’ateneo bolognese. Intendo dire che ho avuto il privilegio di stare a fianco di Bricola, insegnando la procedura (*) È la trascrizione dell’intervento svolto al convegno ‘‘Il diritto penale degli anni ’90 - In ricordo di Franco Bricola’’ (Bologna, 18-20 maggio 1995). Il testo integrale della relazione verrà pubblicato negli atti del convegno medesimo.


— 649 — penale, per vent’anni: anni importanti per la scienza penalistica, anni cruciali; esattamente dal 1974 al 1994. Mi riservo, dunque, d’intervenir meglio su ciò in altra occasione. Allora potrò farlo addirittura tramite una cronologia di questi significativi momenti: a partire dal primo, ossia da quella ricerca sul ‘‘principio di difesa sociale’’ che ben presto si trasformò quasi in una articolata fotografia del diritto penale alla fine degli anni ’60: una ricerca a tappeto, tutta protesa a registrare i fenomeni in stretta attenzione e correlazione con i profili di procedura. Mi sono riguardato qualche vecchia carta; gli argomenti — per gli aspetti cui ci stiamo riferendo — furono così impostati: ‘‘discrezionalità, legalità, e difesa sociale’’ negli istituti del processo (custodia preventiva; prove; invalidità etc.). Di lì si partì e si lavorò. Né posso diffondermi e riferire ora, nel medesimo senso, del convegno di Alghero sulle misure ‘‘praeter delictum’’ (1974), lo stesso anno di quel significativo libricino in cui, per la prima volta credo, ci si firmò come ‘‘gruppo penalistico bolognese’’, affrontando — per i tipi de ‘‘Il Mulino’’ — i problemi dell’ordine pubblico in un tutt’uno, pure qui, fra questione processuale e sostanziale. E così via via, al 1976, quando volemmo presentare — su ‘‘La questione criminale’’ — una allora inedita chiave di lettura sul processo e sui suoi istituti, da intendere già in quegli anni come strumenti anticipati ed atipici di controllo sociale. Le parole cambiano: oggi si parla piuttosto di ‘‘mezzi di contrasto’’, di ‘‘risposta giudiziaria’’. Ma il nucleo dei fenomeni e dell’interpretazione — ne riparlerò fra breve — è sempre quello d’allora, quando per l’appunto fu segnalata una stupefacente metamorfosi e una miscela travolgente, determinata pure dal mescolarsi fra significato, potenzialità, effetti pratici dell’atto processuale ed interferenze dei ‘‘mass media’’. Tante furono le occasioni successive — che non provo neppure a scorrere — fino all’ultima, sulla quale almeno una parola va proprio spesa: l’idea editoriale, volutamente simbolica e provocatoria, di ripubblicare il Programma di Francesco Carrara proprio negli anni ’90, ossia nel momento storico che più segna l’allontanamento dal modello garantista classico; con la voluta intenzione di rilanciare e di riunire le fila, oggi troppo smarrite, di una concezione, di una riflessione scientifica imperniata sul valore delle garanzie, e della legalità; sulla interrelazione e sintesi di prospettive fra diritto e processo. Così era stata concepita quella proposta editoriale. Marinucci ci ha detto di volere far tacere il mondo dei ricordi personali nei rapporti con Franco Bricola. E ci ha implicitamente invitati a fare altrettanto. Contravvengo solo su questo punto, dicendo che era nostra intenzione, di Bricola e mia — non appena fosse stato disponibile il secondo tomo dell’opera di Carrara (quello sul processo) — di promuovere pro-


— 650 — prio qui dall’ateneo bolognese, chissà, forse in questa stessa sala, un convegno sul ‘‘garantismo penale’’: per riproporlo come valore, rimeditarlo, selezionare, rimetterne a fuoco il senso; non lasciarlo — va proprio detto — in mani maldestre. E per far seguire quel rilancio con una serie di gruppi di lavoro nei vari settori. Personalmente vivo queste nostre giornate in sua memoria, un po’ come una occasione per realizzare quella sorta di progetto, non ancora ufficializzato di cui è sembrato opportuno parlare. 2. Entriamo ora ‘‘in medias res’’. Il tema — come anticipavo — è sconfinato e, soprattutto, taglia dritto sino al fondo. Basti dire che ci impone, anzitutto, di reinterrogarci sul valore odierno della legge nel sistema penale complessivamente considerato. E di farlo nell’ottica del processo. Proprio questa vastità suggerisce di procedere tramite qualche ‘‘flash’’, senza riuscire ad offrire neppure la traccia di quella che dovrebbe essere una trattazione esauriente; per ciò segnalerei subito come il fascino e l’interesse dell’argomento sia dato proprio dal suo proporsi quale endiadi: non già a compartimenti stagni, il principio di legalità sostanziale da un lato e, dall’altro, il processo, ma lo spazio logico e problematico, individuato dalla confluenza e dall’incrocio fra quelle due prospettive. Uno svolgimento più completo, penso comunque si dovrebbe articolare in tre filoni, pur fra loro congiunti. In primo luogo quel ‘‘principio di legalità’’ inteso in senso lato che, ‘‘in apicibus’’, significa un complessivo sistema penale governato eminentemente dalla legge, intesa come entità estranea, ‘altra’, se non addirittura contrapposta, rispetto a chi deve applicarla. Il quesito è il seguente: risulta ancora attendibile, ancora operante una simile configurazione nei nostri anni ’90? Un secondo filone riguarda poi la legalità nella sua specifica accezione sostanzialistica del ‘‘nullum crimen’’, del ‘‘nulla poena sine lege’’, con la corte dei suoi satelliti: determinatezza, materialità, offensività etc. Qui l’interrogativo principale pare questo: che cosa capita di quel principio, inteso in senso stretto — sostanziale, come or ora precisato — se esso passa al servizio del processo? Che accade sul piano delle fattispecie incriminatrici e della loro tipologia, struttura e caratteri (un profilo già toccato dalla relazione di Marinucci e da quella, così interessante, di Volk)? Che accade — sto dicendo — se obiettivo e fulcro del sistema penale complessivo, e se ‘‘ciò che conta’’ diviene il processo? Ma la questione non involge solo le fattispecie incriminatrici. Riguarda, in maniera forse ancora più emblematica, le pene: infatti, che cosa capita alla disciplina sanzionatoria, se e quando essa si colloca in funzione del processo? E che cosa, poi, del diritto penitenziario? Dunque: incidenza del processo sulle fattispecie incriminatrici; sulle sanzioni; sull’esecuzione della pena.


— 651 — Il quesito destinato a svettare, sempre nell’ambito del secondo sottotema, sarà tuttavia un altro: cosa ci fa scoprire e ci insegna il paragone fra la mappa dei controlli penalistici che sono stabiliti in astratto dalla legge (perché, lo sappiamo: principio di legalità sostanziale significa eminentemente fissazione tassativa di ogni forma di questo controllo sociale), e quelli impiegati oggi in concreto? Insomma: in che consistono, attualmente, i mezzi sanzionatori realmente praticati dalla magistratura? Vi sarebbe poi un terzo filone: principio di legalità del processo. Al riguardo si tratterebbe addirittura di identificare le fonti (ordinarie e costituzionali) di tale regola fondamentale, per vero non a sufficienza individuata e scolpita dalla nostra scienza processualistica (a differenza da quella del diritto sostanziale). E da lì, via via, verso l’interrogativo più importante (ma anche più inquietante): fino a che punto è oggi ancora spendibile, condivisibile, affermata, operante, la celebre individuazione di Francesco Carrara: intuito della procedura penale (così scrive quel maestro, lo ricordiamo tutti) è frenante la violenza del magistrato? Insomma: la procedura è ancora intesa, oggi, come regola superiore e come limite al potere della magistratura? Ho usato il condizionale, perché — e me ne rammarico — non resterà tempo per occuparci autonomamente, neppure con una sintesi, di questo terzo sotto-tema. Dunque, prima prospettiva: valore della legalità in senso lato, ossia complessivamente considerata, nel sistema penale degli anni ’90. Seconda prospettiva: effetti del processo, e della odierna maniera di gestirlo, sul principio di legalità nell’accezione sua, strettamente sostanzialistica. Terza prospettiva: legalità del processo penale. 3. Innanzitutto, allora, uno sguardo d’insieme. Quanto emerge è un complessivo spostamento: da un sistema concepito e giustificato sulla supremazia della legge, in uno sempre più direttamente imperniato sul potere del magistrato; un potere che viene postulato come ‘diverso’, come immancabilmente affidabile e, perciò, come superiore. Questa sembra, in sintesi, la principale chiave di lettura. Vorrei supportarla solo con poche citazioni, volutamente ed esclusivamente tratte — qui e nel seguito — da quella che possiamo provare a qualificare la cultura giuridica ‘‘di sinistra’’, benché etichette del genere siano oggi diventate molto approssimative, quasi irriconoscibili e pressoché impraticabili. Come che sia, la suddetta osservazione globale corrisponde a ciò che, ad esempio, Luigi Ferrajoli testualmente descrive come la illusione di un super-potere giudiziario comunque buono. Perché illusione? In che senso: super-potere? E chi assicura tale ‘‘bontà’’? Dal canto suo — con gioco letterario di fine cultura ed eleganza — Luciano Violante suppone di richiamare sul ‘‘pianeta Giustizia’’, tre voltairiani figli dell’illusionismo: Candide, Pangloss, Micromegas. E domanda


— 652 — loro: fatemi una diagnosi su quanto sta accadendo. Vediamoli dunque in dettaglio (con citazioni testuali), i risultati di simile ispezione. Primo referto: si riscontra un rafforzato aspetto autoritario della giurisdizione. Ma perché mai? Perché la forza dei provvedimenti dei magistrati risiede sempre meno nella legge e sempre più nell’organo che ha il potere (sempre più nel semplice fatto che quel tale provvedimento viene da un organo che ha il potere di emetterlo). E i controlli? Rispondono quei campioni dell’illuminismo: si danno contestuali fenomeni che hanno fortemente indebolito le procedure di controllo sull’operato dei giudici. Ma allora, i risultati ottenuti? Quanti vedono, nel potere dei giudici una sorta di benefico giacobinismo, non si accorgono delle distorsioni democratiche connesse ad un tal ruolo dei magistrati. Il processo allora; il processo penale? Le regole del processo (ossia il principio di legalità) mai sono state così elastiche, con un fiorire di prassi che solo a fatica sono riconducibili alle previsioni normative. Ma i diritti dei cittadini? Ultima diagnosi: tali diritti sono affidati più a queste prassi che alle regole della legge. Eppure — soggiunge Violante — alcuni vivono un tortuoso fascino di simile processo penale dei risultati. Insomma, un referto clinico molto duro, pronunciato anche dalla cultura giuridica ‘‘di sinistra’’. 4. Ho preferito lasciar parlare altri, a sostegno della sintesi anticipata. Per parte mia, aggiungerei solo due postille: per dire che, oggi, pare addirittura mutato il senso della categoria e dell’espressione ‘‘norma giuridica’’. L’enfasi posta sul pur reale valore dell’autonomia e indipendenza della funzione giudiziaria tende, infatti, a modificare la portata di quei due valori ed a presentare tale funzione statuale, sempre più come un’entità contrapposta, come un ‘‘contro-potere’’, come una schiera virtuosa, la quale ha, di fronte a sé, qualcosa oggi degradato e difficilmente riconoscibile: una specie di commistione indistinta fra classe politica, partitica, parlamentare, governativa, intesa come quella che dà la legge. Dunque, se siamo a livello di potere contrapposto, di ‘‘potere contro’’, l’oggetto di questo ‘‘esser contro’’ finisce, poi, per identificarsi anche con il prodotto di quegli altri poteri. E, quindi, si sfiora, o si sposa nella sostanza, il progetto di collocarsi pure contro alla legge. Sto sforzandomi di sottolineare che attualmente — almeno nel settore penale — si guarda al prodotto legislativo e quasi lo si è trasformato da un valore meritevole di servigi, in un frutto infido, impuro, di quella classe politica; un frutto di cui dubitare; anche da contrastare e cui conviene, comunque, essere superiori. Serpeggiano così, al fondo, atteggiamenti di indipendenza dalla legge; idee di primato, del potere giudiziario, rispetto alla norma giuridica, segnatamente quella processuale. Sarebbe il caso di approfondire tramite esemplificazioni. E lo si po-


— 653 — trebbe fare anche alla stregua della giurisprudenza di rimessione (e, per vero, pure di certe pronunzie della stessa Corte costituzionale) che, in questi ultimi anni, è arrivata a concepire l’illegittimità di disposizioni procedurali o di loro interpretazioni, partendo altresì dall’art. 25 comma 2o — niente meno — e dal comma 2o dell’art. 101 della Costituzione. Senza riferire qui le concatenazioni, davvero stupefacenti, che condussero a ciò, registriamo il loro esito: si è arrivati — per queste strampalate vie delle nuove esegesi di princìpi e garanzie costituzionali cardine — a considerare certe scelte e regole della legge di procedura penale, come ostacoli non accettabili, tanto da dover, esse, cedere il passo ad una supremazia (punitiva) del magistrato (desunta, per l’appunto, dagli artt. 25 comma 2o e 101 comma 2o): una supremazia intesa — sul piano della Costituzione — quale valore prioritario rispetto alla procedura. Ancor più in sintesi, là dove sta scritto: i giudici sono soggetti alle norme giuridiche (se pure: ad esse soltanto), si è arrivati a intendere — ove si tratti di disposizioni processuali — quasi il contrario. Certo, ci ritroviamo a mille miglia da quel ‘‘petto adamantino della legge’’, che Francesco Carrara presentava come salutare, doveroso, indefettibile argine al possibile debordare della funzione giudiziaria. Ma, forse, non è ancor questo il punto. Con ciò, vengo alla seconda postilla: storia e comparazione insegnano. Da più di duemila anni una grande dicotomia risulta tracciata (nella ‘‘Politica’’ di Aristotele): fra sistemi costruiti sul primato e governo della legge, oppure sul primato e governo del magistrato. Certo si possono dare modelli ottimi, incentrati sulla supremazia della norma giuridica, così come degli ottimi sistemi, puntati, invece, sulla qualità e sul potere degli uomini che amministrano la giustizia. Tuttavia quanto accade oggi, e rende diverso il ‘‘caso italiano’’, è una sfasatura che può risultare esiziale. Nella sostanza ci siamo spostati o ci si sta muovendo verso il secondo di quei due modelli, come se, tuttavia, l’assetto fosse rimasto quello anteriore; quindi, nell’ambito di un apparato penale, ancora giustificato quale impero della legge. Questa incoerenza del ‘‘come se’’ — va detto — presenta pericoli seri. L’esemplificazione più eloquente sarebbe qui offerta da quel dibattito — che troppo spesso rasenta l’ipocrisia e la confusione, quando non l’infingimento tout court — sull’azione penale e sulla sua obbligatorietà (legalità). Ci si è mossi verso qualcosa di diverso, e si prosegue ad asserire: no, siamo ancora nel sistema dell’obbligatorietà, nel primato della legge. 5. Qualche parola, ora, sulla ‘‘vulgata penalistica’’: un aspetto che non va trascurato e meritevole — anzi — di molta attenzione anche sul piano dei rimedi. Infatti (torneremo da ultimo con un cenno) la via d’uscita dagli attuali squilibri e distorsioni può forse consistere eminente-


— 654 — mente nel ricostruire una cultura diversa, in luogo di quella che oggi prevale presso la collettività. Alludo a quella sorta di diffusa opinione pubblica che si è andata formando, a fronte dell’esser — tutti noi — quasi ogni giorno martellati da nuovi ‘slogans’, in termini per verità sciatti, tagliati con l’accetta. È quel certo gergo per cui quotidianamente si usa il termine ‘‘giudice’’ — ad esempio — mentre invece ci si riferisce a un pubblico ministero, o si parla di ‘‘sovraesposizione’’, di ‘‘trasparenza’’, dei rischi di ‘‘normalizzazione’’ (qui addirittura stravolgendo, nella polemica, la nobile etimologia e derivazione del termine). E così via, fino all’ultima espressione che proprio dovrebbe incuterci il più forte allarme: ‘‘prova sociale’’ del reato. La storia di duecento anni or sono ci mostra dove si può andare a parare, quando si immettono nel sistema concetti del genere; quando ci si appella a convincimenti collettivi di reità, alla ‘‘notoriété publique’’, alla ‘‘preuve dans le coeur’’, come allora dicevano, in paurose commistioni e contagi fra l’accertamento giurisdizionale e quello popolare. Da simile gergo scegliamo ora, per esigenze di brevità, due parole soltanto. Da un lato, ‘‘legittimazione’’ (e ‘‘delegittimazione’’); dall’altro ‘‘risposta giudiziaria’’. E domandiamoci perché mai il dibattito è tutto tessuto a suon dell’invocazione: legittimare l’opera della magistratura, o di quei tali magistrati. C’è l’apprezzamento e l’incitamento, d’accordo; ma che cos’è mai e che significa — più esattamente e se le parole contano ancora — quell’appello a una nuova ‘‘legittimazione’’? Risposte ed analisi sono già state offerte: con esso si tende ad accreditare un fondamento del sistema penale, diverso dalla norma giuridica ed anzi (completiamo il rilievo) ad affermare altre basi, all’esercizio di quel ‘‘contro-potere’’; a quell’essere superiori ed eventualmente ‘‘contro’’, anche alla legge, su cui già discorrevamo. Sono fenomeni da non trascurare, né si tratta di semplici sbavature o imprecisioni collaterali. Quei messaggi contano: formano ideologie, assuefazioni, aspettative; creano prassi operative, sinergie con poteri politici e dei ‘‘mass media’’; spingono verso modelli diversi del sistema penale. Anzi, i tasselli della ‘‘vulgata’’ sono stati costruiti e hanno progressivamente radicato nell’arco degli ultimi trent’anni, sino a partorire ‘‘culture’’ che filtrano, poi, anche a livello scientifico-divulgativo: nell’enciclopedia Garzanti del diritto (1993) leggiamo — ad esempio — di una ‘‘investitura e delega politica istituzionale ‘dei magistrati’, da parte di basi popolari’’. Ma che significa e in che senso: delega ‘‘istituzionale’’? Dal canto suo, la categoria nuova, della ‘‘legittimazione’’, della legittimazione ‘‘diversa’’, è così dilagata, che un giurista colto come Luigi Ferrajoli, si è visto addirittura costretto a coniare una altrimenti assurda espressione: ‘‘legittimazione legale’’, proprio per poterla contrapporre — questa ‘‘legittimazione legale’’ — alle più recenti forme di ‘‘legittimazione


— 655 — esterna’’, o ‘‘impropria’’ (come l’autore le definisce), e per stigmatizzare, con critica durissima, la pericolosità delle idee nuove, volte a rassegnare in capo agli inquirenti — scrive quel filosofo del diritto — poteri ‘‘di fatto illimitati e incontrollabili’’. Il discorso diviene, poi, ancora più infido e pericoloso, quando la coppia ‘‘legittimazione-delegittimazione’’ risulta applicata (è l’ipotesi più ricorrente) all’attività del pubblico ministero: qui è l’accusa (non il giudizio) che tende a porsi come entità già collaudata ed affermata in virtù dei ‘‘consensi’’, mentre chi dissenta o critichi, per l’appunto ‘‘delegittima’’. E che producono poi, simili affermazioni, sul ‘‘momento del giudice’’? Forse anche l’organo giurisdizionale — se assolve — ‘‘delegittima’’? Una risposta pressoché affermativa si racchiude nei non rari, pubblici rimbrotti per cui un giudice — assolvendo — avrebbe azzerato i ‘‘risultati’’ e l’opera anteriore del pubblico ministero. Si va all’incontrario e la patologia ha già raggiunto livelli gravi. Tutto questo mondo — ed altro ancora — sta dietro all’ambiguo neologismo ed a certe storpiature derivate: un allontanamento dall’idea di giudizio e, addirittura, dalla legge, ossia un indirizzo ‘‘del tutto incompatibile’’ — conclude Luigi Ferrajoli — ‘‘con un modello garantista della giurisdizione’’, col rischio che la ‘‘funzione per eccellenza soggetta alla legge, si trasformi in un potere dispotico’’. Secondo ‘slogan’ e concetto sul quale si dovrebbe riflettere a fondo e che, anzi, consiglierebbe apposite ricerche linguistiche, è quello di ‘‘risposta giudiziaria’’, di ‘‘contrasto’’ (i ‘‘mezzi di contrasto’’). Limitiamoci qui al rilievo più facile ed evidente: espressioni del genere vengono, oggi, quotidianamente usate proprio con riguardo al processo, ai suoi vari atti, ai suoi istituti. Consultiamo, anche qui, l’enciclopedia Garzanti del diritto. In che consistono attualmente queste ‘‘risposte giudiziarie’’? Leggiamo: nel riempire vuoti politico-istituzionali — si noti — con gli strumenti processuali. È una fotografia chiara e, per vero, realistica: i ‘‘mezzi di contrasto’’, la ‘‘risposta giudiziaria’’ sono identificati con il processo, non con la sanzione penale. Credo vi sia quanto basta, in questa carrellata, per sorreggere l’ipotesi e diagnosi anticipata: un passaggio complessivo e crescente da un sistema penale concepito e ancora giustificato sul primato della legge (compresa quella processuale), ad uno affidato e governato piuttosto dai poteri di una magistratura (anche qui occorrerebbero — volendo approfondire — distinzioni), che si postula come necessariamente, immancabilmente diversa. E, in quest’ambito: nuove ‘‘legittimazioni esterne’’, identificate, per l’appunto, in entità diverse dalla legge. La legge penale — dal canto suo — riguardata come prodotto anche infido, di rango inferiore, del quale sospettare. Gli atti del processo, salutati e usati come altrettanti mezzi di ‘‘risposta’’ e di ‘‘contrasto’’.


— 656 — 6. Il secondo ‘sotto-tema’, come chiarito, riguarda il ‘‘nullum crimen’’ e il ‘‘nulla poena sine lege’’, in rapporto al processo e ai nostri anni ’90. A livello di panoramica, preme soprattutto registrare una trasformazione, nel senso che fino a poco tempo fa — secondo un modulo tradizionale — l’obiettivo prioritario consisteva nello scegliere e formulare le fattispecie sostanziali, che poi erano ‘‘servite’’ — così si ripeteva — con lo strumento (e modello) applicativo più adeguato. Ora il rapporto tende a capovolgersi: spesso il vero obiettivo consiste nel procedimento; anzi, con più precisione: in un certo tipo di procedimento. Dunque le relazioni si rovesciano, quando è la norma penale che viene ‘pensata’ in funzione della procedura: un fenomeno che, con grande espressività, pochi anni or sono, Tullio Padovani ha rivisitato, insistendo proprio sul ruolo del momento processuale, trasformato da ‘‘servo muto’’, a ‘‘socio paritario’’, infine a ‘‘socio tiranno’’ del diritto sostantivo. La tecnica di costruzione delle fattispecie ‘‘praeter delictum’’ in funzione della procedura offrirebbe un terreno ricco per rilievi in tal senso, ma anche quello delle norme incriminatrici ‘‘di sospetto’’ o di ‘‘pericolo’’, fino al passo storico più sconvolgente e dimostrativo, seppure in altra accezione: l’art. 12-quinquies comma 2o della c.d. ‘‘legge Scotti-Martelli’’ (n. 356) dell’agosto 1992 — norma poi cassata, con atto di dignità, dalla Corte costituzionale — prevedeva sanzioni criminali (reclusione e confisca) per chi si trovasse sottoposto a procedimento penale (uno ‘‘status’’, fatto assurgere a presupposto del delitto e, comunque, concepito come ingrediente e ragione del punire). In quella soluzione il processo premeva a tal segno, sulla fattispecie sostanziale, da trasformarsi addirittura in una ‘‘componente’’ di essa, ossia del punire. Altrettanto significativa la vicenda che fece figliare, dalla costola dell’art. 416 c.p., il suo ‘‘bis’’ (associazione di tipo mafioso): una disposizione incriminatrice — come sappiamo — ‘‘specializzante’’ rispetto alla prima e destinata, così, a produrre un processo addirittura più articolato e più ‘‘difficile’’ (e comunque diverso) sul piano del ‘‘thema probandum’’; una norma la cui reale giustificazione sta nello spingere la magistratura a costruire (era la ‘filosofia’ di Giovanni Falcone) un certo tipo d’inchiesta. Ancora una volta, quindi, finalità eminentemente processuali. Senza tale notazione non credo si saprebbe spiegare la necessità di rimpiazzare — nel 1982, in materia di mafia — il ‘vecchio’ art. 416 c.p., il quale altrimenti, proprio come norma generale, avrebbe ben potuto coprire anche l’ambito applicativo dell’attuale figura associativa ‘‘bis’’, mentre l’inasprimento di pena non credo proprio abbia integrato il vero scopo della riforma. Nell’eterna dialettica fra diritto e processo, fenomeni del genere si potevano registrare già anteriormente. Ma preme ribadire come, oggi, il sistema della legalità sostanziale sia piegato verso un certo tipo di pro-


— 657 — cesso, di indagini preliminari, verso il ruolo e verso peculiari modi operativi del pubblico ministero. Questa è forse la novità principale, già accennata nel corso del congresso: ad esempio, da Giorgio Marinucci che ci parlava della dogmatica e della disciplina sostanziale, riconcepite (così ho memorizzato espressioni più ricche ed articolate), anche al fine di ‘‘alleviare i compiti dell’accusa’’. Il discorso si può spostare — al proposito — dal settore delle fattispecie incriminatrici a quello sia delle sanzioni, sia del diritto penitenziario e andrebbe dipanato sulla lunga serie di leggi ‘‘premiali’’, susseguitesi nei quindici anni trascorsi fra il 1979 ed oggi, sino alla normativa del 1991-1994 in materia antimafia: una disciplina — come è già stato notato più volte — dichiaratamente protesa ad ottenere ‘‘collaborazione’’, con un contestuale articolarsi di rigori sanzionatori (la pena da irrogare) o penitenziari (la pena eseguita o eseguita in un certo modo) per chi non coopera con l’investigazione del pubblico ministero, e di ‘‘sconti di pena’’ fino all’esenzione dal carcere (anche per reati puniti con l’ergastolo), nell’ambito di coloro che collaborano. In tal senso la legalità sanzionatoria e il diritto penitenziario si piegano verso lo specifico modello processuale che denominano ‘‘cooperatorio’’: un modello che sarebbe assai interessante studiare in relazione alle sue forti componenti, ascendenze, parentele con vecchie e nuove ideologie cattoliche, pur ulteriormente accentuate e caratterizzate oggi — come sottolineano gli stessi magistrati — da una logica ‘‘contrattualistica’’ (Caselli) o ‘‘mercantilistica’’ (Fassone). Questo è attualmente il ‘‘socio tiranno’’ del diritto sanzionatorio e dell’esecuzione: un tipo di procedimento basato sulla collaborazione, ossia sempre più puntato sull’ottenere confessioni e delazioni. Se dapprima abbiamo riscontrato lo spostarsi del sistema penale complessivamente inteso, dal primato della legge verso quello della magistratura, ora registriamo anche una trasformazione verso un efficace esercizio dei poteri del pubblico ministero, alla stregua di collaborazioni ottenute per molte vie, comprese ‘‘coazioni’’ (rigori penitenziari) o trattamenti premiali e, così, proprio nell’ambito di rapporti nuovi fra diritto sostanziale e ‘gestione’ processuale. Il discorso si potrebbe arricchire — menziono solo l’argomento — considerando poi i cosiddetti nuovi riti ‘‘acceleratori’’ (giudizio abbreviato e c.d. patteggiamento), con quei loro ‘‘benefici’’ in termine di sanzione (compresa la possibilità di lucrare la c.d. sospensione condizionale, o regimi esecutivi al di fuori del carcere), che è impresa pressoché disperata cercare ancora di ricondurre a finalità sostanzialistiche (in termini di prevenzione generale o di rieducazione) e che mostrano palese — ancora una volta — il piegarsi della pena al processo. Anche attraverso questi ultimi itinerari, ritorniamo sempre allo stesso


— 658 — rilievo: il procedimento, i suoi atti, la sua conduzione, l’opera dei pubblici ministeri e i suoi effetti immediati, come obiettivo finale, come momento — forse l’unico — che conta davvero, almeno nei confronti della collettività: il processo, quale mezzo di prevenzione generale. 7. Dopo qualche esplorazione di necessità frettolosa, torniamo ora più direttamente al principio di legalità sostanziale e rileviamo che gli aspetti e le trasformazioni sinora notate si risolvono in ben poca cosa, a fronte del più vistoso fra gli odierni perturbamenti nel rapporto fra istituti processuali e ‘‘nullum crimen’’, ‘‘nulla poena sine lege’’, ‘‘nulla poena sine judicio’’. È la metamorfosi che potremmo etichettare come l’essersi spostati dalla pena dopo il processo (come richiederebbero gli artt. 27 comma 2o e 25 comma 2o della Costituzione), al suo rovescio: la pena nel processo; i controlli sociali, la ‘‘risposta giudiziaria’’, le ‘‘misure di contrasto’’, durante e tramite il procedimento, ossia quest’ultimo, usato per gli stessi scopi che dovrebbero essere solo della sanzione. In questa maniera — è addirittura ovvio — si vulnerano in radice e contestualmente due princìpi cardine. Da un lato, quella presunzione d’innocenza che significa soprattutto e per l’appunto: ‘‘nulla poena sine praevio judicio’’ e che assegna perciò, al processo, una funzione di mero accertamento (non già di sanzione). Dall’altro lato, e in pari misura, si colpisce mortalmente anche il principio di legalità dei delitti e delle pene. Infatti la mappa dei controlli sociali disegnata dalla legge non corrisponde più, oggi, a quelli realmente praticati, se è vero che pressoché ogni istituto ed atto del procedimento si presta ad essere e viene utilizzato con funzioni atipiche, anticipate e succedanee rispetto alla statuizione e misura finale. Così si crea un vero e proprio arsenale, graduato e graduabile, di forme di stigmatizzazione e d’intimidazione; di prevenzione generale e individuale, le quali possono risultare, in pratica, del tutto avulse dal catalogo delle previsioni legislative. Ometto le esemplificazioni (che comunque non riguarderebbero le sole misure cautelari personali), in quanto il discorso rasenta ormai la banalità. Tuttavia l’intero sistema penale risulta sconvolto, proprio perché — è evidente — quella straordinaria patologia taglia brutalmente le gambe al principio di legalità sostanziale. È il fenomeno che segnalavamo al suo insorgere, esattamente vent’anni or sono, proprio su ‘‘La questione criminale’’ diretta da Alessandro Baratta e da Franco Bricola — lo ricordavo all’inizio — trattando, ivi, del processo quale mezzo di controllo sociale. In questi vent’anni molti aspetti si sono modificati, accentuati. Ed anche le diagnosi si sono poi susseguite sempre più numerose e decise: Siracusano ha parlato di abuso del processo; Cordero di surrogati a buon mercato di una sanzione lontana e


— 659 — ipotetica, spesso non eseguita; Amodio di processi ‘‘inventati’’, solo per poter disporre una misura cautelare. E Violante è arrivato persino a parlare — con una diagnosi che inquieta così profondamente, da meritare una citazione testuale — ‘‘della sentenza, divenuta ormai un atto pressoché irrilevante’’. Si noti: la sentenza. Quello che conta è dunque il resto, non già il momento della sanzione, della ‘‘jurisdictio’’, non l’eventuale pronunzia in termini d’innocenza. Potremmo proseguire ed approfondire, sino ad una recente impietosa e realistica descrizione, che rileva in modo speciale, anche perché viene da un giudice, convinto fautore dell’attuale opera dei magistrati. Elvio Fassone, in un breve e sconvolgente scritto (1994), ci parla di un processo ‘‘che ormai non c’è più’’: quello inteso come mero accertamento. E rincara giustamente la dose, nell’additare trasformazioni che hanno portato al centro di gravitazione del sistema penale, non tanto un processo inteso almeno come ‘‘giurisdizione’’, quanto — piuttosto — gli atti e l’attività (anche quella stragiudiziale) del pubblico ministero. Le terapie dell’autore — sia detto fra parentesi — non riescono a convincere. Ma le diagnosi tagliano come un rasoio, là dove parlano di reazioni svelte e informali, vicarie rispetto alla pena; ormai collocate e governate, all’inizio dell’iter, dall’accusatore, anziché — alla fine — da un giudice. E là dove trattano di bisogni collettivi di conoscenza (perché il processo penale serve sempre più anche a questo), appagati piuttosto con le indagini del pubblico ministero. E di una necessità di sanzioni, soddisfatta oggi, in realtà, con la custodia cautelare, intesa — scrive Fassone — come una sorta di ‘‘provvisionale’’ penale. E di ‘risposte’ che si risolvono in ciò che ormai integra il vero processo: quello ‘parallelo’, quotidianamente celebrato sui (e dai) cosiddetti ‘‘mass media’’. Insomma, assieme a quella caduta verticale del principio di legalità su cui ci siamo qui soffermati in precedenza, si delinea anche un quadro di controlli e di politica criminale, sostanzialmente e in prevalenza gestito dal pubblico ministero, in sinergia con pesanti e tutt’altro che casuali interferenze di quegli altri odierni centri di potere che sono i mezzi dell’informazione di massa. Anche per queste vie il baricentro del sistema penale complessivamente considerato si sposta sul procedimento e, nell’ambito di quest’ultimo, all’indietro, sulla fase preliminare, mentre si sfruttano le potenzialità di pressoché ciascun atto processuale a incidere sull’individuo e sulla collettività (per l’appunto: prevenzione individuale e generale), nonché le potenzialità altrettanto elevate, degli atti medesimi, a porsi come ‘‘messaggio’’ via etere, o tramite stampa. 8. So di aver portato solo diagnosi, e di averlo fatto senza tutti i dovuti approfondimenti; non già delle terapie, non delle proposte. Ma c’è qualcosa, attualmente, che corre più forte, sopra la scienza giuridica. Pas-


— 660 — serà questo momento — ci ha detto Mantovani con saggezza, nella relazione presentata a questo congresso — e intanto manteniam saldi i princìpi, conserviamo le fondamenta; dobbiamo però soggiungere che la nostra scienza penalistica oggi sta assomigliando un po’ troppo ai pur nobili e virtuosi esercizi della Castalia di Herman Hesse. Non conclusioni, dunque, né terapie, se non il suggerimento, emerso a più riprese nel corso dell’attuale convegno — e da condividere appieno — d’impegnarsi per far rivivere meglio una cultura della legalità e delle garanzie presso l’opinione pubblica, ossia presso quella collettività che pare entusiasta, ma anche frastornata: una collettività che — sappiamo — è tuttavia rapita nel cambiare umori, col rischio che legalità e garanzie possano rinascere male, all’improvviso, a colpi d’ascia o di ritorsioni. E questo sarebbe altrettanto pericoloso. MASSIMO NOBILI Ordinario di Procedura penale nell’Università di Bologna


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LA RIFORMA DELL’INCIDENTE PROBATORIO (*)

1. Per l’appassionato di archeologia normativa gli articoli 392 e seguenti del codice di procedura penale rappresentano curiosi ed istruttivi reperti: testimoniano di un ‘‘c’era una volta’’ legislativo tanto cronologicamente vicino, quanto ormai culturalmente lontano. Narrano di un tempo in cui l’inchiesta preliminare doveva restare al di sotto del processualmente rilevante e la prova si doveva formare in dibattimento, salvo che fosse ad esso non rinviabile. Soccorreva in tal caso, appunto, l’incidente probatorio, parentesi giurisdizionale in fase investigativa. Appare oggi patetico lo scrupolo con cui lo si disciplinò per scongiurare « il pericolo che l’uso dell’istituto esorbit[asse] dall’eccezionalità » (1). Un pericolo attualmente inesistente. Il problema, anzi, non è più quello di evitare un massiccio ricorso a questa sorta di ‘‘cautela probatoria’’, ma di riconoscerle un senso ed una funzione. Con il passaggio da un sistema in cui la prova aveva la sua sede elettiva nel dibattimento ad un sistema in cui la prova si forma nelle indagini, salvo che quella dibattimentale risulti meramente confermativa, l’incidente probatorio è ‘‘in difficoltà di senso’’. Per quale ragione il pubblico ministero dovrebbe affrontare il contraddittorio dinanzi al giudice, quando può assumere lo stesso dato conoscitivo unilateralmente e confidare sulla sua utilizzazione ai fini del giudizio? Infatti, o la prova dibattimentale conferma l’acquisizione investigativa, e allora muta il veicolo formale, ma il risultato conoscitivo non cambia; o la prova dibattimentale contraddice l’acquisizione investigativa, e allora questa — per il tramite delle contestazioni — entra a far parte del materiale cognitivo utilizzabile dal giudice per la decisione (non essendo a ciò di nessuno ostacolo la superabilissima condizione posta dal quarto comma dell’art. 500 c.p.p.). Certo, si potrebbe osservare che il ricorso all’incidente probatorio è previsto per i casi in cui si presume che non sarà possibile assumere o assumere genuinamente la prova in dibattimento; per i casi, cioè, in cui la (*) Testo della relazione svolta al Convegno su « La giurisdizione come servizio », tenutosi ad Ivrea nei giorni 16-17-18 giugno 1995. (1) Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, in Gazz. uff., 24 ottobre 1988, serie generale, n. 250, Suppl. ord. n. 2, p. 188.


— 662 — ‘‘prova’’ formata durante le indagini non potrà o non potrà utilmente essere ‘‘surrogata’’ — come si è espressa freudianamente la Corte costituzionale (2) — dalla prova dibattimentale. Ma anche in tal caso l’incidente probatorio appare un arnese vecchio e svantaggioso. Quando « vi è fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso », come si esprime l’art. 392 comma 1 lett. b) c.p.p., il pubblico ministero non dovrà far altro che assumere unilateralmente la deposizione. Le stesse argomentazioni che avrebbe dovuto svolgere per ottenere l’incidente probatorio, infatti, gli saranno sufficienti perché le dichiarazioni acquisite possano essere « valutate come prova dei fatti in esse affermati », ai sensi dell’art. 500 comma 5 c.p.p., che dell’art. 392 riproduce fedelmente il disposto. Anche quando « vi è fondato motivo di ritenere che la persona non potrà essere esaminata nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento » il ricorso all’incidente probatorio appare superfluo e quindi, in un’ottica di parte, sconsigliabile. Al pubblico ministero basterà usare l’accortezza di delegare l’atto ad un ufficiale di polizia giudiziaria o di farlo assistere al suo compimento. Una volta sopravvenuta l’irripetibilità, non resterà che citare l’ufficiale di polizia giudiziaria affinché deponga sull’atto medesimo — operazione vietata dall’art. 195 comma 4 c.p.p., ma ammessa dalla Corte costituzionale (3) — e dare per questo tramite ingresso nel dibattimento ad un elemento conoscitivo mai sottoposto al vaglio del contraddittorio. Almeno per quanto riguarda le prove dichiarative, quindi, l’incidente probatorio è ormai un lusso garantistico, di cui il pubblico ministero si priva volentieri. Se poi si considera che l’individuazione è generalmente considerata dalla giurisprudenza atto irripetibile da allegare, in quanto tale, al fascicolo per il dibattimento con valore di prova (4) e che per la perizia si fa frequente ricorso al meccanismo surrogatorio predisposto dall’art. 360 c.p.p., ci si rende conto di come l’istituto risulti ormai, di fatto, devitalizzato. Non meno infrequente, sia pure per motivi assai diversi, il ricorso all’incidente probatorio da parte della difesa. (2) Corte cost., sent. 3 giugno 1992, n. 255. La prova dibattimentale come mero remake dell’acquisizione investigativa, d’altra parte, non è che un corollario dell’approccio ‘‘deformalizzante’’, alla cui stregua la Corte costituzionale è praticamente giunta ad identificare la prova con ogni dato conoscitivo comunque reperito (v. infra par. 3). (3) Sent. 31 gennaio 1992, n. 24. (4) Anche se poi è stato escluso che la mancata previsione del diritto del difensore di assistere all’atto di individuazione violi il diritto di difesa, sull’assunto che si tratta di « atto che esaurisce i suoi effetti all’interno della fase in cui viene compiuto » (Corte cost., sent. 23 maggio 1991, n. 265).


— 663 — Se è nelle possibilità, ma non nell’interesse del pubblico ministero, l’incidente probatorio è nell’interesse, ma, in genere, non nelle possibilità della difesa. Questa può ignorare l’esistenza del procedimento sino al termine delle indagini preliminari o, quando c’è, sino all’informazione di garanzia (5). Ad un momento, cioè, spesso tardivo per assicurare prove non rinviabili. Il diritto alla prova della difesa in questa situazione è stato ritenuto a tal punto compresso da indurre la Corte costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità degli artt. 392 e 393 c.p.p. nella parte in cui non consentono che l’incidente probatorio possa essere richiesto anche nella fase dell’udienza preliminare, che costituisce spesso per la difesa il primo momento utile (6). La declaratoria rende meno insopportabile il pregiudizio, ma non risolve il problema. Come ha osservato l’Avvocatura generale dello Stato nel giudizio dinanzi alla Corte, infatti, l’inconveniente lamentato potrebbe essere adeguatamente eliminato soltanto ancorando l’obbligo di trasmissione dell’informazione di garanzia ad una fase antecedente a quella considerata dal legislatore. Anche per la difesa, dunque, l’incidente probatorio è via processuale di limitatissima percorrenza, che cadrà presto in disuso se verrà approvato il disegno di legge in discussione al Senato su custodia cautelare e diritto di difesa, nel quale l’infelice art. 38 disp. att. viene riformulato nel senso di conferire al difensore, di fatto, un autonomo potere di formazione della prova. Una riforma improvvida, sulla quale si dovrà tornare più avanti. A fronte di questa macroscopica difficoltà operativa dell’incidente probatorio, suonano oggi persino irridenti i limiti previsti dall’art. 403 c.p.p., che ne inibisce l’utilizzazione nel dibattimento nei confronti degli imputati i cui difensori non vi abbiano partecipato. Una disposizione di pregnante significato in un sistema che riteneva prova e contraddittorio termini di un’inscindibile endiadi, ma che oggi appare un anacronismo normativo, atteso che il novellato art. 238 c.p.p. consente l’acquisizione come prova di qualsiasi res inter alios acta, assunta nell’incidente probatorio o nel dibattimento di altri procedimenti. Insomma, nessuno può seriamente contestare che la riforma dell’istituto sia tra le più urgenti. 2.

Già, ma come riformare? Un’unica certezza: si deve assoluta-

(5) Del resto, quand’anche venisse a conoscenza aliunde del procedimento, la difesa si trova, essendole precluso l’accesso al registro delle notizie di reato (art. 335 comma 3 c.p.p.), nell’impossibilità di dimostrare l’attualità del procedimento e, quindi, la sua legittimazione a richiedere l’incidente probatorio. E la mancanza di prova circa l’attualità di indagini preliminari rende irricevibile la richiesta (G.i.p. trib. Roma 6 giugno 1990, in Giur. it., 1990, II, c. 440). (6) Corte cost., sent. 23 febbraio 1994, n. 77.


— 664 — mente abbandonare la consolidatissima tradizione italica di apprestare cure senza diagnosi. Il nostro è un legislatore specialista in terapie sintomatiche che coprono di belletto normativo alcune deficienze o difficoltà emergenti dalla prassi, lasciando insoluto il problema e, spesso, creandone di nuovi. L’incidente probatorio era novità qualificante del nuovo codice. Di più, era figlio di una ideologia della prova. Questa tramontata, si deve riconsiderare anche il senso di una sua permanenza. L’incidente probatorio non è una regola che possiamo riconsiderare perché ha dato cattiva prova di sé. L’incidente probatorio costituisce una deroga al principio secondo cui è il dibattimento il luogo elettivo di formazione della prova. Esso è dunque tema accessorio, non ha autonomia concettuale e processuale: è un satellite del pianeta prova, e ne segue le sorti. Per questo, interrogarsi sul futuro dell’incidente probatorio significa interrogarsi intorno a quale scelta di gnoseologia giudiziaria ricostruire il sistema e, quindi, sulle ragioni del fallimento di quella che lo innervava. Significa, in definitiva, interrogarsi sui possibili sviluppi evolutivi di quest’informe coacervo di norme che per pigrizia continuiamo a chiamare codice. Risiede in ciò la difficoltà del tema affidatomi: schiude orizzonti che non possono ovviamente essere compresi nello spazio di questo intervento, ma che non possono essere ignorati. Procederò per semplificazioni. Tralascio le molteplici cause che, sinergicamente operando, hanno determinato la disfatta della codificazione dell’88, a parte le sue innegabili deficienze. Soltanto a mo’ di incompleto catalogo ricordo: l’impreparazione organizzativa, strutturale e culturale; lo spaventoso arretrato; l’ipertrofia delle fattispecie penali, che determina una sopravvenienza annua di alcuni milioni di notizie di reato; l’allarmante recrudescenza della criminalità organizzata. La reazione di rigetto al codice ha assunto forme diverse che, a parte quelle espressive di mero misoneismo o di vieto corporativismo, si sono agglutinate lungo una linea di resistenza culturale, che non è difficile intravedere guardando in filigrana la giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito e le novellazioni legislative. Il denominatore comune che abbraccia gran parte delle interpolazioni subìte dal nuovo codice è questo: l’incoercibile tendenza a recuperare a fini probatori i materiali investigativi raccolti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, all’insegna del principio di non dispersione dei mezzi di prova, di fresco ed autorevole conio. Non credo, non voglio credere, che ciò sia espressione di una ‘‘istintiva’’ predilezione per la prova scritta, formata in segreto dall’organo inquirente. Certo, le suggestioni esercitate da una prova preconfezionata, e per di più preconfezionata dal collega della porta accanto, non saranno del


— 665 — tutto estranee a tale propensione. Certo, molti magistrati rispetto all’ideologia accusatoria sono ottimi credenti e pessimi praticanti, ma queste sono osservazioni meramente descrittive del fenomeno, che non ne individuano la ragione profonda. Se si considera che rispetto al codice del 1930, il quale consentiva al pubblico ministero di formare la prova inaudita altera parte, la spinta giurisprudenziale è stata nel senso di anticipare le garanzie della difesa al primo momento di formazione delle prove; mentre rispetto al codice del 1988, che negava valore probatorio agli atti compiuti prima del giudizio, la spinta è stata verso una valorizzazione probatoria degli stessi, l’orientamento costantemente espresso è stato semmai quello di privilegiare le acquisizioni conoscitive più prossime al fatto. Quando più nitide sono le percezioni, più spontanei i contributi conoscitivi offerti, meno elaborata la strategia difensiva. Di fronte a questa radicata e per molti aspetti condivisibile propensione, la soluzione ottimale sarebbe indubbiamente quella di avvicinare il dibattimento al fatto-reato. Il legislatore del 1988 ha illusoriamente pensato di poterlo fare per legge, imponendo termini massimi alla fase che si interpone tra il fatto e il giudizio; ma l’artificiosità del rimedio lo condannava all’insuccesso. Come era prevedibile, la realtà si è ribellata a questa camicia di Nesso normativa. Da tempo si va ripetendo che il rimedio deve essere strutturale: drastica depenalizzazione, giudice di pace, potenziamento della polizia giudiziaria, ampliamento dell’organico giudiziario, spazi di discrezionalità controllata nell’esercizio dell’azione penale, modernizzazione degli strumenti di elaborazione dei dati e di documentazione degli atti, revisione delle circoscrizioni, razionalizzazione delle risorse ecc. Ma ormai sono discorsi che hanno assunto la stucchevole cadenza di una litania, tanto scontata, quanto sterile: le difficoltà d’ordine economico, la vischiosità burocratica, le resistenze corporative e localistiche, l’immane arretrato giudiziario inducono a temere che, quanto meno, non si tratti di obbiettivi realizzabili in tempi stretti. Nel breve e medio periodo si dovrà fare i conti con questa realtà. 3. Almeno un insegnamento dalla malinconica e acerba parabola del ‘‘nuovo’’ codice, dunque, dobbiamo trarlo: è votata all’insuccesso qualsiasi riforma che non tenga conto del fattore « Tempo » o che illusoriamente lo concepisca come una variabile dipendente dal modello processuale scelto. Nelle attuali condizioni strutturali e organizzative il fattore T costituisce una variabile indipendente, capace di fagocitare o di adulterare qualsiasi modulo processuale che con essa non faccia i conti. Bisogna abituarsi a pensare, da qualunque ideologia processuale si prenda le mosse, che ogni modello normativo deve poter camminare con gambe, il cui


— 666 — passo è segnato; che è inutile contemplarlo, gestalticamente armonioso, nella sua staticità: bisogna ‘‘diacronicizzarlo’’, metterlo alla prova dei nostri geologici tempi processuali, sperimentare la sua funzionalità dinamica. Altrimenti sarà il fattore T a reagire su di esso, irreparabilmente snaturandolo. Ed allora, poiché è allo stato impensabile un dibattimento cronologicamente prossimo al fatto da accertare, si deve dolorosamente rinunciare all’idea che tutte le prove vi si debbano formare, salvo limitatissime eccezioni. Quando il giudizio si celebra a distanza di anni dal fatto, la prova che vi si forma è quasi sempre un’artificiosa parodia; in genere diviene, fatalmente, ventriloqua: a muoversi sono le labbra del dibattimento, ma a parlare è il ventre delle indagini. E nel caso poi di difformità tra risultanze dibattimentali e risultanze investigative, queste esercitano una spinta alla lunga non resistibile: per il codice del 1988, il massimo valore dimostrativo che poteva avere ciò che precedeva la prova era di destituirla di attendibilità. Il sistema pagava, indubbiamente, un alto tributo in termini di conoscenze probatoriamente utilizzabili. Con due robuste spallate la Corte costituzionale ha abbattuto le paratìe che separavano le indagini dal giudizio, le risultanze delle prime sono diventate utili materiali per costruire il secondo. La strada improvvidamente inaugurata dalla Corte costituzionale è stata portata avanti, con qualche tortuosità, dal legislatore del 1992 e vi sono ancora lavori in corso, che proprio in questi giorni hanno assunto cadenze febbrili presso la Commissione Giustizia del Senato, che sta esaminando il disegno di legge già approvato dalla Camera dei deputati, su « Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa ». Anche se si farà una certa fatica ad ammetterlo, infatti, è nella prospettiva della non dispersione dei mezzi di prova che si va a collocare la sciagurata interpolazione dell’art. 38 disp. att., contenuta nel menzionato disegno di legge e diretta a consentire al difensore di « presentare direttamente al giudice elementi che egli reputa rilevanti ai fini della decisione da adottare » (comma 2-bis) e di inserirli « nel fascicolo relativo agli atti di indagine » (comma 2-ter). Una norma così costruita prefigura una soluzione ancor più insoddisfacente di quella che, oggi, costringe la difesa ad una mortificante ‘‘questua probatoria’’, affinché il pubblico ministero si degni di assumere elementi contro la sua stessa ipotesi accusatoria: nella situazione attuale, si nega inammissibilmente alla parte privata un pari diritto alla prova rispetto alla parte pubblica; nella situazione auspicata, il pari diritto alla prova verrebbe inteso, altrettanto inammissibilmente, nel senso che il difensore sarebbe libero di autoconfezionarsi il materiale probatorio, svin-


— 667 — colato da quelle forme e garanzie, cui è tenuta la stessa accusa. La documentazione di parte, infatti, una volta inserita nel fascicolo del pubblico ministero e utilizzata per le contestazioni, potrebbe avere ingresso a pieno titolo nel giudizio come prova. Una tale conseguenza sarebbe già immediatamente desumibile, per le sole dichiarazioni testimoniali, del primo comma dell’art. 500 c.p.p., che pone genericamente la condizione che si tratti di dichiarazioni « contenute nel fascicolo del pubblico ministero ». Ma la stessa Corte costituzionale, se vorrà essere coerente con le premesse da essa poste, si potrebbe incaricare di generalizzarla. Infatti, per usare le sue parole, contrasterebbe con il principio del libero convincimento che una dichiarazione, « entrata nel patrimonio di conoscenze del giudice », se ritenuta veritiera « non possa essere utilmente acquisita al fine della prova dei fatti in essa affermati » (7). La Corte ha rilanciato una concezione del principio molto somigliante ad una forma degenerativa, che la storia ha già nefastamente sperimentato: il libero convincimento come idrovora che tutto ingoia e metabolizza, restituendolo sotto forma di sentenza. Lungo questa china, il libero convincimento da antidoto contro la prova legale traligna fatalmente in strumento eversivo contro la legalità della prova. Di certo, se lo scenario sarà quello che si va prefigurando, di atti di parte utilizzabili dal giudice come prova, non vi è più posto per l’incidente probatorio. Questo di oggi sarebbe un ozioso argomentare. Si potrebbe tranquillamente abrogare la disciplina normativa dell’istituto (8) o attendere che l’attuale atrofia si risolva in necrosi. Beninteso, è una scelta anche questa, purché si abbia la consapevolezza che, per tal via, non si è venuti incontro all’esigenza di avvicinare la prova al fatto, ma si è distrutta la prova come momento dialettico. Niente impedisce di chiamare prova l’atto di parte, anche se a me sembra un ossimoro processuale. Del resto, l’Accademia del Parnaso ha come emblema un cane adagiato sulla dicitura in latino « questo cane è un leone », poiché pare che la tipografia non disponesse di un leone. Se la nostra tipografia legislativa non dispone del carattere « prova », niente ci impedisce di scrivere sotto ogni atto investigativo « questo documento di parte è una prova », e a tale stregua considerarlo. Potremmo anche, senza ritegno terminologico, mantenere nel nostro lessico parole come « contraddittorio », « principio dialettico », « sistema accusatorio », purché consci che battendo con le nocche queste parole altisonanti — come insegnava Salvemini — troveremo (7) Corte cost., sent. 18 maggio 1992, n. 255. (8) Magari con un piccolo ritocco all’art. 512 c.p.p., affinché ammetta la lettura anche dell’atto del difensore divenuto irripetibile.


— 668 — non pietra viva, ma sordo stucco. Che si è ripudiata, così facendo, l’idea secondo cui non vi è vera conoscenza, nel dominio del probabile, senza il confronto delle opinioni, delle verità di parte. Che si è rinnegato il valore maieutico del contraddittorio. Che la scena dibattimentale s’ingombrerà sempre più di materiale conoscitivo di riporto, sino ad esserne sommersa. 4. Anche se ha assai scarse possibilità, non dico di successo, ma di attenzione politico-legislativa, voglio fare una considerazione: quella che si sta delineando non è l’unica linea evolutiva del sistema, una volta realisticamente rinunciato a formare sempre la prova nell’oralità del dibattimento. Si può ripiegare su un modulo processuale che rinunci a perseguire ad ogni costo l’oralità-immediatezza, ma non defletta sull’altra ancor più importante garanzia dell’oralità-contraddittorio, della formazione dialettica della prova dinanzi ad un giudice. In questa prospettiva l’incidente probatorio avrebbe un vigoroso rilancio funzionale. Si potrebbe ripensare alla fase investigativa, come ad una fase in cui le parti cercano unilateralmente e informalmente di individuare le fonti di prova, con il correttivo di un incidente probatorio operabile, senza l’attuale rigidità di presupposti, ogniqualvolta una parte intenda assicurarsi in anticipo la trasformazione dei risultati della sua indagine in prova. Ovviamente ciò comporta, da un lato, che la difesa sia messa fin dall’inizio, salvo un potere di segretazione del pubblico ministero per le primissime fasi, nella condizione di cercare le prove; dall’altro, che si affermi l’inutilizzabilità di atti predibattimentali, salvo quelli irripetibili e quelli formati con le garanzie dell’incidente probatorio. Una scelta del genere non si porrebbe in rotta di collisione con la giurisprudenza della Corte costituzionale: si farebbe anzi carico dell’esigenza, da questa sottolineata con forza, di non disperdere dati conoscitivi importanti emersi durante le indagini. Ma a differenza della Corte, che perseguiva l’obbiettivo attraverso una rinuncia di fatto alla formazione dialettica della prova, la linea di evoluzione normativa assai schematicamente evocata punta su una responsabilizzazione delle parti ammettendole alla formazione in contraddittorio della prova dinanzi ad un giudice, tutte le volte in cui ritengano opportuno assicurare al processo determinate acquisizioni conoscitive. Il sistema avrebbe, rispetto all’attuale, il pregio della flessibilità. Il ricorso all’incidente probatorio si modellerebbe sulla realtà del singolo procedimento e si adeguerebbe, più in generale, ai tempi della giustizia nel contesto dato. La possibilità di anticipare la formazione della prova, quando la prospettiva dibattimentale non appaia ragionevolmente prossima ai fatti da accertare, consentirebbe, inoltre, di rinunciare ai termini perentori per l’espletamento delle indagini, con la loro discutibile rigidità e con il farraginoso meccanismo necessario per garantirne l’osservanza.


— 669 — È innegabile, d’altro canto, che in un sistema in cui l’incidente probatorio non ha carattere eccezionale si sviliscono, in misura proporzionale all’uso che se ne farà, il ruolo del dibattimento e il valore dell’oralità, garantita soltanto in una forma mutila dei qualificanti requisiti dell’immediatezza e della concentrazione. Ma, a parte che l’alternativa, probabilmente, sarebbe quella di perdere tutto, si possono pensare soluzioni che consentano di limitare i denunciati inconvenienti, soprattutto in punto di immediatezza. Già il possibile ed economico ricorso alla videoregistrazione dell’atto assunto con incidente probatorio, consentirebbe, ad esempio, di far giungere al giudice del dibattimento qualcosa, che è sì solo un surrogato della percezione diretta, ma che è molto di più del nudo verbale. Si potrebbe sperimentare un ‘‘giudice per la prova’’ predibattimentale che sia anche giudice del dibattimento. In sostanza, tutte le volte in cui non fosse possibile portare la prova di fronte al giudice del dibattimento dovrebbe essere questo ad andare incontro alla prova. Nel procedimento pretorile, in particolare, si realizzerebbe un’identità tra chi forma la prova e chi la giudica, secondo uno schema non molto dissimile da quello compiutamente elaborato nella predisposizione del progetto di codice per la Repubblica di S. Marino. Una cosa, comunque, vale la pena di precisare: non deve aleggiare su un eventuale ampliamento degli spazi operativi dell’incidente probatorio lo spettro, da più parti evocato, del vecchio giudice istruttore. Ciò che distinguerà, comunque lo si voglia configurare, questo giudice per la prova dal giudice istruttore è la sua passività, che è garanzia di terzietà. Se la figura del giudice istruttore è stata ripudiata dal legislatore del 1988 non è perché poteva assumere la prova e decidere, ma perché poteva anche cercarla. La sua imparzialità era compromessa dalla sua attività istruttoria: ricercare, selezionare e assumere le prove è già decidere, in quanto presuppone un’ipotesi propulsiva; è una sorta di decisione in progress. Ma oltre a queste considerazioni di carattere tecnico, ve ne è una anche di carattere politico, che sconsiglia di nutrire ingiustificati timori di metempsicosi normativa. Se si continua a navigare a vista, come in questo primo lustro abbondante di applicazione del nuovo codice, con scarti di rotta estemporanei di una Corte costituzionale che si fa legislatore e di un legislatore da tutto condizionato, tranne che dai superiori interessi della giustizia, la ‘‘fobia’’ del giudice istruttore sarà destinata a stemperarsi presto in rimpianto. GLAUCO GIOSTRA Ordinario di Procedura penale nell’Università di Macerata


RIFLESSIONI IN TEMA DI SUICIDIO E DI EUTANASIA (*)

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2.1. La rilevanza giuridica del suicidio. - 2.2. Il suicidio tra concezioni utilitaristiche, individualistiche e personalistiche. — 3.1. L’eutanasia passiva e la fine della vita umana. - 3.2. L’eutanasia passiva rispetto ai soggetti incapaci. - 3.3. L’eutanasia passiva rispetto ai neonati in pericolo di vita. - 3.4. L’eutanasia passiva e il diritto di rifiutare le cure. - 3.5. Il diritto di lasciarsi morire e il c.d. testamento biologico. — 4.1. L’eutanasia indiretta: principi religiosi, etici e deontologici. - 4.2. Presupposti e fondamento della liceità dell’eutanasia indiretta. — 5.1. L’eutanasia attiva: principi religiosi, etici e deontologici. La legislazione penale e gli orientamenti giurisprudenziali. - 5.2. Il dibattito dottrinale. - 5.3. L’eutanasia attiva tra mutamenti contenutistici e prospettive di riforma. — 6. L’istigazione e l’aiuto al suicidio: critica della soluzione repressiva.

1. Premessa. — Dinanzi a problemi come il suicidio e l’eutanasia, esiste non una ma una pluralità di risposte, la cui correttezza può misurarsi solo alla stregua dell’impostazione ideologica adottata e della logicità del procedimento argomentativo seguito. Nei limiti in cui il tema lo consente, una riflessione condotta sul piano giuridico non può però prescindere dal riferimento ad uno Stato di diritto secolarizzato, cioè ad un ordinamento che esclude per sé stesso — e nei confronti dei consociati — scelte coscienziali e giudizi fondati su valori metafisici. Donde l’esigenza di un approccio laico, ove per laicità va inteso il ripudio di ogni pre-giudizio etico, emotivo e religioso e la sostituzione di valori trascendenti con beni giuridici gerarchicamente ordinati e in ogni caso ulteriormente soggetti a reciproci bilanciamenti (1). All’interno di tale prospettiva, appare preliminarmente necessario stabilire fino a quale punto l’individuo è arbitro della propria vita e della propria morte ed entro quale misura l’ordinamento giuridico è legittimato a intervenire, mediante la creazione di divieti nei confronti del singolo o l’imposizione di obblighi di intervento nei confronti di terzi. 2.1.

La rilevanza giuridica del suicidio. — Il tema dell’eutanasia

(*) In ricordo di Franco Bricola. (1) Sulla c.d. etica del lavoro del giurista, cfr. da ult. PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, 1234 ss.


— 671 — evoca immediatamente il generale problema della disponibilità della vita già solo per il fatto che, ove la vita venga considerata un bene assolutamente indisponibile, per ciò stesso si chiude ogni varco per un positivo riconoscimento dell’eutanasia. Al contrario, l’affermazione della liceità (a prescindere, ovviamente, dalla sua non sanzionabilità) del suicidio porta con sé la legittimità della condotta del medico che non interviene nei confronti del malato che consapevolmente rifiuta di curarsi; e ulteriori implicazioni derivano in ordine alle ipotesi di condotte eutanasiche. Ora, semplificando all’estremo i termini della questione ed evitando di soffermarci sull’evoluzione storica della repressione giuridica del suicidio — di per sé peraltro suscettibile di diverse interpretazioni (2) e comunque culminata nella sua decriminalizzazione —, deve osservarsi che, con la secolarizzazione dell’ordinamento giuridico, il diritto ha il compito esclusivo di regolare i rapporti tra i consociati, allo scopo di assicurare e mantenere una loro pacifica coesistenza; e questa sua finalità ontologicamente relazionale fa sì che la tutela dei beni sia proiettata verso le aggressioni esterne, non rivestendo rilievo le condotte poste in essere dagli stessi titolari. Contro una siffatta impostazione si potrebbe sostenere che l’assenza di un precetto normativo contenente un comando di vivere trova giustificazione nella non sanzionabilità della violazione e che il suicidio resta comunque un fatto antigiuridico perché rappresenta la più aperta negazione dell’ordinamento e la più decisa ribellione al contratto sociale che sta alla sua base (3). Ma se su un piano filosofico il suicidio forse davvero rappresenta — nella carica distruttiva che lo anima e nell’anelito di sovranità che (2)

La ricostruzione storica contenuta nel classico saggio in argomento di E. DUR-

KHEIM, Le Suicide. Etude de sociologie, Paris, 1897, è stata recentemente sottoposta ad una

serrata critica da MARRA, La repressione legale del suicidio. Analisi e sviluppo della ricostruzione durkheimiana, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1986, XVI, 129 ss. e ID., Suicidio, diritto e anomia. Immagini della morte volontaria nella civiltà occidentale, 1987, 99 ss. In sintesi, mentre Durkheim afferma che, nel corso dei secoli e presso tutte le civiltà, la repressione legale del suicidio si pone come il risultato di una forte disapprovazione sociale, al contrario Marra — con dovizia di fonti e ampia dimostrazione degli errori storici commessi da Durkheim — sostiene che tale riprovazione morale può rinvenirsi solo nel diritto religioso medievale. In una prospettiva storica vd. anche BERNARDINI, Dal suicidio come crimine al suicidio come malattia, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1994, 81 ss. (3) Così SCHMIDHÄUSER, Selbstmord und Beteiligung am Selbstmord im strafrechtlicher Sicht, in FS Welzel, 1974, 815 ss.; analogamente VITALE, L’antigiuridicità ‘‘strutturale’’ del suicidio, in Riv. internaz. fil. dir., 1983, 461, secondo cui il suicidio si oppone ‘‘alla struttura stessa del rapportarsi giuridico, giacché il diritto, lungi dall’essere una mera tecnica di organizzazione sociale, si rivela come una forma di strutturazione e misurazione reciproca della co-esistenza, ove lo statuto deontico della doverosità, che si esprime nel dover-essere della norma, va più precisamente inteso come dovere-di-essere’’ (nello stesso senso e per un’estensione di tali idee al tema dell’eutanasia, D’AGOSTINO, Eutanasia, diritto e ideologia, in Iustitia, 1977, 303 ss.). Per l’affermazione che ‘‘il diritto, il quale è relatio ad alteros, non


— 672 — esso esprime — l’antitesi del diritto (come di qualunque entità od ordine superiore), tale constatazione non implica ancora la sua intrinseca illiceità, la quale potrebbe derivare solo dal disconoscimento della facoltà di darsi la morte. Posta dinanzi a questo problema, una parte della dottrina si limita a rilevare la valutazione negativa espressa dal codice penale verso il suicidio, così come emerge da un lato attraverso l’incriminazione dell’omicidio del consenziente e dell’istigazione o aiuto al suicidio (artt. 579 e 580 c.p.), dall’altro mediante la configurabilità del reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.) a carico di chi si astiene dall’intervenire in favore di colui che — in conseguenza di atti suicidiari — ‘‘sia o sembri inanimato’’ ovvero ‘‘ferito o altrimenti in pericolo’’ (4). In verità, tali riferimenti appaiono deboli: il primo, perché ‘‘nulla impedisce di ammettere che, mentre lo Stato riconosce al titolare di un bene la facoltà di ledere un proprio bene, non riconosce però allo stesso titolare il potere di efficacemente si occupa delle azioni che non escono dalla sfera intima dell’individuo’’, vd. invece già MANa ZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1985, 5 ed., (a cura di G.D. Pisapia), VIII, 109 s. (4) Per tutti, ALTAVILLA, Delitti contro la persona. Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe, in Trattato di diritto penale, coord. da E. Florian, 1934, 4a ed., 151, il quale definisce il suicidio come un ‘‘illecito giuridico impunito, ma non tollerato’’ (similmente ID., Il suicidio nella psicologia, nell’indagine giudiziaria e nel diritto, 1932, 221); in senso conforme, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. sp., 1992, 10a ed., (a cura di L. Conti), I, 62; LEGA, Il ‘‘diritto di morire con dignità’’ e l’eutanasia, in Giur. it., 1987, IV, 472; MAGa o GIORE, Diritto penale, 1949, 5 ed., I, t. 1 , 333, nota 1; MANNA, Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico, 1984, 72; NUVOLONE, Linee fondamentali di una problematica giuridica del suicidio, in Suicidio e tentato suicidio in Italia, 1967, 399 (il quale addirittura auspica una misura di sicurezza, a contenuto psicoterapeutico e parzialmente limitativo della libertà personale, nei confronti del mancato suicida, che ‘‘pur non essendo sempre un anormale, è tuttavia un individuo dalla personalità particolare, che lo rende pericoloso a sé e può renderlo pericoloso agli altri, per i dimostrati legami tra autoaggressività ed eteroaggressività’’); B. PANNAIN-SCLAFANI-M. PANNAIN, L’omicidio del consenziente e la questione ‘‘eutanasia’’, 1988, 2a ed., 174, nota 2; VANNINI, Il delitto di omicidio, 1935, 1 s.; sost. conf. PORTIGLIATTI BARBOS, Diritto a morire, in Dig. pen., 1990, IV, 5 s., il quale per un verso afferma l’incoercibilità del vivere, per l’altro verso osserva che l’ordinamento giuridico riprova il suicidio ‘‘allorché dia origine ad effetti dannosi nei confronti di terzi, specie sotto il profilo dell’esempio suggestivo che può offrire’’ e da tale assunto desume che il togliersi la vita ‘‘è un fatto sicuramente antigiuridico’’; NANNINI, Il consenso al trattamento medico, 1989, 544, secondo cui il suicidio rappresenta ‘‘un comportamento in sé e per sé riprovevole e ‘indegno’ ’’. Per l’indifferenza del suicidio agli effetti giuridici vd. invece MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 1981, 5a ed., (a cura di G.D. Pisapia), I, 636 e ivi nota 24; ID., (nota 3), 111; MARINI, Omicidio, in Dig. pen., 1994, VIII, 532; R. PANNAIN, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, 1965, 161 s.; PATALANO, I delitti contro la vita, 1984, 206. Sulla liceità del suicidio vd. infine RAMACCI, Premesse alla revisione della legge penale sull’aiuto a morire, in Studi Nuvolone, 1991, II, 207; nonché — per l’impossibilità di stabilire la valenza normativa del suicidio alla luce della legislazione ordinaria, trascurando l’art. 32 Cost. — ID., in RAMACCI-RIZ-BARNI, Libertà individuale e tutela della salute, in Riv. it. med. leg., 1983, 854.


— 673 — consentire ad altre persone la facoltà di ledere il medesimo bene’’ (5); il secondo, perché frutto di una non condivisibile interpretazione dell’art. 593 c.p. In ogni caso, la teoria in esame trascura che il vigente codice non sanziona né gli atti di autolesionismo (6) né le condotte di assunzione di sostanze (stupefacenti o alcooliche) dannose per la salute individuale. Un’altra parte della dottrina — muovendo dall’art. 2 Cost. — afferma invece che la Costituzione italiana ispira l’intero ordinamento giuridico ai valori complementari del personalismo e del solidarismo, riconoscendo cioè ai singoli un’inviolabile sfera di autonomia ma al contempo imponendo loro l’adempimento di inderogabili doveri sociali. A monte di questi ultimi — prosegue la teoria in esame —, quale presupposto idoneo a garantirne il soddisfacimento, si porrebbe in particolare l’obbligo di preservare minimali condizioni di integrità psico-fisica (7); onde il diritto alla salute (sancito dall’art. 32 Cost.) verrebbe tutelato solo in quanto diritto sociale, poiché teso alla soddisfazione di un interesse anche collettivo, mentre rispetto al singolo individuo assumerebbe la valenza di un mero interesse protetto ovvero di un semplice interesse di fatto. Una siffatta impostazione appare tuttavia il frutto di un paralogismo, giacché da un lato il principio costituzionale di solidarietà trova il suo limite nei principi — parimenti rinvenibili nel testo costituzionale — della libertà di autodeterminazione e del divieto di utilizzare la persona umana per l’attuazione di interessi collettivi; dall’altro lato, l’imposizione di doveri solidaristici è formulata, nella Costituzione come in qualsiasi altro settore dell’ordinamento giuridico, solo nei confronti di chi previamente si trova nelle condizioni di adempiere e non porta con sé l’ulteriore obbligo di mantenere inalterate (o addirittura di migliorare!) tali condizioni quale pre-requisito strumentale per il successivo adempimento. Di più, l’interpretazione in esame finisce con il trasformare un diritto fondamentale in una posizione di soggezione, astrattamente in grado di consentire qual(5) Così già GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, 1924, 435 s. (6) Apparenti eccezioni a questo assunto sono rappresentate dagli artt. 157 e 158 c.p.m.p. e 115 c.p.m.g. (che sanzionano il militare che si procura una lesione al fine di sottrarsi al servizio) e dall’art. 642 c.p. (che punisce chi si cagiona una lesione allo scopo di conseguire il prezzo di un’assicurazione). Nel primo caso, tuttavia, viene repressa la violazione di uno speciale obbligo di fedeltà alla Patria da parte del cittadino, nel secondo caso è tutelato l’interesse patrimoniale dell’ente assicurativo. (7) Con varietà di accenti BELLINI, Aspetti costituzionali con più specifico riferimento alla libertà religiosa, in Trattamenti sanitari fra libertà e doverosità, 1983, 64 ss.; CAPIZZANO, Vita e integrità fisica (diritto alla), in Nov. dig. it., 1975, XX, 1006 ss.; D’ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, 1983, 198 ss.; GUSTAPANE, La rilevanza giuridica dell’autolesionismo, in Iustitia, 1991, 151 s.; MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Raccolta di scritti, 1972, III, 436; PERLINa GIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, 1991, 2 ed., 369 s.; ID., Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982, 1043 ss.; ZAMBRANO, Eutanasia, diritto alla vita e dignità del paziente, in Rass. dir. civ., 1990, 870 ss.


— 674 — siasi ulteriore trattamento giustificabile in nome di una presunta utilità collettiva (8). Anche sul piano costituzionale, dunque, l’illiceità del suicidio — come di qualunque altro atto destinato a risolversi esclusivamente nella sfera individuale, in assenza di riflessi esterni — non trova riconoscimento. Al fine di trovare una risposta al nostro problema, si rende pertanto necessario abbandonare il diritto positivo e riflettere sui reali contenuti implicati dalla tesi che afferma l’illegittimità del suicidio. 2.2. Il suicidio tra concezioni utilitaristiche, individualistiche e personalistiche. — Un comando di vivere è certamente concepibile ove si ammetta che la nostra vita appartiene ad un’entità superiore, sia essa Dio o la società (9). In particolare, una volta spogliata di componenti religiose che intendono la vita come un dono divino, la teoria che sostiene l’illiceità (8) L’orientamento oggi dominante afferma il diritto esclusivo dell’individuo in ordine alla propria salute, comprendendovi il diritto a non curarsi e a lasciarsi morire: tra gli altri, BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, 1984, 59 s. e 385 s.; D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti ‘‘sanitari’’ (a proposito dei Testimoni di Geova), in Dir. e soc., 1981, 536 ss.; LUCIANI, Il diritto costituzionale alla salute, ivi, 1980, 780 ss.; MODUGNO, Trattamenti sanitari ‘‘non obbligatori’’ e Costituzione (a proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), ivi, 1982, 309 ss.; PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione (a proposito della disciplina delle vaccinazioni), ivi, 1979, 903 s.; RESCIGNO, Conclusioni, in Trattamenti sanitari fra libertà e doverosità, cit., 187 ss.; RODOTÀ, Dilemmi della vita e della morte, in La bioetica. Questioni morali e politiche per il futuro dell’uomo, (a cura di M. Mori), 1991, 202; ID., Per un nuovo statuto del corpo umano, in Bioetica, (a cura di A. Di Meo e C. Mancina), 1989, 59 s.; ROMBOLI, Atti di disposizione del proprio corpo (art. 5), in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, (a cura di F. Galgano), Artt. 1-10, 1988, 342 ss.; VINCENZI AMATO, Tutela della salute e libertà individuale, in Trattamenti sanitari fra libertà e doverosità, cit., 21 ss.; ID., Art. 32, comma 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti etico-sociali, 1976, 174 ss. Conformemente si è pronunciato il Comitato nazionale per la Bioetica in un parere reso il 2 giugno 1992 (cfr. Riv. it. med. leg., 1993, 190 ss.), ove si afferma che, ‘‘ferma restando l’esistenza del diritto alla salute e una certa nota di doverosità nel conservarla, ricavabile dall’insieme delle disposizioni costituzionali, sussisterebbe tuttavia la facoltà — o, meglio, la liceità o la mera libertà di fatto — di sacrificare tale diritto, o più precisamente i beni oggetto del diritto’’. Sull’assenza di precisi riferimenti costituzionali in grado di orientare univocamente la soluzione del problema, vd. infine ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo: profili costituzionali, in Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, (a cura di L. Stortoni), 1992, 30. (9) Vd. infatti VANNINI, I delitti contro l’integrità della stirpe e l’omicidio del consenziente, in Riv. it. dir. pen., 1932, 162 s., che — a proposito del reato di cui all’art. 579 c.p. — osserva come ‘‘l’omicidio del consenziente è, senza dubbio, un delitto sulla persona, ma non può dirsi un delitto contro la persona. L’azione che lo pone in essere (...), nella sua direzione delittuosa, come attività illecita, va contro a un obbietto che trascende la sfera giuridica personale, colpisce un bene che è nella persona ma non è della persona. (...) Nell’omicidio del consenziente ciò che il delitto lede non è, né potrebbe essere, un interesse personale; è sempre e soltanto un interesse di immediata, diretta pertinenza statale: è l’interesse pubblico alla conservazione dell’esistenza fisica dei consociati, è un interesse demografico e nient’altro’’. Per la religione cattolica, invece, ‘‘ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. È lui che ne rimane il sovrano Padrone. (...) Siamo gli ammi-


— 675 — del suicidio deve oggi proiettarsi su una prospettiva di tipo collettivistico, ove il singolo viene considerato esclusivamente in quanto membro della società e solo all’interno di questa ottiene il riconoscimento dei suoi diritti; la sua libertà, in altri termini, si collega (non al rispetto delle sfere giuridiche altrui ma) alla meritevolezza di tutela delle sue singole manifestazioni e viene ulteriormente filtrata alla luce di superiori interessi, a loro volta in grado di assegnarle diversi contenuti e valori. Tuttavia, è dubbio se una siffatta impostazione funzionalistica possa arrestarsi semplicemente al comando di non darsi la morte o se piuttosto non porti già dentro di sé — come presupposto strumentale per l’adempimento dei doveri sociali — anche l’obbligo di mantenere uno stato ottimale di salute e di sottoporsi ad ogni intervento terapeutico e trattamento sanitario; per poi giungere ad una serie di precetti relativi al ‘‘tipo’’ di vita, come ad esempio il divieto di condurre una vita oziosa o comunque contrastante con gli interessi comuni: salvo a non ammettersi infine un’eutanasia economica o eugenica, ove più utile agli interessi collettivi! In realtà, però, è inutile indugiare su queste considerazioni, potendosi ritenere oggi definitivamente avvenuto — almeno a livello teorico — il superamento di qualsiasi concezione utilitaristica (10). Per quanto ci riguarda, una particolare utilità non può tuttavia ascriversi neppure al tentativo di affermare l’illiceità del suicidio come espressione di una concezione individualista, contrapposta al valore del personalismo che ispira il vigente ordinamento giuridico. Invero, una volta ammesso che il principio personalistico ‘‘funziona da trait d’union fra il mondo giuridico e quello dei valori sociali’’ (11), nel senso cioè che trasferisce nel mondo del diritto gli atteggiamenti culturali della società in modo da garantire una reciproca corrispondenza, diviene evidente la sua natura eminentemente relativa e non trascendente. Nulla impedisce quindi che l’atto suicidiario, in conseguenza di una mutata sensibilità collettiva verso il valore della vita e il significato della morte, entri nistratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo’’ (Catechismo della Chiesa cattolica, 1992, § 2280); per ulteriori riferimenti, CAPRILE, Il magistero della Chiesa sull’eutanasia, in Morire sì, ma quando?, (a cura di P. Beretta), 1977, 193 ss.; CICCONE, ‘‘Non uccidere’’. Questioni di morale della vita fisica, 1984, 114 ss.; CONCETTI, L’eutanasia. Aspetti giuridici, teologici, morali, 1987, 65 ss.; SGRECCIA, Manuale di bioetica, 1988, 78 ss. Per una meditazione sui presupposti teorici dei diversi significati attribuiti al suicidio, vd. infine FLETCHER, In Verteidigung des Suizids, in Suizid und Euthanasie, (a cura di A. Eser), 1976, 233 ss.; MARRA, Suicidio, diritto e anomia, cit., (nota 2), 263 ss. (10) Cfr. per tutti PALAZZO, Persona (delitti contro la), in Enc. dir., 1983, XXXIII, 298, il quale osserva che il ripudio di tale concezione esclude decisamente ‘‘sia che la persona venga strumentalizzata in funzione di una totalizzante ragione di Stato, sia che venga misconosciuta a vantaggio di un’unitaria e mitica ‘collettività’, entità senza volto ma non per questo meno capace di generare disumane aberrazioni’’. (11) Testualmente, PALAZZO, (nota 10), 298.


— 676 — tra le manifestazioni della personalità umana meritevoli di rispetto e di tutela. In ogni caso, a dimostrare l’irrisolvibilità della tensione tra individualismo e personalismo e la vaghezza della linea di confine tra i due valori, è sufficiente osservare che, se la libertà di disporre dei propri beni caratterizza certamente il principio personalistico, una sua eccessiva dilatazione ‘‘contiene i germi di quella filosofia individualistica ed egocentrica, di certo antitetica proprio al principio personalistico’’, mentre ‘‘un’eccessiva sottolineatura di tale prospettiva solidaristica potrebbe celare propensioni utilitario-collettivistiche e quindi antipersonalistiche’’ (12). Al fine di avviare il problema verso una soluzione, può rivelarsi invece ben più feconda la notazione che la dottrina oggi dominante riconosce il diritto di ogni soggetto di rifiutare le cure e di lasciarsi morire e il correlativo obbligo per il medico di rispettare la volontà del malato, anche quando dalle sue scelte possa derivare la morte: ciò che implica una disponibilità del bene sia della salute che della vita, cioè la loro incoercibilità (13). È ovvio che, tra tutti i fattori che hanno contribuito al diffondersi di tale concezione, un ruolo di rilievo spetta all’evoluzione della scienza medica che, dilatando i confini della vita oltre le leggi della natura, ha trasformato l’individuo in un potenziale oggetto e la vita e la morte in un fatto artificiale; sarebbe però errato trascurare che questa reificazione dell’uomo, quasi paradossalmente, da un lato è sfociata in un’energica condanna dell’individualismo sotteso dalle tecniche di clonazione e di manipolazione genetica, dall’altro lato — congiungendosi anche ad una nuova cultura del benessere determinata dal miglioramento delle condizioni esistenziali e ad una maggiore sensibilità sul valore della vita intesa come manifestazione della personalità umana — ha condotto ad una vigorosa riaffermazione della dignità di ogni soggetto, estesa anche al momento della morte. Ora, è vero che, pur in presenza di un generale consenso sull’incoer(12) Così ancora PALAZZO, (nota 10), 312. La tensione tra i due principi emerge con chiarezza nel pensiero di MANTOVANI, Il problema della disponibilità del corpo umano, in Vivere: diritto o dovere?, cit., 41 ss., il quale da un lato include nella concezione utilitaristica una sua versione soggettivistica che comprende anche il suicidio, dall’altro lato contrappone ad essa una concezione personalistica che riconosce la disponibilità manu propria della persona umana, giacché ‘‘affermare il dovere giuridico di curarsi (fra l’altro indeterminato e incontenibile) è aprire pericolose prospettive di impossessamento fisico dell’essere umano’’ (conf., ID., Aspetti giuridici dell’eutanasia, in questa Rivista, 1988, 450 ss.). (13) Vd. ampiamente § 3.4. È appena il caso di notare che, al contrario, la tesi dell’indisponibilità della vita si risolve in un obbligo di intervento del medico, scriminato dalla legittima difesa dei diritti di terzi o da una causa di giustificazione non codificata (rispettivamente, MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, 1981, 5a ed., (a cura di G.D. Pisapia), II, 398 ss. e ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. gen., 1991, 12a ed., (a cura di L. Conti), 277 s.; per maggiori riferimenti, MANNA, (nota 4), 25 ss. e RIZ, Il consenso dell’avente diritto, 1979, 299 ss.).


— 677 — cibilità del vivere, una parte della dottrina non giunge ad affermare la liceità del suicidio ma sottolinea anzi la sua diversità rispetto all’esercizio del diritto di ogni persona di lasciarsi morire, osservando come in quello la morte viene provocata dallo stesso soggetto mentre in questo non si ha una vera rinuncia a vivere ma solo un rifiuto di prolungare un inevitabile e naturale decorso di morte. Tuttavia, dinanzi ad una così sottile distinzione, deve notarsi come la facoltà di suicidarsi e il diritto di morire con dignità (e comunque di non curarsi) rinviano ad un medesimo potere di autodeterminazione, il cui riconoscimento non tollera limitazioni (14). Come si vede, allora, la problematica del suicidio è inevitabilmente destinata a confluire nel più generale tema della disponibilità della vita, della salute e dell’integrità fisica da parte del suo titolare e non appare giuridicamente possibile operare distinzioni sulla ‘‘quantità’’ di individualismo sottesa da ciascun atto, al fine di stabilire in quale misura sia ammissibile una violazione di presunti doveri sociali e interpersonali. In altre parole, il suicidio è un atto lecito perché — nella sua drammaticità esistenziale — rappresenta l’estrema manifestazione della personalità morale dell’uomo e quindi della sua libertà (15); mentre la tesi contraria, affermando l’illiceità del suicidio, deve per necessità logica affermare un pri(14) Conf. ROMBOLI, Atti di disposizione del proprio corpo, cit., (nota 8), 247. Vd. anche RESCIGNO, La fine della vita umana, in Riv. dir. civ., 1982, I, 652: ‘‘Se l’eutanasia viene ricondotta al potere di autodeterminazione del soggetto, al suo diritto di vivere o di morire (per usare un’espressione non rara), e in definitiva alla protezione della privacy individuale, risultano evidenti le connessioni col tema del suicidio’’; FALZEA, Diritto alla vita, diritto alla morte, in I diritti dell’uomo nell’ambito della medicina legale, 1981, 127 s., il quale afferma la sussistenza di un diritto a decidere irrevocabilmente della propria morte, ravvisando in quest’ultimo una tutela indiretta dell’interesse alla morte ed una tutela diretta della personalità morale dell’uomo. Cfr. infine LECALDANO, Questioni etiche sui confini della vita, in Bioetica, cit., 23; MORI, Eutanasia: un’analisi chiarificatrice e una risposta etica, in Quaderni della società di letture e conversazioni scientifiche, 1986, n. 7, 27. (15) Cfr. sul punto AMATO, Libertà: involucro del tornaconto o della responsabilità individuale?, in Scritti Barile, 1990, 32, il quale — al termine di una riflessione sulla libertà come ‘scelta guidata da regole’ — osserva che ‘‘la libertà di drogarsi, per fare l’esempio più chiaro, non è configurabile, perché consente di scegliere ciò che precluderà per il futuro la capacità di scelta e nega quindi le premesse e le ragioni stesse della libertà. Mentre, nonostante la parziale analogia, è forse configurabile la libertà di lasciarsi morire, perché essa comporta bensì la preclusione di scelte future, ma comporta anche l’uscita e non invece la permanenza di un soggetto che continua ad esistere, libero solo di non essere libero’’ (nella stessa prospettiva vd. ad es. BERNER, Lehrbuch des Deutschen Strafrechtes, 1857, 123: ‘‘Fin quando vive, l’individuo è obbligato nei confronti dello Stato e degli altri; rispetto ad essi, non è però obbligato a vivere’’, quasi alla lettera ripreso da Arth. KAUFMANN, Strafrecht zwischen gestern und morgen, 1983, 144 s.). Conf. BARILE, (nota 8), 59, secondo cui ‘‘il suicidio spontaneo e cosciente è un atto di libertà’’, che ‘‘sopprime la vita, ma nell’ambito di una libertà di decisione’’; analogamente, CORRADINI, Democrazia, suicidio, eutanasia, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1992, 173 ss.; MARRA, Suicidio, diritto e anomia, cit., (nota 2), 263 ss.; ID., Suicidio e diritti, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1990, 228 ss.


— 678 — mato della tutela dell’integrità fisica sulla tutela della libertà: salvo poi a spiegare — e giustificare razionalmente — i residui spazi di incoercibile libertà. 3.1. L’eutanasia passiva e la fine della vita umana. — La conclusione ora raggiunta non comporta certo, di per sé, la legittimità dell’eutanasia, essendo ancora da dimostrare se la liceità del suicidio equivalga ad un vero e proprio diritto di suicidarsi, che implicherebbe, a carico dello Stato, un obbligo di riconoscimento e di protezione; inoltre, se la libertà di darsi la morte sia risolvibile in un diritto ad essere uccisi, dal quale deriverebbe per lo Stato un corrispondente dovere di approntare i mezzi necessari per la sua attuazione (16). Nondimeno, l’idea che il suicidio rientra in uno spazio di insopprimibile libertà è in grado di avviare utilmente la riflessione sulla valutazione penalistica del fenomeno dell’eutanasia, che — attenendoci ad una tradizionale (per quanto oggi contestata) distinzione — analizzeremo nelle varie forme dell’eutanasia passiva, indiretta e attiva. Per quanto riguarda l’eutanasia passiva, essa consiste nell’omissione di terapie nei confronti di un malato giunto alla fase terminale; in questo senso, risalta la differenza con l’eutanasia attiva, che ricorre quando i processi vitali sono ancora sussistenti e l’intervento estraneo mira a provocarne la cessazione. Le maggiori difficoltà si pongono però al momento di puntualizzare con precisione la nozione di eutanasia passiva e di delimitare questa rispetto all’eutanasia indiretta. Per una chiara impostazione dei termini del problema, conviene dunque operare una preliminare distinzione a seconda che il malato sia in grado di esprimere una scelta consapevole in ordine all’inizio o alla prosecuzione della terapia. Considerando anzitutto l’ipotesi del malato naturalisticamente incapace di esprimere una volontà, è ovvio che in tanto può porsi un problema di eutanasia (o di omicidio) in quanto si affermi il suo stato di vita. L’individuazione del momento della morte costituisce dunque la premessa necessaria per l’approfondimento del tema; di più, la definizione di tale concetto rappresenta un’assoluta esigenza, allo scopo di evitare che il con(16) Cfr. sul punto STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in Riv. it. med. leg., 1984, 1012: ‘‘che la vita diventi un bene disponibile non solo a se stessi ma anche agli altri, è risultato che non può essere né può diventare conforme al diritto, giacché lo Stato non può pretendere di riconoscere l’esistenza di un diritto che non gli appartiene e che non può concedere ai consociati: il diritto di uccidere’’; contra, nel senso di assimilare nella medesima prospettiva critica suicidio ed eutanasia, D’AGOSTINO, L’eutanasia come problema giuridico, in Arch. giur., 1987, 42 s. Per l’assunto che il riconoscimento della liceità del suicidio impone una rimeditazione sul contenuto degli artt. 579 e 580 c.p., RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 208.


— 679 — fine tra la vita e la morte sia reso evanescente da arbitrarie valutazioni in ordine alla dignità della vita o alla sua meritevolezza di essere vissuta (17). Un dominante orientamento — ispirato da una concezione personalistica ma anche dai pericoli evocati dal c.d. accanimento terapeutico (vd. postea, § 3.2) — afferma che la vita dell’individuo va intesa non in senso biologico ma come possibilità di relazione e di autorealizzazione: la perdita irreversibile della coscienza deve dunque costituire il limite di ogni trattamento medico, giacché segna il momento in cui cessa definitivamente la possibilità di una vita dignitosa. Tale soluzione, in linea di principio, non trova alcun oppositore e sembra anzi favorire al meglio l’interpretazione delle fattispecie penali a tutela della vita umana, intendendo quest’ultima non come un mero fatto meccanico, suscettibile di prolungamenti artificiali, ma in riferimento alla personalità e alla soggettività dell’uomo; per contro, il problema sorge all’atto di stabilire quando si realizza la perdita irreversibile della coscienza. A questo proposito, come è noto, l’esigenza di una risposta certa — in grado di fissare la morte come evento (cioè come momento in cui l’organismo muore, se non nella sua interezza, come unità funzionale) — si scontra con la pluralità dei criteri utilizzabili (18). Per quanto qui rileva, l’alternativa oggi si pone tra criteri fondati sulla morte della corteccia cerebrale — intesa come la sede della personalità e il vertice delle attività coscienti — e criteri fondati sulla morte del tronco cerebrale — sede del sistema nervoso centrale e quindi centro regolatore delle funzioni indispensabili del corpo —; questa contrapposizione tra morte neocorticale e morte cerebrale in senso stretto si manifesta in tutta la sua pienezza rispetto ai soggetti che, in seguito a gravi lesioni cerebrali, si trovano in uno stato vegetativo permanente, presentando attività respiratorie e cardiovascolari spontanee: tali soggetti sono o no da considerare deceduti? In senso positivo si è espressa la ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’ — redatta il 25 aprile 1991 dalla ‘‘Commissione per la protezione dell’ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei (17) Sul punto, cfr. le penetranti osservazioni di EUSEBI, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen., 1985, 510 ss.; FANTINI-GRMEK, Le definizioni di vita e di morte nella biologia e nella medicina contemporanea, in Bioetica, cit., 191; RESCIGNO, (nota 14), 641 ss. (18) Il tema di cui si discute esplose nel 1967, quando cioè la realizzazione del primo trapianto di cuore impose una concreta riflessione sul prelievo di organi vivi da soggetti legalmente morti. Nel 1968, mentre una commissione istituita presso l’Università di Harvard elaborava il concetto di morte cerebrale, la XXII Assemblea Medica Mondiale formulò la celebre dichiarazione di Sidney, ove il problema del momento della morte veniva trascurato in favore dell’irreversibilità del processo, il cui accertamento era rimesso al giudizio del medico. ‘‘A questo punto — osservano FANTINI-GRMEK, (nota 17), 186 — risulta chiaro che l’accertamento della morte non è più una diagnosi ma una prognosi’’. In argomento, LAMB, Il confine della vita. Morte cerebrale ed etica dei trapianti (trad. it.), 1987, passim.


— 680 — consumatori’’ presso il Parlamento europeo —, ove si afferma che ‘‘la morte di un individuo è definita in funzione dell’arresto delle funzioni cerebrali, anche nel caso in cui continuino le funzioni biologiche’’; ‘‘è il funzionamento del cervello’’ prosegue la Proposta — che determina il livello di coscienza ed è il livello di coscienza che definisce l’essere umano: l’arresto delle funzioni cerebrali decreta la morte dell’individuo anche in caso di continuazione del funzionamento biologico’’. La nozione di morte ora esposta, come si vede, introduce una sorta di dualismo tra corpo e spirito, ritenendo che la vita umana abbia termine con la cessazione della coscienza e delle facoltà superiori, che in quanto tali caratterizzano l’uomo. Ma il problema non è dato solo dall’inesistenza di criteri obiettivi e certi in grado di stabilire la perdita della coscienza; la valutazione sulla permanenza dell’individualità personale e delle possibilità di autorealizzazione e di relazione, infatti, rinvia a parametri più generali alla cui stregua diviene possibile negare la qualità di uomo — e conseguentemente ammettere l’espiantazione di organi e l’inumazione — non solo ad organismi autonomi e integrati (sia pure solo a livello vegetativo) ma anche ad altre categorie come i cerebrolesi, gli handicappati gravi e forse i neonati. Risultato, questo, sul quale non si può certo consentire (19). Alla luce di queste considerazioni, il Comitato italiano per la Bioetica ha considerato ‘‘non adeguata e ambigua’’ la definizione di morte suggerita nella ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’ (20), osservando che, ‘‘per quanto riguarda i criteri neurologici, il Comitato ritiene accettabile solo quello che fa riferimento alla cosiddetta (19)

Per riferimenti sull’evoluzione del dibattito in seno alla scienza medica, DE-

FANTI, Riflessioni sul concetto di morte cerebrale, in La bioetica, cit., 230 ss. Cfr. inoltre sul

punto MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 448, il quale denuncia la presenza di ‘‘pericolose mentalità utilitaristiche, propense a legittimare, attraverso manipolatrici tecniche giustificazionistiche, non solo l’eutanasia solidaristica, anticipandosi concettualmente il momento della morte alla mera decorticazione o, più subdolamente, subordinandosi l’accertamento della morte a parametri privi di certezza scientifica, al fine di favorire la chirurgia del trapianto da... cadavere’’ (conf. ID., Eutanasia, in Dig. gen., 1990, IV, 423); analogamente EUSEBI, (nota 17), 512. In prospettiva religiosa, SGRECCIA, (nota 9), 483 s., il quale osserva che, data la difficoltà di stabilire l’irreversibilità del coma, ‘‘ci sembra difficilmente giustificabile la sottrazione dell’assistenza ordinaria, anche in simili casi veramente pietosi. Bisogna tener presente che è unico l’atto esistenziale e personale che sostiene nell’uomo la vita vegetativa, sensitiva e relazionale; pertanto non ci sembra che si possa introdurre una distinzione tra ‘vita umana’, intesa come vita biologica, e ‘vita personale’, intesa come vita di relazione. Anche in questo caso diciamo che non si può provocare la morte e sosteniamo che tale vita ‘umana’ è anche vita della persona, quantunque non sia recuperabile la vita di relazione’’; sull’obbligo di somministrare le cure ordinarie in caso di coma irreversibile vd. anche il Catechismo della Chiesa cattolica (1992), § 2279; la ‘‘Dichiarazione del Gruppo di lavoro della Pontificia Accademia delle Scienze’’, resa il 31 ottobre 1985; CONCETTI, (nota 9), 87; LENER, Sui diritti dei malati e dei moribondi. È lecita l’eutanasia?, in Civiltà cattolica, 1976, 229. (20) Così nel parere reso il 18 giugno 1991, in Riv. it. med. leg., 1991, 944 s.


— 681 — ‘morte cerebrale’, intesa come danno cerebrale organico, irreparabile, sviluppatosi acutamente, che ha provocato uno stato di coma irreversibile, dove il supporto artificiale è avvenuto in tempo a prevenire o trattare l’arresto cardiaco anossico. Non può essere accettato il criterio che fa riferimento alla ‘morte corticale’, nel verificarsi della quale rimangono integri i centri del paleoencefalo e permane attiva la capacità di regolazione centrale delle funzioni omeostatiche e vegetative, compresa la respirazione autonoma. Non può altresì essere accettato il criterio che fa riferimento alla morte del tronco encefalico perché essa non indica di per sé che le strutture al di sopra del tronco abbiano perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo’’ (21). Donde l’adozione di una nozione più ristretta di morte cerebrale, riferita alla morte dell’encefalo ovvero all’avvenuta necrosi di tutto il cervello. Sul piano del diritto positivo italiano, una restrittiva definizione della morte clinica, fondata sulla definitiva e irreversibile cessazione delle funzioni cerebrali e organiche, è stata accolta dalla legge 2 dicembre 1975, n. 644 (in tema di trapianti), il cui art. 4 stabilisce che, per i soggetti affetti da lesioni cerebrali primitive e sottoposti a rianimazione, lo stato di morte dipende dall’accertamento e dall’intervallato controllo di uno stato di coma profondo, di assenza di respirazione spontanea dopo sospensione per due minuti di quella artificiale e di assenza di attività elettrica cerebrale spontanea e provocata. Questa definizione non poteva essere limitata allo specifico tema dei trapianti ma — per la sua ritenuta validità scientifica, per le esigenze di certezza emergenti dai più vari settori dell’ordinamento giuridico e per la necessità di evitare soluzioni giuridiche differenziate — doveva ritenersi generalmente applicabile (22); e infatti, l’art. 1, legge 29 dicembre 1993, n. 578, oggi statuisce che ‘‘la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo’’. Alla luce di tale normativa, diviene possibile affermare che la morte clinica dell’uomo coincide con quella del suo encefalo, cioè con l’irreversibile e totale cessazione dell’attività del sistema nervoso centrale; il che, (21) Cfr. il parere ‘‘Definizione ed accertamento della morte nell’uomo’’ reso il 15 febbraio 1991, in Riv. it. med. leg., 1991, 1279 ss.; sul punto, CECCHI, Unicità del concetto di morte: orientamenti etici, deontologici e legislativi, in Giust. pen., 1991, 281 ss. (22) Tra gli altri, EUSEBI, (nota 17), 513; GIUSTI, L’eutanasia. Diritto di vivere - diritto di morire, 1982, 74 s.; IADECOLA, Eutanasia e sue problematiche giuridiche, in Giust. pen., 1985, 192; MANTOVANI, (nota 19), 429; ID., Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 461; RIECI-VENDITTO, Eutanasia, diritto a morire e diritto di rifiutare le cure: equivoci semantici e prospettive di riforma legislativa, in Giust. pen., 1993, 285; con ampi riferimenti, CECCHI, (nota 21), 277 ss. Sul punto, vd. pure la proposta di legge Borra, Bernasconi, Artioli ed altri, presentata alla Camera dei deputati il 22 febbraio 1990 (n. 4613), il cui art. 1 stabiliva: ‘‘La morte si identifica con la cessazione delle funzioni dell’encefalo. Essa può essere determinata da arresto cardiaco o da lesioni dell’encefalo’’; rispetto a tale proposta, BERNASCONI, Aspetti legislativi della morte, in La bioetica, cit., 226 ss.


— 682 — peraltro, appare in sintonia anche con la concezione personalistica, ove si consideri che il sistema nervoso centrale è il centro propulsore e coordinatore di tutte le più elementari manifestazioni caratterizzanti l’essere umano (23). Deve tuttavia restare chiaro che il concetto di morte ora delineato ha una valenza soprattutto normativa, finalizzata ad esigenze di certezza ed è dunque suscettibile di assumere diversi significati nel tempo — anche per le evidenti influenze di tipo socio-culturale — e nei vari settori del sapere umano. In ogni caso, alla stregua della disciplina vigente, è possibile oggi affermare che la morte cerebrale costituisce il momento a partire dal quale non solo non può più parlarsi di omicidio o di eutanasia ma addirittura insorge — salvo a consentire ignobili sfruttamenti di uomini ridotti a ‘‘deposito’’ di organi viventi — un vero obbligo per il medico di cessare ogni attività terapeutica; donde l’equiparazione tra la condotta del sanitario che, di fronte ad un soggetto in stato di morte cerebrale irreversibile, decide di non iniziare alcuna attività terapeutica ovvero decide di interrompere il trattamento rianimatorio o di distaccare il mezzo artificiale di respirazione (24). (23) Per tutti, BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, Aspetti medico-legali e riflessi deontologici del diritto a morire, in Riv. it. med. leg., 1981, 55; D’AGOSTINO, (nota 16), 36; FALZEA, (nota 14), 126; GIUSTI, (nota 22), 67; GRASSO, Riflessioni in tema di eutanasia, in Quad. giust., 1986, n. 60, 72 s.; MANTOVANI, Il problema della disponibilità, cit., (nota 12), 50 s. e 92; RIECI-VENDITTO, (nota 22), 286; STELLA, (nota 16), 1022 ss.; VARANI, L’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano e nel nuovo codice di deontologia medica, in Dir. soc., 1990, 161. Nel senso di limitare il principio ai pazienti che versano nelle condizioni previste dalla legge n. 644 del 1975 in tema di espianto di organi, CECCHI, L’eutanasia nel nuovo codice di deontologia medica, in Zacchia, 1991, 33 ss.; RESCIGNO, Morte, in App. Nov. dig. it., 1984, 143 s. (sul punto, l’art. 14 della citata proposta Del Donno disponeva: ‘‘Dopo la morte cerebrale, considerata processo irreversibile di morte, il chirurgo ha l’obbligo di fermare tutti i metodi artificiali atti a prolungare la vita biologica. Per manentere vitali alcuni organi da donare ad altri, è lecito ricorrere alle opportune tecniche mediche’’). In prospettiva religiosa vd. infine SGRECCIA, (nota 9), 483, il quale osserva che, nell’ipotesi di morte cerebrale irreversibile, ‘‘prolungare la vita puramente apparente e totalmente artificiale (...) sarebbe un’offesa al morente e alla sua morte, oltre che un inganno ai danni dei suoi parenti’’; conf. CICCONE, Salute & malattia. Questioni di morale della vita fisica, 1986, 159 ss.; CONCETTI, (nota 9), 99; MARCOZZI, Il cristiano di fronte all’eutanasia, in Civiltà cattolica, 1975, IV, 335. Il concetto di morte cerebrale è dominante anche nella dottrina tedesca: con varietà di accenti, ESER, Medizin und Strafrecht: Eine schutzgutorientierte Problemübersicht, in ZStW, 1985 (97), 27 ss.; JOERDEN, Tod schon bei ‘‘alsbaldigen’’ Eintritt des Hirntodes?, in NStZ, 1993, 593; KÖNIG, Todesbegriff, Todesdiagnostik und Strafrecht, 1989, 25 ss.; SCHREIBER, Kriterien des Hirntodes, in JZ, 1983, 593; STRATENWERTH, Zum juristischen Begriff des Todes, in FS Engisch, 1969, 543 ss.; in favore della morte corticale vd. invece FUNCK, Der Todeszeitpunkt als Rechtsbegriff, in MedR, 1992, 182 ss. (cfr. pure DENCKER, Zum Erfolg der Tötungsdelikte, in NStZ, 1992, 313 s.); nel senso opposto, ritenendo la morte cerebrale come anticipatoria del processo di morte, vd. gli scritti raccolti da HOFF-IN DER SCHMITTEN, Wann ist der Mensch tot?, 1994. (24) La conferma della natura normativa della nozione di morte cerebrale (il che vale


— 683 — 3.2. L’eutanasia passiva rispetto ai soggetti incapaci. — I termini del problema mutano qualora non sia ancora intervenuta la morte cerebrale irreversibile; e a questo proposito affiora infatti un profondo — e difficilmente decifrabile — contrasto di opinioni. Nelle aule parlamentari, la questione approdò per la prima volta — senza peraltro costituire oggetto di alcun dibattito — attraverso la proposta di legge n. 2405, presentata dall’on. Fortuna e altri il 19 dicembre 1984. Nella relazione di tale proposta — intitolata ‘‘Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva’’ —, si affermava che essa era motivata da una duplice esigenza: da un lato, tutelare i medici dal rischio di sanzioni ‘‘allorché abbiano rinunciato a prendere misure artificiali per prolungare il processo di morte in malati la cui agonia è già cominciata e la cui vita non può essere salvata allo stato attuale della scienza medica, o quando siano intervenuti con provvedimenti miranti anzitutto a calmare le sofferenze di tali malati, ma suscettibili di avere un effetto secondario sul processo di morte’’; dall’altro lato, risolvere ‘‘la questione delle dichiarazioni rilasciate da persone giuridicamente capaci, che autorizzino i medici a misure per il prolungamento della vita, in particolare nel caso di arresto irreversibile delle funzioni cerebrali’’. Inoltre — proseguiva la Relazione —, la proposta era intesa ad evitare il c.d. accanimento terapeutico, dovuto più ‘‘ad eccessivi scrupoli professionali o familiari o ad una sorta di sfida prometeica della medicina alla morte’’ che alla volontà dell’infermo. Così, l’art. 1 prevedeva che ‘‘i medici sono dispensati dal sottoporre a terapie di sostenimento vitale qualsiasi persona che versi in condizioni terminali, salvo che la stessa vi abbia comunque personalmente e consapevolmente consentito’’, definendo all’art. 2 come condizioni terminali ‘‘l’incurabile stato patologico cagionato da lesione o da malattia e dal quale, secondo le cognizioni della scienza medica, consegue l’inevitabilità della morte, il cui momento sarebbe soltanto ritardato ove si facesse ricorso a terapie di sostenimento vitale’’ (queste ultime intese, all’art. 3, come ‘‘ogni mezzo od intervento medico che utilizzi tecniche meramente rianimative, nonché apparecchiature meccaniche o artificiali per sostenere, riattivare o sostituire una naturale funzione vitale’’); mentre gli artt. 4-7 aggiungevano la necessità che tale condizione venisse accertata da un mequanto dire la sua relatività) emerge considerando il caso in cui sia consentito ad una donna cerebralmente morta, collegata ad una macchina, di continuare a ‘‘vivere’’ per portare a termine la gravidanza: qui indubbiamente va esclusa una responsabilità del sanitario per avere mantenuto attivo l’organismo di un soggetto deceduto a norma di legge ma non appare agevole la costruzione di un correlativo obbligo giuridico nei confronti del nascituro (cfr. HILGENDORF, Zwischen Humanexperiment und Rettung ungeborenen Lebens - Der Erlanger Schwangerschaftsfall, in JuS, 1993, 97 ss.; KOCH, Hirntod und Schwangerschaft: Überlegungen aus rechtlicher Sicht, in FS Stepan, 1994, 187 ss.).


— 684 — dico competente nelle tecniche di rianimazione con il concorde parere del primario anestesiologico e senza opposizione da parte dei soggetti legittimati (conviventi, ascendenti e discendenti di età non inferiore a sedici anni ovvero, in assenza, un ministro del culto di appartenenza dell’infermo). Tale proposta è stata da taluno positivamente giudicata alla luce dell’esigenza di introdurre certezze giuridiche in un ambito rimesso all’arbitrio giudiziale (25). L’articolato in esame, però, mai avrebbe potuto conseguire tale obiettivo, poiché da un lato — accordando la terapia di sostenimento vitale solo al malato terminale che vi avesse personalmente e consapevolmente consentito — proponeva un singolare ribaltamento della presunzione della volontà del paziente di essere curato (in dubio pro morte?); dall’altro lato, offriva una definizione delle ‘‘condizioni terminali’’ talmente vaga da legittimare le situazioni più disparate, alcune delle quali peraltro già oggi lecite, così introducendo un’incontrollabile possibilità di abusi comunque in grado di compromettere il rapporto fiduciario tra medico e paziente (26). Evitando di indugiare su questa prospettiva, vediamo dunque di ricostruire il contenuto dell’attuale dibattito. Un diffuso orientamento ritiene di cogliere la soluzione evocando il c.d. accanimento terapeutico: il dovere (giuridico, etico e deontologico) (25) Così BARNI, Sull’alterna ‘‘fortuna’’ della nozione di eutanasia, in Riv. it. med. leg., 1985, 430 s.; DEL GAUDIO, Brevi note sull’eutanasia, in Quad. giust., 1986, 39; MANNA, Trattamento medico-chirurgico, in Enc. dir., 1992, XLIV, 1297 s. (26) In dottrina, BUSNELLI, Il diritto e le nuove frontiere della vita umana, in Iustitia, 1987, 279: ‘‘Quanto (...) alla finzione di un consenso generalizzato all’eutanasia da parte dei malati in condizioni c.d. terminali, la sua grossolanità è talmente evidente da scongiurare la stessa possibilità di una trasformazione in legge del progetto che vi si ispira’’. In prospettiva critica e con varietà di accenti, vd. anche CONCETTI, (nota 9), 18 s.; D’ADDINO SERRAVALLE, Brevi cenni in materia di eutanasia, in Legalità e giustizia, 1988, 324 s.; EUSEBI, (nota 17), 534 ss.; LEGA, (nota 4), 479 s.; MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 464 ss.; MONTALTO, Commento alla proposta di legge riguardante ‘‘Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva’’, in Zacchia, 1985, 150 s.; PANNAIN-SCLAFANI-PANNAIN, (nota 4), 24 ss.; SGRECCIA, (nota 9), 497; VACCHIANO, Eutanasia e diritto a non soffrire, in Quad. giust., 1986, n. 64, 39 s. Si noti che il disegno di legge in esame venne ripresentato alla Camera dei deputati nel corso della successiva legislatura dall’on. Fiandrotti ed altri (n. 72 del 1987) e dall’on. Artioli ed altri (n. 297 del 1987); il 17 luglio 1986 era stato invece comunicato alla Presidenza del Senato un disegno di legge — avente come primo firmatario il sen. Bompiani — che, ribaltando l’impostazione del disegno di legge Fortuna, stabiliva che ‘‘ai malati in fase terminale debbono essere assicurati i trattamenti di ordine sanitario, proporzionati alla condizione clinica, nonché quelli di ordine psicologico, religioso e sociale, compresi i rapporti con la famiglia’’; in senso analogo era la proposta di legge n. 3286, presentata alla Camera dei deputati il 15 novembre 1985 dall’on. Del Donno ed altri (e poi di nuovo nella successiva legislatura, con il n. 1596 del 1987), il cui art. 3 fondava la legittimità del trattamento medico sul consenso del malato, mentre l’art. 8 prevedeva che ‘‘il consenso tacito si ha quando il paziente o non dissente potendo farlo o, non essendo in grado di esprimerlo, si può ragionevolmente presupporre che lo darebbe’’.


— 685 — del medico si arresta dinanzi all’incurabilità della malattia giunta alla sua fase terminale, giacché ogni protrazione della terapia — trasformando il paziente da soggetto in oggetto — viola la sua dignità. Quest’affermazione, pacificamente condivisa (27), non riesce tuttavia a segnare con certezza il confine tra lecito e illecito per due ragioni: anzitutto, per la difficoltà di definire con precisione lo stesso concetto di accanimento terapeutico; inoltre, perché l’omissione delle terapie mediche o chirurgiche rientranti nella nozione di accanimento terapeutico non implica di per sé anche l’omissione delle terapie di sostentamento vitale. Ma procediamo con ordine. Rispetto alla nozione di accanimento terapeutico, possono segnalarsi almeno tre significati. In una prima accezione, esso va inteso come ‘‘l’irragionevole ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita’’ (28). Tale definizione non apporta tuttavia alcun utile chiarimento, poiché da un lato sembra legittimare l’omissione di qualsiasi terapia in ogni ipotesi di incurabilità della malattia, indipendentemente dal raggiungimento della sua fase terminale; dall’altro lato, fonda la sua operatività su concetti troppo vaghi e sostanzialmente rimessi all’arbitrio del sanitario. ‘‘Né può mancare di suscitare sgomento — si è giustamente osservato —, a fronte (27) Per la condanna dell’accanimento terapeutico, tra gli altri, D’AGOSTINO, (nota 16), 36 s.; EUSEBI, (nota 17), p. 532 ss.; IADECOLA, (nota 22), 190 s.; LEGA, (nota 4), 475; per la dottrina medico-legale, BARNI, (nota 25), 422; BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 54 s.; CECCHI, (nota 23), 24 s. In prospettiva religiosa, CONCETTI, (nota 9), 98: ‘‘il corpo d’un paziente che venga sopraffatto da strumenti tecnici, più che suscitare pietà, suscita sdegno. (...) Gli interventi medici sul malato in fase terminale, del tutto inutili e gravosi, sono giustamente considerati immorali’’. (28) Così l’art. 20 del codice deontologico medico italiano, approvato il 15 luglio 1989, che si collega all’art. 44, comma 1: ‘‘In caso di malattia a prognosi sicuramente infausta e pervenuta alla fase terminale, il medico, nel rispetto della volontà del paziente, potrà limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità di una vita che si spegne. Ove si accompagni difetto di coscienza, il medico dovrà agire secondo scienza e coscienza proseguendo nella terapia finché ragionevolmente utile’’. Questo riferimento esclusivo alla vantaggiosità della cura compare frequentemente nella letteratura medico-legale: cfr. BARNI, (nota 25), 422 s.; BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 34; NORELLIDELL’OSSO, Codice deontologico e deontologia medica, 1980, 67 s.: ‘‘al medico compete non già di impedire la morte (ché non può disporre di una simile facoltà) sibbene (...) di curare nel modo e nella misura in cui, ovviamente, la sua azione possa risultare di una qualche utilità, in presenza — cioè — di un processo morboso concretamente suscettibile di miglioramento. Orbene, è evidente che, nel caso di paziente prossimo alla fine ed affetto da un male incurabile, il medico che si adoperasse al fine di dilazionare per breve tempo il sopraggiungere della morte non apporterebbe certamente un vantaggio, ma un sicuro nocumento, fisico e psichico, al malato (che pure s’è affidato alle sue cure), contravvenendo in tal modo al noto e sempre attuale aforisma primum non nocere, che è norma assolutamente vincolante’’.


— 686 — delle necessità di certe lungo-degenze, l’immagine di una medicina la quale proclami d’essere a disposizione solo di chi può guarire o di chi offra affidamento di non perseverare nella sofferenza o nel malessere dopo la cura’’ (29). In una seconda accezione, l’accanimento terapeutico consiste ‘‘nell’attuare cure volte a ottenere la guarigione dell’ammalato quando le probabilità di successo sono nulle e gli effetti collaterali della cura stessa si traducono in sofferenze ulteriori per l’ammalato’’ (30). Anche questa definizione appare però scarsamente utilizzabile per il suo carattere eccessivamente restrittivo: nei confronti di un malato giunto alla fase terminale, la totale assenza di chances di successo potrebbe infatti costituire già un motivo sufficiente a negare legittimazione alla terapia, anche quando non ne derivi un aumento della sua sofferenza. In una terza e più accreditata accezione, l’accanimento terapeutico si presenta come una cura inutile e sproporzionata rispetto ai prevedibili risultati (31). Questa definizione è condivisa dalla Chiesa cattolica, che in un primo tempo — sotto il magistero di Pio XII — fece ricorso alla distinzione tra mezzi ordinari e straordinari, ammettendo l’interruzione della terapia ogni volta che i mezzi comportassero un onere eccessivo sia sul piano economico che in termini di sacrificio a carico del paziente, della famiglia e della comunità (32); mentre successivamente, al fine di superare l’eccesso di relativismo insito in quella differenziazione, ha spostato il criterio di valutazione dal ‘‘mezzo terapeutico’’ al ‘‘risultato terapeutico’’, così osservando: ‘‘Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso di mezzi ‘straordinari’. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi ‘proporzionati’ e ‘sproporzionati’. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di te(29) Testualmente, EUSEBI, (nota 17), 519. (30) Così la Relazione al già citato disegno di legge Bompiani, che aggiunge: ‘‘Le agonie artificiosamente prolungate possono essere manifestazioni di narcisismo, se espletate per valorizzare la propria abilità e la strumentazione di cui si dispone. Comunque, una volta realizzate, mediante dispositivi di assistenza strumentale, nessuno può interrompere il decorso’’. La stessa Relazione contrappone all’accanimento terapeutico ‘‘le terapie da attuarsi invece per rendere priva di dolori e sofferenze la vita residua degli ammalati in fase preterminale’’. (31) Così, per tutti, MANTOVANI, Il problema della disponibilità, cit., (nota 12), 67; STELLA, (nota 16), 1024 s. (32) Per ampi riferimenti sugli insegnamenti di Pio XII, vd. CAPRILE, (nota 9), 193 ss.; CICCONE, (nota 23), 159 ss.; CONCETTI, (nota 9), 31 ss. Si noti che la nozione di mezzi straordinari rinviava ad una valutazione condizionata ai soggetti interessati, al loro tenore di vita, ai progressi della medicina e agli atteggiamenti socio-culturali, così risultando determinante, ad esempio, l’assenza al tempo di Pio XII di un Servizio sanitario nazionale.


— 687 — rapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali’’ (33). Alla luce di questa impostazione, dunque, il sanitario non è obbligato a trattamenti medico-chirurgici inutili e sproporzionati rispetto ai prevedibili risultati e la loro omissione è estranea al concetto di eutanasia: ‘‘nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo’’ (34). Anche la nozione di accanimento terapeutico da ultimo delineata solleva però talune perplessità. E invero, appare indubitabile che, laddove il malato perda la propria dimensione umana e diventi mero oggetto di sperimentazione clinica, il valore della dignità individuale impone una scelta di rispetto verso la ‘‘qualità’’ della vita che si spegne. Tuttavia, l’assenza di precisi parametri in grado di caratterizzare obiettivamente l’accanimento terapeutico impedisce di distinguere questo — addirittura — dall’attivismo terapeutico, così da giungere ad una confusione anche tra cura e sperimentazione (si pensi solo all’utilizzo di nuovi farmaci non ancora commercializzati o di nuove tecniche non ancora collaudate); da ciò discende l’attribuzione al medico del ruolo di arbitro della situazione, unico responsabile di una decisione che può indifferentemente fondarsi sull’inutilità dell’intervento, sulla proporzionalità della cura, sulla sua onerosità o sulla maggiore utilità dell’impiego delle attrezzature in favore di altri malati (35). Né, al fine di limitare questo potere, appare idoneo il ricorso a (33) ‘‘Dichiarazione sull’eutanasia’’ della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, emessa il 5 maggio 1980. Cfr. sul punto il Documento del Pontificio Consiglio Cor unum su ‘‘Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti’’ (1981), § 2.4; CICCONE, (nota 23), 82 ss., 133 ss.; MARCOZZI, (nota 23), 334 s.; SGRECCIA, (nota 9), 480 s. Da ult., il Catechismo della Chiesa cattolica (1992), § 2278, afferma: ‘‘L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha rinuncia all’‘accanimento terapeutico’. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire’’. In argomento, cfr. anche HÄRING, Eutanasia e teologia morale, in Morire sì, ma quando?, cit., 224 s., il quale propone in alternativa una (altrettanto vaga) distinzione tra interventi benefici, probabilmente benefici e certamente non benefici e dannosi. (34) Così la ‘‘Dichiarazione sull’eutanasia’’, citata nella nota che precede. (35) Per la rivendicazione di questo c.d. spazio libero dal diritto, cfr. BARNI, (nota 25), 422 che, nel caso di malato incosciente, osserva come ‘‘l’eutanasia passiva può divenire per il medico non già la conseguenza del doveroso rispetto di una razionale scelta di libertà ma la risultante di un giudizio clinico, penoso quanto si voglia ma ad un certo momento ineludibile oltre che non trasferibile a chicchessia’’ (vd. pure ivi, 424, ove si riafferma ‘‘l’insostituibile ruolo del medico, che resta ad un punto della dissolvenza tra vita e morte unico re-


— 688 — volontà sostitutive dei familiari o di comitati etici, le cui capacità di rappresentanza risultano dubbie per la possibile confliggenza di interessi, per la difficoltà di ricostruire la presumibile volontà dell’interessato (in assenza di dichiarazioni scritte e sufficientemente recenti) o per il rischio di burocratizzazione implicato dal loro intervento (36). In breve: la nozione di accanimento terapeutico non risulta suscettibile di una precisa definizione e finisce con il rappresentare nulla più che un nucleo di disvalore dai contorni assai sfumati. Diviene così evidente come la materia in esame si sottrae alla fissazione di un corpo di regole precise, in grado di guidare l’attività del medico e di riempire contenutisticamente il suo obbligo curativo e terapeutico: lo spazio libero dal diritto — a torto auspicato da una scienza medica che ha aperto nuovi orizzonti della vita e della morte, così innescando angosce e incertezze che essa non è in grado di risolvere — non riesce ad essere riempito dal legislatore e corre il rischio di trasformarsi in uno spazio di diritto libero, di fatto rimesso alla discrezionalità giudiziale (37). Come prima si osservava, però, la nozione di accanimento terapeutico (o, il che è lo stesso, il problema di stabilire l’ambito delle cure necessarie e opportune nei confronti del malato in fase terminale) non è in ogni caso deputata a delineare esaustivamente il confine tra lecito e illecito, rimanendo sempre aperto il problema degli obblighi di cura e assistenza da parte del medico rispetto al malato incapace di esprimere un consapevole consenso. gista ed arbitro’’); analogamente, BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 41: ‘‘nei riguardi di soggetto minore o incapace o incosciente, il trattamento dipende soltanto dalla determinazione scientemente e coscientemente maturata del medico, unico e definitivo responsabile di una scelta da compiersi sulla scorta delle prerogative tecniche e morali che debbono caratterizzare la personalità del sanitario’’; MONTALTO, (nota 26), 145. Rispetto a tale incondizionata fiducia sulla correttezza delle scelte mediche, ZAMBRANO, (nota 7), 881 ss.; per una riflessione critica sull’applicazione dell’analisi economica del diritto al problema dell’eutanasia, RESCIGNO, (nota 14), 653 s. (36) In argomento, vd. Corte Suprema del New Jersey, 24 giugno 1987, in Foro it., 1988, IV, 291 ss. e ivi — con ampi riferimenti all’esperienza statunitense — PONZANELLI, Il diritto a morire: l’ultima giurisprudenza della Corte del New Jersey. Rispetto a quanto osservato nel testo, cfr., tra gli altri, RESCIGNO, (nota 41), 650 s.; diff., BARILE, (nota 8), 60. (37) Risulta dunque di difficile attuazione l’auspicio di BRICOLA, Vita diritto o dovere: spazio aperto per il diritto?, in Vivere: diritto o dovere?, cit., 218: ‘‘Le soluzioni normative sono però necessarie al fine di non lasciare spazi vuoti affidati al potere medico, ma al fine di fornire determinazioni il più possibile precise e vincolanti per lo stesso potere giudiziario’’; sul punto, vd. anche DE MARSICO, La lotta contro il dolore e la legge penale, in Arch. pen., 1971, 216. Sull’inammissibilità di uno spazio ‘‘libero dal diritto’’, demandato alla discrezionalità medica, tra gli altri, D’AGOSTINO, (nota 16), 28 s.; ENGISCH, Suizid und Euthanasie nach deutschem Recht, in Suizid und Euthanasie, cit., 312; ESER, Freiheit zum Sterben - Kein Recht auf Tötung, in JZ, 1986, 788; EUSEBI, (nota 17), 509 s.; JÄHNKE, StGB-Leipziger Kommentar, 1989, 10a ed., V, vor § 211, Rdn. 11; MANTOVANI, (nota 19), 424; STELLA, (nota 16), 1009 s.; STORTONI, Introduzione, in Vivere: diritto o dovere?, cit., 11.


— 689 — A questo proposito si impone una generale riflessione. In un ordinamento giuridico laico e secolarizzato, fondato sulla tutela dei beni rilevanti ai fini di una pacifica convivenza, non v’è dubbio che un rango primario debba essere riconosciuto alla vita, nel senso che a nessuno — all’infuori del suo titolare — può essere consentito di disporne. La questione consiste però nello stabilire con precisione la nozione di vita umana, giacché l’evoluzione tecnologica oggi consente alla medicina di impegnarsi in una lotta contro le malattie priva di finalità curative e anche contraria agli interessi del paziente; da qui traggono fondamento gli interrogativi su cosa sia la vita e quando essa sia meritevole o degna di essere vissuta. L’idea che il confine tra la vita e la morte debba ricadere in una sorta di spazio libero demandato all’arbitrio del medico — il quale diverrebbe così libero di decidere quali malati curare e quali invece privare di ogni terapia — è però aberrante. Una volta negato sia il valore trascendente della vita che l’obbligo di curare fino al sopraggiungere della morte clinica, infatti, tale concezione non potrebbe che operare un rinvio alle scelte discrezionali del sanitario, indifferentemente ispirate a regole deontologiche o utilitaristiche o economiche o classiste: con quali conseguenze sul rapporto fiduciario con il paziente, è poi facile immaginare. In assenza di una reale soluzione alternativa, diviene allora obbligata una soluzione allo stesso modo valida per tutti i malati incapaci di esprimere una consapevole volontà: la vita umana ha un valore supremo in sé, indipendentemente dalle condizioni in cui versa l’individuo, e al medico compete di apprestare tutte le cure necessarie ed opportune, astenendosi da qualsiasi valutazione sulla dignità di quella vita e sulla sua meritevolezza di essere vissuta. La soluzione del nostro problema passa dunque ancora una volta attraverso l’individuazione del momento della morte. Ritenendo infatti che la vita dell’individuo abbia termine solo con la completa e irreversibile cessazione delle funzioni cerebrali, il dovere giuridico del medico di iniziare o continuare il trattamento non si arresta dinanzi all’incurabilità della malattia o all’imminenza della morte, salvo i casi in cui esso non valga a prolungare la vita neppure in modo apprezzabile o costituisca fonte di sofferenza e malessere; a seconda delle condizioni e delle esigenze del paziente, varierà invece il contenuto della terapia, la cui costante caratteristica non può essere che quella dell’interesse del paziente stesso (38). (38)

Per tutti, MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 460 s.; PANNAIN-SCLA-

FANI-PANNAIN, (nota 4), 21; STELLA, (nota 16), 1019 s. Sul punto, vd. anche l’art. 44, comma

2, codice deontologico medico: ‘‘trattandosi di malato in condizioni di coma, il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la morte nei modi e nei tempi


— 690 — 3.3. L’eutanasia passiva rispetto ai neonati in pericolo di vita. — Una particolare ipotesi di eutanasia passiva su soggetti incapaci di esprimere una volontà si presenta infine rispetto ai neonati affetti da gravissime malformazioni. A tale proposito occorre però distinguere. Nel caso in cui tali malformazioni attengono all’aspetto estetico o funzionale senza però comportare pericoli di sopravvivenza, l’uccisione può al più configurare un’eutanasia attiva, ove sia ispirata da motivi pietistici e si ritenga di poter prescindere dal consenso dell’interessato. Il particolare movente dell’azione, solitamente realizzata dai genitori, viene infatti sottolineato in dottrina al solo fine di dimostrare che la sanzione applicabile (quella prevista per il reato di omicidio) risulta eccessivamente severa, sia in sé sia se raffrontata alla pena, assai più mite, stabilita per l’infanticidio dovuto a condizioni di abbandono materiale e morale, cioè per un fatto ispirato da ragioni di tipo prevalentemente egoistico (39). I termini del problema mutano laddove le malformazioni comportino un grave pericolo di vita (sul piano statistico, si tratta solitamente di spina bifida, di idrocefalo o meningocele). In questo caso, si è osservato che ‘‘l’incertezza del risultato e le scarse probabilità di ‘riparazione’ dell’affezione malconformativa, in particolare quando la stessa attenga al sistema nervoso centrale gravemente compromettendo le possibilità di sviluppo, facoltizzi i genitori a richiedere di non intervenire e il medico a lasciare che la morte sopraggiunga naturalmente, omettendo ovvero sospendendo eventuali misure terapeutiche straordinarie’’ (40). Tale affermazione — oltre che contestata nei suoi presupposti di fatto (41) — solleva gravi perplessità per la genericità dei parametri offerti. stabiliti dalla legge. È ammessa la possibilità di prosecuzione del sostegno vitale anche oltre la morte clinica stabilita secondo le modalità di legge, solo al fine di mantenere in attività organi destinati a trapianto e per il tempo strettamente necessario’’ (in argomento, CECCHI, (nota 23), 31 ss.; VARANI, (nota 23), 161 ss.). (39) Tra gli altri, ANTOLISEI, (nota 4), 61; BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 57; VIROTTA, I mostri, gli incurabili e il diritto alla vita, in Arch. pen., 1963, 211 ss.; nel senso di configurare il reato di infanticidio a causa di onore, punito dal previgente art. 578 c.p., anche per l’infanticidio pietoso, vd. FOSCHINI, Uccisione di neonato deforme e infanticidio a causa di onore, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 328 ss., il quale peraltro riferisce come tale assurda tesi abbia in un’occasione trovato riconoscimento nella giurisprudenza. (40) Testualmente, BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 58. Analogamente, alla luce del criterio dell’inesigibilità come elemento di delimitazione della fattispecie sull’omicidio, HANACK, Grenzen ärztlicher Behandlungspflicht bei schwergeschädigten Neugeborenen aus juristischer Sicht, in MedR, 1985, 35 ss.; Arth. KAUFMANN, Zur ethischen und strafrechtlichen Beurteilung der sogenannten Früheuthanasie, in JZ, 1982, 485 ss.; diff., ammettendo l’inesigibilità per i genitori ma non per il medico, SCHMITT, Eugenische Indikation vor und nach der Geburt, in FS Klug, 1983, II, 335 ss. (41) Cfr. SGRECCIA, (nota 9), 188 s.: ‘‘alcune malformazioni dovute a difetti genetici, e precisamente la spina bifida e l’idrocefalo, che si associano fra loro solitamente, possono avere un trattamento terapeutico chirurgico nei primi giorni di vita con buoni risultati non soltanto di sopravvivenza, ma di qualità di vita’’. La Chiesa cattolica esprime ovviamente


— 691 — E invero, pur essendo pacifico il rifiuto di deliranti concezioni evocatrici di finalità eugeniche, eugenetiche o economiche (42), è evidente che il problema in esame sorge in quanto si intende raggiungere una soluzione diversificata rispetto alla generalità dei pazienti in pericolo di morte: in altre parole, l’introduzione, nei confronti dei neonati, di parametri di valutazione fondati sulla qualità della loro vita futura o sulla sua meritevolezza di essere vissuta necessariamente apre prospettive di tipo eugenetico. Occorre dunque con forza ribadire l’intangibilità della vita di tutti gli esseri viventi partoriti da donna e nessuno — neppure i genitori — può arrogarsi il diritto di stabilire se la loro è una vita degna oppure no; d’altra parte, ‘‘il neonato malformato di regola non soffre, sicché non ha bisogno di suscitare alcuna compassione. (...) In realtà, è assai più frequente non la compassione per il bambino cui si vuole risparmiare una vita in malattia, quanto piuttosto una compassione per noi stessi’’ (43). Né sul piano concettuale appare corretto attenuare la doverosità del trattamento medico rispetto ai medesimi parametri oggi comunemente utilizzati per la definizione dell’accanimento terapeutico — ‘‘mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato’’ (44) —, giacché i neonati — una ferma condanna di qualsiasi pratica abortiva ed eutanasica: vd. il Catechismo della Chiesa cattolica (1992), §§ 2270 e 2274; CAPRILE, (nota 9), 193 ss.; CONCETTI, (nota 9), 94 s.; SGRECCIA, (nota 9), 190 ss. (42) Ovvero ispirate dall’idea che ‘‘una vita (...) è un bene solo nella misura in cui essa è utile e piacevole’’: così PAPPALARDO, Eutanasia e soppressione dei mostri, in Giust. pen., 1972, I, 274, che infatti auspica la decriminalizzazione dell’uccisione dei ‘‘neonati affetti da malformazioni teratologiche’’ (includendo nella categoria anche i bambini privi di arti superiori o inferiori), in quanto ‘‘affermare che la vita, per un simile essere, possa essere un bene, significa negare la luce del sole’’. (43) Così Arth. KAUFMANN, (nota 40), 487; vd. anche ESER, Grenzen der Behandlungspflicht aus juristischer Sicht, in Grenzen der ärztlichen Aufklärungs- und Behandlungspflicht, (a cura di P. Lawin e H. Huth), 1982, 90 s.; PORTIGLIATTI BARBOS, Diritto di rifiutare le cure, in Dig. pen., 1990, IV, 38 s. Si noti tuttavia che l’art. 4, legge 22 maggio 1978, n. 194, riconosce alla madre il diritto di interrompere la gravidanza laddove la sua prosecuzione, il parto o la maternità ‘‘comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione (...) a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito’’; dopo il novantesimo giorno dal concepimento, l’art. 6 consente invece l’aborto solo se ‘‘le anomalie o le malformazioni del nascituro determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna’’ e sempre che non sussista la possibilità di vita autonoma del feto (art. 7, comma 3). (44) Il passo è tratto dalla già citata ‘‘Dichiarazione sull’eutanasia’’; cfr. anche D’AGOSTINO, (nota 16), 39, nota 16. Più specificamente, nelle Richtlinien für die Sterbehilfe, emesse il 5 novembre 1976 dalla Schweizerische Akademie der medizinischen Wissenschaften, si afferma che, nel caso di neonati con gravi danni cerebrali nei quali la vita è possibile solo attraverso l’ausilio permanente di speciali apparecchiature, può consentirsi la loro non utilizzazione o la sospensione del loro impiego; vd. anche le ‘‘Einbecker Empfehlungen’’ redatte in Germania nel 1992 (in MedR, 1992, 206), secondo cui il medico deve o può aste-


— 692 — pur non avendo una vita alle proprie spalle e non potendo esprimere una propria volontà — non possono essere trattati diversamente da qualunque altro paziente. È dunque opportuno ricondurre il problema ai suoi termini reali, ritenendo che il dovere terapeutico non incontra alcuna limitazione dinanzi ai neonati malformati neppure laddove si profila una minaccia di morte scongiurabile solo attraverso un immediato intervento chirurgico, purché esso sia in grado di consentire al soggetto un’esistenza autonoma (45). Ogni diversa soluzione, ripetiamo, rinvia ad inquietanti prospettive in grado solo di scuotere il valore della vita umana. 3.4. L’eutanasia passiva e il diritto di rifiutare le cure. — Alternativamente alle ipotesi già considerate di malati naturalisticamente incapaci di esprimere una volontà, la dottrina dominante afferma che l’obbligo di assistenza e di cura da parte del medico trova la propria fonte di legittimazione e il suo limite nell’espressa volontà del paziente che, adeguatamente informato, può acconsentire alla cura così come può pretenderne l’interruzione. Al malato, in altre parole, spetta il diritto di rifiutare qualsiasi terapia e quindi di lasciarsi morire, giacché — come espressamente afferma l’art. 40, comma 2, del codice deontologico medico — ‘‘in ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente’’ (46). nersi dall’utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione laddove, rispettivamente, la vita del neonato è insuscettibile di essere mantenuta nel tempo ovvero si presenta con gravi danni privi di possibilità di miglioramento; in senso più generico è formulata la ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’, redatta il 25 aprile 1991 dalla ‘‘Commissione per la protezione dell’ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori’’ presso il Parlamento europeo, ove si afferma che ‘‘nella Carta europea dei bambini degenti in ospedale dovrebbe essere inserito il ‘diritto a non subire terapie inutili, così come disagi fisici e psichici non necessari’ ’’. (45) Analogamente, JÄHNKE, Grenzen der ärztlichen Behandlungspflicht bei schwergeschädigten Neugeborenen aus juristischer Sicht, in Grenzen ärtzlicher Behandlungspflicht schwergeschädigten Neugeborenen, (a cura di H.-D. Hiersche - G. Hirsch - T. Graf-Baumann), 1987, 99 ss.; vd. anche ULSENHEIMER, Kompetenzprobleme bei der Entscheidung über die Behandlung oder Nichtbehandlung schwergeschädigter Neugeborener, ivi, 115 ss.; PETERS, Der Schutz des neugeborenen, insbesondere des mißgebildeten Kindes, 1988, 242 ss. (46) Questo principio — enunciato, su un piano generale, dall’art. 39, ultimo comma (‘‘In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico elemento al quale ispirare il proprio comportamento’’) — demanda dunque al malato ogni scelta in ordine al suo trattamento, consentendogli di imporre al medico la continuazione di una terapia anche inutile ovvero la sospensione di una terapia anche utile. Beninteso, è necessario che tale volontà sia non solo effettiva ma anche informata, ciò che peraltro può apparire in contrasto con il disposto dell’art. 39, comma 3: ‘‘Il medico potrà valutare, segnatamente in rapporto con la reattività del paziente, l’opportunità di non rivelare al malato o di attenuare una prognosi grave o infausta, nel qual caso questa dovrà essere rivelata


— 693 — Questa soluzione viene solitamente agganciata al brocardo voluntas aegroti suprema lex, ma il richiamo non appare corretto a fronte del divieto di eutanasia attiva. In realtà, la volontà del malato rinviene il proprio valore su un versante negativo, nel senso cioè di potere escludere qualsiasi aggressione o manipolazione fisica da parte del medico; tale diritto trova già riconoscimento nella necessità di un consenso per ogni intervento o trattamento sanitario non espressamente imposto dalla legge (artt. 13 e 32, comma 2, Cost.; art. 1, legge 13 maggio 1978, n. 180 e art. 33, legge 23 dicembre 1978, n. 833); soprattutto, però, esso rinviene il proprio fondamento nel principio di inviolabilità della dignità dell’uomo (art. 2 Cost.), che da un lato comprende un potere di autodeterminazione in ordine alla qualità e al contenuto della propria vita (e conseguentemente della propria morte), dall’altro lato preclude a chiunque il compimento di atti contrastanti con la volontà dell’interessato e non legittimati da una norma giuridica. Una volta intervenuta una richiesta consapevole ed informata da parte del malato, dunque, il medico ha il dovere di non iniziare o sospendere la cura, poiché il suo intervento si scontrerebbe con l’opposta volontà del titolare e costituirebbe fonte di responsabilità penale; onde il concetto stesso di eutanasia è escluso dal rifiuto della cura da parte del malato (47). ai congiunti’’ (cfr. sul punto BONELLI-GIANNELLI, Consenso e attività medico-chirurgica: profili deontologici e responsabilità penale, in Riv. it. med. leg., 1991, 20 ss.; ZAMBRANO, (nota 7), 865). (47) Tra gli altri, BELLOTTO, Il ‘‘particolare valore morale’’ della disperazione, in Giust. pen., 1993, 206; BONELLI-GIANNELLI, (nota 46), 20 ss.; BRICOLA, (nota 37), 214; D’AGOSTINO, (nota 16), 35 s.; DEL CORSO, Il consenso del paziente nell’attività medico-chirurgica, in questa Rivista, 1987, 570 s.; FALZEA, (nota 14), 127 s.; GIUSTI, (nota 22), 57 ss.; GRASSO, (nota 23), 70 s.; ID., Il reato omissivo improprio, 1983, 313; LEGA, (nota 4), 473 s.; MANNA, (nota 25), 1284 s.; ID., (nota 4), 72 ss.; MANTOVANI, Il problema della disponibilità, cit., (nota 12), 44 s., 55 s.; NANNINI, (nota 4), 87 ss., 130 ss.; ORRÙ, La tutela della dignità umana del morente, in Vivere: diritto o dovere?, cit., 97 e 102 s.; PANNAIN-SCLAFANIPANNAIN, (nota 4), 20 s.; PAPPALARDO, L’eutanasia pietosa: profili di interesse medico-legale, in Vivere: diritto o dovere?, cit., 110 s.; PORTIGLIATTI BARBOS, (nota 43), 31 s.; RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 223; RIZ, (nota 13), 353 s.; ID., in RAMACCI-RIZ-BARNI, (nota 4), 862; ROMBOLI, La libertà di disporre, cit., (nota 8), 34; STELLA, (nota 16), 1018; ZAMBRANO, (nota 7), 893 s. Questo primato della volontà del paziente, cui il medico ha il dovere di uniformarsi, è costantemente affermato dalla scuola senese di medicina legale: vd. BARNI, (nota 25), 422; ID., Il diritto al rifiuto terapeutico, in I diritti dell’uomo nell’ambito della medicina legale, cit., 335 ss.; BARNI-DELL’OSSO, I diritti del soggetto nella sperimentazione e nella pratica medica: aspetti medico-legali, in Responsabilità e progresso medico, (a cura di G. Dell’Osso), 1984, 33 s.; BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 30 ss.; BARNI-DE PALMA, Il medico e l’ammalato nella tutela della salute: codici deontologici e Carta dei diritti del malato, in Responsabilità e progresso medico, cit., 20; NORELLI-DELL’OSSO, (nota 28), 67; QUERCI, Aspetti medico-legali della terapia del dolore, in Responsabilità e progresso medico, cit., 150. Analogamente, per la dottrina tedesca, vd. per tutti ENGISCH, Konflikte, Aporien und Paradoxien bei der rechtlichen Beurteilung der ärztlichen Sterbehilfe, in FS Dreher,


— 694 — Contro questa teoria si è pronunciata altra parte della dottrina, nell’ottica di un’assoluta indisponibilità del bene della vita fondata su ragioni giuridiche (48) ovvero alla luce dell’invalidità della volontà espressa da un malato in fase terminale e dell’ineliminabile rischio di diagnosi errate (49). Rispetto a tali argomentazioni, è però sufficiente notare che, nella situazione in esame, la condotta del medico rileva solo sul piano omissivo e la sua responsabilità deve dunque derivare dalla violazione di un obbligo giuridico di intervento (art. 40, comma 2, c.p.): obbligo giuridico che, a fronte del valido esercizio del diritto di rifiuto delle cure, non sussiste certamente. Le questioni, piuttosto, si pongono sotto due ulteriori profili. (A) Il primo concerne il caso del malato che, in piena coscienza, chiede al medico la deconnessione del respiratore artificiale che lo mantiene in vita. In questa situazione, mentre entra in crisi la stessa distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva (ove si intenda la prima come omissione di terapia rispetto ad una malattia giunta alla fase terminale e la seconda come azione in sé produttiva del decesso del malato), si tratta di stabilire se la condotta del medico trovi giustificazione nel diritto del paziente a rifiutare le cure o se, al contrario, integri il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). A prima vista, sembrerebbe che il diritto di rifiuto della terapia deve cedere dinanzi al dovere — penalmente sanzionato — del sanitario di non cagionare la morte del malato e di non agevolare il suo proposito suicidiario; nella specie, però, non si tratta di un suicidio bensì della decisione di lasciarsi morire e questa — come si è visto — rinvia ad una posizione giuridica riconosciuta dall’ordinamento. Donde la necessità di una soluzione coerente ai principi generali, che affermano la prevalenza delle scelte di autodeterminazione — purché produttive di effetti esclusivamente nella sfera dell’agente — e fondano la le1977, 321 ss.; HIRSCH, Behandlungsabbruch und Sterbehilfe, in FS Lackner, 1987, 605; OTTO, Recht auf den eigenen Tod? Strafrecht im Spannungsverhältnis zwischen Lebenserhaltungspflicht und Selbstbestimmung, Gutachten D für den 56. Deutschen Juristentag, 1986, D-37 ss.; per riferimenti anche di diritto comparato, GIESEN, Ethische und rechtliche Probleme am Ende des Lebens, in JZ, 1990, 936 ss. Parimenti vale per la dottrina spagnola: per tutti, BAJO FERNANDEZ, Prolongacion artificial de la vida y trato inhumano o degradante, in Cuadernos de Politica criminal, 1993 (51), 735; DIEZ RIPOLLES-GRACIA MARTIN, Delitos contra bienes juridicos fundamentales. Vita humana independiente y libertad, 1993, 263 s.; MUÑOZ CONDE, Derecho penal, pt. esp., 1993, 9a ed., 75. (48) Cfr. per tutti MANZINI, (nota 13), 348 e 398 s.; PATALANO, (nota 4), 16 e 192, i quali — oltre il consueto richiamo degli artt. 579 e 580 c.p. — affermano anche, alla luce della scriminante dello stato di necessità e del reato di omissione di soccorso, l’obbligo di intervenire in favore del tentato suicida; analogamente EUSEBI, (nota 17), 527. (49) Così, rispettivamente, EUSEBI, (nota 17), 526 (secondo cui il rifiuto di curarsi, lasciandosi morire, è frutto di una ‘‘volontà formatasi nel momento del dolore e spesso espressa in maniera incostante o comunque interpretabile come appello di solidarietà’’) e RIECI-VENDITTO, (nota 22), 281; VACCHIANO, (nota 26), 36.


— 695 — gittimità del trattamento medico sul consenso dell’interessato: il sanitario che si conforma alle richieste del malato non può dunque incorrere in responsabilità penale (salvo che, ovviamente, si dimostri un vizio nella volontà del paziente), giacché il distacco del respiratore artificiale — prescindendo da una percezione naturalistica dell’operato del medico — dà vita ad un’omissione di terapia imposta dal rifiuto dell’interessato, mentre la protrazione del sostentamento vitale darebbe vita ad un illegittimo trattamento coatto (50). La delicatezza di tale conclusione è innegabile, specie laddove il malato non versi in una situazione terminale: ad esempio, si pensi a quanti — in assenza di alcun imminente pericolo di morte — sono costretti a vivere dentro un polmone di acciaio; così come riesce disagevole ammettere che, in un sistema penale ove risulta punito sia l’omicidio del consenziente che l’agevolazione al suicidio, sussiste uno spazio di liceità per l’interruzione di terapie cui consegue il decesso del paziente. Queste obiezioni, tuttavia, lungi dall’inficiare la correttezza della soluzione raggiunta, dimostrano solo l’esigenza di una rimeditazione sulle scelte di tutela operate dal legislatore penale. La verità è che, nelle situazioni in esame, il diritto del malato a consentire o rifiutare qualsiasi terapia nei suoi confronti manifesta la sua più estrema implicazione: ove tale diritto venga riconosciuto nella (50)

STELLA, (nota 16), 1017; vd. anche NANNINI, (nota 4), 504 ss., nota 57; PAPPA-

LARDO, (nota 47), 119 s.; per la configurabilità dell’art. 579 c.p. — seppure in prospettiva

critica —, RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 216 ss. La già citata proposta di legge Del Donno stabiliva all’art. 4, comma 3, che ‘‘il paziente, di propria volontà e nel pieno possesso delle facoltà mentali, può dare disposizioni affinché le terapie di sostenimento vitale non vengano usate o ne venga sospeso l’uso’’, regolando poi all’art. 10 le modalità di tale rinuncia. La dottrina tedesca concordemente esclude la punibilità di chi interrompe il trattamento vitale su espressa richiesta dell’interessato (conf., in giurisprudenza, LG Ravensburg, 3 dicembre 1986, in NStZ, 1987, 229, per il caso di chi, profittando dell’assenza di controllo dei sanitari, aveva esaudito il desiderio della moglie staccando il respiratore artificiale che la teneva in vita), seppur con forti divergenze al momento di giustificare l’impunità: taluni affermano trattarsi di una condotta omissiva (mediante azione) fondata sulla volontà del paziente e dunque non correlata ad una posizione di garanzia (ad es., ENGISCH, (nota 37), 315 ss.; ROXIN, Die Sterbehilfe im Spannungsfeld von Suizidteilnahme, erlaubten Behandlungsabbruch und Tötung auf Verlangen, in NStZ, 1987, 348 ss.; contra, HERZBERG, Straffreie Beteiligung am Suizid und gerechtfertigte Tötung auf Verlangen, in JZ, 1988, 186 s.), altri ravvisano una condotta attiva, la cui impunità si fonda sulla sua atipicità rispetto alla fattispecie di omicidio (con varietà di accenti, HIRSCH, (nota 47), 605 s; JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 16 s.; SAMSON, Begehung und Unterlassen, in FS Welzel, 1974, 601; SAX, Zur rechtlichen Problematik der Sterbehilfe durch vorzeitigen Abbruch einer Intensivbehandlung, in JZ, 1975, 149 s.) ovvero sul dissenso del paziente al trattamento medico (tra gli altri, OTTO, (nota 47), D-42 ss.; TRÖNDLE, Strafrechtlicher Lebensschutz und Selbstbestimmungsrecht des Patienten, in FS Göppinger, 1990, 603 s.; WESSELS, Strafrecht, B.T., 1994, 18a ed., I, 6 s.). Sul punto, vd. anche il § 214 dell’Alternativentwurf eines Gesetzes über Sterbehilfe (1986), che disciplina l’eutanasia passiva assimilando le ipotesi di omissione e interruzione di terapie di sostenimento vitale.


— 696 — sua pienezza, il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente, astenendosi dalla protrazione delle cure anche se da ciò deriva la morte dell’interessato; diversamente vale ove quel diritto sia inteso come deroga ad una regola generale, fondata sull’assoluta intangibilità della vita pure da parte del suo titolare. L’aspetto più problematico emerge comunque al momento di configurare come vero e proprio diritto, giuridicamente azionabile, la richiesta di sospensione della terapia, giacché il sanitario può perdere la propria posizione di garante ma non può certo essere costretto ad agire violando i suoi convincimenti etici o deontologici. Il vero nodo della questione concerne dunque il potenziale conflitto tra la libertà del malato di lasciarsi morire e la libertà del medico di rispettare le regole della propria coscienza: così come in tema di aborto, il diritto di lasciarsi morire manifesta pertanto la propria giuridica azionabilità nei confronti dello Stato, cui compete il dovere di approntare i mezzi affinché esso trovi attuazione. (B) La seconda questione particolarmente delicata, in tema di eutanasia passiva, concerne l’accertamento della libertà e della validità del consenso, che investe sia l’effettiva capacità di intendere e volere dell’interessato, sia la sua piena consapevolezza come presupposto del potere di autodeterminazione (51). Anche ammettendo la sussistenza di questi requisiti, risulta tuttavia incerto il contenuto dei doveri del medico rispetto a colui che, avendo consapevolmente ed espressamente rifiutato le cure, sia pervenuto ad una fase di incoscienza che priva di attualità il precedente rifiuto. Proprio su quest’ultimo punto insorgono le maggiori incertezze. Una prevalente dottrina, infatti, afferma l’obbligo del medico di procedere in ogni caso agli interventi necessari e urgenti, non rinviabili senza grave rischio per l’interessato, in forza di una presumibilità del consenso fondata sull’id quod plerumque accidit e sulla normale ricorrenza dell’istinto di conservazione; tale soluzione — si aggiunge — per un verso appare la più garantista, poiché fornisce al medico un parametro oggettivo sottratto alla libera disponibilità di qualunque soggetto diverso dal diretto interessato, per un altro verso risulta ‘‘conforme al principio personalistico e al principio del consenso, in quanto la volontà del soggetto, anche se dedotta per obiettiva presunzione, continua così, e pur sempre, a re(51)

A mero titolo indicativo, cfr. BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 31 ss.; BO-

NELLI-GIANNELLI, (nota 46), 14 ss.; DEL CORSO, (nota 47), 536 ss.; MANTOVANI, Aspetti giuri-

dici, cit., (nota 12), 58 s.; NANNINI, (nota 4), 387 ss.; PASSACANTANDO, Il difetto del consenso del paziente nel trattamento medico-chirurgico e i suoi riflessi sulla responsabilità penale del medico, in Riv. it. med. leg., 1993, 105 ss.; RIZ, (nota 13), 313 ss.; RODRIGUEZ, Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico, in Riv. it. med. leg., 1991, 1117 ss.; ZAMBRANO, (nota 7), 862 ss. Per ulteriori riferimenti, vd. § 5.2.


— 697 — stare il cardine della liceità dei trattamenti sanitari’’ (52). In altre parole, dinanzi ad ogni malato incosciente il medico deve ritenere che il precedente rifiuto delle cure ha perduto validità e, nel conseguente dubbio, egli deve intervenire (in dubio pro vita): onde il diritto di ‘‘lasciarsi morire’’ soccombe dinanzi alla doverosità del trattamento medico. Tale impostazione appare quindi contraddittoria, giacché contemporaneamente afferma il diritto del malato di rifiutare le cure e il dovere del medico di curarlo non appena questi non sia più in grado di opporre un espresso rifiuto. Né è vero che essa fornisce al medico una precisa direttiva di condotta, salvo ad ammettere che la possibilità di ricostruire e presumere il consenso — nonostante una precedente manifestazione di volontà contraria da parte dell’interessato — si traduce in realtà in un’assoluta irrilevanza del consenso stesso: diviene allora inutile ogni riferimento ad un consenso presunto, dovendosi più propriamente affermare un obbligo per il medico di ignorare la volontà del paziente. 3.5. Il diritto di lasciarsi morire e il c.d. testamento biologico. — Il 28 febbraio 1992, la Consulta di Bioetica italiana (53) ha approvato una ‘‘Carta di autodeterminazione’’, con cui il dichiarante — per il caso che sia in futuro colpito da ‘‘una malattia in fase terminale (per esempio un tumore maligno avanzato e non suscettibile di remissione) oppure da una malattia o una lesione traumatica del cervello gravemente invalidante e giudicata, allo stato attuale delle migliori conoscenze mediche, irreversibile oppure da altre malattie gravemente invalidanti e non rimediabili’’, tali da determinare una sua incapacità fisica o mentale permanente — così stabilisce: ‘‘1) dispongo che le malattie intercorrenti (per esempio infezioni respiratorie ed urinarie, emorragie, disturbi cardiaci o renali) che potrebbero minacciare la mia vita non siano curate attivamente (in particolare con antibiotici, trasfusioni, rianimazione cardiopolmonare, emodialisi), a meno che esse non sembrino causarmi sofferenza; 2) dispongo che, se non fossi più in grado di assumere cibo e bevande, io non venga sottoposto all’idratazione e alla nutrizione artificiale, a meno che questa mancata somministrazione non sembri provocarmi sofferenza; 3) dispongo che, in caso che io soffra gravemente, si provveda ad un opportuno trattamento analgesico, anche se ciò dovesse affrettare la mia fine’’. La Carta prosegue individuando la persona dell’esecutore, chiamato a rendere ope(52) Testualmente, MANTOVANI, Il problema della disponibilità, cit., (nota 12), 57. Sulle modalità di ricostruzione del consenso c.d. presunto, vd. ampiamente NANNINI, (nota 4), 479 ss.; sul punto, DEL CORSO, (nota 47), 565 ss.; MANNA, (nota 4), 71; STELLA, (nota 16), 1021 s. (53) Il testo della ‘‘Carta di autodeterminazione’’ è riportato in Riv. it. med. leg., 1992, 171 s.; per i suoi ‘‘precedenti’’, vd. MORI (a cura di), La bioetica. Questioni morali e politiche per il futuro dell’uomo, cit., 241 ss.


— 698 — ranti le precedenti dichiarazioni: ‘‘Poiché sono ben consapevole che le mie disposizioni sopra citate probabilmente non contemplano tutti gli aspetti della situazione che potrà verificarsi, delego il sig. ... ad integrarle prendendo eventuali decisioni necessarie al caso e non chiarite nella presente carta, facendo questo in concerto con i medici. Delego infine il sig. ... a farsi garante del fatto che queste mie volontà vengano scrupolosamente rispettate, ed in caso contrario ad agire legalmente a tutela dei miei interessi’’. Come emerge dalla lettura del documento, gli aspetti maggiormente problematici derivano dalla genericità dei presupposti cui è legata l’operatività della dichiarazione e dalla necessità di una valutazione discrezionale in ordine alla loro sussistenza, specie per quanto attiene all’accertamento dello stato di sofferenza. Non solo: l’individuazione di un soggetto, delegato a precisare e integrare la volontà del malato ormai incapace di esprimere autonome e consapevoli decisioni, in realtà annulla il dichiarato scopo — contenuto nella Carta — di ‘‘liberare, per quanto possibile, i miei familiari e i medici dal peso di difficili decisioni inerenti alla mia cura’’. E ancora: quale valore cogente può attribuirsi ad una scelta compiuta in un momento di benessere e destinata ad operare quando, mutate gravemente le condizioni del soggetto, potrebbe imperiosamente prevalere l’istinto di conservazione? Alla luce di tali rilievi, la dominante dottrina italiana esprime una valutazione negativa nei confronti di siffatte dichiarazioni, giudicandole inadeguate nel loro tentativo di affermare, a futura memoria, il diritto di rifiutare le cure e di scriminare così l’opera del sanitario che ad esse decida di attenersi (54). (54) Cfr. BARNI, (nota 25), 425: ‘‘il medico (...) non deve né può essere condizionato o paralizzato dalla scoperta di pregresse manifestazioni di volontà (...). La pietra di paragone cui affidare il confronto del proprio indirizzo è rappresentata unicamente e solo dall’espressione immediata o dalla conferma inequivoca di una libera e responsabile volontà da parte del paziente’’; conf. DANESI, Note sulla fondazione della bioetica, in Civiltà cattolica, 1990, IV, 239; DE MARSICO, (nota 37), 218; GRASSO, (nota 23), 72; LENER, (nota 19), 230 s.; MANTOVANI, (nota 19), 428; ORRÙ, (nota 47), 105; PORTIGLIATTI BARBOS, (nota 4), 10; ID., (nota 43), 38; SGRECCIA, (nota 9), 495; vd. anche CRISCUOLI, Sul diritto di morire naturalmente. Il Natural Death Act della California, in Riv. dir. civ., 1977, I, 93 ss.; RODOTÀ, Dilemmi della vita, cit., (nota 8), 202; VARANI, (nota 23), 166; ZAMBRANO, (nota 7), 885 ss. Cfr. altresì il parere reso il 2 giugno 1992 dal Comitato nazionale per la Bioetica (in Riv. it. med. leg., 1993, 171 ss.), ove — dopo avere affermato che il ‘‘consenso informato costituisce legittimazione e fondamento dell’atto medico’’ e ‘‘non può essere delegato ad altri così come non può presumersi da parte del medico’’ — si aggiunge: ‘‘La manifestazione di volontà del paziente capace non può dunque essere in alcun modo surrogata; le scelte prefigurate in atti dispositivi risalenti possono assumere qualche rilevanza solo nel caso di sopraggiunto difetto o perdita della coscienza’’ (ivi, 175; vd. anche ivi, 195); si noti comunque che l’art. 42 del codice medico deontologico sancisce che, ricorrendo l’incapacità del paziente e la necessità ed urgenza dell’intervento, il medico può prescindere dal consenso. La prevalente dottrina tedesca riconosce al testamento biologico solo il valore di un semplice indizio


— 699 — Questa soluzione tesa a giustificare l’intervento del medico in ogni caso di incapacità del malato, attraverso una presunzione del suo consenso, entra però in crisi dinanzi a due questioni più specifiche. La prima è quella dei Testimoni di Geova, i quali — in ossequio alle proprie convinzioni religiose — portano addosso un documento ove dichiarano di non volere essere sottoposti a trasfusione ematica neppure in caso di estremo pericolo di vita. Una qualificata dottrina, anche nell’ipotesi di incapacità del soggetto di opporre il proprio dissenso, riconosce a tale dichiarazione un valore vincolante nei confronti del medico, ritenendo che l’eventuale trattamento disposto contro la volontà dell’interessato — alla luce di una presunzione del consenso — si porrebbe in violazione sia della sua libertà di disporre della salute che della sua libertà di coscienza (55). La seconda questione — più controversa — concerne lo sciopero della fame da parte dei detenuti. A questo proposito, un dominante orientamento nega la possibilità di un’alimentazione coatta, osservando che essa non risulta consentita né dai poteri-doveri di cui è titolare l’amministrazione penitenziaria, né da un presunto stato di necessità, né dalla legislazione sui trattamenti sanitari obbligatori e che la sua attuazione si risolverebbe nella manipolazione di un uomo e nella sua riduzione al rango di animale, nonostante l’opposizione lucidamente manifestata (56). E, alla per la ricostruzione della volontà del malato (per tutti, ESER, (nota 43), 81 s.; JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 13; LAUFS, Arztrecht, 1993, 5a ed., 156 s.; OTTO, (nota 47), D-41 e nota 92; nel senso di attribuire invece natura vincolante, SCHÖLLHAMMER, Die Rechtsverbindlichkeit des Patiententestaments, 1993; STERNBERG-LIEBEN, Strafbarkeit des Arztes bei Verstoß gegen ein Patienten-Testament, in NJW, 1985, 2734 ss.; UHLENBRUCK, in UHLENBRUCK-ROLLIN, Sterbehilfe und Patienten-Testament, 1983, 83 ss.). (55) Per tutti, VINCENZI AMATO, Tutela della salute, cit., (nota 8), 39 s.; conf. RESCIGNO, (nota 8), 191: ‘‘La volontà manifestata, o ricostruibile per fatti certi e concludenti qual è l’appartenenza ad una comunità, rimane meritevole di rispetto sin che non sia modificata in modo inequivoco, attraverso una revoca espressa o una condotta tenuta nel possesso pieno della coscienza. Deve respingersi una presunzione che porta a considerare il soggetto come incline a modificare ed abbandonare consolidate concezioni di vita in nome del prevalente istinto di conservazione’’; vd. anche BARILE, (nota 8), 388 s.; MANNA, (nota 4), 80; PARODI GIUSINO, Trattamenti sanitari obbligatori, libertà di coscienza e rispetto della persona umana, in Foro it., 1983, I, 2660; RIZ, in RAMACCI-RIZ-BARNI, (nota 4), 863. Per la sottoponibilità a trasfusione del Testimone di Geova, alla luce del principio in dubio pro vita e dell’inattualità della dichiarazione, vd. invece MANTOVANI, Il problema della disponibilità, cit., (nota 12), 63 s.; NANNINI, (nota 4), 493 s.; conf., alla luce dei principi di indisponibilità della vita e di tutela della persona umana, D’ADDINO SERRAVALLE, (nota 7), 211 s.; Pret. Pescara, 8 novembre 1974, in Nuovo dir., 1975, 253. (56) Tra gli altri, vd. gli interventi di FASSONE, FERRAJOLI, ONIDA e PULITANÒ, in Questione giustizia, 1982, 335 ss.; FASSONE, In tema di libertà provvisoria all’imputato ‘‘digiunatore’’, in Cass. pen., 1984, 2003; FIANDACA, Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro it., 1983, II, 235; GRASSO, (nota 47), 314; MANNA, (nota 25), 1285; RIZ, (nota 13), 354 s.


— 700 — luce delle medesime ragioni, una parte della dottrina esclude l’alimentazione coatta anche quando, per effetto dello sciopero, il detenuto abbia perduto la propria capacità di autodeterminazione, salvo l’obbligo per il medico di verificare la persistenza delle sue precedenti scelte (57). Vero è che una prevalente soluzione è nel senso contrario, osservando che ‘‘il doveroso intervento del garante non potrebbe mai esser considerato come lesivo del rispetto dovuto all’autonomia e alla dignità della persona’’ (58) ma questa tesi — ispirata ad una finzione quasi grottesca, per un verso fondata sulla prevalenza della volontà individuale e per l’altro verso, non appena il detenuto non può più protestare il proprio dissenso, sulla presunzione di un suo consenso — trova comunque il suo specifico referente nella peculiare situazione del detenuto; anzi, la sottolineatura dell’importanza rivestita dalle condizioni di cattività quale elemento preclusivo di una scelta veramente libera, finisce con il rappresentare una conferma della libertà di suicidarsi in condizioni non patologiche. Ora, tentando di razionalizzare le soluzioni dottrinali prospettate ri(57) Vd. MANNA, (nota 4), 86, il quale osserva la necessità di ‘‘stabilire se il rifiuto dell’alimentazione sia ancora valido, nonostante le condizioni di salute estremamente precarie’’; nel senso che il medico è legittimato solo al primo soccorso in favore del detenuto in pericolo di vita, con l’obbligo di desistere in caso di una sua volontà contraria, RIZ, in RAMACCI-RIZ-BARNI, (nota 4), 863 s.; vd. anche ID., (nota 13), 354 s.; per il rispetto della volontà precedentemente espressa dal detenuto, BUZZI, L’alimentazione coatta nei confronti dei detenuti, in Riv. it. med. leg., 1982, 285 s. (58) Testualmente, GRASSO, (nota 47), 316 (il quale peraltro ravvisa un’illegittimità costituzionale, ex artt. 3 e 32, comma 2 Cost., del disegno di legge n. 1709, presentato in Parlamento il 15 gennaio 1982 dal ministro di grazia e giustizia on. Darida, concernente la previsione di un obbligo di procedere, ‘‘sotto continuo controllo medico’’, all’alimentazione forzata del detenuto o internato che rifiuta di nutrirsi ‘‘allorché egli versi in imminente pericolo di vita’’); conf. ALLEGRANTI-GIUSTI, Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico-legali e deontologici, 1983, 96; FIANDACA, (nota 57), 240 s.; PULITANÒ, (nota 57), 373 s. La medesima situazione di incertezza è riscontrabile nella dottrina tedesca (pur a fronte di una norma — il § 101 StVollG — che espressamente disciplina i presupposti dell’alimentazione forzata nei confronti dei detenuti): in favore dell’alimentazione coatta, con varietà di motivazioni, BAUMANN, Zwangsweise Lebenserhaltung im Strafvollzug, in ZRP, 1978, 35 s.; HERZBERG, Zur Strafbarkeit der Beteiligung am frei gewählten Selbstmord, dargestellt am Beispiel des Gefangenensuizids und der strafrechtlichen Verantwortung der Vollzugsbediensteten, in ZStW, 1979 (91), 577 ss.; JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 34; criticamente, laddove la volontà suicidiaria del detenuto sia libera e consapevole, BEMMANN, Zur Fragwürdigkeit der Zwangsernährung von Strafgefangenen, in FS Klug, 1983, II, 569; ESER, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, StGB-Kommentar, 1991, 24a ed., vor §§ 211, Rdnr. 45; MICHALE, Recht und Pflicht zur Zwangsernährung, 1983, 171 ss.; MÜLLER, in SCHWIND-BÖHM, Strafvollzugsgesetz, 1991, 2a ed., § 101, Rdn. 1 ss.; OSTENDORF, Das Recht zum Hungerstreik, 1983; WAGNER, Selbstmord und Selbstmordverhinderung, 1975, 141 s. La dottrina spagnola afferma invece la doverosità dell’alimentazione forzata, alla luce del pericolo che lo Stato possa altrimenti eliminare i propri avversari politici detenuti (vd. DIEZ RIPOLLES, La huelga de hambre en el ambito penitenciario, in Cuadernos de Politica criminal, 1986 (30), 603 ss.; MUÑOZ CONDE, (nota 47), 72 s.).


— 701 — spetto ai diversi problemi considerati, sembra che esse si dispongano in un ordine decrescente, ove il rifiuto alla trasfusione opposto a futura memoria dal Testimone di Geova risulta fondato su salde motivazioni religiose che si presumono sussistenti anche nel momento finale, il rifiuto all’alimentazione espresso dal detenuto appare basato su una scelta ideologica ritenuta da taluni meritevole di rispetto se persistente nel tempo e il rifiuto manifestato con il testamento biologico è considerato privo di qualsiasi consistenza e convinzione, tanto da cedere dinanzi all’istinto di conservazione. Tale spiegazione di ordine quantitativo dimostra dunque che l’irrilevanza attribuita ai testamenti biologici non deriva da inderogabili principi giuridici ma dal fatto che — dinanzi a manifestazioni di volontà così dense di conseguenze e insuscettibili di verifica nel momento in cui dovrebbero esplicare i propri effetti — essi nulla dicono in ordine all’effettività e alla permanenza delle ragioni psicologiche che hanno indotto il dichiarante a disporre in ordine alle modalità del proprio decesso. Il problema concerne allora, più che l’astratta valenza giuridica delle carte di autodeterminazione, il loro contenuto, le modalità del loro rilascio e i tempi del loro periodico rinnovo affinché possano produrre effetto. La necessità di una rimeditazione sull’efficacia dei testamenti biologici porta con sé l’opportunità di riflettere sulla tesi — sostenuta da una prevalente dottrina — relativa alla configurabilità della scriminante dello stato di necessità (o della legittima difesa dei diritti dei terzi) nei confronti di chi, anche con violenza, impedisce al suicida di portare a compimento il suo proposito, altresì ravvisando il reato di omissione di soccorso a carico di chi si astiene dal prestare aiuto ad un soggetto ‘‘ferito o altrimenti in pericolo’’ in conseguenza di un atto suicidiario (59). Una volta am(59) Vd. gli Autori citati alla nota 48, nonché ANTOLISEI, (nota 4), 116; CARNELUTTI, Problema giuridico della trasfusione del sangue, in Foro it., 1938, IV, 91 s.; GIULIANI, Dovere di soccorso e stato di necessità nel diritto penale, 1970, 13; MUSCO, Omissione di soccorso, in Dig. pen., 1994, VIII, 563; NANNINI, (nota 4), 542 ss.; PANNAIN, Omissione di soccorso (diritto penale), in Nov. dig. it., 1965, XI, 903; REINOTTI, Omissione di soccorso, in Enc. dir., 1980, XXX, 47; Pret. Carpi, 8 giugno 1960, in Crit. pen., 1960, 448 (conformemente si esprimeva l’art. 3 della citata proposta di legge Del Donno: ‘‘Per le cure e gli interventi chirurgici di particolare rilievo il medico deve avere il consenso del malato o dei suoi rappresentanti autorizzati, salvo quando è necessario contrastare la volontà del paziente nel suo proposito di morire, come nel caso di cure prestate per le conseguenze del tentato suicidio’’). Evidentemente diversa — e meritevole di essere condivisa — è la soluzione di quanti ammettono l’intervento terapeutico al solo fine delle prime cure, onde verificare la persistenza e l’effettività del proposito suicidiario: così RIZ, in RAMACCI-RIZ-BARNI, (nota 4), 863 s.; ID., (nota 13), 353 s.; sul punto, vd. altresì CADOPPI, Il reato di omissione di soccorso, 1993, 61 s.; GRASSO, (nota 47), 305 ss.; VANNINI, Delitti contro la vita e l’incolumità individuale, 1958, 225. Per l’inesistenza di un generale obbligo di impedire l’altrui suicidio — salvo il caso di obblighi di cura e custodia —, BARILE, (nota 8), 59; MANNA, (nota 4), 74; ROMBOLI, Atti di disposizione, cit., (nota 8), 246; contra, FALZEA, (nota 14), 127 e, in pro-


— 702 — messo che il suicidio rientra in uno spazio di libertà individuale, tuttavia, appare contraddittoria l’idea che su tutti i consociati grava in ogni caso l’obbligo giuridico di impedirne la realizzazione; inoltre, se l’esercizio di una violenza su colui che tenta di suicidarsi può ritenersi giustificato laddove l’agente sa o presume di impedire un proposito dettato da motivazioni contingenti e transeunti, esso perde invece di legittimazione nei confronti del suicida razionale. In realtà, la teoria in esame assume implicitamente l’illiceità (e la costante patologia!) del suicidio e da questa desume la sussistenza di un altrui obbligo o diritto di intervento: l’erroneità del presupposto porta con sé l’erroneità della soluzione. 4.1. L’eutanasia indiretta: principi religiosi, etici e deontologici. — La nozione di eutanasia indiretta — consistente nella somministrazione a malati, prossimi alla morte e in preda ad acute sofferenze, di mezzi antalgici anche in grado di cagionare una diminuzione delle resistenze organiche — è ambigua e difficilmente definibile; tuttavia, essa ha il merito di evidenziare la linea di confine fra il trattamento terapeutico lecito e l’eutanasia attiva. In suo favore sono state individuate ragioni etiche e giuridiche. Così, sul piano etico, si espresse favorevolmente già papa Pio XII: ‘‘Si tratta unicamente di evitare al paziente dolori insopportabili, per esempio nel caso di cancri inoperabili o di malattie inguaribili. Se tra la narcosi e l’abbreviamento della vita non esiste alcun nesso causale diretto, posto spettiva critica, RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 224; sulla concezione patologica del suicidio cfr. infine MARRA, Suicidio e scienze sociali, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1994, 195 ss.; ID., Suicidio e diritti, cit., (nota 15), 222 ss. La dottrina tedesca prevalente esclude il reato di omissione di soccorso nei confronti di chi non impedisce l’altrui suicidio (per tutti, BOTTKE, Suizid und Strafrecht, 1982, 272 ss.; ESER, Sterbewille und ärztliche Verantwortung, in MedR, 1985, 8 s.; ID., (nota 37), 790 s.; contra, HORN, in Systematischer Kommentar zum StGB, B.T., 1993, 5a ed., II, § 212, Rn. 12 s.; JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 24; OTTO, (nota 47), D-65 s., D-75 ss.; SCHWALM, Zu einigen ungelösten Strafrechtsproblemen, in FS Engisch, 1969, 535 s.); nel senso di presumere la volontà del suicida di non essere salvato, ESER, Neues Recht des Sterbens? Einige grundsätzliche Betrachtungen, in Suizid und Euthanasie, cit., 398 s.; diff., ammettendo il soccorso di chi sia divenuto incapace ed escludendolo invece per chi insiste nella propria decisione, ENGISCH, (nota 37), 313 s. In favore dell’impunità di chi con violenza impedisce l’altrui suicidio, BOTTKE, (nota 59), 127 s.; HERZBERG, (nota 58), 571 ss.; JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 33; in senso problematico, ESER, (nota 58), § 240, Rdnr. 32. Il § 215 dell’Alternativentwurf eines Gesetzes über Sterbehilfe (1986) prevede: ‘‘Chi omette di impedire l’altrui suicidio non agisce antigiuridicamente se il suicidio poggia su una libera e seria decisione, espressamente manifestata o desumibile dalle circostanze. Una siffatta decisione è da escludere se trattasi di soggetto minore di diciotto anni o se la sua libera volontà è danneggiata ai sensi dei §§ 20 e 21 StGB’’ (critico, sul punto, HERZBERG, Zum strafrechtlichen Schutz des Selbstmordgefährdeten, in JZ, 1986, 1021 ss., a sua volta criticato da ESER, (nota 58), vor §§ 211, Rdnr. 34; vd. anche BAUMANN e HERZBERG, Nichthinderung einer Selbsttötung, in JZ, 1987, 131 ss.).


— 703 — per volontà degli interessati o dalla natura delle cose (come nel caso in cui il dolore non potrebbe essere alleviato se non abbreviando la vita), e se, al contrario, la somministrazione di narcotici cagiona per sé stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita, essa è lecita’’ (60). E, più di recente, la ‘‘Dichiarazione sull’eutanasia’’, emessa il 5 maggio 1980 dalla Sacra Congregazione per la dottrina della fede, afferma la liceità della somministrazione di antidolorifici anche se ne derivi un’accelerazione della morte: ‘‘In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone’’. Negli stessi termini, infine, si pronuncia il Catechismo della Chiesa cattolica: ‘‘L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate’’ (§ 2278). Analogamente, il rapporto del 1976 della ‘‘Commissione per le questioni sociali e per la sanità’’ presso il Consiglio di Europa osservava che, in caso di inutilità della terapia straordinaria, il medico — astenendosi da ogni azione che prolungherebbe invano il momento terminale e irreversibile della vita — può decidere di limitarsi ad una semplice terapia di mantenimento o di sostegno che accompagni il malato verso la morte, evitandogli inutili sofferenze; e ancora più specificamente, la già citata ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’ ha rilevato che ‘‘il dolore deve essere combattuto con tutti i mezzi e in particolare mediante medicinali adeguati come la morfina e i suoi derivati, somministrati secondo le norme in vigore’’ ed ‘‘è indispensabile assicurare tutte le cure ‘palliative’ ai malati quando la guarigione è diventata impossibile e la terapia medica specifica non è più efficace’’ (61). (60) Si tratta del discorso del 24 febbraio 1957 ai partecipanti al IX Congresso della Società italiana di Anestesiologia, in Acta Apostolicae Sedis, 1957 (49), 146. Per ulteriori citazioni di documenti pontifici e consiliari, CAPRILE, (nota 9), 200 ss.; CONCETTI, (nota 9), 34 ss.; SGRECCIA, (nota 9), 484 s. (61) Cfr. Riv. it. med. leg., 1991, 940. Sul punto, la citata proposta di legge Del Donno perentoriamente stabiliva all’art. 4, comma 2 che ‘‘è vietato dare una morte tranquilla, per mezzo di narcotici, agli infermi sofferenti e inguaribili’’; l’art. 11 ‘‘precisava’’ il principio aggiungendo: ‘‘Le attività terapeutiche che hanno come effetto immediato il lenimento del dolore fisico e subordinatamente il decesso del paziente sono vietate. È vietato l’uso di trattamenti tecnici o medicamentosi, come gli stupefacenti, il cui primo ed immediato effetto, per loro natura o per le dosi, comporta l’accorciamento della vita del malato. Per attutire dolori acuti è permesso somministrare dosi adatte a moderare il dolore, anche se il farmaco diminuisce le resistenze fisiche del malato’’.


— 704 — Alla stregua di questa impostazione, dunque, la doverosità del trattamento sanitario — come si è già visto in precedenza — trova il suo limite nella dignità della vita che si spegne e sul medico incombe il dovere non solo di guarire il malato ove possibile, ma anche di alleviarne le sofferenze ogni volta che le cure siano impotenti ad arrestare il processo della malattia. 4.2. Presupposti e fondamento della liceità dell’eutanasia indiretta. — Al di là delle enunciazioni di principio — tutte nel senso della liceità —, il problema sorge però all’atto di definire con precisione i limiti dell’attività sanitaria non punibile; ovvero, come pure si è detto, a distinguere tra l’aiuto nel morire e l’aiuto a morire (ciò che, in altre parole, implica la differenziazione tra eutanasia indiretta ed eutanasia attiva). La questione, in particolare, si pone sul terreno causale ogni volta che l’utilizzo della terapia antidolorifica si presenta — almeno potenzialmente — in grado di accelerare il momento della morte. E invero, posto che la rilevanza causale della condotta va rapportata all’evento hic et nunc (62), è evidente che l’idea di escludere l’eutanasia indiretta e di ravvisare la punibilità ‘‘quando si cagioni o si anticipi una morte che non si sarebbe verificata o che sarebbe avvenuta in altro tempo’’ (63) si risolve in un indiscriminato ampliamento della responsabilità del medico a titolo di eutanasia attiva; onde si renderebbe certamente preferibile una soluzione orientata nel senso di escludere la tipicità della condotta del sanitario o — attraverso una differenziazione tra l’attività medica volta a rendere tollerabile la vita residua e quella volta invece a farla cessare — la sua colpevolezza. Il dibattito più recente sembra orientarsi in una direzione intermedia. In dottrina si osserva infatti comunemente che le cure palliative — ovviamente, ove siano adeguate (anche se ciò comporti, ad esempio, la somministrazione massiva di analgesici narcotici capaci di determinare un effetto tossico per accumulo sul muscolo cardiaco e conseguentemente l’arresto del cuore) — da un lato non guardano alla morte nel senso di affrettarla o (62) Sullo specifico tema dell’eutanasia, Cass., 18 novembre 1954, Vastalegna, in Foro it., 1955, II, 153: ‘‘Il delitto di omicidio si realizza nel fatto stesso di cagionare volontariamente la morte di un uomo, la quale, anche se accelerata di pochi istanti, è posta ugualmente a carico del colpevole, non valendo ad escludere il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento una causa preesistente indipendente dall’azione del colpevole, come la malattia inguaribile della vittima’’. (63) Così IADECOLA, (nota 22), 191 s., il quale per contro esclude la punibilità del medico che, dinanzi all’assoluta inutilità di qualsiasi terapia, interviene allo scopo di lenire la sofferenza, ‘‘anche se da ciò possa indirettamente conseguire una non rilevante anticipazione del momento, ormai comunque incombente, dell’evento letale’’; eguale genericità si rinviene in MANTOVANI, (nota 19), 425, che esclude la punibilità dell’eutanasia pura ‘‘che non provochi la morte o non abbrevi la vita o anche se in qualche misura anticipi la fine del soggetto’’; sost. conf. LEGA, (nota 4), 475.


— 705 — ritardarla ma mirano solo al sollievo dal dolore, dall’altro lato — collocandosi nell’ambito di una reale prospettiva terapeutica — assolvono ad una finalità curativa incompatibile con la volontà di cagionare la morte. In altre parole, esse costituirebbero qualcosa di essenzialmente diverso dall’eutanasia attiva, poiché l’oggetto di azione del farmaco è costituito dal dolore e non dalla malattia (64). La soluzione in esame — legittimando l’eutanasia indiretta alla luce del finalismo dei mezzi somministrati — si riporta alla teoria (ampiamente utilizzata dalla teologia morale) c.d. del duplice effetto, in base alla quale, in presenza di determinate circostanze, diviene consentita un’azione produttiva di due effetti, di cui quello positivo è previsto e voluto e quello negativo è previsto ma non voluto; è ovvio, tuttavia, che una siffatta concezione — oscillante tra la causalità e la colpevolezza — risulta estranea sia alla teoria scientifica della causalità che a quella penalistica della colpevolezza, mentre lo sforzo di escludere il dolo rinvia a impostazioni già da tempo giustamente abbandonate per la loro inadeguatezza (65). In ogni caso, è evidente che la configurabilità del reato di omicidio è subordinata non ad un animus malvagio ma alla semplice coscienza e volontà del fatto; coscienza e volontà che, nella situazione in esame, vengono integrate anche dal dolo eventuale, consistente proprio nell’accettazione del rischio, da parte del medico, che le sostanze analgesiche somministrate al malato — per la loro qualità o quantità — siano in grado di abbreviarne la vita (66). Infine, la teoria in esame risulta criticabile non solo a causa delle connesse difficoltà probatorie, ma anche per la conseguente irrilevanza della fattispecie oggettiva e la sua inevitabile confusione con le condotte di eutanasia attiva: la differenza — davvero impercettibile — tra le due ipotesi dovrebbe invero consistere nel fatto che l’eutanasia indiretta mira ad una cessazione delle sofferenze anche a costo (64) Così, tra gli altri, BARNI-DELL’OSSO-MARTINI, (nota 23), 40; CHIAVACCI, Promozione dei diritti del malato posto di fronte alla prospettiva della morte, in Morire sì, ma quando?, cit., 265; CONCETTI, (nota 9), 101 s.; D’AGOSTINO, (nota 16), 38; LEGA, (nota 4), 472; LENER, (nota 19), 228 s.; NORELLI-DELL’OSSO, (nota 28), 68; PAPPALARDO, (nota 47), 121 s.; PORTIGLIATTI BARBOS, (nota 43), 36; PORZIO, Eutanasia, in Enc. dir., 1967, XVI, 105; RIECI-VENDITTO, (nota 22), 286; VOLPE, Per una dimensione umana della morte: nella medicina e nel diritto, in Giust. pen., 1993, I, 156 s. Cfr. sul punto, anche per riferimenti di diritto comparato, GIESEN, (nota 47), 935 s. (65) In particolare, si tratta delle concezioni tese ad escludere la rilevanza penalistica del trattamento medico-chirurgico attraverso l’esclusione del dolo: per la critica, RIZ, (nota 13), 307. (66) La questione assume maggiore consistenza considerando come i progressi della c.d. terapia del dolore (in particolare, l’elettroanalgesia e le somministrazioni per via orale e spinale) oggi sembrano offrire una valida e non rischiosa alternativa; tale osservazione viene tuttavia ridimensionata dalla gravità degli effetti collaterali implicati da talune di queste terapie sostitutive e dalla loro inidoneità nei casi più gravi.


— 706 — di un’abbreviazione della vita, mentre l’eutanasia attiva provoca la cessazione della vita al fine di far cessare le sofferenze. Appare quindi più corretto spostare i termini del problema sul piano oggettivo e precisamente sul contenuto dei doveri curativi e terapeutici propri dell’attività sanitaria. In questo senso sembra peraltro esprimersi la citata ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’, ove si afferma che ‘‘occorre evitare di tentare di guarire il paziente ad ogni costo quando la malattia è incurabile nello stato attuale delle conoscenze mediche e che occorre evitare l’accanimento terapeutico che rappresenta un attentato alla dignità della persona’’. In tale prospettiva, il rapporto terapeutico supera gli angusti confini del medico che lotta contro la malattia e trova una nuova definizione proiettata verso i reali interessi del malato: la posizione di garante del medico concerne dunque non il prolungamento ad ogni costo della vita ma la qualità della vita residua del paziente e il trattamento del dolore — ovviamente, purché la terapia si mantenga nei limiti della stretta necessità, il cui superamento implicherebbe un’eutanasia attiva — vale a giustificare l’effetto secondario dell’indebolimento delle resistenze organiche del malato (67). Alla luce di questa impostazione, non ha neppure senso parlare di eutanasia indiretta, sussistendo solo un trattamento sanitario corretta(67) Cfr. sul punto DE MARSICO, (nota 37), 219, il quale, rispetto alla ‘‘malattia che non ammetta altra cura se non l’attenuazione del dolore’’, osserva che ‘‘l’efficacia concausale dei farmaci deve (...) ritenersi lecita, se non doverosa, come unico modo di estrinsecazione dell’ufficio professionale, ed in estremo scriminata dallo stato di necessità’’; in favore di una valutazione fondata sul bilanciamento di interessi, vd. anche GRASSO, (nota 23), 75; ORRÙ, (nota 47), 101 s.; RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 215 s. Nella dottrina tedesca, in favore del riconoscimento dello stato di necessità, HIRSCH, (nota 47), 608 s.; OTTO, (nota 47), D-59 s.; per la liceità dell’eutanasia indiretta alla luce dei doveri terapeutici del medico e dell’ambito di tutela della norma sull’omicidio, JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 17; WESSELS, (nota 50), 6 s.; conf., richiamando la nozione di rischio consentito, ESER, (nota 58), vor §§ 211, Rdnr. 26. Nel senso di una valutazione oggettiva si era pronunciato già Pio XII nel citato discorso del 24 febbraio 1957, ove si affermava la duplice necessità di ‘‘vedere se vi è tra i due effetti proporzione ragionevole, e se i vantaggi dell’uno compensano gli inconvenienti dell’altro’’ e di verificare ‘‘se lo stato attuale della scienza non permetta di ottenere lo stesso risultato con l’uso di altri mezzi, e poi di non oltrepassare, nell’uso del narcotico, i limiti di quello che è praticamente necessario’’ (cfr. sul punto CICCONE, (nota 23), 179 ss.). La problematicità insita in ogni giudizio di comparazione induce STELLA, (nota 16), 1015, nota 16, ad auspicare de jure condendo un’altrettanto problematica norma ‘‘che, mantenendo fermo il carattere di antigiuridicità del fatto, contempli per il medico una causa di esclusione della colpevolezza, legata per l’appunto all’irrisolvibile conflitto tra il dovere di alleviare le più gravi sofferenze ed il dovere di non abbreviare la vita’’; conf. EUSEBI, (nota 17), 522; sul punto, il § 214a dell’Alternativentwurf eines Gesetzes über Sterbehilfe (1986) dispone: ‘‘Chi, come medico o su delega medica, adotta terapie per l’attenuazione di gravi e altrimenti ineliminabili condizioni di dolore nei confronti di un malato terminale, con il suo consenso espresso o presunto, non agisce antigiuridicamente anche se il processo di morte viene accelerato come inevitabile conseguenza accessoria’’.


— 707 — mente ispirato alla prevalenza della qualità della vita che si spegne rispetto ad un suo possibile prolungamento fonte di intollerabili sofferenze. È da notare, infine, che la terapia antalgica può attuarsi mediante una somministrazione discontinua e periodica di oppiacei — che cagiona un’alternanza di fasi di veglia e di obnubilamento della coscienza — ovvero attraverso una somministrazione continua per via endovena, che produce una costante incoscienza fino al sopraggiungere della morte. Ora, se nel primo caso non si pongono problemi, al contrario può ritenersi che l’induzione di uno stato permanente di incoscienza deve fondarsi — ove possibile — sul previo consenso del paziente, che solo così (ad esempio, esternando le ultime volontà o ricevendo i conforti religiosi) è posto in grado di preparare consapevolmente il proprio passaggio alla morte (68). L’eventuale decisione del medico di iniziare la terapia in assenza del possibile consenso dell’interessato integra il reato di cui all’art. 613 c.p. e, a maggior ragione, impedisce di presumere un successivo consenso del paziente rispetto ad ulteriori iniziative. 5.1. L’eutanasia attiva: principi religiosi, etici e deontologici. La legislazione penale e gli orientamenti giurisprudenziali. — La citata ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’ del 25 aprile 1991 afferma che, ‘‘mancando qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimento delle cure palliative correttamente impartite sul piano tanto psicologico quanto medico e ogni qualvolta un malato pienamente cosciente chieda, in modo insistente e continuo, che sia fatta cessare un’esistenza ormai priva per lui di qualsiasi dignità ed un collegio di medici, costituito all’uopo, constati l’impossibilità di dispensare nuove cure specifiche, detta richiesta deve essere soddisfatta senza che, in tal modo, sia pregiudicato il rispetto della vita umana’’ (69). Contro questa rivoluzionaria presa di posizione sul tema dell’eutanasia attiva si è decisamente pronunciato il ‘‘Co(68) Conf. CHIAVACCI, (nota 64), 264 s.; EUSEBI, (nota 17), 523; VOLPE, (nota 64), 156. Analogamente si esprime la citata ‘‘Dichiarazione sull’eutanasia’’ del 5 maggio 1980: ‘‘Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza meritano invece una particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che ‘non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo’ ’’; conf. il documento del Pontificio Consiglio Cor unum ‘‘Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti’’ (1981), § 4. (69) Vd. Riv. it. med. leg., 1991, 939 ss. Nella motivazione della proposta si afferma ulteriormente: ‘‘La dignità è l’elemento che definisce la vita umana. Quando alla fine di una lunga malattia contro la quale ha lottato con coraggio, il malato chiede al medico di interrompere un’esistenza che ha perso per lui ogni dignità, e quando il medico decide, con piena coscienza, di soccorrerlo e di addolcire i suoi ultimi istanti consentendogli di addormentarsi pacificamente e definitivamente, questo aiuto medico e umano (talvolta denominato eutanasia) significa rispetto per la vita’’.


— 708 — mitato italiano di Bioetica’’ in un parere reso il 18 giugno 1991 (70), che si è peraltro limitato a ribadire un atteggiamento diffuso ad ogni livello. Così, un espresso ripudio dell’eutanasia attiva è affermato dalla Chiesa cattolica, secondo cui ‘‘un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore’’ (71). E analogamente dispone l’art. 43 del codice deontologico medico: ‘‘In nessun caso, anche se richiesto dal paziente, il medico porrà in essere trattamenti diretti a menomare l’integrità fisica e psichica del paziente e, a maggior ragione, azioni capaci di abbreviare la vita del malato. Ogni atto mirante a provocare deliberatamente la morte di un paziente è contrario all’etica medica’’ (72). Nello stesso senso, infine, dispone l’art. 579 c.p., che prevede la fattispecie dell’omicidio del consenziente. Fermando l’attenzione sulla norma penale, essa venne introdotta allo scopo di risolvere le polemiche insorte sotto il codice previgente, che nulla disponeva per le ipotesi in esame, assimilandole al comune reato di omicidio; come infatti affermava il Ministro guardasigilli, ‘‘il minore grado del dolo e la minore pericolosità del delinquente erano stati così sentiti nella pratica che, per superare l’inconciliabilità tra le rigide disposizioni del codice vigente e le esigenze della realtà, i giudici spesso erano tratti ad inesatte interpretazioni, estensive o analogiche della norma regolatrice del delitto di istigazione o aiuto al suicidio, ovvero ad assoluzioni ispirate a senso di pietà’’ (73). La previsione di un trattamento attenuato per l’omicidio del consenziente obbediva dunque al duplice scopo di consentire (70) Vd. Riv. it. med. leg., 1991, 944 s. (71) Così il Catechismo della Chiesa cattolica (1992), § 2277; conf. la ‘‘Dichiarazione sull’eutanasia’’ del 5 maggio 1980, secondo cui ‘‘niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante’’. Per la citazione dei numerosi documenti pontifici e consiliari sul tema, CAPRILE, (nota 9), 198 ss.; CICCONE, (nota 9), 272 ss.; SGRECCIA, (nota 9), 472 ss. (72) Nel giuramento previsto dal codice è esplicitamente affermato: ‘‘Giuro... di non compiere mai atti idonei a provocare deliberamente la morte di un paziente’’. Analogamente all’attuale art. 43, seppure con una certa genericità (si noti anche il superfluo richiamo alla volontà dei familiari, che nel codice del 1989 è stata giustamente ritenuta priva di qualsiasi rilevanza), si esprimeva l’art. 40, comma 1 del previgente codice del 1978: ‘‘In nessun caso il medico, anche se richiesto dal paziente o dai suoi familiari, deve attuare mezzi atti ad abbreviare la vita di un malato’’. (73) Vd. Relazione al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 1929, V, pt. II, 373. A conferma delle distorte applicazioni registratesi sotto il codice del 1889, può citarsi App. Catanzaro (Sezione di accusa), 15 febbraio 1924, Gironda, in Riv. pen., 1924 (C), 469: ‘‘Il superstite della coppia suicida deve rispondere di partecipazione al suicidio dell’altro — e non di omicidio premeditato — anche quando abbia egli stesso compiuto materialmente l’atto che cagionò la morte di quello’’. Per la critica di tale interpretazione, GRISPIGNI, (nota 5), 440 ss., il


— 709 — una maggiore individualizzazione della pena (74) e di ribadire — a fronte di un movimento di opinione che, nei primi decenni del secolo, auspicava la decriminalizzazione dell’uccisione pietosa (75) — l’antigiuridicità del fatto. Tale soluzione di compromesso fondata sul consenso della vittima (e quindi su un elemento oggettivo rinvenibile in capo al soggetto passivo) non era tuttavia concepita con stretto riferimento alle ipotesi di eutanasia pietosa, ove rileva anche (e soprattutto) il movente del soggetto attivo; e infatti il Guardasigilli osservava: ‘‘Per ciò che attiene poi all’altra proposta di richiedere un particolare movente di pietà, mi è sembrato che i casi meritevoli di benigna considerazione, denunciati dalle cronache giudiziarie, in verità trascendano la troppo angusta categoria delle uccisioni pietose. Se ragioni di pietà, oltre il consenso, concorrano come moventi del delitto, il sistema del progetto comporta che si applichi un’ulteriore attenuante, ossia quella comune stabilita nel n. 1 dell’art. 66 (= art. 62). Considerazione quest’ultima che vale a chiarire, come anche l’ipotesi di un omicidio non consentito dalla vittima possa, in qualche modo, venir punito meno gravemente, allorché sia ispirato da motivi di pietà, come accade nel caso di persone divenute incapaci di consentire per sopravvenuto stato agonico. Quando ciò si verifichi, la disposizione dell’art. 66, n. 1 (= art. 62, n. 1), permetterà al giudice di diminuire la pena in relazione quale inoltre osservava che ‘‘dal fatto di ritenere l’omicidio del consenziente punibile come un caso di omicidio volontario, possono derivare conseguenze ripugnanti al senso morale e ad ogni esigenza di giustizia, specialmente nel caso in cui l’uccisore abbia agito, mosso dal nobile sentimento di giovare alla vittima, liberandola da danni imminenti e da dolori fisici o morali grandissimi’’ (ivi, 443). Analogamente, IMPALLOMENI, L’omicidio nel diritto penale, 1900, 62. (74) Cfr. la Relazione al Progetto definitivo, cit., 373, ove — dopo avere premesso che, ‘‘poiché all’individuo non si riconosce la libera disponibilità della propria vita, (...) il progetto esclude che il consenso della vittima discrimini il reato di omicidio’’ — si aggiunge: ‘‘Il principio dell’indisponibilità del bene della vita non può far disconoscere l’influenza, veramente notevole, che il consenso della vittima esercita nell’apprezzamento del dolo in genere e della personalità del colpevole’’; onde va riconosciuta, ‘‘in un’autonoma ipotesi di reato con pena sensibilmente attenuata, l’indiscutibile influenza minoratrice del consenso dell’ucciso sulla gravità del delitto di omicidio, sotto il profilo dell’elemento psicologico’’. (75) Tra gli altri e con varietà di accenti, DEL VECCHIO, L’eutanasia e l’uccisione del consenziente, in Sc. pos., 1926, 165 ss.; ID., Morte benefica (l’eutanasia), 1928 (non vidi); FERRI, I diritti sulla propria persona, e l’uccisione del consenziente, in Sc. pos., 1925, I, 241 ss.; ID., L’omicidio-suicidio, appendice a L’omicida, 1925, 2a ed., 500 ss.; GRISPIGNI, (nota 5), 445 e ivi nota 2 (il quale proponeva — come ‘‘ripiego per riuscire ad avvicinare il diritto positivo al sentimento morale dei cittadini’’ — di applicare all’omicidio eutanasico la scriminante dello stato di necessità e, de jure condendo, auspicava una fattispecie che prevedesse l’esenzione da pena nei casi particolarmente meritevoli di indulgenza); in senso contrario, vd. il brillante lavoro di MORSELLI, L’uccisione pietosa (l’eutanasia), 1923, passim. Per taluni riferimenti storici, CADOPPI, Una polemica fin de siècle sul ‘‘dovere di vivere’’: Enrico Ferri e la teoria dell’‘‘omicidio-suicidio’’, in Vivere: diritto o dovere?, cit., 125 ss.


— 710 — non già all’ipotesi dell’omicidio del consenziente, bensì a quella dell’omicidio preveduto nell’art. 574 (= art. 575)’’ (76). Almeno nell’intenzione del legislatore, era dunque chiaro che la fattispecie di omicidio del consenziente non era stata concepita con esclusivo riferimento alle ipotesi di uccisione pietosa e che queste — destinate ad integrare l’art. 579 ovvero il comune reato di omicidio a seconda del consenso della vittima — avrebbero in ogni caso beneficiato dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 1 c.p. I tempi, però, erano destinati a mutare rapidamente e l’ideologia fascista — intrisa di statalismo — si accingeva a spazzare via ogni atteggiamento di mitezza nei confronti del fenomeno eutanasico; la giurisprudenza fu rapida a conformarsi al nuovo orientamento ma non ha manifestato pari recettività nel riflettere l’evoluzione del corpo sociale. Ancora fino agli anni ’50, infatti, la Corte di Cassazione così si esprime: ‘‘La tesi della liceità dell’eutanasia, pur sostenuta da taluni autori, non trova giustificazione veruna né dal punto di vista morale, né da quello giuridico e sociale, anche se compiuta ai fini di liberare una persona amata da sofferenze intollerabili. Dal punto di vista morale, perché nessuno potrebbe mai esser sicuro dell’assoluta inguaribilità della malattia, se si considera che il male, ritenuto inguaribile in un dato momento, può ben diventare debellabile con i progressi della terapia; dal punto di vista giuridico e sociale, per il principio indiscutibile dell’inviolabilità della vita umana, da cui trae origine la tutela che la legge accorda all’uomo, non solo perché essa rappresenta il bene supremo di ogni individuo, che va sempre ed in ogni caso protetto, ma anche perché costituisce la ragione essenziale per l’esistenza e lo sviluppo di ogni popolo nella società, dove l’uomo rappresenta una fonte di ricchezza e di forza come elemento riproduttore della specie, come lavoratore, come soldato; sicché la società organizzata giuridicamente nello Stato, nel punire l’omicidio, tutela un diritto suo proprio, oltre a quello dell’individuo’’ (77). In tale prospettiva — caratterizzata da una concezione del bene-vita come valore assoluto e intangibile, la cui rilevanza trascende la sfera individuale assumendo una dimensione collettiva —, al giudice è dunque consentito solo di adeguare la pena al disvalore del fatto concreto, ferma restando in ogni caso la sua antigiuridicità. Tale processo di adeguamento incontra però — ai fini dell’applicabilità dell’ipotesi meno grave di cui all’art. 579 c.p. — un ostacolo quasi insormontabile, costituito dalla validità del consenso prestato dalla vittima, essendo necessaria la ‘‘prova rigorosa che l’infermità del sofferente non abbia determinato in lui una deficienza psichica tale da (76) (77)

Relazione al Progetto definitivo, cit., 374. Cass., 18 novembre 1954, Vastalegna, in Foro it., 1955, II, 152 s.


— 711 — rendere invalido il consenso’’ (78). Che si tratti di una probatio diabolica, peraltro, è la stessa giurisprudenza ad ammetterlo, laddove afferma che, allo scopo di escludere l’art. 579 c.p., ‘‘è sufficiente che il giudice abbia accertato che l’infermità psichica del soggetto passivo era dovuta ad un processo patologico ed è irrilevante che abbia omesso di precisare con esattezza la natura dell’infermità’’ (79). Vero è che, a partire dagli anni ’70, le riviste giuridiche riportano talune sentenze di merito ispirate da valutazioni equitative e caratterizzate da un allargamento della nozione di consenso ex art. 579 c.p. o dal ricorso alla categoria dell’inimputabilità (80), ma l’orientamento generale (78) Così ancora Cass., 18 novembre 1954, cit. (79) Cass., 14 luglio 1950, Franchino, in Riv. pen., 1951, II, 152. In particolare, la giurisprudenza afferma che il consenso dell’offeso deve essere ‘‘valido e senza riserve, mentre sono indifferenti le forme e il modo in cui questo consenso si esprime’’ (Cass., 24 aprile 1953, Cimino, in Giur. compl. Cass., 1953, II, 186, n. 1283) ovvero ‘‘serio, manifesto, non equivoco, determinato ed avente per oggetto specifico la propria uccisione, senza ambiguità’’ (Ass. Dessié, 23 gennaio 1940, Becchelé, in Giur. it., 1940, II, 156) o, ancora, ‘‘non solo serio, esplicito e non equivoco, ma perdurante anche sino al momento in cui il colpevole commette il fatto’’ (Cass., 13 novembre 1970, Pasquini, in Cass. pen. Mass. ann., 1972, 195); nel senso che il consenso di cui all’art. 579 c.p. non deve essere né insistente né irrevocabile, purché attuale, effettivo e spontaneo, Ass. Verona, 5 febbraio 1988, Billo, in Nuovo dir., 1988, 578 ss. (la sentenza tuttavia ritiene di applicare l’art. 579 c.p. all’uccisione di un malato in fase non terminale sottolineando che, ove la malattia fosse stata terminale e si fosse trattato quindi di un caso di eutanasia, l’invalidità del consenso avrebbe determinato la configurabilità del più grave reato di omicidio). Vd. inoltre Cass., 23 febbraio 1953, Amori, in Giur. compl. Cass., 1953, 136, n. 182: ‘‘Non può essere ritenuto valido il consenso alla propria uccisione, scritto in un biglietto, quando sia dato in stato di deficienza psichica a causa di una grave lesione alla testa, sì che in seguito, evitata la morte, la vittima non ricordava neppure di avere sottoscritto il biglietto’’; Ass. App. Ancona, 9 febbraio 1969, Pasquini, in Giur. mer., 1969, 173: ‘‘Le espressioni di sconforto di persona gravemente inferma non sono suscettibili di essere considerate come consenso e richieste di morte ai fini della configurabilità dell’omicidio di consenziente; né l’agente può presumere che il consenso antecedentemente espresso persista allorquando egli, a distanza di tempo, dia corso all’omicidio, attesa la possibilità che il consenso stesso sia venuto meno in corrispondenza del variare delle condizioni psico-fisiche dell’infermo’’. (80) Vd. Ass. Roma, 10 dicembre 1983, Papini (in Foro it., 1985, II, 489, con nota di LANZA; in Giur. merito, 1986, 143, con nota critica di DINACCI; in Riv. it. med. leg., 1987, 201, con nota di INTRONA): nella specie, tale Luciano Papini aveva ucciso il nipote diciottenne affetto da grave idrocefalo congenito e dunque — attesa anche l’irreversibilità del male — assolutamente incapace di esprimere un consenso alla propria morte; nondimeno, la Corte ravvisò il reato di cui all’art. 579 c.p. ritenendo un implicito consenso desunto da talune affermazioni rese in vita dal ragazzo e dai ‘‘pregressi rapporti di natura affettiva ed educativa fra la vittima e l’autore del reato’’. Nella medesima prospettiva si colloca il procedimento nei confronti di tale Livio Davani, che il 27 agosto 1970 uccise il figlio focomelico, nato ventiquattro giorni prima, gettandolo nelle acque del Tevere: con sentenza 30 giugno 1971 (in Arch. pen., 1972, II, 469), il giudice istruttore di Roma lo prosciolse dal reato di omicidio per difetto dell’elemento psicologico e la decisione venne confermata il 12 novembre 1971 dalla Sezione istruttoria della Corte di Appello di Roma; con sentenza del 27 no-


— 712 — rimane attestato su una percezione fermamente negativa del fenomeno eutanasico. Contrariamente alle espresse indicazioni del legislatore e all’orientamento dominante in dottrina (81), la prevalente giurisprudenza nega infatti l’applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1 c.p. o perché già compresa nella cornice edittale dell’art. 579 c.p. (82) o perché ‘‘la cosiddetta eutanasia, quale esigenza di porre termine alle altrui sofferenze con la morte, (...) infrange il nesso di proporzione e di adeguatezza con la primaria esigenza di rispetto della vita umana, dinanzi alla quale si pone in posizione subalterna’’ (83) o ancora perché la circostanza in esame è ispirata esclusivamente a motivi altruistici che ‘‘devono corrispondere a finalità, principi, criteri i quali ricevano l’incondizionata approvazione della società’’, laddove in tema di eutanasia ‘‘proprio le discussioni tuttora esistenti sulla sua condivisibilità sono sintomatiche della mancanza di un generale suo attuale apprezzamento positivo, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea’’ (84). Tale interpretazione — assolutamente censurabile giacché frutto di una sovrapposizione dell’‘‘immoralità’’ del fatto tipico alla possibile meritevolezza dei motivi ispiratori del fatto concreto — denota l’atteggiamento rigoristico della giurisprudenza rispetto al fenomeno dell’eutanasia e, probabilmente, tradisce il timore che l’attribuzione ad essa di un valore morale o sociale possa scalfire la tabuizzazione che circonda il divieto di uccidere. 5.2.

Il dibattito dottrinale. — A parte talune posizioni rimaste iso-

vembre 1972 (in Arch. pen., 1974, II, 277 s.), la Corte di Cassazione annullava rinviando gli atti alla Sezione istruttoria, che — con sentenza 12 dicembre 1973 (in Giur. mer., 1974, II, 299) — assolveva l’imputato per incapacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto. (81) Per l’applicabilità dell’art. 62, n. 1 alle ipotesi di eutanasia, vd. ADAMO, Il problema giuridico e medico-legale dell’eutanasia, in Arch. pen., 1950, 382; ALTAVILLA, Delitti contro la persona, cit., (nota 4), 157; BELLOTTO, (nota 47), 210; IADECOLA, (nota 22), 189; LEGA, (nota 4), 472; MANZINI, (nota 3), 98; PANNAIN, (nota 4), 135; PANNAIN-SCLAFANI-PANNAIN, (nota 4), 163; VANNINI, (nota 9), 173; VIROTTA, (nota 39), 214; VISCO, L’omicidio del consenziente nel nuovo codice penale, in Riv. pen., 1933, I, 192. (82) Ass. Verona, 5 febbraio 1988, Billo, cit.; Ass. Trieste, 2 maggio 1988, Longo, in Foro it., 1989, II, 188 (in motivazione). (83) Così Ass. Catania, 24 ottobre 1977, Fabiano, in Giur. mer., 1978, 1211; criticamente, BELLOTTO, (nota 47), 211. (84) Cass., 7 aprile 1989, Billo, in Giust. pen., 1990, II, 460 s., criticamente annotata da BELLOTTO, (nota 47), 211 ss. e 219 ss. Per l’applicabilità dell’art. 62, n. 1, vd. invece — isolatamente — Cass., 18 novembre 1954, cit. nonché, tra le sentenze di merito, Ass. App. Ancona, 9 febbraio 1969, cit.; Ass. Napoli, 22 settembre 1964, Parente, riportata in PANNAIN-SCLAFANI-PANNAIN, (nota 4), 44 ss.; Ass. Roma, 1o aprile 1952, Vastalegna, in Giur. it., 1952, II, 192.


— 713 — late (85), una dominante opinione dottrinale è nel senso dell’illiceità dell’eutanasia attiva alla luce di ricorrenti ragioni: l’indisponibilità della vita umana, la relatività della diagnosi di incurabilità del male alla luce sia dell’evoluzione tecnologica che della possibilità di errori, la difficoltà di accertare la definitività e la validità del consenso prestato, le negative conseguenze sull’identità morale e professionale del medico (86). Un particolare problema concerne inoltre la validità del consenso, sul quale si fonda l’applicabilità della fattispecie prevista dall’art. 579 c.p. (85) Tra i pochi, PAPPALARDO, (nota 42), 273 s., secondo cui — tanto per i malati terminali quanto per i neonati affetti da malformazioni teratologiche — ‘‘il divieto dell’eutanasia è una sopravvivenza del diritto penale primitivo, che al giorno d’oggi non trova alcuna giustificazione, se non è una giustificazione religiosa (e dunque pretergiuridica), preconcetta (e dunque stupida)’’. (86) Per tutti, ANTOLISEI, (nota 13), 256; BARNI, (nota 25), 422 s.; BARNI-DELL’OSSOMARTINI, (nota 23), 51 s.; CARUSO, L’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano: problemi medico-legali de jure condito e de jure condendo, in Dir. fam. e delle persone, 1982, 706; IADECOLA, (nota 22), 188; LEGA, (nota 4), 472; MANTOVANI, Il problema della disponibilità, cit., (nota 12), 67; ID., (nota 19), 426 s.; ID., Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 454 s.; ORRÙ, (nota 47), 98 s.; PANNAIN, (nota 4), 133; PORZIO, (nota 64), 106; STELLA, (nota 16), 1012 ss. Già nella Relazione al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, cit., 374, si osservava l’impossibilità di accogliere la tesi ‘‘di coloro, che vorrebbero riconoscere la legittimità della morte cagionata per troncare un’agonia, ancorché atroce e certamente mortale, non potendo al fallace giudizio degli uomini essere attribuita la facoltà di distruggere con la vita l’ultima speranza, che permane fintanto che vi sia un debole segno di esistenza’’. Un’analoga condanna dell’eutanasia attiva è espressa dalla dominante dottrina tedesca (tra i pochi a favore, KAUFMANN, (nota 15), 148 s.; SCHMITT, Strafrechtlicher Schutz des Opfers vor sich selbst?, in FS Maurach, 1972, 117 s.; vd. anche MEYER, Tagungsbericht, in ZStW, 1971 (83), 251 s.); un diffuso orientamento tende tuttavia ad ammettere, per le situazioni più estreme, uno stato di necessità sovralegale scusante (così HIRSCH, (nota 47), 609 ss.) o giustificante (così OTTO, (nota 47), D-59 ss.; SIMSON, Ein ja zur Sterbehilfe aus Barmherzigkeit, in FS Schwinge, 1973, 110): da ult., JAKOBS, Zum Unrecht der Selbsttötung und der Tötung auf Verlangen, in FS Arth. Kaufmann, 1993, 466 ss. Il § 216 dell’Alternativentwurf eines Gesetzes über Sterbehilfe (1986) mantiene la punibilità dell’omicidio del consenziente, consentendo però al giudice di astenersi dalla pena ‘‘se l’omicidio mira alla cessazione di una grave condizione di dolore non più sopportabile dall’interessato, non altrimenti eliminabile o mitigabile’’. Una simile apertura all’eutanasia attiva si rinviene anche nella più recente dottrina spagnola (per tutti, DIEZ RIPOLLES-GRACIA MARTIN, (nota 47), 263 s.; GIMBERNAT ORa DEIG, Estudios de derecho penal, 1990, 3 ed., 53; MUÑOZ CONDE, (nota 47), 75); sul tema, vd. anche ‘‘Una alternativa al tratamiento juridico de la disponibilidad de la propria vida’’ (1993), a cura del Grupo de Estudios de Politica criminal, ove si propone il seguente art. 408: ‘‘Chi cagiona attivamente la morte di una persona maggiore di diciotto anni, capace di intendere e volere, dietro una sua espressa, libera e seria richiesta, è punito con la pena della ‘prigione minore’. Non è punibile il fatto cagionato da un medico o da altri agente sotto la sua direzione, in presenza di una richiesta espressa, libera e seria di una persona maggiore di diciotto anni capace di intendere e volere, sempre che essa sia affetta da gravi sofferenze non altrimenti evitabili né mitigabili, derivanti da una sua malattia incurabile pervenuta alla fase terminale ovvero di natura permanente e tali da renderla incapace di vita autonoma’’ (cfr. S. BACIGALUPO-GROPENGIESSER, Sterbehilfe und Suizid: progressive Vorschläge für eine Reform in Spanien, in ZStW, 1994 (106), 663 ss.).


— 714 — Tale consenso deve essere personale, reale (cioè non presunto), libero, ponderato, informato e pienamente valido, ciò che da un lato ne esclude ovviamente la possibilità per quanti siano pervenuti ad uno stato di vita vegetativa o per i neonati afflitti da gravi problemi di sopravvivenza, dall’altro rinvia ad un’effettiva capacità del soggetto, che non può essere un minore di 18 anni o affetto da infermità di mente o da semplice deficienza psichica (87). La difficile concorrenza di tutti i requisiti ora indicati ha peraltro indotto una parte della dottrina a ritenere ‘‘dubbia la possibilità della coesistenza di dolori così atroci da fare desiderare la morte colla libertà del volere e colla capacità di rettamente intendere e pertanto l’eutanasia potrebbe essere considerata alla stregua di qualsiasi altro omicidio, proprio quando emergessero quelle condizioni che la rendano giustificata a parere di molti’’ (88). Da ciò consegue la configurabilità del reato di omicidio, che — solitamente aggravato dalla premeditazione e dai rapporti di parentela e talvolta dall’uso di sostanze venefiche — risulta astrattamente punibile con l’ergastolo. Così il giudice si trova dinanzi ‘‘all’angoscioso bivio di infliggere una pena che la coscienza sociale considera esorbitante ed iniqua oppure di pervenire, come molte volte è accaduto, ad assoluzioni che non possono in alcun modo giustificarsi’’ (89). Questa confliggenza tra la severità della normativa astratta e le circostanze della situazione concreta non può certo essere risolta attraverso l’istituto della grazia, come da taluni si è proposto al fine di salvare i principi e la funzione dell’ordinamento giuridico e al contempo attribuire rilevanza ai particolari motivi del fatto (90). In tale soluzione si cela infatti (87) Cfr. PANNAIN-SCLAFANI-PANNAIN, (nota 4), 8 ss., i quali ritengono necessario, al fine di escludere la validità del consenso, ‘‘uno stato di grave compromissione della coscienza’’. In senso più ampio, PATALANO, (nota 4), 194, il quale ritiene ‘‘sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto’’. In argomento, vd. la bibliografia citata alla nota 51. (88) Così PELLEGRINI, Trattato di medicina legale e delle assicurazioni, 1959, 694. L’estrema difficoltà di applicare l’art. 579 c.p. alle ipotesi di eutanasia, proprio in considerazione della ‘‘normale’’ inesistenza di un valido consenso, è ampiamente sottolineata in dottrina: tra gli altri, ADAMO, (nota 81), 383; ANTOLISEI, (nota 4), 61; CARUSO, (nota 86), 704; IADECOLA, (nota 22), 189; INTRONA, Omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) ed analisi psichiatrico-forense della validità del consenso, in Riv. it. med. leg., 1987, 207; MARINI, (nota 4), 525 s.; PANNAIN, (nota 4), 134; RIECI-VENDITTO, (nota 22), 279; ROMBOLI, Atti di disposizione, cit., (nota 8), 302. Vd. poi MANZINI, (nota 3), 88, il quale ritiene che ‘‘chi consente alla propria uccisione sia per ciò solo persona alterata di mente, e quindi incapace di un normale consenso; giacché il fatto di superare la forza inibitoria del più forte degli istinti, quello della propria conservazione, fa arguire un grave squilibrio psichico’’. (89) Testualmente, ANTOLISEI, (nota 4), 61 s.; analogamente, MANTOVANI, (nota 19), 430. (90) Così PORZIO, (nota 64), 113 s.


— 715 — una contraddizione, poiché la grazia trova la sua valenza nei confronti di situazioni eccezionali, laddove il fenomeno dell’eutanasia si presenta in termini generali e ripetibili; onde, in realtà, si tratta di un espediente volto più ad eludere che a risolvere il problema (91). Così, numerose voci si sono levate in favore dell’introduzione di una circostanza attenuante per l’omicidio (92) ovvero della previsione dell’eutanasia come fattispecie autonoma (93). La prima soluzione è stata accolta anche nel recente ‘‘Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale’’, che prevede all’art. 59, nn. 1 e 3 una specifica circostanza attenuante dell’omicidio e dell’omicidio del consenziente ove il fatto sia commesso ‘‘con mezzi indolori e per esclusivo motivo di pietà verso la persona incapace di prestare un consenso valido, la quale per ragioni di malattia si trovi in irreversibile condizione di sofferenza fisica insopportabile o particolarmente grave, quando sia stata constatata l’impotenza dei trattamenti antalgici’’. Non è agevole, tuttavia, definire il fenomeno eutanasico in termini sufficientemente rigorosi, in grado sia di escludere ogni incertezza applicativa, sia di comprendere tutte le situazioni effettivamente meritevoli di un trattamento più mite. E invero, è ancora controverso se il concetto di eutanasia debba restringersi alla sola uccisione pietosa indolore o invece comprenda ogni uccisione ispirata da compassione e pietà (94); se sia necessaria una malattia inguaribile e mortale o sia sufficiente una grave e permanente deformità o menomazione (95); se sia necessaria un’esplicita richiesta o un consenso espresso della vittima o sia invece sufficiente un (91) Criticamente, MANTOVANI, Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 463; STELLA, (nota 16), 1014. (92) Così IADECOLA, (nota 22), 190; LUPONE, Riflessioni sull’omicidio pietatis causa, in Arch. pen., 1975, 75; MANTOVANI, (nota 19), 430; ID., Aspetti giuridici, cit., (nota 12), 463. (93) Tra gli altri, ANTOLISEI, (nota 4), 61, il quale auspica una norma speciale che fissi ‘‘una pena non elevata, con un minimo basso per il caso che sia cagionata per pietà la morte di una persona amata, certamente inguaribile e al solo scopo di porre termine alle sue sofferenze’’; conf. ADAMO, (nota 81), 386 s.; CARUSO, (nota 86), 711 s.; DEL GAUDIO, (nota 25), 39; FILIPPI, I profili penalistici della c.d. ‘‘eutanasia’’, in Arch. pen., 1988, 92; PANNAIN, (nota 4), 136; RIECI-VENDITTO, (nota 22), 288; VIROTTA, (nota 39), 216. Da ult., RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 226 s., il quale propone ‘‘una previsione che abbia per oggetto la situazione dei malati irreversibili in preda a sofferenze insopportabili e che valuti conseguentemente la vita tenendo conto della valutazione negativa (priva di valore di vita) che di essa dà il malato: questo avvicinamento al reale importa di necessità una consistente riduzione della pena edittale attualmente stabilita nell’art. 579 c.p.’’. (94) Nel primo senso, MANTOVANI, (nota 19), 462 s.; vd. anche CARUSO, (nota 86), 705; contra, IADECOLA, (nota 22), 188. (95) Nel senso più ampio, IADECOLA, (nota 22), 188: ‘‘È ben vero che, talvolta, in tali situazioni possono mancare elementi normalmente ricorrenti nel fatto eutanasico più tipico, come le sofferenze acute della vittima o la prossimità della morte, ma è innegabile la presenza del movente della pietà nel gesto di chi, non resistendo all’idea che l’esistenza del fa-


— 716 — consenso tacito o presunto; se sia necessaria una sofferenza particolarmente acuta o sia sufficiente una sofferenza solo morale; se — anche in considerazione della liceità del suicidio e del diritto del paziente a rifiutare ogni trattamento terapeutico — sia necessaria una condotta attiva o sia invece sufficiente anche una omissiva. La soluzione di tali incertezze — che comunque rivelano l’eccessiva ricchezza di implicazioni del termine eutanasia e l’assenza di una biunivoca corrispondenza tra significato e significante (96) — costituisce però la premessa indispensabile di qualsiasi riforma normativa. 5.3. L’eutanasia attiva tra mutamenti contenutistici e proposte di riforma. — Ai fini di una riflessione sul problema, occorre procedere gradualmente. Conviene dunque osservare che, intendendo come eutanasia semplicemente l’uccisione per pietà, si opera un tacito riferimento ad ipotesi solitamente verificabili all’interno del gruppo familiare, ove il fine pietistico — congiungendosi alla dolorosa responsabilità che si assume l’autore della condotta, a sua volta destinato a divenire egli stesso oggetto di commiserazione da parte dei giudici — può anche rendere inconferente la pretesa di una malattia terminale, l’esigenza che la morte sia indolore e che il consenso vi sia e sia giuridicamente valido. L’intenzione dell’agente di compiere un atto di solidarietà o di amore, infatti, trova eguale riscontro rispetto a qualsiasi forma di grave malattia; al più, può ritenersi che le condizioni del malato e le modalità della sua uccisione valgono ad un tempo a provare il movente pietoso e a rendere il fatto meritevole di benevola considerazione. Il concetto di eutanasia di cui oggi si discute, però, risulta assai più ampio, giacché i progressi tecnologici — e anche il diffondersi di una morale che vede profondamente mutato il senso della vita e della morte — hanno affiancato alla sua forma tradizionale una nuova fenomenologia, che si svolge non più nel chiuso di un appartamento ove si consuma la tragedia familiare bensì all’interno di una struttura sanitaria e il cui movente non è più la pietà nei confronti della vittima bensì l’idea della sua dignità e l’inadeguatezza di ogni terapia (97). In questa sua nuova versione, il rapporto tra i protagonisti della vicenda risulta quindi profondamente cambiato attraverso la sostituzione del legame affettivo con una relazione di tipo professionale e la responsabilità morale che affligge il congiunto-esecutore della decisione eutanasica — rendendolo titolare e interprete di un senso di pietà ammissibile solo miliare debba trascinarsi nelle sofferenze di una condizione infelice, si decida a sopprimerlo’’; conf. VIROTTA, (nota 39), 205. (96) Cfr., sul tema specifico dell’eutanasia, BELLOTTO, (nota 47), 201 ss. (97) Sul tema, ARIÈS, Storia della morte in occidente, (trad. it.), passim e 187 ss.


— 717 — nei confronti della persona amata — lascia il posto alla scelta operata da un medico alla luce di presunti criteri oggettivi (dignità della vita e della morte, adeguatezza e opportunità della terapia), dei quali egli si proporrebbe come mero applicatore. Onde quelle esigenze di limitazione e contenimento già avvertite rispetto all’eutanasia pietosa ora si presentano potentemente rafforzate dalla possibilità che altri, estranei al malato, possano decidere in ordine alla durata della sua esistenza. Insorge così il pericolo c.d. dei passi successivi, frequentemente invocato — insieme al rischio dello ‘‘scivolo’’ e al c.d. argumentum ad Hitlerum — contro la legalizzazione dell’eutanasia e consistente nell’impossibilità di elaborare criteri talmente rigidi e concettualmente autonomi da impedire la loro estendibilità a situazioni ulteriori, fino a giungere agli orrori commessi in Germania dal regime nazionalsocialista su soggetti deformi, infermi e malati di mente (98). Al fine di evitare che le componenti suggestive ed emozionali si congiungano all’eccessiva ricchezza di accezioni del termine ‘eutanasia’, producendone un collasso semantico e un’indiscriminata generalizzazione, si rende tuttavia necessaria una distinzione concettuale. Cominciando con la nozione di eutanasia pietosa, essa non appare in grado di tradursi in una causa di esclusione dell’antigiuridicità o della colpevolezza per il fatto di caratterizzarsi esclusivamente alla luce del movente che ispira il soggetto attivo; l’intento pietistico dell’agente, in altre parole, non può né configurare un contro-interesse bilanciabile con la (qualità della) vita della vittima, né fondare — in sé solo e come regola generale — una situazione di non rimproverabilità. Vero è che, in concreto, la condotta eutanasica può apparire talmente sofferta e così atrocemente vissuta dal suo autore da escludere nei suoi confronti la necessità della sanzione penale, ove ad essa si assegni una finalità solo rieducativa; tuttavia, è pure vero che una depenalizzazione dell’eutanasia pietosa, anche limitata ai malati terminali, ‘‘significherebbe privare la loro vita del valore etico-sociale ancora oggi presente nella coscienza dei consociati, ingenerando la convinzione che l’eutanasia non sia, neppure eticamente, un fatto riprovevole’’ (99). La conseguente esigenza di regolare l’eutanasia pietosa solo come causa di attenuazione della pena solleva peraltro un ul(98) Tale argomentazione ricorre frequentemente negli studi di ispirazione religiosa: così, tra gli altri, SGRECCIA, (nota 9), 466, secondo cui ‘‘c’è un punto comune, però, tra le teorie naziste e l’odierna ideologia pro-eutanasia ed è la mancanza del concetto di emergenza-trascendenza della persona umana; quando viene meno questo valore, strettamente connesso con l’affermazione dell’esistenza di un Dio personale, l’arbitrio dell’uomo sull’uomo deve essere rivendicato dal capo politico di un regime assoluto oppure dalle istanze dell’individualismo’’. Anche in una prospettiva laica il pericolo dei passi successivi è spesso evocato: per tutti, HIRSCH, (nota 47), 613; ORRÙ, (nota 47), 100 e soprattutto ENGISCH, Der nächste Schritt, in FS Schaffstein, 1975, 1 ss., 11. (99) Testualmente, STELLA, (nota 16), 1014, il quale aggiunge che ‘‘dalla configura-


— 718 — teriore problema, relativo al suo ambito di applicazione: è sufficiente prevedere il movente pietoso o è necessario apporre criteri oggettivi concernenti le condizioni della vittima e le modalità di realizzazione del fatto? Il recente ‘‘Schema per l’emanazione di un nuovo codice penale’’ ha optato — come si è visto — per la seconda soluzione, richiedendo che l’uccisione avvenga con mezzi indolori su persone afflitte da sofferenze fisiche particolarmente gravi: sembra più opportuno, tuttavia, che la circostanza sia prevista nella forma più ampia, rimettendo al giudice la valutazione in ordine alla sua applicabilità. In ogni caso, resta un punto fermo che la legalizzazione dell’eutanasia pietosa va respinta, poiché una disposizione fondata solo sul fine di pietà conterrebbe già dentro di sé tutti i ‘‘passi successivi’’ di cui prima si parlava. Tale conclusione, a maggior ragione, si impone quando dalla sfera dei sentimenti pietosi si passa all’eutanasia non consensuale, che evoca piuttosto motivazioni di tipo egoistico o collettivistico. Al di là delle controversie scientifiche sul concetto di morte, della possibilità di diagnosi errate e dei progressi della medicina, appare infatti evidente che qualsiasi argomentazione in favore dell’eutanasia non consensuale risulta caratterizzata da parametri soggetti ad abusi e suscettibili di estensioni sulla base di considerazioni di tipo eugenico o eugenetico o economico: sia il malato che pretende di essere curato, sia il malato incapace di esprimere la propria volontà non possono divenire oggetto di un giudizio sulla dignità della loro esistenza, poiché il bene della vita non può tollerare differenziazioni di tipo qualitativo e ancor meno può la sua tutela essere condizionata ad altrui valutazioni discrezionali. L’idea che determinate persone possano improvvisamente trovarsi fuori dall’ordinamento giuridico — perché giudicate prive di qualità ‘‘umane’’ — apre prospettive terrificanti comunque in grado di scuotere nei suoi fondamenti la stessa nozione di diritto; né va trascurata la connessa, irreparabile distruzione dei rapporti tra medico e paziente e tra quest’ultimo e il suo nucleo familiare e il contesto sociale di appartenenza. Una legalizzazione dell’eutanasia non consensuale va dunque respinta — ancor prima che per il pericolo dei passi successivi — alla luce della pericolosità delle opzioni da essa sottese (100). L’argomento dei passi successivi perde invece di consistenza rispetto all’eutanasia consensuale per almeno tre ragioni: (a) anzitutto, esso dimostra che la condanna dell’eutanasia non è corollario di un valore assoluto zione dell’eutanasia attiva come fatto lecito uscirebbe scosso alle radici lo stesso generale divieto di uccidere, perché sparirebbe in misura apprezzabile la zona di tabuizzazione che lo circonda’’. (100) La conclusione ora raggiunta per l’eutanasia non consensuale determina per i malati incapaci di esprimere una propria volontà, in confronto ai malati in possesso delle loro facoltà, una posizione di diseguaglianza, non altrimenti arginata che dal divieto di accanimento terapeutico (sul punto, vd. anche BUSNELLI, (nota 26), 272 ss.).


— 719 — ma si pone in funzione strumentale alla prevenzione di conflitti sociali, ciò che non può escludere la possibilità, per altra via, di un loro superamento; (b) inoltre, il diritto penale contempla già, attraverso le scriminanti della legittima difesa e dello stato di necessità, norme fondate su un bilanciamento concreto di interessi che si spinge fino a giustificare l’altrui omicidio, ma da ciò non deriva né una menomazione della tutela del bene della vita né una legittimazione della pena di morte; (c) infine, l’argomento in esame implica un’omogeneità delle conseguenze paventate che a sua volta dipende dalla prospettiva adottata, così da risolversi in un relativismo che induce il cattolico ad equiparare eutanasia, suicidio, aborto e procreazione artificiale e, per contro, consente al laico di distinguere nettamente tali ipotesi (101). L’attenzione deve dunque concentrarsi sulle ragioni che veramente ostano alla legalizzazione dell’eutanasia consensuale. Sul piano normativo, interviene ovviamente l’art. 579 c.p., il quale può tuttavia ritenersi preposto alla tutela assoluta della vita umana solo assumendone l’indisponibilità da parte del titolare. Una volta ammessa la liceità del suicidio e il diritto di lasciarsi morire, l’assunto fondato sulla dimensione pubblicistica del bene-vita perde però di consistenza e la norma trova legittimazione solo se proiettata comunque su interessi individuali, come la protezione della vita rispetto a decisioni inconsulte o non sufficientemente ponderate da parte del suo titolare e in ogni caso attuate da un soggetto non autorizzato. Così, su un piano de jure condendo, l’indagine si sposta verso la ricerca degli elementi in grado di garantire in massimo grado quegli interessi individuali, rendendoli compatibili con il riconoscimento dell’eutanasia consensuale; in tale prospettiva, non ci si potrà muovere né sul piano della tipicità né su quello della colpevolezza, da un lato perché il valore della vita preclude un atteggiamento di indifferenza o di neutralità rispetto all’uccisione di taluno, anche se consenziente, dall’altro lato perché il nucleo della fattispecie grava non sul dolo dell’agente ma sulla richiesta del titolare del bene. In breve: occorre pensare ad una causa di giustificazione talmente rigorosa e determinata da escludere il pericolo che la legalizzazione dell’eutanasia consensuale pregiudichi la funzione generalpreventiva c.d. positiva del diritto penale, indebolendone il messaggio culturale e l’autorevolezza socio-psicologica proprio rispetto alla protezione del bene primario della vita. Questo obiettivo è realizzabile, seppure al prezzo di una serie di re(101) Conf. MORI, (nota 14), 19 s., il quale critica sul piano etico il criterio dei passi successivi, osservando che esso vale a mantenere una situazione di pericolosa incertezza e di doppia morale tra principi rigidi e applicazioni elastiche fondate sul caso concreto. Per un riconoscimento del pericolo dei passi successivi limitatamente all’eutanasia non consensuale, vd. anche STORTONI, (nota 37), 13. Sul carattere compromissorio della tutela giuridica della vita, infine, vd. per tutti ESER, (nota 37), 789.


— 720 — strizioni e di presupposti che induce a dubitare della praticabilità del risultato finale. E invero, è necessario anzitutto escludere che la causa di giustificazione possa fondarsi su una semplice istanza dell’interessato, poiché — anche nell’ambito della concezione più rispettosa dell’autodeterminazione individuale, che non voglia però risolversi in un indiscriminato progetto nichilistico — l’idea di legittimare l’uccisione di taluno deve trovare un riscontro esterno basato sulla minore meritevolezza del benevita (102). Donde un primo requisito oggettivo: la richiesta del soggetto deve essere accompagnata da determinati presupposti, come l’inutilità della terapia, il grave stato di sofferenza, l’irreversibilità della malattia e il suo stadio terminale; ciò che, mentre per un verso comprime entro schemi angusti l’ambito della disciplina, per altro verso dimostra come, in ogni caso, non si tratterebbe di una mera uccisione su richiesta bensì di una speciale autorizzazione rilasciata in casi-limite. Inoltre, tale accertamento non può essere demandato esclusivamente al medico curante o ad altro medico liberamente scelto dal malato, sia perché la designazione potrebbe essere influenzata da terzi contro-interessati, sia perché occorre comunque garantire un’uniformità di giudizi e valutazioni, sia perché — al di là del rischio di un’errata accentuazione della gravità del male o di un’infondata minimizzazione dell’utilità della terapia — è necessario verificare se l’istanza non sia il frutto di una manipolazione della coscienza del malato e se in essa non si celi piuttosto una disperata ricerca di aiuto o una manifestazione di estremo dolore rimovibile attraverso un superamento delle sue condizioni di abbandono morale o materiale. Donde l’esigenza che l’indagine di cui si tratta sia affidata ad una commissione istituita presso un ente pubblico, le cui competenze investano il campo medico e quello psicologico, con un’assoluta garanzia di imparzialità. Negli spazi ora delineati, può anche ammettersi una legalizzazione (102) Risulta così superata l’obiezione — altrimenti fondata — di RIZ, (nota 13), 104: ‘‘Dichiarare valido ed operante il consenso all’omicidio volontario significherebbe rendere lecite tutte le azioni od omissioni dirette a procurare la morte di una persona che, per momentanea depressione, per forme di autosuggestione collettiva, per protesta politica, per malattia o per altre ragioni, chiede o addirittura supplica di essere uccisa. (...) L’inammissibilità di una simile impostazione risulta fin troppo chiara’’; rispetto al problema discusso nel testo, vd. anche le argute considerazioni di MORSELLI, (nota 75), 101 ss. e le riflessioni di ENGISCH, (nota 47), 316 ss. In ogni caso, non sembra che la legalizzazione dell’eutanasia consensuale incontri un ostacolo nell’art. 2 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (così invece MANTOVANI, (nota 20), 430), che sancisce ‘‘il diritto di ogni persona alla vita’’ e perciò stesso ammette la rinunciabilità di tale diritto. Vd. infatti la ‘‘Proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali’’ (nel testo, § 5.1.), che afferma la liceità dell’eutanasia consensuale espressamente richiedendo l’incurabilità della malattia e il fallimento di ogni cura palliativa, accertati da un collegio di medici appositamente costituito.


— 721 — dell’eutanasia consensuale (103); altro — e non risolvibile — problema è quello dell’effettiva utilità di un siffatto procedimento, ove si pensi che, in caso di malati terminali, gli accertamenti necessari potrebbero richiedere tempi incompatibili con la loro condizione e, risolvendosi in un’ingerenza burocratica sugli aspetti più intimi della vita, potrebbero rivelarsi per la dignità dell’interessato ancora più offensivi della stessa malattia. 6. L’istigazione e l’aiuto al suicidio: critica della soluzione repressiva. — L’art. 580 c.p. trova il suo immediato precedente nell’art. 370 del codice penale del 1889 (‘‘Chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto è punito, ove il suicidio sia avvenuto, con la reclusione da tre a nove anni’’), dal quale si differenzia tuttavia — oltre che per la maggiore severità della pena — per la più analitica descrizione della condotta tipica e per la punibilità delle ipotesi in cui al tentativo di suicidio abbia fatto seguito una lesione grave o gravissima. Questo inasprimento della disciplina non può certo considerarsi come una rottura rispetto alla tradizione giuridica italiana. E invero, se già sotto il codice Zanardelli si osservava che, ‘‘quand’anco si potesse credere il partecipe mosso da sentimenti di pietà o da altra nobile spinta, non potrebbe perciò essere giustificato dell’aver cooperato all’altrui morte, giacché la vita di un individuo deve pur sempre essere intangibile per tutti, per ciò solo che lo Stato vieta di disporne’’ (104), nel codice penale del 1930 tali argomentazioni traggono maggiore forza e trovano un ulteriore fondamento nell’allora dominante ideologia statalista, ove la conservazione dell’esistenza fisica delle persone ‘‘rappresenta un prevalente interesse sociale’’ (105). (103) Cfr. HASSEMER, Prozedurale Rechtfertigungen, in FS Mahrenholz, 1994, 731 ss., il quale rileva l’attuale tendenza dell’ordinamento giuridico ad una ‘‘proceduralizzazione’’ di situazioni eccezionali, ove non appare possibile un giudizio di liceità o illiceità. Già Arth. KAUFMANN, Rechtsfreier Raum und eigenverantwortliche Entscheidung, in FS Maurach, 1972, 327 ss., osservava come, in determinate situazioni esistenziali o estreme, l’ordinamento — senza riprovare o approvare — affida al singolo la responsabilità dell’agire concreto (l’A. si riferiva specificamente al tema dell’aborto), rispettando la sua decisione. (104) Testualmente, IMPALLOMENI, (nota 73), 53, il quale peraltro aggiunge che ‘‘se il suicidio non può essere considerato come un delitto, esso è però certamente un male sociale, per i dolori e le sventure che può recare alle famiglie, per la commozione dolorosa che inspira, per la funesta virtù di esempio che esso ha in alcuni momenti negli uomini che vi vedono uno scampo ai loro mali veri o supposti: non deve essere quindi permesso che altri coadiuvi al suicidio. E tanto più in quanto che la partecipazione all’altrui suicidio dà a vedere, ordinariamente, un animo scevro di miti e umani sentimenti’’. Per ulteriori riferimenti dottrinali, CADOPPI, (nota 75), 126 ss., 134 ss. (105) Cfr. la Relazione al Progetto definitivo di un nuovo codice penale, cit., 373. Vd. anche la Relazione introduttiva del presidente della Commissione ministeriale Appiani, in Lavori preparatori, cit., 1929, IV, pt. I, 478: ‘‘Non vi è dubbio, per ragioni che non è qui luogo a diffusamente ripetere, ma che si ricollegano con la prevalenza dell’interesse statale e


— 722 — Il tramonto degli ideali fascisti e l’avvento della Costituzione repubblicana avrebbero tuttavia dovuto imporre una rimeditazione sul contenuto dell’art. 580 c.p. e sugli interessi da esso tutelati. Ciò non è però avvenuto, poiché ancora oggi la prevalente dottrina ravvisa in ogni forma di partecipazione al suicidio un’offesa per il bene indisponibile della vita (106). La riflessione merita dunque di essere diversamente impostata e, a questo scopo, possiamo assumere come premessa che la liceità del suicidio equivale al riconoscimento (non di un vero e proprio diritto bensì) di uno spazio ‘‘di mera liceità o di libertà di fatto, che lo Stato deve rispettare e che non può certo eliminare, anche se è certo legittimo ed auspicabile un intervento tendente in qualche modo a dissuadere dal ricorso al suicidio’’ (107). In altre parole, si tratta di ricercare un contemperasociale sull’egoismo individuale, che la vita umana e l’integrità fisica siano beni, di cui non si può liberamente disporre’’. (106) Per la dottrina più risalente, ALTAVILLA, Delitti contro la persona, cit., (nota 4), 154; MANZINI, (nota 3), 86 e 109; per lavori più recenti, PALOMBI, Istigazione o aiuto al suicidio, in Enc. dir., 1972, XXII, 1024; PATALANO, (nota 4), 205. Quest’interpretazione comporta una sostanziale assimilazione dell’art. 580 all’art. 579, la cui ‘‘obiettività giuridica’’ viene pure (ancora!) ‘‘derivata dal diritto alla vita e dalla sua indisponibilità, dagli obblighi che l’individuo deve adempiere verso la famiglia e la collettività, dalla minore gravità del fatto rispetto all’omicidio comune, dalla minore pericolosità del suo autore’’ (così PANNAINSCLAFANI-PANNAIN, (nota 4), 7). In prospettiva critica vd. invece RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 199 ss., che auspica una sensibile riduzione della pena per l’ipotesi che il suicida sia un malato irreversibile in preda a sofferenze insopportabili (ivi, 227). Sul piano comparato, le condotte di istigazione e aiuto al suicidio sono punite dal codice penale austriaco — il cui § 78 addirittura stabilisce la medesima pena prevista dal § 77 per l’omicidio del consenziente (critico, sul punto, KIENAPFEL, Grundriß des österreichischen Strafrechts, B.T., 1990, 3a ed., 30) — e dal codice penale spagnolo — il cui art. 409, seppure prevede una pena sensibilmente più bassa rispetto all’omicidio del consenziente, non richiede la verificazione del suicidio neanche nella forma tentata (per la critica, CARBONELL MATEU, Libre desarrollo de la personalidad y delitos contra la vida, in Cuadernos de Politica criminal, 1991 (45), 665 ss.; ZUGALDÌA ESPINAR, Eutanasia y homicidio a petición: situación legislativa y perspectivas político-criminales, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Granada (Homenaje al prof. Sainz Cantero), 1987 (13), II, 290 ss.) —; nel codice penale svizzero, invece, l’art. 115 punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio solo se commessi per motivi egoistici (per tutti cfr. STRATENWERTH, Schweizerisches Strafrecht, B.T., 1993, 4a ed., I, 37 ss.), nel codice penale francese è punita la sola provocazione (artt. 22313, -14 e -15) e nel codice penale tedesco entrambe le condotte non sono sanzionate (purché il suicidio rimanga una libera e personale decisione dell’interessato: per tutti, BOTTKE, (nota 59), 235 ss.; ESER, (nota 58), vor §§ 211, Rdnr. 36; ROXIN, Die Mitwirkung beim Suizid ein Tötungsdelikt?, in FS Dreher, 1977, 331 ss.; sul difforme orientamento giurisprudenziale, volto a configurare un omicidio o un’omissione di soccorso, vd. ESER, (nota 58), vor §§ 211, Rdnr. 42 s.; KOCH, in ESER-KOCH, Materialen zur Sterbehilfe, 1991, 44 ss.; per l’idea — rimasta isolata — di configurare il suicidio come omicidio, così ammettendo la punibilità della partecipazione, SCHMIDHÄUSER, (nota 3), 816; vd. anche BRINGEWAT, Die Strafbarkeit der Beteiligung am fremder Selbsttötung als Grenzproblem der Strafrechtsdogmatik, in ZStW, 1975 (87), 647 s.). (107) Testualmente, ROMBOLI, Atti di disposizione, cit., (nota 8), 245 s.; conf. BA-


— 723 — mento tra la prospettiva solidaristica che impone alle istituzioni l’onere di scoraggiare il suicidio e la libertà di suicidarsi intesa come espressione di un insopprimibile diritto di autodeterminazione. Anzitutto, conviene partire dal dato normativo. Il primo elemento, che si impone immediatamente all’attenzione, concerne la prossimità delle pene previste per i reati di omicidio del consenziente e di istigazione e aiuto al suicidio: rispettivamente, da sei a quindici anni e da cinque a dodici anni. L’assenza di una reale diversificazione, agli effetti sanzionatori, appare ingiustificata ove si pensi che la prima fattispecie rinvia ad una condotta assai pregnante sotto il profilo oggettivo ed ammette la possibilità che il consenso della vittima sia stato provocato dallo stesso soggetto attivo, mentre la seconda fattispecie sanziona la verificazione di un evento che ‘‘rimane pur sempre nel dominio della volontà del soggetto passivo’’ (108) e trova applicazione anche nei confronti di chi si limita ad agevolare l’esecuzione del suicidio da altri autonomamente e con piena convinzione deliberato. In altre parole, il disvalore insito nelle condotte previste dagli artt. 579 e 580 c.p. risulta privo di qualsiasi omogeneità, poiché nell’un caso si tratta di un omicidio volontario benché consentito, nell’altro di un mero concorso — morale o materiale — ad un altrui suicidio (109). La distanza intercorrente tra le due fattispecie trova però riconoscimento, ad opera dello stesso legislatore, nel caso che il soggetto passivo abbia età inferiore ai diciotto anni ovvero sia infermo di mente o versi in RILE, (nota 8), 59 s.; ROXIN, (nota 106), 352. Vd. anche — in diversa prospettiva — FALZEA,

(nota 14), 127; BELLINI, (nota 7), 95, il quale riconosce la liceità fattuale del suicidio ma al contempo respinge una difesa illimitata della privacy individuale: ‘‘questa difesa estrema può approdare a un inaridimento sconsolante della relazionalità interpersonale: ad uno scadimento del rapporto comunitario generale. Al termine essa rischia di risolversi in una risposta egoistica a un atto di egoismo’’. Anche nella dottrina tedesca prevale la tesi che nega la configurabilità di un diritto al suicidio: per tutti, ESER, (nota 37), 790 s.; HIRSCH, (nota 47), 611 s.; JÄHNKE, (nota 37), vor § 211, Rdn. 22; OTTO, (nota 47), D-11 ss.; UHLENBRUCK, Recht auf den eigenen Tod?, in ZRP, 1986, 214; contra, BEMMANN, (nota 58), 568; WAGNER, (nota 58), 108 ss. e, con talune (contraddittorie) limitazioni, BOTTKE, (nota 59), 42 ss., 52; da ult., cfr. JAKOBS, (nota 86), 463 ss. (108) PATALANO, (nota 4), 221, il quale tuttavia sottolinea la sensibile differenza delle pene previste dagli artt. 579 e 580 c.p. Analogamente ENGISCH, (nota 47), 317; sulla difficoltà di distinguere l’agevolazione al suicidio dall’omicidio su richiesta, ENGISCH, (nota 98), 4 s.; ESER, (nota 58), vor §§ 211, Rdnr. 11; HORN, (nota 59), § 216, Rn. 9 s.; ROXIN, (nota 50), 345 s. (109) Cfr. RAMACCI, Premesse alla revisione, cit., (nota 4), 213, il quale al contrario assume che negli artt. 579 e 580 c.p. ‘‘il soggetto attivo del reato opera con la consapevolezza di esaudire l’altrui volontà, alla cui realizzazione si offre come strumento, spersonalizzandosi a favore dell’altrui vincente pressione psicologica’’ e conseguentemente critica, rispetto all’art. 580, l’equiparazione sanzionatoria tra istigazione e aiuto, posto che solo in questo si riscontra ‘‘la subordinazione della propria all’altrui volontà, alla quale si soggiace fino all’estrema conseguenza’’.


— 724 — condizioni di deficienza psichica, giacché per l’istigazione e l’aiuto al suicidio è previsto solo un aumento della pena, mentre per l’omicidio del consenziente viene stabilita l’applicazione delle disposizioni relative al delitto di omicidio. Questa diversità di conseguenze, a torto criticata da una parte della dottrina (110), trova spiegazione nel fatto che il reato di cui all’art. 580 c.p. richiede non solo un nesso eziologico tra l’azione del colpevole e il risultato — in assenza del quale viene meno il concorso nel fatto altrui (111) — ma anche — come rende chiaro l’utilizzo dei concetti di determinazione, istigazione e agevolazione — un’azione dolosa del soggetto passivo: ciò significa che la condotta sanzionata deve causalmente legarsi non solo all’evento ma, ancor prima, ad un autonomo processo volitivo del suicida (112). Tale notazione, se da un lato giustifica la partico(110) Vd. NUVOLONE, (nota 4), 395: ‘‘Non si riesce a comprendere questa differenza poiché, se il minore di diciotto anni non può prestare un valido consenso, ne segue che l’azione determinatrice agisce su un incapace: o viceversa’’. Nel senso del testo si esprime invece la Relazione al Progetto definitivo, cit., 378, ove si afferma che l’art. 580 sussiste anche quando ‘‘la volontà del suicida, seppure viziata, conservi quel tanto di libertà e di coscienza, per cui la consumazione del suicidio possa essere considerata effetto della sua determinazione’’, mentre si applica la pena prevista per l’omicidio quando ‘‘appare invece manifesto che l’atto materiale del suicidio, compiuto da persona inconsapevole, rappresenta il mezzo con cui il terzo ne ha volontariamente cagionata la morte’’; similmente, PATALANO, (nota 4), 230, il quale osserva che, per venir meno il reato di cui all’art. 580 c.p., è necessario che l’incapacità sia totale, dovendosi altrimenti ritenere che ‘‘un gesto così grave non possa non dipendere dalla determinazione del soggetto’’. Non convincente risulta invece PALOMBI, (nota 106), 1026, il quale collega l’aumento di pena alle ipotesi in cui il suicida non è in grado di ‘‘comprendere appieno il significato ed il valore del gesto autolesivo che compie’’, riservando la pena dell’omicidio ai casi in cui ‘‘manchi del tutto la capacità di percepire il significato dell’atto’’. (111) Già la Relazione al Progetto definitivo, cit., 376, afferma che, ‘‘se il suicidio avvenga con mezzi diversi, la somministrazione del mezzo non adoperato sarà punibile a titolo d’istigazione qualora, per le circostanze concrete del fatto, risulti che essi svolsero una funzione causale’’; in dottrina, tra gli altri, ANTOLISEI, (nota 4), 63; MARRAS, L’evento nel delitto di istigazione al suicidio, in Giur. compl. Cass., 1948, 431 ss.; NUVOLONE, (nota 4), 391 s.; PALOMBI, (nota 106), 1020 ss.; PATALANO, (nota 4), 225 s.; VANNINI, Istigazione al suicidio, in Riv. pen., 1938, I, 695 s. In giurisprudenza, conf. Cass., 30 aprile 1974, Andreucci, in Giust. pen., 1975, II, 357; id., 12 novembre 1952, Greco, ivi, 1953, II, 714; Trib. Milano, 19 gennaio 1951, Antonioli, in Giur. it., 1951, II, 119; Cass., 20 dicembre 1937, Frosi, in Riv. pen., 1938, 693. Per l’opinione — oggi superata — che qualifica il suicidio o la lesione come condizione obiettiva di punibilità e pertanto ritiene sufficiente un’attività idonea da parte del reo, vd. MANZINI, (nota 3), 114; così pure risulta oggi abbandonata la tesi che richiede, per il reato in esame, un dolo sia generico che specifico (così Cass., 25 febbraio 1948, Blasi, in Giur. compl. Cass., 1948, II, 427, n. 3892; Trib. Milano, 19 gennaio 1951, cit.; DONATI, Dolo specifico e idoneità dell’azione del reato di istigazione al suicidio, in Giur. it., 1951, II, 119): per tutti, PATALANO, (nota 4), 209 ss. (112) L’esigenza di questo duplice evento delle condotte di partecipazione morale è chiaramente affermata da Cass., 12 novembre 1952, cit., che da un lato richiede un nesso causale tra il fatto del colpevole e il suicidio, dall’altro aggiunge che ‘‘è necessario che il soggetto passivo abbia realmente formato nella sua mente il disegno di uccidersi perché, se egli


— 725 — lare disciplina dell’art. 580 c.p. rispetto all’art. 579 c.p., dall’altro lato denota tuttavia una netta differenza tra le due situazioni, che rende a sua volta incongrua la loro sostanziale prossimità sul piano sanzionatorio. Né può tacersi, infine, l’ulteriore incongruità costituita dall’equiparazione, nell’art. 580 c.p., delle condotte di determinazione, istigazione e aiuto (113), la cui differente valenza — già sul piano della causalità del contributo — è riconosciuta presso tutti i sistemi normativi che graduano la responsabilità dei concorrenti nel reato. E invero, è evidente che chi si limita ad agevolare la realizzazione di un suicidio già autonomamente deciso dall’interessato non può essere assimilato a chi invece fa nascere o rafforza la volontà suicidiaria; onde la previsione di una stessa pena appare profondamente ingiusta. La problematicità della formulazione dell’art. 580 c.p. emerge comunque non appena si verifichi il fondamento della teoria che pone, come oggetto di tutela, il bene della vita. A questo proposito, deve infatti notarsi che la norma punisce il concorso al suicidio solo se ne deriva effettivamente la morte o almeno una lesione grave o gravissima; la necessità della verificazione di tale evento dimostra che le condotte di partecipazione non sono illecite in sé stesse ma mutuano il proprio disvalore da una presunta antigiuridicità dell’atto suicidiario (114). In questo senso — e solo in questo senso — si spiega peraltro l’equiparazione sanzionatoria tra la determinazione, l’istigazione e l’agevolazione, la cui indubbia diversità qualitativa e quantitativa viene normativamente negata alla luce dell’evento da esse causalmente influenzato. Se l’antigiuridicità del suicidio trova una compiuta legittimazione nell’ambito dell’ideologia statalista caratterizzante il regime fascista, essa perde però di consistenza nell’attuale ordinamento giuridico, ove al contrario — in forza dei principi almeno implicitamente enunciati dalla Carta costituzionale — vige l’incoercibilità giuridica del vivere. Donde la conseinvece abbia inteso simulare il suicidio, ciò dimostra che l’opera istigatrice spiegata dall’agente non ha sortito il suo effetto psicologico, in altre parole non è stata la vera causa della consumazione del suicidio, ove questo per errore di calcolo o per altra ragione dovesse avverarsi’’. (113) Per le rispettive definizioni, vd. per tutti NUVOLONE, (nota 4), 395; PATALANO, (nota 4), 218 ss. Per un’analoga critica nei confronti dell’art. 409 c.p. spagnolo, QUINTANO RIPOLLES, Comentarios al Código penal, 1966, 2a ed., 745 (l’art. 143 del progetto di codice penale spagnolo del 1994 si limita a punire l’induzione e la cooperazione necessaria al suicidio, ulteriormente differenziando la pena per le due ipotesi). (114) Cfr. sul punto NUVOLONE, (nota 4), 394, il quale osserva che tale avanzamento della soglia di punibilità ‘‘può esser motivo di dubbi de jure condendo. È probabilmente, tuttavia, legato ad una preoccupazione: di accertare che veramente sia nata o si sia rafforzata nell’agente una volontà omicida e che non si tratti di eventuale simulazione’’. Anche nella Relazione al Progetto definitivo, cit., 377, si afferma che l’impunità delle condotte di partecipazione ad un tentativo di suicidio rimasto senza effetto è dettata da ‘‘considerazioni di opportunità’’.


— 726 — guenza che le condotte di partecipazione al suicidio non possono più ricavare la propria illiceità dal loro teleologismo, neppure attraverso la violazione di un ipotetico principio solidaristico che, imponendo ai consociati di astenersi in ogni caso dal cooperare a tali atti esistenziali drammaticamente irreversibili, in realtà costituirebbe una mera riproposizione dell’idea dell’antigiuridicità di questi. Il problema, tuttavia, è che l’esigenza di prescindere da una valutazione etica nei confronti del suicidio priva di fondamento la formulazione dell’art. 580 c.p. E invero, ammessa la liceità del suicidio e la possibilità che esso poggi su basi razionali e scelte consapevoli, la norma potrebbe mantenere un senso solo se il fuoco del disvalore venisse incentrato (non sulla mera partecipazione ad un fatto neutro bensì) sull’induzione o sulla coartazione dell’altrui volontà in ordine alle scelte suicidiarie, così da reprimere la pressione, la violenza, la frode o l’abuso di chi a qualsiasi titolo provoca il suicidio altrui; in questa prospettiva, l’art. 580 verrebbe proiettato sulla tutela dell’assoluta libertà di autodeterminazione e in particolare degli individui deboli e suggestionabili contro il pericolo di sopraffazioni della volontà (115). Una siffatta ricostruzione — la sola in grado di conferire al reato in esame una piena legittimità costituzionale — è però attualmente impedita dalla punibilità delle condotte di agevolazione anche laddove si accerti che il soggetto passivo aveva già liberamente e in piena consapevolezza preso una compiuta decisione ed è stato esclusivamente aiutato nell’esecuzione di essa. Donde la conclusione che la vigente formulazione dell’art. 580 c.p., nella sua ampiezza applicativa, è frutto di concezioni non del tutto compatibili con i principi affermati dalla Costituzione. L’esigenza di una rimeditazione sulla legittimità della norma deriva anche dalle considerazioni precedentemente svolte in tema di eutanasia passiva e indiretta. Se potrebbe infatti apparire già delicata l’esclusione di un obbligo giuridico di attivarsi (presupposto, questo, della punibilità dell’agevolazione al suicidio mediante omissione) in capo al medico che non inizia o sospende la terapia nei confronti di chi rivendica il proprio diritto di lasciarsi morire, certo più problematica risulta la situazione rispetto al medico che agevola la realizzazione di tale proposito limitandosi alla som(115) È questa la tesi — avanzata però de iure condito — di MARRA, Suicidio, diritto e anomia, cit., (nota 2), 97 s. In favore dell’introduzione, nel codice penale tedesco, di una norma modellata sull’art. 115 c.p. svizzero, ROXIN, Anmerkung a BGH, 5 luglio 1983, in NStZ, 1984, 73; per la punibilità dell’induzione al suicidio, LACKNER, Erfahrungen aus einem Seminar über die Reform der Strafvorschriften zum Schutze des Lebens, in JZ, 1977, 503 e 505; sul punto, BOTTKE, (nota 59), 318 ss. In Spagna, il Grupo de Estudios de Politica criminal, (nota 86) ha proposto il seguente art. 409: ‘‘Chi induce altri al suicidio è punito con la pena della ‘prigione minore’. La stessa pena si applica a chi coopera all’altrui suicidio in assenza dei requisiti di capacità e della richiesta previsti dall’art. 408’’.


— 727 — ministrazione di analgesici (c.d. terapia del dolore) o comunque assistendo e confortando il malato fino al suo decesso (116). Rispetto a queste ipotesi, l’applicabilità dell’art. 580 c.p. può essere evitata ritenendo che la norma presuppone una condotta attiva di suicidio, laddove nei casi in esame il malato si limita a lasciare libero corso alla sua malattia; tale precisazione, tuttavia, rispetto a chi — medico o familiare o terzo — sulla base di motivi egoistici istiga o determina taluno ad omettere di curarsi, apre una lacuna di punibilità in contraddizione con i generali principi di tutela della vita e della stessa libertà di autodeterminazione. I progressi della scienza medica, l’evoluzione degli atteggiamenti culturali nei confronti della vita e della morte e l’irruzione di nuove e complesse problematiche dimostrano come il nodo della questione non sta più nell’illiceità del suicidio bensì nella tutela dei processi formativi della volontà individuale. Una rimeditazione sull’art. 580 c.p. appare davvero opportuna. * * * Una considerazione finale. L’affermazione della facoltà di suicidarsi, del diritto di lasciarsi morire e della teorica ammissibilità dell’eutanasia consensuale procede dall’idea che, in un diritto penale laico e secolarizzato, è lecito tutto ciò che può ricondursi ad un atto di autodeterminazione consapevole e non produce conseguenze nelle sfere di terzi né offende altrui diritti. Tale risultato deve intendersi non come una conquista dell’uomo ma, al contrario, come un riconoscimento della sua solitudine e della drammaticità dell’esistenza, seppure in un contesto di libertà depurato da falsi vincoli e pregiudizi. Abbandonando il piano giuridico dell’argomentazione, è dunque auspicabile un impegno collettivo contro le ragioni che inducono al suicidio e alla richiesta di eutanasia: altrimenti, elevando a valore primario un principio di autodeterminazione circondato dall’altrui indifferenza, sarà stato avviato un processo di distruzione. SERGIO SEMINARA Ordinario di Diritto penale nell’Università di Catanzaro

(116) Cfr. sul punto EUSEBI, (nota 17), 527, il quale prospetta la configurabilità dell’art. 580 c.p. per il sanitario che omette di intervenire in favore del malato che rifiuta la terapia. In dottrina è pacifico che la condotta di aiuto al suicidio può avvenire anche mediante omissione, laddove ricorre la violazione di un obbligo giuridico di assistenza familiare, istruzione, educazione, cura, vigilanza o custodia (per tutti GRANATA, L’istigazione al suicidio, in Riv. pen., 1940, I, 388 s.; MANZINI, (nota 3), 117; PANNAIN, (nota 4), 166; PATALANO, (nota 4), 224).


IMPIEGO DI CAPITALI ILLECITI E RICICLAGGIO: LA RISPOSTA DEL SISTEMA PENALE ITALIANO

1. L’impiego di capitali illeciti è una forma speciale di riciclaggio; essa rappresenta l’ultima fase del ciclo di trasformazione dei capitali di derivazione criminale in investimenti leciti e si caratterizza per la particolare gravità sotto il profilo della dannosità sociale, in quanto l’investimento produttivo — per lo più da parte della criminalità organizzata — di proventi di derivazione illecita, normalmente di notevole entità, è in grado di porre in essere gravi turbative allo stesso ordine economico (1), agevolando, se non il raggiungimento di posizioni di monopolio, certamente la veloce ascesa a posizioni di supremazia da parte di imprese di origine criminale (2). Prevenzione e repressione di questo tipo di condotte rappresentano sicuramente degli obiettivi da perseguire con la massima fermezza. L’ordinamento italiano, nell’ambito della normativa antiriciclaggio, ha previsto all’art. 648-ter c.p. (3) una norma ad hoc, i cui esiti applicativi appaiono, tuttavia, tutt’altro che incoraggianti (4): mai come in rapporto a fatti di questo genere, il ricorso ad una legislazione simbolica appare tanto rischioso, visti gli effetti devastanti, sotto molteplici profili, che le condotte di riciclaggio possono produrre. È noto, infatti, che l’adozione di norme di questo tipo, non appare solo superflua in relazione al fenomeno criminale (1) Come non ha mancato di rilevare la dottrina più autorevole. Cfr. sull’argomento CRESPI, Aziende di credito e repressione del riciclaggio dei proventi illeciti (Appunti intorno a recenti disegni di legge), in Riv. soc. 1990, 1403 s.; FLICK, La repressione del riciclaggio ed il controllo dell’intermediazione finanziaria. Problemi attuali e prospettive, in questa Rivista 1990, 1261; ID., Prospettive e problemi del controllo penale degli intermediari finanziari, in Riv. soc. 1990, 792; ID., Le risposte nazionali al riciclaggio di capitali. La situazione italiana, ivi 1992, 1298 ss.; G. PECORELLA, Circolazione del danaro e riciclaggio, in questa Rivista 1991, 1221, 1223-1234. (2) Cfr. sul tema, per tutti, il recente lavoro di SAVONA, La grande corsa: mafia e riciclaggio, in Pol. dir. 1994, 55 ss. (3) Sia pur con riferimento al testo del 1990, sull’art. 648-ter c.p., cfr. COLOMBO, Il riciclaggio, Milano 1990, p. 123 ss.; BARBIERA-CONTENTO, Lotta al riciclaggio del danaro sporco. Nuova disciplina dei pagamenti, dei titoli di credito e delle attività finanziarie, Milano 1991, p. 53 ss. (4) A tutto il 1993 non risultano pronunce giurisprudenziali relative all’art. 648-ter c.p.


— 729 — che s’intende combattere, ma risulta addirittura dannosa perché finisce per neutralizzare le spinte all’intervento che provengono dalla società, dal momento che risulta operante una risposta che si presenta anche con il carattere della fermezza, ma, in realtà, è solo una risposta apparente. Il quadro normativo relativo alla repressione del riciclaggio nell’ordinamento italiano appare piuttosto articolato; non sempre, tuttavia, emerge un efficace coordinamento tra le varie disposizioni che, anzi, sovente sembrano essere espressione di una logica di tipo emergenziale, dando luogo a difficoltà applicative (5). È possibile, comunque, individuare tre direttive entro cui si muove la strategia legislativa antiriciclaggio: una di tipo preventivo, affidata alla legislazione complementare, che prevede l’allestimento di un complesso sistema di controlli sulla circolazione del danaro e sull’attività di intermediazione finanziaria; una di tipo repressivo tradizionale, affidata a norme codicistiche, con la previsione di speciali figure di reato; ed infine, una di tipo, per così dire, successivo, attinente alla sfera del post factum, che si esprime nella previsione di misure di sequestro e di confisca dei proventi illeciti che costituiscono il capitale d’impiego dell’impresa criminale. Va sottolineato il fatto che l’Italia è stato uno dei primi paesi ad impegnarsi, dal punto di vista legislativo, nella lotta al fenomeno del riciclaggio; com’è noto, già nel 1978 con il d.l. 21 marzo 1978 n. 59 convertito nella l. 18 maggio 1978 n. 191, nell’ambito della legislazione dell’emergenza, prodotta per fronteggiare il diffondersi di intense ed allarmanti forme di criminalità politica e comune, fu introdotta la fattispecie di sostituzione di danaro e valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata o sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 648-bis c.p.), che rappresenta la prima norma espressamente orientata alla predisposizione diretta di sbarramenti alla realizzazione di vantaggi patrimoniali derivanti da gravi reati (6). Tuttavia, con questa disposizione, più che contro fatti di riciclaggio in sé, si intendeva allestire in particolare uno strumento di lotta, di tipo deterrente, nei confronti dei reati presupposto; il che viene confermato dall’anticipazione della soglia di punibilità alla realizzazione di meri atti preparatori della sostituzione di danaro e valori, che caratterizzava la norma. Una più spiccata connotazione di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso si cominciò ad avere con le disposizioni contenute nell’art. 13 d.l. 13 dicembre 1979 n. 79 convertito con modificazioni nella l. 6 febbraio 1980 n. 15, relativa agli obblighi di identificazione e di regi(5) Sul punto v. infra, 18 ss. (6) Sul tema, per tutti, cfr. DALIA, L’attentato agli impianti e il delitto di riciclaggio, Milano 1979, p. 60 ss.; G. PECORELLA, Denaro (sostituzione di), in Digesto delle discipline penalistiche, Torino 1989, p. 366 ss.


— 730 — strazione, da parte delle banche e degli uffici della pubblica amministrazione, dei dati di coloro che avessero effettuato transazioni d’importo superiore ai venti milioni di lire (7). Con queste disposizioni cominciò a mutare la strategia, diversificandosi in un orientamento meramente repressivo del fenomeno del riciclaggio in sé, affidato a fattispecie codicistiche di taglio tradizionale ed in un orientamento preventivo ad ampio spettro, che si concretizzava nell’introduzione di idonei meccanismi di controllo e sorveglianza dei flussi finanziari. Si era, infatti, compreso che il fenomeno aveva dimensioni ed esiti ben più ampi di quelli ipotizzati in rapporto alla mera commissione di fatti di rapina, di estorsione: in altri termini, ci si era resi pienamente conto dell’ampiezza del diffondersi della criminalità organizzata e del fatto che questa ottenesse un’altissima remuneratività dall’attività criminale, con la conseguenza dell’accumulazione di enormi quantità di risorse economiche in mano alle organizzazioni criminali. Si era compreso allora che un efficace strumento di lotta era dato dal neutralizzare l’utilizzazione della ricchezza monetaria posseduta dalle organizzazioni criminali, attraverso il controllo delle forme attraverso cui è possibile custodire ed investire la liquidità monetaria di provenienza illecita. Con il porre dei limiti alla libera circolazione del contante o dei titoli al portatore, si perseguiva, dunque, la finalità di impedire l’uso dei correnti strumenti offerti dal sistema finanziario; in tal modo non si consentiva che tale ricchezza, attraverso qualsiasi forma d’investimento, potesse essere indirizzata a produrre altra ricchezza, ottenendo, in ogni caso, il risultato minimale, ma non di poco conto, della trasformazione dell’originaria liquidità monetaria in nuovi valori, mobiliari o immobiliari, e della custodia in forma finanziariamente più evoluta rispetto a quella che poteva essere compiuta personalmente dall’investitore. A tal proposito va sottolineato il notevole ampliamento dell’ambito applicativo dell’art. 13 l. n. 15/1980, che prendeva in considerazione la sola movimentazione del contante, attraverso la modifica apportata con l’art. 30 della l. 19 marzo 1990 n. 55 e la definitiva, opportuna razionalizzazione della norma attraverso l’art. 2 della l. 5 luglio 1991 n. 197 (8). In questo contesto va anche ricordato l’art. 1 del d.l. 28 giugno 1990 n. 167 convertito nella l. 4 agosto 1990 n. 227, che, sia pur per la finalità immediata di lotta all’evasione fiscale, impone ad enti creditizi, società finanziarie ed intermediari in genere l’obbligo di rilevazione dei trasferi(7) Sul punto cfr. FLICK, Intermediazione finanziaria, informazione e lotta al riciclaggio, in Riv. soc. 1991, 433 ss., in particolare 468-469; ANTOLISEI, Diritto penale. Leggi complementari, a cura di L. CONTI, vol. I, 1993, p. 445 s. (8) Sul punto cfr. FLICK, Riciclaggio, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma 1991, pp. 8-9; ID., Intermediazione finanziaria, informazione e lotta al riciclaggio, cit., 469-470; ANTOLISEI, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 446.


— 731 — menti da e verso l’estero di danaro, titoli o valori mobiliari; è evidente l’obiettiva valenza di tale disposizione in termini di contrasto nei confronti di attività di riciclaggio (9). Alla stessa stregua, l’art. 8 della l. 30 dicembre 1991 n. 413, dettata anch’essa prevalentemente al fine di agevolare i controlli fiscali, per il fatto di incrementare le possibilità di accesso alla documentazione bancaria, esplica una funzione non irrilevante anche nell’ambito delle indagini antiriciclaggio (10). Era, tuttavia, maturata, l’esigenza di dover non soltanto, controllare i flussi del danaro contante, ma anche di limitarne la portata, imponendo mezzi di pagamento alternativi a questo, che maggiormente si prestassero a lasciare solide tracce dell’avvenuto impiego. Attraverso una complessa vicenda parlamentare si giunse al d.l. 4 gennaio 1991 n. 2, reiterato con modifiche dai successivi dd.ll. 8 marzo 1991 e 3 maggio 1991 n. 143, convertito dalla l. 5 luglio 1991 n. 197, la cosiddetta ‘‘legge antiriciclaggio’’ (11). Con questo provvedimento si completa la manovra legislativa sin qui descritta per il controllo e la sorveglianza dei flussi finanziari che, come risultato immediato, ha avuto l’effetto di agevolare una generale trasparenza del sistema finanziario. Infatti, la l. n. 197/1991 dispone, tra l’altro, la limitazione dell’uso del contante e dei titoli al portatore per transazioni fino a 20 milioni (art. 1), l’identificazione di coloro che effettuano i pagamenti e le movimentazioni di conti (art. 2), l’istituzione di un archivio informatizzato relativo alle operazioni ed agli autori delle stesse (art. 5) e l’obbligo di segnalare operazioni sospette. Di notevole rilievo appare anche la disciplina dell’attività dell’intermediazione finanziaria, che prevede, tra l’altro, l’istituzione di un registro degli intermediari (artt. 6-10). La disciplina codicistica del fenomeno ha conosciuto una prima evoluzione con la norma di cui al sesto comma dell’art. 416-bis, introdotto, com’è noto, dall’art. 1 della l. 13 settembre 1982 n. 646, che prevede come circostanza aggravante del delitto di associazione di tipo mafioso il fatto che le attività economiche che l’associazione intende controllare sono finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto (9) La l. 4 agosto 1990 n. 227 disciplina la ‘‘rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro titoli e valori’’. In proposito, per tutti, in dottrina cfr. CAPRIGLIONE, Evoluzione del sistema finanziario italiano e riforme legislative, in Banca borsa e titoli di credito 1991, 42 ss. (10) Sulla l. 30 dicembre 1991 n. 413 che disciplina le ‘‘Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale’’, cfr. MOGOROVICH, La dilatazione degli accertamenti fiscali, in Rass. mens. delle imposte 1993, 484 ss. (11) Su questo significativo provvedimento legislativo si veda la pregevole analisi di BARBIERA-CONTENTO, Lotta al riciclaggio del danaro sporco, cit., passim.


— 732 — di delitti (12). A ben vedere, si tratta proprio di quel tipo di condotte che successivamente verrà ad assumere la definizione normativa di impiego di danaro di provenienza illecita per l’autonoma fattispecie di cui attualmente all’art. 648-ter c.p., tesa a contrastare l’utilizzazione di risorse di provenienza criminale per il finanziamento di attività lecite. Con la l. 19 maggio 1990 n. 55 si è, invece, operata una prima revisione della disciplina del fatto di riciclaggio di cui all’art. 648-bis c.p., conferendo ad essa una più accentuata connotazione di contrasto all’attività delle organizzazioni criminali con l’ampliamento del novero dei reati presupposto al traffico di stupefacenti e con l’introduzione, all’art. 648ter, della fattispecie di impiego di capitali illeciti. Si è considerato che il procedimento di riciclaggio poteva articolarsi in due fasi distinte: quella della separazione di danaro, beni o altre utilità dalla provenienza criminale, tramite condotte di ‘‘sostituzione’’ o di ‘‘ostacolo’’ all’identificazione della loro origine (13) e la fase dell’impiego delle risorse, con la loro immissione nel mercato (14), per lo più nei settori, molto remunerativi, della finanza, dell’industria o del commercio, agendo in condizioni di estremo favore, dati i costi, economici, molto bassi dei capitali impiegati. Rispetto alle disposizioni contenute nella norma sul riciclaggio del 1978 emergevano differenze strutturali, sia sul piano della materia regolata che sul piano della condotta punibile. La nuova norma, con l’adozione di una formula di più ampio respiro, aveva notevolmente esteso l’ambito di ciò che poteva essere oggetto di ‘‘sostituzione’’: non sembra, infatti, che alcun tipo di provento criminale potesse essere escluso dalla previsione normativa, grazie all’adozione della formula ‘‘denaro, beni o altre utilità’’ al posto di quella relativa a ‘‘denaro o valori’’. Sul piano della condotta, da un lato, si era ampliato l’ambito applicativo prevedendo l’ulteriore condotta di ‘‘ostacolo all’identificazione’’ della provenienza di danaro, beni o altre utilità, dall’altro, si era rinunciato all’esasperata tutela anticipata presente nella prima versione dell’art. 648-bis — in essa, com’è noto, con l’adozione della formula ‘‘fatti o atti diretti a sostituire’’ si finiva con il criminalizzare già i meri atti preparatori — per adottare una fattispecie d’evento, molto più affidabile sotto il profilo delle garanzie di un diritto penale del fatto. Dal punto di vista della fattispecie soggettiva, si era, infine, rinunciato al requisito del dolo specifico della finalità di profitto che connotava la norma del 1978, estendendo, così, anche sotto tale profilo lo spazio di operatività della disposizione. (12)

Cfr. in proposito SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova 1984, p.

111. (13) Sul punto cfr. COLOMBO, Il riciclaggio, cit., p. 85 ss.; G. PECORELLA, Circolazione del danaro e riciclaggio, cit., 1332-1333. (14) Cfr. sull’argomento COLOMBO, Il riciclaggio, cit., p. 119 ss.; G. PECORELLA, Circolazione del danaro e riciclaggio, cit., 1233 ss.


— 733 — Alla fattispecie di riciclaggio contenuta nell’art. 648-bis c.p. fu, inoltre, affiancata, come già si è accennato, quella di impiego di capitali illeciti, art. 648-ter c.p., che disciplinava la fase ultima del procedimento di riciclaggio, quella dotata di maggior disvalore sociale, in quanto capace di creare anche degli squilibri nel mercato economico. La fattispecie, in particolare, riguardava la condotta di utilizzazione di capitali provenienti dai reati presupposto, espressamente previsti, per qualunque destinazione avente un rilievo economico: le ‘‘attività’’ di cui si parla nella norma, potevano, quindi, variare dalla produzione, e/o il commercio, di beni e servizi, alle intermediazioni finanziarie, passando attraverso tutte quelle iniziative relative alla circolazione di denaro e titoli. Successivamente, gli artt. 4 e 5 della l. 9 agosto 1993 n. 328 di ratifica ed esecuzione della Convenzione adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo l’8 novembre 1990 (15), hanno apportato ulteriori modifiche alla disciplina codicistica dei fatti di riciclaggio, svincolando entrambe le fattispecie di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. dai reati presupposto espressamente richiamati, introducendo il riferimento alla semplice provenienza da delitto, di danaro, beni o altre utilità da riciclare o da ‘‘impiegare’’. Questa modifica, da un lato, ha consentito il superamento di non semplici problemi di prova relativi alla consapevolezza, da parte dell’autore del riciclaggio, della specifica provenienza del danaro dalla commissione di uno dei reati ‘nominati’; dall’altro, ha conferito una piena autonomia alla disciplina del riciclaggio, emancipandola definitivamente dalla matrice ‘preventiva’, che caratterizzava l’originaria versione dell’art. 648bis c.p., tesa, ripetiamo, più a colpire la commissione dei reati presupposto, che non l’attività di riciclaggio in sé. La prospettiva era già profondamente cambiata nella riforma del 1990, con l’ingresso del traffico di stupefacenti tra i reati presupposto del riciclaggio. Infatti, relativamente a tale gravissima ipotesi criminosa veniva a sparire ogni possibilità di identificazione del denaro che, invece, risultava possibile in rapporto a fatti di estorsione, sequestro di persona e, talvolta, anche di rapina. Tuttavia, è stata soprattutto la piena consapevolezza dell’enorme potenziale di distorsione del mercato economico-finanziario, rappresentato dai proventi di attività criminali di tipo assicurativo, a cui originariamente non si era affatto pensato, che ha opportunamente spinto nella direzione dell’estensione dell’ambito applicativo delle disposizioni di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. a tutti i casi di riciclaggio di risorse di origine pe(15) Sulla Convenzione di Strasburgo cfr. La ratifica della Convenzione di Strasburgo (1990) in tema di riciclaggio, in Ind. pen. 1993, 751 s.; PEZZUTO-IORIO, La Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio, in Riv. G. di F. 1994, 983 s.


— 734 — nalmente illecita, svincolando le ipotesi di riciclaggio da figure prefissate di reati presupposto (16). Il cerchio strategico della normativa antiriciclaggio si è chiuso con le disposizioni contenute nel d.l. 8 giugno 1992 n. 306 convertito nella l. 7 agosto 1992 n. 356, tese a colpire, sul piano del post factum, i proventi di attività illecite, attraverso un’azione di controllo del punto di arrivo terminale dei vari flussi di ricchezza (17). Non si tratta di una novità assoluta della legislazione italiana, in quanto già con la l. n. 646/1982 si erano utilizzate le misure della confisca e del sequestro di beni provenienti da attività criminale organizzata. Ciò non di meno, il conseguenziale perseguimento della più ampia e significativa finalità della trasparenza del sistema economico aveva spinto nella direzione della predisposizione di un intervento meglio articolato e più incisivo: di prendere, cioè, in considerazione, i termini di reato, ipotesi di pericolosità in un’accezione ‘‘reale’’, anziché ‘‘personale’’. Questa prospettiva ha destato, tuttavia, non poche perplessità sotto il profilo della conformità ai principi dello stato sociale di diritto (18). Infatti, con le disposizioni di cui al secondo comma dell’art. 12-quinquies l. n. 356/1992 si prevedeva la reclusione da due a cinque anni e la confisca dei beni per coloro nei cui confronti pendeva un procedimento penale per taluno dei delitti espressamente indicati dal legislatore, e per coloro nei cui confronti era in corso di applicazione una misura di prevenzione personale o si procedeva per la sua applicazione, qualora fosse risultato che essi avessero la titolarità o la disponibilità di beni di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, dei quali non potessero giustificare la provenienza legittima. Si trattava, com’è evidente, di un formidabile strumento repressivo che, al fine di superare questioni probatorie, sulla base di un mero sospetto, faceva ricorso all’inversione dell’onere della prova in materia penale, ponendo, però, in essere una raffica di violazioni di principi costituzionali (uguaglianza, inviolabilità dei diritti della difesa, legalità, presunzione di non colpevolezza, difesa della proprietà privata) che la dottrina più attenta non ha mancato di sottolineare e la Corte costituzionale ha puntualmente rilevato. Infatti, la Corte, con la sentenza del 9 febbraio 1994 n. 48, ha dichiarato l’illegittimità (16) Secondo un indirizzo consolidato e diffuso a livello di elaborazioni dottrinali internazionali, sul tema cfr. BERNASCONI, Riciclaggio. La soluzione svizzera, in Riv. trim. dir. pen. econ. 1990, 159 ss. (17) Segnalava l’efficacia delle misure patrimoniali nella lotta alle organizzazioni criminali CRESPI, Aziende di credito e repressione del riciclaggio dei proventi illeciti, cit., 1404. (18) Indicative, al riguardo, le pronunce di incostituzionalità per irragionevolezza (sent. C. cost. n. 306/1993) e per violazione della presunzione di non colpevolezza (sent. C. cost. n. 48/1994) dell’art. 12-quinquies secondo comma del d.l. 8 giugno 1992 n. 306 (convertito in l. 7 agosto 1992 n. 356).


— 735 — della norma (19). È apparso intollerabile il fatto che la disposizione, ispirandosi a modelli tipici del procedimento di prevenzione, avesse fondato proprio sulla qualità di indagato o imputato il presupposto soggettivo della repressione penale di un dato di fatto — la sproporzione non giustificata tra beni e reddito — che altrimenti non sarebbe stato perseguito, cosicché la persona, indiziata o imputata, ancorché presunta non colpevole, avrebbe dovuto essere, per ciò solo, assoggettata a pena, in rapporto ad una condotta indifferente sotto il profilo dell’illiceità. In seguito alla sentenza n. 48/1994, si è tornati nell’alveo meno innaturale, ma egualmente discutibile, delle misure di prevenzione; infatti l’art. 2 della l. 8 agosto 1994 n. 501, di modifica della l. 7 agosto 1992 n. 356, ha introdotto l’art. 12-sexies, che, in presenza di una notevole sperequazione tra le effettive disponibilità economiche ed il reddito dichiarato o le attività svolte, ha previsto particolari ipotesi di confisca per beni o altre utilità di cui risulti avere la titolarità o la disponibilità chi, già condannato per taluno di una serie di delitti espressamente previsti (20), non sia in grado di dimostrarne la provenienza lecita. In questo caso, la particolarità è data dal fatto che presupposto della ‘fattispecie’ di pericolo è la mera condanna per un fatto non neccessariamente legato ai beni oggetto della confisca, che, tuttavia, risulta sintomatica della commissione di altri reati. L’elemento costitutivo della fattispecie è dato, in sostanza, dal sospetto legato alla mancata dimostrazione dell’origine lecita dei beni, e, quindi, della pertinenza, meramente eventuale, dei beni ad altri reati non accertati. In questo contesto vanno anche segnalate le norme di cui all’art. 12quater e 12-quinquies dell’attuale formulazione della l. n. 356/1992. La prima norma prevede due cause di non punibilità: per l’ufficiale di polizia giudiziaria che, in qualità di agente provocatore, ricicla o impiega in attività lecite proventi di gravi reati ovvero compie attività di ricettazione di

(19) Sulla sent. 9 febbraio 1994 (depositata il 17 febbraio 1994) della Corte costituzionale si veda la nota di UCCELLA, La ‘‘rivolta’’ dei giudici (costituzionale e ordinari) contro una legislazione disinvolta anche nei confronti dei principi invalicabili dell’ordinamento, in Riv. pol. 1994, 488 s. (20) Il riferimento è ai delitti previsti negli artt. 416-bis, 629, 630, 644, 644-bis, 648 esclusa la fattispecie di cui al secondo comma (aggiunta al testo originario del d.l. n. 246/1994 prevista dall’art. 2 del d.l. n. 399/1994), 648-bis, 648-ter, del codice penale, nonché nell’art. 12-quinquies primo comma, del d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1992 n. 356, ovvero per taluno dei delitti previsti dagli artt. 73 esclusa la fattispecie del quinto comma (aggiunta al testo originario del d.l. n. 246/1994 prevista dall’art. 2 del d.l. n. 399/1994), e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.


— 736 — armi, munizioni, esplosivi (21). L’art. 12-quinquies punisce, invece, con la reclusione da due a sei anni, l’attribuzione fittizia a terzi della titolarità o della disponibilità di beni, al fine di eludere misure di prevenzione ovvero di agevolare la commissione di delitti di ricettazione, riciclaggio ed impiego di capitali illeciti. 2. Volendo sinteticamente ricapitolare, dal punto di vista dei contenuti essenziali, il complesso delle disposizioni che emergono dall’affollata congerie degli interventi legislativi in materia di riciclaggio, secondo le direttive a cui abbiamo fatto finora riferimento, è possibile individuare: 1) dal punto di vista del controllo in materia di raccolta e gestione dell’informazione finanziaria, per finalità di trasparenza, la previsione di alcuni obblighi fondamentali: a) di identificazione di chi operi pagamenti di importo superiore a venti milioni, o di importi inferiori che si ritiene siano parti di un’unica operazione, nonché di registrazione dei dati delle operazioni e di chi effettui le stesse (art. 2 l. n. 197/1991, che prevede la sanzione penale della multa), da inserire in un archivio dei dati secondo prestabilite modalità di acquisizione e di archiviazione (art. 5 n. 4 l. n. 197/1991, che prevede la pena dell’arresto da sei mesi ad un anno, oltre che l’ammenda per la mancata istituzione dell’archivio); b) di rilevazione delle generalità di chi operi movimentazioni dei mezzi di pagamento (art. 2 l. n. 197/1991: l’art. 5 n. 4 l. n. 197/1991 dispone la pena della multa per chi non ottemperi); c) di segnalazione delle operazioni che si ritiene possano riguardare proventi da attività penalmente illecite (art. 3 l. n. 197/1991, per la violazione dell’obbligo, è prevista all’art. 5 co. 6 la sanzione amministrativa pecuniaria di un importo sino alla metà del valore dell’operazione). In questo contesto vanno anche ricordate le limitazioni, a venti milioni, dell’uso del contante e dei titoli al portatore (art. 1 l. n. 197/1991: l’art. 5 n. 1 l. n. 197/1991 dispone la sanzione amministrativa pecuniaria di un importo sino al 40 per cento della somma trasferita) e la disciplina degli intermediari finanziari, con l’istituzione dell’elenco speciale degli intermediari (presidiata da sanzioni penali, artt. 6-10 l. n. 197/1991); 2) per quel che concerne la disciplina codicistica dei fatti di riciclaggio, secondo un’impostazione, per così dire, di tipo repressivo tradizionale, essa si articola nella previsione di tre forme di condotta: a) sostituzione o trasferimento di danaro, beni e altre utilità provenienti da delitto, art. 648-bis primo comma, prima proposizione, c.p.; b) ostacolo all’identificazione della loro provenienza, art. 648-bis primo comma, seconda proposizione c.p.; c) impiego di proventi criminali in attività econo(21) Cfr. sul tema DE MAGLIE, Gli ‘‘infiltrati’’ nelle organizzazioni criminali: due ipotesi di impunità, in questa Rivista 1993, 1409 ss.


— 737 — miche o finanziarie, art. 648-ter primo comma c.p. Per tutte le ipotesi la pena base è la reclusione da quattro a dodici anni e la multa da due a trenta milioni; 3) per quanto riguarda, infine, il controllo sul momento finale della concentrazione di ricchezza in capo ad un determinato soggetto ‘‘sospetto’’, dopo la travagliata vicenda dell’art. 12-quinquies secondo comma l. n. 356/1992 è disposta, con l’art. 12-sexies, introdotto definitivamente con l’art. 2 d.l. n. 399, convertito dalla l. n. 501/1994, la misura della confisca di danaro o altre utilità presso soggetti condannati per gravi reati che dichiarino un reddito inferiore al loro valore o svolgano un’attività che non possa giustificarne titolarità o disponibilità. Vanno anche segnalate la previsione, sia della specifica ipotesi di trasferimento fraudolento di valori, art. 12-quinquies l. n. 356/1992, per il quale è prevista la pena della reclusione da due a sei anni, che della possibilità di operazioni di sottocopertura da parte di ufficiali di polizia giudiziaria nell’ambito del riciclaggio e della ricettazione di armi, art. 12-quater l. n. 356/1992. Un cenno va anche fatto alla direttiva CEE 10 giugno 1991 n. 308, relativa alla ‘‘prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite’’ (22). La direttiva, a cui gli Stati membri sono stati chiamati a conformarsi entro il 1o gennaio 1993, rappresenta il primo intervento in materia, a livello di Comunità europea (23). Quattro sembrano i punti qualificanti la direttiva. Innanzitutto, unitamente alla definizione della fattispecie di riciclaggio viene stabilito l’obbligo per gli Stati membri di sanzionare tale fattispecie. Viene, quindi, previsto l’obbligo di identificazione degli autori di movimentazioni finanziarie e di registrazione delle operazioni. È stabilito, inoltre, l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette e di collaborazione, da parte delle banche e degli intermediari finanziari, con le autorità inquirenti. Per gli enti creditizi e finanziari, infine, è disposto l’obbligo di predisporre adeguati procedimenti di controllo, orientati alla prevenzione ed all’impedimento di operazioni connesse a fatti di riciclaggio. È appena il caso di sottolineare che la legislazione italiana, alla scadenza del 1o gennaio 1993, aveva adempiuto alle indicazioni della direttiva CEE. Dalla nostra, necessariamente schematica, rassegna delle principali (22) Sulla direttiva CEE n. 308/1991 cfr. BARBIERA-CONTENTO, Lotta al riciclaggio del denaro sporco, cit., p. 412 s.; LOMBARDINI, Lotta contro il riciclaggio: la direttiva europea del 10 giugno 1991 e l’esperienza svizzera, in Cass. pen. 1993, 2681 s. (23) La direttiva CEE si inserisce in una notevole attività di concertazione internazionale iniziata con la raccomandazione del 27 giugno 1980 del Consiglio d’Europa, proseguita con la Dichiarazione dei Principi di Basilea del 1988, la Convenzione delle Nazioni Unite tenutasi a Vienna il 19 dicembre 1988 sulla prevenzione del traffico di stupefacenti e la costituzione, nel luglio del 1989, del Gruppo di Azione Finanziaria (GAFI) sul riciclaggio di denaro, fino alla Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, dell’8 novembre 1990, ratificata in Italia con l. n. 328/1993.


— 738 — disposizioni in materia di riciclaggio, emerge, al di là del notevole impegno legislativo (24), un quadro non proprio confortante sul complesso normativo che è andato via via stratificandosi. Si tratta, a nostro avviso, di una normativa che non ha avuto gli esiti applicativi sperati, come può desumersi dalla modesta, sotto il profilo quantitativo, giurisprudenza disponibile (25). Gli aspetti problematici della legislazione antiriciclaggio sono molteplici e riguardano, in via di prima approssimazione, l’estrema frammentazione della normativa, che ha conosciuto in un periodo di tempo non lungo una cospicua attività legislativa, con provvedimenti non sempre ben coordinati, che sembrano espressione di una logica di tipo emergenziale e non di un razionale e meditato indirizzo di politica criminale (26). Si tratta, quindi, di definire con chiarezza ambito ed oggetto della tutela penale. Da quest’ordine di problemi discendono, in stretta connessione, problemi di tipo sistematico e dommatico-interpretativo, che, tra l’altro, hanno notevoli riflessi sul piano dell’efficienza. Questa, infatti, dipende dal dato di una normativa caratterizzata da determinatezza, linearità, ragionevolezza, oltre che dalla chiara destinazione alla tutela di beni significativi, ma anche da un’organizzazione delle fattispecie che si concreti in un sottosistema coerente nelle sue articolazioni ed in armonia con altri settori del sistema. Ed anche da questo punto di vista la vigente disciplina in materia di riciclaggio non appare particolarmente felice. 3. La soluzione dei problemi di tipo sistematico e dommatico-interpretativo presuppone che siano chiarite questioni di definizione dell’oggetto della tutela a cui il complesso delle disposizioni deve poter, con coerenza, fare affidabile riferimento. La normativa posta per contrastare i fenomeni di riciclaggio e di impiego di danaro di provenienza illecita, pur risultando collegata a fattispecie sicuramente caratterizzate da plurioffensività, può essere, a nostro avviso, proficuamente ricondotta, sotto il profilo sistematico, all’ambito della tutela del patrimonio. Sempre che di quest’ultimo voglia accogliersi

(24) Per un quadro completo della legislazione in materia cfr. AMMIRATI, Il delitto di riciclaggio nel sistema bancario e finanziario interno e internazionale, Padova 1994, Appendice legislativa, p. 89 ss. (25) Dal 1978 ad oggi in materia di riciclaggio ex art. 648-bis sono state pubblicate, per la prima versione della norma, nove sentenze; dopo la modifica intervenuta con la l. n. 55/1990, due sentenze. Non risultano, come già si è accennato, decisioni relative all’art. 648-ter, né per quel che concerne la versione del 1990 né per quella del 1993. (26) Cfr. sul tema STORTONI, Criminalità organizzata e legislazione di emergenza, in Dei delitti e delle pene 1992, 3, 39 ss.


— 739 — una concezione dinamica, che appare la più adeguata alle esigenze di tutela di un ordinamento espressivo del moderno stato sociale di diritto (27). Certamente le condotte di riciclaggio ostacolano una corretta amministrazione della giustizia, come, del resto, è pacifico per i tipi fondamentali di riferimento (28) dati dalla ricettazione e dal favoreggiamento reale; così come possono, tali condotte, turbare lo stesso ordine economico. Va posto, invero, nel debito rilievo il fatto che esse sono in grado di pregiudicare, tra l’altro, la libera concorrenza (29), dal momento che la possibilità di disporre ed impiegare quantità anche enormi di risorse, ottenute a costi di gran lunga inferiori dei capitali lecitamente acquisiti, apre la strada addirittura ad un controllo monopolistico del mercato. Ma, a ben vedere, l’ordine economico, più che un bene giuridico, sembra rappresentare una ratio di tutela, una serie di finalità per il raggiungimento delle quali si tutelano beni giuridici; o, meglio, si proibiscono condotte che turbano, fino ad impedirle, le corrette manifestazioni di personalità dei titolari di taluni beni, connesse alle specifiche qualità dei beni giuridici visti in funzione. D’altronde, ad oggetto della tutela penale, per evidenti ragioni di garanzia e di funzionalità del controllo, possono assurgere soltanto beni giuridici e non mere finalità, se non si vuole correre il rischio di sostituire alla tutela di vittime la tutela di funzioni (30). In effetti, l’ordine economico, nell’attuale contesto socio-ordinamentale, rappresenta la finalità, basilare senza dubbio, della creazione dei presupposti necessari per un razionale e legittimo svolgimento della vita dei traffici: il corretto funzionamento del sistema economico. Qualcosa di simile, in realtà, sul piano strutturale, all’ordine pubblico ideale (31); ma, al pari di quest’ultimo, tale concetto non può essere ridotto ad oggetto di tutela. Infatti, visto in questi termini, esso appare concettualmente inafferrabile, i suoi limiti sfuggono ad una chiara delimitazione: si tratta, invero, di una ratio di tutela e non di un bene. L’adozione di rationes come oggetti di tutela penale comporta il grave inconveniente di consentire un avanzamento della tutela fino a forme esasperate di anticipazione, oltre la soglia di tollerabilità per un diritto penale del fatto. In concreto, nella migliore delle ipotesi si vengono a (27) Sul punto sia consentito il rinvio al nostro Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova 1988, p. 47 ss. (28) V. infra, 17 ss. (29) Così FLICK, Le risposte nazionali al riciclaggio di capitali, cit., 1290; ID., Intermediazione finanziaria, informazione e lotta al riciclaggio, cit., 450. (30) Cfr. sull’argomento HASSEMER, Il bene giuridico nel rapporto di tensione tra Costituzione e diritto materiale, in Dei delitti e delle pene 1984, 108 ss. (31) In proposito si consenta rinviare al nostro Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista 1995.


— 740 — confondere prospettive di danno con prospettive di pericolo, con gravi rischi per le garanzie individuali, in quanto la lesione del ‘‘bene-ratio’’, può equivalere ad una messa in pericolo soltanto remoto del bene finale in questione. Ed anche in questo delicato settore che stiamo esaminando, dovrà valere la regola secondo cui, se si ritiene opportuno anticipare di molto la soglia della tutela, si dovrà ricorrere a schemi extrapenali d’intervento, di tipo disciplinare, civilistico e/o amministrativo, a seconda dei casi, riservando al diritto penale il controllo della lesione e della messa in pericolo concreto del bene. Altre caratteristiche delle condotte riferibili, in particolare, alle norme di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. rendono pienamente adeguato, sotto il profilo sistematico, il loro inserimento nell’ambito dei fatti contro il patrimonio. Non è qui in gioco, ripetiamo, una questione puramente ‘estetica’, in quanto la coerenza sistematica è un valore che non ha rilievo soltanto sul piano dell’epistemologia, bensì comporta notevoli incidenze di tipo politico-criminale, relativamente alla tutela delle garanzie individuali ed all’efficienza delle istanze di controllo sociale. È possibile, infatti, cogliere nelle condotte in esame, da un lato, la perpetuazione di una situazione antigiuridica sotto il profilo patrimoniale (32), perché tali condotte — riferibili, come già si è accennato, ai tipi fondamentali del favoreggiamento reale o della ricettazione — mirano a garantire, quanto meno, un’accurata difesa, se non un incremento dei risultati economici di attività criminali. D’altro canto, risorse, anche molto ingenti, accumulate a costi particolarmente bassi, consentono una capacità di manovra molto più agevole rispetto a chi si serve di capitali lecitamente accumulati, deprimendone le capacità concorrenziali. Queste caratteristiche tradiscono, in un certo senso, la natura patrimoniale dell’offesa, una volta che si sia abbandonata una obsoleta concezione di patrimonio. Infatti, al di là del pur significativo aspetto della perpetuazione della situazione antigiuridica, che già di per sé giustificherebbe la collocazione della norma nell’ambito della materia patrimoniale, è il pregiudizio alla libera iniziativa che ha un’evidente e pregnante dimensione economico-patrimoniale. Attraverso la concorrenza sleale, invero, è proprio la potenzialità economica di un soggetto che viene concretamente diminuita, se non, in casi estremi, distrutta. Un’accezione moderna di patrimonio può, dunque, fornire un affidabile oggetto giuridico categoriale in questo settore, relativo alla tutela del libero mercato e della trasparenza. (32) Per un’utilizzazione del criterio della ‘perpetuazione di una situazione antigiuridica’ quale categoria sistematica nella disciplina, de lege ferenda, dei fatti contro il patrimonio, cfr. il nostro Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., pp. 134-135.


— 741 — La funzionalità, di principio, del bene giuridico alla realizzazione di esigenze di tutela di libertà e personalità dell’individuo, nel quadro del rispetto di esigenze superindividuali, orienta la ricostruzione del bene patrimonio nel senso di un’accentuazione della componente personale. Ciò significa che il bene non va considerato nella sua posizione statica, quanto, piuttosto, nel suo rapporto, in termini di interesse, con la persona. Più specificamente, il bene va visto in una prospettiva di funzionalità alla finalità basilare di sviluppo della personalità (33). Il concetto di fondo consiste nell’individuazione, tra gli obiettivi del diritto penale, del compito di garantire al soggetto la possibilità di esprimere la personalità nella società. Per raggiungere tale obiettivo, è indispensabile assicurare all’individuo anche uno spazio di azione in un ambito, lato sensu, economico (34). Il patrimonio diviene, allora, il complesso dei beni materiali ed immateriali, e dei rapporti, utili ai fini dello sviluppo della persona, che presentino un contenuto economico: la potenzialità economica del soggetto, che si basa sul suo potere di signoria su beni e rapporti, ai quali la società riconosce valore economico di scambio (35), ed esige un campo d’azione garantito dal rispetto delle regole in un quadro di legalità. Il patrimonio appare, dunque, come una unità strutturata secondo le finalità della persona e la sua tutela non mira tanto ad assicurare l’integrità di un astratto valore in danaro, ma a difendere il bene nella sua conformazione individualizzata contro ingiustificate aggressioni o diminuzioni ed a consentire una corretta esplicazione delle singole potenzialità. Di conseguenza, l’offesa patrimoniale coincide con ogni limitazione della potenzialità economica del soggetto, che si verifica ogni qual volta vi sia un ostacolo, contra jus, o una deviazione del potere di disposizione del soggetto sui mezzi economici, con pregiudizio degli obiettivi perseguiti dal titolare. La concezione personale fa emergere rinnovate esigenze di tutela. Essa evidenzia, infatti, una struttura di portata sicuramente più ampia rispetto alle concezioni tradizionali, nell’ambito delle quali tale bene giuridico era considerato come la mera somma di diritti o di valori esclusivamente obiettivo-economici (36). Ciò ha determinato un mutamento nelle esigenze di tutela, che può spingere anche in una direzione opposta a (33) Cfr. M. MARX, Zur Definition des Begriffs ‘‘Rechtsgut’’. Prolegomena einer materialen Verbrechenslehre, Köln 1972, p. 62 ss., e, più recentemente, HASSEMER, Grundlinien einer personalen Rechtsgutslehre, in AA.VV., Jenseits des Funktionalismus. Arthur Kaufmann zum 65. Geburtstag, a cura di H. SCHOLLER e L. PHILIPPS, Heidelberg 1989, p. 94 ss. (34) Cfr. PHILIPPS, Die verschiedenen Aspekte des Rechtsgutsbegriffs, in Festschrift für R. M. Honig, Göttingen 1970, p. 164. (35) Sul punto v. il nostro Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 62 ss. (36) Cfr. OTTO, Die Struktur des strafrechtlichen Vermögensschutzes, Berlin 1970, p. 62 ss.


— 742 — quella della contrazione dell’intervento penale, tipica di una politica criminale orientata ai valori dello stato sociale di diritto. I concetti di proprietà e di patrimonio, com’è noto, hanno subito una notevole evoluzione, se rapportati alle corrispondenti idee di riferimento sulle quali il legislatore del 1930 costruì il sistema dei reati contro il patrimonio. Ad una società fondamentalmente agricola ed artigianale non poteva non corrispondere un assetto normativo dei reati contro il patrimonio che avesse prevalentemente il compito di tenere distinte nettamente e, quindi, tutelare, masse patrimoniali statiche, privilegiando la mera proprietà di cose. L’attuale sviluppo socio-economico ha reso evidenti i limiti di questa prospettiva, incapace di offrire un’adeguata risposta nei confronti di nuove manifestazioni criminali, tipiche di una società post-industriale. È apparsa, allora, indispensabile, tra l’altro, una maggiore attenzione nei confronti della capacità di produzione di reddito rispetto alla mera proprietà di cose (37). Pertanto, se si considera il patrimonio in termini personali, come unità strutturata secondo le esigenze del titolare e funzionale alla legittima realizzazione delle finalità che questi si propone, tale concetto può essere proficuamente utilizzato in relazione a fatti che alterano le condizioni per l’esercizio di funzioni di creazione e di intermediazione della ricchezza, non consentendo l’equilibrio del mercato e, quindi, turbano il regolare svolgimento dei rapporti economici. Il danno, in questi casi, può essere, realisticamente, visto nel fatto di recare pregiudizio, frapponendo ostacoli illeciti, all’esercizio della funzione economica; così come si verifica, con danni anche macroscopici, ma non qualitativamente diversi, in seguito a condotte di riciclaggio. E ciò impone, oltre alla previsione di norme di mera repressione di tipo codicistico, anche la predisposizione di un articolato reticolo normativo, razionalmente organizzato, non necessariamente affidata, nella sua integralità, al diritto penale, al fine di consentire un’efficace azione di tutela anticipata. 4. Come si accennava in precedenza, dall’assetto della normativa vigente derivano non poche questioni attinenti alla definizione dell’ambito applicativo delle varie fattispecie. Va subito detto che l’adozione di una tecnica di normazione piuttosto approssimativa ha dato vita ad un quadro normativo in cui sono presenti i rischi di disfunzionali sovrapposizioni di norme, con possibilità di poco ragionevoli ipotesi di concorso di norme e di reati, legate alla presenza, ma, come vedremo, anche all’assenza di talune clausole di riserva. (37) Come già da lungo tempo è stato posto in risalto, cfr. SCHELSKY, Die Bedeutung des Berufes in der modernen Gesellschaft, in Unser Verhältnis zur Arbeit, Stuttgart 1960, p. 33 ss.; LAMPE, Rechtsanthropologie, vol. I, Berlin 1970, p. 271 ss.


— 743 — Le norme a cui facciamo riferimento sono date, da una parte, dall’art. 379 c.p., che disciplina il favoreggiamento reale, nonché dall’art. 648 c.p., relativo alla ricettazione, e, dall’altra, dalle due norme relative a riciclaggio e ad impiego di capitali illeciti, artt. 648-bis e 648-ter c.p. (38). Sul piano fenomenologico le ipotesi di riciclaggio e di impiego di capitali illeciti rappresentano delle ipotesi speciali di favoreggiamento reale e di ricettazione, a seconda che sia presente o meno il fine di trarre profitto dall’attività di obiettivo ausilio all’autore del reato presupposto. Il rapporto di specialità era ancora più evidente in relazione alle figure di riciclaggio, via via sostituite: infatti, sia l’ipotesi introdotta nel 1978 che quelle derivanti dalla riforma del 1990, presentavano la caratteristica del collegamento a reati presupposto ‘nominati’; l’ipotesi originaria di riciclaggio, inoltre, si caratterizzava per l’accentuato avanzamento della tutela, trattandosi di un reato a consumazione anticipata. A ciò si aggiunga che, rispetto alla ricettazione, le fattispecie di riciclaggio presentano la caratteristica del reingresso dei proventi del reato presupposto nel patrimonio dell’autore di quest’ultimo, laddove il fatto di ricettazione si caratterizza proprio per la fuoriuscita dei beni, derivanti dal reato presupposto, dal patrimonio dell’autore. Con la riforma del 1993, che ha esteso a qualsiasi delitto il collegamento, in veste di presupposto, con le fattispecie di riciclaggio, la specialità consiste esclusivamente nel fatto che, tra le possibili modalità di favoreggiamento o di ricettazione, ne sono state espressamente previste alcune che, per essere espressive di particolare disvalore sociale, in ordine alla tipologia dei soggetti che ad esse normalmente ricorrono ed in ordine alle ingenti quantità monetarie che vengono movimentate, sono state previste in forma autonoma e più severamente sanzionate. È possibile, dunque, ipotizzare per le condotte di riciclaggio il requisito minimo dell’aiuto all’autore del reato presupposto, tramite la ricezione dei proventi illeciti, comune a talune condotte riferibili alla fattispecie di favoreggiamento reale, di cui all’art. 379 c.p. Se la ricezione si verifica per il fine di trarre profitto da tale attività, si realizza un fatto rapportabile al tipo della ricettazione, di cui all’art. 648 c.p. Man mano che la ricezione si arricchisce di elementi ulteriori, sotto il profilo delle modalità e delle finalità dell’azione, ci avviciniamo alle condotte di riciclaggio e di impiego di capitali illeciti, di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. Infatti, se dopo la ricezione ci si attiva per sostituire od occultare denaro, beni o altre utilità provenienti da delitti, si compie l’ipo(38) Sui problemi interpretativi connessi a tali norme, sia pur nella versione del 1990, si vedano le osservazioni, non convergenti, rispettivamente di COLOMBO, Il riciclaggio, cit., p. 123 ss.; e di G. PECORELLA, Circolazione del danaro e riciclaggio, cit., 1237 ss. Sul tema cfr. anche AZZALI, Diritto penale dell’offesa e riciclaggio, in questa Rivista 1993, 331 ss.


— 744 — tesi di riciclaggio, di cui all’art. 648-bis c.p.; se, invece, i proventi delittuosi li si impiega in attività economiche o finanziarie, si realizza la fattispecie di impiego di denaro, beni ed altre utilità di provenienza illecita, di cui all’art. 648-ter c.p. Sul piano della concreta applicazione della disciplina vigente, le cose, però, non stanno nei termini descritti. Ed infatti, mentre la norma sul favoreggiamento reale, molto opportunamente, contiene una clausola di riserva a favore delle norme su ricettazione, riciclaggio ed impiego di capitali illeciti, art. 379 primo comma, prima proposizione, c.p.; la disposizione sulla ricettazione, art. 648 c.p., non ne contiene alcuna, né a favore di quella sul riciclaggio, né di quella sull’impiego di capitali illeciti. Anzi, le cose si complicano, in quanto quest’ultima norma, l’art. 648-ter primo comma, prima proposizione, c.p., contiene, a sua volta, una strana clausola di esclusione, che fa prevalere le disposizioni di cui agli artt. 648 e 648-bis c.p., nei confronti delle proprie disposizioni. In base a questo ingarbugliato quadro normativo, all’atto pratico, per una stessa condotta, implicita alle fattispecie di riciclaggio — la ricezione di danaro etc. — dovrebbe risultare la non punibilità, per il favoreggiamento, in base alla clausola contenuta nell’art. 379 c.p., se essa non si è verificata a scopo di profitto; viceversa, in mancanza della clausola di riserva all’interno della norma sulla ricettazione, la condotta di ricezione, se accompagnata dalla finalità di trarre profitto, risulterà punibile a titolo di ricettazione e, a seconda dei casi, in concorso, anche a titolo di riciclaggio. E ciò non sembra molto ragionevole (39). Per quel che concerne, poi, le norme di cui all’art. 648-ter c.p., al di là di forzature interpretative, sicuramente mosse dal lodevole intento di aprire un qualche minimo spazio di operatività alla disposizione (40), la lettera della norma rende configurabile la fattispecie di impiego di capitali illeciti soltanto ‘‘fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648-bis c.p.’’. Pertanto, la realtà è data dal fatto che, rispetto alla fattispecie di cui all’art. 648-ter c.p., sono destinate sempre a prevalere sia la ricettazione che il riciclaggio: infatti, ai fini dell’impiego di capitali illeciti, a parte una poco probabile ricezione di danaro, non ancora riciclato, senza finalità di profitto (41) — in questo caso, in virtù della clausola contenuta nell’art. 379 c.p., si avrebbe la naturale prevalenza delle disposizioni dell’art. 648-ter c.p. — nel caso, normale, in cui sia presente la finalità di profitto, si dovrebbe applicare l’art. 648 c.p., che (39) Cfr. in proposito G. PECORELLA, Circolazione del denaro e riciclaggio, cit., 1238. (40) Cfr. sul punto FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Bologna 1992, pp. 193 ss. (41) Cfr. SPAGNOLO, Breve commento alle ‘‘Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale’’ (l. n. 35/1990), in Riv. trim. dir. pen. econ. 1990, 704.


— 745 — prevede sanzioni meno severe di quelle previste dall’art. 648-ter c.p. Se, invece, la condotta precedente è di riciclaggio — qui non importa più se a fine di profitto o meno, data l’autonomia dell’art. 648-bis c.p. — si applicherebbe, comunque, quest’ultima norma, che, se sul piano delle sanzioni presenta il medesimo rigore della norma sull’impiego di capitali illeciti, in ogni caso, a causa della sua ingiustificata prevalenza, ne restringe l’ambito di applicabilità, accentuandone il carattere meramente simbolico. Una razionalizzazione di questo quadro normativo imporrebbe una migliore coordinazione delle varie fattispecie. Va subito detto che questo passo non ci sembra affatto decisivo ai fini di un superamento di quel carattere di ‘simbolicità’ che contrassegna tale settore: verosimilmente, è su altri tavoli che si gioca la partita decisiva dell’effettività. Sta, comunque, di fatto che una normativa così farraginosa e contraddittoria ha ben poche speranze di incidere nella realtà effettuale. E queste considerazioni valgono anche, e forse ancor più, per quel che concerne la normativa antiriciclaggio che abbiamo definito di tipo ‘preventivo’, attinente, cioè, al controllo dei flussi finanziari: in rapporto ad essa pure si dovrà procedere ad un’opera di semplificazione e di razionalizzazione. Riprendendo il discorso sulla disciplina codicistica, a noi sembra che, in una prospettiva de lege ferenda, le fattispecie qui considerate, inclusa, quindi, quella relativa al favoreggiamento reale, andrebbero sistemate — unitamente a quella di incauto acquisto — nell’ambito di un titolo dedicato ai reati contro il patrimonio, all’interno di un capo che contenga ipotesi di perpetuazione di una situazione antigiuridica (42), sia nel senso dell’aggravamento del danno per il titolare del bene oggetto del reato presupposto, che nel senso del vantaggio patrimoniale illecito, ulteriore rispetto a quello già derivante dalla commissione del reato presupposto. Queste peculiarità, pur in presenza di una più o meno accentuata plurioffensività delle fattispecie considerate, rendono più appropriata la loro collocazione nella sede dei fatti contro il patrimonio. Utilizzando la figura della progressione criminosa — a cui far corrispondere una progressione anche nel rigore del regime sanzionatorio —, si potrebbe ipotizzare questo schema di disciplina: a) la condotta di semplice aiuto per assicurare il profitto o il prezzo del reato, senza altra specificazione modale, integra l’ipotesi del favoreggiamento reale; così come attualmente prevede l’art. 379 c.p., la disposizione dovrebbe contenere una clausola di esclusione a favore delle ipotesi ora disciplinate dagli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p.; b) la condotta di ricezione del danaro e delle cose provenienti da delitto, accompagnata dalla finalità di trarne profitto, con conseguente arricchimento del soggetto agente ed incentivazione alla (42) Così anche MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Padova 1989, p. 12.


— 746 — commissione di ulteriori reati presupposto, dà vita alla figura della ricettazione; anche per questa ipotesi la disciplina dovrebbe prevedere una clausola di riserva, relativa alle ipotesi di riciclaggio e di impiego di capitali illeciti; c) la condotta di chi, avendo ricevuto danaro o altra utilità di provenienza delittuosa, con o senza fine di profitto, proceda alla loro sostituzione o trasferimento, ovvero ne ostacoli l’identificazione, in vista, comunque, di un ritorno di tali beni ‘ripuliti’ all’autore del reato presupposto, realizza l’ipotesi di riciclaggio; anche in questo caso dovrebbe essere prevista una clausola di riserva a favore dell’impiego di capitali illeciti; d) infine, la condotta, successiva, dell’impiego di danaro, beni o utilità di provenienza illecita, che, più dello stesso riciclaggio, si connota di effetti di particolare gravità sotto il profilo della dannosità sociale, parte pur sempre dalla ricezione dei beni; questa, tuttavia, perde la caratteristica della centralità, per essere assorbita nella complessità delle modalità ulteriori di realizzazione della fattispecie, che conferiscono un notevole grado di disvalore al fatto. Questa figura si porrebbe all’apice della progressione: rispetto alla disposizione attualmente in vigore, la norma dovrebbe caratterizzarsi per la previsione di un trattamento sanzionatorio più severo di quello disposto per tutte le altre ipotesi di reato sin qui considerate, compreso, quindi, il riciclaggio; essa non dovrebbe contenere alcuna clausola di riserva a favore di altre figure — così, invece, si verifica ora secondo la disciplina di cui all’art. 648-ter c.p. —, tranne, ovviamente, quella relativa all’ipotesi di concorso nel reato. 5. Non proprio soddisfacente, come già si è accennato, appare anche lo stato della normativa che si occupa dell’aspetto ‘preventivo’ del riciclaggio. In effetti, la materia della limitazione e del controllo della circolazione del danaro è stata oggetto di una attività legislativa, a dir poco, caotica; tra leggi che si sono susseguite a ritmi serrati ed una non meno serrata attività di decretazione, con mancate conversioni o reiterazioni (43), il complesso delle disposizioni non presenta affidabili caratteristiche di equilibrio: l’approssimativa tecnica di normazione adottata crea non pochi problemi, a cominciare da quelli di ordine interpretativo. Per condotte di non dissimile disvalore si è proceduto talvolta utilizzando l’illecito amministrativo, art. 5 primo, secondo, terzo e settimo comma l. n. 197/1991, talaltra l’illecito penale, sempre di tipo bagattellare, art. 5 quarto, quinto e sesto comma l. n. 197/1991; è noto che esi(43) Si pensi, ad esempio, alla l. n. 197/1991 che ha convertito, con modifiche, il d.l. n. 143/1991, a sua volta preceduto dai dd.ll. n. 2/1991 e 72/1991, ovvero alla l. 8 agosto 1994 n. 501, che ha convertito in legge il d.l. n. 399/1994 al termine di un iter di mancata conversione dei dd.ll. n. 123 e n. 246/1994, successivi alla sentenza della C. cost. n. 48/1994.


— 747 — genze di ragionevolezza e funzionalità della normativa impongono, per ogni settore, una disciplina equilibrata, armonica, sempre rispettosa delle regole di proporzione. Ma è sotto il profilo della chiarezza, dell’agevole utilizzabilità dello strumentario normativo, che la situazione è, forse, ancora peggiore: le disposizioni risultano disperse in una nutrita serie di provvedimenti legislativi, sovente più volte modificati o integrati da successivi provvedimenti. A noi sembra, tuttavia, che la normativa italiana abbia individuato una serie di obblighi finalizzati all’efficienza del controllo, che, in via teorica, rappresentano delle soluzioni abbastanza affidabili sotto il profilo della predisposizione di misure di tipo organizzativo-amministrativo tendenti ad assicurare la trasparenza delle attività economiche e finanziarie, da presidiare in via tendenzialmente extrapenale. Infatti, dei vari, molteplici obblighi posti nel corso del tempo in capo ad operatori in materia di raccolta o gestione dell’informazione finanziaria, il solo obbligo di segnalazione di operazioni ‘sospette’ potrebbe costituire, proficuamente, oggetto di una disposizione penale, costruendo intorno alla sua violazione anche una fattispecie da inserire nel codice penale, con una norma di chiusura della disciplina codicistica antiriciclaggio. Si dovrebbe, quindi, ipotizzare, da un lato, una posizione di garanzia, da parte dell’operatore bancario e dell’intermediario finanziario, fondata su particolari requisiti di professionalità ed onorabilità; ma ciò esigerebbe anche un’opera attiva di vigilanza da parte della pubblica autorità, che va oltre la mera istituzione dell’elenco degli intermediari finanziari. D’altro canto, appare altrettanto indispensabile la predisposizione, da parte del sistema bancario e finanziario, di una serie di prescrizioni ben determinate a cui si dovrebbe far riferimento per poter, affidabilmente, riconoscere le operazioni da segnalare: il che non significa la certezza della provenienza illecita, ma il fondato sospetto su di essa. Viene qui in evidenza lo schema del reato d’obbligo (44), fondato, com’è noto, sulle prestazioni connesse al ruolo sociale assunto dal soggetto. Si tratta della funzionalità di settori della vita di relazione che hanno, o necessitano, di una configurazione giuridica. Dal punto di vista del diritto penale, il problema maggiore delle fattispecie d’obbligo riguarda il profilo della legalità, e cioè la determinazione tassativa dei doveri fissati per gli interessati al di fuori della normativa penale. Se tale determinazione è praticabile e si verifica nella normativa ove vengono espressamente disciplinati gli obblighi, il principio di legalità risulterà rispettato e, sotto il profilo dell’efficienza, il soggetto sarà posto nella condizione di adempiere agevolmente ai propri uffici. (44) Cfr. ROXIN, Täterschaft und Tatherrschaft (1963), 4a ed., Berlin-New York 1984, p. 352 ss.; ID., Politica criminale e sistema del diritto penale (1970), trad. it. Napoli 1986, p. 42 ss.


— 748 — Si tratta, dunque, di predisporre una razionale e precisa normativa extrapenale (45), di rinvio e, contestualmente, di responsabilizzare i soggetti, intranei al sistema bancario e finanziario, nella gestione delle informazioni, trattandosi di un settore in cui costoro, probabilmente, sono in grado di percepire l’illiceità di una situazione più tempestivamente e più chiaramente di quanto non possano le stesse ‘‘agenzie’’ (46) istituzionalmente deputate al controllo: polizia ed organi giudiziari. Ciò significa che, al di fuori dell’attività di segnalazione, le altre, di identificazione, registrazione, rilevazione, archiviazione informatica e così via, tutte di indubbia significatività per il controllo delle transazioni e, quindi, per finalità di trasparenza, dovrebbero, in via di principio, essere affidate ad istanze di controllo interne al sistema bancario e finanziario, ovvero fare riferimento allo schema illecito-sanzione amministrativa. Sicuramente il controllo extrapenale presenta vantaggi di non poco momento dal punto di vista dell’efficienza, in quanto, da un lato, eviterebbe l’attivazione di strumenti di estremo rigore, ma di efficacia reale attenuata, dato il numero enorme di soggetti e condotte da prendere in considerazione, e, dall’altro, si inserirebbe in un contesto di organizzazione del lavoro, che può conoscere anche sanzioni temibili (47), senza dover costringere, nel caso di infrazioni, ad una poco probabile attivazione dell’intervento penale, comunque sempre problematica, nei confronti di un soggetto del quale si è, in ultima analisi, collega. Anche in questo settore, dunque, va sperimentata una politica criminale razionale, tendente alla riduzione delle fattispecie e non alla loro mera proliferazione — secondo logiche emergenziali — avendo a cuore la loro effettività. Il rischio è quello, consueto, del velleitarismo della lotta solo ‘simbolica’. A queste, sin qui svolte, vanno aggiunte ulteriori considerazioni, che trascendono l’aspetto, pur estremamente significativo, della disciplina del diritto interno, per riguardare l’aspetto, che a noi sembra decisivo, della cooperazione internazionale in materia (48). Se, infatti, è indubbio che il controllo sulla circolazione del danaro e, più in generale, la trasparenza delle attività economiche e finanziarie rappresentano il rimedio più efficace contro il riciclaggio, è altrettanto indubbio che un’attività di controllo capillare, effettuata all’interno di un solo paese, finirebbe con lo (45) Cfr. in proposito le lucide considerazioni svolte da COLOMBO, Il riciclaggio, cit., p. 3 ss. (46) Sul concetto di agenzia nel senso di struttura logistico-organizzativa cfr. ZAFFARONI, Alla ricerca delle pene perdute (1989), trad. it. Napoli 1994, p. 94 ss. (47) Sul tema ci sia consentito il rinvio al nostro Giustizia aziendale e stato sociale di diritto: prospettive di politica criminale, in questa Rivista 1986, 230 ss. (48) Sul tema, per tutti, cfr. GROSSO, Frode fiscale e riciclaggio: nodi centrali di politica criminale nella prospettiva comunitaria, in questa Rivista 1992, 1277 ss.


— 749 — scoraggiare, pure per ragioni di controllo fiscale, tutti gli operatori, anche quelli corretti, quindi, e non solo i riciclatori, a favore di altri paesi che offrissero servizi meno burocratizzati, di conseguenza più efficienti e, in definitiva, meno costosi. Appare chiaro, allora, che un’azione di tipo preventivo contro il riciclaggio ha un senso soltanto se è espressione di un’effettiva concertazione internazionale; in questa direzione, sia pur per un ambito che va necessariamente ampliato, principalmente con la Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990 e con la direttiva CEE 10 giugno 1991 n. 308, si è cominciato a ben operare. Va da sé che quanto maggiore sia il numero dei paesi che adottino questo tipo di provvedimenti e, soprattutto, realmente cooperino sul piano dell’assistenza giudiziaria, tanto maggiori saranno le possibilità di combattere con successo le attività di riciclaggio e, quindi, la stessa criminalità organizzata. SERGIO MOCCIA Straordinario di Diritto penale nell’Università di Salerno


IN TEMA DI CRIMINALITÀ INFORMATICA: L’ART. 4 DELLA LEGGE 23 DICEMBRE 1993, N. 547

Dopo l’art. 615-bis c.p. (Interferenze illecite nella vita privata), l’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547 (Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica) ha inserito l’art. 615-ter (Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico), l’art. 615-quater (Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici) e l’art. 615-quinquies (Diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico). Le disposizioni che si trovano raggruppate nella sezione IV (Dei delitti contro la inviolabilità del domicilio) del capo III del titolo XII del libro II del codice penale sono, dunque, diventate sei e, cioè, il triplo di quelle originariamente previste dal codificatore e il cento per cento in più di quelle che la medesima sezione annoverava dal momento in cui, con la legge 8 aprile 1974, n. 98 (Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni), venne aggiunto l’art. 615-bis (Interferenze illecite nella vita privata). L’osservazione non appaia banale, né si consideri inutile superfetazione la pedissequa sequenza di intitolazioni innanzi riportata: si tratta di espedienti per una immediata ed efficace percezione delle considerazioni dalle quali questo scritto ha preso le mosse. Si dovrebbe poter dire a questo punto — ancor più di quanto si fece al tempo dell’inserimento dell’art. 615-bis — che, con la citata novella del 1993, si è ulteriormente perfezionata una difesa penale che le insidie portate con i sempre più sofisticati strumenti, forniti dal progresso tecnologico, rendono estremamente vulnerabile (1). Gli articoli del codice penale, ricompresi tra il 614 e il 615-quinquies, avrebbero tutti, cioè, il medesimo oggetto primario di tutela: ma, se ad una conclusione analoga si pervenne agevolmente in occasione del primo ampliamento della classe di reati in discorso, non possono non sorgere perplessità di rilievo da quando in essa compaiono i reati di accesso abusivo ad un sistema informatico o telema(1) In proposito e per ogni altro successivo richiamo agli artt. 614, 615 e 615-bis c.p., ci permettiamo di rinviare alla nostra voce Domicilio, IV) Delitti contro la inviolabilità del domicilio, in Enc. giur. Treccani, vol. XII.


— 751 — tico, di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici e di diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico. L’art. 614 c.p. individua paradigmaticamente i luoghi (l’‘‘abitazione’’, ogni ‘‘altro luogo di privata dimora’’ e le ‘‘appartenenze di essi’’) entro i quali si estende la difesa di quel particolare aspetto della libertà individuale a cui si riferisce la sezione in discorso del codice penale. Viene così designato il triplice contenuto della sfera spaziale che agli effetti della legge penale dovrebbe qualificarsi domicilio, nozione che in tal modo presenta profonde diversità qualitative e quantitative rispetto alle corrispondenti definizioni enucleabili in altri settori dell’ordinamento. D’altro canto, l’autonomia e la specificità di questa particolare configurazione del domicilio sono perfettamente in linea con la tendenza del nostro ordinamento giuridico, nel quale — come da tempo si è osservato — non è riscontrabile una definizione unitaria di domicilio, ma una molteplicità di nozioni, ciascuna delle quali si è formata in funzione delle esigenze e delle finalità peculiari di un diverso settore normativo. Comune ad ognuna, tuttavia, è la struttura tipica binaria: elemento materiale, concernente l’estensione della sfera spaziale ricompresa nella singola disciplina di un rapporto personale di luogo, e elemento teleologico, avendo il domicilio, come ogni altra relazione di luogo, valore di necessaria strumentalità, sicché le stesse si colorano di connotazioni e significati precipui e diversi in strettissima correlazione con le finalità perseguite dalle norme che ad esse si richiamano. Sta di fatto che le indicazioni di carattere spaziale, alle quali l’art. 614 c.p. fa riferimento allorché determina i luoghi comprensivamente indicati in rubrica con il termine ‘‘domicilio’’, vengono espressamente richiamate soltanto dai successivi artt. 615 e 615-bis, laddove nulla è detto e, forse, nulla si sarebbe potuto dire al riguardo nel contesto delle ulteriori disposizioni introdotte dal cit. art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547. Ne discende inevitabilmente la necessità di verificare: a) se la nozione di domicilio richiamata nel titolo di sezione possa continuare a coincidere con quella enucleabile dall’art. 614 c.p.; b) se, invece, il recente inserimento di nuove figure delittuose ne comporti la modifica, per lo meno sotto il profilo di uno dei due elementi della sua struttura binaria; c) ovvero, se, nell’impossibilità di individuarne una definizione unitaria e significativa per tutte le ipotesi attualmente accorpate nella sezione in discorso del codice penale, si debba concludere che l’intitolazione Dei delitti contro la inviolabilità del domicilio rappresenti ormai un relitto storico senza più alcuna efficacia di orientamento per l’interprete. Orbene, vincolare a un determinato ambito spaziale la tutela penale predisposta con la previsione dei delitti di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, detenzione e diffusione abusiva di codici di ac-


— 752 — cesso a sistemi informatici o telematici e diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico equivarrebbe a svuotare di significato e utilità l’introduzione degli artt. 615-ter, 615-quater, e 615-quinquies: certo, è ben possibile che i fatti in essi previsti si realizzino nei luoghi indicati dall’art. 614, ma si tratterebbe di un dato meramente occasionale e del tutto irrilevante per la configurazione strutturale del reato. Nelle nuove disposizioni non solo non si prospetta neppure implicitamente un richiamo all’‘‘abitazione’’, ad ogni ‘‘altro luogo di privata dimora’’ o alle ‘‘appartenenze di essi’’, ma non appare neanche ipotizzabile il riferimento a qualsivoglia altra limitazione di luogo, da quella prevista dall’art. 614 diversa per estensione della sfera spaziale ricompresa nella disciplina ovvero per connotazioni peculiari del relativo elemento teleologico. In altri termini, all’espressione ‘‘domicilio’’ che compare nella denominazione della sezione IV del capo III del titolo XII del libro II del codice penale non possono più attribuirsi il significato e i contenuti alla stessa ricondotti dalle figure delittuose descritte negli artt. 614, 615 e 615-bis (com’era per il tempo in cui soltanto quelli appena richiamati costituivano l’intera gamma dei reati in discorso), né può elaborarsi una diversa nozione di domicilio alla quale dover necessariamente adeguare tutte le ipotesi attualmente ricomprese nella sezione medesima. Per poter continuare a svolgere efficacemente la funzione di orientamento e di classificazione — che sola consente di riconoscere essenzialità e utilità alle denominazioni adoperate dal legislatore —, è, così, evidente che l’intitolazione Dei delitti contro la inviolabilità del domicilio avrebbe dovuto ricevere opportune modificazioni od integrazioni dal più volte cit. art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547: ne sarebbe stata certamente agevolata la ricerca del bene, interesse o valore tutelato dalle norme in oggetto, che assume ulteriore rilevanza concreta se si tien conto della necessità di individuare il soggetto offeso legittimato alla proposizione della querela, non essendo tali forme delittuose tutte perseguibili ex officio. Non è qui il caso di ripercorrere gli studi sull’individuazione dell’oggetto di tutela degli artt. 614, 615 e 615-bis, con cui anche chi scrive si è cimentato, individuandolo nella sfera domestica; è più che sufficiente rilevare che anche tutte le altre ipotesi formulabili in proposito (il possesso, la libertà (2), la volontà del titolare del domicilio, l’onore, la famiglia, la pace pubblica, la vita privata, la pace individuale, il diritto domestico), a (2) A quest’ordine di idee possono ricondursi i più recenti richiami alla riservatezza che, di fatto, offrono una riformulazione in chiave più moderna del medesimo oggetto di tutela (infra, nt. 5 sul progetto di nuovo codice penale). A ben vedere, si tratta delle facce di un’unica medaglia: nell’un caso emerge il punto di vista del titolare della situazione giuridica subiettiva attiva, il quale deve poter godere della sfera di libertà che la legge, delimitandola, gli riconosce; nell’altro si focalizza, invece, la prospettiva del titolare della corrispondente si-


— 753 — prescindere dalla maggiore o minore plausibilità, non appaiono atte a ricomprendere con soddisfacente compiutezza le nuove figure di delitti contro l’inviolabilità del domicilio, né — come già per il passato — più persuasive risultano soluzioni imperniate sulla plurioffensività desunta dall’accostamento di talune di quelle posizioni (3). Si potrebbe, tuttavia, osservare che, comunque delineato, il contenuto teleologico dei primi tre articoli della sezione rappresenti soltanto una species del più ampio genus in cui deve ora individuarsi l’obiettività giuridica comune anche alle restanti tre ipotesi criminose: in tal caso pure queste ultime, come vorrebbe la loro stessa collocazione, offenderebbero la persona in aspetti della sua libertà individuale molto simili a quelli coinvolti dalla violazione dell’abitazione altrui, di un luogo di privata dimora o delle appartenenze di essi nelle forme previste dagli artt. 614, 615 e 615-bis (4). Ancora una volta, però, dobbiamo rilevare che la circostanza ben potrebbe verificarsi, ma certo non risulterebbe esaustiva per l’individuazione dell’oggetto tutelato dagli artt. 615-ter, 615-quater e 615-quinquies: anche quando per essi le modalità di realizzazione in concreto delle singole fattispecie delineassero forme di lesione della libertà individuale, non potrebbe escludersi il prevalente coinvolgimento dello specifico ambito di interessi al quale il codice penale dedica la ben più ampia sezione posta subito dopo quella in cui sono stati sorprendentemente collocati i nuovi reati in discorso (5). tuazione giuridica subiettiva passiva, il quale deve arrestarsi dinanzi allo spazio dalla legge ad altri riservato, astenendosi da interferenze, intrusioni o invasioni. (3) Così per la tesi costantemente affermata nel corso dei lavori preparatori della legge 23 dicembre 1993, n. 547 e puntualmente riportata nell’apposita scheda di sintesi allegata al relativo fascicolo di documentazione: ‘‘l’art. 4 interviene in materia di delitti contro l’inviolabilità del domicilio, introducendo tre nuove fattispecie di reato, il cui bene giuridico tutelato è costituito sia dalla libertà individuale sia dalla tutela del bene patrimoniale costituito dal mezzo informatico’’. (4) Così nella relazione al disegno di legge Conso, da cui discende pressoché integralmente il testo della legge in discorso: ‘‘la normativa trova la sua collocazione tra i reati contro l’inviolabilità del domicilio perché i sistemi informatici o telematici, la cui violazione essa reprime, costituiscono un’espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita dall’articolo 14 della Costituzione e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali agli articoli 614 e 615 del codice penale’’. (5) L’osservazione trova chiaro pur se fuggevole e improduttivo riscontro già nella citata relazione al disegno di legge Conso; ma ancor più significativo risulta l’art. 76, n. 6 dello schema di disegno di delega per l’emanazione di un nuovo codice penale, elaborato dalla commissione istituita nel 1988 dal Ministro della Giustizia Vassalli (in ‘‘Documenti Giustizia’’ 1992, n. 3). Detta previsione, infatti, colloca l’accesso abusivo ai sistemi informatici fra i reati contro la riservatezza delle comunicazioni, nettamente distinti da quelli contro la riservatezza della vita privata, nei quali, appunto, si ritrovano (art. 75) i tradizionali reati di violazione di domicilio e i reati di immistione nell’altrui vita privata e di rivelazione di notizie dell’altrui vita privata. Nella sistematica della parte speciale del progetto vengono così articolati, fra i reati contro la persona del libro I, i due capi del titolo VI, appositamente dedicato — come si sottolinea nella relazione — alla ‘‘nuova categoria dei reati contro la riser-


— 754 — Sta di fatto che, con una rapida scorsa alle formule edittali dell’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, della detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici e della diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico, ci si rende immediatamente conto che i comportamenti in esse descritti solo eventualmente, e comunque marginalmente, possono recar offesa alla persona, ancorché in manifestazioni tipiche della sua libertà individuale. Ma quel che più lascia interdetti è la lettura, nei resoconti parlamentari, della gamma vastissima e fin ridondante di esemplificazioni tese ad illustrare la necessità di introdurre nel nostro ordinamento nuove norme in tema di criminalità informatica; quanto più eclatante e persuasiva risulta la situazione ipotizzata, tanto più evidente appare la diversità o al massimo la semplice sussidiarietà dei beni tutelati da quelle categorie di reati fra le quali il legislatore ha inteso classificare le nuove incriminazioni. Davvero non si comprende come interventi abusivi su sistemi informatici o telematici di istituti di credito o del Ministero della Difesa possano essere ricondotti a quel genere di lesioni specificamente attinenti alla sfera della libertà individuale, che gli artt. 614, 615 e 615-bis sanzionano. Dalla scelta operata per la collocazione sistematica delle nuove previsioni in discorso — in ragione di una pretesa omogeneità di beni, interessi o valori prioritariamente tutelati dalle stesse e dalle altre disposizioni già presenti nel titolo XII del libro II del codice penale e, in particolare, nelle cinque sezioni che ne costituiscono il capo III — evidentemente discende, poi, anche quella sorta di omologazione tra gli apparati linguistici della prima e della seconda terna di delitti contro l’inviolabilità del domicilio, che si strutturano in formule pressoché sovrapponibili e quindi private delle necessarie peculiarità espressive. Ma un mero apparentamento di forme non può dissimulare sostanziali estraneità: per un verso siffatto accostamento delle nuove alle vecchie norme ripropone per le prime, mutatis mutandis, le stesse difficoltà e incertezze già sorte per le seconde, per vatezza, bene emergente della personalità umana ed oggetto di diverse forme di aggressione’’. Sul significato del richiamo alla riservatezza nella classificazione dei reati in discorso si è già detto nella precedente nt. 2; qui restano le perplessità derivanti dalla considerazione di offesa alla riservatezza delle comunicazioni per un illecito che, nella formulazione del cit. art. 76, n. 6, non contempla il riferimento ai sistemi telematici, presente nella versione dell’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547. La cognizione fraudolenta, la rivelazione del contenuto, la soppressione e l’impedimento o interruzione di comunicazioni telematiche trovano, invece, sistemazione in altre quattro ben distinte e specifiche previsioni (nn. 2-5) del medesimo art. 76; laddove l’accesso abusivo ai sistemi informatici nel progetto di nuovo codice consiste testualmente ‘‘nel prendere cognizione di dati di un sistema informatico di elaborazione, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderla’’, di tutta evidenza attività non tipicamente lesiva di quell’aspetto della libertà individuale che si concretizza nell’interesse all’inviolabilità delle comunicazioni.


— 755 — altro verso l’uso da parte del legislatore di una terminologia generica e conseguentemente approssimativa, per descrivere comportamenti tipici fortemente connotati di tecnicismi e di specialità, rischia di vanificare uno degli intenti più rilevanti fra quelli che hanno condotto all’emanazione della legge 23 dicembre 1993, n. 547. Per rimuovere impasses e funambolismi denunciati in giurisprudenza, allorché si sono esaminate condotte poste in essere attraverso strumenti informatici o comunque lesive di beni informatici, sono stati dunque confezionati — riciclando materiali preesistenti — testi normativi nuovi più che altro nelle rubriche dei singoli articoli. Emblematico l’art. 615-ter, laddove l’espressione in rubrica ‘‘accesso’’, corrente e appropriata in gergo tecnico, inopinatamente si scioglie nel primo comma in ‘‘si introduce’’, locuzione decisamente più idonea a delineare, come negli artt. 614 e 615, azioni che consistono nel varcare fisicamente i confini di luoghi determinati. Analoghe considerazioni merita il successivo ‘‘si mantiene’’ che, del tutto improbabile nel linguaggio degli informatici, si prospetta come una variante non molto felice del ‘‘si trattiene’’ dei delitti di violazione di domicilio, di cui ripete e amplifica le incertezze. Resta, infatti, anche qui da chiarire tra l’altro se l’illecita permanenza nel sistema comporti necessariamente un accesso lecito. Il vero è che, dall’idea che di accesso e di permanenza nel sistema si abbia e dalla rilevanza che a tal fine si riconosca per la consumazione del reato all’effettivo prelievo di dati o informazioni, discende la lettura di numerose e disparate situazioni. Si pensi, ad esempio, al soggetto che eluda le difese del sistema o in esso permanga oltre il consentito, senza per il momento attingere dati o informazioni, ovvero si arresti per un certo tempo, dopo aver superato abusivamente soltanto alcune ma non ancora tutte le misure di protezione logica del sistema predisposte in immediata successione. Anche nella locuzione ‘‘misure di sicurezza’’ (6) si manifesta la grave crisi del patrimonio lessicale e delle capacità espressive del legislatore che, dopo averci abituati a tutta una fioritura di etichette diverse per contenuti analoghi, senza alcuna necessità finisce per abbarbicarsi a un’espressione indubbiamente carica di storia e di suggestioni ma qui lontanissima dall’originario significato tipico (7). In assenza di ulteriori specificazioni, in(6) Nonostante il plurale del dettato normativo, ai fini dell’art. 615-ter dovrebbe, tuttavia, esserne sufficiente anche una sola. (7) Eppure, anche in sede parlamentare e ministeriale, in diverse circostanze si son adoperate al riguardo formule differenti e di certo congrue, come ‘‘sistemi di salvaguardia’’, ‘‘misure di protezione’’ e ‘‘misure di difesa’’. Lo ricorda C. SARZANA, Informatica e diritto penale, Milano, 1994, 192 e 211; l’A., tuttavia, avendo contribuito alla redazione del testo in oggetto (op. cit., 197, nt. 1), difende energicamente la dizione ‘‘misure di sicurezza’’, rilevandone l’‘‘uso corrente’’ in base a un’indagine meramente statistica concernente studi e do-


— 756 — fatti, per l’art. 615-ter ‘‘misure di sicurezza’’ sarebbero tutti quei ‘‘mezzi di protezione sia logica che fisica (materiale o personale)’’ (8) attraverso i quali si dimostra la volontà del titolare del ius excludendi di riservare l’accesso o la permanenza nel sistema solo alle persone autorizzate (9). Ma, se in tali mezzi si esprime quella volontà di esclusione che rende abusivi comportamenti altrimenti leciti, se, cioè, forzare quelle misure equivale ad agire contro la volontà di chi, predisponendole, esercita il diritto di impedire agli estranei l’utilizzazione del sistema (10), la locuzione testuale in discorso non può non considerarsi un evidente pleonasmo capace di un unico effetto, quello di affermare l’incongrua discriminazione fra sistemi informatici o telematici assistiti da misure di sicurezza e quelli eventualmente sprovvisti di dette forme di protezione (11). Pleonastico anche l’avverbio ‘‘abusivamente’’ (è, con le medesime angustie, l’‘‘indebitamente’’ dell’art. 615-bis) che, come l’‘‘abusivo’’ della rubrica, null’altro può significare se non che il soggetto attivo del reato ha operato ‘‘contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo’’. Se, infatti, appropriata risulta la formulazione della rubrica in cui il sostantivo ‘‘accesso’’ non esprime di per sé il connotato di illiceità della condotta — a differenza del corrispondente ‘‘violazione’’ degli artt. 614 e 615 — altrettanto non può dirsi per il primo comma dell’art. 615-ter, nel quale la modalità dell’abuso che caratterizza le condotte punibili è ampiamente esplicitata nella locuzione con cui si richiede una manifestazione espressa o tacita della volontà di esclusione. cumenti elaborati prevalentemente all’estero ovvero in materia extrapenale (op. cit., 211 cit., 212) e quindi in luoghi e situazioni storicamente e scientificamente non riconducibili all’esigenza sopra segnalata che, invece, coinvolge unicamente opzioni linguistico-sistematiche del legislatore penale italiano. (8) V. infra, nt. 9. (9) Così espressamente nella relazione ministeriale più volte citata; ‘‘tuttavia il requisito necessita di specificazioni, che interverranno in sede di applicazione giurisprudenziale, per indicare puntualmente quali strumenti di limitazione d’accesso possano definirsi sistemi di sicurezza’’, GIOVANNA CORRIAS LUCENTE, Il nuovo fenomeno dei reati informatici contemplato nelle modifiche al sistema penale, in Il diritto delle tecnologie dell’informazione, ‘‘Guida al diritto’’ de ‘‘Il Sole 24 ore’’, dossier mensile, n. 4, aprile 1995, 13. In R. BORRUSO e altri, Profili penali dell’informatica, Milano, 1994, 29, si afferma, invece, che l’effettiva estensione del significato da attribuire all’espressione ‘‘misure di sicurezza’’ si individua alla luce di una pretesa immediatezza e univocità di lettura in ambito informatico che conduce a escludere ‘‘mezzi di protezione del luogo ove trovasi il computer o un qualsiasi terminale ad esso collegabile’’: lettura della quale, fra l’altro, non si offre — né, per verità, potrebbe offrirsi — alcun oggettivo riscontro pacificamente riconosciuto dalla generalità degli specialisti di Scienze dell’informazione. (10) Cfr. anche ‘‘Documenti Giustizia’’, cit., 372. (11) Per GIOVANNA CORRIAS LUCENTE, op. e loc. cit., ‘‘tale limitazione appare intesa a evitare il ricorso superfluo alla sanzione penale in casi di accessi abusivi insignificanti’’. Chiarimento che, tuttavia, non persuade: si tenga pure conto dell’ipotesi riportata a titolo esemplificativo dall’A., risulterà senz’altro azzardato dover necessariamente considerare insignificante l’accesso non autorizzato a un’agendina elettronica.


— 757 — In definitiva, la disposizione non avrebbe perso in vigore ed efficacia, né sarebbe incorsa nella segnalata disparità di trattamento, se con più semplicità e linearità il legislatore avesse detto: ‘‘Chiunque accede a un sistema informatico o telematico ovvero vi permane contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo...’’. Individuare di volta in volta il titolare di tale diritto è, poi, motivo di sgomento per l’interprete: la formula che lo richiama, letteralmente trasposta dall’art. 614, ripropone, infatti, nel nuovo contesto le originarie difficoltà, aggravate dalla perdita del riferimento alla relazione personaluogo, sulla quale s’imperniava l’attività ermeneutica, e dal coinvolgimento di normative, elaborazioni dottrinali ed esperienze giurisprudenziali insoddisfacenti. In certo senso pleonastico, infine, anche andar oltre nella elencazione di considerazioni che, in buona sostanza, risulterebbero tutte di tenore analogo: dalla lettura del prosieguo dell’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547, infatti, emergono immediatamente perplessità del tutto simili a quelle qui prospettate e, in una, sintetizzabili nell’inadeguatezza della collocazione e della redazione delle disposizioni concernenti i nuovi delitti di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici e diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico (12). prof. FRANCESCO PAZIENZA

(12) Altri studi in materia hanno naturalmente visto la luce nelle more fra prima redazione e pubblicazione di questo breve scritto, restano nondimeno irrisolte le perplessità in esso prospettate. Per tutti — oltre quanto già riportato nelle precedenti ntt. 7, 9 e 11 — v. S. ARDIZZONE, Profili della criminalità informatica: la disciplina vigente in Italia, in Scritti in memoria di R. Dell’Andro, Bari, 1994, 1 ss., con ulteriori note anch’esse redatte nell’immediatezza del primo contatto con il testo della legge 23 dicembre 1993, n. 547; M. MANTOVANI, Brevi note a proposito della nuova legge sulla criminalità informatica, ‘‘Critica dir.’’ 1994, n. 4, 17 ss., ove ben si coglie, fra l’altro, tutto il disagio dell’interprete dinanzi alla collocazione degli artt. 615-ter, 615-quater, 615-quinquies nonostante il richiamo al c.d. ‘‘domicilio informatico’’, nozione a dir il vero fantomatica e, comunque, più accostabile a quelle di registro, agenda, casella postale e simili; in R. BORRUSO e altri, op. cit., 28, invece, si plaude decisamente a siffatta scelta sistematica del legislatore, dando una lettura estremamente restrittiva del dettato normativo, che questo non può autorizzare come sopra si è avuto modo di sottolineare ampiamente.


IL DIRITTO PENALE NEL TEMPO DELLA ‘‘RICODIFICAZIONE’’ PROGETTI E NUOVI CODICI PENALI IN FRANCIA, ITALIA, SPAGNA, INGHILTERRA

SOMMARIO: 1. La ricodificazione penale fra esigenze di riforma e bisogni di certezza. — Parte I. ITINERARI CONTEMPORANEI DELLA RICODIFICAZIONE. — 1. Francia: un codice per i diritti dell’uomo. — 2. Italia: il difficile abbandono del codice Rocco. — 3. Spagna: una riforma ancora in cammino. — 4. Inghilterra: un ‘‘criminal code’’ nella patria moderna del diritto giurisprudenziale? — Parte II. LINEE EMERGENTI DEL PROCESSO DI RICODIFICAZIONE. — 1. Premessa: i principi del diritto penale come strumento per l’analisi comparata dei nuovi testi codicistici. — 2. Primato della persona umana e gerarchia dei valori tutelati. — 3. Principi di sussidiarietà, di offensività e di rilevanza costituzionale dei beni protetti. — 4. Le nuove frontiere della responsabilità penale. - 4.1. Soggetti attivi. - 4.2. Offese di tipo nuovo fra legislazione speciale e codice penale. 4.3. Rilevanza degli interessi sovranazionali. — 5. L’affermazione del principio di legalità. — 6. Principio di colpevolezza e responsabilità penale. — 7. Principio rieducativo e riforma del sistema sanzionatorio. — 8. ‘‘La vocazione del nostro tempo’’ per il codice penale: riflessioni conclusive.

1. La ricodificazione penale fra esigenze di riforma e bisogni di certezza. — Che il diritto penale si accompagni da sempre al movimento per la sua riforma è una considerazione ormai comune fra coloro che non si fermano a leggere le forme positive dei singoli ordinamenti giuridici, ma li studiano anche nel loro inarrestabile divenire storico (1). Meno frequente, ma altrettanto sicuro, è poi il rilievo che in determinati periodi il movimento di riforma ha vissuto una notevole accelerazione, per di più presentando caratteri comuni in diverse esperienze giuridiche. Ciò è quanto si è verificato nell’ultimo ventennio in numerosi paesi europei, dove il fenomeno è stato catalizzato dall’idea di rinnovare il codice penale, vale a dire il documento normativo che, rappresentando il cuore (1) Cfr. JESCHECK, Linee direttive del movimento internazionale di riforma penale, in Indice pen., 1979, 181 s.: la riforma penale è ‘‘antica quanto il diritto penale stesso’’. Per il reciproco rilievo che ‘‘la storia stessa del diritto penale è la storia della sua riforma’’, cfr. VON HIPPEL, Reform der Strafrechtsreform, Berlin - New York, 1976, 9; ESER, Hundert Jahre deutsche Strafgesetzgebung: Rückblick und Tendenzen, in Criminal Law in Action. An Overview of Current Issues in Western Societies, VAN DIJK, Deventer, 1988, 66.


— 759 — stesso dei rispettivi sistemi penali, è più carico di significati sia giuridici sia politico-ideologici (2). Ad evitare equivoci, è bene chiarire preliminarmente che si tratta di una linea di tendenza: al pari di ogni altra descrizione di processi su larga scala, la considerazione del movimento di ricodificazione fornisce solo un contesto generale di riferimento, concretamente articolato in realtà più o meno vicine a quel modello ideale e che ancora attualmente presentano non poche differenziazioni interne. Ciò non toglie però che alcuni caratteri di fondo di non pochi sistemi penali europei presentano significativi tratti omogenei, che ne giustificano un’aggregazione come oggetto di indagine comparatistica (3). Fuori dai confini della presente indagine rimangono invece le vicende di altri ordinamenti penali che, pur presentando l’elemento comune del ricorso ad un nuovo codice penale nell’arco temporale dell’ultimo ventennio, mantengono contenuti strutturali del tutto autonomi, trascurabili solo a costo di forzature e di indebite generalizzazioni: si pensi alla Cina socialista, ritornata allo strumento codicistico nel 1979, dopo aver abrogato trent’anni prima il vecchio codice penale dell’ultimo imperatore, risalente al 1910 (4); o anche alle codificazioni penali dei Paesi dell’Europa orientale, già prima del crollo dei rispettivi regimi politici alla fine degli anni ottanta (5); o infine, ai numerosi codici penali pubblicati in Paesi dell’A(2) Il dato è talmente sicuro da trascendere i confini della cerchia dei penalisti. Significativo in tal senso l’incipit del lavoro pioneristico sull’informatica giuridica di SIMITIS, Informationskrise des Rechts und Datenverarbeitung (1970), tr. it. (di Caizzone) Crisi dell’informazione giuridica ed elaborazione giuridica dei dati, Milano, 1977, 9: ‘‘Poche decisioni del legislatore hanno così decisamente influenzato l’ordinamento giuridico quanto la riforma del diritto penale’’ (il riferimento è alle due leggi di riforma del codice penale tedesco del 1969). (3) L’individuazione di tratti comuni a diversi ordinamenti giuridici, per procedere a raggruppamenti omogenei che agevolino la comprensione della grande massa di dati offerti alla riflessione comparatistica, costituisce uno dei problemi fondamentali della materia: cfr. da ultimi SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, 19925, 187 s.; ZWEIGERT/KÖTZ, Einführung in die Rechtsvergleichung, I: Grundlagen (1984), tr. it. (di Pozzo) Introduzione al diritto comparato, Milano, 1992, 76 s. (4) Notizie in proposito in ZHONGLIN, Profili storici e problemi contemporanei del diritto penale cinese, in questa Rivista, 1992, 664 s. Di particolare interesse la partizione dei diversi periodi storici del diritto penale cinese, che viene operata dall’autore in relazione ad altrettanti testi codicistici succedutisi nel tempo. Per una più ampia periodizzazione del diritto cinese moderno v. la sintesi di LOSANO, I grandi sistemi giuridici, Torino, 1978, 256 s. (5) Per ANDREIEW, Le droit pénal comparé des pays socialistes, Paris, 1981, 31 s., anche in tali sistemi si riconosce che la riunione in un corpo normativo delle principali norme penali è il modo migliore per rispettare il principio del nullum crimen, nulla poena sine lege. Un quadro sui movimenti di riforma dei codici penali negli stessi Paesi dopo la svolta della fine degli anni ottanta in HUBER, Developments of Criminal Law in Europe: an Overview, in Eur. Jour. Crime, Crim. Law, Crim. Just., 1993, 58 s., ed in HUBER/RESTLE, Developments of Criminal Law in Europe: an Overview, ivi, 1994, 292 s. Ulteriori approfondimenti nelle rela-


— 760 — merica Latina nell’ultimo quindicennio (6). Questo rapido accenno è comunque utile ad indicare che anche queste più lontane esperienze in un’ottica di ‘‘macrocomparazione’’ rappresentano altrettante testimonianze delle fortune che arridono allo strumento codicistico quale fonte del diritto penale contemporaneo (7): un dato significativo in quanto, come meglio si vedrà, la crescente difficoltà di attuare i presupposti politici delle codificazioni e la connessa frammentazione progressiva delle fonti normative hanno ingenerato di recente il dubbio che si assista invece al ‘‘commiato dall’idea stessa della codificazione penale’’ (8). Per delineare i tratti salienti del fenomeno di ricodificazione penale si può partire dal constatare la progressiva crescita di analogie contenutistiche in molti sistemi penali dell’Europa occidentale, almeno a partire dal secondo dopoguerra. Ciò non certo in un’ottica di unificazione del diritto, ancor’oggi preclusa dalla volontà di mantenere distinti ed autonomi i rispettivi ordinamenti penali, pur in un quadro di crescente collaborazione nel contesto comunitario; piuttosto, il dato rilevato appare il frutto della graduale adozione di principi generali e talvolta anche di soluzioni sostanziali largamente omogenei (9). Tale ampio processo, come già anticipato, zioni nazionali del lavoro collettivo Von totalitärem zu rechtsstaatlichem Strafrecht, ESER/KAISER/WEIGEND (Hrsg.), Freiburg, 1994. Con specifico riferimento alla situazione polacca, particolarmente avanzata sia per la priorità temporale nella svolta politica, sia per l’organicità della riforma progettata (comprensiva di nuovi codici penali tanto sostanziale quanto processuale e della legge sull’illecito amministrativo) cfr. l’analitica recensione di PLACHTA (in ZStW, 1994, 250 s.) al volume collettivo Die Probleme der Kodifizierung des Strafrechts, WALTOS (Hrsg.), Krakau, 1993. Non meno interessante l’esperienza della Russia, dove al progetto ufficiale di codice penale, pubblicato nel gennaio 1992, se ne è contrapposto uno alternativo, ma limitato alla sola parte generale: cfr. SCHITTENHELM, Rußland, in Strafrechtsentwicklung in Europa 4, ESER/HUBER (Hrsg.), Freiburg, 1994, 1236 s. (6) Si possono, ad esempio, ricordare i codici penali colombiano ed uruguaiano del 1980, quello brasiliano del 1984, quello peruviano del 1992. (7) Segnala la tendenza contemporanea alla codificazione penale PALAZZO, Certezza del diritto e codificazione penale, in Politica dir., 1993, 372 s. Analogalmente, nella dottrina francese, PRADEL Le nouveau code pénal (Partie générale), Paris, 1994, 4.s.; per l’area dei paesi di common law, GOODE, Codification of the Australian Criminal Law, in Crim. Law Jour., 1992, 5 s. Riconosce l’‘‘imbarazzante inconfutabilità’’ dei ‘‘fatti’’ di ricodificazione penale, pur ad apertura di un contributo volto a sottolinearne le ‘‘aporie’’, PALIERO L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, 1221 (a tale stimolante studio, pubblicato durante la fase di stampa del presente lavoro, potranno essere qui dedicate solo fugaci osservazioni in nota). Di ‘‘fioritura attuale dei codici civili nel mondo’’ parlava già alcuni anni fa SACCO, Codificare: modo superato di legiferare?, in Riv. dir. civ., 1983, 120 s. Il carattere generale del fenomeno codificatorio in senso lato è pure sottolineato da GAUDEMET, La codification. Ses formes et ses fins, in Estudios en homenaje al prof. J. Iglesias, Madrid, 1988, 312. (8) Così si chiude il saggio di DOLCINI, Codice penale, (1988), ora anche in MARINUCCI/DOLCINI, Studi di diritto penale, Milano, 1991, 44. (9) Sullo stato di realizzazione di un diritto penale europeo, fondato sulle comuni matrici culturali, cfr. di recente PAGLIARO, Limiti all’unificazione del diritto penale europeo,


— 761 — ha trovato un terreno di sviluppo privilegiato in sede di riforma del codice penale. In proposito, sembra utile distinguere convenzionalmente due gruppi di ordinamenti, in relazione sia ai risultati sia ai tempi di realizzazione dell’opera riformatrice (10): il primo comprende Paesi, come la Germania, l’Austria ed il Portogallo (11), che fra la metà degli anni settanta ed i primi anni ottanta sono riusciti a condurre in porto una riforma organica dei codici penali (12); il secondo invece riguarda sistemi giuridici in cui il processo di riforma è stato intrapreso da minore tempo e dunque solo da poco ha tagliato il traguardo di un nuovo codice, come in Francia (13), o ha comunque raggiunto la tappa significativa di progetti in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, 199 s.; ed anche DANNECKER, Strafrecht der europäischen Gemeinschaft, in Strafrechtsentwicklung in Europa 4, cit., 1995, 1990 s. Il ruolo dei principi del diritto nel processo di armonizzazione penale su scala continentale è ben evidenziata da BERNARDI, ‘‘Principi del diritto’’ e diritto penale europeo, in Annali dell’Università di Ferrara, 1988, II, 75 s.; cfr. anche, da ultimo, VOGEL, Wege zu europäisch-einheitlichen Regelungen im Allgemeinen Teil des Strafrechts, in JZ, 1995, 336 s. Si tratta peraltro di un motivo già presente nella riflessione di uno specialista del tema: DEL VECCHIO, Le basi del diritto comparato e i principi generali del diritto, in Problèmes contemporains de Droit comparé, T. 1, Tokio, 1962, 45 s. Proprio il riferimento ai principi consente di mettere a fuoco la distinzione fra processi di armonizzazione e di unificazione del diritto, che invece appare di recente realizzata da BONNEL, Unificazione internazionale del diritto, in Enc. dir., vol. XLV, 1992, 720. (10) Per una interessante periodizzazione del più generale movimento di codificazione penale in Europa, v. ANCEL, Introduction comparative aux codes pénaux européens, in Les codes pénaux européens, ID. (cur.), Paris, s.d., I, XIV s., il quale distingue la prima fase della formazione (dalla fine del sec. XVII alla metà del sec. XIX), la seconda, comprendente i codici neoclassici della seconda metà del secolo XIX, e l’ultima all’interno del XX secolo, che a sua volta è articolata in tre periodi, separati da due scontri bellici mondiali. Tale distinzione, convincente al tempo in cui il famoso autore scriveva (intorno alla metà degli anni cinquanta) pare ormai meritevole di integrazione, a causa delle profonde trasformazioni dei sistemi penali in questa seconda metà del secolo. (11) Ad onor del vero, in questo primo gruppo di ordinamenti rientra anche la Repubblica di San Marino, che a partire dal 1o gennaio 1975 ha sostituito con un nuovo codice penale l’ultracentenario codice (c.d. Zuppetta) del 15 settembre 1865. (12) In relazione alla ricchissima bibliografia su tale ‘‘prima generazione’’ delle esperienze di riforma dei codici penali ci si deve limitare ad indicazioni solo esemplificative: ARM. KAUFMANN, Die Reform des deutschen Strafrechts, in Strafrecht und Strafrechtsreform, MADLENER/PAPENFUSS/SCHÖNE (Hrsg.), Köln et al., 1972, 7 s.; JESCHECK, Gli indirizzi di politica criminale nella riforma penale tedesca ed austriaca, in Jus, 1974, 359 s.; BURGSTALLER, Die Strafrechtsreform Österreichs im Vergleich mit der Strafrechtsreform der Bundesrepublik Deutschland, in Strafrechtsreform und Rechtsvergleichung, LÜTTGER (Hrgs.), Berlin-New York, 1979, 39 s.; STANGL, Die Strafrechtsreform in Österreich 1954-1975. Rechtliche und soziale Voraussetzungen und Auswirkungen, Wien, 1981; DE FIGUEIREDO DIAS, Das portugiesische Strafgesetzbuch von 1982 in der Bewährung, in ZStW, 1993, 81 s. ed ora ID., Il codice penale portoghese del 1982 e la sua riforma, in questa Rivista, 1995, 25 s. Per ulteriori riferimenti sui lavori dedicati in particolare alla riforma tedesca si rinvia a ROXIN, Strafrecht, Allg. T., I, München, 1992, 48-49. (13) Per completezza, vanno anche menzionati gli ordinamenti dei due Principati del


— 762 — completi ed organici di nuovo codice penale, come in particolare in Italia, Spagna ed Inghilterra (14). Quest’ultima generazione di esperienze di ricodificazione appare meritevole di approfondimento: in particolare, l’esame incrociato dei diversi testi di riforma del codice penale non solo consente di evidenziarne i punti di contatto e/o di divergenza, ma indica anche le principali linee di tendenza del diritto penale contemporaneo in Europa (15). Inoltre, è significativo il dato che tali documenti normativi siano stati pubblicati in un arco temporale relativamente contenuto all’interno di un’area giuridica Liechtenstein e di Andorra: nel primo dal 1o gennaio 1989 è entrato in vigore un nuovo codice penale: esso adotta la divisione dei reati in due categorie, aderisce espressamente al principio di colpevolezza, accoglie la concezione unitaria di autore nel concorso di persone e segue il doppio binario sanzionatorio. In proposito, cfr. SCHWARZ, Liechtenstein, in Strafrechtsentwicklung in Europa 3, ESER/HUBER (Hrsg.), Freiburg, 1990, 964 s. Quanto ad Andorra, il nuovo codice penale è entrato in vigore nel 1990 ed è pubblicato nella Rev. der. pen. y crim., 1992, 711 s. (14) Fra i sistemi giuridici europei in cui nell’ultimo decennio i lavori di riforma dei rispettivi codici penali hanno almeno raggiunto lo stadio di un progetto organico, ancorché parziale, si possono qui solo menzionare in margine i casi della Svizzera (progetto preliminare di parte generale del codice penale, predisposto dal prof. H. Schultz e pubblicato nel 1985: in proposito cfr. dello stesso SCHULTZ, Probleme einer Revision des Allgemeinen Teils des Schweizerischen Strafgesetzbuches, in Festschrift für Lackner, Berlin, 1987, 889 s.; e da ultimo il progetto preliminare di parte generale del codice penale preparato da una commissione di esperti e pubblicato nel 1993) del Belgio (progetto preliminare di codice penale c.d. Legros, dal nome di colui che lo ha pubblicato nel 1985, sul quale cfr. SCHÄFER, Belgien, in Strafrechtsentwicklung in Europa 2, ESER/HUBER (Hrsg.), Freiburg, 1988, 26 s.; peraltro, una successiva commissione ministeriale, nominata nel 1988 con l’incarico di proseguire i lavori, non risulta che abbia fatto avanzare l’opera: cfr. HUBER/RESTLE, Developments, cit., (1994), 294), della Turchia (progetto di revisione totale del codice penale, pubblicato all’inizio del 1987, sul quale cfr. TELLENBACH, Turkei, in Strafrechtsentwicklung 2, cit., 1576 s.), della Finlandia (proposta preliminare di previsioni sulla responsabilità penale nel nuovo codice penale, preparato nel 1990 da un gruppo di lavoro sulla parte generale del codice penale, istituito dal Ministero della Giustizia: in proposito cfr. Criminal Law Theory in Transition - Strafrechtstheorie im Umbruch, LAHTI/NUOTIO (Edt.) Helsinki, 1992). La riforma del codice penale finlandese, risalente al 1889, ha segnato una prima importante tappa con l’Act of 24 August 1990/769, che ha modificato circa un terzo delle previsioni originarie: cfr. in proposito; JOUTSEN, Finland, in Strafrechtsentwicklung 4, cit., 430 s., secondo il quale l’opera di riforma integrale dovrebbe completarsi entro il 1995). Va inoltre segnalato che anche in Portogallo, nonostante il codice penale del 1982, si è avvertita l’esigenza di predisporre un progetto di revisione a tale recente testo normativo (Codigo penal. Actas e Projecto da Comissâo de Revisâo, Lisboa, 1993, su cui v. DE FIGUEIREDO DIAS, Das portugiesische Strafgesetzbuch, cit., 81 s.; ID., Il codice penale, cit., 35 s.). (15) Nel quadro di una panoramica sulle possibilità metodologiche di una comparazione di diversi testi codicistici, ANCEL, Introduction comparative, cit., VII s., nel sottolineare ‘‘l’esistenza di alcune correnti legislative che oltrepassano le frontiere nazionali’’ rilevava che ‘‘lo studio (...) dei codici di diritto positivo ed in particolare dei più recenti può essere estremamente utile quando si tratta di misurare l’evoluzione generale delle legislazioni ed in specie il senso di tale evoluzione’’. Cfr. anche, con specifico riferimento alle recenti esperienze di ricodificazione penale, PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), cit., 5.


— 763 — definita: segno che i relativi sistemi penali presentavano una comune esigenza in tal senso. Per rinvenire un analogo fenomeno transnazionale nella stessa area giuridica occorre risalire fino agli albori dell’evo moderno del diritto, segnati, fra l’altro, proprio dall’apparire dei codici quale nucleo fondamentale della grande maggioranza degli ordinamenti dell’Europa continentale (16). Si pone così l’esigenza di proiettare l’indagine sincronica, relativa ai più recenti sforzi di codificazione penale, in una dimensione diacronica, che pone la questione fondamentale del ruolo e delle funzioni di un codice penale alle soglie del duemila: rappresenta questo ancora uno strumento vivo e vitale, nonostante la distanza da quell’irripetibile ambiente di origine, costituito dal coacervo di spinte socio-economiche e politiche che a cavallo fra il XVIII e XIX secolo condussero al crollo dell’Ancien régime (17)? Oppure il fenomeno contemporaneo presenta caratteri talmente distanti da quello originario che si tratta soltanto di una coincidenza terminologica esteriore, in realtà però priva di contenuti ed esigenze comuni ai diversi periodi di emersione? Occorre in altre parole verificare se l’imponente processo di ‘‘codificazione’’ del primo ottocento e quello attuale di ‘‘neo-’’ o ‘‘ricodificazione’’ si pongano o meno su una linea evolutiva continua, che, oltre ad elementi innovativi, mantiene comunque un nucleo omogeneo di caratteri e di significati, pur nella varietà complessiva delle sue forme di manifestazione (18). Se si volessero chiudere subito le questioni così poste, basterebbe for(16) Nonostante le risalenti origini del fenomeno (su cui v. GAUDEMET, La codification, cit., 312 s., oltre alla documentata ricerca di VANDERLINDEN, Le concept de code en Europe occidentale du XIIIe au XIXe siècle, Bruxelles, 1967) e le importanti anticipazioni nel corso del secolo XVIII (per quelle penalistiche v. la sintesi di DOLCINI, Codice penale, cit., 3 s.), la prima codificazione in senso moderno è per lo più considerata il codice civile francese, emanato nel 1804 ed entrato in vigore nel 1807. Le collezioni e compilazioni precedenti presentano in effetti caratteristiche diverse, tali da giustificare l’autonoma categoria delle ‘‘consolidazioni’’. In proposito, cfr. SEAGLE, The Quest for Law (1941), tr. ted. Weltgeschichte des Rechts, München-Berlin, 1951, 410 s.; VIORA, Consolidazioni e codificazioni, Bologna, s.d., 51 s.; PIANO MORTARI, Codice, in Enc. dir., vol. VII, 1960, 232 s.; CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. I. Le fonti ed il pensiero giuridico, Milano, 1979, 197 s., 254 s.; DAVID, Sources of law, in Int. Enc. of Comp. Law, vol. II, 3, Tübingen-The Hague, 1984, 57 s. (17) Per una lettura di tale retroterra del processo di codificazione cfr. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, I: Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976, 19 s., e con specifico riferimento al diritto penale, 31 s., 382 s.; a quest’ultimo proposito v. anche ANCEL, Introduction comparative, cit., XV s. Più in generale, nel quadro di una fondamentale tendenza del diritto a ‘‘consolidarsi ed a sistemarsi in corpi organici’’, VIORA, Consolidazioni e codificazioni, cit., 11 s., 51 s. (18) Rileva la complessità del fenomeno della codificazione, pur individuandone alcuni fattori caratterizzanti (sociale, tecnico e politico), GAUDEMET, La codification, cit., 313 s., 326. Una recente messa a fuoco dei caratteri della codificazione in IRTI, Idea del codice civile, in ID., Codice civile e società politica, Roma-Bari, 1995, 21 s.; cfr. anche l’efficace qua-


— 764 — mularle in termini apparentemente analoghi: chiedendosi, per esempio, se nel presente trend riformatore dei codici penali possano rintracciarsi tutti i significati dell’originario processo di codificazione. Oppure, più radicalmente, se lo stesso strumento del codice, con la sua aspirazione a formare un insieme omogeneo e coerente di norme, sia ancora adeguato alle esigenze del diritto penale contemporaneo, che deve riflettere i bisogni di tutela di una società complessa e fortemente sviluppata in senso tecnologico, come tale bisognosa di una pluralità di fonti normative agili ed adeguate alla specificità dei settori di volta in volta regolati (19). In altre parole, alla luce del più generale processo di ‘‘modernizzazione’’ del diritto penale (20), il codice non rischia forse di apparire uno strumento ormai ‘‘anacronistico’’? Il modello di ordinamento giuridico su esso incentrato è posto infatti in crisi dalle trasformazioni delle attuali ‘‘società del rischio’’ (21), i cui disturbi costantemente mutevoli richiedono un diritto penale ‘‘flessibile’’ (22), difficilmente compatibile con i vincoli di determinatezza e della stessa legalità formalizzati nei testi codidro tratteggiato da COING, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, München, 1982, 4 s. (19) Per una risposta negativa ad interrogativi analoghi, cfr. FIANDACA, Problemi e prospettive attuali di una nuova codificazione penale, in Foro it., 1994, V, 1 s.; FIANDACA/MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, 27, 61 s.; PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1220 s. Dubbi non dissimili erano peraltro già stati formulati autorevolmente rispetto al codice civile del 1942 da NICOLÒ, Codice civile, in Enc. dir., 1960, VII, 241. Contro l’alternativa ivi prospettata (un codice civile fatto solo di principi) v. da ultimo, altrettanto autorevolmente, FALZEA, A chiusura delle celebrazioni cinquantenarie del codice civile, in Riv. dir. civ., 1993, I, 218. Un approccio metodologico ‘‘gradualistico’’, caratterizzato da interventi parziali di adeguamento e da correttivi successivi, è stato considerato preferibile alla prospettiva di riforma del codice penale da MUSCO, Consenso e legislazione penale, in Verso un nuovo codice penale. Itinerari - Problemi - Prospettive, Milano, 1993, 155. Contro però i ricorrenti tentativi di procedere a semplici ritocchi del codice vigente, rinviando ‘‘ad un prossimo futuro la ‘vera riforma’ ’’ cfr. in precedenza MARINUCCI, Politica criminale e riforma del sistema penale, (1974), ora in MARINUCCI/DOLCINI, Studi di diritto penale, cit., 49. Analoghe riserve sono ora espresse in due contributi (apparsi durante la stampa del presente lavoro) di VASSALLI, Necessità di un nuovo codice penale, in Dir. e proc. pen., 1995, n. 1, 7 s.; e di G. DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in questa Rivista, 1269 e nt. 10. Lo stesso PALIERO, op. cit., 1243 s. ribadisce peraltro la necessità della riforma del codice penale, pur proiettandola nello scenario — ancora per larghi tratti oscuro — di una nuova dogmatica, modellata sulle caratteristiche del diritto penale moderno. (20) Il processo è stato sintetizzato da HASSEMER, Kennzeichen und Krisis des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, 378 s. In proposito, cfr. gli atti (in corso di pubblicazione) del Convegno Modernizzazione del diritto penale? (Pavia, 30 ottobre - 1o novembre 1992). (21) Per tale modello sociologico cfr. la panoramica di HILGENDORF, Gibt es ein ‘‘Strafrecht der Risikogesellschaft?’’, in NStZ, 1993, 11 s. (22) Cfr. ancora HASSEMER, Kennzeichen und Krisis des modernen Strafrechts, cit., 378 s.; KUHLEN, Zum Strafrecht der Risikogesellschaft, in GA, 1994, 347 s.


— 765 — cistici: come sul piano dei contenuti i beni giuridici protetti e le relative forme di offesa non sono più ancorati al binomio individuo-lesione, ma si spingono a comprendere nuove forme di esposizione a pericolo di collettività sempre più ampie ed indeterminate di soggetti, così rispetto alla struttura normativa dell’ordinamento ad un sistema gerarchicamente orientato ed incentrato sul testo codicistico si sostituisce un insieme di singoli settori normativamente a sé stanti, che si ramificano nelle varie e mutevoli direzioni in cui l’intervento è imposto dalle nuove esigenze di tutela (23). A fronte di tali considerazioni va tuttavia sottolineato che la stessa distanza temporale fra il sorgere del movimento di codificazione e l’attuale spinta verso la ‘‘ricodificazione’’ esclude a priori che i due fenomeni si possano presentare con assoluta identità di caratteri, a causa delle enormi trasformazioni subite dai rispettivi contesti di manifestazione (24). Si pensi, solo per saggiare alcuni profili del fenomeno codificatorio più segnati dallo scorrere del tempo, ai molteplici significati di affermazione nazionalistica affidati ai codici alla fine del XVIII secolo: l’esigenza di unificare i vari diritti nazionali proprio grazie allo strumento codicistico è palese nella più famosa fra le polemiche in tema di codificazione, quella che oppose nel 1814 il Thibaut al Savigny in merito all’opportunità di un unico codice civile tedesco, e che ben presto infiammò la migliore cultura giuridica tedesca della prima metà del secolo scorso (25), con un’ampia eco nel dibattito italiano risorgimentale (26). L’esigenza primaria che vi era alla base era quella di superare il particolarismo normativo preunitario (27), ma altri motivi si intrecciavano indissolubilmente nella spinta alla prima codificazione in senso moderno: ad esempio, la volontà di svincolarsi da un diritto romano sempre più avvertito come estraneo (28), (23) Una significativa eco di tale approccio teorico in FIANDACA, Problemi e prospettive, cit., 5; FIANDACA/MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, cit., 27. Amplius, PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1228 s. (24) Esattamente DELMAS-MARTY, Nouveau code pénal: Avant-propos, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1993, che pure esprime le difficoltà del compito del ‘‘codificatore’’ contemporaneo in materia penale (437), nota come ‘‘una codificazione per il secolo XXI non può essere concepita secondo il modello dell’inizio del XIX secolo’’ (440). (25) Come è ben documentato nei volumi Thibaut und Savigny (1914), STERN (Hrsg.), Darmstadt, 1959; Thibaut und Savigny. Ihre programmatischen Schriften, HATTENHAUER (Hrsg.), München, 1973. I due scritti principali ed iniziali della disputa sono anche disponibili nella traduzione italiana di PERETTI nel volume A.F.J. Thibaut - F.C. Savigny. La polemica sulla codificazione, MARINI (cur.), Napoli, 1982. (26) A fronte delle poche voci concordanti con le tesi anticodicistiche di Savigny, la cultura del Risorgimento italiano si schierò decisamente a favore dell’idea di codificazione, coerentemente all’obiettivo di un’unificazione giuridica nazionale (F. Sclopis, P.S. Mancini, A. Rosmini): v. GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia. 1865-1942, Roma-Bari, 1994, 6 s. (27) Per testimonianze del tempo cfr. ancora GAUDEMET, La codification, cit., 319. (28) Significativa in proposito l’analogia contenutistica fra l’introduzione del famoso


— 766 — persino quella di contribuire all’unificazione linguistica della Nazione (29). Meritevole di attenzione, in questa sede, è soprattutto il dato che in quella lontana stagione, al di là delle apparenze, l’istanza per la codificazione non si limitava al diritto civile, ma comprendeva anche il diritto penale ed il processo (30), come pure appare significativo l’atteggiamento di non pochi oppositori della codificazione in campo civilistico, i quali ne ammettevano invece l’utilità per il diritto penale (31). Sarebbe vano ricercare punti di conferma con i motivi ricordati nella presente stagione ricodificatoria, almeno nell’aria dei Paesi qui considerati, in cui l’affermazione dell’identità nazionale non rientra certo fra gli impulsi alla riforma dei codici penali. Anche limitandosi poi alla specifica vicenda storica italiana, l’esperienza della vigenza dei codici francesi e quella dei pur differenziati testi codicistici dei vari Stati preunitari rappresentò un fattore non secondario di aggregazione, che spianò la difficile libro di BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), qui citato nell’edizione curata da VENTURI, Torino, 1978, 3, e le graffianti pagine del THIBAUT, Über die Nothwendigkeit eines allgemeinen bürgerlichen Rechts für Deutschland, Heidelberg, 1814, 15 s., a giudizio del quale il codice giustinianeo era ‘‘l’opera di una Nazione straniera da noi molto diversa, che risale al periodo della sua profonda decadenza e di questa decadenza reca in ogni pagina le tracce’’. Per di più, la mancanza di un testo unitario rende il diritto romano ‘‘paragonabile ad un fuoco fatuo’’: di fronte alle ‘‘controversie erudite’’ degli studiosi per orientarsi nell’enorme massa di varianti testuali ricavabili dagli innumerevoli manoscritti ‘‘ai pratici non resta che, come l’animale paziente di Buridano tra i due mucchi di fieno, starsene in mezzo senza muover la testa’’; quanto ai cittadini, ad essi ‘‘non importa niente che le buone idee siano ben conservate nei libri stampati, ma che il diritto sia ben vivo nelle teste di giudici ed avvocati, in modo da consentire a questi ampie conoscenze giuridiche’’. (29) Quanto all’affermazione della lingua nazionale nei codici si possono citare come esempi l’art. 259 della Costituzione bolognese del 1796, che disponeva ‘‘Similmente il nuovo Codice civile e Criminale da compilarsi dal Corpo Legislativo sarà interamente scritto in lingua italiana’’, e l’art. 56 del Terzo Statuto costituzionale del Regno d’Italia del 1805, che, nel recepire il codice civile napoleonico, istituiva una commissione con il compito di tradurlo in latino ed in italiano, ma concludeva attribuendo solo a quest’ultima versione ‘‘forza di legge’’ (in proposito cfr. BONINI, La costituzionalizzazione del problema dei codici in Italia fra fine settecento e inizio ottocento, in ID., Appunti di storia delle codificazioni, Bologna, 1987, 6 s., 20 s.). Critico sulla capacità del legislatore tedesco di utilizzare la propria lingua nazionale per scrivere un nuovo codice invece SAVIGNY, Vom Beruf unsrer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1814, 52, che, nel pieno della polemica già ricordata, arriva a sostenere: ‘‘Non conosco nessuna legge tedesca del diciottesimo secolo che si possa paragonare per serietà e forza espressiva all’ordinanza penale di Carlo V’’. Il riferimento è alla Constitutio Criminalis Carolina del 1532. (30) Come espressamente chiariva lo stesso THIBAUT, Über die Nothwendigkeit, cit., 12. Questa concezione unificante ha una spiegazione storica: nell’ottica giuridica del XVII sec. era infatti prevalente la classificazione del diritto penale e del diritto privato come parti del diritto civile: TARELLO, Storia, cit., 31. (31) Cfr. la testimonianza di MITTERMEIER, Die Strafgesetzgebung in ihrer Fortbildung (1841), tr. it. in Scritti germanici di diritto criminale, IV, Livorno, 1847, 3.


— 767 — strada per la creazione dello Stato nazionale; questo a sua volta riuscì a completare l’unificazione legislativa solo dopo il compimento dell’opera di codificazione anche in campo penale (32). Un simile compito esula invece dagli obiettivi di un nuovo codice penale italiano, pur nell’eventualità che le spinte politiche verso una trasformazione in senso federale del nostro ordinamento possano aprire nuovi spazi per l’attribuzione di competenze penali ad aggregazioni politiche infrastatuali. Il punto cruciale è da ricercare dunque altrove: si tratta di indagare se ancora oggi sussistano esigenze sostanziali che possono essere soddisfatte dallo strumento codicistico e quali fra le funzioni svolte dal movimento codificatorio al tempo della sua affermazione, ben due secoli fa, siano ancora attuali negli ordinamenti contemporanei, nonostante le profonde trasformazioni subite (33). In questi termini, illuminati dalla consapevolezza del senso storico del diritto, la tendenza alla codificazione appare, ieri come oggi, essenzialmente condizionata da due forze distinte, anche se non sempre dello stesso peso specifico: per un verso, l’istanza riformistica del diritto penale, per adeguarlo a nuove esigenze di tutela ed a più moderni principi e criteri di incriminazione; per altro verso, l’aspirazione ad una composizione più certa ed organica dell’insieme di norme penali vigenti nell’ordinamento considerato: esigenza quest’ultima che, fra i suoi molteplici profili, presenta fondamentalmente un significato di garanzia dei cittadini rispetto all’intervento penale, contribuendo ad assicurare la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie per le proprie scelte di azione (34). Entrambe tali componenti si rivelano necessarie per individuare il (32) Per un quadro accurato GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia. 1865-1942, cit., 29 s. (33) La questione ha evidentemente una dimensione non limitata alla materia penale né all’esperienza italiana, riguardando piuttosto il problema di fondo se la codificazione mantenga un ruolo nell’arsenale contemporaneo delle fonti di produzione normativa: in proposito, la conclusione di una ricerca comparatistica di ampio respiro è che ‘‘l’idea di codificazione non è morta’’, sebbene ne vadano attualizzati i vantaggi e gli ostacoli (VIANDIER, Recherche de législatique comparée, Berlin/Heidelberg, 1988, 37 s., 40-41). Anche MENGONI, L’Europa dei codici o un codice per l’Europa?, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 516, sottolinea ‘‘la forza che l’idea di codice continua ad esercitare in tutti i paesi del continente’’, nonostante le distanze fra l’ideologia originaria della codificazione ed i significati dei codici (civili) attuali. (34) Individua con precisione i due fattori indicati nel testo nelle tendenze illuministiche alla codificazione penale CAVANNA, La codificazione penale in Italia. Le origini lombarde, Milano, 1975, 18. Più in generale, il collegamento fra ‘‘registrazione sistematica del diritto’’ per fini di sicurezza giuridica e ‘‘statuizioni di diritto nuovo’’ emerge con chiarezza nelle insuperate pagine dedicate alle codificazioni da MAX WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft (1922). tr. it. Economia e società: vol. III Sociologia del diritto, Milano, 1980, 162 s. Sull’esigenza di prevedibilità delle conseguenze giuridiche per il cittadino affidata allo strumento codicistico cfr. anche SEAGLE, Weltgeschichte, cit., 411 s.


— 768 — ‘‘codice genetico’’ del genere codicistico, perché la presenza di una sola di esse dà luogo ad un diverso fenomeno normativo. Così, il compito di innovare il sistema vigente, per adeguarlo alle nuove esigenze di tutela giuridica, se perseguito indipendentemente da ogni preoccupazione di certezza, porta alla legislazione ad hoc degli ultimi anni, la quale, nel suo affannoso tentativo di rispondere alla complessità del reale, sembra ricordare Achille che insegue la tartaruga, nonostante l’impossibilità logica di raggiungerla (35). D’altra parte, il bisogno di certezza di per sé può essere soddisfatto con mere consolidazioni normative, senza dunque ricorrere a veri e propri nuovi testi codicistici (36): così accadde nel processo di faticoso superamento del particolarismo giuridico, quando alla richiesta di unificare la congerie di disposizioni disperse in innumerevoli fonti si rispose in un primo momento con semplici consolidazioni normative (37). Analogamente oggi, proprio la suaccennata situazione di rediviva frammentazione normativa, unitamente alla consapevolezza della necessità di ‘‘delegificare’’ fin dove è possibile, spiegano le fortune del testo unico come strumento per riordinare settori normativi, resi difficilmente ricostruibili dal succedersi incalzante degli interventi novellistici (38). La risposta che si è così anticipata in merito all’attuale vitalità dello strumento codicistico non ha fini meramente conoscitivi, ma anche delle conseguenze contenutistiche di primaria importanza: le indubbie caratte(35) Sul carattere tardivo della legislazione contemporanea ‘‘condannata a seguire le varie domande sociali’’, nel generale contesto delle trasformazioni subite dallo Stato di diritto e dal suo sistema di produzione normativa, cfr. MODUGNO/NOCILLA, Crisi della legge e sistema delle fonti, in Dir. soc., 1989, 417. (36) Quanto alla differenza fra consolidazioni, come sistemazioni del materiale normativo esistente, e codificazioni, come corpi organici che contengono modifiche contenutistiche alla materia regolata, oltre alle indicazioni supra nt. 16, v. pure VIANDIER, Recherche de législatique comparée, cit., 35 s.; da ultimo, anche se con specifico riferimento al settore civilistico, IRTI, Consolidazioni e codificazioni delle leggi civili, in ID., Codice civile e società politica, cit., 73 s. (37) Esemplari in tal senso le ‘‘Leggi civili e criminali pel Regno di Sardegna raccolte e pubblicate per ordine di SSRM il Re Carlo Felice’’, promulgate il 16 gennaio 1827, sulla cui natura di consolidazione normativa cfr. DA PASSANO, La repressione penale nel cosiddetto ‘‘codice’’ feliciano, in Mat. st. cult. giur., 1981, 101 s. (38) Si pensi, ad esempio, al testo unico delle leggi in materia di stupefacenti (d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309) ed a quello delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.l.vo 1o settembre 1993 n. 399). Ulteriori segnali dello stesso fenomeno sono, per un verso, l’attesa, finora delusa, per un testo unico che riordini la normativa in tema di criminalità organizzata e, per altro verso, la predisposizione di un testo unico in materia di mercati finanziari e mobiliari, contenuta nel progetto di legge comunitaria del 1994. Sulla delegificazione, come spostamento verso fonti normative alternative allo strumento tradizionale della legge, e che ha trovato nel nostro ordinamento un importante quadro di riferimento nella L. n. 400 del 1988, v. ad es. ancora MODUGNO/NOCILLA, Crisi della legge, cit., 429 s.


— 769 — ristiche specifiche del diritto penale contemporaneo, nel momento in cui si procede ad una risistemazione di fondo del sistema, non possono restare estranee ai principi generali, affermati proprio a partire dalla nascita dei moderni ordinamenti a base costituzionale rigida, per lo più obiettivati nei rispettivi codici penali e non di rado nelle stesse carte costituzionali (39). Si può anzi trarre una conferma all’accennata soluzione invertendo, per così dire, l’ordine di fattori: si tratta di verificare se nei nuovi codici penali, vigenti o progettati, si riscontrino proprio quegli stessi principi generali, considerati sin dal secolo scorso la griglia fondamentale in cui si esprimono esigenze e valori imprescindibili nel ricorso dello Stato all’arma penale. In caso di risposta affermativa, le novità contenute nei testi ricordati, tanto sul piano delle esigenze di tutela quanto su quelle delle relative tecniche, riveleranno la loro natura di adeguamento necessario dello strumento codicistico alle caratteristiche degli ordinamenti contemporanei. Sembra opportuno avvicinarsi al problema fornendo un quadro delle diverse vicende che hanno interessato i lavori di riforma nei Paesi che abbiamo visto rientrare nella seconda ondata ricodificatoria. Si prenderà dapprima in considerazione l’esperienza francese, che già ha il crisma della giuridicità, per poi passare ad analizzare i lavori che hanno portato ai diversi progetti italiano, spagnolo ed inglese. Solo dopo avere fornito i tratti essenziali di tale cornice sarà possibile approfondire alcune aree tematiche di interesse più generale, per tentare quindi una considerazione conclusiva in merito al significato complessivo del processo di ricodificazione penale. PARTE I ITINERARI CONTEMPORANEI DELLA RICODIFICAZIONE

1. Francia: il codice dei diritti dell’uomo. — Il 1o marzo 1994 in Francia è entrato in vigore il nuovo codice penale; esso è composto da cinque libri: i primi quattro approvati con altrettante leggi coeve, la prima dedicata alle norme di parte generale (40), le altre alla parte speciale (41); (39) Per il collegamento fra processo di costituzionalizzazione e formazione dei codici in senso moderno, il cui esempio più netto è offerto dall’esperienza francese, cfr. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, cit., 22 s. In particolare, per il nostro Paese, v. GHISALBERTI, La codificazione, cit., XII. (40) L. n. 92-683 del 22 luglio 1992, di riforma alle disposizioni generali del codice penale. (41) L. n. 92-684 del 22 luglio 1992, di riforma alle disposizioni del codice penale relative alla repressione dei crimini e delitti contro le persone; L. n. 92-685 del 22 luglio 1992, di riforma alle disposizioni del codice penale relative alla repressione dei crimini e delitti contro i beni; L. n. 92-686 del 22 luglio 1992, di riforma alle disposizioni del codice pe-


— 770 — l’ultimo, intitolato genericamente ‘‘altri crimini e delitti’’, è stato invece aggiunto da una successiva legge che, oltre alle disposizioni di attuazione e di coordinamento, contiene anche numerose modifiche al codice di procedura penale ed a svariate altre leggi (42). Il codice è completato da una parte regolamentare, emanata con un distinto decreto (43). L’importanza della novità risalta soprattutto se si considera che il precedente normativo diretto era rappresentato da quello che gli stessi francesi chiamavano, non senza una punta di orgoglio, il codice penale più antico del mondo, quello napoleonico del 1810 (44). Per di più, il valore di tale risalente documento travalicava i confini francesi, in quanto — analogamente a quanto si verificò in misura ancora più vistosa con il code civil del 1804 (45) — esso venne direttamente applicato in alcuni Paesi sottoposti al dominio francese nel periodo napoleonico (così ad esempio in alcuni territori italiani) e anche dopo la chiusura di tale fase storica rimase comunque il modello normativo di riferimento per non poche delle successive codificazioni penali (46). Le esigenze a base della recente riforma non consistevano tanto nelle pur esistenti imperfezioni tecniche del codice (es.: mancata previsione di nale relative alla repressione dei crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e la pace pubblica. (42) L. n. 92-1336 del 16 dicembre 1992, relativa all’entrata in vigore del nuovo codice penale ed alla modificazione di alcune disposizioni di diritto penale e di procedura penale rese necessarie da tale entrata in vigore. (43) Decr. n. 93-726 del 29 marzo 1993, relativo alla parte regolamentare del codice. (44) Cfr. ad es. PRADEL, Le nouveau code pénal français: aperçus sur sa partie générale, tra. it. (di Guerrini) Il nuovo codice penale francese: alcune note sulla sua parte generale, in Indice pen., 1994, 5. Per un confronto fra il nuovo codice ed i suoi precedenti (quello del 1791 e quello del 1810) v. CHASSAING, Les trois codes français et l’évolution des principes fondateurs du droit pénal contemporain, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1993, 445 s. (45) Per tale parallelismo cfr. STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Droit pénal général, Paris, 198412, 83. La fondamentale importanza del code civil Napoléon nel quadro dell’affermazione dei sistemi giuridici liberali è un dato notorio: cfr. da noi ad es. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1979, 67 s.; CORRADINI, Le codificazioni civilistiche dell’Ottocento, in Il diritto privato nella società moderna, RODOTÀ (cur.), Bologna, 1971, 56 s.; GALGANO, Storia del diritto commerciale, Bologna, 1976, 72 s.; in particolare, per le fortune in Italia v. le indicazioni di BONINI, Note sull’unificazione del diritto privato in Italia, in ID., Appunti di storia delle codificazioni, cit., II, 3 s.; e l’accurata ricostruzione di PADOA - SCHIOPPA, Dal codice napoleonico al codice civile del 1942, in Scritti in onore di Sacco, Milano, 1994, I, 928 s. (46) Sul ruolo esemplare dei codici penali francesi postrivoluzionari, cfr. LAINGUI, Il diritto penale della rivoluzione francese e dell’impero, in I codici preunitari e il codice Zanardelli, VINCIGUERRA (cur.), Padova, 1993, 38 s. Con riferimento al codice Prussiano del 1851, e per questo tramite al codice penale tedesco del 1871, VOLK, L’influenza del diritto penale della rivoluzione francese e dell’impero sulle codificazioni tedesche, ivi, 54 s. Con riguardo ai terrritori italiani ai quali fu estesa la validità dei codici penali francesi, cfr. VASSALLI, Codice penale, in Enc. dir., vol. VII, 1960, 262.


— 771 — alcune giustificanti, la considerazione delle pene prima della responsabilità, etc.), nascendo piuttosto dalla complessiva evoluzione conomica, sociale e di pensiero. A titolo esemplificativo, fra i settori in cui il vecchio codice risultava non più rispondente ai tempi venivano indicati: la parte delle sanzioni (con il mutamento di paradigma dalla retribuzione al trattamento), la responsabilità delle persone giuridiche, il quadro delle tipologie criminose (47). Vero è che del testo originario era rimasto ben poco, a causa delle numerosissime modifiche succedutesi con ritmi crescenti nel corso del tempo ed imposte dalla necessità di attualizzare l’impianto normativo originario di fronte al continuo sorgere di nuove esigenze di tutela (48). Tuttavia il collage così formatosi presentava ormai da tempo non rare incoerenze interne e zone d’ombra (49). Per di più, intere materie penalmente presidiate trovavano la propria disciplina in una legislazione speciale sovrabbondante, il cui riordino a partire dagli anni cinquanta era stato affidato ad appositi ‘‘codici’’ di settore (50). Quanto alla storia dei tentativi di riforma, essa è meno ricca di altre esperienze: dopo un antico ed isolato progetto preliminare degli anni trenta (51), i lavori che sono sfociati nel nuovo codice prendono le mosse formalmente nel 1974 — in un tempo dunque in cui la riforma tedesca era già sul punto di entrare in vigore — con la costituzione di una com(47) Cfr. PRADEL, Il nuovo codice penale, 5 s.; ed anche ID., Droit pénal général, Paris, 19949, 106; DESPORTES/LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, I, Paris, 1994, 29, 41 s.; VERMELLE, Le nouveau droit pénal, Paris, 1994, 17 s. Per il capitolo delle sanzioni in particolare cfr. ZIESCHANG, Das Sanktionensystem in der Reform des französischen Strafrechts im Vergleich mit dem deutschen Strafrecht, Berlin, 1992, 198 s. (48) Si calcola che nel 1993 solo un quinto circa degli articoli fosse rimasto nella formulazione originaria del 1810 (PRADEL, Il nuovo codice penale, cit., 6 s.). Forse però il senso delle trasformazioni intervenute è dato da un ulteriore parametro di riferimento: dal 1819 al 1900 le leggi che hanno direttamente o indirettamente modificato il sistema penale sono state 33, ben 170 dal 1900 al 1949 e addirittura circa 550 dal 1949 al 1986. Per un inventario delle principali modifiche normative nel periodo 1974-1986, cfr. DELMAS-MARTY, Dal codice penale ai diritti dell’uomo, PALAZZO (cur.), BERNARDI (trad.), Milano, 1992, 17 s. (49) Il codice del 1810 era ormai considerato ‘‘uno strumento giuridico obsoleto’’, in quanto ‘‘arcaico’’, ‘‘inadatto alle esigenze della società contemporanea’’, ‘‘contradditorio’’, ‘‘incompleto’’ (giudizi espressi dal Ministro della Giustizia, Robert Badinter, nel presentare il progetto di riforma del codice all’Université di Paris I il 19 dicembre 1985: v. Projet de nouveau code pénal. Presentation par R. Badinter, Paris, 1988, 9). (50) Si noti che in tali documenti normativi l’etichetta di codice non è impiegata nel significato moderno, ma come raccolta organica di norme. Essi hanno in pratica la stessa funzione dei nostri testi unici, in quanto il decreto di codificazione non può modificare le norme delle leggi assemblate. Fra i principali si possono ricordare i codici delle imposte, della sanità pubblica, dell’urbanistica, della strada, delle bevande alcoliche, del lavoro, dell’artigianato, e quelli rurale ed elettorale. (51) Questo testo (detto Progetto Matter) fu presentato in Parlamento, ma non venne mai discusso. Si trattava peraltro di un testo non privo di interesse per il tempo: in specie, si prevedeva la distinzione fra pene e misure di sicurezza e la responsabilità penale delle persone giuridiche.


— 772 — missione di revisione del codice penale (52). Questo organo fece circolare un primo progetto preliminare nel 1976 e quindi, alla luce dei pareri formulati dalle Corti di giustizia, dalle Università, dagli Ordini forensi, nel 1978 presentò al Guardasigilli un Avant-projet (progetto preliminare) di nuovo codice penale (53). L’attributo di ‘‘definitivo’’ dato a tale documento si rivelò ben presto ottimistico, perché all’inizio degli anni ottanta, con la svolta politica della sinistra al governo, fu nominata ex novo una commissione di giuristi (54). Questa a sua volta completò nel 1983 un ulteriore progetto preliminare di parte generale, la cui parte sanzionatoria è ricca di innovazioni: non riproposizione della pena di morte (peraltro, già abrogata dal 1981), previsione del sistema dei tassi giornalieri per le pene pecuniarie e di alternative alle pene detentive brevi, fra le quali spicca il lavoro di interesse generale (positivamente recepito con legge speciale dal 1983). Dopo ulteriore rielaborazione, nel febbraio 1986 il ministro di Giustizia, Badinter, presentava il nuovo progetto di code pénal al Senato, dove resterà in attesa di essere discusso fino al 1989; in tale anno, su deciso impulso del Presidente Mitterrand, cominciano i lavori parlamentari, i quali si concludono nel 1992 con le cinque leggi surricordate (55). Fra i caratteri generali dell’ultimo nato fra i codici penali europei sono da annoverare la chiarezza espressiva e sistematica, la ridefinizione dei confini reciproci fra il codice sostanziale e quello di procedura penale (con l’attrazione al primo di alcuni importanti settori, come i limiti di validità spaziale delle norme penali ed alcuni principi essenziali relativi all’esecuzione delle pene), uno sforzo complessivo di attualizzare il codice al mondo contemporaneo ed alle moderne forme di manifestazione della criminalità. Un esempio in tal senso è offerto dalla previsione generale della responsabilità penale per le persone giuridiche, anche se forse il dato più caratterizzante rimane l’ispirazione di fondo dell’opera, indicata dallo stesso ministro Badinter nella tutela dei diritti dell’uomo, in quanto valori fondamentali in cui si riconosce la maggioranza della società francese con(52) Notizie più dettagliate in SABATIER, I criteri fondamentali della riforma del codice penale francese, in Metodologia e problemi fondamentali, cit., 64 s.; PRADEL, Le nouveau code pénal (Partie générale), cit., 6 s. Cfr. anche MARINUCCI/DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, in questa Rivista, 1992, 406 s.; DE SIMONE, il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, 191 s. (53) Cfr. in proposito LÉAUTÉ, L’Avant-projet du nouveau Code pénal français, in Arch. pol. crim., 1985, 13. (54) La Commissione, insediatasi nel 1981, era presieduta dallo stesso Ministro Guardasigilli, Robert Badinter, e composta da cinque professori di diritto penale, cinque magistrati, tre avvocati ed uno psichiatra. (55) Ulteriori notizie sui lavori di riforma in ZIESCHANG, Der Allgemeine Teil des neuen französischen Strafgesetzbuchs, in ZStW, 1994, 647 s. In specie, sui lavori parlamentari LARCHE e GOUZEX, in Le nouveau code pénal. Enjeux et perspectives, Paris, 1994, 9 s., 12 s.


— 773 — temporanea (56). Non va peraltro trascurato che il giudizio globale dei primi commentatori segnali per lo più il carattere non rivoluzionario del codice (57) e talvolta spinga a dipingerlo come imperniato su una concezione protoliberale dell’intervento penalistico (58). A questo ultimo proposito, ci si riferisce in particolare al primato della persona umana affermato dal codice francese già sul piano sistematico. Trattandosi di un significativo punto comune ai vari testi normativi qui considerati, esso sarà considerato nella parte seconda del presente lavoro, dedicata all’esame incrociato dei principali contenuti degli esempi di ricodificazione. In breve qui si può invece smentire che il riferimento ai diritti umani rappresenti una indebita semplificazione rispetto alla complessità sociale: lo stesso ministro Badinter esprimeva a chiare lettere la necessità di collegare la tutela codicistica ai valori della società, ed in particolare ribadiva l’esigenza di armonizzare tanto le incriminazioni, quanto le pene con la coscienza collettiva, pur riconoscendo la difficoltà di tale compito nelle moderne società complesse. Si può dunque notare che l’ancoraggio ai diritti umani, lungi dal costituire una semplificazione riduttiva, rappresenta con ogni probabilità il tentativo più aggiornato per realizzare in un contesto pluralista di valori, come quello delle società contemporanee, una tradizionale condizione di legittimità ed al contempo di efficacia dell’intervento penale, e cioè la sua capacità di tutelare valori socialmente condivisi (59). Tanto più che le scelte incriminatrici concretamente compiute nella parte speciale smentiscono una concezione protoliberale ed individualistica dei diritti in questione: l’evoluzione dei valori fa rilevare la persona non solo come singolo, ma anche come parte di gruppi sociali, fino all’umanità nel (56) Così, espressamente, Projet de nouveau code pénal. Presentation par R. Badinter, cit., 31 s. Sul rapporto fra i diritti dell’uomo e la politica criminale, cfr. DELMAS-MARTY, Dal codice penale, cit., 246 s. (57) Cfr. PRADEL, Il nuovo codice penale, cit., tr. it. 9, che riporta l’opinione in tal senso espressa dal Guardasigilli Arpaillange davanti alla commissione dell’Assemblée Nationale, nel corso dei lavori preparatori. Di ‘‘prudenza del testo’’ ha parlato DELMAS-MARTY, Le nouveau code pénal français: textes et contexte, in Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto (Atti Convegno Firenze 19-20 novembre 1993), Padova, 1995, 44 s. (il volume è stato pubblicato durante la fase di stampa del presente lavoro). (58) Proprio rispetto all’idea del codice ispirato alla tutela dei diritti umani (v. supra nt. 56) cfr. le critiche sviluppate da LASCOUMES/PONCELA/LENOEL, Au nom de l’ordre. Une histoire politique du code pénal, Paris, 1989, 293 s. e riprese da FIANDACA, Problemi e prospettive, cit., 7 s., per il quale la concezione individualistica dei diritti umani, che si ritiene di rinvenire a fondamento dell’impostazione codicistica, ancorché ‘‘conforme alla tradizione politico-giuridico francese’’, potrebbe apparire ‘‘oggi sostanzialmente conservatrice’’ e comunque non sarebbe ‘‘dotata di reale fondamento sociologico tenuto conto della complessità della stessa società francese odierna’’. (59) Cfr. Projet du nouveau code pénal, cit., 10 s.


— 774 — suo complesso, ed ancora nell’ambiente naturale in cui vive (come indicano già gli intitolati delle sezioni di parte speciale) (60). 2. Italia: il difficile abbandono del codice Rocco. — Rispetto all’esperienza francese, la storia delle iniziative di riforma del codice penale italiano presenta un inizio ben più risalente, avendo ormai varcato la soglia del mezzo secolo, ma anche esiti non altrettanto compiuti, almeno a tutt’oggi. I primi tentativi si ebbero già nel 1944, e si susseguirono poi numerosi; peraltro, non solo quasi sempre si trattò di sforzi di riforma parziale, non mirati a sostituire ex novo il codice del 1930 (61), ma anche privi di sbocchi significativi, in quanto fra i diversi Progetti predisposti, solo uno arrivò ad un approdo parlamentare rilevante (Progetto Gonnella, approvato dal Senato nel luglio 1971, e dopo nuove elezioni, nel gennaio 1973, ma mai discusso dalla Camera dei Deputati) (62). L’insuccesso di vari tentativi, dovuto soprattutto all’instabilità politica italiana, non ha del resto impedito che alcune fra le esigenze di riforma più urgenti arrivassero comunque ad essere soddisfatte. Ciò è però avvenuto o con provvedimenti contingenti e frammentari — esemplare in tal senso il d.l. n. 74 del 1974, conv. in l. n. 220 dello stesso anno, che si caratterizzò per l’ampiamento dei poteri discrezionali del giudice — o con interventi comunque settoriali — si pensi alle ‘‘Modifiche al sistema penale’’ del 1981, che disciplinavano l’illecito penale-amministrativo ed intro(60) Nel senso esatto COUVRAT, Les infractions contre les personnes dans le nouveau code pénal, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1993, 470 s. Sottolineano l’‘‘espressività’’ del nuovo codice rispetto ai valori contemporanei della società anche DESPORTES/LE GUNEHEC, Le nouveau droit pénal, cit., 56. (61) Prima del progetto attuale, l’unico tentativo precedente di riforma globale si deve ad una generica delega approvata il 31 agosto 1944 dal Governo Bonomi. Proprio la mancanza del necessario raccordo fra parte generale e parte speciale era stata da tempo segnalata come vistoso limite delle precedenti iniziative di riforma codicistica: cfr. GROSSO, Parte generale e parte speciale del diritto penale: brevi osservazioni sul progetto di ricerca, in Problemi generali di diritto penale. Contributo alla riforma, VASSALLI (cur.), Milano, 1982, 115 s.; NEPPI MODONA/PULITANÒ, Bozza per un programma di ricerca. Rapporti tra esigenze e tecniche di tutela, in Materiali per una riforma del sistema penale, Milano, 1984, 19. Più in generale, riconsidera di recente i rapporti fra parte generale e parte speciale nei codici penali contemporanei TIEDEMANN, Zur Verhältnis zwischen allgemeinen und besonderer Teil, in Festschrift für Baumann, Bielefeld, 1992, 7 s. (62) Per un quadro generale cfr. PAGLIARO, Situazione e progetti preliminari nel procedimento di riforma del diritto penale italiano, in Indice pen., 1980, 478 s.; v. anche VASSALLI, Codice penale, cit., 277 s.; DOLCINI, Codice penale, cit., 34 s. Sul Progetto Gonella, in particolare v. CRESPI, Riforme ardite e riforme ordite: le progettate modifiche al libro primo del codice penale, in questa Rivista, 1973, 818 s.; MARINUCCI, Politica criminale e riforma del sistema penale, cit., 47 s.; VASSALLI, La riforma del codice penale italiano, in Giust. pen., 1972, I, 513 s.


— 775 — ducevano le misure sostitutive alle pene detentive brevi (63) —. Quanto invece alle riforme di più ampio respiro, esse si sono prima realizzate nella periferia, per così dire, del sistema penale e solo in un secondo momento si sono indirizzate verso il nucleo di esso, senza peraltro ancora intaccarlo: nel 1975 l’ordinamento penitenziario, che con la l. n. 354/75 ha subito una vera svolta normativa in senso specialpreventivo, peraltro a sua volta ulteriormente modificata negli anni successivi, e alla fine degli anni ottanta il processo penale, con l’emanazione del nuovo codice di procedura penale orientato verso il modello accusatorio e non più inquisitorio (64). Tutto ciò non poteva che porre con maggiore forza ed urgenza l’esigenza di riscrivere lo stesso codice penale sostanziale, per l’evidente congruenza che deve esistere fra i diversi meccanismi del sistema penale (65); esigenza, questa, del resto già avvertita nell’esperienza tedesca, punto di riferimento obbligato del movimento internazionale di riforma penale (66). Tutti i dati rilevati convergono a sottolineare l’importanza del Pro(63) Per una panoramica più dettagliata sull’evoluzione legislativa italiana, specie nel periodo 1974-1985, si rinvia a PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 19853, 2 s., che conclude rilevando come il fenomeno si accompagni alla mancanza di una riforma organica del codice penale (20). Si può solo aggiungere che la tendenza segnalata si è in seguito ulteriormente rafforzata, sino a diventare tumultuosa negli anni novanta. (64) Il primo codice della Repubblica Italiana peraltro non è riuscito a sottrarsi al fenomeno dell’instabilità normativa, perché sin dalla sua entrata in vigore è stato integrato, modificato e, in certi casi, radicalmente trasformato: una recentissima indagine ha calcolato ben 166 interventi di modifica nei cinque anni di vita del codice: cfr. Sole-24 Ore, 24 ottobre 1994, p. 1-2, 11-12, 21-22. Per una riflessione generale sul fenomeno, cfr. GIARDA, Del continuo ‘‘cangiamento’’ normativo, in questa Rivista, 1991, 76 s. (65) Su tale nesso cfr., già in fase di preparazione del nuovo codice di procedura penale, STILE, Introduzione, a Metodologia e problemi fondamentali della riforma penale, STILE (cur.), Napoli, 1981, IX. Dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale il rilievo si è diffuso: BRICOLA, Riforma del processo penale e profili di diritto sostanziale, in Indice pen., 1989, 316; PADOVANI, Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1989, 916 s.; FIANDACA, Dalla riforma del processo alla riforma del codice penale, in Quest. giust., 1990, 381 s.; ID., Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi giudiziaria e dottrina, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, PEPINO (cur.), Milano, 1993, 15 s.; FERRUA, La riforma del diritto penale sostanziale ed il nuovo processo penale, ivi, 120 s. (66) Sulla mancata riforma del codice di rito in Germania, cfr. ad es. MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano, MILITELLO (cur.), Torino, 1993, 24. Talvolta si rileva che la riforma della parte generale del codice tedesco avrebbe dovuto essere preceduta, e non seguita come in effetti fu, dalla riforma dell’esecuzione penale: BAUMANN, Insegnamenti da una riforma penale, in Metodologia e problemi fondamentali, cit., 10 s. Ma, come l’esperienza italiana dimostra, questa non sembra la direttrice da seguire, in quanto la tipologia sanzionatoria condiziona già in partenza le modalità esecutive delle stesse; è dunque su quel piano preliminare che vanno compiute le fondamentali scelte di politica criminale, le quali devono preoccuparsi già in partenza delle condizioni esecutive delle sanzioni prescelte.


— 776 — getto 1992 di nuovo codice penale, predisposto da una commissione di professori di diritto penale, nominata nel 1988 dall’allora Ministro Vassalli (67). Il rilievo obiettivo del documento ed il concreto passo avanti che segna nel difficile cammino verso il superamento del codice Rocco non poteva che richiamare l’attenzione della dottrina penalistica, che ne ha approfondito gli aspetti in numerose occasioni di dibattito collettivo (68) ed in un vero e proprio fiorire di studi ad esso dedicati (69). A (67) La commissione era composta dai prof. A Pagliaro (presidente), F. Bricola, F. Mantovani, T. Padovani, A. Fiorella. Anche il prof. A. Latagliata ne faceva parte, prima della sua improvvisa scomparsa, poco tempo prima della conclusione dei lavori. Nelle intenzioni del Ministro Vassalli, una volta approvata la delega legislativa al Governo, il compito di formulare l’articolato sarebbe toccato ad una commissione più ampia, con la partecipazione di altre componenti della vita giuridica, quali funzionari ministeriali, magistrati, avvocati. Per questa ed altre notizie sui lavori della commissione cfr. PAGLIARO, Sullo schema di legge delega per un nuovo codice penale, in Giust. pen., 1993, 173. (68) Al Progetto 1992 sono stati dedicati i seguenti congressi di studio: Prospettive di un nuovo codice penale (ISISC, Siracusa 15-18 ottobre 1992); La riforma del codice penale come obiettivo di legislatura (AIDP Gruppo Italiano, Cagliari 17-20 dicembre 1992); Valore e principi della codificazione penale: le esperienze francese, italiana, spagnola a confronto (Università di Firenze, 19-20 novembre 1993); Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali (CNPDS, St. Vincent 6-8 maggio 1994); Omnis definitio in jure pericolosa? Il problema delle definizioni nei codici (e nei progetti di codici) penale contemporanei (Università di Trento, Bolzano 3-4 dicembre 1993); Riforma del sistema penale, tra evoluzione dottrinaria ed esigenze concrete di giustizia (Centro studi giuridici ‘‘M. De Pietro’’, Lecce 1-2 ottobre 1994); I reati ambientali nel progetto di riforma del codice penale (Centro Studi ed Iniziative sul lavoro, salute ed ambiente, Padova, 17 dicembre 1994. I relativi atti sono tutti in corso di pubblicazione (v. però ora il volume che raccoglie i lavori del convegno di Firenze, cit., supra nt. 57). Una posizione particolare occupa il volume Verso un nuovo codice penale, cit. che raccoglie gli atti del convegno Verso un nuovo codice penale? Itinerari - Problemi - Prospettive organizzato dal Centro Terranova a Palermo dal 7 al 10 novembre 1991, dunque quando ancora il prodotto dei lavori della commissione non era stato divulgato. La pubblicazione del Progetto 1992 avvenne però prima della stampa del volume summenzionato, consentendo così la conoscenza dei suoi contenuti al di fuori della cerchia dei membri della commissione redigente. Forse a questo dato obiettivo si deve la scomparsa nell’intestazione degli atti congressuali di quel punto interrogativo, che proiettava un’ombra problematica sull’iniziativa di un nuovo codice penale. (69) Fra i molteplici contributi ai congressi ricordati alla nota precedente, al tempo di licenziare le bozze del presente studio, risultano pubblicati, oltre ai già citati lavori di Pagliaro (Sullo schema di legge per un nuovo codice penale), di Fiandaca (Problemi e prospettive attuali di una nuova codificazione penale) ed agli altri contenuti nel volume Valore e principi della codificazione penale (cit. supra, nt. 57), quelli di ARDIZZONE, In tema di aspetto subiettivo del concorso di persone nel reato, in questa Rivista, 1995, 51; BERNARDI, Note sulla disciplina della pena pecuniaria prevista dallo schema di delega al governo per l’emanazione di un nuovo cod. pen., in Annali dell’Università di Ferrara, 1992, 111; BOSCARELLI, Osservazioni, specie in tema di esimenti, su un recente ‘‘schema di delega legislativa’’ per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1993, 55; CANESTRARI, I delitti aggravati dall’evento. Prospettive di riforma, in Indice pen., 1993, 569; FIORE, Il principio di offensività, ivi, 1994, 275; FORNASARI, Le cause soggettive di esclusione della responsabilità nella propo-


— 777 — differenza delle altre esperienze di ‘‘neocodificazione’’ qui considerate, il Progetto italiano riguarda uno ‘‘schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale’’. Il testo dunque non contiene in dettaglio i singoli articoli del codice, ma ha un taglio più generale, dovendo contenere i ‘‘principi e criteri direttivi’’ della disciplina (art. 77 Cost.). Peraltro, allo scopo dichiarato di rispettare al meglio il principio di legalità penale, gli autori del Progetto 1992 hanno seguito il criterio di differenziare il livello di determinatezza delle previsioni in relazione all’argomento trattato: maggiore analiticità nella parte generale, che fissa i criteri fondamentali della responsabilità validi per l’intero ordinamento penale, ed in tutti quei punti della parte speciale in cui si propongono soluzioni innovative rispetto alla disciplina vigente (70). Sulla scelta di fondo della delega al Governo si è accesa una polemica preliminare nella nostra dottrina, facendosi rilevare che per tale via si esproprierebbe il Parlamento delle proprie prerogative in tema di determinazione della politica criminale nazionale (71): una questione che, proprio per il suo carattere pregiudiziale sullo stesso iter normativo prefigurato, merita un pur breve approfondimento. Non è senza interesse in primo luogo notare che le menzionate riserve, benché ricavate da una rigorosa accezione della riserva assoluta di legge prevista in materia penale dal testo costituzionale vigente (72), riproducono rilievi avanzati già nel sta di legge delega, ivi, 365; GROSSO, La riforma delle cause di giustificazioni generali, in Scritti in Memoria di Dell’Andro, Bari, 1994, 475; INSOLERA, I ‘‘moderni condoni’’ fra prassi legislative e codificazioni, in questa Rivista, 1994, 1305; MELCHIONDA, Riforma del codice e circostanze del reato: fra esigenze contingenti e ripensamenti tecnico-sistematici, ivi, 793; MILITELLO, Agevolazione e concorso di persone nel reato nel Progetto 1992, in Indice pen., 1993, 575; PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, in questa Rivista, 1994, 3; ID., Valori e principi nella bozza italiana di legge delega per un nuovo codice penale, ivi, 374; ID., Lo schema di legge delega per un nuovo codice penale; metodo di lavoro e principi ispiratori, in Indice pen., 1994, 243. Cfr. pure gli ulteriori studi di CAVALIERE, Riflessioni dogmatiche e politico-criminali sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità nello schema di delega legislativa per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, 1478; DONINI, Il delitto contravvenzionale, Milano, 1993, 344 s., 351 s.; GUERRA, Le misure di sicurezza personali nel progetto di legge delega per la riforma del codice penale, in questa Rivista, 1994, 962; MANNA, Imputabilità, pericolosità e misure di sicurezza: verso quale riforma?, ivi, 1318; SCHIAFFO, L’elemento soggettivo nelle cause di giustificazione: prospettive di riforma, ivi, 1003; TAGLIARINI, L’imputabilità nel progetto di nuovo codice penale, in Indice pen., 1994, 453; ZAZA, Principio di offensività e reati-ostacolo nel progetto di nuovo codice penale, in Giust. pen., 1992, II, 557. (70) Cfr. Relazione allo schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, Parte generale, in Documenti della giustizia, 1992, n. 3, 305 s. (71) Cfr. MARINUCCI/DOLCINI, Note sul metodo della codificazione penale, cit., 416. Per le repliche, cfr. PAGLIARO, Verso un nuovo codice penale? Itinerari - Problemi - Prospettive, in Indice pen., 1992, 18 s.; ID., Sullo schema di legge delega, cit., 171 s.; ID., Valori e principi, cit., 375 s. (72) La negazione della legittimità del ricorso alla legge delega in materia penale, con


— 778 — secolo scorso nei confronti tanto dei codici piemontesi del Regno di Sardegna, quanto di quelli successivi del Regno unitario: rispetto a tali testi codicistici la mancanza di ampie discussioni parlamentari e la stessa adozione mediante atti governativi furono denunciate da alcuni come una ‘‘procedura che espropriava le assemblee legislative della loro essenziale funzione normativa’’ (73). Se però si verificano i suddetti rilievi alla luce delle caratteristiche che la fonte della delegazione legislativa ha assunto nell’ordinamento giuridico vigente, essi appaiono contrastabili non solo in base ai — tradizionali, ed ancora insuperati — argomenti di praticabilità ed efficacia, ma anche sul piano della legittimità. Quanto ai primi, non è possibile trascurare che sia le precedenti codificazioni penali nel nostro paese (74), sia l’esperienza comparatistica (naturalmente con riferimento ad ordinamenti dotati di analoga fonte del diritto) (75) indicano che il ricorso allo strumento normativo della delega legislativa al Governo rappresenta la scelta espresso riferimento alla possibilità di un nuovo codice adottato tramite tale fonte normativa, si trova collegata ad un’interpretazione estremamente rigida della riserva di legge nello studio di CARBONI, L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, Milano, 1970, 249 s., 255 s.; con ulteriori precisazioni BRICOLA, Teoria generale del reato, in Novissimo dig. it., XIX, 39 s.; ed anche BRICOLA/SGUBBI/MAZZACUVA, Istituzioni di diritto penale. Dispensa per il corso, Bologna, 1994, 124 s. Analogamente, GRASSO, Il principio ‘‘nullum crimen sine lege’’ nella Costituzione italiana, Milano, 1972, 239 s.; FIANDACA/MUSCO, Diritto penale, P.G., Bologna, 19892, 60 s. (73) Così GHISALBERTI, La codificazione, cit., 53 s., ricostruisce le critiche mosse soprattutto dalla stampa del tempo alla delega legislativa richiesta dal Governo Lamarmora al Parlamento il 24 novembre 1864 e che portò all’approvazione della legge sull’unificazione legislativa del 2 aprile 1865. Da notare che essa comprendeva il codice di procedura penale, ma non riguardava il codice penale, a causa delle discrasie fra il codice penale sardo del 1859 e quello toscano del 1863, di orientamento più mite (come dimostrato emblematicamente dalla mancanza della pena di morte): cfr. oltre a GHISALBERTI, op. cit., 65 s., 167 s., BONINI, Note sull’unificazione, cit., 39; AQUARONE, L’unificazione legislativa ed i codici del 1865, Milano, 1960, 24 s.; VASSALLI, Codice penale, cit., 264 s.; DOLCINI, Codice penale, cit., 9 s. (74) Quando, dopo più di venti anni dalla vicenda legislativa ricordata alla nota precedente, si arrivò finalmente alla pubblicazione del primo codice penale unitario, ciò fu reso possibile dalla delega legislativa che a larga maggioranza il Parlamento del Regno conferì al Governo di Sinistra del tempo. Lo stesso strumento normativo fu poi impiegato per il codice Rocco. Quanto poi al rilievo per il quale le guarentigie costituzionali nei rispettivi regimi avevano una forza minore di quelle affermate dalla Costituzione del 1948 esso non vale rispetto all’adozione dello stesso strumento normativo per l’emanazione del primo codice della Repubblica, quello di procedura penale, rispetto al quale le esigenze garantistiche di tutela dei diritti di libertà del cittadino non appaiono certo minori di quelle valide per il codice sostanziale. (75) Anche il confronto comparatistico indica che lo strumento normativo in questione è stato pure utilizzato in altri ordinamenti a Costituzione rigida. Così, ad esempio, in relazione al codice penale portoghese del 1982, ampiamente influenzato dai principi della riforma penale tedesca, ed ancora per il codice penale adottato nel 1991 in Perù, la cui Costituzione è stata rinnovata nel 1979. Da ultimo, anche l’ampia revisione dello stesso codice


— 779 — normale per riuscire ad elaborare in un arco temporale contenuto e senza vistose antinomie interne testi tanto complessi e tecnici, quali sono quelli codicistici (76). Né una reale alternativa a tali esperienze sembra offerta dalla recente prospettazione di una approvazione esclusivamente parlamentare del testo codicistico, ricorrendo al procedimento redigente, nella versione prevista dal regolamento del Senato (77): l’effettiva capacità di evitare in tal modo il più prolisso iter ordinario è pur sempre condizionata dalla facoltà attribuita allo stesso governo o ad un ristretto gruppo di parlamentari di richiedere fino al momento dell’approvazione la rimessione del testo all’assemblea (secondo i termini dell’art. 72 comma 3 Cost.) (78). Ad essere rigorosi anzi si dovrebbe paradossalmente auspicare che un tale trasferimento avvenga tempestivamente, perché quanto più tardi esso dovesse verificarsi, tanto più grave sarebbe il dispendio di tempo e di energie profusi in commissione, dovendosi in aula ricominciare a discutere ed approvare l’intero articolato. Non si può inoltre trascurare che la strada proposta affida la stesura del Progetto ad un organismo parlamentare, la cui composizione o il cui orientamento può mutare anche più volte nel corso del periodo, presumibilmente non breve, necessario per discutere ed approvare articolo per articolo l’intero nuovo testo codicistico. Invece, la predisposizione della legge delega in termini sufficienteportoghese del 1982 è stata approvata con legge delega del 29 giugno 1994 (cfr. DE FIGUEIREDO DIAS, Il codice penale portoghese, cit., 37). (76) Quanto CARBONI, L’inosservanza, cit., 255 nt. 101 afferma che ‘‘le esigenze di natura tecnica’’ — ‘‘(con cui viene di solito giustificata l’opera di codificazione dell’esecutivo)’’ — ‘‘potrebbero essere garantite, con opportune iniziative, anche attraverso una codificazione realizzata completamente e direttamente dal Parlamento’’, per un verso riconosce l’esistenza del problema di praticabilità dell’opera di codificazione, e per altro verso omette di chiarire quali siano gli accorgimenti tecnici in grado di evitare che una tale opera affidata integralmente al Parlamento non ne blocchi i lavori in modo prolungato ed alla lunga finisca per arenarsi. Più correttamente BRICOLA/SGUBBI/MAZZACUVA, Istituzioni, cit., 127 nell’aderire alla tesi originariamente sostenuta dal Carboni ammettevano che ‘‘far gravare sul Parlamento tutta l’attività normativa in materia penale può essere dal punto di vista efficientistico, negativo’’. (77) La proposta è di MARINUCCI/DOLCINI, Note, cit., 417. Il procedimento in questione prevede in particolare una distribuzione di compiti fra commissione parlamentare ed assemblea: la prima approva i singoli articoli, mentre alla seconda è riservata la votazione finale con le sole dichiarazioni di voto dei singoli gruppi parlamentari e l’intervento orale del relatore, nominato dalla Commissione, e del rappresentante governativo. Non va peraltro trascurato che il vincolo dell’approvazione analitica imposto dall’art. 72 Cost., in relazione all’elevato numero di articoli caratteristico di un codice, finisce per vanificare di fatto il vantaggio consentito dalla trattazione della questione in Commissione e non in Assemblea, perché basta una pur occasionale maggioranza, che si formi con riguardo ad una singola disposizione, per scardinare il tessuto codicistico complessivo. (78) Su ciò ha richiamato l’attenzione PAGLIARO, Sullo schema, cit., 171. Si può aggiungere che i quorum previsti dalla richiamata norma costituzionale appaiono più facilmente raggiungibili in un sistema ad impronta maggioritaria, come quello ora vigente.


— 780 — mente analitici vincola ad esplicitare i punti prefissati anche un successivo Governo, nel caso — non inverosimile nella nostra realtà politico-istituzionale — che questo dovesse mutare rispetto a quello in carica al tempo dell’avvio in Parlamento dei lavori per l’approvazione della legge delega (79). A fronte delle ragioni finora esposte, una illegittimità formale della delega legislativa per la riforma del codice penale potrebbe fondarsi solo su un espresso sbarramento costituzionale in materia penale, che notoriamente non esiste nell’ordinamento italiano vigente (80). Per di più, nel nostro sistema costituzionale delle fonti la legge delega non è una scatola vuota riempibile dei contenuti più svariati, decisi dal potere esecutivo con piena libertà di apprezzamento: uno dei punti fondamentali della nuova disciplina costituzionale dell’istituto in questione è costituito dalla limitazione della potestà delegata sia sul piano temporale, sia con riguardo alla definizione ‘‘esterna’’ e soprattutto ‘‘interna’’ della materia regolata. Come è noto, l’art. 76 Cost. condiziona l’ammissibilità della delega legislativa alla previsione dei già ricordati ‘‘principi e criteri direttivi’’, oltre ad imporre un ‘‘tempo limitato’’ ed ‘‘oggetti definiti’’. Naturalmente il grado in cui tali limiti costituzionali all’esercizio della potestà delegata vincolano in effetti una particolare legge delegata risente del tipo di materia regolata e soprattutto del modo in cui in concreto viene formulata la legge delega. Anche qui però non si tratta di una operazione libera da controlli sul corretto esercizio della potestà in questione, in quanto la sufficiente specificazione dei surricordati parametri vincolanti è sottratta alla libera valutazione dell’organo delegante, potendo essere sindacata in sede di giudizio di legittimità costituzionale della stessa legge delegata (81). Proprio per questo però la sensibilità avvertita (79) Per l’irrilevanza di eventuali mutamenti di indirizzo o nella stessa composizione del Governo o del Parlamento, una volta che la legge delega sia stata regolarmente approvata, cfr. CERVATI, Legge delega e delegata, in Enc. dir., vol. XXIII, 1973, 948. (80) È questa la conclusione della dottrina prevalente: cfr. ad es. VASSALLI, ‘‘Nullum crimen sine lege’’, in Novissimo dig. it., vol. XI, 1965, 496 s., 505 s.; ID., ‘‘Nullum crimen sine lege’’, in Novissimo dig. it. - App., 1984, 295; SPASARI, Diritto penale e costituzione, Milano, 1966, 18 s.; VINCIGUERRA, Delegazione legislativa e disciplina penale, in questa Rivista, 1971, 1121 s.; PAGLIARO, Principi di dir. pen., P.G., Padova, 19934, 90 s.; MARINI, ‘‘Nullum crimen’’ (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XXVIII, 1978, 954; MANTOVANI, Dir. pen., P.G., Padova, 19923, 90 s.; M. ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, vol. I, Milano, 1987, 33 s.; CONTENTO, Corso di dir. pen., Bari, 1989, 31; PADOVANI, Dir. pen., Milano, 19922, 20 s. Più in generale, anche MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 19864, 459 s. (81) Cfr. CERVATI, Legge delega e delegata, cit., 949 s. Si tratta di un profilo non considerato nel dibattito penalistico richiamato nelle note precedenti, dove ci si è limitati a rilevare la possibilità di sindacato costituzionale della legge delegata in caso di difformità della legge delega: VINCIGUERRA, Delegazione legislativa, cit., 1122. Tale ultima possibilità è peraltro importante, perché rivela la fallacia argomentativa che si nasconde nell’equiparare il rapporto fra legge delega e delegata a quello fra legge penale e norme integratrici di fonte se-


— 781 — dai compilatori dello schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, con la ricordata presa di posizione espressa sul problema in questione e soprattutto con la concreta articolazione del testo proposto, non sembra meritare una generalizzata chiusura pregiudiziale all’adozione dello strumento normativo in questione. Più proficua sarebbe piuttosto l’indicazione analitica dei punti in cui la formulazione del Progetto 1992 si ritiene affetta da una genericità eccessiva e dunque si espone a concretizzazioni incerte in sede di legge delegata (82). condaria (così CARBONI, op. cit., 258 s. tenta di negare che i diritti delle minoranze nelle scelte di politica criminale siano sufficientemente tutelati in sede di determinazione della legge delega). È noto infatti che le norme di grado inferiore alla legge, in quanto non sottoponibili al sindacato di costituzionalità, sono prive di tale importante garanzia; questa invece presidia l’esercizio della potestà legislativa delegata, anche in relazione al grado in cui i diritti delle minoranze siano stati rispettati tanto in sede di determinazione legislativa dei criteri direttivi, quanto nella successiva normativa delegata. Affermare poi che scopo della riserva di legge in materia penale non sarebbe ‘‘una normazione dell’esecutivo in contrasto con i principi costituzionalmente sanciti, ma qualsiasi attività normativa dell’esecutivo’’ (CARBONI, op. cit., 259 nt. 107; ed anche BRICOLA, Teoria generale, cit. 40) risulta solo una petizione di principio, derivante da un’accezione della riserva di legge talmente assoluta da porsi in contrasto con la stessa equiparazione costituzionale della legge delegata alla legge ordinaria (art. 77 comma 1 Cost.). (82) Ciò peraltro senza sovraccaricare il testo codicistico di carichi definitori inadeguati alle sue funzioni normative. Un tale rischio ad esempio appare connesso alle accuse di eccessiva genericità rivolte all’indicazione, contenuta nell’art. 12 del Progetto 1992, di ‘‘formulare la definizione di dolo in modo che essa sia univocamente comprensiva del dolo eventuale’’. La delimitazione di tale figura rispetto alla colpa cosciente già in sede normativa non solo forzerebbe i termini di un dibattito teorico ancora aperto, ma potrebbe per di più alimentare l’illusione di una certezza del diritto facilmente raggiungibile in via deduttiva da principi predeterminati, laddove un tale obiettivo va perseguito con sforzi sempre rinnovati da parte di tutte le componenti dell’esperienza giuridica. Del resto, anche su tale punto le altre esperienze di ricodificazione penale appaiono istruttive, in quanto hanno per lo più evitato di prendere posizione in proposito: paradigmatica in tal senso la scelta tedesca, nonostante la ricchezza dei rispettivi lavori preparatori sul punto (cfr. W. FRISCH, Legaldefinitionem in deutschen Strafrecht, relazione al convegno Omnis in jure periculosa?, cit., 21 s., 30 s. [del datt.], il quale motiva la sua adesione alla linea seguita dal codice tedesco di evitare definizioni di concetti dogmatici come dolo, colpa, causalità, imputazione obiettiva ecc.). Né meno interessante l’apparentemente contraria esperienza austriaca: nonostante i risalenti collegamenti con il dibattito scientifico e legislativo tedesco (in proposito NOWAKOWSKI, Das österreichische Strafrecht in seine Grundzüge, Graz, 1955, 22), il codice penale austriaco del 1975 formula invece le definizioni di dolo e di colpa, specificandone rispettivamente le forme, anche con riferimento al dolo eventuale (par. 5 comma 1) ed alla colpa cosciente (par. 6 comma 2). Guardando però ai concreti atteggiamenti applicativi, è facile notare che lo sforzo definitorio compiuto è rimasto un guscio esteriore, non essendo riuscito ad impedire l’adozione da parte della giurisprudenza di formule, come quella dell’accettazione o meno del rischio, del tutto preterlegali e condizionate da nuove acquisizioni teoriche o persino da riscoperte di proposte precedenti (cfr. FOREG3 GER/SERINI, Strafgesetzbuch - Kurzkommentar, Wien, 1984 , 38 s.; TRIFFTERER, Österreichisches Strafrecht, AT, Wien - New York, 1985, 169). Non stupiscono dunque le autorevoli critiche sull’effettivo contenuto delle indicate definizioni codicistiche (con riferimento al par.


— 782 — Va infine considerato che, proprio per non trascurare le esigenze di fondo fatte valere con i rilievi surricordati, il testo di legge delega presentato il 28 maggio 1993 dal successivo Guardasigilli Conso al Consiglio dei Ministri contiene alcune norme finali, in virtù delle quali la versione del codice penale specificata dal Governo dovrà essere ulteriormente verificata da una commissione parlamentare mista e rappresentativa di tutti i gruppi politici presenti in almeno un ramo del Parlamento (art. 16 disp. di att. coord. e trans.). Con ogni probabilità peraltro il problema vero non è quello connesso ad una scelta tecnico-formale degli strumenti normativi più adeguati all’obiettivo del testo codicistico: si tratta piuttosto di interrogarsi sulla presenza o meno nella presente stagione politico-istituzionale di una reale volontà di procedere alla riforma del testo base del nostro sistema penale. Senza trascurare la complessità dei fattori che contribuiscono alla realizzazione di una impresa ‘‘storica’’, quale è certo una nuova codificazione penale (83), è auspicabile che le oggettive difficoltà delle attuali condizioni politico-istituzionali non intacchino il carattere corale della risposta proveniente dal mondo dei giuristi (84): ormai da tempo la dottrina penalistica italiana apre i propri cahiers de doléances con la necessità di provvedere ad una riforma organica del codice, che affronti finalmente i nodi cruciali di politica criminale (85). Proprio la precedente 5 comma 2, ad es. NOWAKOWSKI, Wiener Kommentar zum StGB, Wien, 1982, par. 5 ann. 15). (83) Una sintesi di tali fattori in FIANDACA, Concezioni e modelli, cit., 47 s. Il carattere ‘‘storico’’ della ricodificazione penale è segnalato da MARINUCCI/DOLCINI, Note sul metodo, cit., 386. (84) La situazione era già ben descritta da M. ROMANO, Commentario sistematico, cit., 7 s.; ‘‘Interrogarsi sull’auspicabilità di un’autentica riforma del codice penale (...) è a questo punto superfluo. Si potrà dubitare della presenza delle forze, politiche e dottrinali, capaci di realizzarla in tempi brevi, soprattutto in un’epoca come l’attuale, che vede una crisi della politica criminale, ma non si può non concordare sull’opportunità di impostarla e di condurla gradualmente in porto’’ (evidenziazioni nell’originale). Vi è solo da aggiungere, alla luce dei fatti successivi, che il Progetto 1992 ha testimoniato una capacità delle forze dottrinali di essere all’altezza della sfida, a differenza di quelle politiche, travolte da una crisi generale di sistema, dalla quale si stenta ancora ad intravedere l’uscita. (85) Lamentava ‘‘l’inerzia del legislatore rispetto ad una riforma globale’’ già BRI11 COLA, Teoria generale, cit., 19. Anche BETTIOL, nella Prefazione al Dir. pen., Padova, 1982 , p. VII, esprimeva il suo disappunto perché ‘‘l’occasione di una riforma radicale del codice ci è scivolata di mano’’. Cfr. pure MARINUCCI, Politica criminale e riforma del sistema penale, cit., 47 s.; ID., Problemi della riforma del diritto penale in Italia, in Diritto penale in trasformazione, MARINUCCI/DOLCINI (cur.), Milano, 1985, 349 s.; ed inoltre i seguenti volumi collettivi: Orientamenti per una riforma del diritto penale, Napoli, 1976; Metodologia e problemi fondamentali, cit.; Problemi generali del diritto penale. Contributo alla riforma, cit.; Materiali per una riforma del sistema penale, cit.; Bene giuridico e riforma della parte speciale, STILE (cur.), Napoli, 1985; Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma, Milano, 1987; La riforma del diritto penale, cit.; Verso un nuovo codice penale, cit.


— 783 — messa a fuoco teorica di tali temi ha fornito un materiale prezioso per la commissione che ha redatto il Progetto 1992. Fra le questioni fondamentali, affrontate nel corso dei lavori preparatori, si possono qui richiamare le seguenti: — rapporto fra Costituzione e valori penalmente tutelati; — opportunità di sancire formalmente il principio secondo cui in mancanza di offesa all’interesse protetto non vi è reato; — ambito del penalmente rilevante e conseguente estensione della depenalizzazione; — individuazione dei soggetti penalmente responsabili ed eventuale considerazione delle persone giuridiche; — attuazione del principio di colpevolezza sia in positivo, con il superamento delle forme di responsabilità oggettiva, sia in negativo, con la previsione di cause soggettive di esclusione della responsabilità penale e dell’errore su legge penale ed extrapenale; — disciplina del concorso di persone nel reato più aderente ai principi di determinatezza e personalità dell’illecito; — quanto al versante delle conseguenze penali, ridefinizione di una scala sanzionatoria adeguata all’effettivo disvalore degli illeciti, eliminazione del cumulo fra pene e misure di sicurezza, previsione di alternative alle pene detentive brevi, determinazione del potere discrezionale del giudice. Prima di verificare in che misura le problematiche surricordate abbiano trovato risposta nel Progetto 1992, ed il grado in cui esse riflettano tendenze comuni anche ad altre esprerienze di ricodificazione, è opportuno completare il giro d’orizzonte sui due progetti spagnolo ed inglese. 3. Spagna: una riforma ancora in cammino. — Fra i sistemi giuridici presi qui in considerazione, l’ordinamento spagnolo è quello che più si è avvicinato negli ultimi anni alla meta di dotarsi di un nuovo codice penale, senza però essere ancora riuscito a raggiungerla (86). Il codice penale spagnolo attualmente in vigore è stato emanato nel 1944 (ultima edizione ufficiale del 1973), ma la sua struttura fondamentale ripete i caratteri di un testo che risale al 1848 (87). Benché l’esigenza di una riforma (86) Sulla tormentata vicenda della riforma del codice penale spagnolo cfr. CEREZO MIR, Estudios sobre la moderna reforma penal española, Madrid, 1993; PRADEL, Le code pénal espagnol, une histoire qui n’en finit plus, in Rev. int. dir. pén, 1992, 1497 s.; in precedenza RODRIGUEZ MOURULLO, Directrices politico-criminales del anteprojecto de código penal, in MIR PUIG/STRATENWERT ed al., Política criminal y reforma del derecho penal, Bogotà, 1982, 321 s.; QUINTERO OLIVARES, La reforma penal in España, in Documentacion Juridica, vol. I, num. 37/40, 1983, 3 s. (87) A sua volta, questo era influenzato dal codice penale del 1810, da quello del Re-


— 784 — globale del codice sia stata avvertita a partire dagli anni settanta (88), essa divenne sempre più pressante con la caduta del regime franchista e la pubblicazione della Costituzione del 1978, la quale sancisce un modello di stato sociale di diritto e dedica numerose disposizioni alla materia penale (89). Un primo significativo passo verso la riforma fu rappresentato da un ampio Proyecto de Ley organica del 1980, che non riuscì a completare l’iter parlamentare (90). Esso tuttavia inspirò la Reforma urgente y parcial del Código penal del giugno 1983, la quale modificò numerosi punti qualificanti del codice in senso più aderente al principio di colpevolezza, di ancoraggio al fatto materiale e di umanità del regime sanzionatorio (91). Alla fine dello stesso anno fu poi formulata una Propuesta de Anteproyecto del nuevo Código penal, il cui testo però non venne neppure presentato al Parlamento (92). Dopo un periodo di stasi, gli sforzi per un nuovo codice ricominciano, ed una prima commissione ministeriale fa circolare, alla fine del 1991, un Borrador, poi pubblicato dal Ministero della Giustizia all’inizio del 1992, e poco dopo seguito dal Proyecto de Ley orgno di Napoli del 1819 e da quello Brasiliano del 1830. Cfr. MADLENER/PETZOLD/REEG, Spanien, in Strafrechtsentwicklung in Europa, ESER/HUBER (cur.), Freiburg, 1985, 782. (88) Nel 1972, ad esempio, il Ministero della Giustizia presentò uno studio per la riforma della parte generale del codice. In proposito cfr. CEREZO MIR, Der Vorentwurf eines neuen allgemeinen Teils des spanischen Strafgesetzbuches, in Strafrecht und Strafrechtsreform, cit., 67 s., il quale notava criticamente come il testo proposto fosse modellato sul codice penale italiano del 1930. (89) Cfr. BARBERO SANTOS, La riforma penale della monarchia costituzionale spagnola, in questa Rivista, 1986, 1215 s.; RODRIGUEZ MOURULLO, Directrices politico-criminales, cit., 324. (90) Il testo fu predisposto da una commissione composta dai prof. Gimbernat Ordeig, Rodríguez, Mourullo, dal fiscal Code Pumpido, e dal magistrato Díaz Palos. Il progetto fu pubblicato nel Boletin Oficial de las Cortes il 17 gennaio 1980. Sulle principali caratteristiche del testo cfr. BARBERO SANTOS, La riforma penale, cit., 1225 s. Ad esso furono dedicati i lavori del congresso La reforma pénal y penitenciaria (Università di Santiago di Compostela 10-12 aprile 1980), pubblicati nel 1980 con relazioni di Rodríguez Mourullo, Gimbernat Ordeig, Barbero Santos, Rodríguez Devesa, Cerezo Mir Puig; ed anche il ciclo di conferenze El proyecto de código penal presso l’Università di Barcellona, pure pubblicate nel 1980, con interventi di Rodríguez Mourullo, Mir Puig, Quintero Olivares, Cordoba Roba. Secondo PRADEL, Le code pénal espagnol, cit., 1501 il progetto spagnolo del 1980 presenterebbe punti di contatto con l’Avant-project francese del 1978. (91) Sulla L. n. 8/1983 del 25 giugno 1983 cfr. QUINTERO OLIVAREZ/MUÑOZ CONDE, La reforma penal del 1983, Barcelona, 1983; e, su aspetti particolari, i contributi di CEREZO MIR, ora raccolti in Estudios, cit., 73 s.; per una sintesi DIEZ RIPOLLEZ, Die jüngsten strafrechtlichen una strafprozessualen Reformen in Spanien, in JZ, 1984, 561 s. (92) Il testo è stato predisposto da una commissione ministeriale composta dai prof. Cobo del Rosal, Gimbernat Ordeig, Luzón Peña, Muñoz Conde, Quintero Olivares, e dal giudice Garcia Miguel. È stato pubblicato dal Ministero de Justicia, Madrid, 1983, Non è facile indicare le ragioni che hanno impedito a tale documento di essere presentato come progetto di legge: cfr. MUÑOZ CONDE, Los principios informadores del Proyecto de Código penal español del 1992, Relazione al convegno ‘‘Valore e principi della codificazione’’, cit., 1 (datt.).


— 785 — ganica del Código penal che è stato presentato al Parlamento nell’autunno dello stesso anno (93). Dopo le elezioni del 1993, in cui il Partito socialista al potere ha perso la maggioranza parlamentare assoluta, i destini del Progetto si sono fatti più incerti, nonostante l’impegno dichiarato del nuovo Ministro di Giustizia (94) (95). Dal punto di vista strutturale, il Proyecto 1992 si apre con un Titulo preliminar, dedicato ad alcuni principi costituzionali di garanzia ai quali si è voluto dare un riconoscimento espresso, e si articola poi in tre libri: il primo, che contiene i criteri generali di responsabilità penale e la tipologia sanzionatoria; il secondo, che prevede i singoli delitti di parte speciale; l’ultimo, riservato alle faltas, numericamente molto ridotte in coerenza al criterio del diritto penale come extrema ratio, dunque da limitare alle offese più rilevanti ai beni giuridici e da integrare con un ampio ricorso all’illecito amministrativo. 4. Inghilterra: un ‘‘criminal code’’ nella patria moderna del diritto giurisprudenziale? — Ancora attualmente in Inghilterra non esiste un codice penale ed il suo diritto penale si trova disseminato in fonti di varia natura: leggi, leggi delegate, casi giurisprudenziali, opinioni di giudici e di altre autorità. Al fine di consolidare la situazione normativa in termini di maggiore certezza, nell’ultimo decennio l’idea della codificazione penale è stata oggetto di uno speciale interesse anche nell’ambiente giuridico d’oltremanica. La tradizionale immagine del diritto inglese come intreccio asistematico fra norme elaborate dai giudici in relazione al caso concreto e disposizioni legali sembrerebbe a prima vista contrastare l’idea di un ordinamento a base rigidamente codificata. Non senza una certa sorpresa, il (93) MINISTERO DE JUSTICIA, Proyecto de Ley Organica del Código Penal, Madrid, 1992. Per alcune osservazioni in proposito oltre alla relazione di MUÑOZ CONDE, Los principios informadores, cit., cfr. CEREZO MIR, Estudios, cit., 199 s.; e sulla parte speciale GARCIA VALDÉS, El projecto de nuevo código penal, Madrid, 1992. Ulteriori notizie sulle contrastate vicende dei lavori di riforma in MADLENER, Spanien, in Strafrechtsentwicklung 4, cit., 1416 s. (94) Notizie in proposito in MUÑOZ CONDE, op. cit., 2 (datt.). È da rilevare che il codice penale, al pari di ogni altra legge concernente ‘‘i diritti fondamentali e le libertà pubbliche’’, secondo la Costituzione spagnola deve essere approvato con la maggioranza assoluta dei membri del Parlamento (art. 81). (95) Da ultimo, il Ministerio de Justicia e Interior ha fatto redigere un ulteriore progetto e ne ha curato la pubblicazione, che è avvenuta alla fine del 1994 (Proyecto de ley organica del código penal, Madrid, 1994). A causa di ciò, tale testo si è potuto menzionare solo in brevi aggiunte alle note del presente lavoro; del resto, la maggior parte delle considerazioni qui sviluppate in relazione al Proyecto 1992 non perde valore rispetto a quello più recente: nonostante alcune importanti differenze, vi è infatti una fondamentale comunanza nell’impianto complessivo dei due testi. È significativo in proposito che la relazione al Convegno di Firenze di MUÑOZ CONDE sui principi ispiratori del Proyecto 1992 sia stata poi pubblicata con poche modifiche, ma riferita al Proyecto 1994 (cfr. il volume cit. supra nt. 57, p. 85 s.).


— 786 — giurista continentale abituato a considerare la cultura giuridica dalla civiltà occidentale divisa ‘‘in due regioni del tutto differenti’’ (96) scopre invece che un tale modello da tempo è presente nella riflessione anglosassone: già nel secolo scorso, e proprio con riferimento al diritto penale, furono compiuti alcuni sforzi di codificazione, sostenuti per di più da un’autorevole tradizione di pensiero, che annovera autori come i filosofi Bentham, Austin e Stuart Mill ed il giurista Stephen (97). Nel periodo più recente poi si direbbe che proprio la compresenza dei due modelli normativi — common law e fonti legali — ha stimolato un vivo dibattito proprio in merito ai pro ed ai contro del ricorso al codice, ai suoi presupposti ed alle sue condizioni di realizzabilità (98). Inoltre, la situazione in proposito nell’area giuridica dei paesi di common law si presenta articolata: coesistono esperienze, come quella canadese, in cui il codice penale è presente da molto tempo, tanto da far avvertire ormai l’esigenza di un sua integrale sostituzione (99), con altre che potrebbero dirsi ‘‘miste’’, come quella degli Stati Uniti d’America. Qui il corpo di leggi penali federali ha un testo unitario di base (tit. 18 U.S.C.), anche se ormai datato e non esaustivo, mentre rispetto alle legislazioni penali dei singoli stati il Model Penal Code del 1962 ha svolto un’importante funzione di armonizzazione (100). A fronte poi dei passi compiuti in Inghilterra verso la codificazione, che appaiono come segnali di avvicina(96) Sono parole di RADBRUCH, Lo spirito del diritto inglese, BARATTA (cur.), Milano, 1962, 7. Di due culture giuridiche parla anche CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, cit., 480. Peraltro, sui valori comuni alle due culture giuridiche v. STEIN/SHAND, Legal Values in Western Society, tr. it. I valori giuridici della civiltà occidentale, Milano, 1981. (97) Su tali precedenti, cfr. DENNIS, A criminal code for England?, in Panopticon, 1991, 353; KADISH, The Model Penal Code’s Historical Antecedents, in Rutg. Law Jour., 1988, 521; da noi CAVANNA, op. ult. cit., 599 s.; LA SPINA, Le vicende della ‘‘Law Reform’’ in Gran Bretagna, in Mat. st. cult. giur., 1988, 404 s.; CADOPPI, Dalla judge-made law al criminal code. Progetti di codici penali nei paesi di common law fra istanze dottrinali e giurisprudenziali, in questa Rivista, 1992, 939 s. V. anche VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I principi, Padova, 1992, 62 s. ANCEL, Introduction comparative aux codes pénaux européens, cit., XXIX s. (98) Come nota incisivamente SACCO, Codificare: modo superato di legiferare?, cit., 123, ‘‘in questi ambienti, in cui le fonti romaniste vivono assediate dal common law, ogni elemento di debolezza del codice risalta, e diviene la base di un atto di contestazione. A sua volta, ogni difesa del codice porta con sé un atto di fede’’. (99) Il Code criminal canadese è di tipo federale e risale al 1893; è stato revisionato nel 1955. Anche in Canada si avvertono da tempo fermenti di ricodificazione; per notizie in proposito CADOPPI, Dalla judge-made law, cit., 945 s. (100) Cfr. BASSIOUNI, Diritto penale degli Stati Uniti d’America, Milano, 1985, 12 s., 25 s.; MCCLAIN, Criminal Law Reform: Historical Development in the United States, in Enc. of Crime and Justice, vol. II, 1983, 510 s. Più in generale, rileva che ‘‘i varii States dell’U.S.A. hanno adottato più codici di quanto gli europei credano’’ SACCO, Introduzione al diritto comparato, cit., 69.


— 787 — mento fra i due blocchi di aree giuridiche (101), vi sono esperienze ancor oggi ostili all’idea di codificare settori giuridici, come nel caso della Scozia, che così riafferma anche sotto questo profilo la propria gelosa autonomia rispetto all’Inghilterra (102). Ad uno sguardo di sintesi, in quel gruppo di sistemi giuridici il codice penale può considerarsi uno strumento non certo essenziale, ma comunque dotato di una notevole forza di attrazione. Con particolare riferimento all’esperienza inglese, il compito generale di riformare l’ordinamento e quello più specifico di ordinare la massa crescente di norme di fonte scritta e consuetudinaria sono stati affidati sin dal 1965 ad un’apposita Law Commission (103). Questa già nel 1968 incluse fra i propri obiettivi un ampio esame del diritto penale, anche in vista di una sua codificazione. Dapprima sono stati elaborati studi specifici su particolari gruppi di reati o anche su alcuni principi generali della responsabilità penale; tali lavori non hanno peraltro un rilievo solo teorico, essendo stati più volte utilizzati per appositi interventi normativi (104). Un tale procedere tuttavia non poteva condurre alla generale visione di sintesi necessaria per la codificazione; per questo motivo, su iniziativa del Comitato per il diritto penale della ‘‘Society of Public Teachers of Law’’, la Law commission nominò nel marzo 1981 una speciale commissione, con l’incarico di predisporre un progetto preliminare di codice penale (105). Il risultato di tali lavori fu reso pubblico nel 1985: il progetto si articolava in un’ampia parte prima, dedicata ai principi generali di responsabilità, ed in una parte seconda, che prevedeva reati contro la persona e contro la proprietà (106). Tale documento fu quindi sottoposto alle osservazioni di diversi operatori del diritto teorici e pratici. Alla luce di tali ri(101) Cfr. LA SPINA, Le vicende, cit., 402; CADOPPI, Dalla judge-made law, cit., 925. (102) Cfr. VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese, cit., 67; CADOPPI, op. ult. cit., 938 nt. 59; ed ora CADOPPI/MCCALL SMITH, Introduzione allo studio del diritto penale scozzese, Padova, 1995, 99 s. (103) Naturalmente l’opera di riforma normativa ha radici più antiche, e sovente intrecciate con l’idea della codificazione: sui precedenti si rinvia a LA SPINA, Le vicende, cit., 406 s. (104) Ad esempio, lo studio Reports on Offences of Damages to Property (1970), Law Comm. No. 29 fu a base del Criminal Damage Act 1971; Forgery and Counterfeit Currency (1973), Law Comm. No. 55, fu determinante rispetto al Forgery and Counterfeit Act 1981; Offences relating to Public Order (1983), Law Comm. No. 123 venne considerato per il Public Order Act 1986 (Part I). (105) La composizione della commissione fu molto ristretta, essendo formata dai prof. J.C. Smith (presidente), E. Griew, I. Dennis, P. Glazebrook (quest’ultimo peraltro si dimise nel gennaio 1984). (106) Criminal Law: Codification of Criminal Law. A report to the Law Commission, Law Comm. No. 143, London, 1985. In proposito cfr. il fascicolo della Criminal Law Review, 1986, con contributi di Smith, Bennion, Ashwort, Wells, Stannard.


— 788 — lievi e di successive pubblicazioni sul tema della codificazione penale, è stato formulato il Progetto definitivo, pubblicato nel 1989 in due volumi, il primo comprendente anche il relativo rapporto esplicativo, il secondo contenente un dettagliato commento delle singole previsioni (107). La parte normativa del Progetto si divide a sua volta in due parti: la prima dedicata ai principi generali della responsabilità, che comprende 52 articoli, e la seconda relativa alle singole incriminazioni, ma con maggiore ampiezza rispetto al precedente testo del 1985: oltre ai reati contro la persona e contro il patrimonio sono anche previsti i reati sessuali e quelli contro l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, per un totale di 168 articoli. Vi sono inoltre alcune appendici degne di interesse: la classificazione dei reati con la conseguente procedura, le pene edittali, gli impedimenti processuali. Quanto alle possibilità di concreta adozione, a distanza di oltre cinque anni dalla sua pubblicazione appare ormai sempre più difficile che il Progetto possa essere trasformato in legge nella sua formulazione originaria. I principali motivi sembrano due: un corpo normativo composto da ben 220 articoli si ritiene che occuperebbe troppo a lungo i lavori parlamentari, anche a causa del necessario esame di numerose questioni controverse. Inoltre sul piano della ricaduta politica, la codificazione non presenta grande interesse, in quanto non è sostenuta da particolari gruppi di pressione, essendo piuttosto probabilmente osteggiata da giudici ed avvocati più anziani, abituati al sistema vigente (108). Ciò non significa che il lavoro compiuto sia privo di sbocchi pratici, perché vi sono numerose prese di posizione per l’adozione con provvedimenti distinti di singole parti del Progetto di codice penale (109): insomma, sebbene la lentezza con cui procede il lavoro di riforma possa talvolta apparire ‘‘frustran(107) Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales; vol. I: Report and Draft Criminal Code Bill; Vol. II: Commentary on Draft Criminal Code Bill, Law Comm. No. 177, London, 1989. Sulla vicenda cfr. GRIEW, Bestrebungen zur Kodifizierung des Strafrechts in England und Wales, in ZStW 100 (1988), 931 s. Da noi CADOPPI, Dalla judge-made law, cit., 947 nt. 102, 949 nt. 109, 953; VINCIGUERRA, Introduzione, cit., 65 s. (108) DENNIS, A criminal code, cit., 363; Legislating the Criminal Code, in Crim. Law Rev., 1992, 393. (109) HUBER, Großbritannien, in Strafrechtsentwicklung in Europa 3, cit., 511; EAD., Großbritannien, in Strafrechtsentwicklung 4, cit., 678 s; GARDNER, Reiterating the Criminal Code, in Mod. L.R. 1992, 839 s.; A.T.H. SMITH, Legislating the Criminal Code: The Law Commission’s Proposals, in Crim. Law Rev., 1992, 396 s.; PADFIELD, Duress, Necessity and the Law Commission, ivi, 778 s.; HORDER, Rethinking Non-Fatal Offences against the Person, in Oxf. Jour. Leg. St., 1994, 335 s. Tali studi fanno riferimento al progetto di riforma delle offese non letali contro la persona, elaborata nel 1992 dalla Law Commission (Consultation Paper No. 122) e formalizzato nel 1993 (Law Com. No. 218). Oltre a singole incriminazioni, il testo contiene anche alcune previsioni generali, specie in tema di defences, ricavate dal progetto del 1989; il documento è dunque particolarmente significativo della recente tendenza verso riforme settoriali, pur in un più ampio contesto di principi generali.


— 789 — te’’ (110), la prospettiva ricodificatoria non scompare dalle aspirazioni di molti penalisti inglesi, ma rappresenta piuttosto il frutto finale di un cammino ‘‘step by step’’. PARTE II LINEE EMERGENTI DEL PROCESSO DI RICODIFICAZIONE

1. Premessa: i principi del diritto penale come strumento per l’analisi comparata dei diversi testi codicistici. — Un esame analitico dei quattro corpi normativi, le cui vicende sono state brevemente ripercorse, dovrebbe evidentemente fare i conti con una enorme quantità e varietà del materiale da considerare. Nei limiti del presente studio, una riflessione sui rispettivi contenuti può essere condotta alla luce dei più importanti principi di fondo che animano il diritto penale contemporaneo ed ai quali in molti Paesi si riconosce ormai una rilevanza più o meno direttamente costituzionale (111). Tale lettura è resa possibile proprio da uno fra i caratteri tipici dei principi generali: il rappresentare cioè una sintesi generalizzante del contenuto di diverse norme particolari facenti parte di un singolo sistema giuridico, consentendone così una visione d’insieme (112). Al contempo, l’origine illuministica e giusnaturalistica dei principi generali attribuisce ad essi un valore interno-esterno ai singoli ordinamenti positivi (113): ciò rende tali idee guida uno strumento utilissimo sia per verificare l’esistenza nei documenti considerati di punti di contatto o di divergenza, sia per verificare se ed in che misura i fondamenti dei nuovi te-

(110) Così la giudica ad es. SMITH, op. cit., 396, sottolineando che i lavori preparatori si possono fare risalire al 1968. (111) Sulla valenza costituzionale di molti principi penalistici cfr. ad es. PULITANÒ, Politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, cit., 10 s.; VASSALLI, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in questa Rivista, 1991, 702. Una panoramica sul grado di diffusione dell’approccio costituzionale allo studio del diritto penale in FLORA, Il rilievo dei principi costituzionali nei manuali di diritto penale, in questa Rivista, 1991, 187 s. In particolare, per una considerazione del Progetto 1992 alla luce della griglia dei principi costituzionali, cfr. PAGLIARO, Valori e principi, cit., 374 s. La fruttuosità di una tale prospettiva di indagine è ora confermata dal recente studio di JESCHECK, Gründsatze der Kriminalpolitik in rechtsvergleichender Sicht, in Festschrift für Miyazava, Baden-Baden, 1995, 363 s., che, alla luce dei principi di legalità, colpevolezza ed ultima ratio, considera, oltre al sistema tedesco, il nuovo codice francese ed i progetti italiano e spagnolo. (112) Richiama tale funzione BERNARDI, Principi di diritto, cit., 87. (113) L’origine illuministica dei principi generali del diritto penale è di recente richiamata da VASSALLI, I principi generali del diritto, cit., 702. Su tale base, sviluppa interessanti considerazioni generali FORNASARI, Riflessioni sui principi sovralegali del diritto penale, in Scritti Dell’Andro, cit., 347 s.


— 790 — sti codicistici rispettano i tratti essenziali del diritto penale segnati sin dalla prima stagione codificatoria (114). 2. Primato della persona umana e gerarchia dei valori tutelati. — Un primo dato comune si rileva già ad uno sguardo d’insieme sui nuovi testi surricordati e concerne l’ordine dei beni da essi tutelati, che è per lo più caratterizzato da un vero e proprio processo di ribaltamento rispetto alle precedenti sistemazioni: i beni riconducibili alla persona sono sempre collocati ad apertura delle rispettive parti speciali, con precedenza dunque sulle norme a protezione dei beni delle varie collettività organizzate, anche di tipo statale o sovranazionale. Tale progressione dalla tutela del singolo alle formazioni sociali via via più ampie, anche se riguarda un aspetto meramente sistematico, assume un particolare valore simbolico: è noto che il quadro dei valori tutelati in un codice testimonia il ruolo che i beni giuridici assumono nel rispettivo ordinamento giuridico e come tale è almeno uno dei fattori che contribuisce all’efficacia generalpreventiva del complesso normativo considerato (115). Per di più, la scelta compiuta dai testi in esame non risponde ad esigenze meramente scientifico-esegetiche (116) o di tipo storico (117); la nuova sistematica ha invece un preciso significato ideale: affermare il primato della persona umana anche sul (114) Sottolinea il contributo dei principi per un’opera di comparazione fra sistemi giuridici diversi ancora BERNARDI, Principi di diritto, cit., 87; v. anche ID., Les principes de droit national et leur développment au sein des systèmes pénaux francais et italienne, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1994, 11 s., 33 s. L’importanza dei principi generali per orientare la stessa opera di riforma di singoli settori della normazione penale è ora ribadita da G. DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone, cit., 1270 s. Con riferimento poi al rapporto tra i principi e la forma codicistica, IRTI, Idea del codice civile, cit., 26, nota incisivamente che: ‘‘codificare non è un semplice mettere insieme (...) norme diverse, quanto stabilire il diritto secondo una tavola di principi’’ (cors. orig.). (115) Per tutti, cfr. MARINUCCI, Politica criminale, cit., 73. Si tratta di un dato da tempo acquisito, pur in mancanza di precisa consapevolezza teorica del relativo meccanismo di operatività; cfr. ad esempio la Relazione Ministeriale sul Progetto 1887, n. LXXIII: ‘‘Fra le doti precipue di un codice penale è l’esatta classificazione dei reati, la quale oltre all’ordinata distribuzione della materia, contribuisce altresì alla più facile ed esatta osservanza della legge’’ (corsivo aggiunto). (116) Come quelle che avevano indotto il GRISPIGNI (Diritto penale italiano, Milano, 1947, I, p. X) e sulla sua scia l’ANTOLISEI (Manuale di diritto penale, P.S., CONTI (cur.) Milano, 19777, 26) a suggerire un analogo ordine nelle incriminazioni. Similmente anche ROCCO, (L’oggetto del reato e della tutela giuridico-penale, Torino, 1913, n. 194 s.) classificava i delitti contro i diritti dell’individuo, della famiglia, dello Stato, della società degli Stati, in un’ottica che partendo dal nucleo centrale della vita individuale si allargava via via a comprendere le fondamentali manifestazioni della vita sociale. L’impostazione non fu però riversata nel codice penale del 1930, che adottò invece l’opposta sistematica statocentrica, coerentemente al suo carattere fondamentalmente autoritario. Tale connotazione può considerarsi un dato comunemente acquisito, al di là delle differenziate valutazioni sulla continuità sostanziale con il precedente assetto liberale o piuttosto sul prevalere del nuovo regime totalitario: cfr. FIANDACA, Il codice Rocco e la tesi della


— 791 — piano della tutela penale (118), in modo che quest’ultima meglio rispetti la gerarchia di valori affermata già nella fondamentale sede costituzionale (119). Naturalmente anche nel nuovo ordine lo Stato riceve una adeguata tutela; ciò però non in una prospettiva assolutistica, funzionale ad una visione autoritaria dei rapporti con i cittadini, ma ‘‘come punto di riferimento dei valori di una comunità di persone’’ (120). In Spagna l’inversione della gerarchia dei beni tutelati era già stata proposta nei progetti del 1980 e del 1983 ed è stata mantenuta in quello del 1992 (121). In Francia tale ordine della parte speciale può considerarsi una novità, che peraltro ben si inquadra con l’idea di valorizzare il ruolo di tutela della persona come obiettivo dell’intero codice penale (122). Lo stesso vale per la sistematica del Progetto italiano, ma qui continuità istituzionale in materia penale, in Questione crim., 1981, 72; PADOVANI, La sopravvivenza del codice Rocco nell’‘‘età della decodificazione’’, ivi, 89 s.; CATTANEO, Il codice Rocco e l’eredità illuministico-liberale, ivi, 109; MARCONI, Codice penale e regime autoritario, ivi, 131; DOLCINI, Codice penale, cit., 34. (117) Così invece Carrara (Programma del diritto criminale, parte speciale, Lucca, par. 1084-1085) spiegava la propria scelta di anteporre i delitti naturali a quelli sociali (nei primi si comprendevano i beni dell’individuo, nei secondi quelli statuali). (118) Come ha efficacemente notato il presidente della commissione che ha predisposto il testo del Progetto 1992, ‘‘l’ordine delle incriminazioni (...) dà rilievo per così dire ‘visivo’ al riconoscimento della posizione prioritaria che nel nuovo sistema ha la persona umana’’ (PAGLIARO, Valori e principi, cit., 395 s.). (119) Da ultimi cfr. MARINUCCI/DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in questa Rivista, 1994, 372 s.; MANTOVANI, Dir. pen., cit., 26; PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di penalizzazione, in questa Rivista, 1992, 463; ID., Persona (delitti contro), in Enc. dir., vol. XXXIII, 1983, 297 s. e passim. Nella dottrina italiana, da tempo era stato proposto di porre ad apertura della parte speciale di un nuovo codice penale la tutela della persona umana, per riconoscerle un ruolo adeguato al nuovo contesto costituzionale: cfr. ROMANO, Il codice Rocco e i lineamenti di una riforma del diritto penale politico, in Questione crim., 1981, 155 s.; ID., Legislazione penale e tutela della persona umana, in questa Rivista, 1989, 59 s.; FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Diritto penale in trasformazione, cit., 167. (120) In tal senso, PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge per un nuovo codice penale, cit., 170 s.; v. anche ID., Valori e principi, cit., 397. Sulla legittimazione di fondo, e sulle relative condizioni, di un diritto penale a tutela dello Stato anche in un ordinamento democratico, cfr. ROMANO, Il codice Rocco, cit., 152 s. (121) La spiegazione indicata nel testo risulta in modo espresso nell’Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 25: ‘‘L’inversione di valori che si produce rispetto al codice vigente è chiara: la scala dei valori comincia con l’individuo e termina con la Comunità internazionale’’. Identica è la struttura del Proyecto 1994: il punto è qui sottolineato nella ‘‘Memoria’’ che accompagna il relativo testo (cit., 228). (122) Nota tale concordanza fra il testo francese e quello spagnolo anche PRADEL, Le code pénal espagnol, cit., 1503. Sul primato della persona umana nel nuovo codice francese, a differenza del precedente, incentrato sulla difesa dello Stato, cfr. COUVRAT, Les infractions contre les personnes, cit., 470; FRANCILLON, in Le nouveau code pénal. Enjeux et perspectives, cit., 81. Come già indicato (testo intorno alle nt. 56-60), nei motivi indicati dal Ministro Badinter a sostegno dell’opera normativa che presentava, si parla espressamente di un co-


— 792 — assume una importanza ideale ancora maggiore a causa dell’impianto complessivo del Codice Rocco, dove è particolarmente accentuata la tutela dello Stato, in coerenza con la concezione autoritaria dei rapporti Stato-cittadini (123). Quanto al progetto inglese, in mancanza di antecedenti normativi comparabili, la decisione di aprire la parte speciale con i reati contro i beni della persona indica che tale sistematica, con il retrostante significato ideale, è entrata ormai a far parte dei fondamenti del diritto penale degli Stati contemporanei di tipo liberal-democratico. È interessante verificare ulteriormente il profilo in esame, allargando lo sguardo comparatistico ai sistemi qui convenzionalmente indicati come esempi di prima generazione del fenomeno della ‘‘ricodificazione’’, dove l’ordine sistematico ormai seguito dalle più recenti esperienze non si presenta come dato altrettanto uniforme: la sequenza dei beni che parte da quelli dell’individuo per arrivare a quelli collettivi era ad esempio una delle innovazioni del Progetto tedesco del 1962, ma essa non riuscì a tradursi nella versione della riforma entrata in vigore nel 1975 (124). Invece, tanto il codice penale austriaco del 1975 quanto il codice portoghese del 1982 (125) sono impostati secondo il nuovo ordine delle incriminazioni, che, già anticipato dal codice penale svizzero del 1937, è un dato ormai comune nella attuale stagione ricodificatoria e trova conferme anche su dice ‘‘ispirato ai diritti dell’uomo’’ come punto di confluenza dei valori sui quali oggi è fondata la società francese. (123) Nella Relazione al Progetto 1992 si afferma espressamente il principio guida personalistico e se ne ricava ‘‘il primato nella gerarchia dei valori, dei beni fondamentali della persona come beni-fine’’ ed al contempo la degradazione ‘‘degli altri beni extrapersonali a beni-mezzo per la salvaguardia e lo sviluppo della personalità umana’’ (cfr. Documenti della Giustizia, 1992, n. 3, 361). In dottrina cfr. le indicazioni supra nt. 118; riserve su tale ordine sono però accennate in VASSALLI, Presentazione, in Per un nuovo codice penale. Schema di disegno di legge-delega al Governo, PISANI (cur.), Padova, 1993, 6. (124) Si assiste inoltre a tentativi di svalutare il nesso fra l’ordine delle incriminazioni e l’importanza sociale riconosciuta ai diversi beni tutelati: ad es. BOCKELMANN, Strafrecht, B. T. 1, Vermögensdelikte, München, 19822, 2, nega valore contenutistico all’inversione sistematica del Progetto 1962 di nuovo codice penale tedesco. V. anche NAUCKE, Strafrecht. Eine Einführung, Neuwied, 19916, 182, il quale però contesta l’idea di una struttura codicistica ordinata secondo l’importanza dei diversi reati al fine di legittimare la necessità di una parte generale posta ad apertura del codice penale. (125) In tale codice ai reati contro la persona seguono i reati contro la pace, l’umanità e la vita associata (la famiglia, sessuali; falsità, pericolo comune). A chiusura infine si trovano i crimini contro il patrimonio. Nella relazione si esprime chiaramente l’importanza della tavola di valori tutelati della parte speciale: ‘‘i giudizi relativi alla dignità punitiva ed alla necessità di punire determinate azioni o omissioni non sono affatto neutrali da un punto di vista etico-politico (...). È soprattutto nella ‘Parte speciale’ che nel modo più evidente si sviluppano come linee di forza le concezioni politico-ideologiche storicamente prevalenti (...). Sia per la sistematica seguita sia per il contenuto di illiceità concretamente tipicizzato il codice si pone deliberatamente come ordinamento giuridico penale di una società aperta e di uno Stato democraticamente legittimato’’ (Relazione, n. 18, in Código penal., GONCALVES (cur.), Coimbra, 19893, 33).


— 793 — scala extraeuropea (126). In tale mantenimento nell’ordine tradizionale delle incriminazioni si rinviene quel carattere comunque parziale della riforma del codice tedesco, che proprio rispetto alla fondamentale impostazione della parte speciale rimane ancora collegato all’originario disegno del 1871 (127). 3. Principi di sussidiarietà, di offensività e di rilevanza costituzionale dei beni protetti. — Volgendo ora l’attenzione ai contenuti normativi dei testi qui specificamente considerati, in relazione alla selezione dei beni tutelati ed alle forme di offesa previste è interessante verificare il ruolo avuto dai fondamentali principi di sussidiarietà e di offensività: un riscontro in proposito si può avere in modo più diretto in quei testi che hanno dedicato una specifica attenzione all’illustrazione dei motivi posti a fondamento dei codici progettati. In particolare, in quello spagnolo del 1992 un espresso riconoscimento è dato all’idea del diritto penale come ‘‘ultima ratio’’ di tutela, frammentaria e residuale rispetto ad altre forme di protezione extrapenali. Nell’esposizione dei motivos si legge: ‘‘il codice penale non protegge i beni giuridici di fronte a qualunque aggressione che possa immaginarsi, ma solo verso quelle che si considerano più gravi o pericolose, per ragioni sia obiettive sia soggettive. Ciò, che è noto come principio di intervento frammentario, si combina e completa con il principio del minimo intervento, in virtù del quale il diritto penale non interviene per quei problemi che possono essere risolti ragionevolmente mediante il ricorso al diritto privato o al diritto amministrativo’’ (128). Conseguenza di tutto ciò è la già accennata drastica riduzione del numero di contravvenzioni (Faltas) previste (129). Sebbene in maniera più sintetica, anche nel testo italiano tale ordine di idee è espresso nei principi di codificazione posti ad apertura del Progetto 1992, il quale si pone come obiettivo di tutelare i beni giuridici e di contemperare funzioni e limiti della sanzione penale (art. 2.2). Vengono così programmaticamente affermati sia il principio dell’ultima ratio, che del resto i compilatori del Progetto dichiarano espressamente essere stato (126) Un’identica impostazione si ritrova ad esempio nel recente codice penale del Perù, pubblicato nel 1991 e che risente dei modelli europei di codificazione, specie di quelli della riforma tedesca e dei progetti spagnoli. In proposito cfr. GUZMAN DALBORA, El nuevo código penal del Perù (1991), in Doctrina penal, 1991, 631 s., 641, che fra i caratteri a fondamento del giudizio di codice penale liberale, espresso nei confronti del nuovo testo peruviano, indica proprio l’ordine sistematico adottato nella parte speciale. (127) Rileva il compromesso fra la nuova parte generale ed i fondamenti della vecchia parte speciale, realizzato dalle due leggi di riforma del diritto penale del 1969, ROXIN, Strafrecht, cit., 58. (128) Exposición de Motivos al Proyecto, 1992, cit., 18. In termini più sintetici, ma sostanzialmente conformi, l’Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 18. (129) Exposición de Motivos al Proyecto, cit., 16.


— 794 — seguito (130), sia quello di offensività. Quest’ultimo, a sua volta, è poi ribadito tanto in una norma generale sull’interpretazione delle diverse incriminazioni in chiave offensiva del bene giuridico (art. 4.2) (131), quanto in una autonoma previsione, fra i principi generali della parte speciale, secondo la quale di regola le singole fattispecie criminose devono essere descritte in modo che la loro realizzazione assuma una dimensione di concreta lesività o di concreto pericolo per il bene protetto (art. 54). Inoltre, anche qui le contravvenzioni, per la loro bassa carica di offensività, sono fortemente ridotte rispetto al codice vigente (v. ad es. l’art. 11 disp. att. coord. e trans.). È interessante notare che la duplice previsione normativa del principio di offensività riproduce la diversità dei suoi possibili momenti operativi e dei rispettivi destinatari: in sede applicativa, l’interprete è vincolato ai significati del testo che mantengano un ancoraggio con la dimensione dell’offesa al bene giuridico tutelato; in sede normativa, ed in particolare con riguardo alla futura attività del legislatore delegato, si pone la necessità di formulare in incriminazioni espresse e determinate le tipologie criminose indicate nei tratti essenziali nello schema di legge delega; per di più, occorrerà fare emergere con la massima chiarezza possibile la dimensione concretamente offensiva delle varie condotte illecite. Risultato quest’ultimo che potrà essere assicurato tanto dal legislatore delegato, quanto dall’interprete solo se in precedenza già la legge delega abbia avuto cura di tutelare beni giuridici non meramente artificiali, ma al contrario suscettibili di lesione o di concreta messa in pericolo. Inoltre, è in sede di predisposizione della struttura del nuovo testo codicistico che il ricorso ai criteri selettivi di sussidiarietà e di offensività risulta perfettamente congruente al ruolo istituzionale del legislatore (anche se delegante): questi deve infatti operare le fondamentali scelte di politica criminale e ne sopporta primariamente le relative responsabilità politiche. Meno facile è invece accertare l’adesione ai principi surrichiamati nelle scelte di tutela compiute dai testi francese ed inglese: ciò in primo luogo perché si tratta di nozioni teoriche non impiegate dai rispettivi studiosi, i cui dibattiti sono piuttosto estranei rispetto agli sviluppi del pensiero giuridico-penale d’oltreconfine. Inoltre, la natura teorica dei principi in questione fa sì che una loro previsione in clausole espresse e generali (130) Cfr. PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge per un nuovo codice penale, cit., 170. Sembra invece limitare ad un valore esclusivamente ‘‘politico’’ la clausola dell’art. 2 comma 2 uno dei primi commentatori: CONTENTO, Clausole generali e regole di interpretazione come ‘‘principi di codificazione’’, in Valore e principi della codificazione penale, cit., 111. (131) Favorevole a tale direttiva si dichiara FIORE, Il principio di offensività, cit., 283, 286, pur dissentendo dalla Relazione al Progetto 1992, nel punto in cui ammette possibili deroghe al principio in questione.


— 795 — sia strutturalmente incompatibile con testi normativi modellati in funzione della precipua esigenza di una uniforme applicazione giurisprudenziale, come appunto sono quelli francese ed inglese, anche se ciascuno con proprie caratteristiche. In modo netto ciò era espresso dal presidente della commissione che ha preparato il progetto inglese quando affermava: ‘‘Non stiamo compilando il codice per illuminare i nostri colleghi accademici o la House of Lords’’ (132). Un ulteriore profilo riguarda il rapporto fra selezione dei beni penalmente tutelati e rilevanza costituzionale degli stessi. In proposito, nei Motivos del Progetto Spagnolo del 1992 troviamo una espressa affermazione della nota teoria che limita il penalmente rilevante ai soli beni giuridici dotati di un riscontro nella Carta Costituzionale (133). Questo punto rimane però senza riscontro negli altri documenti considerati: ciò appare evidente rispetto ai testi francesi ed inglesi, che sono alieni da tali teorie per le stesse ragioni appena ricordate in relazione ai principi di sussidiarietà e di offensività. Più strano appare il silenzio in proposito del testo italiano e della relativa relazione, specie se si riflette che la suddetta concezione ha avuto origine proprio in Italia e per di più da parte di una corrente dottrinale, rappresentata al suo vertice nella commissione di riforma del codice (134). Con ogni probabilità, avrà qui influito la scelta di evitare di prendere posizione su una teoria ancora al centro di un acceso dibattito (135); inoltre, rispetto alle scelte di tutela concretamente operate nella parte speciale del progetto italiano sembra esservi sempre un quan(132) È stato ad esempio rilevato che, a differenza del progetto italiano, il codice francese, essendo ‘‘di preminente origine e derivazione giurisprudenziale’’, ‘‘rifugge dall’elaborazione di sommi principi’’ e per questo non contiene ‘‘norme mediante la tecnica delle ‘clausole generali’: così CONTENTO, Clausole generali, cit., 112. Cfr. pure PALAZZO, Certezza del diritto, cit., 374 s. ed in particolare LE GUNEHEC, Le nouveau code pénal et la jurisprudence de la Cour de Cassation, in Le nouveau code pénal. Enjeux et perspectives, cit., 129 s. Quanto ai rapporti fra il progetto inglese e le esigenze della prassi giurisprudenziale cfr. CADOPPI, Dalla judge-made law, cit., 953. (133) Cfr. Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 17: ‘‘Il marchio costituzionale’’ dei beni giuridici permette la seguente considerazione fondamentale ‘‘tutti e ciascuno dei beni giuridici che il codice penale tutela hanno una base costituzionale’’; inoltre è ancora più importante che ‘‘non vi è nessun delitto rispetto al quale non si possa apprezzare il vincolo con un valore costituzionalmente affermato’’. Nei Motivos al Proyecto 1994, cit., 17 non si specificano tali direttive politico-criminali, limitandosi a segnalare in generale ‘‘l’adattamento positivo del nuovo codice penale ai valori costituzionali’’. (134) Come è noto, si tratta del BRICOLA, sin dalla fondamentale opera Teoria generale del reato, in Novissimo dig.it., XIX, 1973, 7 s. (135) Sembra anzi che nella dottrina più recente prevalgono le posizioni contrarie: oltre a ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, 419 s., e PALAZZO, I confini della tutela penale, cit., 459, v. specialmente MARINUCCI/DOLCINI, Costituzione e politica, cit., 345 s., i quali approdano a conclusioni negative sul punto fondamentale della possibilità di limitare ai soli beni costituzionalmente rilevanti gli oggetti della tutela penale. In senso diverso, in precedenza, MARINUCCI, Politica criminale, cit., 72.


— 796 — tomeno implicito riscontro costituzionale dei rispettivi beni giuridici (136). Invece, la sottolineatura nel documento spagnolo esprime in modo netto la svolta di affrancamento dalla dittatura sancita formalmente dalla Costituzione del 1978, vale a dire in un tempo in cui la teoria dei beni giuridici costituzionali era al massimo auge. Si comprende così che nel ‘‘primiero Código postcostitucional’’ si sia voluto enfatizzare il ruolo di Grundnorm del nuovo ordinamento democratico giocato dalla Costituzione anche sullo specifico e delicato terreno penalistico (137). Un esempio, circoscritto ma significativo, di tale impostazione è rappresentato dal ridimensionamento della tutela penale del patrimonio alla luce del riconoscimento costituzionale di un componimento fra interesse individuale e sociale (art. 32.2 Cost. Spagn.) (138). 4. Le nuove frontiere della responsabilità penale. — Un’ulteriore prospettiva di verifica può essere offerta dalle risposte date dai diversi testi alle nuove esigenze di tutela connesse a società avanzate e complesse, in cui il progresso tecnologico, l’assetto economico, le relazioni commerciali sia interne sia internazionali determinano sostanziali modifiche rispetto al tradizionale quadro offerto dai precedenti codici penali al tempo della loro formulazione. 4.1. Soggetti attivi. — Il tema della responsabilità delle società commerciali rappresenta un nodo cruciale nel generale scenario di un diritto penale adeguato alle caratteristiche del sistema economico contemporaneo. Uno spunto innovativo è offerto in proposito dal nuovo codice francese, il cui interesse è ancor più acuito dal dato che è già entrato in vigore. Dopo un lungo dibattito in sede di lavori preparatori (139), il codice francese regola per la prima volta in via generale e dettagliata la responsabilità penale delle persone giuridiche, che si affianca, senza escluderla, con quella delle persone fisiche che hanno concorso alla realizzazione dei fatti (art. 121-2) (140). Basterebbe considerare le conseguenze di tale novità, (136) Per tale rilievo cfr. FIANDACA, Problemi e prospettive, cit., 8. (137) Cfr. Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 15. In generale, sul particolare rilievo attribuito dai penalisti spagnoli (ed anche italiani) alla Costituzione, cfr. TIEDEMANN, Verfassungsrecht und Strafrecht, Heidelberg, 1991, 4 s. (138) Cfr. Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 17 s. (139) Per notizie in proposito rinvio a MILITELLO, Gruppi di società e diritto penale nell’esperienza francese, in Riv. soc., 1989, 786 s. (140) Il lettore straniero del nuovo codice francese rimane subito colpito dalla particolare numerazione degli articoli, che ne indica la collocazione sistematica complessiva; la prima cifra indica il libro, la seconda il relativo titolo, la terza il capitolo, infine il numero progressivo dopo il trattino riguarda l’articolo. Il sistema, che ricorda quello adottato per la partizione interna delle opere di dottrina più recenti, era già stato adottato da alcuni codici francesi di settore.


— 797 — che risalta soprattutto in un’ottica comparatistica (141), per smentire il giudizio formulato dai primi commentatori francesi di un ‘‘codice poco innovativo’’: non solo infatti nella parte generale si prevede la suddetta responsabilità nei casi in cui un organo della persona giuridica abbia commesso un illecito per conto di essa (art. 121-2), ma si definisce anche un’ampia scala di sanzioni penali (pecuniarie, interdittive, di controllo dell’attività, di pubblicazione della sentenza di condanna, fino alla stessa liquidazione dell’ente), differenziate per tipi di reati commessi ed i cui contenuti sono adeguati alle caratteristiche delle persone giuridiche (art. da 131-37 a 131-49; per i casi di recidiva art. da 132-12 a 132-15). Specie questa ricca serie di previsioni spicca all’attenzione del comparatista, perché pur se resa necessaria dall’introduzione della relativa responsabilità, non era certo scontata nelle soluzioni concretamente prospettabili: il ricco dibattito teorico in proposito aveva ormai raggiunto uno stadio in cui il vero nodo da sciogliere non era più costituito dai problemi ontologici collegati ai presupposti della responsabilità (come quello ad es. della natura dell’azione umana), quanto sopratutto dalla prospettazione di una scala sanzionatoria adeguata alle caratteristiche tipiche della criminalità d’impresa. Infine, la scelta politico-criminale in materia non è stata compiuta dal codice francese senza verificarne la concreta rilevanza rispetto alle singole fattispecie incriminatrici, cosicché alla previsione generale si accompagna l’indicazione nella parte speciale dei casi in cui la relativa responsabilità è estesa alle persone giuridiche (142). Pur evitando di cercare forzate connessioni fra sistemi diversi, non si (141) Come è noto, gli ordinamenti eurocontinentali sono ancora prevalentemente ancorati al ‘‘societas delinquere non potest’’: per lo stato della questione in Italia, sia consentito il rinvio a MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1992, 101 s. Un quadro aggiornato in relazione agli altri sistemi europei si ricava ora dai contributi sul tema (specie di SCHÜNEMANN, RUIZ VADILLO, DELMAS-MARTY, DE DOELDER, GREVE RøSTAD) al volume Bausteine des europäischen Wirtschaftsstrafrechts, SCHÜNEMANN/SUÁREZ GONZÁLES, Köln, 1994, 265 s. (142) L’innovazione ha subito suscitato interesse anche da noi: cfr. SALAZAR, Il nuovo codice penale francese, in Cass. pen., 1992, 2271 s.; GUERRINI, La responsabilità delle ‘‘Personnes Morales’’ nel nuovo codice penale francese, in Le Società, 1993, 691 s.; DE SIMONE, Il nuovo codice francese, cit., 211 s. Anche PRADEL, Il nuovo codice, cit., 13 s., che pure accusa il codice di ‘‘un certo conservatorismo’’, considera la disciplina in questione un’importante novità. Alcune riserve di fondo sono espresse ad es. da CONTE, Il riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche nella legislazione francese, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1994, 93 s. A titolo esemplificativo, si può qui ricordare che tale responsabilità è prevista per i reati di omicidio e lesioni involontarie, rischio di morte causato ad altri, traffico di stupefacenti e riciclaggio di denaro, sperimentazione su persona umana, furto, estorsione, truffa, abuso di fiducia, attentato a sistema informatico, tradimento, attentato, complotto, corruzione attiva, usurpazione di pubbliche funzioni o di titoli, atti di terrorismo, falso e falsità in monete. Fra le contravvenzioni, nei casi di abbandono di relitto di veicolo, o di provocazione non pubblica alla discriminazione.


— 798 — può fare a meno di notare che la suddetta scelta del legislatore francese va in direzione di un avvicinamento agli ordinamenti penali angloamericani, nei quali la responsabilità delle corporations è un dato risalente (143). In particolare, il Progetto inglese del 1989 regola le condizioni di responsabilità di tali soggetti accanto a quella delle persone fisiche che hanno agito per conto di essi (rispettivamente art. 30 e 31). Sarebbe d’altronde erroneo ritenere quasi scontate previsioni siffatte in quell’ordinamento: gli stessi compilatori del Progetto hanno avuto cura di sottolineare i profili problematici della scelta incriminatrice così compiuta, sia per l’incertezza della relativa teoria e dei rispettivi scopi, sia per la lacunosità delle singole ipotesi di tale responsabilità oggi riconosciute nel diritto inglese (144). 4.2. Offese di tipo nuovo fra legislazione speciale e codice penale. — Una seconda verifica del grado di attualità rispetto alle più recenti esigenze della politica criminale riguarda le forme in cui nei testi normativi in esame è accordata tutela a beni di nuovo conio di tipo sovraindividuale ed anche a beni tradizionali minacciati da nuove forme di aggressione. Un fenomeno che interessa tutti i Paesi sviluppati e che, a ben vedere, è a base della spinta riformatrice che anima il movimento di ricodificazione in Europa. Di fronte al crescere di nuove esigenze di tutela, i vari ordinamenti o non sono riusciti a farvi fronte adeguatamente o lo hanno comunque fatto con interventi normativi frammentari e non coordinati in un quadro organico: la scommessa è dunque di riportare nei confini del testo codicistico i più importanti comportamenti ritenuti meritevoli di pena nelle società contemporanee, restituendo così centralità ed attualità al codice penale. Ciò vale ad esempio per il Progetto italiano del 1992, al quale si attribuisce l’impegnativo compito di ‘‘soddisfare i bisogni di tutela giuridica di una civiltà postindustriale’’, quale è ormai quella italiana, a più di sessanta anni dall’emanazione del codice Rocco (145). Per di più, il recupero di certezza e di centralità del codice viene assunto fra i principi di codificazione, esprimendo al contempo ‘‘la necessità di contrastare il pericolo di decodificazione’’ (art. 2 n. 3) (146). Per connessione si può rile(143) Sull’emersione di tale responsabilità, cfr. LA FAVE/SCOTT, Criminal Law, St. Paul, 19862, 257; KRAMER, Corporate Criminality: The Development of an Idea, in Corporations as criminals, HOCHSTEDLER (edt.), Beverly Hills, 1984, 13 s. (144) Cfr. Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales, vol. II, cit., 213. (145) Cfr. PAGLIARO, Sullo schema di disegno di legge per un nuovo codice penale, cit., 170. (146) Il tema della decodificazione in diritto penale, problematicamente posto agli inizi degli anni ottanta in un dibattito proprio sul ruolo del codice penale del 1930 (v. ad es. BRICOLA, Considerazioni introduttive a ‘‘Il codice Rocco cinquant’anni dopo’’, in Questione crim., 1981, 14 s.; PADOVANI, La sopravvivenza del codice Rocco nell’‘‘età della decodificazione’’, cit., 96) è stato poi affrontato da ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, 243; PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, Padova, 1985, 83 s.;


— 799 — vare che lo sforzo di ridare un ‘‘centro di gravità’’ alla galassia in espansione della legislazione speciale ha fatto inserire, fra le disposizioni transitorie e di coordinamento del Progetto italiano, una norma fortemente originale, che, in caso di concorso fra disposizioni del nuovo codice e norme contenute in precedenti leggi speciali, prevede l’abrogazione di queste ultime, se non conservate con apposita legge delegata (art. 13) (147). Considerazioni analoghe sono sviluppate nei Motivos del Proyecto 1992, dove si parla di uno sviluppo ‘‘vertiginoso’’ della società spagnola dopo il 1975, che ha mutato le considerazioni collettive dei beni meritevoli di tutela, alla luce del nuovo assetto democratico dello Stato. Per di più ‘‘lo sviluppo tecnologico ed economico, oltre a creare un nuovo concetto di benessere, pone anche in pericolo beni giuridici importanti o altri DOLCINI, Codice penale, cit., 43 s.; FIORE, Decodificazione e sistematica dei beni giuridici, in Beni e tecniche della tutela penale, cit., 75 s.; PALAZZO, A proposito di codice penale e leggi speciali, in Quest. giust., 1991, 312 s.; FIANDACA, Relazione introduttiva, in Verso un nuovo codice penale, cit., 10; ID., Problemi e prospettive, cit., par. 3; PEDRAZZI, La riforma dei reati contro il patrimonio e l’economia, in Verso un nuovo codice penale, cit., 355; FIANDACA/MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, cit., 27 s. È noto che la tendenza alla decodificazione è stata avvertita dapprima in diritto civile, come ha messo in evidenza il fortunato lavoro di IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 19893; ma vedi già RODOTÀ, Ipotesi sul diritto privato, in Il diritto privato nella società moderna, Bologna, 1971, 18 s. Peraltro, non si tratta di dato incontroverso fra i civilisti: cfr. ad es. SACCO, Codificare, cit., 137 s.; MAZZAMUTO/NIVARRA, Principi generali e legislazione speciale: l’attualità del codice civile italiano, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 529 s. (147) Segnala la ‘‘grande portata innovativa’’ della norma, per ridare centralità al codice penale, PAGLIARO, Valori e principi, cit., 381 s. Scettico sull’efficacia della previsione appare invece PALIERO, L’autunno del patriarca, cit., 1223 s., secondo cui la relativa ‘‘formula neoscolastica dell’esclusione logica fra predicati normativi’’ non potrebbe comunque assicurare il recupero dell’originario ruolo codicistico, quale fonte esclusiva di un intero ramo dell’ordinamento. Anche a trascurare che la fondatezza di un tale modello ideale andrebbe verificata (ad esempio, in alcuni passi del Discours préliminaire al code civil del 1804 si dà per scontato che non si tratti di un’opera completa e si rinvia ‘‘a consuetudini continuate, a opinioni comuni di dottori, a insegnamenti costanti della giurisprudenza come a preziosi fonti integrative’’: cfr. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato, in Riv. dir. civ., 1993, I, 388) occorre comunque evitare di assumere una nozione fissa ed immutabile di codice (contro tale rischio supra, testo intorno alle note 24 s.). Se infatti la codificazione non è altro che una ‘‘forma storica più legislazione’’ (IRTI, Idea del codice civile, cit., 21), si può più facilmente accettare che il rapporto dialettico fra nucleo codicistico e legislazione speciale costituisce un elemento ormai da tempo imprescindibile negli ordinamenti moderni. In tale quadro, la soluzione in proposito adottata dal Progetto 1992, più che sul terreno delle relazioni logiche fra norme, si segnala perché accolla al legislatore la responsabilità di un espresso mantenimento di legislazioni settoriali, che siano reputate indispensabili ‘‘corollari’’ del codice penale. A ben vedere dunque si tratta di un ennesimo indice di evoluzione dello strumento codicistico: per un verso, se ne conferma il ruolo centrale nel sistema penale, per altro lo si adegua alle trasformazioni del complessivo contesto dei medesimi giuridici contemporanei. Cfr. pure DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 347, favorevole agli sforzi del Progetto 1992 per contrastare ‘‘un fenomeno sempre e necessariamente patologico come quello della decodificazione’’.


— 800 — affatto nuovi’’ (148). Spiccano in tale direzione il nuovo titolo dedicato alla tutela del territorio e delle risorse naturali (tit. XIII, art. 310-324), ma anche i delitti connessi all’energia nucleare ed alle radiazioni ionizzanti (artt. 325-328). Una articolata tutela è prevista per il feto umano, tanto contro le lesioni direttamente apportate con qualsiasi mezzo (tit. IV, artt. 165-166), quanto contro le manipolazioni genetiche e l’inseminazione artificiale non consentita (tit. V, artt. 167-170) (149); inoltre, sono contemplati sia i delitti di genocidio (art. 587), sia quelli di trattamenti imumani, compreso gli esperimenti biologici, nei confronti dei prigionieri di guerra o di altri soggetti in posizione analoga (art. 589). Nell’ambito poi dei reati contro il patrimonio, modificati in una visione costituzionalmente orientata ed unificati con quelli contro l’ordine socio-economico (150), è fra l’altro incriminata la truffa commessa mediante manipolazioni informatiche (art. 252 comma 2). Molte fattispecie analoghe si trovano anche nel Progetto italiano: i reati contro l’identità genetica all’interno del libro dedicato ai reati contro la persona (art. 65 n. da 1 a 6; ma anche art. 66 n. 2); numerosi reati connessi all’informatica (art. 76 n. 2 e 6; art. 82 n. 3; art. 83 n. 4; art. 93 comma 2); la figura criminosa del pericolo nucleare (art. 99 n. 6); ampia protezione è inoltre accordata al bene dell’ambiente (artt. 102 e 103), accanto al quale sono pure previsti reati contro il paesaggio e la flora (artt. 106-107) e reati contro gli animali ed il patrimonio faunistico. Inoltre si colmano lacune di tutela da tempo sottolineate dalla dottrina, come l’infedeltà patrimoniale (art. 112 n. 2) o il patrimonio culturale (art. 104). Quanto al codice francese possono essere richiamate le norme che reprimono la sperimentazione sulla persona umana (art. 223-8), l’interferenza nell’altrui vita privata con mezzi tecnici (art. 226-3); l’attentato all’immagine della persona mediante falsi montaggi audiovisivi (art. 226-8); l’intera sezione dedicata agli attentati ai diritti della persona mediante schedatura o trattamenti informatici (artt. da 226-16 a 226-24) e quella sugli attentati ai sistemi di elaborazione automatica dati (artt. da 323-1 a 323-7); il titolo dedicato ai reati di terrorismo (artt. da 421-1 a 421-4). (148) Cfr. Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 15 s. (149) Tale titolo non è stato riprodotto nel Proyecto 1994. Ciò però non a causa di sopravvenute preclusioni all’opportunità di una disciplna della materia (peraltro già contenuta nell’ordinamento spagnolo: L. n. 42/1988 del 28 dicembre 1988 ‘‘donación y utilización de embriones y fetos humanos o de sus células, tejidos u órganos’’), ma per un ridimensionamento dell’aspirazione alla completezza del codice rispetto a fenomeni in rapida evoluzione, dunque da regolare più adeguatamente con leggi speciali: cfr. Esposición de Motivos al Proyecto 1994, cit., 19 s. Si tratta dunque di un’ulteriore testimonianza della varietà di forme con cui negli ordinamenti contemporanei si risponde all’esigenza di trovare il giusto mix fra codice e legislazione speciale (cfr. supra nt. 146). (150) Sulle ragioni di tali scelte cfr. ancora l’Exposición, cit., 17 s., 30 s.; v. pure GARCIA VALDÉS, El Proyecto de nuevo código penal, cit., 47.


— 801 — A differenza degli altri finora considerati, il Progetto inglese sembra meno sfiorato dal vento delle nuove esigenze di tutela. Da ciò si ricava il vero intento di tale documento, che, più che la riforma, ha lo scopo di assicurare maggiore certezza, superando quella fluttuante ‘‘miscela di common Law e diritto scritto’’ che caratterizza il diritto penale inglese (151). Peraltro, non si arriva ad un totale esautoramento del ceppo più antico, che anzi gli si attribuisce espressamente un ruolo, ancorché marginale (152). 4.3. Rilevanza degli interessi sovranazionali. — Un ulteriore campo di verifica dei nuovi testi codicistici in esame concerne il contesto sovranazionale in cui si inseriscono i rispettivi ordinamenti. Tutti infatti ormai da tempo partecipano a comunità internazionali, come soprattutto il Consiglio d’Europa e l’Unione europea, che sono riconosciute titolari di autonomi interessi meritevoli di adeguata tutela, anche penale. Benché tali organismi internazionali abbiano già raggiunto livelli significativi di integrazione politica, fra le loro competenze dirette non rientra ancora la potestà punitiva penale, mantenuta invece appannaggio esclusivo dei singoli Stati membri: il grado in cui questi tutelano gli interessi di tali comunità internazionali rappresenta dunque un punto qualificante del livello di ‘‘modernizzazione’’ delle diverse esperienze contemporanee di ricodificazione penale. Sul punto il testo più attrezzato appare quello italiano, che agli effetti della tutela penale contiene una apposita clausola di assimilazione degli interessi delle Comunità Europee a quelli dello Stato italiano (art. 56) (153). Il riconoscimento è meno diretto invece nel Draft inglese, ancorché si tratti di un dato comunque significativo, perché in ‘‘controtendenza’’ rispetto alla tradizionale resistenza inglese verso i progressi nelle realizzazioni concrete dell’ideale di unificazione europea: in particolare, la section 45, fra gli atti che sono riconosciuti giustificati e scusati dal diritto, contempla espressamente quelli fondati su un ‘‘diritto comunitario applicabile’’ secondo la definizione fornita dalla sez. 2(1) dell’European Communities Act 1972 (154). Deludente invece il quadro offerto in materia dagli (151) Cfr. Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales, vol. I, cit., 1. V. anche DENNIS, The English Draft Criminal Code, relazione al congresso ‘‘Omnis definitio in jure periculosa?’’, cit., 2 s. (datt.), secondo il quale il progetto inglese contiene un numero significativo di cambiamenti normativi. Nel senso invece che si tratti di un mero Restatement del diritto penale inglese: HUBER, Großbritannien, in Strafrechtsentwicklung in Europa 3, cit., 511. Sulla questione cfr. pure DE BÚRCA/GARDNER, The Codification of the Criminal Law, in Oxf. Jour. Leg. St., 1990, 563 s. (152) Cfr. Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales, vol. I, cit., 20. (153) Sottolinea l’importanza della previsione MEZZETTI, La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea, Padova, 1994, 10 nt. 10. (154) Nel Commentario ufficiale al draft si chiarisce che tale previsione rappresenta


— 802 — altri due ordinamenti qui oggetto di considerazione: il Proyecto spagnolo del 1992 non va oltre un mero accenno nei relativi ‘‘Motivos’’ (155), mentre addirittura vistosa è stata giudicata la mancata considerazione del contesto europeo nel nuovo codice penale francese (156). 5. L’affermazione del principio di legalità. — Il principio di legalità, con la sua carica di significati politico-ideologici ancor prima che giuridici, appare fondamentalmente riconosciuto da tutti i sistemi considerati; è piuttosto sulla sua portata ed accezione che si riscontrano differenze interessanti. Ad esempio, nei testi italiano (art. 3) e spagnolo (art. 1) esso è solennemente affermato in via preliminare ad ogni altra regola. Non si tratta del resto di dato particolarmente innovativo, in quanto entrambi i sistemi conoscono già attualmente tale collocazione di apertura dei vigenti codici, e ciò esprime il significato fondamentale della riserva di legge per l’intero ordinamento penale. Tale linea di continuità con la tradizione assume peraltro un peso determinante per rispondere affermativamente all’interrogativo posto nelle linee introduttive del presente lavoro: verificare cioè, se accanto ad inevitabili differenze, i più recenti testi e progetti di codice penale mantengano nessi significativi con la stagione di prima fioritura di questo strumento normativo, quando all’inizio del secolo scorso si affermava lo stato di diritto. Non può sfuggire il parallelismo fra il significato generale che il valore della legalità assume in tale contesto politicogiuridico ed i suoi aspetti specificamente penalistici: la riserva di legge, l’irretroattività delle norme sfavorevoli, il divieto di analogia. Si comprende così il carattere indisponibile che questi ultimi hanno assunto per un diritto penale moderno, resistendo al superamento ed alle trasformazioni delle formazioni giuridico-sociali in cui furono elaborati (stato liberale monoclasse). Al contempo si convalida ulteriormente l’esigenza di riaffermare una tale cornice garantistica in sede di ridefinizione della tavola fondamentale dei beni riconosciuti meritevoli di tutela penale negli ordinamenti contemporanei. Vero è che, come si è già anticipato, fra i diversi testi considerati esistono differenze nel grado di affermazione del principio di legalità: ciò è inevitabile, a causa delle differenze più generali fra i rispettivi ordinamenti; peraltro, il significato garantistico fondamentale è sempre rispettato ed anzi si può forse rinvenire una sorta di compensazione all’interno dello stesso testo o progetto codicistico fra i diversi profili penali del prinun ‘‘eccesso di cautela’’, visto che i diritti richiamati hanno comunque valore normativo e le Corti inglesi sarebbero tenute a riconoscerli (Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales, vol. II, cit., 234). (155) Cfr. Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 15. (156) Cfr. DELMAS-MARTY, Nouveau code pénal: avant-propos, cit., 435, 442.


— 803 — cipio di legalità. Ad esempio, rispetto ai ricordati progetti italiano e spagnolo, l’aspetto della riserva di legge appare affermato con minore rigidità nel Progetto inglese, dove si ammette che norme penali siano poste dal Governo, ancorché sotto l’autorità del Parlamento (art. 3). Se però si considera il profilo della determinatezza delle fattispecie penali, è interessante lo sforzo compiuto in tale Progetto, che in apposite norme vincolanti l’interprete ha cura di specificare il significato dei termini tecnici e di molti degli elementi normativi impiegati nelle singole incriminazioni. Anche qui peraltro si tratta di un dato che si inserisce nella tradizione di tecnica legislativa del rispettivo sistema penale e che risente della struttura casistica del diritto anglo-americano (157). Nonostante le diversità strutturali con l’ordinamento inglese, anche nell’esperienza francese si riscontra un analogo fenomeno: il minore grado di assolutezza sul terreno della riserva di legge si accompagna all’affermazione programmatica dell’obbligo di interpretazione stretta della legge penale. Quanto al primo aspetto, il primato storico nell’affermazione del principio di legalità penale (sin dall’art. 8 della Declaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789) non ha impedito al sistema francese, specie dopo la Costituzione del 1958, tanto di riconoscere la possibilità di ordinanze penali emanate dal Governo su autorizzazione parlamentare (158), quanto di consentire l’intervento diretto del potere esecutivo in materia contravvenzionale (159). Specie quest’ultima fonte normativa (157) Cfr. CADOPPI, Dalla judge-made law, cit., 954, 960 s. Non si deve però trascurare che anche molti ordinamenti continentali prevedono in misura maggiore o minore norme definitorie, tanto nella parte generale del codice penale quanto in quella speciale. Ad es., causalità, dolo e colpa (i nostri attuali artt. 40 e 43); la nozione di pubblico ufficiale (art. 119, Código penal, art. 357 c.p. it.) o quella di chiavi false (art. 510 Código penal). Sui problemi in proposito cfr. supra nt. 82 ed i già ricordati lavori del convegno di Bolzano, Omnis definitio in jure periculosa?. Quanto alla larga presenza di definizioni nel codice italiano vigente v. ad es. FIANDACA, Il codice Rocco, cit., 71; DOLCINI, Codice penale, cit., 21 s. (158) L’art. 38 della Costituzione del 1958 prevede che il Governo, per l’esecuzione del suo programma, possa chiedere al Parlamento l’autorizzazione ad emanare, entro un termine prefissato, ordinanze in materie che sono normalmente riservate alla legge. A differenza della legge delegata nel sistema italiano, le suddette ordinanze mantengono la natura di veri atti amministrativi. Come tali, fin quando non sono depositate in Parlamento per la ratifica, sono impugnabili per eccesso di potere di fronte al Consiglio di Stato ed il giudice penale competente può disapplicarle, quando le ritenga contrarie alla legge per uno dei tradizionali vizi dell’atto amministrativo (cfr. STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Droit pénal général, cit., 156 s.). (159) Anche il nuovo codice francese mantiene la tradizionale tripartizione fra crimini, delitti e contravvenzioni. Essa rimane fondata sul tipo di pene: criminali, correzionali, di polizia. La distinzione ha importanti conseguenze sia di diritto sostanziale, sia sul piano processuale. Fra le prime, si possono ricordare le differenze in tema di tentativo (sempre punibile per i crimini, espressamente per i delitti, mai per le contravvenzioni); quelle relative al concorso di persone (sempre punibile per crimini e delitti, eccezionalmente per le contrav-


— 804 — rappresentava un indebolimento dell’originaria rigidità della riserva di legge, tanto che esso è stato considerato come una ‘‘deroga implicita’’ all’art. 4 c.p. del 1810, il quale sanciva la previsione espressa di legge per sanzionare penalmente sia i crimini ed i delitti, sia le contravvenzioni (160). Nella formulazione dei nuovi artt. 111-2 e 111-4 il distinto statuto dei due gruppi di illeciti penali è stato formalmente sancito: da una parte crimini e delitti, per i quali si ribadisce la previsione espressa di legge tanto per gli elementi costitutivi, quanto per le rispettive pene; dall’altra parte le contravvenzioni, la cui descrizione è integralmente affidata ai regolamenti, i quali fissano pure le rispettive pene, anche se ‘‘nei limiti e secondo le distinzioni fissate dalla legge’’ (art. 111-2 comma 2). Peraltro, nel sistema precedente i decreti con cui il Governo esercitava tale potere in materia contravvenzionale potevano anche prevedere sanzioni detentive (fino a due mesi) per l’inosservanza delle disposizioni da essi contenute (161); con il sistema sanzionatorio previsto dal nuovo codice è venuta meno tale possibilità di un diretto intervento del potere esecutivo sulla libertà personale dei cittadini, poiché le pene previste per le contravvenzioni sono solo di tipo pecuniario ed interdittivo (art. 131-12). Per di più, il vincolo del giudice ad una interpretazione restrittiva delle norme penali, già da tempo affermato dalla giurisprudenza della Cour de Cassation, riceve nel nuovo codice un fermo riconoscimento normativo: l’art. 111-4 pone non solo il divieto di analogia, ma anche, se inteso rigorosamente, impedisce la stessa interpretazione estensiva delle venzioni); i diversi periodi di prescrizione della pena (rispettivamente venti, cinque e due anni); l’assorbimento delle pene nel concorso di crimini, delitti e contravvenzioni punibili con sanzioni detentive. In campo processuale, la tripartizione degli illeciti penali si riflette ad esempio sulle competenze degli organi giudicanti (rispettivamente Corti d’assise, tribunali correzionali, tribunali di polizia) e sui termini di procedibilità (l’azione penale può essere esercitata rispettivamente entro anni dieci, tre, uno dal fatto). (160) Parlavano di deroga implicita all’art. 4 c.p. abr. STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Droit pénal général, cit., 157 s. Va tuttavia precisato che la Costituzione del 1958, nel ridimensionare in generale la portata del principio di legalità (su tale ‘‘révolution juridique’’ cfr. l’ampia indagine di DONNARUMMA, Lo stato di diritto e la V Repubblica, Milano, 1993, specie 151 s.), fra le materie sottoposte a riserva assoluta di legge ha indicato solo la definizione dei crimini e dei delitti e la previsione delle rispettive pene (art. 34 comma 1 al.3, ed art. 37 Cost.). Cfr. in proposito MERLE/VITU, Traité de droit criminel, vol. I, Paris, 19814, 226 s.; e da noi già BRICOLA, Limiti di operatività della regola ‘‘nullum crimen sine lege’’ nel diritto penale francese, in Indice pen., 1967. 22 s.; PADOVANI, La ‘‘restaurazione’’ del principio di legalità nel diritto penale francese, in Foro it., 1974, 238 s. (161) Questa era almeno l’interpretazione prevalente in giurisprudenza, nonostante la contraria linea del Consiglio Costituzionale, che nel 1973 ha sostenuto la limitazione della competenza penale dell’Esecutivo a contravvenzioni non sanzionate con pene detentive: v. le principali decisioni in proposito pubblicate da noi in Foro it., 1974, IV, 222 s., con commento di PADOVANI, La ‘‘restaurazione’’, cit.; per una ricostruzione di tali vicende interpretative cfr. pure DONNARUMMA, Lo stato di diritto, cit., 184 s., 245 s., 424 s.


— 805 — norme incriminatrici (162). Un identico passaggio di status, da diritto giurisprudenziale a norme codicistiche, si ha nella materia della successione delle leggi penali nel tempo: accanto al tradizionale principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, vengono sancite formalmente le regole della retroattività delle norme penali più favorevoli ai fatti sui quali non si è ancora formato il giudicato e quello dell’estinzione delle pene applicate per fatti, ancorché accertati con sentenza passata in giudicato, la cui rilevanza sia stata abrogata da una legge successiva (rispettivamente art. 112-1 comma 1, comma 3, ed art. 112-4 comma 2). 6. Principio di colpevolezza e responsabilità penale. — Anche rispetto all’affermazione del principio di colpevolezza si registra una generalizzata adesione di fondo da parte dei diversi sistemi considerati. Ad es. nel Progetto italiano, l’art. 12.1 esclude espressamente qualsiasi forma di responsabilità incolpevole e dispone che solo due sono le forme di imputazione. L’attenzione prestata all’ampio dibattito sulla responsabilità oggettiva sviluppatosi ormai da tempo in Italia si evince dalla scomparsa di incriminazioni tradizionalmente considerate in contrasto con il principio in esame: esemplari in proposito l’art. 586 c.p., considerando la qualificazione della morte o delle lesioni derivanti da altri delitti ‘‘riconducibile alla disposizione generale sul concorso formale di reati’’ (163), e l’art. 116 c.p., trasformando in una ipotesi di agevolazione colposa la tradizionale responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto (164). Inoltre, sul terreno della rilevanza della relazione personalistica fra soggetto e fatto illecito, non solo si riconosce la rilevanza scusante dell’errore invincibile sul precetto penale (art. 15), ma si prevede anche una nuova attenuazione di pena quando un tale errore fosse vincibile dal soggetto agente (art. 22 n. 1), concretizzando così una possibilità già segnalata a chiusura della sentenza della Corte costituzionale n. (162) L’innovazione normativa non è considerata da CHASSAING, Les trois codes français et l’évolution des principes fondateurs du droit pénal contemporain, cit., 446 s. (163) Cfr. Relazione allo schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, Parte speciale, in Documenti della giustizia, 1992, n. 3, p. 361. Sulla problematica previsione dell’art. 586 c.p. sia consentito rinviare a MILITELLO, Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, in Dig. pen., VIII, 1994. Non va peraltro trascurato che nel progetto italiano è stata mantenuta una diversità di disvalore quando i fatti offensivi di beni primari derivano da illeciti penali, che ne comportino un pericolo tipico: così omicidio e lesioni personali colposi sono aggravati quando siano conseguenza di una condotta violenta e dolosa contro la persona, o da maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, o ancora da sequestro a scopo di estorsione (art. 59 n. 5 c-e, n. 8 ce). In proposito, v. PAGLIARO, Valori e principi, cit., 386 s. Criticamente, peraltro, CANESTRARI, I delitti aggravati dall’evento. Prospettive di riforma, cit., 569 s. (164) Un argomentata analisi dell’innovazione proposta in PAGLIARO, Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, cit., 9 s.


— 806 — 364/1988, che ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 5 c.p. Degno di interesse appare il dato che tale attenuante obbligatoria rappresenta un passo avanti rispetto allo stesso modello tedesco, che nel codice in vigore dal 1975 ha riconosciuto la rilevanza attenuante dell’errore vincibile di diritto (par. 17 StGB), ma ha reso solo facoltativa la relativa applicazione da parte del giudice (165). Anche il Proyecto spagnolo afferma in modo lapidario all’art. 3 che non vi è pena senza dolo o colpa (166). Alla luce però della problematica sopravvivenza di forme occulte di responsabilità oggettiva, ancora più significativa è forse la completa eliminazione della rapina seguita da omicidio o da lesioni gravi (art. 501 comma 1 e 3). Si tratta di un tipico delitto aggravato dall’evento, di complessa ricostruzione, perché la norma parlava di omicidio commesso a motivo o in occasione della rapina con violenza sulle persone, rendendo così problematica non solo la compatibilità della disposizione con il principio di colpevolezza, ma già la stessa individuazione del versante causale del nesso fra le due offese. Proprio per tale motivo, la più importante innovazione di parte speciale introdotta dalla già ricordata riforma ‘‘parziale ed urgente’’ del 1983 è stata la scissione fra delitto complesso di rapina con omicidio doloso e quello di rapina con omicidio colposo; ma ciò non è stato sufficiente ad eliminare le perplessità per qualificare l’ipotesi di morte preterintenzionale e le difficoltà tecniche connesse alle figure suddette di reato complesso in tema ad es. di tentativo, concorso di persone, circostanze (167). Il Proyecto 1992, al fine dichiarato di semplificare l’intera materia, prevede la soluzione generale del concorso di reati fra rapina ed ogni altro reato commesso in occasione di essa (168). Quanto poi all’errore sull’illiceità, esso non solo rileva per escludere la responsabilità penale se è invincibile, ma, analogamente al progetto italiano, è pure prevista un’attenuazione della pena nel caso in cui si tratti di un errore vincibile (art. 13 comma 3). Meno deciso è il progresso sul terreno dell’affermazione del principio di colpevolezza segnato dal Progetto inglese: questo considera sì la colpevolezza (fault) come requisito necessario della responsabilità penale, ma al contempo si afferma che ciò vale in generale e che la strict liability con(165) Per riserve sulla compatibilità di tale soluzione con il principio di colpevolezza cfr. da ultimo TIEDEMANN, La constituzionnalisation de la ‘‘matière pénale’’ en Allemagne, Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1994, 6. (166) Per l’illustrazione della scelta di fondo, cfr. Exposición de Motivos, cit., 19. Il punto è considerato come essenziale nel superamento dell’impianto fondamentale del codice del 1944 ed è stato acquisito sin dalla Riforma del 1983: v. RODRIGUEZ DEVESA, Nullum crimen sine culpa en la reforma del Código penal español, in Festschrift für Jescheck, Berlin, 1985, 201 s. (167) In proposito cfr. BARBERO SANTOS, La riforma penale, cit., 1231. (168) Sul punto, cfr. Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 32. La scelta è confermata nel Proyecto 1994: cfr. la relativa Exposición de Motivos, cit., 18.


— 807 — tinua ad essere considerata eccezionale (169). Per tale motivo, specie alla luce del dato che questa forma di responsabilità senza dolo né colpa è prevista da alcune migliaia di fattispecie penali, appare confermata l’impressione che gli inglesi siano in certo senso rassegnati a convivere con questa ‘‘eccezione’’ al sistema (170). Anche rispetto al problema dell’ignoranza sulla norma penale, tradizionalmente irrilevante nell’ambito dei sistemi di Common Law, le discussioni sulla scusabilità di un errore di diritto nei casi di prese di posizione giurisprudenziali o di autorità pubbliche legittimate non sono approdate ad un positivo riconoscimento nel Progetto (171). Comunque fra le limitate eccezioni al principio generale, ribadito alla section 21, è stata esplicitamente prevista la possibilità per gli illeciti di fonte legale di essere scusati quando l’imputato dimostri che la legge incriminatrice non è stata pubblicata e non è stato fatto abbastanza per portare la norma a conoscenza dei rispettivi destinatari (sect. 46). È la Francia che sul terreno dei requisiti soggettivi della responsabilità presenta un’interessante novità: la responsabilità per volontaria creazione di pericolo ad altre persone (mise en danger délibérée de la personne d’autrui), che viene in generale affiancata alle forme tradizionali del dolo (intention) e della colpa (négligence), anche se per i soli delitti in cui la legge preveda una tale modalità di realizzazione (art. 121-3 comma 2). Più che per il generale principio, secondo cui per gli illeciti più gravi si risponde esclusivamente per dolo, mentre per i delitti occorre una espressa estensione alla colpa ed alla volontaria creazione di pericolo ad altre persone (172), la norma si segnala soprattutto in relazione alla summenzionata forma di responsabilità, in cui la condotta pericolosa è voluta, a differenza dell’evento che ne può derivare. Per comprendere la portata dell’innovazione, occorre fare un passo indietro e considerare che le forme di imprudenza cosciente e di dolo (169) Cfr. DENNIS, A Criminal Code for England, cit., 361. (170) In tal senso, CADOPPI, Mens rea, in Dig. pen., vol. VII, 1993, 36 (estr.). Critico in proposito anche DONINI, Il delitto contravvenzionale, cit., 187 s. Rileva invece il progresso che, sul terreno dei requisiti soggettivi del reato, è comunque segnato dal Draft del 1989 JESCHECK, Die Schuld im Entwurf eines Strafgesetzbuchs für England und Wales im Vergleich mit dem deutschen Strafrecht, in Festschrift für Schmitt, Tübingen, 1992, 59 s. (171) La Commissione ha espressamente sottolineato che un tale riconoscimento avrebbe richiesto una ben più decisa opera di riforma ed un approfondimento delle rispettive conseguenze sul sistema, che si sono riconosciute estranei ai propri compiti: cfr. Criminal Law. A Criminal Code for England and Wales, vol. II, cit., 196. Per un’attenta rivisitazione dei termini teorici del problema, cfr. di recente HUSAK, Ignorance of law and duties of citizenship, in Legal Studies, 11994, 105 s. (172) Va peraltro rilevato che la norma comporta l’eliminazione dei c.d. ‘‘delitti materiali’’ nell’accezione con cui la giurisprudenza escludeva la necessità di provare la colpa rispetto ad alcune infrazioni non intenzionali: cfr. STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Droit pénal général, cit., 217 nt. 5; ROBERT, in Le nouveau code pénal. Enjeux et perspectives, cit. 88 s.; ZIESCHANG, Der Allgemeine Teil des neuen französischen Strafgesetzbuchs, cit., 651 nt. 17.


— 808 — eventuale non erano nettamente distinte nel codice del 1810 e che la dottrina francese li considerava al più come aspetti diversi, e con differenti gravità, di un’analogo fenomeno: la violazione consapevole di un obbligo precauzionale; nel caso della colpa cosciente l’agente ritiene tuttavia che da tale violazione non scaturisca alcuna conseguenza lesiva, mentre nel caso del dolo eventuale manca una tale certezza, e l’agente si mostra indifferente al prodursi di un’ulteriore offesa (173). Né vi è una rigorosa distinzione con le figure preterintenzionali: dolo eventuale e dolo preterintenzionale sono generalmente accostati, alla luce del dato che in entrambi l’agente non ha voluto ciò che effettivamente si è verificato, ancorché nel primo caso l’agente si sia rappresentato tale risultato come possibile e nel secondo lo abbia ‘‘parzialmente’’ voluto (174). In tale quadro teorico il problema posto dalla nozione di ‘‘volontaria creazione di pericolo’’ di cui all’art. 121-3 è se essa possa intendersi come riferibile ad una particolare situazione psicologica, ulteriore rispetto a quelle tradizionalmente conosciute, o se si tratti solo di una rinnovata forma di colpa (175). Una risposta in proposito deve considerare che i casi di tale forma di responsabilità espressamente regolati nella parte speciale sono riconducibili a due gruppi di fattispecie. Il primo concerne casi in cui ‘‘la volontaria inosservanza di una obbligazione di sicurezza o di prudenza imposta dalla legge o dai regolamenti’’ opera come aggravante rispetto alle altre forme di colpa ‘‘semplice’’ previste per gli stessi attentati involontari alla vita ed alla integrità personale (omicidio involontario: art. 221-6 comma 2; lesioni colpose determinanti una invalidità lavorativa rispettivamente maggiore o minore di tre mesi: artt. 222-19 e 221-20; lesioni colpose non determinanti alcuna incapacità lavorativa: art. R 625-3 della parte regolamentare del codice). In tale contesto si può ritenere che si tratti di una forma di colpa qualificata dalla volontaria inosservanza di norme precauzionali volte a prevenire i pericoli ai beni della vita e dell’incolumità personale. Si sottolinea, nei primi commenti, che non si considera questa forma di creazione di rischio come una forma di dolo (176). (173) In tal senso, PRADEL, Il nuovo codice, cit., 10. (174) STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Droit pénal général, cit., 251 s. (175) Nel primo senso sembra orientato PRADEL, Il nuovo codice, cit., 10, che parla di ‘‘terza modalità psicologica’’. Nell’altro senso invece COUVRAT, Les infractions contre les personnes, cit., 475. (176) PRADEL, op. cit., 11, per il quale peraltro ‘‘nel nuovo codice il dolo eventuale resta legato alla colpa, di cui costituisce il grado più elevato’’. Un tale inciso, difficilmente compatibile con la tradizionale considerazione del dolo eventuale fra le forme di dolo e non di colpa, appare ancora più problematico alla luce della successiva affermazione dello stesso autore, secondo cui permane l’applicabilità della norma sull’omicidio involontario al malato di AIDS che contagia la partner, non edotta di tale suo stato, ed allo spacciatore che abbia ceduto droga ad un consumatore, deceduto per la conseguente overdose. Si può notare che una tale interpretazione della nuova forma di responsabilità non permette di qualificare pro-


— 809 — Vi è poi un secondo ambito di operatività di questa nuova forma di responsabilità: qui essa interessa la struttura dell’incriminazione ed opera come fattispecie autonoma di pericolo nei confronti di altri soggetti, più che come autonoma forma psicologico-soggettiva. Così accade per l’incriminazione del ‘‘rischio causato ad altri’’, consistente nel fatto di ‘‘esporre direttamente altri soggetti ad un rischio immediato di morte o di lesioni che comportino una mutilazione o una infermità permanente’’, quando ciò sia stato realizzato ‘‘mediante una violazione manifestamente volontaria di regole particolari di sicurezza o di prudenza imposte da legge o da regolamento’’ (art. 223-1). Al di là delle specificazioni contenute nella norma per circoscrivere in modo determinato i confini di tale reato (ad esempio il riferimento al ‘‘rischio immediato’’, o ad una ‘‘violazione manifestamente volontaria’’, ancora di una ‘‘regola particolare di sicurezza’’), si nota una diversità strutturale fra i due settori menzionati: nel secondo di essi manca il requisito del verificarsi di un evento lesivo e la condotta voluta è incriminata per la sua natura specificamente pericolosa rispetto ai beni primari della vita e dell’integrità fisica. Ulteriore dato innovativo rispetto al precedente quadro normativo è la previsione dell’errore inevitabile di diritto come causa di esclusione della responsabilità penale (art. 122-3). In tal modo, anche l’ordinamento francese si allinea con i sempre più numerosi Paesi europei che, di fronte alla crescita di complessità dei rispettivi sistemi penali già in relazione al numero di fattispecie incriminatrici, hanno superato il principio dell’irrilevanza dell’ignorantia legis (177). Ad uno sguardo d’insieme sull’affermazione del principio di colpevolezza nelle pur variegate esperienze considerate, l’esclusione di forme incolpevoli di imputazione di eventi penalmente rilevanti appare un dato che tende a diffondersi sempre più, in significativa continuità con la prima generazione dei nuovi codici penali europei. La colpevolezza tende così ad assumere sempre più il ruolo di un vero e proprio arco di volta degli edifici penali europei. A fronte di ciò, si assiste ad un approfondimento di profili ulteriori e più riposti della problematica, che esprimono in forme meno appariscenti, ma certo non meno importanti, la relazione personalistica fra soggetto e fatto penalmente illecito. Ne costituiscono esempi la prio quei casi più difficilmente riconducibili alle caratteristiche strutturali della colpa, che invece si gioverebbero di una forma intermedia di responsabilità fra dolo e colpa, in grado di esprimere in modo più personalistico il particolare disvalore della condotta, pur in presenza di un evento involontario. Sulla questione nel nostro ed in altri sistemi penali (tedesco, inglese) sia consentito rinviare a MILITELLO, La responsabilità penale dello spacciatore per la morte del tossicodipendente, Milano, 1984, 9 s., 23 s., 39 s. (177) La concordanza sul punto dell’innovazione francese con i principali sistemi penali europei è sottolineata da DELMAS-MARTY, Avant-propos, cit., 437. Sulla situazione precedente cfr. STEFANI/LEVASSEUR/BOULOC, Droit pénal général, cit., 383 s.; MERLE/VITU, Traité de droit criminel, cit., 660 s.


— 810 — verifica della reale unitarietà delle nozioni di colpa, assunta come requisito per l’imputazione di eventi derivanti tanto da attività penalmente lecite, quanto da condotte già in contrasto con l’ordinamento penale, magari per la propria carica specifica di pericolosità rispetto all’offesa di beni primari; oppure, la precisazione delle ipotesi in cui nonostante il fatto illecito, il relativo rimprovero non si perfeziona normalmente per la presenza di cause che escludono o comunque attenuano la colpevolezza; infine, la relazione fra colpevolezza espressa nel fatto e livelli sanzionatori; con le connesse questioni sul principio di proporzione, in sede di determinazione legislativa dei livelli edittali per le diverse classi di incriminazioni, e sulla rilevanza dei criteri finalistici per la commisurazione della pena da parte del giudice. Si tratta di tematiche in cui la risposta si ricerca sul piano propriamente dogmatico, ma indubbiamente questo è a sua volta condizionato dal retrostante sistema legislativo di riferimento: evidente è dunque l’importanza che tali nodi problematici rivestono in contesti di riforma normativa, e dunque propriamente politico-criminali (178). Fra i diversi profili indicati, di particolare interesse appare il riconoscimento di apposite cause soggettive di esclusione della responsbilità penale nel progetto italiano, sia perché si tratta di una delle innovazioni più importanti dell’intero documento rispetto alla vigente situazione in Italia, tanto normativa quanto dogmatica e giurisprudenziale, sia perché le relative previsioni per omogeneità e per varietà di figure si segnalano anche nel confronto con le altre esperienze di riforma. La categoria, ancorché con una denominazione non usuale, si affianca all’altra, separatamente indicata all’art. 16 sotto la più tradizionale rubrica di ‘‘cause di giustificazione’’: all’art. 17 si elencano situazioni che scusano soggetti i quali abbiano sì commesso una condotta astrattamente tipica, ma per motivi che escludono la possibilità di muovere nei loro confronti un rimprovero personale. Si tratta, in altri e più comuni termini, di vere e proprie ipotesi scusanti, ed in particolare dell’ordine illegittimo vincolante di autorità pubbliche, dell’ordine vincolante del privato, della necessità cogente, del consenso presunto ad azioni compiute nell’interesse proprio di chi agisce (179). 7.

Principio rieducativo e riforma del sistema sanzionatorio. — Un

(178) Sui molteplici rapporti fra dogmatica penale e legislazione cfr. MAIWALD, Dogmatik und Gesetzgebung im Strafrecht der Gegenwart, in Gesetzgebung und Dogmatik, BEHRENDS/HENKEL (Hrsg.), Göttingen, 1985, 120 s.; AMELUNG, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW, 1980, 20 s. In specie, per l’impostazione adottata al riguardo dai compilatori del progetto italiano, cfr. PAGLIARO, Imputazione obiettiva dell’evento, in questa Rivista, 1992, 786; ID., Sullo schema, cit., 176. (179) Per ogni ulteriore approfondimento in materia sia consentito rinviare ai miei lavori: Le cause soggettive di esclusione della responsabilità penale nella proposta di legge delega (intervento al Seminario ‘‘Prospettive di un nuovo codice penale’’, cit.), Palermo,


— 811 — altro ‘‘fronte avanzato’’ della riforma del diritto penale è costituito dall’ampio settore delle sanzioni, rispetto al quale si avverte acutamente il contrasto fra tensioni ideali e necessità della prassi (180). Ciò non ha impedito, come è noto, che la riforma sanzionatoria abbia costituito un campo fra i più ricchi di innovazioni nei diversi ordinamenti penali (181). Nel solco di tale più generale tendenza, non stupisce dunque che numerosi spunti di interesse si rinvengono nelle parti dedicate all’argomento dai testi codicistici qui considerati (182). L’importanza del tema della riforma sanzionatoria è stata ad esempio espressamente sottolineata nella relazione al Progetto spagnolo (183). In questo, i filoni di intervento principale hanno interessato la limitazione dell’ambito di durata delle pene detentive e la tipologia sanzionatoria: così, il tetto massimo delle pene detentive è normalmente venti anni, salvo casi particolari in cui arriva a trenta (184); inoltre, sulla scia dell’Alternativ-Entwurf tedesco (185), vengono tendenzialmente eliminate le pene detentive brevi, e ciò in modo assoluto per quelle inferiori a sei mesi. Quanto alle nuove forme di sanzioni, si introduce (secondo un’idea già presente nel dibattito di riforma sin dal Proyecto del 1980) l’arresto di fine settimana in istituti diversi dai penitenziari: questa nuova pena, con 1992; e Entschuldigungsgründe in der Neukodifizierung des Strafrechts (in corso di pubblicazione su ZStW, 1995). (180) Cfr. ad es. BAUMANN, Insegnamenti da una riforma, cit., 12 s.; JESCHECK, Linee direttive, cit., 190 s. (181) Utili quadri comparatistici si possono trovare in HERRMANN, Major Reforms in the Law of Sanctions: United States, Germany, Austria and France, in Indian Jour. of Crim., 1979, 99 s.; NUVOLONE/LANZI, Le principali innovazioni nei sistemi sanzionatori dei Paesi dell’Europa continentale, in Problemi generali di diritto penale, cit., 307 s.; DOLCINI/PALIERO, Il carcere ha alternative?, Milano, 1989. (182) Rimane estraneo dall’analisi delle principali innovazioni sul terreno sanzionatorio il sistema inglese, perché non solo manca nella parte generale del progetto di codice un apposito corpo di disposizioni dedicate alla materia delle sanzioni, ma per di più le stesse disposizioni di parte speciale non contengono direttamente l’indicazione delle pene rispettivamente minacciate. Queste vengono solo allegate in una scheda finale, che peraltro è un contenitore di diversi profili sanzionatori, indicando anche le modalità processuali alle quali è sottoposta ciascuna figura di reato. Il materiale disponibile non risulta dunque idoneo per una comparazione con gli altri sistemi qui considerati. (183) Exposición de Motivos al Proyecto 1992, cit., 19-22. (184) Oltre che in caso di concorso di reati (art. 77), il limite dei venti anni può essere superato per i delitti di ribellione (art. 454), omicidio del Re e dei suoi congiunti (art. 466), omicidio di Capo di Stato straniero o altra persona internazionalmente protetta (art. 585), assassinio (omicidio con pluralità di circostanze aggravanti: art. 146), attentato a membri del Governo o del Parlamento, da cui sia derivata la morte della vittima (art. 501), genocidio con pluralità di circostanze aggravanti (art. 587). Il tetto ordinario dei venti anni per la pena detentiva è mantenuto nel Proyecto 1994 (art. 36). (185) In proposito, di recente, cfr. MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco, cit., 17 s.; amplius, in precedenza, MOCCIA, Politica criminale e riforma del sistema penale, Napoli, 1984, 145 s.


— 812 — una estensione da un minimo di un fine settimana ad un massimo di ventiquattro, è prevista in un numero cospicuo di illeciti penali minori, oltre che, in alternativa alla multa, per sostituire le pene detentive fino a due anni (186). Accanto alle pene detentive sono poi previste vere e proprie pene principali privative o sospensive di diritti: si tratta di sanzioni a contenuto interdittivo ed inabilitativo che, con una durata variabile a seconda delle varie tipologie, incidono su diritti diversi dalla libertà personale (uffici e cariche pubblici e privati, diritti elettorali, guida di veicoli a motore, residenza). Una importante razionalizzazione concerne anche il delicato capitolo delle misure di sicurezza, per il quale il testo prospetta di superare la dispersione delle rispettive previsioni fra codice penale e legge di pericolosità sociale, per ricondurle tutte al sistema di applicazione post-delictum, previo accertamento della ‘‘pericolosità criminale’’ (art. 4 comma 1). Il mantenimento della distinzione fra misure privative e non privative della libertà personale si accompagna poi al riconoscimento del ‘‘sistema vicariale’’, in virtù del quale il periodo di privazione della libertà dovuta all’esecuzione di una misura di sicurezza è detratto alla durata di pena detentiva da scontare. Nel progetto italiano, fra le diverse esigenze che hanno orientato la parte dedicata alle sanzioni penali emerge in primo luogo quella di ridare certezza al collegamento fra illecito penale e rispettiva sanzione; in particolare, per evitare le irrazionali diversità nei limiti edittali, purtroppo presenti in misura ormai intollerabile nel sistema vigente (187), si prevede l’introduzione di un sistema di classi progressive di pena, alle quali dovranno fare riferimento le singole fattispecie incriminatrici. Nella stessa direzione si spiega poi la scelta di non moltiplicare il numero delle pene principali, limitandole a quelle tradizionali con poche modifiche (detenzione e non più reclusione per i delitti, semidetenzione e non più arresto per le contravvenzioni) (188). (186) Va peraltro segnalato che si riconosce la mancanza di strutture adeguate e vi è grande incertezza sulla possibilità di apprestarle in tempi brevi: cfr. MUÑOZ CONDE, Los principios informadores, cit., 99. Da notare inoltre che, nel Proyecto 1994 è stata inserita anche la possibilità di sostituire gli arresti di fine settimana con la multa o con la nuova misura del lavoro a beneficio della collettività (art. 89). (187) Cfr. le incisive riflessioni di PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, 439 s. (188) La Relazione allo schema, cit., 328, chiarisce in proposito che la scelta di non inserire un vasto campionario di sanzioni alternative alla detenzione va letta in relazione allo sforzo di prendere sul serio il canone dell’extrema ratio: l’intervento penale così limitato concerne beni che non appaiono programmaticamente escludibili dalla sanzione detentiva, con il suo carico di significati e di funzioni. Critico sul punto pare EUSEBI, Tra crisi dell’esecuzione penale e prospettive di riforma del sistema sanzionatorio: il ruolo del servizio so-


— 813 — Al contempo, non si è trascurato di attribuire al giudice una maggiore libertà di apprezzamento del fatto e del suo autore rispetto alla vigente situazione normativa. Così, la pena principale può essere esclusa, quando quella accessoria sia valutata come ‘‘da sola proporzionata alla gravità del reato e sufficiente ad impedire la commissione di reati da parte del condannato’’ (art. 38, comma 4). Significativa nella stessa direzione è pure la previsione dell’astensione dalla pena (art. 40), alla quale il giudice può ricorrere nei delitti colposi e ancor più limitatamente dolosi, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli della condotta illecita e la conseguente pena appaia ingiustificata in relazione alla colpevolezza del soggetto ed alle esigenze di prevenzione speciale. Un riferimento espresso, quest’ultimo, che indica la considerazione nel Progetto italiano degli orientamenti contemporanei di politica criminale: proprio l’istituto dell’Absehen von Strafe costituiva un punto qualificante dell’Alternativ-Entwurf tedesco del 1966, nel contesto di un generale riorientamento della parte sanzionatoria a criteri preventivi e non più retributivi; tale orientamento ha poi profondamente influito sulla riforma del codice penale entrata in vigore nel 1975, ed in particolare l’astensione dalla pena vi è stata prevista al par. 60, ancorché con requisiti e limiti che ne consentono un’applicabilità più ristretta rispetto alla corrispondente figura nel progetto italiano (189). Il nuovo codice penale francese presenta uno dei profili più innovativi proprio in relazione al sistema sanzionatorio (190). Scompaiono innanzitutto dal catalogo delle pene quelle infamanti (bando e degradazione civile: art. 8 c.p. abr.), che già nella prassi erano ormai desuete: una scelta in linea con l’orientamento generale del movimento internazionale di riforma penale, contrario ad ogni sanzione il cui contenuto infamante sia talmente caratterizzante da ostacolare il reinserimento sociale del condannato (191). Sul piano delle tipologie sanzionatorie si rispecchia la summa ciale, in questa Rivista, 1993, 510 s. Va peraltro tenuto presente che la limitazione al ricorso già in astratto a pene alternative non solo si accompagna ad un ampliamento delle possibilità di non applicazione giudiziale della pena detentiva (v. nel testo subito oltre), ma per di più è completata da un esteso utilizzo di ipotesi sospensive e sostitutive delle pene detentive medio-brevi e delle pene pecuniarie (art. 42 e 43). (189) Sul ricorso a tale istituto per la deflazione dal sistema penale dalle offese bagatellari, cfr. da noi MOCCIA, Politica criminale e riforma del diritto penale, cit., 229 s.; PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’, cit., 431 s. (190) Segnala tale carattere ZIESCHANG, Der Allgemeine Teil, cit., 653. Invece secondo PONCELA, Livre I Dispositions générales, in Rev. sc. crim. dr. pen. comp., 1993, 462 si tratterebbe di mero ‘‘rifacimento della facciata del vecchio edificio’’ sanzionatorio, ma con poche modifiche interne. (191) Esemplare in proposito la vicenda dell’unificazione della pena detentiva nella riforma del codice penale tedesco, prospettata già nel Progetto Alternativo del 1966: cfr. ad es. MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco, cit., 17 s.


— 814 — divisio connessa alla natura dei soggetti responsabili: rispettivamente persone fisiche e giuridiche. Rimandando a quanto anticipato per le sanzioni appositamente dedicate a queste ultime (supra, par. 4.1.), consideriamo qui i tratti salienti dell’altro ampio gruppo di risposte penali: esse spaziano dalle tradizionali sanzioni detentive (escluse ormai dalle contravvenzioni) e pecuniarie al più recente ‘‘lavoro di interesse generale’’, alle pene interdettive principali ed accessorie, alle numerose pene sostitutive della pena detentiva per i delitti (art. 131-6). Quanto ai caratteri di fondo del sistema, si può rilevare un compromesso fra l’innalzamento deterrente delle risposte sanzionatorie ed un ampio spazio di adeguamento specialpreventivo della pena: nel primo senso depongono il mantenimento della sanzione detentiva ‘‘perpetua’’ e il tetto di pene detentive per i crimini più gravi portato da venti a trenta anni; d’altra parte, tali massime pene sono espressamente affidate alla scelta del giudice, che può diminuirle sino ad applicare un minimo anche di soli due anni di reclusione, con un potere di individualizzazione che induce a mettere in dubbio il rispetto del principio di legalità in tale materia (192); per le pene stabilite per i delitti e le contravvenzioni è inoltre prevista la possibilità di dispensa da parte del giudice (art. 132-58), in termini analoghi dunque al corrispondente istituto regolato nel progetto italiano. Il dualismo fra gravità del fatto e considerazione della personalità dell’autore si riproduce poi nella norma sulla commisurazione giudiziale della pena, contenuta ad apertura di una sezione significativamente intitolata ai ‘‘modi di personalizzazione delle pene’’ (art. 132-24). Un cenno infine alle pene pecuniarie, per le quali il sistema dei tassi giornalieri, di origine scandinava e penetrato già nelle riforme dei codici tedesco, austriaco e portoghese, si può considerare ormai il modello predominante, essendo stato adottato dalla Francia, come pure nei progetti italiano e spagnolo (193). La relativa commisurazione va poi effettuata (192) Riserve in proposito sono avanzate da CHASSAING, Les trois code français, cit., 451 s. La tendenza all’inasprimento generalpreventivo delle pene minacciate per alcune forme di criminalità particolarmente gravi, congiuntamente alla presenza di ampi poteri discrezionali del giudice penale per adeguarle alle esigenze di concreta applicazione è peraltro largamente presente nelle recenti esperienze di altri ordinamenti europei. Così, per l’Italia, v. ad es., MILITELLO, Prevenzione generale e commisurazione della pena, Milano, 1982, 23. Su scala europea, ID., L’evoluzione del diritto penale in Europa: 1984-1986, in questa Rivista, 1990, 23 s.; HUBER, Beobachtungen zur Strafrechtsentwicklung in Europa zwischen 1986 und 1988, in Strafrechtsentwicklung in Europa 3, cit., 1404,1449 s. (193) Si potrebbe dire che il sistema dei tassi giornalieri prosegue la sua colonizzazione degli ordinamenti europei, cominciata negli anni venti nei sistemi scandinavi, quindi proseguita negli anni settanta con i paesi di lingua tedesca, per poi arrivare alla fine del secolo nei paesi latini. Notizie e riferimenti ulteriori in BERNARDI, La pena pecuniaria in Italia ed in Francia, e l’esigenza di una sua armonizzazione a livello europeo, in questa Rivista, 1990, 229 s.; in specie ID., Note sulla disciplina della pena pecuniaria, cit., 116 s. Sulla po-


— 815 — considerando le risorse patrimoniali del condannato, ed in proposito è utile la facoltà attribuita al giudice francese di ottenere informazioni finanziarie e fiscali da ciascun soggetto che le detenga, senza che sia opponibile alcun segreto in materia (art. 132-22 code pénal). 8. ‘‘La vocazione del nostro tempo’’ per il codice penale: riflessioni conclusive. — Come indica la massa di dati raccolti ed ordinati alla luce di alcuni fondamentali principi, i caratteri della ricodificazione penale in Europa sono in parte analoghi, in parte diversi da quelli del precedente fenomeno di affermazione delle codificazioni, che si accompagnarono al declino dell’assolutismo ed alla nascita degli ordinamenti a base costituzionale rigida. Si tratta di un processo di ampia portata e non riducibile a facili schematismi: le ricodificazioni intervengono non come prodotti di nuove classi al potere (interpretazione rigidamente marxista), o comunque come stabilizzazione di nuovi equilibri politici (non si spiegherebbero le riforme tedesche, austriaca e francese intervenute a distanza di tempo dalla conquista del potere da parte delle rispettive forze politiche che hanno sostenuto le varie leggi); sembra piuttosto che si tratti del punto di arrivo di complessi processi di mutamento di un mondo ormai caratterizzato da notevoli fattori di instabilità e comunque bisognoso di riforme di ampia portata. Ciò non significa che a tali nuovi codici i sistemi penali dei rispettivi ordinamenti affidino svolte radicali: non solo per il Reichstrafgesetzbuch tedesco del 1871 vale il giudizio secondo cui la codificazione rappresenta più ‘‘il prodotto della tradizione’’, che ‘‘il prodotto di una nuova era’’ (194). Ma in ciò nulla di nuovo: la storia della codificazione insegna che i diversi progetti di nuovi codici francesi intervenuti all’indomani della Rivoluzione e carichi di significati appunto rivoluzionari restarono nel cassetto; a distanza di pochi anni, essi cedettero il passo a testi che, pur se fortemente innovativi, erano molto più equilibrati e collocati sitiva prova che il sistema ha offerto in Germania, ma anche sulle difficoltà emerse, MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco, cit., 129. (194) In tali termini VOLK, Introduzione al diritto penale tedesco, Padova, 1993, 3 traduce un giudizio diffuso sul codice penale tedesco del 1871 (ad es. EB. SCHMIDT, Einführung in die Geschichte der deutschen Strafrechtspflege, Göttingen, 19513, 345; più di rencente JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, Allg. T., Berlin, 19884, 87; MAIWALD, L’evoluzione del diritto penale tedesco, cit., 13 s.) e riprodotto anche nella motivazione del Progetto di riforma del 1962 (cfr. Entwurf eines Strafgesetzbuchs E 1962, Bonn, 1962, Begründung, 93). Da noi v. inoltre BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza, Milano, 1965, 37; e FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, 2. Per un punto di vista più articolato sul codice tedesco del 1871, v. però ROXIN, Strafrecht, cit., 50, il quale lo considera ‘‘all’altezza del tempo’’ in cui fu emanato, sul piano tecnico-giuridico e della formulazione delle fattispecie, pur rilevando che, sul piano invece politico-criminale, esso appariva arretrato almeno a partire dalla pubblicazione del ‘‘Programma marburghese’’ di von Liszt (1883).


— 816 — su una linea di sviluppo con la tradizione giuridica nazionale (195). Se ciò avvenne in un momento in cui la svolta della storia fu nettissima, tanto più appare normale negli ordinamenti contemporanei dell’Europa occidentale, che non hanno vissuto alcuna cesura traumatica dalla fine del secondo conflitto mondiale. Non rivoluzionari, peraltro, non significa non innovativi, ché anzi, come la panoramica precedente ha tentato di illustrare, nei punti fondamentali del sistema i testi considerati presentano non pochi passi avanti rispetto agli immediati precedenti di riferimento. L’unica eccezione in proposito è il testo inglese, i cui contenuti presentano più i caratteri di una consolidazione normativa che quelli di una riforma codicistica (196): ma ciò risulta comprensibile alla luce delle specificità che presenta quel sistema giuridico, tali da affidare il significato innovativo allo stesso inserimento di un testo codicistico nel proprio articolato sistema delle fonti. In ogni caso, invece, il codice è pensato in funzione di una riduzione della complessità normativa dei sistemi giuridici contemporanei: in tale luce esso viene visto come un essenziale contributo alla certezza del diritto, in quanto un corpo normativo comprensivo della tavola dei principali valori meritevoli di tutela penale e strutturato organicamente rappresenta un deciso progresso rispetto alla situazione esistente in termini di prevedibilità delle conseguenze giuridiche connesse alle scelte di azione individuali e collettive. Non è certo escluso che in tale aspettativa vi sia una buona dose di ‘‘wishful thinking’’, poiché lo strumento codicistico (195) In proposito, cfr. VIORA, Consolidazioni e codificazioni, cit., 53 s.; IRTI, Idea del codice civile, cit., 30 s. (con riguardo ai testi civilistici). Per un diverso giudizio sul rapporto fra il diritto penale del tempo della rivoluzione francese (anche se con riferimento al testo del 1791 e non ai precedenti progetti) ed il codice francese del 1810 cfr. LASCOUMES/PONCELA/LENOEL, Au nom de l’ordre, cit., 8. Ma il connubio fra mutamento e continuità nel codice francese del 1810 è testimoniato dalla stessa intestazione scelta da uno dei suoi primi commentatori: ‘‘Une législation nouvelle n’est pas une publication de toutes dispositions nouvelles, c’est un composé, tant des précédentes conservées, que de celles par lesquelles on a pensé que devaient être remplacées les antérieures qu’on jugerait defectueuses, et de celles qu’on a cru nécessaire d’ajouter’’ (DUFOUR, Code criminel avec instructions. Deuxième partie: code pénal, Paris, 1811). (196) Peraltro sul punto vi sono opinioni differenti, perché non manca chi invece rileva la presenza di alcune importanti innovazioni nel progetto inglese: si rinvia alle indicazioni supra nt. 149. Anche rispetto al progetto italiano sono stati formulati giudizi che ne sminuiscono i contenuti innovativi: ad es., sia pure per un settore limitato, ma qualificante, S. FIORE, Il sistema sanzionatorio nello schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Valore e principi della codificazione penale, cit., 203 s., il quale lo considera esempio del difetto che accomuna la « ‘prudenza’ (...) praticata dai legislatori di tutte le epoche »: essere finalizzata cioè solo alla « discutibile arte del compromesso » (208). La storia delle codificazioni sembra tuttavia legittimare un diverso atteggiamento nei confronti delle posizioni rappresentative di larghi schieramenti di pensiero: solo queste infatti presentano i requisiti indispensabili per una loro traducibilità normativa, specie nelle democrazie rappresentative.


— 817 — non può impedire che, già all’indomani della sua pubblicazione, il legislatore penale riprenda la sua attività per rispondere alle nuove domande di intervento normativo, che sorgono senza interruzione nelle moderne società complesse. Esempi illuminanti di tale destino sono offerti sia dal nostro codice di procedura penale del 1988, sia dallo stesso nuovo codice penale francese, il cui quinto libro apportava già numerose modifiche, sia formali sia contenutistiche, ai primi quattro, che lo avevano preceduto di soli cinque mesi (artt. 340-369 l. n. 92-1336 del 16 novembre 1992). Tutto ciò richiama l’attenzione sulla necessità di curare la redazione formale del testo di legge, onde evitare che il documento base del corpus normativo penalistico presenti lo stesso difetto che affligge buona parte della recente produzione legislativa, nella quale sempre più facile è rilevare errori espressivi, imperfezioni linguistiche, mancanza di coordinamento interno ed esterno (197). Su questo versante peraltro la stessa genesi dei nuovi testi codicistici dovrebbe presentare maggiori garanzie della miriade di interventi normativi, frutto di logiche più emergenziali: ciò sia perché la non facile opera di codificazione è sempre affidata a Commissioni in cui sono presenti autorevoli esponenti della dottrina penalistica, ormai consapevoli dell’importanza assunta dalla scienza della legislazione (198), sia perché i testi progettuali vengono di solito sottoposti al setaccio delle osservazioni formulate dalle diverse componenti del mondo giuridico: Università (199), Corti giudiziarie, Ordini forensi (200). Al di là di tali correttivi tecnici per prevenire che si ponga immediatamente la necessità di ‘‘riformare la riforma’’, bisogna realisticamente riconoscere che l’entrata in vigore di un nuovo codice penale non costituisce (197) Fra i molti, cfr., i recenti rilievi di PALAZZO, Certezza del diritto, cit., 370 s. (198) Segnala da tempo tale contributo MARINUCCI, L’abbandono del codice Rocco: tra rassegnazione ed utopia, in Diritto penale in trasformazione, cit., 338; ID., Problemi della riforma, cit., 362; cfr. pure PULITANÒ, Politica criminale, cit., 15 s. (199) Ad es., rispetto al progetto italiano cfr. le articolate Osservazioni dell’Istituto di diritto penale dell’Università di Palermo, in Indice pen., 1994, 353 s. (200) Peraltro, nel nostro Paese l’incidenza reale di tale prezioso strumento di verifica è ostacolata dalle consuete difficoltà organizzative: rispetto al Progetto 1992 di legge delega per un nuovo codice penale, il Ministero di Grazia e Giustizia dapprima ha inviato la richiesta dei pareri in pieno periodo estivo e senza alcun termine di restituzione; in un secondo momento, accortosi probabilmente che quella comunicazione era rimasta lettera morta nella quasi totalità dei casi, ha formultato una seconda richiesta, stavolta con un termine di poche settimane: in tale periodo i destinatari (tutti contemporaneamente impegnati nei rispettivi doveri d’ufficio e professionali) avrebbero dovuto esaminare e, se del caso, migliorare un testo normativo comprendente parte generale e speciale oltre ad alcune norme di attuazione e di cordinamento, per un totale di centocinquantasei articoli! Sarebbe interessante conoscere il numero delle risposte che, ancorché verosimilmente senza la necessaria ponderatezza e completezza, sono riuscite a rispettare il termine richiesto. Dispiace soprattutto che sia stato ripetuto un errore già compiuto di recente con il testo del codice di procedura penale del 1988 e che era stato già segnalato in dottrina: GIARDA, Del continuo ‘‘cangiamento’’ normativo, cit., 81 s.


— 818 — uno sbarramento nei confronti di nuove esigenze di adeguamento normativo (201). Sarebbe solo fonte di sicure delusioni accreditare l’idea che un nuovo testo codicistico possa chiudere il rubinetto delle norme, anche penali, prodotte dal legislatore di un moderno stato democratico: fuori da utopistici miraggi di ‘‘fine della storia’’, le società contemporanee sono ormai corpi che producono conflitti sempre più complessi e delicati e dai quali si leva dunque una domanda crescente rivolta agli organi legiferanti (202). Ciò non significa che in un ambiente siffatto gli sforzi di ricodificazione siano inutili o peggio velleitari, perché un nuovo codice penale non solo tende ad adattarsi alle nuove caratteristiche strutturali dei moderni ordinamenti, ma per di più assicura alcuni importanti vantaggi. Sotto il primo aspetto, emblematica appare la concordanza fra il testo francese e quelli dei progetti italiano e spagnolo, e fra questi e gli ordinamenti della qui denominata ‘‘prima ondata ricodificatoria’’, in relazione al fondamentale riconoscimento dell’errore di diritto anche penale (203). Riflettendo sul dato che proprio la regola ‘‘l’ignoranza di diritto non scusa’’ costituiva invece un punto qualificante comune alla maggioranza dei testi della prima stagione codificatoria (tanto da essere definita una ‘‘costante’’ da Portalis, l’autore del discorso preliminare al fondamentale codice civile del 1804), si comprende come l’attuale mutamento di paradigma nei rapporti fra Stato e cittadino sul punto in questione dimostri la capacità dei codici contemporanei di adattarsi alle trasformazioni strutturali dei rispettivi ambienti di vita: gli ordinamenti giuridici contemporanei sono infatti notoriamente accomunati da un generalizzato fenomeno di esplosione del numero di cellule normative, che ne rende ormai inesigibile una piena ‘‘onniscienza’’. E come dimostra la teoria dell’evoluzione, proprio la capacità di adattamento alle mutate caratteristiche dell’ambiente circostante (201) Così, a distanza di breve tempo dall’entrata in vigore del nuovo codice tedesco del 1975, VON HIPPEL, Reform der Strafrechtsreform, cit., 11 aveva buon gioco a preconizzare che anche tale normativa era destinata ad essere a sua volta riformata. Sulla legislazione penale tedesca dopo il 1975, pure caratterizzata da interventi settoriali di tipo novellistico (c.d. ‘‘leggi ad hoc’’), cfr. MAIWALD, L’evoluzione, cit., 23 s. (202) Per un inquadramento dei soggetti e delle forme della domanda di legislazione cfr. LA SPINA, La decisione legislativa. Lineamenti di una teoria, Milano, 1992, 305 s. Riguardo alle conseguenze penalistiche che il flusso normativo degli ordinamenti contemporanei ha sulle rispettive possibilità di conoscenza effettiva cfr. ad es. DRIENDL, Zur Notwendigkeit und Möglichkeit einer Strafgesetzgebungswissenschaft in der Gegenwart, Tübingen, 1983, 45 s. (203) Molto più timido sul punto è ancora una volta il progetto inglese, come sopra rilevato (testo intorno alla nt. 169). La considerazione dell’errore inevitabile di diritto quale ‘‘elemento in comune’’ alle diverse esperienze di ricodificazione è peraltro confermata anche dal nuovo codice penale del Liechtenstein (art. 9), che si modella del resto sul codice austriaco del 1974 (riferimenti in proposito supra, nt. 13).


— 819 — caratterizza non certo le ‘‘specie in estinzione’’, ma al contrario gli organismi viventi ed in buona salute. Per di più, anche nel contesto ordinamentale moderno il codice comporta alcuni insostituibili vantaggi: un guadagno di certezza giuridica rispetto alla congerie normativa ad esso preesistente; una risposta più adeguata ai bisogni di tutela presenti nella società che va a regolare; un contributo di garanzia nel ricorso all’arma penale da parte degli stati considerati, i quali devono comunque rispettare anche nella legislazione speciale i principi fondamentali ormai saldamente ancorati nell’architettura dei codici penali moderni. Certezza, conformità agli scopi e giustizia: tre punti a favore che non solo ineriscono all’idea stessa di diritto (204), ma più in particolare sono presenti sin dagli albori del movimento di codificazione e la cui importanza si è solo accresciuta in seguito, come ancora da ultimo è testimoniato dai qui considerati documenti francese, inglese, italiano e spagnolo. Ed è forse proprio in questo intreccio delicato di funzioni che, in conclusione, l’osservatore accorto può rinvenire la profonda radice che, a distanza di due secoli, ancor oggi alimenta l’intatta vitalità dello strumento codicistico come chiave di volta del sistema penale. VINCENZO MILITELLO Associato di Diritto penale comparato nell’Università di Palermo

(204) Ad es. RADBRUCH, Rechtsphilosophie, Stuttgart, 19738, 164 s.; v. anche ID., Einführung in die Rechtswissenschaft, (19589), tr. it. (di Pasini) Introduzione alla scienza del diritto, Torino, 1961, 105.


L’AVVOCATO DEI MAFIOSI (ovvero Il concorso eventuale di persone nell’associazione criminosa)

SOMMARIO: 1. La novità giurisprudenziale. — 2. Rilevanza del problema. — 3. La decisione contestata. — 4. Il concorso di persone nel reato. — 5. L’elemento psicologico del concorso. — 6. Il concorso nel reato plurisoggettivo. — 7. Le caratteristiche dell’associazione criminosa. — 8. Il concorso eventuale nell’associazione. — 9. Il dolo del concorso associativo. — 10. Conferma normativa. — 11. La posizione del difensore.

1. La novità giurisprudenziale. — L’inammissibilità del concorso di persone nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso è tesi frequentemente sostenuta dai difensori degli accusati di collaborazione ad organizzazione criminosa, appunto come argomento di difesa; ma generalmente la Corte di cassazione non l’ha condivisa (1). Destò sorpresa perciò la notizia che la stessa Corte l’aveva assunta a fondamento di ben tre de(1) Tra le più recenti affermazioni di configurabilità del concorso di persone nei reati di associazione: Cass. I, c.c. 18 giugno 1993, Turiano: ‘‘Deve ritenersi ammissibile il concorso eventuale di persone in un reato associativo, che si realizza quando la condotta dell’agente non sia intrinsecamente connaturata con la struttura del sodalizio criminoso, ma ne costituisca soltanto supporto esterno non direttamente incidente sugli elementi necessari per la configurazione dell’associazione’’ (fattispecie in tema di associazione di tipo mafioso); Cass. I, 11 dicembre 1992, Oro: ‘‘Ai fini della configurabilità della partecipazione ad associazione per delinquere ex art. 418 c.p., mentre può ben ammettersi il mero concorso esterno all’attività dell’associazione (quello dei concorrenti nei singoli reati-fine) e perfino all’esistenza e all’operatività dell’associazione (come l’attività dei fiancheggiatori e simili), invece la permanente disponibilità all’azione delittuosa programmata, nello svolgimento del ruolo specifico e nella consapevolezza dell’analoga disponibilità di altri, diretta a realizzare i fini desiderati, si risolve non semplicemente nella cooperazione ma in vero e proprio impegno associativo. Ciò fa necessariamente ritenere i soggetti già impegnati come organici dell’associazione stessa’’; Cass. I, c.c. 23 novembre 1992, Altomonte: ‘‘In tema di associazione per delinquere, perché assuma rilevanza la condotta individuale, occorre l’esistenza del pactum sceleris, con riferimento alla consorteria criminale, e dell’affectio societatis, in relazione alla consapevolezza del soggetto di inserirsi in un’associazione vietata. È punibile pertanto a titolo di partecipazione colui che presti la sua adesione e il suo contributo all’attività associativa, anche per una fase temporalmente limitata. Risponde invece a titolo di concorso nel reato associativo il soggetto che, estraneo alla struttura organica del sodalizio, si sia limitato anche ad occasionali prestazioni di singoli comportamenti aventi idoneità causale per il conseguimento


— 821 — cisioni, sia pure ad opera dello stesso collegio e nella medesima udienza (2). Amplificata peraltro, in modo inconsueto, dai mass-media, fece sorgere la preoccupazione che finisse per risultarne favorita la criminalità organizzata, in quanto più difficile sarebbe diventato per l’accusa provare la partecipazione piena e quindi più facile per i collaboratori di mafia sfuggire a sanzioni penali. dello scopo sociale o per il mantenimento della struttura associativa, avendo la consapevolezza dell’esistenza dell’associazione e la coscienza del contributo che ad essa arreca’’; Cass. I, 13 febbraio 1990, Aglieri: ‘‘Costituisce compartecipazione nella forma del concorso morale l’istigazione del padre ex capo-mafia al figlio a far parte dell’organizzazione criminosa’’; Cass. I, 4 febbraio 1988, Barbella: ‘‘Va ravvisato concorso nel reato di associazione per delinquere, e non partecipazione all’associazione stessa, quando l’agente, estraneo alla struttura organica dell’associazione, si sia limitato alla occasionale e non istituzionalizzata prestazione di un singolo comportamento, non privo di idoneità causale per il conseguimento dello scopo del sodalizio, che costituisca autonoma e individuale manifestazione di volontà criminosa e si esaurisca nel momento della sua espressione perché ontologicamente concepita e determinata nei correlativi limiti di tempo e di efficacia’’. Cass. I, 13 giugno 1987, Altivalle: ‘‘Anche in relazione ai reati associativi, con riguardo all’associazione per delinquere di tipo mafioso, è configurabile il concorso di persone, sia come concorso psicologico, nelle forme dell’istigazione e della determinazione, nel momento in cui l’associazione viene costituita, sia — allorché l’associazione è già costituita — nella forma del contributo consapevolmente prestato al mantenimento e al consolidamento dell’organizzazione criminosa’’. Le pronunce contrarie si riducono a: Cass. I, 21 marzo 1989, Agostoni, che ammette il concorso morale ma non anche quello materiale: ‘‘L’ipotesi concorsuale ai sensi dell’art. 110 c. pen. non trova ingresso nello schema dell’art. 416 c. pen. al di là del concorso morale e limitatamente ai soli casi di determinazione od istigazione a partecipare od a promuovere, costituire, organizzare l’associazione per delinquere. Pertanto una condotta che concretamente favorisce le attività ed il perseguimento degli scopi sociali, non potrà essere ritenuta condotta di partecipazione al reato associativo ove non sia accompagnata, non dalla mera connivenza, bensì dalla coscienza e volontà di raggiungere attraverso quegli atti, anche se di per se stessi leciti, pure i fini presi di mira dall’associazione e fatti propri, trattandosi in tal caso non già di concorso nel reato di associazione, bensì di attività che realizza, perfezionandosi l’elemento soggettivo e quello oggettivo, il fatto tipico previsto dalla norma istitutiva della fattispecie associativa’’; e a Cass. 19 gennaio 1987, Cillari, che preclude ogni tipo di concorso: ‘‘La cosiddetta partecipazione esterna, che ai sensi dell’art. 110 c. pen. renderebbe responsabile colui che pur non essendo formalmente entrato a far parte di una consorteria mafiosa abbia tuttavia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile, la quale deve ritenersi integrata da ogni contributo apprezzabile effettivamente apportato alla vita dell’ente ed in vista del perseguimento dei suoi scopi, mediante una fattiva e consapevole condivisione della logica di intimidazione e di dipendenza personale propria del gruppo e nella consapevolezza del nesso causale del contributo stesso. (2) Cass. I, c.c. 18 maggio 1994 , n. 2342, Abbate; idem n. 2343, Mattina; idem, n. 2348, Clementi.


— 822 — La nuova linea è stata lungi dall’esser seguita (3). Poco dopo peraltro è intervenuta la decisione delle sezioni unite della stessa Corte, la quale ha ribadito la giurisprudenza fino allora prevalente della possibilità di configurare il concorso dall’esterno all’associazione criminosa (4). 2. Rilevanza del problema. — La questione non è di scarsa importanza. Se il giudice non deve farsi carico della lotta alla crimininalità e magari neppure mettere in conto l’appesantimento del suo compito, il cittadino non può rimanere indifferente alle maggiori difficoltà di tali impegni, tanto più nelle presenti condizioni dell’ordine pubblico e delle strutture giudiziarie. Il giurista poi non può trascurare la corretta interpretazione della legge e la coerenza del sistema nonché le ragioni proprie del processo. Applicazione della legge innanzi tutto: il rapporto concorsuale è ben diverso da quello associativo. Non si può far passare per partecipazione all’associazione un fatto che tale non è secondo la legge o, viceversa, escludere la punibilità del concorso. Ragioni poi probatorie: per stabilire la colpevolezza degli associati tipici occorre dimostrare la realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie di reato; invece per i concorrenti è sufficiente provare la connessione causale della loro condotta (atipica, e perciò anche indeterminata) con l’evento giuridico del reato. Ragioni inoltre di difesa: l’accusato di partecipazione all’associazione, qualora non si accerti la sussistenza di tutti gli elementi tipici del reato, non può esser ritenuto colpevole invece di concorso, come se questo possa ritenersi compreso nella più ampia contestazione di partecipazione. Invero, mentre di quest’ultima la fattispecie precisa gli elementi, cosicché l’accusato è in grado di adoperarsi per dimostrarne l’insussistenza, il concorso è costituito da comportamenti non definiti dalla legge, cosicché solo se sono specificamente contestati consentono un’adeguata difesa. Ragioni infine sanzionatorie: i concorrenti, se in genere soggiacciono alla stessa pena degli agenti tipici del reato (art. 110 c. pen.), possono fruire di circostanze attenuanti e diminuzioni di pena (artt. 114, 116.2) che invece non spettano agli altri. 3. La decisione contestata. — Nel caso in esame, la Corte di cassazione si era trovata ad esaminare una serie di ricorsi avverso tre distinte ordinanze di custodia cautelare, che denunziavano la configurabilità del detto concorso: uno riguardava il caso di un avvocato che era accusato di (3) V. p. es. Cass. I, c.c. 6 giugno 1994, Bargi, sia pure per distinguere l’agevolazione dell’associazione mafiosa dal concorso nella stessa; e Cass. I, c.c. 7 ottobre 1994, Tringale. (4) Cass. s.u. 5 ottobre 1994, Demitry.


— 823 — avere svolto attività di collegamento tra mafiosi detenuti e altri in libertà (5); gli altri concernevano uomini di mafia che non erano stati sottoposti ai particolari riti di affiliazione propri del sodalizio criminoso. La Corte in una decisione ha ritenuto ipotizzabile il solo concorso c.d. morale ma non anche quello materiale (6); nelle altre due ha affermato la non ipotizzabilità di entrambi gli aspetti del detto concorso; in tutti i casi ha annullato comunque le ordinanze con rinvio per una nuova valutazione degli elementi di accusa: ovviamente per stabilire se costituiscano gravi indizi di partecipazione all’associazione ma non anche semplice concorso. Riguardo alla pretesa diversa qualificazione di coloro che agiscono nell’ambito delle cosche mafiose: ‘‘uomo d’onore’’, ‘‘pungiuto’’, ‘‘affiliato’’, ‘‘combinato’’, ‘‘avvicinato’’ e simili, secondo le differenti qualificazioni proprie della mafia, la Corte ha confermato che le diverse condotte vanno considerate in base alle norme dell’ordinamento statuale e non invece a quelle mafiose (7). Da qui, tuttavia, alla confusione di tutte le condotte, comunque connesse all’associazione, nella vera e propria partecipazione, con la conseguenza dell’esclusione dell’ipotesi del concorso esterno di persone, c’è un salto logico evidente. La Corte ha ammesso bensì la possibilità del ‘‘concorso eventuale dell’estraneo nelle figure di reato c.d. plurisoggettive (tra le quali rientra quella di cui all’art. 416-bis c.p.), in quanto la disciplina dettata dagli art. 110 e segg. del codice penale, quale espressione legislativa di principi generali attinenti alla plurisogettività indiscriminata della fattispecie, non distingue tra i due tipi di concorso — necessario ed eventuale’’. Ha aggiunto però che occorre ‘‘esaminare in concreto la struttura del singolo reato plurisoggettivo al fine di acclarare la possibilità di un concorso eventuale di persone nel medesimo’’. (5) Su tale questione aveva ritenuto il concorso già Cass. I, 25 ottobre 1983, Arancio: ‘‘Commette il delitto di concorso in banda armata... il difensore che svolge il ruolo di tramite fra i terroristi liberi e quelli detenuti, al fine di comunicare notizie utili all’esistenza della banda armata in quanto tale’’. Più recentemente — sia pure in sede incidentale cautelare, nei riguardi di un difensore che, per garantire la tranquilla sussistenza di una cosca mafiosa, avrebbe addirittura suggerito a un associato di offrire a un poliziotto corrotto un maggiore compenso o di eliminarlo fisicamente — Cass. sez. fer. c. civ. 31 agosto 1993, Di Corrado, ha affermato: ‘‘Il concorso eventuale nel reato associativo è teoricamente ammissibile e si realizza ogni qual volta un soggetto, senza essere stabilmente inserito nella struttura criminale, svolga un’attività, anche di importanza secondaria o di mera intermediazione, che sia conforme alle finalità proprie dell’organizzazione mafiosa e rappresenta un contributo apprezzabile al loro conseguimento’’. (6) Cass. I, 18 maggio 1994, n. 2343, Mattina. (7) Non è improbabile che tale precisazione abbia finito per influire sulla decisione di unificare sotto l’ipotesi di piena partecipazione la condotta di tutti quelli che agiscono nell’ambito del sodalizio criminoso.


— 824 — Appunto l’analisi dello specifico reato di associazione mafiosa l’ha portata alla conclusione che il concorrente ‘‘eventuale’’, contribuendo consapevolmente e volontariamente ‘‘all’ulteriore realizzazione degli scopi’’ del sodalizio, e perciò ponendo in essere gli stessi ‘‘elementi — soggettivo ed oggettivo — caratterizzanti la ‘‘partecipazione, e quindi il concorso necessario’’, è autore (e non concorrente) del reato (8). Ma il nostro sistema penale porta a tutt’altra conclusione. 4. Il concorso di persone nel reato. — Colui che, svolgendo una condotta tipica, realizza l’evento costitutivo del reato (art. 40 co. 1), è autore dello stesso, ed è punibile direttamente in base alla specifica norma di reato. Questa, anche quando descriva solamente la condotta del singolo agente, è immediatamente applicabile a tutti coloro che realizzano la fattispecie rispetto a uno stesso fatto (coautori). Colui invece che, svolgendo una condotta non tipica, cioè eventuale ovvero secondaria, contribuisce in qualche modo alla realizzazione del reato è concorrente, e come tale è punibile soltanto in base alla generale norma incriminatrice del concorso. Invero le condotte non conformi al tipo descritto da una fattispecie specifica non sono immediatamente punibili. A ciò, in caso di loro connessione causale con l’evento del reato, provvede appunto una norma suppletiva e di chiusura, quella dell’art. 110, ovvero quella dell’art. 113 per i reati colposi. L’autore di alcuna delle innumerevoli e indefinibili condotte non descritte nella fattispecie di reato, eppure concorrenti a determinarne l’evento, quindi, non realizza il reato, ma semplicemente concorre nel reato altrui (concorso in senso proprio). Il codice non precisa in che cosa consista il concorso nel reato, e le varie teorie formulate al riguardo sono ognuna per qualche aspetto insoddisfacenti. In base al sistema tuttavia deve considerarsi condotta di concorso, e come tale penalmente rilevante, quella che rende possibile o comunque agevola l’azione tipica ovvero l’evento costitutivo del reato. Perciò la condotta del concorrente dev’essere in connessione causale con l’evento del reato. Il concorso di persona può configurarsi soltanto nel reato altrui. Nel ‘‘proprio’’ reato si svolge soltanto l’azione tipica prevista nella fattispecie, e se si concorre con altri autori principali e tipici si è semplicemente ‘‘coautori’’. Quindi il concorso è ipotizzabile soltanto se l’autore della condotta non è già agente necessario del reato. Se la fattispecie specifica ne prevede come essenziale l’azione egli è agente principale: come appunto nel reato plurisoggettivo (impropriamente detto ‘‘a concorso necessario’’). (8)

Così testualmente nella sentenza Cass. I, 18 maggio 1994, Clementi.


— 825 — La pur criticabile concezione monistica del concorso di persone, accolta dal nostro codice, porta a considerare unico il reato imputabile all’autore principale e al concorrente e a comminare ad entrambi la medesima pena base, ma non arriva a confondere le due situazioni. Perciò stabilire se è ammissibile il concorso eventuale di persone nell’associazione criminosa è importante non soltanto per l’esatta interpretazione della legge ma altresì per le applicazioni e le conseguenze pratiche. Non è segno di chiarezza sistematica la regolamentazione, nello stesso contesto del Capo III del Libro I e altresì sotto la stessa rubrica ‘‘Del concorso di persone nel reato’’, di situazioni riferibili sia all’uno che all’altro tipo di concorso. Tuttavia la dottrina più attenta insegna che le norme suddette svolgono funzione taluna di incriminazione del comportamento atipico di cooperazione al reato (art. 110), talaltra di disciplina di comportamenti già tipici che accedono al reato collettivo aggravandolo ovvero attenuandolo (artt. 111 ss.). Le condotte tipiche di reato plurisoggettivo perciò possono ritrovarsi disciplinate dalle norme sul concorso solo con riferimento alla seconda funzione, ma non hanno nulla a che vedere con il concorso (eventuale) di persone. 5. L’elemento psicologico del concorso. — Anche la condotta di concorso, come ogni altra condotta penalmente rilevante, deve essere cosciente e volontaria (art. 42). Ma poiché deve ricollegarsi allo specifico reato, deve avere anche la qualificazione psichica corrispondente (art. 43). Perciò concorre nel reato doloso colui che consapevolmente vuole l’evento da cui dipende la realizzazione del reato; invece coopera nel delitto colposo colui che si limiti a collaborare consapevolmente e volontariamente allo svolgimento della condotta dell’autore principale. La specificazione è importante, perché si può anche collaborare con condotta dolosa a un reato colposo, del quale cioè l’autore principale non voglia l’evento (come nel caso di chi, per uccidere il malato, distrae l’infermiere facendogli omettere la somministrazione del medicinale necessario per evitare la crisi mortale); e all’inverso, cooperare con condotta colposa a un reato doloso, non volendo cioé l’evento perseguito dall’altro e tuttavia contribuendo a realizzarlo (come nel caso dell’infermiere negligente che, omettendo il doveroso controllo, inietta il medicinale che altri ha intenzionalmente sostituito proprio per determinare la morte del paziente). Anche in questi casi si tratta di vero e proprio concorso di più persone nel medesimo reato, in quanto derivante dalla consapevole volontà di una di esse di potenziare la condotta dell’altro, in direzione della realizzazione dell’evento nel caso di concorso doloso, limitatamente al compor-


— 826 — tamento vietato produttivo dell’evento nella cooperazione colposa. Diverso è il concorso di cause indipendenti, che si verifica quando ognuno degli agenti ignora la condotta altrui: è il caso, p. es., delle due persone che sparano allo stesso individuo senza sapere l’una dell’analoga azione dell’altra, o dei due automobilisti che violano entrambi e autonomamente le norme sulla circolazione, provocando la morte di un passante. Nel concorso non occorre il previo concerto, cioè l’accordo tra autore principale e concorrente, e neppure la consapevolezza da parte dell’agente tipico del contributo dell’altro: il concorso può anche derivare da un’intesa occasionale, e perfino dall’adesione unilaterale dell’agente eventuale all’opera dell’autore tipico inconsapevole. È sufficiente quindi la coscienza e volontà del concorrente di contribuire all’evento del reato. Si può concorrere con il solo dolo generico perfino in un reato a dolo specifico: beninteso a condizione che quest’ultimo abbia già l’autore tipico. Invero il dolo specifico è elemento bensì soggettivo ma altresì costitutivo della fattispecie di reato. Cosicché, una volta che sia realizzato dall’autore tipico, i concorrenti partecipano efficacemente al reato collettivo semplicemente volendo che se ne verifichi l’evento (principale). Risponde perciò di concorso in furto lo scassinatore che apre la cassaforte a colui che vuole impossessarsi del denaro altrui, a prescindere dalla condivisione della finalità specifica del profitto per lo stesso o per altri; e di concorso in ratto colui che aiuta il rapitore ad esercitare violenza o inganno verso il minore o la donna maggiorenne, indipendentemente dalla condivisione dell’altrui fine di libidine. L’azione del concorrente è punibile per il solo fatto di aiutare consapevolmente l’autore tipico a realizzare l’evento giuridico del reato. È sufficiente quindi la coscienza di contribuire al fatto di chi commette il reato con tale finalità. Pretendere che tutti i concorrenti debbano perseguire la finalità specifica richiesta dalla fattispecie incriminatrice significa far coincidere arbitrariamente la posizione del concorrente con quella dell’autore tipico. (E ciò è appunto l’errore che ha determinato le decisioni in esame). Peraltro, l’agire con dolo specifico non muta la posizione di chi non realizza tutti gli altri elementi della fattispecie: egli continuerebbe a concorrere soltanto dall’esterno. Non occorre neppure la punibilità in concreto dei singoli concorrenti: il concorso è configurabile anche se taluno di essi sia non imputabile o abbia agito senza dolo (artt. 111, 112 co. 1 n. 4 e co. 2, 119). 6. Il concorso nel reato plurisoggettivo. — Anche nel reato plurisoggettivo le condotte essenziali o necessarie sono quelle descritte dalla fattispecie. Esse quindi sono tipiche e come tali direttamente incriminabili in base alla norma specifica.


— 827 — Il reato è necessariamente collettivo: non già — come si dice impropriamente — ‘‘a concorso necessario’’. Poiché necessari sono gli autori previsti dalla fattispecie e necessaria e tipica è la loro condotta, il ‘‘concorso necessario’’ sarebbe un concorso degli autori tipici nel proprio reato. Ma una tale qualificazione è priva di significato e altresì di effetto pratico: invero si limita a descrivere una situazione già direttamente regolata dalla legge, per la cui punibilità non occorre far capo al concetto di concorso. Il preteso concorrente necessario è soltanto un coautore. Concorso è invece soltanto quello di colui che eventualmente coopera al reato altrui, ed è punibile soltanto in base alla norma incriminatrice suppletiva dell’art. 110. In particolare, nell’associazione criminosa la fattispecie indica le diverse condotte che ritiene necessarie: promozione, costituzione, direzione, organizzazione (nella banda armata anche sovvenzione) o semplice partecipazione, e ne prevede direttamente la punibilità. Ne restano fuori le condotte non necessarie, cioè quelle non previste specificamente, esterne alla fattispecie di reato, che possono essere le più svariate, anche di importanza minima (art. 114) e perfino dirette a realizzare un reato meno grave (art. 116 co. 2). Queste sono punibili soltanto in base alla norma suppletiva dell’art. 110. È dunque autore necessario e quindi associato chi svolge la condotta tipica prevista nella fattispecie; è concorrente eventuale, esterno all’associazione, chi con condotta atipica coopera alla sussistenza ed operatività della stessa. 7. Le caratteristiche dell’associazione criminosa. — Il delitto di associazione criminosa è un reato plurisoggettivo la cui fattispecie prevede: a) una condotta di partecipazione ovvero una condotta qualificata di promozione, costituzione, ecc.; b) il dolo associativo (c.d. affectio societatis), cioè la coscienza e la volontà di far parte della associazione e di operare per la realizzazione del suo programma di delitti; c) il dolo specifico, cioè la particolare finalità della commissione di più delitti, che l’associato attraverso l’associazione tende a conseguire: ulteriore caratterizzazione — anch’essa tipica — della coscienza e volontà di associarsi. d) il numero minimo di tre persone, una struttura permanente e adeguata, un programma di delitti; e) per l’associazione di tipo mafioso anche l’utilizzazione del particolare metodo dell’intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà che dalla stessa deriva. L’associazione può ritenersi esistente non semplicemente quando


— 828 — ognuno degli aderenti ha realizzato gli elementi tipici, bensì quando essa stessa è posta in grado di esistere e di operare autonomamente dai singoli associati. L’associazione invero è ente distinto da ognuno degli associati e perfino dal loro insieme, cosicché ad essa sono imputabili — sia pure attraverso gli associati, in quanto societas delinquere non potest — la lesione del bene giuridico protetto e i delitti-scopo: La condotta dell’associazione è condotta propria del nuovo soggetto, così come la sua volontà di agire: queste sono costituite non già dalla sommatoria delle condotte e delle volontà individuali degli associati, come appunto avviene con il concorso di persone nel reato, bensì dalla confluenza di esse nella ‘‘condotta plurisoggettiva’’ e nella volontà collettiva, proprie dell’associazione. Essa può considerarsi come frutto del mandato degli associati ad esistere e ad operare autonomamente da loro. Ogni associato peraltro deve accettare di assumere un ruolo suo proprio nell’associazione, che svolgerà al momento opportuno, secondo la volontà dell’associazione. L’associato è come una tessera di mosaico che al momento in cui è necessario si inserisce nel posto determinato nel disegno originario, un tassello destinato ad integrare a suo tempo la composizione. Nessun ruolo associativo è eventuale ma ognuno è essenziale, anche se non è sempre attuale. Coloro che realizzano tutti questi elementi e situazioni sono agenti tipici e ‘‘necessari’’ del reato. Non sono invece — come si è detto — concorrenti in senso tecnico, perché sono punibili in base alla specifica norma incriminatrice. Essi offendono direttamente il bene giuridico volta a volta considerato appunto perché (e solamente se) agiscono collettivamente (reato plurisoggettivo). 8. Il concorso eventuale nell’associazione. — Diverso è per i concorrenti. Va premesso che nulla nel sistema si oppone alla ipotizzabilità di un concorso eventuale nell’associazione criminosa. Le stesse circostanze aggravanti nel concorso (artt. 111, 112), dettate bensì per ogni tipo di reato ma pacificamente applicabili all’associazione, confermano normativamente che anche nel reato di associazione si può concorrere dall’esterno, con condotta atipica e non necessaria, come in ogni altro reato. Gli elementi del concorso eventuale di persona nella associazione criminosa sono quelli del concorso in ogni altro reato: a) una condotta, non tipicamente determinata, di cooperazione alla sussistenza od operatività dell’associazione; b) la coscienza e la volontà (dolo generico di concorso) di cooperare alle stesse.


— 829 — La condotta atipica rileva penalmente semplicemente perché prende parte all’offesa al bene giuridico realizzata dagli autori indicati nella fattispecie di reato: concorre quindi — non necessariamente ma solo eventualmente — nel reato altrui. E l’elemento psicologico è costituito dalla consapevolezza dell’azione tipica altrui e dalla volontà di sostenerla e magari di integrarla perché realizzi l’evento. Non occorre anche che il concorrente utilizzi la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che da quella deriva (c.d. metodo mafioso). Basta che sia consapevole che gli associati le praticano. Gli elementi del concorso nell’associazione criminosa non corrispondono quindi a quelli tipici del reato base. In particolare manca nel concorrente la consapevole volontà di esser membro dell’associazione, e quindi la sua condotta individuale e la sua volontà non confluiscono nella condotta e nella volontà collettive. Il suo contributo non è essenziale, ma soltanto utile. Non è rilevante che la cooperazione sia occasionale ovvero permanente. Il ‘‘picciotto’’, per esempio, che si limita ad azioni di manovalanza per svolgere il metodo e magari per sostenere l’operatività dell’associazione, non diventa partecipante organico per il solo fatto che la sua collaborazione si protrae nel tempo. Il contributo atipico alla costituzione o alla permanenza in vita oppure all’operatività del sodalizio criminoso è appunto concorso. Invece il semplice aiuto alla realizzazione di suoi scopi specifici corrisponde piuttosto all’ipotesi di agevolazione, ed eventualmente costituisce concorso negli ulteriori delitti dallo stesso commessi. Ovviamente la situazione è identica così per il concorso c.d. morale come per quello materiale. Non vi è nulla, nella legge o nel sistema, che giustifichi una diversa disciplina dei due aspetti. 9. Il dolo del concorso associativo. — Il concorso nell’associazione per delinquere deve essere doloso, perché esclusivamente tale è l’ipotesi di reato prevista, e non ne esiste una colposa. La stessa formazione di corpo armato non diretto a commettere reati, che l’art. 653 c. pen. punisce a titolo di contravvenzione, non è realizzabile se non in maniera dolosa, cioé con l’intenzione di formare il corpo armato. Il dolo del concorso associativo è caratterizzato soltanto dall’intenzione di contribuire alla realizzazione dell’evento dell’associazione o al sostegno dell’operatività della stessa. Ma la necessità del dolo caratterizza il concorso in ogni tipo di reato doloso: salvo l’ipotesi — quando è previsto il corrispondente reato colposo — di concorso colposo in reato doloso.


— 830 — Dolo è coscienza e volontà dell’evento. E nella associazione per delinquere l’evento (giuridico) è appunto la sussistenza ed operatività del sodalizio criminoso, siccome idoneo a violare l’ordine pubblico ovvero gli altri beni giuridici tutelati dalle particolari previsioni legislative. Il concorrente non deve anche perseguire il fine particolare che si propongono gli associati (dolo specifico). È ovviamente necessario che lo abbiano gli associati. Per il concorrente è sufficiente che di ciò abbia consapevolezza. L’elemento psicologico pertanto non è idoneo a distinguere la condotta del concorrente da quella dell’associato. Entrambi devono consapevolmente volere la realizzazione dell’evento giuridico del reato: l’uno intendendo semplicemente contribuire a realizzarlo, l’altro assicurandone in concreto la realizzazione con la propria azione e magari utilizzando l’apporto degli eventuali concorrenti. 10. Conferma normativa. — Orbene, se il sistema ammette il concorso eventuale nel diritto di associazione criminosa, l’esclusione deve dipendere da un esplicito divieto di legge. Ma questo non sembra sussistere; anzi tale ipotesi di concorso è prevista espressamente dalla legge. Talvolta invero condotte di apporto all’associazione, tali tuttavia che non raggiungono il livello di concorso nel reato associativo, vengono considerate come elemento tipico di un meno grave reato: p. es. l’assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata (art. 307) e agli associati per delinquere (art. 418); ovvero come circostanza aggravante del diverso specifico reato cui danno immediatamente luogo: è il caso del favoreggiamento personale di mafioso (art. 378 co. 2) o dell’agevolazione di associazione di tipo mafioso (art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203). Che tali condotte siano diverse da quella di associazione è confermato proprio dalla previsione legislativa: infatti danno luogo a reati autonomi punibili con pene di molto inferiori a quella dell’associazione, ovvero aggravano reati diversi da quello di associazione. Peraltro rilevano soltanto fuori dei casi di concorso nel reato di associazione, come precisa espressamente il codice negli artt. 307 e 418 nonché 378. Ma lo stesso deve ritenersi per la circostanza aggravante di agevolazione mafiosa, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che in qualche caso è prevista per essa una pena inferiore a quella dell’associazione. Nell’agevolazione poi rileva il fine — come dice l’art. 7 suddetto — piuttosto che la condotta che è tipica di altro reato. L’esclusione in questi casi, testuale o implicita, dell’ipotesi di concorso nel delitto di associazione conferma appunto che esso è riconosciuto ammissibile dalla legge. 11.

La posizione del difensore. — Il concorso eventuale di persona


— 831 — nell’associazione per delinquere ha dunque una sua autonoma configurabilità rispetto all’ipotesi tipica di partecipazione. E sono sicuri anche i criteri distintivi delle rispettive situazioni, senza possibilità di confusione dei due diversi ruoli. L’una o l’altra ricorrono a seconda delle specifiche situazioni di fatto. Come può il difensore entrare in tale problematica? La difesa dell’imputato è diritto naturale e fondamentale garantito dalla Costituzione, che lo riconosce come essenziale per lo sviluppo della persona umana e perciò inviolabile. La cultura liberale e democratica peraltro ne ha fatto la irrinunciabile condizione di un processo civile. Ad ogni accusato essa va assicurata, quali che siano i delitti attribuitigli e la reazione che essi suscitano nella comunità. Il difensore ha il dovere di perseguire innanzi tutto la convalida della presunzione di non colpevolezza da cui ogni imputato è assistito, e in ogni caso il più favorevole trattamento del suo assistito. Neppure l’avvocato dell’imputato più odioso o pericoloso, quando esercita correttamente la sua attività, può esser sospettato di connivenza o addirittura di sostegno alla criminalità. Egli deve potersi battere liberamente per ottenere al suo assistito il migliore risultato. Egli però difende un imputato o più imputati magari mafiosi, non la loro associazione. I suoi assistiti potranno essere anche i capi dell’organizzazione, ma il patrocinio concerne esclusivamente le loro persone e il loro operato, non già l’ente cui appartengono. L’avvocato è difensore di imputati, non già consulente o difensore del loro sodalizio. Può ricercare elementi di prova a favore del suo assistito anche se possano giovarsene pure altri associati. Ma non dovrà mai prestarsi ad alcuna forma di collegamento fra l’imputato detenuto — che egli è autorizzato ad incontrare nell’esercizio delle sue funzioni di difensore — e i suoi compagni fuori del carcere, tanto da favorire la sussistenza in vita dell’associazione ovvero la commissione di nuovi reati. Gli è imposto dalla deontologia professionale di curare gli interessi personali dell’imputato, non anche quelli dell’organizzazione criminosa cui lo stesso appartiene. Cosicché l’aiuto a questa costituisce innanzi tutto grave mancanza professionale, nella misura in cui egli assume compiti che non riguardano la difesa dell’imputato. Ma può violare anche la legge penale commettendo veri e propri reati: dal favoreggiamento, quando aiuta associati fuori del carcere ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle sue ricerche, utilizzando notizie apprese nell’esercizio della funzione di difensore, fino al concorso nel delitto di associazione e perfino alla partecipazione piena, quando porta agli associati in libertà le direttive dei capi detenuti o comunque informazioni e suggerimenti che consentono la permanenza in vita del sodalizio e magari l’ulteriore svolgimento del suo programma di delitti.


— 832 — Anche di questi ultimi egli potrà esser chiamato a rispondere come concorrente quando consapevolmente si rende latore dell’ordine di un capo detenuto o, peggio, suggeritore o ispiratore. La conferma dell’ammissibilità del concorso di persone nel reato di associazione per delinquere rende anche più esposta penalmente la posizione del difensore che abusa della sua funzione, nella misura in cui lo rende passibile di incriminazione anche per un comportamento di prova più agevole rispetto alla partecipazione tipica. Sen. MARIO VALIANTE


VIOLAZIONI DELLA LEGGE PROCESSUALE E RICORSO PER CASSAZIONE

SOMMARIO: 1. La valutazione della gravità degli indizi di colpevolezza e della concretezza del pericolo relativamente alle esigenze cautelari in tema di sindacato sui provvedimenti de libertate. — 2. La nullità speciale ex art. 292 c.p.p. come vizio autonomo rispetto al difetto o all’illogicità della motivazione ex art. 606 lettera e) c.p.p. — 3. Il problema della tassatività dei vizi processuali. — 4. La soluzione dell’ordinamento processuale tedesco; violazione di legge ed error causalis. — 5. Error in procedendo causalis e vizio di motivazione.

1. La valutazione della gravità degli indizi di colpevolezza e della concretezza del pericolo relativamente alle esigenze cautelari in tema di sindacato sui provvedimenti de libertate. — Secondo un recente indirizzo della cassazione, relativamente ai presupposti per l’applicazione di misure cautelari, ‘‘le doglianze attinenti alla sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari possono assumere rilievo solo se rientrano nella previsione di cui all’art. 606 lettera e) c.p.p., concernente mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Esula, quindi dalle funzioni della cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito ed, in particolare, prima del giudice al quale è richiesta l’applicazione della misura e poi, eventualmente, del giudice del riesame’’ (1). A livello pratico questo orientamento crea non pochi problemi: gli operatori sono costretti a compiere vere e proprie acrobazie verbali per ricondurre nella sfera dell’illogicità manifesta, l’omessa applicazione dei criteri indicati dalla legge processuale. Valga per tutti l’esempio del requisito della ‘‘concretezza’’ del pericolo indicato nell’art. 274 c.p.p.: la legge richiede cioè che l’esigenza cautelare debba sussistere in base ad elementi oggettivi, sussistenti nella (1) 8 marzo 1993, Arena, n. 806.


— 834 — realtà materiale, e non in base a semplici congetture del pubblico ministero e del giudice che applica la misura cautelare, che per loro natura danno origine ad una forma di pericolosità soltanto astratta (2). La soppressione a livello interpretativo del requisito della concretezza del pericolo determina conseguenze rilevanti al punto da sconvolgere l’intera disciplina in materia di libertà personale. Affidando l’applicazione delle misure cautelari alle semplici impressioni soggettive del giudice, in pratica si rende del tutto irrilevante il principio di rango costituzionale della limitabilità della libertà personale soltanto in casi determinati tassativamente dalla legge (3). Non potendosi in linea teorica escludere per nessuno il rischio dell’inquinamento della prova o della fuga o della continuazione nell’azione criminosa, l’applicazione della misura cautelare viene ad essere giustificata da sospetti o illazioni del giudice, in totale assenza di risultanze obiettive che possano attribuire a tale giudizio prognostico un reale fondamento. Inoltre, seguendo l’indirizzo rigoristico della giurisprudenza, si determina un’indebita restrizione del diritto di ricorrere per cassazione avverso i provvedimenti giurisdizionali sulla libertà personale, garantito dall’art. 111 comma 2 Cost. Contrariamente al disposto del dettato costituzionale che espressamente richiede come presupposto per la ricorribilità per cassazione, la ‘‘violazione di legge’’, (senza tra l’altro specificare se debba o meno trattarsi di legge sostanziale o processuale), la palese violazione degli artt. 273 e 274 c.p.p. in materia di esigenze cautelari, risulta insindacabile dinanzi alla Corte di legittimità. È pur vero che la Costituzione ha riservato l’indicazione dei casi di ricorribilità per cassazione al legislatore ordinario cui dunque è stato implicitamente attribuito il compito di definire dal punto di vista operativo la nozione di ‘‘violazione di legge’’ (4), indicata solo in astratto dalla norma (2) In questo senso anche la giurisprudenza secondo cui ‘‘in tema di libertà personale il ‘concreto’ pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, necessario per l’adozione delle misure cautelari, deve essere ipotizzabile non in astratto, ma desunto da elementi di fatto esistenti nella cosidetta realtà effettuale dei quali negli atti processuali devono ricorrere estremi tali da farlo ritenere sussistente’’ (Cass. 30 luglio 1992, Bucci, in Mass. uff. dec. pen., 1992, 191656). (3) Poiché sul piano della possibilità astratta è ipotizzabile nei confronti di chiunque ognuna delle situazioni che danno luogo alle varie esigenze cautelari, di fatto la limitazione della libertà personale, finendo per essere sottratta al rigido disposto normativo, viene a dipendere dall’arbitrium merum del giudice. (4) Correttamente le Sezioni Unite della cassazione civile hanno ritenuto che la nozione di ‘‘violazione di legge’’ di cui all’art. 111 comma 2 Cost. va intesa con riferimento ‘‘sia alla legge regolatrice del rapporto sostanziale controverso, sia alla legge regolatrice del processo’’ (cfr. in Cass. pen., 1992, 1569, con nota di Carcano). In dottrina cfr. AMODIO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano, 1967, p. 106 ss.;


— 835 — costituzionale, ma è altrettanto vero che tale nozione non può poi sul piano pratico essere svuotata di significato, fino al punto da giustificare la totale inosservanza degli artt. 273 e 274 c.p.p. con la conseguente lesione del principio stesso dell’inviolabilità della libertà personale. D’altra parte, stando almeno alle esplicite previsioni dell’art. 606 c.p.p., la violazione degli artt. 273 e 274 c.p.p., di per sé non sembra censurabile in cassazione, non rientrando, almeno direttamente, in alcuna delle ipotesi tassativamente previste di ricorso per cassazione. Di qui l’esigenza di utilizzare la categoria dell’illogicità e della contraddittorietà della motivazione, che può però venire in considerazione soltanto in presenza di un vizio del ragionamento del giudice che ha applicato la misura. Si tratta allora o di prendere atto di un evidente vuoto di tutela normativa, proprio in un settore così delicato come quello riguardante la libertà personale, oppure di ricercare una soluzione alternativa a quella prospettata dalla giurisprudenza. Si pone così il tema fondamentale del rapporto tra invalidità dell’atto ed impugnabilità, tra tassatività dei vizi processuali e ricorribilità per cassazione. 2. La nullità speciale ex art. 292 c.p.p. come vizio autonomo rispetto al difetto o all’illogicità della motivazione ex art. 606 lettera e) c.p.p. — L’art. 292 c.p.p. stabilisce che l’ordinanza che dispone la misura cautelare deve contenere a pena di nullità ‘‘l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta’’. Di fronte ad una simile disposizione la giurisprudenza continua ad applicare il vecchio e collaudato criterio, già recepito dal codice previgente (art. 475), secondo il quale il vizio di motivazione si configura come ipotesi di nullità speciale rilevante ai fini della ricorribilità in cassazione sub specie di violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità (5). Insomma, quasi soggiogata dallo sperimentato schema adoperato per decenni, la cassazione è portata a valutare la disposizione in esame sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione dell’ordinanza. ID., Motivazione della sentenza penale, voce in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 234; DENTI, La magistratura, in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1983, p. 27; MARINO, Corte di cassazione e ‘‘giudici speciali’’ (sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.), in Giur. it., 1993, IV, 14; MAZZARELLA, Analisi del giudizio civile di cassazione, Padova, 1994, p. 49 ss.; TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, p. 397 ss.; ID., La Corte di cassazione tra legittimità e merito, in Foro it., 1988, V, c. 237 ss.; ID., Il vertice ambiguo. Saggi sulla cassazione civile, Bologna, 1991, p. 106. (5) Cfr. per un’esauriente panoramica anche dottrinale, Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di Conso-Grevi, Padova, 1987, sub art. 475, p. 1260 ss.


— 836 — Presa dall’automatismo argomentativo tipico degli abituali schemi interpretativi del passato, la Corte di legittimità ha finito per ignorare un dato essenziale ai fini interpretativi, e cioè che, stante la previsione espressa dalla lettera c) dell’art. 606 c.p.p., non vi era alcuna ragione di interpretare la disposizione di cui all’art. 292 c.p.p. in termini di difetto di motivazione, posto che tale vizio sarebbe stato comunque di per sé denunciabile e rilevabile in cassazione ai sensi dell’art. 606 lettera e) c.p.p. (6). Insomma piuttosto che ipotizzare un caso di ridondanza normativa dovuta ad una duplicazione di fattispecie, sarebbe stato preferibile distinguere l’ambito di operatività dell’art. 292 c.p.p. rispetto a quello della lettera e) dell’art. 606 c.p.p. In effetti, si consideri che la mancata ‘‘esposizione’’ delle esigenze cautelari e degli indizi che giustificano la misura cautelare, prevista come causa di nullità dall’art. 292 c.p.p., è situazione diversa, e solo in parte coincidente con la semplice ‘‘mancanza’’ o ‘‘manifesta illogicità’’ della motivazione di cui alla lettera e) dell’art. 606 c.p.p.; mentre la totale omissione dell’indicazione delle esigenze cautelari e degli indizi dà luogo evidentemente anche al vizio della mancanza di motivazione, la scorretta qualificazione dei requisiti richiesti per l’applicazione della misura cautelare, (concretezza del pericolo e gravità degli indizi) spesso non si traduce nel vizio di motivazione, assumendo una configurazione autonoma: il giudice che descrive nel testo dell’ordinanza che dispone la misura cautelare la situazione di pericolo in relazione alle esigenze cautelari, o il quadro degli indizi di colpevolezza, senza però definire correttamente il carattere della ‘‘concretezza’’ del pericolo e della ‘‘gravità’’ delle circostanze indiziarie, certamente non incorre nel vizio del difetto di motivazione, ma in quello, diverso, dell’erronea valutazione degli elementi di fatto che giustificano l’applicazione della misura cautelare. Siamo così di fronte a due vizi diversi: da un lato il vizio di motivazione che si configura come mancata indicazione nel testo del provvedimento degli elementi richiesti dalla legge (mancanza di motivazione), o come difetto nel ragionamento posto a base della decisione (illogicità della motivazione) dall’altro l’errore nella valutazione delle situazioni di fatto che consentono l’applicazione della misura cautelare (error in iudi(6) Si propugna dunque una sorta di ‘‘appiattimento’’ della previsione di nullità ex art. 292 c.p.p. sulla diversa ipotesi del vizio di motivazione, in base ad affermazioni apodittiche secondo le quali ‘‘in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale, le doglianze espresse in un ricorso per cassazione ed attinenti al difetto vuoi dei gravi indizi di colpevolezza che delle esigenze cautelari, possono assumere rilievo solo se si traducono in un motivo d’annullamento che può essere ravvisato unicamente nella violazione dell’art. 292 comma 2 lettera c) c.p.p. il quale, per essere rilevabile in sede di legittimità, deve rientrare nelle previsioni di cui all’art. 606 comma 1 lettera e) stesso codice’’ (Cass. 12 febbraio 1992, D’Avino, n. 717).


— 837 — cando in relazione alle esigenze cautelari e agli indizi sotto il profilo della gravità). Potrebbe sembrare che, implicando necessariamente valutazioni di merito, la verifica sulla corretta applicazione delle regole che fissano i requisiti per l’applicazione delle misure cautelari (artt. 273 e 274 c.p.p.), non sarebbe comunque consentita in sede di giudizio di cassazione, in quanto ristretto alle sole questioni di legittimità. Senonché, nel caso di specie l’accertamento di merito riguarda una violazione della legge processuale, al fine di stabilire l’esistenza della causa di nullità prevista nell’art. 292 c.p.p.; e sotto questo aspetto non vi è dubbio che rispetto ad un simile accertamento, precluso esclusivamente in relazione ai temi sostanziali oggetto del processo di cognizione, la Corte di cassazione sia invece pienamente legittimata quando si debba accertare l’esistenza di un vizio di carattere processuale (7). Si tratta allora di appurare se la previsione di cui all’art. 292 c.p.p. possa riferirsi all’inosservanza delle regole sulla natura degli indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari (artt. 273 e 274 c.p.p.), indipendentemente dall’esistenza di un vizio di motivazione. Costruendo sul piano interpretativo un’ipotesi autonoma di ricorso per cassazione, riconducibile direttamente alla lettera c) dell’art. 606 c.p.p., (che, come specifico motivo di ricorso prevede la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità), diviene allora possibile risolvere il problema del segnalato vuoto di tutela normativa cui dà luogo l’orientamento giurisprudenziale prevalente. L’art. 292 c.p.p. come si è visto, richiede a pena di nullità che l’ordinanza applicativa di misure cautelari contenga l’‘‘esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza’’. Non basta dunque il riferimento all’esigenza cautelare o agli indizi ravvisabili nel caso concreto, ma occorre che siano precisati anche gli elementi di fatto in base ai quali è possibile formulare il giudizio di pericolosità relativo alle esigenze cautelari o è ipotizzabile la commissione del reato da parte dell’indagato (fumus commissi delicti). Sotto un primo aspetto è certa dunque la nullità dell’ordinanza che si (7) Cfr. CORDERO, Guida alla procedura penale, Torino, 1986, p. 406; FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960, p. 64; SIRACUSANO, I rapporti fra ‘‘cassazione’’ e ‘‘rinvio’’ nel processo penale, Milano, 1967, p. 62 ss.; anche la dottrina tedesca ammette la sindacabilità in sede di Revision della quaestio facti quando occorra accertare la sussistenza di vizi processuali: ‘‘mit der Verfahrensrüge können daher im Ergebnis auch die tatsächlichen Festellungen des Instanzgerichts zur Sache selbst angegriffen werden, sofern sie in einem prozeßordnungswidrigen Verfahren zustande gekommen sind’’ (ROXIN, Strafverfahrensrecht, München, 1993, p. 383).


— 838 — limiti ad affermare apoditticamente l’esistenza di una specifica esigenza cautelare o di determinati indizi di colpevolezza senza l’indicazione delle circostanze di fatto dalle quali simili affermazioni sono desumibili. In questo caso ci troviamo però sempre nella sfera del difetto di motivazione, non potendo certamente ritenersi motivata l’ordinanza priva dell’indicazione delle ragioni di fatto che giustificano il provvedimento cautelare. Occorre allora stabilire se rilevi ai fini della sussistenza della nullità speciale ex art. 292 c.p.p. anche l’erronea valutazione relativa alle esigenze cautelari o agli indizi di colpevolezza. In particolare si tratta di accertare se possa o meno ritenersi nulla l’ordinanza che attribuisca un valore errato, secondo i normali canoni di giudizio, agli elementi di fatto su cui dovrebbero fondarsi le esigenze cautelari o gli indizi di colpevolezza (8). Si pone allora il problema della censurabilità dell’error in iudicando in relazione alla sussistenza dei fatti dai quali dipende il vizio processuale della nullità. Il riferimento dell’art. 292 c.p.p. alle esigenze cautelari e agli indizi di colpevolezza, deve essere inteso in rapporto alla nozione normativa contenuta negli artt. 273 e 274 c.p.p.: le esigenze cautelari e gli indizi di colpevolezza non possono essere concepite in modo diverso da come il legislatore ha definito tali nozioni. Pertanto le esigenze cautelari non si configurano in assenza della concretezza del pericolo, o degli altri requisiti indicati nell’art. 274 c.p.p., così come gli indizi di colpevolezza debbono avere il carattere della gravità, secondo quando prevede l’art. 273 c.p.p. Con il richiamo alle esigenze cautelari e agli indizi di colpevolezza l’art. 292 c.p.p. ha allora necessariamente recepito anche le previsioni degli artt. 274 e 273 c.p.p. nella parte in cui definiscono i presupposti per l’applicazione delle misure cautelari. Per stabilire se si sia o meno determinata la nullità indicata nell’art. 292, il giudice dell’impugnazione ha l’obbligo di accertare se in concreto le esigenze cautelari e gli indizi di colpevolezza posti a fondamento del provvedimento cautelare impugnato, siano o meno corrispondenti al modello legislativo. Per restare all’esempio prospettato, l’ordinanza applicativa di una misura cautelare è nulla anche quando il pericolo attinente alle esigenze cau(8) È il caso ad esempio dell’ordinanza nella quale si ritenga di desumere la concretezza del pericolo in relazione alle esigenze cautelari, da semplici presunzioni e non da reali ed oggettive risultanze processuali: Tizio, imputato di truffa, potrebbe, per il solo fatto di essere accusato di aver posto in essere un comportamento fraudolento atto ad alterare e camuffare la realtà, compiere azioni dirette ad inquinare le prove; in tale ipotesi la misura cautelare adottata in presenza di una mera possibilità teorica o comunque di un pericolo soltanto presunto, di alterazione della genuinità delle prove, risulterebbe illegittima.


— 839 — telari non sia stato valutato in termini di concretezza, o gli indizi non abbiano il valore della gravità. In questo caso l’accertamento della nullità è il risultato di un giudizio di merito, che, avendo comunque ad oggetto una situazione meramente processuale (9), e non la situazione sostanziale oggetto del processo di cognizione, deve ritenersi consentito anche in sede di cassazione. Considerato che il giudice di cassazione ha competenza per l’accertamento dei vizi processuali, tra i quali rientra ovviamente la nullità, e considerato altresì che la legge non pone alcun limite a questo tipo di accertamento, costituirebbe una vera e propria petizione di principio l’affermazione secondo la quale anche in questa ipotesi sarebbe preclusa al giudice di cassazione ogni valutazione di merito. In mancanza di riferimenti normativi, non possono ritenersi operanti nella sfera di cognizione che riguarda l’accertamento della sussistenza di violazioni della legge processuale, le stesse limitazioni che invece la legge pone all’accertamento riguardante il tema sostanziale del processo di merito. Si perviene allora alla seguente soluzione: la violazione degli artt. 273 e 274 c.p.p. è rilevabile in cassazione sia quando si sia tradotta in un vizio della motivazione (sub specie della mancanza o della manifesta illogicità), sia quando l’errata applicazione dei criteri indicati dalla legge, abbia determinato la nullità ex art. 292 c.p.p., anche se per il suo accertamento sia necessario un giudizio di merito che risulta precluso solo relativamente alle questioni di fatto concernenti l’applicazione della legge sostanziale, ma non per quanto riguarda le questioni di fatto relative all’applicazione della legge processuale. 3. Il problema della tassatività dei vizi processuali. — Non senza difficoltà, e comunque in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza, si è visto come il richiamo all’ipotesi di nullità speciale prevista dall’art. 292 c.p.p., consenta di risolvere sul piano interpretativo il problema della censurabilità in cassazione di alcune gravi violazioni degli artt. 273 e 274 c.p.p. che pur non rientrando nella sfera del vizio di motivazione ex art. 606 lettera e) c.p.p., danno luogo a forme abusive o discrezionali di limitazione della libertà personale. In altri casi invece, la violazione di norme processuali altrettanto importanti, non configurando vizi processuali tipici, e non rientrando, almeno apparentemente, in alcuna delle ipotesi tassativamente elencate nel(9)

Secondo l’attuale dottrina processualistica, influenzata dall’opera di GOLD-

SCHMIDT (Des Prozess als Rechtslage, Berlin, 1925, cfr. rist. Aalen, 1986, p. 146 ss.), l’in-

tero fenomeno processuale, considerato da un punto di vista dinamico, è riconducibile alla nozione della situazione giuridica (cfr. CONSO, I fatti giuridici processuali penali, rist. Milano, 1982, 115 ss.; CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 19 ss.; GUARNERI, Sulla teoria del processo penale, Milano, 1930, p. 37 ss.).


— 840 — l’art. 606 c.p.p., sembra destinata a sfuggire irrimediabilmente all’ambito di cognizione del giudice di cassazione. Si dovrebbero allora considerare mere ‘‘irregolarità’’ (10), alcune violazioni di norme processuali, che, considerata l’importanza degli interessi tutelati, meriterebbero invece la censurabilità in cassazione. Si pensi in proposito ai seguenti casi: la violazione dell’ordine di assunzione delle prove, la violazione della regola che impone che la contestazione o comunque la lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare sia effettuata dopo la deposizione orale, la violazione delle regole di giudizio indicate nell’art. 192 c.p.p. Stante il principio di tassatività delle impugnazioni, è certo che il criterio dell’‘‘importanza’’ dell’interesse in gioco, non possa di per sé, giustificare la ricorribilità per cassazione; di qui la necessità di ricondurre la violazione di legge ad un vizio processuale tipico, o comunque ad uno dei casi di ricorso indicati nell’art. 606 c.p.p. Rispetto alla violazione degli artt. 273 e 274, in relazione alla quale, come si è visto, è pur sempre possibile il riferimento all’ipotesi della nullità ex art. 292, nei casi indicati sorgono difficoltà ancora maggiori, con il rischio di costruzioni interpretative ardite o astratte che sul piano dell’applicazione pratica sono inevitabilmente destinate all’insuccesso. Se consideriamo la mancanza di un’espressa disposizione normativa concernente i vizi configurabili, sul piano della tecnica interpretativa occorre stabilire entro quali limiti la casistica riportata possa rientrare nelle categorie generali dei vizi processuali previste dall’ordinamento. In particolare si tratta di verificare se nelle singole ipotesi possano configurarsi altrettanti casi di nullità generale o di inutilizzabilità. Con riferimento all’inosservanza della regola di cui agli artt. 493 e 496 c.p.p., relativa all’ordine di assunzione della prova, per poter configurare una nullità, occorre partire dal presupposto secondo il quale l’ordine di assunzione delle prove mira a tutelare il diritto di difesa dell’imputato che, avendo la facoltà di far acquisire le prove a discarico dopo l’assunzione delle prove a carico, viene posto nella migliore condizione per poter ribattere all’accusa formulata nei suoi confronti. In questa prospettiva risulterebbe dunque configurabile la nullità intermedia per violazione di norme concernenti l’intervento o l’assistenza difensiva dell’imputato ex artt. 178 lettera c) e 180 c.p.p. Senonché, pur dovendosi riconoscere che l’ordine di assunzione delle prove risponde all’esigenza di garantire il diritto di difesa dell’imputato, (10) Sulla nozione di ‘‘irregolarità’’ quale violazione di legge non riconducibile ad alcuno dei vizi processuali previsti tassativamente dalla legge, cfr. CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, rist. Milano, 1972, p. 21 ss.


— 841 — quando si tratta di ricondurre la fattispecie concreta nell’ambito della categoria generale della nullità, di cui alla lettera c) dell’art. 178 c.p.p., sorgono alcune difficoltà. Infatti soltanto se intese in senso lato e forse improprio, le nozioni di ‘‘intervento’’ o di ‘‘assistenza’’ dell’imputato, utilizzate dalla lettera c) dell’art. 178, potrebbero riferirsi alla violazione dell’ordine di assunzione della prova:; sembra arduo ritenere che l’inosservanza di una sequenza prestabilita nell’assunzione delle prove possa di per sé comportare una menomazione dell’‘‘assistenza’’ difensiva dell’imputato, soprattutto se la nozione di ‘‘assistenza’’ venga intesa in senso tecnico, (con riferimento cioè alla presenza del difensore) (11); sarebbe allora preferibile fare riferimento all’‘‘intervento’’ (12) dell’imputato, ipotizzando cioè che la facoltà di ottenere l’assunzione delle prove a discarico successivamente all’assunzione delle prove a carico, costituisca appunto una forma di ‘‘intervento’’ nell’istruzione dibattimentale. Tuttavia anche in questo caso bisognerebbe attribuire alla nozione di ‘‘intervento’’ una connotazione forse impropria, riferendola cioè non soltanto alla partecipazione a determinati atti o fasi processuali, ma anche alle modalità della partecipazione: insomma l’imputato partecipa certamente all’istruzione dibattimentale, ma sono violate le norme sull’ordine di assunzione delle prove, e non sono rispettate le modalità della sua partecipazione che deve avvenire successivamente a quella del pubblico ministero. In altra prospettiva si potrebbe ricondurre la violazione degli artt. 493 e 496 c.p.p. all’art. 191 c.p.p., e dunque ipotizzare l’inutilizzabilità delle prove assunte senza osservare il disposto legislativo che regola l’ordine da seguire durante l’istruzione dibattimentale (13). Bisognerebbe così presupporre che nella formulazione degli artt. 493 e 496 c.p.p., sia contenuto un divieto probatorio implicito (14): il legislatore, avrebbe cioè vietato l’assunzione di prove in violazione dell’ordine prestabilito. In tal caso, in quanto assunte in violazione di un divieto di legge, le prove extra ordinem risulterebbero inutilizzabili. Anche una simile soluzione interpretativa risulta opinabile, considerato che dalla formulazione dell’art. 191 c.p.p. non è possibile desumere con certezza che l’effetto dell’utilizzabilità possa derivare anche dalla vio(11) Cfr. FERRUA, La difesa nel processo penale, Torino, 1988, p. 15 ss. (12) Cfr. DOMINIONI, Nullità, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio e Dominioni, vol. II, Milano, 1989, p. 268. (13) Cfr. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 255 ss.; PIERRO, Una nuova specie di invalidità. L’inutilizzabilità degli atti processuali penali, Napoli, 1992, p. 72 ss. (14) Sulla possibile individuazione a livello interpretativo di divieti probatori impliciti anch’essi previsti a pena di inutilizzabilità, cfr. NOBILI, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, p. 150 ss.


— 842 — lazione di un divieto probatorio implicito. D’altra parte pur sulla base di questo presupposto, occorrerebbe comunque dimostrare che nel caso di specie sia ravvisabile un divieto probatorio implicito. Infine in altra prospettiva l’inosservanza dell’ordine di assunzione delle prove potrebbe invece essere ricondotta ad una mera irregolarità. Difficoltà interpretative analoghe si pongono in relazione alla violazione della regola che posticipa la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari, all’esame dibattimentale del teste o della parte privata. Sulla base di ragionamenti simili a quelli indicati per gli artt. 493 e 496 c.p.p., si potrebbero costruire ipotesi di nullità o di inutilizzabilità, ma con gli stessi margini di incertezza interpretativa. La violazione delle regole di giudizio contenute nell’art. 192 c.p.p., potrebbe poi risultare di per sé censurabile in cassazione, soltanto in base ad una soluzione interpretativa, anch’essa opinabile, che riconduca la violazione ad un’ipotesi di inutilizzabilità (15), oppure ad un vizio di motivazione (16). 4. La soluzione dell’ordinamento processuale tedesco; violazione di legge ed error causalis. — Nel nostro ordinamento il legislatore ha indicato espressamente le categorie dei vizi degli atti processuali. Gli atti viziati risultano così invalidi e inefficaci secondo una scala di intensità anch’essa legislativamente predeterminata in funzione della gravità del vizio (17). Al fine di evitare un’eccessiva dilatazione sul piano interpretativo, con evidenti lesioni del principio di economia processuale, e dello stesso principio di giustizia sostanziale che risulterebbe vanificato ove il procedimento, soggetto a continue invalidazioni anche per inosservanze marginali, non potesse effettivamente giungere a termine in tempi ragionevoli, il principio dell’indicazione espressa dei vizi processuali viene concepito come principio di tassatività. Si perviene così all’attuale soluzione normativa: l’invalidità degli atti processuali si realizza nei casi e nei modi indicati espressamente dalla legge, con il divieto per l’interprete di ricorrere (15) Cfr. NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 171. (16) Come si preferisce in giurisprudenza, cfr. ad esempio, Cass. Sez. VI, 28 novembre 1989, Allegra, (in Mass. uff. dec. pen., 1990, 184251), secondo cui il principio del necessario riscontro probatorio della chiamata di correo indicato nell’art. 192 comma 3 c.p.p., ‘‘postula l’impegno del giudice ad indicare nella motivazione del provvedimento le prove o gli indizi che corroborano la chiamata di correo, con la conseguenza che l’omesso esame degli elementi capaci di offrire un riscontro alle dichiarazioni accusatorie, si traduce in un difetto di motivazione, rilevabile anche davanti al giudice di legittimità’’. (17) Cfr. CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, cit., p. 39 ss.


— 843 — all’analogia o a forme di interpretazione creatrice, tali da rendere in effetti inoperante il principio di tassatività (18). Tuttavia, quando alla previsione espressa del legislatore sfuggono ipotesi di violazioni di norme processuali, che, pur avendo influenza decisiva sull’esito del procedimento, non consentono di esperire specifici rimedi, si determina uno stravolgimento del sistema. Sotto questo aspetto, occorre allora coniugare la rigidità propria del principio di tassatività (che non può accettarsi in toto), con la flessibilità propria della prassi interpretativa sensibile alle esigenze del caso concreto. Si presenta a questo punto l’oppportunità di un confronto con un modello normativo diverso, che consente di superare gli angusti limiti posti dall’elencazione tassativa dei casi di ricorso per cassazione così come indicati nell’art. 606 c.p.p. Nell’ordinamento processuale tedesco non è indicata la tipologia dei vizi processuali, il che non significa che le decisioni giudiziarie siano per definizione immuni da vizi di forma, ma semplicemente che il legislatore si è ispirato ad un modello diverso da quello francese fondato sul principio di tassatività dei vizi ricorribili per cassazione (19) e recepito anche dal nostro ordinamento. Facendo riferimento ai principi generali della teoria del giudicato dottrina e giurisprudenza distinguono tra due forme di invalidità della sentenza o di irrilevanza del giudicato: l’inesistenza (Nicht-Urteile) e la nullità (nichtigen Urteile) (20). Nel primo caso rientrano le decisioni emesse a non iudice o che non abbiano acquisito efficacia giuridica attraverso la pubblicazione. Sotto questo aspetto vi è corrispondenza con la nozione di inesistenza elaborata dalla nostra dottrina processualpenalistica (21). Nel secondo caso rientrano le nullità che si configurano quando ‘‘la (18) Sul principio di tassatività in materia di nullità cfr.: CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, cit., p. 86; DOMINIONI, Nullità, cit., p. 257; MOSCARINI, Esigenze antiformalistiche e conseguimento dello scopo nel processo penale italiano, Milano, 1988, p. 88 ss. (19) Per quanto concerne le violazioni della legge processuale, sono ricorribili in cassazione soltanto le inosservanze delle forme prescritte a pena di nullità (cfr. GALANTINI, Profili della giustizia penale francese, Torino, 1989, p. 158; LAMANDA, Pourvoi en cassation. Décisions susceptibles d’être attaquées et conditions du pourvoi, Juris Classeur Proc. pén., Fasc. 10 et 11; ROBERT, Nullités de procédure pénale et bonne administration de la justice, 1971, p. 85. (20) Cfr. KRIEGSMANN, Die Nichtigkeit des Strafurteil, in Kieler Festgabe für Hänel, 1907, p. 463 ss.; SCHMIDT, Schuldspruch und Rechtskraft, in Juristenzeitung, 1966, 89 ss.; PETERS, Strafprozeß, 1985, p. 523; CALAMANDREI, Vizi della sentenza e mezzi di gravame, in Opere giuridiche, a cura di Mauro Cappelletti, vol. VIII, Napoli, 1979, p. 254. (21) Cfr. CORDERO, Guida alla procedura penale, cit., pp. 446-449; CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, cit., pp. 97-98.


— 844 — decisione contrasta con lo spirito dell’ordinamento processuale o dell’ordinamento giuridico dello stato’’ (22). Naturalmente, attenendo a casi limite, difficilmente realizzabili in concreto, l’invalidità del giudicato, intesa come inidoneità della sentenza divenuta irrevocabile a produrre gli effetti giuridici tipici (23), non può, sul piano pratico, costituire un utile rimedio contro le più comuni e frequenti violazioni delle norme processuali. Non si può infatti configurare l’inesistenza del giudicato o comunque la nullità per contrasto con lo spirito o i principi fondamentali dell’ordinamento, quando, come accade nella maggior parte dei casi, non vengano del tutto soppressi diritti o poteri riconosciuti dall’ordinamento, ma piuttosto violate le norme che regolano le modalità di esercizio di tali diritti o poteri: si pensi ad es. all’inosservanza delle disposizioni sulla citazione del difensore di fiducia dell’imputato; in questo caso, essendo comunque nominato un difensore d’ufficio, l’imputato non viene privato del diritto di difesa che certamente costituisce uno dei principi generali dell’ordinamento, ma subisce piuttosto un pregiudizio relativamente alle modalità di esercizio di tale diritto che non può esplicarsi con l’assistenza del difensore di fiducia. Il solo riferimento all’inefficacia del giudicato, non è dunque sufficiente per reprimere le più frequenti violazioni delle norme processuali che d’altra parte non possono neppure essere automaticamente ricondotte a semplici ipotesi di irregolarità non sanzionabili; in tal caso sarebbe infatti in pericolo l’esistenza stessa dell’ordinamento processuale relegato al rango di complesso di norme non vincolanti, con le ovvie e inevitabili conseguenze relativamente al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge di cui all’art. 101 comma 2 Cost. Il problema si sposta allora sul rapporto tra vizio processuale e impugnabilità della sentenza. Naturalmente, come accade nel nostro sistema, nel secondo grado di giudizio è sempre possibile dedurre la violazione di norme processuali e sostanziali, indipendentemente dall’esistenza di uno specifico vizio legislativamente previsto (24). Il giudice dell’impugnazione infatti, ferme re(22) BGH, in Neue Zeitschrift für Strafrecht, 1984, p. 279. (23) Sotto questo aspetto viene in considerazione la nota distinzione tra giudicato formale (formelle Rechtskraft) che indica l’inoppugnabilità (Unanfechtbarkeit) della decisione, e giudicato sostanziale (materielle Rechtskraft) che indica il divieto di un nuovo procedimento sullo stesso fatto (ne bis in idem); al giudicato formale viene ricollegata un’efficacia ‘‘conclusiva’’ (Beendigungswirkung), mentre al giudicato sostanziale viene ricollegata un’efficacia ‘‘proibitiva’’ o ‘‘preclusiva’’ (Sperrwirkung) (cfr. ROXIN, Strafverfahrensrecht, cit., pp. 335-356). (24) Si realizza cioè l’assorbimento dell’azione di impugnativa nel mezzo di gravame, cfr. CALAMANDREI, Vizi della sentenza, cit., p. 271; MANDRIOLI, L’assorbimento dell’azione civile di nullità e l’art. 111 Cost., Milano, 1967, p. 3 ss.


— 845 — stando le restrizioni derivanti dall’effetto devolutivo (25), agisce all’interno della stessa sfera di poteri-doveri del giudice di primo grado, ed è quindi tenuto ad applicare le stesse norme che deve applicare il primo: insomma, a prescindere dal vizio configurabile, la norma di legge se non è stata applicata in primo grado, deve essere comunque applicata dal giudice dell’impugnazione. Nei termini prospettati, la questione si pone allora soltanto per quanto concerne l’impugnativa per motivi di legittimità, e cioè il ricorso per cassazione, nei modelli di tipo francese, e la Revision, nei modelli di tipo tedesco. Stante il principio di tassatività dei motivi di impugnazione, si tratta di stabilire entro quali limiti sia possibile far valere l’invalidità degli atti processuali. Nei sistemi che adottano il modello francese è il legislatore ad indicare i vizi deducibili in cassazione; ma ciò, come si è visto, può creare notevoli problemi in relazione ad eventuali lacune nella previsione legislativa dei vizi processuali. Nel modello di tipo tedesco, l’invalidità degli atti processuali rientra invece nella nozione estesa di ‘‘violazione di legge’’ che costituisce il presupposto per la proponibilità della Revision. Il secondo capoverso del § 337 della StPO, definisce la nozione di violazione di legge come mancata o scorretta applicazione di legge (‘‘das Gesetz ist verletzt, wenn eine Rechtsnorm nicht oder nicht richtig angewendet worden ist’’). Ora, è chiaro che in una nozione così estesa di vizio processuale rientra ogni inosservanza del disposto legislativo, anche se minima, o concernente norme che regolano aspetti marginali o puramente ordinatori dell’iter procedimentale (si pensi ad esempio alle norme che disciplinano il modo di vestire o la condotta di coloro che assistono all’udienza). Ebbene, se fosse questa la nozione di vizio processuale denunciabile dinanzi al giudice di legittimità, si creerebbe una disfunzione processuale altrettanto grave, anche se di segno opposto, rispetto a quella che, come si è visto, è determinata dall’interpretazione eccessivamente rigoristica del principio di tassatività: invece dell’irragionevole limitazione dei casi di ricorribilità per violazione di legge, si avrebbe l’irragionevole estensione di tali casi, con il conseguente rischio dell’impedimento o della spropositata dilazione della conclusione di ogni processo. Senonché è lo stesso primo capoverso del § 337 a stabilire, come condizione per la ricorribilità, che la sentenza sia fondata sulla violazione (25) Sull’effetto devolutivo cfr. FERRANTE, L’effetto devolutivo delle impugnazioni penali, Milano, 1962, p. 119 ss.


— 846 — di legge (‘‘die Revision kann nur darauf gestützt werden, daß das Urteil auf einer Verletzung des Gesetzes beruhe’’) (26). Dottrina e giurisprudenza precisano in proposito che il legislatore ha richiesto la sussistenza di un nesso di causalità (Kausalzusammenhang) tra la violazione di legge e il contenuto della sentenza (Urteilsinhalt) (27), tale che il vizio denunciato assume rilevanza soltanto quando, in assenza la violazione di legge, la sentenza sarebbe stata diversa da quella effettivamente pronunciata (28). Si fa così riferimento alla dottrina dell’error causalis (29), e alla nozione di vizio decisivo, determinante cioè per la decisione. Il Revisiongericht attribuisce rilevanza al vizio denunciato a condizione che la violazione di legge abbia avuto influenza sul dispositivo della sentenza (30): soltanto in questo caso infatti l’errore può essere decisivo, dal momento che nell’ipotesi in cui la violazione di legge avesse inciso esclusivamente sulle ragioni psicologiche della decisione senza modificare il tenore di questa, evidentemente saremmo in presenza di un errore irrilevante e inidoneo a determinare l’annullamento della decisione impugnata. Prima ancora che giuridica è regola di logica comune quella che esclude l’invalidazione di un atto compiuto in violazione di una norma di legge, quando tale violazione non influisce sull’efficacia dell’atto stesso. L’indagine sulla rilevanza del vizio denunciato si fonda sulla comparazione con la decisione che sarebbe stata adottata in assenza del vizio denunciato: se tra questa e la decisione effettivamente adottata, non sussiste alcuna differenza per quanto riguarda il dispositivo, il vizio è irrilevante e la decisione impugnata non può essere invalidata; in caso contrario, il vizio denunciato assume la rilevanza dell’error causalis e determina l’annullamento della decisione impugnata. La cognizione del giudice di legittimità si esplica dunque sotto forma di accertamento del nesso di causalità tra l’errore denunciato e la statuizione espressa dal giudice a quo nel dispositivo della sentenza: quando la violazione di legge ha avuto influenza sul decisum determinandone l’esito, (26) Il § 338 della StPO prevede anche una serie di motivi assoluti per la Revision (absoluten Revisiongründe); in questi casi il rapporto di causalità tra il vizio e la decisione è presunto iuris et de iure (‘‘der Kausalzusammenhang zwischen Gesetzesverletzung und Urteilsinhalt wird unwiderleglich vermutet’’, ROXIN, Strafverfahrensrecht, cit., p. 389). (27) Cfr. ROXIN, Strafverfahrensrecht, cit., p. 388. (28) ‘‘Das Urteil ohne die Gesetzesverleztung möglicherweise anders ausgefallen wäre’’, (BGH, in Neue Zeitschrift für Strafrecht, 1985, 135). (29) Sulla nozione di error causalis, anche da un punto di vista storico, cfr. CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Opere giuridiche, vol. VIII, cit., p. 218 ss. (30) ‘‘L’errore è causale quando si traduce in difformità del dispositivo rispetto al canone normativo’’ (FAZZALARI, Il giudizio, cit., p. 5, ma vedi pure p. 19 ss.).


— 847 — sussiste il rapporto causale tra errore e decisione, e la sentenza impugnata deve essere annullata. In questa prospettiva l’errore causale si configura come un antecedente logico della decisione, un elemento che ha costituito una delle premesse della statuizione adottata dal giudice di merito. La causalità esprime la validità del ragionamento giudiziale: la conclusione del ragionamento del giudice, contenuta nel dispositivo della sentenza, è viziata se è viziata la premessa in base alla quale tale conclusione è stata raggiunta. In virtù di questo meccanismo logico la violazione di legge contenuta in una delle premesse, si propaga alle premesse successive e alla conclusione del ragionamento giudiziale, sul cui presupposto viene emesso il dispositivo. In definitiva, la verifica della sussistenza del rapporto causale tra vizio denunciato e il dispositivo della sentenza impugnata, si risolve nel controllo di logicità della sentenza, e quindi nella verifica della logicità della motivazione. Il controllo di logicità riguardante le massime di esperienza contenute nelle premesse del ragionamento in fatto si esprime attraverso la comparazione con massime di esperienza alternative a quelle utilizzate dal giudice a quo, che, se ritenute inidonee alla corretta ricostruzione storica dei fatti processualmente rilevanti, vengono disapplicate, o direttamente sostituite (31). Relativamente alla violazione di legge, invece, il controllo di logicità si esprime come verifica della legittimità della premessa posta a base della decisione. Qui il confronto non avviene con una massima di esperienza alternativa a quella applicata dal giudice a quo, ma con la norma di legge che si assume violata; la violazione di legge ove sussistente, si trasmette allora alla decisione adottata sul suo presupposto. A differenza dell’error in iudicando che, quale erronea applicazione della norma sostanziale posta a base della decisione, costituisce un vizio manifesto del ragionamento giudiziale, che risulta inficiato in una delle sue premesse espressamente enunciate (32), la violazione di norme processuali, il cosiddetto error in procedendo, non è così agevolmente riscontrabile nei passaggi argomentativi che conducono alla decisione. L’error in (31) Cfr. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, cit., p. 50 ss. e bibliografia ivi cit.; con specifico riferimento al processo penale, cfr. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette massime d’esperienza, in questa Rivista, 1969, p. 143, p. 156 ss.; UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 57 ss.; ID., Prova, voce dell’Enciclopedia giuridica, vol. XXV, Roma, 1991, p. 3 ss. dell’estratto. (32) Cfr. CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando, cit., p. 168 ss.


— 848 — procedendo è infatti un vizio di costruzione, un vizio che deriva dall’inosservanza di norme che regolano l’iter procedimentale (33). Salva l’ipotesi in cui sia stata sollevata dalle parti una specifica eccezione che richiede quindi una risposta in motivazione, il giudice, normalmente, non esprime nella sentenza una valutazione esplicita sulla legittimità del procedimento che piuttosto viene presunta. La ragione di ciò è evidente: poiché la decisione concernente l’osservanza delle norme di rito è logicamente pregiudiziale rispetto alla decisione sul tema di merito, al punto che la presenza di determinati vizi processuali impone l’immediato provvedimento di annullamento, quando il giudice affronta l’esame di merito, essendo pervenuto all’accertamento della sussistenza dei fatti per cui si procede e alla valutazione della loro rilevanza penale, la questione della legittimità del procedimento è ormai superata, e quindi si dà per scontato che l’iter procedimentale si sia svolto correttamente. In sede di motivazione il giudice espone i risultati della ricostruzione storica dei fatti oggetto dell’accertamento di merito, dando altresì conto della rilevanza penale dei fatti stessi. Dal testo espresso della motivazione risultano così rilevabili soltanto gli errores in iudicando, mentre per quanto concerne l’accertamento degli errores in procedendo occorre una verifica ex actis, che generalmente prescinde dall’esame del testo del provvedimento emesso dal giudice a conclusione del procedimento (34). L’osservanza delle norme che disciplinano il procedimento, più che un elemento del ragionamento giudiziale, riportato nella motivazione del provvedimento, costituisce un presupposto tacito (una condizione) di validità: la decisione è valida nella misura in cui siano state rispettate le norme che regolano il corretto svolgimento del procedimento. Il nesso di causalità tra vizio processuale e decisione di merito si configura allorché la decisione avrebbe potuto avere un tenore differente in assenza di un’inosservanza della legge processuale non rilevata dal giudice che abbia agito invece sul presupposto infondato del corretto svolgimento del procedimento (35). Si pensi ad esempio alla violazione di una norma concernente l’assistenza del difensore: se il difensore, esercitando i diritti che la legge processuale gli attribuisce, avesse potuto dare il suo contributo alla fedele ricostruzione dei fatti processualmente rilevanti, il giudice avrebbe deciso, oppure avrebbe potuto decidere, in modo differente. (33) Cfr. CALAMANDREI, Sulla distinzione tra error in iudicando e error in procedendo, in Opere giuridiche, vol. VIII, cit., p. 285, pp. 287-288. (34) Siamo quindi in presenza del fenomeno della motivazione implicita, cfr. dal punto di vista della logica argomentativa, TARUFFO, La motivazione, cit., p. 416 ss. (35) Cfr. retro, nota 29.


— 849 — 5. Error in procedendo causalis e vizio di motivazione. — Si tratta a questo punto di stabilire se la soluzione riconducibile al modello dell’error causalis recepita, per ogni ipotesi di violazione di legge, dall’ordinamento tedesco, sia in qualche modo adattabile al nostro sistema processuale. Naturalmente non si intende in questa sede discutere il comune principio logico-giuridico secondo il quale la rilevanza di una qualsiasi inosservanza di legge dipende per sua natura dall’esistenza in concreto di un’influenza causale tra il vizio e la decisione soggetta a controllo, di modo che la censura sollevata deve essere respinta qualora il vizio denunciato non abbia in effetti avuto influenza sulla decisione; l’attenzione deve essere invece posta sulla possibile estensione della nozione di causalità tra vizio e decisione, al fine di rendere sindacabile una serie di violazioni della legge processuale che pur non essendo espressamente sanzionate nelle forme tradizionali, comportano tuttavia macroscopiche deviazioni dal corretto svolgimento dell’iter procedimentale. Prescindendo dalla soluzione de iure condendo di modellare l’attuale art. 606 c.p.p. sulla base del § 337 della StPO, di improbabile attuazione perché in contrasto con la nostra tradizione giurisprudenziale e dottrinale, occorre stabilire se al semplice livello interpretativo, e quindi all’interno del principio di tassatività dei motivi di ricorso per cassazione, sia possibile costruire un’ipotesi di ricorribilità per cassazione per violazione di norme processuali diversa rispetto a quella prevista espressamente dalla lettera c) dell’art. 606 c.p.p. che contiene l’indicazione tassativa dei vizi processuali. Nel nostro sistema l’indagine sulla legittimità degli atti compiuti nel corso del procedimento è ammessa, in cassazione, soltanto nella misura in cui possa condurre all’accertamento di uno dei vizi tipici indicati dalla legge processuale. Al di fuori di questo ambito il controllo del giudice di cassazione non può che esercitarsi sulla decisione impugnata. Pertanto, a differenza del sistema tedesco nel quale per la rilevazione della violazione di legge processuale è sempre consentita l’indagine ex actis, nel nostro ordinamento la violazione di legge processuale non riconducibile direttamente ad uno dei vizi tipici indicati nella lettera c) dell’art. 606 c.p.p., deve comunque risultare dal provvedimento impugnato; il che in definitiva significa che il rapporto di derivazione causale tra la violazione di legge denunciata e la decisione, deve trovare il suo ambito di manifestazione nella motivazione del provvedimento emesso dal giudice a quo. Occorre allora stabilire se l’error causalis relativo all’applicazione della legge processuale e non rientrante in alcuna delle categorie dei vizi tipici, possa configurare un vizio di motivazione, in quanto tale denunciabile in cassazione ai sensi della lettera e) dell’art. 606 c.p.p. (mancanza o illogicità della motivazione).


— 850 — Posto che normalmente la violazione di norme processuali non emerge in sede di motivazione, poiché il giudice, come si è visto, enuncia il ragionamento che lo ha condotto alla decisione partendo dal presupposto implicito del rispetto delle regole procedimentali previste dalla legge, ci si chiede se ciò appunto significhi che tale violazione non possa mai determinare un vizio di motivazione: non essendo rilevabile dal testo della motivazione, il vizio processuale non potrebbe dunque, per definizione, mai inficiare la motivazione stessa. In realtà un simile ragionamento pecca per eccesso di formalismo. Infatti deve ritenersi compreso nella motivazione, non solo quanto è espressamente indicato dal giudice come ragione della decisione o come punto specifico dell’iter argomentativo adottato, ma anche quanto, seppure implicitamente, risulta posto a fondamento del ragionamento giudiziale. Altrimenti, contrariamente all’orientamento consolidato di dottrina e giurisprudenza, non potrebbe mai ammettersi la figura della motivazione implicita (36). Insomma, ogni antecedente logico-giuridico della decisione, anche se non indicato espressamente, è parte integrante della motivazione del provvedimento, quando costituisca un punto imprescindibile del discorso giustificativo del provvedimento adottato. Del resto la stessa formulazione della lettera e) dell’art. 546 c.p.p. che definisce la motivazione della sentenza come ‘‘concisa’’ esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, sembra avallare la soluzione prospettata: il carattere della concisione della motivazione riguarda le modalità di enunciazione delle ragioni della decisione, nel senso che quanto non risulti strettamente necessario per la comprensione del ragionamento posto a base del decisum, e quindi anche le ragioni implicite della decisione, può essere omessa nella redazione della motivazione. Pertanto, pur non dovendosi esplicitare tutti i motivi posti a base della decisione in ossequio appunto alla regola dell’art. 546 lettera e) c.p.p., le ragioni inespresse mantengono il loro carattere di punti essenziali del ragionamento del giudice, e quindi di elementi che fanno necessariamente parte della motivazione. Resta tuttavia il problema dell’attuale formulazione della lettera a) dell’art. 606 c.p.p. secondo cui il vizio di motivazione (mancanza o manifesta illogicità) deve ‘‘risultare dal testo del provvedimento impugnato’’ (37). Seguendo l’impostazione rigoristica adottata dalla giurisprudenza (36) Cfr. retro, nota 34. (37) Su questa previsione normativa cfr. FERRUA, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1990, p. 969; LOZZI, Carenza o manifesta illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità, Milano, 1992.


— 851 — nell’interpretazione di questa formula normativa, già di per sé sintomo di una tendenza restrittiva del legislatore nella definizione dell’ambito di sindacabilità dei vizi logici della decisione (38), sembrerebbe del tutto precluso il controllo ex actis in sede di valutazione della legittimità della motivazione. Come si è visto, i vizi processuali per loro natura non compaiono solitamente nel contesto grafico della motivazione, dal momento che la condotta processuale del giudice normalmente costituisce un antecedente inespresso della decisione adottata. Al di fuori delle ipotesi espressamente indicate dalla lettera c) dell’art. 606 c.p.p., in relazione alle quali è la stessa previsione normativa a consentirla, l’indagine sugli atti del procedimento, alla ricerca di eventuali violazioni della legge processuale risulterebbe così preclusa. Nella rigida prospettiva interpretativa assunta dalla giurisprudenza si deve pertanto escludere la censurabilità dei vizi processuali non riconducibili ad una delle ipotesi tipiche di cui alla lettera c) dell’art. 606 c.p.p., che pur potrebbero inficiare, come si è visto, la motivazione del provvedimento sul piano della causalità rispetto al decisum. Non resta allora altra soluzione che l’ampliamento a livello interpretativo dell’angusto disposto della lettera e) dell’art. 606 c.p.p. In particolare, più che alla formulazione letterale della norma occorre riportarsi allo spirito della norma stessa che è esclusivamente quello di impedire che il giudice di cassazione possa rivalutare le prove acquisite nel corso del procedimento. Ebbene, in molti casi la rilevabilità del vizio di motivazione è possibile proprio in base ad un controllo ex actis che non comporta la rivalutazione degli elementi di prova assunti dal giudice di merito, ma piuttosto la necessaria e imprescindibile verifica dell’esistenza o dell’inesistenza del vizio denunciato (39). (38) Secondo la Cassazione ‘‘il vizio logico della motivazione, nelle sue varie concrete espressioni — contraddittorietà, illogicità, omessa considerazione di circostanze decisive e, pur anche, travisamento di fatto — deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali. Non vi è più spazio, cioè, per quell’operazione interpretativa, che, sotto l’egida delle precedenti norme regolatrici del processo penale, aveva reso possibile di scivolare dalla contradditorietà, intesa come contrasto analitico tra varie proposizioni all’illogicità, concepita come contrasto tra le argomentazioni del contesto motivazionale e la realtà processuale, od, addirittura, la comune esperienza, od il comune modo di ‘sentire’ un fatto. I due unici vizi di legittimità inerenti alla motivazione dei provvedimenti di merito, sono ora la mancanza — che vuol dire difetto assoluto — di argomentazioni su uno qualsiasi dei momenti applicativi della decisione e l’illiceità evidente, risultante dallo stesso testo della motivazione’’ (n. 411, del 30 gennaio 1991, Levante, in Mass. uff. dec. pen., 1991, 187739). (39) Sull’ammissibilità della cognitio ex actis in sede di cassazione, cfr. CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, Padova, 1964, p. 183.


— 852 — A parte l’ipotesi di scuola del ragionamento intrinsecamente contraddittorio, che ovviamente, nessun giudice nel pieno possesso delle proprie facoltà intellettive, inserirà nel corpo della motivazione, è certo che l’illogicità della motivazione è il più delle volte desumibile solo dal confronto con le risultanze processuali: la scorretteza logica del ragionamento giudiziale, perché basato su premesse false, può essere accertata a condizione che sia consentita la verifica della falsità delle premesse stesse, il che, inevitabilmente, richiede un esame ex actis. ANGELO ALESSANDRO SAMMARCO Dottore di ricerca in Diritto e procedura penale


NOTE DI DIRITTO COMPARATO E STRANIERO

QUANDO LO STUPRO È LEGALE: LA ‘‘MARITAL RAPE EXEMPTION’’ (1)

1. Premessa: problemi nuovi per un’esimente vecchia. — L’atteggiamento del sistema americano in materia di stupro sembra oscillare tra due estremi opposti. Da un lato, la violenza carnale, ‘‘la peggior violenza che una persona può subire, seconda solo all’omicidio (2)’’ è considerata un crimine efferato, da punirsi con estrema severità (3). Per la sua realizzazione occorre che l’uomo abbia costretto la donna al rapporto sessuale ‘‘by forcible compulsion’’, ossia mediante ‘‘violenza o minaccia di morte, lesioni o rapimento a danno suo o di un’altra persona (4)’’; in alcuni Stati, tuttavia, anche il ‘‘sexual intercourse con una persona che non vi abbia consentito’’, seppure in assenza di violenza o di minaccia, è punito, per quanto in misura più lieve, come ‘‘sexual assault of the third degree (5)’’. Dall’altro lato, però, l’applicazione di queste norme e l’inflizione di tali sanzioni sono subordinate alla condizione che stupratore e vittima non siano, tra di loro, marito e moglie. ‘‘Not his wife’’, sancisce, al par. 213.1, il Model Penal Code, e la maggioranza degli Statuti ripete questa previsione. Più precisamente, a favore del marito che violenti la moglie sussiste una vera e propria ‘‘exemption from prosecution’’, una causa di improcedibilità che impedisce al pubblico ministero, nei confronti del coniuge, l’esercizio dell’azione penale. Il legislatore statunitense si dimostra così disposto ad usare, senza troppe preoccupazioni, due pesi e due misure: lo stesso comportamento, se realizzato in assenza di vincoli matrimoniali, costituisce rape o sexual assault; se realizzato da un coniuge (e subito dall’altro), non presenta alcuna rilevanza penale. Di fronte a questa impostazione, sociologi e giuristi di orientamento femminista hanno reagito sostenendo una teoria di segno opposto, che tende a unificare là dove il legislatore distingue e divide. Accanto a dichiarazioni provocatorie del genere ‘‘tutto è stupro, fino a

(1) Si tratta del testo, corredato dalle note, dell’intervento da me effettuato al convegno ‘‘Ai margini dello stupro - dibattito sulla riforma dei reati sessuali’’, svoltosi a Trento il 7 e 8 aprile 1995. (2) ‘‘Short of homicide, the ultimate violation of self’’: J. White, Coker v. Georgia, U.S., 1977, p. 597. (3) A seconda degli Stati, la pena per la violenza carnale che costituisca ‘‘rape or sodomy of the first degree’’ può arrivare sino a 20-25 anni di reclusione o comportare, addirittura, il ‘‘life imprisonement’’. (4) New York Penal Law, par. 130.35(1) e 130.00(8); disposizioni analoghe sono contenute, ad esempio, negli Statuti del Michigan, Iowa, Ohio, Pennsylvania, Vermont, New Jersey. Più analitica, ma dello stesso tenore, è la corrispondente previsione del Model Penal Code (par. 213.1). (5) Wisconsin Criminal Code, par. 940.225(3); una norma analoga è prevista dal Criminal Code dello Stato di Washington, al par. 9A.44.060 e dal Code del Delaware, al par. 773. Questo tipo di assault, essendo un delitto di ‘‘third degree’’, è punito con una pena detentiva non superiore a 5 anni nel massimo.


— 854 — prova contraria (6)’’, o ‘‘il sesso tra uomini e donne è sempre una forma di aggressione (7)’’, più pacatamente si rileva che ‘‘la violenza carnale è sempre violenza carnale. L’identità dell’aggressore non altera il carattere della sua azione né riduce il trauma subito dalla vittima. Lo status coniugale dei soggetti coinvolti non influenza la definizione del delitto di stupro più di quanto esso non faccia per il delitto di maltrattamenti (8)’’. Alcune di queste affermazioni possono sembrare eccessive, se non addirittura assurde: esse costituiscono, però, la reazione ad una normativa che, in questa materia, assume posizioni egualmente (o ancor più) irrazionali. Tanto più che, mentre le dichiarazioni di questi autori rappresentano una descrizione, sebbene estremizzata, di una realtà che comunque, esiste, le disposizioni sulla c.d. ‘‘marital rape exemption’’ appaiono spesso il frutto anacronistico di concezioni, ormai superate, della società e della famiglia. Se, dunque, le provocazioni femministe mantengono un collegamento con il mondo reale, pur fornendone un’interpretazione ‘‘gonfiata’’ e di parte, le soluzioni legislative si dimostrano del tutto prive di un qualsiasi rapporto con la realtà. La ‘‘marital rape exemption’’ è attualmente presente negli Statuti di 41 Stati; fino a 10 anni fa, tuttavia, essa appariva ancora più diffusa, benché strutturata in modo molto semplice: quasi tutti gli Stati escludevano che il marito potesse essere sottoposto a processo, a meno che ricorressero circostanze particolari e rigidamente predeterminate. Al giorno d’oggi, il paesaggio legislativo appare molto più ampio e complesso; si va dall’exemption totale alla totale assenza di exemption e, nel mezzo, una gran varietà di soluzioni parziali in continua evoluzione. Dieci sono gli Stati che hanno eliminato l’exemption: tre per intervento legislativo (Oregon, Nebraska, New Jersey), due in seguito alle pronunce delle Corti d’Appello (Massachussets e Florida (9)); tre Stati, invece, hanno eliminato l’exemption per molti ma non per tutti i reati sessuali realizzabili dal marito nei confronti della moglie: essi sono il Minnesota, l’Iowa e il New Hampshire. Connecticut e California hanno inserito nei loro Statuti una norma che prevede, come reato autonomo, il delitto di ‘‘spousal rape’’, punendolo, tuttavia, in modo meno grave del ‘‘forcible rape of first degree’’. A questo (purtroppo breve) elenco vanno poi aggiunti Delaware e Hawaii, che, dopo aver eliminato l’exemption, hanno praticamente vanificato gli effetti di tale operazione introducendo una nuova e più ampia causa di improcedibilità, a favore di ogni ‘‘voluntary social companion’’. Dall’altra parte del ‘‘tabellone’’ troviamo gli irriducibili, cioè gli otto Stati che conservano l’exemption e la ritengono operante fino a quando i coniugi non abbiano ottenuto una sentenza di divorzio (Alaska, Illinois, Kansas, Oklahoma, South Dakota, Texas, Vermont, West Virginia). Per gli altri undici Stati l’exemption cessa di avere efficacia con la pronuncia della separazione; nei restanti quindici, è sufficiente che uno dei coniugi si rivolga all’autorità giudiziaria per

(6) Cfr. STANKO, Intimate Intrusion, 1985; a p. 9 l’autrice afferma che ‘‘essere donna — in molte società ed in molte epoche — implica il fatto di essere fisicamente e/o sessualmente terrorizzata dagli uomini... (Sia che si tratti) di incesto, di maltrattamenti, di stupro o di molestie, in ciascuno di questi casi una donna subisce un’invasione del sé, un’intrusione nel proprio spazio interiore, una violazione della libertà fisica e sessuale’’. A proposito delle ‘‘molestie da strada’’ (‘‘street hassling’’), WEST scrive che ‘‘(Esse) si fanno sentire sessualmente ridicole, esposte, sporche, volgari e spaventate’’ (The difference in women’s edonic lives, Wisconsin Women’s L.J., 1987, p. 106). (7) DWORKIN, cit. da HUGHES, La cultura del piagnisteo, 1993, p. 26. (8) MARTIN, Battered wives, 1976, p. 181. (9) In realtà, poiché la legislazione di questi Stati nulla diceva a proposito dell’exemption, più che di una vera e propria eliminazione, si è trattato di una decisione circa l’applicabilità o meno, dell’exemption di creazione giurisprudenziale, o di common law. Anche in altri cinque Stati (Arkansas, Georgia, Missisippi, Virginia e Washington D.C.) gli Statuti tacciono, per cui la scelta di riconoscere o meno l’exemption è lasciata al singolo giudice.


— 855 — ottenere la separazione, il divorzio o l’annullamento; infine, in alcuni Stati, basta addirittura la presenza di una separazione di fatto. Da una prima analisi di questi dati, la tendenza che sembrerebbe emergere è nel senso di una riduzione dell’ambito applicativo dell’exemption, quanto meno sotto il profilo della sua validità temporale. Ma questa prima, apparente tendenza è contrastata da un orientamento opposto, che mira, invece, ad ampliare il novero di coloro che di tale exemption possono beneficiare: quindi, non solo più il coniuge, ma anche il convivente o il fidanzato. In cinque Stati, addirittura, l’exemption è stata estesa fino a ricomprendere i ‘‘voluntary social companions’’ e persino gli uomini con i quali la vittima ha avuto, entro l’anno, un rapporto sessuale consensuale. Ora, se la ‘‘marital exemption’’, nella sua forma primitiva ha, quanto meno, una dignità storica, ricollegandosi al pensiero di Hale e di Blackstone, la sua estensione ai ‘‘voluntary social companions’’, che la common law non aveva mai considerato, non è giustificabile neppur facendo riferimento ad un’obsoleta tradizione. Sulla base di questi presupposti, ragionando in termini di pura logica giuridica, si arriva a conseguenze addirittura paradossali: se si esclude la procedibilità per il delitto di stupro commesso da un uomo con cui la vittima ha avuto, l’anno precedente, un rapporto sessuale, non si vede perché una simile exemption non debba essere prevista per l’imputato di un delitto di truffa che, in un passato non lontano, abbia concluso con la vittima un affare per entrambi vantaggioso. 2. Le matrici storiche. — Originariamente l’exemption era prevista, con un contenuto ‘‘pieno’’ (cioè senza limiti temporali di efficacia e senza esclusione di condotte determinate), a favore del solo marito. Due erano le ragioni addotte a suo fondamento: la prima venne espressa da Hale, la seconda fu proposta da Blackstone. Il ragionamento di Hale è piuttosto semplice: poiché elemento costitutivo dello stupro è l’assenza del consenso della vittima, e poiché con il matrimonio la moglie consente, a propri, ad ogni rapporto sessuale che avrà luogo, in futuro, tra lei e il marito, allora l’atto sessuale che si consuma tra coniugi non potrà mai, per definizione, qualificarsi come ‘‘rape’’, perché ad esso la donna ha previamente consentito (10). Nella sua formulazione originaria, questa tesi appare, oggi, chiaramente insostenibile, e si spiega soltanto tenuto conto del modo in cui la società ed il diritto dell’epoca concepivano la violenza carnale. La criminalizzazione dello stupro rispondeva all’esigenza di proteggere la donna se ed in quanto bene di proprietà maschile, in quanto oggetto e non persona. Così, se la donna non era sposata, il diritto si preoccupava essenzialmente di tutelare l’interesse economico del padre, che voleva avere una vergine da offrire in matrimonio. Ora, riducendo lo stupro ad una forma di furto, di cui la donna era l’oggetto materiale, l’esclusione della responsabilità del marito appariva quanto mai logica; ritenere diversamente equivaleva a sostenere che il proprietario di una cosa potesse rubarla a se stesso. Tuttavia, l’argomento di Hale nasconde un fondo di verità. Di solito, con la celebrazione del matrimonio, si presuppone che i coniugi consentano, seppur genericamente, ad avere fra loro rapporti sessuali. Da questo punto di vista, la situazione di partenza appare completamente diversa rispetto alla classica ipotesi di ‘‘forcible rape’’, che vede la donna aggredita da un perfetto sconosciuto: nel caso in esame si è, infatti, in presenza, se non di un attuale consenso allo specifico atto, quantomeno di un generico accordo su eventuali e futuri ‘‘sexual intercourses’’. Per questa ragione non sembra possibile aderire in toto all’opinione della dottrina americana, che tende,

(10) HALE, History of the pleas of the Crown, 1736, p. 629: ‘‘The husband cannot be guilty of a rape committed by himself upon his lawful wife, for by their mutual matrimonial consent and contract the wife hath given herself in this kind unto her husband which she cannot retract’’.


— 856 — invece, ad eliminare radicalmente ogni distinzione tra ‘‘marital e ‘‘nonmarital rape (11)’’, mentre, al contrario, appaiono quantomai opportune le soluzioni di quegli Stati che, dopo aver eliminato l’exemption, hanno poi inserito nei loro Statuti una disposizione ad hoc, volta a colpire lo ‘‘spousal rape’’. Una simile scelta presenta, indubbiamente, (almeno) due importanti vantaggi. In primo luogo, essa sottolinea la differenza che sussiste tra la violenza carnale ‘‘comune’’ e lo stupro coniugale, e che concerne non tanto (o non sempre) le modalità esecutive del fatto, quanto, piuttosto, le caratteristiche dei soggetti coinvolti, il loro essere già reciprocamente uniti dal legame matrimoniale. In secondo luogo, punendo lo ‘‘spousal rape’’, questa soluzione non consente di dimenticare ciò che, invece, ai seguaci di Hale sembra sfuggire, ossia che ‘‘la licenza di matrimonio non attribuisce all’uomo la licenza di stuprare impunemente la propria moglie... Se un marito si sente ‘offeso’ dal rifiuto della moglie di avere con lui un rapporto sessuale, dovrebbe rivolgersi ai giudici che si occupano di diritto matrimoniale, e non procedere ad una specie di ‘autotutela violenta’ delle proprie ragioni (12)’’. Come si è detto poco prima, la violenza carnale tra coniugi si differenzia da quella ‘‘extraconiugale’’ per il particolare scenario in cui si muovono la vittima e l’aggressore: essi non sono due estranei, bensì i partners di una relazione intima, che è fatta di rapporti sentimentali e sessuali precedenti e che crea un’aspettativa di rapporti futuri (13). Ma, fatta eccezione per tale elemento, la natura dell’atto in sé e, soprattutto, le sue conseguenze sulla donna, sono in entrambi i casi, sia nel forcible che nel marital rape, assolutamente identiche. A questo punto si rende necessaria una precisazione. Ciò che è bene chiarire, una volta per tutte, è che la violenza carnale, da chiunque commessa, ‘‘non è semplicemente un rapporto sessuale al quale una parte non consente (14)’’, né, come si è invece talora sostenuto (15), la mera imposizione di un’intimità non voluta o la lesione della libertà e dell’autonomia personale. È vero che, nella violenza carnale ‘‘comune’’, anche questi aspetti sono presenti, mentre risultano meno evidenti nell’ipotesi di ‘‘spousal rape (16)’’; tuttavia, essi non esprimono completamente l’essenza del delitto. Più che un’attività realizzata invito domino, o un crimine a sfondo sessuale, lo stupro è, in realtà, ‘‘un crimine di umiliazione, di sopraffazione e di soggiogazione, destinato a provocare alla vittima profonde ferite, fisiche e psichiche (17)’’: e tali caratteristiche si rinvengono, identiche se non peggiori, anche nel caso in cui l’autore della violenza sia il marito. Non sembra dunque che si possa sostenere che una donna, per il sol fatto di essersi sposata (o di avere iniziato una relazione sentimentale) abbia inteso consentire, implicitamente ed anticipatamente, ad un atto di tal genere. La seconda spiegazione ‘‘storica’’ dell’esistenza della ’‘material exemption’’ è offerta da Blackstone, che utilizza, a tale scopo, un ragionamento un po’ più raffinato. Nel XVIII secolo, se una donna si sposava, i suoi beni venivano incorporati nel patrimonio del marito; si era perciò sostenuto che, con il matrimonio, la moglie perdesse la sua autonoma identità per acquistare quella dello sposo: marito e moglie divenivano così, per finzione legale, un indivi-

(11) V. nota 7; cfr., per tutti, KADISH and SCHULHOFER, Criminal law and its processes, 1989, p. 393. (12) State v. Smith, Corte d’Appello del New Jersey, in A.2d, 1977, p. 386. (13) È questo l’elemento che potrebbe giustificare la previsione dell’exemption a favore del convivente o del fidanzato; resta comunque inspiegabile la sua estensione ai ‘‘voluntary social companions’’ anche solo di una sera. (14) KADISH and SCHULHOFER, op. loc. ult. cit. (15) Cfr. infra, le note 21 e 22. (16) Da cui la necessità di una sua considerazione ‘‘separata’’. (17) BROWNMILLER, Against our will: Men, Women, and Rape, 1975, p. 427; sul punto v. ESTRICHT, Real Rape, che, a proposito del caso State v. Alston (North Carolina Supreme Court, S.E.2d, 1984, p. 470) così dichiara: ‘‘Consent was not the problem. Force was’’.


— 857 — duo unico. Questa finzione, di origine e rilevanza civilistica, venne trasportata nel campo penale ed applicata alla fattispecie di ‘‘marital rape’’; poiché, si afferma, marito e moglie erano la stessa persona (18), il primo non poteva essere perseguito per aver violentato la seconda, dato che una simile azione risultava naturalmente e giuridicamente irrealizzabile: infatti, come era possibile che un uomo violentasse se stesso? Ma, una volta dissoltasi la finzione legale dell’identità marito-moglie, in seguito al riconoscimento dell’autonomia patrimoniale anche per le donne sposate (19), la tesi di Blackstone apparve priva anche di basi giuridiche, oltre che di consistenza logica. 3. La marital rape exemption è tuttora attuale? Cinque argomenti. — Eppure, la ‘‘marital exemption’’ è rimasta: senza più radici storiche e giustificazioni razionali, tuttavia essa resiste, obsoleta ed anacronistica. La sua presenza è, ora, del tutto inspiegabile, a meno di non ritenere che la norma che punisce lo stupro sia stata stabilita al solo fine di tutelare l’interesse del marito all’esclusivo possesso sessuale della moglie. Già alla fine dell’800, John Stuart Mill osservava che, dopo l’abolizione della schiavitù della gente di colore, le ultime schiave al mondo erano rimaste le mogli. Scriveva l’autore che mentre una schiava negra era ‘‘moralmente obbligata’’ a rifiutare ogni rapporto sessuale con il padrone, per le mogli non sussisteva neppure questo tipo di giustificazione: ‘‘il brutale tiranno al quale ella è incatenata... può avanzare pretese su di lei e costringerla alla peggiore degradazione che un essere umano può subire, ossia quella di divenire, contro ogni inclinazione, lo strumento per la soddisfazione di un istinto animale (20)’’. Se questa è la realtà, ci si chiede, allora, per qual motivo, venuta meno l’auctoritas delle opinioni di Blackstone e di Hale, il legislatore continui a vedere nel ‘‘marital rape’’ una forma, forse solo un po’ più grave, di problema coniugale, o, negli Stati che estendono l’exemption ai ‘‘voluntary social companions’’, una species del genus ‘‘bisticci tra innamorati’’. Ed è con estrema sorpresa che si scopre l’esistenza di una serie di argomenti, nati sulla cenere delle due rationes storiche, con cui i ‘‘lealisti’’ tentano di giustificare la presenza di tale previsione. Ad un’analisi più accurata, questi argomenti risultano per lo più privi di qualsiasi base logica, scientifica o giuridica; tuttavia, la marital exemption resta in vita, simile ad un’Hydra a sette teste: non appena una testa è tagliata — cioè un argomentato è confutato — ecco che al suo posto ne sorge un altro, altrettanto irrazionale ed infondato (21): ora si sostiene che il marital rape non costituisce un problema così grave da meritare l’attenzione del diritto penale, ora che il diritto penale non è lo strumento adatto alla sua risoluzione, ora che una donna sposata ha a sua disposizione altri mezzi, non penalistici, di tutela, e così via. Ma, in verità, tutte queste considerazoni sono riconducibili ad un duplice, comun denominatore: da un lato, l’atteggiamento fortemente misogino del legislatore nordamericano, che influenza non solo la disciplina dello spousal rape, ma più in generale, l’intera normativa in tema di stupro; dall’altro, una concezione ‘‘patriarcale’’ della famiglia e della società, che vede nel marito (o nell’uomo in genere) il partner dominante, relegando la donna nel ruolo di schiava sottomessa o di ‘‘bisbetica vendicativa’’. Alla luce di questa impostazione si spiega dunque la continua presenza, nella maggior parte degli Statuti, della marital exemption e la sua progressiva estensione al convivente, al fidanzato e all’amico.

(18) BLACKSTONE, Commentaries on the law of England, 1765-1769. La soggettività giuridica della donna risultava, così, ‘‘incorporated and consolidated into that of the husband’’. (19) Con il Married Women’s Property Act che, nel corso del XX secolo venne via via adottato da tutti gli Stati; cfr. BROWN, FREEDMAN, KATZ and PRICE, Women’s rights and the law, 1977, p. 160 ss. (20) MILL, The subjection of women, cit. da SCHWARTZ, The spousal exemption for criminal rape prosecution, Vermont L. Rev., 1982, p. 38. (21) SCHWARTZ, op. cit., p. 34-35.


— 858 — I Il primo degli argomenti a favore della marital exemption è quello secondo il quale il ‘‘marital rape’’ non costituirebbe un problema così grave da richiedere l’intervento risolutivo del diritto penale. Esso non si verificherebbe, infatti, che in casi sporadici e comunque, anche in queste rare ipotesi, senza provocare alla vittima eccessivi danni. Analizzato accuratamente, l’argomento in questione appare infondato. Da un punto di vista quantitativo, si rileva, innanzitutto, come i dati disponibili rispecchino solo parzialmente la gravità dell’intera situazione. La ragione di questa penuria di informazioni è abbastanza evidente: negli Stati che prevedono l’exemption (che, come si è visto, sono la maggioranza) è assai improbabile che una moglie si rivolga alla polizia o all’autorità giudiziaria per denunciare un marital rape, cioè un comportamento che il legislatore si rifiuta di perseguire. In questi casi, perciò, la violenza carnale commessa dal marito viene denunciata soltanto se accompagnata da maltrattamenti o lesioni gravi. Ulteriori difficoltà sorgono poi a causa del metodo autorizzato per la raccolta dei dati: invece di interrogare, come si fa di solito, le donne violentate sull’identità del loro aggressore, sarebbe meglio domandare alle vittime di maltrattamenti coniugali se tra le violenze subite ci sia anche lo stupro. Ed infatti, le ricerche che sono state svolte seguendo questo metodo hanno fornito risultati ben più consistenti: ad esempio, da uno studio condotto su un campione di circa 1000 donne, è emerso che il 14% di quelle sposate, almeno una volta nella loro vita, erano state vittime di uno stupro, tentato o consumato, da parte del marito (22). Considerando poi, in ambito criminologico, l’andamento della cifra nera, che segnala come le donne tendano a non denunciare soprattutto le aggressioni sessuali subite da parte di parenti o di amici, è legittimo pensare che anche queste cifre, che pur sembrano elevate, rappresentino solo la punta dell’iceberg, e che la parte sommersa sia ancora maggiore. Da un punto di vista qualificativo, poi, lo scarso rilievo accordato al marital rape viene giustificato in base a tre ordini di ragioni. Da un lato, si osserva, la realizzazione di tale condotta non appare particolarmente dannosa per la società: lo stupro consiste nell’imposizione di un’intimità non voluta, e, in questo caso, una relazione intima tra l’aggressore e la vittima già sussiste, ed è frutto di una libera scelta (23). D’altra parte, poiché una donna sposata ha necessariamente minori aspettative di libertà e di autonomia personale, la lesione a questi interessi, conseguente allo spousal rape, è minore che nel caso in cui lo stupro sia commesso da un estraneo. Infine, si afferma, i danni psicofisici subiti dalla vittima di uno stupro coniugale appaiono comunque meno gravi di quelli provocati da una ‘‘normale’’ violenza (24). I primi due argomenti possono essere ridotti ad unum, e così sintetizzati: il dolore della vittima di uno stupro coniugale non si riflette sulla società, poiché quest’ultima dà per scontato che la donna si apetti, comunque, un po’ di sofferenza, per il solo fatto di essere sposata. È come se il sistema accettasse, all’interno della famiglia, la presenza di una certa quantità di violenza, da parte del ‘‘maschio dominante’’, nei confronti dei membri più deboli (la moglie, ma anche i figli). Ma il ragionamento non convince: seguendo tale impostazione si dovrebbero allora depenalizzare tutti i reati che un uomo commetta a danno dei suoi familiari, dall’uxoricidio ai maltrattamenti, passando per l’incesto. E neppure l’argomento che si fonda sulla presunta lievità dei danni psicofisici derivanti da uno stupro coniugale sfugge alle critiche. È stato infatti osservato (25) che, quanto più stretta è la relazione tra l’aggressore e la vittima, tanto è più probabile che la donna faccia resistenza e finisca così per subire violenze ancor più gravi. La ‘‘buona riuscita’’ di una violenza carnale dipende in gran parte dall’effetto-sorpresa e dal timore che l’aggressore riesce ad incutere alla vittima, che, paralizzata

(22) RUSSELL, Rape in marriage, 1982, p. 57 ss. (23) Model Penal Code and Commentaries, Comment to par. 213.1, 1980, p. 344 ss. (24) HILF, Marital privacy and spousal rape, New England L. Rev., 1981, p. 41. (25) AMIR, Patterns of forcible rape, 1971.


— 859 — dalla paura, si sottomette ai voleri dell’uomo. Di fronte ad un estraneo, magari anche armato, la donna si può convincere dell’inutilità di ogni lotta e lasciarsi violentare, senza subire, però, ulteriori lesioni. Oppure, la donna può reagire in maniera completamente diversa, ed opporre una seria resistenza; in questo caso, l’effetto-sorpresa potrebbe giocare a suo favore, cosicché l’aggressore, temendo le conseguenze legali del suo gesto, si spaventi e scappi via, senza usarle alcuna violenza. Ma l’aggressione che si consuma tra le mura domestiche non si svolge secondo queste regole. Da un punto di vista legale, il marito non corre alcun rischio, né lo spaventa l’idea di ingaggiare un match violento con la consorte. A sua volta, la donna ha davanti a sé un uomo che conosce intimamente, che teme di meno e che è, quindi, più disposta ad affrontare. Di conseguenza, il marito che intenda portare a termine l’aggressione non ha altra alternativa che sfruttare la sua superiore forza fisica, infliggendo alla moglie le percosse più brutali. Questo spiega per quale motivo, fra le vittime di violenza carnale, sono le donne violentate dal proprio compagno quelle che finiscono per riportare le lesioni peggiori (26). Per non contare gli effetti psicologici che, nel lungo periodo, un trattamento di questo genere rischia di provocare. Il ‘‘wife rape’’ crea, infatti, rispetto alla ‘‘comune’’ violenza carnale, ‘‘un più profondo senso di tradimento, di disillusione e di isolamento. Le donne che sono violentate ricevono, di solito, ben poco aiuto dagli amici, dai parenti e dalle istituzioni. Ma questo isolamento è ancora più terribile per le vittime di un ‘marital rape’: costoro sono maggiormente disprezzate dalla società e tendono maggiormente a disprezzare se stesse. Quando una donna è violentata dal marito non può trovare conforto e sicurezza a casa. Ella può soltanto andarsene o cercare di convivere con quanto è accaduto. Ciascuna delle due scelte ha conseguenze terribili. Scegliere di andarsene significa affrontare il trauma e i mutamenti economici, sociali e psicologici provocati dal divorzio. Ma rimanere significa essere nuovamente e ripetutamente violentata: e quando lo si è accettato la prima volta, lo si accetta anche una seconda, una terza e così via. Il fenomeno che si verifica è analogo a quello che colpisce le donne maltrattate: essere picchiate e violentate dal proprio marito determina, man mano che gli abusi continuano, la perdita progressiva della stima di sé. E minore è la stima di sé, maggiore è la difficoltà di fermare gli abusi o di lasciare il marito. Si crea così un circolo vizioso, che può condurre una donna alla follia o al suicidio (27)’’. II I sostenitori della marital exemption osservano, in secondo luogo, che il diritto penale non costituisce uno strumento idoneo per risolvere il problema dello stupro coniugale. Sarebbe meglio avvalersi, invece, di altri sistemi (il counseling, ad esempio, o la mediation), più adatti a riportare la pace in famiglia. Il ricorso al diritto penale riduce, infatti, le possibilità di una riconciliazione tra coniugi; se, invece, esso non interviene, la coppia cercherà da sola ‘‘di risolvere i propri problemi’’, ottenendone, in cambio, ‘‘un rispetto reciproco maggiore ed un più forte legame coniugale (28)’’. Secondo un’altra versione dello stesso argomento, il matrimonio sarebbe un’istituzione sacra, nel cui intimo recinto il diritto, con il suo aspetto ‘‘volgare’’ e pubblico, non potrebbe entrare. Avviene così che, per continuare a sostenere la sacralità del matrimonio, questa concezione si veda costretta ad ignorare la realtà delle cose, ossia la presenza di una situazione pericolosa ed esplosiva, costellata di abusi e violenze continui. Ma se si vuole che il diritto penale si arresti davanti ai confini del nucleo familiare, senza oltrepassarli, sarebbe necessario, allora, prevedere una causa di improcedibilità per tutti i delitti che si commettono a danno dei congiunti: perciò, nel caso di incesto, maltrattamenti, abuso di minori, l’intervento della polizia o dell’autorità giudiziaria dovrebbe lasciare il posto ad attività dei servizi sociali, di tipo terapeutico o educativo. Sic-

(26) SCHWARTZ, op. cit., p. 45. (27) RUSSELL, op. cit., p. 190 ss. (28) HILF, op. cit., p. 34.


— 860 — come, però, tutto questo non accade, né qualcuno si è mai sognato di proporlo, si deve ritenere che lo stupro coniugale rappresenti qualcosa di completamente diverso rispetto agli altri reati che il marito può commettere nei confronti della moglie, e, come tale, sia meritevole di una considerazione giuridica ‘‘separata’’. Per quanto riguarda, invece, la tesi che vorrebbe evitare l’intervento del diritto penale per non diminuire le chances di riconciliazione coniugale, si rileva come una donna che arrivi al punto di denunciare il proprio marito debba aver subito violenze tali da distruggere, ormai irreparabilmente, il matrimonio. In un contesto di tal genere è quindi perfettamente inutile domandarsi se l’eliminazione della marital exemption sia o meno d’ostacolo alla riconciliazione dei coniugi; e questa domanda non solo è inutile, ma risulta anche assai poco compatibile con le finalità del diritto penale. Essa presuppone, infatti, che, in un clima come quello descritto, i due coniugi possano essere convinti (o costretti) a rimanere insieme, e che questo possa cementare la loro unione; ma, così facendo, si finisce per sottrarre alla tutela offerta dal diritto penale tutta una serie di vittime potenziali, che meriterebbero, invece, di essere protette. A queste condizioni, viene da chiedersi se sia poi così importante che la famiglia (qualsiasi famiglia, anche quella che è teatro di fenomeni di questo tipo) sia mantenuta, sempre e incondizionatamente, intatta. È vero che perseguire in modo efficace questi reati è estremamente difficile, ma il fatto che solo alcuni dei responsabili verranno puniti non è una ragione sufficiente per escludere completamente la possibilità del ricorso allo strumento penale. III Quest’ultima osservazione consente di introdurre il terzo argomento a favore della conservazione della marital exemption, cioè quello secondo cui, anche dove la clausola non esistesse, l’applicazione della norma che punisce lo spousal rape sarebbe comunque assai infrequente, data la difficoltà di provare la realizzazione della condotta corrispondente. Nei confronti di questo argomento si possono però formulare due differenti obbiezioni. La prima è di natura teorica, e tocca il problema, fondamentale, di quale siano le finalità della norma penale. Chi sostiene, infatti, che lo scopo della norma penale è la effettualità, cioè la punizione di tutti coloro che l’hanno violata, tenderà ad accettare il terzo argomento, ritenendo che una norma meriti di vivere se ed in quanto fornisca salde garanzie di frequente applicazione. Ma chi riconosce alla norma penale la capacità di svolgere, con la sua sola presenza, una funzione generalpreventiva, inducendo i consociati ad astenersi dal comportamento proibito, non può che respingere l’argomento in questione. Il diritto penale, così concepito, potrebbe, invece, rappresentare un vero e proprio strumento educativo, in grado di ‘‘formare e rafforzare il codice morale della società’’, creando ‘‘inibizioni conscie ed inconscie che impediscono la commissione di reati (29)’’. Una volta che la norma penale abbia evidenziato il carattere ‘‘immorale’’ di una certa condotta, dichiarando di voler punire chiunque le realizzi, ne basteranno poche applicazioni per confermare il giudizio negativo nei confronti dell’autore e ristabilire i confini del comportamento ‘‘moralmente corretto’’. Anche da un punto di vista pratico, poi, l’argomento non sembra fondato. Si veda, ad esempio, ciò che è avvenuto nello Stato della California, il cui Statuto contempla, alla sezione 262, in un’autonoma fattispecie, il delitto di ‘‘marital rape’’. Nel periodo immediatamente successivo all’emanazione di questa norma (cioè nell’anno ’80-’81), i casi denunciati sono stati 24: per due di questi, essendo morta la vittima, è scattata un’imputazione di omicidio; dei restanti ventidue, nove non hanno avuto seguito perché le donne hanno ritirato la denuncia o si sono rifiutate di testimoniare; uno è terminato con un’assoluzione e dodici si sono chiusi con una pronuncia di condanna. L’esperienza ha dimostrato due cose: primo, che, in certi casi, una presa di posizione netta da parte del legislatore svolge realmente una

(29) ANDENAES, General Prevention, Jour. Crim. L., 1952, p. 179 ss.; cfr. ZIMRING AND HAWKINS, Deterrence: the legal threat of crime control, 1973, p. 81 ss.


— 861 — funzione educativa e può stimolare l’applicazione della norma di nuova creazione; secondo, che i temuti problemi di carattere probatorio non si sono verificati. Nella maggioranza dei casi, o in sede processuale (tre), o in sede preprocessuale (nove imputati ricorsero a ‘‘guilty pleas’’), la colpevolezza dell’autore è stata riconosciuta. IV Veniamo, ora, al più triviale, ma forse più comune degli argomenti utilizzati a sostegno della marital exemption, quello secondo cui le donne non sarebbero altro che ‘‘sgualdrine vendicative, che attendono l’eliminazione dell’exemption per poter ricattare il marito, al fine di ottenere una favorevole sentenza di divorzio o pareggiare qualche torto, reale o immaginario (30)’’. A dir la verità, l’idea della donna come di un’arpia bugiarda e vendicativa, che tenta di rovinare un pover’uomo innocente, accusandolo falsamente di violenza carnale, nasce, inizialmente, come reazione ‘‘maschile’’ alla criminalizzazione dello stupro in generale, ed è alla base degli innumerevoli ostacoli che, fino a qualche decennio or sono, si frapponevano alla pronuncia, per questo delitto, di una sentenza di condanna (31). Negli anni ’70, le riforme che investirono la disciplina, sostanziale e probatoria, della violenza carnale ‘‘non marital’’, dimostrarono l’infondatezza di tale pregiudizio; esso finì, in tal modo, per rifugiarsi dietro alle norme sullo stupro coniugale, impedendo l’eliminazione della marital exemption. Ora, prescindendo da ogni giudizio in ordine al merito di questa opinione, l’argomento che si fonda sull’intrinseca ‘‘falsità femminile’’ si scontra logicamente con la tesi che giustifica la presenza della marital exemption facendo leva sulle insormontabili difficoltà probatorie cui andrebbe incontro il ‘‘prosecutor’’ in un caso di spousal rape, Ma se la prova di tale crimine (e, quindi, la condanna dell’imputato) risulta così difficile, l’eventuale presentazione di una falsa denuncia per stupro coniugale non dovrebbe destare soverchie preoccupazioni. D’altra parte, per quale ragione una moglie che voglia ‘‘rovinare’’ il marito con una falsa accusa dovrebbe scegliere proprio questo reato? Uno dei motivi per i quali chi ha subito uno stupro è assai riluttante a presentare denuncia è rappresentato dal forte biasimo, dalla disapprovazione sociale che, ancor oggi, colpisce la persona che ammetta pubblicamente di essere stata violentata. Perché, allora, una donna dovrebbe, senza necessità, esporsi a tale biasimo, portare tale marchio, quando, per calunniare il marito, ha tanti altri tipi di reato a propria disposizione? Un identico risultato potrebbe infatti essere ottenuto mediante una falsa accusa di maltrattamenti, ovvero, e con effetti forse ancor più dannosi, denunciando il coniuge per evasione fiscale. In verità, non vi è prova alcuna che le mogli sfruttino in questo modo il sistema penale, né che lo faranno in futuro, solo perché alla lista dei reati che il marito può commettere nei loro confronti se n’è aggiunto uno in più (32). La conferma di quanto si è detto proviene dai dati relativi alle denunce per lesioni personali presentate nei confronti del coniuge. Negli Stati che conservano l’exemption, i giudici ricorrono, talvolta, all’escamotage di trasformare il delitto di rape, improcedibile, nella fattispecie di personal injuries (33): eb-

(30) Per una rassegna di pregiudizi misogini similari, v. SCHWARTZ, op. cit., p. 51. (31) Ad esempio, la common law esigeva che la testimonianza della vittima di un’aggressione sessuale fosse confermata da altri elementi di prova (‘‘requirements of corroboration’’, sul quale v. il caso WILEY, United States Courts of Appeal, D.C. Circuit F.2d, 1974, p. 547); la donna doveva, inoltre, fornire la prova della resistance e dell’assenza di consenso. Al contrario, l’imputato poteva ottenere l’ammissione di testimoni che deponessero sulla precedente ‘‘vita sessuale’’ della vittima, per screditarla agli occhi della giuria e diminuirne la credibilità. (32) SCHWARTZ, op. cit., p. 53. (33) KARRELL, Toward abolition of interspousal tort immunity, Montana L. Rev., 1975, p. 251.


— 862 — bene, neppure per questo reato si è registrata la presenza di ‘‘orde di mogli vendicative, pronte a sfruttare tale opportunità (34)’’. Più in generale, si osserva come il sistema della giustizia penale riceva regolarmente, per ogni tipo di reato, un certo numero di denunce false; la loro scoperta è il frutto dell’azione congiunta di tutte le parti di cui il sistema si compone: la polizia e il pubblico ministero, il giudice e la giuria. Ora, il solo modo per giustificare, in base al quarto argomento, la marital exemption è quello di assumere che l’unico caso in cui tutte queste difese, tutti questi sbarramenti si inceppino e non possano più funzionare si verifichi di fronte ad una falsa denuncia di marital rape. È esclusivamente a queste condizioni, cioè per proteggere un sistema ormai privo di difese, che appare sensata la scelta di sacrificare un intero gruppo di potenziali vittime, escludendole dalla tutela penale. V L’ultimo degli argomenti che tentano di giustificare l’ingombrante presenza della marital exemption sostiene che l’eliminazione di quest’ultima non sarebbe affatto necessaria, essendo le donne già sufficientemente protette dal diritto di famiglia (soprattutto dalla normativa in tema di divorzio) e dalla possibilità, che, anche dove vige l’exemption, le mogli conservano, di denunciare il coniuge stupratore per il reato di ‘‘assault’’. Anche questo argomento risulta, tuttavia, facilmente confutabile. Non va, infatti, dimenticato che, pur avendo un carattere particolare, lo stupro coniugale è e rimane una forma di rape; si tratta, quindi, di un delitto molto grave, che non si riduce ad una specie di ‘‘cattiva condotta coniugale (35)’’, date le profonde ferite psichiche e, spesso, anche fisiche che esso provoca alla vittima. La sua assimilazione al reato di ‘‘assault’’ risulta, perciò, quanto mai infelice: nella sua forma semplice, l’assault è una mera contravvenzione, e diventa un delitto solo se commesso con ‘‘armi mortali o strumenti pericolosi’’ o se la vittima ha subito ‘‘lesioni gravi’’ (36); al contrario, nel sistema statunitense, il delitto di rape ‘‘è generalmente riconosciuto come uno tra i più gravi violent crimes (37)’’. Altrettanto inopportuno appare, infine, il riferimento al divorzio come possibile via di soluzione per una donna che non intenda più subire le violenze del marito. È, d’altra parte, assai curioso che questa opportunità venga suggerita, soltanto alle mogli violentate, e mai, o raramente, ai mariti sessualmente insoddisfatti. 4. Rilievi conclusivi. — Alla luce delle considerazioni svolte, la continua presenza, nella maggior parte degli Statuti americani, della marital rape exemption, appare, da un punto di vista logico, del tutto inspiegabile. Le ragioni storiche che ne erano alla base sono cadute; gli argomenti teorici e pratici che ne dovevano fornire una più recente giustificazione sono stati confutati: ma l’exemption rimane, e tale è il suo vigore che essa viene estesa sino a ricomprendere soggetti che, tradizionalmente, non ne avevano mai beneficiato, quali i conviventi, i fidanzati ed i ‘‘social voluntary companions’’. In realtà, l’exemption rimane e si espande perché le sue vere radici, la latente misoginia del legislatore e la sua concezione patriarcale della famiglia non sono mai state tagliate. Nella maggior parte dei casi di cui si è avuto notizia, il marital rape si realizza in un contesto di gravi e continui maltrattamenti fa-

(34) SCHWARTZ, op. loc. ult. cit. (35) ‘‘Matrimonial misconduct’’: FREEMAN, But if you can’t rape your wife, who(m) can you rape? The marital exemption re-examined, Family L. Quat., 1981, p. 21. (36) Cfr. Model Penal Code, Section 211.1. (37) J. POWELL, in Furman v. Georgia, U.S., 1976, p. 458.


— 863 — miliari, di ‘‘domestic hooliganism (38)’’, tollerato (se non autorizzato) dal legislatore quale retaggio del tempo in cui il marito aveva il diritto di correggere e guidare le azioni della moglie mediante l’inflizione di ‘‘moderate punizioni corporali (39)’’. Sebbene l’ordinamento si sia ormai liberato di un simile diritto, ‘‘l’ideologia patriarcale’’ che vi era sottesa ‘‘ha continuato a serpeggiare all’interno del sistema, nonostante che la sua più evidente manifestazione sia stata, in teoria, eliminata’’. Ed è questa ideologia ‘‘che occorre combattere perché la violenza contro le donne diminuisca e, alla fine, scompaia del tutto... Ma, sino a quando il marital rape verrà considerato legittimo, è difficile che la violenza che colpisce le donne nella loro stessa casa possa mai essere eliminata (40)’’. ALESSANDRA SZEGÖ Dottoranda di Diritto penale nell’Università di Pavia

(38) Così ha definito i maltrattamenti in famiglia il giudice inglese Sir George Blake, in Davis v. Johnson, All. F.R., 1978, p. 860. (39) BLACKSTONE, in Commentaries, cit., p. 444, così spiega l’attribuzione al marito del ‘‘right of moderate chastisement’’ nei confronti della moglie: poiché l’uomo era legalmente responsabile del comportamento della sua donna, il diritto gli riconosceva il potere di controllarla facendo uso di ‘‘moderate punizioni corporali’’. In DOBASH and DOBASH, Violence against wives, 1980, p. 56, il periodo che va dal XVI al XIX secolo è definito come ‘‘la grande età della frusta’’. Il ricorso alla frusta era infatti considerato, all’epoca, un ‘‘mezzo di controllo sociale dei soggetti subordinati: donne, bambini e appartenenti alle classi inferiori’’. (40) FREEMANN, Legal system, patriarchal ideologies and domestic violence, in Research in law, deviance and social control, 1982, p. 154-155.


NOTIZIE

IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI DOPO CINQUE ANNI DI SPERIMENTAZIONE (VIII CONVEGNO DELL’ASSOCIAZIONE TRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO PENALE)

Nella splendida cornice di Baia delle Zagare, si è tenuto a Mattinata — nei giorni 23, 24 e 25 settembre 1994 — l’VIII Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, organizzato con la collaborazione della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari. Il tema prescelto (« Il giudice delle indagini preliminari dopo cinque anni di sperimentazione ») ha riguardato uno dei punti « nevralgici », e maggiormente problematici per l’attuazione del nuovo codice di procedura penale, in relazione particolarmente alle sentite esigenze di garanzia giurisdizionale sulle istanze di libertà personale nella fase delle indagini. È emersa fin dall’inizio, infatti, l’opinione largamente diffusa della necessità di una riforma del ruolo del giudice per le indagini preliminari. A tale proposito, il Convegno ha rappresentato l’occasione, oltre che per un approfondito e proficuo confronto, per la diffusione di un documento propositivo, con annesso uno schema di disegno di legge, elaborato dai presidenti delle sezioni gip presso i dodici maggiori tribunali, inteso a rafforzare la posizione di terzietà e la funzione di garanzia del gip, anche tramite interventi sulla struttura organizzativa del relativo ufficio. Dopo il saluto del prof. Giovanni Conso, presidente dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, che ha invitato a non radicalizzare lo scontro fra le opposte posizioni, ed i ringraziamenti del prof. Vincenzo Garofoli, ha preso la parola per l’inaugurazione il prof. Vincenzo Starace, preside della facoltà di giurisprudenza dell’ateneo barese. Egli ha innanzitutto richiamato l’importanza degli impegni internazionali assunti dall’Italia, soprattutto in materia di diritti della persona. La relazione introduttiva avrebbe dovuto essere tenuta dal prof. Gian Domenico Pisapia, presidente emerito dell’Associazione, il quale non ha però potuto presenziare al Convegno, sicché il suo contributo scritto è stato letto dal prof. Vittorio Grevi, segretario dell’Associazione. Sottolineando l’attualità del tema prescelto e richiamando l’importanza della figura del giudice per le indagini preliminari — organo nuovo di controllo e di garanzia sulle indagini, sempre più fortemente squilibrate in danno della difesa — la relazione ha osservato, in primo luogo, la necessità di una distinzione, che non ha trovato accoglimento nell’ordinamento giudiziario, tra le figure del gip e del giudice dell’udienza preliminare (gup). Quest’ultimo, infatti, svolge una funzione propriamente giurisdizionale dopo l’esercizio dell’azione penale, mentre il primo ha un potere preprocessuale di diversa natura ad emanare provvedimenti incidentali temporanei, sostanzialmente privi di giurisdizionalità « oggettiva ». L’ordinamento giudiziario, al contrario, prevede la sola figura del gip, cui sono assegnate anche funzioni di gup. Sulla base di tale premessa sono stati evidenziati alcuni nodi problematici del tema oggetto del Convegno, il cui approfondimento sarebbe stato svolto dai relatori particolari: in primo luogo, la funzione giurisdizionale del gup nell’ambito di un’udienza, quella preliminare, dalle dimensioni ancora incerte nella prassi, ma intesa dal legislatore quale strumento diretto a consentire, ove possibile, una più pronta definizione della regiudicanda, al fine di evitare dibattimenti inutili; i limiti del ruolo di « controllo » e di « garanzia » del gip sulle richieste del pubblico ministero (incidente probatorio, intercettazione di comunicazioni, proroga delle indagini), derivanti da quello che viene efficacemente defi-


— 866 — nito il « privilegio investigativo ». Detti limiti si evidenziano con eccezionale acutezza in riferimento alle misure cautelari coercitive custodiali, ove un lamentato uso largo ed improprio della custodia cautelare deriverebbe dall’« appiattimento » del gip sulle richieste del p.m., in grande misura riconducibile alla contiguità ed alla colleganza tra p.m. e giudice, provenienti dalla stessa carriera e con funzioni intercambiabili. È stato così preannunciato quello che nel dibattito successivo si è mostrato come il punto di maggior contrasto, ovvero la questione relativa all’eventuale separazione delle carriere. In proposito, tuttavia, la relazione introduttiva ha sottolineato la necessità di reperire rimedi alternativi, dato che la separazione delle carriere non appare obiettivo raggiungibile in tempi brevi. Da ciò l’esigenza di aumentare il numero dei gip, ma soprattutto — secondo il prof. Pisapia — la creazione dell’obbligo per il p.m. di porre a disposizione del gip, così come dei difensori, il fascicolo investigativo. Il prof. Vladimiro Zagrebelsky ha tenuto la prima delle relazioni previste sul tema « Il giudice per le indagini preliminari nel quadro dell’ordinamento giudiziario ». Il relatore ha ricordato come, in vista dell’entrata in vigore del nuovo codice, fosse effettuata la scelta di abrogare l’art. 44 dell’ordinamento giudiziario, che disciplinava l’ufficio di istruzione penale del tribunale. Con ciò si intendeva evidenziare il senso profondo della riforma processuale che aveva voluto l’abolizione della figura del giudice istruttore. Diversamente da quest’ultima, infatti, quella del gip avrebbe dovuto costituire una delle ordinarie funzioni attribuite ai magistrati dell’ufficio giudicante, in via tabellare, sul presupposto dell’identità di posizione dei giudici all’interno degli uffici. Tuttavia, l’impianto originario dell’ordinamento giudiziario è stato profondamente alterato con il d.l. 25 settembre 1989, n. 327 (conv. in l. 24 novembre 1989, n. 380), proprio al fine — prima rinnegato — di non disperdere le esperienze professionali acquisite nella dirigenza dell’ufficio istruttorio. La presidenza delle sezioni dei gip dei dodici maggiori tribunali è stata attribuita, in organico e non più a rotazione tabellare, ad un magistrato di cassazione; è stato istituito nell’organico delle stesse sezioni il posto di presidente aggiunto, da affidare ad un magistrato di appello: in tali ruoli venivano confermati i dirigenti dei vecchi uffici di istruzione, assicurando proprio quella continuità che si era inizialmente voluta interrompere. Tale continuità, personale ed organizzativa, tra i vecchi uffici di istruzione e le nuove sezioni dei gip, ha comportato la naturale prosecuzione dell’antica convivenza tra giudice istruttore e pubblico ministero. Resta chiaro che il gip svolge nel nuovo processo un ruolo del tutto diverso da quello del vecchio giudice istruttore, anche se la disposizione che stabilisce la concentrazione in capo allo stesso giudice di tutti gli incidenti probatori e di tutti i provvedimenti relativi allo stesso procedimento (art. 7-ter, ord. giud.) attenua di molto l’affermata terzietà del gip. Secondo il prof. Zagrebelsky, occorre intervenire sul piano dell’ordinamento giudiziario, da un lato, riequilibrando il rapporto numerico tra gip e p.m. onde consentire un’adeguata e autonoma valutazione delle richieste; dall’altro, riportando i gip alla struttura e alla disciplina ordinaria dei giudici appartenenti al tribunale, per incoraggiare l’avvicinamento del gip alla cultura professionale del giudicante. Sarebbe quindi necessario, per il relatore, non tanto un gip « più forte » — ciò che lo ricondurrebbe nel solco antico del giudice istruttore — quanto piuttosto un gip « più diverso » rispetto al p.m., in quanto più simile al giudice del dibattimento. Solo un tale gip potrebbe avvertire il limite derivante dalla mancanza del contraddittorio. La successiva relazione, svolta dal prof. Glauco Giostra, si è diretta a tratteggiare il ruolo del gip in relazione al delicato e vivo problema delle garanzie della libertà personale in questa fase del procedimento penale. Il prof. Giostra ha mosso dal dato non controverso che l’attuale disciplina normativa non prevede né tollera che la custodia cautelare si faccia mezzo di ricerca della verità o, peggio, anticipazione della pena. Se ciò tuttavia accade, significa che siamo in presenza di un « tralignamento dalle regole », cui deve essere posto rimedio, o tornando alle regole ovvero decidendo la modifica delle stesse. Diversi sono i disegni ed i progetti di legge di iniziativa governativa o parlamentare, per modificare le regole, cui si aggiunge la nota proposta presentata da alcuni magistrati della Procura di Milano, che muove però, unica, nella direzione di ampliare le ipotesi di ricorso alla custodia cautelare. Anche se alcune delle modifiche proposte appaiono apprezzabili, il rimedio al possibile


— 867 — abuso del potere coercitivo cautelare non è, in realtà, questione di modifica delle regole, bensì di adeguate garanzie nel suo momento applicativo. Se è vero, infatti, che nel nuovo codice la libertà personale rientra a pieno titolo nell’ambito esclusivo della giurisdizione, è proprio il ruolo del gip ad apparire di conseguenza determinante. Il potere di quest’ultimo sarebbe, tuttavia, così fortemente condizionato dalle allegazioni dell’istante da risultare nei fatti più che un potere di decidere sullo status libertatis dell’inquisito, una potestà autorizzatoria delle scelte compiute dal p.m. Non va infatti taciuto che il gip nell’adottare provvedimenti de libertate ha una responsabilità pari a quella del giudice del dibattimento, senza però averne — per fattori di carattere ordinamentale, cognitivo e decisorio — la corrispondente autorità. Ed è soprattutto sul piano conoscitivo che l’attività giurisdizionale del gip subisce le più ampie e profonde limitazioni, dal momento che il p.m. seleziona gli atti di indagine per fondare le sue richieste e su di essi soltanto il gip è chiamato a decidere della libertà della persona sottoposta alle indagini. Nel momento in cui quest’ultima indicasse fonti di prova a discarico, il gip non ha alcun potere di accertare se il p.m. abbia già indagato in quella direzione, né di eventualmente compulsare egli stesso la fonte. Resta forte però la resistenza a imporre al p.m. la discovery in una fase così delicata quale quella delle indagini, quasi fosse coessenziale alla natura delle stesse che il giudice abbia lo stesso limitato orizzonte cognitivo dell’inquisito. L’altro punto cardine al fine del rafforzamento della giurisdizione del gip è stato individuato dal prof. Giostra nell’indispensabilità del contraddittorio, che resta il metodo principe di esercizio del diritto di difesa. Tale contraddittorio, pur rimanendo di tipo « successivo » nel procedimento cautelare, dovrebbe aver luogo immediatamente dopo l’esecuzione della misura e non nella sola ipotesi di gravame davanti ad un diverso organo giurisdizionale. Il gip dovrebbe, infatti, realizzare un contraddittorio de libertate tra accusa e difesa, poiché questo momento dialettico può rappresentare un arricchimento decisivo per le sue successive determinazioni. Qualora, poi, la difesa invocasse elementi probatori a discarico, dovrebbe essere previsto un potere del gip di integrazione probatoria tutte le volte che venga ravvisata la possibilità di attingere a fonti apparentemente decisive per risolvere la quaestio libertatis. Un tale rafforzamento della figura del gip, oltre che essere più corretto sul piano tecnico, sarebbe, a giudizio del relatore, anche la via più praticabile sul piano politico. La seconda giornata di lavoro del Convegno, presieduta dal prof. Gilberto Lozzi, si è aperta con la relazione del prof. Paolo Ferrua, sul ruolo del gip in relazione al tema dell’acquisizione delle prove. Il relatore ha dato inizio alla sua esposizione con una nota critica sull’accostamento tra gip e acquisizione delle prove. « Signore effettivo » delle prove che si acquisiscono nell’indagine preliminare sarebbe il p.m. e non certo il gip. Invero, tutte le dichiarazioni assunte dal p.m. assumono sostanzialmente valore probatorio nel dibattimento, con la conseguenza di privare di ogni significato l’istituto dell’incidente probatorio e di trasformare l’indagine preliminare in una « gigantesca istruzione sommaria » a tutto svantaggio del dibattimento. Proprio dal valore da conferire agli atti compiuti dal p.m. e dalla funzione da riconoscere al dibattimento occorre muovere per sciogliere il nodo del ruolo del gip in relazione all’acquisizione della prova. Quanto al primo punto, il prof. Ferrua ha espresso l’avviso che sia necessario respingere ogni tentativo di « barattare il valore probatorio assunto dagli atti del pubblico ministero con concessioni dello stesso tipo per le indagini della difesa », come proposto da ultimo dall’Unione delle Camere Penali. Ciò in quanto soluzioni di tal fatta, che nascono dall’ottica della costruzione « unilaterale » della prova, se accettabili sotto il profilo della salvaguardia delle garanzie individuali, si porrebbero insanabilmente in contrasto con l’esigenza di assicurare che il processo giunga ad un’attendibile ricostruzione del fatto storico. Presupposto irrinunciabile di quest’ultima è infatti il riconoscimento del valore essenziale del contraddittorio nella formazione della prova in dibattimento. In altri termini, mentre appare legittimo riconoscere valore probatorio agli atti del p.m. ai fini delle misure cautelari e dei riti negoziali, l’unilateralità dell’atto deve escluderne la sua valorizzazione come prova al dibattimento « dove si accerta la colpevolezza ». Quanto al rapporto tra dibattimento e incidente probatorio, ritenuta l’impraticabilità


— 868 — della riaffermazione dell’eccezionalità dell’incidente rispetto alla centralità del dibattimento, si è proposto l’ampliamento delle ipotesi di accesso all’istituto oltre quelle attualmente previste, purché l’atto appaia rilevante o « decisivo », con la conseguenza di rendere l’oralità un valore « disponibile » ma riaffermando l’inderogabilità del contraddittorio. Affermando poi l’accesso delle parti all’incidente probatorio, snellendone la farraginosa procedura attuale, si consente anche alla difesa l’esercizio del diritto alla prova. Essenziale rimane il fatto che anche nell’incidente probatorio venga assicurata la pienezza e l’effettività del contraddittorio, il quale, insieme alla separazione dei ruoli processuali e all’indipendenza della magistratura, rappresenta il cardine della giurisdizione. La seconda relazione in programma è stata svolta dal prof. Vincenzo Perchinunno ed ha avuto ad oggetto il giudice per le indagini preliminari e le scelte relative all’azione penale. Partendo dalla necessaria premessa dell’obbligatorietà dell’azione penale, il prof. Perchinunno ha tratteggiato i modi di un controllo giurisdizionale efficace sull’attività di indagine, anche prima cioè che venga esercitata l’azione penale stessa. In proposito, è noto che il gip esercita una funzione di garanzia e di controllo squisitamente « eventuale » nel corso delle indagini preliminari, in quanto egli può intervenire soltanto « nei casi previsti dalla legge » e su richiesta delle parti (art. 328 c.p.p.). Tuttavia per aversi un controllo non meramente formale sull’azione penale, occorrerebbe anticipare la possibilità di intervento del giudice in un momento antecedente in cui il materiale probatorio si presenti ancora fluido. Tale esigenza deriverebbe dalla constatazione che, in molti casi, l’esercizio dell’azione penale nonché il futuro esito del processo sono condizionati dalle determinazioni inizialmente assunte dal p.m., in assenza di contradditorio e di controllo giurisdizionale. Per quel che attiene, poi, al controllo giurisdizionale sull’osservanza della durata delle indagini, a giudizio del relatore, esso appare imprescindibilmente legato al problema del controllo sulla effettiva utilizzazione da parte del p.m. della durata originaria delle stesse, sanzionandone l’eventuale inattività. Quanto al controllo da parte del giudice sull’imputazione, che non è altro se non il controllo sulla enunciazione del fatto storico, la sua sede naturale è certamente l’udienza preliminare. D’altra parte, è stata sottolineata la necessità di un costante controllo, anche di merito, da parte del giudice, sulla ricostruzione del fatto già a partire dalla notitia criminis al fine di « salvaguardare i diritti fondamentali della persona sottoposta alle indagini ». Sul tema della eventuale « interferenza investigativa » da parte del gip sull’attività del p.m., qualora non ritenga di accogliere la richiesta di archiviazione formulata da quest’ultimo, il prof. Perchinunno, conformemente alle opinioni di buona parte della dottrina, ha espresso dubbi circa la capacità della vigente disciplina di garantire, in assenza di una effettiva partecipazione delle parti, il pieno controllo della richiesta di archiviazione. L’analisi successivamente condotta sul controllo da parte del gip della richiesta di rinvio a giudizio, così come di uno dei procedimenti speciali alternativi, ha costituito ulteriore conferma della tesi, sostenuta dal relatore, della necessità di un più penetrante intervento del giudice al fine di garantire il corretto esercizio dell’azione penale. Ciò sul presupposto ineludibile dell’autonomia del giudice rispetto al p.m. Nella successiva relazione, dedicata a « Il giudice per le indagini preliminari e i procedimenti speciali », il prof. Giorgio Spangher, dopo aver ricordato i punti salienti dell’esperienza attuativa del nuovo giudice, ha posto in rilievo come la crisi del ruolo del gip sia soltanto una delle manifestazioni della mancata tenuta del sistema nel suo complesso. Sul gip, infatti, da un lato, si è andato ad incardinare l’incerto rapporto creato dal legislatore fra pena e premialità nei giudizi speciali, dall’altro si sono scaricati ampi poteri negoziali in materia di giurisdizione nonché la disponibilità stessa dell’azione penale. Significativo in proposito è il fatto che il gip potrebbe essere definito il giudice della « premialità consensuale »: è autorizzato a controllare il consenso delle parti, ma non è lui a controllare l’eventuale dissenso. Analizzati con ampiezza di riferimenti i vari poteri del gip in relazione ai procedimenti speciali, il prof. Spangher è passato ad esaminare i relativi momenti di crisi. Quanto al patteggiamento, il maggiore di essi sembrerebbe derivare dal fatto che il gip risulta attratto


— 869 — nella logica negoziale che caratterizza l’istituto. Le parti sanno infatti che l’accordo tra esse intervenuto non avrà alcun effetto senza l’assenso del gip. In altri termini, quest’ultimo, invece di svolgere un potere di mero controllo dell’accordo, si troverebbe in realtà a partecipare direttamente allo stesso. Relativamente al giudizio abbreviato, invece, l’impossibilità di richiedere questo tipo di procedimento speciale nelle ipotesi di delitto punibile con l’ergastolo, impedirebbe al gip di rilevare l’esistenza in atti di una circostanza che comporti di per sé la « derubricazione » dell’ergastolo ed alla parte di eccepirne l’esistenza per lucrare il premio. D’altra parte la mancanza di una qualsiasi forma di integrazione probatoria limita nei fatti l’esercizio del potere giurisdizionale. Nel procedimento per decreto, il p.m. può chiedere l’abbattimento sino alla metà del limite edittale minimo che il giudice può negare senza bisogno di motivare: se però il p.m. non la richiede o il giudice non la concede, l’imputato non potrà più ottenere una tale riduzione. Se la premialità non è un diritto, non può neppure essere però frutto di circostanze occasionali. Per il giudizio immediato, infine, esiste il problema del controllo sulla valutazione operata dal gip sul requisito dell’« evidenza ». Il meccanismo sta tutto tra tempi del processo e premio. Per ciò l’imputato non ha interesse a richiedere tale tipo di giudizio. La relazione si è conclusa sottolineando, da un lato, la necessità di ridurre l’uso dei poteri ad ottenere la confessione dell’indagato; dall’altro, la parallela esigenza di riconoscere maggiori poteri alla difesa nelle indagini, baricentro del processo attuale, consentendo altresì in questa fase l’introduzione di elementi probatori onde recuperare il contraddittorio a vantaggio dell’effettiva terzietà del giudice. Successivamente si è aperto, con l’intervento del cons. Sarzana, un vivace e proficuo dibattito fra i partecipanti sulle cause dell’attuale debolezza del gip e sui possibili rimedi. Fra gli intervenuti, nella giornata conclusiva del Convegno nella quale il dibattito è proseguito, il prof. Mario Chiavario ha richiamato l’esempio di altri paesi, quali la Francia e l’Inghilterra, colti da nostalgie « istruttorie », ed ha sollecitato l’urgenza di ripensare l’intero sistema del controllo giurisdizionale nella fase delle indagini. Subito dopo ha avuto luogo la tavola rotonda, con la partecipazione del cons. Franco Ippolito, dell’avv. Vittorio Chiusano, del cons. Italo Ghitti e del cons. Marcello Maddalena. Il cons. Ippolito ha sottolineato che, mentre il comitato ristretto della commissione giustizia ha ripreso la discussione sulla sola custodia cautelare, la modifica del ruolo del gip — apprezzando la proposta del prof. Giostra — resta uno dei punti fondamentali da affrontare per qualsiasi riforma sulla custodia cautelare: non può essere terzo un giudice che deve farsi carico delle richieste dell’accusa e decidere su di esse senza contraddittorio. L’avv. Chiusano ha concordato che il problema della terzietà del gip è uno dei più avvertiti in ambito operativo. Il cons. Ghitti ha messo in rilievo come la terzietà del gip venga forzatamente meno quando una delle due parti (la difesa) non ha la possibilità, per un difetto nell’impianto codicistico, di far valere le sue ragioni indipendentemente dal p.m.: qui sta la causa profonda del cosiddetto « appiattimento » del gip sulle ragioni del p.m. Un rimedio potrebbe consistere nel prevedere una sorta di reclamo al gip sulle richieste della difesa non accolte dal p.m. D’altronde, si è dato risalto al fatto che la misura cautelare adottata inaudita altera parte diventa stabile con il solo limite dell’interrogatorio del giudice, il quale si deve spesso fare carico delle ragioni dell’accusa. A questo punto ha preso la parola il guardasigilli, on. avv. Alfredo Biondi, che ha portato il suo contributo alla discussione in corso dando conto degli sviluppi del dibattito parlamentare, evidenziando la necessità di un ripensamento generale sul processo penale ed esprimendo la personale contrarietà alla ventilata proposta della separazione delle carriere in magistratura. Il cons. Marcello Maddalena ha a sua volta affermato di non credere alla separazione delle carriere quale rimedio alla situazione attuale. Tuttavia la terzietà del giudice non è certamente esaltata dall’ignoranza; il contraddittorio vive solo della conoscenza più completa, non limitata alle poche parole espresse davanti al giudice. Tutto il processo penale deve es-


— 870 — sere rimeditato, avendo ben chiaro quale risultato si vuole raggiungere ed il bisogno di verità del paese. Dopo le repliche dei partecipanti alla tavola rotonda, è proseguito vivace e proficuo il dibattito, che ha visto partecipi molti esponenti della magistratura, fra i quali i cons. Giovanni Salvi, Aniello Nappi, Giorgio Lattanzi, nonché il prof. Giuseppe Ruggiero. Nella relazione di sintesi il prof. Giovanni Conso, richiamandosi al suo monito iniziale, ha sottolineato come il clima teso e rissoso non abbia consentito una revisione profonda e coordinata del sistema codicistico. Ciò posto, si possono utilizzare gli indirizzi interpretativi forniti dalla legge-delega, ossia i valori fondamentali del processo, per muovere « piccoli passi » nel senso della soluzione dei due problemi che appaiono essenziali alla luce delle questioni prospettate e delle indicazioni emerse dal Convegno. Considerata l’estensione dei poteri del gip, quale emerge già dalla delega nonché dalle modifiche suggerite, appare, in primo luogo, assolutamente necessario l’aumento dell’organico dei gip, oggi sottodimensionato. Il secondo punctum dolens è poi, senza dubbio, il bisogno di garantire la difesa nel corso delle indagini preliminari, particolarmente in relazione ai provvedimenti restrittivi della libertà personale. Circa tale aspetto, procedimenti di controllo più articolati in tale fase imporrebbero l’anticipazione del contraddittorio con sacrificio dell’oralità del dibattimento. Con attenzione poi agli interventi immediatamente percorribili, il prof. Conso ha prospettato la possibile anticipazione dei riti alternativi all’udienza di convalida dell’arresto o del fermo nonché la necessaria sospensione dei termini di custodia cautelare per lo sciopero dei difensori nell’udienza preliminare. dott. NICOLETTA FELLI dell’Università di Firenze


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

ANGIONI F., Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 424. 1. È indubbio che il concetto di pericolo abbia assunto un rilievo dommatico preminente in molte parti della teoria generale del reato, sia come parametro di valutazione della costituzionalità delle fattispecie, sia come paradigma di tutela anticipata dei beni giuridici. È altrettanto evidente che il pericolo entri a far parte del tipo descrittivo della fattispecie in molte disposizioni della parte speciale. Diventa allora pregiudiziale ad ogni scelta politicocriminale sulla misura della tutela da assicurare ai singoli beni giuridici, e quindi sulla tecnica di tutela da adottare, l’esatta delineazione del pericolo come elemento del reato: « In una parola, non è rigoroso discettare delle forme e delle tecniche di tutela se prima non si sa o non si è d’accordo su quale preciso contenuto possieda il pericolo espresso nelle fattispecie ». È questo l’oggetto dell’articolata e poderosa opera di Francesco Angioni, che costituisce l’approfondimento di un precedente studio pubblicato, in due volumi, nel 1981 e nel 1984. La monografia si compone di quattro capitoli dedicati, rispettivamente, alla qualificazione gnoseologica del pericolo, all’analisi delle posizioni assunte in dottrina, alla elaborazione di un nuovo modello di giudizio di pericolo, ed, infine, ad una aggiornata panoramica del dibattito dottrinale degli anni settanta e ottanta. 2. Viene innanzitutto preso in esame il problema della natura del pericolo, su cui la dottrina è tradizionalmente divisa tra i fautori del pericolo come giudizio e i sostenitori dell’ammissibilità del pericolo ad una situazione-evento, esistente in rerum natura. Dal superamento critico di tali posizioni contrapposte emerge una qualificazione gnoseologica del pericolo più precisa. Da un lato, vi è la constatazione che il pericolo non è mai una situazione tout court, ma sempre attributo di una entità, cui accede; dall’altro lato, questa situazione va posta in relazione con un altro fatto o evento che si vuole evitare. Il pericolo è, dunque, qualificabile come relazione, accostabile, in modo generico in questa prima parte dell’analisi, al concetto di possibilità-probabilità, che collega tra loro una entità certa ed esistente con un fatto solo ipotetico. È in questo secondo termine della relazione che il pericolo si differenzia dal rapporto di causalità, in cui è essenziale la certezza dei due estremi di riferimento della relazione. Questo imprescindibile dato di fatto consente all’Autore di fissare un primo punto fermo, con importanti risvolti pratici: mentre la relazione di causalità, intercorrendo tra due elementi esistenti, richiede un accertamento ex post, il giudizio di pericolo consiste necessariamente in una prognosi volta ad accertare se avverrà oppure no un evento futuro. 3. La monografia dedica ampio spazio ai risultati a cui è pervenuta la dottrina degli anni cinquanta e sessanta sul tema, evidenziando attraverso un costruttivo apporto critico gli sviluppi del dibattito dottrinale. L’orientamento tradizionale accerta la sussistenza del pericolo con un giudizio ex ante su base ontologica parziale, che considera rilevanti ai fini della prognosi solo le circostanze che al momento della condotta sono conosciute dal soggetto agente, nonché quelle riconoscibili da un osservatore oggettivo posto nella stessa situazione. La tesi è stata messa in discussione sotto due profili: da un lato è stata evidenziata la rigidità della fissazione del momento del giudizio esclusivamente con la condotta, a fronte di


— 872 — una articolata varietà di posizioni che il pericolo può assumere all’interno delle fattispecie. Dall’altro lato, si è sostenuto come la base ontologica parziale sia troppo ristretta e di difficile accertamento, essendo ancorata al criterio di riconoscibilità delle circostanze. In questa direzione si sviluppa un orientamento (di cui si fa interprete la dottrina tedesca) favorevole all’adozione della base ontologica totale nell’accertamento della struttura oggettiva del pericolo. Ad avviso dell’Autore le impostazioni emerse anche successivamente, nel dibattito dottrinale degli anni ’70, vanno incontro a pesanti obiezioni. La tesi italiana non rende ragione dell’adozione di differenti criteri di giudizio in correlazione con la struttura delle fattispecie; in particolare cade nell’errore di utilizzare per l’accertamento di un elemento oggettivo criteri validi per l’accertamento dell’elemento soggettivo, come il riferimento alla conoscibilità delle circostanze. L’altra impostazione risalente come è noto a Schröder non riesce ad evitare l’impasse rappresentato dal trasferimento nelle fattispecie di pericolo dei criteri di accertamento della causalità condizionale: infatti, la prospettiva ontologica totale ex post porta ad affermare che solo la presenza dell’evento lesivo è in grado di indicare la sussistenza di un precedente pericolo, con conseguente snaturamento delle fattispecie di pericolo in fattispecie di lesione, mentre la mancanza dell’evento dannoso rivelerebbe l’assenza di pericolo, con ovvia impraticabilità di fattispecie a tutela anticipata. 4. La parte centrale della monografia è dedicata alla elaborazione di un nuovo modello di giudizio di pericolo, analizzato nei suoi tre aspetti essenziali: (a) base del giudizio; (b) metro del giudizio; (c) momento del giudizio. a) Come già si evince dalla panoramica offerta sulle diverse posizioni assunte dalla dottrina, la base del giudizio prescelta è quella ontologica totale ex ante, che prende in considerazione tutte le circostanze esistenti al momento del fatto tipico, alle quali vanno aggiunte in via di eccezione le sole circostanze future certe che sono implicite nella stessa situazione presente assunta a base del giudizio. L’Autore previene a questo punto una possibile obiezione, ossia che l’esito del giudizio alla luce della totalità delle circostanze del caso non sarà di pericolo, ma di certezza. L’osservazione appare all’Autore fondata solo nei riguardi dei fenomeni meramente naturalistici, retti da leggi deterministiche. Al contrario, la conoscenza di tutte le circostanze del caso non è mai in grado di fornire un pronostico in termini di certezza in ordine alla realizzazione dell’evento, tutte le volte in cui la situazione concreta sia connotata dall’intervento di comportamenti umani, i quali non sono sottoposti a principi deterministici e non sono quindi predeterminabili, ma solo prevedibili. Tuttavia, anche nel campo degli accadimenti puramente fisici, e tanto più in quello dei fenomeni psicologici e sociali, la base del giudizio potrà essere solo tendenzialmente totale, in quanto i limiti di origine epistemologica ostacolano la comprensione di tutti gli aspetti della realtà. b) Le circostanze presenti nel caso concreto costituiscono il substrato del fatto che deve essere interpretato. Il metro del giudizio è allora il criterio che illumina la base del giudizio e si compone di leggi scientifiche generali, che contengono asserzioni su classi di avvenimenti. Tuttavia, a differenza del giudizio sul rapporto di causalità — che si accerta sia a mezzo di leggi universali, che stabiliscono una connessione rigorosamente uniforme tra fenomeni, sia a mezzo di leggi statistiche, che fissano in termini di probabilità il rapporto tra due elementi — il giudizio di pericolo, essendo a carattere relativamente indeterministico, deve fare riferimento a leggi di esperienza di tipo probabilistico. Queste considerazioni valgono per l’interpretazione non soltanto dei fenomeni fisici, ma anche dei comportamenti umani, in quanto siano riconducibili ad una classe di comportamenti tra loro simili. L’Autore sottolinea lo stretto legame di interdipendenza che collega base e metro del giudizio: infatti, da un lato, le circostanze che caratterizzano la situazione concreta sono l’indice rivelatore della legge generale di riferimento, in cui il fatto singolo viene sussunto; dall’altro lato, la stessa legge generale così individuata funge da criterio valutativo e selettivo delle circostanze rilevanti per il giudizio di pericolo. Un collegamento, questo, che si trasmette anche ai criteri di accertamento del metro del giudizio, che pertanto si compone di


— 873 — tutte le leggi oggettivamente presenti secondo la migliore scienza ed esperienza, con il solo limite connaturato dallo stesso sviluppo scientifico. L’Autore amplia il discorso sino a valutare i risvolti processuali del modello di giudizio di pericolo proposto. Con particolare attenzione ai riflessi sulla concreta pratica giudiziaria, si sofferma sulla eventualità, tutt’altro che ipotetica, che vi possa essere una discrasia tra pericolo reale e pericolo accertato dal giudice, sui limiti alla revisione della sentenza in merito alla sussistenza del pericolo, sulla rilevanza in sede di giudizio di legittimità sotto il profilo della contradditorietà o insufficienza della motivazione dei criteri astratti per la corretta esplicazione del giudizio di pericolo, ed infine sulla rilevanza ai fini assolutori del dubbio sulla sussistenza di una massima di esperienza. Il momento di riflessione conclusivo di questa parte si propone di superare la tradizionale impostazione monolitica della nozione di pericolo, offrendo una tipologia quadripartita che trova applicazione in diversi istituti giuridici: il rischio ontologico (che si fonda sulla conoscenza totale delle circostanze esistenti) ed il rischio di origine epistemologica (che rispetto al primo si caratterizza per una parziale ignoranza delle circostanze, insuperabile però anche ex post a causa dei limiti della conoscenza umana) definiscono il pericolo e l’idoneità nel delitto tentato; il rischio situazionale (con parziale ignoranza delle circostanze, non superabile da nessuno posto nella stessa situazione spaziale temporale) corrisponde alla nozione di colpa ed infine il rischio apparente (con parziale ignoranza delle circostanze da parte del solo soggetto agente, ma superabile ex post) sussiste nel caso di reato impossibile. c) Accertati i criteri di determinazione della base e delle regole di esperienza, la fissazione del momento del giudizio rappresenta un aspetto essenziale per l’esito del giudizio di pericolo, in quanto incide sul contenuto concreto della base del giudizio, ed è connesso alla posizione assunta dal pericolo nella struttura del fatto tipico. Alla luce di una analisi casistica delle fattispecie, l’Autore perviene alla conclusione che ad essere rilevante è il momento della condotta qualora il pericolo qualifichi il presupposto della condotta, ovvero la condotta stessa o il suo oggetto materiale, precisando che nel caso di condotta non istantanea si deve scegliere, tra i vari momenti di protrazione della condotta, quello che corrisponde alla base del giudizio che consente la prognosi più sfavorevole. Viceversa, se il pericolo è attributo di un evento (fattispecie di evento pericoloso) o costituisce esso stesso l’evento (fattispecie di evento di pericolo), tale scelta ricade sul momento di prognosi più sfavorevole tra il fatto ed il momento che precede quello in cui si saprebbe con certezza se vi sarà la lesione oppure no. 5. Uno studio di tale ampiezza non poteva non affrontare la categoria del pericolo c.d. generico, elaborata da Schröder per indicare i casi in cui l’accertamento del pericolo richiede una qualche generalizzazione nella base del giudizio. Un’analisi approfondita dei saggi che hanno affrontato l’argomento porta l’Autore ad essere estremamente scettico sulla utilizzabilità di tale categoria, problematica già nella individuazione dei criteri di accertamento: non è infatti corretto fare riferimento alla genericità della condotta o del bene giuridico tutelato, in quanto in questi casi la genericità investe i termini della relazione di pericolo e non la relazione di pericolo in sé. L’astrazione si verifica invece nelle fattispecie in cui è lo stesso legislatore a limitare ex lege la base del giudizio, anche se, con riferimento agli elementi rilevanti, devono essere considerate tutte le circostanze del caso. 6. Posta come premessa la definizione del pericolo come relazione di possibilità, le difficoltà maggiori sorgono nell’accertamento della misura della possibilità penalmente rilevante. Trattandosi di un criterio quantitativo, l’assenza di strumenti misuratori precisi rende insufficienti le proposte avanzate dalla dottrina. A questo riguardo l’Autore offre una soluzione originale: da un lato, ripropone la distinzione tra possibilità, che non postula la previa determinazione del grado di verificabilità del risultato sfavorevole, e probabilità, in cui il pericolo appunto consiste, correlata al grado di frequenza statistica con cui trovano conferma nella realtà le leggi di esperienza assunte come metro del giudizio; dall’altro lato, e qui sta l’apporto innovativo, l’Autore ritiene che il pericolo possa essere ricostruito secondo gradi


— 874 — diversi di probabilità in relazione alle diverse fattispecie in cui tale elemento compare. Ne consegue che, in forza del principio di interdipendenza tra parte precettiva e parte sanzionatoria del reato, la misura di probabilità necessaria a connotare il pericolo è tanto più alta, quanto più basso è lo scarto sanzionatorio tra la pena prevista per la lesione e la pena prevista per il pericolo. Ma come fissare la maggiore o minore misura? Il criterio elaborato rinvia nuovamente alle singole fattispecie legali, più precisamente al fatto-base cui accede l’elemento del pericolo. Tale fatto è spesso espressione di una massima di esperienza, che può fungere da parametro per il caso concreto. Se il fatto-base costituisce un’ipotesi di pericolo astratto, è sufficiente confrontare con questo il fatto da giudicare, considerando tutte le circostanze ex ante: se i fatti sono identici, significa che il fatto concreto riproduce la regola di esperienza espressa dal pericolo astratto; se le situazioni sono soltanto simili, il pericolo sussiste a condizione che il fatto specifico si connoti di circostanze ulteriori favorevoli per la verificazione delle prognosi. Se, ancora, il fatto-base è relazionabile con un fatto-modello che comporta solo la possibilità astratta dell’evento lesivo, non è sufficiente l’identità del fatto concreto con l’ipotesi astratta per addivenire ad un giudizio di pericolo, ma è necessario l’intervento di una o più circostanze agevolanti che trasformino la semplice possibilità in probabilità. Se, infine, il fatto-base non è in grado di rimandare ad alcuna regola di esperienza, questa dovrà essere ricavata dallo stesso fatto-modello base, enucleando « sottofatti » riportabili ad ipotesi astratte di possibilità o di probabilità, che dovranno fungere, come precedentemente chiarito, da parametro di comparazione e di valutazione con il fatto concreto. 7. Dalle considerazioni svolte dall’Autore è emerso che se la probabilità è la misura del pericolo, la possibilità rileva in tema di giudizio di idoneità o di attitudine. Questa conclusione è confermata dalla interpretazione del reato impossibile come tentativo inidoneo, che rifiuta ogni rilettura dell’art. 49 c.p. in chiave realistica dell’illecito penale. Da qui l’Autore riscrive i confini alla figura del delitto tentato: da un lato, infatti, amplia l’ambito di applicazione di tale istituto, in quanto è sufficiente la semplice possibilità di consumazione della fattispecie; dall’altro lato, però, richiede che il giudizio di possibilità sia ancorato ad una base totale ex ante, rigettando così l’impostazione tradizionale che accerta l’idoneità della condotta sulla base delle sole circostanze conosciute o riconoscibili da un osservatore modello posto nella stessa posizione del soggetto agente. La conclusione reca la proposta di superamento della tradizionale bipartizione tra tentativo e delitto impossibile, articolando la disciplina in tentativo idoneo, tentativo inidoneo (idoneo in astratto, ma inidoneo in concreto) e tentativo grossolano o irreale, prospettando diverse soluzioni sanzionatorie. 8. Il Volume, nel quarto ed ultimo capitolo, si sofferma sugli sviluppi che il tema del pericolo concreto ha avuto nella dottrina più recente (teoria ontologica, neo-ontologica e neonormativa). Si tratta di una analitica descrizione di varie proposte dottrinali, che l’Autore, alla luce del bagaglio concettuale sviluppato nel capitolo centrale dell’opera, passa ad un severo vaglio critico, evidenziando ora la complessità teorica delle elaborazioni proposte, ora la difficoltà di applicazione di concetti astratti, i quali, non si dimentichi, devono servire al giudice per l’interpretazione delle disposizioni in cui l’elemento del pericolo compare. E questa attenzione costante per la praticabilità del modello di giudizio di pericolo proposto costituisce il motivo conduttore di questa straordinaria monografia, ricca di spunti pratici e di un continuo riferimento ad esempi e leading cases, che costituiscono, in definitiva, il banco di prova di ogni teoria. (Carlo Piergallini).

CASTALDO A.R., L’imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, Jovene, Napoli, 1989, pp. IV-245. 1.

Negli ultimi anni il tema dell’imputazione oggettiva ha incontrato un’attenzione cre-


— 875 — scente nella letteratura penalistica italiana. Importanti studi, monografici e non, hanno dedicato una specifica attenzione alla precisazione della teoria ed al suo ambito applicativo. La manualistica recente, da una parte, ed isolate decisioni giurisprudenziali dall’altra, nel richiamare alcuni passaggi fondamentali cari all’elaborazione dommatica del concetto di imputazione oggettiva, testimoniano del resto in modo evidente l’interesse creatosi. Il lavoro di Andrea Castaldo acquista pertanto un particolare significato, come primo significativo contributo alla diffusione di un tema tradizionalmente poco amato dal penalista. 2. Il taglio dato dall’A. all’oggetto delle sue riflessioni merita un breve chiarimento. La restrizione speculativa al delitto colposo d’evento, dove per evento si intende « qualsiasi modifica esteriore della realtà fisica » (p. 1), nasce dalla ragione pratica che da sempre la teoria dell’imputazione oggettiva ha trovato il terreno più fertile in tale tipo di illecito. Se quindi il modus procedendi è ispirato, o in certo modo condizionato, dalla necessità di affrontare nella sedes naturalis l’argomento trattato, ciò non esclude — come l’A. del resto sottolinea (p. 2) — l’ammissibilità di una teoria dell’imputazione oggettiva allargata all’illecito doloso e fondata sull’imputazione del fatto, come espressione del superamento di un rischio rilevante, e quindi non tollerabile dall’ordinamento giuridico, e pertanto indice di adeguata potenzialità offensiva. Naturalmente, lo sviluppo delle tesi sostenute nel libro mantiene un filo costante con gli analoghi problemi dibattuti dalla dottrina di area tedesca. Non potrebbe del resto procedersi diversamente, visto che la patria dell’imputazione oggettiva è la Repubblica federale tedesca, Paese dove tra l’altro il tema è stato oggetto di una disamina persino eccessiva nella sua frammentazione. Tuttavia l’A. non si limita a riferire le teorie d’oltralpe, sforzandosi invece di adattarle alla realtà normativa italiana, vagliandone la compatibilità de iure condito. Il lettore ha modo così di essere informato sullo ‘‘stato dell’arte’’ nella letteratura tedesca e allo stesso tempo di verificarne gli sbocchi applicativi nel terreno minato del diritto positivo italiano. Non da ultimo, un’adeguata chiave di comprensione dell’opera la si ricava dal ridimensionamento pratico del concetto di imputazione oggettiva. Nel senso che — come scrive l’A. (p. 4) — probabilmente agli stessi risultati pratici sarebbe giunta la nostra giurisprudenza, pur servendosi di strumenti tecnici rudimentali. Il capitolo primo (e unico) della Parte I è dedicato interamente al principio di causalità. Si tratta di una corretta intuizione metodologica. Poiché infatti l’imputazione oggettiva è analisi normativa (cioè teleologico-funzionale) dei parametri di attribuzione dell’evento al suo autore, il suo presupposto cognitivo deve indispensabilmente riguardare la ricerca dell’esistenza di un rapporto naturalistico tra tale evento e la condotta che lo ha determinato: per l’appunto, il nesso causale. Si precisa così un punto essenziale nella trattazione, che ricorre spesso, e che anzi costituisce il leitmotiv dell’indagine: la distinzione tra principio di causalità e principi di imputazione oggettiva, rispettivamente individuabili su basi ontologiche e funzionali, al fine di evitare contaminazioni dannose alla sistematica del reato. L’A. passa pertanto a riesaminare in questa prospettiva le diverse teorie causali (pp. 14 ss.); particolare attenzione è rivolta alla formula della condicio sine qua non nella sua originaria versione e nella successiva elaborazione della cd. « condizione conforme ad una legge scientifica di copertura », in grado di superare le obiezioni classiche mosse alla « causalità equivalente ». A conclusione del capitolo si affronta il delicato tema della sopravvivenza del nesso eziologico nei reati omissivi e nei casi di c.d. « intervento impeditivo dell’altrui salvezza » (pp. 47 ss.), da sempre croce e delizia della letteratura penalistica. I risultati dell’indagine sono coerenti con le premesse: una causalità in senso naturalistico non esiste nei casi in questione, nei quali si assiste piuttosto alla ricerca di sostitutivi di stampo nomologico. Il che tuttavia non comporta il ripudio dell’idea della causalità come requisito insostituibile all’interno del Tatbestand; « la centralità del nesso eziologico non viene in discus-


— 876 — sione: ciò che rimane è (più modestamente) la causalità anziché il dogma della causalità » (p. 55). 3. Con la seconda parte, relativa alla elaborazione della teoria dell’imputazione oggettiva, si entra nel vivo della trattazione. Il capitolo primo si apre con la definizione di imputazione oggettiva. Limitatamente al delitto colposo deve sottoporsi a verifica se l’evento tipico causato dalla violazione individualizzata della regola di diligenza costituisca la realizzazione significativa ed effettiva (o l’aumento) del pericolo specifico che la norma mirava a prevenire (p. 59). Così, nell’ottica dell’A., il presupposto indispensabile per attribuire teleologicamente l’evento all’autore deriva dalla creazione di un rischio giuridicamente rilevante. L’idea di fondo, in breve, è che il comportamento deve aver creato un rischio significativo, ossia un’area di pericolo che l’ordinamento (penale) non può tollerare, e contro la quale dispone adeguate misure protettive. L’esistenza di un rischio rilevante rappresenta così quel filtro nomologico in grado di escludere dal novero del penalmente rilevante le condotte umane prive di reali connotati di pericolosità. Quanto ai criteri determinativi dei confini del rischio, essi vanno ricercati attraverso una valutazione cost-benefits, in connessione con il tipo e l’utilità sociale dell’azione intrapresa (p. 66). A fortiori, comportamenti che in concreto diminuiscono i rischi esistenti non potranno essere oggetto di imputazione (p. 69 ss.). Punctum dolens di qualsiasi elaborazione sul tema « imputazione oggettiva » concerne la rilevanza da attribuire ai decorsi alternativi ipotetici, ossia ai processi causali di riserva che avrebbero causato lo stesso risultato lesivo. Come è noto, la dottrina (soprattutto straniera) occupatasi ex professo del problema ha assunto posizioni divergenti, ma in generale propende per la tesi dell’inammissibilità. La soluzione proposta da Castaldo è viceversa orientata verso un limitato ingresso della rilevanza delle Ersatzursachen, a condizione che esse determinino lo stesso evento, quando sia inoltre sicura (e non soltanto possibile) la loro incidenza, e sempre che non consistano in atti illeciti di terzi o del soggetto passivo. La conclusione riferita viene però ulteriormente diversificata a seconda del tipo di illecito; in altri termini, mentre sarebbe valida per il delitto colposo, non lo sarebbe più per il delitto doloso. La differenza viene spiegata in base a considerazioni politico-criminali: il disvalore di azione più intenso nell’illecito doloso, la direzionalità offensiva del comportamento posto in essere provoca una reazione di maggiore allarme sociale che si riflette, sul piano dell’imputazione, nel non dare rilevanza alle cause alternative ipotetiche. Ne discenderebbe pertanto l’impossibilità di un’elaborazione unitaria della teoria dell’imputazione oggettiva per l’inammissibile reductio ad unitatem dell’illecito doloso e colposo (pp. 71 ss.). 4. L’imputazione oggettiva dell’evento è costruita su due parametri: l’aumento del rischio e lo scopo di protezione della norma. Cominciando dal primo, ciò significa che l’autore deve aver cagionato con la sua condotta un aumento del rischio di verificazione dell’evento. L’assenza di tale incremento di pericolo è dunque condizione ostativa per l’imputazione dell’evento. È logico, e l’A. lo sottolinea subito, che il concetto « aumento del rischio » in tanto esprime una valenza in quanto possa essere confrontato con un modello alternativo. In altri termini, ha senso parlare di aumento (o meno) del rischio solo se si ipotizzi come termine di paragone il comportamento alternativo lecito per verificarne gli effetti sulla produzione dell’evento. Se l’anestesista ha, per errore legato a disattenzione, somministrato cocaina in luogo della novocaina, cagionando la morte del paziente, occorrerà esaminare se la condotta deontologicamente corretta (comportamento alternativo lecito) non avesse per avventura causato l’identico risultato, come nel caso di un’ipersensibilità non accertata e non accertabile della vittima a qualsiasi anestetico. Queste precisazioni preliminari (pp. 93 ss.), seguite da una rassegna dei più famosi e stimolanti casi giurisprudenziali in materia (pp. 96 ss.) servono, nello schema dell’A., a sve-


— 877 — lare l’intreccio tra il parametro dell’aumento del rischio e la problematica del comportamento alternativo ipotetico. Esaurita la fase ricognitiva e dichiarata la preferenza verso il modello dell’aumento del rischio, l’A. esamina le obiezioni mosse alla teoria. Quanto alla presunta trasformazione dei delitti colposi di evento in delitti di pericolo, trasformazione che l’accettazione del criterio determinerebbe, si osserva come essa nasca dall’equivoco di ritenere abolito il principio di causalità: viceversa, è lecito parlare di condotta che abbia accresciuto il pericolo di verificazione dell’evento solo se tale condotta abbia innanzitutto causato l’evento. Il principio di causalità resta perciò requisito imprescindibile, annullando già sul piano della teoria generale la possibilità di un mutamento della figura dell’illecito in reato di pericolo (p. 152 ss.). Ancora, la teoria dell’aumento del rischio non viola la regola processuale dell’in dubio pro reo: la mera possibilità dell’eguale produzione dell’evento non è sufficiente ad escludere l’imputazione sul presupposto dell’invariabilità del quantum di pericolo. Poiché infatti si versa nel campo ipotetico — è questa la motivazione dell’A. — soltanto gli accadimenti alternativi di sicura verificazione possono essere presi in considerazione ai fini della valutazione dell’aumento del rischio (pp. 156 ss.). Nei successivi paragrafi sono infine esaminate alcune variazioni dottrinarie del modello prescelto, delle quali è tuttavia messa in luce la riconducibilità al principio generale, l’impraticabilità del criterio dell’aumento del rischio in campi diversi (dai reati omissivi impropri al concorso di persone), per finire con la soluzione dei casi giurisprudenziali indicati all’inizio del capitolo (pp. 170 ss.). 5. Il terzo capitolo riguarda lo scopo di protezione, parametro aggiuntivo e non sostitutivo dell’aumento del rischio. L’imputazione dell’evento è subordinata cioè all’accertamento dell’aumento del rischio e dello scopo di tutela della norma violata. Quest’ultimo criterio deve ritenersi soddisfatto qualora l’evento verificatosi rientri nel novero di quelli che la norma violata mirava ad evitare. L’imposizione di limiti di velocità in un centro abitato è finalizzata per esempio a salvaguardare l’incolumità delle persone e non è dettata da esigenze antinquinamento: di conseguenza dovrà escludersi l’imputazione oggettiva quando il risultato lesivo cada fuori dall’ombrello protettivo della disposizione violata. Quanto all’individuazione della c.d. ‘‘area di protezione’’, a giudizio dell’A. lo Schutzzweckzusammenhang va ricostruito sulla base della prevedibilità e dominabilità dell’evento. Rientrano così tra gli eventi che la norma trasgredita mirava a prevenire tutti quelli prevedibili in ossequio ad una regola di esperienza, ed inoltre ‘dominabili’, cioè dipendenti e controllabili dal soggetto agente. Si richiamano a questo proposito i casi del comportamento doloso della vittima o del terzo, del consenso del soggetto passivo all’azione rischiosa, con l’interessante corollario delle operazioni di soccorso con cosciente autoesposizione al pericolo (colui che ha cagionato colposamente l’incendio della propria abitazione è responsabile delle lesioni o della morte in cui sia incorso il volontario e/o il pompiere intervenuto per domarlo?), fino al comportamento doloso della vittima o del terzo (che è l’occasione per fare il punto sulla portata ed i limiti del c.d. principio di affidamento) e ai « danni successivi » (è imputabile all’automobilista, che abbia cagionato per colpa in un incidente stradale la perdita dell’arto ad un pedone, la successiva morte di costui, dovuta ad una fonte di pericolo dalla quale non sia riuscito a mettersi in salvo stante la menomazione subita?). 6. A chiusura della monografia l’A. dedica alcune interessanti considerazioni alla funzione che l’imputazione oggettiva potrebbe essere in grado di assolvere in futuro (pp. 240 ss.). Secondo Castaldo, tale teoria possiede la capacità, nel suo terreno d’origine, il delitto colposo, di contribuire ad arginare l’oramai troppo dilatata sfera della responsabilità penale mediante il recupero di coefficienti teleologici. In un’ottica siffatta, aumento del rischio e scopo di protezione assolvono il compito di combattere la logica del versari in re illicita, contribuendo ad espungere dal sistema forme nascoste di responsabilità oggettiva. Ma l’im-


— 878 — putazione oggettiva offre spunti anche per rimodellare il fatto tipico in ulteriori tipi di illecito: basti pensare alla possibilità di concretizzare il concetto di offensività nel reato contravvenzionale grazie alla teoria dell’aumento del rischio, o ancora ai reati omissivi propri. L’esplorazione dell’objective Zurechung nel delitto colposo, da tempo affrancatosi dal suo ruolo di « Cenerentola » del diritto penale, consente perciò di aprire nuovi e proficui filoni di indagine in aree disparate unificate però dal comune obiettivo di restringere l’area del penalmente rilevante entro limiti di reale significatività lesiva. È anche grazie all’opera monografica di Castaldo se tali potenzialità insite nella problematica dell’imputazione oggettiva siano oggi attentamente censite e valutate ponendosi al centro del dibattito penalistico contemporaneo. (Cristina de Maglie).

MAIWALD M., L’evoluzione del diritto penale tedesco in un confronto con il sistema italiano (a cura di V. MILITELLO), Giappichelli, Torino, 1993, pp. 194. Gli anni Novanta, nel panorama penalistico italiano, si stanno rivelando come gli anni della riscoperta del diritto comparato. Riviste vecchie e nuove ospitano sempre più frequenti articoli di matrice comparatistica; si pubblicano manuali di diritto penale straniero e comparato (si pensi al Diritto penale inglese di Vinciguerra e ai Principi del diritto penale tedesco di Fornasari, oltre alla Introduzione al diritto penale tedesco di Volk); si traducono codici stranieri; si organizzano importanti convegni a carattere internazionale; e le più recenti monografie italiane, anche quando non concernono tout court lo studio di istituti stranieri, dedicano ampi spazi alla prospettiva comparatistica. Ma in particolare si va diffondendo nelle Università italiane — anche in ambito penalistico — lo stimolante costume di invitare visiting professors a tenere cicli di lezioni sul diritto (penale) straniero, magari nell’ambito dei sempre più diffusi corsi di diritto (penale) comparato: nel caso che ci riguarda, il prof. Manfred Maiwald, noto penalista attualmente docente a Göttingen, è stato invitato nell’aprile 1991 a tenere una serie di lezioni sul diritto penale tedesco presso l’Università di Palermo. Frutto dell’iniziativa: il volume qui considerato, che raccoglie le lezioni, tradotte dalla dott. Ippoliti e poi rivedute dall’encomiabile curatore, il prof. Militello. Il libro rispecchia l’ambiente in cui ha preso forma. Esso è nato nell’Università ed è soprattutto destinato ad essa. In particolare è dedicato agli studenti di diritto penale comparato. In tale prospettiva, come osserva lo stesso Militello nella sua Prefazione, è concepito in modo chiaro e didascalico: lo stile non è mai pomposo o ermetico, ma lineare e volto ad agevolare il lettore alla comprensione del testo, fine perseguito anche attraverso l’ausilio di esempi tratti da concreti casi giurisprudenziali. D’altra parte la chiarezza espositiva è uno dei caratteri principali cui dev’essere improntata un’opera comparatistica, visto che essa deve permettere di comprendere istituti estranei alla mentalità giuridica — ai « crittotipi », direbbe Rodolfo Sacco — del lettore. Maiwald, nella sua Prefazione, ha scritto che « non è possibile sintetizzare in poche lezioni un settore estremamente complesso come quello del diritto penale »: è forse questa l’unica considerazione dell’A., nell’arco dell’intero lavoro, che non ha convinto chi scrive queste note di recensione. Infatti, ciò che colpisce maggiormente del libro in questione è come esso riesca, pur nella concisione che lo caratterizza, a dare un quadro limpido ed a suo modo esauriente del diritto penale tedesco. In particolare, emerge dalla lettura delle lezioni di Maiwald lo spirito del diritto penale d’Oltralpe, e si stagliano le principali differenze tra le Weltanschauungen tedesche e quelle che informano il nostro jus criminale. Ciò deriva, oltre che dalla particolare maestria comparatistica dell’A. — a questo proposito si noti il sapiente utilizzo, oltre che del c.d. « formante » dottrinale, anche di quello giurisprudenziale (la cosa del resto non sorprende: Maiwald, oltre che professore, è anche giudice) — dalla significatività degli argomenti prescelti. Nella prima parte, dedicata ai profili storici, emergono sia le radici comuni, romanisti-


— 879 — che, della tradizione penalistica tedesca e di quella italiana, che i differenti percorsi che hanno diviso almeno da un secolo le due esperienze giuridiche. Ed in chiusura sono esaminati anche i problemi, di non poco conto, connessi alla recente unificazione delle due Germanie. La seconda parte, una vera « miniera d’oro » per lo studente bramoso di conoscere il diritto penale tedesco — ma anche, va detto, per lo studioso avvezzo da anni alla materia — tratta di alcuni istituti di parte generale. Essi sono stati certamente scelti per la loro centrale importanza nell’evidenziare i tratti salienti dello Strafrechtssystem tedesco. Così, nell’ambito delle cause di giustificazione, vengono trattate la legittima difesa ed il consenso dell’offeso, figure dall’esame delle quali balzano agli occhi talune importanti differenze col diritto penale italiano: si pensi alla tendenziale rinuncia da parte del diritto tedesco al requisito della proporzione nella legittima difesa, ed alla non punibilità dell’istigazione al suicidio. E, se le lezioni sui reati omissivi, sul dolo e sulla colpa, possono forse meno sorprendere lo stesso studente italiano, vista la particolare interconnessione della scienza penale italiana e tedesca in questi settori, che informa gli stessi più aggiornati manuali italiani, la lettura dei capitoli sul tentativo e sulle sanzioni evidenzia talune caratteristiche affatto peculiari del diritto penale tedesco rispetto a quello italiano. In particolare, la (pur nota agli studiosi) punizione del tentativo inidoneo da parte dello jus criminale tedesco mostrerà allo studente di diritto penale comparato una Weltanschauung « soggettivistica » del tutto estranea alla nostra mentalità penalistica, dai tempi di Beccaria più orientata ad imperniare il disvalore sul « danno » che sull’« intenzione » dell’agente (il noto passo di Beccaria è ricordato anche da Maiwald: pp. 143-144). Il reato impossibile — come noi lo chiamiamo — è d’altra parte di solito punito anche nelle giurisdizioni di common law: siamo noi, dunque, e non i tedeschi ad essere, anche se forse non a torto, « controcorrente ». Nella terza parte, infine, si rivede il Maiwald profondo studioso di alcuni argomenti di particolare attualità nel dibattito tedesco. L’A. affronta con taglio critico problemi quali il disvalore d’evento, la causalità, la colpevolezza, ed il c.d. « rischio consentito »: temi di cui il docente tedesco si è già occupato in importanti scritti, e nell’ambito dei quali l’analisi si fa meno didascalica e più serrata. È questa la parte che di più affaticherà gli studenti, anche se la consueta chiarezza espositiva dell’A. rende comprensibili anche i problemi più complicati ed i ragionamenti più sofisticati. La lettura di quest’ultima parte del libro potrà essere di stimolo allo stesso dibattito scientifico italiano. Trattasi, insomma, di un lavoro importante, non solo per gli studenti, ma anche per gli addetti ai lavori. Lavoro curato nei dettagli (si notino ad es. i titoletti ai margini, molto utili non solo a scopo didattico), e in cui la traduzione nulla ha tolto alla scorrevolezza e alla chiarezza del testo originale. Non mancano, tra l’altro, accenni al diritto italiano, e note del curatore con richiami alla nostra letteratura. Alla fine di ogni capitolo, si trova una breve appendice bibliografica. L’indice analitico alfabetico finale, poi, appare importante, specie in un lavoro dal taglio manualistico e comparatistico come quello in esame. Si è notato all’inizio che gli anni Novanta sono gli anni del diritto penale comparato. Ciò è dovuto, da un lato, al processo politico di unificazione europea, oltre che alla più generale vicinanza tra popoli un tempo lontani; e dall’altro, al fatto che in Italia ormai i tempi sono maturi per l’elaborazione di un nuovo codice penale. E lo studio del diritto comparato è (come hanno di recente sottolineato su questa Rivista Marinucci e Dolcini) indispensabile strumento per impostare una seria opera di codificazione penale (oggi già disponiamo, come è noto, di un progetto di legge-delega per un nuovo codice penale, opera di una commissione presieduta dal Prof. Pagliaro). Il lavoro di Maiwald, e curato da Militello, oltre che opera particolarmente ben riuscita, è in questo momento, dunque, strumento particolarmente prezioso. (Alberto Cadoppi).

MEZZETTI E., La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea - Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli Stati membri, CEDAM, Padova, 1994.


— 880 — Il tema delle c.d. frodi comunitarie, da anni al centro delle preoccupazioni politico-criminali del legislatore, oggetto di riflessioni dottrinali tanto numerose quanto parziali ed episodiche, riceve oggi ampia trattazione nel volume di Enrico MEZZETTI, La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea - Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli Stati membri, Cedam, Padova, 1994 (pp. XV, 267). Una volta illustrato nel Capitolo I il sistema finanziario della Comunità nelle sue interrelazioni con la problematica del bene giuridico, lo studio procede nel Capitolo II all’analisi delle disposizioni incriminatrici in vigore nelle legislazioni degli Stati membri, con particolare attenzione alla tutela delle uscite di bilancio. La trattazione si sviluppa in due fasi: inizialmente vengono esaminate le singole legislazioni nazionali, per poi passare, in un secondo momento, alla comparazione vera e propria col proposito di verificare il diverso grado di sensibilizzazione dei legislatori nazionali rispetto alla tutela delle finanze comunitarie. La particolare attenzione prestata dall’A. alla disciplina penale italiana (artt. 640-bis e 316-bis c.p. italiano) e tedesca (§ 264 StGB) trova il proprio fondamento nella perdurante vigenza di tali disposizioni e nell’attenta ricostruzione teorica che ne ha accompagnato la genesi e l’applicazione. Con riferimento all’Italia, l’A. ripercorre le tappe principali dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale relativa alla repressione della captazione abusiva di sovvenzioni, prima statali e poi (anche) comunitarie, per giungere alla constatazione, non priva di intenti polemici nei confronti del legislatore, che — con specifico riguardo all’art. 640-bis — ci troviamo di fronte ad una « particolare ipotesi di nomodinamica con effetto-boomerang » (p. 42). Punto centrale di tale assunto è il rapporto della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche con la figura base della truffa di cui all’art. 640: la fattispecie prevista dall’art. 640-bis altro non è, infatti, se non una particolare ipotesi di truffa, caratterizzata da un’aggravante di materia ma con identico interesse tutelato e identica struttura normativa. Il disappunto dell’A. nasce dagli esiti giuridici di tale soluzione, con particolare riferimento all’applicabilità della disciplina delle circostanze, e soprattutto dalla rinuncia all’adozione di un modello a tutela anticipata, che pure era stato accolto in passato nel nostro ordinamento limitatamente allo specifico settore dell’integrazione di prezzo per l’olio di oliva. Significativi cenni sono poi dedicati al rapporto della fattispecie in questione con l’ipotesi criminosa dell’art. 2 della legge 898/86, avente ad oggetto particolari ipotesi di frodi dirette in danno del Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola: sul punto si perviene alla conclusione che tale ultima norma non introduce alcun trattamento di favore ma che viceversa essa si pone come estrinsecazione della discrezionalità del legislatore in relazione ad una condotta dotata di un minor disvalore, sufficiente a giustificare il più mite trattamento sanzionatorio. Profili di maggiore problematicità emergono invece dal disposto normativo dell’art. 316-bis avente ad oggetto le condotte di sviamento delle pubbliche sovvenzioni successive alla loro erogazione: pur volendo tralasciare i dubbi inerenti a talune opzioni terminologiche e alla infelice collocazione sistematica della norma, il punto critico della fattispecie si coglie nell’ambiguità della formula descrittiva della condotta vietata (« chiunque avendo ottenuto... contributi... non li destina... ») che suscita serie perplessità in ordine al rispetto del principio di sufficiente determinatezza della fattispecie. Già posta a fondamento in Italia delle riflessioni della dottrina nonché di talune incompiute iniziative legislative, è la norma incriminatrice tedesca del Subventionsbetrug di cui al § 264 StGB, diretta fin dal suo sorgere anche alla tutela degli interessi finanziari della Comunità. In relazione alla fattispecie commissiva di cui all’Abs. 1 n. 1, incentrata sulla condotta di colui che fornisce informazioni scorrette o incomplete per il conseguimento di sovvenzioni, l’A. evidenzia la costruzione « non solo in forma anticipatoria ma anche separata rispetto al reato di truffa, con condotta riferibile più ai delitti di falso che non a quelli contro il patrimonio » (p. 73) e la conseguente obliterazione del momento di danno. La necessità del danno, e con essa l’intera struttura del Betrug del § 263, ritorna tuttavia nell’ipotesi aggravata dell’Abs. 2 n. 1, ove l’aumento di pena viene fatto dipendere dall’effettivo conseguimento illecito di una sovvenzione di importo rilevante, determinando — secondo la terminologia adoperata dall’A. — un modello di super-truffa. In relazione ai fatti di sviamento suc-


— 881 — cessivi all’ottenimento della sovvenzione, l’Abs. 1 n. 2 sanziona la condotta omissiva consistente nel tenere il sovvenzionante all’oscuro su fatti rilevanti: sul punto va sottolineata la previsione congiunta, pregevole sotto il profilo della tecnica legislativa, delle fattispecie di frode all’ottenimento e di frode all’utilizzazione nella medesima disposizione, nonché la loro equiparazione sul piano sanzionatorio. La disamina della normativa tedesca si conclude con pregnanti rilievi critici in ordine alla punibilità per colpa grave dei fatti di cui ai nn. 1 e 2 dell’Abs. 1: tale estensione del criterio di imputazione soggettiva risulta inaccettabile sul piano dogmatico, a fronte della svalutazione del principio di offensività già realizzata mediante l’anticipazione della soglia di tutela, come pure sul piano politico-criminale, disvelando la indebita prevalenza di istanze general-preventive su più consistenti argomentazioni tecnico-giuridiche. Nel raffronto operato conclusivamente tra le legislazioni penali degli Stati membri, oltre alla normativa tedesca e italiana, confluiscono anche le disposizioni applicabili negli altri Stati dell’Unione. L’analisi comparatistica, incentrata — per ciò che concerne la tutela delle uscite di bilancio — sulla distinzione tra fattispecie orientate a forme di tutela anticipata e reati di evento e — per ciò che attiene alla tutela delle entrate — sulla prevalenza in diritto interno della legislazione doganale ovvero della legislazione tributaria e fiscale — finisce per delineare diverse categorie di Paesi in funzione del grado di sensibilizzazione rispetto agli interessi finanziari della Comunità: soddisfacente (Germania), adeguato (Italia), embrionale (Spagna, Portogallo e Belgio), esiguo (Francia e Olanda), assente (Grecia). L’attenzione normativa per il fenomeno delle c.d. frodi comunitarie si caratterizza quindi per una certa discontinuità rilevabile tanto nella prospettiva puramente interna ai singoli sistemi penali degli Stati membri dell’Unione, quanto nella disamina congiunta degli stessi. Da tale constatazione l’A. prende le mosse nel Capitolo III (Le prospettive di « assimilazione ») per proporre un modello alternativo di tutela penale sul quale far convergere le parallele esperienze legislative sviluppatesi negli ordinamenti europei, che si coordini con le recenti iniziative punitive direttamente adottate dalle istituzioni comunitarie. Nella Sezione I l’A. affronta una delle problematiche più delicate dell’intera ricerca consistente nel passaggio dal concetto di « bene giuridico » protetto a livello internazionale ai rapporti tra bene tutelato e tecnica legislativa. Nell’ordinamento tedesco, infatti, le fattispecie contemplate dal § 264 vengono ritenute lesive di beni giuridici internazionalmente protetti e in quanto tali sono soggette ad un « meccanismo di punibilità-ovunque », i.e. principio di universalità (§ 6, n. 8 StGB). L’A. dissente da tale opzione normativa, rilevando come « il principio di territorialità possa far risolvere i problemi connessi ai limiti di intervento statale nella punizione dei fatti di reato, a condizione che venga perfezionato l’allineamento delle legislazioni nazionali » (p. 134), salvo poi precisare che auspicabile sarebbe l’adozione in materia di un più lato concetto di territorialità comunitaria. Dal § 6 StGB sono peraltro desumibili implicazioni ulteriori, attinenti al rango dell’interesse protetto dal Subventionsbetrug. L’estensione della competenza penale ai fatti commessi oltre confine sulla base del principio di universalità si giustifica infatti solo in presenza di beni che « appartengono al patrimonio culturale di vari paesi », di « reati offensivi di beni sociali »; ne discende che la truffa alle sovvenzioni statali e comunitarie è reato offensivo non del semplice patrimonio (prospettiva restrittiva adottata dal legislatore italiano) né dell’economia pubblica (bene ultimo la cui offesa non è normativamente implicata dalla tipica capacità offensiva della condotta illecita, e comunque inidonea a ricomprendere le condotte in danno della Comunità europea), ma del patrimonio collettivo, del pubblico o sovranazionale, inteso in una dimensione dinamica che privilegi le istanze di realizzazione della società dirette al conseguimento di uno standard migliore di convivenza. La ricostruzione in tali termini dell’oggettività giuridica della truffa alle sovvenzioni, oltre a fondare l’emancipazione dallo schema della truffa, esige — stante il rango del bene protetto — il ricorso a tecniche di anticipazione della tutela penale. « Il vero problema » — peraltro — « non è di anticipare tout court la tutela ma di stabilire come realizzarla » (p. 165): all’uopo sembra inadeguato tanto il ricorso alla figura del tentativo, innestato sull’attuale configurazione della disciplina italiana sul modello della truffa, quanto la


— 882 — riformulazione della fattispecie secondo lo schema del pericolo concreto, quanto infine il ricorso al dolo specifico come strumento di arretramento della soglia di punibilità. Nel primo caso, infatti, permarrebbe l’esigenza di dimostrare la realizzazione di artifizi o raggiri da parte dell’agente, lasciando sostanzialmente impunite le condotte concretizzantesi nella semplice presentazione di false dichiarazioni; nella seconda ipotesi sorgerebbe un problematico coordinamento tra natura diffusa dell’interesse tutelato e principio di determinatezza della fattispecie; l’accertamento della direzione soggettiva della condotta potrebbe infine — stante la difficoltà di prova — essere completamente eluso. In realtà « la vera alternativa non è tra reato di pericolo astratto o concreto o reato di danno ma tra diverse tecniche normative che si consigliano per proteggere un nuovo settore... Il tutto si riduce al rapporto tra bene e tecnica da tutelare. Rectius al modo in cui in tal caso il particolare bene giuridico (patrimonio del pubblico o ricchezza collettiva) ‘‘si lascia’’ più efficacemente tutelare » (p. 168). Su tali basi l’A. propone una riformulazione della fattispecie che pervenga all’anticipazione della tutela attraverso l’incriminazione delle condotte che intervengono sul procedimento amministrativo di erogazione della sovvenzione deviandone il corso regolare. Una volta ricondotta la condotta incriminata nell’ambito del procedimento, è all’interno dello stesso che bisogna rintracciare il « filtro selettivo » che consenta la stretta osservanza del principio di offensività. Il duplice filtro, desunto dalla normativa tedesca, viene individuato nella « rilevanza degli atti » compiuti per conseguire il beneficio e nel « carattere vantaggioso » della condotta fraudolenta: si perviene in tal modo a incriminare un « pericolo ad idoneità rilevante di pregiudizio » per il bene protetto che ben si concilia con la necessaria dimensione offensiva richiesta per l’illecito penale. La Sezione I si conclude con una severa ed articolata censura circa l’impiego ad opera del legislatore tedesco del criterio di imputazione soggettiva della colpa grave. Motivazioni dogmatiche, inerenti alla difficoltà di attribuire la responsabilità penale all’agente in ordine ad un comportamento poco riconoscibile come illecito, motivazioni politico-criminali, tendenti a evidenziare l’inaccettabile inversione dell’onere probatorio che si cela dietro lo svilimento della componente soggettiva del Subventionsbetrug, nonché precise indicazioni testuali desumibili dal nostro codice, consigliano — nell’ottica di una riforma — la limitazione della responsabilità penale alle sole fattispecie dolose. Nella Sezione II il modello dell’affidamento è analizzato dal punto di vista dei profili sanzionatori e dei principi costituzionali-penali. Il pensiero dell’A. è sussunto — fin dal capitolo introduttivo — nell’osservazione che segue: « fuori dalle due realtà di un diritto penale degli Stati membri, o di un diritto penale scaturente direttamente dagli organi dell’Unione — la prima immediata, ma da perfezionare; l’altra utopica ma da non scartare a priori — tertium non datur: non può esservi spazio per ibridi legislativi che intacchino il principio della riserva di legge e le garanzie dei cittadini » (p. 4). L’ibrido legislativo, di cui si paventano le implicazioni illiberali, è rappresentato dal potere sanzionatorio di natura amministrativa e para-penale che la Comunità, delusa dallo scarso livello di protezione accordato dagli Stati membri alle sue proprie risorse finanziarie, ha finito per autoarrogarsi. Il passaggio da una politica di pressione e invito ai legislatori degli Stati membri affinché sanzionassero le condotte in danno degli interessi finanziari comunitari, ad una politica di intervento sanzionatorio diretto (sia pure non-penale) da parte delle istituzioni di Bruxelles, si è consumato — nella ricostruzione offerta dall’A. — tra il 1989 ed il 1992, vale a dire tra la storica sentenza della Corte di Giustizia nello scandalo del mais greco e la più recente ma non meno importante pronuncia nella causa Repubblica federale tedesca c/ Commissione. Un’attenta disamina delle singole sanzioni finanziarie e interdittive di fonte comunitaria relative alle frodi, evidenzia come esse assurgano talvolta al rango di sanzioni penali-amministrative, con conseguente « incompetenza assoluta » delle istituzioni comunitarie ad adottarle per violazione del principio della riserva di legge; anche per le sanzioni di natura puramente amministrativa residua un profilo di « incompetenza relativa », stante l’assenza in diritto comunitario di una parte generale dell’illecito amministrativo, rispettosa dei principi desumibili dagli ordinamenti nazionali. Restano dunque due strade che l’A. ritiene astrattamente praticabili: quella più impervia, e comunque tutta da esplorare, è rappresentata dall’attribuzione di una potestà


— 883 — normativa penale direttamente agli organi dell’Unione. Dopo aver brevemente ricostruito il travaglio del diritto « penale » comunitario e ripercorso le recenti posizioni della dottrina tedesca che rilanciano con forza tale obiettivo, si perviene alla conclusione che il riconoscimento di un diritto penale di fonte europea è attualmente poco praticabile. L’altra via, più classica e meritevole di essere sviluppata, consiste nell’affidamento dello ius puniendi agli organi legislativi degli Stati membri: rispetto a tale modello l’A. propone talune correzioni dirette a porre riparo alle attuali « distonie delle previsioni precettive e sanzionatorie contenute nelle legislazioni dei Paesi membri » (p. 247). Le principali direttrici della riforma — esposte nella Sezione III (Valutazioni conclusive e prognosi di sviluppo delle materia) — sono due. In primo piano si coglie l’esigenza di una più ampia protezione degli interessi finanziari della Comunità, da conseguirsi attraverso « clausole di raddoppio » di portata generale ovvero mediante l’estensione della portata precettiva delle singole disposizioni. Correlata a questa prima esigenza è la prospettiva di armonizzazione delle legislazioni nazionali in ordine alla descrizione delle condotte vietate ed al carico sanzionatorio. La costruzione similare delle fattispecie penali deve tener presenti le principali risultanze emerse dall’indagine comparatistica: creazione di una fattispecie unica per il conseguimento illecito e l’utilizzazione abusiva delle sovvenzioni; anticipazione della soglia di punibilità al momento del compimento di atti del procedimento compensata dai requisiti di « rilevanza degli atti » e « vantaggiosità della condotta »; punibilità solo a titolo di dolo. Sotto il profilo sanzionatorio si deve invece tendere a limitare la discrezionalità del legislatore nazionale attraverso la predisposizione « di un minimo di pena comune a tutte le legislazioni nazionali ed il divieto di prevedere massimi sproporzionati o draconiani » (p. 251). L’A. prospetta quindi la costruzione della fattispecie incriminatrice nei termini seguenti: « Chiunque fornisce o utilizza informazioni false o incomplete su circostanze decisive ai fini della concessione di un beneficio economico, patrimoniale o finanziario di rilevante entità, statale o comunitario, nel relativo procedimento avanti l’Autorità erogante, in modo da indurla in errore circa i presupposti del beneficio, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa (omissis). La pena è della reclusione da uno a quattro anni, con multa, se il beneficio è ingiustamente concesso e da due a cinque anni, con multa, se il beneficio è totalmente ingiustificato o è di almeno la metà superiore alla giusta misura. Chiunque, avendo ottenuto sovvenzioni, contributi o erogazioni dello stesso tipo a carico delle finanze statali o comunitarie, li utilizza per causa a lui imputabile, in modo difforme dai fini istituzionali indicati nel provvedimento di concessione del beneficio, nei regolamenti comunitari o nella legge organica di disciplina delle sovvenzioni statali o comunitarie, è punito con la reclusione da uno a quattro anni (omissis) ». Il coordinamento delle iniziative sanzionatorie degli Stati membri, tuttavia, non è che il primo passo di un modello ad implementazione progressiva: una volta raggiunto tale obiettivo e risolte talune difficoltà di ordine istituzionale (in primis il c.d. deficit democratico delle istituzioni europee), potrà concretamente prospettarsi il raggiungimento del più ambizioso obiettivo di un autonomo sistema penale dell’Unione. (Stefano Manacorda).

MORSELLI E., La función del comportamiento interior en la estructura del delito, Temis, Bogotà, 1992, pp. 192 (traduzione spagnola, a cura di Jorge Guerrero, de: Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, CEDAM, Padova, 1989). Il libro del prof. Elio Morselli, già recensito in questa Rivista (1989, 1709 ss.), è ora diffuso in tutti i paesi di lingua ispanica dalla nota casa editrice colombiana Temis nella accurata traduzione spagnola di Jorge Guerrero. Nella Presentazione dell’opera, il prof. Germán Eduardo Gómez Remolina illustra le ragioni del vivo interesse dei penalisti di quei paesi per la problematica affrontata dall’Autore. Essa, invero, si innesta sulla contrapposizione tra causalismo e finalismo e sugli argomenti


— 884 — che inducono Morselli a condividere l’« assunto minimo » dei finalisti, per il quale dolo e colpa vengono sottratti alla colpevolezza e trasferiti nell’ambito del fatto tipico. La teoria finalistica — come nota lo stesso autore —, mentre ha trovato assai scarso seguito nella dottrina italiana, è largamente seguita in gran parte del mondo, e in specie nei paesi latino-americani. Peraltro, nella Presentazione si sottolinea l’originalità della teoria di Morselli, rispetto alla tradizionale concezione finalistica, sotto taluni fondamentali profili: l’utilizzazione della psicologia dinamica, o del profondo, nello studio della colpa e del dolo; il rifiuto del dogma della volontà — al quale rimangono invece fedeli sia il causalismo che il finalismo — previa dimostrazione della sua inidoneità a spiegare, tra l’altro, il dolo eventuale; la concezione del reato come prodotto dell’atteggiamento interiore di mancato o insufficiente controllo dell’Io cosciente sulle pulsioni antisociali, costituente la colpa-base, rispetto alla quale il dolo si caratterizza per il quid pluris dell’atteggiamento interiore di cosciente adesione dell’Io ai propri impulsi antisociali. Sembra particolarmente significativo che in un ambiente culturale aperto al finalismo venga, così, ben percepita la portata innovativa del ruolo che la concezione psicodinamica del dolo, quale Gesinnung antisociale, esercita nell’ambito della teoria del reato: sia come portatore del significato sociale del fatto (Unrechtsträger), sia come nucleo centrale e indice base del disvalore personalistico dell’illecito, sia come criterio fondamentale per l’individuazione in astratto delle singole fattispecie e per la determinazione della corrispondenza ad esse del fatto concreto. La traduzione in esame e la sua favorevole accoglienza nella cultura penalistica latinoamericana appaiono, a ben guardare, perfettamente in linea con l’istanza metodologica, perseguita dall’autore, del rispetto dei dati della realtà criminologica, attinti utilizzando la psicologia dinamica, o del profondo. Infatti, si tratta di dati che si impongono allo stesso legislatore e, per ciò stesso, imprimono all’opera di Morselli un respiro sopranazionale e, dunque, una posizione centrale dell’odierno dibattito penalistico, sempre più attento ai profili criminologici e comparativi. (Giovanni Cerquetti).

PATRONO P., Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, CEDAM, Padova, 1993, pp. XII-183. 1. Il testo approfondisce le problematiche che sorgono nel rapporto fra libertà economica e tutela dei diritti fondamentali. Occorre infatti risolvere i punti di attrito che scaturiscono dalla necessità, da un lato, di assicurare la libertà dell’iniziativa economica privata e, dall’altro, di garantire un’adeguata tutela a quei diritti umani fondamentali che, sia nella loro dimensione individuale (ad es. salute) che in quella collettiva (ambiente), possono essere lesi o messi in pericolo nell’esercizio dell’attività di impresa. 2. L’A. paventa il pericolo che le ricorrenti e, per certi versi, comprensibili istanze di autonomia del diritto penale dell’economia, fatte proprie, oltre che dal mondo imprenditoriale, anche da molta parte della dottrina, possano condurre, se non correttamente ancorate ai principi costituzionali, ad un « diritto penale del privilegio ». Tali istanze rischiano di giustificare vere e proprie aree di impunità in nome della libertà d’impresa. Per questo l’A. ritiene che, per scongiurare tale eventualità, sia più che mai necessario approfondire il dettato di cui all’art. 41 Cost., in particolare per quanto attiene al rapporto fra primo e secondo comma, giungendo alla conclusione che, tanto nella fase dell’iniziativa economica quanto in quella del suo svolgimento, gli interessi indicati nel secondo comma (utilità sociale, libertà, sicurezza e dignità umana) costituiscano veri e propri limiti negativi costituzionalmente rilevanti. Si tratta quindi di bilanciare i diversi interessi in conflitto. Molta parte della dottrina sostiene che tale bilanciamento debba effettuarsi di volta in volta, prescindendo da aprioristiche gerarchizzazioni, che qui non avrebbero ragion d’essere. L’A. invece contesta tale im-


— 885 — postazione, rilevando come gli interessi descritti nel secondo comma, in quanto diritti della personalità, debbano qualificarsi come inviolabili o fondamentali, mercé il riferimento all’art. 2 Cost., mentre la libertà di iniziativa economica non ha certamente tale caratteristica. Per questo si può senza dubbio affermare che essa subisce i condizionamenti di quelli, senza poterli a sua volta condizionare. Una gerarchia pertanto esiste, ed è ben chiara. 3. L’A. affronta poi quello che evidentemente si caratterizza come uno dei temi cruciali e più delicati della questione: il c.d. rischio consentito. Al riguardo mette in evidenza come soltanto il legislatore possa individuare l’area di rischio consentito nell’esercizio dell’attività economica, e come altresì possa essere tollerato dall’ordinamento il rischio che possa essere leso un bene costituzionale primario soltanto quando l’attività produttiva sia strumentale alla tutela di un bene del medesimo rango. È necessario, secondo l’A., ancorare il tema del rischio consentito al principio di offensività, se non come principio costituzionalizzato (nota è la divisione della dottrina sul punto) perlomeno come « regola di civiltà fondamentalmente da rispettare ». Da ciò deriva, da un lato, che la sanzione penale debba intervenire solo nel caso in cui sussista un rischio rilevante, dall’altro che il semplice superamento della soglia di rischio non rilevante non sia di per sé sufficiente a far scattare la sanzione penale, dovendosi altresì accertare che il danno si sia verificato o che il bene sia stato effettivamente messo in pericolo. Patrono, in altri termini, assume una posizione nettamente contraria alla prassi, peraltro non certo sconosciuta al diritto penale dell’economia, di utilizzare fattispecie fondate, per ciò che attiene alla soglia di tutela, sul pericolo astratto. 4. È noto che la rilevanza costituzionale di un bene giuridico non impone al legislatore di tutelarlo penalmente, costituendo semmai criterio di legittimazione negativa, e quindi consentendo di apprestare legittimamente la sanzione penale a presidio di quel bene piuttosto che di un altro che tali caratteristiche non abbia. Se ciò ammette come regola generale, Patrono tuttavia ritiene che, in ordine ai beni fondamentali dell’individuo e della collettività, sussista un vero e proprio obbligo costituzionale di tutela. È lo stesso principio di sussidiarietà che impone — secondo l’A. — tale conclusione. In altre parole: se alla sanzione penale si può ricorrere soltanto quando il bene non possa essere adeguatamente tutelato attraverso sanzioni extrapenali, a contrario possiamo rinvenire nel medesimo principio un obbligo positivo di tutela penale rispetto a quei beni — come senza dubbio i fondamentali — che, non avendo un contenuto patrimoniale, non sono monetizzabili, e quindi non possono essere efficacemente tutelati con strumenti diversi da quello penale. Alla possibile obiezione secondo la quale il ritenere sussistente un obbligo costituzionale di tutela contrasterebbe con il principio di legalità, in quanto principio di garanzia, l’A. chiarisce come il contenuto sostanziale di detto principio stia proprio nell’individuare gli obiettivi e le tecniche di tutela conformi a Costituzione, i quali, in alcuni casi, in base ad essa assumono carattere di doverosità. Sotto questo profilo, l’A. si diffonde ad esaminare la possibile attività della Corte costituzionale, chiamata ad un compito assai delicato ma non meno doveroso. Essa infatti, se queste sono le premesse, potrà senz’altro dichiarare la illegittimità di quegli interventi legislativi tesi a ridurre la tutela dei beni fondamentali. A nulla varrebbe obiettare che una tale conclusione contrasterebbe con il principio, peraltro non direttamente costituzionalizzato, del favor rei, in quanto evidentemente il sindacato della Corte si estenderebbe alla norma di favore. Si tratta bensì di operare il bilanciamento dei beni in conflitto. Risultano di particolare interesse a questo proposito le considerazioni che l’A. svolge circa le possibili conseguenze dell’attività della Corte, diverse a seconda del tipo di sentenza. 5. In quest’ottica, l’A. ritiene che il principio di offensività possa giocare un ruolo di garanzia per le libertà dell’individuo, in quanto dovrebbe guidare il legislatore, se non altro, come si è detto, come criterio di civiltà, nella scelta di tecniche strutturate, quanto alla soglia di tutela, quantomeno sul pericolo concreto, in modo anche da consentire alla stessa Corte costituzionale un corretto bilanciamento fra beni in conflitto « effettivamente » danneggiati o messi in pericolo. Del resto, l’A. rileva come ad una marcata anticipazione della tutela cor-


— 886 — risponda spesso l’assoluta ineffettività della norma. Tale scetticismo investe anche il settore dei c.d. « beni ad ampio spettro », la scarsa afferrabilità dei quali non può costituire pretesto per rinunziare a selezionare le singole concrete modalità offensive che meritano sanzione penale, accontentandosi di un rigore simbolico che in realtà cela vaste aree di impunità. 6. Nessun ruolo significativo invece — a parere dell’A. — dovrebbe giocare il principio di effettività, visto nell’ottica di un diritto penale concepito come strumento di controllo sociale, e che dovrebbe essere inteso come idoneità, prognosticata ex ante e verificata empiricamente ex post, della pena a inibire condotte socialmente disfunzionali. Secondo Patrono, gli interessi umani fondamentali devono essere tutelati senza che possa avere alcuna decisiva importanza il principio in esame, il quale per di più — si evidenzia — non sarebbe sufficientemente univoco, in quanto il riscontro della idoneità della sanzione penale risulterebbe influenzato da fattori non sempre omogenei e talvolta contraddittori. 7. L’A. si diffonde anche sulla modellistica sanzionatoria, riguardo alla quale ritiene che i beni fondamentali che possano essere lesi nell’esercizio dell’attività di impresa debbano essere tutelati con la pena detentiva. Ciò in quanto la pena pecuniaria rischierebbe di non avere alcun effetto, né preventivo né retributivo, giacché potrebbe essere facilmente scaricata su lavoratori, consumatori e compagnie di assicurazione. 8. Di particolare interesse e attualità, vista la delicatezza e problematicità della questione, è la originale posizione che l’A. assume rispetto alla responsabilità penale delle persone giuridiche. Problema, come si sa, più volte dibattuto in dottrina, e qui liquidato come vero e proprio specchietto per le allodole, ritenuto probabile frutto della velleità sempre latente di trasferire nel diritto penale schemi di imputazione propri del diritto civile. Muovendo da una tendenziale identificazione della « pena » con il « carcere », l’A. giunge ad una conclusione drastica: giacché è evidente che la pena detentiva non può che riguardare persone fisiche, si propone di spostare la discussione su un diverso livello: occorrerebbe identificare il soggetto responsabile all’interno dell’ente collettivo, tenendo in debito conto i fenomeni di divaricazione fra proprietà e gestione, e soltanto a questi applicare le pene tradizionali. 9. Altro problema di evidente importanza è quello relativo all’efficacia del trasferimento di funzioni. È noto il vuoto legislativo in materia, da cui discendono le gravi incertezze della giurisprudenza. Nota è anche la divisione della dottrina sul punto. L’A. mette peraltro in guardia dalla tentazione di consacrare una responsabilità fondata sulla mera posizione. Non è ammissibile, avverte, che l’obbligo di garanzia incomba su chi formalmente riveste una determinata posizione in seno all’azienda, senza accertare l’effettività delle funzioni svolte. È per questo che, fra la tesi « formalistica » e quella « funzionalistica », l’A. opta senz’altro per la seconda, pur evidenziando le possibili « zone d’ombra » che dovrebbero essere al più presto chiarificate in sede legislativa. 10. L’A. si occupa attentamente, infine, della problematica relativa ai possibili contrasti fra la normativa comunitaria e i diritti inviolabili riconosciuti dalla nostra Costituzione. Il punctum dolens della questione è rappresentato dall’insoddisfacente livello di attenzione ai diritti umani nell’ambito dell’ordinamento comunitario. Manca persino — rileva l’A. — un esaustivo catalogo di diritti inviolabili. Se questa è la situazione, non può stupire che la nostra Corte costituzionale abbia in più occasioni affermato che le limitazioni alla sovranità nazionale, consentite — è noto — mercé il riferimento all’art. 11 Cost., non possano certo permettere agli organi comunitari di violare i principi fondamentali tutelati dalla nostra Costituzione. Rimane, tuttavia, il problema delle norme comunitarie direttamente applicabili. Il bilanciamento fra gli interessi economici e quelli umani fondamentali richiede una tavola di valori certa, il che nell’ordinamento comunitario non si verifica. L’aspetto più delicato, sottolinea l’A., discende dal fatto che la Comunità si è sempre finora mossa con esclusiva attenzione agli aspetti economici. La tutela concorrente dei diritti umani fondamentali rischia di


— 887 — far sorgere tensioni di difficile superamento, giacché la legittimazione di tale salto di qualità si gioca attorno al rispetto del principio di legalità. È a tale proposito che emerge uno degli aspetti più problematici, costituito dal difetto di diretta legittimazione democratica degli organi comunitari, elemento che, più in generale, concorre ad impedire la creazione di un diritto penale comunitario in senso proprio. Principio di legalità (perlomeno come riserva di legge) da un lato, e diritto inviolabile della libertà personale, dall’altro, entrambi sanciti dalla Costituzione, costituirebbero pertanto e comunque — secondo Patrono — limiti invalicabili all’espansione del diritto comunitario nel diritto interno, e ciò anche se si volesse ammettere, in astratto, una potestà punitiva sovranazionale. Date queste premesse, non sorprende infine l’avversione che l’A. mostra nei confronti delle istanze di armonizzazione della legislazione penale degli Stati membri, nonché delle proposte di fattispecie penali uniformi. La disparità che attualmente caratterizza i sistemi penali dei singoli Stati — si dice — costituirebbe motivo di distorsione del regime di concorrenza. 11. In conclusione, Patrono affronta i principali nodi problematici che occupano la dottrina in ordine al delicato rapporto fra attività produttiva e tutela dei diritti fondamentali, risolvendoli sulla base di una rigorosa presa di posizione riguardo alla gerarchia dei valori che emerge dalla Carta costituzionale (Alberto Sirani).


GIURISPRUDENZA

A) Giurisprudenza costituzionale

I CORTE COSTITUZIONALE — 9-16 maggio 1994 Pres. Casavola — Rel. Spagnoli Processo penale — Incidente probatorio — Rigetto della richiesta di estensione a soggetti divenuti indiziati solo a seguito degli accertamenti — Utilizzazione della prova nei loro confronti — Omessa previsione — Sanzione processuale per la violazione del contraddittorio (Cost. artt. 3 e 112, c.p.p. art. 403). La regola dell’inutilizzabilità soggettiva implicata dall’art. 403 c.p.p. costituisce una sanzione processuale per la violazione del contraddittorio nella procedura dell’incidente probatorio. Esso non può tuttavia trovare applicazione nei confronti di soggetti che solo successivamente all’assunzione della prova (ed eventualmente proprio sulla base di essa) sono stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che, per definizione, nessun contraddittorio poteva essere nei loro confronti assicurato (1). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1. Con ordinanza in data 28 giugno 1993, il Tribunale di Lecco ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dell’art. 403 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’utilizzabilità, nei confronti di imputati i cui difensori non hanno partecipato all’assunzione dell’incidente probatorio, della perizia disposta ai sensi dell’art. 392, primo comma, lettera f) del medesimo codice, nel caso in cui il giudice per le indagini preliminari abbia rigettato la richiesta di estensione dell’incidente per sopravvenuta modificazione dello stato dei luoghi. Premesso che l’incidente probatorio richiesto dal pubblico ministero per assumere perizia diretta ad individuare le cause di un’alluvione che aveva interessato i centri di Valmadrera e Civate si era svolto nel contraddittorio dei soli soggetti allora raggiunti da indizi di responsabilità penale (dapprima, le persone poste al vertice dell’amministrazione comunale di Valmadrera, e, successivamente, a seguito di estensione dell’incidente probatorio disposto ex art. 402 del codice di procedura penale, il sindaco e gli assessori di Civate nonché il progettista incaricato della sistemazione della Valle Toscio), e che, dopo il deposito della perizia, da cui erano emersi estremi di responsabilità penale a carico dei responsabili del Genio Civile, il giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta del pubblico


— 890 — ministero di estensione dell’incidente a tali ultimi soggetti essendo lo stato dei luoghi nel frattempo completamente mutato, il Tribunale, investito del giudizio dibattimentale riguardante i fatti sopra indicati, osserva che, stante il divieto posto dall’art. 403 del codice di procedura penale, la perizia svoltasi nell’incidente non può essere utilizzata nei confronti degli imputati i cui difensori non erano stati posti in grado di partecipare alla sua assunzione. Secondo il Tribunale, tale disciplina, determinando una sorta di impunità per coloro la cui responsabilità penale è emersa solo dopo l’espletamento della perizia e il mutamento dello stato dei luoghi (tale da rendere la prova non più ripetibile), è innanzi tutto irragionevole, in quanto preclude l’accertamento della verità senza che ciò sia imposto dal rispetto del diritto di difesa. Questo può essere infatti esercitato da tutti gli imputati attraverso la citazione e l’esame del perito in dibattimento, eventualmente con l’ausilio di un consulente tecnico, così da rendere possibile la confutazione o il chiarimento delle conclusioni cui è pervenuto il perito. Inoltre, a parere del giudice a quo, è profilabile una chiara disparità di trattamento tra imputati, a seconda che sia stato o non sia stato oggettivamente possibile procedere in corso di incidente probatorio alla sua estensione. Infine, si deduce nell’ordinanza, la disposizione impugnata determina un ostacolo all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero; ostacolo che non deriva da inerzia dell’organo inquirente ma da oggettiva impossibilità. Quanto alla rilevanza della questione, il Tribunale osserva che nella specie l’unica prova raccolta a carico degli imputati nei cui confronti non è stato possibile estendere l’incidente è rappresentata, per l’appunto, dalla perizia assunta in tale sede; talché, stante il divieto di utilizzazione contenuto nella norma impugnata, sarebbe inevitabile nei loro confronti l’immediata declaratoria di assoluzione ‘‘per mancanza di prove che gli imputati hanno commesso il fatto’’. 2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, in quanto basata su un erroneo presupposto interpretativo. Secondo l’Avvocatura, allorché, come nella fattispecie, gli elementi di colpevolezza in ordine a uno stesso fatto si concretino in momenti diversi per i vari imputati (con le conseguenti nuove iscrizioni nel registro delle notizie di reato), si è in presenza non di un unico, ma di distinti procedimenti penali, i quali mantengono la loro natura anche dopo un eventuale provvedimento di riunione. Ne deriva, secondo la difesa del Governo, che nei confronti di coloro che hanno assunto la qualità di indagati successivamente all’assunzione della prova in incidente probatorio non opera la preclusione dettata dall’art. 403 e si applichi invece la disciplina degli artt. 238 (acquisibilità di verbali di prove di altro procedimento) e 511-bis del codice (lettura di verbali di prove di altri procedimenti). Diversamente, si osserva ancora nell’atto di intervento, si dovrebbe assurdamente concludere che il regime di utilizzazione delle prove assunte in incidente probatorio dipende da evenienze accidentali quali la riunione o separazione dei procedimenti. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il Tribunale di Lecco ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l’utilizzabilità, nei confronti di imputati i cui difensori non hanno partecipato


— 891 — all’assunzione dell’incidente probatorio, della perizia disposta a norma dell’art. 392, primo comma, lettera f) del medesimo codice, nel caso in cui il giudice per le indagini preliminari abbia rigettato, per sopravvenuta modifica dello stato dei luoghi, la richiesta di estensione dell’incidente probatorio a tali soggetti. Secondo il giudice rimettente, la norma impugnata contrasterebbe, innanzi tutto, con il principio di ragionevolezza, in quanto determinerebbe una sorta di impunità per coloro la cui responsabilità penale è emersa solo dopo l’espletamento della perizia e il mutamento dello stato dei luoghi, tale da rendere la prova non più ripetibile. Sarebbe inoltre violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della disparità di trattamento tra imputati, dipendendo l’utilizzabilità soggettiva della prova assunta in incidente probatorio dalla circostanza che sia stato o meno oggettivamente possibile procedere all’estensione dell’incidente. Infine, risulterebbe leso anche l’art. 112 Cost., per l’ostacolo che tale disposizione determina all’esercizio dell’azione penale nei confronti di alcuni imputati. 2. La questione è infondata, nei termini che verranno di seguito precisati. Sebbene il quesito dal giudice a quo sia circoscritto al caso della non estensibilità dell’incidente probatorio ad altri indagati in relazione alla non reiterabilità della prova (nella specie, perizia) per sopravvenuta modificazione dello stato dei luoghi, la soluzione del problema di costituzionalità dipende, più in generale, dalla definizione della sfera di applicabilità soggettiva dell’art. 403 cod. proc. pen., che limita l’utilizzabilità delle prove assunte con l’incidente probatorio ‘‘nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione’’. In altri termini, occorre preliminarmente stabilire se tale dettato normativo si estenda anche all’ipotesi in cui la mancata partecipazione dei difensori di alcuni soggetti, poi imputati, derivi dalla circostanza che, come è avvenuto nel procedimento a quo, al momento dell’assunzione della prova non erano ancora emersi elementi indizianti nei loro confronti. 3. La disposizione sottoposta a scrutinio di costituzionalità costituisce sviluppo attuativo della direttiva n. 40 dell’art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987 n. 81, che, in tema di incidente probatorio, prevede l’obbligo ‘‘di garantire la partecipazione in contraddittorio del pubblico ministero e dei difensori delle parti direttamente interessate’’ (seconda subdirettiva); nonché, il divieto di ‘‘... utilizzare le dichiarazioni concernenti persone diverse da quelle chiamate a partecipare’’ (terza subdirettiva). Interpretando la ratio di tali previsioni, il legislatore delegato ha, nell’art. 403 cod. proc. pen., esteso opportunamente il divieto di utilizzabilità soggettiva a tutte le prove assunte senza la partecipazione dei difensori dei soggetti ad esse interessati, e, quindi, al di là di quelle consistenti in dichiarazioni, le sole formalmente considerate dalla subdirettiva da ultimo citata. Che la norma impugnata sia stata concepita in funzione della salvaguardia del contraddittorio, espressione del più generale diritto di difesa, si ricava, oltre che dallo stretto collegamento tra le predette direttive della legge-delega, dall’esame sistematico di altre disposizioni collocate nel titolo VII del libro V del codice: in particolare, dall’art. 393, primo comma, lettera b), per il quale nella richiesta di incidente devono essere indicate ‘‘le persone nei confronti delle quali si procede per i fatti oggetto della prova’’; dall’art. 395, che prevede la notificazione della richiesta, a cura di chi l’ha proposta, alle persone come sopra indicate (nonché, come affermato da questa Corte con la sentenza n. 436 del 1990, ai relativi difensori); dall’art. 396, che regola il contraddittorio preventivo circa l’ammissibilità e


— 892 — la fondatezza della richiesta di incidente, stabilendo un termine per la presentazione di deduzioni scritte; dall’art. 398, secondo comma, lettera b), a tenore del quale, nell’ordinanza che accoglie la richiesta, il giudice indica ‘‘le persone interessate all’assunzione della prova individuale sulla base della richiesta e delle deduzioni’’; dall’art. 401, primo comma, che prevede la partecipazione necessaria all’udienza ‘‘del difensore della persona sottoposta alle indagini’’; e dal sesto comma del medesimo articolo, che pone il divieto di ‘‘estendere l’assunzione della prova a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all’incidente probatorio’’, salvo, peraltro, quanto previsto dall’art. 402, che prevede la necessaria integrazione del contraddittorio in caso di formale richiesta di estensione dell’incidente ad altri soggetti interessati. Dal complesso di tali previsioni può dunque desumersi che la regola di inutilizzabilità soggettiva implicata dall’art. 403 costituisce una sanzione processuale per la violazione del principio del contraddittorio, in funzione del quale, come si esprime la Relazione al progetto preliminare del codice (p. 99), l’istituto dell’incidente probatorio è stato ‘‘costruito’’. 4. Poiché l’art. 403 in tanto può trovare applicazione in quanto non sia stato, nel concreto, assicurato il contraddittorio, che si traduce nella regola della partecipazione del difensore della persona sottoposta alle indagini all’assunzione della prova della cui utilizzazione si discute, da tale disposizione non può derivare l’inutilizzabilità della prova formatasi in sede di incidente probatorio nei confronti di soggetti che solo successivamente all’assunzione della prova (ed eventualmente, come nel caso in esame, proprio sulla base di essa) sono stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che, per definizione, nessun contraddittorio poteva essere nei loro confronti assicurato. Ed infatti, come questa Corte ha costantemente rilevato, nel processo penale, prima che esista una notizia di reato e che essa si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona, non può esistere un problema di tutela del diritto di difesa (sentenze nn. 236 del 1988; 29 e 104 del 1977; 300 del 1974; 179 del 1971; 2 del 1970; 149 del 1969; ordinanza n. 655 del 1988), posto che all’indagato o al coindagato ‘‘ignoto’’ non è assicurato alcun tipo di difesa tecnica. Un tale principio, affermato alla luce dell’art. 24 Cost. con riferimento al previgente ordinamento processuale, non può che essere ribadito nel nuovo, non ponendo il codice del 1988, sotto questo riguardo, diverse problematiche. D’altra parte, la disposizione dell’art. 403 si limita a trascrivere, in chiave di utilizzabilità degli atti, la regola di invalidità della prova istruttoria, assunta in violazione delle norme sull’assistenza difensiva, già contenuta nel codice del 1930. Una diversa lettura della disposizione impugnata, che non ne individuasse la ratio di sanzione collegata alla violazione delle regole sul contraddittorio previste per l’incidente probatorio, e le attribuisse quindi un valore ‘‘assoluto’’, condurrebbe a ritenere fondati i dubbi di costituzionalità evidenziati dal giudice a quo. In particolare risulterebbe violato l’art. 112 Cost., perché, nei confronti di coindagati ‘‘ignoti’’, non sarebbe consentito compiere atti di assicurazione della prova non rinviabile al dibattimento, tali da rendere possibile l’esercizio dell’azione penale, e l’affermazione delle eventuali responsabilità, una volta raggiunta la loro individuazione. Verrebbe anche in causa il principio di ragionevolezza, non essendo comprensibile come altri atti compiuti nella fase delle indagini, suscettibili di varia uti-


— 893 — lizzazione dibattimentale — e in primis gli accertamenti tecnici non ripetibili ex art. 360 cod. proc. pen. —, per i quali la legge preveda garanzie difensive, sia pure diverse dalla partecipazione necessaria ad un’attività di udienza, possano essere sottratti ad un simile regime di radicale inutilizzabilità soggettiva. Tale considerazione porta dunque a privilegiare, anche a prescindere da quanto sopra osservato, l’interpretazione conforme a Costituzione. 5. È il caso di sottolineare che è rimessa all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria l’individuazione di quali persone, in relazione all’atto da assumere, debbano essere considerate ‘‘indagati’’, in quanto raggiunte da elementi indizianti. E tale apprezzamento ben può essere vagliato dal giudice del dibattimento, ai fini dell’eventuale applicazione del divieto di utilizzazione probatorio sancito dall’art. 403. Resta fermo, per altro verso, che l’utilizzabilità nel dibattimento della prova assunta in incidente probatorio nei confronti di soggetti solo successivamente sottoposti a indagini non incide in alcun modo sul loro diritto alla prova, tutelato dall’art. 190 cod. proc. pen. Ne consegue che, se vi è richiesta di parte, il mezzo di prova, ove non sia manifestamente superfluo o irrilevante, deve essere rinnnovato in sede dibattimentale; non escluso — trattandosi, come nel caso in esame, di perizia su luoghi che abbiano subito modificazione — quello che si basi sull’obbiettività della documentazione acquisita agli atti del procedimento. 6. Una volta interpretata la disposizione impugnata nei termini sopra esposti, la questione, in relazione ai profili invocati, va dichiarata non fondata nei sensi di cui in motivazione. (Omissis).

II CORTE COSTITUZIONALE — 12-26 maggio 1994 Pres. Casavola — Rel. Vassalli Processo penale — Acquisizione di prove formate con incidente probatorio in altro procedimento — Mancata partecipazione del difensore alla loro assunzione (Cost. artt. 3 e 24 comma 2, c.p.p. art. 238 comma 1). L’art. 238 comma 1, nel testo sostituito dall’art. 3 comma 1 d.l. 8 giugno 1992, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, deve attestarsi su di un’interpretazione che — non diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza costituzionale n. 181 del 1994 — la àncori all’osservanza della salvaguardia del contraddittorio. Esso in tanto potrà ricevere applicazione di fronte a una prova assunta con incidente probatorio senza la presenza del difensore, in quanto i soggetti nei confronti dei quali la prova dovrà essere utilizzata non avessero o non potessero ancora assumere la qualità di persone sottoposte alle indagini per non essere stati ancora raggiunti da indizi di colpevolezza (2). (Omissis). — RITENUTO IN FATTO. — 1.

Nel corso del dibattimento penale a


— 894 — carico di Milanini Valentino, imputato del reato di cui all’art. 479 c.p., il Pubblico ministero richiedeva, ai sensi dell’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, introdotto dall’art. 3, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, con modificazioni, l’acquisizione della perizia espletata nelle forme dell’incidente probatorio in altro procedimento a carico di altre persone, indagate ‘‘per reati diversi da quello per cui ora si procede’’. Il difensore dell’imputato si opponeva alla richiesta in quanto la prova si era formata senza la sua partecipazione, con conseguente inutilizzabilità della perizia ai sensi dell’art. 403 del codice di procedura penale. Il giudice a quo premette che il precetto di cui viene richiesta l’applicazione da parte del Pubblico ministero rappresenta una vera e propria deroga al principio stabilito dall’art. 403 del codice di procedura penale. In favore di una simile interpretazione sarebbero invocabili una serie di univoci rilievi. Anzitutto, non si comprenderebbe la diversa disciplina rispetto alle prove assunte in dibattimento ovvero nel giudizio civile (entrambe assoggettate, invece, al medesimo regime, ai sensi del primo e del secondo comma dell’art. 238); inoltre, dovendosi ‘‘utilizzare prove formate in una situazione generalmente analoga a quella regolata dall’art. 403’’, l’assenza di un esplicito richiamo a tale disposizione indicherebbe chiaramente che il legislatore del 1992 ha voluto escluderne l’applicabilità; ancora, perché la finalità perseguita dalla modifica normativa sarebbe, appunto, nel senso di non disperdere gli elementi di prova, di realizzare l’economia dei giudizi e ‘‘di evitare la naturale diminuzione dell’efficacia rappresentativa delle prove orali che consegue di solito alla loro ripetizione in vari processi’’: un principio la cui operatività resta, peraltro, limitata dalla possibilità di rinnovare l’assunzione delle sole ‘‘prove dichiarative’’ quando ciò risulti necessario e che si giustifica proprio a tutela delle parti che non siano state in grado di partecipare al processo nel quale la prova èstata assunta. Senza contare che la tesi sostenuta dalla difesa ridurrebbe drasticamente l’ambito di operatività dell’art. 238 del codice di procedura penale, dato che solo in ipotesi marginali si potrà avere identità di parti nei due processi e, quindi, applicazione anche dell’art. 403 dello stesso codice. Tutto ciò premesso, il giudice a quo ha, con ordinanza del 14 maggio 1993, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, ‘‘nella parte in cui consente l’acquisizione agli atti del processo della perizia assunta in altro procedimento nelle forme dell’incidente probatorio, anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione’’. In relazione alla dedotta violazione del diritto di difesa, rileva il rimettente che, se è vero che tale diritto ‘‘non va esteso fino a garantire, sempre e comunque, il contraddittorio nella formazione della prova’’, è anche vero che, alla stregua della giurisprudenza costituzionale pronunciatasi relativamente a precetti dell’abrogato codice di rito, può porsi rimedio all’inosservanza del contraddittorio soltanto attraverso ‘‘la ripetibilità dell’atto’’, mentre per la perizia non è ‘‘previsto il diritto alla rinnovazione’’. Oltre tutto, si tratta di un ‘‘mezzo di prova particolarmente articolato e complesso’’ riguardo al quale il contributo della difesa, anche mediante la nomina di consulenti tecnici, può risultare di particolare importanza, purché venga assicurata la sua partecipazione ‘‘nella fase del conferimento dell’incarico ed in quella delle operazioni peritali, e non solo successivamente con l’even-


— 895 — tuale esame del perito e degli eventuali consulenti tecnici’’. Né un simile dubbio potrebbe essere superato facendo appello al potere del giudice di procedere di ufficio alla rinnovazione dell’atto, venendo in considerazione il diritto alla prova, qui da ritenere compresso oltre il limite consentito dall’art. 24 della Costituzione. Il principio di eguaglianza risulterebbe compromesso perché la diversità di protezione del diritto di difesa resta commisurato, in materia di indagini collegate, alla scelta — del tutto insindacabile — del Pubblico ministero di procedere o no unitariamente, ‘‘con la concreta conseguenza che, nel primo caso, la perizia di cui all’attuale richiesta del P.M. non sarebbe stata utilizzabile nei confronti dell’attuale imputato se anche la sua difesa — con l’eventuale consulente tecnico di parte — non vi avesse partecipato’’, mentre nel caso opposto resterebbe comunque utilizzabile. 2. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata. L’inammissibilità conseguirebbe ad un’errata interpretazione della norma censurata, interpretazione per giunta contraddetta da una consolidata giurisprudenza. L’infondatezza dal non essere ipotizzabile la violazione di alcun parametro costituzionale: non dell’art. 24, ‘‘poiché con la detta disposizione si è inteso garantire il diritto alla difesa tecnica, diritto che appare adeguatamente tutelato nel caso di specie’’, non dell’art. 3, ‘‘poiché non si vede come, sia pure ipoteticamente, possa essere configurata una disparità di trattamento nelle garanzie difensive quando la diversità di disciplina deriverebbe comunque da fatti imputabili alla stessa parte’’. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il Tribunale di Pistoia dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità dell’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, nel testo introdotto dall’art. 3, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ‘‘nella parte in cui consente l’acquisizione agli atti del processo della perizia assunta in altro procedimento nelle forme dell’incidente probatorio, anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione’’. Di fronte ad una richiesta del Pubblico ministero volta all’acquisizione agli atti del processo della perizia espletata nelle forme dell’incidente probatorio in un diverso procedimento penale nei confronti di altre persone e relativo a reati privi di ogni collegamento con quelli per cui attualmente si procede, acquisizione alla quale si era opposto il difensore dell’imputato deducendo l’inutilizzabilità dell’atto per l’ostacolo derivante dall’art. 403 del codice di procedura penale, il Tribunale, ritenuta l’utilizzabilità della perizia nel processo a quo, ha ravvisato nella disciplina risultante dalla norma denunciata violazione del principio di eguaglianza, sotto il profilo della disparità di trattamento, e del diritto di difesa. Il rimettente muove dal presupposto che l’intervenuta ‘‘novellazione’’ della norma oggetto di censura comporti una deroga alle disposizioni di garanzia previste in tema di incidente probatorio: sia perché ‘‘non si comprenderebbe il motivo della diversa disciplina, sul punto, tra le prove assunte nell’incidente probatorio e


— 896 — quelle assunte nel dibattimento’’ ovvero nel giudizio civile, relativamente alle quali ‘‘quella condizione sul contraddittorio non è prevista’’; sia perché la mancanza di un esplicito richiamo all’art. 403 del codice di procedura penale conduce a ritenere la sicura inapplicabilità di tale disposizione; sia, infine, perché l’utilizzazione della prova assunta con incidente probatorio in deroga alle previsioni di garanzia corrisponde alla finalità perseguita dal legislatore che è quella di non disperdere i mezzi di prova, di realizzare l’economia dei giudizi e ‘‘di evitare la naturale diminuzione dell’efficacia rappresentativa delle prove orali che consegue di solito alla loro ripetizione nei vari processi’’, una finalità che resterebbe drasticamente ridimensionata ove si affermasse la necessaria concomitante applicazione dell’art. 403, riducendosi l’operatività dell’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale ai soli casi di identità di parti nell’uno e nell’altro procedimento. 2. Proprio con riguardo a tale lettura della norma denunciata, l’Avvocatura Generale dello Stato, nel suo atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei Ministri, ha preliminarmente espresso le sue riserve, addebitando alla questione proposta di fondarsi su una non corretta interpretazione del ‘‘novellato’’ art. 238 del codice di procedura penale, da intendersi, invece, nel senso che l’utilizzabilità ‘‘esterna’’ dei verbali resterebbe in ogni caso condizionata all’osservanza delle disposizioni di garanzia relativamente alle persone nei confronti delle quali i verbali stessi vengono fatti valere. L’eccezione, così come proposta, deve essere disattesa. L’interpretazione avanzata dal giudice a quo, nel senso dell’utilizzabilità della prova assunta con incidente probatorio in altro procedimento pur in assenza del difensore dell’imputato appare, infatti, non superabile attraverso il semplice richiamo alle disposizioni di ‘‘garanzia’’ in tema di incidente probatorio. Sulla base di una completa verifica dell’integrale contesto normativo in cui è venuto ad inserirsi l’art. 238 del codice di procedura penale non potrebbe altrimenti scorgersi, relativamente all’acquisizione in altri processi dei verbali di assunzione anticipata della prova, il significato delle ‘‘novellazioni’’ che, in forza dell’art. 3 del decretolegge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, hanno attinto la norma ora oggetto di censura. Il raffronto fra la vigente e l’abrogata disciplina sembra confermare che il nuovo testo dell’art. 238 del codice di procedura penale ha effettivamente modificato il tessuto normativo disciplinante il regime di utilizzazione in altri processi dei verbali di prova assunta con incidente probatorio. Il tutto proprio riscontrando le ‘‘novellazioni’’ che hanno coinvolto, non soltanto, la norma oggetto di censura, ma anche le ulteriori disposizioni che in qualche modo a tale norma si collegano. Relativamente al primo comma dell’art. 238, la novazione riguarda soprattutto la parte che consentiva l’‘‘acquisizione di prove di altro procedimento penale’’ (si parla ora di ‘‘verbali di prova’’, e la modifica, oltre che dettata da esigenze di ammordernamento formale, è forse anche destinata ad accentuare la valenza della trasposizione del contenuto della prova nella scrittura) ‘‘se le parti vi consentono’’ e si tratta di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento ‘‘ovvero di verbali di cui è stata data lettura durante lo stesso’’. Il terzo comma del medesimo art. 238 (che nel testo precedente rendeva ‘‘comunque consentita l’acquisizione della documentazione di atti che non sono ripetibili’’) risulta, poi, riformulato in modo tale da autorizzare anche l’acquisizione di atti divenuti irripetibili


— 897 — per cause sopravvenute, mentre il suo quarto comma autorizza, ‘‘se le parti vi consentono’’, l’utilizzazione nel dibattimento dei verbali di dichiarazioni; in mancanza del consenso delle parti l’uso dei verbali rimane circoscritto alle contestazioni a norma degli artt. 500 e 503, ferma restando l’acquisizione dei verbali di prove e della documentazione previsti nei primi tre commi dello stesso art. 238. Per le sole dichiarazioni, poi, ‘‘resta fermo’’ alla stregua del quinto comma (del tutto assente prima della ‘‘novellazione’’), ‘‘il diritto delle parti di ottenere a norma dell’art. 190’’ (e salvo quanto previsto dall’art. 190-bis) ‘‘l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite a norma dei commi 1, 2 e 4 del presente articolo’’. 3. Il panorama normativo ora ricordato pare, dunque, enucleare, con riferimento all’utilizzazione di verbali di prove assunte con l’incidente probatorio — più specificamente, con riguardo alla perizia, in ordine alla quale l’ordinanza di rimessione incentra le sue doglianze — un regime derogatorio alle regole stabilite dalla legge quanto alla possibilità di ammettere che la prova acquisita anticipatamente in un processo divenga utilizzabile in un altro processo. Il fatto che il ‘‘vecchio’’ testo dell’art. 238, primo comma, subordinasse l’acquisizione dell’incidente al di fuori del processo nel corso del quale era stato assunto al consenso delle parti si fondava, senza alcun dubbio, su una ratio volta ad estendere alla prova anticipata il regime delle prove assunte in dibattimento, secondo il principio, già affermato da questa Corte (sentenze n. 559 del 1990 e n. 74 del 1991), in base al quale — ‘‘addivenendosi con l’incidente probatorio all’assunzione anticipata di mezzi di prova destinati ad acquisire la forza probatoria propria delle prove espletate in dibattimento’’ — l’‘‘interpretazione letterale’’ del disposto del quinto comma dell’art. 401 (ove si prescrive, in via generale, che ‘‘le prove sono assunte nelle forme stabilite per il dibattimento’’) ‘‘rende chiaro che le modalità di espletamento’’ della prova ‘‘nell’incidente probatorio sono quelle stesse che valgono per la fase dibattimentale’’, con estensione del contraddittorio anche al profilo oggettivo di assunzione della prova. La possibilità di assegnare all’incidente probatorio anche il ruolo di veicolo per la formazione della prova in procedimenti connessi o collegati, purché, ovviamente, venisse, pure qui, assicurato nel suo espletamento un pieno contraddittorio, si coordinava, quindi, al regime di utilizzazione della prova in altri processi, comunque subordinata al consenso delle parti; il tutto coerentemente a quanto disposto in relazione all’acquisizione di prove assunte ‘‘nel dibattimento ovvero di verbali di cui è stata data lettura nello stesso’’. 4. La norma denunciata sembrerebbe, dunque, derogare a varie disposizioni relative all’acquisizione delle prove assunte con incidente probatorio. In primo luogo, all’art. 403 che, nel rispetto del principio del contraddittorio, insito nell’osservanza (art. 401, quinto comma) delle norme stabilite per il dibattimento (normale punto di arrivo dell’incidente) prescrive che nel dibattimento le prove assunte con l’incidente probatorio sono utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione: un precetto contrassegnato dalla caratteristica fisionomia della fase ove la prova viene assunta e la cui riferibilità soggettiva può dilatarsi in corrispondenza dei singoli momenti procedimentali che precedono la definitiva presa di contatto del Pubblico ministero con il giudice, fino a coinvolgere persone cui non risulta assegnata una specifica qualità nel procedimento in corso ma che rivestono, o potrebbero rivestire, un ruolo pro-


— 898 — cessuale definito in altro procedimento. In secondo luogo, con l’art. 401, sesto comma, che (salvo per i casi di estensione dell’incidente probatorio) fa divieto di ampliare la prova da assumere a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all’incidente probatorio e di verbalizzare dichiarazioni riguardanti tali soggetti. Infine, al regime previsto dall’art. 402 che concerne l’estensione dell’incidente probatorio, autorizzata solo dopo aver provveduto alle necessarie notifiche alla persona sottoposta alle indagini, alla persona offesa e ai difensori (art. 398, terzo comma) così da consentire la loro partecipazione all’assunzione della prova. 5. Non sembra inopportuno rimarcare come il sistema delineato dal ‘‘nuovo’’ art. 238 riveli una peculiare predisposizione a disciplinare l’utilizzazione in altri processi delle prove che consistono in dichiarazioni. Con specifico riferimento, indotto dai limiti del thema decidendum, ai verbali di prova assunta con incidente probatorio, la regolamentazione dettata dalla norma oggetto di censura si coniuga, infatti (se si eccettui il regime delle prove assunte con le modalità previste dall’art. 190-bis), con il principio, pur esso risultante dalla disciplina dettata dal legislatore del 1992, in base al quale le prove che vengano riversate in un altro processo perdono — in certo senso — la loro valenza originaria, restando ‘‘fermo il diritto di ottenere ai sensi dell’art. 190 l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite a norma dei commi 1 (2 e 4) del presente articolo’’. Rimane così assicurato il contraddittorio sulla prova, la quale non resta un’entità immota, acquisita come tale nel processo, divenendo, invece, oggetto della dialettica dibattimentale in forza della presenza della difesa tecnica dei nuovi soggetti interessati. Ciò non soltanto per una ragione connaturata alla morfologia della dichiarazione, ma anche (e soprattutto) perché, a norma del combinato disposto degli artt. 511 e 511bis del codice di procedura penale (quest’ultimo aggiunto dall’art. 8 comma 1-bis della legge n. 356 del 1992), la lettura dei verbali delle dichiarazioni (che costituisce il veicolo attraverso il quale la dichiarazione resa nell’incidente probatorio diviene utilizzabile nell’altro processo) ‘‘è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese’’ (v. art. 511, secondo comma, appositamente richiamato dall’art. 511-bis). Dal fatto che venga evocato l’art. 511, secondo comma, emerge, ancora, che il nuovo regime dettato dall’art. 238 si presenta come speciale rispetto a quello riguardante le dichiarazioni acquisite nel processo nel quale la prova viene formata, così, da un lato, da scongiurare un’inerte acquisizione di verbali di atti, e, dall’altro lato, da assicurare l’osservanza pure per tali atti del principio di oralità garantito, appunto, dall’art. 511, secondo comma, del codice di procedura penale. 6. Poiché le censure del rimettente risultano incentrate sull’utilizzazione della perizia, non pare inopportuno sottolineare — anche se un simile rilievo non immuta di molto i termini della questione — come dal raffronto tra il regime predisposto relativamente alla lettura degli atti in dibattimento e quello concernente le prove assumibili con incidente probatorio pare debba ricavarsi una qualche distinzione tra gli atti che consistono in dichiarazioni e gli atti di natura diversa, tra i quali deve appunto annoverarsi la perizia, soprattutto nei casi — come quello di specie — in cui l’acquisizione anticipata della prova sia legittimata dalle ragioni indicate nell’ultimo comma dell’art. 392 del codice di procedura penale. Il fatto che l’art. 511, terzo comma, stabilisca che la lettura della relazione peritale è di-


— 899 — sposta solo dopo l’esame del perito non sembra, infatti, implicare alcuna assimilazione tra la perizia e la dichiarazione, essendo la prima un mero parere tecnico che, oltre tutto, nel caso in cui sia stata disposta a norma dell’art. 392, ultimo comma, del codice di procedura penale, resta enucleata nella relazione che, acquisita al fascicolo per il dibattimento a norma dell’art. 431 del codice di procedura penale, rimane, pur nel regime di oralità assicurato, oltre che dalle disposizioni in tema di incidente probatorio, dall’art. 511, terzo comma, il mezzo di prova concretamente riversato nell’istruzione dibattimentale. D’altra parte, a differenza della dichiarazione, la perizia resta designata — soprattutto quando provenga da incidente probatorio — dall’attivazione di un subprocedimento che, per la necessità di svolgere indagini o acquisizioni di dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (art. 220, primo comma), postula l’esplicazione massima del contraddittorio e l’esigenza di assicurare, proprio in quella fase, tutte le garanzie connesse all’esercizio della difesa tecnica (si pensi alla possibilità di nomina, ad opera delle parti, di propri consulenti tecnici, al regime della ricusazione, ecc.). Ed in effetti, che il legislatore del 1992 — certo attento più al regime delle dichiarazioni che non a quello degli altri mezzi di prova relativamente ai quali è ammessa l’acquisizione anticipata — abbia finito per contemplare per l’utilizzazione in altro processo della perizia assunta con incidente probatorio una disciplina in parte peculiare risulta proprio dal disposto del già richiamato art. 511-bis. Con tale norma si è estesa alle dichiarazioni acquisite ex art. 238 del codice di procedura penale la disciplina delle dichiarazioni acquisite nello stesso procedimento, espressamente evocandosi, attraverso il rinvio all’art. 511, secondo comma, la prescrizione in base alla quale la lettura di verbali di dichiarazioni (quindi, anche di quelle provenienti da un incidente probatorio) è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo. Una regola che, invece, risulterebbe del tutto inadeguata in relazione alla perizia derivante da incidente probatorio assunto ex art. 392, ultimo comma. Non a caso, quindi, l’art. 511-bis, nella sua ultima parte, non reca, con riferimento alla perizia, alcun richiamo all’art. 511, terzo comma, in base al quale la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del perito. Dunque, la perizia assunta con incidente probatorio penetra in un altro processo con il solo veicolo della lettura a norma della prima parte dell’art. 511-bis. Il che sembra confermare, come, con riferimento a tale mezzo di prova, il legislatore non abbia predisposto neppure quelle stesse garanzie di oralità che assistono le dichiarazioni. Tuttavia ad una tale omissione resterebbe possibile — ma solo in parte — porre riparo attraverso l’esercizio, anche officioso (v. art. 224 del codice di procedura penale), del potere del giudice di disporre una nuova perizia, ferma restando l’utilizzazione del precedente mezzo di prova nonostante che al suo espletamento la parte non abbia potuto partecipare. 7. Così precisati gli elementi di sicura novità che hanno coinvolto, in conseguenza del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, non soltanto l’art. 238 del codice di procedura penale, ma il sistema tutto dell’utilizzazione delle prove assunte in altri procedimenti — una precisazione che vale a disattendere, dunque, sotto ogni ulteriore aspetto, l’eccezione dell’Avvocatura Generale dello Stato — resta ora da stabilire se la lettura complessiva della norma


— 900 — denunciata proposta dal giudice a quo sia da ritenere corretta anche alla luce dei presupposti richiesti dalla legge perché la prova assunta attraverso la procedura di cui all’art. 392 e seguenti del codice di procedura penale possa dirsi (prima ancora che utilizzabile) validamente formata nonostante la mancata partecipazione del difensore del soggetto interessato. Il rimettente, muovendo dal rilievo — nel quale resta enucleato lo stesso giudizio negativo circa la legittimità costituzionale della norma denunciata — che, a seguito della novellazoine dell’art. 238 del codice di procedura penale, la prova (nella specie la perizia) assunta con incidente probatorio sia comunque utilizzabile nell’altro processo, ‘‘anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione’’, incentra la sua verifica interpretativa esclusivamente sull’utilizzazione ‘‘esterna’’ della prova. Ma, così operando, sembra trascurare l’esigenza che un’esatta lettura dell’art. 238 ‘‘novellato’’ postula che vengano, prima ancora, individuati i presupposti implicitamente richiesti dalla legge perché l’utilizzazione possa comunque aver luogo. Di talché, così come proposta, la questione appare la risultante di un’interpretazione della norma censurata non attenta ad una condizione indispensabile per procedere alla stessa verifica di costituzionalità; quella, cioè, riguardante il momento in cui sorge il dovere dell’ufficio di avvisare il difensore dell’assunzione dell’incidente probatorio e del corrispondente diritto del difensore stesso di essere avvisato dell’assunzione anticipata della prova. Una condizione che, implicando un indissolubile collegamento (oltre che una, almeno apparente, deroga) con tutte le norme di garanzia predisposte dal legislatore in materia di incidente probatorio, deve essere oggetto di una verifica dimostrativa, non potendo presupporsi come un vero e proprio enunciato dogmatico. Il regime derogatorio finisce, infatti, per coinvolgere non soltanto l’art. 403, direttamente chiamato in causa dal rimettente, ma pure gli artt. 393, primo comma, lettera b) (quale risultante a seguito della sentenza n. 436 del 1990), 398, secondo comma, lettera b), 401, primo e sesto comma, e 402 del codice di procedura penale, disposizioni tutte che disciplinano il contraddittorio nella fase immediatamente successiva alla richiesta di assunzione della prova. 8. Ogni ulteriore accertamento interpretativo — pur necessario considerato il petitum avuto di mira dal rimettente — deve allora essere preceduto da una diversa operazione ermeneutica avente ad oggetto, prima che i riverberi della prova assunta con incidente probatorio in altri processi, i presupposti dai quali desumere se — nel sistema previsto dall’art. 392 e seguenti del codice di procedura penale — la prova formata anticipatamente possa dirsi validamente assunta e, quindi, legittimamente utilizzabile nello stesso processo nonostante che il difensore della persona interessata non abbia partecipato alla sua formazione; non foss’altro perché condizione implicitamente ricavabile dalla norma oggetto di censura è che la procedura delineata dalle disposizioni ora ricordate sia stata osservata, così da consentire (almeno) una qualche utilizzazione in quel processo dell’incidente espletato. 9. Questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla conformità agli artt. 3 e 112 della Costituzione dell’art. 403 del codice di procedura penale, sottoposto al vaglio di legittimità nella parte in cui non prevede l’utilizzabilità, nei confronti di imputati i cui difensori non hanno partecipato all’incidente probatorio, della perizia disposta a norma dell’art. 392, primo comma, lettera f), dello stesso codice, ove il giudice per le indagini preliminari abbia denegato, per sopravvenuta modifica


— 901 — dello stato dei luoghi, la richiesta di estensione dell’incidente probatorio a tali soggetti, ha, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 181 del 1994, dichiarato non fondata la questione, indicando all’interprete i criteri da adottare ai fini di una corretta applicazione sia dell’art. 403 sia di tutte le altre norme legate alla prima e tra di loro da un rapporto di vicendevole interdipendenza — dettate a garanzia dei soggetti nei confronti dei quali la prova così assunta è utilizzabile. Nella suddetta sentenza la Corte ha precisato come ‘‘la regola dell’inutilizzabilità soggettiva’’ rappresenti una conseguenza della ‘‘violazione del principio del contraddittorio in funzione del quale, come si esprime la relazione al progetto preliminare (p. 99), l’istituto dell’incidente probatorio è stato costruito’’. Almeno nell’ambito di uno stesso procedimento, dunque, l’art. 403 del codice di procedura penale in tanto è in grado di impedire l’utilizzazione della prova nei confronti di imputati i cui difensori non abbiano partecipato all’incidente probatorio in quanto il principio del contraddittorio di cui la norma costituisce diretta applicazione venga effettivamente vulnerato. Il che si verifica solo nel caso in cui i soggetti nei confronti dei quali la prova è destinata ad essere utilizzata abbiano già assunto la qualità di indagati e non anche quando l’utilizzazione riguardi soggetti ‘‘che solo successivamente all’assunzione della prova’’ ovvero proprio sulla base di essa ‘‘sono stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che nei loro confronti nessun contraddittorio poteva essere assicurato’’. Il tutto seguendo le linee interpretative già tracciate da questa Corte, attenta a rimarcare come ‘‘nel processo penale prima che esista una notizia di reato e che essa si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona, non può esistere un problema di diritto di difesa’’, in quanto ‘‘all’indagato ancora ignoto non è assicurato alcun tipo di difesa tecnica’’: un principio di cui la Corte ha fatto reiteratamente applicazione relativamente all’assetto normativo non più vigente, e che ‘‘non può che essere ribadito nel nuovo sistema processuale’’ (così, ancora, la sentenza n. 181 del 1994). 10. Gli approdi cui è pervenuta la detta decisione aprono prospettive di indubbia valenza interpretativa con riferimento anche alla questione ora sottoposta all’esame della Corte. Alla tematica affrontata dalla sentenza n. 181 del 1994 si sovrappone, peraltro, nella fattispecie ora all’esame, un dato di rilevante significato, costituito dal provenire la prova assunta con incidente probatorio senza la presenza del difensore da un altro processo, relativo ad un diverso e a diverse persone (e, per di più, celebratosi davanti ad una diversa autorità giudiziaria). Il passaggio all’applicazione del decisum proveniente dalla sentenza n. 181 del 1994 non può essere, dunque, così lineare, come pure un’identica ratio decidendi sembrerebbe imporre. È di ostacolo, infatti, ad un’immediata soluzione nei medesimi termini la circostanza che la questione risulti incentrata sull’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, e solo di riflesso sull’art. 403 dello stesso codice. Viene così in considerazione, oltre che il diverso quesito concernente l’utilizzazione dei ‘‘verbali di prova di altri processi’’, anche la problematica relativa alla parcelizzazione dei procedimenti. Il tutto in un regime nel quale, mentre, per un verso, la connessione (i cui casi sono stati consistentemente ridimensionati rispetto all’abrogato codice di rito, con esclusione, fra l’altro, proprio dell’ipotesi di connessione c.d. probatoria prevista dall’art. 45, numero 4, del codice di procedura penale del


— 902 — 1930) ha assunto il ruolo di criterio autonomo di attribuzione della competenza, per un altro verso, la riunione (fra le cui ipotesi è compresa proprio la situazione corrispondente alla soppressa ‘‘connessione probatoria’’) opera soltanto una volta che sia stata esercitata l’azione penale (articoli 18 del codice di procedura penale e 2 delle norme di attuazione, approvate, con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271). A tali considerazioni non può, però, farsi a meno di aggiungere che l’incidente probatorio, quale istituto tipico della fase delle indagini preliminari, resta contrassegnato dalla possibilità di utilizzazione congiunta della prova in processi diversi. A circoscrivere i rischi — inevitabilmente derivanti dai limiti imposti per il processo cumulativo — di dispersione delle prove anticipatamente assunte, il legislatore, consapevole che la prova nel corso delle indagini è suscettibile di dilatazioni quanto alla sua dimensione soggettiva, ha appunto previsto la possibilità di estensione dell’incidente, un istituto riferibile anche ad ipotesi in cui la prova debba essere utilizzata non nello stesso ma in altro procedimento. Tutto ciò, ovviamente — almeno nell’originaria tessitura del codice del 1988 — alla condizione che all’esigenza ‘‘di compiuta formazione della prova’’ facesse da indispensabile contrappunto ‘‘la salvaguardia, al tempo stesso, dei diritti delle persone interessate’’ (v. relazione al progetto preliminare, p. 220). Ove ciò non si fosse verificato, sul piano dei riverberi della prova in altri procedimenti, l’art. 238 del codice di procedura penale, nel testo antecedente alla ‘‘novella’’del 1992, subordinava l’acquisizione della prova assunta nell’incidente probatorio al consenso delle parti; in tal modo sicuramente comprendendo, non soltanto l’ipotesi in cui i difensori non avessero partecipato all’assunzione dell’incidente probatorio perché non avvertiti dell’atto da compiere, ma pure il caso — oggetto della sentenza n. 181 del 1994 — che non risultasse ancora individuata la persona nei confronti della quale la prova avrebbe potuto o dovuto essere utilizzata: un’evenienza, certo, più frequente quando vengano in considerazione processi caratterizzati anche da diversità di imputati, di reati o di autorità giudiziarie procedenti. L’art. 238 rappresentava, pertanto, la risultante di una profonda revisione rispetto alla disciplina dell’utilizzazione delle prove acquisite in altri processi delineata dal codice di procedura penale del 1930, introdotta allo scopo di non squilibrare un sistema congegnato in modo da realizzare lo scopo di garantire l’oralità e l’immediatezza del dibattimento e che sarebbe risultato eluso da un’automatica acquisizione di verbali di prove assunte in altri procedimenti. Il novum derivante dall’art. 3 del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992 sta, quindi, nell’esigenza di valorizzare la prova scritta, consentendo l’acquisizione di prove assunte in altri procedimenti a prescindere dal consenso delle parti; un’innovazione senza dubbio significativa in quanto parzialmente derogatoria proprio di quel principio di oralità (e di conseguente immediatezza) proclamato dall’art. 2, numero 2, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81. 11. Ricondotte le ‘‘novellazioni’’ che hanno attinto l’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale a ricomprendere anche la soppressione del consenso delle parti quale condizione per l’acquisizione della prova assunta con incidente probatorio in altro processo, la norma denunciata deve, allora, attestarsi su di un’interpretazione che — non diversamente da quanto ritenuto dalla più


— 903 — volte ricordata sentenza n. 181 del 1994 — la ancori all’osservanza ‘‘della salvaguardia del contraddittorio, espressione del più generale diritto di difesa’’. Con la conseguenza che l’art. 238, primo comma, in tanto potrà ricevere applicazione, pure di fronte ad una prova assunta con incidente probatorio senza la presenza del difensore, in quanto i soggetti nei confronti dei quali la prova dovrà essere utilizzata non avessero o non potessero ancora assumere la qualità di persone sottoposte alle indagini, per non essere ‘‘stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che, per definizione, nessun contraddittorio poteva essere nei loro confronti assicurato’’. L’ambito di operatività dell’art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, nel punto denunciato dal giudice a quo viene così a saldarsi con i limiti (solo apparenti) di applicabilità dell’art. 403 del codice di procedura penale, consentendo, di conseguenza, una lettura della norma denunciata in un’ottica interpretativa coerente alla costante giurisprudenza di questa Corte attenta a rimarcare come ‘‘un problema di diritto di difesa’’ può porsi soltanto in presenza della soggettivizzazione di una notitia criminis nei confronti di una persona già individuata. Interpretata in questi termini la norma denunciata non lede alcuno dei parametri invocati: non l’art. 3 della Costituzione, non potendo certo affermarsi l’irragionevolezza di una diversità di trattamento fra colui che abbia assunto la qualità di persona sottoposta alle indagini e colui che, invece, non sia stato ancora come tale identificato; non l’art. 24 della Costituzione stessa, potendo il diritto di difesa riferirsi soltanto ad un soggetto nei cui confronti sussistono elementi di colpevolezza e non anche nei confronti di chi non sia stato raggiunto da indizi di responsabilità. 12. Tutto ciò non può esimere questa Corte dalla necessità di rimarcare come la qualità di persona sottoposta alle indagini non deve discendere dalle valutazioni soggettive dell’organo inquirente, dipendendo essa da dati oggettivi spesso agevolmente riscontrabili sulla base degli atti, a prescindere dalla separazione dei procedimenti: una vicenda che ‘‘discende, nella gran parte dei casi, da scelte o valutazioni contingenti di natura strettamente processuale’’ (v. sentenza n. 254 del 1992), ma la cui appartenenza, di norma, alla fase successiva all’esercizio dell’azione penale, vale a rendere esigui i rischi (ai quali è sempre comunque possibile porre riparo) prospettati dal rimettente. D’altro canto qualsiasi comportamento omissivo addebitabile al pubblico ministero quanto al momento dell’individuazione della qualità di indagato potrà dar luogo a conseguenze di ordine processuale, ivi inclusa, appunto, la possibilità di sindacare la concreta utilizzabilità della prova assunta senza la presenza del difensore; il tutto in una linea diretta anche a valorizzare l’interesse dell’imputato a disporre della prova che si riveli per lui favorevole pure se assunta in violazione del combinato diposto degli artt. 238, primo comma, e 403 del codice di procedura penale. 13. Dalla casualità che deve, di norma, contrassegnare l’impossibilità di partecipazione del difensore all’assunzione della prova per non essere il suo assistito ancora individuato come persona sottoposta alle indagini deriva che le conseguenze che ne discendono non devono esorbitare dall’ambito dell’utilizzazione della prova stessa in un altro processo. Essa non può certo, precludere ‘‘in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l’acquisizione del materiale probatorio è rimessa in primo luogo all’ini-


— 904 — ziativa delle parti’’ (art. 190 del codice di procedura penale; sentenza n. 241 del 1992) il diritto della parte di richiedere e di conseguire la rinnovazione della prova, una rinnovazione — diversamente da quanto affermato dal giudice a quo — riferibile, proprio per le considerazioni che hanno condotto a delinearne una qualche divergenza di trattamento rispetto alle dichiarazioni, anche alla perizia. A ciò va aggiunto il potere del giudice di disporre, laddove la prova sia (come nel caso di specie) assumibile d’ufficio, la rinnovazione nel dibattimento, pur in assenza di richiesta di parte, fino a prospettare l’utilizzazione anche a tali scopi, del precetto dell’art. 507 del codice di procedura penale. Senza contare la possibilità di valutare, nell’esercizio del libero convincimento, la valenza di una prova assunta con incidente probatorio anche in funzione della mancata partecipazione del difensore dell’imputato alla sua formazione. — (Omissis).

—————— (1-2)

Incidente probatorio senza ‘‘indagato’’ e limiti all’utilizzabilità della prova nell’ambito dello stesso o di altro procedimento.

1. Una prova disposta con incidente probatorio è utilizzabile in dibattimento anche nei confronti di imputati che, non ancora ‘‘indagati’’ al momento della sua assunzione, erano privi di difensori in grado di parteciparvi e rispetto ai quali non si è potuto successivamente estendere l’incidente a causa della sopravvenuta irripetibilità dell’atto? Ancora, e sotto diverso profilo, una prova formata con incidente probatorio è utilizzabile in altro procedimento anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione? Si tratta di due importanti quesiti, tra loro correlati, che hanno formato oggetto di altrettante significative decisioni della Corte costituzionale: rispettivamente la n. 181 e la n. 198 del 1994, vicine nel tempo ed alimentate da un comune motivo ispiratore che ne consiglia una lettura coordinata. Rispetto alla dimensione tendenzialmente recessiva che ha caratterizzato il ricorso alla formazione anticipata della prova attraverso la procedura dell’incidente probatorio, soprattutto dopo che la l. n. 356 del 1992 sembrava aver messo in crisi la stessa ragion d’essere dell’istituto (1), i più recenti interventi della Corte costituzionale — tra i quali si segnalano appunto le due pronunce in esame — fanno trasparire un rinnovato interesse per la materia (2); in coincidenza — si potrebbe dire — all’orientamento, che ha preso corpo negli ultimi tempi, ad individuare proprio nell’incidente probatorio uno dei poli attorno ai quali tentare una

(1) Almeno per quanto riguarda la posizione del p.m., che si trova ormai a disposizione una gamma di meccanismi alternativi e meno macchinosi di quella procedura per ottenere analoghi risultati probatori ‘‘spendibili’’ in dibattimento, utilizzando i propri unilaterali atti investigativi: si pensi alla disciplina delle contestazioni ex art. 500; alla disciplina dell’art. 512; alla disciplina degli artt. 513 comma 2 e 503 comma 5 in rapporto all’interrogatorio ex art. 363 delle persone indicate nell’art. 210. In tale contesto finisce per risultare vuoto di significato il limite di utilizzabilità delle prove assunte con incidente contenuto nell’art. 403. Le ragioni di uno scarso ricorso all’incidente da parte della difesa sono, invece, probabilmente ricollegabili all’attuale disciplina dell’informazione di garanzia. (2) In questa prospettiva si inserisce pure la sent. 10 marzo 1994, n. 77 in tema di esperibilità dell’incidente probatorio anche nell’ambito dell’udienza preliminare (per un commento della medesima, G. DEAN, I nuovi limiti cronologici dell’incidente probatorio, in Giur. cost., 1994, p. 780 ss.; A. GIARDA, L’incidente probatorio oltre i confini delle indagini preliminari, in Corr. giur., 1994, p. 553 ss.).


— 905 — ricostruzione più equilibrata del sistema, alla ricerca di un’alternativa al modello accusatorio incentrato sulla formazione della prova in dibattimento (3), ormai compromesso a seguito della ‘‘novella’’ del 1992. Una prospettiva di potenziamento e rivitalizzazione dell’incidente che, verosimilmente, non dovrà prescindere proprio da una rigorosa salvaguardia dei limiti soggettivi di utilizzabilità della prova (4). 2.1. La prima questione — affrontata dalla sent. n. 181 — si incentra sulla disciplina dell’art. 403 c.p.p. Questa, nel circoscrivere l’utilizzabilità dibattimentale delle prove assunte con incidente nei confronti dei soli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione, sembrerebbe escluderla nei confronti di soggetti non ancora ‘‘indagati’’ al momento di formazione della prova, ma suscettibili di assumere tale veste successivamente, magari proprio a seguito dell’emergere di elementi indizianti in conseguenza dell’espletamento della prova stessa. Soggetti rispetto ai quali — come si è verificato nel caso sottoposto all’attenzione della Corte — potrebbe risultare impossibile un’estensione dell’incidente, a causa della sopravvenuta irripetibilità dell’atto. Una siffatta soluzione era apparsa irragionevole al giudice a quo sotto un duplice aspetto: perché determinerebbe ‘‘una sorta di impunità’’ per le persone anzidette, precludendo rispetto alle medesime l’accertamento della verità, senza che ciò sia imposto dal rispetto del diritto di difesa (ritenuto, nel caso di specie, relativo all’assunzione di una perizia, sufficientemente garantito dalla possibilità di esaminare il perito in dibattimento), e perché sarebbe fonte di una disparità di trattamento tra imputati nel far dipendere l’utilizzabilità soggettiva della prova dalla circostanza che sia stato o no possibile procedere all’estensione dell’incidente. Di qui la prospettazione del dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 403 c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 112 Cost. Ad orientare il giudice remittente era, in altri termini, un’interpretazione rigorosa della disciplina in questione, a cui faceva da contrappunto l’obiettivo di dare la massima rilevanza al valore dell’accertamento. La Corte, dal canto suo, muove da un’impostazione che prescinde dai profili peculiari del caso di specie, caratterizzato, come s’è detto, da una situazione di irripetibilità sopravvenuta, che aveva impedito la successiva estensione dell’incidente ai nuovi ‘‘indagati’’, per far dipendere la soluzione del problema di costituzionalità dalla definizione della sfera di applicazione soggettiva dell’art. 403 c.p.p. considerata sotto un profilo ‘‘generale’’. Per valutare se la relativa disciplina si estenda ‘‘anche all’ipotesi in cui la mancata partecipazione dei difensori di alcuni soggetti, poi imputati, derivi dalla circostanza che al momento di assunzione della prova non erano ancora emersi

(3) Cfr. E. FASSONE, Garanzie e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in Quest. giust., 1991, p. 137; P. FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, vol. II, Torino, 1992, p. 188; ID., Il giudice per le indagini preliminari e l’acquisizione delle prove, Relazione all’VIII Convegno dell’Associazione tra gli Studiosi del processo penale (Mattinata, 23-25 settembre 1994), p. 7 s. del dattiloscritto, nonché M. BARGIS, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso, Milano, 1994, p. 226 s.; G. GIOSTRA, Pubblico ministero e polizia giudiziaria nel processo di parti, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, Milano, 1994, p. 189; G. ILLUMINATI, Il ruolo della difesa, in Documenti Italia Oggi, Il nuovo codice di procedura penale, 1a parte, 23 ottobre 1992, p. 32; C. TAORMINA, Il processo di parti di fronte al nuovo regime delle contestazioni e delle letture dibattimentali, in Giust. pen., 1992, III, c. 460. (4) P. FERRUA, Anamorfosi, cit., p. 189. Contra, invece, G. ICHINO, Alcuni spunti di riflessione sul tema delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1993, p. 704 s., dove però ci si attesta su un’interpretazione degli artt. 403 e 238 diversa da quella prospettata dalla sentenza costituzionale n. 198 del 1994 e da noi più oltre nel testo.


— 906 — elementi indizianti nei loro confronti’’ occorre — secondo la Corte — risalire alla ratio sottesa alla norma in discorso. Questa andrebbe individuata, anche alla luce di un raccordo sistematico con altre disposizioni (in particolare, gli artt. 393 comma 1 lett. b, 395, 396, 398 comma 2 lett. b, 401 comma 1 e 6, in rapporto con l’art. 402 c.p.p.), nella tutela del contraddittorio, ‘‘espressione del più generale diritto di difesa’’, in funzione del quale l’istituto dell’incidente probatorio nel suo complesso è stato costruito. In quest’ottica, la regola dell’inutilizzabilità soggettiva di cui all’art. 403 costituirebbe una ‘‘sanzione processuale per la violazione del principio del contraddittorio’’. Ma attenzione, aggiunge la Corte: la sua applicabilità sarebbe condizionata dalla circostanza che il contraddittorio ‘‘non sia stato nel concreto assicurato’’; non la si potrebbe, dunque, invocare rispetto a coloro che solo successivamente all’assunzione della prova fossero raggiunti da indizi di colpevolezza, ‘‘atteso che, per definizione, nessun contraddittorio poteva essere nei loro confronti assicurato’’. È il nodo cruciale del discorso. La Corte invoca a conforto un suo ricorrente (seppur non univoco) (5) insegnamento, secondo il quale ‘‘prima che esista una notizia di reato e che essa si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona non può esistere un problema di tutela del diritto di difesa’’ (6). La conclusione è, dunque, segnata. A meno che non si opti per una diversa lettura della disposizione impugnata, che non ne individui la ratio di sanzione collegata alla violazione delle regole sul contraddittorio previste per l’incidente probatorio, ma le attribuisca ‘‘un valore assoluto’’, tale da inibire atti di assicurazione della prova non rinviabile al dibattimento ‘‘nei confronti di coindagati ignoti’’; nel qual caso — avverte la Corte — risulterebbero fondati i dubbi di costituzionalità avanzati dal giudice a quo. Ma si tratta di un’alternativa che essa preferisce non accogliere, intendendo privilegiare l’interpretazione conforme a Costituzione. 2.2. Nella sua squadrata rigidezza, la tesi sostenuta dalla Corte non appare del tutto condivisibile. Né si può dire che ad attenuare il dissenso valga in questo caso la considerazione che in un sistema come quello attuale, ‘‘messo in crisi dalla contraddittorietà dei principi che ne ispirano le varie parti’’ (7), è spesso difficile ritrovare il filo di soluzioni interpretative appaganti ed equilibrate, anche rispetto a materie che, pur non direttamente interessate dalla novellazione del 1992, hanno comunque subìto in qualche modo i contraccolpi della controriforma. Anzitutto si impone una precisazione preliminare: va ribadito, a scanso di equivoci — alimentati da talune sovrapposizioni concettuali operate nella sentenza — che la problematica di cui stiamo discutendo ha come termine di riferimento la figura del soggetto ‘‘non (ancora) indagato’’; non quella, diversa, dell’‘‘indagato’’ ignoto: una persona, quest’ultima, di cui non si conosce l’identità fisica, ma rispetto alla quale sono in corso delle indagini (8). La distinzione non è priva di ri-

(5) Si pensi soltanto alla ‘‘storica’’ sent. 7 luglio 1968, n. 86, in Giur. cost., 1968, p. 1473 ss., dove la Corte aveva sostenuto il principio secondo il quale il diritto di difesa andava assicurato in rapporto ad ogni attività ‘‘preordinata’’ al processo e suscettibile di assumere in quest’ultimo efficacia probatoria, e, ancora, alla sent. 28 luglio 1983, n. 248, ivi, 1983, I, p. 1493 ss. in tema di garanzie difensive da osservare in una particolare fattispecie di analisi di campioni effettuata in fase amministrativa, nella prospettiva di un impiego a fini penali del materiale così raccolto (pronuncia che avrebbe costituito il modello per l’attuale disciplina dell’art. 223 norme coord. c.p.p.). (6) Cfr., specialmente, C. cost. 3 dicembre 1969, n. 149, in Giur. cost., 1969, p. 2276 ss.; Id. 17 novembre 1971, n. 179, ivi, 1971, p. 2190 ss.; Id. 2 giugno 1977, n. 104, ivi, 1977, I, 805 ss. (7) Cfr., per tutti, G. CONSO, Conclusioni, in AA.VV., Il codice di procedura penale. Esperienze, valutazioni, prospettive, Milano, 1994, p. 369. (8) La possibilità di indagini contro ignoti è esplicitamente ammessa dall’art. 415 c.p.p. Cfr., inoltre, l’art. 107 comma 2 norme att. c.p.p.


— 907 — lievo, dato che per il ‘‘non indagato’’ un problema di difesa non può porsi neppure concettualmente, mentre per l’‘‘indagato’’ ignoto quel problema sussiste e la sua soluzione dipende da una scelta di politica legislativa (ammettere l’esperibilità dell’incidente probatorio nei suoi confronti (9) dovrebbe portare, infatti, per coerenza a dotare quest’ultimo almeno di una difesa d’ufficio) (10). Restando, dunque, alla figura del ‘‘non indagato’’, non convince del tutto la soluzione radicale di ritenere rispetto a questi comunque e sempre inoperante la disciplina dell’art. 403 c.p.p. Non si vuole escludere che la previsione dell’inutilizzabilità soggettiva ivi contenuta possa risultare funzionale — come dice la Corte — a ‘‘sanzionare’’ specifiche violazioni del contraddittorio (si pensi al mancato rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 395, 401 comma 1 e 6 c.p.p.) (11). Ma sembra eccessivamente riduttivo sostenere che fuori da quest’ambito — per la verità, non eccessivamente ampio — essa non presenti alcun margine operativo. A ben vedere, infatti, la circostanza che sia richiesta la partecipazione necessaria del difensore della persona sottoposta alle indagini all’udienza per l’incidente, e che, in caso di mancata comparizione del medesimo il giudice abbia l’obbligo di effettuare una nomina d’ufficio (art. 401 commi 1 e 2 c.p.p.) fa apparire remota l’ipotesi di ‘‘indagati’’ coinvolti nell’incidente ma privi di difensore (12); mentre, dal canto suo, il divieto contenuto nell’art. 401 comma 6 c.p.p., di estendere, salvo quanto previsto dall’art. 402, l’assunzione della prova a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all’incidente e di verbalizzare le dichiarazioni riguardanti tali soggetti implica di per sé un divieto di utilizzare in dibattimento il materiale probatorio in tal modo raccolto. Già a fronte di simili rilievi non sembrerebbe, dunque, peregrino individuare nell’art. 403 una più ampia funzione di garanzia, vòlta ad evitare, su un piano generale, che una prova assunta con incidente probatorio sia utilizzabile rispetto all’imputato che non abbia potuto difendersi nel momento della sua formazione: e ciò a prescindere dalla circostanza che questi rivestisse o no in quel tempo la qualità di ‘‘indagato’’. Una conferma di tale linea interpretativa si ricava, poi, dalla disciplina in tema di mancata estensione dell’incidente probatorio. In questo caso la sorte della prova rispetto ai soggetti nei cui confronti non può essere effettuata ai sensi dell’art. 402 ultima parte c.p.p. l’integrazione del contraddittorio perché ‘‘il rinvio pregiudica l’assunzione della prova’’ stessa sem-

(9) Va rilevato che un argomento in senso contrario a questa prospettiva potrebbe essere forse desunto dalla disposizione dell’art. 66 comma 2 c.p.p., laddove esclude il compimento di ‘‘atti’’ da parte dell’autorità procedente nei confronti dell’imputato non identificato fisicamente, cioè ‘‘ignoto’’. La norma potrebbe, infatti, significare che la fase di elaborazione della prova non deve svolgersi nei confronti di un soggetto che, in quanto ‘‘ignoto’’, non è in grado di difendersi. Se questa interpretazione fosse vera, si potrebbe pensare che lo stesso principio debba valere anche rispetto ad una formazione anticipata della prova, attraverso l’incidente probatorio. (10) Da questo punto di vista, si dovrebbe, evidentemente, superare l’orientamento restrittivo a suo tempo espresso dalla Corte costituzionale, allorché con la sent. n. 104 del 1977 cit. aveva negato l’applicabilità delle garanzie difensive in istruzione nel caso di procedimento contro ignoti, ritenendo tuttavia pienamente utilizzabili nei confronti di tali soggetti le prove così raccolte. (11) Cfr. A. MOLARI, L’incidente probatorio, in Studi in memoria di P. Nuvolone, vol. III, Milano, 1991, p. 351. Tale funzione sembra, peraltro, svolta parallelamente — anche se con effetti ed incidenza diversi — dalla sanzione di nullità ex artt. 178 lett. c e 179 comma 1 c.p.p. Sulla problematica cfr. N. GALANTINI, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 55 s. (12) A. GIARDA, Il giudice delle indagini preliminari e l’incidente probatorio, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 50, nonché M. BARGIS, L’incidente probatorio, in questa Rivista, 1990, p. 1347, nota 77.


— 908 — bra determinata dalla regola di esclusione contenuta nell’art. 403 (13): dunque, la prova, quand’anche attinente a fatti che coinvolgessero inscindibilmente una pluralità di persone, varrebbe soltanto (14) rispetto a coloro i cui difensori hanno partecipato alla sua acquisizione (15). È chiaro che in tal caso sarebbe fuorviante parlare di una finalità ‘‘sanzionatoria’’ della disciplina contenuta nell’art. 403 in rapporto ad un’intervenuta violazione delle regole del contraddittorio in materia di incidente. Siamo semplicemente di fronte al rigetto di una richiesta di estensione dell’incidente: la regola dell’inutilizzabilità soggettiva assume, pertanto, in questa prospettiva, un valore ‘‘assoluto’’. Ma se una conclusione del genere appare corretta rispetto all’‘‘indagato’’ non ammesso all’estensione dell’incidente, a maggior ragione essa dovrebbe valere nei confronti di chi, non essendo ancora ‘‘indagato’’ al momento di assunzione della prova, tale estensione non poteva neppure richiedere. In sostanza, la circostanza che prima dell’emergere di indizi di reato (oggi si dovrebbe dire più esattamente: prima che un soggetto acquisti la veste di persona sottoposta alle indagini) non vi siano spazi operativi per il diritto di difesa (16) dovrebbe portare per coerenza a vietare, almeno in linea di principio, con le precisazioni che tra poco vedremo, l’utilizzazione nei confronti di quella persona di prove formate in precedenza inter alios (17). La diversa impostazione che ispira il ragionamento della Corte (e che si coglie, sia pure da una diversa angolatura, anche nell’ordinanza di rimessione) si concentra tutta sulla preoccupazione di non porre limiti all’accertamento dei fatti. Ma è chiaro che seguendo questo solo obiettivo si rischia di ricadere nella vecchia logica inquisitoria che aveva caratterizzato il funzionamento del sistema previgente e che la stessa Corte costituzionale aveva finito per avallare (18). Ci si rende conto del fatto che la ricerca della verità materiale appare nuovamente assurta negli interventi più recenti della Corte costituzionale e del legislatore a valore centrale del processo, anzi, a suo ‘‘fine ineludibile’’ (19), in polemica con l’impostazione originaria del codice, accusata di valorizzare più l’aspetto della

(13) L’art. 402 ultima parte mira a tutelare l’interesse alla assunzione della prova contro il pregiudizio che questo potrebbe subire a seguito della procedura di allargamento del contraddittorio. È chiaro però che una soluzione del genere non può implicare anche il sacrificio del diritto di difesa di coloro che hanno chiesto e non ottenuto l’estensione dell’incidente, attraverso l’utilizzazione a loro carico della prova assunta senza la loro partecipazione. (14) Per una limitazione dell’inutilizzabilità di cui all’art. 403 alle sole prove in damnosis v. F. CORDERO, Procedura penale, 2a ed., Milano, 1993, p. 735, mentre l’operatività incondizionata della regola v. A. MOLARI, L’incidente, cit., p. 355. (15) Cfr. i rilievi di A. MOLARI, L’incidente, cit., p. 354. (16) Del tutto peculiare è l’eccezione che si registra a questo riguardo a proposito dell’art. 223 comma 1 norme coord. c.p.p., dove l’esplicazione del diritto di difesa in una fase formalmente e sostanzialmente amministrativa è consentita in vista del collegamento funzionale tra lo specifico atto amministrativo (l’analisi di campioni) e il processo penale e in vista del rilievo probatorio che il primo può assumere nel secondo. (17) Una regola che sembrerebbe trovare conferma sul piano sistematico anche alla luce della previsione dell’art. 220 norme coord. c.p.p., laddove, nel sancire l’applicazione delle norme del codice a seguito dell’emergere di indizi di reità nel corso di attività amministrativa di ispezione o vigilanza, sembra implicare a contrario, sia pure in rapporto ad una situazione particolare, il divieto di utilizzare come prove gli elementi raccolti prima di quel momento (per più diffuse considerazioni si rinvia, volendo, a R.E. KOSTORIS, Commento all’art. 220 disp. att., in E. AMODIO, O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale. Appendice, a cura di G. Ubertis, Milano, 1990, p. 76 ss.). (18) Cfr. la sent. 2 giugno 1977, n. 104, cit. (19) Cfr., in particolare, la sent. 26 marzo 1993, n. 111 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1993, p. 919. Sulla problematica cfr., tra i tanti, P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1994, p. 1074 ss.; A. GIARDA, Alla ricerca di un’indennità, in Praxis criminalis. Cronache di anni inquieti, 19891993, Milano, 1994, p. 24 s.


— 909 — risoluzione del ‘‘conflitto’’ tra le parti che non quello dell’accertamento in termini di risultato. Non è questa la sede per approfondire il significato di tale mutamento di prospettive (20). Per inciso, si può solo rilevare che appare improprio sostenere che sia l’art. 112 Cost. ad esigere l’assenza di condizionamenti nell’attività di assicurazione delle prove, posto che tra l’obbligo di esercitare l’azione penale (che attiene all’instaurazione del processo) e la disciplina della prova (che riguarda i mezzi di verifica dell’accusa) non corre alcun rapporto di implicazione necessaria. Ciò premesso, quello che conta, ad ogni modo, è non transigere su un punto essenziale: l’accertamento deve comunque avvenire — ed incontrare il suo limite — nel rispetto di alcuni valori di fondo dell’ordinamento, che trovano la loro base in altrettante garanzie costituzionali. Tra queste assume un significato primario il diritto di difesa e quella sua tipica espressione costituita dal contraddittorio. La circostanza che quest’ultimo non sia ancora attivabile durante l’incidente perché manca la figura dell’‘‘indagato’’ non autorizza soluzioni formalistiche che ignorino il pregiudizio difensivo concretamente presente in capo a chi si veda opposta in dibattimento una prova alla cui formazione non ha potuto in alcun modo partecipare. 2.3. La prospettiva — è appena il caso di rilevarlo — non muta di molto in rapporto all’ipotesi (che aveva originato in concreto la quaestio de legitimitate) in cui la prova formata con incidente sia costituita da una perizia. Non convince troppo l’obiezione che in tal caso il diritto di difesa (e il diritto alla prova) sarebbero sufficientemente salvaguardati dalla possibilità offerta all’imputato (al tempo non ancora ‘‘indagato’’) di esaminare il perito in dibattimento o di chiedere una nuova perizia, magari di ‘‘controllo’’ sull’‘‘obiettività della documentazione acquisita agli atti del procedimento’’ (21). Per un verso, infatti, soprattutto nel caso di operazioni peritali complesse, che comportino la necessità di riferimenti esatti in termini di cifre, misurazioni, percentuali, lo scritto non riuscirebbe ad essere facilmente soppiantato dall’esame orale del perito: il precedente responso, cristallizzato nel verbale, riaffiorerebbe, dunque, in tutta la sua importanza sulla scena dibattimentale. Per altro verso, non si deve dimenticare la differente valenza sul piano difensivo che passa tra una semplice attività di tipo critico indirizzata nei confronti di una prova formata in precedenza e un’attività di partecipazione diretta all’elaborazione stessa della prova, mentre è in fieri, quale è consentita alla difesa a propo-

(20) Per un verso, si è ritenuto (A. GIARDA, ‘‘Astratte modellistiche’’ e principi costituzionali del processo penale, in Praxis criminalis, cit., p. 539) che quest’impostazione — segnatamente nella sent. 111 del 1993 — sia ricollegabile in qualche misura al nostro stesso impianto costituzionale, preoccupato di fissare canoni oggettivi di regolarità della giurisdizione, anziché garantire diritti soggettivi dell’individuo, secondo il modello delle Carte internazionali sui diritti umani, a cui pure il nuovo processo doveva ispirarsi. Per altro verso, si è comunque avvertito (P. FERRUA, I poteri probatori, cit., p.1083 s.) che la contrapposizione tra accertamento della verità e risoluzione dei conflitti sembra viziata da un errore di prospettiva: l’alternativa che dovrebbe profilarsi è, infatti, quella tra accertamento della verità in modo unilaterale e dialettico. Per un quadro sull’impostazione del codice, ispirata ad una matrice dispositiva in materia probatoria, v. L.P. COMOGLIO, Prove ed accertamento dei fatti nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1990, p. 130 ss. (21) Anche se va rilevato che nell’ambito della perizia si assiste ad una ‘‘saldatura’’ tra attività probatoria incidentale e attività probatoria dibattimentale: cfr. gli artt. 227, comma 5, 468 comma 5 e 511 comma 3 c.p.p., dai quali si evince che il perito che abbia svolto la perizia con incidente probatorio va citato anche d’ufficio per il dibattimento e il suo esame deve precedere la lettura della relazione peritale; per cui, di regola, la perizia svolta con incidente va integrata con l’esame dibattimentale del perito.


— 910 — sito della formulazione dei quesiti e dell’espletamento delle operazioni peritali (22). 2.4. Torniamo al problema di partenza. Al fine di prospettarne una soluzione più equilibrata, in grado di contemperare le esigenze della difesa e quelle dell’accertamento, nel rigoroso rispetto del quadro normativo, occorre partire da una considerazione di fondo: l’impossibilità di assicurare il contraddittorio deve essere in realtà valutata nel momento in cui la prova è acquisita in dibattimento, non nel momento in cui viene formata con incidente. Va, allora, tenuto distinto il caso in cui tale prova sia ripetibile, da quello in cui non lo sia, anche per motivi sopravvenuti. Un’angolatura prospettica a torto trascurata dalla Corte, non ostante le precise sollecitazioni del giudice remittente. Nell’ipotesi di prova ripetibile non sembrerebbero configurabili ostacoli alla piena operatività della regola di esclusione contenuta nell’art. 403 c.p.p. Se così non fosse, l’assenza della difesa dall’incidente non verrebbe adeguatamente compensata dalla possibilità di rinnovare la prova in giudizio. Il giudice del dibattimento disporrebbe, infatti, di due prove di pari rango e sarebbe libero di scegliere la prima (23). Per contro, il sacrificio imposto all’accertamento dei fatti parrebbe sufficientemente compensato dall’assunzione dibattimentale della prova, che avverrebbe assicurando all’interessato la piena esplicazione del contraddittorio. Non va dimenticato, anzi, che proprio alla luce delle moderne acquisizioni epistemologiche, l’accertamento in contraddittorio dell’interessato dovrebbe sortire ben maggiori risultati proprio sul piano dell’accertamento della verità, costituendo il miglior antidoto alle elaborazioni unilaterali (e alle ‘‘verità’’ unilaterali che ne derivano) (24). Più problematica la soluzione nell’ipotesi di irripetibilità dell’atto, originaria o sopravventa. Non c’è dubbio che una considerazione sistematica del codice faccia emergere un orientamento normativo incline a privilegiare in simili ipotesi il valore dell’accertamento, anche quando l’atto sia stato compiuto al di fuori dell’intervento della difesa. In questa prospettiva sarebbe coerente garantire l’utilizzabilità della prova formata con incidente anche nei confronti di chi in quel momento non rivestiva ancora la qualità di ‘‘indagato’’. Ma attraverso quale meccanismo processuale ottenere un simile risultato nel caso di irripetibilità ex post? Non sarebbe agevole far leva sulla previsione generale dell’art. 512. Ai fini della lettura dibattimentale per irripetibilità sopravvenuta si richiede, infatti, che l’atto sia stato assunto dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero o dal giudice, nell’ambito dell’udienza preliminare. D’altro canto, un’interpretazione analogica della regola relativamente agli atti assunti con incidente probatorio riuscirebbe ipotizzabile al più rispetto all’ipotesi prevista dall’art. 392 comma 2 c.p.p. (perizia che se disposta nel dibattimento ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni); non certamente rispetto a tutti gli altri casi di incidente, in rapporto ai quali non sarebbe consentito invocare il criterio dell’‘‘impre-

(22) Per l’importanza che assume questo profilo cfr., volendo, il nostro I consulenti tecnici nel processo penale, Milano, 1993, p. 54 ss. (23) Basta pensare — solo per fare un esempio — al pregiudizio difensivo che potrebbe derivare all’imputato da una chiamata in correità effettuata durante l’incidente probatorio, quando egli non era indagato, divenendolo solo a seguito della medesima, nel caso in cui non sia stato possibile procedere all’estensione dell’incidente. (24) Cfr., per tutti, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, p. 123 ss.; P. FERRUA, Anamorfosi, cit., p. 170 ss.; G. GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. dir., 1986, p. 17 s.; G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in Sisifo e Penelope, Torino, 1993, p. 61 ss.


— 911 — vedibilità’’ dei fatti o delle circostanze che rendono la prova non ripetibile, posto che tale prova deve essere per definizione ‘‘non rinviabile al dibattimento’’. ‘‘Imprevedibile’’ al momento dell’incidente si suppone, per contro, che sia in questo caso la futura assunzione della qualità di ‘‘indagato’’ da parte di un determinato soggetto. Probabilmente sarebbe necessario introdurre una previsione ad hoc, che evidenziasse come in tale eventualità il limite operativo dell’art. 403 vada appunto individuato in quest’ultima specifica situazione di ‘‘imprevedibilità’’, congiunta all’intervenuta impossibilità di ripetere l’assunzione della prova. Inutile dire — e giustamente lo rimarca anche la Corte — che si impone il massimo scrupolo nel verificare quale avrebbe dovuto essere in concreto la posizione del soggetto al momento dell’incidente. Un vaglio a cui è chiamato anche il giudice del dibattimento, ai fini dell’applicazione dell’art. 403. Non sfugge la delicatezza di un tale controllo, poiché la sottile linea che separa il semplice sospetto dall’indizio potrebbe giocare un ruolo ambiguo e pericoloso; vi è il rischio che, sfruttando questa labile distinzione, venga artificiosamente procrastinato l’inizio formale delle indagini rispetto ad un certo soggetto per impedirgli di partecipare all’incidente, nella prospettiva di utilizzare poi surrettiziamente nei suoi confronti in dibattimento la prova (non più ripetibile) in tal modo raccolta. 3.1. Sulla scorta dei rilievi svolti possiamo affrontare l’ulteriore questione che si era prospettata in apertura circa la possibilità di utilizzare prove formate con incidente probatorio in altro procedimento nei confronti di imputati i cui difensori non abbiano partecipato alla loro assunzione. Il quesito nasce dal fatto che l’art. 238, nel testo novellato dalla l. n. 356 del 1992, consente di acquisire i verbali di prove relative ad altro procedimento penale ed assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento senza più richiedere il consenso delle parti. Tale condizione, eliminata perché ritenuta eccessivamente paralizzante per la funzionalità dell’istituto, soprattutto nei procedimenti di criminalità organizzata (25), valeva ad evitare che gli interessi delle parti restassero compromessi anche rispetto all’acquisizione di prove formate in altro procedimento senza la loro partecipazione. Espunto quel requisito, si è fatta strada l’idea che il trasferimento della prova formata con incidente probatorio sia consentita senza limiti, a prescindere dai confini segnati dall’art. 403 (26). Una siffatta linea interpretativa non avrebbe, peraltro, tardato a far sorgere non infondati dubbi di legittimità costituzionale, implicando un contrasto della disciplina dell’art. 238 comma 1 con il diritto di difesa e con il principio di uguaglianza, attesa la diversa protezione che quel diritto avrebbe avuto, in materia di indagini collegate, a seconda della scelta discrezionale e incensurabile del pubblico ministero di procedere o no in modo unitario. 3.2.

La quaestio de legitimitate era destinata a stare e a cadere con l’inter-

(25) Cfr. Relazione al disegno di legge di conversione del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Doc. giust., 1992, c. 743. In dottrina, per tutti, V. GREVI, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Roma-Bari, 1993, p. 30. Sono state recepite, da questo punto di vista, le indicazioni già fornite dalla Commissione parlamentare antimafia: v., sul punto, La formazione della prova nei processi di criminalità organizzata. Relazione della Commissione parlamentare antimafia: relatore on. Violante, in Cass. pen., 1992, 293, p. 484, dove si rilevava che in virtù del consenso delle parti avrebbero fatto ingresso nel dibattimento soltanto gli ‘‘atti inoffensivi’’. (26) Così G. GIOSTRA, Pubblico ministero, cit., p. 186 s.; G. ICHINO, Alcuni spunti, cit., p. 696 e 704.


— 912 — pretazione su cui si fondava. Dal canto suo, la Corte costituzionale, con la sent. n. 198, si è incaricata di delineare, sia pure attraverso passaggi non sempre lineari, una diversa chiave di lettura della norma, ad un dipresso così schematizzabile. La valutazione dell’utilizzabilità ‘‘esterna’’ della prova deve essere preceduta dall’individuazione dei presupposti di utilizzabilità ‘‘interna’’ (al medesimo procedimento) della stessa allorché il difensore dell’interessato non abbia partecipato alla sua formazione. A tal fine occorre far capo all’insegnamento ricavabile dalla precedente sent. n. 181. Ma il principio di salvaguardia del contraddittorio (inteso nei limiti che abbiamo visto) su cui si fonda quest’ultima dovrebbe ispirare pure l’interpretazione della norma denunciata, così da saldare l’ambito di operatività dell’art. 238 comma 1 con i limiti applicativi dell’art. 403 (27). La conclusione può lasciare soddisfatti, salvo riproporre anche qui i distinguo tracciati in precedenza circa la portata di quei limiti. La prova formata con incidente probatorio senza la presenza del difensore sarà opponibile in altro procedimento nei confronti dell’imputato, a condizione che questi non abbia potuto (ancora) assumere la qualità di ‘‘indagato’’ al tempo dell’incidente e a condizione che la prova risulti non ripetibile (per cause originarie o sopravvenute). Un’interpretazione dell’art. 238 comma 1 che si coordini con quella dell’art. 403 presenta effettivamente il duplice vantaggio di non creare distonie tra regime ‘‘interno’’ e regime ‘‘esterno’’ di utilizzabilità dello stesso atto e di non contravvenire, al contempo, alla finalità avuta di mira dal legislatore del 1992 di evitare meccanismi dispositivi in grado di paralizzare di fatto la circolazione della prova tra procedimenti. Lo ‘‘svantaggio’’, naturalmente, è quello di restringere l’ambito applicativo di questa disciplina ai casi di identità di parti nell’uno e nell’altro procedimento. Ma per ovviare al sacrificio che può derivare dalla dispersione della prova nelle altre ipotesi in cui tale condizione non si verifica, intendendo salvaguardare pur sempre un’esplicazione effettiva del contraddittorio, diventerebbe necessario procedere ad un ripensamento delle scelte legislative operate in tema di connessione, orientandosi a favore del processo cumulativo (28). 3.3. Resta da aggiungere che l’intervento della Corte costituzionale è stato comunque di tipo settoriale, avendo inciso soltanto su un aspetto della complessa disciplina dell’art. 238, la quale, per la verità, presenta altri profili non meno eccepibili alla luce dell’art. 24 comma 2 Cost. Limitandoci ad una semplice ricognizione, non si deve dimenticare anzitutto che lo stesso comma 1 dell’art. 238 sottopone al medesimo trattamento acquisitivo delle prove assunte con incidente probatorio le prove formate nel dibattimento. In mancanza di una disciplina del tipo di quella contenuta nell’art. 403, l’utilizzabilità nel procedimento ad quem di queste ultime può avvenire senza alcun limite. In tal caso l’eliminazione del requisito del consenso delle parti non risulta compensata da una tutela del contraddittorio nel momento formativo della prova (29). Censurabile appare poi la regola fissata nel comma 2 del medesimo art. 238,

(27) In senso adesivo a questa lettura dell’art. 238 comma 1 v. pure M. BARGIS, Le dichiarazioni, cit., p. 229 s.; P.P. RIVELLO, Commento all’art. 238, in Commento al codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, Secondo aggiornamento, Torino, 1993, p. 86. (28) Per un auspicio in tal senso, M. MADDALENA, I problemi pratici delle inchieste di criminalità organizzata nel nuovo processo penale, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, cit., p. 102 s. (29) Cosa ancor più grave ove si ritenesse che l’espressione ‘‘prova assunta in dibattimento’’ ricomprenda pure l’ipotesi di acquisizione tramite lettura (artt. 500 e 512) di materiale raccolto unilateralmente dall’investigatore: in tal senso cfr., ad es., F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 673. Contra, tut-


— 913 — che si limita a far dipendere l’acquisizione di prove assunte in un giudizio civile da un requisito del tutto estrinseco rispetto alla vicenda probatoria come la definitività dell’accertamento (30): anche in questo caso la mancanza di una tutela del contraddittorio non compensata dal consenso delle parti ai fini dell’ammissione della prova (in una materia per giunta dominata da un sistema probatorio diverso da quello penale) sembra ridondare in violazione del diritto di difesa. Infine, va rilevato che il comma 3 dell’art. 238 ammette l’acquisizione in altro processo della documentazione di atti irripetibili per cause originarie e per cause sopravvenute. Al di là del rilievo che per queste ultime non è espressamente previsto il requisito dell’imprevedibilità, fissato invece dall’art. 512 (31), non sfugge che, nell’ambito della prima ipotesi, non si distingue il caso in cui il compimento dell’atto integri una formazione anticipata della prova (cfr. art. 360). Nessun problema, evidentemente, qualora si ritenesse applicabile per analogia a questa situazione la disciplina dell’art. 403 (32); in caso contrario ed in assenza di altri correttivi (33) il pregiudizio difensivo risulterebbe anche qui evidente. ROBERTO E. KOSTORIS Straordinario di Procedura penale nell’Università di Sassari

tavia, M. BARGIS, Le dichiarazioni, cit., p. 165 s.; G. LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionario?, in Legisl. pen., 1993, p. 357. Non si deve peraltro dimenticare la sussistenza in questo caso del diritto delle parti di ottenere l’esame dibattimentale dei testimoni o degli imputati indicati dall’art. 210 c.p.p., le cui dichiarazioni sono fissate nei verbali acquisiti ex art. 238 (salvo però ad affievolire anche questa possibilità nelle ipotesi previste dall’art. 190-bis c.p.p.). (30) F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 674. (31) F. CORDERO, Procedura, cit., p. 673 paventa al riguardo la possibilità che in conseguenza di ciò possano essere ‘‘acquisiti verbali esclusi dal dibattimento nel processo da cui vengono: conclusione paradossale e ripugnante al sistema’’. (32) Tenendo conto dell’approccio metodologico proposto nel nostro I consulenti tecnici, cit., p. 157 ss., secondo il quale un’applicazione analogica alla disciplina dell’art. 360 c.p.p. delle regole che presiedono alla formazione della perizia potrebbe invocarsi solo a patto di non snaturare le peculiari caratteristiche dell’istituto dell’accertamento tecnico non ripetibile, a stretto rigore, sembrerebbe di dover dare una risposta negativa al quesito. Poiché in questo caso, a differenza che nell’incidente, non si richiede la presenza obbligatoria del difensore, ma solo la sua nomina e l’avvertimento del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico, vincolare l’utilizzabilità dibattimentale della prova al suo intervento concreto significherebbe subordinare le ragioni dell’accertamento ad una sua scelta discrezionale. (33) Sarebbe sufficiente considerare come utilizzabile sotto il profilo soggettivo in altro procedimento l’accertamento tecnico non ripetibile avvenuto nel rispetto delle garanzie difensive previste dall’art. 360, purché vi sia identità soggettiva tra ‘‘indagato’’ nel procedimento a quo e imputato nel procedimento ad quem, salvo che la prima qualifica non sussistesse ancora (legittimamente) ai tempi dell’accertamento.


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— 915 — CORTE COSTITUZIONALE — 26 giugno 1995-5 luglio 1995, n. 294 Pres. Baldassarre — Rel. Ferri Ricorso per cassazione — Decisioni — Definitività — Impugnazione straordinaria — Insussistenza — Questione di illegittimità costituzionale — Inammissibilità (Cost. artt. 24 e 25; c.p.p. artt. 623 e 624) Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 623 e 624 del codice di procedura penale, sollevate in riferimento agli artt. 24 e 25 Cost. per la mancata previsione di un mezzo straordinario di impugnazione nei confronti delle pronunce della Corte di cassazione sono inammissibili (1). (Omissis). — Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 623 e 624 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 7 dicembre 1994 dalla Corte di assise di appello di Caltanissetta nel procedimento penale a carico di Greco Michele, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 11, prima serie speciale, dell’anno 1995; Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 3 maggio 1995 il giudice relatore Mauro Ferri; RITENUTO IN FATTO. 1. Con ordinanza del 7 dicembre 1994, la Corte di assise di appello di Caltanissetta, in sede di giudizio di rinvio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 24 e 25, primo comma, della Costituzione, degli artt. 623 e 624 del codice di procedura penale. 2. La Corte remittente premette, in fatto, quanto segue. Il processo si riferisce all’omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, comandante della Compagnia di Monreale, commesso il 4 maggio 1980 nella stessa cittadina. Per questo delitto furono instaurati a distanza di tempo l’uno dall’altro due processi, uno contro gli esecutori materiali, l’altro (nato da separazione dal maxiprocesso palermitano) contro i mandanti. Dopo varie vicende, i due processi pervennero alla stessa sezione della Corte di assise di appello di Palermo per vie diverse: il primo a seguito di annullamento con rinvio (il secondo) da parte della Corte di cassazione, cioè « dall’alto »; l’altro, per la prima volta, in appello, cioè « dal basso ». La Corte di assise di appello di Palermo, dopo alcuni rinvii, dispose la riunione dei processi e, con sentenza del 14 febbraio 1992, per quanto qui interessa, condannò alcuni imputati all’ergastolo, tra i quali Michele Greco. Sui ricorsi delle parti, la Corte di cassazione, con sentenza del 14 novembre 1992, annullò la predetta sentenza nei confronti del solo Greco (imputato nel secondo processo e giudicato quindi dalla Corte di assise di appello palermitana in fase di appello e non di rinvio), rinviando il giudizio per nuovo esame alla Corte di assise di appello di Caltanissetta, odierna remittente. Con ordinanza del 24 gennaio 1994, la Corte medesima rimise gli atti alla Corte di cassazione, con richiesta di correzione dell’errore materiale contenuto


— 916 — nella citata sentenza del 14 novembre 1992, relativo alla designazione del giudice di rinvio. A sostegno della richiesta la Corte di Caltanissetta espose, in sintesi, quanto segue: a) i processi soggettivamente e/o oggettivamente cumulativi sono il risultato della riunione originaria o lungo il loro iter di più processi semplici, soprattutto per motivi di economia processuale, senza che tuttavia questi perdano la loro identità e, in certo senso, la propria autonomia. La formazione del processo cumulativo importa modificazioni sulla competenza; anche per il rispetto del principio costituzionale del giudice naturale il nuovo codice processuale ha ridotto le possibilità di riunione: questa è impossibile per la diversità di fase o grado processuale in cui i processi si trovano; b) la diversità fra giudizio di rinvio e giudizio di appello è radicale, anche quando l’annullamento è totale. Basta considerare che il giudice di rinvio è vincolato dai principi di diritto affermati dalla Cassazione, sui quali si forma il giudicato, mentre il giudice di appello non ha vincoli del genere. Anche sotto l’aspetto della competenza la disciplina è diversa perché il giudice di rinvio è lo stesso (come ufficio, ma in sezione diversa) fino a quando può disporsi di sezione diversa, o è diverso e ciò necessariamente per evitare incompatibilità; il giudice di appello è quello predeterminato dal codice senza che vi siano situazioni di incompatibilità da evitare: tutto ciò nel rispetto del diritto, costituzionalmente garantito, al giudice naturale (art. 25, primo comma, della Costituzione); c) proprio in attuazione di questo precetto sono state modificate alcune norme del codice processuale penale del 1930, fra le quali l’art. 543, che lasciava libertà alla Cassazione di scegliere il giudice di rinvio, ora invece rigorosamente predeterminato, e anche il nuovo codice del 1988 è in linea con l’applicazione dell’art. 25 della Costituzione, che deve costituire un obbligatorio punto di riferimento per l’interpretazione e l’applicazione della legge in senso costituzionale; d) in questo quadro appare ancora più evidente l’anomalia della riunione dei due processi in fasi processuali radicalmente diverse, operata dalla Corte di assise di appello di Palermo, riconosciuta (pur in termini addolciti) dalla Cassazione con la citata sentenza del 14 novembre 1992. Tuttavia, si è considerato che dalla riunione non era derivata alcuna conseguenza nociva agli imputati, né di ordine processuale, né di ordine sostanziale, perché, sia nel grado/fase di appello/rinvio, sia nel successivo grado di cassazione la tipologia e la disciplina del giudizio di rinvio non aveva influito su quello di appello e viceversa; e) la situazione, quindi, poteva durare fino a quando non si verificasse una lesione dei diritti delle parti. Orbene, respinti gli altri ricorsi ed accolto con annullamento con rinvio quello di Greco, imputato come mandante, il cui processo era stato trattato dalla Corte palermitana in fase e grado di appello, questi aveva diritto ad essere giudicato dal suo giudice naturale che è altra sezione della Corte palermitana ed in prosieguo, in caso di nuovo rinvio, ancora da altra delle tre sezioni di essa prima di essere rinviato, come invece è avvenuto, alla Corte nissena. Ne è derivata, quindi, una duplice lesione del diritto del Greco: quella di non essere giudicato dal giudice naturale e quella di avere reso molto più onerosa la difesa, com’è per ogni processo che si svolge fuori dalla propria residenza, onerosità che può costringere a limitare questo diritto; f) in tali casi non giova rifarsi all’esatto principio che giudice naturale pre-


— 917 — costituito è quello determinato dalla legge, anche in deroga alle norme fondamentali sulla competenza ed anche in conseguenza di riunione di processi per connessione: ciò, infatti, può valere se la riunione è avvenuta nel rispetto della legge e non se essa è stata anomalmente disposta pur nell’opposizione delle parti. La Corte di cassazione, tuttavia, con sentenza del 4 luglio 1994 dichiarò inammissibile la richiesta di correzione, considerando: che la riunione, una volta disposta, consolida i suoi effetti sulla competenza; che l’errore materiale, per essere suscettibile di correzione, non deve essere partecipe del processo volitivo del giudice, ma deve semplicemente consistere in mancanza di corrispondenza fra il contenuto reale di una decisione e la sua formale estrinsecazione; che la sentenza di rinvio della Cassazione è sempre attributiva della competenza, per cui non è consentito discuterne e l’eventuale errore non è correggibile ne è possibile alcuna modifica. 3. Tutto ciò premesso, la Corte remittente osserva che la situazione determinatasi presenta più aspetti di incostituzionalità che è opportuno rimuovere, come ha chiesto la difesa del Greco. 3.1. Un primo attiene all’intangibilità assoluta delle pronunce della Cassazione, con relativa impossibilità di riesame, anche in quelle statuizioni implicite o conseguenziali, che non sono state oggetto di dibattito, non sono manifestazione di un giudizio come decisione e giungono, per il contenuto, quasi a sorpresa. Nel caso in esame l’errore materiale non può celarsi con l’affermazione (per altri casi ovvia) che ogni pronuncia della Cassazione comunque emessa, è sempre attributiva della competenza e, quindi, espressione di una volontà decisoria, per cui bisogna fare ossequio all’ipse dixit. Del resto, prosegue il giudice a quo, pronunce contrastanti in materia si ripetono da anni fino a tempi recentissimi e v’è stata la tendenza ad interpretare anche estensivamente le norme sull’errore materiale per evitare lesioni di diritti ed ingiustizie, superando talora ostacoli meramente formali. Il contrasto delle pronunce dimostra l’insufficienza dell’istituto della correzione per evitare le sostanziali ingiustizie che nei casi di rifiuto ne derivano (e d’altro lato la possibilità di scantonamenti che dall’adattamento interpretativo della norma possono derivarne); dimostra anche il trattamento opposto di casi identici o molto simili, che sono molto più numerosi di quanto non si creda e comunque di quelli, già numerosi, che affiorano, con lesione di diritti e, fra l’altro, del principio di giustizia distributiva, che è poi lesione del principio di eguaglianza costituzionalmente garantito. Appare, quindi, costituzionalmente illegittima la mancanza di una norma che regoli l’impugnazione dei provvedimenti emessi de plano dalla Corte di cassazione, allorché essi siano o possano subito essere lesivi di diritti, al di fuori e svincolata dai limiti prescritti per la correzione materiale degli atti (attribuendone, se del caso, la competenza alle sezioni unite). Non si tratta di creazione di un ulteriore grado di giurisdizione, per mancanza del carattere di generalità e per la sostanziale configurazione di opposizione, destinata ad evitare le conseguenze negative di errori a sorpresa. 3.2. Il secondo aspetto — prosegue la Corte remittente — attiene al principio della perpetuatio iurisdictionis. È certo, e lo ha riconosciuto la stessa Cassazione nella sentenza 14 novembre 1992, che nel caso in esame mancavano gli ele-


— 918 — menti necessari per procedersi a riunione, anzi vi erano elementi impeditivi destinati a permanere. La Cassazione ha riconosciuto l’irregolarità della riunione, ma ha constatato che nel caso specifico particolare non si erano verificate nullità per il tratto processuale svoltosi davanti alla Corte di assise di appello di Palermo. Se ciò la Cassazione ha constatato per circostanze del tutto particolari coincidenti, tuttavia non ha reso (né mai poteva rendere) regolare la riunione dei processi che era, restava e resta irregolare e poteva essere tollerata solo fino a quando non avesse leso diritti. Ma con la stessa pronuncia ed il rinvio a giudice diverso da quello al quale, secondo le regole e senza l’irregolare riunione, spetta la competenza per il giudizio di rinvio, si verificava la lesione del diritto al giudice naturale, che la Cassazione non ha considerato, né preso in esame. Orbene, non si può stabilizzare un’irregolarità; tanto meno la si può stabilizzare con lesione di diritti. Né si può dire che il giudice naturale è quello indicato dalle norme del codice e, in caso di riunione di processi, quello indicato dalle norme conseguenziali che regolano le modifiche della competenza. Ciò è esatto per le riunioni regolari; non lo può essere per quelle irregolari, peraltro oggetto di rilievi fin dall’inizio, per cui non potrebbe parlarsi neanche di acquiescenza. Le variazioni di competenza per connessione possono resistere se sono legittime e se tali restano, non quando cessano di esserlo. 3.3. Non può, d’altra parte, sfuggire ancora — prosegue il giudice a quo — che il principio della perpetuatio iurisdictionis è una fictio non assolutamente necessaria, che spesso si risolve soltanto in una violazione non giustificata del diritto al giudice naturale, specie nei casi di processi cumulativi con conseguenze sulla competenza, secondo applicazioni che finiscono con l’essere esasperate. Non può sfuggire che, quando una componente del processo cumulativo si esaurisce per qualsiasi motivo, non vi è più alcuna ragione perché essa continui ad influire sull’intero processo, del quale nella realtà non fa più parte, specie se ciò influisca su diritti o li leda. Nella realtà in tal caso si tratta di una separazione automatica, fisiologica, conseguente all’esaurirsi di un elemento componente. Nel caso in esame con la sentenza della Corte di cassazione è cessata la cumulatività soggettiva ed anche quella oggettiva. La Corte di Caltanissetta viene chiamata a conoscere del processo contro Michele Greco, solo perché, irregolarmente riunito a quello contro gli esecutori materiali, dal quale, per l’esaurirsi di quel processo, è ormai separato e vive seguendo un iter processuale suo proprio, processo del quale ben due delle tre sezioni della Corte di assise di appello di Palermo possono conoscere per altre due volte e sono esse i giudici naturali del Greco. Non può sfuggire che resta leso o quanto meno enormemente compresso il diritto di difesa (oltre lo scopo di conoscibilità diretta dei processi e del loro svolgimento nei luoghi in cui i fatti sono stati commessi), che diventa eccessivamente oneroso con conseguenti limitazioni (per restare a questo processo, è ben evidente che altro è subire il processo di rinvio ed eventualmente altro ancora nella stessa città, specie se coincidente con la propria residenza altro è subirne un secondo in altra residenza ed un terzo ancora in altra).


— 919 — In conclusione, la Corte remittente ritiene che in caso di rinvio dalla Cassazione, per annullamento parziale di sentenza che importa il venir meno, in un processo cumulativo, dell’elemento componente che ha determinato spostamento di competenza, esso debba essere disposto a quel giudice che è competente per l’imputato e per il reato oggetto del rinvio. La mancanza di questa previsione (che e anche nella disciplina delle impugnazioni) importa la sostanziale violazione del diritto al giudice naturale (che il principio della perpetuatio iurisdictionis, fondandosi su una fictio, non salva) (art. 25 della Costituzione), nonché, del diritto di difesa, rendendolo molto più oneroso e quindi comprimendolo (art. 24 della Costituzione). 4. È intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per l’infondatezza della questione. Osserva, in primo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato che le norme impugnate ribadiscono il principio generale di diritto processuale della c.d. perpetuatio iurisdictionis, già presente in via generale nel processo civile (art. 5 del codice di procedura civile) e valevole anche per il processo penale. La ratio sottesa al detto principio riposa, oltre che su esigenze di economia processuale, in caso di processi riuniti, anche e soprattutto sulla certezza delle situazioni giuridiche accertate e sull’esigenza di evitare giudicati contrastanti. Da ciò consegue che non vi è violazione del giudice naturale precostituito quando si versa in ipotesi di processo cumulativo per disposta riunione soggettiva e/o oggettiva e tale situazione perduri anche nella fase del giudizio rescissorio conseguente ad annullamento operato dalla Cassazione. Le osservazioni svolte circa la funzione assolta dalle norme della cui legittimità costituzionale si tratta escludono anche, ad avviso dell’Avvocatura, l’esistenza della dedotta violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito ex art. 24 della Costituzione. Gli argomenti dell’ordinanza di rimessione sul punto si riferiscono ad una asserita « compressione » del diritto di difesa. Ma questi argomenti provano troppo, in quanto, così ragionando si dovrebbe sospettare della legittimità costituzionale anche di altre disposizioni, quali ad esempio gli artt. 45 e ss. del codice di procedura penale in tema di « rimessione del processo », che, invece, per la ratio sottostante alle stesse giustificano l’eventuale compressione del diritto di difesa derivante dallo spostamento territoriale. Ciò premesso in linea generale, osserva l’interveniente che il profilo dell’ordinanza di rimessione riguardante la fattispecie concreta non appare pertinente. Praticamente il giudice di merito lamenta l’erroneità della pronuncia della Corte di cassazione sul rinvio, l’erroneità della pronuncia di rigetto da parte della medesima Corte dell’istanza di correzione di errore materiale, l’inaccettabilità del principio che rende inoppugnabili i provvedimenti emessi de plano dalla Corte stessa, allorché essi siano o possano subito essere lesivi di diritti. È più che evidente che eventuali errori di giudizio della Corte di cassazione non possano essere sindacati in questa sede: in conseguenza non sembra che si possa discutere se bene o male abbia fatto la Corte Suprema a rinviare al giudice di Caltanissetta e non piuttosto al giudice di Palermo; né se bene o male abbia fatto la Corte a non ritenere ammissibile l’istanza di correzione di errore materiale. Quanto al problema della intangibilità di alcune pronunce della Corte Su-


— 920 — prema, il problema di costituzionalità, adombrato nella motivazione dell’ordinanza del giudice di rinvio, non è stato esplicitamente sollevato nella parte dispositiva. Ad ogni buon fine, non può non ritenersi la manifesta infondatezza del rilievo di incostituzionalità, posto che è tutt’altro che illogica la norma che ritiene inoppugnabili le pronunce della Suprema Corte e fissa solo alcuni rimedi specifici, come la correzione di errore materiale, che si concludono anch’essi con una pronuncia inoppugnabile: l’esigenza di concludere alfine il processo, dopo aver assicurato le più idonee e ragionevoli garanzie lungo il suo articolato iter, prevalgono anche sul margine di errore cui nessuna pronuncia, neanche dei supremi giudici, può sottrarsi. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. La Corte di assise di appello di Caltanissetta, in sede di giudizio di rinvio, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 25, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 623 e 624 del codice di procedura penale, i quali, in materia di giudizio di cassazione, disciplinano rispettivamente l’annullamento con rinvio — con la predeterminazione dei criteri di designazione del giudice di rinvio — e l’annullamento parziale delle sentenze. Più precisamente, dal complesso iter argomentativo dell’ordinanza di rimessione emerge con chiarezza che il giudice a quo ha inteso porre due diverse questioni di costituzionalità delle citate norme del codice di procedura penale, le quali vanno quindi esaminate distintamente. 2.1. La prima questione, come testualmente afferma la Corte remittente, « attiene all’intangibilità assoluta delle pronunce della Cassazione con relativa impossibilità di riesame anche in quelle statuizioni implicite o conseguenziali, che non sono state oggetto di dibattito, non sono manifestazione di un giudizio come decisione e giungono, per il contenuto, quasi a sorpresa. Si lamenta, quindi, la « mancanza di una norma che regoli l’impugnazione dei provvedimenti emessi de plano dalla Corte di cassazione, allorché, essi siano o possano subito essere lesivi di diritti, al di fuori e svincolata dai limiti prescritti per la correzione materiale degli atti (attribuendone, se del caso, la competenza alle sezioni unite) ». Va premesso, ai fini dell’esatto inquadramento della questione, che, come si è ampiamente riferito nella narrativa del fatto, la Corte di cassazione, a seguito di annullamento (parziale) di sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Palermo, rinviò il giudizio alla Corte di assise di appello di Caltanissetta (attuale remittente), la quale tuttavia, ritenendo che la propria designazione quale giudice di rinvio fosse frutto di errore materiale, presentò richiesta di correzione, ai sensi dell’art. 130 del codice di procedura penale, alla Corte di cassazione: questa, a sua volta, dichiarò inammissibile l’istanza, ritenendo che non sussistessero, nella fattispecie, le condizioni di applicabilità dell’invocato istituto. Anche alla luce della riferita vicenda processuale, le argomentazioni del giudice a quo devono, pertanto, intendersi dirette non tanto a denunciare in assoluto l’incensurabilità delle decisioni della Corte di cassazione, bensì, più specificamente, a lamentare l’inesistenza di un rimedio straordinario avverso determinate statuizioni (« implicite o conseguenziali » ed « emesse de plano », come afferma il remittente), quale — in particolare — quella relativa alla designazione del giudice di rinvio, con conseguente violazione degli indicati parametri costituzionali.


— 921 — 2.2. È utile premettere, in linea generale, — anche in ordine a quanto si dirà in prosieguo —, che questa Corte ha già avuto modo più volte di affermare che il principio dell’irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della Corte di cassazione, oltre ad essere rispondente al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo — il che costituisce, del resto, lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale e realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche —, è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidata alla medesima Corte di cassazione dall’art. 111 della Costituzione (cfr., da ultimo, sentenza n. 247 del 1995, nonché, sentenze nn. 21 del 1982, 136 del 1972, 5l e 50 del 1970). Ciò posto, la questione si rivela chiaramente inammissibile. Appare, infatti, evidente che il petitum del remittente — come risulta dalla sua stessa formulazione — si traduce nella richiesta di introduzione nel sistema processuale di un mezzo straordinario di impugnazione che, in presenza di determinate condizioni, consenta di ovviare alle conseguenze, ritenute lesive di diritti dell’imputato, di (presunti) errori contenuti nelle pronunce della Corte di cassazione. Ma è assorbente rilevare, in proposito, — e fermo restando quanto sopra detto sull’esigenza che il processo si concluda alfine irretrattabilmente —, che una siffatta richiesta di pronuncia additiva è palesemente inammissibile, comportando l’introduzione di innovazioni che, per la loro ampiezza e per la pluralità di soluzioni e modalità attuative, non possono che discendere da scelte riservate al legislatore, nell’esercizio della sua sfera di discrezionalità nell’opera di conformazione del processo (v., oltre alle citate sentenze nn. 21 del 1982 e 136 del 1972, anche, più in generale, la sentenza n. 471 del 1992). 3.1. La seconda questione sollevata dalla Corte nissena si riassume nel censurare le norme del codice di procedura penale sopra menzionate nella parte in cui non prevedono che « in caso di rinvio dalla Cassazione, per annullamento parziale di sentenza, che importa il venir meno, in un processo cumulativo, dell’elemento componente che ha determinato spostamento di competenza, esso debba essere disposto a quel giudice che è competente per l’imputato e per il reato oggetto del rinvio ». Osserva, in particolare, il giudice remittente che, a seguito della sentenza della Corte di cassazione sopra menzionata, era ormai cessata la cumulatività oggettiva e soggettiva del processo, peraltro originata da un’irregolare riunione, con la conseguenza che non sussisteva più alcuna ragione per rinviare il giudizio — in base ad un’inadeguata applicazione del principio della perpetuatio iurisdictionis — alla Corte di Caltanissetta, anziché, al giudice (nella specie, la Corte di assise di appello di Palermo) competente, secondo le regole ordinarie, a giudicare l’unico imputato residuo. La mancanza di una previsione normativa in tal senso comporta, ad avviso del medesimo giudice a quo, la violazione del principio del giudice naturale (art. 25, primo comma, della Costituzione), nonché, la lesione del diritto di difesa (art. 24 della Costituzione), rendendone molto più gravoso l’esercizio. 3.2. Anche questa seconda questione si rivela inammissibile per un duplice ordine di ragioni strettamente connesse. Non può sfuggire, in primo luogo, il rilievo, — espresso anche dall’Avvoca-


— 922 — tura dello Stato —, che la Corte remittente, nel porre l’indicata questione, finisca in realtà con il censurare non tanto la norma che indica i criteri di designazione del giudice di rinvio, quanto, in realtà, la stessa sentenza della Cassazione che ha applicato, secondo il giudice a quo in modo erroneo, la norma medesima. Che l’effettivo oggetto dell’impugnativa sia costituito dalla pronuncia della Corte di cassazione discende dalla considerazione che, secondo la costante giurisprudenza di detta Corte (anche relativamente alle norme del nuovo codice di procedura penale in materia di annullamento con rinvio), la sentenza con cui essa devolve il giudizio di rinvio a un determinato giudice è sempre attributiva della competenza, come risulta dall’art. 627, primo comma, del codice vigente, di tenore identico a quello dell’art. 544, primo comma, del codice abrogato: pertanto, il titolo della legittimazione del giudice di rinvio a conoscere del processo è costituito direttamente dalla pronuncia della Cassazione (cfr., in tal senso, la citata sentenza di questa Corte n. 51 del 1970). Ne deriva, in conclusione, che, sub specie di giudizio di costituzionalità, la questione in esame si traduce in realtà nella richiesta a questa Corte di operare una sorta di « revisione in grado ulteriore » della sentenza della Corte di cassazione che ha dato origine al giudizio a quo, e cioè di svolgere un ruolo di giudice dell’impugnazione che ovviamente non le compete (cfr. la citata sentenza n. 247 del 1995, e le ordinanze nn. 410 e 44 del 1994). 3.3. Ma vi è un secondo aspetto di inammissibilità della questione, intimamente connesso a quello già evidenziato, che si rivela comunque decisivo e che trae origine anch’esso dalla natura definitiva ed irretrattabile delle decisioni della Corte di cassazione. Tale principio — sulla cui piena legittimità si è già detto sopra al punto 2.2. — ha sempre trovato applicazione, attraverso norme specifiche, anche in materia di giurisdizione e di competenza. Limitando l’esame al codice di procedura penale vigente, l’art. 25 dispone, in linea generale, che « la decisione della Corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza è vincolante nel corso del processo » (salvo fatti nuovi che comportino determinate conseguenze); l’art. 32, comma 3, richiama, in tema di sentenze di risoluzione dei conflitti, l’art. 25; a sua volta, per quanto qui più specificamente interessa, l’art. 627, primo comma, stabilisce che « nel giudizio di rinvio non è ammessa discussione sulla competenza attribuita con la sentenza di annullamento, salvo quanto previsto dall’art. 25 ». Va ricordato, in proposito, che con la citata sentenza n. 51 del 1970 questa Corte dichiarò non fondata — in riferimento agli artt. 24 e 25, primo comma, della Costituzione — la questione di legittimità costituzionale dell’identica norma contenuta nell’art. 544, primo comma, del codice del 1930. Ciò posto, non può che ribadirsi la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui dall’autorità di giudicato delle decisioni della Cassazione in materia discende l’irrilevanza di questioni che tendano a rimettere in discussione la competenza attribuita nel caso concreto dalla Cassazione medesima, in quanto ogni ulteriore indagine sul punto deve ritenersi definitivamente preclusa e quindi nessuna influenza potrebbe avere una qualsiasi pronuncia di questa Corte nel giudizio a quo (cfr. sentenze nn. 25 del 1989, 237 e 216 del 1976, 132 del 1970). — (Omissis).


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Ancora sull’intangibilità assoluta delle sentenze della Corte di cassazione.

1. Di tanto in tanto a qualche giudice di merito viene la tentazione di riproporre ai Giudici della Consulta la questione relativa alla legittimità costituzionale della regola, recepita anche dal vigente codice di rito penale sulla scorta di una tradizione risalente, dell’intangibilità delle sentenze della Corte di cassazione. Scontato l’epilogo dell’incidente costituzionale — rigetto — instauratosi a seguito della relativa querelle, all’interprete non può sfuggire che vi debba pur essere qualche ragione per cui si persevera in una tendenza o, magari, in una tentazione, come s’è detto, senza seguito. È indubbio che all’origine vi sia un certo scetticismo, forse inconfessato, circa l’insuperabilità delle argomentazioni che figurano in talune decisioni della Corte Suprema e che fanno nascere molte riserve; il mito dell’infallibilità della Corte Suprema appartiene ad altri tempi, per molteplici motivi che sarebbe in ogni caso opportuno discutere e dibattere in qualche appropriata sede; sta di fatto che certi dicta dei giudici di legittimità appaiono più il frutto di decisioni affrettate e routinarie che il distillato di meditata nomofilachia. Non manca anche una certa serpeggiante insofferenza rispetto alla vincolatività dei « precedenti giurisprudenziali », così prendendo alla lettera la proposizione normativa che figura all’art. 101 secondo comma della Costituzione secondo la quale « i giudici sono soggetti soltanto alla legge ». A tutto ciò si aggiunga anche la constatazione che in determinate situazioni la Corte di cassazione può incorrere in errori o in omissioni che non possono in alcun modo essere recuperati e che sono spesso il risultato di quella contrazione del contraddittorio che si può registrare anche davanti ai giudici di legittimità soprattutto nei procedimenti in camera di consiglio. Tutto questo comporta che ogni tanto venga chiamata la Corte costituzionale a prendere una posizione sul punto e la Corte, con la sentenza che si annota, ha opportunamente fissato qualche criterio che non può essere sottovalutato, se non altro in una prospettiva de jure condendo. 2. L’ordinanza di rimessione aveva prospettato due diverse questioni imperniate sugli artt. 623 e 624 del codice di procedura penale, richiamando quali parametri di legittimità gli artt. 24 e 25 primo comma della Costituzione. La prima questione concerneva la lamentata mancanza di una disposizione all’interno del codice di procedura penale che consenta di fondare un’impugnazione « dei provvedimenti emessi de plano dalla Corte di cassazione, allorché possono subito essere lesivi di diritti, al di fuori e svincolata dai limiti prescritti per la correzione materiale degli atti »; tale impossibilità di riesame di tutte le statuizioni emesse dalla Corte di cassazione anche di quelle « implicite o consequenziali, che non sono state oggetto di dibattito, non sono manifestazione di un giudizio come decisione e giungono, per il contenuto, quasi a sorpresa », era stata ritenuta in contrasto con le disposizioni degli artt. 24 e 25 della Costituzione soprattutto perché risulterebbe irragionevolmente contratta la garanzia dell’inviolabilità del diritto di difesa. La Corte costituzionale ha respinto come « inammissibile » la questione fissando alcuni principi che si possono sintetizzare come segue: — Il principio dell’irrevocabilità o dell’incensurabilità delle decisioni della Corte di cassazione risponde anzitutto al fine di evitare che siano perpetuati indefinitamente i procedimenti; — tale principio risponde altresì allo scopo di conseguire « un accertamento definitivo », il quale rappresenta « lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale e


— 924 — realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche »; — tale accertamento definitivo poi risulta conforme all’impianto costituzionale che identifica proprio nella Corte di cassazione ex art. 111 Cost., e nel correlativo ricorso per violazione di legge, nei confronti di tutte le sentenze e di tutti i provvedimenti giurisdizionali in materia di libertà personale, il giudice ultimo di controllo della legittimità e, quindi, il giudice ultimo in grado di dare suggello e definitività all’accertamento. Questi tre principi fondano l’intangibilità in termini di giudicato delle decisioni della Corte Suprema, che, alla luce dei principi costituzionali evocati, non può essere modificata attraverso una pronuncia additiva della Corte costituzionale, soprattutto perché non vi appaiono precise indicazioni di rango costituzionale che consentono di introdurre attraverso una pronuncia della Corte un mezzo straordinario di impugnazione nei confronti delle sentenze della Corte di cassazione. Nell’affrontare la seconda questione la Corte costituzionale ha operato un distinguo particolarmente importante, precisando che tutte le volte in cui si prospetta una censura avverso una decisione della Corte di cassazione anche in funzione di una ritenuta inadeguatezza o errata interpretazione della norma posta a base della decisione dei giudici di legittimità, in realtà non si fonda una censura sulla norma, ma si tenta di superare il dictum della pronuncia della cassazione; anche prospettata da questo secondo punto di vista la questione non può essere riproposta nei confronti di una decisione della Corte Suprema, nemmeno se questa, come sarebbe avvenuto nel caso di specie, avesse errato nell’identificazione del giudice di rinvio, applicando erroneamente una disposizione del codice di rito penale. 3. Forse per la prima volta esplicitamente la Corte costituzionale apre un possibile spiraglio al principio dell’intangibilità del giudicato formatosi su una decisione della Corte di cassazione. Nell’affrontare la questione e nel respingere la possibilità di emanare una sentenza additiva allo scopo di introdurre nel sistema processuale « un mezzo straordinario di impugnazione », la Corte ha sottolineato, peraltro, che non può essere esclusa in subiecta materia qualche soluzione innovativa che appare in via esclusiva riservata alle « scelte » del legislatore « nell’esercizio della sua sfera di discrezionalità nell’opera di conformazione del processo », innovazioni che possono essere caratterizzate da una particolare « ampiezza » e da una significativa « pluralità di soluzioni e modalità attuative ». I Giudici della Consulta dunque hanno ammesso la possibilità e, quindi, quanto meno la liceità costituzionale, che il codice sia modificato nel punto specifico non attraverso una sentenza additiva della Corte costituzionale, ma per il tramite di un intervento del legislatore, con ciò battendo in breccia il principio dell’intangibilità delle decisioni della Corte di cassazione. L’identificazione dei possibili oggetti di riesame può avvenire in forza delle precisazioni che appaiono nella parte della motivazione concernente il « considerato in diritto ». A titolo esemplificativo si potrebbe osservare che un riesame delle decisioni della Corte Suprema potrebbe riguardare: — le statuizioni implicite; — le statuizioni « consequenziali » che non abbiano formato « oggetto di dibattito » e che non siano manifestazioni di un giudizio vero e proprio « come decisione » e che giungano inaspettate quasi a sorpresa; — i provvedimenti de plano della Corte di cassazione che siano subito lesivi


— 925 — di diritti e che non possono essere recuperati nella loro legalità attraverso il procedimento della correzione materiale degli atti. Su questi limiti ed a queste condizioni il legislatore potrebbe introdurre varianti al principio dell’intangibilità del giudicato della Corte di cassazione attraverso la previsione di un mezzo straordinario di impugnazione. La Corte non ha identificato né la competenza né le forme di un simile mezzo di impugnazione straordinaria, ma è agevole ritenere che esso non dovrebbe spettare ad un giudice diverso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, dal momento che nessuna disposizione della Costituzione consente di ritenere invocabile una competenza specifica della Corte costituzionale. 4. Una sentenza (la n. 294 del 1995) non particolarmente importante dal punto di vista dei contenuti, ma significativa per la fissazione di alcuni punti fermi; è bene non dimenticarsene, ma, soprattutto, è bene che non se ne dimentichino i giudici di legittimità, atteso che de jure condito e chissà fino a quando l’intangibilità del giudicato della Cassazione resterà un valore assoluto; da qui la necessità che l’attenzione per il procedimento di cassazione sia molto acuta, presente e penetrante, soprattutto in forza del fatto che gli errori della Corte di cassazione sono assolutamente irrecuperabili; è da rimarcare il messaggio, importante anche in funzione dell’auspicio che i giudici di legittimità siano davvero un baluardo assolutamente sicuro ed affidabile, che almeno sul piano del rispetto della legalità rappresenta un momento affidante ed affidato. ANGELO GIARDA


LEGGI E DECRETI

È stato presentato al Senato della Repubblica un disegno di legge d’iniziativa parlamentare (n. 2038), primo firmatario il sen. Roland Riz, che ha per oggetto la riforma del libro I del codice penale. Il disegno è stato redatto dai membri del « Comitato per la riforma del Codice penale » istituito presso la Commissione Giustizia del Senato nel dicembre del 1994. Si tratta senz’altro di una svolta rispetto alla più recente storia dei tentativi di riforma del codice penale: si è abbandonata la strada, battuta dal c.d. progetto Pagliaro, del disegno di legge-delega, per percorrere quella del procedimento legislativo ordinario, che negli ultimi anni ha dato buoni frutti — come ricorda la Relazione al progetto — ad esempio in tema di arbitrato e di diritto internazionale privato. I proponenti hanno d’altro canto fornito ampie motivazioni delle molteplici peculiari ragioni che suggeriscono, nella materia penale, il ricorso al metodo della elaborazione di una legge formale. Fra le tante ragioni, non ultima è la necessità che un progetto di riforma del codice penale assuma la veste di un testo scritto articolato in tutti i dettagli, e non quello di una serie di enunciazioni di principio, inevitabilmente vaghe. Solo un testo del genere può infatti consentire la raccolta — auspicata dagli autori del progetto e reclamata dall’intera storia del diritto penale italiano — di pareri meditati e motivati provenienti dalle più diverse fonti (Università, avvocature, magistrature, esperti di diritto comparato, criminologi etc.). Sembra perciò opportuno mettere subito a disposizione della comunità scientifica il testo del progetto, perché possa aprirsi un ampio e fruttuoso dibattito. Il testo del disegno di legge viene pubblicato alla fine del presente fascicolo, dopo la rubrica Giurisprudenza, poiché il testo stesso è giunto quando l’impaginato era ormai chiuso. (Giorgio MARINUCCI - Emilio DOLCINI)

DISEGNO DI LEGGE N. 2038 d’iniziativa dei senatori RIZ, GUARRA, RUSSO, LISI, BECCHELLI, BELLONI, BRIGANDÌ, BRUTTI, BUCCIERO, CONTESTABILE, FABRIS Giovanni, GARATTI, GUALTIERI, IMPOSIMATO, LAFORGIA, LUBRANO DI RICCO, PALUMBO, PREIONI, ROSSO, SCOPELLITI, SENESE, SILIQUINI, STAJANO, TRIPODI, BERTONI, BINAGHI, BRATINA, BRICCARELLO, CASADEI MONTI, COVIELLO, DE PAOLI, DIANA, DUJANY, ELLERO, GALLO, GUERZONI, LADU, LONDEI, MACERATINI, MASIERO, MISSERVILLE, PINTO, ROCCHI, SALVATO E SCALONE - Senato della Repubblica - XII Legislatura - Comunicato alla Presidenza il 2 agosto 1995 - Libro primo del codice penale. SOMMARIO: Relazione. - I. Premesse sul libro primo del codice penale. - II. Sul metodo di lavoro e sulla scelta del procedimento legislativo. - III. Princìpi e regole generali. - IV. Reato e sanzione. - V. Causalità. - VI. Colpevolezza e imputazione del fatto. - VII. Le condotte pericolose e l’oggetto del reato. - VIII. Cause di giustificazione. - IX. Circostanze del reato. - X. Imputabilità. - XI. Recidiva, abitualità e professionalità nel reato. - XII. Concorso di persone nel reato. - XIII. Richiesta di procedimento. - XIV. Applicazione ed esecuzione della pena. - XV. L’estinzione del reato e l’estinzione della sua procedibilità. - XVI. Estinzione della pena e limitazione degli effetti della condanna. XVII. Obbligazioni civili derivanti dal reato. - XVIII. Misure di sicurezza per persone maggiori di età. - XIX. Misure di sicurezza per minori. - XX. Vincoli derivanti dal diritto comunitario e dal diritto internazionale. - XXI. Conclusione. — Disegno di legge. - Titolo I. La legge penale. - Titolo II. Le pene; Capo I. Le pene in generale; Capo II. Le pene principali; Capo III. Le pene sostitutive; Capo IV. Le pene accessorie; Capo V. Le misure speciali. - Titolo III. Il reato; Capo I. Il reato in ge-


— 928 — nere; Capo II. L’errore; Capo III. Le cause di giustificazione; Capo IV. Il delitto tentato; Capo V. I reati commessi a mezzo della stampa; Capo VI. Le circostanze del reato; Capo VII. Il concorso di reati. - Titolo IV. Il reo e la persona offesa dal reato; Capo I. L’imputabilità; Capo II. La recidiva, l’abitualità e la professionalità nel reato; Capo III. Il concorso di persone nel reato; Capo IV. La querela della persona offesa dal reato; Capo V. La richiesta di procedimento. - Titolo V. L’applicazione e l’esecuzione della pena; Capo I. L’applicazione della pena; Capo II. L’esecuzione della pena. - Titolo VI. Le cause di estinzione del reato, della procedibilità del reato e della pena; Capo I. L’estinzione del reato e della procedibilità del reato; Capo II. L’estinzione della pena; Capo III. Le limitazioni degli effetti della condanna. Capo IV. Disposizioni comuni. - Titolo VII. Le obbligazioni civili derivanti dal reato. - Titolo VIII Le misure di sicurezza; Capo I. Regole generali; Capo II. Persone maggiori di età; Capo III. Persone minori di età. — Disposizioni generali, norme di attuazione, norme di coordinamento e norme transitorie.

ONOREVOLI SENATORI. — La storia della riforma del codice penale è lunga e travagliata. Il presente disegno di legge di riforma costituisce il frutto di un lavoro collettivo, di cui vengono qui delineati le fasi e i princìpi ispiratori. I.

Premesse sul libro primo del codice penale.

1.1 Ancora durante la guerra, il 31 agosto 1944, poco dopo il suo insediamento a Roma, il Governo Bonomi (Ministro di grazia e giustizia Tupini) approvò la delega « per provvedere alla riforma della legislazione penale, per la formazione di un nuovo codice penale e di un nuovo codice di procedura penale pienamente aderenti alle tradizioni giuridiche del popolo italiano ». Il 2 gennaio 1945 venne istituita la Commissione ministeriale per la revisione del codice penale. Questa fu sostituita da un « comitato di coordinamento », che nel gennaio 1947 presentò al Governo un suo « progetto preliminare » relativamente al primo libro del codice penale. 1.2. Nel settembre dello stesso anno fu presentato al Ministro di grazia e giustizia Grassi lo « Schema preliminare di riforma del codice penale ». Anch’esso non fu portato avanti. 1.3. Due anni dopo, nel febbraio del 1949, fu costituito un comitato esecutivo composto da cinque membri (Lattanzi, Petrocelli, Vannini, Lampis e Gabrieli) che alla fine dell’anno 1950 presentò un suo progetto preliminare di nuovo codice penale. Tale progetto è rimasto a sua volta fermo per oltre cinque anni. 1.4. Si arrivò così all’inizio del 1956, anno in cui il Ministro di grazia e giustizia Aldo Moro (Governo Segni) nell’intento di pervenire almeno ad una riforma parziale del codice penale nominò una Commissione con il compito di predisporre un « progetto parziale » di riforma che toccasse i punti che maggiormente esigevano di essere modificati. Già nel mese di ottobre 1956 la Commissione concluse i suoi lavori, presentando il suo progetto parziale al ministro Moro. Questi, però, non ritenne opportuno presentarlo alle Camere. 1.5. Passarono altri anni finchè il 24 febbraio 1960 il ministro Guido Gonella presentò in Parlamento un suo progetto preliminare di modifica del codice penale che in larga parte riportava il testo del progetto Moro. Così finalmente ne veniva investito il Parlamento. Ma il testo non ebbe fortuna a causa di continui ripensamenti, anche da parte del Governo. 1.6. Nell’autunno dello stesso anno il nuovo Guardasigilli Giacinto Bosco ritenne opportuno presentare un disegno di legge delega per la riforma di tutti i codici, incluso il penale, che fu presentato alla Camera dei deputati il 10 ottobre 1960 (n. 557), ma fu poi ritirato dal Governo per la parte riguardante il codice penale. 1.7. Passarono altri otto anni fino a quando nel febbraio 1968 il Ministro di grazia e giustizia Oronzo Reale presentò alla Camera dei deputati un nuovo disegno di riforma (n. 4849). Si trattò di una iniziativa legislativa simbolica: essendo ormai vicina la fine della legislatura il disegno non ebbe nemmeno l’onore di essere esaminato in Commissione.


— 929 — 1.8. Dopo le elezioni in data 19 novembre 1968, il ministro Gonella — che era tornato al Governo quale Guardasigilli — presentò un disegno di legge che teneva conto dei vari progetti parlamentari, presentati dal 1944 al 1968. Si trattava di un disegno di riforma parziale (atto Senato n. 351 — V legislatura). Così finalmente un ramo del Parlamento fu in grado non solo di esaminare ma di approvare — limitatamente alla parte generale ed a due articoli della parte speciale — un testo di riforma del codice penale. Passato alla Camera dei deputati il disegno purtroppo non potè essere approvato causa l’anticipato scioglimento del Parlamento. 1.9. Ripresentato nella VI legislatura fu esaminato e riapprovato dal Senato (relatore il senatore Giovanni Leone) e quindi trasmesso alla Camera dei deputati. Visto che il disegno aveva avuto l’approvazione di una delle due Camere, il Governo trasformò una parte del disegno di legge nel decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito poi, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 220. Dal 1974 in poi si susseguirono varie leggi e leggine incidenti sull’ordinamento penale, tali da creare in larga parte disordine nel sistema penale dello Stato anche la causa di una contraddittoria compresenza di modelli sanzionatori diversificati e contrastanti e conseguente disparità nelle misure sanzionatorie e difficoltà di applicazione. Tra di esse emerge la legge 24 novembre 1981 n. 689, di « modifiche al sistema penale » che creò serie difficoltà nel campo delle « sanzioni sostitutive ». Seguendo la strada delle cosiddette piccole riforme (in realtà una miriade di disegni di legge settoriali limitati a determinate materie contingenti) si arrivò fino all’anno 1987, quando il Ministro di grazia e giustizia Giuliano Vassalli, forte della sua esperienza dottrinaria, parlamentare e legislativa, giustamente ritenne essere giunto il momento di procedere ad una riforma di tutto il codice penale. Con decreto 8 febbraio 1988 egli costituì, pertanto la Commissione « per l’elaborazione dei princìpi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale, sia nella parte generale che in quella speciale », che era così composta: Presidente professor Antonio Pagliaro, professor Franco Bricola, professor Angelo Raffaele Latagliata, professor Ferrando Mantovani, professor Mario Romano, professor Tullio Padovani, segretario coordinante: professor Antonio Fiorella. La Commissione concluse, come noto, i suoi lavori nella primavera del 1991. 1.10. Il compianto Franco Bricola, con la franchezza che gli era congeniale, scrisse: « Si tratta di rimediare alle inerzie totali o parziali del Parlamento (altro che obblighi costituzionali di tutela penale di diritti fondamentali) il quale, realizzata una fase di pianificazione del codice del ’30, tarda a varare una tutela penale degli interessi di nuovo segno costituzionale e di vecchi interessi di fronte a nuove forme di aggressione ». Una critica aspra nei confronti del Parlamento, che nell’ultimo decennio si è fatta sentire sempre più insistente in quasi tutti i convegni di diritto penale, tanto da sollecitare, nel corso della passata XI legislatura, i componenti della Commissione giustizia a voler dare inizio ai lavori di riforrna del codice penale. Ma l’allora Ministro di grazia e giustizia ritenne opportuno acquisire preventivamente il parere delle università sul lavoro della Commissione Vassalli — Pagliaro per avere, si disse, un quadro più completo sui temi fondamentali della riforma. Passarono altri tre anni nel corso dei quali alcune università espressero il parere richiesto. Alla fine dell’anno 1994 il quadro per poter dare avvio ai lavori parlamentari di riforma era così completato, per cui la Commissione giustizia del Senato, nella seduta del 21 dicembre 1994, deliberò di costituire nell’ambito della Commissione stessa un « Comitato per la riforma del codice penale ». Il 14 febbraio 1995 il Presidente del Comitato introduceva con la sua relazione la discussione generale alla quale intervennero il Ministro di grazia e giustizia Mancuso, il Sottosegretario Marra e il Presidente della Commissione giustizia senatore Guarra. I componenti del Comitato hanno accettato l’incarico ed hanno assunto l’impegno di dare sollecitamente il loro contributo alla realizzazione della riforma. Così dopo sedici sedute formali e innumerevoli incontri informali dei suoi componenti è


— 930 — stato varato dal Comitato il testo del disegno di legge che viene qui di seguito presentato ed illustrato nelle sue linee essenziali. II.

Sul metodo di lavoro e sulla scelta del procedimento legislativo.

2.1. Riaperto il dialogo parlamentare su un tema di così grande rilievo quale quello della riforma del codice penale — discussione alla quale il Parlamento non può rimanere ulteriormente indifferente ed estraneo, tanto più che si tratta di questione di estrema attualità politica e sociale, che dovrà comunque essere oggetto di un decisivo intervento parlamentare — si è sviluppata nel Comitato la discussione sul metodo di lavoro e sulla scelta dell’iter legislativo da seguire. Contrariamente a quanto il relatore aveva inizialmente proposto il Comitato è stato dell’avviso che sia il lavoro presentato dalla Commissione Vassalli — Pagliaro, sia gli argomenti emersi nei convegni e dibattiti, nella copiosa dottrina che si è sviluppata dal 1944 ad oggi e non da ultimo nelle decisioni della Corte costituzionale, della Corte di cassazione e dei giudici di merito, hanno dato chiare indicazioni sui temi da affrontare, costituendo l’ossaturabase sulla quale non solo si può instaurare il dialogo parlamentare, ma si possono operare anche chiare scelte legislative per la redazione di un testo di disegno di legge. In sostanza si è ritenuto necessario redigere un testo di disegno di legge che consenta — attraverso una valutazione unitaria e generale — la raccolta degli ulteriori pareri di coloro che hanno redatto il progetto Pagliaro, di università, di rappresentanti della magistratura, di esperti del Ministero, di ordini degli avvocati e di criminologi (questo per esaminare le strategie preventive di controllo della criminalità e di prevenzione del crimine), di esperti di diritto comparato, di diritto comunitario, di diritto internazionale e di diritto costituzionale e non da ultimo delle classi sociali che sono portatrici degli interessi tutelati dal diritto penale, comprese le associazioni che rappresentano le vittime del delitto. Certo, senza un ampio consenso sociale della categoria interessata, la riforma non può essere attuata (anche se è chiaro che in materia penale il consenso non potrà mai essere del tutto « generalizzato »); ma proprio per ottenere tale consenso è necessario presentare un testo unitario che lasci intravedere le scelte operate dal legislatore nel loro insieme, evitando discussioni settoriali inutili su punti già accolti. Abbiamo ritenuto quindi necessario presentare un testo suscettibile di contributi migliorativi; un testo che sia punto di riferimento per ulteriori apporti ed utili confronti con gli studiosi e gli operatori di diritto penale. 2.2. Per quanto attiene alla scelta dell’iter legislativo essa è caduta, come si vede, sul disegno di legge di iniziativa parlamentare e non su un disegno di legge delega. Posti di fronte all’alternativa se operare o meno con un disegno di legge che proceda direttamente alla disciplina della materia, abbiamo optato per tale soluzione sostanzialmente per tre ragioni. Nel campo penale si decide sui diritti di libertà dei cittadini, si stabiliscono le pene e le misure che limitano tali libertà. Già questo rilievo induce, nel campo della « pena » e della « commisurazione della pena », a favorire la legge formale del Parlamento (articolo 72 della Costituzione) e non la delegazione legislativa (articolo 76 della Costituzione), ancorché non esistano riserve costituzionalmente espresse che vincolino tali attività all’uno o all’altro procedimento legislativo. Certo, il Parlamento ha il potere democratico, costituzionale e politico di decidere anche la delegazione. Trattandosi però di una materia estremamente delicata, è opportuno che i parlamentari approfondiscano ogni aspetto e nel contempo meditino sulle conseguenze delle loro decisioni riguardo la restrizione delle libertà dei cittadini. La seconda ragione non è giuridica, ma pratica. Abbiamo constatato negli ultimi anni che leggi fondamentali nel campo giuridico-legislativo quali quella sull’arbitrato (legge 5 gennaio 1994, n. 25) e quella sul diritto internazionale privato (legge 31 maggio 1995, n. 218) hanno avuto non solo una sistematica molto curata, ma, essendo elaborate da un’unica fonte (cioè quella parlamentare), mostrano una linearità ed un equilibrio esemplari. La revi-


— 931 — sione da parte della seconda Camera si mostra sempre utile. La pluralità di interpreti legislativi, invece, cioè il riparto fra delegante e delegato (ciascuno dei quali vuole aggiungere giocoforza il suo pensiero a quello dell’altro) non ha giovato alla sistematica del codice di procedura penale, e tantomeno potrebbe giovare a quella del codice penale. La terza ragione è ancora più delicata e riguarda la discrezionalità legislativa in campo penale e i suoi limiti, che dovrebbero essere equilibrati da una fonte sola per resistere alle denunzie di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento, per inosservanza dal principio di offensività del reato, per inosservanza dei limiti di discrezionalità del legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, per superamento dei limiti di ragionevolezza, certezza, legalità, tassatività della legge penale, e via dicendo. In sostanza sono molte le ragioni che rendono preferibile che sia la fonte di produzione parlamentare a decidere sulla pena, e non la fonte governativa ad avere l’ultima parola in merito. III.

Princìpi e regole generali.

3.1. Prima di affrontare i complessi problemi di parte generale e speciale del nuovo codice e di affrontare i temi di dettaglio, vanno risolte alcune questioni di fondo. La prima domanda alla quale bisogna dare una risposta è la seguente: si vuole affrontare una profonda e radicale riforma della normativa sia codicistica, sia extracodicistica o si vuole attuare un semplice cosiddetto « restauro di facciata », procedendo in sostanza al rimodernamento del codice vigente? Certo, negli oltre sessant’anni che ci separano dalla data di nascita del codice Rocco, la nostra società è profondamente mutata; è una società — come è stato bene osservato « totalmente diversa da quella che avevamo quando entrò in vigore il codice vigente », per cui è opportuno rimodernare tutta la struttura. 3.2. È opinione comune che i beni giuridici devono essere intesi come « valori » e non già come « entità materiali ». In ordine a questi valori è stata costruita la teoria della dimensione costituzionale del bene giuridico penalmente tutelato (Corte costituzionale, sentenze n. 62 del 26 marzo 1986 e n. 333 dell’11 luglio 1991). Anche sulla considerazione ovvia che i beni giuridici costituzionalmente rilevanti meritano tutela e che il modello del reato come offesa ai beni giuridici ha rango e forza vincolante di un principio costituzionale, sorgono alcuni interrogativi derivanti da una interpretazione dottrinaria che pecca sia per eccesso che per difetto. Per eccesso: sorge la domanda se tutti i beni giuridici costituzionalmente garantiti siano meritevoli di essere sostenuti da una norma penale o se non sia possibile provvedere alla loro tutela con sanzioni amministrative od in altro modo. Per difetto: sorge la domanda se sia proprio vero che tutte le scelte politico-criminali debbano essere ancorate a modelli costituzionalmente rilevanti. Pensando alla normativa (de iure condito o de iure condendo) sulla bioetica, sullo insider trading, eccetera, si direbbe proprio di no. L’interrogativo sulla corrispondenza fra « tutela costituzionale » e « tutela penale » dei beni giuridici va risolta nel senso che la questione della determinazione dei fatti-reato, dei fatti cioè per i quali il legislatore ritiene opportuno prevedere una pena, deve essere ispirata a criteri ed a scelte attuali di politica criminale, in cui la Costituzione costituisce non solo un limite invalicabile, ma spesso è anche fonte di ispirazione e di indirizzo per le scelte legislative. Al di là non si può andare; altrimenti la scelta politico-criminale non sarebbe consona alle esigenze sociali del momento, e il diritto penale diventerebbe una semplice appendice esplicativa dei beni tutelati dalla Costituzione del 1948. 3.3. Prima di affrontare la riforma di un codice penale bisogna avere chiarezza sulla « funzione » dell’ordinamento penale. Se fosse vera la tesi che la funzione della legge penale è preminentemente quella della tutela dei beni giuridici della persona lesa, privata o pubblica, si dovrebbe riconoscere all’a-


— 932 — vente diritto una illimitata libertà di rendere lecite col proprio consenso le condotte lesive della sua sfera di interessi. Si dovrebbe conseguentemente pervenire alla conclusione che tutti i beni giuridici sono disponibili, per cui l’avente diritto potrebbe sempre con il suo consenso rendere lecita la condotta altrui; il che ovviamente non è ammissibile. Se fosse vera, invece, l’opposta tesi, secondo cui la funzione della legge penale consiste preminentemente nella tutela dell’interesse pubblico attraverso la prevenzione generale e speciale (in tutti i suoi vari aspetti: funzione punitiva, rieducativa, preventiva, repressiva, retributiva, eccetera) o addirittura, come affermano vari Autori, solamente in essa, per la piena « sublimazione » degli interessi privati in interessi pubblici, allora si dovrebbero punire anche tutti i fatti tipici descritti dalla norma penale, per i quali l’avente diritto col proprio consenso ha rinunciato alla tutela del bene giuridico protetto. Si vede chiaramente che anche questa tesi è in contrasto con la realtà, poichè in tutti gli ordinamenti giuridici vi è un certo spazio per il diritto di autodeterminazione del titolare del bene giuridico protetto, che può essere più o meno limitato dal diritto positivo, ma che sarà pur sempre esistente nella misura in cui la legge non esclude la libertà di disposizione del singolo. Così si perviene alla conclusione che la funzione della legge penale sta nel giusto contemperamento dei seguenti tre fattori potenzialmente confliggenti: a) l’interesse pubblico all’ordine sociale (tutela della società da ogni aggressione sotto l’aspetto dell’ordinamento penale che cerca di evitare ogni offesa ai beni tutelati); b) la libertà dell’agente (sotto l’aspetto della sua libertà d’azione); c) la libertà dell’avente diritto (sotto l’aspetto del suo potere di disporre validamente dei propri beni giuridici, mediante rinuncia alla loro tutela). Dato che soprattutto gli ultimi due fattori mutano con l’evolversi storico della vita umana, nasce la necessità di un costante rinnovamento legislativo. Questa esigenza di rinnovamento è particolarmente sentita nel mondo di oggi, non solo per il mutato assetto politico e sociale, ma anche per l’intensificarsi delle relazioni tra le persone, determinato dall’evolversi dell’economia, della tecnica, degli scambi culturali e commerciali, del traffico, della scienza (col conseguente aumento delle situazioni di pericolo: lavoro con macchine pericolose, sport, gare, ricerche spaziali, esperimenti nucleari, eccetera) e non da ultimo della migrazione transnazionale e transfrontaliera, che sono in costante aumento. Esse provocano, con sempre maggiore frequenza, situazioni di conflitto fra il portatore del bene giuridico tutelato e l’agente, che devono essere necessariamente regolate dall’ordinamento penale, con una visione attuale e moderna di tutti i problemi che attendono una riforma. 3.4. Il legislatore non dovrebbe fare ricorso allo strumento penale senza aver individuato le ragioni che giustificano il ricorso alla pena. Senza il chiarimento delle ragioni che stanno a fondamento del sistema sanzionatorio si verrebbero non solo a creare effetti distorsivi, ma verrebbe meno il necessario equilibrio nella previsione di pena tra i reati e tra le singole categorie di reati. Questa indagine non ha, quindi, solo valenza teorica, ma è il presupposto per ottenere fiducia istituzionale dei cittadini ed il consenso alla riforma. Si aggiunga che la ricerca sulle ragioni che giustificano il ricorso alla pena sarà indirizzata anche ad esaminare se oltre alle esigenze di una giusta retribuzione e di una valida tutela dei beni giuridici costituzionalmente garantiti, vi sono anche altri fattori e valori da prendere in considerazione per fronteggiare i fenomeni criminali che si fanno largo nella società moderna: un’esigenza di cui il legislatore deve tener conto se non vuole legiferare per « ieri » invece che per « domani ». Necessariamente, quindi, sarà questo uno dei temi fondamentali della nostra indagine e del nostro dibattito. Non parliamo poi del nuovo sistema punitivo aggiunto, che con l’introduzione dell’affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà, delle sanzioni sostitutive, delle pene


— 933 — detentive brevi, del patteggiamento e del giudizio abbreviato, ha completamente alterato il quadro punitivo ed ha portato squilibrio ed incertezza nell’assetto della pena, pur riconoscendo che gran parte di questi istituti, visti singolarmente, sono meritevoli di apprezzamento. 3.5. Nel campo dell’indagine preliminare cade anche la rilevante questione se mantenere la distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni. Distinzione di origini lontane nel tempo, poi cementata dal codice francese del 1810. Certo, la tendenza più moderna è di restringere l’ambito penale ai soli « delitti », con una configurazione unica di reato. Ma il nostro Comitato, dopo ampio dibattito, ha ritenuto opportuno non abbandonare la tradizionale bipolarità del reato in « delitti » e « contravvenzioni », prevedendo per questi ultimi, come vedremo in seguito, la sola pena dell’ammenda. Non siamo i soli, visto che il nuovo code pénal francese ha conservato nel nuovo testo la tradizionale distinzione francese dei reati in « crimini », « delitti » e « contravvenzioni », sopprimendo per questi ultimi la pena detentiva. 3.6. Altra questione preliminare che il Comitato ha discusso e che riguarda sia la parte generale che la parte speciale del codice, è se ed entro quali limiti la legislazione speciale vada codificata. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a un imponente fenomeno di decodificazione che in larga parte dovrà rientrare nell’alveo del nuovo codice penale, sia perché — come è stato giustamente rilevato — « con l’inserimento nel codice la norma penale guadagna in prestigio e in efficacia pedagogica », sia perché in atto il disordine è totale, con pene che non sono affatto proporzionate alla gravità del reato, anzi appaiono totalmente sproporzionate a confronto con l’impianto del codice che su questo punto era lungamente ed attentamente meditato. Connessa con questa tematica — anche se non identica — è la questione della « deflazione », che mira a ridurre al minimo essenziale le fattispecie delittuose, le quali devono essere l’ultima, o meglio la extrema ratio del legislatore. Su questo punto la Corte costituzionale ha espresso chiaramente il suo pensiero nella sentenza n. 364 del 24 marzo 1988, in cui ha invitato il Parlamento a restringere (e non estendere come, purtroppo, è avvenuto negli ultimi cinquanta anni) l’ambito dei reati, osservando che: « il principio della riconoscibilità dei contenuti delle norme penali ... rinvia alla necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di ‘‘rilievo costituzionale’’ e tali da essere percepite anche in funzione di norme « extrapenali » di civiltà effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare ». Anche questo ha formato oggetto di dibattito nella discussione generale del Comitato che lo ha ritenuto meritevole di approfondimento, prima di passare all’esame dei singoli istituti di parte generale e di parte speciale. IV.

Reato e sanzione.

4.1. Attuare una seria riforma esige risolvere alcuni temi di fondamentale importanza, che ineriscono al reato e alla sanzione. 4.2. Anzitutto è necessario affermare anche nella parte generale del disegno di legge i princìpi fissati dalla Costituzione quali la stretta osservanza del principio di legalità (articolo 25, commi secondo e terzo, della Costituzione), la tassatività o determinatezza della legge penale (Corte costituzionale, sentenza n. 96 dell’8 giugno 1981) e la riserva di legge (articolo 25 della Costituzione). In tal senso si è ritenuto opportuno aggiungere all’attuale previsione dell’articolo 1 del codice vigente, secondo il quale « nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge » la previsione che « nessuno può essere punito


— 934 — con una pena, ovvero sottoposto a misure cautelari o altri effetti accessori, se non nei casi e con i limiti espressamente previsti dalla legge », chiarendo che « per legge s’intendono la legge dello Stato e gli atti aventi forza di legge in tutto il territorio dello Stato ». 4.3 Per quanto riguarda l’efficacia della legge penale nel tempo, oltre alle regole fissate nell’articolo 2, primo comma, del codice vigente, bisognava chiarire che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore o un altro atto posteriore avente efficacia abrogativa o modificativa, non costituisce reato. Ciò per dare rilievo all’ipotesi di referendum abrogativo e di dichiarazione di illegittimità costituzionale di leggi penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stato pronunciato decreto penale o sentenza irrevocabile. Tuttavia, se con decreto penale o sentenza irrevocabile è stata irrogata una pena non preveduta dalla disposizione posteriore più favorevole, ovvero una pena superiore al massimo consentito dalla legge posteriore più favorevole, il giudice della esecuzione determina, in conformità della legge posteriore, la pena da applicare tenuto conto di quella già scontata. 4.4. Per i reati permanenti è stato chiarito che se la legge modifica la pena durante la permanenza del reato, si applica la legge in vigore al momento della cessazione della permanenza. Per favorire la cessazione dello stato di illiceità abbiamo previsto che se la permanenza cessa entro quindici giorni dalla entrata in vigore della legge modificatrice, si applica la legge anteriore a questa e più favorevole al reo. 4.5. Per la mole sempre crescente che la decretazione d’urgenza sta avendo nella prassi istituzionale del Paese, era necessario prevedere gli effetti dei decreti-legge. A tale proposito il Comitato ha previsto che le disposizioni di un decreto-legge più favorevoli al reo, che non sono state convertite in legge, si applicano limitatamente ai fatti commessi nel tempo in cui esse erano in vigore » definendo così, una volta per tutte, le discussioni sorte in dottrina e giurisprudenza. 4.6. Per le leggi eccezionali la formula scarna del codice vigente (articolo 2, terzo comma) non è sembrata sufficiente per cui è stata sostituita con la seguente: « Le leggi eccezionali o temporanee, ancorché abrogate o modificate, si applicano ai fatti commessi durante la loro vigenza, salvo che la legge disponga diversamente ». 4.7. Per la determinazione del tempo in cui il fatto è stato commesso si deve aver riguardo al momento in cui l’agente ha realizzato l’azione e, in caso di omissione, all’ultimo momento in cui avrebbe dovuto realizzarla, mentre non ha rilevanza il momento in cui si è verificato l’evento. Non poteva mancare, per rendere completa e comprensibile la norma relativa al tempo in cui il fatto fu commesso, dare un chiarimento anche riguardo al delitto tentato con la precisazione che deve fare riferimento al tempo in cui il fatto incomincia ad avere rilevanza giuridico-penale come tentativo punibile a tutti gli effetti dell’articolo 54. 4.8. Per determinare il tempo in cui si producono gli effetti giuridici della legge penale sostanziale è prevista la seguente disciplina: a) per il computo del tempo si osserva il calendario comune; b) l’età della persona soggetta alla legge penale si considera raggiunta nel giorno corrispondente a quello della nascita; c) quando la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della decorrenza non è computato nel termine; d) quando la legge penale fa dipendere effetti giuridici dal tempo di esecuzione di una pena restrittiva della libertà o di una misura di sicurezza, si tiene conto del primo giorno di esecuzione. 4.9. Per quanto attiene alla obbligatorietà della legge penale abbiamo precisato che essa obbliga tutti coloro che, cittadini, apolidi o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, con l’aggiunta che la legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini,


— 935 — apolidi o stranieri, si trovano all’estero, limitatamente però ai fatti che la legge italiana o il diritto internazionale considerano espressamente quali reati, ancorché commessi all’estero. 4.10. A questo punto era necessario precisare i limiti di efficacia della legge penale nello spazio. 4.11. Per quanto attiene ai fatti commessi nel territorio dello Stato vale la regola già presente nel codice vigente che chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana, chiarendo però che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando ivi è realizzata o iniziata l’azione o l’omissione, ovvero si verifica in tutto o in parte, l’evento. 4.12. Per il delitto tentato era necessario aggiungere che esso si considera commesso nel territorio dello Stato se ivi è stato posto in essere anche uno solo degli atti idonei. 4.13. Nel caso di concorso di persone nel reato o nei reati associativi il fatto si considera commesso nel territorio dello Stato ancorché solo uno dei concorrenti o associati abbia ivi posto in essere l’azione o l’omissione ovvero quando ivi si verifica in tutto o in parte l’evento. 4.14. Per i fatti commessi all’estero, salva ogni altra diversa disposizione del diritto internazionale, abbiamo previsto che sia punito secondo la legge italiana chiunque commette in territorio estero taluno dei delitti elencati nell’articolo 6, comma 1. Per i delitti dolosi lesivi della libertà o della integrità fisica di un cittadino italiano commessi all’estero si può procedere secondo la legge italiana solo nei limiti di pena previsti dalla legge del luogo in cui il delitto è stato commesso. 4.15. Ci è parso necessario aggiungere che per tutti i delitti commessi all’estero l’azione penale è subordinata alla richiesta del Ministro di grazia e giustizia; che è competente il giudice del luogo in cui è promossa l’azione penale e che per i delitti procedibili a querela si procede solo su querela della persona offesa. 4.16. Anche la questione del rinnovamento del giudizio in Italia per fatti commessi all’estero trova una nuova soluzione, nel senso che nei casi indicati dagli articoli 5 e 6 il cittadino, lo straniero o l’apolide è giudicato nello Stato anche se sia stato giudicato all’estero. Tuttavia la pena detentiva scontata all’estero ovvero la custodia cautelare ivi sofferta, si detraggono dalla durata complessiva della pena detentiva o dall’ammontare della pena pecuniaria che siano inflitte dal giudice italiano. 4.17. Per il riconoscimento delle sentenze penali straniere (articolo 8 del codice vigente) era necessario inserire diverse aggiunte, visto che la materia ha trovato un’ampia disciplina negli accordi internazionali e nel nuovo codice di procedura penale (articoli 730 e seguenti). Le aggiunte riguardano il richiamo al diritto internazionale, la previsione che si può dare riconoscimento solo alle sentenze straniere divenute irrevocabili, gli effetti penali che possono scaturire in Italia (relativamente a recidiva, abitualità, professionalità e misura di sicurezza) e gli effetti civili. Per questi ultimi abbiamo previsto che se si tratta di dare esecuzione solamente agli effetti civili di una sentenza penale straniera divenuta irrevocabile, la quale porta condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno ovvero contiene statuizioni aventi altri effetti civili, si applicano le disposizioni del diritto internazionale privato. 4.18. In ordine ai fatti regolati da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale abbiamo ritenuto opportuno riconfermare il testo del codice vigente che sul punto ha ormai una costante interpretazione sia della dottrina sia della giurisprudenza. 4.19. Per quanto riguarda l’ignoranza della legge penale era un obbligo tener conto della citata sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988 (relatore il compianto giudice Dell’Andro), secondo cui nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale, salvo il caso di ignoranza inevitabile (articolo 4). Per l’errore evitabile sul divieto, invece, meglio per l’errore sul precetto che si sarebbe


— 936 — potuto evitare usando una normale diligenza, abbiamo previsto una diminuzione di pena da un terzo alla metà (articolo 42). 4.20. Totalmente innovato, e questo è uno dei punti centrali del disegno di legge, è il sistema delle pene. Una riforma che non ha bisogno di particolari commenti poiché essa si illustra da sola. Si ritorna al sistema della funzione unitaria della pena, peraltro universalmente riconosciuto, la cui applicazione è affidata al giudice di cognizione. La nostra riforma su questo punto si lascia riassumere nel modo seguente. 4.21. Le pene principali stabilite per i delitti sono: a) la reclusione; b) la multa. La pena principale stabilita per le contravvenzioni è l’ammenda. Sono aboliti, pertanto, l’ergastolo (sostituito dalla pena della reclusione ad anni trenta) e l’arresto. Le ragioni per cui si procede alla abolizione dell’ergastolo sono ampiamente svolte nei disegni di legge già presentati al Senato e assegnati alla Commissione giustizia, che il Comitato condivide e ai quali si fa espresso richiamo. Le ragioni che ci inducono ad abolire la pena dell’arresto sono riportate infra, sub 4.36 e seguenti. 4.22. Le pene sostitutive della pena della reclusione sono: a) l’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro; b) gli arresti domiciliari; c) la libertà vigilata; d) l’espulsione dello straniero dallo Stato. 4.23. Le pene accessorie per i reati sono: a) l’interdizione da un ufficio pubblico; b) l’interdizione da una attività professionale o imprenditoriale; c) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; d) l’interdizione dalla capacità di contrattare con la pubblica amministrazione; e) l’interdizione dall’esercizio della potestà dei genitori. 4.24. Le misure speciali per i reati sono: a) la confisca; b) l’acquisizione pubblica. 4.25. Nello stesso modo lapidario con il quale abbiamo indicato le specie di pene abbiamo ritenuto di dover fissare le regole generali relative a tali pene, precisando che: a) le pene principali e le pene sostitutive sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; b) le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa; c) quando per effetto del cumulo con la pena principale e la pena sostitutiva le pene accessorie risultino in concreto sproporzionate alla gravità del reato e superflue allo scopo di impedire la commissione di reati da parte del condannato, il giudice può con la sentenza di condanna escluderne o limitarne l’applicazione; d) le misure speciali sono ordinate dal giudice con la sentenza di condanna, con la sentenza di applicazione della pena richiesta, con la sentenza di non doversi procedere per incapacità di intendere e di volere della persona che ha commesso il fatto o con la sentenza che concede il perdono giudiziale. 4.26. La classificazione delle pene si può riassumere nelle seguenti quattro regole generali: a) per pene detentive o restrittive della libertà personale si intendono la reclusione e le pene sostitutive; b) per ogni effetto giuridico le pene sostitutive si considerano alla stessa stregua della reclusione; ogni riferimento fatto dalla legge alla reclusione si intende esteso alle pene sostitutive;


— 937 — c) per pene pecuniarie si intendono la multa e l’ammenda; d) la pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se convertita. 4.27. Passiamo così alla individuazione delle pene principali: a) la pena della reclusione va da tre mesi a trenta anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati. Essa si computa e si applica a giorni, mesi ed anni; b) la pena della multa consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a lire duecentomila, nè superiore a cento milioni; c) la pena dell’ammenda consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a lire settantacinquemila nè superiore a lire cinquanta milioni; d) se la legge ha determinato pene pecuniarie proporzionali, queste possono essere ridotte dal giudice quando la condanna superi i limiti della ragionevolezza. Quest’ultimo principio è stato opportunamente inserito in ossequio all’avvertimento — quanto mai giusto ed opportuno — sia della Corte costituzionale per la quale la pena non deve mai superare i limiti di ragionevolezza, sia della Corte europea dei diritti dell’uomo che invita a limitare ragionevolmente pene e sanzioni pecuniarie. 4.28. Le pene sostitutive diventeranno quindi sanzioni penali effettive e reali, che non fanno solamente onore al loro nome (« pene sostitutive » della reclusione), ma adempiono a quelle funzioni di rieducazione e di reinserimento nella società alla quale devono tendere. Secondo la nostra previsione, maturata da decenni, le pene sostitutive si applicano come segue: a) il giudice con la sentenza di condanna alla pena della reclusione superiore a venti anni può disporre che una parte della pena, in misura comunque non superiore a un sesto della pena della reclusione complessivamente inflitta, sia eseguita attraverso una delle pene sostitutive previste dal codice; b) nel caso di condanna alla pena della reclusione non superiore a venti anni il giudice può disporre che una parte della pena, in misura comunque non superiore a due terzi della pena della reclusione complessivamente inflitta, sia eseguita attraverso una delle pene sostitutive previste dal codice; c) nel caso di condanna alla pena della reclusione non superiore ad anni tre, ovvero ad anni cinque se si tratta di minore, il giudice può disporre che tutta la pena della reclusione sia eseguita attraverso una delle pene sostitutive previste dal codice. Questo beneficio non può essere goduto più di una volta ed è suscettibile di revoca da parte del magistrato di sorveglianza; d) la pena sostitutiva ha la durata stabilita dal giudice e corrisponde, congiuntamente alla pena della reclusione, al tempo totale previsto dalla sentenza di condanna; e) la legge stabilisce i casi in cui si applica la sola pena sostitutiva. Quest’ultima aggiunta si inserisce nel nostro sistema generale di pena nel nuovo codice penale quale corollario necessario, non solo perché prevediamo già in questa parte generale le pene sostitutive anche quali uniche pene comminate dal giudice, ma soprattutto perché vogliamo dare modo al legislatore di prevederle, nella parte speciale, quale pena unica per reati meno gravi. 4.29. La disposizione che prevede la pena sostitutiva della assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro prevede che tale assegnazione può essere disposta solo nei confronti di persone che siano abili al lavoro e per le quali lo svolgimento di attività lavorativa adempia alla concreta finalità di rieducazione e di reinserimento nella società lavorativa. Qualora il soggetto, senza giusta causa, non si adegui all’attività lavorativa, il giudice dell’esecuzione dispone che il periodo rimanente sia scontato in carcere quale reclusione. La pena sostitutiva della assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro è ognora rinunciabile dal soggetto ad essa sottoposto, che può chiedere, con domanda irrevocabile, di voler scontare la pena in carcere. Ciò perché riteniamo che il lavoro sia un diritto costituzionalmente tutelato, non un obbligo. 4.30.

Chi è condannato agli arresti domiciliari non può ovviamente allontanarsi dalla


— 938 — propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza e non può comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono. Se il magistrato di sorveglianza accerta che ricorrono particolari esigenze, può autorizzare il condannato a comunicare, entro determinati limiti di tempo, con persone specificatamente indicate; e se accerta che il condannato non ha altre possibilità per provvedere alle indispensabili esigenze di vita o che versa in situazione di assoluta indigenza, può autorizzarlo ad esercitare, nei limiti di tempo e di luogo necessari, un’attività lavorativa che gli consenta di procurarsi i mezzi di sostentamento. 4.31. La libertà vigilata ha avuto nel disegno di legge una sua particolare descrizione legislativa onde evitare critiche costituzionali di indeterminatezza. All’uopo abbiamo previsto che il giudice con la sentenza di condanna imponga alla persona in stato di libertà vigilata due o più delle seguenti prescrizioni: a) divieto di espatrio; b) obbligo di presentarsi ad un determinato ufficio di polizia giudiziaria in giorni ed ore determinati; c) divieto di frequentare luoghi di pubblico spettacolo, anche sportivo; d) divieto di dimorare in un determinato luogo e di accedervi; e) obbligo di non allontanarsi dal territorio del comune o della provincia di abituale dimora; f) sospensione della patente di guida; g) divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora in giorni o periodi determinati; h) esecuzione di prestazioni lavorative di utilità sociale. A questa prescrizione può essere aggiunto l’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora per uno o due giorni alla settimana, non coincidenti con giorni in cui deve svolgere le prestazioni lavorative di utilità sociale, nonché l’imposizione di altre prescrizioni idonee a realizzare la funzione rieducativa della pena e ad evitare l’occasione di nuovi reati. Il compito della sorveglianza delle persona in stato di libertà vigilata non può essere — come ovvio — lasciato al giudice di cognizione per cui l’abbiamo affidato al magistrato di sorveglianza che l’esercita in modo da agevolare, eventualmente anche mediante il lavoro, il reinserimento del condannato nella vita sociale e favorirne la prestazione d’opera nell’interesse della collettività secondo le sue attitudini. Di particolare rilevanza è la previsione che la persona minorenne condannata ad una pena della reclusione non superiore ad anni cinque, che in base all’articolo 20, comma 3, è posta in libertà vigilata, è affidata ai genitori o a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza. Altra previsione opportuna è che se una delle prescrizioni di libertà vigilata non può essere realizzata, o quando essa risulti eccessivamente gravosa, il magistrato di sorveglianza, con provvedimento motivato, può sostituirla con un’altra delle prescrizioni previste. Certo, si tratta pur sempre di pena sostitutiva, e quindi qualora il soggetto, senza giusta causa, non osservi le prescrizioni di libertà vigilata ad esso imposte, il magistrato di sorveglianza dispone che il periodo rimanente sia scontato in carcere, quale reclusione. 4.32. Altra soluzione nuova è quella della espulsione dello straniero che ha commesso un delitto nel territorio dello Stato. La nostra previsione è la seguente: il giudice può disporre l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero condannato a una pena detentiva non superiore a cinque anni, quale pena sostitutiva di tutta o parte della pena inflitta. Nei confronti dello straniero che trasgredisca all’ordine di espulsione pronunciata dal giudice, o che rientri nel territorio dello Stato prima che sia trascorso un tempo pari alla durata della pena, sono eseguite la pena detentiva e la pena pecuniaria previste nella sentenza di condanna senza possibilità di reiterare l’espulsione ed applicare altre pene sostitutive. 4.33.

Le pene accessorie hanno trovato nel disegno di legge alcune modifiche e note-


— 939 — voli aggiornamenti che non riteniamo di dover illustrare in questa relazione, dato che esse si illustrano tutte da sole (articoli da 25 a 31). Per la durata delle pene accessorie, salvo che la legge disponga altrimenti, abbiamo previsto (articolo 14) che: a) nel caso di condanna a pena detentiva, sola o congiunta alla pena della multa, la durata è quella della pena detentiva inflitta; b) nel caso di condanna alla pena della multa o dell’ammenda, la durata corrisponde alla metà della pena detentiva prevista per il caso che la pena pecunaria fosse stata convertita; c) nel caso di conversione della pena pecunaria, la pena accessoria consegue di diritto al momento in cui il provvedimento di conversione diventa definitivo ed ha una durata corrispondente alla pena convertita. 4.34. Di particolare rilevanza è la previsione delle misure speciali della confisca e della acquisizione pubblica. La confisca è ordinata dal giudice e riguarda le cose che servirono o furono destinate a commettere il fatto preveduto come reato, ovvero delle cose che ne sono il prodotto. La confisca deve essere ordinata per tutte le cose che costituiscono il prezzo del reato e per quelle di cui sono vietati dalla legge la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione. Una previsione nuova riguarda l’esclusione della confisca delle cose che appartengono a persona estranea al reato. Secondo il nostro disegno di legge la esclusione non opera se il terzo abbia affidato con colpa l’oggetto alla persona che ha commesso il fatto. 4.35. Nuovo per l’ordinamento italiano, ma preso in prestito da molte altre legislazioni, è l’istituto della acquisizione pubblica. Abbiamo previsto che qualora il giudice accerti che l’autore o il partecipe abbia conseguito dal fatto preveduto come reato un profitto, egli ordina, con la sentenza di condanna ovvero con la sentenza che dichiara la incapacità di intendere o di volere dell’autore o del partecipe, l’acquisizione del profitto alle casse dello Stato che provvederà a distribuire la somma relativa a tutte le regioni proporzionalmente alla loro estensione, affinché provvedano a destinarla a scopi sociali o di pubblica utilità. Se l’autore o il partecipe abbia agito per conto o a favore di altro soggetto che attraverso il fatto ha ottenuto un profitto, l’ordine di acquisizione pubblica va esteso anche ad esso, ma il relativo ammontare dovrà essere accertato in un separato giudizio civile, nel quale sarà valutato il valore e l’entità del profitto conseguito. L’acquisizione pubblica viene espressamente postergata alle pretese delle persone offese dal reato alle quali deve comunque essere garantito il privilegio. 4.36. In tema di reato e pene resta da chiarire per quale ragione il Comitato abbia mantenuto la dicotomia delitti-contravvenzioni ed abbia abolito la pena dell’arresto. 4.37. Anzitutto bisogna ammettere che hanno ragione coloro che sostengono che in realtà non esistono criteri intrinseci per mantenere la dicotomia delitti-contravvenzioni. La vera ragione di tale distinzione sta nel fatto che i legislatori dei singoli Paesi, per loro esigenze tecnico-legislative e per la loro diversa maniera di valutare i singoli fatti costituenti reato, decidono di classificarli seguendo o la « tricotomia » (crimini-delitti-contravvenzioni), o la « dicotomia » (delitti-contravvenzioni), ovvero — quando ritengono che non ricorra alcuna ratio di distinzione — prevedono un’unica configurazione di illecito penale, generalmente denominata « delitto ». Storicamente va ricordato che l’articolo 21 delle disposizioni di attuazione del codice Zanardelli precisava (sostanzialmente in contrasto con l’articolo 11 che aveva operato una distinzione fra delitti e contravvenzioni, basata sulla sola diversità della pena), che « per determinare se un reato sia un delitto o una contravvenzione non si deve aver riguardo alla pena, ma soltanto al carattere del reato secondo la distinzione tra delitti e contravvenzioni ». Ma l’indagine fatta nel secolo scorso e all’inizio di questo secolo sulle ragioni vere e intrinseche di una tale distinzione non approdava ad alcun risultato positivo mancando una ragione


— 940 — plausibile per essa, salvo accertare che la dicotomia era determinata dalle scelte imposte dal diritto positivo e quindi si trattava di una pura e semplice realtà normativa di cui l’interprete doveva prendere atto. Così agli inizi di questo secolo si affermò sempre più l’opinione di ricorrere a un criterio puramente formale, tesi questa che ha trovato piena conferma nel codice vigente in cui senza mezzi termini è statuito che « i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite » (articolo 39 del codice penale) e sono previste, quali pene principali: « per i delitti: l’ergastolo, la reclusione e la multa e per le contravvenzioni: l’arresto e l’ammenda » (articolo 17 del codice vigente). Più chiaramente di così il codice non poteva esprimersi. Esso ribadisce che il solo criterio di distinzione tra delitti e contravvenzioni è la specie di pena stabilita dalla legge confermando quindi il principio formale nominalistico, per cui al fine dell’individuazione del tipo di reato risulta decisiva la singola pena principale con il suo nomen juris, statuito dal legislatore. Anche dopo il 1930 qualche indagine sui criteri intrinseci della dicotomia delitti-contravvenzioni è stata fatta. Ma il risultato è stato nullo. Non ha avuto successo la teoria che le contravvenzioni sarebbero sempre contrarie a un « interesse amministrativo » (non tutte le contravvenzioni, infatti, riguardano un interesse amministrativo e non tutte quelle che lo riguardano sono contravvenzioni) e non ha avuto successo nemmeno la cosiddetta « teoria quantitativa ». Certo, le contravvenzioni sono « delitti minori », ma spesso bisogna riconoscere che certi fatti contravvenzionali vengono puniti con pene (arresto) più gravi di alcuni delitti, che pur essendo puniti alternativamente con la sola pena pecuniaria sono rimasti nella loro sede naturale! Pertanto, anche la tesi di ravvisare l’elemento fondamentale di differenziazione nella entità del reato o della pena non regge, o meglio è approssimativa e tale da non costituire un serio criterio distintivo tra le due figure di reato. 4.38. Il nostro Comitato ha ampiamente valutato l’ipotesi, se non convenga limitare l’ambito penale ai soli « delitti », unico tipo di reato, o illecito penale che dir si voglia, punito con la « pena », segnando così una chiara linea di demarcazione verso gli illeciti extra penali (amministrativi, civili, amministrativo-disciplinari, finanziari), per i quali non vanno previste « pene », ma « sanzioni ». Se il Comitato fosse arrivato alla conclusione di proporre la soppressione dei « reati contravvenzionali » avrebbe dovuto necessariamente stabilire, nella parte speciale, quali saranno le contravvenzioni da depenalizzare, quali quelle da abolire e quali infine le fattispecie che in futuro rientreranno nel novero dei « delitti ». Una prospettiva ardua, ma non impossibile. Abbiamo voluto mantenere, invece, sulla scia del progetto della Commissione VassalliPagliaro, la dicotomia delitti — contravvenzioni, confermando che le due specie di reato si distinguono « secondo le diverse specie delle pene per essi rispettivamente stabilite ». È sorta la domanda se in tal caso sia proprio necessario mantenere per le contravvenzioni — come il progetto della Commissione Vassalli-Pagliaro prevede — anche la pena restrittiva della libertà, cioè l’arresto, o se non convenga — sull’esempio della riforma del codice penale francese — prevedere per essi la sola pena pecuniaria dell’ammenda. 4.39. Certo, se anche il nostro Comitato avesse deciso di mantenere oltre all’ammenda anche l’arresto, significherebbe cambiare poco o niente nel capo dei reati contravvenzionali e, quindi, non aver riformato uno dei settori salienti di crisi del sistema penale. Ciò peraltro avrebbe creato difficoltà anche sotto il profilo dell’esecuzione della pena, permettendo di fatto la carcerazione insieme a coloro che scontano la pena della reclusione (visto che la separazione attualmente già prescritta, non è osservata) e il super affollamento delle carceri cioè tutti quei guai che stiamo riscontrando. In sostanza c’era solo da augurarsi che la pena dell’arresto non sopravviva e non appe-


— 941 — santisca anche in futuro il sistema penale, giudiziario e penitenziario. Non solo, ma abbiamo ritenuto anacronistico prevedere la detenzione in carcere per le contravvenzioni, quando nel contempo creiamo pene sostitutive al carcere per i delitti. 4.40. Prevedendo, quindi, per le contravvenzioni la sola pena dell’ammenda, si potranno trovare in sede di riforma della procedura penale procedure semplificate per una più pronta definizione dei processi penali. 4.41. L’esigenza di fondo non è tanto quella di mantenere determinate « fattispecie contravvenzionali » punite solamente con « pene » pecuniarie, ma di vedere quali siano da depenalizzare, portandole a livello di « infrazione amministrativa » (con la rispettiva « sanzione amministrativa »), nel qual caso deve essere garantita la recuperabilità, per non rendere vani e quindi poco seri sia il precetto, sia la sanzione. Ricapitoliamo: — da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, in particolare nella sentenza Öztürk (21 febbraio 1984, Öztürk c. Repubblica federale di Germania), ha statuito che anche le sanzioni pecuniarie amministrative, se hanno natura afflittiva, devono osservare le regole sancite dall’ordinamento internazionale e soggiacere ai principi sanzionati dall’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, precisando che « non è la collocazione della norma, ma la natura e la entità della pena che sono determinanti per vedere se siamo o non siamo nell’ambito penale; — da quando vigono le leggi 24 novembre 1981, n. 689, e 23 dicembre 1993, n. 561, per le quali le sanzioni amministrative devono osservare i princìpi vigenti in campo penale (princìpi: di stretta legalità della responsabilità per colpa, della rilevanza dell’errore incolpevole, del concorso formale, della continuazione, eccetera); — da quando emerge con sempre maggiore chiarezza che il ricorso alla procedura di opposizione contro le sanzioni amministrative è la regola e che essa ingolfa il sistema della giustizia non meno della procedura di accertamento del reato contravvenzionale; — da quando si constata che le sanzioni amministrative in larga parte non trovano esecuzione, per cui l’infrazione resta senza risposta e la violazione del relativo precetto generale resta inosservata, mettendo in dubbio tutto il sistema della previsione di precetti generali dei quali si sa a priori che in larga parte restano impuniti creando oltretutto larga disparità di trattamento nei confronti dei pochi che sono soggetti alla sanzione; — da quando abbiamo preso coscienza dell’impossibilità di mantenere il sistema vigente; si evidenzia l’esigenza di riportare equilibrio ed ordine nel sistema delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie. Quando affronterà la parte speciale, il legislatore dovrà trovare una soluzione unitaria che assicuri una punibilità effettiva anche di quei fatti illeciti per i quali ritiene sufficiente la previsione della sola « sanzione amministrativa ». Si dovrà trovare un sistema sanzionatorio, diverso da quello attuale, che è disordinato, inefficiente ed iniquo. Operare questa scelta è doveroso per evitare anche le incertezze del sistema che si manifestano giornalmente in campo legislativo, ove ad ogni legge che prevede precetti penali si ritorna a discutere se la violazione meriti di essere punita con una « sanzione amministrativa » o con una « ammenda » . Certo è che trovata la strada dell’equilibrio tra delitti, contravvenzioni e illeciti amministrativi bisognerà stabilire per questi ultimi una procedura semplificata di accertamento della responsabilità che garantisca anche il recupero di tali sanzioni. Per evitare che ad ogni sanzione amministrativa segua puntualmente un’opposizione, e non potendo essere previsto che in caso di rigetto la sanzione è aumentata (reformatio in peius, costituzionalmente discutibile, poiché ostacola il diritto di difesa), si potrebbe prevedere che, se non pagata entro un certo termine, la sanzione aumenterà notevolmente, ovviamente non oltre certi limiti massimi che sono da prevedere. 4.42. Altra problematica che affligge il sistema penale vigente è l’eccesso di leggi penali speciali che hanno letteralmente invaso l’ordinamento penale, violando ogni regola di


— 942 — proporzionalità nella risposta punitiva, cioè il principio di proporzionalità ed equilibrio tra reato e pena. Certo la riforma della parte speciale dovrà non solo inserire nel codice molte categorie di reati oggi previsti da leggi speciali, ma dovrà nel contempo impegnare il Governo a coordinare in testi unici quelle categorie di reati che il legislatore riterrà opportuno di non codificare. Comunque, è questo un punto delicato (e certo anche difficile) del futuro riordino della parte speciale, che richiederà un particolare ulteriore impegno del legislatore. V.

Causalità

5.1. Le innumerevoli teorie sulla causalità, fino ad oggi elaborate dalla dottrina e in parte richiamate dalla giurisprudenza, seppure suggestive e piene di inventiva, non hanno consentito di tracciare una linea unitaria, chiara e convincente nel campo dell’accertamento causale. 5.2. La verità è che non esiste una teoria sulla causalità che vada nel contempo bene sia per i « reati commissivi » (di « mera azione » o di « evento »), sia per quelli omissivi (nelle diverse configurazioni che possono assumere). Per i « reati commissivi » la teoria della conditio sine qua non, espressa nel codice vigente con la formula che « nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione », è certamente quella più confacente, visto che in questi fatti si instaura un vero rapporto di causalità fra condotta ed evento, per cui sorge solo la questione delle concause, che non è di difficile soluzione. Altrettanto certo è che per i « reati omissivi » l’evento può essere addebitato all’agente solo se sussiste la sua prevedibilità per cui è meglio — se non necessario — fare ricorso alla causalità adeguata. Per le situazioni di pericolo nelle quali si inserisce una condotta tipica dell’agente si deve opportunamente fare ricorso a una disciplina che addebiti il fatto-reato alla condotta dell’agente che viola il precetto legislativo. 5.3. Queste sono difficoltà reali e questa è la vera ragione per cui una parte dei legislatori europei ha evitato di dare una definizione (o in parte anche solo una indicazione) legislativa sulla causalità. 5.4. Di fronte a questo ostacolo è venuta a trovarsi necessariamente anche la Commissione Vassalli-Pagliaro, la quale si è limitata a proporre i seguenti criteri direttivi: « Rapporto di causalità — Richiedere il nesso condizionale tra azione od omissione ed evento dannoso o pericoloso. — Escludere l’imputazione quando l’evento è conseguenza eccezionale della condotta. Se necessario, individuare ulteriori criteri oggettivi di imputazione ». « Reati omissivi — Equiparare il non impedire l’evento al cagionarlo solo sotto il presupposto di un obbligo giuridico attuale di garanzia dell’interesse tutelato dalla legge. Prevedere che la violazione degli obblighi giuridici di sorveglianza sia punibile solo in quanto espressamente prevista come reato ». 5.5. Certo con questa formulazione non si dà un indirizzo preciso, per cui sono sorte giuste osservazioni critiche. Fra l’altro si è detto che prevedere di « escludere l’imputazione quando l’evento è conseguenza eccezionale della condotta o, se necessario, individuare ulteriori criteri oggettivi di imputazione », significa non dare indicazioni reali al legislatore delegato (Grosso). Con la sensibilità che lo contraddistingue, Pagliaro ha replicato che « questo della causalità è uno dei pochissimi punti dove in Commissione non si è raggiunto un accordo pieno. Sarà compito del dibattito scientifico, nell’iter del disegno di legge, individuare la soluzione migliore ». 5.6. Individuare la soluzione migliore è un compito non facile. Quella della definizione ed enunciazione legislativa della causalità resta, infatti, una questione di difficile soluzione


— 943 — che forse poteva essere superata più agevolmente non dettando criteri specifici e dettagliati, ma lasciando tale compito alla interpretazione dottrinale e giurisprudenziale. Il Comitato era però del parere che nella tradizione italiana il rapporto di causalità ha avuto una sua collocazione nel codice, per cui nel testo del disegno di legge si è cercata una formulazione più incisiva di quella attuale, precisando che « nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se la sua azione od omissione non sia stata condizione indispensabile e necessaria per la realizzazione dell’evento dannoso o pericoloso » aggiungendo che « quando sussiste un obbligo giuridico attuale di salvaguardia del bene tutelato dalla legge, non impedire l’evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo ». VI.

Colpevolezza e imputazione del fatto.

6.1. Sulla scia della sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale si è aperta nel Comitato una discussione di vasta portata. La Commissione Vassalli-Pagliaro, allineandosi alla decisione della Corte costituzionale, ha giustamente affermato la necessità di dare realizzazione piena al principio di colpevolezza, tentando di escludere ogni forma di responsabilità incolpevole. Essa ha previsto le due sole ipotesi di responsabilità per dolo e per colpa, prevedendo che il dolo debba coinvolgere la consapevolezza dell’offesa, mentre la colpa presuppone che l’imputazione si fondi su criteri strettamente personali. 6.2. Per quanto attiene alla responsabilità per dolo o per colpa, fermo il principio che nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà, e che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente preveduti dalla legge, il Comitato ha ritenuto necessario chiarire anche l’elemento soggettivo nelle contravvenzioni con una formula del seguente tenore: « Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come contravvenzione se non lo ha commesso con dolo o con colpa salvo che la legge preveda la punibilità solo a titolo di dolo », precisando nel contempo che la distinzione fra reato doloso e reato colposo stabilita per i delitti si applica altresì alle contravvenzioni ogni qualvolta per queste la legge faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico. In ordine all’elemento psicologico del reato, fermo restando il principio che il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è preveduto e voluto dall’agente come conseguenza della propria azione od omissione, abbiamo ritenuto necessario inserire l’inciso che l’azione o l’omissione è rilevante solo se « posta in essere con la consapevolezza della offensività del fatto ». Lo stesso criterio di offensività è stato previsto per i reati in cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto dalla sola azione od omissione, il delitto è doloso quando l’azione od omissione è voluta dall’agente con la consapevolezza della offensività insita nella violazione della prescrizione normativa. 6.3. Un punto molto discusso in Comitato riguardava il dolo eventuale e si è posta la domanda se conveniva descriverlo nel codice, per avere la nozione ben definita, o lasciare all’interprete dottrinale o giurisprudenziale l’incarico di fissare i limiti di responsabilità dell’accettazione del rischio implicito del verificarsi dell’altro evento. Il Comitato è pervenuto alla conclusione che conveniva comunque stabilire estremi e limiti del dolo eventuale, precisando che « risponde altresì a titolo di dolo chi preveda l’evento come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria azione od omissione e ne accetta il rischio ». 6.4. Abbiamo ritenuto che con la predetta formulazione la delimitazione nei confronti della « colpa con previsione » sia netta, tanto più che nel nostro disegno di legge si precisa che il delitto è colposo, o contro l’intenzione, se l’evento, anche se preveduto non è voluto


— 944 — dall’agente e si verifica come effetto prevedibile di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. 6.5. L’esclusione della colpevolezza per caso fortuito o forza maggiore o costringimento fisico ha avuto una versione più incisiva con la formula che non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore tali da determinare uno stato di incoscienza così intenso da non poter far risalire il fatto in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, alla sua attività psichica. Il costringimento fisico deve essere tale che la persona la quale subisce violenza fisica non poteva resistere o comunque sottrarsi ad essa. Del fatto commesso risponde l’autore della violenza. 6.6. La previsione di eliminare — in conformità con il dettato dell’articolo 27 della Costituzione — « qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di imputazione: il dolo e la colpa » pone fra l’altro la questione del destino di tutte le condotte dolose aggravate da un evento non voluto. Una revisione della situazione legislativa su questo punto è stata ingiunta anche dalla Corte costituzionale (sentenza n. 36 del 1988) nel senso che il principio di colpevolezza impone che tutte le condotte dolose aggravate da un evento non voluto e le condizioni obiettive di punibilità devono avere un riscontro sul piano soggettivo, costituito quanto meno dalla colpa. In questo senso abbiamo inserito nel disegno di legge, peraltro in analogia a quanto previsto dalle altre legislazioni europee (cfr. ad es. § 18 del codice penale tedesco), una nuova previsione normativa relativa alle condotte dolose aggravate da un evento non voluto, precisando che quando la legge fa dipendere, da una particolare conseguenza del fatto o dal verificarsi di una condizione estranea all’offesa tipica del reato, una pena più grave, questa si applica all’agente o al partecipe solo quando tale conseguenza o condizione è a lui imputabile almeno per colpa. La conseguente e già prevista abrogazione nella parte speciale degli articoli 584, 586 e di altri articoli del codice vigente, richiederà un attento esame, anche di diritto comparato. Si vedrà in tale sede se abrogando la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale si potrà operare la sua sostituzione con quella di omicidio colposo « aggravato dall’aver commesso il fatto mediante una condotta violenta e dolosa contro la persona » ovvero con altra previsione penale. Tutto ciò sarà oggetto di discussione approfondita in sede di parte speciale, fermo restando però, sin d’ora, che le ipotesi di colpevolezza restano limitate solo a dolo e colpa e devono in ogni caso avere un riscontro di colpevolezza. 6.7. A proposito della « colpa » il nostro Comitato ha esaminato la vexata quaestio della colpa per imperizia dei professionisti. È sempre ancora dibattuta in dottrina e giurisprudenza la questione, se in sede penale la colpa per « imperizia » possa essere valutata a carico delle persone esercenti una attività professionale che richieda soluzione di problemi di speciale difficoltà nei soli casi di « colpa grave », applicando principi validi in sede civile ed in particolare quelli fissati dall’articolo 2236 del codice civile (« Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave »). In senso affermativo si erano espresse negli anni ’60 la più qualificata dottrina (Crespi) e qualche sentenza della Corte di cassazione, a cui ha fatto seguito la Corte costituzionale con la sentenza n. 166 del 22 novembre 1973, la quale ha sottolineato che « la particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli articoli 589 e 42 (e meglio, 43) del codice penale, in relazione all’articolo 2236 codice civile, per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata (...) di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare la iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni


— 945 — o riprovevoli inerzie del professionista stesso. Ne consegue che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione, possa nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale. La giurisprudenza ha negli anni successivi tenuto conto di questo insegnamento, dichiarando per l’appunto che ai fini dell’accertamento della responsabilità penale dei professionisti, ove l’opera richieda la soluzione di problemi di speciale difficoltà, l’imperizia ha rilevanza solamente entro i limiti della colpa grave. All’inizio degli anni ’80 è riapparsa però anche l’obiezione che ai fini della determinazione della colpa penale (articolo 43 del codice penale) non sarebbe possibile fare riferimento ai princìpi validi in sede civile (articolo 2236 del codice civile). Si veda per tutte la sentenza Fini e Tomassini (Cassazione penale, Sezione IV, sentenza n. 9367, del 22 ottobre 1981), che ha ritenuto opportuno ritornare al precedente indirizzo, negando ogni richiamo ai princìpi validi in altri rami dell’ordinamento. Categoricamente vi si afferma: « in nessun caso può ritenersi che la norma dell’articolo 2236 del codice civile sia estendibile all’ordinamento penale onde determinare un’ipotesi di non punibilità per fatti commessi con colpa media o lieve ». In seguito la Cassazione ha riaffermato in alcune sentenze la stessa tesi, con la motivazione che « la sussistenza o meno dell’elemento psicologico del reato può e deve essere liberamente valutata dal giudice; ma una volta che il giudice penale l’abbia ritenuto accertato, in particolare sotto il profilo della colpa per i reati punibili a tale titolo, il maggiore o minore grado di essa può avere rilievo solo ai fini e nell’ambito della disciplina penale; e mai, quindi, con efficacia discriminante », aggiungendo che l’articolo 2236 del codice civile non può incidere « sulla previsione normativa delle cause di non punibilità (o rectius delle cause di esclusione dell’illiceità penale), arbitrariamente aggiungendone una alle ipotesi tassativamente previste dall’ordinamento penale, ovvero con la motivazione che « la norma dell’articolo 2236 codice civile non può esplicare alcun effetto restrittivo della disciplina dell’elemento psicologico del reato. La sua applicazione infatti non può avvenire né con interpretazione analogica, perché vietata per il carattere eccezionale della disposizione rispetto ai princìpi vigenti in materia, né per interpretazione estensiva, data la completezza o l’omogeneità della disciplina penale del dolo o della colpa ». Lo stesso orientamento è seguito da alcuni Autori che sostengono l’impossibilità di « trasporre » i canoni civilistici della colpa nell’ambito penale, affermando che la norma dell’articolo 2236 del codice civile non sarebbe idonea ad esplicare un’efficacia generale, essendo essa stessa valida, anche in sede civile, solo in tema di responsabilità contrattuale » e che « l’indagine sulla colpa per imperizia nell’ambito del diritto penale, deve restare legata ai normali criteri di accertamento, rapportati alla natura ed alle caratteristiche dell’attività svolta ed al livello delle prestazioni concretamente esigibili all’operatore, evitando l’introduzione, nell’accertamento della colpa penale, di limiti precostituiti, i quali mal si conciliano con la concretezza e la personalità che tale accertamento è destinato ad assumere ». In verità però non si tratta di trasporre i criteri di valutazione della colpa civilistica nell’ambito penale, ma solo di accertare che nei casi di imperizia non grave una norma specifica di altro ramo dell’ordinamento considera non illecito il fatto. E questa previsione di liceità non può essere disattesa in sede penale dato che le dichiarazioni espresse di legittimità (fatto permesso) e le cause di liceità (fatto giustificato) vanno recepite dall’intero ordinamento giuridico. Questa impostazione non porta ad una identificazione fra responsabilità penale e responsabilità civile e tantomeno porta alla conclusione che vi debbano essere identiche conseguenze nei due rami dell’ordinamento. Essa è solo il frutto di una visione unitaria dell’antigiuridicità, nel senso che non può essere considerata antigiuridica in sede penale una condotta che una norma dell’ordinamento civile, ancorché speciale o eccezionale, considera « non » illecita. Applicando questi princìpi — ad esempio ai trattamenti medici implicanti problemi tecnici di speciale difficoltà, nei quali l’esito infausto non è dipeso da imperizia grave — il giu-


— 946 — dice penale deve tener conto della circostanza che la legge (nella specie l’articolo 2236 del codice civile) esclude espressamente la responsabilità professionale del medico ed il suo obbligo al risarcimento del danno. Deve quindi — in osservanza dei principi di unità dell’ordinamento e di vincolo del giudice alla legge vigente — dichiarare che il fatto non costituisce « condotta colposa ». In sostanza, per terminare il discorso, ci sembra tuttora valida — nella sua conclusione ed in parte anche nella sua motivazione — l’impostazione data dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 166 del 1973 che, basandosi sul chiaro disposto dell’articolo 2236 del codice civile, quando l’opera richiede la soluzione di problemi di speciale difficoltà, esclude la responsabilità penale delle persone esercenti una attività professionale nei casi di imperizia lieve. In conformità abbiamo inserito nel disegno di legge, nella parte relativa all’elemento psicologico, l’inciso che se l’evento è conseguenza di prestazione d’opera che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, l’imperizia dev’essere grave. 6.8. Per quanto attiene alla cosiddetta « responsabilità anomala » sancita dall’articolo 116 del codice vigente, era fin troppo chiara la mancanza dei requisiti di personalità nella responsabilità penale. Le proposte sostitutive sono molte. La Commissione Vassalli-Pagliaro ad esempio è pervenuta alla conclusione che: « ...la realizzazione di un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti può essere a questo imputato obiettivamente, soltanto se il suo contributo abbia assunto carattere di agevolazione. Soggettivamente, la responsabilità non può essere che di natura colposa (qualora della colpa sussistano gli estremi). D’altra parte, trattandosi di un soggetto che intendeva pur sempre contribuire alla realizzazione di un reato, e che in questo contesto ha agito con negligenza, imprudenza o imperizia, la responsabilità non deve essere circoscritta alle sole ipotesi di reato colposo espressamente prevedute dalla legge, ma viene estesa a tutte le fattispecie dell’ordinamento, ovviamente con una congrua riduzione di pena... Se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, prevedere che questi risponda di agevolazione colposa di quel reato, qualora con il suo contributo ne abbia per colpa agevolato la commissione. Comminare la pena stabilita per il reato commesso, diminuita da un terzo alla metà ». Rispondere, però, a titolo di colpa indeterminata e senza che il riferimento alla responsabilità per colpa sia inequivoco, per un reato non voluto e spesso non preveduto dal partecipe, che può essere del tutto estraneo alla rappresentazione e quindi alla partecipazione psichica, è una soluzione che fa sorgere qualche dubbio. Noi abbiamo risolto diversamente questa delicata questione. Dando piena attuazione al principio di colpevolezza abbiamo previsto che, se è stato commesso reato diverso o più grave di quello voluto da taluno dei concorrenti questi ne risponde se ha previsto l’evento come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria condotta e ne ha accettato il rischio. Fuori da questa ipotesi il concorrente risponde solo degli altri reati commessi. VII.

Le condotte pericolose e l’oggetto del reato.

7.1. Strettamente connessi con la tematica della responsabilità oggettiva sono alcuni aspetti del pericolo, soprattutto di quello presunto. Per affrontare questa delicata tematica è necessario distinguere i concetti di « situazione di pericolo », « attività pericolose » e « condotte pericolose ». 7.2. « Situazioni di pericolo » sono quegli stati di fatto e quei comportamenti che non sono vietati da una norma penale, cioè non descritti quale fatto punibile, ma che hanno insita la rilevante possibilità che subentri una « condotta pericolosa » dell’agente. Negli ultimi tempi queste situazioni di pericolo non vietate sono aumentate in maniera notevole, soprattutto perché la tecnologia accresce in proporzione sempre più impressio-


— 947 — nante il pericolo, inserendo la persona umana, nonostante tutti gli accorgimenti a difesa, in situazioni tali che essa viene ad essere necessariamente partecipe del pericolo. Si pensi in proposito al risultato delle produzioni pericolose quali l’energia atomica, gli esplosivi, i gas tossici, eccetera; al costante aumento di congegni ed apparecchi pericolosi come condotte ed impianti elettrici, bombole a gas, razzi interplanetari, armi, eccetera. Sarebbe un grave errore individuare in queste situazioni di pericolo un « fatto » descritto dalla legge penale e di conseguenza ritenere che queste situazioni siano « giustificate » da una causa di liceità. Non essendo vietate dalla legge, esse sono automaticamente lecite e la sola circostanza che in esse sia insita una maggiore possibilità che subentri una condotta pericolosa dell’agente, nulla toglie alla loro liceità. Altrimenti si arriverebbe all’assurdo di considerare queste situazioni quali « fatti » potenzialmente illeciti e poi considerare « la condotta pericolosa » penalmente rilevante che si inserisce in esse, come una estrinsecazione della illiceità congenita. Proprio in questo gravissimo errore era caduta la Corte di appello di Monaco di Baviera, nel lontano anno 1861, quando decise che la gestione di una ferrovia era già per se stessa un’attività antigiuridica. 7.3. Bisogna aggiungere che questo grave errore viene favorito dall’uso, improprio in sede penale, del termine di « attività pericolosa ». Questo concetto è chiaramente delineato in sede civile ove ha importanza a tutt’altro fine. Nel diritto privato vigono princìpi diversi, prettamente risarcitori, quindi è possibile prevedere la responsabilità oggettiva (articolo 2050 del codice civile). Non altrettanto vale in sede penale, in cui il concetto di « attività pericolosa » ha lo svantaggio di indurre prima facie l’interprete a comprendervi tanto le azioni ed omissioni vietate, quanto quelle non vietate dalla norma penale. Peraltro tralascia poi di comprendervi quegli stati di fatto pericolosi che non sono attività pericolose, ma che ciononostante hanno rilevanza sia pratica che teorica, quando in essi si inserisca una condotta vietata. Questo concetto, inoltre, invita l’interprete a dare peso solo alla valutazione se l’attività umana abbia in sè una carica di pericolosità più o meno intensa (tutte le azioni umane possono essere in certo qual modo pericolose), anziché vedere se si tratta di una « condotta tipica vietata dalla norma penale », ovvero di una « situazione di pericolo » che esula dal fatto tipico. Che il concetto di attività pericolosa non induca al chiarimento di idee in sede penale, è dimostrato anche dagli errori in cui incorre spesso la giurisprudenza. Così, ad esempio, nella sentenza relativa al disastro del Vajont la Suprema Corte, insistendo su tale concetto, confermò quella parte dell’impugnata sentenza della Corte d’appello di L’Aquila, del 3 ottobre 1970, in cui si legge con riferimento ai criteri civilistici desumibili dall’articolo 2236 del codice civile che « ciascuno deve astenersi dalle azioni che è incapace di dominare », e cioè da quelle attività che non è in grado di compiere col minore rischio possibile, e che ad integrare la colpa basta l’erronea presunzione di possedere la capacità necessaria a realizzare l’attività rischiosa. Alla critica dei ricorrenti che in tal modo l’uomo verrebbe ad essere condannato all’inerzia più totale, la Corte Suprema replica che « l’esercizio lecito di attività pericolose è da ritenere consentito, da un lato nella misura in cui risponde ad obiettive esigenze d’interesse collettivo pubblico di ordine primario; dall’altro nei limiti in cui sia possibile predisporre le misure necessarie affinché l’attività stessa non finisca col risolversi in danno, anzichè in beneficio, per la società, nei suoi singoli componenti o nella collettività ». Questo ragionamento rischia di portare all’inaccettabile conclusione che « l’esercizio lecito di attività pericolose » perde la sua caratteristica di liceità allorquando produca un evento lesivo. Si ha in questo un’altra riprova che in sede penale non si possono riassumere gli aspetti del pericolo nel concetto generico ed onnicomprensivo di « attività pericolosa », ma che bisogna vedere se la condotta pericolosa dell’agente era tipica, antigiuridica e colpevole. 7.4.

Quelle che possono aver rilevanza nell’ambito penale sono solamente le « con-


— 948 — dotte pericolose » che violano un precetto penale, cioè le azioni od omissioni pericolose dell’agente espressamente prevedute come reato dalla legge. La loro individuazione è semplice: vi rientrano anzitutto le « condotte pericolose » poste in essere con dolo o colpa, che violano una norma penale e causano un evento di danno (reato di danno); inoltre, vi rientrano le « condotte pericolose » nelle ipotesi in cui la legge incrimini la messa in pericolo di un bene, e l’azione od omissione colposa o dolosa dell’agente lo abbia effettivamente minacciato (reato di pericolo concreto). 7.5. A questo punto sorge la domanda sulla legittimità (anche costituzionale) dei reati di « pericolo presunto ». Si tratta di fattispecie che considerano comunque pericolosa la condotta anche se non si sia affatto realizzato alcun pericolo concreto. A favore di queste fattispecie di pericolo presunto, è stato sostenuto da una parte della dottrina che nella moderna vita sociale, trasformata dai progressi tecnici, la previsione del pericolo presunto (o astratto che dir si voglia) sarebbe quanto mai necessaria ed irrinunciabile e comunque non contrasterebbe con i princìpi generali del diritto penale, purché « si rispetti il precetto della legalità, evitando in particolare formulazioni normative in termini troppo generali o troppo imprecisi ». È un assunto, che nelle sue conclusioni non è da condividere. Per prevenire le situazioni di pericolo presunto il legislatore in nessun caso potrà ricorrere ad una obiettivazione della colpa, senza incorrere in una palese violazione dei dettami costituzionali. 7.6. Per superare l’ostacolo altra parte della dottrina sostiene che l’articolo 27 della Costituzione e i princìpi dell’ordinamento non porterebbero in alcun modo divieti per il legislatore di fare ricorso ai reati di pericolo presunto, ma implicherebbero soltanto l’illegittimità costituzionale dell’eventuale pretesa normativa di assoluta invincibilità della presunzione del pericolo; l’ostacolo quindi potrebbe essere superato introducendo la statuizione che non può esserci presunzione di pericolo che non consenta la prova del contrario. Anche questo espediente non ha pregio. Non è chi non veda che con la soluzione proposta, oltre a pretendere che in ordine al fatto contestato sia l’imputato a dover provare la sua innocenza, il che non è ammissibile (anche per il principio che il giudice è vincolato a ricercare i presupposti di pericolo concreto e non viceversa), si perviene in sostanza a sostenere che quando non sussiste in concreto alcun pericolo non sussiste nemmeno il reato. Il che vuol dire che per la sussistenza del reato ci vuole comunque un pericolo concreto (o reale, che dir si voglia). Così ragionando, però, torniamo a capo. 7.7. Lo sfavore della dottrina verso la configurabilità di reati che non siano di danno o di pericolo concreto, non deve farci chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’ordinamento penale non può non tener conto del fatto che il mantenimento della sicurezza sociale esige, in alcuni settori della vita, quali la sicurezza sul lavoro, la sicurezza nel traffico stradale e nei trasporti, la tutela dell’ambiente e dell’eco-sistema, nonché di settori analoghi, la previsione di norme specifiche di salvaguardia della sicurezza stessa. Queste norme devono essere osservate, a scanso di sanzione penale, ancorché non sussista alcun pericolo concreto per il singolo portatore del bene tutelato. Qui non si tratta di un « pericolo presunto », ma della lesione del bene giuridico pubblico della sicurezza sociale. Del resto non vi è nessuna ragione di ritenere che il principio generale statuito in sede di contravvenzione dall’articolo 650 del codice vigente (inosservanza di provvedimenti dell’Autorità), che peraltro non solleva critiche, non possa trovare considerazione anche per i delitti quando si tratti non già di violare l’ordine dato dalle Autorità, ma l’ordine specifico di tutela della sicurezza sociale chiaramente circoscritta da una norma. Alla luce dei nuovi princìpi costituzionali, il difetto del codice vigente sta nel fatto di non aver dato nella parte generale una chiara individuazione dell’oggetto del reato, lasciando così spazio alle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, che sono bensì servite a portare


— 949 — maggiore chiarezza nel campo del pericolo astratto, ma che sono poi pervenute anche a conclusioni eccessive. Le suddette considerazioni ci hanno indotto a chiarire nella parte generale del disegno di legge la nozione di « oggetto del reato », precisando che tale è il bene giuridico tutelato dalla norma; che la punibilità dei reati di pericolo concreto presuppone che il pericolo sia un elemento della fattispecie; che quando la legge prevede la punibilità di una condotta che viola prescrizioni poste a tutela della sicurezza sociale, la violazione di tali prescrizioni costituisce reato se la ragione di sicurezza sociale figuri quale elemento della fattispecie. VIII. Cause di giustificazione. 8.1. L’ambito delle cause di giustificazione è stato chiaramente delineato dalla giurisprudenza e si è consolidato nella dottrina. Bisognava stare attenti a non stravolgerlo. 8.2. A un esame approfondito è stato sottoposto il progetto di tenere separate de jure condendo le « cause di giustificazione di natura prevalentemente oggettiva » dalle « cause di giustificazione di natura prevalentemente soggettiva », da inquadrare, queste ultime, fra le cause soggettive di esclusione della responsabilità. Non è chi non veda che questa soluzione risente della discussione tuttora viva in dottrina fra i fautori della teoria dell’antigiuridicità soggettiva e quelli dell’antigiuridicità oggettiva. In realtà, però, l’antigiuridicità può assumere sia aspetti soggettivi, sia aspetti oggettivi. Quale sia l’aspetto determinante, dipende di volta in volta dagli elementi che caratterizzano la singola causa di giustiticazione, ovvero l’azione della persona che la pone in essere. Quando ci troviamo di fronte ad una causa di giustificazione che è sorretta dalla coscienza o volontà dell’agente o dallo scopo della sua condotta, ricorrono necessariamente anche elementi « soggettivi di antigiuridicità ». Ad esempio: l’articolo 52 del codice penale (legittima difesa) nella versione vigente, richiede la coscienza nell’agente che la sua difesa è proporzionata all’aggressione e richiede la sua volontà di difendere un diritto proprio o altrui; l’articolo 54 del codice penale (stato di necessità) richiede la coscienza dell’agente che la sua condotta è proporzionata al pericolo e richiede la sua volontà di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Elementi soggettivi di giustificazione sono inoltre previsti, per altro verso, dagli stessi articoli 52 del codice penale (legittima difesa) e 54 del codice penale (stato di necessità), nonchè dall’articolo 53 del codice penale (uso legittimo delle armi), nella parte in cui dispongono che si debba agire con lo « scopo » di sottrarsi alla situazione di necessità che costringe l’agente a porre in essere il fatto lesivo. Tale scopo è espressamente richiesto dall’inciso: « per esservi stato costretto dalla necessità ». Si aggiunga che la causa di giustificazione prevista dall’articolo 53 del codice penale (uso legittimo delle armi) richiede un ulteriore elemento soggettivo, quando dispone che il fatto sia commesso « al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio ». Si vede chiaramente che in questi casi — citati a mo’ di esempio — siamo di fronte a due concetti diversi di elemento soggettivo che agisce non solo nell’ambito della colpevolezza, ma anche sul piano della antigiuridicità. Dall’altro lato, invece, vi sono delle cause di giustificazione la cui esistenza « obiettiva » esclude già di per se stessa l’antigiuridicità; e che sono operanti anche quando l’agente non abbia con esse alcun rapporto soggettivo. Prendiamo ad esempio il consenso dell’avente diritto. Secondo la lettera dell’articolo 50 del codice penale, l’antigiuridicità è già esclusa quando il consenso sia stato realmente prestato: all’elemento psicologico dell’agente non viene attribuita nessuna rilevanza. 8.3. Passiamo all’esame delle cause di giustificazione che meritano, anche de jure condendo, di essere inserite nella parte generale. 8.4.

Per la « legittima difesa », si pone la questione di chi si sia posto nella situazione


— 950 — di pericolo per fatto proprio. Secondo la costante giurisprudenza viene a mancare l’estremo della necessità della difesa. Ma de jure condendo si ritiene opportuno dire expressis verbis — come propone lo schema Pagliaro — che il pericolo « non deve essere stato preordinato ». Non solo, ma si dovrà aggiungere anche che la difesa sia proporzionata all’offesa « e si riferisca a tutti gli elementi significativi dell’aggressione ». 8.5. La limitazione dello « stato di necessità » alle sole ipotesi in cui « l’interesse personale proprio od altrui sia superiore a quello sacrificato » (schema Pagliaro) meritava riflessione e prudenza. Noi eravamo partiti dalla premessa che in molti casi di stato di necessità l’interesse sacrificato è equivalente a quello salvaguardato. Pensiamo al caso dell’alpinista che trovandosi a scalare una parete vede cadere il compagno che resta attaccato alla corda. Privo d’aiuto, impossibilitato di inchiodarlo e non potendo resistere oltre, egli salva la propria vita tagliando all’ultimo momento la corda. Difficile sostenere, de jure condendo, che in questi casi non si possa fare ricorso allo stato di necessità. Per maggiore chiarezza avevamo proposto inizialmente che il pericolo non debba essere causato dall’agente, o comunque non causato colposamente, e che dal bilanciamento degli interessi risulti che il bene salvaguardato « non sia inferiore a quello che deve soccombere ». Ma un ripensamento su questo ultimo punto ci ha indotti, in definitiva, a prevedere che di regola il bene salvaguardato debba essere superiore a quello che deve soccombere; ma, in casi eccezionali quando vi è la certezza di pericolo di vita la causa di giustificazione di cui al comma 1 si applica anche se il bene che deve soccombere è allo stesso livello di quello salvaguardato. 8.6. La riforma dell’istituto del « consenso dell’avente diritto » richiede alcune sostanziali innovazioni. 8.6.1. Rileviamo anzitutto che la disposizione dell’articolo 50 del codice vigente, che disciplina con formula sintetica l’efficacia del consenso, è stata giustamente inserita nella parte generale del codice ed è tuttora valida. Da un lato era opportuno statuire che il consenso, quale causa di giustificazione, esclude l’antigiuridicità, offrendo all’interprete la base di orientamento nelle innumerevoli e così diverse fattispecie, spesso ardue e complesse, in cui esso opera « quale causa di giustificazione » distinguendolo così dalle ipotesi in cui è elemento costitutivo del fatto (denominato accordo). 8.6.2. Non sempre sarà facile, come vedremo, individuare i beni di cui l’avente diritto può « validamente disporre », per cui è utile che l’interprete possa fare riferimento ai princìpi esposti nella norma generale. Dall’altro sarà impossibile per il legislatore disciplinare espressamente tutti i casi in cui il bene giuridico è disponibile; ma anche se avesse tale possibilità, non sarebbe neppure opportuno farlo, poichè il concetto di « disponibilità » è un concetto variabile che trova il suo fondamento nelle leggi, nei regolamenti, nella consuetudine ed in altre fonti indirette, e quindi è suscettibile di continui cambiamenti dovuti al mutare dei tempi e della vita di relazione. 8.6.3. Diversamente il principio generale di diritto penale, che statuisce che il consenso è una causa di giustificazione, resta invariato (immutabilità del principio che un consenso, valido ed operante, esclude l’antigiuridicità). Tenere presente questa distinzione è di somma importanza, poichè, come vedremo, quello che si adegua alle nuove esigenze della vita di relazione non è già il consenso quale causa di giustificazione, che, come principio generale, resta appunto invariato, ma la disponibilità dell’uno o dell’altro bene giuridico. 8.6.4. Al legislatore interessa inoltre tener presente — de jure condendo — che anche la definizione terminologica usata dall’articolo 50 del codice vigente è corretta. Il consenso deve promanare dalla persona che è titolare del bene giuridico tutelato, e pertanto, è esatto parlare di « consenso dell’avente diritto ». Le altre locuzioni, come ad esempio « consenso della


— 951 — vittima », « consenso dell’offeso », « consenso della persona offesa » presuppongono invece l’esistenza del reato e sono quindi indubbiamente meno proprie. Parimenti chiara era la locuzione « lesione o messa in pericolo di un diritto ». Essa tendeva semplicemente a precisare che l’avente diritto consente a una lesione di un suo bene giuridico tutelato. È ovvio che se non vi fosse in definitiva una lesione del bene tutelato, non sarebbe nemmeno possibile configurare il consenso quale causa di giustificazione. Per uniformare però la terminologia usata nel codice abbiamo, alla fine, preferito sostituire la parola « diritto » con « bene », evitando così ogni ulteriore discussione sul punto. 8.6.5. Vana sarebbe per il legislatore la ricerca di un valido criterio di distinzione fra i beni giuridici disponibili e quelli indisponibili. È chiaro che in astratto il legislatore potrebbe dichiarare indisponibili tutti i beni che sono oggetto di tutela penale; eliminando cioè totalmente il potere di autodeterminazione dell’avente diritto. In concreto però, è un’ipotesi che non si verifica. Nessun ordinamento moderno contempla un tale divieto: in tutte le legislazioni è lasciata all’autonomia dell’avente diritto la disponibilità di una larga parte dei suoi beni tutelati dalle norme dell’ordinamento. Ed è appunto in tale vasto ambito che l’interprete deve individuare se il bene era disponibile o meno. Mancando la norma che fa espresso riferimento alla fattispecie, egli dovrà necessariamente ricorrere ai princìpi generali dell’ordinamento giuridico e a tutte le altre fonti, anche indirette, al fine di accertare i « limiti » del consenso giustificante. In sostanza l’interprete dovrà basarsi su un metodo induttivo di ricerca. 8.6.6. Non dovrebbero sussistere dubbi (ma qualora sussistessero il legislatore dovrebbe dissiparli): quando si tratta di indagare sui limiti di disponibilità del bene giuridico, non si deve restringere l’esame ad un solo ramo del diritto, ma far riferimento anche ai princìpi generali che stanno alla base dell’intero ordinamento giuridico, termine che viene qui usato per indicare l’insieme delle norme giuridiche vigenti nell’ambito del territorio dello Stato. Non solo, ma per accertare i limiti di disponibilità del bene giuridico, l’interprete può riportarsi a tutte le fonti (immediate e mediate), e quindi anche a discipline, regolamenti, ordini delle autorità, atti amministrativi e alla consuetudine. La consuetudine non è idonea a creare norme incriminatrici, ossia a dare vita a nuove figure di reati, o a creare cause di giustificazione, ma che da essa quale fonte mediata possa essere desunta la disponibilità o meno di un bene giuridico sembra un fatto difficilmente contestabile. In altre parole la consuetudine non può far sorgere illeciti penali o pene di diversa entità, per cui, qualora si formasse in contrasto con le norme penali, non avrebbe alcun valore. Ciò non toglie che in tema di valutazioni della « disponibilità » del bene giuridico si debba fare anche ad essa riferimento, come giustamente era stato accennato nei lavori preparatori al codice vigente (Relazione al progetto definitivo, n. 674, in cui, riferendosi alla giustificazione di una lesione sportiva, si dice « che la consuetudine in questa ipotesi conferisce all’individuo un diritto di disponibilità della propria persona e in conseguenza la facoltà di sottoporsi a talune menomazioni dell’integrità fisica »). Anche nella Relazione al Re del ministro Guardasigilli presentata il 19 ottobre 1930 per l’approvazione del testo definitivo del codice penale, si puntualizza in termini esatti la tematica quando si scrive: « La Commissione consigliò poi la sostituzione della parola ‘‘legittimamente’’ con un’altra più precisa, in modo da indicare la fonte: legge, consuetudine, eccetera, alla quale il giudice deve attingere per decidere la questione della disponibilità di un determinato diritto soggettivo ». 8.6.7. Nel disegno di legge abbiamo ritenuto necessario prevedere i limiti di liceità del consenso alle attività e contese sportive nonché ai trattamenti medici e sanitari, visto che il consenziente può subire quale conseguenza lesioni a volte anche mortali. Si tratta di questione che merita particolare attenzione, visto i limiti posti alla disponibilità da una norma quadro (articolo 5 del codice civile) che dichiara genericamente che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica.


— 952 — Si sa che in molte legislazioni una norma esplicita dichiara che il bene della vita non è disponibile; ma nel contempo esplicitamente o implicitamente si riconosce che in varie fattispecie della vita quotidiana tale bene viene considerato disponibile quando la rinuncia del consenziente alla tutela giuridica rimanga nell’ambito dei princìpi consuetudinari che regolano la vita di relazione. 8.6.8. Prendiamo la realtà delle contese sportive. In un incontro di pugilato, i contendenti consentono validamente a subire percosse e lesioni ed accettano la possibilità di un evento anche letale: purché tale loro rinuncia sia tenuta nei limiti usuali di questo tipo di sport, si considera che abbiano validamente disposto anche del bene della vita. Lo stesso vale per le altre attività sportive violente in cui la condotta « dolosa » dell’agente è diretta sul corpo del consenziente, come la lotta libera e la corrida in cui l’organizzatore si serve del toro per aggredire torero e banderilleros. Gli esempi possono moltiplicarsi. Passando all’ambito dei fatti colposi, si dà il caso della gara automobilistica su circuito chiuso; in tale situazione di pericolo lo scoppio del pneumatico, dovuto all’alta velocità e alla continua azione frenante del concorrente in gara (e cioè alla sua condotta manifestamente pericolosa), che provoca l’uscita di strada della vettura, è un fatto imprudente e quindi colposo, che è giustificato dal consenso del secondo autista, quando questi abbia voluto partecipare alla gara con la piena rappresentazione del rischio, rinunciando validamente alla tutela giuridica in conformità agli usi di una gara. Non è questa la sede per riportare gli argomenti su cui si fonda il nostro pensiero secondo il quale nell’ambito della contesa sportiva il consenso è operante e le norme che dichiarano l’indisponibilità del bene della vita non trovano applicazione quando si resta nei limiti della consuetudine sportiva. Negare validità al consenso sportivo significa considerare tali fatti giustificati da cause di liceità non codificate o resi leciti da regolamenti o discipline. Questa impostazione non poteva essere accolta. Del resto la soluzione creerebbe vari problemi, implicando conseguenze aberranti anche sul piano dell’applicazione pratica: se la condotta pericolosa fosse lecita quando è conforme a regolamento e discipline, essa sarebbe giustificata anche quando provoca lesioni alla persona che non ha consentito. Soluzione che ovviamente non è esatta, perchè senza il consenso dell’avente diritto, che volontariamente espone il proprio corpo ad una eventuale offesa, il fatto non può essere giustificato. Così, ritornando all’esempio della corsa automobilistica, non è il regolamento di gara che impone al concorrente di esporsi alla condotta pericolosa di altri concorrenti; e in un incontro di pugilato non è il regolamento che induce il pugile a sottostare alla condotta lesiva altrui. È solo il consenso che rende lecito il fatto: esso segna l’inizio e la fine per la sua giustificazione (se il pugile getta la spugna, cessa il suo consenso: il colpo dato successivamente, non è più giustificato) e segna anche limiti sostanziali entro i quali la rinuncia è operante. I regolamenti e le discipline hanno invece una finalità diversa: essi cercano di ridurre al minimo la pericolosità obiettiva, tendono cioè solo a regolamentare la pericolosità che è insita alla situazione di pericolo. È doveroso quindi concludere che non siamo di fronte a condotte che possono essere considerate « implicitamente giustificate » o « permesse in deroga alla norma generale », e meno ancora « doverose ». Nelle ipotesi contemplate non esiste un’imposizione di porre in essere la condotta lesiva e correlativa imposizione di subire l’eventuale lesione, per cui dobbiamo dedurre che il fattore determinante per la loro liceità va cercato nella libera autodeterminazione dell’avente diritto. Noi abbiamo sempre sostenuto che nell’ipotesi in cui una norma quadro ponga limiti a tale disponibilità, come avviene nel caso dell’articolo 5 del codice civile che vieta certi atti di disposizione del proprio corpo, essa va interpretata secondo le regole sulle quali si basa l’organizzazione della collettività, e che costituiscono il suo ordinamento giuridico. In altre pa-


— 953 — role il legislatore, ponendo l’articolo 5 del codice civile, non ha inteso vietare al singolo di consentire a tutte le lesioni che possono avere esito permanente o mortale, ma solo a quelle in cui la rinuncia alla tutela non rientri nel costume sociale, e non sia quindi sorretta dai princìpi generali dell’ordinamento dello Stato. Ma già che si procedeva a una riforma del codice penale, era opportuno disciplinare la questione del consenso alle lesioni sportive precisando i limiti entro i quali l’atto di disposizione dell’avente diritto è valido ed operante. 8.6.9. Le stesse considerazioni valgono in ordine alla giustificazione del trattamento medico. È ormai largamente riconosciuto che la legittimazione del trattamento sanitario di persona cosciente e capace si basa su un valido consenso. Questo principio ha un suo chiaro fondamento negli articoli 13 e 32 della Costituzione. L’articolo 13 della Costituzione, relativo alle « libertà individuali », sancisce che la libertà personale è inviolabile e che non è ammessa forma alcuna di restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Per interpretazione comune, questa norma specifica i diritti di libertà, che a loro volta rientrano nell’ambito più vasto dei diritti della personalità, fra i quali ricordiamo quelli relativi agli elementi costitutivi della persona. In particolare nella previsione dell’articolo 13 della Costituzione è compresa la libertà di salvaguardare l’integrità fisica e psichica della propria persona. L’altro aspetto, quello della « tutela della salute », è regolato dalla norma dell’articolo 32 della Costituzione, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e sancisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge, la quale non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Dalla norma emerge, con tutta chiarezza, come del resto è stato ampiamente chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 88 del 26 luglio 1979, che l’articolo 32 della Costituzione tutela non solo un interesse fondamentale della collettività, ma anche e « soprattutto » un « diritto fondamentale dell’individuo ». Passando all’esame dei riflessi di diritto penale che derivano dal combinato disposto di queste due norme costituzionali in ordine ai trattamenti sanitari, va constatato che la stessa Costituzione impone il rispetto della libertà di consentire al trattamento sanitario e riconosce il diritto dell’individuo all’autodeterminazione in ordine alla « tutela » della salute, della sua libertà e della sua integrità fisica e psichica. Essa dà quindi in tema di trattamento sanitario piena rilevanza al « consenso dell’avente diritto », rilevanza che per altro è ribadita anche dagli articoli 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, e 1 della legge 13 maggio 1978, n. 180. Se la persona è cosciente e capace, il suo consenso non è soltanto requisito eventuale ed accessorio, ma essenziale: l’ordinamento giuridico non vuole esporre l’integrità psichica e fisica dell’avente diritto all’unilaterale e arbitrario intervento di un estraneo, ancorché medico, il quale finirebbe, in materia di diritti individuali costituzionalmente garantiti, per sostituire la propria volontà a quella dell’avente diritto. Queste considerazioni dovranno essere tenute in debito conto quando si discuterà l’opportunità, o meno, di codificare il consenso al trattamento medico. 8.6.10. È ovvio che il consenso è sempre richiesto quando il paziente sia in grado di consentire. Spesso, però, il trattamento sanitario deve essere eseguito su persona che non sia in grado di consentire. Si tratta in genere di persona che non è cosciente, non è capace, ovvero che per altri motivi non è in grado di prestare il consenso. Valga, quale esempio, il caso del paziente che dà il suo consenso per essere trasportato all’ospedale, ma che durante il trasporto perde i sensi e non può prestare il consenso all’intervento chirurgico. In questi casi il medico può intervenire solo nei limiti consentiti dallo « stato di neces-


— 954 — sità » previsto dall’articolo 54 del codice penale e solo nei limiti di tale causa di giustificazione. Nella prassi questi casi non presentano difficoltà, poiché i medici sono consapevoli del fatto che se non è possibile avere il consenso del paziente, e purché non vi sia dissenso, essi possono intervenire, solo in quanto costretti, a salvare il paziente dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Superare volutamente questo limite significa incorrere in responsabilità penale: il fatto non è più giustificato. La casistica, su questa questione, è vasta; si tratta in genere di vedere se il medico ha superato il limite dello stato di necessità. Un intervento non necessario, costituente reato (nella fattispecie caduto sotto amnistia), che aveva destato largo interesse è quello del chirurgo che ritenne opportuno eseguire la sterilizzazione, non consentita e non richiesta da ragioni terapeutiche, quale operazione accessoria ad altra consentita. Una parte della dottrina è di diverso avviso e ritiene che per giustificare il trattamento medico di una persona che non sia in grado di consentire non valga di norma richiamarsi allo stato di necessità ma sia necessario rifarsi ad altre soluzioni quali l’adeguatezza sociale, l’esercizio di un’attività legittima, l’adempimento di un dovere o le cosiddette cause di giustificazione non codificate (peraltro non meglio specificate), circostanze che sembrano tutte inadeguate poiché non consentono di individuare con chiarezza i limiti fra lecito e illecito. 8.6.11. A tutti questi interrogativi sorti in ambito sportivo e sanitario, abbiamo cercato di rimediare inserendo nell’articolo 47 (che corrisponde all’articolo 50 del codice vigente) tre commi i quali prevedono: a) che chi pratica un’attività sportiva o partecipa a contese sportive assume validamente con il suo consenso il rischio delle possibili conseguenze lesive, anche mortali, il che però non giustifica le condotte dolose o colpose che esulano dall’usuale esercizio dell’attività o contesa sportiva e le condotte dolose o colpose poste in essere dagli organizzatori; b) che il consenso del paziente giustifica il trattamento medico. Quando il paziente non è in grado di consentire, il trattamento è giustificato solo nei limiti consentiti dallo stato di necessità. In caso di dissenso del paziente, decide il giudice, salvo il caso di soccorso determinato dalla necessità urgente ed improrogabile di evitare che il paziente subisca un danno grave alla persona; c) che in nessun caso il consenso è valido se è contrario all’ordine pubblico o al buon costume. 8.6.12. Sempre in tema di mancato consenso al trattamento medico-sanitario il nostro Comitato ha dovuto prendere in considerazione i casi eccezionali ma in notevole aumento di « rifiuto » dei trattamenti obbligatori ex lege ed una eventuale loro limitata giustificazione per motivi personali (fede religiosa od altro). Non abbiamo ritenuto necessario disciplinare la materia, visto che dal combinato disposto dagli articoli 13 e 32 della Costituzione emerge che il legislatore può imporre trattamenti obbligatori ex lege purché rispetti i diritti fondamentali della persona umana e si ispiri al principio di tutela della salute individuale e collettiva, garantita dalla Repubblica. In pratica, i trattamenti obbligatori ex lege sono previsti soprattutto al fine di evitare che una malattia minacci la salute pubblica, nel caso in cui una epidemia metta in pericolo la salute degli individui e nel caso in cui sia interesse pubblico accertare e salvaguardare lo stato di salute dei cittadini. Fra essi giova ricordare la vaccinazione obbligatoria, i trattamenti obbligatori in caso di epidemie o di gravi malattie, il controllo ed il trattamento coattivo di persone affette da AIDS, l’obbligatorietà delle cure di assicurazione sociale, gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori per le malattie mentali previsti dalla riforma sanitaria e l’internamento di malati mentali, il collocamento in quarantena di persona sospetta di grave malattia infettiva o epidemica, le visite mediche dei coscritti e delle persone carcerate, l’isolamento in caso di epidemia, e via dicendo. Quando la legge prevede trattamenti sanitari « coattivi » la persona che esercita l’attività sanitaria diventa esecutore materiale del precetto di legge e non ha quindi bisogno di legittimare il suo operato.


— 955 — Per la persona, invece, che rifiuta il trattamento obbligatorio ex lege, si potrebbe prevedere nella parte speciale, entro certi limiti (ad esempio fede religiosa) una scusante, purchè il rifiuto non comporti pericolo per la società o per l’ambiente. 8.7. Vi era poi l’esigenza di codificare l’istituto del « consenso presunto », che a suo tempo ha avuto pochi sostenitori ma che ora è riconosciuto da quasi tutta la dottrina. L’indagine del legislatore richiede anzitutto la determinazione del concetto di « consenso presunto », che non sempre è stato individuato con la dovuta chiarezza e che va tenuto comunque nettamente distinto dal concetto di « consenso putativo »: nel consenso presunto l’agente è conscio del fatto che non è stato prestato il consenso, ma egli compie l’azione nell’interesse dell’avente diritto; nel consenso putativo, invece, l’agente versa in errore, poiché crede che l’azione sia stata consentita, mentre in realtà il consenso non fu prestato. Già da questa preventiva precisazione emerge la natura preminentemente oggettiva del consenso presunto. Il fondamento dello stesso, che costituisce un’autonoma causa di giustificazione, va, infatti, ricercato in tre fattori obiettivi: a) presenza di tutti i presupposti obiettivi richiesti per un consenso valido ed operante; b) mancanza di un consenso reale; c) contrapposizione fra due (o più) beni dell’avente diritto, quello prevalente (maggiore), che è da salvaguardare, l’altro secondario (minore) che viene leso dall’agente. Per quanto riguarda il primo presupposto, appare chiaro che anche in tema di consenso presunto non può essere superato il limite di disponibilità dell’interesse protetto (pertanto tale causa di giustificazione potrà trovare applicazione solo nelle fattispecie in cui l’avente diritto abbia la disponibilità del bene la cui lesione è giustificata da consenso presunto) e devono ricorrere gli altri presupposti obiettivi che la legge richiede per la prestazione di un consenso valido ed operante (capacità dell’avente diritto, eccetera). Il secondo presupposto obiettivo, e cioè la mancanza di un consenso reale, è la nota caratteristica ed essenziale del consenso presunto: se il consenso fosse stato prestato non ci sarebbe bisogno di ricorrere al consenso presunto per giustificare il fatto in questione, che risulterebbe già lecito in base alla causa di giustificazione realmente esistente. Un problema connesso a quello in esame è se il fatto possa essere giustificato da consenso presunto anche quando l’avente diritto sarebbe stato in grado di prestare regolare consenso, ed anche qualora egli fosse presente. La risposta affermativa ci sembra la più esatta: non è la presenza dell’avente diritto che possa far venir meno gli elementi costitutivi del consenso presunto, anche se dobbiamo convenire che in buona parte si tratta di una questione più teorica che pratica. È chiaro però che non si può sostenere l’esistenza di un consenso presunto, quando l’avente diritto dissenta espressamente dalla condotta o quando il suo dissenso risulti dai fatti concludenti che — al limite — potrebbero configurarsi in un comportamento che dimostrasse la sua intenzione di tutelare e disporre diversamente dei propri interessi. A nulla vale teorizzare sui concetti di « tutela obiettiva dell’interesse » o di « distinzione fra volontà ontologica e deontologica » o di « preminenza del pubblico interesse »: quando l’avente diritto dissenta ovvero mostri comunque di non voler consentire che altri disponga o leda il suo interesse protetto, allora si è al di fuori della causa di giustificazione in esame. Per accertare la sussistenza del terzo presupposto obiettivo si deve ricorre al sistema di bilanciamento dei beni. Se si parte, come noi facciamo, dalla premessa che la condotta dell’agente è giustificata da consenso presunto solo quando un bene prevalente dell’avente diritto rischia di subire danno, e l’azione diretta al fine di evitare tale danno ne causa uno minore, ciò significa che si è dovuto scendere ad un giudizio di valore tra il bene leso dalla condotta (secondario o minore) e il bene che rischiava di subire una lesione (prevalente o maggiore). È quasi inutile ripetere che il bilanciamento riguarda solo beni che fanno capo alla stessa persona dell’avente diritto. Anche il bilanciamento deve essere basato su un giudizio obiettivo, e quindi non si può


— 956 — concordare con coloro che ritengono che per la sussistenza del consenso presunto sia essenziale congetturare che l’avente diritto avrebbe prestato il consenso se ne fosse stato in grado. L’errore è evidente. Non ha importanza l’interesse soggettivo personale dell’avente diritto, ma solo l’interesse obiettivo, e cioè la reale ed obiettiva salvaguardia di un suo interesse primario (o prevalente) che giustifica la lesione dell’interesse secondario. Si pensi, ad esempio, al caso di danneggiamento di un fondo con la motopompa destinata a spegnere l’incendio di una cascina abbandonata e diroccata, che l’avente diritto assente aveva fatto incendiare per evitare le spese di demolizione, ovvero alla rottura di un vetro per far scappare presunti ladri contro l’interesse dell’avente diritto che, facendo venir meno la custodia, aveva favorito la loro introduzione in casa per incassare il premio di assicurazione. ln questi esempi il fatto è giustificato dal consenso presunto, poiché l’agente ha posto in essere una condotta con la quale ha salvaguardato obiettivamente un interesse prevalente dell’avente diritto. Non ha rilevanza che l’avente diritto non avrebbe prestato il consenso se fosse stato in grado di prestarlo, come non ha importanza che egli abbia addirittura un interesse « personale » contrario al compimento dell’azione. Rilevante è solo che l’avente diritto non abbia dissentito. Va aggiunto infine che tratto caratteristico della causa di giustificazione in esame è la sua natura oggettiva, anche se non manca un profilo soggettivo caratterizzato dal fatto che « l’agente sa che manca il consenso ». Quello che però rileva è che sono comunque prevalenti gli elementi di natura obiettiva, fra i quali spiccano la reale inesistenza di un consenso e la obiettiva esistenza di un bene giuridico superiore tutelato dalla norma, che implica la rinuncia alla tutela di quel bene disponibile minore che viene leso dall’agente. E così il consenso presunto, come il consenso realmente prestato, rientra nell’ambito delle cause di esclusione dell’antigiuridicità, e non in quello delle cause soggettive di esclusione della responsabilità. Tenendo conto di queste premesse il Comitato ha inserito nel disegno di legge la seguente previsione di norma: « Non è punibile chi, in mancanza di un consenso effettivo dell’avente diritto, lede o pone in pericolo un bene altrui, a condizione che sussistano tutti i presupposti obiettivi per un consenso valido ed operante e che l’azione od omissione sia posta in essere per salvaguardare un bene dell’avente diritto, di maggior valore di quello sacrificato ». 8.8 Ultima causa di giustificazione che merita di essere richiamata in questa relazione è quella inerente all’uso delle armi che, ancorché modificata dall’articolo 14 della legge 22 maggio 1975, n. 152, non tiene più il passo con una visione moderna dei limiti consentiti in tale ambito. Nel comma 1 dell’articolo 51 abbiamo ritenuto opportuno aggiungere che deve trattarsi di « una aggressione ingiusta o di vincere una resistenza illegittima all’Autorità che non può essere superata con altri mezzi ». Aggiungendo un comma 2, il Comitato ha inteso stabilire che « l’uso delle armi previsto nel comma 1 deve essere sempre proporzionato all’offesa e riferirsi a tutti gli elementi significativi dell’aggressione ingiusta o dalla resistenza illegittima ». Il Comitato ha aggiunto poi l’ovvio inciso (comma 3) che « l’uso delle armi è comunque legittimo quando tende ad impedire la consumazione in atto dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona a scopo di estorsione o rapina. È parimenti legittimo nei casi in cui non esista altro mezzo per impedire l’evasione di persona che si trova in stato di detenzione », precisando in un ultimo comma che « la legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica che deve in ogni caso tenersi entro i limiti di liceità previsti dai commi 1 a 4 ». IX.

Circostanze del reato.

9.1. Che le circostanze di reato possano essere inserite anche in leggi speciali ed eccezionali non può essere messo in dubbio. Ciò ha indotto il Comitato, in sede di riforma, a


— 957 — chiarire regole e principi generali, validi per tutte le circostanze, anche per quelle non codificate. In questo senso sono state inserite nel testo del disegno di legge le seguenti due regole generali: a) sono circostanze del reato quelle così definite da una espressa disposizione di legge; b) il giudice applica le circostanze con discrezionalità tenendosi nei limiti previsti dalla legge. 9.2. Sempre nell’ambito della disciplina generale rientra la distinzione fra circostanze oggettive e soggettive che a tutti gli effetti della legge penale si distinguono come segue: a) sono circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità della condotta, la gravità del danno o del pericolo ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso; b) sono circostanze soggettive quelle che concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa o le condizioni e le qualità personali del colpevole o i rapporti fra il colpevole e l’offeso ovvero che ineriscono alla persona del colpevole. 9.3. Una decisione meritevole del Comitato è quella di proporre l’abolizione delle regole di « prevalenza » e di « equivalenza » attualmente vigenti. La loro eliminazione farà si che ogni circostanza, aggravante o attenuante che sia, abbia il suo proprio peso. Tale soluzione, se diventasse legge, porterebbe di certo maggiore equità e un giusto equilibrio, non solo nel sistema del diritto penale, ma anche nella prassi giudiziaria. 9.4. Per quanto attiene al concorso di circostanze abbiamo previsto che nel caso di concorso di più circostanze, anche eterogenee, si applicano nell’ordine gli aumenti e le diminuzioni per ciascuna di esse partendo da una pena-base determinata in rapporto alla gravità del reato, inclusi tutti gli elementi che non siano già previsti dalla legge come circostanze del reato. In nessun caso la pena detentiva può essere aumentata o diminuita oltre i due terzi dei limiti edittali. In ogni caso, però, se per il delitto la legge stabilisce la pena della reclusione di anni trenta la pena non può essere comunque inferiore a diciotto anni nè superiore ad anni trenta. 9.5. Per quanto riguarda le circostanze erroneamente supposte o non conosciute il disegno prevede che: a) le circostanze attenuanti sono valutate a favore dell’agente anche se da lui ignorate, o da lui per errore ritenute inesistenti, sempre che l’errore sia scusabile; b) se l’agente suppone erroneamente che esistano circostanze aggravanti, queste non sono valutate contro di lui; c) le circostanze aggravanti che l’agente non si poteva rappresentare non sono valutate contro di lui salvo il caso che siano state da lui ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. È importante che nel Comitato abbia trovato consenso unanime il principio che la supposizione erronea, non colposa, di circostanze attenuanti diminuisce la responsabilità penale ed attenua la pena. 9.6. Altro punto fermo di un sistema penale moderno improntato sulla colpevolezza è che il giudice, nell’accertamento della gravità del reato e nella valutazione della pena, non solo dovrà tener conto della intensità del dolo e del grado della colpa (come già stabilisce il codice vigente all’articolo 133), ma dovrà essere messo in grado de jure condendo di decidere che gli elementi oggettivi di aggravamento della responsabilità penale possono operare solo se riflessi nella volontà colpevole dell’agente. Questo principio è inserito quale comma aggiuntivo alla disposizione che riguarda le circostanze aggravanti. 9.7. In realtà esiste, come viene comunemente rilevato, una disfunzione nell’ambito delle circostanze aggravanti ed attenuanti che sono troppo numerose sia nel codice, sia nella legislazione penale non codificata.


— 958 — Non si può certo negare che quando il reato, sotto un profilo oggettivo o soggettivo, si presenta tanto grave o lieve da superare il quadro medio della previsione normativa, e quindi il potere del giudice di spaziare fra un minimo e un massimo di pena edittale non è sufficiente a determinare la giusta pena, è necessario prevedere « circostanze » del reato per aggravare o mitigare la pena stessa. Ma proprio in sede di Comitato, meditando sull’argomento, ponendosi alcune domande di fondo, quando si trattava di decidere su alcuni punti qualificanti della riforma delle circostanze ci si è accorti che per una ragione o l’altra prevaleva la tesi di mantenere in larga parte le circostanze esistenti, anche per la considerazione che queste erano entrate nel costume sociale ed avevano il suffragio di una giurisprudenza consolidata. In sostanza, tutti d’accordo di eliminare alcune circostanze già da tempo nel mirino della critica (oltre a quelle « dell’aver agito per suggestione di una folla in tumulto » ed alla aggravante « teleologica »), ma il tentativo di riformare profondamente il settore limitando a poche ipotesi soltanto le circostanze aggravanti e attenuanti non è riuscito e la speranza di poter attuare una valida riforma del settore, operando dei tagli netti e lasciando solo poche circostanze che si riferiscono ad ipotesi che escono dal quadro medio del fatto delittuoso previsto dalla norma, non è stata possibile da realizzare non già per mancata volontà del Comitato, ma per le sopra riferite ragioni obiettive. Certo, una drastica riduzione avrebbe potuto dare spazio al giudice penale di poter fissare la pena base, in ragione della particolare gravità o tenuità del fatto, tra il minimo e il massimo della pena edittale prevista per quel determinato reato, senza quella fatica improba della ricerca di circostanze aggravanti o attenuanti, ad efficacia comune o speciale, oggettive o soggettive, comuni o speciali, ad effetto speciale o meno, e via dicendo, che intralcia la prassi giudiziaria; tanto più che la relativa ricerca è di difficile attuazione nel processo accusatorio e nel patteggiamento. Se si pensa poi che, nel sistema vigente, nei casi di concorso di circostanze sono richiesti un giudizio di equivalenza o prevalenza e un’indagine sulla loro compatibilità, si arriva alla conclusione che in questo campo non bastavano semplici restauri, ma ci vorrebbe una modifica radicale di tutto l’impianto. 9.8. Ciò nondimeno alcune serie modifiche sono state proposte anche in questo settore per le circostanze aggravanti comuni che si possono ora così riassumere: a) l’avere agito per motivi abietti o futili; b) l’avere usato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone; c) l’avere profittato della situazione del luogo ovvero delle circostanze di tempo, o di persona idonee ad ostacolare la pubblica o la privata difesa; d) l’avere cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale rilevante ovvero l’aver causato un evento offensivo di particolare gravità; e) l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del reato commesso; f) l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, o contro una persona rivestita della qualità di ministro di un culto ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, dell’Unione europea o di un organismo internazionale riconosciuto dallo Stato italiano, che sta adempiendo alle sue mansioni; g) l’avere commesso il fatto con abuso di autorità, di pubblica funzione, di relazioni domestiche, di relazione d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità; h) l’avere, nei delitti contro la persona e contro il patrimonio, agito a scopo di terrorismo o di intimidazione mafiosa; i) l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento. In particolare si è proposta l’abrogazione di alcune aggravanti del codice vigente e precisamente dell’articolo 61, n. 2 (l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sè o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato), dell’articolo 61, n. 6 (l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato), e dell’arti-


— 959 — colo 61, n. 9 (l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a un pubblico ufficio). 9.9. Le attenuanti, secondo le modifiche proposte dal Comitato, sono le seguenti: a) l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; b) l’aver reagito ad una provocazione non determinata da precedente comportamento ingiusto dell’agente; c) l’aver agito perché costretto da condizioni familiari, economiche o sociali particolarmente difficili; d) l’aver commesso il reato in presenza di uno stato emotivo particolarmente intenso, che in quanto proporzionato alla situazione che l’ha determinato sia indice di una minore rimproverabilità; e) l’avere cagionato un evento offensivo di particolare tenuità; f) l’aver concorso a determinare l’evento il fatto doloso della persona offesa; g) l’essersi, prima del giudizio, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato; h) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso, ovvero mediante le restituzioni; i) l’avere, durante il giudizio, ma comunque prima della sentenza di primo grado, riparato il danno mediante risarcimento di esso o mediante le restituzioni nella misura e nei limiti concordati con la persona offesa. 9.10 Una innovazione di rilievo che dovrà, con l’andare degli anni, sostituire la legislazione sui pentiti, è la previsione della circostanza attenuante della collaborazione, la quale concerne la persona che, fuori dei casi previsti da disposizioni speciali, entro sessanta giorni dalla consumazione del reato e comunque prima che in relazione a questo sia iniziata l’azione penale, aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione del fatto ovvero per la individuazione o per la cattura degli altri autori del reato ovvero per la individuazione della destinazione delle cose che costituiscono il prezzo del reato o che ne sono il profitto o il prodotto. 9.11. Largamente discussa è stata anche nel Comitato la proposta di abrogazione delle circostanze attenuanti generiche, che hanno da sempre avuto una esistenza travagliata. Previste dal Codice Zanardelli, poi abrogate nel 1930 dal Codice Rocco, reinserite dal decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288, sono nuovamente proposte per l’abolizione nel progetto di riforma Vassalli-Pagliaro. Sembra contraddittorio, ma anche i fautori della restrizione dell’ambito delle circostanze si sono battuti per mantenere in vita le attenuanti generiche. Esse hanno una loro chiara funzione, dando al giudice almeno un poco del potere che ha il suo equivalente nei Paesi anglosassoni; poter commisurare la pena valutando tutti quegli elementi soggettivi ed oggettivi che determinano la gravità del fatto. È vero che, in atto, nelle sentenze non c’è nemmeno l’ombra di una motivazione adeguata, per cui siamo scivolati in una benevola e discrezionale, quasi mai negata, « concessione » del giudice, il che nuoce alla finalità della pena e con ciò alla serietà del sistema. Ma a ciò il Comitato ha ritenuto di poter ovviare, almeno parzialmente, chiedendo rigore nella scelta dei casi e rigore nelle relative motivazioni, con una formula del seguente tenore: « il giudice, oltre alle circostanze prevedute dalla legge, può prendere in considerazione altre circostanze diverse specificatamente indicate, soltanto qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate, in ogni caso, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze attenuanti previste dalla legge ». X.

Imputabilità.

10.1. Il principio universalmente riconosciuto che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non aveva la


— 960 — capacità d’intendere e di volere (articolo 85), non ha ovviamente fatto sorgere questioni di particolare rilievo, salvo un riesame della cosiddetta « terza dimensione » cioè quella « affettiva ». I punti sottoposti, invece, ad un attento esame del nostro Comitato riguardavano: il concetto di « infermità », posto dall’attuale codice alla base dell’accertamento del vizio totale (o parziale) di mente (articoli 88 e 89); la questione degli « stati emotivi o passionali » che secondo il sistema vigente non escludono nè diminuiscono l’imputabilità (articolo 90); la valenza, o meno, nel futuro assetto penale del principio secondo il quale non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni (articolo 97). 10.2. Sin dall’epoca della promulgazione del codice penale, gli psichiatri e gli esperti di psicopatologia forense criticarono il disposto dell’articolo 88 per il quale non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per « infermità », in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere. Si è fatta presente la impossibilità per lo psichiatra non solo di far rientrare in tale concetto le psicopatie, le neurosi ed altro, ma addirittura di identificare ciò che il codice intende per « infermità », concetto che può essere esteso ovvero ristretto a volontà dal perito o dal giudice, non essendo possibile stabilire con esattezza la sua nozione e i suoi limiti. All’incertezza del diritto sorta intorno a questo concetto di non chiara, per non dire di impossibile identificazione, la Commissione Vassalli-Pagliaro ha ritenuto di poter sopperire con una estensione dell’ambito. Il suggerimento è quello di prevedere quali motivi di esclusione dell’imputabilità i casi in cui il soggetto, al momento della condotta, era « per infermità » o « per altra anomalia » ovvero « per altra causa » in uno stato di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere. 10.3. L’introduzione del concetto di « anomalia » è certamente opportuna. Esso segue l’impostazione accolta dalle più moderne legislazioni penali europee che prendono in considerazione anche quei « disturbi psichici » che non rientrano nel concetto di « infermità ». Nel codice penale tedesco, dal quale il concetto è stato preso in prestito, si parla di « gravi altre anormalità psichiche » (§ 20: schwere andere seelische AbartigKeiten) per identificare le psicopatie » (disturbi della personalità) e le « nevrosi » in genere, concetti ben distinti dalle infermità psichiche internazionalmente fissate e classificate. Nella determinazione del concetto il Comitato è stato estremamente preciso ed onde ovviare a future interpretazioni estensive o comunque distorte ha stabilito che deve trattarsi di « gravissima anomalia » per il vizio totale di mente e di « grave anomalia » per il vizio parziale di mente, soluzione che dovrebbe risolvere la discussione del passato su questo delicato argomento. 10.4. Particolare attenzione merita poi la proposta della Commissione Vassalli-Pagliaro di introduzione del concetto di « altra causa », quale ulteriore elemento di esclusione dell’imputabilità. Qui sorgono dubbi più che legittimi. Voler introdurre, oltre alle cause di esclusione dell’imputabilità basate sulla « infermità » ovvero sulla « anomalia », anche il concetto onnicomprensivo di « altre cause » vorrebbe dire non solo introdurre un concetto del tutto indeterminato, ma aprire expressis verbis la porta a tutti quegli impulsi irresistibili che possono spingere una persona a commettere un reato ovvero a quelle forze interiori alle quali il reo non ha saputo porre un freno. Molto meglio allora non dire nulla e limitarsi alla semplice statuizione che esclude l’imputabilità ogni qual volta manchi la capacità di intendere o volere. Senza aggiunte ulteriori. 10.5. Passiamo all’esame della questione se sia proprio necessario codificare gli « stati emotivi e passionali ». Nella relazione al Progetto Gonella il relatore senatore Leone aveva fatto giustamente rilevare « la inutilità dell’articolo 90 del codice penale ». Poiché a dare


— 961 — contenuto al vizio totale o parziale di mente occorre secondo il codice vigente l’esistenza di un’infermità è evidente che lo stato emotivo o passionale non incide sull’imputabilità, a meno che esso non si qualifichi come « infermità ». L’osservazione — peraltro condivisa da larga parte della dottrina e dalla giurisprudenza — è ineccepibile. Anche oggi, in sede di riforma, il nostro Comitato ha ritenuto che non convenga fare espresso richiamo agli « stati emotivi e passionali », che comunque potranno escludere la capacità di intendere e volere solo se connessi a « infermità o altre anomalie ». 10.6. Un discorso a parte merita l’incapacità di intendere o volere dovuta alla minore età. Il codice vigente dichiara non imputabile il soggetto che, al momento del commesso reato, non abbia compiuto il quattordicesimo anno, dando al giudice, ove ritenga la pericolosità sociale del minore, la potestà di sottoporlo alle diverse misure dell’ospedale psichiatrico giudiziario, del riformatorio o della libertà vigilata a seconda che la non punibilità del minore derivi da vizio di mente dovuto ad infermità psichica, sordomutismo o cronica intossicazione, ovvero dalla mancata maturazione connessa alla minore età. Qui il Comitato ha innovato sensibilmente. Per chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni, il giudice, pur avendo accertata la sua pericolosità sociale, cerca in quanto possibile di procedere alla rieducazione nella sua stessa famiglia con l’assistenza sociale da parte delle istituzioni pubbliche. Qualora ciò non fosse possibile o non fosse opportuno, ne ordina l’affidamento ad una comunità. 10.7. Per i minori che nel momento in cui hanno commesso il fatto, avevano compiuto i quattordici anni, ma non ancora i sedici, la pena è diminuita di due terzi. Se il minore nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto gli anni sedici ma non i diciotto, la pena è diminuita di un terzo, con l’aggiunta che quando la pena detentiva inflitta è inferiore a otto anni alla condanna non conseguono pene accessorie, salvo la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. 10.8. Una innovazione di notevole portata umana è la previsione che non è imputabile il minore di anni diciotto se il giudice ne accerta l’incapacità di intendere o di volere per « immaturità ». Il Comitato ha così affidato al giudice l’accertamento in positivo della condizione di « immaturità » del minore e le sue conseguenze. È senza dubbio un passo importante della riforma. Si pensi che una volta, se il minore degli anni diciotto fosse stato al momento del fatto in uno stato di immaturità, il giudice doveva, di regola, compiere una difficoltosa indagine, valutando il comportamento del soggetto in relazione alla natura dei singoli reati, le modalità del fatto delittuoso, la sua personalità, il suo contegno e la sua capacità di rendersi conto del disvalore sociale della sua condotta. Se tutto andava bene il vizio parziale di mente nell’infradiciottenne poteva sfociare in un giudizio di responsabilità diminuita, con tutte le conseguenze della pena prima, e della insensata misura di sicurezza poi. Ci sentiamo quindi di concludere che la nuova soluzione è caratterizzata da maggiore ragionevolezza. 10.9. Passiamo ad altro argomento discusso nel Comitato (purtroppo non si è potuto estendere il dialogo agli esperti di psicopatologia forense e in genere di criminologia e psichiatria forense), che riguarda la disciplina del « vizio parziale di mente » e dei cosidetti « semiimputabili », che ha assunto dimensioni inflazionistiche e in parte di eccessiva « generosità ». Vi è chi vuole vederla abolita. Vi è chi, invece, ritiene opportuno « riconfermarle dignità e validità » (relazione e schema della Commissione Vassalli-Pagliaro). Il Comitato ha ritenuto che la norma sul vizio parziale di mente debba essere mantenuta aggiungendo solo il riferimento alla « grave anomalia psichica » e mutando i limiti di pena. La norma nel disegno è quindi così proposta: « Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per grave anomalia psichica, in tale stato di mente da scemare


— 962 — grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita fino ad un terzo ». XI.

Recidiva, abitualità e professionalità nel reato.

11.1. La recidiva, che costituisce la ricaduta nel reato dopo una precedente condanna, va considerata, a tutti gli effetti di legge, quale circostanza aggravante. Abbiamo distinto la recidiva a seconda che si tratti di delitto o contravvenzione. 11.2. Per i delitti abbiamo previsto un aumento di pena che è diversificato a seconda delle circostanze di cui all’articolo 87. 11.3. Per le contravvenzioni abbiamo previsto una disposizione innovativa che tende a prevenire soprattutto le reiterazioni specifiche. Infatti, per chi dopo essere stato condannato per una contravvenzione commetta un’altra contravvenzione della stessa indole si prevede che la pena dell’ammenda sia aumentata della metà. Ma in caso di contravvenzione reiterata specifica il contravventore è punito con la pena dell’ammenda aumentata al doppio e con pene accessorie. Si prevede infatti che in tal caso « le pene accessorie previste dagli articoli 26, 27, 28 e 29 conseguono di diritto se la contravvenzione è commessa nell’esercizio delle relative attività ovvero è ad esse pertinente ». 11.4. Riguardo all’accertamento della abitualità o professionalità, che sono circostanze aggravanti del reato, abbiamo tolto ogni ipotesi di presunzione. Inoltre, abbiamo ancorato la decisione del giudice ad una più rigorosa indagine sulla colpevolezza. 11.5. L’ipotesi della « tendenza a delinquere », prevista dall’articolo 108 del codice vigente, peraltro raramente applicato dalla prassi, è stata, dopo ampia critica e discussione, eliminata dal nostro progetto di riforma. XII.

Concorso di persone nel reato.

12.1. In ordine al concorso di persone, il Comitato si è soffermato in modo particolare sul caso del « reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti » (articolo 116 del codice vigente) che abbiamo già esaminato sopra, trattando della colpevolezza (6.8). Per le altre disposizioni in materia, visto che la dottrina e la giurisprudenza hanno dato una interpretazione costante, si è ritenuto opportuno non innovare troppo tenendo presente però che l’ambito doveva essere rinnovato sotto il profilo della colpevolezza e della differenziazione dei contributi dati dalle persone che hanno concorso nel reato, che di regola meritano un diverso trattamento penale. 12.2. I punti modificati più salienti riguardano: a) si è previsto che quando più persone volontariamente concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, nei limiti di quanto disposto dagli articoli 96 e seguenti; b) le circostanze attenuanti hanno trovato una precisazione nel senso che il giudice, qualora ritenga che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto limitata importanza nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva del reato, può diminuire la pena fino a due terzi; c) il concorso di persona non imputabile o non punibile è stato regolato nel senso che « le disposizioni sul concorso di persone nel reato si applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per le sue condizioni o per cause personali ». 12.3. Sempre in ordine alle attenuanti è stata proposta una innovazione a favore delle persone che si dissociano, con la previsione che la pena è diminuita da un terzo fino a due terzi per chi, essendo concorso nel reato, si dissocia dagli altri prima del giudizio, adoperandosi efficacemente per impedire che l’attività criminosa sia portata a conseguenze ulteriori, o fornisce all’autorità giudiziaria o di polizia prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti. 12.4.

Infine, in ordine alla valutazione delle circostanze e delle cause di giustificazione


— 963 — abbiamo previsto che ai concorrenti si estendono soltanto le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché quelle circostanze soggettive che sono servite ad agevolare l’esecuzione del reato. XIII.

Richiesta di procedimento.

13.1. Per la richiesta di procedimento, oltre ad altre modifiche di minore portata, il Comitato ha ritenuto di prevedere che per i delitti commessi all’estero la richiesta del Ministro di grazia e giustizia non può essere più proposta, decorsi cinque mesi dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce reato e in nessun caso decorsi cinque anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato. XIV.

Applicazione ed esecuzione della pena.

14.1. Per definire la discussione in atto sull’obbligo di motivazione del giudice e sugli elementi da valutare agli effetti della pena, abbiamo ritenuto necessario precisare che il giudice applica la pena discrezionalmente nei limiti fissati dalla legge facendo richiamo agli elementi che hanno avuto un ruolo determinante nella decisione. 14.2. In ordine agli elementi di valutazione per l’applicazione della pena il Comitato ha apportato notevoli modifiche prevedendo: — che il giudice giustifichi il suo potere discrezionale tenendo conto della gravità del reato desunta, oltre che dagli altri elementi previsti dalla legge, dai seguenti fattori oggettivi e soggettivi inerenti al reato: a) la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità della condotta; b) il disvalore complessivo del fatto; c) l’intensità del dolo o il grado della colpa; — che il giudice tenga conto altresì dei seguenti fattori, purché trovino riscontro anche nella colpevolezza dell’agente: a) la gravità del danno cagionato coscientemente alla persona offesa dal reato; b) i motivi che hanno spinto l’agente a commettere il reato; c) la condotta contemporanea e susseguente al reato coscientemente tenuta dall’agente; — che possano essere valutate solo a favore del reo la capacità di commettere nuovi reati, il carattere del reo, i precedenti penali e giudiziari, la condotta e il modo di vita del reo, la condotta antecedente al reato, le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. 14.3. Mantenendo la previsione del pagamento rateale della multa o dell’ammenda abbiamo stabilito la regola di cinque rate mensili che in casi eccezionali può essere portato dal giudice a trenta rate mensili, nel qual caso però l’ammontare delle rate è calcolato aggiungendo il tasso di interesse legale. 14.4. Per il ragguaglio tra pene di specie diverse è previsto che ai fini del ragguaglio tra pene detentive un giorno di sanzione sostituiva equivale a un giorno di reclusione. 14.5. La conversione delle pene pecuniarie si attua nelle seguenti forme: a) le pene della multa e dell’ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato, sono convertite dal magistrato di sorveglianza in una delle seguenti pene sostitutive: libertà vigilata ovvero assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro; b) per l’equivalente giornaliero di pena pecuniaria non eseguita si computa un giorno di pena sostitutiva; c) la pena della libertà vigilata ovvero della assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro è stabilita dal magistrato di sorveglianza nei modi e nelle forme stabilite dal codice penale. 14.6. Per la pena della reclusione è detto che essa è scontata in carcere, con la previsione di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena se la persona è affetta da infezione da


— 964 — HIV incompatibile con lo stato di detenzione penale (in tal caso il giudice ordina il ricovero in strutture ospedaliere appositamente attrezzate). Il rinvio è pure obbligatorio se deve aver luogo nei confronti di donna incinta o se deve aver luogo nei confronti di donna che ha partorito da meno di sei mesi. In quest’ultimo caso il provvedimento è revocato qualora il figlio muoia o sia affidato dalla madre a una terza persona. Abbiamo ritenuto necessario precisare che il rinvio è obbligatorio anche se la esecuzione della pena deve aver luogo nei confronti di una persona che si trova in condizioni di infermità fisica tali da non consentire la detenzione. 14.7. Nel caso di infermità psichica sopravvenuta al condannato prima di dare inizio all’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale o durante l’esecuzione, che sia tale da impedire l’esecuzione della pena, il magistrato di sorveglianza ordina che il condannato sia ricoverato in un ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero nei casi meno gravi in una casa di cura e di custodia o in un istituto di terapia sociale. Il provvedimento di ricovero è revocato, e il condannato è sottoposto all’esecuzione della pena, quando sono venute meno le ragioni che hanno determinato tale provvedimento e non vi sia più bisogno di terapia. XV.

L’estinzione del reato e l’estinzione della sua procedibilità.

15.1. Per quanto riguarda la morte del reo, il Comitato ritiene opportuno distinguere fra il caso di morte dell’imputato avvenuta prima della condanna, che estingue la procedibilità del reato nei suoi confronti e la morte del reo dopo la condanna che fa cadere l’esecuzione della pena detentiva. 15.2. Per la remissione della querela si propone che: a) nel caso di morte del querelante il diritto di remissione può essere esercitato dagli eredi della persona offesa dal reato, allorchè tutti vi consentano; b) per gli infermi di mente non interdetti, il diritto di remissione è esercitato da un curatore speciale nominato dal giudice, previo accertamento della infermità. 15.3. Per facilitare il calcolo della prescrizione e renderlo più trasparente si propone che, al fine di determinare il tempo necessario a prescrivere, si abbia riguardo al massimo della pena della reclusione stabilita dalla legge quale pena edittale per il delitto consumato, senza tener conto degli aumenti e delle diminuzioni di pena previste dalla legge. 15.4. Riguardo alla sospensione del corso della prescrizione si propone che esso rimanga sospeso nei casi di autorizzazione a procedere a partire dal momento in cui il pubblico ministero effettua la relativa richiesta e durante l’impugnativa proposta dall’imputato. XVI.

Estinzione della pena e limitazione degli effetti della condanna.

16.1. Il Comitato ha ritenuto di dover stabilire gli effetti della estinzione della pena prevedendo che, salvo diversa disposizione di legge, agli effetti della legge penale l’estinzione della pena implica l’estinzione della pena principale, delle pene sostitutive, delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale. Non si estinguono, ma si trasmettono agli eredi, le obbligazioni civili nascenti dal reato e l’obbligo di rimborso delle spese giudiziali. 16.2. L’estinzione delle pene per decorso del tempo è stata così regolata: a) la pena restrittiva della libertà personale inferiore a tre anni si estingue nel termine di quattro anni; b) la pena restrittiva della libertà personale superiore ai tre anni si estingue con un decorso di tempo pari al doppio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a trenta e non inferiore a dieci anni; c) la pena della multa si estingue nel termine di otto anni a decorrere dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile; d) l’ammenda, invece, si estingue nel termine di cinque anni qualora non sia stato dato inizio all’esecuzione o non sia stato ingiunto il pagamento.


— 965 — 16.3. Per quanto riguarda la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale il Comitato propone che il giudice possa disporre la non menzione anche quando si tratti di una condanna per reato anteriormente commesso e a condizione che le pene, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio. Peraltro è previsto che tutte le pene, anche quelle pecuniarie, siano inserite nel casellario giudiziale, consentendo così al giudice l’accertamento della recidiva e della reiterazione. 16.4. Ampiamente motivata è la proposta del Comitato in ordine alla liberazione condizionale e alla sua revoca. In conformità alla impostazione di fondo data dal nostro disegno di legge alla pena, e soprattutto alla previsione che le pene sostitutive avranno larga applicazione nella prassi giudiziaria, l’istituto della liberazione condizionale perderà gran parte del suo peso, restando in sostanza un premio per la buona condotta e per il ravvedimento. La proposta del Comitato si lascia riassumere come segue: il condannato a pena detentiva che abbia scontato almeno quattro quinti della pena e che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto buona condotta e un comportamento complessivo tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento e probabile che egli si asterrà dal commettere ulteriori reati, può essere ammesso dal magistrato di sorveglianza alla liberazione condizionale, che potrà essere concessa sia in ordine alla pena della reclusione sia in ordine alle pene sostitutive dell’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro, agli arresti domiciliari e alla libertà vigilata. La liberazione condizionale della persona condannata alla pena della reclusione, che abbia scontato almeno quattro quinti di tale pena, fa scattare con anticipo l’esecuzione della pena sostitutiva o, se questa non è stata disposta, la messa in libertà della persona stessa. La liberazione condizionale della persona condannata alla pena sostitutiva, che abbia scontato almeno quattro quinti di tale pena, importa, come ovvio, la diretta messa in libertà della persona stessa. 16.5. Per quanto attiene alla revoca della liberazione condizionale va osservato che il Comitato è del parere che essa vada revocata se la persona che ha beneficiato della liberazione condizionale riporti una condanna per un delitto o una contravvenzione della stessa indole o per un delitto doloso, per il quale è prevista una pena superiore nel minimo a un anno, e se uno di tali reati è commesso entro cinque anni dalla data in cui ha avuto esecuzione la liberazione condizionale. XVII.

Obbligazioni civili derivanti dal reato.

17.1. L’obbligo delle restituzioni e del risarcimento del danno ha subìto nella proposta del Comitato una puntualizzazione su alcuni punti che hanno dato negli ultimi anni luogo a diverse interpretazioni giurisprudenziali. Nel disegno di legge si prevede che chi ha commesso un reato è tenuto alle restituzioni e al risarcimento del danno che sia conseguenza diretta del reato, obbligo che sussiste nei confronti della persona danneggiata dal reato, dei suoi successori universali o di chiunque altro abbia il relativo diritto di pretesa (intendendosi con tale formula fare riferimento a quelle associazioni, alle quali è riconosciuto il diritto di costituirsi parte civile). Altra previsione: oltre al colpevole e ai suoi successori universali sono tenuti alla restituzione e al risarcimento del danno il responsabile civile e le altre persone che, in forza di legge, sono tenute a rispondere. Per quanto riguarda i condannati per uno stesso reato, che sono obbligati in solido al risarcimento del danno, il Comitato ha ritenuto necessario precisare che tale principio non vale nel caso che le condotte dei compartecipi siano reciprocamente indipendenti. 17.2. Per quanto attiene alla riparazione parziale del danno mediante pubblicazione della sentenza di condanna il Comitato ritiene opportuno chiarire che la pubblicazione della sentenza di condanna costituisce solo uno dei mezzi per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato che il giudice può ordinare solo su richiesta del danneggiato e a spese del


— 966 — colpevole. Spesso, infatti, il danneggiato non vuole che si pubblichi, dato che la pubblicazione arrecherebbe altro danno, oltre a quello già sofferto. 17.3. In ordine all’obbligo di rimborso delle spese della esecuzione, va precisato, in una visione unitaria del progetto di riforma, che il condannato è obbligato a rimborsare all’Erario le spese sostenute dallo Stato per dar esecuzione alla pena della reclusione e alle pene sostitutive. L’obbligo di rimborso non si estende alla persona civilmente responsabile, e non si trasmette agli eredi del condannato. 17.4. Per quanto riguarda l’obbligazione civile per le multe e le ammende il disegno di legge prevede che tutti gli enti, e non solo quelli privati, siano tenuti al pagamento in sostituzione di chi, rappresentante o dipendente, sia insolvibile. Abbiamo aggiunto che ancorché l’obbligato civile per l’ammenda abbia pagato, non viene meno l’obbligo della conversione della pena pecuniaria nei modi previsti dalla legge. Questa soluzione che potrebbe sembrare illogica è invece conseguenziale ed obbligata, per rispetto del principio che la pena è personale. 17.5. Per quanto riguarda gli effetti dell’estinzione del reato, della perseguibilità del reato e della pena era opportuno prevedere che l’estinzione anzidetta non importa la estinzione dell’obbligo delle restituzioni o del risarcimento del danno derivanti dal reato. XVIII.

Misure di sicurezza per persone maggiori di età.

18.1. Totalmente innovato è il campo delle misure di sicurezza che nel nostro progetto di riforma sono applicabili solo a persone non imputabili che siano nel contempo dichiarate socialmente pericolose. Per l’esattezza è previsto che le misure di sicurezza possono essere disposte dal giudice solo nei confronti di persone dichiarate, con sentenza di assoluzione, non imputabili per totale incapacità di intendere e volere e dichiarate socialmente pericolose. Si propone inoltre che agli effetti della legge penale siano dichiarate socialmente pericolose le persone che hanno commesso uno o più fatti di particolare gravità preveduti dalla legge come reato, quando è probabile che commettano nuovi fatti preveduti dalla legge come reato e quando sussistano elementi di pericolosità desunti dalle circostanze indicate nell’articolo 112 (articolo 133 del codice vigente). Due importanti precisazioni riguardano da un lato il fatto che la pericolosità sociale derivante dalla incapacità deve sussistere, non solo nel momento del fatto, ma anche nel momento della sua dichiarazione e della applicazione della misura di sicurezza e dall’altro il fatto, di particolare rilievo, che l’esistenza o la permanenza della pericolosità sociale non si presumono. 18.2. Per quanto riguarda le specie di misure di sicurezza previste dal disegno di legge esse sono limitate a due detentive e una non detentiva. 18.3. Le misure di sicurezza detentive per le persone di maggiore età sono: a) il ricovero in una casa di cura e di custodia; b) il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. Misura di sicurezza non detentiva è il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche, nonché locali pubblici notturni. 18.4. Per le misure di sicurezza vale ovviamente, come per le pene principali, il principio di legalità e di certezza e per quanto riguarda la loro applicabilità rispetto al tempo si propongono le seguenti regole: a) le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo del fatto; b) se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa e più favorevole si applica la legge in vigore al tempo della esecuzione; 18.5. Nei confronti dello straniero non imputabile e dichiarato socialmente pericoloso si avanza la previsione che il giudice decida se sottoporre lo straniero non imputabile, ma socialmente pericoloso, che ha commesso nel territorio dello Stato un fatto che costituisce de-


— 967 — litto, a misure di sicurezza ovvero, salvo diversa disposizione di diritto internazionale o comunitario, disporre la sua espulsione dallo Stato. 18.6. L’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza è sottoposta a rigoroso accertamento continuo della permanenza della pericolosità sociale e quindi si propone che, prima della sentenza, previo accertamento della pericolosità sociale, il giudice possa disporre con ordinanza che le persone prive di capacità di intendere o volere siano provvisoriamente ricoverate in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia. Il giudice è obbligato però, con cadenza trimestrale ed alla presenza del difensore, a verificare la permanenza della pericolosità sociale revocando le misure quando ritiene che la pericolosità sociale sia cessata. 18.7. Totalmente innovata è la previsione di revoca e di estinzione della misura di sicurezza. Secondo il disegno di legge il giudice deve accertare una volta all’anno, alla presenza del difensore, la permanenza della pericolosità sociale; egli revoca le misure di sicurezza applicate, qualora sia cessata la pericolosità e non vi sia più bisogno di terapie. Per motivate ragioni l’accertamento relativo può essere disposto in qualsiasi momento. Quando sia cessata la infermità, o la grave anomalia psichica che ha determinato la non imputabilità, il giudice, accertato che la persona non è più socialmente pericolosa, dispone la estinzione della misura di sicurezza e ne ordina l’immediata cessazione di tutti gli effetti. 18.8. Di grosso rilievo e di ampia portata sono due specie di misure di sicurezza detentive. L’innovazione in questo settore è totale, ma con un occhio ed una attenzione al fatto di mantenere — pur con funzioni in larga parte nuove — istituzioni esistenti quale le « case di cure e custodia » e gli « ospedali psichiatrici giudiziari », istituti ai quali è stata assegnata una funzione più specifica e più consona alla funzione per la quale erano stati creati. 18.9. Il ricovero in una casa di cura e di custodia è previsto nei casi in cui la persona dichiarata totalmente incapace di intendere e di volere e dichiarata socialmente pericolosa ha compiuto un fatto per il quale la legge prevede una pena non superiore nel massimo a dieci anni di reclusione; quando particolari esigenze lo consigliano, la persona è ricoverata in una casa di cura e custodia con reparti di terapia appositamente attrezzati. Nel caso di incapacità derivata da cronica intossicazione da alcool, da sostanze stupefacenti, o da sordomutismo, la persona dichiarata socialmente pericolosa va invece ricoverata in una casa di cura e di custodia anche quando ha compiuto un fatto per il quale la legge prevede una pena che superi nel massimo dieci anni di reclusione; quando particolari esigenze terapeutiche lo consigliano, il magistrato di sorveglianza può ordinare il trasferimento in una comunità terapeutica pubblica o autorizzata. 18.10. La persona dichiarata totalmente incapace di intendere e di volere e dichiarata socialmente pericolosa, che ha compiuto un fatto per il quale la legge prevede una pena superiore nel massimo a dieci anni di reclusione, è invece ricoverata in un ospedale psichiatrico giudiziario. Il magistrato di sorveglianza può, se l’incapacità è derivata da gravissima anomalia psichica e quando particolari esigenze terapeutiche lo consigliano, ordinare il trasferimento in una casa di cura e custodia con reparti di terapia appositamente attrezzati. 18.11. La misura di sicurezza non detentiva è costituita dal divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni. Essa si attua con sentenza di assoluzione per non imputabilità derivante da cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, con contemporanea dichiarazione di pericolosità sociale da parte del giudice che dispone il divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni. Nel caso di trasgressione, il magistrato di sorveglianza ordina il ricovero in una casa di cura e di custodia. In ogni momento l’interessato può chiedere al magistrato di sorveglianza di poter prestare, in sostituzione del divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche


— 968 — e locali notturni, una cauzione di buona condotta che è data mediante deposito, presso la Cassa delle ammende, di una somma non inferiore a lire seicentomila, nè superiore a lire otto milioni. In luogo del deposito, è ammessa la prestazione di una garanzia mediante ipoteca o anche mediante fideiussione solidale. Qualora il deposito della somma non sia eseguito o la garanzia non sia prestata, il magistrato di sorveglianza sostituisce alla cauzione l’originario divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni. 18.12. La mancata presa in considerazione nel disegno di legge delle altre forme di ubriachezza, oltre a quella cronica qui considerata (e ovviamente oltre a quello preordinata) non è una svista, ma una chiara indicazione del Comitato. L’abuso di alcool e di stupefacenti volontario o abituale va preso in considerazione nella parte speciale del codice e non in quella generale. XIX.

Misure di sicurezza per minori.

19.1 Per le persone minori degli anni quattordici socialmente pericolose il Comitato ha previsto particolari affidamenti. 19.2. Anzitutto, qualora il fatto preveduto dalla legge come delitto sia commesso da un minore degli anni quattordici, per il quale il giudice accerta che è socialmente pericoloso, il giudice stesso, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, ne ordina l’affidamento a una comunità pubblica o autorizzata. Se il giudice, però, dovesse ritenere che l’ambiente familiare è adatto alla sua rieducazione, lo affida alla famiglia, disponendo che sia fornita ogni opportuna assistenza sociale da parte delle istituzioni pubbliche. 19.3. Per i minori che hanno compiuto i quattordici anni il disegno di legge prevede che se dichiarati non imputabili, ma socialmente pericolosi, sono affidati dal giudice ad una comunità pubblica o autorizzata. Qualora durante l’affidamento alla comunità pubblica o autorizzata il minore si sia rivelato particolarmente pericoloso e non idoneo ad avere in tale istituzione una efficiente rieducazione, il magistrato di sorveglianza ne dispone il ricovero in una comunità pubblica attrezzata a forme intensive di rieducazione e di reinserimento nella società. 19.4. A qualcuno il trattamento dei minori socialmente pericolosi può sembrare troppo mite. Ma il Comitato ha pensato che a questi giovani, in larga parte dimenticati dalla società, bisogna tendere la mano per reinserirli nel tessuto sociale. XX.

Vincoli derivanti dal diritto comunitario e dal diritto internazionale.

20.1. È fuori dubbio che il diritto comunitario non sia fonte diretta del diritto penale degli Stati membri della Comunità nel senso che non può imporre direttamente sanzioni penali. Ciò non toglie però che il diritto comunitario possa essere « fonte concorrenziale », avente « effetti derivanti » sull’ordinamento penale degli Stati stessi. I Trattati, i regolamenti (con la loro portata generale, obbligatoria in tutti i loro elementi e direttamente efficaci in ciascuno degli Stati membri) e le direttive comunitarie incidono infatti spesso e a volte profondamente sull’ordinamento penale degli Stati membri, obbligando il legislatore a riformare il diritto penale per adeguarsi ai vincoli diretti e indiretti che ne derivano. 20.2. Sin dagli anni ’60 era emerso che le disposizioni di diritto comunitario aventi efficacia diretta svolgono i loro effetti anche nei confronti delle disposizioni penali degli Stati membri. Questa era del resto una conclusione di logica evidenza: se la norma comunitaria deve trovare diretta applicazione nell’ordinamento interno degli Stati membri, non vi è ragione


— 969 — perché essa debba rimanere priva di efficacia di fronte ad una disposizione penale contrastante che vige (o che viene introdotta) in uno degli Stati stessi. Questo principio è ormai unanimemente accettato dalla dottrina e dalla giurisprudenza e in particolare anche dalla Corte costituzionale, la quale ha chiarito in termini inequivocabili, che le norme comunitarie operano direttamente nell’ordinamento interno come norme investite di forza o valore di legge « vale a dire come norme che, nei limiti delle competenze e nell’ambito degli scopi propri degli organi di produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario » (sentenza n. 389 del 4 luglio 1989). Ritiene però la Corte costituzionale che l’eventuale conflitto fra il diritto comunitario direttamente applicabile e quello interno, proprio perché suppone un contrasto di quest’ultimo con una norma prodotta da una fonte esterna avente un suo proprio regime giuridico e abilitata a produrre diritto nell’ordinamento nazionale entro un proprio distinto ambito di competenza, non dà luogo a ipotesi di abrogazione o di deroga, nè a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce solo « un effetto di disapplicazione di quest’ultima, seppure nei limiti di tempo e nell’ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono legittimate a svolgersi ». 20.3. Continua la Corte costituzionale, precisando « che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) (...) sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili.(...) Ciò significa, in pratica, che quei soggetti devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante la norma comunitaria.(...) Tuttavia, poiché la disapplicazione è un modo di risoluzione delle antinomie normative che, oltre a presupporre la contemporanea vigenza delle norme reciprocamente contrastanti, non produce alcun effetto sull’esistenza delle stesse e, pertanto, non può esser causa di qualsivoglia forma di estinzione o di modificazione delle disposizioni che ne siano oggetto, resta ferma l’esigenza che gli Stati membri apportino le necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie ». Essendo chiamati in causa, quali legislatori, non possiamo esimerci dal constatare che alla luce dei princìpi costituzionali e soprattutto del disposto dell’articolo 25 della Costituzione la sentenza n. 389 del 1989 appare coerente e precisa. Ma un dubbio rimane. Un dubbio che investe quella parte della sentenza della Corte costituzionale che, nel comprensibile intento di salvaguardare l’ordinamento vigente, dichiara che le norme comunitarie non avrebbero efficacia abrogativa ma solo un « effetto disapplicativo » della disposizione penale contrastante. Certo, per il giudice ordinario, che è vincolato alla legge, l’unica possibilità è quella della disapplicazione. Ma quali legislatori, possiamo veramente limitarci a dire che una norma penale, privata della sua efficacia erga omnes, che ha perso la sua efficacia precettiva e sanzionatoria, va solo « disapplicata »? Qui l’influenza del diritto comunitario si fa sentire al di là di una semplice incidenza disapplicativa, nella sua reale veste di « fonte concorrenziale », che priva la norma penale (precetto e sanzione) di ogni sua efficacia. 20.4. Che i legislatori degli Stati membri della Unione europea debbano adeguare il loro diritto penale alla normativa comunitaria preminente (o prevalente che dir si voglia) deriva oltre tutto anche da un preciso impegno comunitario. A norma dell’articolo 5 del Trattato, gli Stati membri devono non solo astenersi da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione dei suoi scopi, ma devono adottare tutte le misure generali e particolari per assicurare l’esecuzione degli obiettivi da esso derivanti. Ciò significa non solo eliminare dall’ordinamento le norme penali contrastanti (e non sono poche), ma significa, soprattutto, introdurre nuove norme penali atte a garantire che il diritto comunitario non subisca limitazioni o violazioni nei suoi campi propri quali l’am-


— 970 — biente, la libera circolazione di merci e cose, la sicurezza del lavoro, la ricerca e sviluppo tecnologico, la protezione dei consumatori, le reti telematiche e di telecomunicazione, e via dicendo. 20.5. La scelta recentemente operata con il Trattato di Maastricht (di cui alla legge 3 novembre 1992, n. 454) fa sorgere per i legislatori degli Stati membri un ulteriore impegno di riforma che in sostanza si concretizza nell’adempimento di un ulteriore obbligo legislativo derivante dal diritto comunitario. Ci riferiamo all’articolo K 1 del Trattato stesso che prevede: « Ai fini della realizzazione degli obiettivi dell’Unione, in particolare della libera circolazione delle persone, fatte salve le competenze della Comunità europea gli Stati membri considerano questioni di interesse comune i settori » della « lotta contro la tossicodipendenza » e della « lotta contro la frode su scala internazionale ». Tale impegno va realizzato « nel rispetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951, tenendo conto della protezione che gli Stati membri concedono alle persone perseguitate per motivi politici ». 20.6. Si aggiunga che sin d’ora si delinea la seria prospettiva che si pervenga alla creazione di fattispecie penali comuni per combattere la criminalità associata internazionale. Non è una prospettiva utopica, visto che gli incontri bilaterali di Bruxelles, tuttora pendenti, tendono a realizzare, sulla base della cooperazione, misure e norme comuni, dirette a combattere la criminalità organizzata e le associazione criminali di stampo internazionale. 20.7. Un ulteriore impegno di riforma del diritto penale sorge anche dal fatto che siamo tenuti a salvaguardare meglio gli « interessi finanziari » e i « mezzi finanziari » della Comunità nonchè il « bilancio generale dell’Unione europea » (entrate ed uscite). Come noto in assenza di un diritto penale comunitario sono i legislatori degli Stati membri che devono assicurare con apposite norme penali la integrità delle risorse proprie della Comunità e la regolarità delle contribuzioni e sovvenzioni concesse dalla Comuntà (o da chi per essa). L’articolo 209A del Trattato istitutivo impone, per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari della Comunità, l’adozione di misure equivalenti a quelle prescelte per combattere le frodi ai danni degli interessi finanziari degli Stati membri. Il legislatore italiano ha in una certa misura adempiuto a tale esigenza. Ricordiamo a questo proposito: l’articolo 640-bis del codice penale che introduce nel codice penale la « truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche » sia che queste provengano dallo Stato, che da altri enti pubblici o dalle Comunità europee; l’articolo 316-bis del codice penale che introduce nel codice penale la fattispecie della « malversazione a danno dello Stato » che può essere commessa anche a danno delle Comunità europee; l’articolo 34 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, che include nella nuova formulazione fra i diritti di confine « i prelievi e le altre imposizioni all’importazione o all’esportazione previsti dai regolamenti comunitari e dalle relative norme di applicazione », sancendo così che la frode di tali diritti costituisce contrabbando (articoli 282 e seguenti del testo unico). Quali ulteriori fattispecie che in sede di riforma del codice dovranno essere prese in considerazione pensiamo ai reati di concussione e di corruzione, sia che essi abbiano per soggetto attivo o passivo funzionari dello Stato (o dei relativi enti pubblici) ovvero funzionari delle istituzioni comunitarie, nonché nuove ipotesi di reato che siano in grado di porre un freno al dilagare delle frodi comunitarie in parte anche organizzate. 20.8. Che la tutela delle risorse proprie della Comunità non sia affidata alla libera scelta del legislatore nazionale ma che si tratti di un « obbligo derivato » dal diritto comuni-


— 971 — tario emerge con tutta evidenza anche dalla sentenza del 21 settembre 1989, relativa alla causa n. 68 del 1988, della Corte di giustizia delle Comunità europee che ha condannato la Grecia (nel cosiddetto affare del mais), rilevando in motivazione che, qualora una disciplina comunitaria non contenga una specifica norma sanzionatoria di una violazione o che rinvii in merito alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, l’articolo 5 del Trattato impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario. A tal fine, si legge in sentenza, « pur conservando la scelta delle sanzioni, essi devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per la violazione del diritto interno simili per natura ed importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva. Inoltre, le autorità nazionali devono procedere nei confronti delle violazioni del diritto comunitario con la stessa diligenza usata nell’esecuzione delle rispettive legislazioni nazionali ». 20.9. La giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee sta nell’affermazione di « preminenza » (detta anche « prevalenza » o « primato ») del diritto comunitario sul diritto interno. Secondo la Corte di giustizia delle Comunità europee, la preminenza deriva dal fatto che il diritto comunitario si trova in una posizione formale e sostanziale di sovraordinazione rispetto al diritto interno; le norme comunitarie hanno per loro natura, un rango superiore rispetto a quelle statali. Questo orientamento è stato motivato con ampiezza già nella sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 15 luglio 1964, relativa alla causa n. 6 del 1964, e si trova riconfermato anche nelle sentenze più recenti della Corte di giustizia stessa. Posta la premessa che le norme comunitarie aventi contenuto ed effetti dispositivi sono preminenti, la Corte di giustizia delle Comunità europee deduce la nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici delle norme interne contrastanti e, per quanto ci riguarda, delle norme penali che non sono in armonia con l’ordinamento comunitario. In particolare essa sottolinea la circostanza che quando sussistono norme comunitarie con contenuto dispositivo che devono entrare in vigore in modo contemporaneo ed uniforme in tutti i Paesi membri, non vi è più spazio alcuno per la norma interna: questa perde necessariamente ogni suo effetto giuridico e diventa priva di efficacia. La Corte di giustizia delle Comunità europee dichiara, inoltre, che la « preminenza » dell’ordinamento comunitario ha anche l’effetto di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, in quanto essi siano incompatibili con norme comunitarie o nella misura in cui cerchino di disciplinare una materia che rientra nella competenza esclusiva delle autorità comunitarie, anche se queste non abbiano ancora provveduto a regolamentare la relativa materia. Ne consegue che nel campo del diritto penale — ed è questo il ramo dell’ordinamento che qui ci interessa — da un lato sussiste l’obbligo di creare norme che tutelino le risorse proprie della Comunità e le sue finalità, dall’altro è fatto divieto ai Paesi membri di creare nuove norme che, minacciando sanzioni penali, costituiscano « ostacoli » alla libera ed uniforme attuazione del diritto comunitario. In sostanza per il legislatore nazionale si pone l’obbligo di adeguare il diritto penale alla normativa comunitaria non solo per adempiere agli impegni comunitari, ma anche per evitare che la Corte di giustizia delle Comunità europee rilevi il contrasto, con tutte le conseguenze inerenti. 20.10. Nessuno può prevedere il futuro. Ma è abbastanza probabile che assisteremo ad una sempre maggiore crescita di influenza del diritto comunitario sul diritto penale nazionale e ad un intensificarsi dei vincoli diretti ed indiretti che da ciò deriveranno per il legislatore nazionale. Da questa premessa emerge la necessità di dare costante attuazione nell’ordinamento italiano alle norme comunitarie, soprattutto alle direttive, delle quali in data 14 febbraio 1995 ben 237 risultavano non attuate.


— 972 — Visto che le cose stanno in questi termini, siamo del parere che sia opportuno separare i due campi d’azione, lasciando nel codice penale — per quanto riguarda i rapporti con il diritto comunitario — solo quelle disposizioni che hanno valenza permanente, raggruppando, invece, il settore sanzionatorio di attuazione del diritto comunitario in un testo unico che resti nel presente ed in futuro separato dal codice penale. Il codice, infatti, è per sua natura un fattore stabile. Il complesso di attuazione delle direttive è, invece, per sua natura, un fattore fluttuante. 20.11. A questo proposito il Comitato ha esaminato attentamente l’articolo 56 dello schema della Commissione Vassalli-Pagliaro, che tende a riassumere tutto l’ambito della questione in una disposizione di largo respiro. Esso dichiara che agli effetti della tutela penale bisogna assimilare gli interessi delle Comunità europee a quelli propri dello Stato o di altro ente pubblico italiano. Questa soluzione può andare bene come indicazione di principio per l’ambito degli interessi finanziari delle Comunità europee. Prevedere, però, una « assimilazione » di tutti gli interessi delle Comunità europee nell’alveo del diritto penale italiano sarà abbastanza arduo e la sua realizzazione non sarebbe certo facile. Una seconda perplessità a questo proposito deriva dall’articolo 13 delle disposizioni attuative dello schema della Commissione Vassalli-Pagliaro, il quale prevede che: « al fine di assicurare la centralità del codice penale nei casi in cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti, va stabilita la non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate da emanare nel tempo indicato per l’entrata in vigore del codice medesimo ». Tutti d’accordo che sia necessario realizzare con delega testi unici delle leggi speciali; ma sarà difficile, se non impossibile pretendere che essi siano completi a scanso di disapplicazione di quelle leggi speciali che non saranno espressamente richiamate. Certo, se dovessero rimanere fuori e quindi disapplicate delle leggi speciali varate in attuazione di norme comunitarie, sorgerebbero situazioni conflittuali di vasta portata. 20.12. Chiudiamo il discorso con un richiamo ad alcune questioni inerenti al diritto internazionale. Anzitutto, bisognerà allinearsi, nella parte speciale, al dettato della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, visto che il giudice italiano deve quantomeno valutare, alla luce dei princìpi sanciti dalla Convenzione europea, l’esigenza di una rigorosa applicazione al caso concreto, per evitare violazioni dei diritti fondamentali della persona, da essa riconosciuti e tutelati (Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 15 del 23 novembre 1988, imputato: Polocastro; Cassazione, sezione I, sentenza n. 2194 del 12 maggio 1993, imputato: Medrano). Indipendentemente dal fatto a quali fattori attribuire la forza di resistenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ed alle innumerevoli teorie sorte in dottrina) è certo che la Convenzione stessa ha una sua autonoma, particolare forza di resistenza, nei confronti delle leggi nazionali sia preesistenti sia successive, fermo restando il fatto che detta Convenzione ha una valenza prevalentemente processuale. Per quanto riguarda gli accordi internazionali abbiamo fatto espresso richiamo ad essi in tutti i punti nei quali era necessario. Altra questione è quella del ne bis in idem, sia sostanziale che processuale, che ha trovato nel nostro Comitato una soluzione che si allinea sia agli accordi di Schengen (la cui incidenza è relativa), sia agli accordi internazionali recepiti nell’ordinamento italiano. In particolare il Comitato ha cercato di adeguarsi agli obblighi internazionali con tre disposizioni che riflettono il fatto commesso all’estero (articolo 6), il riconoscimento di sentenza straniera (articolo 8) e la espulsione dello straniero dal territorio dello Stato (articoli 24 e 161). Del resto in ambito europeo bisogna essere un po’ più fiduciosi nella giustizia degli altri Paesi e non ritenere che solo il giudice nazionale attui seriamente la legge. 20.13.

L’ultima questione, alla quale facciamo richiamo, è quella inerente all’estradi-


— 973 — zione. Anch’essa merita un ripensamento sulla scia delle soluzioni adottate dagli altri paesi europei. Visto che l’istituto è disciplinato dalle convenzioni internazionali, fra cui la Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 (per la quale, in base all’articolo K3 del Trattato dell’Unione europea è prevista una procedura semplificata di prossima attuazione) e che esso è disciplinato anche dalla Costituzione nonché dagli articoli 697 e seguenti del codice di procedura penale, il Comitato ha concluso che non convenga disciplinare la materia anche nel codice penale. XXI.

Conclusione.

La relazione del Presidente del Comitato sulla parte speciale e lo schema dei libri secondo e terzo del codice sono pronte in una prima bozza. Il Comitato ha ritenuto però preferibile — anche in previsione di una eventuale chiusura anticipata della legislatura — concludere i lavori sulla parte generale e presentare il relativo disegno di legge. Questa scelta richiede nei prossimi mesi un forte impegno diretto all’approvazione del libro primo, con la conseguenza che i lavori del Comitato sulla parte speciale dovranno essere aggiornati al prossimo anno. Bisognava comunque definire prima di tutto i principi del libro primo del codice essendo chiaro che senza parte generale e senza aver fissato preventivamente i principi generali non sarebbe possibile affrontare sistematicamente e concretamente i temi di fondo della parte speciale e meno ancora si potrebbero prevedere reati e pene. Un’ultima considerazione: aver definito la parte generale prima di aver concluso la discussione sulla parte speciale, non significa affatto far entrare in vigore disgiuntamente le due parti del codice. Anzi, noi siamo del parere che tutti i libri del codice penale dovranno entrare in vigore contemporaneamente. Per questo abbiamo previsto una norma finale secondo cui le disposizioni del libro primo « entrano in vigore contestualmente all’entrata in vigore della parte speciale del codice penale relativa ai delitti e alle contravvenzioni ». DISEGNO DI LEGGE

TITOLO I.

LA LEGGE PENALE

ART. 1. (Tassatività e determinatezza della legge penale. Principio di stretta legalità). — 1. Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge. 2. Nessuno può essere punito con una pena, ovvero sottoposto a misure cautelari o altri effetti accessori, se non nei casi e con i limiti espressamente previsti dalla legge. 3. Per legge s’intendono la legge dello Stato e gli atti aventi forza di legge in tutto il territorio dello Stato. ART. 2. (Efficacia della legge penale nel tempo). — 1. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. 2. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore o un altro atto posteriore avente efficacia abrogativa o modificativa, non costituisce reato. Se vi è stata condanna definitiva, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali, e la sentenza o il decreto penale sono revocati. 3. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stato pronunciato decreto penale o sentenza irrevocabile. Tuttavia, se con decreto penale o sentenza irrevocabile è stata irrogata una pena non preveduta dalla legge posteriore più favorevole, ovvero una pena superiore al massimo consentito dalla legge posteriore più favorevole, il giudice dell’esecuzione determina, in conformità della legge posteriore, la pena da applicare tenuto conto di quella già scontata. 4. Se la legge modifica la pena durante la permanenza del reato, si applica la legge in vigore al momento della cessazione della permanenza; se la permanenza cessa entro quindici


— 974 — giorni dalla entrata in vigore della legge modificatrice, si applica la legge anteriore, quando essa è più favorevole al reo. 5. Le disposizioni di un decreto-legge più favorevoli al reo, che non sono state convertite in legge, si applicano limitatamente ai fatti commessi nel tempo in cui esse erano in vigore. 6. Le leggi eccezionali o temporanee, ancorchè abrogate o modificate, si applicano ai fatti commessi durante la loro vigenza, salvo che la legge disponga diversamente. 7. Per determinare il tempo in cui il fatto fu commesso si ha riguardo al momento in cui l’agente ha realizzato l’azione e, in caso di omissione, all’ultimo momento in cui avrebbe dovuto realizzarla. Non ha rilevanza il momento in cui si è verificato l’evento. 8. Per determinare il tempo in cui fu commesso il delitto tentato si fa riferimento al momento in cui il fatto incomincia ad avere rilevanza giuridico-penale come tentativo punibile a tutti gli effetti dell’articolo 54. 9. Per determinare il tempo in cui si producono gli effetti giuridici della legge penale valgono le seguenti disposizioni: a) per il computo del tempo si osserva il calendario comune; b) l’età della persona soggetta alla legge penale si considera raggiunta nel giorno corrispondente a quello della nascita; c) quando la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della decorrenza non è computato nel termine; d) quando la legge penale fa dipendere effetti giuridici dal tempo di esecuzione di una pena restrittiva della libertà o di una misura di sicurezza, si tiene conto del primo giorno di esecuzione. ART. 3. (Obbligatorietà della legge penale). — 1. La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini, apolidi o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. 2. La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini, apolidi o stranieri, si trovano all’estero, limitatamente però ai fatti che la legge italiana o il diritto internazionale considerano espressamente quali reati, ancorchè commessi all’estero. 3. Agli effetti della legge penale, sono considerati cittadini italiani le persone che sono in possesso della cittadinanza italiana. 4. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. ART. 4. (Ignoranza della legge penale). — 1. Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale salvo il caso di ignoranza inevitabile. ART. 5. (Efficacia della legge penale nello spazio: fatti commessi nel territorio dello Stato). — 1. Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana. 2. Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando ivi è realizzata o iniziata l’azione o l’omissione, ovvero si verifica, in tutto o in parte, l’evento. 3. Il delitto tentato si considera commesso nel territorio dello Stato se ivi è stato posto in essere anche uno solo degli atti idonei. 4. Nel caso di concorso di persone nel reato o nei reati associativi il fatto si considera commesso nel territorio dello Stato ancorchè solo uno dei concorrenti o associati abbia ivi posto in essere l’azione o l’omissione ovvero quando ivi si verifica in tutto o in parte l’evento. 5. Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. ART. 6. (Efficacia della legge penale nello spazio: fatti commessi all’estero). — 1. Salvo diversa disposizione degli accordi internazionali è punito secondo la legge italiana chiunque commette in territorio estero taluno dei seguenti reati:


— 975 — a) delitti contro l’umanità; b) delitti contro la personalità dello Stato italiano, contro l’Unione europea, e contro il Presidente della Repubblica; c) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; d) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano, e) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, violando i doveri inerenti alle loro funzioni; f) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. 2. È punito secondo la legge italiana, ma nei limiti di una pena minore se previsto dalla legge del luogo in cui il delitto è stato commesso, chiunque commette in territorio estero un delitto doloso lesivo della libertà o della integrità fisica di un cittadino italiano. 3. L’azione penale è subordinata alla richiesta del Ministro di grazia e giustizia. 4. È competente il giudice del luogo in cui è promossa l’azione penale. 5. Per i delitti procedibili a querela si procede solo su querela della persona offesa. ART. 7. (Rinnovamento del giudizio per fatti commessi all’estero). — 1. Nei casi indicati dagli articoli 5 e 6 il cittadino, lo straniero o l’apolide è giudicato nello Stato anche se sia stato giudicato all’estero. Tuttavia la pena detentiva scontata all’estero ovvero la custodia cautelare ivi sofferta si detraggono dalla durata complessiva della pena detentiva o dall’ammontare della pena pecuniaria che siano inflitte dal giudice italiano. ART. 8. (Riconoscimento delle sentenze penali straniere). — 1. Salvo diversa disposizione degli accordi internazionali, alla sentenza penale straniera divenuta irrevocabile, pronunciata per un delitto è dato riconoscimento a tutti gli effetti previsti dal codice penale: a) per stabilire la recidiva o un altro effetto penale secondario della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato; b) per stabilire la pena accessoria, quando la condanna, secondo la legge italiana, comporterebbe tale pena. 2. Se una persona dichiarata non imputabile da sentenza penale estera si trovi, nel territorio dello Stato, in condizioni tali da rendere necessarie misure di sicurezza, la corte d’appello delibera contestualmente in ordine al riconoscimento della sentenza straniera, alla dichiarazione di pericolosità sociale e alla misura di sicurezza da applicare. 3. Se si tratta di dare esecuzione solamente agli effetti civili di una sentenza penale straniera divenuta irrevocabile, la quale porta condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno ovvero contiene statuizioni aventi altri effetti civili, si applicano le disposizioni del diritto internazionale privato. ART. 9. (Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale). — 1. Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito. TITOLO II

LE PENE

CAPO I. Le pene in generale. ART. 10. (Pene principali: specie). — 1. Le pene principali stabilite per i delitti sono: a) la reclusione; b) la multa. 2. La pena principale stabilita per le contravvenzioni è l’ammenda. ART. 11. (Pene sostitutive: specie). — 1. Le pene sostitutive della pena della reclusione sono: a) l’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro;


— 976 — b) gli arresti domiciliari; c) la libertà vigilata; d) l’espulsione dello straniero dallo Stato. ART. 12. (Pene accessorie: specie). — 1. Le pene accessorie per i reati sono: a) l’interdizione da un ufficio pubblico; b) l’interdizione da una attività professionale o imprenditoriale; c) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; d) l’interdizione dalla capacità di contrattare con la pubblica amministrazione; e) l’interdizione dall’esercizio della potestà dei genitori. ART. 13. (Misure speciali: specie). — 1. Le misure speciali per i reati sono: a) la confisca; b) l’acquisizione pubblica. ART. 14. (Regole generali). — 1. Le pene principali e le pene sostitutive sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna. 2. Le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa. 3. Salvo che la legge disponga altrimenti le pene accessorie hanno la seguente durata: a) nel caso di condanna a pena detentiva, sola o congiunta alla pena della multa, la durata è quella della pena detentiva inflitta; b) nel caso di condanna alla pena della multa o dell’ammenda, la durata corrisponde alla metà della pena detentiva prevista per il caso che la pena pecuniaria fosse stata convertita; c) nel caso di conversione della pena pecuniaria, la pena accessoria consegue di diritto al momento in cui il provvedimento di conversione diventa definitivo ed ha una durata corrispondente alla pena convertita. 4. Quando, per effetto del cumulo con la pena principale e la pena sostitutiva, le pene accessorie risultino in concreto sproporzionate alla gravità del reato e superflue allo scopo di impedire la commissione di reati da parte del condannato, il giudice può con la sentenza di condanna escluderne o limitarne l’applicazione. 5. Le misure speciali sono ordinate dal giudice con la sentenza di condanna, con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, con la sentenza di non doversi procedere per incapacità di intendere e di volere della persona che ha commesso il fatto o con la sentenza che concede perdono giudiziale. CAPO II.

Le pene principali.

ART. 15. (Classificazione). — 1. Per pene detentive o restrittive della libertà personale si intendono la reclusione e le pene sostitutive. 2. Per ogni effetto giuridico le pene sostitutive si considerano alla stessa stregua della reclusione; ogni riferimento fatto dalla legge alla reclusione si intende esteso alle pene sostitutive. 3. Per pene pecuniarie si intendono la multa e l’ammenda. 4. La pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se convertita. ART. 16. (Reclusione). — 1. La pena della reclusione si estende da tre mesi a trenta anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati. Essa si computa e si applica a giorni, mesi ed anni. ART. 17. (Multa). — 1. La pena della multa consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a lire duecentomila, nè superiore a lire cento milioni. 2. Per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da lire cinquantamila a cinque milioni. ART. 18. (Ammenda). — 1. La pena dell’ammenda consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a lire settantacinquemila nè superiore a lire cinquanta milioni. ART. 19.

(Pene pecuniarie proporzionali). — 1. La legge può determinare casi nei


— 977 — quali le pene pecuniarie sono proporzionali. Le pene pecuniarie proporzionali possono essere ridotte dal giudice quando la condanna superi i limiti della ragionevolezza. CAPO III.

Le pene sostitutive.

ART. 20. (Applicazione delle pene sostitutive). — 1. Il giudice con la sentenza di condanna alla pena della reclusione superiore a venti anni può disporre che una parte della pena, in misura comunque non superiore a un sesto della pena della reclusione complessivamente inflitta, sia eseguita attraverso una delle pene sostitutive previste dal codice. 2. Nel caso si tratti di condanna alla pena della reclusione non superiore a venti anni il giudice può disporre che una parte della pena, in misura comunque non superiore a due terzi della pena della reclusione complessivamente inflitta, sia eseguita attraverso una delle pene sostitutive previste dal codice. 3. Nel caso di condanna alla pena della reclusione non superiore ad anni tre, ovvero ad anni cinque se si tratta di minore, il giudice può disporre che tutta la pena della reclusione sia eseguita attraverso una delle pene sostitutive previste dal codice. Questo beneficio non può essere goduto più di una volta ed è suscettibile di revoca da parte del magistrato di sorveglianza. 4. La pena sostitutiva ha la durata stabilita dal giudice e corrisponde, congiuntamente alla pena della reclusione, al tempo totale previsto dalla sentenza di condanna. 5. La legge stabilisce i casi in cui si applica la sola pena sostitutiva. ART. 21. (Assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro). — 1. L’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro può essere disposta solo nei confronti di soggetti che siano abili al lavoro e per le quali lo svolgimento di attività lavorativa adempia alla concreta finalità di rieducazione e di reinserimento nella società lavorativa. 2. Qualora il soggetto, senza giusta causa, non si adegui all’attività lavorativa, il giudice dell’esecuzione dispone che il periodo rimanente sia scontato in carcere quale reclusione. 3. Qualora il soggetto non intenda prestare il lavoro previsto nella colonia agricola o nella casa di lavoro, può chiedere al giudice della esecuzione, con domanda irrevocabile, di scontare la pena in carcere. ART. 22. (Arresti domiciliari). — 1. Il condannato agli arresti domiciliari non può allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza e non può comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono. 2. Se il magistrato di sorveglianza accerta che ricorrono particolari esigenze, può autorizzare il condannato a comunicare, entro determinati limiti di tempo, con persone specificatamente indicate. 3. Se il magistrato di sorveglianza accerta che il condannato non ha altre possibilità per provvedere alle indispensabili esigenze di vita o che versa in situazione di assoluta indigenza, può autorizzarlo ad esercitare, nei limiti di tempo e di luogo necessari, un’attività lavorativa che gli consenta di procurarsi i mezzi di sostentamento. ART. 23. (Libertà vigilata). — 1. Il giudice con la sentenza di condanna impone alla persona in stato di libertà vigilata due o più delle seguenti prescrizioni: a) divieto di espatrio; b) obbligo di presentarsi ad un determinato ufficio di polizia giudiziaria in giorni ed ore determinati; c) divieto di frequentare luoghi di pubblico spettacolo, anche sportivo; d) divieto di dimorare in un determinato luogo e di accedervi; e) obbligo di non allontanarsi dal territorio del comune o della provincia di abituale dimora; f) sospensione della patente di guida; g) divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora in giorni o periodi determinati;


— 978 — h) esecuzione di prestazioni lavorative di utilità sociale. A questa prescrizione può essere aggiunto l’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora per uno o due giorni alla settimana, non coincidenti con giorni in cui deve svolgere le prestazioni lavorative di utilità sociale. 2. Il giudice può imporre altre prescrizioni idonee a realizzare la funzione rieducativa della pena e ad evitare l’occasione di nuovi reati. 3. La sorveglianza della persona in stato di libertà vigilata è affidata al magistrato di sorveglianza che la esercita in modo da agevolare, anche mediante il lavoro, il reinserimento del condannato nella vita sociale e da favorirne la prestazione d’opera nell’interesse della collettività secondo le proprie attitudini. 4. La persona minorenne condannata ad una pena della reclusione non superiore a cinque anni che in base all’articolo 20, comma 3, è posta in libertà vigilata è affidata ai genitori o a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza. 5. Se una delle prescrizioni previste dal comma 1 non può essere realizzata o quando essa risulti eccessivamente gravosa il magistrato di sorveglianza, con provvedimento motivato, può sostituirla con un’altra delle prescrizioni previste dallo stesso comma. 6. Qualora la persona soggetta a libertà vigilata, senza giusta causa, non osservi le prescrizioni ad essa imposte, il magistrato di sorveglianza dispone che il periodo rimanente sia scontato in carcere quale reclusione. ART. 24. (Espulsione dello straniero dallo Stato). — 1. Salvo diversa disposizione di diritto internazionale o comunitario il giudice può ordinare l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero condannato a una pena detentiva non superiore a cinque anni quale pena sostitutiva di tutta o parte della pena inflitta. 2. Nei confronti dello straniero che trasgredisce all’ordine di espulsione pronunciato dal giudice, o che rientra nel territorio dello Stato prima che sia trascorso un tempo pari alla durata della pena, sono eseguite la pena detentiva e la pena pecuniaria previste nella sentenza di condanna senza possibilità di reiterare l’espulsione ed applicare altre pene sostitutive. CAPO IV.

Le pene accessorie.

ART. 25. (Applicazione delle pene accessorie). — 1. Le pene accessorie si applicano nei limiti e per i reati stabiliti nella presente legge e nelle leggi speciali. 2. Tutte le pene accessorie sono temporanee. ART. 26. (Interdizione da pubblici uffici). — 1. Salvo che dalla legge sia altrimenti disposto, l’interdizione da pubblici uffici priva il condannato: a) del diritto elettorale attivo e passivo e di ogni altro diritto o incarico politico; b) di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale, o di incaricato di pubblico servizio; c) dell’ufficio di tutore o di curatore, anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura; d) dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche; e) di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni indicati nel presente comma; f) della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nel presente comma. 2. Durante l’interdizione il condannato è privato della capacità di acquistare, di esercitare o di godere i diritti, uffici, servizi, qualità, gradi, titoli e onorificenze di cui al comma 1. 3. La legge determina i casi nei quali l’interdizione dai pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi. 4. La dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto importa l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo corrispondente alle condanne complessivamente conseguite. 5. Salvo gli altri casi previsti dalla legge l’interdizione consegue ad ogni condanna per


— 979 — delitti commessi con l’abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, ad un pubblico servizio o ad un ufficio previsto da questo articolo. ART. 27. (Interdizione da un’attività professionale o imprenditoriale). — 1. L’interdizione da un’attività professionale o imprenditoriale priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, una professione, arte, industria, commercio o mestiere, per cui è richiesto uno speciale permesso o una speciale abilitazione, autorizzazione, concessione o licenza dell’Autorità, e importa la sospensione degli atti relativi. 2. Salvo gli altri casi previsti dalla legge l’interdizione consegue ad ogni condanna per delitti commessi con l’abuso di una professione, arte, industria, o di un commercio o mestiere, o con la violazione dei doveri ad essi inerenti. ART. 28. (Interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese). — 1. L’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore e direttore generale, nonchè ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore. 2. Salvo gli altri casi previsti dalla legge essa consegue ad ogni condanna alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio. ART. 29. (Incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione). — 1. L’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. 2. Salvo gli altri casi previsti dalla legge l’incapacità di cui al comma 1 consegue ad ogni condanna per i delitti contro la pubblica amministrazione e per quelli commessi in danno o in vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa, ed importa l’interdizione dalla capacità di contrattare con la pubblica amministrazione. ART. 30. (Interdizione dall’esercizio della potestà dei genitori). — 1. La legge determina i casi nei quali la condanna importa l’interdizione dall’esercizio della potestà dei genitori. 2. Salvo diversa disposizione di legge la condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori importa l’interdizione dall’esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta. 3. L’interdizione dall’esercizio della potestà dei genitori importa anche l’incapacità di esercitare, durante la sospensione, qualsiasi diritto che al genitore spetta sui beni del figlio in base alla legge vigente. 4. Il giudice dà notizia dell’avvenuta interdizione al giudice tutelare il quale provvede con immediatezza nell’interesse dei minori. ART. 31. (Pubblicazione della sentenza penale di condanna). — 1. La sentenza di condanna a pena detentiva superiore a venti anni è pubblicata mediante affissione nel comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l’ultima residenza ed è inoltre pubblicata, per una sola volta, in uno o più giornali designati dal giudice. 2. La pubblicazione è fatta per estratto; essa è eseguita d’ufficio e a spese del condannato. 3. Gli altri casi nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata sono stabiliti dalla legge. CAPO V.

Le misure speciali.

ART. 32. (Confisca). — 1. Il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il fatto preveduto come reato, o delle cose che ne sono il prodotto. È sempre ordinata la confisca:


— 980 — a) delle cose che costituiscono il prezzo del reato; b) delle cose di cui è vietata dalla legge la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione. 2. Le disposizioni del primo periodo e della lettera a) del comma 1 non si applicano se la cosa appartiene a persona estranea al reato, salvo il caso che questa abbia affidato con colpa l’oggetto alla persona che ha commesso il fatto. 3. La disposizione della lettera b) del comma 1 non si applica se la cosa appartiene a persona estranea al reato e la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione possono essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa. ART. 33. (Acquisizione pubblica). — 1. Se il giudice accerta che l’autore o il partecipe ha conseguito dal fatto preveduto come reato un profitto, egli ordina, con la sentenza di condanna ovvero con la sentenza che dichiara l’incapacità di intendere o di volere dell’autore o del partecipe, l’acquisizione del profitto alle casse dello Stato che provvederà a distribuire la somma relativa a tutte le regioni proporzionalmente alla loro estensione, affinché provvedano a destinarli a scopi sociali o di pubblica utilità. 2. Se l’autore o il partecipe ha agito per conto o a favore di altro soggetto che attraverso il fatto ha ottenuto un profitto, l’ordine di acquisizione pubblica va esteso anche ad esso, ma il relativo ammontare dovrà essere accertato in un separato giudizio civile, nel quale saranno valutati il valore e l’entità del profitto conseguito. 3. L’acquisizione pubblica è postergata alle pretese delle persone offese dal reato. TITOLO III.

IL REATO

CAPO I. Il reato in genere. ART. 34. (Reato: distinzione fra delitti e contravvenzioni). — 1. I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice. ART. 35. (Rapporto di causalità). — 1. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se la sua azione od omissione non sia stata condizione indispensabile e necessaria per la realizzazione dell’evento dannoso o pericoloso. 2. Quando sussiste un obbligo giuridico attuale di salvaguardia del bene tutelato dalla legge, non impedire l’evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. ART. 36. (Concorso di cause). — 1. Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento. 2. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sè un reato, si applica la pena per questo stabilita. 3. Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. ART. 37. (Oggetto del reato). — 1. Oggetto del reato è il bene giuridico tutelato dalla norma. 2. La punibilità dei reati di pericolo concreto presuppone che il pericolo sia un elemento della fattispecie. 3. Quando la legge prevede la punibilità di una condotta che viola prescrizioni poste a tutela della sicurezza sociale, la violazione di tali prescrizioni costituisce reato se la ragione di sicurezza sociale figuri quale elemento della fattispecie. ART. 38. (Responsabilità per dolo o per colpa). — 1. Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà.


— 981 — 2. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente preveduti dalla legge. 3. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come contravvenzione se non lo ha commesso con dolo o con colpa salvo che la legge preveda la punibilità solo a titolo di dolo. ART. 39. (Elemento psicologico del reato). — 1. Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è preveduto e voluto dall’agente come conseguenza della propria azione od omissione posta in essere con la consapevolezza della offensività del fatto. 2. Risponde altresì a titolo di dolo chi prevede l’evento come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria azione od omissione e ne accetta il rischio. 3. Se la legge fa dipendere l’esistenza del delitto dalla sola azione od omissione che viola una prescrizione di legge, il delitto è doloso quando l’azione od omissione è voluta dall’agente con la consapevolezza di offendere il bene giuridico che la prescrizione tutela. 4. Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, se l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica come effetto prevedibile di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Se l’evento è conseguenza di prestazione d’opera che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, l’imperizia deve essere grave. 5. La distinzione fra reato doloso e reato colposo stabilita nel presente articolo per i delitti si applica altresì alle contravvenzioni ogniqualvolta per esse la legge faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico. ART. 40. (Condotte dolose aggravate da un evento non voluto). — 1. Quando la legge fa dipendere da una particolare conseguenza del fatto o dal verificarsi di una condizione estranea all’offesa tipica del reato una pena più grave, questa si applica all’agente o al partecipe solo quando tale conseguenza o tale condizione è a lui imputabile almeno per colpa. ART. 41. (Caso fortuito o forza maggiore o costringimento fisico). — 1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito, per forza maggiore o per costringimento fisico. 2. Il costringimento fisico deve essere tale che la persona la quale subisce violenza fisica non poteva resistere o comunque sottrarsi ad essa. Del fatto commesso risponde l’autore della violenza. CAPO II.

L’errore.

ART. 42. (Errore sul divieto). — 1. L’agente che ha commesso il fatto, senza la coscienza di tenere una condotta illecita per errore sul precetto, non è punibile quando l’errore non poteva essere evitato. 2. La punibilità non è esclusa nel caso di errore evitabile con l’uso di una normale diligenza, ma la pena è diminuita da un terzo alla metà. ART. 43. (Errore sul fatto). — 1. L’errore sul fatto che costituisce il reato o su uno degli elementi che costituiscono la fattispecie legale esclude la punibilità dell’agente. 2. L’errore sugli elementi differenziali tra più reati, importa la punibilità dell’agente per il reato meno grave. 3. L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato. 4. Se l’errore di cui al presente articolo è determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. 5. L’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso. ART. 44.

(Errore determinato dall’altrui inganno). — 1. Le disposizioni dell’articolo


— 982 — 43 si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo. ART. 45. (Errore sulle cause di giustificazione o di esclusione della pena e sulle cause soggettive di esclusione della responsabilità). — 1. Se l’agente ritiene per un errore scusabile che esistano cause di giustificazione, o di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. 2. Se l’errore è determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. ART. 46. (Reato supposto erroneamente e reato impossibile). — 1. Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato. 2. La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso. 3. Nei casi preveduti dai commi 1 e 2, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso. CAPO III.

Le cause di giustificazione.

ART. 47. (Consenso dell’avente diritto). — 1. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un bene col consenso della persona che può validamente disporne. 2. Chi pratica un’attività sportiva o partecipa a contese sportive assume validamente con il suo consenso il rischio delle possibili conseguenze lesive, anche mortali. Non sono però giustificate le condotte dolose o colpose che esulano dall’usuale esercizio dell’attività o contesa sportiva e le condotte dolose o colpose poste in essere dagli organizzatori. 3. Il consenso del paziente giustifica il trattamento medico e sanitario. Quando il paziente non è in grado di consentire, il trattamento è giustificato solo nei limiti consentiti dallo stato di necessità. In caso di dissenso del paziente, decide il giudice, salvo il caso di soccorso determinato dalla necessità urgente ed improrogabile di evitare che il paziente subisca un danno grave alla persona. 4. In nessun caso il consenso è valido, se in contrasto con l’ordine pubblico o il buon costume. ART. 48. (Consenso presunto). — 1. Non è punibile chi, in mancanza di un consenso effettivo dell’avente diritto, lede o pone in pericolo un bene altrui, a condizione che sussistano tutti i presupposti obiettivi per un consenso valido ed operante e che l’azione od omissione sia posta in essere per salvaguardare un bene dell’avente diritto, di maggior valore di quello sacrificato. 2. Nel caso di dissenso dell’avente diritto e nel caso in cui da circostanze obiettive emerga che egli non ha interesse che altri intervengano nell’ambito dei suoi beni tutelati, non si può fare ricorso al consenso presunto. ART. 49. (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere). — 1. L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. 2. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. 3. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per un errore scusabile abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. 4. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine, e semprechè l’esecuzione dell’ordine non costituisca manifestamente reato. ART. 50. (Difesa legittima). — 1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo at-


— 983 — tuale e non preordinato di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa e si riferisca a tutti gli elementi significativi dell’aggressione. ART. 51. (Uso legittimo delle armi). — 1. Non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere un’aggressione ingiusta o di vincere una resistenza illegittima all’autorità che non può essere superata con altri mezzi. 2. L’uso delle armi previsto nel comma 1 deve essere sempre proporzionato all’offesa e riferirsi a tutti gli elementi significativi dell’aggressione ingiusta o della resistenza illegittima. 3. L’uso delle armi è comunque legittimo quando tende ad impedire la consumazione in atto dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona a scopo di estorsione o rapina. È parimenti legittimo nei casi in cui non esista altro mezzo per impedire l’evasione di persona che si trova in stato di detenzione. 4. Il presente articolo si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. 5. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica che deve in ogni caso tenersi entro i limiti di liceità previsti dai commi da 1 a 4. ART. 52. (Stato di necessità). — 1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non causato, ovvero causato senza colpa, nè altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo e che il bene salvaguardato sia superiore a quello che deve soccombere. 2. Quando vi è la certezza di pericolo di vita la causa di giustificazione di cui al comma 1 si applica anche se il bene che deve soccombere è allo stesso livello di quello salvaguardato. 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. 4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia grave non provocata; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo. ART. 53. (Eccesso colposo). — 1. Quando esistono tutti i presupposti di fatto di una causa di giustificazione ma l’agente ecceda per colpa i limiti stabiliti dalla legge, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. 2. La disposizione del comma 1 si applica sia nel caso in cui l’agente provochi volutamente l’evento, perchè valuta erroneamente la situazione di fatto, sia nel caso in cui egli valuti esattamente la situazione di fatto, ma per un errore sulle modalità di esecuzione cagioni un evento più grave di quello che ne sarebbe di regola derivato. CAPO IV.

Il delitto tentato.

ART. 54. (Delitto tentato). — 1. Chi compie atti idonei, oggettivamente diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, con l’intenzione di cagionare l’evento, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. 2. Il colpevole del delitto tentato è punito con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. 3. Per la punibilità dei delitti di attentato e dei delitti in cui la condotta tipica sia descritta come volta alla produzione di un evento lesivo devono sussistere i presupposti e i requisiti di punibilità del delitto tentato. ART. 55.

(Desistenza e recesso). — 1. Se il colpevole volontariamente desiste dall’a-


— 984 — zione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sè un reato diverso. 2. Se il colpevole volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo a due terzi. CAPO V.

I reati commessi a mezzo della stampa.

ART. 56. (Reati commessi col mezzo della stampa). — 1. Salva la responsabilità dell’autore e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile di stampa periodica, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo. 2. Nel caso di stampa non periodica, le disposizioni di cui al comma 1 si applicano all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche se non sono state osservate le prescrizioni di legge sulla pubblicazione e diffusione della stampa periodica e non periodica. ART. 57. (Procedibilità). — 1. Se il reato commesso col mezzo della stampa è punibile a querela, istanza, o richiesta, anche per la punibilità dei reati preveduti dall’articolo 56 è necessaria querela, istanza o richiesta. 2. La querela, l’istanza o la richiesta presentata contro il direttore o vicedirettore responsabile, l’editore o lo stampatore, ha effetto anche nei confronti dell’autore della pubblicazione per il reato da questo commesso. CAPO VI.

Le circostanze del reato.

ART. 58. (Regole generali. Tassatività delle circostanze). — 1. Sono circostanze del reato quelle definite tali da espressa disposizione di legge. 2. Il giudice applica le circostanze con discrezionalità tenendosi nei limiti previsti dalla legge. ART. 59. (Circostanze erroneamente supposte o non conosciute) — 1. Le circostanze attenuanti sono valutate a favore dell’agente anche se da lui ignorate, o da lui per errore ritenute inesistenti. 2. Se l’agente suppone erroneamente che esistano circostanze attenuanti queste sono valutate a suo favore, sempre che l’errore sia scusabile. 3. Se l’agente suppone erroneamente che esistano circostanze aggravanti, queste non sono valutate contro di lui. 4. Le circostanze aggravanti che l’agente non si poteva rappresentare non sono valutate contro di lui, salvo il caso che siano state da lui ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. ART. 60. (Errore sulla persona dell’offeso). — 1. Nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. 2. Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti. 3. Le disposizioni del presente articolo non si applicano, se si tratta di circostanze che riguardano l’età o altre condizioni o qualità, fisiche o psichiche, della persona offesa. ART. 61. (Circostanze aggravanti comuni). — 1. Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: a) l’avere agito per motivi abietti o futili; b) l’avere usato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone; c) l’avere profittato della situazione del luogo ovvero delle circostanze di tempo, o di persona idonee ad ostacolare la pubblica o la privata difesa;


— 985 — d) l’avere cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità ovvero l’aver causato un evento offensivo di particolare gravità; e) l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del reato commesso; f) l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, o contro una persona rivestita della qualità di ministro di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, dell’Unione europea o di un organismo internazionale riconosciuto dallo Stato italiano, che sta adempiendo alle sue mansioni; g) l’avere commesso il fatto con abuso di autorità, di pubblica funzione, di relazioni domestiche, di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità; h) l’avere nei delitti contro la persona e contro il patrimonio agito a scopo di terrorismo o di intimidazione mafiosa; i) l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento. 2. Le circostanze oggettive di aggravamento della responsabilità penale possono operare solo se riflesse nella volontà colpevole dell’agente. ART. 62. (Circostanze attenuanti comuni). — 1. Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: a) l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; b) l’aver reagito ad una provocazione non determinata da precedente comportamento ingiusto dell’agente; c) l’aver agito perchè costretto da condizioni familiari, economiche o sociali particolarmente difficili; d) l’aver commesso il reato in presenza di uno stato emotivo particolarmente intenso, che, proporzionato alla situazione che l’ha determinato, è indice di una minore rimproverabilità; e) l’avere cagionato un evento offensivo di particolare tenuità; f) l’aver concorso a determinare l’evento il fatto doloso della persona offesa; g) l’essersi, prima del giudizio, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato; h) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso, ovvero mediante le restituzioni; i) l’avere, durante il giudizio, ma comunque prima della sentenza di primo grado, riparato il danno mediante risarcimento di esso o mediante le restituzioni nella misura e nei limiti concordati con la persona offesa; k) l’aver entro sessanta giorni dalla consumazione del reato e comunque prima che sia esercitata l’azione penale aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione del fatto ovvero per l’individuazione o per la cattura degli altri autori del reato ovvero per l’individuazione della destinazione delle cose che costituiscono il prezzo del reato o che ne sono il profitto o il prodotto. ART. 63. (Attenuanti generiche). — 1. Il giudice, oltre alle circostanze prevedute dalla legge, può prendere in considerazione altre circostanze diverse specificatamente indicate, soltanto qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate, in ogni caso, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze attenuanti previste dalla legge. ART. 64. (Aumento di pena nel caso di una sola circostanza aggravante). — 1. Quando ricorre una circostanza aggravante, e l’aumento di pena non è determinato dalla legge, la pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso è aumentata fino ad un terzo. 2. La pena della reclusione da applicare per effetto dell’aumento non può superare gli anni trenta. ART. 65. (Diminuzione di pena nel caso di una sola circostanza attenuante). — 1. Quando ricorre una circostanza attenuante, e la diminuzione di pena non è determinata dalla


— 986 — legge la pena, che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso è diminuita in misura non eccedente un terzo. ART. 66. (Concorso di circostanze). — 1. Nel caso di concorso di più circostanze, anche eterogenee, si applicano nell’ordine gli aumenti e le diminuzioni previsti per ciascuna di esse, partendo da una pena-base determinata in rapporto alla gravità del reato inclusi tutti gli elementi che non siano già previsti dalla legge come circostanza del reato. 2. In nessun caso la pena detentiva può essere aumentata o diminuita oltre i due terzi dei limiti edittali. 3. Se per il delitto la legge stabilisce la pena della reclusione di anni trenta la pena non può essere comunque inferiore a diciotto anni nè superiore ad anni trenta. ART. 67. (Circostanze oggettive e soggettive). — 1. Agli effetti della legge penale: a) sono circostanze oggettive quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità della condotta, la gravità del danno o del pericolo ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso; b) sono circostanze soggettive quelle che concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa o le condizioni e le qualità personali del colpevole o i rapporti fra il colpevole e l’offeso ovvero che ineriscono alla persona del colpevole. CAPO VII.

Il concorso di reati.

ART. 68. (Condanna per più reati con unica sentenza o decreto). — 1. Quando, con una sola sentenza o con un solo decreto, si deve pronunciare condanna per più reati contro la stessa persona, si applicano le disposizioni del presente capo. ART. 69. (Concorso di reati che importano pene detentive o pene pecuniarie della stessa specie). — 1. Se più reati importano pene detentive, si applica, previa determinazione della pena per ogni singolo reato, una pena unica, per un tempo eguale alla durata complessiva delle pene che si dovrebbero infliggere per i singoli reati. 2. Quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica la pena della reclusione di anni trenta. 3. Le pene pecuniarie della stessa specie si applicano tutte per intero. 4. Gli elementi di disvalore, che in concreto siano comuni a più reati sono presi in considerazione, ai fini della determinazione della pena, una sola volta. ART. 70. (Concorso di reati che importano pene pecuniarie di specie diversa). — 1. Se più reati importano pene pecuniarie di specie diversa, queste si applicano tutte distintamente e per intero. 2. Nel caso che la pena pecuniaria non sia stata pagata per intero, la somma pagata, agli effetti della conversione, viene detratta dall’ammontare della multa. ART. 71. (Pene concorrenti considerate come pena unica ovvero come pene distinte). — 1. Salvo che la legge stabilisca altrimenti, le pene della stessa specie concorrenti a norma dell’articolo 69 si considerano come pena unica per ogni effetto giuridico. 2. Le pene di specie diversa concorrenti a norma dell’articolo 70 si considerano egualmente, per ogni effetto giuridico, come pena unica della specie più grave. 3. Se una pena pecuniaria concorre con un’altra pena di specie diversa, le pene si considerano distinte per qualsiasi effetto giuridico. ART. 72. (Determinazione delle pene accessorie). — 1. Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna si ha riguardo ai singoli reati per i quali è pronunciata la condanna, e alle pene principali che, se non vi fosse concorso di reati, si dovrebbero infliggere per ciascuno di essi. 2. Se concorrono pene accessorie della stessa specie queste si applicano tutte per intero. ART. 73. (Limiti degli aumenti delle pene principali). — 1. Nel caso di concorso di reati preveduto dall’articolo 69, la pena da applicare a norma dello stesso articolo non può essere superiore al quadruplo della più grave fra le pene concorrenti, nè comunque eccedere:


— 987 — a) trenta anni, per la reclusione; b) lire duecento milioni per la multa e cinquanta milioni per l’ammenda; ovvero lire quattrocento milioni per la multa e cento milioni per l’ammenda, se il giudice si vale della facoltà di aumento indicata nel comma 2 dell’articolo 113. ART. 74. (Limiti degli aumenti delle pene accessorie). — 1. La durata massima delle pene accessorie temporanee non può superare, nel complesso, i limiti seguenti: a) dieci anni, se si tratta dell’interdizione dai pubblici uffici o dell’interdizione da una professione o da un’arte; b) cinque anni, se si tratta della sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte. ART. 75. (Concorso di pene inflitte con sentenze o decreti diversi). — 1. Le disposizioni degli articoli da 68 a 74 si applicano anche nel caso in cui, dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima, ovvero quando contro la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna. ART. 76. (Concorso formale. Reato continuato). — 1. È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge. 2. Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge. 3. Per violazione più grave s’intende quella che è passibile della pena in concreto più grave, fermo restando che è sempre più grave la violazione punita con pena detentiva. 4. Nei casi preveduti dal presente articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli da 68 a 75. ART. 77. (Offesa di persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta). — 1. Quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni degli articoli 61 e 62. 2. Qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino a un terzo. ART. 78. (Evento diverso da quello voluto dall’agente). — 1. Fuori dei casi preveduti dall’articolo 77, se, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. 2. Se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati. ART. 79. (Reato composto). — 1. Quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un reato, fatti che costituirebbero per se stessi reato, l’autore incorre soltanto nella pena prevista per il reato composto. 2. La causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato composto non si estende a quest’ultimo. 3. Si procede d’ufficio se la legge lo prevede per taluno dei fatti che sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti del reato composto. TITOLO IV.

IL REO E LA PERSONA OFFESA DAL REATO.

CAPO I. L’imputabilità. ART. 80.

(Capacità d’intendere e di volere). — 1. Nessuno può essere punito per un


— 988 — fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. 2. È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere. ART. 81. (Determinazione in altri dello stato d’incapacità allo scopo di far commettere un reato). — 1. Se taluno mette altri nello stato d’incapacità d’intendere o di volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato d’incapacità. ART. 82. (Stato preordinato d’incapacità d’intendere o di volere). — 1. La persona che con qualsiasi mezzo si è messa in stato di incapacità di intendere o di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa è punita, per il solo fatto di essersi messo in stato di incapacità, con la pena prevista per il fatto commesso, aumentata da un terzo alla metà. ART. 83. (Vizio totale di mente). — 1. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per gravissima anomalia psichica, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere. ART. 84. (Vizio parziale di mente). — 1. Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per grave anomalia psichica, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita fino ad un terzo. ART. 85. (Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti). — 1. Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni degli articoli 83 e 84. ART. 86. (Minori). — 1. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni. 2. Per il minore che nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni ma non ancora i sedici, la pena è diminuita di due terzi. 3. Per il minore che nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto gli anni sedici ma non i diciotto, la pena è diminuita di un terzo. 4. Non è imputabile il minore di anni diciotto se il giudice ne accerta l’incapacità di intendere o di volere per immaturità. 5. Quando la pena detentiva inflitta a un minore è inferiore a otto anni, alla condanna non conseguono pene accessorie salvo la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. CAPO II.

La recidiva, l’abitualità e la professionalità nel reato.

ART. 87. (Recidiva nei delitti). — 1. Chi, dopo essere stato condannato per un delitto, ne commette un altro, è sottoposto a un aumento a titolo di circostanza aggravante, fino ad un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato. 2. La pena è aumentata da un sesto fino ad un terzo: a) se il nuovo delitto è della stessa indole; b) se il nuovo delitto è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente; c) se il nuovo delitto è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena. 3. La pena può essere aumentata fino alla metà qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate nel comma 2. 4. In nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto. ART. 88. (Recidiva e reiterazione nelle contravvenzioni). — 1. Chi dopo essere stato condannato per una contravvenzione commette un’altra contravvenzione della stessa indole è punito a titolo di circostanza aggravante con la pena dell’ammenda aumentata della metà. 2. In caso di contravvenzione reiterata specifica il contravventore è punito con la pena dell’ammenda aumentata al doppio. 3. Nel caso di cui al comma 2, le pene accessorie previste dagli articoli 26, 27, 28 e 29,


— 989 — conseguono di diritto se la contravvenzione è commessa nell’esercizio delle relative attività ovvero è ad esse pertinente. ART. 89. (Reati della stessa indole). — 1. Agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse del presente codice ovvero da leggi diverse, nondimeno per le modalità di esecuzione, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni rendendo evidente la inclinazione del soggetto verso una medesima specie e forma di attività criminosa. ART. 90. (Abitualità nei delitti). — 1. È dichiarato delinquente abituale chi, dopo essere stato condannato per tre delitti non colposi, riporta un’altra condanna per delitto non colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, delle circostanze indicate nell’articolo 112 e della rilevante colpevolezza riferita al delitto per il quale procede, accerta che il colpevole è abitualmente dedito al delitto. ART. 91. (Abitualità nelle contravvenzioni). — 1. Chi, dopo essere stato condannato alla pena dell’ammenda per tre contravvenzioni non colpose della stessa indole, riporta condanna per un’altra contravvenzione, anche non colposa e della stessa indole, è dichiarato contravventore abituale, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, delle circostanze indicate nell’articolo 112 e della rilevante colpevolezza riferita alla contravvenzione per la quale si procede, accerta che il colpevole è abitualmente dedito al reato contravvenzionale. ART. 92. (Professionalità nel reato). — 1. È dichiarato delinquente o contravventore professionale, chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze indicate nell’articolo 112, vive abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato. 2. La dichiarazione di professionalità sostituisce quella di abitualità e non si cumula ad essa. ART. 93. (Condanna per vari reati con una sola sentenza). — 1. Le disposizioni relative alla dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato si applicano anche se, per i vari reati è pronunciata condanna con una sola sentenza. ART. 94. (Effetti della dichiarazione di abituatità o di professionalità nel reato). — 1. Oltre agli aumenti di pena previsti dalla legge, e a quelli stabiliti per la recidiva ed oltre ai particolari effetti indicati da altre disposizioni di legge, la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato costituisce una circostanza aggravante per ogni reato successivamente commesso comportando l’aumento della pena da un terzo alla metà. 2. La dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato può essere pronunciata in ogni tempo, anche dopo la esecuzione della pena; ma se è pronunciata dopo la sentenza di condanna, rimane ferma la pena inflitta e ai fatti commessi prima di tale dichiarazione non si applica l’aumento di pena previsto dal comma 2. CAPO III.

Il concorso di persone nel reato.

ART. 95. (Pena per coloro che concorrono nel reato). — 1. Quando più persone volontariamente concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni del presente capo. ART. 96. (Circostanze aggravanti). — 1. La pena da infliggere per il reato commesso è aumentata: a) se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti;


— 990 — b) per chi ha promosso od organizzato il concorso nel reato, ovvero diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo; c) per chi, nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette; d) per chi, fuori del caso preveduto dall’articolo 96, ha determinato a commettere il reato un minore di anni diciotto, o una persona in stato di incapacità psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi nella commissione di un delitto per il quale è prevista la reclusione superiore nel massimo a dieci anni. 2. La pena è aumentata fino alla metà per chi si è avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una condizione o qualità personale, nella commissione di un delitto per il quale è prevista la reclusione superiore nel massimo a dieci anni. 3. Se chi ha determinato altri a commettere il reato o si è avvalso di altri nella commissione del delitto ne è il genitore esercente la potestà, nel caso previsto dalla lettera d) del comma 1, la pena è aumentata fino alla metà e in quello previsto dal comma 2 la pena è aumentata fino a due terzi. 4. Le circostanze aggravanti di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1, si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile. ART. 97. (Circostanze attenuanti) — 1. Il giudice, qualora ritenga che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto limitata importanza nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva del reato, può diminuire la pena fino a due terzi. 2. La pena può altresì essere diminuita per chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni stabilite nelle lettere c) e d) del comma 1 dell’articolo 96. 3. La pena è diminuita da un terzo fino a due terzi per chi, essendo concorso nel reato, si dissocia dagli altri prima del giudizio, adoperandosi efficacemente per impedire che l’attività criminosa sia portata a conseguenze ulteriori, o fornisce all’autorità giudiziaria o di polizia prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti. Chi beneficia di questa circostanza attenuante non può beneficiare di quella prevista dall’articolo 62, comma 2. ART. 98. (Accordo per commettere un reato. Istigazione). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo. 2. Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza. 3. Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso. ART. 99. (Reato diverso o più grave di quello voluto da taluno dei concorrenti). — 1. Se è stato commesso reato diverso o più grave di quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde se ha previsto l’evento come conseguenza inevitabilmente connessa e concretamente possibile della propria condotta, e ne ha accettato il rischio. 2. Fuori dall’ipotesi di cui al comma 1, il concorrente risponde degli altri reati commessi. ART. 100. (Determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile). — 1. Le disposizioni sul concorso di persone nel reato si applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per le sue condizioni o per cause personali. 2. Chi ha determinato a commettere un reato una persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione o qualità personale, risponde del reato da questa commesso, e la pena è aumentata, se si tratta di delitto per il quale è prevista la reclusione superiore nel massimo a dieci anni. 3. Se chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la potestà, la pena è aumentata fino a un terzo o, se si tratta di delitti per i quali è prevista la reclusione superiore nel massimo a dieci anni, da un terzo a due terzi. ART. 101.

(Cooperazione nel delitto colposo). — 1. Nel delitto colposo, quando l’e-


— 991 — vento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. 2. La pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nell’articolo 100 e nelle lettere c) e d) del comma 1 dell’articolo 96. Art. 102. (Mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti). — 1. Se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l’offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Nondimeno, se questo è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena. ART. 103. (Valutazione delle circostanze aggravanti o attenuanti e delle cause di giustificazione). — 1. Le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono. 2. Ai concorrenti si estendono soltanto le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché quelle circostanze soggettive che sono servite ad agevolare l’esecuzione del reato. ART. 104. (Valutazione delle circostanze di esclusione della pena). — 1. Le circostanze soggettive le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono. 2. Le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. CAPO IV.

La querela della persona offesa dal reato.

ART. 105. (Diritto di querela). — 1. Ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi d’ufficio o dietro richiesta o istanza ha diritto di querela, manifestando la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato. 2. Per i minori degli anni quattordici e per gli interdetti, il diritto di querela è esercitato da chi è titolare della potestà dei genitori o dal tutore. 3. I minori che hanno compiuto gli anni quattordici e gli inabilitati possono esercitare il diritto di querela. Tale diritto può inoltre essere esercitato anche da chi è titolare della potestà dei genitori o dal tutore o dal curatore, nonostante ogni contraria dichiarazione di volontà del minore o dell’inabilitato. 4. Se la persona offesa dal reato è incapace e priva di un legale rappresentante, ovvero se il rappresentante si trovi con la persona medesima in conflitto di interessi, il diritto di querela è esercitato da un curatore speciale. ART. 106. (Estensione della querela). — 1. Nel caso di concorso di persone nel reato la querela proposta contro uno degli autori del fatto si estende di diritto a tutti coloro che hanno commesso il reato. 2. Il reato commesso in danno di più persone è punibile anche se la querela è proposta da una soltanto di esse. Art. 107. (Termine per proporre la querela. Rinuncia). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, il diritto di querela non può essere esercitato, decorsi tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato. 2. Il diritto di querela non può essere esercitato se vi è stata rinuncia espressa o tacita da parte di colui al quale ne spetta l’esercizio. 3. Vi è rinuncia tacita, quando chi ha facoltà di proporre querela ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di querelarsi. 4. La rinuncia alla facoltà di proporre la querela, e la rinuncia alla querela fatta da chi è titolare della potestà dei genitori o dal curatore, è valida solo se il minore che ha compiuto gli anni quattordici, o l’inabilitato, vi consentano espressamente. 5. La rinuncia si estende di diritto a tutti coloro che hanno commesso il reato.


— 992 — ART. 108. (Estinzione del diritto di querela). — 1. Il diritto di querela si estingue con la morte della persona offesa. 2. Se la querela è stata già proposta, la morte della persona offesa non estingue il reato. CAPO V.

La richiesta di procedimento.

ART. 109. (Richiesta di procedimento per delitti contro il Presidente della Repubblica). — 1. Qualora un delitto punibile a querela della persona offesa sia commesso in danno del Presidente della Repubblica, alla querela è sostituita la richiesta del Ministro di grazia e giustizia. 2. La richiesta del Ministro di grazia e giustizia non può essere più proposta, decorsi tre mesi dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce il reato. 3. La richiesta si estende a tutti coloro che hanno commesso il reato ed è irrevocabile. ART. 110. (Richiesta di procedimento per delitti commessi all’estero). — 1. Per i delitti commessi all’estero la richiesta del Ministro di grazia e giustizia non può essere più proposta, decorsi cinque mesi dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce reato e in nessun caso decorsi cinque anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato. TITOLO V.

L’APPLICAZIONE E L’ESECUZIONE DELLA PENA

CAPO I. L’applicazione della pena. ART. 111. (Limiti della discrezionalità nell’applicazione della pena). — 1. Il giudice applica la pena discrezionalmente nei limiti fissati dalla legge facendo richiamo agli elementi che hanno avuto un ruolo determinante nella decisione. 2. Nell’aumento o nella diminuzione della pena il giudice non può oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente determinati dalla legge. ART. 112. (Elementi di valutazione per l’applicazione della pena). — 1. Il giudice giustifica l’uso del suo potere discrezionale tenendo conto, oltre degli altri elementi previsti dalla legge, della gravità del fatto e della colpevolezza, desunti dai seguenti fattori oggettivi e soggettivi inerenti al reato: a) la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità della condotta; b) il disvalore complessivo del fatto; c) l’intensità del dolo o il grado della colpa. 2. Il giudice tiene conto altresì dei seguenti fattori, purché trovino riscontro anche nella colpevolezza dell’agente: a) la gravità del danno cagionato coscientemente alla persona offesa dal reato; b) i motivi che hanno spinto l’agente a commettere il fatto; b) la condotta contemporanea o susseguente al reato coscientemente tenuta dall’agente. 3. Possono essere valutate solo a favore del reo, la capacità di commettere nuovi reati, il carattere del reo, i precedenti penali e giudiziari, la condotta e il modo di vita del reo, la condotta antecedente al reato, le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. ART. 113. (Condizioni economiche del reo; valutazione agli effetti della pena pecuniaria). — 1. Nella determinazione dell’ammontare della multa o dell’ammenda il giudice deve tenere conto, oltre che dei criteri indicati dall’articolo 112, anche delle condizioni economiche del reo. 2. Il giudice può aumentare la multa o l’ammenda stabilita dalla legge per il reato sino al triplo, o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa. ART. 114.

(Pagamento rateale della multa o dell’ammenda). — 1. Il giudice, con la


— 993 — sentenza di condanna o con il decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l’ammenda venga pagata in cinque rate mensili. 2. In casi eccezionali il giudice può disporre che l’ammenda possa essere pagata in trenta rate mensili; in tal caso l’ammontare delle rate si calcola aggiungendo il tasso di interesse legale. 3. In ogni momento il condannato può estinguere la pena mediante un unico pagamento. ART. 115. (Ragguaglio tra pene di specie diverse). — 1. Quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra pene di specie diversa si osservano le seguenti regole. 2. Tra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando settantacinquemila lire, o frazione di settantacinquemila lire, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. 3. Ai fini del ragguaglio tra pena della reclusione e pene sostitutive un giorno di sanzione sostituiva equivale a un giorno di reclusione. ART. 116. (Conversione delle pene pecuniarie). — 1. Le pene della multa e dell’ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato, sono convertite dal magistrato di sorveglianza nella libertà vigilata ovvero nell’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro. 2. Per l’equivalente giornaliero di pena pecuniaria non eseguita si computa un giorno di pena sostitutiva. 3. La pena della libertà vigilata ovvero dell’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro è stabilita dal magistrato di sorveglianza nei modi e nelle forme previsti dal presente codice. ART. 117. (Computo delle pene accessorie). — 1. Nel computo delle pene accessorie non si tiene conto del tempo in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza. CAPO II.

L’esecuzione della pena.

ART. 118. (Esecuzione della pena della reclusione). — 1. La pena della reclusione è scontata in carcere. ART. 119. (Detenzione sofferta prima della sentenza). — 1. La detenzione sofferta prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile si detrae dalla durata complessiva della pena detentiva. 2. La disposizione del comma 1 si applica anche se si tratta di detenzione sofferta fuori dal territorio dello Stato. ART. 120. (Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena). — 1. L’esecuzione di una pena detentiva è differita: a) se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione; in tal caso il giudice ordina il ricovero in strutture ospedaliere appositamente attrezzate; b) se deve aver luogo nei confronti di donna incinta; c) se deve aver luogo nei confronti di donna che ha partorito da meno di sei mesi; ma il provvedimento è revocato qualora il figlio muoia o sia affidato dalla madre a una terza persona; d) se deve aver luogo nei confronti di una persona che si trova in condizioni di infermità fisica tali da non consentire la detenzione. ART. 121. (Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena). — 1. L’esecuzione della pena può essere differita: a) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro la donna,


— 994 — che ha partorito da più di sei mesi ma da meno di un anno, e non vi è modo di affidare il figlio ad altri che alla madre. Il provvedimento è revocato qualora il figlio muoia; b) se è presentata domanda di grazia, e sussistano ragioni personali e familiari che giustifichino il rinvio. 2. L’esecuzione della pena non può essere differita per un periodo superiore complessivamente a tre mesi, anche se la domanda di grazia è successivamente rinnovata. ART. 122. (Infermità psichica sopravvenuta al condannato). — 1. Se, prima di dare inizio all’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale, o durante l’esecuzione, sopravviene al condannato una infermità psichica, tale da impedire l’esecuzione della pena, il magistrato di sorveglianza ordina che il condannato sia ricoverato in un ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero nei casi meno gravi in una casa di cura e di custodia con reparti di terapia appositamente attrezzati. 2. Il provvedimento di ricovero è revocato, e il condannato è sottoposto all’esecuzione della pena, quando sono venute meno le ragioni che hanno determinato tale provvedimento e non vi sia più bisogno di terapia. TITOLO VI.

LE CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO,

DELLA PROCEDIBILITÀ DEL REATO E DELLA PENA

CAPO I. L’estinzione del reato e della procedibilità del reato. ART. 123. (Morte dell’imputato prima della condanna). — 1. La morte dell’imputato, avvenuta prima della condanna, estingue la procedibilità del reato nei suoi confronti. ART. 124. (Amnistia). — 1. L’amnistia estingue la procedibilità del reato salvo che l’imputato vi rinunci espressamente. 2. Se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie. 3. Nel concorso di più reati, l’amnistia si applica ai singoli reati per i quali è conceduta. 4. L’estinzione del reato per effetto dell’amnistia è limitata ai reati commessi a tutto il giorno precedente la data del decreto, salvo che questo stabilisca una data diversa. 5. L’amnistia può essere sottoposta a condizioni o ad obblighi. 6. L’amnistia non si applica ai delinquenti abituali o professionali, salvo che il decreto disponga diversamente. ART. 125. (Remissione della querela). — 1. Nei delitti punibili a querela della persona offesa, la remissione estingue la procedibilità del reato. 2. La remissione è processuale o extraprocessuale. La remissione extraprocessuale è espressa o tacita. Vi è remissione tacita, quando il querelante ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela. 3. La remissione può intervenire solo prima della condanna, salvi i casi per i quali la legge disponga altrimenti. 4. La remissione non può essere sottoposta a termini o a condizioni. 5. Nell’atto di remissione può essere fatta rinuncia al diritto alle restituzioni e al risarcimento del danno. 6. Se la querela è stata proposta da più persone, il reato non si estingue se non interviene la remissione di tutti i querelanti. 7. Se tra più persone offese da un reato taluna soltanto ha proposto querela, la remissione, che questa ha fatto, non pregiudica il diritto di querela delle altre. 8. Nel caso di morte del querelante il diritto di remissione può essere esercitato dagli eredi della persona offesa dal reato, allorchè tutti vi consentano. ART. 126. (Remissione esercitata da persone incapaci). — 1. Per i minori degli anni quattordici e per gli interdetti a cagione di infermità di mente, il diritto di remissione è esercitato dal loro legale rappresentante. 2. Per gli infermi di mente non interdetti, il diritto di remissione è esercitato da un curatore speciale nominato dal giudice, previo accertamento della infermità.


— 995 — 3. Per i minori, che hanno compiuto gli anni quattordici, e per gli inabilitati il diritto di remissione può essere esercitato solo congiuntamente ai loro rappresentanti. 4. Le disposizioni dei commi da 1 a 3 si applicano anche nel caso in cui il minore raggiunge gli anni quattordici, dopo che è stata proposta la querela. ART. 127. (Ricusazione della remissione). — 1. La remissione non produce effetto, se il querelato l’ha ricusata con dichiarazione ricevuta dall’autorità procedente. 2. La remissione fatta a favore anche di uno soltanto fra coloro che hanno commesso il reato si estende a tutti, ma non produce effetto per chi l’abbia ricusata. 3. Per quanto riguarda la capacità di ricusare la remissione, si osservano le disposizioni degli articoli 125 e 126. ART. 128. (Prescrizione). — 1. La prescrizione estingue la perseguibilità del reato: a) in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni; b) in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni; c) in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni; d) in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni o la pena della multa; e) in tre anni, se si tratta di contravvenzione. 2. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena della reclusione stabilita dalla legge quale pena edittale per il delitto consumato, senza tener conto degli aumenti e delle diminuzioni di pena previsti dalla legge. 3. I delitti contro l’umanità non si prescrivono. ART. 129. (Decorrenza del termine della prescrizione). — 1. Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione. 2. Quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. 3. Per i reati punibili a querela o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato. ART. 130. (Sospensione del corso della prescrizione). — 1. Il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere a partire dal momento in cui il pubblico ministero effettua la relativa richiesta. 2. Il corso della prescrizione rimane inoltre sospeso nei casi in cui la sospensione del procedimento penale è imposta da una particolare disposizione di legge e durante l’impugnativa proposta dall’imputato. 3. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. In caso di autorizzazione a procedere, il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta. ART. 131. (Interruzione del corso della prescrizione). — 1. Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna. 2. Interrompono pure la prescrizione l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione dell’udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione dell’udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio.


— 996 — 3. La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione. Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 128 possono essere prolungati oltre la metà, salvo diversa disposizione degli accordi internazionali. ART. 132. (Effetti della sospensione e della interruzione). — 1. La sospensione e la interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. 2. Quando per più reati connessi si procede congiuntamente, la sospensione o l’interruzione della prescrizione per taluno di essi ha effetto anche per gli altri, a condizione che la riunione dei diversi procedimenti sia originaria. ART. 133. (Oblazione nelle contravvenzioni). — 1. Nelle contravvenzioni, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento. 2. Il pagamento estingue il reato. ART. 134. (Sospensione condizionale della pena). — 1. Nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o a pena sostitutiva per un tempo non superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell’articolo 115 sia equivalente ad una pena restrittiva della libertà personale per un tempo non superiore, nel complesso, a due anni, il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di cinque anni se la condanna è per delitto e di due anni se la condanna è per contravvenzione. 2. Se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno o da chi ha compiuto gli anni settanta, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e sei mesi ovvero una pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell’articolo 115, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore nel complesso a due anni e sei mesi; se il reato è stato commesso da un minore degli anni diciotto, il limite di tempo è esteso a tre anni. 3. Nel caso di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena restrittiva della libertà personale che non superi i limiti di cui ai commi 1 e 2, l’imputato può chiedere che la sospensione condizionale della pena sia concessa solo per quest’ultima. In tal caso la sospensione condizionale della pena è subordinata al pagamento dell’intera pena pecuniaria entro il termine di novanta giorni dalla condanna definitiva. 4. Nel caso di condanna a sola pena pecuniaria la sospensione condizionale può essere concessa soltanto su richiesta dell’imputato. ART. 135. (Limiti entro i quali è ammessa la sospensione condizionale della pena). — 1. La sospensione condizionale della pena è ammessa soltanto se, avuto riguardo agli elementi indicati nell’articolo 112, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. 2. La sospensione condizionale della pena non può essere concessa a chi ha subito precedenti condanne a pena sospesa ovvero a pena detentiva non sospesa se dette pene, cumulate con quelle da infliggere, superano i limiti stabiliti dall’articolo 134. 3. La sospensione condizionale della pena non può essere concessa a persona dichiarata delinquente o contravventore abituale o professionale. ART. 136. (Obblighi del condannato). — 1. La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; può altresì essere subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato o alla rimessione delle cose in pristino stato, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.


— 997 — 2. La sospensione condizionale della pena, quando è concessa a persona che ne ha già usufruito, deve essere subordinata all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel comma 1, salvo che ciò sia impossibile. 3. Il giudice nella sentenza stabilisce il termine entro il quale gli obblighi devono essere adempiuti. ART. 137. (Effetti della sospensione). — 1. La sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie ma non alle obbligazioni civili derivanti dal reato ed agli effetti penali della condanna, salvo quelli espressamente previsti dalla legge. 2. La sospensione condizionale della pena non produce effetti in ordine alla confisca ed alla acquisizione pubblica. 3. La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sè sola, l’impedimento all’accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa. ART. 138. (Estinzione del reato). — 1. Se, nei termini stabiliti, il condannato non commette un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole, e adempie gli obblighi impostigli, il reato è estinto. 2. In tal caso non ha luogo l’esecuzione delle pene. ART. 139. (Revoca della sospensione). — 1. Salva la disposizione del comma 2 dell’articolo 132, la sospensione condizionale della pena è revocata di diritto, qualora, nei termini stabiliti, il condannato commetta un delitto della stessa indole, per cui venga inflitta una pena restrittiva della libertà personale, o non adempia agli obblighi impostigli. ART. 140. (Perdono giudiziale per i minori degli anni diciotto). — 1. Se per il reato commesso dal minore degli anni diciotto la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a lire dieci milioni, anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio, quando, avuto riguardo agli elementi indicati nei commi 1 e 2 dell’articolo 112, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. 2. Qualora si proceda al giudizio, il giudice può, nella sentenza, per gli stessi motivi, astenersi dal pronunciare condanna. ART. 141. (Estinzione della procedibilità di un reato che sia presupposto, elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro reato). — 1. Quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato. 2. L’estinzione di taluno fra più reati connessi non esclude, per gli altri, l’aggravamento di pena derivante dalla connessione. CAPO II.

L’estinzione della pena.

ART. 142. (Effetti dell’estinzione della pena). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, agli effetti della legge penale l’estinzione della pena implica l’estinzione della pena principale, delle pene sostitutive, delle pene accessorie, e di ogni altro effetto penale. 2. In caso di estinzione della pena, le obbligazioni civili nascenti dal reato e l’obbligo di rimborso delle spese giudiziali restano ferme e si trasmettono agli eredi. ART. 143. (Morte del reo dopo la condanna). — 1. La morte del reo, avvenuta dopo la condanna, estingue la pena. ART. 144. (Estinzione delle pene della reclusione e della multa per decorso del tempo). — 1. La pena restrittiva della libertà personale inferiore ai tre anni si estingue nel termine di quattro anni. 2. La pena restrittiva della libertà personale superiore ai tre anni si estingue col decorso di un tempo pari al doppio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a trenta e non inferiore a dieci anni. 3. La pena della multa si estingue nel termine di otto anni.


— 998 — 4. Il termine decorre dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile, ovvero dal giorno in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla esecuzione già iniziata della pena. Ove sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, il termine decorre dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza che ha revocato il beneficio. 5. Se l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per l’estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine è scaduto o la condizione si è verificata. 6. Nel caso di concorso di reati si ha riguardo, per l’estinzione della pena, a ciascuno di essi, anche se le pene sono state inflitte con la medesima sentenza. 7. L’estinzione delle pene non ha luogo, se si tratta di delinquenti abituali o professionali, ovvero se il condannato riporta una condanna alla reclusione per aver commesso un delitto della stessa indole durante il tempo necessario per l’estinzione della pena. ART. 145. (Estinzione della pena dell’ammenda per decorso del tempo). — 1. La pena dell’ammenda si estingue nel termine di cinque anni qualora non sia stato dato inizio all’esecuzione o non sia stato ingiunto il pagamento. ART. 146. (Indulto e grazia). — 1. L’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue, salvo che il decreto disponga diversamente, gli altri effetti penali della condanna. 2. Nel concorso di più reati, l’indulto si applica una sola volta, dopo cumulate le pene, secondo le norme concernenti il concorso dei reati. CAPO III.

Le limitazioni degli effetti della condanna.

ART. 147. (Casellario giudiziale. Non menzione). — 1. Tutte le pene detentive e pecuniarie sono iscritte nel casellario giudiziale. 2. Se, con una prima condanna, è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore a dieci milioni, il giudice, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 112, può ordinare in sentenza che non sia fatta menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione di diritto elettorale. 3. Il giudice può disporre la non menzione anche quando si tratti di una condanna per reato anteriormente commesso e a condizione che le pene, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio. 4. La non menzione della condanna può essere altresì concessa quando è inflitta congiuntamente una pena detentiva non superiore a due anni ed una pena pecuniaria che, ragguagliata a norma dell’articolo 115 e cumulata alla pena detentiva, priverebbe complessivamente il condannato della libertà personale per un tempo non superiore a trenta mesi. 5. Se il condannato commette successivamente un delitto, l’ordine di non fare menzione della condanna precedente è revocato. ART. 148. (Liberazione condizionale). — 1. Il condannato a pena detentiva che ha scontato almeno quattro quinti della pena e che durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto buona condotta e un comportamento complessivo tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento e probabile che egli si asterrà dal commettere ulteriori reati, può essere ammesso dal magistrato di sorveglianza alla liberazione condizionale. 2. La liberazione condizionale può essere concessa sia in ordine alla pena della reclusione sia in ordine alle pene sostitutive dell’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro, agli arresti domiciliari e alla libertà vigilata. 3. La concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di essersi trovato nell’impossibilità di adempierle. 4. La liberazione condizionale della persona condannata alla pena della reclusione fa scattare con anticipo l’esecuzione della pena sostitutiva o, se questa non è stata disposta, la messa in libertà. 5. La liberazione condizionale della persona condannata alla pena sostitutiva importa la messa in libertà della persona stessa.


— 999 — ART. 149. (Revoca della liberazione condizionale). — 1. La liberazione condizionale è revocata se la persona che ha beneficiato della liberazione condizionale riporti una condanna per un delitto o una contravvenzione della stessa indole o per un delitto doloso, per il quale è prevista una pena superiore nel minimo a un anno, e se uno di tali reati è commesso entro cinque anni dalla data in cui ha avuto esecuzione la liberazione condizionale. 2. Nel caso di revoca il tempo trascorso in libertà condizionale non è computato nella durata della pena e il condannato non può essere riammesso alla liberazione condizionale. 3. Il decorso del tempo della pena inflitta, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca della liberazione condizionale, provoca l’estinzione della pena. ART. 150. (Riabilitazione). — 1. La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti. 2. La riabilitazione della persona condannata per un reato è concessa quando siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o siasi in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. 3. Il termine è di dieci anni se si tratta di recidivi, di delinquenti abituali o professionali e decorre dal giorno in cui la condanna è divenuta definitiva. 4. La riabilitazione non può essere concessa quando il condannato non abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempierle. 5. La riabilitazione può essere concessa anche nel caso di sentenze straniere di condanna, riconosciute a norma di legge. ART. 151. (Revoca della sentenza di riabilitazione). — 1. La sentenza di riabilitazione è revocata di diritto se la persona riabilitata commette entro cinque anni un delitto non colposo, per il quale sia inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a due anni. CAPO IV.

Disposizioni comuni.

ART. 152. (Effetti delle cause di estinzione della procedibilità del reato, del reato e della pena). — 1. Salvo che la legge disponga altrimenti, le cause di estinzione della procedibilità del reato, le cause di estinzione del reato, le cause di estinzione della pena e le cause che limitano gli effetti della condanna hanno effetto soltanto per coloro ai quali la causa si riferisce. ART. 153. (Concorso di cause estintive). — 1. Le cause di estinzione della procedibilità del reato o le cause di estinzione del reato o della pena operano nel momento in cui esse intervengono. 2. Nel concorso di una causa di estinzione del reato o della procedibilità del reato con una causa che estingue la pena, prevale la causa che estingue il reato o la procedibilità del reato, anche se è intervenuta successivamente. 3. Quando intervengono in tempi diversi più cause di estinzione la causa successiva fa cessare gli effetti che non siano ancora estinti in conseguenza della causa antecedente. 4. La causa di estinzione successiva si applica anche quando quella antecedente sia stata revocata. 5. Se più cause intervengono contemporaneamente, la causa più favorevole opera l’estinzione del reato o della procedibilità del reato o l’estinzione della pena; ma anche in tal caso, per gli effetti che non siano estinti in conseguenza della causa più favorevole, si applica il comma 4. TITOLO VII.

LE OBBLIGAZIONI CIVILI DERIVANTI DAL REATO.

ART. 154. (Restituzioni e risarcimento del danno). — 1. Chi ha commesso un reato è tenuto alle restituzioni e al risarcimento del danno che è conseguenza diretta del reato. Tale obbligo sussiste nei confronti della persona danneggiata dal reato, dei suoi successori universali o di chiunque altro abbia il relativo diritto di pretesa. 2. Oltre al colpevole e ai suoi successori universali sono tenuti alla restituzione e al ri-


— 1000 — sarcimento del danno il responsabile civile e le altre persone che, in forza di legge, sono tenute a rispondere. 3. I condannati per uno stesso reato sono obbligati in solido al risarcimento del danno salvo il caso che le condotte dei compartecipi siano reciprocamente indipendenti. ART. 155. (Riparazione parziale del danno mediante pubblicazione della sentenza di condanna). — 1. Quando la pubblicazione della sentenza di condanna costituisca uno dei mezzi per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato il giudice la ordina su richiesta del danneggiato e a spese del colpevole. ART. 156. (Spese per il mantenimento del condannato. Obbligo di rimborso). — 1. Il condannato è obbligato a rimborsare all’Erario le spese sostenute dallo Stato per dar esecuzione alla pena e alle pene sostitutive. 2. L’obbligo di rimborso non si estende alla persona civilmente responsabile, e non si trasmette agli eredi del condannato. ART. 157. (Obbligazione civile per le multe e le ammende). — 1. Nei reati commessi da chi è soggetto all’altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita dell’autorità, o incaricata della direzione o vigilanza, è obbligata, in caso d’insolvibilità del condannato, al pagamento di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta al colpevole, se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare, e delle quali non debba rispondere penalmente. 2. Gli enti forniti di personalità giuridica, compresi lo Stato, le regioni, le province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza, o l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta. 3. Fermo restando quanto disposto nei commi 1 e 2 il condannato al pagamento della multa o all’ammenda, che sia risultato insolvibile, subisce la conversione della pena pecuniaria nei modi previsti dalla legge. ART. 158. (Effetti dell’estinzione della perseguibilità del reato o dell’estinzione della pena sulle obbligazioni civili). — 1. L’estinzione del reato e della procedibilità del reato o l’estinzione della pena non importa l’estinzione dell’obbligo delle restituzioni o del risarcimento del danno derivanti dal reato. TITOLO VIII.

LE MISURE DI SICUREZZA

CAPO I. Regole generali. ART. 159. (Sottoposizione a misure di sicurezza: disposizione espressa di legge). — 1. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti. ART. 160. (Applicabilità delle misure di sicurezza rispetto al tempo, al territorio e alle persone). — 1. Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo del fatto. 2. Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa e più favorevole si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione. 3. Le misure di sicurezza si applicano solo a persone dichiarate socialmente pericolose. ART. 161. (Misure di sicurezza per fatti commessi dallo straniero). — 1. Il giudice sottopone lo straniero dichiarato non imputabile, ma socialmente pericoloso, che ha commesso nel territorio dello Stato un fatto che costituisce delitto, a misure di sicurezza ovvero, salvo diversa disposizione di diritto internazionale o comunitario, ne ordina l’espulsione dallo Stato. CAPO II.

Persone maggiori di età.

ART. 162. (Applicabilità delle misure di sicurezza a seguito della dichiarazione di pericolosità sociale). — 1. Le misure di sicurezza sono disposte dal giudice nei confronti di per-


— 1001 — sone dichiarate, con sentenza di assoluzione, non imputabili per totale incapacità di intendere e volere e dichiarate socialmente pericolose. 2. Agli effetti della legge penale sono dichiarate socialmente pericolose le persone di cui al comma 1, che hanno commesso uno o più fatti di particolare gravità preveduti dalla legge come reato, quando è probabile che commettano nuovi fatti preveduti dalla legge come reato e quando sussistano elementi di pericolosità desunti dalle circostanze indicate nell’articolo 112. 3. La pericolosità sociale derivante dall’incapacità deve sussistere non solo nel momento del fatto, ma anche nel momento della sua dichiarazione e della applicazione della misura di sicurezza. 4. L’esistenza o la permanenza della pericolosità sociale non si presumono. ART. 163. (Applicazione provvisoria dette misure di sicurezza). — 1. Prima della sentenza, previo accertamento della pericolosità sociale, il giudice può disporre con ordinanza che le persone prive di capacità di intendere o volere siano provvisoriamente ricoverate in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia. 2. Il giudice verifica, con cadenza trimestrale ed alla presenza del difensore, la permanenza della pericolosità sociale e revoca le misure di cui al comma 1 quando ritiene che la pericolosità sociale sia cessata. ART. 164. (Revoca ed estinzione della misura di sicurezza). — 1. Il giudice accerta una volta all’anno, alla presenza del difensore, la permanenza della pericolosità sociale e revoca le misure di sicurezza applicate, qualora essa sia cessata e non vi sia più bisogno di terapie. 2. Per motivate ragioni l’accertamento di cui al comma 1 può essere disposto in qualsiasi momento. 3. Quando sia cessata l’infermità, o la grave anomalia psichica che ha determinato la non imputabilità, il giudice, accertato che la persona non è più socialmente pericolosa, dispone l’estinzione della misura di sicurezza e ne ordina l’immediata cessazione di tutti gli effetti. ART. 165. (Specie). — 1. Le misure di sicurezza per le persone di maggiore età si distinguono in detentive e non detentive. 2. Sono misure di sicurezza detentive: a) il ricovero in una casa di cura e di custodia; b) il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. 3. È misura di sicurezza non detentiva il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche nonchè locali pubblici notturni. ART. 166. (Ricovero in una casa di cura e di custodia). — 1. La persona dichiarata totalmente incapace di intendere e di volere e dichiarata socialmente pericolosa, che ha compiuto un fatto per il quale la legge prevede una pena non superiore nel massimo a dieci anni di reclusione, è ricoverato in una casa di cura e di custodia, ovvero, quando particolari esigenze terapeutiche o di ricovero lo consigliano, in una casa di cura e custodia con reparti di terapia appositamente attrezzati. 2. Nel caso di incapacità derivante da cronica intossicazione da alcool, da sostanze stupefacenti, o da sordomutismo, la persona dichiarata socialmente pericolosa è ricoverata in una casa di cura e di custodia anche quando ha compiuto un fatto per il quale la legge prevede una pena che superi nel massimo dieci anni di reclusione. Quando particolari esigenze terapeutiche lo consigliano, il magistrato di sorveglianza può ordinare il trasferimento in una comunità terapeutica pubblica o autorizzata. ART. 167. (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario). — 1. La persona dichiarata totalmente incapace di intendere e di volere e dichiarata socialmente pericolosa, che ha compiuto un fatto per il quale la legge prevede una pena superiore nel massimo a dieci anni di reclusione, è ricoverata in un ospedale psichiatrico giudiziario.


— 1002 — 2. Il magistrato di sorveglianza può, se l’incapacità è derivata da gravissima anomalia psichica e quando particolari esigenze terapeutiche lo consigliano, ordinare il trasferimento in una casa di cura e custodia con reparti di terapia appositamente attrezzati. ART. 168. (Divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni). — 1. Con la sentenza di assoluzione per non imputabilità derivante da cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, con contemporanea dichiarazione di pericolosità sociale, il giudice dispone il divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni. 2. Nel caso di trasgressione, il magistrato di sorveglianza ordina il ricovero in una casa di cura e di custodia. 3. Nel caso di cui al comma 1, la persona dichiarata socialmente pericolosa, può chiedere al magistrato di sorveglianza di poter prestare, in sostituzione del divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni, una cauzione di buona condotta che è data mediante deposito, presso la Cassa delle ammende, di una somma non inferiore a lire seicentomila, nè superiore a lire otto milioni. 4. In luogo del deposito, è ammessa la prestazione di una garanzia mediante ipoteca o anche mediante fideiussione solidale. 5. Qualora il deposito della somma non sia eseguito o la garanzia non sia prestata, il magistrato di sorveglianza sostituisce alla cauzione l’originario divieto di frequentare osterie, pubblici spacci di bevande alcooliche e locali notturni. CAPO III.

Persone minori di età.

ART. 169. (Minore degli anni quattordici). — 1. Qualora il fatto preveduto dalla legge come delitto sia commesso da un minore degli anni quattordici, dichiarato non imputabile ma socialmente pericoloso, il giudice, tenuto conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, ne ordina l’affidamento a una comunità pubblica o autorizzata. 2. Il giudice, se ritiene che l’ambiente familiare è adatto alla rieducazione del minore di cui al comma 1, lo affida alla famiglia, disponendo che sia fornita ogni opportuna assistenza sociale da parte delle istituzioni pubbliche. ART. 170. (Affidamento ad una comunità). — 1. Il minore che ha compiuto i quattordici anni, dichiarato non imputabile ma socialmente pericoloso, è affidato dal giudice ad una comunità pubblica o autorizzata. 2. Qualora durante l’affidamento alla comunità pubblica o autorizzata il minore si sia rivelato particolarmente pericoloso e non idoneo ad avere in tale istituzione una efficiente rieducazione, il magistrato di sorveglianza ne dispone il ricovero in una comunità pubblica attrezzata a forme intensive di rieducazione e di reinserimento nella società. DISPOSIZIONI GENERALI, NORME DI ATTUAZIONE, NORME DI COORDINAMENTO E NORME TRANSITORIE

ART. I. (Entrata in vigore). — 1. Le disposizioni della presente legge entrano in vigore contestualmente all’entrata in vigore della parte speciale del codice penale relativa ai delitti e alle contravvenzioni. ART. II. (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie). — 1. Le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie alla presente legge saranno emanate congiuntamente alla parte speciale del codice penale. ART. III. (Attribuzioni al magistrato di sorveglianza). — 1. A partire dalla data di entrata in vigore del codice penale il magistrato di sorveglianza non potrà incidere sulla pena inflitta con la sentenza di condanna e sugli effetti della stessa, se non nei limiti previsti dal codice penale. ART. IV. (Commutazione dell’ergastolo). — 1. L’ergastolo irrogato prima della data di entrata in vigore della presente legge è commutato nella pena della reclusione per anni trenta.


DOTTRINA

QUALE DIRITTO PENALE TRIBUTARIO PER GLI ANNI NOVANTA (*)

SOMMARIO: 1. L’interesse fiscale e le sue esigenze di tutela. — 2. L’evoluzione della legislazione tributaria italiana. — 3. La riforma degli anni ottanta. — 4. Spunti per una riforma degli anni novanta. — 5. Cenni su alcuni rilevanti problemi aperti.

1. L’interesse fiscale e le sue esigenze di tutela. — Nel mondo variegato del diritto penale dell’economia il diritto penale tributario ha una collocazione importante. Si tratta di un complesso di norme specificamente destinato a tutelare l’interesse statuale, di natura patrimoniale, al pagamento delle imposte e delle tasse, e ad assicurare pertanto le risorse necessarie per il funzionamento della macchina dello Stato e dei suoi servizi (1). Fra i delitti contro la economia pubblica essi sono classificabili come reati contro la finanza pubblica (2), reati che tendono cioè ad evitare la perdita di risorse finanziarie che si verifica a causa della evasione e della conseguente diminuzione del gettito fiscale. Poichè la loro realizzazione comporta sottrazione di ricchezza pubblica, essi sono per molti aspetti assimilabili ai delitti contro il patrimonio, che comportano a loro volta sottrazione di ricchezza privata o pubblica (se il soggetto passivo è pubblico) (3). Mentre questi ultimi delitti offendono singole soggettività pubbliche o private, i reati tributari offendono nel suo insieme lo Stato-amministrazione, ed a causa della potenziale in(*) Relazione al Convegno « Il diritto penale degli anni ’90 », in ricordo di Franco Bricola, Bologna, 18-20 maggio 1995. (1) Cfr. MOCCIA, Riflessioni di politica criminale e di tecnica della legislazione per una riforma del diritto penale tributario, in Annali dell’istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Salerno, 1993, p. 139. (2) In questo senso v. la classificazione dello schema di legge-delega per una riforma del codice penale elaborato da una Commissione nominata dal Ministro Vassalli nel 1988, che ha previsto appunto, nel titolo VII dedicato ai « reati contro la economia pubblica », un capo II sui « reati contro le finanze dello Stato ». (3) Sulla opportunità di considerare in una prospettiva unitaria i delitti contro la economia ed i delitti contro il patrimonio v. MOCCIA, Riflessioni, cit., p. 135 s., nel quadro di una interessante concezione dinamica di patrimonio penalmente rilevante (sulla quale v. altresì, dello stesso autore, Dalla tutela dei beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, p. 364 ss.).


— 1004 — definitività della offesa degli interessi finanziari nazionali che, nel loro complesso, possono realizzare, cagionano un danno rilevante alla economia pubblica nazionale. In questa prospettiva dovrebbe essere evidente la loro maggiore gravità sociale rispetto ai delitti classici contro il patrimonio. Tradizionalmente la cultura e la legislazione italiana hanno considerato invece la sottrazione di ricchezza pubblica che deriva dalle evasioni fiscali qualitativamente assai meno grave della sottrazione di ricchezza individuale privata o pubblica derivante dai furti, dalle truffe, dalle appropriazioni indebite e dagli altri delitti contro il patrimonio. L’ideologia di riferimento di questo atteggiamento è evidente. Poichè i reati fiscali sono illeciti tradizionalmente ascrivibili ai ceti economicamente più forti, mentre i reati contro il patrimonio, soprattutto i furti, sono normalmente ascrivibili a ceti meno favoriti, si è realizzato un evidente scambio fra il piano di un doveroso giudizio sui beni e quello di una arbitraria considerazione degli autori, con una utilizzazione dello strumento legislativo in modo soltanto formalmente uguale per tutti (4). Questo atteggiamento non ha costituito d’altronde una peculiarità dei reati fiscali. È stato comune a diversi ambiti di tutela in cui, analogamente, la tipologia degli autori tende ad identificarsi in larga misura con la tipologia dei ceti dominanti. Si pensi ai settori della tutela del territorio, della tutela dell’ambiente, della tutela della salute nei luoghi di lavoro; nonchè alla materia del diritto penale della economia, dove a fianco di settori in cui nonostante la infelice tecnica di tipicizzazione delle fattispecie la protezione giuridica appare sufficientemente incisiva (reati fallimentari, reati societari), ve ne sono altri sforniti di tutela adeguata (si pensi alla difesa contro gli abusi degli operatori bancari, degli operatori finanziari, dei gestori di patrimoni altrui) ed altri, rilevantissimi, che soltanto in anni recenti sono stati affrontati con la dovuta attenzione (es., prevenzione e repressione del riciclaggio di denaro sporco) (5). A partire dalla seconda metà degli anni sessanta la dottrina e la legislazione italiana hanno cercato, faticosamente, di annullare l’handicap culturale-normativo di questo stato di cose procedendo ad un tentativo di ricatalogazione della scala dei valori dei beni penalmente rilevanti. Nell’ambito di questo nuovo orientamento hanno preso corpo, sia pure lentamente, nuovi atteggiamenti di politica criminale; fra di essi, un nuovo atteggiamento nell’approccio al diritto penale della economia. Questo movimento innovativo sul piano politico-culturale e sociale è stato caratteriz(4) Così GROSSO, Sanzioni penali e sanzioni amministrative, in Le evasioni fiscali, 1979, p. 138; di recente, per una posizione sostanzialmente analoga, MOCCIA, Riflessioni, cit., p. 135. (5) Per uno sguardo di insieme sulla realtà di questi diversi settori di intervento penale cfr. MAZZACUVA, La legislazione penale in materia economica: normativa vigente e prospettive di riforma, in questa Rivista, 1987, p. 498 ss.


— 1005 — zato da una maggiore sensibilità ai temi degli interessi pubblici e collettivi, sul piano giuridico dalla scoperta della Costituzione come strumento di primaria importanza anche per la individuazione dei valori ai quali ispirare ambito e configurazione della tutela penale (6). In questa prospettiva era naturale che gli interessi economici pubblici, ampiamente considerati nel titolo IV della Costituzione, ed in particolare l’interesse fiscale considerato nell’art. 53 Cost., diventassero oggetto, insieme agli interessi collettivi, di grande attenzione da parte dei penalisti (7). Si trattava di introdurre un nuovo modello di intervento penale che innovasse rispetto alle caratteristiche della legislazione precedente, e che, pur non coprendo di sanzioni penali l’intera materia dei nuovi interessi, utilizzasse comunque senza esitazioni lo strumento dell’intervento penale nei confronti delle infrazioni di maggiore rilevanza (8). In questo processo di rinnovamento non sono mancati i ritardi e le cadute. Si pensi, per tutti, al settore dei reati degli operatori bancari, dove una faticosa attività di supplenza della giurisprudenza diretta ad applicare agli abusi bancari taluni delitti contro la pubblica amministrazione, è stata bruscamente bloccata dalla entrata in vigore di una legge attuativa di una normativa CEE (9) che ha riconosciuto alla attività bancaria natura giuridica imprenditoriale privata (10); senza che il legislatore si preoccupasse di colmare la lacuna di fatto sopravvenuta con l’introduzione di fattispecie penali ad hoc adeguate alle esigenze di tutela (es., tramite la previsione di reati di infedeltà patrimoniale) (11). (6) Costituisce uno dei grandi meriti di BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. VIII, p. 1 ss., avere per primo colto la rilevanza che l’analisi dei valori costituzionali poteva avere agli effetti della costruzione del sistema penale, aprendo una strada con la quale ha dovuto successivamente confrontarsi l’intera dottrina penalistica italiana. (7) Per una originale ricostruzione della figura di reato economico su basi costituzionali v. PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, in Studi in onore di Vassalli, vol. I, 1991, p. 635 s. Nel senso che l’art. 53 Cost. fornisce la legittimazione costituzionale della scelta di prevedere come reati i casi più gravi di evasione e di frode fiscale, v. FIORE, Tipologia delle incriminazioni, in Le evasioni fiscali, 1979, p. 155; per una ampia valorizzazione dell’art. 53 Cost. agli effetti della ricostruzione della offensività giuridica dei reati tributari v., più di recente, MOCCIA, Riflessioni, cit., 139. (8) Ad esempio, con riferimento al settore dei reati tributari occorreva riconoscere la necessità, data la importanza degli interessi in gioco, dell’intervento penale contro gli evasori; salva poi la valutazione della opportunità di circoscrivere l’area di tale intervento alle frodi di una certa consistenza, con esclusione delle migliaia di piccole evasioni di cui era (ed è) costellata la pratica dei contribuenti italiani. Per una impostazione di questo tipo v. le precise considerazioni di FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 155 s. (9) Entrata in vigore del D.P.R. 27 giugno 1985 n. 350, di parziale attuazione della legge 5 marzo 1985 n. 75, che delegava il Governo per la emanazione delle norme intese a rendere operativa la direttiva CEE 12 dicembre 1977 n. 780/97. (10) Su queste vicende v., per tutti, FLICK, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione, 1988, passim. (11) La introduzione di reati di infedeltà patrimoniale, di tipo generale, e speciali per


— 1006 — È un fatto che passi importanti sulla strada del rafforzamento delle tutele sono stati comunque compiuti. E il diritto penale tributario può essere considerato, per certi aspetti, un esempio significativo del tentativo di realizzare a livello legislativo i nuovi modelli culturali. Dopo anni di disciplina penale di fatto inesistente, nel 1982 è stata infatti approvata una legge che, ancorchè non apprezzabile nei suoi specifici contenuti tecnici (12), ha consentito che le norme penali fossero finalmente in grado di incidere contro gli evasori fiscali. 2. L’evoluzione della legislazione penale tributaria italiana. — La storia del diritto penale tributario in Italia è sufficientemente nota perchè ci si possa esimere, in questa sede, da una sua analisi dettagliata (13). Mi limiterò quindi ad una annotazione sintetica diretta a cogliere le sue caratteristiche di fondo. La scelta di intervenire penalmente a protezione degli interessi finanziari pubblici è risalente nel tempo. Ad esempio, nella importante legge « di disciplina » 7 gennaio 1929 n. 4 si è precisato che « costituisce delitto o contravvenzione la violazione di una legge finanziaria, per la quale è stabilita una delle pene prevedute dal codice penale per i delitti, o, rispettivamente, per le contravvenzioni » (art. 2). Si sono poi enunciate regole particolari in tema di c.d. fissità della legislazione penale finanziaria (art. 1), di continuazione (art. 8), di oblazione (artt. 13 e 14) e di irretroattività (art. 20) (14). Nonostante l’apparente importanza che è stata riconosciuta alla materia attraverso la previsione di una legge di tipo generale diretta a fissare i principi della responsabilità penale nel settore del diritto penale finanziario, l’analisi della stessa legge n. 4/29 rivela che si tratta comunque di una scelta « criminalizzante » di tipo minimale, a riprova che la sottrazione di ricchezza pubblica in cui si sostanzia la evasione fiscale veniva considerata in modo del tutto disomogeneo rispetto alle sottrazioni di ricchezza privata in cui si sostanziano i delitti contro il patrimonio. Essa prevede istituti generali di netto favore per il contribuente infedele il settore della attività bancaria, è stata chiesta per anni dalla dottrina penalistica italiana, senza che mai il Parlamento si facesse tuttavia carico del problema. (12) Sul punto v. oltre. (13) V. GROSSO, L’evasione fiscale, 1980, p. 1 ss.; più di recente, TAGLIARINI, Breve profilo storico-legislativo della normativa in tema di reati tributari (dagli anni ’30 agli anni ’50), in Studi in onore di Vassalli, vol. I, 1991, p. 705 ss.; DASSANO, Principi generali del reato tributario, 1992, p. 16 ss. (14) Per una valutazione critica di queste deviazioni (oggi peraltro in parte eliminate) rispetto ai principi di diritto penale comune cfr. MALINVERNI, Principi di diritto penale tributario, 1962, p. 41 s.; GROSSO, L’evasione fiscale, cit., p. 30; ID., Osservazioni sui principi generali del diritto penale tributario dopo la entrata in vigore della legge 7 agosto 1982 n. 516, in questa Rivista, 1984, p. 35 s.; MOCCIA, Riflessioni, cit., p. 144.


— 1007 — quali la disciplina speciale della continuazione nel reato (15) e della oblazione (particolarmente importante, quest’ultima, atteso che il sistema dei reati tributari era allora in netta prevalenza caratterizzato dalla previsione di fattispecie contravvenzionali punite con la sola ammenda) (16), non adeguatamente controbilanciati dalla deroga al principio di retroattività della legge penale successiva abolitiva o più favorevole al reo prevista dall’art. 20 (17): un principio che, come è noto, ha rivelato nel tempo ben poca efficacia pratica nel dissuadere i cittadini dall’evadere le imposte e nel creare, come si sperava, una « coscienza tributaria » negli italiani (18). Ma soprattutto ha previsto un istituto che ha di fatto eliminato ogni prospettiva concreta di repressione penale nel settore delle imposte dirette (e successivamente dell’IVA). Alludo alla c.d. « pregiudiziale tributaria » configurata dall’art. 18 della legge n. 4/29, in forza della quale non poteva essere iniziato processo penale contro gli autori di evasioni fiscali penalmente rilevanti fintantochè il contenzioso tributario si fosse concluso con una sentenza definitiva. Poichè il contenzioso tributario, articolato allora su ben quattro gradi di giurisdizione, era destinato a durare non meno di dieci-dodici anni, si comprende come non vi fosse, nei fatti, nessun interesse pratico e pungolo a perseguire penalmente, dopo tanti anni, gli autori delle frodi fiscali e delle dichiarazioni infedeli dei redditi (19). Le leggi di previsione dei reati confermavano d’altronde puntualmente l’impressione di assoluta marginalità dell’intervento penale. Il D.P.R. 17 settembre 1931 n. 1608 non contemplava sanzioni più gravi di quelle pecuniarie, neppure nelle ipotesi della frode fiscale; la sanzione pecuniaria penale, prevista in rigorosa alternativa a quella pecuniaria fiscale (ma cumulata alla soprattassa), era normalmente l’ammenda (era stabilita la multa nei soli casi di frode); soltanto eccezionalmente, per una ipotesi (15) Sul tema cfr. CARACCIOLI, La continuazione, in Diritto e procedura penale tributaria, 1989, p. 516 s.; GROSSO, I principi generali della responsabilità penale nei reati tributari, in Responsabilità e processo penale nei reati tributari, 2 ed., 1992, p. 14 ss. (16) Sulla disciplina della oblazione di cui alla legge n. 4/29 v. GROSSO, L’evasione fiscale, cit., passim; per i problemi suscitati dalla legislazione oggi vigente, per tutti, GROSSO, I principi generali, cit., p. 21 ss. e ampia letteratura ivi citata. (17) Sul principio di ultrattività delle leggi penali tributarie v. M. GALLO, La legge penale. Appunti di diritto penale, 1965, p. 55 s.; PADOVANI, La c.d. ultrattività delle leggi penali finanziarie e il principio costituzionale di uguaglianza, in Foro it., 1975, I, c. 128 s.; FLORA, Profili penali in materia di imposte dirette ed IVA, 1979, p. 98 ss.; TRAPANI, L’art. 20 della legge 7 gennaio 1929 n. 4 e la c.d. ultrattività delle norme penali tributarie, in questa Rivista, 1982, p. 214 ss. (18) Sulla inefficacia dell’art. 20 della legge n. 4/29, cfr. MALINVERNI, Principi di diritto penale tributario, cit., p. 130; NUVOLONE, I principi generali del diritto penale tributario, in Dir. prat. trib., 1979, p. 71; GROSSO, L’evasione fiscale, cit., p. 30. (19) Per una analisi critica della pregiudiziale tributaria v. GROSSO, L’evasione fiscale, cit., passim; ID., Osservazioni, cit., p. 35 ss.


— 1008 — di morosità nel pagamento dell’imposta, era stabilita la sospensione dall’esercizio di una attività. Perchè la pena detentiva si affacci nel panorama della repressione della evasione ai tributi diretti occorrerà attendere parecchi anni. Nell’immediato dopoguerra apparve una legge, la n. 1559 del 7 novembre 1947, che conteneva alcune disposizioni dirette a colpire in modo rigoroso comportamenti che il legislatore giudicava, a ragione, particolarmente pericolosi (promozione ed organizzazione di accordi tra i contribuenti al fine di ritardare, sospendere o non effettuare il pagamento di imposte, istigazione pubblica a tali comportamenti, ecc.). Analogamente la legge n. 25 dell’11 gennaio 1951 sulla perequazione tributaria prevedeva (art. 31) pene detentive abbastanza severe contro gli autori di condotte particolarmente pericolose dirette ad impedire le operazioni del rilevamento fiscale straordinario. Di tutt’altro segno fu tuttavia, anche nel dopoguerra, e fino agli inizi degli anni settanta, l’ordinario intervento sanzionatorio nei confronti delle normali infrazioni realizzabili dal contribuente. Al riguardo è sufficiente considerare la disciplina del T.U. 29 gennaio 1958 n. 645, che procedette ad una unificazione e ad una razionalizzazione della disciplina sparsa nelle diverse leggi che si erano succedute dal ’45 in materia di imposte sul reddito. Ancora nel 1958 le sanzioni largamente dominanti erano quelle pecuniarie, penali e non penali, previste in rigorosa alternativa secondo lo schema tracciato nel 1929. La pena detentiva faceva il suo ingresso; ma la sua presenza era circoscritta all’arresto fino a sei mesi previsto per una ipotesi aggravata di omessa dichiarazione (art. 243) ed una ipotesi particolare di omissione del versamento in tesoreria (art. 260), ed alla reclusione fino a sei mesi contemplata per le figure di frode fiscale (art. 252). Ed in tema di previsione di illeciti, erano considerati reati soltanto le frodi fiscali e le dichiarazioni omesse, tardive o incomplete, mentre le dichiarazioni infedeli erano giudicate mera infrazione amministrativa. Confermando un principio che era già presente nella legislazione italiana, l’art. 248 prevedeva d’altronde che « le sanzioni previste per l’omissione, la tardività e l’incompletezza della dichiarazione non si applicano se l’obbligo della dichiarazione era fondatamente contestabile per l’obiettiva incertezza sulla esistenza dei presupposti dell’obbligazione tributaria ». Per assistere ad un primo segnale di mutamento di rotta si è dovuti attendere la legge 29 settembre 1973 n. 600. La pena detentiva ha fatto un ingresso massiccio, giungendo a massimi edittali temibili (tre anni per l’arresto nel caso di dichiarazione omessa, incompleta od infedele; cinque anni per la reclusione nei casi di frode fiscale); l’uso delle sanzioni pecuniarie ha avuto un incremento consistente; alle sanzioni tradizionali detentive e pecuniarie è stato affiancato un complesso articolato di sanzioni accessorie, alcune delle quali assai dolorose (in caso di condanna alla reclu-


— 1009 — sione, interdizione dai pubblici uffici per un periodo di tre anni, interdizione da una professione o da un’arte, incapacità di esercitare uffici direttivi presso una impresa, cancellazione dall’albo nazionale dei costruttori o dagli albi o elenchi dei fornitori delle pubbliche imprese; in caso di condanna all’arresto o alla multa, la cancellazione dai medesimi elenchi o albi, la sospensione dall’esercizio di una professione, numerose ulteriori decadenze, incompatibilità ed esclusioni). In materia di illeciti penali il legislatore ha opportunamente accompagnato la incentivazione delle sanzioni ad una selezione delle infrazioni penali depenalizzando le ipotesi minori, circoscrivendo la punibilità a quelle più rilevanti, compresa la dichiarazione infedele del contribuente e le violazioni nella dichiarazione del sostituto di imposta, e prevedendo per le contravvenzioni soglie di non punibilità. Coerentemente alla scelta di dare spazio alle pene detentive si è infine abbandonato il modello di « alternatività » fra sanzione penale e sanzione amministrativa introdotto dalla legge del ’29, e si è cominciato a prevedere illeciti penali anche nel settore coperto da illeciti amministrativi, con conseguente cumulo di sanzioni; e si è spostata sul terreno esclusivo dell’illecito fiscale la sanzione pecuniaria eliminandola pressochè totalmente dall’ambito di rilevanza penale, riservato all’impiego di sanzioni più qualificate detentive ed interdittive (20). Nonostante il suo pregio, anche la legge n. 600/73 non ha tuttavia funzionato, poichè alle opportune riforme di diritto penale sostanziale non ha corrisposto una analoga riforma del sistema processuale penale. Il mantenimento della pregiudiziale tributaria nell’art. 56 ult. cpv. ha consentito che si perpetuasse la situazione di esenzione penale di fatto dell’evasione fiscale che aveva contrassegnato dal 1929 la legislazione penale tributaria italiana, vanificando di conseguenza l’efficacia concreta della nuova disciplina (21). Non stupisce pertanto che, quando alla fine degli anni settanta ha preso piede nel Paese una nuova spinta riformatrice dell’intervento penale in materia fiscale, l’obbiettivo principale fu l’abrogazione del meccanismo processuale della pregiudiziale introdotto dalla legge del ’29. 3. La riforma degli anni ottanta. — Secondo il pensiero di alcuni giuristi che alla fine degli anni settanta avevano cominciato a dibattere il (20) Per una analisi più dettagliata delle leggi del ’31, del ’58 e del ’73 v. FIORE, Tipologia, cit., p. 156 ss.; GROSSO, Sanzioni penali, cit., p. 142 s.; nella dottrina più recente, DASSANO, Principi generali, cit., p. 47 ss. (21) La legislazione degli anni settanta non soltanto ha confermato la pregiudiziale tributaria in materia di reati attinenti al settore delle imposte dirette, ma la ha introdotta anche con riferimento ai reati in materia di IVA: v. D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 600, che pure prevedeva reati correttamente ispirati dalla scelta di intervenire con strumenti penali qualificati, e su di un terreno contraddistinto dalla selezione dell’illecito in ragione della quantità della evasione perpetrata.


— 1010 — tema di una nuova legislazione penale fiscale, i nodi di fondo che occorreva affrontare erano sostanzialmente due: la abolizione della pregiudiziale tributaria quale condizione indispensabile di efficacia del sistema penale fiscale; una adeguata selezione degli illeciti penali, allo scopo di evitare intasamenti della giurisdizione penale e colpire efficacemente le infrazioni più gravi, rigorosamente individuate in considerazione della rilevanza degli interessi (22). Io stesso, ad esempio, nell’ambito di un convegno conclusivo di una ricerca del CRS e del CESPE (23), sostenevo nel 1979 che « le scelte di fondo (della auspicata riforma) sono quelle già tracciate dalla legislazione degli inizi degli anni settanta: qualificazione delle sanzioni penali e corrispondentemente semplificazione e selezione dell’illecito penale; selezione dell’illecito penale in ragione della quantità dell’evasione ed eventualmente della modalità fraudolenta della condotta; spostamento sul terreno extrapenale di tutte le evasioni meno consistenti e quantomeno delle infrazioni complementari minori, opportunamente sanzionate con pene pecuniarie fiscali, e nei casi più gravi con sanzioni interdittive non penali. Nel quadro di questa scelta generale si impone tuttavia un ventaglio di scelte più particolari alle quali è concretamente affidato il volto reale che il sistema repressivo verrà ad acquistare: a) livello al quale tracciare la linea spartiacque fra il settore generalizzato dell’intervento sanzionatorio extrapenale ed il settore qualificato dell’intervento penale; b) tipi e dimensioni delle sanzioni penali e non penali utilizzabili; c) rapporto fra il piano dell’intervento sanzionatorio penale e quello dell’intervento sanzionatorio non penale; d) predisposizione di strumenti particolari idonei a rendere più efficace la azione della sanzione penale, e possibili strumenti di incentivazione a rimuovere le conseguenze dell’illecito, finalizzate al pronto recupero da parte del fisco delle somme evase e dell’importo delle pene pecuniarie fiscali. Sullo sfondo c’è ovviamente la esigenza primaria di cancellare la disciplina della pregiudiziale tributaria » (24). Passando ad esaminare i quattro punti indicati, quanto al punto a) analizzavo le diverse possibili modalità di selezione dell’intervento penale attraverso la predisposizione di soglie di punibilità, precisando che in ogni caso la selezione degli illeciti doveva essere consistente. Quanto al punto b) osservavo che, nonostante la scelta di selezionare fortemente l’ambito della rilevanza penale imponesse di utilizzare sanzioni penali qualificate, sarebbe stato un errore ritenere che questo risultato avrebbe dovuto essere necessariamente assicurato da un aumento indiscriminato delle pene (22) Cfr. FIORE, Tipologia, cit., p. 155 s., 163 ss. (23) I due Centri Studi, rispettivamente giuridico-istituzionale ed economico, del P.C.I. (24) GROSSO, Sanzioni penali, cit., p. 147 s.; questi concetti erano già stati d’altronde approfonditi in L’intervento penale in materia fiscale, in Dem. e dir., 1977, p. 712 ss.


— 1011 — detentive; più utilmente, dicevo, si sarebbe potuto operare con strumenti in grado di rendere tempestiva e soprattutto indefettibile l’applicazione e l’irrogazione delle pene, e con opportuni interventi sui minimi edittali. Quanto al punto c) precisavo che la scelta di spostare sul terreno delle infrazioni amministrative pressochè interamente le sanzioni pecuniarie, comportava che ai livelli di rilevanza penale esse dovessero concorrere con le pene; soggiungevo che, abolita la pregiudiziale tributaria, sarebbe stato necessario ridefinire i rapporti fra le procedure rispettivamente finalizzate alla applicazione della pena e della sanzione fiscale, ed accennavo alla possibilità di privilegiare la attività del giudice penale attribuendogli, nei settori di rilevanza comune penale ed extrapenale, competenza esclusiva agli effetti dell’accertamento dei fatti e della applicazione delle sanzioni, penali e non penali. Quanto al punto d) ipotizzavo da un lato la possibilità di subordinare gli istituti di favore, quali la sospensione condizionale della pena, al pagamento preventivo delle imposte evase e delle sanzioni pecuniarie fiscali, prospettavo dall’altro la opportunità di utilizzare, anche incisivamente, strumenti di tipo premiale allo scopo di ottenere comunque un pronto recupero delle somme evase ed il pagamento delle sanzioni pecuniarie fiscali (25). In una ottica analoga altri ha osservato che sarebbe stato opportuno mirare ad un assetto della tutela penale su due livelli: uno rappresentato dalla legge penale propriamente detta, essenzialmente il codice, sul cui terreno prevedere le fattispecie penali, l’altro rappresentato a sua volta dalla legislazione speciale, alla quale affidare essenzialmente un ruolo di prevenzione che, più che fare leva su strumenti di intimidazione, avrebbe dovuto basarsi « sulla predisposizione di meccanismi di controllo, promozione e disincentivazione, che nel loro insieme valgano ad indirizzare nel senso desiderato l’attività, volta a volta disciplinata » (26); e che l’obbiettivo era comunque arrivare alla formulazione di fattispecie in cui il disvalore dell’evento avrebbe dovuto giocare un ruolo decisivo per una rigorosa delimitazione delle condotte punibili, seguendo la strada di penalizzare l’evasione soltanto a partire da soglie qualificate (27). Questo modello di riforma non ebbe tuttavia successo. Il dibattito sulla nuova legislazione penale fiscale risultò in larga misura polarizzato dal problema della pregiudiziale tributaria. I critici erano numerosi, soprattutto fra gli studiosi di diritto tributario. Argomento principale, ripetuto fino alla noia, era che abolire la pregiudiziale significava affidare al giudice penale accertamenti fiscali che egli non era in grado di compiere a causa della loro difficoltà tecnica. L’argomento era specioso, dato che i (25) GROSSO, Sanzioni penali, cit., p. 148 ss. (26) FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 164. (27) FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 164.


— 1012 — magistrati da tempo facevano parte delle commissioni tributarie (specificamente chiamate a verificare le evasioni fiscali) senza che nessuno avesse mai eccepito la loro incompetenza a fronte della complessità tecnica della materia tributaria; d’altronde, ove un giudice penale avesse davvero dovuto affrontare un problema particolarmente complesso di ricostruzione del reddito o del giro di affari di una azienda non avrebbe avuto difficoltà a risolvere con una perizia la questione (28). La tesi della asserita incapacità del giudice penale di affrontare le questioni fiscali non riuscì ad impedire la abrogazione della pregiudiziale tributaria; risultò tuttavia esiziale per il contenuto della riforma stessa. Il Ministro delle Finanze del tempo, preoccupato di affidare ai magistrati penali accertamenti complessi sull’evasione di imposta, decise di abolire la pregiudiziale allo scopo di rimuovere gli impedimenti all’esercizio della azione penale contro gli autori dei reati fiscali; scelse tuttavia una strada che a suo giudizio avrebbe dovuto semplificare la attività del loro accertamento: anzichè prevedere come illecito penale l’evasione o la fonte della evasione (la dichiarazione incompleta, infedele, ecc.), decise di disancorare la previsione dei reati dalla entità del reddito evaso, e colpire penalmente fatti semplici prodromici alla evasione stessa (reati ostacolo), quali l’omessa o infedele annotazione nelle scritture contabili, l’omessa o infedele fatturazione, la tenuta irregolare delle scritture contabili, la omessa annotazione degli stampati per la compilazione delle bolle di accompagnamento o ricevute fiscali, ecc., in quanto tali di più agevole accertamento (29). Nel contempo omise di prestare sufficiente attenzione all’importante problema della selezione degli illeciti penali, finendo per colpire penalmente ad amplissimo raggio; ed essendosi verosimilmente affidato per la redazione delle norme a cultori di scienze delle finanze piuttosto che a penalisti elaborò un testo tecnicamente infelice, affastellando disordinatamente reati, cause di non punibilità e circostanze in un contesto dalla lettura poco agevole, creando illeciti a carattere formalistico mutuati sic et simpliciter dalla disciplina tributaria, continuando ad usare talvolta l’im(28) Sul punto cfr. GROSSO, L’evasione fiscale, cit., passim. (29) Su queste diffuse caratteristiche dei reati fiscali, in posizione critica, v. fra gli altri TAGLIARINI, Brevi osservazioni sulle contravvenzioni previste dalla nuova legge tributaria, in Studi in memoria di Delitala, vol. III, 1984, p. 1529 s.; ROMANO, Legislazione penale e consenso sociale, in Jus, 1985, p. 425; GROSSO, Le contravvenzioni previste dall’art. 1 legge n. 516/82, in Responsabilità e processo penale nei reati tributari, 2 ed., 1992, p. 84; DI NICOLA, Le fattispecie di frode fiscale previste rispettivamente dal n. 2 e dalla lettera F) dell’art. 4, legge n. 516/82, prima e dopo la riforma del 1991, in Problemi generali, cit., p. 279 s.; INSOLERA, Reati artificiali e principio di offensività: a proposito di un’ordinanza della Corte costituzionale sull’art. 1 IV comma legge n. 516 del 1982, in questa Rivista, 1990, p. 738 s.; DASSANO, Principi generali, cit., p. 69 s.; CERQUETTI, Reati tributari, in Enc. dir., vol. XXXVIII, 1987, p. 1085 s.; MOCCIA, Dalla tutela, cit., p. 361.


— 1013 — propria « tecnica del rinvio », usando espressioni equivoche causa di rilevanti difficoltà interpretative (30) (basti pensare alla frode fiscale di cui all’art. 4 comma 1 n. 7 della legge n. 516/82, che secondo una interpretazione ricorrente fra i giudici di merito avallata dalla Suprema Corte (31), sia pure contrastata da altra giurisprudenza della Cassazione (32) e dalla Corte Costituzionale (33), ha sovente finito per sanzionare assurdamente con una pena di rilievo la mera esposizione nella dichiarazione di componenti negativi o la omessa indicazione di componenti positivi di reddito, senza soglia di punibilità) (34). Le sanzioni penali, quantomeno quelle previste in materia contravvenzionale, con riferimento alle quali si ritornò ad utilizzare ampiamente la sanzione pecuniaria sola o alternativa a quella

(30) Per la analisi e la critica di queste caratteristiche v., per tutti, GROSSO, Commento agli artt. 1-8 del D.L. 10 luglio 1982 n. 429, in Leg. pen., 1983, p. 21; TRAVERSI, I nuovi reati tributari, 1983, p. 28; MOCCIA, Riflessioni di politica criminale, cit., p. 140 ss.; in particolare sulla tecnica incriminatrice per relationem usata dalla legge n. 516/82, F. GALLO, Tecnica legislativa e interesse protetto nei nuovi reati tributari, in Giur. comm., 1984, I, p. 279 ss.; DASSANO, Principi generali, cit., p. 257 ss.; su questi problemi v., da ultimo, LO MONTE, Il principio di offensività e le fattispecie di reato contemplate nella legge 7 agosto 1982 n. 516, in Annali dell’istituto di diritto e procedura penale dell’Università di Salerno, 1994, p. 207 s., e soprattutto MOCCIA, Dalla tutela, cit., p. 362. (31) Cass. 11 marzo 1987, in Cass. pen., 1988, p. 702; nonchè, nonostante la sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale nel frattempo intervenuta (oltre, nota 33), Cass. 3 luglio 1989, in Foro it., 1990, II, c. 91. (32) Cass. 14 dicembre 1989, in Foro it., 1990, II, p. 225. A decidere il contrasto giurisprudenziale sono successivamente state chiamate le Sez. un., 6 luglio 1990, Foro it., 1991, II, c. 85, che hanno pronunciato una sentenza non chiarissima, interpretata comunque dalla dottrina (CARACCIOLI, in Dir. prat. trib., 1990, II, 1295) nel senso che avesse aderito alla tesi secondo cui a realizzare simulazione e dissimulazione non sarebbe stato sufficiente il mero mendacio. (33) Corte cost., 16 maggio 1989, in Cass. pen., 1989, p. 1652, che in una sentenza interpretativa di rigetto ha escluso che i concetti di simulazione e di dissimulazione potessero prescindere da un quid pluris di natura fraudolenta rispetto alla mera omissione di componenti positivi o indicazione nella dichiarazione di componenti negativi; Corte cost. 17 gennaio 1991, che di fronte ad una asserita persistenza della giurisprudenza rigoristica ha rilevato la illegittimità costituzione dell’art. 4 n. 7 nella parte in cui non prevedeva che la dissimulazione di componenti positivi e la simulazione di componenti negativi avvenissero fraudolentemente. (34) La maggioranza della dottrina si era comunque pronunciata in senso contrario a questa interpretazione rigoristica giurisprudenziale: fra i molti cfr. CARACCIOLI, Scritture contabili e dichiarazioni. La responsabilità penale tributaria, in Il fisco, 1986, p. 1130; INSOLERA-ZANOTTI, Il reato di infedele dichiarazione dei redditi, 1988; IZZO, La frode fiscale del titolare di reddito autonomo e di impresa, in Giust. pen., 1983, II, 437; NUVOLONE, Il nuovo diritto penale tributario, in Ind. pen., 1984, p. 458 s.; TAGLIARINI, I delitti in materia tributaria, in Ind. pen., 1984, p. 26 s.; contra v. tuttavia PATRONO-TINTI, Contravvenzioni e delitti tributari nella legge 7 agosto 1982 n. 516, 1988, p. 256 ss.; SALAFIA, Modifiche al sistema penale tributario. Relazione di sintesi, in Quaderni CSM, 1983, p. 73 ss.


— 1014 — detentiva, si rivelarono a loro volta poco idonee ad operare come deterrente efficace nei confronti dei soggetti economicamente più forti (35). Se le improprietà tecniche sopramenzionate crearono problemi interpretativi ed applicativi (36), la mancanza di una adeguata selezione dei reati determinò d’altronde un numero elevato di processi penali, molti dei quali nei confronti di soggetti economici modesti e di violazioni poco significative, che intasarono Procure della Repubblica e Tribunali senza che si realizzasse una reale efficacia preventiva contro le evasioni fiscali (37). Il legislatore tentò di correre ai ripari, dapprima con piccoli aggiustamenti riguardanti soprattutto la misura delle soglie di punibilità, poi con una revisione di più ampie proporzioni (legge 15 maggio 1991 n. 154). Con scarso successo (38). Invece di procedere a ritocchi più o meno incisivi, sarebbe stato infatti necessario pensare ad una nuova radicale riforma che, mantenendo ferma la abolizione della pregiudiziale tributaria, imboccasse la strada della semplificazione e della selezione di reati tributari correttamente costruiti attorno al concetto della evasione fiscale. (35) Sul punto v. VIAZZO, Profili di responsabilità penale per reati tributari nelle imprese di grandi dimensioni, in questa Rivista, 1992, p. 225 s., il quale ha osservato che la novella del 1991 ha quantomeno modificato la disciplina della originaria legge n. 516/82 che ha consentito alla maggioranza della dottrina e ad una parte della giurisprudenza di configurare le fattispecie di maggiore gravità come circostanze aggravanti, facilmente eliminabili nel quadro dei giudizi di bilanciamento e di prevalenza con le circostanze attenuanti concorrenti (nel senso che le fattispecie di maggiore gravità della originaria legge n. 516/82 costituivano circostanze aggravanti v. CARACCIOLI, Aspetti sostanziali della l. n. 516/1982, in Il fisco, 1983, p. 3535; STORTONI, La nuova disciplina dei reati tributari, in Giur. comm., 1983, I, p. 391; CERQUETTI, I reati, cit., p. 203; TRAVERSI, I reati, p. 229 s.; contra, ROMANO, Osservazioni sul nuovo diritto penale tributario, in Dir. prat. trib., 1983, p. 742, GROSSO, Commento, cit., p. 26; la giurisprudenza, dopo atteggiamenti più cauti dei giudici di merito, ha finito per accogliere la tesi sostenuta dalla maggioranza della dottrina con la sentenza della Suprema corte Cass. 26 ottobre 1990, in Corr. trib., 1991, p. 377). (36) Oltre alla già ricordata ipotesi della frode fiscale di cui all’art. 4 n. 7, fra i casi che hanno dato luogo a particolari difficoltà interpretative e applicative si possono menzionare la individuazione dei soggetti attivi delle fattispecie di frode fiscale di cui allo stesso art. 4 n. 7 (sulla quale, nella diversità delle opinioni, v. FALSITTA, La responsabilità penale del contribuente, in Il fisco, 1983, p. 2525; LANZI, Falso in bilancio e frode fiscale nella nuova legislazione fiscale, in Giur. comm., 1983, I, p. 64; PADOVANI, Itinerari della riforma penale tributaria, in Leg. pen., 1984, p. 297 ss.; ROMANO, Osservazioni, cit., p. 761 ss.), e la contravvenzione di irregolare tenuta delle scritture contabili, corretta soltanto dalla legge 15 maggio 1991 n. 154 (sulla formulazione originaria di tale contravvenzione cfr., per tutti, GROSSO, Le contravvenzioni previste dall’art. 1, legge n. 516/82, in Responsabilità e processo penale nei reati tributari, 1 ed., 1986, p. 134 ss.; BIFFANI, in Diritto e procedura penale tributaria, 1989, p. 71 ss. (37) DI NICOLA, Le fattispecie, cit., p. 280. (38) Sulla inadeguatezza di fondo della riforma di cui alla legge n. 154/1991 v. CARACCIOLI, Una riforma diversa da quella attesa, in Il fisco, 1991, p. 3361 s.; NANNUCCI, Le recenti modifiche della legge 516/82, in Il fisco, 1991, p. 3476 s.; FLORA, La legge n. 516 del 1982 otto anni dopo: orientamenti giurisprudenziali e modifica legislativa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, p. 443 s.


— 1015 — 4. Spunti per una riforma degli anni novanta. — Una nuova riforma dei reati tributari dovrebbe muovere da alcune riflessioni di fondo. In primo luogo che l’interesse fiscale nella scala dei valori costituzionalmente rilevanti ha una importanza tale da impedire l’idea che sia consentito rinunciare, in tale settore, allo strumento della tutela penale. La precisazione è importante, perchè non vorrei che la ventata neoliberista, la corsa alle privatizzazioni, la rivalorizzazione della economia di mercato, l’insofferenza alle troppe regole che stanno caratterizzando in Italia quest’ultimo scorcio di secolo portassero con sè la falsa opinione che non ha più senso una difesa forte, anche penale, contro le aggressioni alla economia pubblica. Anzi, quanto più potenti diventano mercato e privati, tanto più incisiva deve essere la protezione degli interessi economici diffusi. In secondo luogo che la tipizzazione dei reati tributari, come del resto quella dell’intero sistema dei reati, deve essere costruita rispettando rigorosamente il criterio di offensività (39). Poichè il bene che nella specie si deve proteggere è l’interesse dello Stato al pagamento delle imposte, i reati devono essere elaborati avendo riguardo al bene-finale, la tutela delle risorse finanziarie. Questo significa che abbandonata l’idea di prevedere reati-ostacolo, in quanto tali non ancorati a sicuri criteri di offensività (40), occorre tipizzare esclusivamente reati in cui sia evidente la protezione diretta dell’interesse statuale alla riscossione delle imposte. In terzo luogo che, abbandonata la strada, tradizionalmente seguita dalle legislazioni penali tributarie, della previsione di una molteplicità di reati costruiti il più delle volte secondo modelli normativi proprii del diritto finanziario, occorre prevedere poche fattispecie fondamentali costruite in maniera semplice e chiara secondo modelli tipicamente penali(39) Insiste con particolare efficacia su questa necessità MOCCIA, Riflessioni, cit., p. 142 ss.; essa risponde d’altronde ad una esigenza ampiamente sentita in dottrina: v. ad esempio FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 165 ss.; INSOLERA, Reati artificiali, cit., p. 740 s.; PALOMBI, Tipicità ed offensività nei reati tributari, in Studi in onore di Vassalli, vol. I, 1991, p. 755 ss.; PATALANO, Beni costituzionali e tutela penale degli interessi economici, in Studi in onore di Vassalli, vol. I, 1991, p. 635 s.; per una puntuale ricostruzione dei termini della questione v., da ultimo, LO MONTE, Il principio di offensività, cit., p. 230 ss. (40) Significativamente PADOVANI, Problemi generali e analisi delle fattispecie previste dalle lettere A), B), C), D), E) dell’art. 4, legge n. 516/1982, in Responsabilità e processo penale nei reati tributari, 2 ed., p. 192, dopo avere precisato che, in ultima analisi, l’interesse protetto dai reati contemplati nella legge n. 516/82 può essere individuato nel « corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale, in relazione ai presupposti documentali che il contribuente è tenuto a formare, fornire, utilizzare o conservare », ha rilevato che « sembra dunque che il diritto penale tributario vada compiendo quel processo di trasformazione progressiva dalla tutela di beni alla tutela di funzioni che contrassegna la dinamica della più recente produzione legislativa in materia penale. Si tratta peraltro di un percorso alquanto accidentato, perchè diametralmente opposto all’asse del principio di offensività, e quindi eccentrico rispetto alla funzione garantistica che il bene giuridico inteso in senso reale, è ancora destinato a svolgere rispetto all’esercizio della potestà punitiva ».


— 1016 — stici: la omessa dichiarazione, la dichiarazione infedele, la frode fiscale, caratterizzate tutte da una condotta attiva od omissiva tipizzata con precisione e da un evento costituito dal mancato pagamento del tributo (o quantomeno da una modalità della condotta costituita dalla indicazione nella dichiarazione di componenti positivi o negativi del reddito in misura diversa da quella dovuta per un ammontare X) (41). In quarto luogo occorre fare tesoro della esperienza della recente legge n. 516/82, che ha previsto anche reati e sanzioni bagatellari inidonei a funzionare come controspinta adeguata nei confronti dei contribuenti più forti, e che ha finito per intasare senza senso la giurisdizione penale di processi contro autori di infrazioni marginali. Se è vero che l’interesse statuale alla riscossione delle imposte deve essere tutelato con efficacia, e che pertanto nella sua difesa non si deve rinunciare alla utilizzazione dello strumento forte costituito dalla sanzione penale, ragioni pratiche e logiche impongono che l’incisività del mezzo di tutela sia proporzionato alla gravità della offesa. Lo strumento penale dovrà essere quindi usato soltanto nei confronti delle infrazioni più rilevanti, rigorosamente selezionate facendo riferimento alle soglie di punibilità, o alle modalità fraudolente della azione, a loro volta comunque accompagnate da soglie di punibilità (42). Corrispondentemente, perchè il sistema repressivo possa costituire una adeguata controspinta anche per i contribuenti maggiori, le sanzioni penali dovranno essere qualitativamente e quantitativamente significative (43). Una volta imboccata la strada di una significativa selezione degli illeciti, prevedere pene qualificate appare d’altronde operazione assolutamente normale. Infine, dato che l’obbiettivo pratico della previsione degli illeciti finanziari è assicurare la riscossione delle imposte, dovrebbe essere prestata la massima attenzione ai meccanismi premiali in grado di favorire pentimenti tramite la promessa di benefici anche consistenti a chi denuncia l’evasione fiscale, e paga quanto dovuto a titolo di imposta evasa e sanzione pecuniaria. In questa prospettiva si potrebbe d’altronde anche accettare la logica di un concordato fra Stato e contribuente suscettivo di efficacia estintiva dei reati commessi, purchè si tratti di procedura idonea a portare (41) In questo senso, da ultimo, MOCCIA, Riflessioni, cit., p. 145, il quale fra l’altro precisa (p. 136 s.) che sarebbe comunque auspicabile evitare che sia considerata reato la condotta realizzata in mancanza di evasione di imposta, come ad esempio nel caso di omessa dichiarazione di chi abbia versato l’imposta autoliquidata, ma non abbia successivamente presentato la dichiarazione; nella dottrina più risalente, v. GROSSO, Sanzioni penali e sanzioni non penali nell’illecito fiscale, in questa Rivista, 1978, p. 1188; ID., L’evasione fiscale, cit., p. 75 s.; ROMANO, Osservazioni sul nuovo diritto tributario, cit., p. 755; FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 165 s., che peraltro ritiene che sia preferibile prevedere reati di mera condotta. (42) Su quest’ultimo punto v. già FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 166. (43) Così GROSSO, Sanzioni penali, cit., p. 149.


— 1017 — alle casse dello Stato, tempestivamente, porzioni consistenti di denaro sottratto. In realtà si tratta di idee che ricalcano, sia pure con maggiore consapevolezza dei problemi, e accentuazione di alcuni profili, quanto nella sostanza era già stato suggerito tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta da una parte degli studiosi che si erano occupati della riforma dei reati tributari. Una « riforma mancata » alla quale è forse giunto il momento di dare attuazione. In questa direzione sembrano comunque sostanzialmente orientati i pochi documenti, conosciuti ufficialmente o noti soltanto ufficiosamente, elaborati a livello governativo in questi ultimi anni. Ufficialmente si conosce la proposta, maturata all’interno del Ministero della giustizia, contenuta nello schema di legge-delega di riforma del codice penale elaborato da una Commissione ristretta istituita nel 1988 dall’allora Guardasigilli Vassalli. La parte speciale di questo schema prevede un Titolo VII dedicato ai delitti contro la economia, il cui Capo II ipotizza come « reati contro la finanza dello Stato »: 1) la frode fiscale, consistente « nel fatto di chi, al fine di evasione fiscale, avvalendosi di documenti contraffatti, alterati o attestanti fatti non corrispondenti al vero, indica in una delle dichiarazioni prescritte ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto, componenti positivi o negativi di reddito in una misura diversa da quella effettiva, per un importo superiore nel complesso a ...milioni di lire »; 2) la omissione di dichiarazione fiscale, consistente a sua volta « nell’omettere la presentazione di una delle dichiarazioni prescritte ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto, se l’ammontare dei componenti positivi è superiore a ...milioni di lire »; 3) infine la dichiarazione fiscale infedele, consistente « salvo che il fatto costituisca il delitto preveduto nel numero 1, nel presentare una delle dichiarazioni prescritte ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto indicando componenti positivi o negativi del reddito in misura diversa da quella effettiva per un importo superiore nel complesso a ...milioni di lire ». Per i casi di omessa e infedele dichiarazione si prevede altresì di « stabilire come circostanza aggravante il fatto che tale ammontare sia superiore a ...milioni di lire ». Limitatamente al profilo della tipizzazione degli illeciti questo modello è tendenzialmente corretto. Le fattispecie sono semplici e sono costruite avendo riguardo alla offesa del bene-finale; sono prefigurate, anche per le frodi fiscali, soglie di punibilità. Rimangono tuttavia totalmente in bianco altre scelte fondamentali (la determinazione delle soglie, la qualità delle pene) (44). Sarebbe stato forse preferibile un aggancio più puntuale delle fattispecie al dato dell’e(44)

Che non so fino a che punto il legislatore delegato, a causa della loro impor-


— 1018 — vasione fiscale, allo scopo di evitare il rischio di punire condotte non accompagnate da tale profilo fondamentale. È sicuramente inopportuno costruire le maggiori soglie di punibilità come circostanze aggravanti a causa dell’effetto perverso che può produrre il bilanciamento fra circostanze eterogenee. È del tutto ignorata la prospettiva premiale. D’altro canto, la stessa scelta di prevedere nel testo di un nuovo codice penale i reati fiscali quale sottospecie dei delitti contro la economia, astrattamente ineccepibile (45), potrebbe oggi dovere fare i conti con la difficoltà di mettere mano ad una riforma globale del sistema penale, e con la conseguente opportunità, avvertita da numerosi studiosi, di affrontare i temi della riforma per gradi attraverso cambiamenti settoriali. Data l’urgenza della modifica del diritto penale tributario vigente, potrebbe apparire allora preferibile affrontare ancora una volta le esigenze di rinnovamento sul terreno della legislazione speciale. È questa la strada che sembra avere imboccato il Ministero delle Finanze con la istituzione (da parte del ministro Tremonti) di una commissione incaricata di studiare le modifiche opportune della legge n. 516/82, e che ha di recente terminato i suoi lavori. Il documento finale della commissione è rimasto riservato, e non è noto se l’attuale ministro (Fantozzi) intenda dare seguito al lavoro compiuto. È trapelato comunque che la commissione si sarebbe orientata verso la abrogazione dei reati-ostacolo, la individuazione di fattispecie selezionate di frode fiscale sempre subordinate a soglie di punibilità, la previsione di rilevanti incentivazioni al pentimento ed alla collaborazione con la giustizia nella prospettiva di un veloce recupero di denaro evaso alle finanze dello Stato. 5. Cenni su alcuni rilevanti problemi aperti. — Nel concludere questo intervento sulle linee di tendenza del diritto penale tributario, mi siano consentite alcune riflessioni sul tema del diritto penale fiscale e le grandi imprese. Con riferimento alle grandi imprese si pongono problemi particolari che una legislazione penale moderna non può eludere. Da un lato occorre mettere definitivamente a fuoco il nodo della individuazione delle persone fisiche responsabili dei reati commessi nell’esercizio della attività imprenditoriale, e più in generale il problema delle responsabilità penali complessive. Dall’altro occorre essere attenti a predisporre una disciplina di diritto penale tributario che sia in grado di esercitare anche nei confronti dei grandi gruppi imprenditoriali una sufficiente efficacia intimidativa, e soprattutto non consenta che fra le sue maglie possano passare, tanza, sia comunque legittimato a colmare senza indicazioni da parte del legislatore delegante. (45) FIORE, Tipologia delle incriminazioni, cit., p. 164 s.; da ultimo, con particolare vigore, MOCCIA, Riflessioni, cit., p. 133 ss., nel quadro di una auspicata opera di complessiva ricatalogazione dei valori codicistici.


— 1019 — come oggi accade con relativa facilità, consistenti operazioni di elusione di imposta formalmente legali ma nella sostanza gravemente pregiudizievoli per gli interessi finanziari dello Stato. Come è noto, in tema di individuazione delle persone fisiche chiamate a rispondere dei reati fiscali commessi nell’esercizio di attività di impresa i problemi sono rilevanti (46). Essi riguardano di volta in volta, a seconda della struttura della società, le posizioni dell’amministratore unico, dell’amministratore delegato, dell’intero consiglio di amministrazione, dell’amministratore dissenziente, dell’amministratore di fatto, ecc.; riguardano, in secondo luogo, la posizione degli organi di controllo: sindaci, revisori ufficiali dei conti, amministratori ed operatori delle società di revisione. Nel settore della responsabilità per gli illeciti fiscali la stessa materia generale della delega di funzioni e dell’affidamento a terzi di compiti inerenti agli adempimenti tributari (problemi di responsabilità dei dipendenti e dei professionisti, e correlativamente responsabilità del contribuente che si è loro affidato per l’espletamento di funzioni), già di per sè complessa, solleva d’altronde problemi particolarmente delicati (47). La posizione di speciale pregnanza che in tale settore assume il contribuente rende difficile pensare ad uno scarico ampio di responsabilità in caso di delega a terzi; la difficoltà tecnica e gli adempimenti complessi della materia tributaria inducono per contro a ritenere sovente incolpevole chi si è affidato a terzi per l’analisi dei suoi problemi fiscali e per l’espletamento delle pratiche relative (48). Le questioni diventano d’altronde ancora più complesse di fronte alla realtà delle grandi organizzazioni multinazionali, costituite da differenti società collegate fra loro anche su base transnazionale, e rispondenti a lo(46) Per l’analisi di questi problemi cfr. PADOVANI, I soggetti responsabili per i reati tributari commessi nell’esercizio della impresa, in questa Rivista, 1985, p. 367 ss.; SERIANNI, Cenni generali sulla responsabilità degli amministratori di società per i reati disciplinati dalla legge n. 516/82, in Rass. trib., 1985, p. 371; PATALANO, La responsabilità penale di amministratori e sindaci, in Il fisco, 1983, p. 2533; GROSSO, I soggetti responsabili, in Responsabilità e processo penale, cit., p. 39 ss.; in generale PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penale, in Riv. soc., 1962, I, 285; CALVI, La responsabilità penale degli amministratori di società e dei direttori generali delle imprese, in Il fisco, 1989, p. 4519; per una ampia ricostruzione dello stato della questione, da ultimo, DARAIO, Il rischio penale tributario nell’esercizio dell’impresa, in Annali di diritto e procedura penale dell’Università di Salerno, 1994, p. 53 ss. (47) Su tali questioni v., per tutti, PADOVANI, I soggetti, cit., p. 379 s.; CARACCIOLI, La responsabilità penale dei professionisti e revisori contabili, in Il fisco, 1983, p. 2428; GROSSO, Soggetti responsabili, cit., p. 71 ss.; in generale sul problema della delega di funzioni, FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, 1984; PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982, IV, p. 181 s. (48) Cfr. in particolare PADOVANI, I soggetti, cit., p. 381 ss.


— 1020 — giche e decisioni di gruppo. A questo riguardo, oltre ai problemi concernenti la individuazione dei soggetti responsabili operanti nella struttura di ciascuna società autrice di illeciti fiscali, si pongono questioni riguardanti i rapporti fra società controllanti e società controllate: posizione di garanzia, e di conseguente responsabilità per omesso controllo e impedimento, da parte della società controllante rispetto agli illeciti della società controllata; problemi di responsabilità della società controllante in caso di direttiva di gruppo a realizzare illeciti fiscali eseguiti dalla società controllata; problemi di eventuale esenzione o attenuazione della responsabilità della società controllata per avere eseguito direttive illecite di gruppo, ecc. (49). L’ordinamento giuridico italiano non disciplina queste ipotesi con una normativa ad hoc; nè la questione ha sollecitato più di tanto l’attenzione della dottrina italiana, nel cui ambito sono emersi comunque orientamenti diversi, taluni tendenti a negare del tutto l’esistenza di posizioni di garanzia della società controllante, altri favorevoli a riconoscere invece, a diversi livelli, l’esistenza di posizioni di tale tipo (50). E se pure la legislazione tributaria fornisce una indicazione specifica in materia di IVA (51), alla luce della quale si potrebbe anche sostenere l’esistenza di una posizione di garanzia a carico della società capogruppo in relazione alla presentazione della dichiarazione IVA della controllata (52), difficilmente tale principio potrebbe essere suscettivo di applicazione al di là di questo ambito circoscritto (53). In assenza di una disciplina ad hoc, stante la difficoltà di trasporre automaticamente nel settore penale ipotesi (49) Su questi problemi v., da ultimo, il quadro riassuntivo dello stato della legislazione e della dottrina tratteggiato da VIAZZO, Profili, cit., p. 249 ss. (50) Come è stato chiarito con precisione (VIAZZO, Profili, cit., p. 250 s.), nella dottrina italiana sono emerse, in assenza di una disciplina ad hoc, posizioni differenziate: a) i doveri di garanzia resterebbero a carico degli amministratori delle singole società, mentre una responsabilità concorsuale potrebbe scaturire soltanto da univoche direttive di gruppo (PEDRAZZI, Gestione d’impresa, cit., p. 130); b) i doveri di garanzia sussistono anche a carico degli amministratori della capogruppo quando in concreto si possa individuare, con riferimento alla dinamica dei rapporti tra le società del gruppo, una unicità di impresa (PAGLIARO, Profili generali del diritto penale di impresa, in Ind. pen., 1985, p. 26); c) devono essere coinvolti tutti i titolari dei poteri di eterodeterminazione, evitando di concentrare la responsabilità su meri esecutori di direttive di gruppo (CARLETTI, La responsabilità penale nel gruppo di società: il caso Icmesa di Seveso, in Riv. giur. lav., 1984, IV, p. 26). (51) Art. 73 D.P.R. n. 633/72, modificato dal D.P.R. n. 24/79, che consente ai fini IVA la considerazione unitaria di più soggetti diversi ove ricorra una situazione di controllo, individuabile quando una società possieda più del 50% delle azioni o quote di altra società. In tale situazione le dichiarazioni delle società controllate possono essere presentate dalla società controllante all’ufficio del proprio domicilio fiscale, ed i versamenti possono essere effettuati presso lo stesso ufficio al netto delle eccedenze detraibili. (52) Così VIAZZO, Profili, cit., p. 251. (53) Cfr., ancora, VIAZZO, Profili, cit., p. 251 s., il quale soggiunge che gli amministratori della capogruppo sarebbero comunque chiamati a rispondere, anche al di fuori dei


— 1021 — civilistiche di individuazione dell’effettivo detentore del potere sociale all’interno di organizzazioni complesse (54), non resta che constatare l’esistenza di una lacuna le cui conseguenze possono essere molto gravi (si rischia ad esempio di punire i semplici esecutori di deliberati altrui, lasciando impuniti i titolari del potere di decisione). Si impone dunque una rinnovata presa di coscienza di questi rilevanti problemi ed un intervento legislativo adeguato. Da un lato occorre che il legislatore si faccia carico di affrontare, quantomeno agli effetti del diritto penale tributario, il tema della individuazione delle persone fisiche responsabili degli illeciti della persona giuridica; dall’altro, soprattutto, che si preoccupi di definire obblighi e responsabilità in caso di gruppi di società. Ma non solo. La esistenza di realtà societarie complesse, e la constatazione che le manifestazioni di criminalità economica sono sempre più sovente espressione della volontà sociale e della politica di impresa piuttosto che estrinsecazione di cattiva condotta della singola persona fisica, impongono di affrontare il problema, all’attenzione della dottrina penalistica internazionale, della responsabilità penale diretta delle stesse persone giuridiche, sola o congiunta a quella delle persone fisiche che operano a loro nome (55). Questo problema ha suscitato e suscita tuttora in Italia forti resistenze ed obbiezioni di tipo sia teorico (56) sia pratico (57), tanto che la limiti segnati dall’art. 73 D.P.R. n. 633/72, ove avessero costretto i consiglieri delle societàfiglie ad adottare una politica fiscale illegittima. (54) Su di queste v., da ultimo, SCHIANO DI PEPE, Il gruppo di imprese, 1990, passim. VIAZZO, Profili, cit., p. 252 s., precisa che per il cultore di scienze criminali l’approccio forse più congegnale alla materia è la de facto directors doctrine, estrinsecata nel Companies Act del 1985, ma che essa deve essere comunque considerata con moltissime cautele; tanto più che lo stesso ordinamento giuridico francese, particolarmente sensibile al fenomeno dei gruppi societari, non ha mai utilizzato tale modello per estendere la sfera dei garanti ai diversi livelli della struttura, eventualmente scriminando i meri esecutori della politica di impresa (su quest’ultimo punto, MILITELLO, Gruppi di società e diritto penale nell’esperienza francese, in Riv. soc., 1989, p. 792). (55) Nel nostro paese il problema è stato per la prima volta posto concretamente, e con efficacia, sul tappeto da BRICOLA, Il costo del principio « societas delinquere non potest » nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista, 1970, p. 951 s.; dello stesso v. altresì Luci ed ombre nella prospettiva di una responsabilità penale degli enti (nei paesi della CEE), in Giur. comm., 1979, p. 647 s. Nella letteratura successiva cfr. MARINUCCI-ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in questa Rivista, 1971, p. 681 s.; PALAZZO, Associazioni illecite e illeciti nelle associazioni, in questa Rivista, 1976, p. 458 ss.; PECORELLA, « Societas delinquere potest », in Riv. giur. lav., IV, 1977, p. 41 ss. (56) Individuabili soprattutto nella esistenza del principio costituzionale di personalità della responsabilità penale, che sarebbe incompatibile con la configurazione di una responsabilità penale delle persone giuridiche. Sul punto cfr., per tutti, GROSSO, Responsabilità penale, in Noviss. dig. it., vol. XV, 1968, p. 712; contra, BRICOLA, Il costo, cit., p. 951 s. (57) Si è osservato che la utilizzazione della pena pecuniaria, sia pure in una prospet-


— 1022 — sua stessa esistenza è stata, ad esempio, recentemente ignorata dai componenti della commissione che ha redatto lo schema di legge-delega di un nuovo codice penale del quale ho fatto cenno testè. Non credo che esorcizzare il problema ignorandolo sia tuttavia, oggi, fare cosa utile alla scienza penalistica italiana. Occorre piuttosto valutare senza preconcetti la relativa problematica, approfondendo la esperienza dei paesi che da tempo hanno sperimentato questo tipo di responsabilità (58), e verificando se, ed entro quali limiti, essa sia proponibile anche per il nostro Paese. Ove si riuscisse a superare le difficoltà di natura costituzionale che si frappongono alla introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche, il settore dei reati tributari potrebbe aprirsi utilmente alla nuova esperienza. Una volta che si ritenesse utile sperimentare la nuova ipotesi di responsabilità penale, occorrerebbe comunque prestare grande attenzione a quale modello specifico fare riferimento, allo scopo di evitare che la utilizzazione delle sanzioni penali pecuniarie finisca per risultare più o meno agevolmente assorbita dalle grandi imprese sotto il profilo di un ulteriore costo di produzione (59), e la utilizzazione di sanzioni di tipo interdittivo o sospensivo, incidendo sulla attività produttiva, venga a ritorcersi in ultima analisi sui lavoratori e sui consumatori. Come osservavo poco fa, per altro verso è necessario che il legislatore si faccia finalmente carico della questione concernente le operazioni elusive, sostanzialmente truffaldine, praticate all’interno dei gruppi di società, o comunque dalle grandi società commerciali, allo scopo di abbattere l’onere fiscale complessivo: esempi, l’acquisto di una società passiva al solo scopo di effettuare la sua incorporazione in una società avente protiva di adeguamento alla consistenza del profitto illecito conseguente alla realizzazione del reato e alle dimensioni economiche della società, rischia di rivelarsi in ogni caso di scarsa efficacia: essendo difficile commisurare la pena pecuniaria a livelli tali da impedire che essa venga conglobata nei costi di produzione e pertanto scaricata sui consumatori, e rischiando le pene di tipo interdittivo o sospensivo (e le stesse pene pecuniarie se eccessivamente elevate) di incidere negativamente sul processo produttivo, e pertanto sulle esigenze occupazionali e retributive dei lavoratori. Su questi punti cfr. PADOVANI, Le sanzioni « alternative » nel diritto penale del lavoro, in Riv. giur. lav., IV, 1978, p. 23 s., passim; MARINUCCI-ROMANO, Tecniche normative, cit., p. 687 s.; FLICK, Problemi, p. 449 s. (58) Per una approfondita ed interessante analisi della esperienza statunitense in materia di applicazione alle persone giuridiche delle sanzioni penali pecuniarie v. il recente saggio di DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista, 1995, p. 88 ss. Per una sia pure schematica rassegna delle legislazioni europee che prevedono la responsabilità penale delle persone giuridiche (Olanda, Danimarca, Jugoslavia e Portogallo) cfr. VIAZZO, Profili, cit., p. 261 ss.; sulla recentissima disciplina francese, cfr. infine DE SIMONE, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista, 1995, p. 189 ss. (59) Sulla soluzione statunitense di questo problema v. DE MAGLIE, Sanzioni penale, cit., p. 118 ss.


— 1023 — fitti imponibili e di attenuare così il carico fiscale di quest’ultima; la fusione di una società attiva con una passiva al solo scopo di consentire analoga diminuzione del carico fiscale di quella attiva, operazioni triangolari di acquisto al solo scopo di abbattere il carico fiscale complessivo del gruppo, ecc (60). Per colpire queste forme di utilizzazione abnorme di strumenti privatistici non è sufficiente la formulazione tradizionale delle fattispecie di frode fiscale o di dichiarazione infedele, poichè nelle operazioni descritte non si usa documentazione falsa, nè si procede a dichiarazioni mendaci, ma ci si limita ad un impiego di istituti tipici di diritto privato, impiego sostanzialmente fraudolento ma formalmente legale. Di qui la necessità di analizzare, ancora una volta, le legislazioni dei paesi che hanno sperimentato strumenti di prevenzione e di repressione di tali fenomeni (61) allo scopo di verificare se, ed entro quali limiti, essi siano utilizzabili nel nostro Paese. CARLO FEDERICO GROSSO

(60) Su queste situazioni v. VIAZZO, Profili, cit., p. 255 ss., al quale si fa riferimento per ulteriori indicazioni bibliografiche. (61) Su talune di queste esperienze v., ancora, VIAZZO, Profili, cit., p. 257 ss.


RICORDO DI FRANCO BRICOLA (*)

1. Siamo convenuti — colleghi italiani, della Germania, della Spagna, del Portogallo — per celebrare con il nostro contributo di pensiero e di discussione l’opera di Franco Bricola, maestro grande e completo delle scienze penalistiche, e amico di una vita. L’articolazione in quattro tavole rotonde del convegno, organizzato con sapienza e affetto dagli allievi, ha voluto rispecchiare la varietà dei temi affrontati da Bricola in trentacinque anni di lavoro. In realtà, la sua produzione ha un arco tematico assai più ampio. Spazia da alcuni capitoli centrali della parte generale del diritto penale, all’intera teoria generale del reato; dai rapporti tra dogmatica e politica criminale, ai nessi tra diritto e processo penale; dall’evolversi del sistema sanzionatorio riservato alle persone fisiche, all’individuazione di sanzioni per le persone giuridiche; dai più disparati capitoli della parte speciale collocati dentro il codice, ai settori più vitali e moderni della legislazione penale complementare; dai problemi della riforma di singoli settori dell’ordinamento, ai problemi di fondo di ogni pensabile riforma del diritto penale italiano. Posto di fronte a un’opera tanto vasta, il compito bello e difficile che mi compete è di presentarla in un quadro d’insieme. Un compito indicibilmente bello. Rivedere i singoli lavori di Bricola, ricollocandoli nell’insieme della sua produzione, è stato fonte di continuo stupore — per il respiro, la profondità, la capacità costruttiva, la concretezza, il rigore, l’intuito, la fantasia sbrigliata con cui ho visto trattare da Bricola i temi più disparati. È stata una rilettura fonte anche di godimento — per aver rivissuto l’inesauribile fecondità di quella produzione. Una fecondità che ha generato fecondità negli altri: quanti i dibattiti; quante le prese di posizione alle quali siamo stati stimolati, obbligati dai contributi di Bricola. E questo convegno — onorato dalla presenza di tanti studiosi di alto rango provenienti da tanti Paesi — ne è solo un esempio: sta a mostrare che la fecondità, la risonanza della complessiva produzione di Bricola si è dispiegata in profondità nella comunità scientifica italiana, ma andando ben oltre i suoi confini. (*) Si tratta del testo della Commemorazione di Franco Bricola, letta in apertura del Convegno ‘‘Il diritto penale degli anni ’90. In ricordo di Franco Bricola’’, svoltosi a Bologna dal 18 al 20 maggio 1995. Non sono state riprodotte le frasi conclusive di cordoglio e saluto.


— 1025 — La presenza di tanti autorevoli conoscitori dell’opera di Bricola mi autorizza, anzi, ad adempiere al mio compito, invitandoli a rivedere con me alcune tra le opere più significative della sua produzione, la cui rilettura mi ha ricatturato, provocando un piacere che vorrei condividere con chi mi ascolta. 2. Volgendo lo sguardo agli scritti di teoria generale del reato, l’attenzione è subito attratta dalla monografia Dolus in re ipsa, che Bricola scrisse nel 1960, agli inizi della sua attività scientifica. Colpisce la straordinaria attualità di quest’opera prima. Vi si trovano risposte equilibrate, ma ferme, a una delle tendenze più allarmanti del diritto penale contemporaneo: la tendenza a cambiar forma, per alleviare alla pubblica accusa il peso di provare la presenza dei più disparati elementi del reato. Spesso è lo stesso legislatore ad assecondare questa tendenza, creando ogni sorta di fattispecie di ripiego: reati di pericolo — sempre più spesso di pericolo astratto — al posto di reati di danno; e un numero crescente di reati colposi, al posto e a fianco dei reati dolosi. Quando poi il legislatore non interviene, sono la dottrina e la giurisprudenza a maneggiare la dogmatica come strumento di politica criminale al servizio di una repressione libera da impacci. A farne le spese è soprattutto il dolo, svuotato nella struttura, nell’oggetto, nei criteri di accertamento. E nell’opera di Bricola si trovano altrettanti ‘‘no’’ motivati a quell’insieme di svuotamenti: no all’errore di metodo di chi ricostruisce il concetto di dolo scegliendo, come prototipo, la sua forma marginale: il dolo eventuale; no alla mutilazione del momento volitivo, che rende il dolo indistinguibile dalla colpa cosciente; no al normativismo della scuola di Kelsen — più radicale ma tanto più lucida degli odierni normativisti — che al posto dei reali processi psicologici colloca esangui imputazioni; no, soprattutto, alle tendenze giurisprudenziali e dottrinali a svincolare l’accertamento del dolo dal singolo caso concreto e dal singolo agente, ricorrendo a generalizzazioni e presunzioni che finiscono col sostituire il dolo con la colpa, equiparando le effettive rappresentazioni del singolo agente, a ciò che ‘‘poteva’’ e ‘‘doveva’’ sapere questo o quell’astratto homunculus ideale. Naturalmente, Bricola è ben consapevole dei rapporti di interdipendenza tra diritto penale e processo penale. Lo è sempre stato. Nel 1960, nel Dolus in re ipsa, osserva quei rapporti dall’angolo visuale del diritto penale, e caldeggia un diritto penale praticabile, aperto ai problemi probatori, ma non piegato e stravolto dai problemi probatori. Nel 1991, scrivendo il suo contributo in memoria del maestro Pietro Nuvolone (Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale), Bricola rovescia il punto di osservazione: analizza le profonde ripercussioni del nuovo pro-


— 1026 — cesso penale su un diritto penale sostanziale vecchio, e da riformare. Ma nel 1960 come nel 1991, qualunque sia il punto d’osservazione, Bricola pensa e guarda da penalista completo, che sa padroneggiare e sa cogliere nessi, come interprete e come politico del diritto, fra le scienze penalistiche nel loro intricato insieme. 3. Molti altri sono i lavori di ampio respiro dedicati da Bricola a temi di parte generale: lavori dai quali scaturisce, a decenni di distanza, un’inesauribile vena di progresso scientifico. È già il caso della seconda monografia, apparsa nel 1961, appena un anno dopo la prima. Sotto il titolo Fatto del non imputabile e pericolosità, Bricola affronta il tema dei presupposti delle misure di sicurezza riservate a talune categorie di soggetti non imputabili socialmente pericolosi. Le conclusioni cui approda Bricola possono non essere condivise da chi le ritenga in contrasto con le scelte compiute dal legislatore italiano, giudicandole diverse da quelle compiute da legislatori di altri Paesi. Tuttavia, la grande finezza scientifica e la sensibilità politico-criminale con cui Bricola esamina una serie di problemi cruciali (come l’errore non condizionato da infermità o immaturità, l’errore condizionato da infermità assoluta, i casi di automatismo psichico, la rilevanza delle cause di non punibilità) rendono questo lavoro punto di riferimento obbligato, ancora oggi, per chiunque tenti di accostarsi a un tema tanto impervio. 4. Ma il capolavoro di Franco Bricola teorico delle dottrine generali del diritto penale, e in assoluto il suo capolavoro, è la fondamentale Teoria generale del reato, pubblicata nel 1973. Con questa opera, che ha segnato un passaggio d’epoca, la dimensione politica del diritto penale è entrata — con la forza vincolante dei precetti costituzionali — dentro tutti i discorsi scientifici dei penalisti. Sulle solide basi della legge fondamentale Bricola ha innanzitutto edificato la struttura formale del reato, come ‘‘offesa colpevole’’ ai beni giuridici, e ne ha tratto esplicitamente i principali corollari: i delitti di attentato, i reati a dolo specifico, i reati di pericolo presunto possono armonizzare con la Costituzione solo se ricostruiti come reati di pericolo concreto; d’altra parte, la rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza esige almeno la colpa, condannando all’illegittimità le ipotesi di responsabilità oggettiva, ed esige almeno la ragionevole possibilità di conoscere la norma penale violata, imponendo una rilettura in questo senso dell’art. 5 c.p. La Costituzione è però anche una tavola di valori, che delimitano contenutisticamente, secondo Bricola, le scelte del legislatore. Tutelabili penalmente possono essere non tutti i beni individuali o collettivi, ma solo i beni costituzionalmente rilevanti: gli unici beni la cui salvaguardia può bilanciare il sacrificio della libertà personale (uno dei massimi valori costi-


— 1027 — tuzionali), che ancora oggi consegue — direttamente o indirettamente — ad ogni tipo di pena. Infine, la Costituzione è anche, e soprattutto, il luogo in cui si individuano i poteri dello Stato, il loro rango, le loro attribuzioni. È proprio qui — nella forma dello Stato — che si incarnano le basilari scelte politiche che fondano il patto costituzionale. E Bricola valorizza la dimensione politica del diritto penale, riservando la produzione delle norme incriminatrici al potere dello Stato politicamente più rappresentativo: al Parlamento. Solo agli atti normativi provenienti in via esclusiva dal Parlamento si riferisce — può riferirsi — la riserva di legge, che, se è assoluta, non può non tagliar fuori sia le intrusioni del potere esecutivo, anche nella forma del decreto legislativo e del decreto legge, sia gli occulti interventi creativi del potere giudiziario, favoriti da norme incriminatrici sprovviste della necessaria precisione e determinatezza. Un duplice ‘‘tagliar fuori’’, che Bricola aveva già delineato nella monografia del 1965, intitolata programmaticamente: La discrezionalità del diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, e che poi ribadirà nel 1981, illustrando per il Commentario BrancaPizzorusso il secondo e il terzo comma dell’art. 25 Cost. Chi ha avuto la pazienza di ascoltarmi sa quali parti di questa imponente ricostruzione del diritto penale su basi costituzionali abbiano incontrato riserve, e quali, invece, abbiano messo radici profonde nella scienza penalistica italiana, producendo frutti anche impensati. È stato del resto lo stesso Bricola, che nel 1981, scrivendo un ampio saggio sui Rapporti tra dogmatica e politica criminale, ha tracciato un lucido bilancio dei tanti sviluppi che hanno avuto le sue tesi. Profonde sono state, d’altra parte, le ripercussioni di quelle tesi anche nel tessuto del nostro ordinamento. Per documentarlo, consentitemi di ripetere quanto Dolcini ed io abbiamo potuto constatare di recente, analizzando le decisioni della Corte Costituzionale nella materia penale: ‘‘decisioni sempre più frequenti, sempre più penetranti, plasmatrici, anche nei dettagli, di quel ‘‘volto costituzionale del diritto penale’’, tratteggiato con ammirevole preveggenza, più di vent’anni fa, da Franco Bricola’’. 5. Franco Bricola non conosce la fatica del concetto: non c’è argomento e problema, per quanto nuovo e mai arato, che egli non sappia affrontare con inesauribile ricchezza di spunti. La sua è una gaia scienza. Anche se gli arridono successi nel mondo accademico, e da ultimo nella professione forense, nulla può imporgli una sosta al piacere di una rinnovata ricerca. Così si spiega, anche se continua a destare ammirato stupore, la multiforme produzione di Bricola in tutte le altre direzioni dell’investigazione penalistica. 6. Tra gli studi di ‘‘parte speciale’’ eccellono i tanti saggi dedicati ai più disparati temi del diritto penale dell’economia. Bricola è anzi tra i


— 1028 — maestri del diritto penale dell’economia; la tavola rotonda ad hoc, programmata dagli organizzatori del convegno, ne è solo il suggello visibile a tutti. Già nel lontano 1965, Bricola affrontava un tema oggi divenuto urgente, scrivendo sui Profili della pubblicità commerciale. Tra il 1984 e il 1992, di pari passo con il veloce evolversi dei mercati finanziari, e la correlativa crescita di una disciplina penale vitalissima ma disorganica e frastagliata, Bricola prende via via posizione, gettando luce sui problemi della tutela indiretta del risparmio, dell’accesso ai mercati, del funzionamento delle autorità pubbliche di controllo, della trasparenza e dell’informazione societaria. Nello stesso arco di tempo, Bricola si occupa del cuore dell’attività economica — l’impresa — scrivendo nel 1985 su Lo statuto dell’impresa: profili generali costituzionali e nel 1990 su Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali. Il filo rosso che cuce le sue indagini è ancora e sempre la Costituzione, fondamento e limite dell’intervento penale anche nella materia economica. Nessuna furia repressiva; Bricola però non ignora che la criminalità d’impresa, come espressione della ‘‘politica d’impresa’’, è un fenomeno imponente, che esige tipi di sanzioni e criteri di imputazione modellati e rivolti direttamente all’impresa. Oggi si tratta di un problema dappertutto all’ordine del giorno. Dopo la recente introduzione della responsabilità penale delle persone giuridiche anche in Paesi, come Portogallo e Francia, in passato lontanissimi dall’infrangere un antico tabù; dopo la raccomandazione n. 18 del 1988 da parte del Consiglio di Europa sulle sanzioni applicabili alle imprese, anche in Italia diventa urgente una discussione su un tema difficile, ma non più eludibile. Una discussione che Bricola, con la consueta lungimiranza, aprì sin dal 1971, scrivendo su Il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del fenomeno societario; e che riprese nel 1978, nello scritto Responsabilità penale per il tipo e per il modo di produzione. La discussione dovrà continuare, naturalmente su basi più aggiornate; ma le riflessioni e le proposte di Bricola resteranno un passaggio obbligato per ogni soluzione meditata. 7. La fecondità di Bricola, studioso della parte speciale, si è manifestata anche sul versante dei delitti contro la Pubblica Amministrazione. Anche in questo campo di materia, Bricola ha lo sguardo rivolto ai profili costituzionali, soprattutto per ricostruire su nuove basi il catalogo dei beni giuridici: esemplari, in questo senso, la prolusione sassarese del 1968, ancora viva nella mia memoria, su La tutela penale della Pubblica Amministrazione: principi costituzionali. Ma la trama delle indagini di Bricola è fitta di indicazioni sotto molti altri profili. Penso all’importante voce Interesse privato in atti d’ufficio, del 1972, e al contributo del 1982


— 1029 — su Sovvenzioni all’industria e diritto penale: vi è un’abbondanza di riflessioni e spunti, che Bricola mette oggi a disposizione dei tanti che avvertono l’urgente bisogno di ‘‘riformare la riforma’’ dei delitti contro la Pubblica Amministrazione. 8. Bricola si è autodefinito illuminista. È una immagine calzante, solo però se non si perdono di vista i due lati dell’illuminismo, soprattutto sul terreno penale. Illuminismo vuol dire, in primo luogo, garanzia dagli arbitrii, apposizione di limiti stringenti alla potestà punitiva. Sotto questo profilo, Bricola è illuminista per eccellenza. Già lo mostra iI suo ‘‘volto costituzionale’’ dell’illecito penale. E ne danno conferma i suoi tanti lavori dedicati al sistema sanzionatorio: esemplare la lotta senza cedimenti contro l’illiberale frode delle etichette consumata dalle misure di prevenzione ante delictum, e la denuncia, negli anni del terrorismo, della tendenza a trasformare la politica del ‘‘diritto penale’’ in politica dell’‘‘ordine pubblico’’. Illuminismo vuol dire, però, anche riforma dell’esistente: progettazione di un nuovo diritto penale caratterizzato dalla costante ricerca di alternative alla pena detentiva, e dal ricorso alla pena — ad ogni pena — solo come extrema ratio. Anche sotto questo profilo Bricola è illuminista. Non lo abbandona mai un sano scetticismo; non perde mai la cattiva coscienza che deve avere ogni buon penalista, come indicano gli stessi titoli di alcuni suoi contributi (L’affidamento in prova al servizio sociale: ‘‘fiore all’occhiello’’ della riforma penitenziaria; La depenalizzazione nella legge 28 novembre 1981: una svolta ‘‘reale’’ nella politica criminale?). Tuttavia, Bricola mai tralascia la ricerca sia di un diritto penale più umano, sia di alternative alla pena. Mai. Lo testimonia anche l’ultimo suo scritto in materia di sanzioni, del 1985: con le armi del grande comparatista che è sempre stato, Bricola osserva La riscoperta delle pene private nell’ottica del penalista, e si interroga con disincanto, ma senza pregiudiziali, sugli spazi che la pena può cedere alla sanzione civile. 9. Questa mai sopita vocazione progettuale di Bricola, che tra l’altro lo ha portato a partecipare alla redazione del ‘‘progetto di riforma del codice penale’’ del 1992, è all’origine, se non m’inganno, della rottura di una vicenda culturale che aveva visto Bricola promotore, assieme a Baratta, di una lunga ricerca sul movimento della difesa sociale in Italia e, soprattutto, della non breve vita della rivista La questione criminale. Furono, in ogni caso, anni di straordinaria fecondità, di felice osmosi, di continue reciproche contaminazioni, di dibattiti appassionati, sino agli ultimi numeri della rivista: quando non pochi penalisti italiani, sotto la direzione di Bettiol e Nuvolone, rifletterono pubblicamente sul Codice Rocco cinquant’anni dopo.


— 1030 — Nel crogiuolo di quell’incontro e scontro fra anime culturali diverse si formò e si sviluppò una scuola di giovani studiosi. A quei giovani Bricola seppe dare quel che ha sempre dato ai molti giovani, che da tante parti lo hanno cercato, e hanno dialogato con lui: Bricola a tutti offriva stimoli alla ricerca, capacità di ascolto, vivo e sincero interesse, e sempre con i tratti di una ineguagliabile affabilità e modestia. Quei giovani studiosi di Bologna crebbero accademicamente: oggi sono i suoi tanti allievi disseminati fra tante Università come docenti già illustri; e per quanto si allontanassero dalle sue idee, e momentaneamente l’un dall’altro e fra loro — tuttavia il Maestro ha sempre avuto la capacità di stringerli tutti a sé e fra loro in una durevole comunità personale: la scuola di Bricola, la scuola di Bologna. 10. Prima di Bologna, dove giunse nel 1967, e rimase sempre salvo una breve parentesi romana, Bricola insegnò a Sassari come giovanissimo professore straordinario, dopo aver vinto il concorso del 1964. Prima di Sassari, Bricola aveva lavorato lungamente a Pavia, sotto la guida del suo grande maestro Pietro Nuvolone. Ma dovunque Bricola si sia recato — come docente e nei molti incontri e convegni che lo hanno visto protagonista — sempre ha avuto rapporti di colleganza improntati a quella sua naturale modestia, mai abbandonata anche negli anni in cui cresceva e spiccava, agli occhi di tutti, la sua non comune statura di studioso. * * * Illustri colleghi, cari amici, con questa mia relazione ho inteso rendere omaggio a un grande penalista, a un Maestro. Fra breve a questo omaggio seguirà l’omaggio ben più degno ed elevato, che verrà tributato a Bricola da Hans Heinrich Jescheck, maestro indiscusso delle scienze penalistiche europee che Bricola, per primo, considerò tra i suoi maestri, stringendo tra Friburgo e Bologna un rapporto culturale mai interrotto. Ai nostri omaggi si uniranno, durante il Convegno, i vostri contributi di discussione e di riflessione. Idealmente, li avremmo voluti consegnare tutti assieme di persona a Franco Bricola, come contributi in suo onore, al termine di un’operosa vita scientifica che ci auguravamo sarebbe stata tanto più lunga. Ora, invece, ci resta solo il rimpianto per l’apporto di sapere, i tanti stimoli, le tante illuminazioni, che Bricola avrebbe continuato a donare alla scienza penalistica — se un anno fa non lo avesse raggiunto improvvisamente la morte. GIORGIO MARINUCCI


SOCIETAS DELINQUERE NON POTEST (NEL RICORDO DI FRANCO BRICOLA) (*)

1. L’occasione di questo Convegno di studio su « Il diritto penale degli anni ’90 », in memoria di Franco Bricola, che è certo molto triste per un verso, ma quasi festosa per altro verso, per i tanti amici qui riuniti nel Suo ricordo, mi ha portato a riconsiderare il tema della responsabilità penale delle persone giuridiche, ma prima ancora a cercare di individuare le linee essenziali che hanno contrassegnato lo sviluppo del diritto penale dell’economia in questi ultimi anni. Così facendo, il ricordo del carissimo Franco si è fatto particolarmente presente e vivo, perché è stato naturale ed immediato riandare col pensiero al Convegno di Salice Terme su « Il diritto penale delle società commerciali », nel 1971, nel quale lo si ebbe relatore proprio sul tema sul quale torno oggi io stesso (1). E poi ad altra Giornata di studio cui partecipammo insieme, a Milano nel 1978, su « Comportamenti economici e legislazione penale » (2), che aveva tra i relatori anche il nostro moderatore di questa mattina, alla quale Franco contribuì con un acuto intervento ed una discussione vivace che è rimasta impressa nella mia memoria. Partire da quegli anni e quanto meno accennare in brevi tratti alle recenti linee di sviluppo del diritto penale societario e fallimentare, o forse meglio dire più in generale e genericamente economico, significa anche abbozzare in qualche misura un bilancio, anche per verificare se è possibile, e soprattutto in quali termini sarà possibile e auspicabile andare oltre in un prossimo futuro. 2. Se dunque proviamo a ricercare tali linee di sviluppo muovendo dalla prima delle date appena richiamate, cioè dall’inizio degli anni ’70, (*) È il testo, rielaborato e con l’aggiunta di note, di un intervento al Convegno su « Il diritto penale degli anni ’90 », svoltosi all’Università degli Studi di Bologna il 18, 19 e 20 maggio 1995, in ricordo di Franco Bricola. (1) Cfr. F. BRICOLA, Il costo del principio « societas delinquere non potest » nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in questa Rivista 1970, p. 951, tema, questo, ripreso poi con l’altro saggio, altrettanto noto, dal titolo Luci ed ombre nella prospettiva di una responsabilità penale degli enti (nei paesi della CEE), in Giur. comm. 1979, I, 647. (2) Si veda il volume degli atti dal medesimo titolo, a cura di C. Pedrazzi (Milano, 1979).


— 1032 — per giungere ai giorni nostri, credo possa risultare plausibile una distinzione abbastanza netta tra un diritto penale dell’economia per così dire classico, ovvero essenzialmente il diritto penale societario e fallimentare, e un diritto penale economico ormai profondamente diverso, che ho cercato altre volte di definire « di tipo pubblicistico », o « pubblico » a doppio titolo (3), perché avente ad oggetto di tutela beni o interessi decisamente e squisitamente collettivi, in particolare il pubblico risparmio. Nel primo di questi settori del diritto penale economico lo sviluppo è stato piuttosto modesto, per non dire pressoché nullo. Sì, certo, nel diritto societario la recezione italiana di direttive CEE ha condotto a modificare parzialmente anche alcune delle norme penali del corpus presente nel codice civile, agli artt. 2621 e seguenti. Ma non si tratta di grandi cose, anzi per lo più di semplici ritocchi, introdotti con il consueto modulo sanzionatorio, che non sempre tra l’altro sono stati dal nostro legislatore sensatamente coordinati con la normativa penale preesistente, dando luogo così anche a qualche serio problema di interpretazione (4). E ancora meno si è fatto in questi anni nel campo del diritto penale fallimentare, che è rimasto davvero fallimentare a tutti gli effetti, malgrado i ripetuti richiami, le sollecitazioni e le istanze di riforma che la dottrina si era sforzata di elaborare. Discorso diverso vale invece per l’altro settore del diritto penale societario, quello appunto che si distacca da una tutela dell’assetto ancora essenzialmente privatistico delle società commerciali e dei loro soci per entrare nel vivo di una tutela orientata in senso drasticamente pubblicistico: una tutela riferita, per intenderci, al pubblico risparmio di cui all’art. 47 Cost., piuttosto che alla iniziativa privata e alle forme principali dei suoi strumenti. Mentre infatti le norme penali del codice civile languivano e tuttora languono in maniera abbastanza pericolosa (si pensi a mo’ d’esempio al totale silenzio legislativo sulle implicazioni penali in tema di bilancio consolidato, con la conseguenza oggi di un ricorso quasi obbligato, ma non altrettanto ovvio, all’art. 2621 cod. civ. per i riflessi penali di eventuali falsità; quando invece la specificità di detto bilancio suggeri(3) Cfr. « Pubblico » e « privato » nella responsabilità degli amministratori e reati societari, in Jus, 1987, p. 144. (4) Un esempio vistoso è quello dell’art. 2621, n. 3, introdotto dall’art. 31 d.P.R. n. 30/1986, che accomunando nell’illecita distribuzione di acconti sui dividendi ipotesi di gravità molto diversa, in particolare incriminando la ripartizione di acconti che avvenga in mancanza di approvazione del bilancio dell’esercizio precedente o del prospetto contabile, oppure in difformità da essi (come anche sulla base di un bilancio o di un prospetto contabile falsi), anche se la situazione economico-finanziaria fosse floridissima e l’utile abbondantemente e certamente esistente, rischia di compromettere una versione ragionevolmente « sostanzialistica » del concetto di distribuibilità dell’utile da tempo affermata con riferimento all’art. 2621, n. 2. Sul punto, cfr. A. CRESPI, L’illegale ripartizione di utili e altri scritti di diritto penale societario, Milano, 1986, p. 137.


— 1033 — rebbe una considerazione normativa anche penale apposita) (5), un « diverso » diritto penale economico ha conosciuto invece negli ultimi due decenni un rigoglio come non era mai stato dato di vedere. Non alludo, si badi bene, a temi che, anche a seguito di forti insistenze dottrinali, nonché sulla scorta di collaudate esperienze straniere, hanno infine ricevuto una pur tardiva accoglienza normativa, come quello degli abusi di finanziamenti pubblici, anche comunitari, per i quali sono stati ora appositamente introdotti gli artt. 316 bis e 640 bis del codice penale; norme, queste, che forse, anzi senza forse non coincidono, per struttura ma anche per collocazione e inquadramento sistematico (6), con quanto molti di noi, tra cui proprio anche Franco Bricola, avevamo auspicato, ma che mostrano comunque sensibilità e apertura nella direzione di una indispensabile modernizzazione del nostro ordinamento. Alludo invece agli sviluppi degli apparati sanzionatori che corredano in modo quasi costante quell’ampia, amplissima serie di importanti interventi normativi che, iniziando dalla c.d. piccola riforma della società per azioni istitutiva della stessa Consob (1974), vanno dalla legge sui fondi comuni di investimento mobiliare (1983) alla legge sull’abuso di informazioni riservate (1991), dalla legge sulle società di intermediazione mobiliare (anch’essa del 1991) alla legge sulle offerte pubbliche di acquisto, di vendita e di scambio (1992), al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (1993) e alle leggi sui fondi comuni di investimento mobiliare e immobiliare chiusi (rispettivamente del 1993 e 1994) (7). In questo « tipo » di diritto penale dell’economia, dunque, non si può dire che si sia fatto poco. Al contrario: non vi è praticamente provvedimento legislativo, tra quelli ora menzionati, e non pochi altri che qui non sto a richiamare, che non chieda ausilio, in funzione rafforzatrice dei precetti, anche alla previsione di sanzioni. Non sempre è dato in verità di individuare un filo conduttore unitario e coerente, ma sarebbe ingeneroso non riconoscere che nello sforzo legislativo inteso ad adeguare il nuovo ordinamento dei mercati finanziari — specialmente nel settore bancario e mobiliare, meno in quello assicurativo — alle esigenze di un paese a struttura capitalistica avanzata, gli apparati di dissuasione sanzionatoria sono stati tenuti nel debito conto. Soprattutto sul terreno della salvaguardia delle garanzie di base in ordine alle condizioni e ai requisiti di accesso alle (5) Sul punto, ora, A. BARTULLI, Riflessioni sulla tutela penale dell’informazione societaria: bilancio di esercizio e bilancio consolidato, in Riv. soc., 1995 (in corso di stampa). (6) Si pensi in particolare alla collocazione dell’art. 316 bis, che, inserito tra i delitti del Capo I del Titolo II del codice penale, indica come soggetto attivo « chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione... ». (7) Il ritmo febbrile degli interventi legislativi in campo finanziario, con immancabile annesso minore o maggiore apparato sanzionatorio, è sottolineato di recente da C. PEDRAZZI, Conclusioni, in Mercato finanziario e disciplina penale, Milano, 1993, p. 325.


— 1034 — attività di intermediazione e su quello prioritario dell’informazione del pubblico degli investitori, sebbene anche qui talvolta con poco chiari, per non dire inspiegabili divari da settore a settore, si sono introdotti divieti ed obblighi e previste ex novo o potenziate le sanzioni per le relative inosservanze. E quanto agli obblighi di informazione, poi, dopo un considerevole rafforzamento di quelli di comunicazione alle diverse agenzie di settore, in funzione di una trasparenza degli assetti proprietari, ci si è spinti di recente sino alla previsione per gli intermediari finanziari di ampi obblighi di segnalazione in funzione antiriciclaggio e di lotta alla criminalità organizzata (8). 3. Ma la novità più rilevante nel diritto penale economico degli ultimi anni mi pare proprio possa dirsi la sempre maggiore diffusione di quella parte del penale in senso lato che è il diritto penale amministrativo. Pressoché inesistente, almeno come sistema, nel 1971, al tempo del Convegno sul diritto penale delle società commerciali cui accennavo poc’anzi, il diritto penale amministrativo ha ormai conosciuto e conosce oggi soprattutto, non solo nel nostro ordinamento, un rigoglio notevolissimo. Da noi, in particolare, si può dire che quasi dovunque, accanto a norme propriamente penali ma qualche volta anche da sole, a presidio di precetti legislativi sono state introdotte sanzioni penali amministrative. Posso ricordare qui, come esempi dell’una e dell’altra situazione, rispettivamente, i numerosi illeciti amministrativi presenti, accanto ad illeciti penali tradizionali, nella legge sulle offerte pubbliche di acquisto (9), di vendita o di scambio e, in numero ancora più elevato, nel T.U. in materia bancaria e creditizia (10), da un lato, e invece gli illeciti amministrativi pressoché « solitari » — sui quali tornerò tra qualche istante — della legge sulla tutela della libera concorrenza dall’altro. Questo crescente rilievo degli illeciti penali amministrativi ci avvicina direttamente al tema centrale di queste brevi riflessioni: per una discussione sulla accezione odierna e sulle prospettive prossime future del « societas delinquere non potest », infatti, la questione dell’alternativa tra tu(8) Da ultimo, in proposito, G.M. FLICK, Accessi al settore finanziario e segnalazioni degli intermediari: controlli, obblighi, responsabilità, in questa Rivista 1994, p. 1216, che sottolinea come con l’avvento di tali obblighi di segnalazione in capo agli intermediari finanziari si sia aperta una nuova fase degli interventi penali in materia economica. (9) Si noti soprattutto l’art. 29, co. 2o l. 149/1992, che assoggetta a sanzione amministrativa, indifferenziatamente, tutte le violazioni delle norme contenute nel Capo II (« offerte pubbliche di acquisto e di scambio »), sempre che il fatto non costituisca già reato. Sull’impianto sanzionatorio della l. 149/1992, in generale, si veda F. SGUBBI, L’opa: profili di disciplina penale, in Mercato finanziario e disciplina penale, cit., p. 196. (10) Su alcuni dei problemi interpretativi sollevati dall’art. 144 d.P.R. 1o settembre 1993, n. 385, v. ora il mio Aspetti della nuova normativa penale del T.U. in materia bancaria e creditizia, in Banche e banchieri 1995, p. 523.


— 1035 — tela penale e tutela penale amministrativa acquista un’importanza primaria. Basta pensare, volendo, alle differenze osservabili nella tutela oggi offerta all’attività e agli interventi delle diverse Autorità di settore (non solo più Banca d’Italia e Consob, ma anche il Garante per la radiodiffusione e l’editoria, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, l’Isvap). Differenze considerevoli, con una tutela penale in senso proprio e con la previsione anche di pene detentive tutt’altro che trascurabili in taluni casi, e con tutela penale amministrativa e dunque sanzioni esclusivamente pecuniarie o comunque non detentive, invece, in altri casi (11). Ma a parte l’esigenza di una più razionale uniformità di fondo, sebbene occorra verosimilmente tenere conto, oltre che del concreto rilievo anche storicamente acquisito dalla singola Autorità di governo del settore, delle differenti « materie » oggetto di prescrizioni, nonché e soprattutto del maggiore o minor grado di affidabilità (o di reale concretizzabilità) delle prescrizioni medesime, interessa qui mettere in luce le possibili diversità, con i relativi riflessi anche sul piano dell’efficacia deterrente, in ordine ai destinatari delle sanzioni comminate dalla legge. Perché dove sia presente una norma di vera e propria natura penale, non sembra che allo stato attuale possa mettersi in dubbio che i soggetti penalmente responsabili, appunto, della violazione potranno individuarsi soltanto nelle singole persone fisiche detentrici, nella società commerciale o persona giuridica in genere, di un potere gestorio o di controllo, mentre là dove sia prevista una sanzione penale amministrativa potrebbe non risultare in linea di principio esclusa una responsabilità anche della società o ente medesimo. 4. Un apparato sanzionatorio penale amministrativo pare dunque presentarsi in termini più flessibili e possibilistici nei confronti del problema della responsabilità penale delle persone giuridiche. Verificare questo dato, che non è sicuramente estraneo alla stessa forte espansione di tale tipo di sanzioni nel diritto societario, equivale a pronunciarsi sulla domanda di superamento o di abbandono del principio societas delinquere non potest, domanda che negli ultimi anni si va intensificando nel mondo scientifico non solo italiano (12). Ora, effettivamente rispetto a detto principio il diritto penale « auten(11) Insiste da ultimo su tali sperequazioni di tutela tra le diverse Autorità di settore L. CONTI, La politica legislativa: criteri di scelta fra sanzioni penali, amministrative e civili, in Mercato finanziario e disciplina penale, cit., p. 53. (12) Si vedano per esempio C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 1021, 1046, nonché L’autunno del patriarca, in questa Rivista 1994, p. 1220, 1248; K. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in questa Rivista 1995, p. 615; e ora anche G. DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in questa Rivista 1995, p. 229.


— 1036 — tico » e il penale amministrativo si pongono in modo diverso l’uno dall’altro. Sul piano giuridico-formale io ritengo sia da ribadire che la responsabilità propriamente penale delle persone giuridiche trovi ancora, nel momento attuale, un ostacolo insuperabile nell’art. 27, co. 1o Cost. (13). E francamente non credo sia buona tattica, per chi auspichi un cambiamento nel senso del pieno abbandono del principio stesso, sorvolare su questo dato. L’innegabile impronta etica che il diritto penale ha sempre posseduto nelle intese normative anche costituzionali porta a riconoscere che nel nostro ordinamento la personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 cit. si radica, prima ancora che su una colpevolezza, su un insieme di fattori fisio-psichici che la colpevolezza stessa presuppone, identificabili solo in capo a persone fisiche. Si può lasciare impregiudicata, cioè, la questione se le connotazioni della condotta proprie del diritto penale siano compatibili con l’agire di una persona giuridica (14); ma si deve a mio avviso convenire senz’altro con la conclusione di Bricola quando, nell’esplorare le reali possibilità e i limiti di un superamento del societas delinquere non potest, pur equiparando sul piano oggettivo l’agire della persona fisica e quello dell’ente (come sul terreno negoziale-civilistico), si arrestava tuttavia di fronte al coefficiente della volontà colpevole (15). È vero che il costo eccessivamente elevato della ulteriore conservazione del principio lo portava poi ad ammettere a carico degli enti l’applicabilità di misure di sicurezza (o almeno di misure di sicurezza che, fondate su una « pericolosità oggettiva », non subirebbero preclusioni di (13) In questo senso, tra i molti, C. PEDRAZZI, La responsabilité pénale non individuelle, in Rapports nationaux italiens au X Congrès international de droit comparé, Milano, 1978, p. 750. I rapporti tra il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale e il societas delinquere non potest sono ora tratteggiati molto bene da A. ALESSANDRI, Commento all’art. 27, comma 1o Cost., in Rapporti civili, Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Torino, 1991, p. 150. (14) A favore di un concetto penale-costituzionale di azione come comportamento propriamente umano, tendenzialmente incompatibile con una responsabilità penale diretta di società o enti, mi sono espresso in Commentario sistematico del codice penale, I, 2o ediz., Milano, 1995, art. 42/9 ss. (15) F. BRICOLA, Il costo del principio « societas delinquere non potest », cit., p. 1011. Da questo aspetto dell’impostazione di Bricola dissente A. ALESSANDRI, Commento, cit., p. 158 (v. anche Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984, p. 55), il quale osserva che « una volta negata l’alterità tra organo ed ente riguardo al fatto materiale non si possono poi erigere barriere ‘‘logiche’’ allo scopo di negare l’immedesimazione anche per la volontà colpevole ». Ma credo che il pensiero di Bricola sul punto ora richiamato coincidesse in realtà con quello che Alessandri a ragione afferma poco dopo (p. 161), che cioè considerato come si formula il (= cosa si valuta nel) giudizio di colpevolezza, dalla introduzione nel sistema di una autentica responsabilità penale delle persone giuridiche « ne uscirebbe alla fine sfigurato, per così dire, il volto costituzionale del reato e della pena... » e « si darebbe vita ad un ‘‘diritto penale parallelo’’, del quale almeno nel nostro ordinamento non si possono non paventare i negativi retroeffetti ».


— 1037 — natura costituzionale) (16), ma resta a mio avviso significativo il suo fermo rifiuto nei confronti di una volontà colpevole della persona giuridica, che finirebbe per introdurre una colpevolezza collettiva. Questione diversa è, naturalmente, se un passo del genere (intendo: l’abbandono del principio nella nostra legislazione propriamente penale futura), in tempi come quelli odierni in cui eventuali modifiche costituzionali sono meno temute e anzi sembrano quasi ormai profilarsi all’orizzonte, non sia per caso da ritenersi positivo e da mettere senz’altro in conto. Ma su questo punto mi permetto di esprimere qualche seria riserva, poiché a me pare che la destinazione di norme relative a comportamenti (che si postulino) intrisi di una connotazione particolarmente negativa sul piano etico-sociale alle sole persone fisiche ha il pregio di esaltare lo specifico della persona umana e quella libertà del singolo che sta alla base della sua responsabilità (17). Direi di più: il superamento del principio comporterebbe a mio avviso il non trascurabile rischio di un graduale progressivo stravolgimento culturale dell’illecito penale e di un suo conseguente ulteriore « allargamento » nel nostro sistema, che è proprio l’opposto della direzione di cambiamento da molto tempo ampiamente condivisa e sollecitata. Pochi dubbi, invece, sulla circostanza che nel diritto penale amministrativo il societas delinquere non potest non si pone negli stessi rigidi termini. Una barriera di natura costituzionale qui non pare proprio sussistere (18): è infatti un penale che una legge ordinaria (la notissima « Modifiche al sistema penale » del 1981) ha modellato su quello propriamente penale in alcuni (pur importanti) principi, ma è al tempo stesso un diritto diverso, certamente « nuovo » rispetto a quello di sempre, affermatosi ormai in numerosi ordinamenti proprio anche per una tendenziale minore « gravità » o « consistenza » rispetto all’altro: non a caso i suoi luoghi, diciamo così, di elezione sono dati soprattutto da settori di larga anticipa(16) F. BRICOLA, Il costo del principio « societas delinquere non potest », cit., p. 1012. Riserve, sul punto, in C. PEDRAZZI, La responsabilité pénale non individuelle, cit., p. 750; critico A. ALESSANDRI, Reati d’impresa e modelli sanzionatori, cit., p. 61. (17) Da ultimo, sul punto, M. ROMANO, in M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, cit., III, art. 197/21, ove riferim. (18) La diversità dell’illecito penale amministrativo dall’illecito penale propriamente detto e la riferibilità dell’« intero testo » dell’art. 27 Cost. soltanto al secondo sono state più volte sottolineate dalla C. cost.: v. p.e. ordd. n. 420, 421/1987, in Giur. cost. 1987, I, p. 2879, 2881; ord. n. 502/1987, in Giur. cost. 1987, p. 3315; più di recente, ord. n. 159/1994, in Legisl. pen. 1994, p. 483 (per la non costituzionalizzazione del principio di irretroattività con riguardo alle sanzioni amministrative, cfr. sent. C.cost. 68/1984, in Legisl. pen. 1984, p. 250, ove si dà conto anche delle pronunce precedenti nel medesimo senso). Sul punto, C.E. PALIERO-A. TRAVI, Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, 1989, p. 376, ove riferim. Sviluppi del tema dei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo nell’ottica costituzionale si trovano ora in V. ANGIOLINI, Principi costituzionali e sanzioni amministrative, in Jus, 1995, p. 227, in particolare 237 ss.


— 1038 — zione di tutela per beni di rango non particolarmente elevato, oppure caratterizzati da particolari esigenze di ordine e di regolarità, come presidio o rafforzamento di norme organizzatorie. Riaffermare allora anche per il diritto penale amministrativo, seppur in assenza di una esplicita indicazione legislativa e di qualsiasi consistente tradizione storica, la preclusione di una responsabilità delle persone giuridiche, sembrerebbe operazione eccessiva, di mera e irrealistica conservazione. Anzi, questa diversità non certo di poco conto, che è opportuno riconoscere e patrocinare, tra diritto penale « vero e proprio » e diritto penale amministrativo, potrebbe divenire sempre più oggetto di riflessione proprio in sede di produzione normativa futura e, contro i rischi di diffusione di un indistinto e confuso Sanktionsrecht (19), guidare nel diritto penale degli affari (ma non solo in questo) il necessario sforzo di identificazione di divieti ed obblighi « per loro natura » destinati esclusivamente alle singole persone fisiche e divieti ed obblighi rivolti invece indifferenziatamente, oltre che ad esse, anche alle persone giuridiche. 5. Ammessa dunque o, più prudentemente, non esclusa da norme costituzionali positive una responsabilità penale amministrativa delle persone giuridiche, ci si deve ancora chiedere in quali limiti e con quali modalità essa possa concretamente prospettarsi, soprattutto in che rapporto possa o debba porsi con quella del singolo autore dell’illecito. Su questo punto, a me preme ribadire che anche la responsabilità dell’ente è opportuno si colleghi, o, meglio ancora, si innesti sulla responsabilità di singole persone fisiche. Non che non siano concepibili, ovviamente, o che già non esistano — sono anzi notoriamente ormai tutt’altro che rari — divieti ed obblighi riferiti dalla legge direttamente alla società; ma l’affermazione di una responsabilità, ancorché solo penale amministrativa, autonoma ed esclusiva dell’ente, se è vero che ragionevolmente semplificherebbe l’applicazione della sanzione, presenterebbe tuttavia il grave difetto di deresponsabilizzare i singoli autori, cioè coloro che in concreto l’illecito hanno intenzionalmente o negligentemente commesso (20). Non (19) Alla graduale affermazione a livello europeo di un unitario e anodino Sanktionsrecht, funzionale ai « bisogni della koiné giuridica », in quanto « contenitore omogeneizzante di più forme e più livelli di responsabilità per l’impresa », allude C. E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1046; L’autunno del patriarca, cit., p. 1249. (20) Concordo sul punto con K. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, cit., p. 631. Si spinge invece ad ammettere una responsabilità (penale amministrativa) diretta ed esclusiva della persona giuridica, per ipotesi costruite obiettivamente, sul rischio d’impresa, anziché sulla riprovevolezza individuale, nelle quali non sia « ravvisabile e anzi neppure concepibile alcun collegamento psicologico (agente-persona fisica) e fatto illecito », o nelle quali « l’illecito sia accertato ma non sia provabile, o al limite neppure identificabile — entro il reticolo di centri decisionali interni all’impresa — la


— 1039 — solo. Senza un radicamento della responsabilità dell’ente su quella del singolo, vi è anche il serio rischio di fermarsi ad una indistinta responsabilità collettiva, come tale verosimilmente generica e potenzialmente oggettiva. È questa del resto la non casuale evoluzione delle sanzioni comunitarie negli ultimi anni, per le quali la Corte di Giustizia si è spinta sino ad affermare la compatibilità con il diritto comunitario di forme di responsabilità oggettiva, negando pertanto che tra i principi generali di applicazione delle sanzioni vi sia quello del riscontro, nell’accertamento dell’illecito, di una colpevolezza (21). E analogo è a mio avviso il rischio cui potrebbe andarsi incontro anche nel nostro sistema nazionale, riguardo a disposizioni come gli artt. 15 e 19 della l. 287/1990, in tema di tutela della concorrenza e del mercato, quanto meno se le si interpreta nel senso della previsione di una responsabilità esclusiva dell’impresa o ente. Ma si tratta di interpretazione che pare corretta ed obbligata (22), se si pensa da un lato al testuale riferimento normativo (derivato del resto dal modello comunitario nella stessa materia) all’impresa o ente come destinatari degli obblighi, dall’altra allo stesso criterio di individuazione della sanzione amministrativa applicata dalla Autorità garante, dato da una percentuale dall’uno al dieci per cento del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio chiuso prima della notifica della diffida per l’intesa o l’abuso di posizione dominante (o del fatturato delle attività di impresa oggetto di concentrazione): con un punto di riferimento ed oltre tutto una dimensione economica di tale potenziale portata, dunque, che, in assenza di un’espressa specificazione, non sembra « istituzionalmente » correlabile a (o anche a) patrimoni di singoli. Un rischio, questo ora accennato, da non sottovalutare, per contrastare il quale potrebbe non risultare decisivo l’art. 31 l. personale responsabilità del soggetto o dei soggetti che di tale illecito possono dirsi autori in senso materiale, C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1044 (corsivi in originale). (21) Riferimenti sul punto in G. GRASSO, Nouvelles perspectives en matière de sanctions communautaires, in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1993, p. 269. Un quadro sintetico del diverso rilievo del principio di colpevolezza nell’illecito penale amministrativo sia negli ordinamenti nazionali dei Paesi membri dell’Unione Europea sia a livello comunitario si trova ora nell’Etude sur les systèmes de sanctions administratives et pénales des Etats membres ainsi que sur les principes généraux du système des sanctions communautaires (Commission des Communautés Européennes, sec (93), 16 luglio 1993), in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, p. 549, dove si conclude con la raccomandazione che « il principio di colpevolezza deve essere ora considerato quale principio generale del diritto comunitario ». (22) Decisamente in questo senso, del resto, è anche L. FOFFANI, Legislazione antitrust e disciplina delle partecipazioni al capitale di enti creditizi: profili penalistici, in questa Rivista 1991, p. 885. Cfr. anche, sul punto, il mio Marché boursier et pouvoir de sanction dans le droit italien, in Les petites affiches 1994, n. 71, p. 106. Sulle tecniche sanzionatorie della legge antitrust v. anche V. MILITELLO, La tutela della concorrenza e del mercato nella l. 10 ottobre 1990 n. 297, in Riv. trim. dir. pen. econ. 1991, p. 645.


— 1040 — 287/1990 cit., se è vero che, pur richiamando per le sanzioni amministrative in questione i principi generali dell’illecito amministrativo di cui alla l. 689/1981, introduce tuttavia la riserva « in quanto applicabili ». 6. È dunque a mio avviso ad un modello di responsabilità dell’ente aggiuntiva rispetto a quella delle singole persone fisiche che occorre ragionevolmente riferirsi quando si rifletta sui verosimili sviluppi del diritto penale amministrativo degli anni a venire: una responsabilità nell’insieme cumulativa, che mediante il riferimento al singolo autore consenta di dare ancora spazio fin dove possibile, nella struttura stessa dell’illecito, alla componente individuale-personalistica di una autentica colpevolezza, altrimenti di diritto o di fatto pericolosamente sacrificata, ma che parallelamente coinvolga anche la persona giuridica come tale e, discostandosi dagli schemi oggi vigenti della responsabilità soltanto sussidiaria o solidale di cui rispettivamente agli artt. 197 cod. pen. e 6, co. 3o l. 689/1981, arrivi a consentire, a seguito della relativa previsione ad hoc, una differente sanzione ed una conseguente distinta commisurazione (23). Affinché uno schema siffatto possa tradursi nella pratica, il cammino da percorrere non è tuttavia privo di ostacoli. La responsabilità della persona giuridica, infatti, potrà a seconda delle volte o essere fondata su un rapporto di « identificazione » o di « immedesimazione » tra il singolo autore persona fisica e l’ente, quante volte il primo abbia agito « come ente » o « per l’ente », nel suo nome e/o per suo conto, abbia egli stesso pensato e/o attuato la « politica » dell’ente, sia stato cioé con esso solidale, ovvero « dalla sua parte » (24); oppure, viceversa, venire in considerazione in un rapporto di potenziale « alterità », se non di contrapposizione tra i due soggetti, quante volte invece il singolo abbia operato sulla base di iniziative personali o addirittura si sia messo appunto, rispetto all’ente, in posizione antagonistica. Ora, nel primo caso, a fronte del positivo ancoraggio della responsabilità alla colpevolezza della singola persona fisica, non pare agevole giustificare la duplice imputazione del fatto (23) Un’analisi dei diversi modelli di responsabilità penale amministrativa della persona giuridica con particolare riferimento al settore economico si trova in C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1034. L’esigenza di un adeguamento della sanzione pecuniaria alle concrete dimensioni della società di volta in volta in questione, affinché non ne sia esclusa in partenza una qualsiasi efficacia deterrente, è ben nota e risalente: cfr. per esempio già G. MARINUCCI-M. ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli amministratori di società per azioni, in questa Rivista 1971, p. 688. (24) Abbia dunque anche eseguito istruzioni del gruppo dirigente o comunque dei superiori gerarchici che elaborino o realizzino la strategia della società. L’« immedesimazione » non avviene necessariamente in termini propriamente « organici », ma « per parte »: da questo punto di vista, identification o vicarious liability suggeriscono a mio giudizio un analogo tipo di risposta dell’ordinamento.


— 1041 — al singolo e all’ente, vale a dire un loro autentico concorso nell’unico illecito. E nel caso di un rapporto di « alterità » o di contrapposizione, d’altro canto, se alla responsabilità dell’ente si dà seguito comunque, per la sola circostanza della commissione dell’illecito da parte del singolo, si darà ingresso per l’ente ad una responsabilità sostanzialmente oggettiva o per rischio d’impresa (e — salva comunque la restituzione di eventuali profitti — potrà risultare problematica una sanzione a suo carico distinta e diversa); mentre se la si fa dipendere dal fatto che l’illecito sia stato reso possibile o agevolato da effettive carenze di controlli interni o dalla concreta assenza o inadeguatezza di misure preventive, si introduce nel sistema una colpevolezza d’organizzazione che dalle forme di imputazione soggettiva sinora note prende piuttosto vistosamente le distanze (25). Come si puo constatare, la teorizzazione di un sistema capace di lasciarsi alle spalle, almeno con riguardo al diritto penale amministrativo, il societas delinquere non potest e di superare così le angustie della responsabilità soltanto civile sussidiaria o solidale dell’ente, non è facile. E infatti, se si introduce una responsabilità autonoma, diretta ed esclusiva della persona giuridica, come si diceva, lo scenario che verosimilmente si schiude è che o si rinunci del tutto a ricercare una colpevolezza individuale, oppure, quand’anche la si ricerchi, la si « abbuoni » alla persona fisica; se si sancisce invece una responsabilità cumulativa sia della persona fisica che della persona giuridica, si deve o postulare un concorso (di due soggetti distinti) decisamente atipico e artificiale, oppure dare ingresso per l’ente ad una responsabilità sostanzialmente oggettiva o ad una problematica colpevolezza d’organizzazione. Ora, io credo che a forme di imputazione di questo tipo, per una responsabilità « minore » come quella penale amministrativa, sia ugualmente lecito e forse opportuno pervenire, anche per avvicinarsi almeno in parte alla legislazione di Paesi stranieri a noi vicini (26); ma si deve essere ben consapevoli che ponendosi su que(25) Su tale colpa di organizzazione, per tutti, K. TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, cit., p. 627. Per i casi di doloso superamento del mandato ricevuto, da parte di un esponente del gruppo dirigente che abbia tuttavia pur sempre agito in nome e per conto dell’ente, C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1045, teorizza una responsabilità della società per culpa in vigilando, qualora la società stessa non dimostri di avere adottato programmi organizzativi « tesi ad impedire l’illecito o comunque — qualora il rischio di commissione sia alto in relazione al tipo di attività svolto dall’impresa, finalizzati ad attenuare le conseguenze dell’attività lesiva dei beni giuridici ». Su questi c.d. compliance programs di cui alla recente esperienza nordamericana, sui vantaggi e gli svantaggi che essi prospettano, si legga ora l’interessante saggio di C. DE MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa, in questa Rivista 1995, p. 118 ss. Una prescrizione legislativa nel senso dell’adozione di procedure organizzative da parte della società, idonee ad assicurare il controllo interno sulla sua attività, si trova ora all’art. 6, lett. h l. 1/1991, sulle S.i.m. (26) Detto ciò, mi pare tuttavia eccessiva la previsione di una responsabilità (anche


— 1042 — sta via si viene ad intaccare profondamente lo stesso « nucleo duro » dell’illecito penale amministrativo quale delineato dalla l. 689 cit. Accolto allora un allontanamento dai principi generali di tale illecito, al cui modello parapenale « europeo » si guardava sino a ieri con comprensibile soddisfazione (27), un intervento del legislatore diverrebbe a quel punto doveroso onde precisare i presupposti e i termini delle imputazioni e i criteri di commisurazione delle sanzioni alla persona fisica e all’ente. 7. L’opportunità di solleciti chiarimenti legislativi, del resto, è sottolineata dalle non trascurabili incertezze cui danno luogo alcune disposizioni recenti del nostro penale amministrativo in materia economica, che mostrano, nel contempo, come si sia ormai in presenza di sviluppi da sorvegliare con una certa attenzione. Dubbi emergono già, in qualche caso, sulla circostanza se destinatari delle sanzioni amministrative siano persone fisiche o persone giuridiche. Per l’art. 31 l. 223/1990, sulla disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato (c.d. legge Mammì), per esempio, il Garante per la radiodiffusione e l’editoria, in caso di inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 8, 9, ecc., « dispone i necessari accertamenti e contesta gli addebiti agli interessati, assegnando un termine (...) per le giustificazioni ». Scaduto il termine o quando le giustificazioni siano inadeguate, il Garante diffida gli interessati a cessare dal comportamento illegittimo; e ove poi il comportamento illegittimo persista oltre tale termine (come anche nel caso di violazione dell’obbligo di rettifica o di altri obblighi), « il Garante delibera l’irrogazione della sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire 10 milioni a lire 100 milioni e, nei casi più gravi, la sospensione dell’efficacia della concessione o dell’autorizzazione per un periodo da uno a dieci giorni ». Ora, è vero che la menzione degli « interessati » cui devono contesolo) penale amministrativa dell’ente, in linea di principio per qualsiasi fatto di reato commesso da un suo rappresentante o organo, come sancita per esempio, con una sanzione pecuniaria autonoma, nel § 30 OWiG tedesco (v. la versione del 18 febbraio 1987, in BGBl. I, p. 602). Ma resta vero che se pur cautamente « si apre » ad una colpevolezza di organizzazione, una responsabilità penale amministrativa dell’ente a determinate condizioni, almeno in relazione ad alcuni reati espressamente indicati dalla legge, che possano dirsi concretamente agevolati da carenze amministrative o di organizzazione in genere (infortuni sul lavoro; reati ambientali; ma anche qualche reato doloso: frodi fiscali; corruzione ?) commessi da rappresentanti, organi o dipendenti, non pare possa essere esclusa in radice. (27) L’evoluzione dell’illecito penale amministrativo nei diversi Paesi membri dell’Unione Europea e le esigenze di armonizzazione nelle prospettive future della legislazione comunitaria sono analizzate ora nell’Etude sur les systèmes de sanctions administratives et pénales des Etats membres, cit., p. 543: di particolare interesse, in merito alla responsabilità delle persone giuridiche, si presenta il richiamo del concetto di colpevolezza di organizzazione citato nel testo, che — si afferma — « sembra idoneo ad orientare su questo punto il diritto comunitario ».


— 1043 — starsi gli addebiti fa pensare ai (o anche ai) singoli autori della violazione; ma quando il titolare della concessione sia una persona giuridica, non è certo che la sanzione pecuniaria colpisca individualmente i « concreti » responsabili, potendosi forse preferibilmente intendere direttamente colpita la società come tale (28), alla quale deve riferirsi comunque la (seppure eventuale: « nei casi più gravi ») sanzione aggiuntiva della sospensione dell’efficacia della concessione o dell’autorizzazione. Soluzione, questa, che potrebbe ritenersi, se non confermata, quanto meno non smentita dal richiamo contenuto nel co. 4o dello stesso art. 31 cit., che per dette sanzioni amministrative sancisce bensì l’applicabilità delle norme del capo I, sezioni I e II della l. 689/1981, ma solo « in quanto non diversamente previsto ». Una questione in parte simile si presenta per l’art. 13, co. 3o l. 1/1991, sulla disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare e l’organizzazione dei mercati mobiliari. Secondo tale disposizione, « in caso di accertata violazione di legge o di regolamento o di disposizioni impartite dalla Autorità di vigilanza nella gestione della società (..), il Ministro del Tesoro, su proposta della Consob o della Banca d’Italia (..), previa contestazione degli addebiti agli interessati (..), applica (..) la sanzione amministrativa da lire 20 milioni a lire 200 milioni ovvero dispone la sospensione dell’esercizio, per un periodo da due mesi ad un anno, di quelle attività in ordine al cui svolgimento da parte della società di intermediazione mobiliare sia stata accertata la suddetta irregolarità o violazione ». Come si può osservare, qui l’opzione normativa, almeno a stare al dato testuale, prevede alternativamente o una sanzione pecuniaria, che pare di nuovo da riferire ai singoli autori delle infrazioni (quelli che la legge denomina anche qui « interessati », ai quali sono da contestare gli addebiti), oppure una diversa sanzione (la temporanea sospensione dell’esercizio di specifiche attività), di cui sembra invece destinataria la società di intermediazione come tale. E poiché questa viene solo eventualmente colpita, appunto in alternativa ai singoli autori della violazione, è quanto meno dubbio che, nel caso siano puniti costoro, valga ancora per la società la « comune » responsabilità ex art. 6, co. 3o l. 689/1981. Si direbbe anzi che risulti nella specie superato lo schema della responsabilità solidale, per « saggiare » al suo posto quello di una responsabilità, seppure eventuale, esclusiva dell’ente, anche se, nel silenzio della legge al riguardo, parrebbe implicitamente salvaguardata, alla stregua del principio generale dell’art. 3 della 689 cit., la doverosità della ricerca di dolo o (28) In questo senso anche V. MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 113 (ora anche in AA.VV., Bausteine des europäischen Strafrechts, Köln-Berlin-Bonn-München, 1995, p. 332). Altre novità sul terreno sanzionatorio contenute nella l. 223/1990 sono sottolineate d a C.E. PALIERO, La sanzione amministrativa come moderno strumento, cit., p. 1043.


— 1044 — colpa degli « interessati » persone fisiche, organi o rappresentanti della persona giuridica. Del resto, nella direzione di una responsabilità diretta della società si è posto anche l’art. 5, co. 2o l. 1/1991 cit., per il quale la società di intermediazione che si sia avvalsa di persone non iscritte all’albo dei promotori di servizi finanziari « è punita, per questo solo fatto e ferme restando le sanzioni previste dall’art. 13, con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 15 milioni a lire 100 milioni, aumentata, nel caso, dell’importo dei valori mobiliari illecitamente offerti ». Dove allora, se solo si accoglie l’interpretazione testé accennata dell’art. 13, co. 3o, si dovrà concludere che potrebbe anche non avere alcun esito (almeno ai sensi di detta legge) la responsabilità delle singole persone fisiche che hanno commesso la violazione e avere spazio invece una duplice sanzione (in termini pecuniari e di sospensione di attività) della società di intermediazione. E mentre vi sono testi di leggi recenti che hanno conservato per gli illeciti penali amministrativi lo schema della responsabilità individuale dei singoli autori dell’infrazione con in più la responsabilità solidale dell’ente (29), è da osservare che in termini ancora diversi da quelli testé accennati dispongono altre norme introdotte con le l. 344/1993 e 86/1994, entrambe sulla istituzione e disciplina dei fondi comuni di investimento (rispettivamente mobiliare e immobiliare) chiusi. Agli artt. 6, co. 5o l. 344 e 10, co. 5o l. 86 citt., infatti, per il caso che taluno svolga attività di gestione di fondi comuni senza autorizzazione del Ministro del Tesoro (ciò che di per sé configura già una ipotesi delittuosa) è prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa (da un quarto all’intero valore dell’operazione effettuata) « alla società di gestione, agli amministratori, ai sindaci, ai revisori e ai direttori generali ». E malgrado subito dopo le stesse disposizioni aggiungano, senza alcuna apparente limitazione o riserva, che « si osservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni », non pare si tratti di una consueta responsabilità solidale, bensì di una responsabilità diretta (30), ancorché non esclusiva, della società di gestione. Se così non fosse, infatti, non vi sarebbe stato bisogno di riferirsi espressamente alla società di gestione, né tampoco di menzionarla al primo posto, prima ancora dei suoi amministratori, sindaci, ecc.; mentre al contrario la legge, con detta priorità, ha vo(29) Si veda in particolare l’art. 144, co. 5o T.U. d.P.R. 385/1993: le banche, le società e gli enti ai cui amministratori o dipendenti sia applicata la sanzione amministrativa pecuniaria per le violazioni previste dalla legge « rispondono del pagamento della sanzione » (e — particolarità non indifferente — sono obbligati ad esercitare il regresso). Sul punto e su altre deviazioni anche procedurali rispetto alla l. 689/1981, v. il mio Aspetti della nuova normativa penale, cit., p. 524. (30) Orientato in questo senso anche C. PEDRAZZI, Fondi comuni di investimento di tipo chiuso: direttrici di intervento penale, in Legisl. pen., 1994, p. 534.


— 1045 — luto verosimilmente segnare il passaggio ad una responsabilità concorrente — seppure senza l’indicazione di sanzioni distinte — della società e delle persone fisiche autori dell’illecito. 8. Pur con ogni doverosa cautela, dunque, pare lecito concludere che, tra ipotesi di responsabilità esclusiva della persona giuridica (come avviene nella legge sulla concorrenza sopra richiamata) e ipotesi di responsabilità cumulativa dell’ente e dei « veri » autori dell’illecito, il nostro ordinamento si sta da qualche tempo avviando, nel diritto penale amministrativo, nella direzione di un superamento del principio societas delinquere non potest. Che questo sia a mio avviso legittimo ho già poc’anzi anticipato, come ho del resto già detto che compiuta una scelta siffatta, che altri sistemi a noi vicini hanno compiuto prima di noi anche nel campo stesso del penale vero e proprio (31), divengono necessari interventi legislativi chiarificatori, che sanciscano apertamente e plausibilmente i limiti della digressione dal modello generale dell’illecito amministrativo faticosamente introdotto soltanto una quindicina d’anni or sono. Inoltrandosi su questa via, comunque, il diritto penale in materia economica potrebbe in avvenire far leva su un diritto penale autentico, con responsabilità rigorosamente riservate alle sole persone fisiche, e un penale amministrativo che, accanto ad una responsabilità degli autori delle violazioni, conosca anche, con un allentamento del principio di colpevolezza individuale e un cauto ingresso ad una concreta (= da riscontrare caso per caso) colpevolezza di organizzazione, una responsabilità dell’ente come tale. Al di fuori di ciò, vi sarà ancora spazio per un’ulteriore valorizzazione, oltre che delle istanze risarcitorie civilistiche, di un diritto amministrativo tout court, se si vuole « sanzionatorio » ma non punitivo, un diritto amministrativo che dalla repressività tipica (anche) del penale amministrativo abbia tuttavia preso le distanze. Per una tale evoluzione, comunque, che, per riecheggiare il titolo di questo Convegno di studio, va al di là del diritto penale degli anni ’90, entrando in quello degli anni 2000, occorrerà ancora un’ampia riflessione su tali temi: una riflessione nella (31) Molto indicativa in tal senso l’innovazione introdotta nel nuovo codice penale francese all’art. 121-2, che ammette una responsabilità penale delle persone morali per i fatti commessi da loro organi o rappresentanti, seppure non esclusiva (poiché rispondono comunque anche i singoli autori del reato) e delimitata ai soli casi espressamente previsti dalla legge o da un regolamento. Una prima serie di analisi della disposizione si trova in AA.VV., Le nouveau code pénal. Enjeux et perspectives, Paris, 1994, p. 35 ss. Ampi ed utili riferimenti, ora, in G. DE SIMONE, Il nuovo codice penale francese, cit., p. 189. Significativa inoltre, pur nella sua genericità, la Raccomandazione No. (88) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa — 20 ottobre 1988 (la si veda in Riv. trim. dir. pen. econ. 1991, p. 656), che invita gli Stati membri ad introdurre misure (anche di natura penale) onde rendere le imprese aventi personalità giuridica responsabili per le violazioni commesse nell’esercizio della loro attività, al di là dei regimi di responsabilità civile in vigore.


— 1046 — quale, con grande rimpianto, si avvertirà la mancanza dell’intelligenza operosa e della generosità di Franco Bricola, ma che si gioverà certo del contributo della Scuola che Egli ha lasciato, e alla quale ha idealmente passato il testimone. MARIO ROMANO


SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI E ABUSO DI UFFICIO: UNA ANNOTAZIONE SUL TEMA

SOMMARIO: 1. Riformulazione dell’art. 323 c.p. e abrogazione delle fattispecie di peculato e malversazione distrattive: un indiscutibile fenomeno successorio? — 2. La difficile acquisizione del criterio necessario e sufficiente per la successione. L’accento sulla formulazione del dolo specifico nell’art. 323 c.p. — 3. L’iter interpretativo della condotta di abuso d’ufficio e la posizione strutturale della finalità di vantaggio o di danno ingiusti. — 4. Dolo specifico ed evento consumativo nelle disposizioni in successione: omogeneità o disomogeneità delle condotte tipiche? — 5. La fragile resistenza di una relazione di specialità tra gli elementi delle fattispecie in successione. Reviviscenza del binomio abolitio-criminis - nuova incriminazione? — 6. Tecniche di formulazione del tipo penale e tendenziale delimitazione dell’intervento penale nell’ambito degli illeciti contro la P.A. Un accenno al problema.

1. Riformulazione dell’art. 323 c.p. e abrogazione delle fattispecie di peculato e malversazione distrattive: un indiscutibile fenomeno successorio? — L’assunto è noto: nella attuale disposizione dell’art. 323 c.p. dovrebbero confluire ipotesi di peculato e di malversazione distrattive, o di interesse privato in atti di ufficio, riconoscendosi appunto in tali fattispecie una continuità sostanziale sul piano della rilevanza incriminatrice. È in linea di principio, una proposta, anzi una scelta, probabilmente opportuna; non scevra, tuttavia, da interrogativi e difficoltà interpretative. Anzitutto, sulla fattibilità, o meno, della situazione successoria; perché occorrerebbe, evidentemente riflettere, e decidere — sottacendo, certo, una serie di problemi più generali prospettata dal fenomeno successorio — se la continuità sostanziale corrisponda dal punto di vista strutturale — formale ad una effettiva perpetuazione del tipo di illecito originario nella nuova dimensione normativa. Nell’ambito, infatti, di un fenomeno abrogativo, e, in particolare, di fronte alla abolizione di una fattispecie incriminatrice non accompagnata da una precisa volontà normativa di rendere lecita la condotta prima vietata, dovrebbe rilevare l’eventuale continuità del tipo di illecito: da affermarsi, dunque, accertando se il fatto, alla stregua delle disposizioni preesistenti applicabili in forza dell’intervenuta abrogazione, o secondo le nuove disposizioni contestualmente introdotte dal legislatore, mantenga ancora la sua connotazione penale. E si potrà anche precisare; questo, non ancorando inevitabilmente il


— 1048 — giudizio a criteri riconducibili, in sostanza, alla identità « essenziale » del nocciolo di illecito — identità, quindi, desunta da riscontri inerenti alla natura dell’interesse tutelato e alle modalità dell’offesa —, ma, piuttosto, riflettendo sulla struttura formale della fattispecie (1). Nel confronto, poi, fra art. 323 c.p. e ipotesi di peculato o di malversazione distrattive, ma anche di « presa » di interesse privato in atti di ufficio, la dichiarata adozione di criteri di specialità parrebbe prudente e risolutiva. Non impeccabile peraltro: ove si annotasse l’indecisione sul rilievo assegnabile, ed assegnato, ad un requisito di fattispecie, insistente nella stessa formulazione dell’art. 323 c.p., quale il dolo specifico. Centro di gravitazione del fatto, o finalità riconducibile al momento della colpevolezza? Intenzione rivelatrice di una sottostante conflittualità di interessi, di una scelta, cioé, per un interesse diverso da quello « generale », a conferma allora di una tutela orientata verso la garanzia di un corretto ed imparziale operato del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio (2)? L’iter interpretativo, indubbiamente, non si prospetta lineare. E del resto, ulteriore preoccupante complicazione segnerà subito la disomogenea posizione strutturale della finalità di vantaggio o di danno: nell’ipotesi di peculato o di malversazione evento consumativo, e nella formulazione del vigente art. 323 dolo specifico. Evidentemente, sarà difficile negare, o sottacere, come la variazione non sia affatto irrilevante; e anzitutto: indifferente davvero alla struttura formale della fattispecie? E indifferente, ancora, ad una connotazione dell’offesa probabilmente diversa? È ovvio che occorrerebbe chiedersi se equivalente risulti appunto la struttura logico-formale di ipotesi tipicizzate attraverso una differenziata previsione della finalità quale dolo specifico, o, viceversa, quale evento consumativo. Ed è chiaro, in altre parole, che occorrerebbe decidere se la diversa costruzione della finalità, arretrando nella previsione dell’art. 323 la linea consumativa al momento della realizzazione dell’abuso, permetta di affermare la resistenza di un nucleo di illiceità penale comune alle fattispecie di peculato e di malversazione distrattive, o di interesse privato in atti di ufficio. (1) Cfr. PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, vol. II, Milano, 1984, p. 987 ss. Per talune precisazioni critiche, di recente, PAGLIARO, La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. pen., 1991, p. II, col. 6 ss. Vd. inoltre, FIANDACA, Questioni di diritto transitorio in seguito alla riforma dei reati di interesse privato e abuso innominato di ufficio, in Foro it., 1990, II, col. 638 ss. (2) Sul punto, PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli « elementi finalistici » delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 303 ss.


— 1049 — Tutto sommato, ammettere questa eventualità equivarrebbe, forse, una smitizzazione del ruolo, talvolta enfatizzato, ascrivibile al dolo specifico: certamente solleverebbe qualche perplessità sulla funzione sussidiaria, centrale, anzi, nella incriminazione di condotte abusive teleologicamente caratterizzate dal favoritismo, dalla prevaricazione o dall’indebito profitto, affidata alla disposizione dell’art. 323 c.p. 2. La difficile acquisizione del criterio necessario e sufficiente per la successione. L’accento sulla formulazione del dolo specifico nell’art. 323 c.p. — Ma sul tema, nuovamente, le annotazioni più semplici. Ipotesi di peculato e di malversazione distrattive, dunque, nel nuovo assetto dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione sono destinate a « stemperarsi » nella fattispecie dell’art. 323 c.p. Più precisamente: esse potranno costituire forme di abuso finalizzate ad un ingiusto vantaggio patrimoniale, proprio od altrui, l’abrogazione prospettandosi in termini di abolitio criminis per le sole condotte distrattive finalizzate al perseguimento di un vantaggio non qualificabile come ingiusto (3). Questa l’impostazione del problema: occorrerà allora verificare se quella continuità « sostanziale » corrisponda dal punto di vista strutturaleformale ad una effettiva perpetuazione del tipo di illecito originario nella nuova dimensione normativa. Ovvio certamente: si dovrà riconoscere anzitutto che la distrazione, in quanto condotta consistente nel rivolgere la cosa ad un fine diverso da quello cui essa era destinata, costituisca uno sviamento del potere dalla causa tipica; e dunque, intrinsecamente, un abuso di ufficio. Il rapporto così fra malversazione, o peculato distrattivi, e ipotesi, appunto, di abuso d’ufficio a fini di vantaggio patrimoniale ex art. 323, secondo comma, segnalerebbe, praticamente, il rilievo di un nucleo strutturale comune. E, rivalutando il carattere ingiusto del vantaggio perseguito, si potrebbe assegnare alla stessa previsione dell’art. 323, comma secondo la posizione di norma speciale rispetto a quella dell’originario peculato per distrazione in riferimento al dolo specifico. Si è precisato, anzi, come il rapporto tra le figure in successione si realizzi in forma di specialità reci(3) In proposito vd. PADOVANI, Commento all’art. 20 della legge 26 aprile 1990 n. 86, in La legislazione penale, 1990, p. 351 ss.; IADECOLA, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione, Torino, 1992, p. 71. Per taluni rilievi critici, confermando peraltro il fenomeno successorio, cfr. GROSSO, I nuovi delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione: indebolimento o rafforzamento della tutela penale?, in Cass. pen., 1991, p. 1009 ss. Un attento richiamo alle difficoltà del tema, in SINISCALCO, La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali. Profili critici, in La legislazione penale, 1990, p. 266 ss. Cfr. inoltre, RAMPIONI, L’abuso di ufficio, nel volume Reati contro la Pubblica Amministrazione, a cura di COPPI, Torino, p. 123 ss.


— 1050 — proca (4), e, parrebbe, di specialità reciproca per specificazione. Vale a dire: generalità dell’art. 323 rispetto alla condotta, e specialità rispetto al dolo specifico; dovendosi quindi riconoscere alla finalità tipicizzata una incidenza in ambito psicologico. Così intesa, una incidenza, tuttavia, dogmaticamente non desueta, ma certo discussa. Ed effettivamente, in altra formulazione del tema, sottolineando come il concetto di abuso nel quale il legislatore del ’90 ha inteso far confluire una serie di condotte di malversazione, di distrazione, di presa « diretta » di interesse privato non possa leggersi separatamente dal legame con la finalità specifica, si conferma per il nesso teleologico fra condottabase e dolo specifico una precisa funzione tipizzante: negandone, appunto, il ruolo di mera appendice psicologica, se ne rivaluta, invece, la struttura oggettiva. Non specificazione del dolo, quindi, bensì e prima di tutto, della tipicità del fatto (5). Breve: l’avversione per una riduzione del fine specifico a mero elemento psichico di colpevolezza indurrebbe a valorizzare, decisamente, il suo carattere di fine tipizzante il fatto; e in quanto tale capace, poi, di proporre una corretta distinzione fra abuso rilevante in ambito penale e abuso ipotizzante un illecito disciplinare o amministrativo. Del resto, con la formulazione dell’art. 323 quale fattispecie a dolo specifico il legislatore — si è scritto — non avrebbe inteso sovvertire il contenuto di tipicità, originariamente pensato come reato di evento, ma solo « anticiparne » la punibilità, compensando con l’arricchimento dell’elemento soggettivo quanto perduto in termini di elemento oggettivo. La variazione normativa dunque, non poteva e non potrebbe comportare una totale perdita di significato in sede di tipicità, a fronte di una maggiore qualificazione soltanto della colpevolezza (6). Questa, in sostanza, la ricostruzione della volontà legislativa. Tuttavia, attraverso una operazione interpretativa non particolarmente convincente; perché, infatti, diversa, anche, potrebbe apparire la ratio di una incriminazione che assumesse la finalità di vantaggio nella sua effettiva realizzazione: a significare, evidentemente, una concreta, materiale incidenza lesiva della condotta. Ma, comunque, si insista ancora: ruolo tipizzante della finalità, costi(4) Vd. ancora, PADOVANI, Commento all’art. 20, cit., p. 352. (5) Vd., appunto, PICOTTI, Il dolo specifico, cit., p. 281 ss. Accentuando invece la valenza soggettiva della finalità nella disposizione dell’art. 323 c.p., SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio in questa Rivista, 1992, p. 589 ss. (6) Precisando queste conclusioni, PICOTTI, op. cit., p. 285 ss. Per una annotazione del problema nella prospettiva di una riforma, tra gli altri, PADOVANI, L’abuso di ufficio e il sindacato del giudice penale, in I delitti contro la pubblica amministrazione, Napoli, 1989, p. 148 ss.


— 1051 — tutiva, appunto, della rilevanza penale ascrivibile al fatto di abuso, e rivelatrice, insieme, della ratio di tutela assegnata alla disposizione incriminatrice: non il « presidio » dei doveri del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio nei confronti della pubblica Amministrazione nell’ambito di un rapporto interno fra soggetto ed ente pubblico, ma, piuttosto, garanzia del suo corretto imparziale operato esterno nei confronti dei cittadini e della collettività. Una complessa ascrizione tipizzante, dunque, e nettamente assunta in sede di fatto. Anzi, non solo puntualizzazione in ambito di tipicità del contenuto oggettivo, soltanto parzialmente desumibile dalla condotta base di abuso, ma indicazione di una conflittualità di interessi nel cui contesto, esclusivamente, potrebbe assumere valore negativo il perseguimento di un interesse, proprio o di terzi, non imparziale, e perciò diverso, o in contrasto con quello « generale » che avrebbe dovuto garantire lo stesso agente (7). Ed invero, equivalenti nella disposizione penale dell’art. 323 il vantaggio proprio o di terzi e il danno altrui, decisivo risulterebbe unicamente il divergere, o meno, dall’interesse generale tutelato nell’ordinamento: la scelta, se si vuole, del soggetto per un interesse diverso, appunto, da quello generale. La condotta di abuso, insomma, rileverebbe quale illecito strumento per privilegiare un interesse su di un altro, ed integrare così l’oggettiva violazione della imparzialità meritevole di tutela penale. 3. L’iter interpretativo della condotta di abuso d’ufficio e la posizione strutturale della finalità di vantaggio o di danno ingiusti. — Si supponga sempre l’ascrizione del fine previsto nella disposizione dell’art. 323 c.p. ad una funzione di tipizzazione del fatto: se ne dedurrebbe, appunto, che, nell’ipotesi, il delitto di abuso non sia valutabile alla stregua di regole meramente interne della pubblica Amministrazione, o della organizzazione burocratica; e diverga, perciò, già sul piano oggettivo rispetto all’abuso disciplinare o amministrativo. Assente pure la realizzazione dei risultati materiali di danno o di vantaggio perseguiti, il delitto di abuso richiederebbe, infine, per la sua consumazione una oggettiva concretizzazione nella condotta della scelta dell’agente per un interesse proprio (od altrui), o a sfavore di quello di un altro. Questa proiezione esterna dell’abuso nei rapporti con i terzi lo qualificherebbe, si è visto, come illecito strumento per privilegiare un interesse su di un altro, integrando — la citazione ora è testuale — l’oggettiva violazione dell’imparzialità meritevole di sanzione penale, dato che il pubblico ufficiale avrebbe dovuto, invece, intervenire (7)

Cfr. PICOTTI, Il dolo specifico, cit. p. 305 ss.


— 1052 — non solo in termini di formale correttezza, ma anche di sostanziale imparzialità nei rapporti giuridici per perseguire finalità pubbliche (8). Una incidenza del fine, sembra quindi di poter ulteriormente precisare, sulla dimensione lesiva del fatto. Una incidenza, anzi, pressoché costitutiva: perché il contenuto dell’offesa si ancorerebbe non ad una violazione meramente interna ai rapporti giuridici che si svolgono in ambito pubblicistico, ma ad una conflittualità esterna, concretizzante, appunto, una alterazione della imparzialità nel rapporto tra cittadino e pubblica Amministrazione. Dunque, un ruolo decisivo — potrebbe allora confermarsi — ai fini di una lettura del fatto penalmente rilevante, e dello stesso bene giuridico protetto; un ruolo non ostativo, in definitiva, alla confluenza nella previsione dell’art. 323 c.p. di ipotesi quali il peculato e la malversazione distrattive, o l’interesse privato in atti d’ufficio. Ma un ruolo dogmaticamente davvero indiscutibile? Talune affermazioni, in realtà, sembrano piuttosto delicate. Questa innanzitutto: che il contenuto della finalità mantenga una rilevanza sempre oggettiva, dovendo poi essere provata, conosciuta dall’agente, ovvio, la sottostante situazione di conflitto innescata dal perseguimento del vantaggio o del danno, da cui dipenderebbe — così si conclude — l’effettiva strumentalità della condotta di abuso. Ora, se l’espressione strumentalità della condotta vuole indicare una complementarietà, una indissolubilità logica tra abuso e finalità tipicizzata, comprensibile risulterebbe una versione della condotta stessa quale elemento costitutivo non esauriente la tipicità. Il fine, insomma, nella formulazione dell’art. 323 chiarirebbe e confermerebbe il significato dell’abuso nella sua reale proiezione esterna, nel suo rapporto con i terzi; la rilevanza, poi, della connotazione « ingiusto » per il vantaggio o per il danno perseguiti dall’agente, ne valorizzerebbe una decisiva incidenza sul piano della consumazione formale. E infatti, proponendo una serie di esemplificazioni, si sottolinea, ancora, come il requisito della ingiustizia, apprezzabile alla luce dell’intero ordinamento giuridico, ipotizzi l’instaurarsi di una situazione oggettiva di conflitto di interessi giuridicamente rilevante tra le parti: prospettandosi un potenziale conflitto, appunto, fra l’interesse perseguito dall’agente con la sua condotta e quello che deve giuridicamente garantire lo stesso ente pubblico di appartenenza. Dovrebbe, insomma, riconoscersi una ingiustizia autonoma ed « ulteriore » rispetto alla mera violazione delle regole amministrative e burocratiche interne all’ufficio di appartenenza dell’a(8) Così, PICOTTI, Il dolo, cit., p. 308. Su questo punto in trattazioni antecedenti alla rifoma, vd., tra gli altri, con precisi riferimenti bibliografici, RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P. A., Milano, 1984, p. 323.


— 1053 — gente, in cui già consisterebbe, per definizione, la condotta base di abuso; una ingiustizia, peraltro, ipotizzabile in un rapporto con altri soggetti: in un rapporto, dunque, oggettivamente ingiusto perché a « danno » di posizioni giuridicamente tutelate dall’ordinamento, ovvero a vantaggio di portatori di interessi contrapposti i quali meriterebbero una tutela solo subordinata (9). In definitiva: a quella sottostante oggettiva situazione di conflittualità di interessi, giuridicamente rilevante fra le parti farebbe espresso riferimento la disposizione dell’art. 323 c.p. nell’esigere la qualificazione di ingiustizia; e analoga sottostante conflittualità emergerebbe, oggettivamente, dallo specifico tipo dei rapporti patrimoniali ipotizzato nella previsione del secondo comma. Dunque, ciò che resta sempre confermato è una lettura della finalità attenta a non disperderne il significato tipicizzante del fatto: la condotta di abuso rilevando quale tramite per la realizzazione della preferenza realmente accordata dall’agente ad una delle parti del conflitto. E, ovviamente, anche in assenza dell’effettivo conseguimento del vantaggio o del danno ingiusti. Ebbene, ad una soluzione così netta, potrebbe proprio opporsi qualche perplessità. Difatti si vuol concludere che l’abuso è lo strumento destinato e concretamente utilizzato per perseguire quella preferenza, e perché così orientato capace di alterare una situazione di imparzialità? Se così fosse la condotta base di abuso nell’art. 323 c.p. non sarebbe compiutamente leggibile nella sua offensività e nella sua rilevanza penale: mentre invece, discussa, negata anche, una automatica vicendevole connessione tra illegittimo uso di poteri inerenti all’ufficio e ingiustizia appunto della preferenza, alla condotta di abuso parrebbe corretto affidare una centralità di significato; avversando, comunque, una sua eccessiva perdita di significato. L’abuso — questa essenzialmente l’obiezione — potrebbe, cioé, rivelare una sua connotazione originaria, e una sua peculiare incidenza offensiva. In altri termini, varrà anche leggere il rilievo della finalità su di una sottostante situazione di conflittualità di interessi, oggettiva reale, significante al punto da adombrare un comune elemento di tipizzazione e di identificazione normativa tra le ipotesi delittuose confluenti, ma è all’offensività del fatto che la finalità soggettiva non dovrebbe essere necessariamente ricondotta. Perché infatti — come avverte la dottrina —, non è la previa rilevazione del fine previsto nella fattispecie, di regola, a chiarire l’orientazione teleologica della norma (10). (9) Cfr. PICOTTI, Il dolo, cit. p. 312 ss. In precedenza, per questi assunti vd., anche PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale, Milano, 1992, p. 240 ss.; SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., p. 577 ss. (10) Per questa puntualizzazione del tema ed un raffronto, tra l’altro, della finalità a


— 1054 — Certo, non si dovrà trascurare la convinzione che la rinuncia nella attuale formula dell’art. 323 c.p. alla materiale acquisizione del vantaggio, o alla reale produzione del danno, non equivalga al radicale stravolgimento del significato politico-criminale o della tipicità, e in ogni caso dell’offensività, del fatto: il dato di continuità emergerebbe — si è appunto precisato — dal contenuto di oggettiva strumentalizzazione dell’ufficio al perseguimento di un interesse personale o di parte. Nella situazione, cioé, di reale ed oggettivo contrasto con interessi altrui, il consapevole perseguimento di un interesse proprio o di terzi, ovvero di un danno ad altri ipotizzerebbe una negazione della sostanziale imparzialità nei rapporti giuridici: l’indifferenza normativa per l’effettiva realizzazione del risultato anticiperebbe soltanto la punibilità (11). D’accordo: ma evidentemente, non senza incidere allora sulla dimensione lesiva del fatto; e quindi sulla rilevazione del bene alla cui tutela la norma è rivolta. Del resto, è anche ovvio: momenti soggettivi possono senz’altro offrire un contributo nella delimitazione del profilo lesivo della condotta, indicare un fine attinente alla lesione del bene giuridico, ma — semplificando una controversia dottrinale estremamente complicata — occorrerebbe ancora ricordare come accanto ad assunti per i quali la tipicizzazione di un fine implica che in relazione a questo vada costruita l’oggettività giuridica, si prospettino ipotesi di lavoro assolutamente contrarie alla rilevanza dello scopo tipicizzato per la determinazione del bene protetto (12). Dovrebbe allora ammettersi che sia necessaria una attenta distinzione tra fine e fine: alla luce, cioé, della fattispecie e dei requisiti in essa racchiusi andrebbe appunto controllato se l’elemento finalizzante rappresenti, o meno, un dato significativo per l’individuazione della ratio che la sorregge. Converrebbe, quindi, prima spiegare la ragione per la quale ricorra una finalità attinente alla dimensione lesiva del fatto; e dunque, un rapporto tra fine tipicizzato nella concreta fattispecie penale e valore da esso protetto. Ora, innegabilmente, se la fattispecie di abuso ipotizzata nell’art. 323 c.p. risultasse posta a tutela della imparzialità della pubblica Amministrazione, il fine nella sua accezione di profitto o di danno non pregiudichedati dell’esperienza concreta, a istanze criminologiche, vd. MOLARI, La tutela penale della condanna civile, Padova, 1960, p. 77 ss., e p. 101 ss. (11) Vd. per tutti, PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale, cit., p. 241 ss. (12) Scegliendo nella letteratura precedente a WELZEL, sul tema cfr., HEGLER, Subjektive Rechtswidrigkeitsmomente in Rahmen des allgmeinen Verbrechensbegriffs, in Festgabe für R. v. Frank, vol. I, Tübingen, 1930, spec. p. 310 ss. Con particolare sintetica chiarezza, nella dottrina italiana vd., BETTIOL Diritto penale, 6a ed., Padova, 1986, p. 251 ss. Riesaminando il problema, PICOTTI, Il dolo specifico, cit. spec. p. 333 ss. Di recente, MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 1995, p. 211 ss.


— 1055 — rebbe affatto questa versione del bene tutelato: invero, l’abuso dei poteri inerenti alla pubblica funzione, lo sviamento, se si vuole, dal perseguimento dei fini pubblici si rivolgerebbe a finalità private. L’obbiettivo tendere, allora, ad una preferenza per interessi diversi — o conflittuali — rispetto all’interesse generale indicherebbe come la previa enucleazione del fine che deve orientare la condotta avvalori la conclusione che il bene protetto non sia il buon andamento, ma, più specificamente, l’imparzialità della pubblica Amministrazione. Insomma, tra gli scopi tipicizzati nella concreta fattispecie penale e la tutela del valore imparzialità non intercorrerebbe una relazione di estraneità: la rilevazione del bene giuridico sarebbe chiarita dalla destinazione della condotta a finalità di danno o di vantaggio. Se l’abuso, quindi, dovrà essere orientato da finalità profittatrici — da una strumentalizzazione dell’ufficio per il loro perseguimento — non potrà che risultare estraneo alla struttura della fattispecie il rilievo di un mero uso cattivo, o errato, dei poteri (13). Posto dunque che la finalità di danno, o di vantaggio, perseguita propone, sostanzialmente, una accezione dell’abuso quale attività deviata dai suoi fini istituzionali per essere destinata ad interessi di parte, l’orientazione lesiva di una tale condotta sarà di discriminazione, di parzialità: è innegabilmente logico affermarlo. Solo che resterebbe sempre da approfondire la ragione per cui nella formulazione della fattispecie di abuso il dolo specifico non sia estraneo alla rilevazione del bene protetto; e soprattutto, perché trasposto poi da evento consumativo a finalità, determini una anticipazione della linea consumativa del reato, e della soglia di punibilità. Però: della soglia di punibilità, o invece — questo alla fine il problema — dei connotati, solo dei connotati riferibili alla lesione del bene protetto? Rilevando cioé quale momento di chiarificazione nel riconoscimento della attitudine lesiva della condotta; e, se si vuole, come un modo di prospettare la lesione dell’interesse protetto, ma non di anticipare la punibilità del fatto. Comunque, varrebbe di nuovo sottolinearlo: la formulazione a dolo specifico di una fattispecie non segnalerebbe una incidenza della finalità tout court sulla dimensione lesiva del fatto. Sarà insomma vero che l’orientazione lesiva della condotta venga sottolineata e confermata nella sua intenzionalità dal fine tipicizzato, e sarà altrettanto vera, e coerente, una ambientazione del fine in sede di fatto, ma non risulterà per questo indiscutibile che il principale effetto della previsione del dolo specifico a sostegno della condotta di abuso sia scelta operata per una oggettiva anticipazione, appunto, della soglia di punibilità del reato: e non per una scis(13)

Vd., tra gli altri, SEMINARA, Il delitto di abuso d’ufficio, cit., p. 572.


— 1056 — sione, invece, della consumazione (formale) dalla realizzazione della finalità stessa. Se, infatti, non è opportuno attendere che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio realizzino un ingiusto vantaggio o un ingiusto danno, l’indifferenza verso l’effettivo conseguimento della finalità confermerebbe un preciso notissimo significato dogmatico: considerare consumato il reato con la mera tensione, appunto, verso lo scopo. E, logicamente, non ritenere lo scopo equivalente ad un evento consumativo. In sostanza, nella formulazione della fattispecie la posizione strutturale della finalità, la sua versione quale figura di dolo specifico potrebbe, semmai, indicare la rilevanza penale di un eventuale ulteriore attivarsi da intraprendersi dopo la consumazione formale, e riconducibile all’ambito della consumazione sostanziale del reato. Una rilevanza penale anticipata, dunque, dal legislatore, ma in questo e particolarissimo significato: rendere più funzionale la tutela riconoscendo attraverso lo scopo la precisa direzione lesiva della condotta (14). La punibilità del reato, cioé, verrebbe non anticipata, delimitata piuttosto dalla finalità: ove naturalmente questa fosse di chiara formulazione, e realisticamente accertabile. Ma il problema diverrebbe allora un problema di tassatività della fattispecie; mentre interessa più modestamente annotare come la ipotizzazione dello scopo permetta soltanto la conclusione che il suo perseguimento rilevi penalmente in anticipo rispetto alla eventuale realizzazione del rispettivo evento lesivo. In ogni caso, quindi, la variazione operata nella tipicizzazione dell’art. 323 c.p., la trasposizione appunto della finalità nell’ambito del dolo specifico per mantenere immutato, senza stravolgimenti, il significato della nuova formulazione, dovrebbe conservare intatta l’incidenza lesiva della condotta base di abuso. L’abuso, cioé, dovrebbe già concretizzare una situazione offensiva per il bene giuridico protetto. È vero tuttavia: resterebbe da reperire, ancora una volta, la ragione per cui il fine sia capace di orientare il momento lesivo della condotta; e, quindi, utilizzabile nella individuazione del valore per la cui tutela è posta la norma. Più brevemente: la ragione per cui debba attenere alla dimensione offensiva del fatto. 4. Dolo specifico ed evento consumativo nelle disposizioni in successione: omogeneità o disomogeneità delle condotte tipiche? — D’accordo anzitutto: sminuito o sottaciuto il rilievo della finalità, l’incidenza (14) Vd. le annotazioni di PEDRAZZI, Il fine dell’azione delittuosa, in questa Rivista, 1950, p. 262 ss.


— 1057 — lesiva, e la stessa condotta ipotizzata nella previsione dell’art. 323 c.p., risulterebbe piuttosto evanescente. Nozione, tutto sommato, generica e disorientato l’abuso verrebbe decifrato, essenzialmente, perché destinato ad ingerenze profittatrici, ad inevitabili alterazioni della imparzialità nel rapporto cittadino — pubblica Amministrazione: il fatto lesivo — questa l’indicazione — non si leggerebbe compiutamente nella semplice e affermata coincidenza tra abuso, appunto, e fatto (15). È certo un tema interpretativo, questo, motivatissimo; nondimeno, ad esso potrebbe singolarmente contrapporsi proprio l’esigenza di ricondurre alla attuale formulazione dell’art. 323 le precedenti ipotesi di peculato e di malversazione distrattive, o di interesse privato in atti d’ufficio. Appunto nell’ambito di un fenomeno successorio la rilevazione nelle fattispecie confluenti di una diversa tecnica di tipicizzazione dello scopo finirebbe per sottolineare una serie di difficoltà. Indicata infatti quale evento consumativo nella previsione dell’art. 314 c.p. e nelle situazioni distrattive di peculato o di malversazione, la finalità di danno o di vantaggio avrebbe concretizzato il contenuto dell’offesa, puntualmente, nella alterazione dell’imparzialità tra pubblica Amministrazione e cittadino; decisa poi la confluenza nella disposizione dell’art. 323, la costruzione della finalità, viceversa, quale dolo specifico non doveva, e non dovrebbe, ostacolare una tipicizzazione dell’offesa sostanzialmente indifferente, allora, alla diversa posizione strutturale dello scopo di danno o di vantaggio. Sarà forse possibile. E del resto, varrebbe per incidens ricordare come nella stessa fattispecie di interesse privato in atti di ufficio il fine di vantaggio dell’agente non sminuisse affatto la possibilità di riconoscere l’incidenza lesiva della condotta sul rapporto di imparzialità della pubblica Amministrazione nei confronti del cittadino. Varrebbe proprio ricordarlo: perché, evidentemente, a parte ogni altro rilievo, se ne trarrebbe utile, opportuna indicazione per una risolutiva coincidenza, nonostante la diversa previsione della finalità, nella lettura dell’interesse tutelato. Se ne trarrebbe, anzi, una coincidenza non solo risolutiva, dogmaticamente accettabilissima: se comune a più fattispecie, invero, può essere il bene tutelato, non necessariamente specificato — o specificabile — all’interno di ogni fattispecie. Comunque, verrebbe acquisita una coincidenza decisamente rassicurante agli effetti di un fenomeno successorio, e, appunto, di un’eventuale confluenza — facilitata, certo, da una omogeneità nell’offesa e da una persistenza, dunque, di disvalore penale (16) — per fattispecie espressamente abrogate nella disposizione dell’art. 323 c.p. (15) Puntualizzando il problema PARODI-GIUSINO, Abuso innominato di ufficio, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. I, Torino, 1987, pp. 43-44. (16) Per attenti richiami al problema, nella manualistica recente, FIORE, Diritto pe-


— 1058 — La dimensione lesiva del fatto, quindi, sarebbe riconoscibile, quale che sia la posizione strutturale della finalità: tanto se formulata quale evento consumativo, o, piuttosto, quale dolo specifico. La variazione, cioé, non assumerebbe particolare significato; né, tantomeno, spiegherebbe la ragione per cui lo scopo di realizzare un ingiusto vantaggio, o un ingiusto danno, debba, in sostanza, acquisire nella rilevazione dell’interesse protetto ed offeso un ruolo decisivo. Semmai, potrebbe assumere una funzione confermativa: avvalorare, appunto, l’affermazione che nell’ipotesi dell’art. 323 si evidenzi quale interesse offeso dalla condotta di abuso l’imparzialità del rapporto pubblica Amministrazione e cittadino. Vale a dire: l’ulteriore attivarsi dell’agente, la destinazione, più precisamente, dell’attivarsi non potrebbe che incidere su di una situazione di alterazione della imparzialità. E da questo punto di vista il riconoscimento di un sottostante oggettivo conflitto con interessi altrui, nel cui contesto soltanto assumerebbe valore negativo — sappiamo — il perseguimento di un interesse proprio o di terzi, non farebbe che sottolineare l’evidenza di una situazione di parzialità tra pubblica Amministrazione e cittadino. Ma, in realtà, come si precisa in altra prospettiva dottrinale, già la condotta di abuso segnalerebbe compiutamente l’offesa al valore della imparzialità (17); e alla condotta base così riconosciuta nella sua lesività, nella violazione, dunque, dell’interesse a che il pubblico ufficiale non abusi del suo ufficio alterando quella situazione di imparzialità, il fine tipicizzato offrirebbe, appunto, una ragionevole, ma non esaltante, conferma. Diversificata, infatti, la sua posizione strutturale, dolo specifico o evento consumativo, non muterebbe il profilo offensivo del fatto. Certo, occorrerebbe verificare se questo ruolo, piuttosto riduttivo, della finalità risponda sicuramente al significato ascrittogli dal legislatore, e sottolineato attualmente dalla dottrina. Varrebbe in effetti ricordare: indicata quale elemento costitutivo della tipicità del fatto la finalità dovrebbe avvalorare, puntualmente, una situazione successoria tra ipotesi distrattive di peculato e di malversazione, o di « presa » di interesse privato integranti un abuso e vigente art. 323. Questa sua particolare valenza, allora, impedirebbe di depauperare — come si è scritto — il contenuto oggettivo di fatti, già formulati con previsione a dolo generico, « puntellandoli » sul versante oggettivo attraverso il rinvio ad una peculiare colorazione, in chiave « psicologica » della colpevolezza: « aggiunta » al fatto di reato ed al relativo dolo (generico). nale, parte generale, vol. I, Torino, 1993, p. 84 ss. In precedenza, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1985, p. 37 ss. (17) Vd. le precisazioni di PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 221. Cfr., inoltre, diffusamente, RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali, cit., p. 93 ss. Di recente sottolineando il rilievo del valore imparzialità quale bene giuridicamente protetto, PARODI-GIUSINO, Abuso, cit., p. 42.


— 1059 — Breve: se nelle ipotesi abrogate, imputabili prima della riforma a titolo di dolo (generico) il contenuto di tipicità era sufficientemente determinato in termini oggettivi senza ricorso al dolo specifico, questa struttura tipica, in sostanza, non doveva e non dovrebbe essere deformata: il disposto dell’attuale art. 323 la assumerebbe appunto immutata, offrendo un elemento ulteriore, configurabile in termini autonomi rispetto alla generica condotta di abuso, ma con una significazione di natura necessariamente oggettiva, individuata dalla tipica finalizzazione del mezzo (l’abuso) al perseguimento di un risultato ulteriore od eccedente, ripetto alla mera rilevanza amministrativa della violazione in quanto tale (18). Senz’altro: potrà sembrare meno fragile la ricostruzione di un nucleo comune di illiceità per le ipotesi confluenti nell’abuso se affidata ad un elemento del fatto piuttosto che ad un momento riferibile all’ambito della colpevolezza, ma non andrebbe sottaciuta, prima ancora di cogliere una relazione di continuità — in accezione anche non rigida —, o di specialità, l’incidenza che una variazione di posizione strutturale della finalità può invece assumere nell’ambito di una situazione riconducibile ad una successione di leggi. 5. La fragile resistenza di una relazione di specialità tra gli elementi delle fattispecie in successione. Reviviscenza del binomio abolitio-criminis — nuova incriminazione?. — Indubbiamente: la riformulazione dell’art. 323 c.p. in sostituzione, anche, di precedenti disposizioni abrogate attraverso una tecnica di redazione sostanzialmente diversa, prospetterebbe, in ogni modo, una ipotesi piuttosto complicata di successione tra leggi penali. È infatti noto: le fattispecie in successione dovrebbero indefettibilmente enunciare condotte tipiche omogenee, o quanto meno riducibili l’una all’altra sul piano normativo, dovendosi rinvenire — in una accreditata versione del problema — una relazione di specialità fra la prima fattispecie e la seconda, o viceversa (19). Di conseguenza, la disposizione dell’art. 323, sostitutiva della precedente, dovrebbe puntualmente ipotizzare una condotta omogenea, e riducibile alle condotte contemplate nelle altre fattispecie: diversamente ricorrerebbe soltanto il binomio abolitio criminis — nuova incriminazione. Ebbene, nell’ambito di questa prospettiva la specificazione della tipicità del fatto attuata con l’inserimento nella previsione dell’art. 323 della finalità di vantaggio o di danno, dovrebbe logicamente assumere un preciso significato: mantenere comunque l’omogeneità, e il nucleo di illiceità, (18) PICOTTI, Il dolo specifico, cit., p. 296. (19) Confermando una impostazione di questo tipo, PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, cit., p. 1007 ss.


— 1060 — per condotte già ipotizzate in altre fattispecie, senza ostacolare poi una relazione di specialità. Il divario, cioé, fra le diverse tecniche di utilizzazione della finalità finirebbe per dissolversi nella decisione interpretativa di considerare non eterogenea la struttura tipica dell’attuale condotta di abuso rispetto ad altre previste nelle disposizioni incriminatrici abrogate. Più semplicemente: la ratio di inserimento del dolo specifico potrebbe allora concretizzarsi nella garanzia di una omogeneità e riducibilità, quindi, delle condotte tipiche destinate alla confluenza nella mutata versione dell’art. 323 c.p. Per la finalità, dunque, non indiscussa incidenza sulla dimensione lesiva del fatto, ma, più realisticamente, indicazione di una scelta: quella di non sconvolgere, ma riformulare, piuttosto, un sistema di incriminazioni nella prospettiva di un fenomeno, anche, successorio. Un fenomeno, sicuramente, di non facile individuazione: l’ambito delle ipotesi riconducibili ad una tale vicenda, e le stesse esigenze di continuità sul piano sostanziale avvalendosi, infatti, di schemi interpretativi tutt’altro che rigidi: pericolosi, anzi, nella loro assenza di rigidità. Sarebbe sufficiente, invero, ricordare come persino tra fattispecie interferenti o addirittura eterogenee possa avvertirsi la persistenza di esigenze di tutela che, per quanto espresse in maniera diversa e con diverso atteggiarsi delle modalità offensive tipiche, non giustificherebbe, incondizionatamente, la non punibilità del fatto previsto dalla norma abrogata (20). Palesemente, in questo caso, profilandosi il pericolo che una imprudente operazione interpretativa induca, appunto, l’applicazione del binomio abolitio-criminis — nuova incriminazione, con evidente ineluttabile violazione della disciplina enunciata nell’art. 2 del codice penale. È allora proprio l’opportunità di reperire criteri di successione funzionali ad una cauta delimitazione del fenomeno a richiamare l’attenzione sull’eventuale presenza, nella disposizione successiva, di elementi eterogenei rispetto alla precedente. Varrà la pena di riflettere. E di nuovo, ripetitivamente, porre l’ipotesi di lavoro: situazioni di distrazione a fini privati od extraistituzionali in precedenza punibili a titolo di peculato o di malversazione, oppure prese di interesse privato in atti d’ufficio, integranti un fatto di abuso potrebbero ora confluire nella riformulata disposizione dell’art. 323. Certo, converrà sempre ribadirlo: a patto di restare indifferenti di fronte alla diversa tecnica di utilizzazione della finalità di vantaggio, evento consumativo, appunto, nelle ipotesi abrogate, dolo specifico nell’attuale previsione dell’abuso di ufficio. E indifferenti, singolarmente, ad un divario di ovvia evidenza invece, segnalato del resto, con sufficiente at(20) p. 1017.

Per questa osservazione, cfr., ancora, PADOVANI, Tipicità, cit., p. 988 ss., e


— 1061 — tenzione dalla dottrina, preoccupata che la prospettiva di una equiparazione indifferenziata delle condotte distrattive a quelle semplicemente abusive portasse ad una ingiusta, immotivata parificazione tra condotte abusive che effettivamente arrecano un danno patrimoniale alla pubblica Amministrazione e condotte abusive che non comportano questo evento: assolutamente irrinunciabile — si affermava — per la rilevanza penale della distrazione (21). Ad ogni modo, la variazione, la diversa costruzione della finalità quindi, dovrebbe permettere, ancora, l’individuazione di una struttura formale comune; e agevolare dunque il riconoscimento di una relazione di specialità reciproca tra abuso di ufficio e fattispecie confluenti. Ebbene, parrebbe ragionevole annotare: la posizione della finalità di profitto nelle ipotesi di peculato o di malversazione distrattive e in quella di abuso di ufficio non sembra affatto ripetere lo schema di un rapporto genere-specie. Certo, lo scopo di profitto, tipicizzato alternativamente quale evento consumativo o quale dolo specifico, è requisito presente tanto nelle fattispecie abrogate quanto nella nuova fattispecie dell’art. 323: ma, indubbiamente, la generalità dell’abuso rispetto alle condotte distrattive, e una sua specialità, invece, rispetto al dolo specifico non potrebbe facilmente costruirsi sulla traccia di una finalità che, all’opposto, concretizza nelle altre previsioni l’offesa. Se la specialità, difatti, indica una relazione tra dati omogenei, dolo specifico ed evento consumativo, considerata la diversa posizione strutturale all’interno delle fattispecie in successione, non apparirebbero elementi omogenei, simmetrici. Ed invero, la continuità del tipo di illecito, il mantenimento dunque della sua rilevanza penale, se ancorata a criteri di specialità reciproca esigerebbe anzitutto la rilevanza di un nucleo comune, una condotta, cioé, di sfruttamento abusivo dell’ufficio, dilatata, e delimitata insieme, nel suo contenuto attraverso il riferimento operato nell’art. 323 all’ufficio stesso: imporrebbe, viceversa, un ridimensionamento all’interno della fattispecie del ruolo specializzante, e vivificatore, assegnato al dolo specifico. Appunto perché la finalità non potrebbe specializzare il dolo generico di una fattispecie che la ipotizzasse quale evento consumativo; né, accogliendo una diversa prospettiva, specializzare la tipicità di un fatto che la assumesse, invece, a sostanziare l’offesa: il fatto non potrebbe strutturalmente risultare lo stesso. Evidentemente allora, individuato pure il nucleo comune nella condotta di abuso di ufficio prevista nell’art. 323, e affidata la sua nota spe(21) Una conferma di questa indicazione in PATALANO, Profili problematici della riforma dei delitti contro la P. A.: il peculato per distrazione, l’interesse privato, l’abuso di ufficio, nel volume I delitti contro la P. A. Riflessioni sulla riforma, Napoli, 1989, p. 232 ss.


— 1062 — cializzante all’indicazione offerta da condotte distrattive di peculato o di malversazione, lo schema della specialità reciproca verrebbe però meno. E verrebbe meno, ovviamente, lo stesso schema di specialità unilaterale: al quale risulterebbe insufficiente l’affermazione, limitativa, di un mero nucleo comune. È vero, insomma, che i requisiti di fattispecie, assunta una diversa posizione strutturale nell’una e nelle altre disposizioni, acquisiscano un diverso rilievo contenutistico, e un diverso rilievo formale: ipotesi di peculato e di malversazione distrattive non potrebbero appunto realizzarsi indipendentemente dalla effettiva distrazione del bene; e dunque concretizzare una delle varie situazioni di abuso d’ufficio penalmente rilevanti. In definitiva, allora: la finalità prevista nell’art. 323, ascritta pure all’ambito della tipicità, non rappresenterebbe assolutamente una specificazione del contenuto tipico originario del fatto di malversazione o di peculato distrattivi, né aggiungerebbe un elemento in precedenza non necessario a costruire il tipo: la distrazione del bene, semplicemente, connoterebbe in quel fatto tipico l’offesa, collocandosi in una diversa posizione strutturale. In ogni caso quindi, l’ampia formulazione nell’art. 323 della condotta di abuso d’ufficio, eventualmente specificabile in fatti di abuso distrattivi, non potrebbe assegnare, a sua volta, una nota specializzante ad un elemento eterogeneo, ad una finalità redatta appunto in termini di evento consumativo. In realtà, è però la condotta di abuso d’ufficio, la sua centralità nella formulazione dei requisiti di tipicità del fatto, la costatazione che sia una modalità di lesione estremamente duttile, la sua strutturale incidenza lesiva sul valore della imparzialità, a riproporre, sempre, il dubbio che non di abolitio si tratti, ma di fenomeno successorio. Resisterebbe, in definitiva, la tentazione di non escludere la rilevanza penale di ipotesi di abuso distrattive realizzanti un ingiusto profitto patrimoniale. Innegabilmente; e un accenno, rapidissimo, ad una diversa collocazione della finalità potrebbe forse rivelarsi opportuno. Se infatti il dolo specifico, ancorato alla materialità del fatto, non sembra assumere un significato così incisivo nell’ipotesi dell’art. 323, varrebbe allora riproporre una sua ascrizione al momento della colpevolezza. E prospettare nuovamente un profilo di specialità per l’abuso di ufficio; il fine, cioè, assolverebbe ad un ruolo di potenziamento del dolo generico ipotizzato nelle disposizioni in successione. In realtà, ammetterlo, e a voler sempre sottacere, naturalmente, l’eterogenea posizione strutturale della finalità, non sembra affatto semplice: nelle ipotesi di peculato e di malversazione distrattive, invero, il dolo è senza alcuna necessità di potenziamento intenzione e volontà di realizzare la distrazione profittatrice. Innegabile e ovvio: però imbarazzante.


— 1063 — E certo, se questa anche è la difficoltà, verrebbe allora intuitivo ricorrere a quella formula di continuità del tipo di illecito che, pur nelle oscillazioni e nel delicato bilanciamento tra due centri di attrazione, interesse protetto e modalità della lesione, porrebbe nondimeno in risalto il peso che, comunque, negli stessi reati lesivi di interessi superindividuali assumerebbe il bene tutelato. In definitiva, dovrebbe sottolinearsi il rilievo centrale del bene — concretizzato nel rapporto di imparzialità tra pubblica Amministrazione e cittadino — aggredito appunto dalla condotta di abuso di ufficio: a significare che nelle disposizioni in successione sia proprio l’identità dell’oggetto giuridico protetto il requisito capace di giustificare una continuità del tipo di illecito nella nuova dimensione normativa. È senz’altro una indicazione utilissima, e non disattesa inoltre dalla dottrina: tuttavia, prospettazione, insieme, di un criterio interpretativo estremamente delicato, non risolutore. Difatti, sarebbe anzitutto impossibile dimenticare come nelle stesse ipotesi di peculato distrattive il rilievo assegnato a un danno anche patrimoniale della pubblica Amministrazione fosse leggibile e non immotivato (22): sicché in ambito consumativo il divario con l’ipotesi dell’art. 323, secondo comma riaffiorerebbe di nuovo nettissimo. Comunque, parrebbe poi difficile sottovalutare il pericolo che un’eventuale identità teleologica possa alla fine indurre a trascurare l’incidenza delle modifiche strutturali rinvenibili nel fatto; e quindi l’eventuale eterogeneità dei requisiti concernenti, in partitolare, le modalità di lesione. Ovvio: con sospetta violazione, quando si ammettesse la continuità in termini sostanziali nonostante la presenza di evidenti modifiche strutturali nella previsione dell’art. 323 rispetto alle precedenti disposizioni, del principio di retroattività enunciato nel secondo comma dell’art. 2 c.p. Ma allora, se queste sono le difficoltà e gli interrogativi, converrà, singolarmente, azzardare la conclusione — delicatissima — che peculato e malversazione distrattivi, ipotizzando forme di abuso non finalizzate ma connotate dal conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale, proprio od altrui, non prospettino dal punto di vista strutturale-formale una effettiva confluenza nella disposizione dell’art. 323. Breve: condotte abusive che realizzino un vantaggio e condotte abusive che non comportino questo evento rivelerebbero, infine, un modulo penale, una tecnica di costruzione del tipo, profondamente diversa. Resisterebbe, quindi, una situazione abrogativa (23). Ed escluso il fenomeno successorio, chiaramente, la previsione dell’art. 323 vedrebbe ridimensionata la sua stessa posizione di centralità. (22) Su questo punto, cfr. VASSALLI, Relazione al Convegno I.S.L.E. Delitti di peculato e illecito amministrativo, Milano, 1967, p. 86 ss. (23) In relazione alla fattispecie di peculato per distrazione e nel senso di una sostan-


— 1064 — Certo, ricondurre invece ad una ipotesi successoria la disposizione dell’art. 324 c.p. parrebbe, sicuramente, meno difficoltoso. Effettivamente, uno sfruttamento dell’ufficio realizzato in forma di abuso reperirebbe subito una notazione specializzante nella condotta indicata dall’art. 323; e — si è anche osservato — nella stessa specificità di quel requisito di illiceità speciale caratterizzante nella nuova disposizione normativa la finalità dell’agente (24). Tutto sommato, si opererebbe una specificazione di elementi già genericamente ricompresi nella fattispecie abrogata: sulla quale il momento del dolo specifico previsto nell’art. 323 inciderebbe potenziando, appunto, il dolo generico. È senz’altro una soluzione piuttosto insistente: nondimeno, riproporrebbe tutti gli interrogativi e le difficoltà interpretative che una ascrizione della finalità all’elemento psicologico comporta; e anzitutto — non va dimenticato — il pericolo, ricorrente, della sua dissoluzione in una figura di dolus in re ipsa, senza alcun arricchimento della tassatività della fattispecie (25). Ma sono certo interrogativi, questi, tutt’altro che originali: ciò che li rende attuali, peraltro, è la critica, insistente, rivolta alla progettazione, e alla ridefinizione, poi, dei delitti contro la pubblica Amministrazione. Una ridefinizione che avrebbe sostanzialmente eluso, o semplificato, la contiguità, complicatissima invece, tra ambito penale e ambito amministrativo (26), affidando ad un elemento di fragile ricognizione come, appunto, il dolo specifico un ruolo amplificato ed eccessivo nella linea di demarcazione tra abuso profittatorio rilevante penalmente e abuso disciplinare o amministrativo. 6. Tecniche di formulazione del tipo penale e tendenziale delimitazione dell’intervento penale nell’ambito degli illeciti contro la P.A. Un accenno al problema. — Senz’altro, è incontestabilmente vero che nella riforziale abolitio criminis, vd., Tribunale di Palermo 25 marzo 1991, in Giust. pen., 1991, p. II, col. 367 ss. (24) Vd. PADOVANI, Commento all’art. 20, cit., p. 359. L’emergenza del problema, e le difficoltà tuttavia di un coordinamento dell’art. 324 c.p. con altre fattispecie di delitti contro la P. A., leggibile anche nelle annotazioni, datate e però attuali, di BARTULLI, L’interesse privato in atti di uffcio, Milano, 1967, p. 276 ss. Cfr., inoltre, GROSSO, Lineamenti dell’interesse privato in atti di ufficio, Milano, 1966, p. 48 ss.; BRICOLA, Interesse privato in atti di ufficio, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1972, spec. p. 79 ss. Confermando un nesso di continuità e di omogeneità fra il nuovo testo dell’art. 323 ed i precedenti artt. 323 e 324 c.p. è nota, Cass. pen., Sezioni unite, 20 giugno 1990, in Foro it., 1990, II, col. 637 ss. (25) In proposito, BRICOLA, Dolus in re ipsa, Milano, 1960, p. 81 ss. (26) Vd., al riguardo, le annotazioni critiche di GIAMPAOLINO, Il contributo del diritto amministrativo alla riforma, nel volume I delitti contro la P. A., cit., p. 201 ss., e autori ivi citati.


— 1065 — mulazione della fattispecie di abuso d’ufficio il fine abbio diluito la sua incisività in annotazioni ritenute talvolta non decisive, l’ingiustizia del danno o del vantaggio, in particolare, potrebbe anche confermare soltanto ciò che la previsione già compiutamente esprime (27): ma, forse, il problema si profilerebbe anche più complesso. Infatti, è la stessa costruzione del tipo penale nell’ambito di questa categoria di delitti, costantemente discussa, e insidiata, appunto, dalle interferenze con l’illecito amministrativo. Lo si è spesso annotato, del resto; avvertendo, comunque, che nell’illecito penale rilevi un comportamento, non un atto, e accanto ad una valutazione oggettiva l’accertamento, naturalmente, di un elemento soggettivo (28); ma, per la verità, la tesi potrebbe anche rivelarsi piuttosto convenzionale, e probabilmente riduttiva. Il problema, invero, non è soltanto l’acquisizione di una linea di confine rispetto all’ambito di rilevanza amministrativa, vincolata agli schemi di costruzione del tipo penale — alla redazione anzitutto dei requisiti del fatto in termini di tipicità formale e sostanziale —, quanto piuttosto la difficile realistica accettazione di una funzione residuale per l’intervento penale. Di recente, infatti, si è ribadito che il proliferare nella pratica giudiziaria dei delitti contro la pubblica Amministrazione sia anche la conseguenza del venir meno dell’Amministrazione come ordinamento in sé concluso, depositario degli stessi accorgimenti e rimedi per prevenire devianze ed ovviare disfunzioni (29): ed è una costatazione molto indicativa, non trascurabile. Tanto che varrebbe allora ammettere come questo ruolo del diritto penale, ritagliato per certi aspetti in negativo — quasi una eredità dovuta all’indebolimento di misure di controllo affidate agli istituti della giustizia amministrativa — renda davvero difficoltosa, e divarichi infine, la tensione alla tassatività, alla costruzione appunto del tipo dalla funzionalità del tipo. Il dubbio, tutto sommato, è che l’ipotesi di una dimensione qualitativamente più significante per l’illecito penale si riconduca alla scelta di una tecnica legislativa preoccupata di indicare, differenziare e riformulare requisiti di tipicità della fattispecie costantemente posti in discussione da (27) Per queste affermazioni, IADECOLA, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali, cit., p. 79 ss. (28) In relazione al tema, e limitando i riferimenti bibliografici ad un sommario accenno, vd. RAMPIONI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali, cit., p. 26; BRICOLA, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, nel volume Funzioni e limiti del diritto penale, Padova, 1984, p. 68 ss. Di recente, MAZZONI, Bene giuridico e condotta nell’abuso d’ufficio, in questa Rivista, 1994, p. 717 ss. (29) Per questa ammissione, GIAMPAOLINO, Il contributo del diritto amministrativo, cit., p. 213.


— 1066 — una imbarazzante incertezza sulla decisione di fondo: richiesta cioé, insistente, di maggiori, più originali anche, fattori di tipicità, o individuazione, piuttosto, del fattore di tipicità decisivo per la linea di demarcazione con l’illecito amministrativo, e per la funzionalità e necessità dell’intervento penale? Necessità, per inciso, tutt’altro che irresistibile, se appunto frequente è la domanda di rafforzamento della giustizia amministrativa; e frequente la richiesta di più attente ricostruzioni dell’illecito amministrativo (30). Certo, recuperando un tema di tutto rilievo nella discussione sulla riforma dei delitti contro la pubblica Amministrazione, funzionale poteva, e potrebbe forse, prospettarsi una precisa tipicizzazione del fattore evento: condotte di abuso profittatrici parevano e parebbero infatti chiarirsi ove comprensibile ne fosse il risultato. Diversamente, proponendo la dissoluzione del peculato e della malversazione distrattivi nella rinnovata formulazione dell’art. 323 si sarebbe corso il rischio, ormai reale, di far coincidere per quel che riguarda il profilo oggettivo la distrazione con la realizzazione dell’atto illegittimo: affidando soltanto all’elemento soggettivo — l’obiezione è piuttosto frequente — la funzione di contrassegnare il contenuto di disvalore del fatto. Insomma, quella finalità di ingiusto vantaggio, o di ingiusto danno, avrebbe dovuto costruirsi nella nuova redazione dell’art. 323 quale evento consumativo (31). Varrebbe recuperare dunque la proposta: e, ovviamente, significherebbe ancorare la punibilità a comportamenti di abuso che conseguano effettivamente una ingiusta finalità profittatrice o di danno. Chiarissimo però: con l’imbarazzante prospettiva di contraddire, forse, il significato e l’opportunità di quell’opzione per un modulo di tutela penale piuttosto che amministrativa. D’accordo, occorrerebbe anche prudentemente valutare se questa riduzione dell’ambito applicativo dell’abuso d’ufficio non renda invece funzionale la disposizione stessa: non giustifichi, cioé, e chiarisca i limiti di un intervento penale capace di reale effettività. Tutto sommato, si incriminerebbe, difatti, l’utilizzazione di poteri di ufficio per il conseguimento di fini che realizzino concretamente una situazione di vantaggio o di pregiudizio ingiusti; sicché è vero che l’offensività del fatto e la stessa praticabilità dell’ipotesi delittuosa ne verrebbe decisamente chiarita. Però dubbi e perplessità si ripropongono: e non sono certo riconducibili a questo solo tema. Difatti, ciò che alla fine sembra entrare in crisi, o comunque peccare di astrattezza, è la stessa affermazione che all’intervento penale sia tout court affidato il disvalore più grave del fatto: sulla (30) Nella manualistica, vd. le indicazioni di GIANNINI, Diritto amministrativo, vol. II, 3a ed., Milano, 1993, p. 814 ss. (31) In questo senso, PATALANO, Profili problematici della riforma, cit., p. 225 ss.


— 1067 — traccia tuttavia — ecco il dubbio — di una graduazione del disvalore stesso pericolosamente disancorato da chiari punti di riferimento. In pratica, a questo giudizio qualitativo mancherebbe una ridefinizione delle regole di azione, dei parametri appunto dell’azione amministrativa. È del resto una carenza, questa, spesso sottolineata dalla dottrina, e senz’altro di data non recente: ma sostanza, sempre, del problema. Perché evidentemente, incerto il dato amministrativo di riferimento la rilevanza penale della stessa condotta di abuso, momento oggettivo di insostituibile significato per la concretezza della fattispecie, finirebbe per vacillare (32). E per vacillare quel suo ruolo centrale nella rilevazione del disvalore del fatto ipotizzato nell’art. 323; tra l’altro decisamente irrealizzabile ove, presente anche una seria intenzione di profitto o di danno, fosse appunto assente la condotta di abuso. Comunque, è pur vero che alla astrattezza offensiva del fatto nell’attuale previsione dell’art. 323 non potrebbe che giovare, indubbiamente, una tipicizzazione del risultato materiale, di effettivo pregiudizio per gli interessi della pubblica Amministrazione; mentre non gioverebbe affatto assegnare al dolo specifico la concretizzazione di condotte di abuso contrarie alle finalità di correttezza e di imparzialità della stessa pubblica Amministrazione (33). Il fatto, è chiaro, verrebbe in ogni caso depauperato e confuso nel suo connotato di lesività. Occorrerebbe davvero prenderne atto; e non sottacere, riflesso nelle disfunzioni interpretative dell’art. 323 un problema più generale. Vale a dire: che una costruzione artificiosa del tipo penale difficilmente acquisisca determinatezza e riconoscibilità sufficienti ad una ragionevole delimitazione del suo ambito applicativo, ad una sua reale effettività. Sarà forse un’affermazione assolutamente scontata; e però, tutto sommato, se la fragilità di un requisito quale il dolo specifico ai fini di un recupero di tassatività e di ragionevole diversificazione rispetto all’illecito amministrativo è stata puntualmente sottolineata (34), non così insistente emerge la critica alla redazione di una fattispecie penale che, estesa la sua realizzabilità soggettiva e diluito l’abuso nel riferimento ad una entità or(32) Per la costatazione di questa difficoltà, vd. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. II, 11a ed., Milano, 1995, pp. 318-319. (33) Sottolinea appunto questi interrogativi, PALAZZO, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo di insieme, in questa Rivista, 1990, p. 815 ss., spec. p. 827 ss. (34) L’indicazione del problema già in BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in questa Rivista, 1966, p. 997. In proposito, riassumendo critiche e proposte sulla riformulazione dell’art. 323 c.p., PADOVANI, L’abuso di ufficio e il sindacato del giudice penale, in questa Rivista, 1989, spec. p. 89 ss.; GROSSO, Riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione: pregi e difetti del testo « 2 maggio 1989 », in questa Rivista, 1989, p. 1157.


— 1068 — ganizzativa quale l’ufficio, parrebbe quasi inadatta alla previsione di un fatto strutturalmente individuabile come ipotesi penalmente rilevante (35). Ma inadatta, forse, perché risulterebbe tecnicamente disagevole, non risolutiva, la costruzione del tipo penale. E il dubbio, del resto, potrebbe già sorgere dalla rilettura di un assunto piuttosto ricorrente: che cioè nell’ipotesi di specie la necessità di una oggettiva concretizzazione nella condotta di una scelta dell’agente per un interesse proprio od altrui, o a sfavore di quello di un altro, sappia qualificare l’abuso quale oggettiva violazione dell’imparzialità meritevole di sanzione penale. Il pubblico ufficiale — si insiste — avrebbe dovuto intervenire non solo in termini di formale correttezza ma, anche, di sostanziale imparzialità nei rapporti giuridici, per perseguire finalità pubbliche (36). Ora, sembra di poter osservare, perché l’abuso amministrativo dovrebbe inevitabilmente violare la mera correttezza formale, e mai la sostanziale imparzialità nel rapporto pubblica Amministrazione e cittadino? E perché dunque la proiezione esterna dell’abuso concretizzata nella tipicizzazione di una figura di dolo specifico dovrebbe sicuramente differenziare la fattispecie dell’art. 323 dall’illecito amministrativo? In realtà, la linea di demarcazione sembra invariabilmente confondersi. Ma confondersi, anche, e sminuirsi attraverso schemi interpretativi non del tutto indiscutibili proprio l’esigenza di realistiche verifiche sulla possibilità di una costruzione originale differenziata del tipo penale. Problema questo, non solo e non tanto di opzioni contenutistiche, di politica criminale, quanto piuttosto di redigibilità, appunto, di un tipo penale concretamente utilizzabile (37); e veramente costitutivo autonomo. Riflessa allora nel tema particolare si avverte chiaramente questa difficoltà. Perché invero, decisa pure l’opportunità di sanzionare penalmente l’abuso del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, rifiutando la previsione di sanzioni amministrative, i limiti per la sua rile(35) Per un accenno, STORTONI, La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P. A. Profili generali e spunti problematici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, p. 717 ss. (36) Vd., PICOTTI, Il dolo specifico, cit., p. 308. (37) L’impossibilità di redigere una norma incriminatrice secondo principi di sufficiente determinatezza è stata appunto evidenziata dall’ipotesi di plagio. Sulla vicenda abrogativa e sulla difficile riformulazione di tale fattispecie vd., FLORA, Il plagio tra realtà e negazione. La problematica penalistica, in questa Rivista, 1990, p. 86 ss., spec. p. 91. Nell’ambito del tema più generale per riferimenti precisi, vd., tra gli altri, PULITANÒ, La formulazione delle fattispecie di reato: oggetti e tecniche, nel volume Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1991, p. 38 ss. Da ultimo, cfr., PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, spec. p. 1237 ss.


— 1069 — vanza penale, i requisiti cioé costitutivi del tipo sembrano ineluttabilmente vacillare. Lo stesso recupero di un evento lesivo tipicizzato, appunto quale risultato materiale della condotta, e la costruzione, quindi, dell’abuso non come reato di pericolo, ma come ipotesi connotata dal conseguimento di un vantaggio o di un pregiudizio ingiusti non apparirebbe risolutiva. Recuperare infatti la tipicizzazione di un evento materiale, assegnare al fatto ipotizzato nell’art. 323 un concreto contenuto di offesa renderebbe certo più selettivo l’intervento penale (38), ma non impedirebbe il dubbio che quella stessa lesione possa essere realizzata anche da fatti di abuso afferenti all’ambito amministrativo. E indifferenziato il disvalore dell’evento, una costruzione ed una struttura del tipo penale che stabilisse allora la soglia incriminatrice nella effettiva lesione dell’interesse giuridicamente protetto non segnerebbe affatto una chiara delimitazione tra illecito penale e illecito amministrativo; né risponderebbe d’altronde alle reali esigenze di tutela dell’interesse. Ma del resto, è forse vero che la stessa scelta di adottare, all’opposto, una ipotesi incriminatrice redatta quale fattispecie di pericolo non eviterebbe incertezze e difficoltà. Se infatti la rilevanza dell’interesse giustifica e rende quasi obbligate tecniche legislative di questo genere (39), non è poi improbabile che, assente appunto una formulazione della finalità come evento consumativo l’attenzione si sposti verso più accurate specifiche descrizioni delle modalità di condotta, esemplificando così situazioni quali « sfruttando i poteri o le funzioni inerenti al proprio ufficio, eccedendo dai limiti vincolanti previsti dalla legge per l’esercizio degli stessi poteri o funzioni, omettendo un atto del proprio ufficio » (40): solo che la tecnica di redazione — sembra di poterlo costatare — non ipotizzerebbe ancora comportamenti nettamente riducibili ad una autonoma esclusiva rilevanza penale (41). In altre parole, più accurate tipicizzazioni della condotta di abuso, e, in particolare, l’opzione per un reato di condotta di pericolo, non assolverebbero a compiti di separazione da modalità abusive rilevanti in ambito amministrativo: sul piano oggettivo, quindi, un insostituibile peculiare originario connotato di tipicità della fattispecie penale potrebbe venire meno. Ma in ogni caso, quando anche si smentisse la discutibilità di un mo(38) Vd. in proposito, SINISCALCO, La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali, cit., p. 263 ss. (39) Sul punto, con ampi riferimenti bibliografici alla letteratura tedesca, di recente, ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, 2a ed., Milano, 1994, spec. p. 265 ss. (40) PATALANO, La riforma, cit., p. 255. (41) Lo sottolineava, tra gli altri, STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976, spec. p. 14 ss.


— 1070 — dello penale, resterebbe sempre il tema di fondo: la preoccupazione dunque che in un clima di incertezze e dubbi interpretativi sui criteri di omogeneità tra fattispecie abrogate e nuova dimensione normativa dell’art. 323, si costruiscano — e il problema naturalmente non investirebbe solo il caso particolare — relazioni successorie piuttosto controverse; recuperando, di fatto, al sistema penale disposizioni abrogate ogniqualvolta si decida, attraverso un opinabile vacillante rapporto da speciale a generale, e viceversa, la resistenza di un nucleo di illiceità penale. LAURETTA DURIGATO Associato di Diritto penale nell’Università di Macerata


SOGGETTO PASSIVO, PERSONA OFFESA E DANNEGGIATO DAL REATO: PROFILI DIFFERENZIALI

1. Soggetto passivo e persona offesa dal reato. — L’esatta determinazione dei concetti di soggetto passivo e di persona offesa dal reato può avvenire solo in via interpretativa, in quanto i codici penali sostanziale e di rito non forniscono espresse definizioni al riguardo (1). La dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che i due termini riflettano la medesima situazione giuridica e possano essere utilizzati in via alternativa (2): tale opinione merita, tuttavia, un’indagine critica al fine di verificare se la prospettata identificazione sussista effettivamente. I primi studi in materia avevano condotto a considerare soggetto passivo del reato ‘‘l’uomo o la cosa su cui cadono gli atti materiali dal colpevole al pravo fine indirizzati’’ (3) o il titolare dell’interesse ‘‘immediata(1) Il codice penale, al libro I, capo IV (artt. 120 ss.), sotto il titolo ‘‘Sulla persona offesa dal reato’’, disciplina gli istituti della querela, dell’istanza e della richiesta, mentre il codice di procedura penale, al libro I, titolo VI (Persona offesa dal reato - artt. 90 ss.), regola i poteri e i diritti attribuiti a tale soggetto e l’intervento degli enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato. (2) AIMONETTO, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., Vol. XXXIII, Milano, 1983, p. 319 ss.; ANTOLISEI, L’offesa e il danno del reato, Bergamo, 1930, p. 108 ss.; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1994, p. 168; BETTIOL-PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1986, p. 762 ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1989, p. 134; FROSALI, Soggetto passivo del reato, in Noviss. dig. it., Vol. XVII, Torino, 1970, p. 816 ss.; GIARDA, La persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, 1971, p. 6; SETTE, La persona offesa nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1991, I, p. 1907; TAORMINA, Diritto processuale penale, vol. II, Torino 1995, p. 268; in senso sostanzialmente (anche se non esplicitamente) conforme si vedano anche DALIA-FERRAIOLI, Corso di diritto processuale penale, Padova, 1992, p. 145, e LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1994, p. 69, i quali definiscono la persona offesa come il titolare del bene-interesse penalmente tutelato dalla norma penale, che si assume violata. In giurisprudenza cfr. Corte cost. 28 dicembre 1971, n. 206, in Giur. cost., 1974, II, p. 2304; Cass. 16 marzo 1965, Rinaldi, in Giust. pen., 1966, III, c. 23; Cass. 28 giugno 1969, Sarluca, in Cass. pen. Mass. annot., 1970, p. 1392; Cass. 28 novembre 1973, Barabesi, ivi, 1974, p. 1175; Cass. sez. un., 21 aprile 1979, Pelosi e Armellini, in Cass. pen., 1979, p. 1074; Cass. 26 giugno 1981, Agnellini, ivi, 1983, p. 596; Cass. 27 ottobre 1983, Castiglioni e altri, in Riv. pen., 1984, p. 388. (3) CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Firenze, 1924, p. 74.


— 1072 — mente’’ protetto dalla norma penale (4), o anche la persona che dal reato viene direttamente o immediatamente offesa (5). Più recentemente, si è esattamente osservato che questi criteri sono insoddisfacenti, in quanto portano a confondere il soggetto passivo con l’oggetto materiale del reato, che è la persona o la cosa su cui cade l’attività fisica del reo (6). Le due qualificazioni possono anche cumularsi nella medesima persona, allorquando la condotta illecita si esplichi contro il titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, ma sicuramente non coincidono, poiché il concetto di soggetto passivo del reato è riferibile soltanto a persone fisiche o giuridiche o a collettività di individui anche non personificate, non potendosi configurare titolarità di posizioni giuridiche al di fuori della sfera umana, mentre l’oggetto materiale del reato va inteso in una più vasta accezione, essendo rapportabile anche a cose inanimate o ad animali (7). Sembra, dunque, più confacente spostare l’attenzione sull’oggetto giuridico della tutela penale, rappresentato da quel particolare bene-interesse che deve necessariamente risultare offeso affinché l’illecito penale venga integrato. Avuto riguardo alla correlazione fra soggetto passivo e oggetto giuridico, i reati sono stati suddivisi in reati a soggetto passivo determinato, reati a soggetto passivo indeterminato, o vaghi o vaganti, e reati senza soggetto passivo (8). Se nei primi l’interesse offeso appartiene a soggetti ben indentificabili (come avviene nell’omicidio, nel furto o nel peculato), nei secondi non risulta facile individuare un bene giuridico ‘‘afferrabile’’ leso, poiché essi violano interessi spettanti a complessi organismi sociali, presi in considerazione solo ai fini della legge penale (reati contro il buon costume, il sentimento religioso, la pietà dei defunti, l’incolumità pubblica). (4) CARNELUTTI, Il danno e il reato, Padova, 1926, p. 68 ss. (5) A. ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridico penale, Torino, 1913, p. 9. (6) Così ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 170; MANTOVANI, op. cit., p. 170, preferisce parlare di oggetto materiale della condotta, consistente nell’entità su cui cade la condotta tipica. Si veda anche GIANNITI, L’oggetto materiale del reato e della tutela giuridico penale, Milano, 1966, p. 187 ss. Sulla differenza fra oggetto giuridico e oggetto materiale del reato, cfr. MANZINI, op. cit., p. 582, il quale, dopo aver operato una distinzione anche fra oggetto giuridico generale (costituito dall’ordine giuridico tutelato dallo Stato) e oggetto giuridico speciale (dato da quel particolare bene-interesse che il fatto incriminato lede o espone a pericolo, e a protezione del quale interviene la tutela penale), definisce l’oggetto materiale quell’elemento costitutivo di un fatto delittuoso in relazione al quale avviene la violazione dell’interesse protetto, e che rappresenta l’entità materiale (persona o cosa) cui si riferisce l’azione o l’omissione. (7) ANTOLISEI, op. cit., p. 169; MANTOVANI, op. cit., p. 240; MANZINI, op. cit., p. 587. (8) Cfr. MANTOVANI, op. cit., p. 239.


— 1073 — Ci si è, quindi, domandati se possa essere riconosciuta la qualifica di soggetto passivo alle collettività che non godono di personalità giuridica, come la famiglia, la società e le comunità di Stati internazionali. Hanno dato una risposta affermativa al quesito coloro i quali ritengono che il diritto penale, pur non tutelando espressamente queste collettività, attribuisca loro tuttavia la titolarità di interessi giuridici (9). Emblematico sarebbe il caso della famiglia, che non gode di diritti propri, ma è portatrice di interessi giuridici distinti, rispetto ai terzi, da quelli di ciascuno dei suoi componenti, e diviene così legittimata a proteggere sia i diritti privati di famiglia dei singoli membri, sia, insieme ad essi e al di sopra di essi, i beni e gli interessi della società familiare di fronte agli estranei, trasformandoli in beni e interessi giuridici propri della famiglia, considerata come una collettività non personificata di determinati individui legati da vincoli giuridici reciproci (10). In senso contrario si è osservato, invece, che la correlazione tra interessi penalmente tutelati e soggetti aventi personalità giuridica anche in altri settori del diritto, comporta che titolari dell’interesse penalmente protetto nei reati vaghi sono lo Stato o la persona fisica o giuridica che risente in concreto della lesione o della messa in pericolo provocata dall’agente (11). Occorre, inoltre, rilevare che molti dei beni giuridici tutelati dal codice Rocco sono oggi ritenuti superati ed occorre operare un’interpretazione evolutiva per adeguarli ad una sistematica costituzionalmente orientata. La dottrina prevalente sostiene, infatti, che la costituzione vincoli il legislatore a strutturare i reati come forma di offesa a un bene giuridico (12) e la stessa Corte costituzionale ha affermato che se può discu(9) BETTIOL, Diritto penale, parte generale, Padova, 1978, p. 678; SANTORO, Manuale di diritto penale, Vol. III, Torino, 1965, p. 16. (10) A fini di completezza è necessario aggiungere che, secondo alcuni autori, il complesso della famiglia, nel libro II, titolo XI del codice penale, ha una funzione puramente indicativa dovuta ad un’esigenza di raggruppamento dei reati: a tal proposito cfr. AMENDOLA, La nuova formulazione degli artt. 573 e 574 codice penale dopo la sentenza della Corte costituzionale, in Arch. pen., 1968, I, p. 340; PANNAIN, La condotta nel delitto di maltrattamenti, Napoli, 1964, p. 21; PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, p. 95 ss. (11) GIARDA, op. cit., p. 21; GRISPIGNI, Diritto penale italiano, 1952, Vol. I, p. 72: ‘‘da un punto di vista giuridico è assurdo parlare di beni della famiglia, della società o della società di Stati, questi non sono soggetti giuridici, solo la persona fisica o morale e tra quest’ultima lo Stato lo sono’’. (12) Cfr. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., Vol. XIX, Torino, 1973, p. 82 ss., il quale prende le mosse dalla duplice funzione retributiva e rieducativa attribuita alla pena dall’art. 27, terzo comma, Cost. per giungere alla conclusione che ‘‘l’equilibrio fra le due funzioni deve avvenire radicando l’incriminazione su di un fatto offensivo (espressione comprensiva sia della lesione che della messa in pericolo dell’interesse tutelato)’’: la necessaria lesività dell’illecito penale viene poi rafforzata dall’affermazione del ca-


— 1074 — tersi sulla costituzionalizzazione del principio di offensività, rappresenta canone unanimemente accettato che lo stesso principio debba reggere ogni interpretazione di norme penali e il giudice sia obbligato ad apprezzare alla sua stregua se la condotta dell’agente sia priva di qualsiasi idoneità lesiva concreta e si collochi quindi al di fuori dell’area penalmente rilevante (13). In proposito, ci sembra possa notarsi che, in alcuni casi, e specialmente nei reati di pericolo, manchi una specifica persona contro cui l’offesa possa dirigersi (ad esempio, nel delitto di atti osceni in luogo pubblico), ragion per cui non appare essenziale ad integrare la fattispecie l’esistenza in concreto di un particolare soggetto passivo: l’oggetto giuridico dei reati vaghi o vaganti non può dunque, essere un bene generico della società, ma i particolari beni o interessi degli individui o enti, lesi o messi in pericolo, e quindi soggetti passivi sono coloro che possono ricevere un pregiudizio dal comportamento penalmente illecito. Nei reati senza soggetto passivo (ostativi e di scopo), infine, assume rilievo non tanto la lesione di un bene giuridico, quanto l’interesse dello Stato a non consentire determinati comportamenti: in altri termini, il fatto è incriminato in vista di uno scopo assunto come proprio e rilevante dallo Stato, al fine di prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, senza che vi sia l’offesa di un interesse specifico di alcuno (14). rattere personale della responsabilità penale, contenuto nell’art. 27, primo comma, Cost. che vieta di ‘‘strumentalizzare l’uomo ai fini di politica criminale’’ e dagli altri principi riconosciuti nella costituzione, quali la libertà morale, la tolleranza ideologica, la tutela delle minoranze, mentre l’uso della locuzione ‘‘fatto’’ nell’art. 25, secondo comma, sarebbe incompatibile con la punizione di meri atteggiamenti interiori o di meri sintomi di pericolosità individuale. Secondo MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, p. 116 ss., sarebbero altresì decisivi i principi della sovranità popolare e di uguaglianza (artt. 1, secondo comma, e 3, primo comma, Cost.). Cfr. anche FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 31 ss.; FIORE, Diritto penale, parte generale, Vol. I, Torino, 1993, p. 288; ID., Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, p. 278 s.; FIORELLA, Reato in generale, in Enc. dir., Vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 793 s.; M. GALLO, Il reato di pericolo, in Foro pen., 1968, p. 8 s.; MANTOVANI, op. cit., p. 206 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Vol. I, Milano, 1995, p. 78 ss. Contra, vedi però VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti in memoria di U. Pioletti, 1982, p. 659 ss.; ZUCCALÀ, Sul preteso principio di necessaria offensività, in Studi in memoria di Delitala, Vol. III, 1984, p. 1700 ss. Secondo PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1993, p. 99 ss., la costituzione consentirebbe l’introduzione anche di reati di scopo, nel senso che il legislatore ‘‘potrebbe intervenire con la sanzione penale sia per tutelare beni giuridici preesistenti, sia per conseguire scopi politici particolari’’. (13) Corte cost. 26 marzo 1986, n. 62, in Giur. cost., 1986, p. 415; cfr. in senso sostanzialmente conforme Corte cost. 11 luglio 1991, n. 333, in questa Rivista, 1992, p. 285 ss., con nota di PALAZZO, Dogmatica ed empiria nella questione di costituzionalità della legge antidroga. Sulla costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, vedi Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss., e Corte cost. 13 dicembre 1988, n. 1085, ivi, 1990, p. 289 ss. con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevolezza. (14) MANTOVANI, op. cit., p. 239. È il tipico caso delle contravvenzioni, ad esempio


— 1075 — Sulla scorta dell’affermato carattere pubblicistico del diritto penale e della pena, non ragguagliabili ad una vendetta privata o ad un risarcimento del danno, l’offensività della condotta è stata altresì individuata nella violazione dell’interesse pubblico dello Stato ad evitare la perpetrazione dei reati, nei quali sarebbero ravvisabili due oggetti giuridici e due soggetti passivi: nella fattispecie criminosa si dovrebbero, allora, distinguere un oggetto giuridico ‘‘speciale’’, costituito dal particolare bene-interesse che il fatto incriminato lede o espone a pericolo, e un oggetto giuridico ‘‘generale’’, rappresentato dall’ordine giuridico tutelato dallo Stato. Si realizzerebbe così un’offesa rivolta, sia ai singoli soggetti che di volta in volta vedono leso o messo in pericolo un proprio interesse personale, sia all’interesse che lo Stato ha affinché non vengano realizzati quei comportamenti ritenuti tanto dannosi socialmente, da avere ad essi collegata una sanzione penale: lo Stato deve conseguentemente essere considerato come titolare dell’interesse pubblico alla non commissione dei fatti vietati e, in quanto tale, ‘‘soggetto passivo costante’’ del reato, distinto dal ‘‘soggetto passivo particolare o eventuale’’, titolare dell’interesse la cui offesa costituisce l’essenza del reato (15). Altri, pur riconoscendo l’esattezza dogmatica di tale impostazione, osservano che essa non trova nel codice penale precisi riscontri normativi, di quelle relative al gioco d’azzardo non truffaldino, ove non esiste alcuna persona offesa, ma solo l’interesse dello Stato a vietare tale attività: altri casi possono individuarsi nel possesso non autorizzato di armi, esplosivi o sostanze stupefacenti. L’autore osserva in proposito che i reati di scopo assumono sempre più spesso come propria finalità ‘‘la tutela di una funzione, cioè del modo, affidato dalla legge alla pubblica amministrazione, di soluzione di un conflitto di interessi’’, come avviene per l’incriminazione degli scarichi inquinanti non in quanto tali, ma perché non autorizzati, o per i reati di mera trasgressione di regole tecnico-burocratiche connesse alla gestione pubblica dei beni giuridici (reati tributari ed ambientali): si è, così, al di fuori della tematica dell’oggetto giuridico e dell’offesa, sia pure ad una serie indeterminata di soggetti, che, tuttavia, è giustificabile a causa dell’irrinunciabilità di certe deroghe per la prevenzione delle lesioni a beni primari, da contenersi nei limiti dell’essenzialità (op. cit., p. 226 ss.). Secondo MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 189 ss., i reati economici e quelli ambientali non possono essere classificati senza vittime, ma, all’opposto, come reati caratterizzati da una vittimizzazione di massa, nel senso che offendono, direttamente o indirettamente, cerchie ampie, e non di rado vastissime, di persone. (15) BETTIOL, op. cit., p. 675; GRISPIGNI, op. cit., p. 280; MANZINI, op. cit., p. 586; MORO, La subbiettivazione della norma penale, Bari, 1942, p. 45 ss.; PISANI, Giurisdizione penale, in Enc. dir., Vol. XIX, Milano, 1969, p. 382. C’è anche chi sostiene, peraltro isolatamente, come il DELOGU, La loi penal et son application, Vol. I, Alessandria d’Egitto, 19561957, p. 163 ss., che si dovrebbe considerare soggetto passivo del reato solo esclusivamente lo Stato, poiché le persone fisiche o giuridiche sarebbero soltanto soggetti passivi dell’azione. Anche in giurisprudenza si trovano riferimenti al soggetto passivo costante: Cass. 21 aprile 1979, Gugliemini, in Foro it., 1979, II, c. 359; Cass. 27 giugno 1979, Ghisotti e altro, in Riv. giur. lav., 1980, IV, p. 168, e in questa Rivista, 1981, p. 1558; Cass. 26 giugno 1981, Agnellini in Cass. pen., 1983, p. 596.


— 1076 — anche se ciò potrebbe essere dovuto al fatto che nell’analisi del reato è sempre emerso l’interesse leso del singolo, mentre solo in tempi più recenti è venuto in luce l’interesse dello Stato nella previsione e punizione dei fatti che costituiscono reato (16). Si è, per contro, eccepito che l’interesse alla non commissione dei fatti vietati non è un vero e proprio oggetto giuridico, ma è la ratio del divieto penale (lo Stato non tutela l’interesse all’osservanza dei suoi comandi) (17) e che l’assunzione dello Stato a soggetto passivo costante di ogni illecito penale si riduce ad un’enunciazione teorica priva di effettiva rilevanza ai fini dell’applicazione delle norme penali (18). È, viceversa, pacifica la sussistenza dei c.d. reati plurioffensivi, che ricorrono allorquando la condotta criminosa lede o mette in pericolo contemporaneamente due o più interessi penalmente tutelati con la stessa norma (19). Essi comprendono due tipi fondamentalmente diversi di fattispecie, cioè i reati che offendono interessi complessi di un medesimo soggetto, e quelli che offendono una pluralità di interessi, ciascuno dei quali, svincolato dagli altri, fa capo ad un soggetto differente (20). (16) GIARDA, op. cit., p. 10 s., il quale rileva in proposito che il codice penale ha fornito un indice testuale per avvalorare tale impostazione, distinguendo due tipi di richiesta, la cui diversità va ritrovata nella considerazione dello Stato, da un lato come soggetto passivo particolare, e dall’altro come soggetto passivo costante: sotto il primo profilo assumerebbe rilevanza la previsione degli artt. 127, 296, 297, 299, che costituirebbe l’espressione della soggettività passiva immediata dello Stato, mentre gli artt. 8, 9, 10, stesso codice, rappresenterebbero l’indice evidente che lo Stato italiano ha interesse ad applicare la pena anche nei casi in cui il principio di territorialità viene meno perché il fatto è stato commesso fuori dei suoi confini. Quest’ultimo caso, comunque, andrebbe considerato come un’eccezione rispetto al concetto di soggetto passivo quale emerge dal codice penale. (17) MANTOVANI, op. cit., p. 239. (18) ANTOLISEI, op. cit., p. 170. (19) ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 169; DURIGATO, Rilievi sul reato plurioffensivo, Padova, 1972, p. 26; GIARDA, op. cit., p. 16; MANTOVANI, op. cit., p. 226; contra PAGLIARO, Bene giuridico e interpretazione della legge penale, in Studi in onore di Antolisei, II, Milano, 1965, p. 396 nota 16: ‘‘anche quando di fatto il reato leda una molteplicità d’interessi e questi siano presi in considerazione dalla legge, uno solo resta l’interesse decisivo per determinare l’oggetto della tutela’’. Oltre ai casi di reato continuato, complesso od aberrante, va ricordato il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.), per il quale si ritiene che il soggetto passivo sia tanto il mittente quanto il destinatario: cfr. al riguardo BATTAGLINI, La querela, Torino, 1958, p. 260; COSTA, Unità dell’azione con pluralità di offesi. Se reato unico o plurimo agli effetti del regolamento della querela (artt. 122, 154 c.p.), in Annali di dir. e proc. pen., 1936, p. 258. Anche nel falso in titolo di credito la titolarità del diritto di querela deve essere riconosciuta sia al prenditore che al girante e, nel caso di assegno, anche alla banca trattaria. (20) Come ipotesi del primo gruppo può ricordarsi il delitto di rapina ex art. 628 c.p.: la configurazione di tale reato comporta la lesione di un interesse di tipo patrimoniale, oltre a quello della libertà individuale; le ipotesi del secondo gruppo sono invece costituite


— 1077 — Orbene, a nostro modo di vedere la presenza di reati senza soggetto passivo induce a ritenere preferibile la tesi dell’individuazione nel reato di un ‘‘soggetto passivo costante’’, rappresentato dallo Stato, e di un ‘‘soggetto passivo particolare’’, titolare dell’interesse, appunto particolare, leso dall’illecito. Ma, in proposito, è necessario ricordare che le norme penali tendono frequentemente a difendere beni-interessi molteplici e complessi (distinguibili in prevalenti e accessori), sicchè, accanto a quello che può considerarsi l’oggetto principale della tutela, ne esistono e ne vengono riconosciuti altri, che, pur offesi con l’aggressione al bene giuridico prevalente, godono tuttavia di una propria autonoma protezione, come avviene nei delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia, contro la fede pubblica o, più in generale, nella categoria dei reati che comunque offendono il patrimonio (21). Pertanto, soggetto passivo particolare principale del reato è la persona fisica o giuridica o la collettività di individui titolare di quel bene-interesse principale (o prevalente) che deve risultare offeso affinché venga integrato l’illecito penale: soggetto passivo secondario è invece il portatore di un interesse concorrente o accessorio rispetto a quello principale, che assume un proprio autonomo rilievo solo relativamente al verificarsi di una siffatta situazione. Occorre ora vedere se la nozione di persona offesa sia riconducibile ad uno dei concetti di soggetto passivo sopra elaborati e se sia dunque condivisibile l’opinione maggioritaria di una coincidenza fra i due concetti. Già in passato era stata prospettata una differenziazione, individuando la persona offesa in colei che soffre, in conseguenza del reato, la violazione di un proprio interesse penalmente protetto, mentre soggetto passivo sarebbe il titolare immediato e diretto dell’interesse tutelato dalla norma penale (22). Questo criterio di valutazione appare, però, insoddisfacente, poiché, dalle molteplici fattispecie rubricate come illeciti contro la pubblica amministrazione (oltraggio, violenza o resistenza a pubblico ufficiale), contro l’amministrazione della giustizia (esercizio arbitrario delle proprie ragioni) o contro la personalità interna dello Stato: cfr. ARAGONA, Reato plurioffensivo = categoria operativa e non meramente descrittiva, in Cass. pen., 1971, p. 975; GALLO, Il dolo, in Enc. dir., Vol. XVIII, Milano, 1964, p. 790; GIARDA, op. cit., p. 16. (21) Cfr. PENNISI, Parte civile, in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, 1981, p. 989, sia pure nella diversa prospettiva di addivenire ad una identificazione fra persona offesa e danneggiata dal reato; SABATINI, Soggetto passivo, persona offesa, danneggiato e delitti che comunque offendono il patrimonio, in Giust. pen., 1958, II, c. 1118. (22) VANNINI, La persona offesa dal reato e la diminuente dell’art. 62, n. 5, c.p., in Riv. pen., 1938, I, p. 388, il quale precisa che ‘‘può infatti accadere che una norma penale tuteli nel contempo due distinti soggetti, fissando di conseguenza in uno solo di questi la soggettività passiva del reato, senza però escludere nell’altro soggetto la qualità di persona


— 1078 — se consente di estendere la qualità di persona offesa a colui che abbiamo sopra definito soggetto passivo accessorio, presenta anche il difetto di considerare soggetto passivo soltanto il titolare dell’interesse principale tutelato dalla norma penale. In ordine al reato di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione (art. 3, n. 8, legge 20 febbraio 1958, n. 75), si è affermato in giurisprudenza che la prostituta non è persona offesa dal reato, poiché l’interesse protetto dalla norma penale è quello dello Stato al rispetto del buon costume e della pubblica moralità, ma è soggetto passivo, essendo la persona in relazione alla quale il delitto viene commesso: tale orientamento è da considerare tuttavia errato, in quanto la prostituta non è certamente titolare del bene-interesse protetto dalla norma e dunque non può essere considerata soggetto passivo del reato (23). Ai fini della comparazione fra le due nozioni appare utile rilevare che il codice penale adotta l’espressione ‘‘persona offesa dal reato’’ nel libro I, titolo II, capo IV, ove, sotto questa rubrica, disciplina alcune condizioni di procedibilità, quali la querela, la richiesta e l’istanza (artt. 120-131). Il codice di procedura penale, a sua volta, inserisce fra i soggetti del processo la persona offesa dal reato, così denominando il titolo IV del libro I (artt. 90-95). Le norme in esame attribuiscono in via generale alla persona offesa dal reato la titolarità dei poteri, diritti e facoltà a lei riconosciute dalla legge, ed in particolare quelli di impulso delle indagini e di controllo sull’effettivo rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, quali la presentazione di istanze e memorie (artt. 90 e 406, terzo comma, c.p.p.), l’opposizione alla richiesta di archiviazione (art. 410 c.p.p.) e le richieste di incidente probatorio (art. 394 c.p.p.) o di avocazione delle indagini (art. 413 c.p.p.). Stabiliscono, inoltre, il principio della personalità e intrasmissibilità della querela (24) e si preoccupano di assicurarne l’esercizio anche nei casi in cui vi sia un impedimento giuridico ad agire, e a tal fine individuano un soggetto autorizzato ad agire in nome e per conto dell’avente dioffesa dal reato. Si pensi ai delitti contro la sanità ed integrità della stirpe, ove soggetto passivo è lo Stato, ma accanto a questo altre persone possono chiamarsi offese’’. (23) Cass. 7 marzo 1962, Zullo, in Cass. pen. Mass. annot., 1962, p. 651; Cass. 25 giugno 1971, Allavena e altri, ivi, 1972, p. 1462; Cass. 12 maggio 1972; Paoli, ivi, 1973, p. 1180; Cass. 10 maggio 1963, Di Leginio, in Giust. pen., 1963, II, c. 715; Cass. 29 gennaio 1970, Coluri, ivi, 1971, II, c. 173. Si tratta, tuttavia, di massime che sembrano intendere per soggetto passivo il c.d. oggetto materiale del reato: cfr. anche Cass. 3 luglio 1964, Ginetti, in Giust. pen., 1965, II, c. 487, con nota di FLEURY, Oggetto giuridico, soggetto passivo e attenuanti del risarcimento del danno nei reati plurioffensivi e, in particolare, nel delitto di sfruttamento della prostituzione. (24) Cfr. sull’argomento ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, Vol. II, Milano, 1990, p. 256.


— 1079 — ritto (artt. 120, secondo e terzo comma, 121, 127 e 130 c.p. e 90, secondo e terzo comma, c.p.p.). Una prima lettura di tali disposizioni sembrerebbe evidenziare che in esse il termine persona offesa sia considerato sinonimo di soggetto passivo: in proposito sono emblematiche le espressioni contenute negli artt. 127 c.p. (‘‘qualora un delitto perseguibile a querela della persona offesa sia commesso in danno del Presidente della Repubblica...’’) e, ancor più, 90, terzo comma, c.p.p. (‘‘qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato’’). Senonché, a ben vedere, questo assunto soffre di alcune importanti deroghe, poiché nei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume o in quelli contro l’onore, gli artt. 543 e 597, terzo comma, c.p., se ‘‘la persona offesa’’ muore prima che sia decorso il termine per la proposizione della querela, attribuiscono il relativo diritto rispettivamente, ai genitori e al coniuge, e all’adottante, all’adottato e ai prossimi congiunti: e, soprattutto, lo stesso art. 597, terzo comma, riconosce esplicitamente a questi ultimi l’autonoma titolarità del potere di sporgere querela ove sia stata offesa la memoria del defunto. Nelle ipotesi indicate siamo certamente oltre il caso della rappresentanza, poiché le iniziative processuali assunte da tali soggetti non sono suscettibili di riverberare alcun effetto giuridico sul defunto ed attengono, dunque, esclusivamente alla loro sfera personale. Né ci pare che costoro possano essere considerati soggetti passivi in dipendenza del fatto che gli indicati reati coinvolgerebbero di riflesso anche la comunità familiare (25), poiché, se ciò fosse esatto, il diritto di querela avrebbe dovuto essere loro riconosciuto pure durante la vita del congiunto deceduto. Il che non è. Esistono, conseguentemente, ipotesi in cui il diritto di querela, normativamente attribuito alla persona offesa dal reato, è esercitato da chi non è titolare del bene-interesse leso dal reato e non può pertanto assumere la qualifica di suo soggetto passivo: sicché i due termini non sono affatto equivalenti. Inoltre, il nuovo codice di procedura penale disciplina sotto il titolo ‘‘persona offesa dal reato’’ anche gli enti e le associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato e li ammette ad intervenire nel procedimento penale con gli stessi diritti e facoltà attribuiti alla stessa persona offesa, sia pure subordinatamente al consenso di questa: e l’art. 8, sesto comma, della legge 17 maggio 1991, n. 157, riconosce alla Consob l’esercizio degli stessi poteri nei procedimenti penali per i reati previsti dalla legge medesima. Emerge così evidente come la nozione di persona offesa sia ben più (25)

Così ROMANO-GRASSO, op. cit., p. 257.


— 1080 — ampia di quella di soggetto passivo del reato, come sopra ricostruita, potendo sì essere riferibile anche al titolare di uno dei beni-interessi lesi dalla condotta criminosa, ma anche a soggetti che non rivestono affatto tale qualificazione. Appare, dunque, più corretto definire persona offesa dal reato ogni soggetto al quale l’ordinamento riconosca il potere di rimuovere ostacoli all’esercizio dell’azione penale e di controllare l’effettivo rispetto del principio di sua obbligatorietà assumendo un ruolo di cooperazione e di stimolo all’attività del pubblico ministero (26). Va, infine, osservato che l’espressione ‘‘soggetto passivo del reato’’ appare tipica del diritto penale sostanziale, ed è quindi riguardabile in chiave statica, mentre quella di ‘‘persona offesa’’ è utilizzata in una prospettiva processuale dinamica, di impulso e di collaborazione all’esercizio e alla prosecuzione dell’azione penale. 2. Danneggiato e persona offesa. — In dottrina e giurisprudenza si suole distinguere fra danno civile e danno criminale: il primo si riferisce al danno dipendente dalla commissione del reato, ed è l’unico risarcibile mediante un equivalente economico, il secondo è invece il danno che lo Stato — collettività subisce e che trova sanzione nella pena, in altre parole l’offesa necessaria affinchè il reato configuri (27). Secondo un’autorevole opinione, si dovrebbe distinguere un danno (26) AMODIO, Persona offesa dal reato, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di AMODIO-DOMINIONI, vol. I, Milano 1989, p. 540 ss., indica la persona offesa come soggetto titolare di un’accusa privata sussidiaria senza la qualità di parte; di sostanziale riconoscimento di un ruolo di accusa penale privata, accessoria e adesiva rispetto a quella pubblica, parla GHIARA, Persona offesa dal reato, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da CHIAVARIO, vol. I, Torino, 1989, p. 404 ss.; in senso sostanzialmente conforme, CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 80; TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., p. 268. (27) ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 183 ss.; ICHINO, La parte civile nel processo penale — La legittimazione, Padova, 1989, p. 14; FAVALLI, Sull’ammissibilità di costituzione di parte civile nell’apologia di delitti (nel caso: gli ebrei), in Arch. pen., 1959, p. 483; GUARNERI, Restituzione e risarcimento del danno da reato, in Noviss. dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p. 744; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 901 ss.; e in giurisprudenza Cass. sez. un. 21 aprile 1979, Pelosi e Armellini, cit.; Cass. 16 maggio 1980, Di Gregorio, in Cass. pen., 1982, p. 48; Cass. 26 giugno 1981, cit.; Cass. 6 giugno 1985, Nardecchia, ivi, 1986, p. 1752; Cass. 4 luglio 1986, Di Leo, ivi, 1989, p. 377; Cass. 16 febbraio 1990, Santacaterina, ivi, 1992, p. 2431. CARRARA, op. cit., p. 103-104, distingueva un danno immediato o diretto, consistente in « quel male che il delitto reca col violare il diritto attaccato », e un danno mediato, caratterizzato dal « pregiudizio che il delitto reca a tutti i cittadini che non furono dall’azione direttamente colpiti (c.d. allarme sociale) ». In senso contrario si vedano le opinioni di CARNELUTTI, op. cit., p. 210, per il quale il danno criminale è sempre anche risarcibile e con esso si identifica, e di U. GUALTIERI, La parte civile nel processo penale, Napoli, 1968, p. 17 ss. e 119 ss., che ritiene il danno civile


— 1081 — immediato (consistente nella lesione o esposizione a pericolo dell’interesse protetto dal diritto), un danno sociale (rappresentato dalla lesione dell’interesse dello Stato al mantenimento delle condizioni della propria esistenza) e un pericolo sociale (individuato nel rischio di futuri reati derivanti da un reato già commesso, ossia la possibilità di recidiva, di vendette private e pubbliche rappresaglie) (28). Ma, in senso opposto, si è esattamente osservato che il pericolo sociale non può essere assunto a nota caratteristica del reato, poiché esso è di norma assente nei reati minimi e perché un certo allarme sociale può derivare anche da illeciti extrapenali: e il danno sociale non può costituire oggetto del reato, pur essendo indubbio che nell’illecito penale esiste sempre, oltre al danno patrimoniale, un danno pubblico o sociale che spiega e giustifica l’intervento dello Stato con la sanzione punitiva (29). È, dunque, il danno immediato (costituito dall’offesa all’interesse particolare protetto dal diritto) a rappresentare il danno criminale, per la cui configurazione è sufficiente la violazione della legge penale. Il danno civile nasce, invece, quando, in conseguenza del reato, si verifichino a carico di taluno perdite economiche o altri pregiudizi patrimonialmente valutabili, un quid pluris, insomma, rispetto alla commissione dell’illecito penale, come è reso palese dalla circostanza che il legislatore ha adoperato nell’art. 185 c.p. l’espressione ‘‘che abbia cagionato un danno’’ (30): per esempio, nel caso di omicidio, allorché i congiunti chiedono il risarcimento, il giudice, nell’accogliere la domanda, non guarda al male proprio di questo delitto, cioè la privazione della vita (la quale rappresenta un irreparabile quoddam), ma alle perdite e ai danni non patrimoniali. E, d’altra parte, l’ora nominato inciso contenuto nell’art. 185 sta a significare che possono esistere anche condotte penalmente sanzionate inidonee a provocare svantaggi civilisticamente rilevanti (31). Pertanto, danno criminale e danno risarcibile hanno un’estensione che in certi casi può coincidere, in altri divergere; ciò risulta evidente considerando il delitto di lesioni personali, dove il primo consiste nella lesione dell’integrità personale, mentre il secondo riguarda le perdite economiche e le sofferenze morali arrecate alla vittima del reato (spese per cure, mancati guadagni, patimenti fisici e psichici etc.) (32). compreso in quello criminale e afferma che molte volte il codice (del 1930) usa l’espressione persona offesa dal reato per far riferimento al civilmente obbligato. Va anche rammentato che Corte cost. 20 dicembre 1968, n. 132, in Foro it., 1969, I, c. 3, sembra ritenere coincidenti le figure di offeso e danneggiato dal reato. (28) A. ROCCO, op. cit., p. 384 ss. (29) ANTOLISEI, op. cit., p. 184 ss.; GUARNERI, op. cit., p. 744. (30) ANTOLISEI, op. cit., p. 775; GUARNERI, op. cit., p. 747. (31) ANTOLISEI, op. cit., p. 774 ss. (32) Oltre al danno patrimoniale e non patrimoniale, è stato individuato un tertium


— 1082 — Tutto questo comporta che la persona offesa può essere al tempo stesso il soggetto danneggiato se abbia subito in conseguenza del reato una menomazione patrimoniale o non patrimoniale (si pensi alla truffa, nella quale offesa e danno sono addirittura indistinguibili, poiché il secondo rappresenta, com’è stato esattamente osservato, sia l’offesa del bene penalmente protetto, sia il pregiudizio che legittima l’azione civile) (33), ma, parimenti, sono ravvisabili ipotesi in cui tale coincidenza manca (ad esempio, l’omicidio, ove sono i prossimi congiunti dell’ucciso a far valere la pretesa risarcitoria). Danneggiato e persona offesa (e soggetto passivo) rappresentano, dunque, entità diverse (34). Esistono, tuttavia, disparità di vedute in ordine all’esatta individuagenus di danno risarcibile, il danno biologico, consistente nella menomazione dell’integrità psicofisica della persona, il cui ristoro viene riconosciuto in via autonoma anche se non vi siano ripercussioni sul patrimonio morale o materiale del soggetto: cfr. per tutti in dottrina ALPA, Il danno biologico - percorso di un’idea, Padova, 1987; Cass. 6 giugno 1981, n. 3676, in Foro it., 1981, I, c. 1884; Cass. 11 febbraio 1985, n. 1130, in Arch. giur. circ. 1985, p. 581; Cass. 5 settembre 1988, n. 5033, in Giur. it., 1989, I, 1, c. 1178; Cass. 10 marzo 1990, n. 1954, in Riv. giur. circ., 1991, p. 643; Cass. 13 gennaio 1993, n. 357, in Foro it., 1993, I, c. 1897; vedi anche Corte cost. 26 luglio 1979, n. 87 e n. 88, in Foro it., 1979, I, c. 2543; Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184 ivi, 1986, I, c. 2053; Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356, ivi, 1991, I, c. 329; Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, ivi, 1994, I, c. 3297. (33) PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Appunti di procedura penale, Bologna, 1994, p. 106. (34) AIMONETTO, Persona offesa, cit., p. 319; BELLAVISTA, Azione civile nel processo penale, in Noviss. dig. it., Vol. II, Torino, 1958, p. 56; CONSO, Istituzioni di diritto processuale penale, Milano, 1969, p. 162; CORDERO, Procedura penale, Milano, 1992, p. 256; DALIA-FERRAIOLI, op. cit., p. 151; DI LEGGE, Persona offesa dal reato e parte civile, in Il nuovo processo penale, a cura di CASTELLI-ICHINO, Milano, 1991, p. 115; DINACCI, Vecchi e nuovi orientamenti sul fondamento giustificativo dell’istituto della parte nel processo penale, in Foro it., 1970, V, c. 52 ss.; FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, Vol. I, Milano, 1965, p. 113; GIARDA, op. cit., p. 24; ICHINO, La parte civile nel processo penale, cit., p. 13; LOZZI, La costituzione di parte civile di un Consiglio dell’ordine in un procedimento per omicidio, in questa Rivista, 1985, p. 836 ss.; ID., Lezioni di procedura penale, cit., p. 69; MANTOVANI, op. cit., p. 249 e 896 ss.; ONDEI, Osservazioni sulla nozione di soggetto passivo del reato, in Riv. pen, 1948, p. 591; PIOLETTI, Parte offesa, in Nuovo dig. it., Vol. IX, Torino, 1939, p. 486; PISANI-MOLARI-PERCHINUNNO-CORSO, Appunti, cit., p. 106 ss.; TAORMINA, op. cit., p. 249 ss.; in giurisprudenza cfr. Cass. 7 marzo 1962, cit.; Cass. 8 ottobre 1965, Ferretti, in Cass. pen., 1966, p. 417; Corte Cost. 28 dicembre 1971, n. 206, in Giust. Cost., 1971, II, p. 2304; Cass. 1 luglio 1980, Fiori, in Cass. pen., 1981, III, c. 582; Cass. 28 gennaio 1983, Bortolotti, ivi, 1984, p. 1138; Cass. 12 gennaio 1984, Manuzzi, in Giust. pen., 1985, III, c. 225; Cass. 15 novembre 1986, Rosa, in Cass. pen., 1988, p. 1927; Cass. 20 febbraio 1987, Occhipinti, ivi, 1988, p. 852; Cass. 5 giugno 1989, Palerma, ivi, 1991, p. 592; Cass. 8 ottobre 1993, Fornasier, in Giust. pen., 1994, III, c. 496; in senso contrario, vedi però Cass. 3 novembre 1972, Marconi, in Cass. pen., 1974, p. 137. Sulle recenti proposte di ricondurre il danno, specie se non patrimoniale, nell’alveo delle sanzioni penali, cfr., da ultimo, in senso critico, ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in questa Rivista, 1993, p. 865 ss.


— 1083 — zione del sogetto legittimato ad esperire l’azione civile nel processo penale, attraverso la costituzione di parte civile, che l’art. 74 c.p.p. (con alcune estensioni rispetto all’art. 22 dell’abrogato codice del 1930) attribuisce alla persona alla quale il reato ha arrecato danno (35). Andando di contrario avviso rispetto alle prevalenti tendenze dottrinarie e giurisprudenziali, inclini a riconoscere tale diritto a chiunque abbia subito un pregiudizio risarcibile ai sensi dell’art. 185 c.p. (36), si è sostenuto che esso spetterebbe esclusivamente al danneggiato che sia al tempo stesso offeso dal reato (37). (35) Gli artt. 22 e 23 del codice di procedura penale del 1930 riconoscevano la legittimazione ad esercitare l’azione civile nel processo penale per la restituzione e il risarcimento del danno, attraverso la costituzione di parte civile, alla persona alla quale il reato ha arrecato danno o a chi la rappresenta per legge: gli artt. 74 e 75 del vigente codice consentono l’esercizio dell’azione civile nel processo penale per le restituzioni e il risarcimento del danno di cui all’art. 185 del codice penale, al soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero ai suoi successori universali. Da queste previsioni differenziate, si deduce che la legittimazione a costituirsi parte civile è stata ampliata dalle persone (fisiche e giuridiche) alle associazioni non riconosciute, e dagli eredi a chiunque subentri nella situazione giuridica del danneggiato. (36) AMODIO, La persona offesa dal reato nel nuovo processo penale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. III, Milano, 1991, p. 8 ss.; BELLAVISTA, op. cit., p. 56; CAPALOZZA, Parte civile, in Noviss. dig. it., Vol. XII, Torino, 1965, p. 468; CONSO-GALLO, Legittimazione attiva alla costituzione di parte civile per il risarcimento dei danni cagionati da autocalunnia, in Riv. pen., 1967, I, p. 5; G. CORDERO, La posizione dell’offeso dal reato nel processo penale: una recente riforma della Repubblica federale tedesca ed il nostro nuovo codice, in Cass. pen., 1989, p. 1130; DE MARSICO, Legittimazione attiva e passiva all’esercizio dell’azione civile, in Giust. pen., 1933, II, p. 1521; DINACCI, La parte civile nel processo penale, in Riv. pen., 1966, I, p. 415; FORTUNA, Azione penale e azione risarcitoria, Milano, 1980, p. 193 ss.; FROSALI, Sistema penale italiana, vol. IV, Torino, 1958, p. 239 ss.; GUARNERI, op. cit., p. 744 ss.; LOZZI, Lezioni, cit. p. 248 ss.; MALINVERNI, Principi del processo penale, Torino, 1972, p. 242; MANZINI, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. I, Torino, 1967, p. 371; PETROCELLI, L’appropriazione indebita, Napoli, 1933, note 156 e 228; Cominelli e altri, SAMMARCO, Considerazioni sulla persona offesa dal reato nel nuovo codice di procedura penale, in Giust. pen., 1989, III, c. 734; TRANCHINA, Persona offesa dal reato, in Enc. giur., Roma, vol. XXIII, 1990, p. 2. In giurisprudenza cfr. Cass. 5 ottobre 1964, Brandolini, in Cass. pen., 1965, p. 856; Cass. 2 marzo 1981, Nassisi, ivi, 1982, p. 1826; Cass. 12 gennaio 1984, Manuzzi, in Giust. pen., 1985, III, c. 225; Cass. 22 aprile 1985, Aslan, in Cass. pen., 1986, p. 829; Cass. 20 febbraio 1987, cit.; Cass. 25 giugno 1990, Nassisi, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 465. (37) GIARDA, op. cit., p. 28 ss.; LEVI, La parte civile nel processo penale italiano, Padova, 1936, p. 246 ss.; PIOLETTI, op. cit., p. 493. Su una posizione intermedia si sono attestati quanti sostengono che legittimata all’esercizio dell’azione civile è la persona che sia ad un tempo offesa e danneggiata dal reato, intendendo però per persona offesa non solo il soggetto passivo, titolare del bene tutelato dalla norma penale, ma anche i soggetti titolari di un bene secondario ovvero di un bene collegato alla tutela del bene primario: cfr. PENNISI, op. cit., p. 989; GRIMALDI, L’azione civile nel processo penale, Napoli, 1965, p. 152 ss.; quest’ultimo distingue tra il soggetto passivo, quale titolare dell’interesse essenziale alla sussistenza del reato, e parti lese intese invece come titolari d’interessi secondari tutelati dalla norma penale, e ritiene che il danneggiato non deve essere necessariamente soggetto passivo del reato, ma deve comunque essere parte lesa dal reato.


— 1084 — Partendo dal contenuto dell’art. 7 del codice di procedura del 1913, per cui l’azione civile esperibile in sede penale apparteneva al ‘‘danneggiato od offeso...’’, è stato rilevato che i due termini venivano usati per indicare il soggetto passivo e che l’innovazione terminologica del codice Rocco all’art. 22, dove si dichiarava che l’azione civile può essere esercitata dalla persona alla quale il reato ha recato danno, non comportava una diversa interpretazione del presupposto per l’esercizio dell’azione civile in sede penale, poiché la nuova dizione non veniva costantemente seguita dal codice. Le fattispecie nelle quali l’espressione ‘‘danneggiato’’ è usata in contrapposto ad ‘‘offeso’’ (art. 191, nn. 1 e 2 c.p.) (38), andrebbero interpretate nel senso che, oltre all’offesa, debba sussistere anche un danno; ci sarebbe, cioè, una progressione tra offeso e danneggiato come da pericolo a danno (art. 40 c.p.) e il danneggiato sarebbe un offeso che ha subito un danno. Nell’ambito della stessa prospettazione, si è avanzata anche l’ipotesi che l’espressione ‘‘danno’’ non verrebbe sempre usata per indicare il verificarsi di un pregiudizio civilistico, ma semplicemente per segnalare la direzione dell’attacco ad un bene, vale a dire come espressione corrispondente all’altra, ‘‘contro’’, di cui si serve talvolta il codice (es. art. 577 c.p.). Infatti, mentre in certi casi l’essere il reato commesso ‘‘ai danni’’ di qualcuno, contrappone il soggetto che ha risentito un danno a quello contro cui l’offesa era diretta, altre volte ‘‘offeso’’ è espressione equivalente a ‘‘persona in danno della quale fu tentato o consumato il reato’’ (art. 539 c.p.): tale corrispondenza viene rilevata anche nell’art. 649, ove nella rubrica si parla di persona offesa e nel testo di reato ‘‘commesso in danno’’; e così nell’art. 9, terzo comma (reato commesso a ‘‘danno di uno straniero’’), e nell’art. 380 (patrocinio o consulenza infedele). La tesi non ci sembra però condivisibile, perché quando il codice penale parla di ‘‘reato commesso a danno di’’ non fa riferimento al danno civile, ma al danno criminale: è lo stesso concetto che in altri casi è espresso con la locuzione ‘‘reato commesso contro’’ (art. 577, secondo comma, c.p.), ed entrambe si riferiscono esclusivamente al soggetto passivo e non al civilmente danneggiato (39). Le innovazioni normative introdotte dal nuovo codice di procedura penale hanno inoltre fatto cadere alcune disposizioni portate a sostegno della criticata tesi, abrogate (40) o riformulate in modo tale da portare ne(38) LEVI, op. cit., p. 246 ss. (39) BATTAGLINI, op. cit., p. 256 nota 36. (40) Ci si riferisce agli artt. 300 e 306 c.p.p. 1930, che attribuivano diritti o facoltà alla persona offesa anche in previsione dell’esercizio dell’azione civile in sede penale, i quali


— 1085 — cessariamente a conclusioni opposte (41): le condizioni di offeso e danneggiato sono ora formalmente indicate in via disgiuntiva fra le cause di astensione, con riferimento ai prossimi congiunti del giudice (art. 36, lett. e)) e ai fini della determinazione della competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati (art. 11, già art. 41-bis). Attualmente l’unico elemento ancora valido potrebbe essere l’art. 338 c.p.p., corrispondente all’abrogato art. 11 c.p.p. 1930, il quale, nel regolare l’istituto del curatore speciale, dispone che tale soggetto ha facoltà di costituirsi parte civile nell’interesse della persona offesa: ma in proposito è stato esattamente rilevato (42) che il legislatore, attribuendo tale facoltà al curatore, mirava a risolvere il problema della tutela processuale degli incapaci, e in questa prospettiva non poteva trascurare il fatto che, frequentemente, la posizione di offeso, quale titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, coincide con quella di danneggiato, inteso nel senso di titolare dell’interesse economico o morale pregiudicato dall’azione delittuosa o contravvenzionale. Considerando, inoltre, la peculiarità della posizione giuridica del minore o dell’infermo di mente privo di rappresentante legale, non è possibile trarre da tale situazione normativa deduzioni di carattere generale e sistematico. Le medesime considerazioni valgono anche per l’art. 174 della l. 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) e per l’art. 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), addotti a sostegno della tesi criticata, che riflettono casi peculiari, nei quali alla persona offesa vengono riconosciuti particolari diritti civilistici. La prima norma dispone, invero, che nei giudizi regolati dagli artt. 177 ss. della stessa legge ‘‘la persona offesa costituitasi parte civile’’ può chiedere al giudice penale l’applicazione dei provvedimenti e delle sanzioni previsti dagli artt. 159 e 160 (rimozione o distruzione dello stato di fatto da cui risulta la lesione di un diritto di utilizzazione economica delle opere): la seconda prescrive che ‘‘nel caso di diffamazione commessa col venivano addotti a sostegno della tesi poiché sarebbe stato disarmonico che il danneggiato non offeso ne fosse privo: GIARDA, op. cit., p. 30. (41) Art. 64, n. 4 c.p.p. 1930, il quale prevedeva come motivo di ricusazione del giudice il caso che alcuno dei prossimi congiunti di lui o della moglie fosse offeso dal reato, imputato, responsabile civile o civilmente obbligato per l’ammenda: la mancata citazione nella norma del danneggiato veniva giustificata considerando tale figura soggettivamente coincidente con quella dell’offeso (così GIARDA, op. cit., p. 30-31; contra FORTUNA, op. cit., p. 204 ss.). Nel nuovo codice, però, tra le cause di ricusazione e di astensione viene espressamente menzionata, relativamente ai prossimi congiunti del giudice o del coniuge, oltre alla condizione di offeso, quella di danneggiato (art. 36, lett. e)). Lo stesso si può dire a proposito della competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati (art. 11 c.p.p., già art. 41-bis c.p.p. 1930). (42) FORTUNA, op. cit., p. 197.


— 1086 — mezzo della stampa la persona offesa può chiedere, oltre al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 185 c.p., una somma a titolo di riparazione’’. Si tratta, dunque, di ipotesi particolari, non suscettibili di generalizzazioni. Del resto, se è vero che nell’art. 12 cit. i provvedimenti riparatori e restitutori sono previsti a favore del diffamato che, come tale, è necessariamente offeso e danneggiato, ciò non esclude, in via teorica, che altra persona danneggiata possa esercitare l’azione civile nel processo penale promosso su querela del diffamato ed in tale sede insistere per il risarcimento del danno (43) (non anche per l’attribuzione della somma a titolo di riparazione, provvedimento previsto solo in favore del danneggiato-offeso). Non vi è dubbio che l’orientamento in esame permetterebbe di conciliare due opposte esigenze; subordinando infatti la legittimazione a costituirsi parte civile alla coincidenza in un’unica persona delle qualifiche di offeso e danneggiato dal reato, si consentirebbe soltanto a colui che ha subito un pregiudizio economico di agire in sede penale e si impedirebbe uno sviamento del processo rispetto all’accertamento sull’imputazione (44). Tuttavia, l’assetto normativo introdotto dal nuovo codice di procedura penale porta ad escludere la necessaria coincidenza fra persona offesa e danneggiata dal reato. Già la diversa collocazione sistematica è indicativa (la persona offesa e il civilmente danneggiato sono disciplinati in due distinti titoli (il V e il VI), ma anche i poteri loro riconosciuti appaiono differenziati sia temporalmente che nei contenuti. La persona offesa è considerata uno dei soggetti del processo (45) ed assume un ruolo di cooperazione e di stimolo all’attività del pubblico ministero sin (e più che altro) dalla fase delle indagini preliminari; il danneggiato, definito dall’art. 74 c.p.p. come parte deve differire, in quanto tale, la propria partecipazione al processo attraverso la costituzione di parte civile, possibile solo dopo la chiusura della fase procedimentale, e nel momento in cui i poteri della persona offesa si attenuano sensibilmente. (43) FORTUNA, op. cit., p. 211 nota 14. (44) SAMMARCO, op. cit., c. 733; cfr. anche PENNISI, op. cit., p. 989. (45) Cfr. CONSO, La persona offesa dal reato tra interesse pubblico e interesse privato, in Giust. pen., 1979, I, c. 27, il quale ha sottolineato come la persona offesa, esclusa dal ruolo di parte, è impegnata in un’attività di collaborazione « indipendentemente dall’esistenza di un danno da risarcire o, comunque, dalla volontà di richiedere un possibile risarcimento, alla ricostruzione dei fatti e all’individuazione delle eventuali responsabilità penali, ai fini quindi di pubblico interesse »; cfr. anche AMODIO, Persona offesa, cit., p. 538 ss.; CONSO-GREVI, op. cit., p. 80; DALIA-FERRAIOLI, op. cit., p. 145; GHIARA, Persona offesa, cit., p. 406; si veda anche la Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, in Doc. giust., marzo 1988, p. 77, nonchè in Gazzetta Ufficiale 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. n. 2.


— 1087 — Questa regolamentazione attribuisce senza dubbio al danneggiato che sia anche offeso una situazione privilegiata rispetto al semplice danneggiato: la persona offesa può in effetti intervenire ed agire nel procedimento fin dall’inizio, influenzandone in qualche modo il successivo svolgimento, e preordinare una situazione processuale più favorevole all’accoglimento della pretesa risarcitoria, mentre il mero danneggiato, per far valere le proprie istanze, deve attendere la maturazione dei presupposti per la costituzione di parte civile (46). Ma sembra chiaro che dal combinato disposto degli artt. 398, 401 e 404 c.p.p. emerga la possibilità per il danneggiato, che non sia al tempo stesso persona offesa, di esercitare l’azione civile in sede penale. Gli artt. 398 e 401 c.p.p. prevedono, infatti, che la persona offesa sia avvisata dell’esperimento di un incidente probatorio e che il suo difensore possa assistervi, mentre l’art. 404, stesso codice, stabilisce l’inefficacia nel giudizio civile della sentenza penale di assoluzione basata su una prova assunta con incidente probatorio a cui il danneggiato non è stato in grado di partecipare: poiché l’offeso deve essere sempre posto in grado di intervenire all’incidente probatorio, l’ora ricordata previsione normativa significa che può esistere anche un danneggiato diverso dalla persona offesa. Ciò che rileva, dunque, è la sussistenza di un pregiudizio economicamente valutabile a carico di taluno, senza esigere che costui sia anche persona offesa (47). Poiché la responsabilità civile da reato deve essere considerata come una specie del più ampio genus degli illeciti extracontrattuali, un’eventuale limitazione dell’esperibilità dell’azione risarcitoria in sede penale al solo danno al solo danno sofferto da chi assume la veste di persona offesa (o di soggetto passivo), dovrebbe essere espressamente prevista, mentre, in realtà, l’art. 74 cit. estende anche ad altri soggetti l’esercizio di tale pretesa risarcitoria nell’ambito del processo penale. Va aggiunto che depone in favore della tesi esposta anche il già rammentato contenuto degli artt. 11 e 33, lett. e), c.p.p., ove i termini di persona offesa e danneggiato vengono utilizzati in alternativa, come distinte ipotesi di deroga alla competenza o di astensione. La necessità di escludere, al fine della costituzione di parte civile, la coincidenza delle qualità di offeso e danneggiato dal reato, trova infine conferma nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, ove è scritto (seppure con la criticata equivalenza fra i concetti di soggetto passivo e persona offesa) che ‘‘il nuovo progetto inserendo l’of(46) Cfr. AMODIO, Persona offesa dal reato, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. I, Milano, 1988, p. 537; DE ROBERTO, Le parti private diverse dall’imputato, in Doc. giust., 1988, vol. I, fasc. 6, c. 81; SAMMARCO, op. cit., c. 736. (47) Si vedano, in questo senso, pur con diverse sfumature, gli autori e la giurisprudenza citati alla nota 34.


— 1088 — feso dal reato in un titolo autonomo rispetto a quello dedicato alle parti private diverse dall’imputato, ha inteso appunto sottolineare il ruolo ad esso assegnato rispetto al danneggiato: mentre all’uno quale titolare dell’interesse leso dalla norma di diritto sostanziale violata sono riconosciuti facoltà e diritti sin dalla prima fase delle indagini preliminari, all’altro (nel caso in cui non sia anche persona offesa) è potenzialmente assegnato un ruolo processuale solo in quanto il procedimento sia pervenuto alla fase indicata all’art. 78 (nel testo definitivo art. 79) così da consentire la possibilità della costituzione di parte civile’’ (48). PIERO GUALTIERI Professore di Istituzioni di diritto e procedura penale nell’Università di Urbino

(48) Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit. p. 79: cfr. anche l’art. 101 c.p.p. La giurisprudenza prevalente segue il medesimo orientamento: cfr. Cass. 20 febbraio 1987, cit.; Cass. 15 novembre 1986, Rosa, in Cass. pen., 1988, p. 1927; Cass. 12 gennaio 1984, cit.; Cass. 1 luglio 1980, Fiori, ivi, 1981, III, c. 582; Corte cost. 28 dicembre 1971, n. 206, in Giur. cost., 1971, II, p. 2304; però, in senso contrario, vedi Cass. 3 novembre 1972, Marconi, in Cass. pen., 1974, p. 137.


IN TEMA DI CRIMINALITÀ INFORMATICA: L’ART. 4 DELLA LEGGE 23 DICEMBRE 1993, N. 547. ΠAPAΛEIΠOMENA

In alcune brevi note, redatte nell’immediatezza del primo contatto con il testo della legge 23 dicembre 1993, n. 547 (1), chi scrive ha già avuto modo di sottolineare tutto il disagio che può cogliere l’interprete allorché considera la posizione sistematica della nuova figura delittuosa dell’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico di cui all’art. 615 ter c.p. (2). (1) F. PAZIENZA, In tema di criminalità informatica: l’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547, in questa Rivista, 1995, 750 ss., scritto che, ahimè, rischia una precoce obsolescenza per imprevedibili disguidi che ne hanno oltremodo procrastinato la pubblicazione. Così vanificati tutti gli intenti di tempestività, riacquistano urgenza quelli di verifica, con l’approfondimento ulteriore di considerazioni già svolte, altresì saggiate alla stregua del confronto con la successiva letteratura sul tema. (2) Certo, v’è pure chi plaude alla sensibilità del legislatore, manifestatasi come non mai nella soluzione adottata con l’ulteriore ampliamento in discorso della sezione IV del capo III del titolo XII del libro II del codice penale. Si scrive, invece, proprio da chi a dette scelte ha contribuito, in quanto membro della commissione ministeriale nominata nel gennaio 1989 per l’elaborazione di uno schema di modifiche al codice penale allo scopo di reprimere la criminalità informatica: « Vi è chi si concentra letteralmente su qualcuno degli strumenti tecnologici, come il computer, e lo ‘‘antropomorfizza’’, per così dire, finendo per l’attribuirgli — in preda ad un interessante ‘‘raptus’’ di adorazione tecnologica — qualità e proprietà ‘‘quasi-umane’’ » (C. SARZANA di S. IPPOLITO, Informatica e diritto penale, Milano, 1994, 241). « ‘‘Ottimisti tecnologici’’ cioè [...] utopisti dotati di incrollabile fede e ‘‘rocciosamente’’ convinti che il progresso tecnologico è buono in sé » (ibid.), per i quali, dunque, ben può configurarsi l’idea di quel preteso ‘‘domicilio informatico’’, non deus ex machina della questione che ci occupa, bensì metafora improbabile (sulla quale già F. PAZIENZA, op. cit., nt. 12) e, comunque, destinata a restare spuria rispetto alla nozione che, postulata dall’art. 614 c.p., ha sin qui informato di sé tutti i delitti contro l’inviolabilità del domicilio. Sulla scorta del dettato normativo, infatti, — ne è prova esplicita e testuale la circostanza aggravante di cui al terzo comma dell’art. 615 ter, ma (aggiungiamo a quanto esattamente rileva M. MANTOVANI, Brevi note a proposito della nuova legge sulla criminalità informatica, in Crit. dir., 1994, n. 4, 18) già la formula del primo comma del medesimo articolo non dovrebbe permettere incertezze — il c.d. ‘‘domicilio informatico’’ non può non investire anche zone di rispetto, per interessi richiamati e luoghi coinvolti, dal ‘‘carattere inequivocamente pubblicistico e come tale irriducibile alla peculiare dimensione privata che si vorrebbe propria del domicilio penalmente protetto’’ (ibid.). Nondimeno, in quella Weltanschauung tecnologica, si afferma testualmente, ‘‘appare del tutto conseguenziale che il legislatore, con


— 1090 — Le medesime perplessità coinvolgono inevitabilmente non soltanto il successivo art. 615 quater, che dell’art. 615 ter arricchisce la disciplina (3), ma anche l’ulteriore art. 615 quinquies (4), che, rivolto ad arginare la piaga dei cosiddetti virus informatici, anticipa la punibilità e delinea alcune figure prodromiche rispetto al verificarsi del danneggiamento di sistemi informatici e telematici (5), che l’art. 635 bis c.p. (ricalcando la lettera dell’art. 635 (6)) pone, invece, tra i delitti contro il patrimonio. Deve dirsi, anzi, che per la ‘diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico’ (7) sono ben due le ragioni che l’art. 4 della l. n. 547, abbia voluto configurare l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico come una forma particolare di violazione del domicilio prevista nell’art. 615 [sic!] c.p. o, comunque, della riservatezza domestica (art. 615 bis) e abbia, quindi, inserito molto opportunamente la norma che punisce detto accesso abusivo nel c.p. come art. 615 ter. Raramente il legislatore ha saputo cogliere in maniera più penetrante il significato più vero degli aspetti della vita attuale come ha mostrato di saper fare mediante tale collocazione che forse, invece, sorprenderà il giurista che si è rifiutato di capire il valore acquisito dal computer (e in particolare dal personal computer) per l’uomo d’oggi: una sorta di propaggine della propria mente e di tutte le conoscenze, i ricordi, i segreti che essa custodisce’’ (v. R. BORRUSO, La tutela del documento e dei dati, in R. BORRUSO e altri, Profili penali dell’informatica, Milano, 1994, 28; per una più ampia documentazione sugli studi e sulle idee di detto A., v. ID., Civiltà del computer. La ricerca automatica delle informazioni e dei giudizi, Milano, 1978; v. anche il suo più recente e sintetico La legge, il giudice, il computer. Un tema fondamentale dell’informatica, in D.A. LIMONE (cur.), Dalla giuritecnica all’informatica giuridica, Milano, 1995, 1 ss.). (3) Così ALESSANDRA ROSSI VANNINI, La criminalità informatica: le tipologie di computer crimes di cui alla l. 547/93 dirette alla tutela della riservatezza e del segreto, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 450, che prudenzialmente attenua le asserzioni di completezza che, al riguardo, si leggono nella relazione al disegno di legge Conso (già presentato al Senato della Repubblica il 26 marzo 1993 e successivamente trasferito alla Camera dei Deputati l’11 giugno 1993) da cui discende pressoché integralmente il testo della legge sopra richiamata. (4) Così F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale I, Milano, 199411, 192: « L’inserimento nell’ambito della sezione [dei delitti contro l’inviolabilità del domicilio] [...] dei nuovi reati diretti a tutelare l’integrità, la detenzione e l’uso dei sistemi informatici e telematici sembra inopportuno perché non si tratta di modalità di violazione dei luoghi di privata dimora ». (5) GIOVANNA CORRIAS LUCENTE, Il nuovo fenomeno dei reati informatici contemplato nelle modifiche al sistema penale, in Il diritto delle tecnologie dell’informazione, in Guida al diritto de Il sole 24 ore, dossier mensile, 4 (aprile 1995), 13. (6) ALESSANDRA ROSSI VANNINI, op. e loc. cit. (7) L’evidente dissonanza tra rubrica e testo dell’art. 615 quinquies in ordine all’aggettivo « telematico » — assente nella prima e presente nel secondo —, è lapsus che non meriterebbe di essere sottolineato, se non si trattasse — stante, appunto, il contesto in cui la disposizione è calata — di ricondurre, ancora una volta, imprecisioni quasi irrilevanti, come quella appena segnalata, al farraginoso e convulso pressappochismo con cui vengono confezionati i testi legislativi e da cui discendono anche situazioni nelle quali organicità e funzionalità dell’ordinamento entrano seriamente in crisi ad onta delle ineludibili esigenze e dei caratteri e requisiti tipici di un sistema di norme giuridiche allo stesso tempo efficace ed evoluto.


— 1091 — non ne rendono plausibile la classificazione. Per un verso, è dato meramente occasionale e del tutto irrilevante per la configurazione strutturale del reato che i fatti previsti dall’art. 615 quinquies — così come quelli descritti dagli artt. 615 ter e 615 quater — si realizzino nei luoghi paradigmaticamente individuati dall’art. 614 c.p., entro i quali si estende la difesa di quel particolare aspetto della libertà individuale che si configura nell’inviolabilità del domicilio (8). Per altro verso non sfugge a censura neppure l’accostamento del nuovo delitto in discorso alle altre due forme criminose introdotte dal medesimo art. 4 della cit. legge n. 547/93 (9), dovendosi riconoscere che offendono il patrimonio i fatti di danneggiamento di sistemi informatici o telematici ma non quelli di diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico, che a tale offesa preludono o, comunque, ne determinano il pericolo. Come è ovvio — e come mutatis mutandis subito si dirà anche a proposito dell’art. 615 quater — norme delle quali l’una arricchisce e amplifica la disciplina dettata dall’altra, e viceversa, non devono necessariamente vedersi attribuire dal legislatore la medesima classificazione; le diverse collocazioni — pur sempre possibili per le ragioni più disparate — non possono, tuttavia, sottrarsi a quelle esigenze di congruenza, coerenza e plausibilità, delle quali non sembra si sia dato adeguatamente atto nella sistemazione degli artt. 615 ter, 615 quater e 615 quinquies (10), derivandone inevitabile sofferenza per il « ragionamento giuridico » (11) che su di essa si incentrasse. In mancanza di argomenti ulteriori e più stringenti, dunque, non è detto che la detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici debba seguire pedissequamente la collocazione dell’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, sol perché si ritiene che integri la tutela da quest’ultimo predisposta. Per così dire, la considerazione proverebbe troppo, potendosi agevolmente rilevare che, in (8) Più ampiamente sul punto lo scritto citato nella precedente nt. 1. (9) Sintomatica la cit. relazione al disegno di legge Conso, che, nell’illustrazione analitica del provvedimento, recita: « L’articolo 4 prevede l’aggiunta al codice penale degli articoli 615 ter e 615 quater »; solo ben oltre e senza alcun riferimento alle altre due disposizioni — com’è, invece, per l’art. 615 quater, di cui si ha cura di precisare « che completa la tutela prevista dalla norma precedente » —, si dà atto che « l’art. 4 introduce infine l’articolo 615 quinquies ». (10) V. la chiave di lettura proposta dal legislatore per la collocazione della nuova normativa in discorso tra i reati contro l’inviolabilità del domicilio. Il relativo brano della relazione al disegno di legge Conso viene costantemente ripreso in letteratura; qui, tuttavia, al fine di evitare superflue iterazioni, si rinvia a F. PAZIENZA, op. cit., nt. 4. (11) Nella filosofia del diritto stanno acquistando peso sempre maggiore gli studi sul « ragionamento giuridico »; per una prima griglia di lettura di tali studi, ai quali hanno fornito contributi decisivi anche studiosi del diritto positivo, v. P. COMANDUCCI, L’analisi del ragionamento giuridico, in Dir. pen. e processo, 1995, 495 ss.


— 1092 — un gran numero di casi, la medesima relazione intercorre fra disposizioni situate in ambiti diversi del codice o anche in altri e del tutto distinti contesti normativi. Nota lo stesso legislatore che « la previsione [dell’art. 615 quater c.p.] è, per un certo verso, analoga a quella di cui al terzo comma dell’articolo 9 della legge 8 aprile 1974, n. 98 » (12), ove, come è noto, si sottopone a sanzione penale chiunque, senza licenza del Ministro per le poste e le telecomunicazioni, fabbrica, importa, acquista, vende, trasporta, noleggia od in qualsiasi altro modo mette in circolazione gli apparecchi o strumenti, o parti degli apparecchi o strumenti, inequivocamente idonei ad operare le riprese di immagini o le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni di cui agli artt. 615 bis e 617 c.p. (13). In altri termini, così come il citato art. 93 della legge n. 98/1974 costituisce un « primo fronte [di difesa], quello preventivo » (14) rispetto ai reati di interferenze illecite nella vita privata e di cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche, l’art. 615 quater disciplina situazioni per così dire prodromiche rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 615 ter (15). Nondimeno, la legge sulla tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni non ha ricondotto la nuova norma nell’ambito del codice penale, né fra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio (al seguito dell’art. 615 bis, contestualmente creato dall’art. 1 della medesima legge), né fra quelli contro l’inviolabilità dei segreti (dopo l’art. 617, nel testo riformulato dall’art. 2 del provvedimento in discorso): non è stato dato, cioè, alcun risalto di ordine sistematico all’aspetto di previsione integratrice della tutela penale di beni e interessi, nei quali pur si individuano i profili fondanti, se non proprio la ragion d’essere, di quell’intervento del legislatore. A distanza di più lustri, analogo l’atteggiamento dei compilatori del recente schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale (16): essi alla materia, dal codice vigente disciplinata al titolo XII del libro secondo, nella quarta e nella quinta sezione del capo III, hanno dedicato sicura attenzione, individuandovi beni significativi della personalità umana, « oggetto di cre(12) Relazione al disegno di legge Conso, cit. (13) Per comodità di esposizione, il corsivo riporta in sintesi il testo del terzo comma coordinato con i richiami al primo comma del medesimo art. 9. (14) F.C. PALAZZO, Considerazioni in tema di tutela della riservatezza (a proposito del « nuovo » art. 615 bis c.p.), in questa Rivista, 1975, 129. (15) V. ALESSANDRA ROSSI VANNINI, op. e loc. cit.. (16) Articolato e relazione in Documenti Giustizia, 1992, n. 3. Nessun raffronto è, invece, possibile con il disegno di legge n. 2038, d’iniziativa dei senatori Riz e altri, comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 2 agosto 1995, che, pur costituendo un’ulteriore e a tutt’oggi ultima tappa della lunga e travagliata storia della riforma del codice penale Rocco, ne affronta solo, come è noto, il libro primo dedicato alla parte generale.


— 1093 — scenti forme di aggressione » (17), e, tuttavia, non riconducendovi (con gli artt. 75 e 76 dello schema) né la previsione di cui al terzo comma dell’art. 9 della legge n. 28/1974, né l’ipotesi delittuosa poi disciplinata dall’art. 615 quater c.p. Invero, l’ordito del codice vigente racchiude da sempre una disposizione nella quale si descrivono comportamenti intuitivamente assimilabili a quelli della detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici, ancorché nell’un caso ci si debba riferire a luoghi materialmente individuabili, laddove nell’altro risulterebbe protetta l’espansione di uno spazio ideale pertinente al soggetto interessato (18). Si tratta dell’art. 707 sul possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, che, collocato nell’ambito delle contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio e pur non escludendo — com’è, d’altro canto, per l’art. 615 quater (19) — anche la protezione di zone di rispetto manifestamente irriducibili alle peculiarità e alle strette dimensioni di privatezza dei luoghi paradigmaticamente indicati dall’art. 614 c.p. (20), tuttavia ben può dirsi arricchisca la tutela predisposta dalle norme incriminatrici dei tradizionali reati di violazione di domicilio, per essi costituendo innegabilmente, in via preventiva, un baluardo ulteriore di difesa. Nel nostro ordinamento, comunque, se taluno, stante uno dei presupposti del reato di cui all’art. 707 c.p., al fine di procurare a sé o ad altri un profitto (21), abbia l’ingiustificata disponibilità di chiavi o strumenti atti a consentire l’accesso a luoghi che potrebbero anche risultare adibiti ad abitazione, privata dimora, o appartenenze di esse, realizza senz’altro una tipica forma di reato di pericolo espressamente ritenuta pro(17) Così la relazione alla parte speciale del progetto di nuovo codice innanzi richiamato, in Documenti Giustizia, 1992, n. 3, 372. (18) V. supra, nt. 10. (19) V. infra, nt. 20. (20) Ed, infatti, come già osservato nella precedente nt. 2, in ordine all’art. 615 ter, senza alcun dubbio anche le violazioni degli artt. 615 quater e 707 c.p. ben possono riguardare rispettivamente sistemi informatici o telematici ovvero luoghi che, per destinazione e interessi coinvolti, rivestono carattere chiaramente pubblicistico. Lettera, logica e sistematica convergenti, i sistemi informatici o telematici, ai quali si dirige la detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso di cui all’art. 615 quater non possono essere altro se non tutti quelli e solo quelli, cioè gli stessi che l’art. 615 ter tutela da accessi abusivi, ivi compresi quei sistemi in ragione dei quali risulta applicabile la circostanza aggravante prevista dal terzo comma del medesimo articolo; analogamente, alla nozione di patrimonio a cui si riporta l’art. 707 c.p. non sono affatto estranee ipotesi dalle precipue connotazioni pubblicistiche, come notoriamente mostra, ad es., l’art. 625, n. 7 c.p. (21) Finalità ovviamente non richiesta dall’art. 707, ma che ben può configurarsi in un’ipotesi concreta di realizzazione di quella contravvenzione. Analogamente dicasi — appena oltre nel testo — per il parallelo richiamo all’art. 615 quater in ordine al quale si ipotizza una fattispecie concreta in cui si configura anche uno dei presupposti richiesti dall’art. 707.


— 1094 — dromica di delitti contro il patrimonio. Se, invece, con i medesimi precedenti penali e con la medesima finalità della fattispecie appena ipotizzata (22), il soggetto abusivamente si procura chiavi o altri mezzi idonei all’accesso ad un sistema informatico o telematico protetto, pone in essere, per definizione del legislatore, uno dei delitti contro l’inviolabilità del domicilio, appositamente creato per integrare la disciplina dettata nell’art. 615 ter (23). Ed ancora: il possesso ingiustificato di una chiave d’accesso ad un luogo concreto e ben individuato, qual è un’abitazione, è comportamento che pone in pericolo interessi patrimoniali, se, in precedenza, vi è stata condanna per delitti determinati da motivi di lucro che ben possono non più connotare il comportamento del soggetto, laddove i medesimi motivi attualmente individuati nella finalità di profitto di una detenzione abusiva di chiavi d’accesso a un sistema informatico o telematico — luogo solo per una non agevole metafora (24), ma potenziale fonte di lucro anche considerevole — offendono l’inviolabilità del domicilio, tipica relazione di luogo e, pertanto, inscindibile da un riferimento concretamente spaziale (25). È ben vero, dunque, che nella scelta della configurazione delle nuove forme criminose previste dalla legge n. 547/93 si sono seguiti i criteri orientativi enunciati nella circolare del Presidente del Consiglio del 5 febbraio 1986, così derivandone l’esclusione di fattispecie contravvenzionali (26); ed è anche vero che la previsione di un illecito penale trova nel codice la sua sede di elezione ad onta di quell’inveterato e imponente fenomeno di decodificazione (27), per il quale ormai si auspica, de iure condendo, una significativa inversione di tendenza (28). Tutto ciò spiega perché, fra le diverse soluzioni possibili, la sistemazione delle nuove fattispecie di criminalità informatica sia avvenuta nell’ambito del secondo libro del codice penale; ma nulla toglie che — come già per la diffusione di pro(22) V. quanto già precisato nella seconda parte della precedente nt. 21. (23) V. supra, nt. 3. (24) Cfr. supra, nt. 2. (25) Sul punto v., per tutti, F. PAZIENZA, Domicilio, IV) Delitti contro la inviolabilità del domicilio, in Enc. giuridica Treccani, vol. XII, a cui si rinvia anche per la migliore comprensione dell’intero contesto. (26) C. SARZANA di S. IPPOLITO, op. cit., 203. (27) Il primo problema metodologico, affrontato dalla commissione ministeriale incaricata di elaborare norme per la repressione della criminalità informatica, è stato appunto quello relativo alla scelta di modificare il codice penale o di promuovere una legge penale speciale. Cfr. C. SARZANA di S. IPPOLITO, op. cit., 201. (28) « Sia perché — come è stato giustamente rilevato — ‘‘con l’inserimento nel codice la norma penale guadagna in prestigio e in efficacia pedagogica’’, sia perché in atto il disordine è totale, con pene che non sono affatto proporzionate alla gravità del reato, anzi appaiono totalmente sproporzionate a confronto con l’impianto del codice che su questo punto era lungamente meditato ». Così, efficacemente, R. RIZ, Per un nuovo codice penale: problemi e itinerari, in Indice pen., 1995, 10.


— 1095 — grammi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico, così pure per la detenzione e diffusione di codici di accesso a sistemi informatici o telematici — nell’esegesi di dette figure delittuose emerga ineludibile il richiamo alla tutela di interessi patrimoniali. Conseguentemente la classificazione dei delitti descritti agli artt. 615 quater e 615 quinquies non trova altra plausibile ragione se non nell’accentuata vis attractiva esercitata dalla collocazione prescelta per l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico di cui all’art. 615 ter, il quale rivestirebbe il ruolo di « norma centrale del sistema » (29) tracciato con le nuove incriminazioni introdotte nel codice penale dall’art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 547. In tal modo costruita per legge una stretta correlazione sistematica intercorrente fra tutte le nuove figure di criminalità informatica, che hanno di fatto raddoppiato il novero dei delitti contro l’inviolabilità del domicilio, deve, in definitiva, concludersi che ogni perplessità relativa alla posizione nel codice penale del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico non può non coinvolgere necessariamente anche i reati previsti dai due articoli immediatamente successivi, come appunto si è sottolineato all’inizio. FRANCESCO PAZIENZA Associato di Diritto penale nell’Università di Bari

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ALESSANDRA ROSSI VANNINI, op. e loc. cit..


LA CONCRETIZZAZIONE DEL « RISCHIO GIURIDICAMENTE RILEVANTE » (*)

SOMMARIO: I. Il « rischio giuridicamente rilevante ». — II. Parametri di concretizzazione. - 1. La frequenza. - 2. L’utilità sociale. - a) La relatività. - b) La legge del minimo mezzo. c) L’opportunità condizionata. - d) La legge di reciprocità. - 3. Species di pericoli. — III. Il bilanciamento dei fattori. — IV. Significatività del rischio e formazione di regole cautelari. — V. « Rischio giuridicamente rilevante » e dolo. — VI. Conclusioni.

I. Il « rischio giuridicamente rilevante ». — « Un evento causato dall’autore è imputabile al Tatbestand oggettivo solo nei casi in cui il comportamento del soggetto agente abbia creato un pericolo per l’oggetto dell’azione non coperto dal rischio consentito e questo pericolo si sia anche realizzato nell’evento concreto » (1). Con la consueta precisione e sintesi di pensiero CLAUS ROXIN esprime un concetto ormai pressoché unanimemente condiviso dalla dottrina contemporanea, non solo di area tedesca. In buona sostanza, l’imputazione (oggettiva) dell’evento è ostacolata da un’area al cui interno si collocano azioni pericolose tollerate dall’ordinamento giuridico. Cosicché, non è tanto il pericolo insito nell’azione a determinarne la rilevanza penale, quanto l’estensione della zona grigia di consenso al rischio. Peraltro, una ricerca mirata evidenzierebbe senza grosse difficoltà (e si tratta forse della caratteristica più sorprendente) come — tranne lodevoli eccezioni (2) — la concretizzazione dell’area in questione sia rimasta sfumata ed incerta. Il riconoscimento e l’illustrazione dell’importanza sul piano politicocriminale del rischio rilevante non si accompagnano infatti nella letteratura in argomento ad un’analisi del fenomeno, i cui confini anzi vengono dati per scontati. (*) Il testo riprende la relazione svolta nel giugno 1994 in occasione della laurea honoris causa conferita al prof. CLAUS ROXIN dall’Università centrale di Barcellona. (1) ROXIN, Strafrecht AT, I, 2a ed., 1994, § 11, Rdn. 39. (2) Si pensi all’indagine di JAKOBS, Studien zum fahrlässigen Erfolgsdelikt, 1972, ed alla teorizzazione del Modellgefahr, e di SCHÜNEMANN, Moderne Tendenzen in der Dogmatik der Fahrlässigkeits-und Gefährdungsdelikte, JA, 1975, 435 ss., con la distinzione delle azioni secondo la loro utilità sociale.


— 1097 — Una simile, scarsa attenzione ha probabilmente radici storiche. Il parametro dell’erlaubtes Risiko ha conosciuto una grande fortuna nell’ambito dell’adeguatezza sociale e successivamente è tornato alla ribalta con la teoria dell’imputazione oggettiva. Il denominatore comune è rimasto però invariato nel tempo: a prescindere dalle diverse sistemazioni concettuali, l’idea base della necessaria accettazione di azioni pericolose ha sempre avuto il sopravvento. Da un lato, la concentrazione speculativa sulla giustificazione del topos e, dall’altro, l’individuazione per esclusione del rischio non più tollerato, hanno comportato così l’assuefazione ad un concetto definito in maniera assiomatica e ritenuto tutto sommato poco interessante perché penalmente irrilevante. Il tentativo di delineare in concreto l’area del « rischio giuridicamente rilevante », e la possibilità di esportarne la costruzione anche all’interno del fatto doloso, in vista di una raffigurazione unitaria della teoria dell’ imputazione oggettiva, costituiscono l’oggetto di queste brevi riflessioni. II. Parametri di concretizzazione. — Per « rischio giuridicamente rilevante » o « significativo » deve intendersi la creazione di uno stato di pericolo, tale da attivare la reazione dell’ordinamento giuridico, il quale, con il ricorso di ulteriori condizioni, potrà imputare l’evento prodottosi come conseguenza al suo autore. Per converso, il mancato superamento della soglia di rilevanza esclude in partenza, pur in presenza di azioni pericolose, la sussistenza del fatto tipico. L’evoluzione tecnologica degli ultimi anni ha determinato un sensibile mutamento nell’approccio alla tematica del pericolo. La fisionomia della società come « organizzazione a rischio », causa il moltiplicarsi delle situazioni di pericolo e la loro massificazione in risposta al progresso scientifico (ambiente, chimica, genetica), ha comportato una crisi profonda — e forse irreversibile — del modello classico dell’intervento penale. Al di là di prese di posizioni radicali di orientamento sociologico (3), la sensazione, se non del fallimento, quanto meno dell’inidoneità della costruzione del sistema penale sotto forma di protezione dei beni giuridici codificati ha trovato numerosi sostenitori (4). Di conseguenza, la consapevolezza dell’esistenza di pericoli diffusi — ed ineliminabili — produce l’assuefazione implicita all’idea di un’area di rischio fisiologicamente integrata nel comportamento umano. (3) BECK, Risikogesellschaft, 1986. (4) Cfr. l’analisi dettagliata di PRITTWITZ, Strafrecht und Risiko. Untersuchungen zur Krise von Strafrecht und Kriminalpolitik, 1993. In Italia si veda PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, 1228 ss.


— 1098 — L’accettazione della forzata convivenza tra azione e pericolo sposta quindi inevitabilmente l’attenzione, come ultimo anello del percorso logico intrapreso, sugli strumenti di misurazione delle quote di rischio che l’ordinamento giuridico è disposto a tollerare rinunciando alla tipicità del fatto commesso. 1. La frequenza. — La mera interdipendenza tra effetti dannosi e fattori causali che li determinano assume una valenza ridotta ai fini della concretizzazione del « rischio giuridicamente rilevante ». È infatti evidente che il dato preoccupante consiste non nel rapporto causale tout court, ma piuttosto nell’incidenza ripetitiva dello stesso. In altre parole, è l’indice della frequenza a consentire una reale misurazione del rischio, anziché il referente — in sé neutrale — del potenziale collegamento tra comportamento umano e danno. L’indice di probabilità (misurato attraverso regole scientifiche o massime d’esperienza) del verificarsi di risultati lesivi per l’ordinamento giuridico in base a comportamenti umani si rivela così decisivo: una statistica sfavorevole comporterà quindi l’assorbimento dell’azione « sospetta » nell’ambito del rischio rilevante. 2. L’utilità sociale. — Naturalmente, un fattore rilevante — ed in funzione bilanciante — è assunto dall’utilità sociale dell’azione fonte di pericolo. La maggiore tollerabilità è una diretta e logica conseguenza del vantaggio sociale insito nell’espletamento dell’attività. La condotta rischiosa ma utile è infatti vista con maggior favore della condotta priva di benefici per la collettività. Si rende peraltro necessaria una precisazione. In sé considerata, la condotta è neutra; la sua pericolosità si determina in funzione dell’evento (negativo) che ne scaturisce. Di qui la difficoltà della manovra di contenimento che si deve impostare: non potendo intervenire sul risultato, il legislatore provvede ad imbrigliare la causa, alla quale non può rinunciare, per la connotazione positiva della sua funzionalità sociale. Il concetto di utilità sociale è però una formula vuota se non si delineano i contorni ed i parametri valutativi di raffronto. a) La relatività. — In una prospettiva economica, l’utilità è l’idoneità, oggettivamente o soggettivamente testata, ossia reale o ritenuta dall’autore, di una cosa a soddisfare un bisogno; ed il bisogno è lo stato di disagio che spinge l’individuo a procacciarsi il mezzo per far cessare o prevenire la sensazione dolorosa unita alla sensazione di scontento. L’estrema variabilità dei bisogni, e d’altra parte i continui mutamenti dei mezzi per soddisfarli, indicano come l’utilità rappresenti un dato fluttuante, svincolato da costanti storiche assolute. La prima conseguenza è dunque sintetizzabile nella seguente legge: l’utilità sociale è temporalmente e personalmente relativa.


— 1099 — b) La legge del minimo mezzo. — Seconda conseguenza: l’utilità segue la legge del minimo mezzo. L’intensità del bisogno è direttamente proporzionale alla facilità nel raggiungerlo. Poichè il desiderio (del singolo o della collettività) è improntato a motivazioni di tornaconto, il pericolo collegato all’attività strumentale al suo conseguimento ne diminuisce l’appetibilità. Quindi, la spinta alla realizzazione di un fine cresce con il diminuire dei sacrifici indispensabili per ottenerlo: e contrario, l’utilità sociale scema con l’avanzare dei pericoli connessi all’attività-base. c) L’opportunità condizionata. — Terza conseguenza: l’utilità è opportunità condizionata. La formula vuole descrivere i coefficienti della surrogabilità, della economicità e della differibilità dell’attività. Rispettivamente, l’attività in sé idonea a soddisfare il bisogno diventa meno utile laddove sia sostituibile con altri comportamenti, eventualmente meno rischiosi, in grado egualmente di garantire il risultato, e dunque non si prospetti come unica alternativa; a parità di condizioni, ancora, l’incidenza di costi elevati nell’espletamento della condotta gioca un ruolo evidente, così come del resto la sua non indispensabilità immediata, ossia la possibilità dello slittamento temporale. d) La legge di reciprocità. — Le considerazioni svolte consentono un’ulteriore, intuitiva evidenza: l’esistenza di una legge di reciprocità tra utilità e pericolosità. Anche in questo caso il punto merita un breve chiarimento. La metodologia tradizionale si incarica di spiegare il delicato rapporto tra utilità sociale e pericolosità del comportamento in senso monodirezionale: ossia, l’utilità influenza la pericolosità, in quanto la rilevanza positiva della prima permette di tollerare i pericoli associati alla condotta. Senonché, dovrebbe risultare abbastanza chiara la reciprocità del condizionamento: l’utilità elevata agisce in termini di giustificazione della quota tollerabile di rischi, ma a sua volta il rischio elevato incide negativamente sull’utilità, diminuendo la spinta al soddisfacimento del bisogno. 3. Species di pericoli. — Un terzo fattore di concretizzazione del « rischio giuridicamente rilevante » riguarda infine la specie dei possibili rischi. Si tratta di un elemento che influenza fortemente la risposta ordinamentale. L’incidenza statistica potrebbe infatti rivelarsi un dato fuorviante qualora non venisse abbinata alla tipologia degli eventi producibili. Il settore dell’energia atomica rappresenta un caso emblematico di applicazione pratica: la pericolosità ridotta (sotto il profilo della pura verificabilità) di incidenti nucleari è controbilanciata dalla gravità degli stessi, sicchè l’area di rischio non più tollerato aumenta in virtù del tipo particolare di pericolo.


— 1100 — III. Il bilanciamento dei fattori. — La simultanea rilevazione del « rischio giuridicamente rilevante » mediante gli strumenti della quantità, utilità, qualità (in termini di gravità) fornisce da angolazioni diverse un primo prospetto della concretizzazione del rischio. E se il primo ed il terzo fattore, nel radiografare il pericolo in chiave dinamica (numero dei possibili effetti dannosi) e nel suo specificum (tipo di pericolo), si affidano a ricostruzioni empiriche, basandosi su dati naturalistici colti dall’esperienza acquisita, il secondo, quale elemento immateriale, riflette in una prospettiva funzionalistica valutazioni sociali. Già le divergenti linee di indagine rendono evidenti le difficoltà di una ricostruzione complessiva del « rischio giuridicamente rilevante ». Di certo non è possibile l’impiego di formule matematiche in grado di indicare con precisione i limiti dei rischi accettabili, o la prevalenza di un fattore sull’altro. Un metodo, il quale pretendesse di razionalizzare una materia soggetta a giudizi di merito, e quindi all’inevitabile elasticità degli stessi, prim’ancora che irrealizzabile sarebbe del resto giuridicamente scorretto. Ciò non significa però rinunciare all’idea di una disciplina nell’indagine concernente il rischio significativo. Almeno sotto due distinti profili. Il primo, di carattere procedimentale, relativo al controllo sul corretto utilizzo dei parametri indicati. Se libero è, in un certo senso, il giudizio finale che l’ordinamento si riserva in merito alla definizione dei confini del rischio rilevante e quindi — per converso — dell’area di irrilevanza penale, non lo è altrettanto il metodo da impiegare. Ed in definitiva la supervisione (che spetta alla scienza penalistica) sulla regolare applicazione dei fattori in gioco si risolve in una garanzia sostanziale atta ad impedire scelte arbitrarie. Quanto al secondo aspetto, è fuor di dubbio che la combinazione dei fattori elencati permette di disegnare una scala di valori, alla quale corrispondono strategie sociali differenziate. Simulando figurativamente questo percorso, è facile notare come l’area di irrilevanza giuridica sia innanzi tutto occupata dalle attività utili a rischio zero. Un gradino oltre sono le attività sempre non pericolose, ma prive di riflessi di utilità. Di fronte ai due tipi descritti la risposta « sociale » e la strategia normativa adottata è ovviamente differenziata: nel primo caso si registra una politica di implementazione, di favore, nel secondo un indirizzo astensionistico, di non intervento. Sul versante opposto, e quindi nell’area del « rischio giuridicamente rilevante », si incontrano le attività pericolose, contemporaneamente inutili o neutre. L’assenza di effetti positivi, unita alla creazione di rischi, comporta una strategia orientata in via preventiva alla loro proibizione, o comunque ad una regolamentazione restrittiva.


— 1101 — L’area di centro è occupata invece dalla coppia non pericolosità-inutilità (la connotazione negativa della disutilità provoca lo spostamento verso una politica di freno dell’attività man mano che cresce il suo carattere controproducente, nonostante l’inesistenza di rischi), e da quella più duttile pericolosità-utilità. La variante dell’utilità impedisce la soluzione drastica della proibizione del comportamento; la prevalenza dell’uno o dell’altro aspetto — e dunque la rilevanza giuridica del rischio prodotto — dipende da valutazioni orientate secondo la formula cost-benefits, alla luce delle precisazioni indicate. Con l’avvertenza che mentre la pericolosità conosce solo il suo contrario (un fenomeno — naturalisticamente osservato — è pericoloso o no), l’utilità presenta una connotazione ulteriore (l’attività X può risultare utile, inutile, ma anche socialmente indifferente per la sua neutralità). IV. Significatività del rischio e formazione di regole cautelari. — L’indagine sulla sussistenza del « rischio giuridicamente rilevante » non comporta ovviamente l’automatica insorgenza dell’illiceità penale della condotta; il traguardo (più modesto) che si prefigge di raggiungere è la possibile imputazione dell’evento (scaturito dal comportamento preso in esame), ossia la riconosciuta sussumibilità dell’azione nel fatto tipico. L’esistenza del rischio significativo prova così semplicemente che il comportamento è idoneo ad essere assorbito nel Tatbestand, che le preoccupazioni in termini di sicurezza sociale da esso sollevate sono tali da rimuovere il filtro costituito dall’irrilevanza penale del rischio. L’azione (od omissione) penale, proprio perché concetto giuridico e quindi soggetto ad implicazioni teleologiche, ha un margine di operatività ridotto rispetto all’azione naturalistica. Cosicché, se l’imputazione oggettiva si fonda sul presupposto della creazione di un rischio rilevante — che costituisce peraltro elemento necessario ma non sufficiente — la penalizzazione del comportamento rischioso è frutto invece di una verifica successiva, imperniata sul duplice profilo 1) della dimensione soggettiva dell’illecito e 2) dell’opportunità politico-criminale dell’individuazione della fattispecie, alla luce delle garanzie della sussidiarietà e frammentarietà. L’operazione di potatura iniziale dal campo del diritto penale delle azioni giuridicamente non significative non equivale tuttavia nemmeno ad un immobilismo normativo. A ben vedere, infatti, l’osservazione di fenomeni caratterizzati dall’ambivalenza utilità-pericolosità nelle poliedriche sfaccettature ipotizzabili (e dunque il monitoraggio dei rischi potenziali) serve da base per la creazione di regole preventive cautelari, che da sempre hanno costituito il substrato del fatto colposo. La fissazione di norme prescrittive, volte ad imbrigliare i comporta-


— 1102 — menti umani entro ambiti di sostanziale inoffensività, finisce così per disciplinare quei settori nei quali l’osservazione privilegiata dei rischi endostrutturali costituisce l’approccio metodologico di riferimento. V. « Rischio giuridicamente rilevante » e dolo. — Resta da vedere se la faticosa enucleazione del « rischio giuridicamente rilevante » subisca modifiche nel caso di fatti dolosi o se invece tale concretizzazione possa aspirare ad un ruolo unitario. La conclusione nel primo senso si basa sulla circostanza che l’intenzionalità dell’offesa, tipica dell’illecito doloso, abbassa il quorum di rischi che l’ordinamento è disposto a tollerare, ampliando così l’area del rischio significativo, imputabile all’autore. In altri termini, l’irrilevanza di azioni pericolose si riduce nei suoi confini come effetto della volontà negativa dispiegata dall’autore. Un breve approfondimento consente di chiarire soluzioni altrimenti arbitrarie. In primo luogo, l’accertamento del rischio viene condotto grazie a parametri oggettivi, ma ciò non impedisce l’influenza di valutazioni riferite a fattori soggettivi. L’indissolubilità del binomio oggettivo-soggettivo non è del resto una novità. Almeno dai tempi di WELZEL, la classica ripartizione Tatbestandcolpevolezza condotta sui rispettivi binari dell’oggettivo e del soggettivo è entrata in crisi, stante il definitivo riconoscimento dell’ingresso nel fatto tipico di elementi personali. Se ciò ha comportato la crisi di un sistema certamente più razionale e trasparente dell’attuale, d’altra parte ha sancito la fine di un’artificiosa distinzione riposante su schemi aprioristici. Inoltre, proprio perchè — come si è detto — l’estensione dell’area del rischio significativo risponde ad esigenze funzionali, non ontologicamente condizionate, il giudizio finale è espressione (anche) dell’atteggiamento che il reo ha verso il risultato della sua azione. E poiché il comportamento in questo caso è volutamente diretto all’offesa, alla produzione dell’evento lesivo, i rischi che l’ordinamento è disposto a correre si riducono; la valutazione diventa pertanto più severa in virtù della carica aggressiva insita nell’azione e l’area del « rischio giuridicamente rilevante » si allarga. Una condotta qualificabile come irrilevante in relazione a fatti colposi può diventare quindi giuridicamente apprezzabile se sostenuta da un’intenzionalità lesiva. La misurazione dell’indice di variazione non è naturalmente effettuabile con formule matematiche; è viceversa enucleabile una regola di chiusura, qualora sia dubbia l’esistenza di un rischio rilevante. Altrove si è espressa questa regola come « in dubio pro imputa-


— 1103 — tione » (5). Vale a dire, situazioni dubbie, tali da non consentire un giudizio netto sulla tollerabilità dei rischi connaturati all’azione, vanno sciolte, nei soli casi di azione dolosa, a favore della soluzione più restrittiva. Ossia l’esistenza del « rischio giuridicamente rilevante » e quindi della sussumibilità all’interno dell’imputazione oggettiva. VI. Conclusioni. — La concretizzazione del « rischio giuridicamente rilevante » passa attraverso l’analisi intrecciata della pericolosità e dell’utilità sociale dell’azione. La significatività del rischio implica la possibilità di imputare l’evento all’autore e non l’illiceità penale della condotta. I parametri definitori del rischio sono identici nel fatto colposo e doloso, ma la loro valutazione è autonoma e più severa (allargamento dell’area del rischio significativo) nel fatto doloso per la presenza del disvalore maggiore dell’azione. Una reductio ad unitatem della teoria dell’imputazione oggettiva appare allo stato, pertanto, alquanto difficile. Nonostante ciò, lo sforzo della dottrina contemporanea va indirizzato verso una semplificazione dei concetti, evitando la dispersione in complesse ed artificiali costruzioni, che rischiano peraltro la perdita di ogni contattto con la realtà. L’evidenziazione di una concezione del rischio come base dell’imputazione mediante pochi e controllabili parametri, secondo lo schema tratteggiato, va per l’appunto nella direzione di uno snellimento del sistema. Un traguardo già nel 1970 ritenuto necessario da ROXIN, in modo tale da consentire, per dirla con le sue parole, « che l’ampia elaborazione concernente la teoria dell’imputazione oggettiva possa condurre nuovamente la nostra dogmatica, dispersa in molteplici posizioni diverse, ad un ‘‘sistema di diritto penale’’ generalmente accettato » (6). ANDREA R. CASTALDO Associato di Diritto Penale Commerciale nell’Università di Urbino

(5) Cfr. CASTALDO, AIDS e diritto penale: tra dommatica e politica criminale, in St. Urb., 1988-1990, 106 ss., al quale si rinvia per l’esposizione delle riflessioni riprese nel testo. (6) ROXIN, Gedanken zur Problematik der Zurechnung im Strafrecht, in Festschrift für Honig, 1970, 133 ss.


DALLA ‘‘CERTEZZA’’ ALL’‘‘IPOTESI PREFERIBILE’’: UN METODO PER LA VALUTAZIONE (*)

SEZIONE I IL PENSIERO TRADIZIONALE

1. — La valutazione della prova non è operazione per la quale il giurista di professione riceva particolare attrezzatura mentale. Educato a ricercare la norma atta a sussumere il caso, ed avvezzo a compiere essenzialmente atti di interpretazione e di raccordo fra norme (‘‘narra mihi factum, dabo tibi ius’’: quasi che il fatto fosse lineare e pacifico), il giurista è di regola sprovveduto culturalmente di fronte al compito di micro-storico che il processo gli affida prima di chiamarlo ad assolvere la sua funzione tecnica. Nella ricostruzione dell’evento a lui sottoposto egli agisce per lo più come se la valutazione della capacità dimostrativa insita nei fenomeni fosse un’attività naturale, alla stregua del respirare o del camminare, e raramente analizza le procedure mentali impiegate per pervenire alle sue conclusioni. In realtà anche il ragionamento giudiziario è una tecnica, e se oggi questa tecnica non viene più studiata, almeno istituzionalmente, la carenza incomincia ad essere avvertita. Il moderno operatore giudiziario, infatti, non può non rendersi conto che occorrono delle regole anche in questo campo, poiché il principio del libero convincimento del giudice è oggetto di critiche sempre più serrate (che peraltro hanno prodotto un maggior rigore solo nel campo della disciplina del rituale probatorio, non in quello della valutazione): di qui la ricerca, nella pratica giudiziaria, di coordinate plausibili, che tuttavia sono state, fino a tempi recenti e con scorie ancora attuali, di tipo classificatorio e legalistico, piuttosto che ancorate ad acquisizioni scientifiche collaterali. Se si apre a caso un repertorio di giurisprudenza degli anni ’70-’80, ed a maggior ragione degli anni precedenti, è normale imbattersi in enunciati di questo tenore: ‘‘Un’affermazione di responsabilità può essere fondata su elementi indizianti soltanto se essi diano la sicura certezza dell’at(*) Relazione svolta nell’incontro di studio per magistrati, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura in Frascati, nei giorni 6-8 novembre 1995, sul tema ‘‘La prova penale’’.


— 1105 — tribuibilità del fatto all’azione dell’imputato, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma venga altresì dimostrato che il fatto stesso non può essersi svolto in modo contrario’’ (cfr., ex plurimis, Cass., I, 19 gennaio 1987, Cillari, Cass. pen., 1989, p. 256, m. 260). Correlativamente si afferma che la valutazione della prova è bensì ispirata al principio del libero convincimento, ma il giudice non può sostituire la propria personale opinione ad una obiettiva certezza (Cass., III, 15 dicembre 1964, Bartolino, Giust. pen., 1965, III, c. 405), e può utilizzare elementi probatori di qualsiasi specie, purché idonei a dare la certezza dei fatti rilevanti (Cass. VI, 19 febbraio 1970, De Pace, ivi, 1971, III, c. 151, m. 201). Sicura certezza della conclusione e procedura connotata dal metodo della dimostrazione (tipica dell’inconfutabilità della proposizione finale) individuano il grado ed il tipo di conoscenza che si ritiene racchiusa nella pronuncia giudiziale. 2. — Quali sono, in questa prospettiva, gli strumenti che legittimano la decisione giudiziale? In astratto sono possibili risposte diverse: si può definire un certo livello di conoscenza, convenzionalmente accettabile, e pretendere che ad esso conducano i mezzi impiegati, quale che sia la loro natura; o al contrario si può porre l’accento su determinati strumenti conoscitivi, che si presume offrano una conoscenza qualificata, a differenza di altri (le ‘‘prove’’), e stabilire che la decisione si legittima in presenza dei primi e non dei secondi. In altri termini, si può adottare un criterio finalistico, che faccia leva sul risultato, nel quale i mezzi sono validi in relazione alla loro idoneità a condurre allo scopo; ovvero un criterio legalistico, incentrato sugli strumenti, nel quale l’idoneità dei mezzi è definita a priori. La giurisprudenza, soprattutto quella meno recente, è schierata in prevalenza per la seconda opzione, nel senso che lo standard di conoscenza richiesto è la certezza, ed alcuni mezzi di prova la forniscono, altri non ne sono capaci: ‘‘Il legislatore ha distinto la prova dall’indizio, circoscrivendo la rilevanza di quest’ultimo alla fase investigativa, e correlando la decisione sempre e soltanto alla prova. (...) La prova pertiene al fattoreato, e consente, in via immediata (ossia direttamente) la conclusione sulla sussistenza o insussistenza di tale fatto, con la conseguente affermazione o esclusione della responsabilità dell’imputato. L’indizio invece attiene ad un fatto diverso da quello oggetto di prova, e, se isolato, non determina alcuna premessa rilevante ai fini della decisione’’ (v., fra le molte, Cass., I, 11 luglio 1985, Cass. pen., 1986, p. 120, m. 96). Dunque alle conclusioni di sicura certezza il giudice può pervenire se dispone di alcuni eventi qualificati, definiti ‘‘prove’’, e tali da offrire di per


— 1106 — sé la forza dimostrativa piena voluta dalla sententa (tali sono, tipicamente, le prove dirette o rappresentative, quali la testimonianza e il documento; talora — con opportune integrazioni — la confessione; implicitamente l’ispezione). Altri fenomeni — si potrebbe dire tutto ciò che si colloca al di fuori della prova diretta o della constatazione — hanno un grado di idoneità dimostrativa minore (donde la considerazione dell’indizio come ‘‘probatio minor’’, frutto di una visuale pre-scientifica del mondo, ovvero della chiamata in correità intesa come ‘‘prova degradata’’ ad indizio, in nome di una diffidenza psico-criminologica anch’essa poco scientifica). D’altra parte gli ascendenti di questa cultura sono molto solidi, poiché il codice civile, tuttora vigente, conosce tutta una serie di oggetti o di eventi dei quali dice testualmente che ‘‘fa[nno] piena prova’’ (artt. 2700, 2702, 2712, 2713, 2716, 2718, 2720, 2734 ecc.), mentre altri più modestamente ‘‘fa[nno] prova’’ (artt. 2707, 2708, 2709 ecc.), ed alcuni si limitano ad avere ‘‘l’efficacia di un principio di prova’’ (art. 2717). Non fa meraviglia che i residui di prova legale, presenti in questi automatismi dimostrativi, traspaiano ancora — per la verità più nel linguaggio che nella sostanza delle argomentazioni — in una nomenclatura giurisprudenziale che è attenta più alla circolarità interna dei propri messaggi che alla conformità degli stessi alle acquisizioni collaterali. 3. — La riflessione fatta a proposito dell’indizio non è meno ambigua. Per intanto si richiede che il dato di fatto, dal quale prende le mosse la ricostruzione indiziaria, sia giudizialmente certo ed inoppugnabile (Cass., II, 13 gennaio 1976, ivi 1976, III, c. 662, m. 554), con ciò accantonando la considerazione che il dato indiziante viene pur sempre introdotto nel processo da una fonte di prova la cui attendibilità è soggetta al normale vaglio, che non può essere formulato in termini di certezza. In secondo luogo si pretende che il procedimento induttivo, in base al quale il giudice muove dal fatto indiziante noto al fatto ignoto, offra una conseguenza non meramente possibile o probabile (sia pure in termini di alta probabilità), ma inevitabilmente necessaria e certa (Cass., VI, 1 febbraio 1972, Tessari, ivi, 1973, III, c. 138, m. 135), e cioè tale da eliminare sicuramente ogni altra possibile ricostruzione equivalente (Cass., III, 26 gennaio 1976, Raffo, ivi, 1977, III, c. 57, m. 48). In terzo luogo viene enunciata, anche se poi nel concreto essa è non di rado smentita, una sorta di gerarchia probatoria secondo la quale l’indizio è comunque qualche cosa di meno della prova diretta. Infatti si assume che l’indizio deve essere univoco, così da dare la stessa certezza giudiziale che è dato desumere dalla prova diretta (Cass., VI, 24 novembre 1966, Scaloni, ivi, 1967, III, c. 394, m. 481), la quale costituisce il mezzo di prova vero e proprio (Cass., I, 11 novembre 1971 De Gennaro, ivi, 1972, III, c. 751, m. 1261); e si ribadisce che l’indizio ha comunque un


— 1107 — carattere di sussidiarietà rispetto alla prova stessa (Cass., I, 6 novembre 1961, ivi, 1962, III, c. 349, m. 501). Di riflesso, proprio perché l’indizio ha una sua individuale equivocità, il singolo indizio, isolatamente considerato, non è idoneo a sostenere un convincimento, positivo o negativo che sia (Cass., II, 25 giugno 1965, Petroni, in Cass. pen., 1966, p. 459, m. 695). Non mancano poi, in questa classificazione vagamente tomistica, le mediazioni rese necessarie dal principio di realtà. Talvolta l’indizio è cosi eloquente che non gli si può negare validità (si pensi all’impronta), e perciò la giurisprudenza finisce con l’ammettere che non vi è differenza tra gli indizi qualificati (certi nell’esistenza, univoci nella concludenza) e le prove tradizionalmente intese (Cass., I, 5 maggio 1981, Canfarotta, Cass. pen., 1982, p. 1216, m. 1097). Talaltra si rende necessario uno scorrimento tra le due categorie, quando un certo elemento di prova viene ugualmente denominato ‘‘indizio’’, e tuttavia nel caso di specie la decisione viene a fondarsi su di esso: ed allora si escogita la formula secondo la quale ‘‘l’indizio assurge a dignità di prova’’ (Cass., I, 27 gennaio 1986, Scala, Cass. pen., 1987, p. 1430, m. 1140), normalmente in quanto il c.d. ‘‘indizio’’ si integra con altri elementi di prova. SEZIONE II LE NUOVE ACQUISIZIONI ED IL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE

4. — Questa sistemazione concettuale, tuttavia, non può reggere a lungo di fronte agli scavi che intanto vengono condotti sulle dinamiche del ragionamento giudiziario, e constata ogni giorno il proprio impigliarsi in contraddizioni via via più acute. Da un lato essa stessa non sa dare ragione dell’assioma, pur universalmente accettato, per cui ‘‘quae singula non probant, simul unita probant’’, laddove il prodotto di debolezze gnoseologiche dovrebbe dare una conoscenza ulteriormente indebolita e non rafforzata. Dall’altro lato, la tradizionale gerarchia probatoria non può fare a meno di constatare che determinati indizi, alla luce del cammino delle scienze, hanno acquisito un valore persuasivo altissimo (si pensi al significato dell’impronta, o della traccia di sparo, o del sonogramma, o del DNA: cfr., fra le molte, Cass., I, 13 gennaio 1991, Cosseddu, Cass. pen., 1992, p. 2161, m. 1175). Sotto un altro profilo ancora, infine, l’irrompere sulla scena di un tipo di ‘‘prova’’ ad alto tasso di equivocità, sebbene concettualmente identico a quella prova dichiarativa che per l’addietro era considerata risolvente (ci si riferisce ai c.d. ‘‘pentiti’’, o collaboratori di giustizia), ha messo in crisi la pretesa di attribuire un determinato coefficiente probatorio al tipo astratto di strumento impiegato, ed ha reso im-


— 1108 — prescindibile l’esigenza di cercare questo coefficiente nel terreno dell’epistemologia e non in una visuale classificatoria pan-processuale. 5. — Fortunatamente la giurisprudenza non è immobile. L’interscambio fra le varie discipline, l’elaborazione dottrinaria che anche in questo settore ha prodotto acquisizioni pregevoli, la cultura sottostante del singolo estensore di motivazioni (che finisce con il trapelare, anche se non si traduce in veri e propri principi giuridici) tutto ciò ha condotto all’emergere di pronunce meno dommatiche e più aperte, anche se ancora lontane da una sistemazione concettuale appagante. Mette conto riportarne alcune, di diverso livello ed esplicitezza. ‘‘Deve ritenersi superata la tradizionale distinzione tra la prova rappresentativa e quella critica, che solitamente si è per lungo tempo fatta al fine di una attribuzione di un maggiore o minor valore processuale all’una piuttosto che all’altra’’ (Cass., I, 22 giugno 1992, Alfano, Cass. pen., 1994, p. 111, m. 96). Anzi, ‘‘ad alcune prove, che rientrano nella categoria delle ‘indirette’ o ‘critiche’, deve riconoscersi un rilievo di attendibilità superiore rispetto ad altre, che pure rientrano in quelle dirette o rappresentative, ed anzi possono valere a verificare queste ultime’’ (Cass., I, 13 novembre 1991, Cosseddu, Cass. pen., 1992, p. 2161, m. 1175). Ed ancora: ‘‘Il legislatore ha accolto una concezione unitaria della prova, che, per comodità di analisi, può suddividersi nei vari elementi che la compongono e può tollerare classificazioni, ma che, nel momento valutativo finale, non accetta altra definizione che quella di prova critica unitariamente intesa’’ (Cass., 11 gennaio 1991, Teresi, Cass. pen., 1992, II, p. 983, m. 361). Andando oltre, in altre pronunce si possono cogliere obiter dicta sorprendenti: ‘‘...Risultano pertinenti e fondate, invece, le critiche del ricorrente p.g. avverso quelle parti della motivazione che, valutando la portata di un elemento obiettivo e certo (l’identità delle armi usate nell’eccidio, quelle stesse impiegate nella precedente strage della circonvallazione ed in parte usate anche in altre imprese criminali contro la vita, ascritte alla commissione) ne hanno piegato il significato verso ipotesi congetturali ingiustificatamente divergenti da quella collegabile, secondo una logica lineare, alla più accreditabile delle causali, l’impegno manifesto del nuovo prefetto nella lotta contro la mafia, accompagnato dalla facile prevedibilità di reazioni a tutto campo da parte degli organi repressivi in caso di suo assassinio. Considerazioni, queste, riconducenti facilmente ad una matrice programmatica e decisionale di generale autorità e di indiscusso potere che, giusta gli schemi di fatto accertati, sarebbe arduo non identificare nella commissione di Palermo, vertice supremo dell’organizzazione mafiosa’’ (Cass. I, 30 gennaio 1992, Altadonna, Cass. pen., 1993, p. 1695, m. 975: capitolo relativo all’omicidio del prefetto Dalla Chiesa).


— 1109 — Traspare nella motivazione la sorprendente adesione al criterio dell’‘‘ipotesi preferibile’’, vale a dire l’accettabilità della ‘‘storia criminale’’ che non presenta carattere di certezza, ma che si configura come evento capace di fornire spiegazione ragionevole a tutti gli elementi raccolti, ed è prevalente su ogni altra ipotesi formulata o formulabile nel processo. Di più: la nozione di ‘‘storia criminale’’, che è assai più di una metafora passeggera di un linguaggio curiale in vezzo di modernità, ritorna addirittura in una recente pronuncia della Corte Costituzionale: chiamata a giustificare il nuovo dettato dell’art. 500 comma 4 c.p.p, la Corte approva ‘‘un criterio logico-argomentativo in base al quale non è sufficiente un giudizio di attendibilità intrinseca o di superiore dignità logica della dichiarazione utilizzata per la contestazione, per assegnare prevalenza a questa, occorrendo a tal fine che essa sia anche coerente con qualche altro e diverso elemento di prova, onde — come è stato efficacemente osservato — iscriversi nella storia del reato con la legittimità che viene dalla connessione fra i vari segni che la compongono’’ (Corte Cost. 9 giugno 1994 n. 241). Ci sono spunti sufficienti per giustificare una riflessione un poco più sistematica. 6. — Il cammino prende le mosse da lontano. Gli operatori giudiziari devono affermare che il processo produce certezze per un bisogno di identità e di autogiustificazione. Non si può legittimare un evento così grave come la limitazione della libertà di una persona, se non in forza di una categorica certezza della sua responsabilità. Ma gli osservatori del processo sanno da tempo che non è così: ‘‘Se nessun giudizio storico è tale che sia assolutamente impossibile predicare il contrario, il concetto di verità processuale si può ottenere soltanto a prezzo di una determinazione quantitativa delle probabilità contrarie’’ (F. CORDERO, Note sul procedimento probatorio, in Jus, 1963, p. 45). E prima di lui F. CARNELUTTI (Accertamento del reato e ‘favor rei’, in Riv dir. proc., 1961, p. 342) aveva riconosciuto che, in questa determinazione di probabilità, non c’è alcun criterio matematico o rigido sul quale confidare, e ci si deve accontentare di una ‘‘prevalenza rilevante’’, a sua volta poco afferrabile. L’assunto non viene da un preconcetto pessimismo epistemologico, ma da considerazioni di logica lineare, che, in termini inevitabilmente semplificati, possono così esprimersi. a) La conoscenza dell’uomo si estende per constatazione o per inferenza. Il giudice non può, per definizione, constatare il reato (quello commesso in udienza è eccezione insignificante, poiché il reato appartiene ad un passato non ricostruibile sperimentalmente). Dunque il giudice, per predicare l’esistenza di un reato e la sua attribuibilità ad una persona, deve ricavarlo da determinati indicatori sottoposti al suo vaglio.


— 1110 — b) L’inferenza è una tecnica di ragionamento incentrata sul passaggio ‘‘dal particolare ad altro particolare attraverso la mediazione di un universale’’. L’‘‘universale’’ che funge da ponte è una legge che, di regola, non ha valore assoluto, e quindi riverbera la sua ‘‘non necessità logica’’ sulla conclusione, anch’essa opinabile e probabilistica. L’enunciato finale del giudice, pertanto, non ha carattere di certezza, ma ha la possibilità di essere ‘‘giustificato’’, nel senso che, offrendosi al controllo razionale, può ricevere consenso. c) Il consenso è conseguibile in misura proporzionale alla validità e concludenza della regola-ponte impiegata; e poiché la vicenda processuale non offre normalmente un solo elemento di valutazione ma una pluralità di elementi, il consenso si lega altresì alla congruenza di questa messe di informazioni con una certa ipotesi esplicativa del loro insieme, e con la preferibilità di questa ipotesi a qualsiasi altra, espressamente formulata o astrattamente formulabile. 7. — Ognuno di questi punti deve essere vagliato. Il nuovo codice di procedura penale ha contribuito notevolmente all’opera di chiarificazione terminologica e concettuale richiesta dalla materia della prova. Il codice del 1930 impiegava il vocabolo ‘‘prova’’ in una pluralità indistinta di significati, che giustificava le ambiguità: talora la parola stava ad indicare le fonti di prova (ad esempio nell’art. 219: ‘‘la polizia giudiziaria deve ... prendere notizia dei reati, ... assicurarne le prove’’ ecc.); talora essa individuava essenzialmente i mezzi di prova (art. 440: ‘‘il presidente o il pretore ... procede all’assunzione delle prove’’); talaltra ancora era sinonimo di elementi di prova (art. 367: ‘‘il giudice invita l’imputato a discolparsi e a indicare le prove a suo favore’’); infine in qualche caso la parola traduceva tipicamente il risultato di prova cui si perviene dopo la valutazione (art. 479: ‘‘se non risultano sufficienti prove per condannare ...’’). Il nuovo codice ha recepito i suggerimenti della dottrina più attenta (cfr., in particolare, G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, 1979, p. 103) ed ha spezzato la molteplicità dei significati in altrettanti significanti. Talora esso impiega l’espressione ‘‘fonte di prova’’ (artt. 65, 347, 348, 357, 364, 371, 388, 417, 429, 434, 435, 220 disp. coord., e altri) quando intende denominare la persona, la cosa, il documento o comunque un qualsiasi fenomeno idoneo a produrre una conoscenza rilevante per il processo. In altri casi, invece, si rinviene la locuzione ‘‘mezzi di prova’’, la quale dà addirittura il nome al titolo II del libro III del codice, e ricompare negli artt. 505, 507, 510 ed in altri, ad indicare lo strumento processuale mediante il quale si accosta la fonte e la si escute per farle produrre la conoscenza di cui è portatrice.


— 1111 — L’‘‘elemento di prova’’, poi, (che figura, ad esempio, negli artt. 65, 86, 90, 192, 410, 421, 38 disp. att., 256 disp. trans.) è l’àmbito di conoscenza ricavabile dalla fonte, sollecitata attraverso il mezzo: la proposizione enunciata dalla persona esaminata, la qualità di un oggetto ispezionato, una condotta, un giudizio peritale, il contenuto di un documento o di un’intercettazione. Di ‘‘risultato di prova’’ il codice non parla espressamente, tuttavia il concetto traspare con equipollente chiarezza in varie norme (artt. 200, comma 3, 238-bis, 371 comma 2 lett. c), 453 comma 1, 487 comma 4, 500 comma 4, 530 commi 2 e 3, 603 comma 4, ecc.) nelle quali continua ad essere impiegata la parola ‘‘prova’’ senza ulteriori specificazioni, ma nelle quali la locuzione compare chiaramente nel senso di indicare il terminale di un percorso argomentativo. Il vocabolo ‘‘risultato’’ appare poi formalmente in qualche disposizione (ad esempio nell’art. 506 comma 1, ove figura nel senso di esito dimostrativo provvisorio dei mezzi di prova già esperiti); ma soprattutto la nozione di ‘‘risultato’’ compare testualmente nella regola fondamentale dettata in tema di valutazione della prova, e cioè nel primo comma dell’art. 192, il quale stabilisce che ‘‘il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati’’. Il ‘‘risultato di prova’’ non è, evidentemente, un quid esistente sul piano materiale, a differenza delle tracce o degli enunciati raccolti e sottoposti a valutazione, ma è il punto di approdo di un’operazione mentale applicata a quei segni. Se le prove sono ‘‘eventi presenti interpretabili come segni di eventi passati’’ (così L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, 1989, p. 98), il ‘‘risultato di prova’’ è appunto l’assenso dato a questa possibilità di interpretazione, espresso da un soggetto imparziale, deputato a compiere tali operazioni mentali in nome di un ideale uditorio della ragione. Non vi è più, dunque, una relazione di identità tra un certo fenomeno e lo standard di conoscenza richiesto dalla decisione finale: in altre parole, non vi sono più ‘‘prove’’ che siano tali in sé, ed altre che rappresentano solamente degli ‘‘indizi’’: vi sono, semplicemente, degli ‘‘elementi di prova’’, ai quali viene riconosciuta, o negata, la capacità di convalidare un’ipotesi, sulla base di un criterio razionale offerto al consenso. L’implicazione è rilevante. Se il giudice deve ‘‘dare conto’’ delle operazioni compiute e dei risultati raggiunti, è segno che questi ultimi non possiedono l’evidenza della dimostrazione, non sono sostenuti da una necessità logica: in altri termini, non vi è ‘‘certezza’’ nel risultato, così come non vi sono ‘‘prove’’ che di per sé la forniscano. Il codice recepisce questa importante acquisizione in almeno due norme: l’art. 546 comma 1, lettera e) stabilisce che la sentenza deve contenere, tra l’altro, ‘‘l’indicazione delle prove poste a base della decisione e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le


— 1112 — prove contrarie’’. Il linguaggio, inevitabilmente contratto, sta a significare che vi possono essere, e normalmente vi sono in processi di almeno media complessità, degli elementi che orientano verso una data conclusione ed elementi che orientano nella direzione opposta. Entrambi presentano, visti a parte ante, una certa capacità dimostrativa, che permette di considerarli argomento a sostegno di una ipotesi: ma solo taluni, a parte post, si trasformano in risultato di prova, mentre agli altri viene negata dal giudice l’efficacia che la parte loro attribuiva. Si coglie in questa norma la sintesi dell’essenza del processo, come luogo di confronto tra ipotesi contrapposte: l’adprobatio data dal giudice agli elementi addotti da una parte, con il rifiuto dei contrari, traduce il valore convenzionale di quelle che sono definite prove. Se le prove ritenute vincenti fossero dotate di certezza, non potrebbero esservi delle prove contrarie: queste sarebbero delle pseudo-prove, la loro incapacità dimostrativa emergerebbe da esse medesime, ed il giudice non avrebbe neppure la necessità giuridica di indicare le ragioni per cui le preferisce. Ancora più nitida è la conferma che si ricava dall’art. 637 comma 3. Questa norma regola il procedimento di revisione e stabilisce che ‘‘il giudice non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio’’. Argomentando a rovescio, si desume che il giudice potrebbe, sul piano strettamente logico-conoscitivo, addivenire ad una diversa valutazione delle prove che condussero alla condanna, ma ciò gli è impedito per esigenze di stabilità del giudicato. Questo significa che quegli elementi di prova, che furono adprobati nel processo definito con la sentenza di condanna sottoposta a revisione, solo formalmente hanno espresso una certezza, tant’è che ora sarebbero suscettibili di condurre ad un risultato diverso. L’art. 637 comma 3 sottolinea pertanto in modo testuale il valore meramente probabilistico delle certezze giudiziarie. SEZIONE III IL CRITERIO

8. — Il primo caposaldo di questa impostazione, pertanto, è la considerazione che: a) nulla è ‘‘prova’’ in sé, tutto è ‘‘elemento di prova’’; b) l’elemento di prova può produrre un ‘‘risultato di prova’’ in ragione del criterio inferenziale che si propone; c) la bontà di questo criterio è convenzionalmente ‘‘approvata’’ o meno da un soggetto imparziale, che interpreta i dettami della ragionevolezza. È quindi fondamentale l’analisi del ‘‘criterio’’, ovvero della regola universale adottata per passare in via inferenziale dall’evento noto (o elemento di prova) all’evento investigato. La combinazione del particolare e dell’universale, nel che si sustanzia


— 1113 — l’inferenza, dà luogo — come è noto — a tre tipi di operazioni mentali: la deduzione, l’induzione, l’abduzione. Questi tre modelli riflettono le combinazioni possibili dei tre elementi costitutivi del sillogismo (premessa maggiore, o regola; premessa minore, o evento constatato, o caso; conclusione, o evento ignoto). La deduzione si ha quando si conoscono REGOLA e CASO e si intende ricavarne il RISULTATO. Applicata alla materia processuale, la deduzione può servire in funzione essenzialmente predittiva, nel senso che, conoscendo taluni eventi, ci si può attendere che se ne verifichino altri. Nel giudizio, il metodo deduttivo è presente allorquando si formula una prognosi, ad esempio in funzione della concessione di benefici (chi ha già commesso vari reati, è probabile ne commetta altri; l’imputato è plurirecidivo; ergo ...). Nell’ambito probatorio la deduzione, invece, serve solamente per operazioni intermedie, che orientano l’attività investigativa (ad esempio, se nella sparatoria un individuo è stato ferito, esso cercherà di farsi curare da qualche medico; ovvero, se ha acquisito un’ingente somma di danaro, frutto di operazioni illecite, cercherà di impiegarla; se il ‘serial killer’ agisce secondo taluni metodi e sotto la spinta di determinate motivazioni, si può sollecitarlo ad agire in un contesto controllato; e simili). La sua utilità si manifesta nella ricerca di convalida dell’ipotesi provvisoriamente formulata (v. infra la sezione quarta). L’induzione è l’operazione attraverso la quale si estrae una REGOLA, o legge, in seguito alla ripetuta osservazione dei fenomeni, o CASI. Nel campo processuale l’induzione serve a ricavare regole di comportamento criminale, da utilizzare come criterio in inferenze successive: ad esempio, se ripetutamente si constata che determinate imprese locali subiscono un cammino di progressiva decozione, e poi di colpo vengono ricapitalizzate con l’ingresso di determinati soggetti, si può desumere una tecnica di estorsione progressiva ai danni dell’impresa, e di sua resa agli estortori, con utilizzo dell’impresa da parte degli stessi a fini di copertura. Ovviamente la validità della regola discende dall’ampiezza e dalla costanza delle osservazioni, e non ha valore scientifico se riferita a comportamenti umani; ma anche l’induzione ha utilità nell’argomentazione giudiziaria, relativamente a passaggi intermedi della stessa, in quanto fornisce il ‘criterio’ da impiegare nell’inferenza abduttiva. L’abduzione è la forma di inferenza praticata quando si conosce un determinato evento e se ne vuole ricostruire l’antecedente causale: si conoscono, cioè, RISULTATO e REGOLA, e si va alla ricerca del CASO. Nell’argomentazione giudiziaria l’abduzione occupa il posto centrale: dalla presenza di un’impronta si deduce, in base ad un principio scientifico, che un certo individuo ha toccato l’oggetto; da una dichiarazione si ricava la realtà dell’evento riferito applicando un criterio di attendibilità al dichia-


— 1114 — rante; dal possesso di una quantità di ricchezza, o di sostanza stupefacente, o di determinati oggetti, si desumono corrispondenti antecedenti causali, in base a regole empiriche di condotta. In particolare è l’abduzione quella che guida il passaggio argomentativo finale, quello che, in forza di uno o più elementi di prova, autorizza ad affermare che l’imputato è autore del fatto-reato. Tutta la nostra vita di relazione con l’esterno è intessuta di abduzioni, perché ad ogni passo ci troviamo nella necessità di collegare un fenomeno alla sua causa, selezionandola fra le infinite possibili. Ma l’abduzione processuale ha esigenze peculiari, poiché costringe a risalire dalla traccia alla causa in termini di, almeno tendenziale, sicurezza, cioè con un rischio di errore assai più contenuto di quello che è insito nelle innumerevoli abduzioni della vita quotidiana. L’abduzione, pertanto, sconta questa insanabile contraddizione epistemologica: da un lato è l’unico tipo di inferenza che aumenta le nostre cognizioni fattuali, e quindi è l’unico schema argomentativo sempre e davvero indispensabile per giungere all’enunciato finale; dall’altro lato essa rappresenta lo strumento inferenziale dotato di minore necessità logica, e perciò di maggiore debolezza intrinseca. La deduzione, infatti, può avere carattere di incontrovertibilità, quando la premessa maggiore è sempre vera; l’induzione può avere carattere di certezza scientifica, quando la regola è stata ricavata da un’osservazione estesa e non mai contraddetta; l’abduzione, invece, è sempre ‘‘a rischio’’, anche quando la regola applicata è solida o scientificamente certa, perché è la scelta stessa della regola che è controvertibile (ad esempio il formare delle dosi minuscole di sostanza stupefacente esige senza dubbio l’impiego di uno strumento di precisione; ma, a rovescio, la presenza dello strumento può essere dovuta ad altri impieghi, come la pesatura di oro o di sostanze farmacologiche diverse). In altri termini, se il nesso causale ‘‘in avanti’’ può assumere carattere di cogenza (‘‘se p, allora q; è p, dunque è q’’), il nesso causale percorso ‘‘all’indietro’’ è sempre frutto di un’opinabile selezione tra gli infiniti altri antecedenti astrattamente possibili (‘‘è q, dunque è, verosimilmente, p; ma può essere anche p’, p’’, ecc.’’). La scelta operata attraverso l’abduzione è la proposta di una REGOLA che conduce ad una causa la quale, per economia di pensiero, viene individuata come l’antecedente più probabile dell’evento conosciuto. Schematizzando ancora, si può dire che l’abduzione è bensi un’inferenza creativa di conoscenza nuova, ma sempre a rischio, perché — come affermano i logici — per potersi parlare di dimostrazione è necessario non solo che la regola impiegata sia di tipo analitico o scientifico, ma che della stessa si faccia uso in un ragionamento di tipo deduttivo e non abduttivo.


— 1115 — 9. — Il primo compito che attende il giurista, il quale voglia cercare di approdare ad un metodo per la valutazione della prova, è quindi quello di fare oggetto di analisi la regola (o criterio) che viene comunemente impiegata nelle abduzioni di tipo giudiziarlo. Queste regole offrono vari livelli di affidabilità. Talora il criterio è costituito da una legge scientifica avente piena validità, nel senso che sino ad ora non è stata mai falsificata; e quindi il suo impiego produce un’inferenza avente carattere di certezza o di irrefutabilità logica (ad esempio, un veicolo di un certo tipo, procedente ad una velocità nota e dotato di pneumatici dei quali si conosce il grado di usura, lascia sul terreno tracce di frenata di una certa lunghezza: conoscendo quest’ultimo dato ed i restanti parametri, ad eccezione della velocità, questa è ricavabile facendo applicazione della regola tecnica che lega fra di loro i vari fenomeni; e similmente a proposito del foro d’ingresso di un proiettile, o di una traccia di effrazione, e cosi via). Il limite di questo tipo di inferenza, che in sé e per sé sarebbe produttivo di conclusioni certe, è di non operare mai nell’abduzione finale, ma solo in passaggi intermedi: essa cioè permette di collegare un evento alla classe delle sue cause possibili, ma non allo specifico evento cercato dal processo. Negli esempi dati, si conosce la velocità del veicolo, ma l’attribuzione delle tracce alla specifica vettura, e la conduzione della vettura da parte dell’imputato, discendono da altri tipi di abduzione; si ha certezza sulla collocazione dell’autore della lesione o dell’effrazione, ma nulla è detto sulla sua identità. 10. — Altre volte l’inferenza riposa su leggi ancora scientifiche, ma di tipo probabilistico. L’analisi di fenomeni omologhi ne individua certi caratteri che si ripetono con frequenza conosciuta: la conoscenza di una data traccia sensibile permette di ricondurla all’evento-causa con una probabilità corrispondente alla frequenza. Tradotto in termini giudiziari, si può dire, ad esempio, che una persona su mille, all’interno di una certa popolazione, ha gli stessi parametri fono-acustici di un’altra persona: quindi l’identità del sonogramma del telefonista di un sequestro di persona con quello proveniente dall’imputato ha un valore di identificazione pari a 1000/1, ma non offre certezza assoluta. Altrettanto può dirsi quanto al potere risolutivo di due identici tracciati del DNA, o per le impronte palmari, o per il gruppo sanguigno, o per le rigature di un proiettile. La caratteristica di questo tipo di regola non è quella di presentare una maggiore fallacia della precedente, ma quella di non poter giungere ad un’identificazione esclusiva. La scienza è in grado di enunciare con certezza la frequenza del ritorno di determinati fenomeni all’interno di una classe, ma non può andare oltre. La regola è rigorosa quanto alla con-


— 1116 — nessione stabilita, ma non offre certezza quanto all’unicità della connessione. 11. — Un terzo tipo di regola si fonda sull’osservazione dei comportamenti umani. Poiché si ritiene che essi rispondano a ragioni o motivazioni, dall’osservazione di una certa condotta si reputa corretto risalire ad un altro evento, che di quella è l’antecedente logico. Il possesso di refurtiva a poca distanza temporale dal furto autorizza a pensare che il possessore sia il ladro. Questo tipo di inferenza non produce conclusioni dotate di necessità logica, poiché la regola si basa semplicemente sulla normalità dell’agire, cioè su quella che viene definita la ‘‘comprensione empatica di come si comporta la gente’’. Talvolta esso ha punti di contatto con le regole scientifiche di tipo probabilistico, come quando certi comportamenti collettivi vengono studiati e classificati, e la loro rispondenza alla regola ha forte solidità ed affidabilità: ma la legge ricavata dall’osservazione è sempre di tipo statistico, e se è valida sui grandi numeri, è passibile di deroghe nelle situazioni specifiche. 12. — La conclusione, se ci si limita all’analisi del criterio che presiede all’inferenza giudiziaria finale, non è confortante: quando la regolaponte ha validità assoluta, essa opera solamente in passaggi intermedi del ragionamento; quando si affronta l’inferenza finale, la regola ha un grado solo parziale di affidabilità; per giunta, la stessa adozione e scelta della regola è frutto di operazioni mentali controvertibili. Poiché nel sillogismo ‘‘peiorem sequitur conclusio partem’’, ovvero la conclusione ha lo stesso livello di solidità della premessa maggiore, l’esito giudiziale deve abbandonare le convinzioni di certezza. L’approdo può destare preoccupazione, poiché al di sotto della certezza (esclusi i due ambiti dell’impossibilità e della mera possibilità) non vi è che l’area della probabilità: troppo fluttuante, enunciata in questi nudi termini, per legittimare una ‘‘certificazione’’ giurisdizionale. I tentativi di dare una maggior consistenza a questo mobile concetto si snodano in due capitoli intrecciati, desumibili da un’esplorazione non convenzionale delle due norme basilari in materia, gli artt. 192 comma 1 e 546 comma 1 lettera e) c.p.p.: il consolidamento del ‘‘criterio’’ attraverso una più ampia osservazione (lo studio delle massime d’esperienza), ed il passaggio dalla singola inferenza abduttiva al complesso delle operazioni mentali che presiedono alla formulazione dell’‘‘ipotesi’’ ed alla sua verifica. Il primo obiettivo è quello di rafforzare la validità induttiva del criterio, ed è schematizzabile nella formula di TOULMIN (‘‘The Uses of Argument, 1958):


— 1117 —

A1, A2, A3, A4, A5 ...... REG

EL

REG

RIS

In questo schema, A1 e seguenti indicano le esperienze ricorrenti dalla cui osservazione si è ricavata la regola (criterio di giustificazione esterna); EL e RIS indicano i noti termini di partenza e di arrivo dell’inferenza probatoria di tipo abduttivo (giustificazione interna). L’affidabilità del risultato è legata alla costanza ed alla ampiezza delle osservazioni che hanno permesso di ricavare induttivamente la regola. 13. — Si può, per intanto, ricavare una prima acquisizione. Se nulla è ‘‘prova’’ in sé, e se tutto è ‘‘elemento di prova’’ che può condurre o meno al ‘‘risultato di prova’’, a seconda del criterio-ponte che viene adottato; se questa metodica è universale, perché attiene all’essenza della motivazione (art. 192 comma 1): ne deriva che anche per le prove dirette o rappresentative occorre individuare un ‘‘criterio’’ valido ed offrirlo al consenso. L’operazione avviene molto spesso in forma ellittica, nel senso che viene fatto coincidere l’‘‘elemento’’ con il ‘‘risultato’’ (ad esempio la fotografia ci convince della effettiva esistenza dell’entità riprodotta; il racconto dell’ufficiale di polizia ci fa ritenere appartenente alla realtà il fatto da lui constatato, senza bisogno apparente di mediazioni mentali). Ma, a ben guardare, anche in questi casi noi applichiamo un criterio per trascorrere dal ‘dictum’ al ‘factum’, solo che la regola ci pare così evidente da non avere bisogno di esplicitazione: la fotografia riproduce l’evento, perché le cognizioni scientifiche usuali ci assicurano in tal senso, salvo che si abbia il sospetto di un montaggio; il pubblico ufficiale è ritenuto veritiero, perché la narrazione fedele è un suo compito istituzionale, salvo che si abbia ragione di ipotizzare mendacio o compiacenza; e così via. In realta, è sufficiente che qualche accadimento anomalo metta in discussione la fonte di prova diretta, perché anche in questo caso si avverta la necessità di individuare dei validi criteri di passaggio dall’evento rappresentato alla sua corrispondenza con il mondo della realtà: per la fotografia soccorreranno le valutazioni tecniche di un esperto, per la dichiarazione si farà appello ad una serie di indicatori suggeriti dall’esperienza. In ogni caso, si rende necessario, anche in queste situazioni che ieri apparivano sottratte a tale esigenza, esplicitare il criterio che ci legittima a tradurre l’‘‘elemento’’ in ‘‘risultato’’.


— 1118 — 14. — Il secondo punto, suscettibile di trasferirsi sul piano operativo, concerne l’ampiezza dell’osservazione necessaria per acquisire delle ‘regole’ valide nelle inferenze giudiziarie quotidiane. Tutta l’attività dell’operatore giudiziario, pertanto, deve essere incentrata sull’acquisizione del massimo numero di esperienze socio-criminologiche, atte ad offrire delle ‘‘leggi’’ comportamentali aventi un sufficiente grado di estensione e costanza. Utili a tal fine possono essere quelle ‘‘agenzie del sapere criminale’’ che sono state costituite all’inizio degli anni ’90, come la DIA e la DNA (legge 30 dicembre 1991, n. 410 e 20 gennaio 1992, n. 8: si può ricordare, quanto al procuratore nazionale antimafia, che l’art. 371-bis comma 3 c.p.p. include tra i suoi compiti quello di ‘‘provvede[re] all’acquisizione e all’elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata’’). E sono confortanti quelle decisioni giurisprudenziali, ormai non più isolate, che autorizzano ad utilizzare delle massime d’esperienza (altro nome possibile del ‘criterio’ di cui all’art. 192) ricavabili dall’esperienza anche locale di specifiche realtà criminali (v., fra le molte, Cass. I, 25 marzo 1982, in Foro it., 1983, II, c. 360; Cass. I, 24 gennaio 1977, in Riv. pen., 1977, p. 689; Cass. I, 1 aprile 1987, in Mass. uff., 1987, n. 178, 779; Cass., sez. un., 18 febbraio 1988, in Cass. pen., 1988, p. 1343, n. 1185; Cass., sez. fer., 3 settembre 1992, in Cass. pen., 1993, p. 878, n. 540; Cass. VI, 13 gennaio 1994, in Cass. pen., 1995, p. 1382, n. 861). Ma resta il dato problematico, rappresentato dalla duplice ‘‘fallacia possibile’’ della quale si è detto: da un lato la mancanza di una cogenza logica nelle ‘regole’ che vengono usate nell’abduzione finale; dall’altro lato la mancanza intrinseca di un rigore dimostrativo nel ‘‘pensare all’indietro’’, cioè nel tipo di inferenza detto abduzione o retroduzione. Resta, cioè, la constatazione che questa semplice probabilità — e sia pure alta probabilità — non può non preoccupare il giudice, il quale avrà anche familiarizzato con la scomparsa del mito della certezza, ma conserva l’esigenza di approdare ad una conclusione che presenti il minor possibile rischio di errore ‘in malam partem’. È a questo punto che entra in campo il secondo tipo di impegno per consolidare apprezzabilmente la probabilità, e cioè l’applicazione al ragionamento giudiziale delle tecniche suggerite dall’elaborazione del concetto di ipotesi scientifica. SEZIONE IV L’IPOTESI

15. — Il fatto-reato, come qualsiasi evento, si inserisce in una serie causale: ha degli antecedenti ed è esso stesso antecedente di altri eventi,


— 1119 — in quanto modifica il mondo reale, sia lasciando delle tracce materiali, sia imprimendosi nella percezione di persone o cose. Qualsiasi situazione noi ci troviamo ad osservare, la stessa può essere letta come una serie di eventi sconnessi o come un ‘‘testo’’. Se noi consideriamo, ad esempio, un ambiente domestico, possiamo rilevare la presenza di due adulti, tre bambini, una tavola, dei piatti, dei bicchieri, una donna che immerge un mestolo in una pentola, e via enumerando. Tutte queste ‘‘occorrenze’’ possono venire unificate stabilendo che siamo in presenza di una famiglia che sta consumando un pasto. Quando tutte le ‘‘occorrenze’’ della situazione sono note, il ‘‘testo’’ ha la funzione di un semplice predicato, che riduce ad unità la massa dei singoli elementi sconnessi, sostituisce una sensazione complessa ad una serie di sensazioni semplici, ed agevola la percezione e la comunicazione del messaggio. Quando invece non tutte le ‘‘occorrenze’’ concrete sono note all’osservatore, perché questi si colloca all’esterno della situazione, allora l’‘‘ipotesi’’ è uno schema esplicativo possibile, che dà ragione di tutti gli eventi constatati, e li trasforma, da fenomeni scollegati in una ‘‘sequenza coerente’’ (o testo). È questo il caso dell’investigatore, il quale è ovviamente ‘esterno’ rispetto alla commissione del reato, e constata semplicemente il teatro nel quale il reato è stato commesso (intendendosi come tale non solo la realtà materiale modificata dalla condotta delittuosa, ma anche la realtà umana che da questo evento è stata ‘‘impressionata’’). Dunque l’osservazione del teatro del reato dà occasione ad una prima serie di inferenze di tipo abduttivo, che permettono di approdare non ad un evento specifico, ma ad una classe di eventi-causa: un bossolo dice che è stata impiegata un’arma di un certo tipo, la qualità di una lesione mostra che l’autore era mancino, un messaggio può rivelare un movente, la testimonianza di un passante può comunicare la statura o la corporatura della persona implicata, la registrazione della conversazione manifesta la provenienza regionale del parlatore, e così via. Queste acquisizioni sono ottenute attraverso il noto meccanismo abduttivo che applica all’elemento posseduto la regola d’inferenza conveniente: ma sono acquisizioni di tipo intermedio, e conducono non ad un’‘‘individuazione’’ della causa, ma a classi di soggetti. Ciò che può unificare questi risultati intermedi è la formulazione dell’ipotesi esplicativa, e cioè di una proposizione del tipo: ‘‘se fosse accaduto nella realtà l’evento X, esso sarebbe spiegazione degli elementi posseduti’’. L’ipotesi, insomma, ‘‘sostituisce un unico concetto ad un complicato groviglio di predicati connessi ad un soggetto. Nell’inferenza ipotetica la complicata sensazione è rimpiazzata da una singola sensazione di maggiore intensità, quella corrispondente all’atto di pensare la conclusione dell’ipotesi’’ (PEIRCE, The Hound and Horn, 1929, n. 2643).


— 1120 — L’ipotesi si distingue dalla teoria, che è anch’essa uno schema esplicativo costruito dalla mente come spiegazione di uno o più fatti, ma che offre un’interpretazione dei medesimi in quanto ritenuti conformi ad una legge generale, assunta come operante in tutti i casi del genere (dall’osservazione delle posizioni successive dei pianeti Keplero abdusse il loro moto elissoidale, cioè una legge che ne regola il movimento e le relazioni reciproche in modo universale). L’ipotesi, invece, si limita a stabilire una relazione coerente all’interno di una serie di fatti apparentemente scollegati, vale a dire costruisce una storia con un solo soggetto, il quale diventa punto di riferimento di diversi sintomi rinvenuti nella realtà. Si comprende come abduzione ed ipotesi siano strettamente apparentate, tanto che taluno (U. ECO, Corna, zoccoli, scarpe: alcune ipotesi su tre tipi di abduzione, in ‘‘Il segno dei tre’’, a cura di Eco e Sebeok, Bompiani, 1983, p. 255) vede in esse uno sviluppo della stessa nozione. L’abduzione, nel suo primo stadio o livello, è la forma di inferenza che (come si è detto) consente di risalire da un evento alla sua probabile causa, è di tipo analitico-individuale, e sconta i limiti logici dei quali si è fatto cenno (par. 14). Nel secondo stadio l’abduzione è sintetica e creativa, perché produce una connessione tra eventi, ma non può garantire che la ‘‘storia’’ ipotizzata sia quella reale. La convalida dell’ipotesi (per quanto ciò è possibile nell’esperienza giudiziaria specifica) è il passaggio che occorre affrontare per dare consistenza all’investigazione processuale. 16. — Il più eloquente degli strumenti di convalida è la verifica sperimentale (la costruzione reale del factum explanans, e la constatazione che esso produce realmente il factum explanandum: se A fosse la causa di B, riproducendo A si dovrebbe ottenere B). Ma il processo non consente la ricostruzione sperimentale della commissione del delitto. La presenza di un mezzo di prova denominato ‘‘esperimento giudiziale’’ non trae certamente in inganno, poiché con esso, come recita l’art. 218 c.p.p., si accerta semplicemente ‘‘se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo’’ e pertanto, in esito all’esperimento, non si ha la dimostrazione che il presunto colpevole è l’autore della condotta illecita, ma che egli ‘‘può’’ averla tenuta (l’effetto concludente si produce solo sul versante liberatorio, quando l’esperimento dimostra che l’imputato ‘‘non può’’ avere tenuto la condotta che gli si addebita). Occorre allora vagliare quelli che vengono considerati i requisiti di accoglibilità dell’ipotesi. Essi in sintesi sono: la rilevanza (cioè la capacità di spiegare il fatto, nel senso che questo deve essere deducibile dall’ipotesi proposta); la comprovabilità (nel senso che deve esistere un rapporto tra il fatto ipotizzato e taluni dati empirici posseduti o possedibili); la compa-


— 1121 — tibilità (tra l’ipotesi formulata ed altre ipotesi già stabilite in precedenza); la capacità di previsione e di spiegazione (di fatti ulteriori rispetto a quello considerato); la semplicità (nel senso che è preferibile l’ipotesi, a sostenere la quale si richiede una minore complicazione di eventi) (I. COPI, Introduzione alla logica, Il Mulino, 1964, p. 485). 17. — Trasponendo queste acquisizioni sul piano dell’indagine giudiziaria, è possibile per intanto osservare che, nella stragrande maggioranza dei casi, il teatro del reato non è costituito da una sola traccia, ma da evenienze plurime e di diversa natura. Queste tracce rappresentano il ‘‘contesto di scoperta’’ (G. UBERTIS, op. cit., p. 55, e AA. ivi richiamati), che l’osservatore unifica, per il solo fatto che esamina il teatro in atteggiamento di ricerca, in un’ipotesi provvisoria esplicativa. L’osservatore che giunge sul luogo, o che riceve una denuncia, o che ascolta un collaboratore di giustizia, non si limita a guardare il cadavere o l’auto incendiata, né ad ascoltare il collaboratore, ma cerca mozziconi o bossoli, rileva impronte digitali o di pneumatici, accerta i fori d’entrata o di uscita dei proiettili, controlla i sedili e i tappetini, raccoglie gli oggetti contenuti nelle tasche (e se si tratta di un interrogatorio indirizza le domande verso certi temi), in una parola raccoglie il più possibile di informazioni coerenti con l’ipotesi, per ora elementare, di un assassinio o di un incendio doloso, o di una veritiera rappresentazione di uno scenario malavitoso raccontato da un suo ex appartenente. Il fatto stesso che l’investigatore si premuri di accertare se vi sono tracce di violenza sul collo, e non — poniamo — se la pianta vicina sia un melo o un pesco, è indicativo della selezione spontanea che si opera nella mente dell’osservatore, e dell’ipotesi che presiede a tale osservazione; così come sono indicative del formarsi di un’ipotesi nella mente dell’interrogante le domande che egli viene via via formulando. 18. — Nel ‘‘contesto di scoperta’’ la formulazione della ipotesi è relativamente agevole, perché di solito essa è a largo raggio ed a limitata concludenza. I fatti che si offrono inizialmente sono, di regola, insufficienti per una ipotesi esplicativa risolvente, vale a dire per formulare proprio l’ipotesi specifica che sarà introdotta nel processo (essere Tizio l’autore del delitto). La prima ipotesi, dunque, ha per lo più un carattere di genericità e di provvisorietà, e perciò deve essere impiegata essenzialmente per produrre ulteriori àmbiti di ricerca; dopo di che essa dovrà essere o accantonata, o sostituita da ipotesi più specifiche. Si consideri il caso di una persona senza vita rinvenuta all’interno di un’auto abbandonata sul ciglio di una strada. Il primo contatto con questa serie molto ristretta di elementi suggerisce di formulare due ipotesi alter-


— 1122 — native, la morte accidentale per cause organiche e la morte prodotta da qualche evento traumatico. Le due ipotesi sono ‘‘evocatrici di mondi immaginari’’, ed hanno entrambe una loro fecondità, o capacità di spiegare altri fatti: se la morte fosse dovuta a cause traumatiche, il corpo ne manifesterebbe i segni (inferenza di tipo deduttivo, sorretta da una regola ipercodificata, o scientifica). Dunque l’osservatore ‘va a vedere’ se nella realtà si siano davvero manifestate quelle ‘occorrenze’ che la sua ipotesi suggerisce. Se le riscontra (e quindi, proseguendo nell’esempio, se rinviene un foro da proiettile alla tempia) accantona l’ipotesi della morte per malore e coltiva quella della morte traumatica, addivenendo subito dopo a formulare due ulteriori ipotesi più specifiche, e cioè la morte per suicidio o per omicidio. Anche queste ipotesi sono evocatrici di scenari complessi dotati di fecondità. Il cammino discendente che esse aprono è di nuovo di tipo deduttivo, incardinato anch’esso su criteri di tipo iper-codificato o scientifico: se il morto si è tolto la vita, le regole di esperienza tecnica appropriate al caso ci dicono che la pistola deve essere in una certa posizione, compatibile con le leggi cliniche e dinamiche; il foro d’ingresso deve avere una certa ubicazione, deve rivelare una distanza dell’arma non superiore ad una certa quantità, e le mani e gli indumenti del defunto devono presentare dei residui da sparo. Ancora una volta l’investigatore ‘andrà a vedere’ se il mondo della realtà corrisponde al mondo evocato dalla sua ipotesi. Se l’arma non è rinvenuta, o si trova in posizione incompatibile, o se taluna delle deduzioni proiettate dall’ipotesi non riceve conferma, l’ipotesi deve essere abbandonata, e l’investigatore procederà alla formulazione di una diversa. Proseguendo ancora, l’ipotesi della morte per omicidio (che ha il massimo di genericità, portando ad escludere ... unicamente il defunto) può essere meglio specificata ipotizzando che lo sparatore fosse all’esterno od all’interno del veicolo, deducendo i rispettivi scenari fattuali, ed operando il consueto controllo nel mondo reale. L’ipotesi che lo sparatore abbia agito all’interno della vettura restringe gli eventi-causa dell’uccisione alle persone legate al defunto da un qualche vincolo di conoscenza. Talune modalità dell’accaduto, poi, possono dare occasione ad ipotesi sempre più puntuali (vendetta, regolamento di conti, movente passionale ecc.), ciascuna suscettibile di deduzioni (questa volta ipo-codificate, perché imperniate sulla normale prevedibilità di comportamenti umani), e queste a loro volta passibili di verifica. In altre parole, ogni ‘‘contesto di scoperta’’ genera un ‘‘contesto di ricerca’’, attraverso la mediazione di ipotesi sempre più circoscritte, e attraverso uno schema alternativo di ‘‘conferma - esclusione’’ (del tipo ‘‘se H fosse vera, essa avrebbe prodotto non solamente A/1, A/2, A/3, già constatati, ma anche A/4, A/5 e così via’’; se fosse vero che Tizio è uno dei


— 1123 — sequestratori ed ha incassato una quota dell’ingente riscatto, egli l’avrebbe reimpiegata in operazioni economiche vantaggiose; se fosse vero che Caio è un pubblico ufficiale corrotto, egli avrebbe realizzato uno o più atti irregolari a beneficio del presunto corruttore; se fosse vero che Mevio ha emesso fatture false, egli non avrebbe movimentato le merci che le fatture sottendono; se fosse vero che Filano, uomo avente un certo connotato fisico, ha commesso la rapina che il collaboratore gli attribuisce, la sua caratteristica avrebbe potuto essere notata e descritta da taluno dei presenti; se fosse vero che Primus è autore dell’attentato, egli potrebbe avere comunicato a mezzo di telefono cellulare con Secundus, competente in materia di esplosivi o portatore di interessi affini; se fosse vero che Tertius opera nel quadro di una certa associazione criminosa, egli potrebbe avere compiuto determinate operazioni bancarie, o noleggiato vetture, o pernottato in esercizi pubblici di date città, o essere stato intercettato da posti di controllo stradale, e via esemplificando). In altri, e più autorevoli, termini ‘‘i contenuti concettuali che anticipano una possibile soluzione e che dirigono le operazioni di osservazione costituiscono ciò che è stato tradizionalmente chiamato il predicato. Ciò che ci si presenta alla mente come possibile soluzione di un problema, ed è perciò impiegato a dirigere l’ulteriore osservazione sperimentale, forma il contenuto di predicazione del giudizio. L’anticipazione ha logicamente la funzione di promuovere e dirigere un’operazione di osservazione sperimentale’’ (J. DEWEY, Logica, teoria dell’indagine, 1939, p. 182). Il punto nodale, pertanto, in questa fase di scoperta, è coniugare il massimo di inventività, nel costruire delle ipotesi, con il massimo di rigore nell’andare a verificarle, affinché, quando si passerà al ‘‘contesto di valutazione’’, il giudice disponga del massimo quadro di ipotesi possibili, e del massimo di elementi per escluderle tutte eccetto una. 19. — Tornano utili, a questo punto, le considerazioni fatte a proposito delle tre forme di ragionamento. Anche la deduzione presenta le caratteristiche dell’abduzione, e cioè offre una conclusione che ha la stessa forza della premessa maggiore, ovvero della regola impiegata. Nella deduzione che si effettua stimolando l’ipotesi provvisoria a generare ulteriori effetti, la deduzione può essere addirittura evanescente sul piano del rigore del criterio impiegato: ma essa si rivela comunque utile come strumento di orientamento nella ricerca di eventi ulteriori, da selezionare nell’infinità dei fatti accertabili. Si pensi all’apprestamento della c.d. esca nei delitti seriali, quando ci si colloca nella mente del presunto autore e si riesce ad incrociare la sua traiettoria operativa, cosicché egli si rivela autore sia dell’ultimo sia dei precedenti delitti. La deduzione, vista a parte ante, ha un notevole grado di evanescenza, essendo del tutto aleatorio che il soggetto ipotizzato abbia


— 1124 — a comportarsi nel modo previsto; ciò non toglie che, vista a parte post, la sua utilità si possa rivelare altissima in caso di riuscita, mentre rimane modesta la forza di esclusione in caso di fallimento (ad analoga conclusione si può giungere nel caso di una perquisizione con risultato negativo, quando è ipotizzabile che l’oggetto cercato possa essere custodito altrove). Altre volte, invece, l’accertamento, compiuto in forza della deduzione originata dall’ipotesi, ha carattere risolutivo nella direzione contraria, o falsificatrice: se l’ipotesi H ‘‘deve’’ (con carattere di necessità logica) produrre l’ulteriore evento A/5, e questo non viene riscontrato, o se si è verificato un evento A’ incompatibile con esso, H deve essere abbandonata (ad esempio, se si ipotizza che una truffa sia stata commessa da Mevio utilizzando un documento che era nel possesso di Sempronio, occorre accertare se Sempronio ne abbia mai perso la disponibilità: ove ciò non sia — e sempre che siano ritenuti acquisiti con sufficiente certezza i due fatti contraddittori — H deve essere scartata). In sostanza, anche nel cammino ‘discendente’ sollecitato dalla c.d. fecondità dell’ipotesi, occorre tenere ben presente il grado di implicazione reciproca tra antecedente ipotizzato e conseguenza reale, giungendo all’esclusione dell’ipotesi solo quando la relazione è in termini di contraddizione, ed approfondendo invece l’esplorazione dell’ipotesi negli altri casi. 20. — Man mano che il cammino investigativo procede, le ipotesi si fanno più puntuali, fino a focalizzarsi su una persona, o su un numero definito di persone, intese come probabili autrici del reato (tralascio, per irrilevanza ai fini di cui qui ci occupiamo, l’evenienza che l’ipotesi non coaguli su persone individuate, vale a dire il caso degli autori del reato rimasti ignoti). L’ipotesi finale assume perciò i contorni ‘‘se Tizio (ed eventualmente altri) fosse l’autore del reato, ciò fornirebbe spiegazione di tutti gli elementi raccolti, e non sarebbe contraddetto da alcuno di essi’’. Questa ipotesi, giova ricordarlo, non ha alcun connotato di necessità logica: i criteri usati nell’abduzione finale non sono mai di tipo scientifico, e l’abduzione è intrinsecamente priva di capacità dimostrativa. All’ipotesi anzidetta (‘‘se Tizio fosse l’autore del reato, ciò varrebbe a spiegare ...’’) è sempre possibile contrapporre altre ipotesi esplicative (ad esempio, il fatto che Tizio sia stato trovato in possesso di refurtiva è spiegabile con il suo ignaro accettarne il momentaneo deposito da parte dei veri autori; il fatto che Caio lo chiami in correità è spiegabile con il proposito di Caio di guadagnarsi la libertà accusandolo; il fatto che Tizio sia proprietario di un furgone dello stesso tipo di quello visto trafugare la merce è spiegabile con la casuale coincidenza di modello; ecc.). Ciò impone di affrontare l’interrogativo di fondo: quanto vale un’ipotesi ai fini della decisione giudiziale? Quando accade che un’ipotesi può dirsi ‘‘preferibile’’ ad ogni altra?


— 1125 — Secondo la struttura ‘hard’ del pensiero giuridico tradizionale, un’ipotesi non vale nulla: la stessa radice del vocabolo (ipo-tesi = sub-posizione) sembra giustificare una resistenza, anche psicologica e culturale, ad ammettere che un enunciato solenne e formale, come quello che conclude il processo, possa consistere nella semplice convalida di un’ipotesi. Secondo l’epistemologia, invece, se è vero che l’ipotesi (nella sua dinamica fatta di formulazione e verifiche progressive) non conferisce certezza, ciò non toglie che essa possieda un suo grado di validità, in qualche modo misurabile, e comunque suscettibile di essere implementato: e su una validità elevata si può fare affidamento nella vita di relazione, ed anche nella ricostruzione di fatti storici rilevanti, nel che consiste l’essenza del processo. Può essere utile richiamare la formula di HEMPEL (Filosofia delle scienze naturali, Il Mulino, 1980, p. 94), espressa da ‘‘p (H K) = r’’, ed applicarla a talune situazioni processuali che l’esperienza quotidiana propone. La formula ci dice che la probabilità induttiva dell’ipotesi H è proporzionale al grado di informazione coerente K, che è stata introdotta nel processo attraverso l’acquisizione di elementi di prova, e che, col crescere di K, cresce il grado di resistenza ‘‘r’’ alla falsificazione dell’ipotesi. Ne consegue che, quando dal ‘‘contesto di scoperta’’ e dal conseguente ‘‘contesto di ricerca’’ si passa al ‘‘contesto di valutazione’’, cioè al momento in cui il giudice, assunte tutte le prove, si trova a dovere scegliere tra l’ipotesi dell’accusa e quella della difesa, essenzialmente due saranno i parametri in base ai quali si produrrà l’opzione: la quantità dell’informazione coerente con la prima, e la maggiore semplicità, ovvero la minore complicazione dell’ipotesi dell’accusa rispetto alle altre eventuali (cfr. il par. 16 sui connotati dell’ipotesi). SEZIONE V QUALCHE APPLICAZIONE IN AMBITO GIUDIZIARIO

21. — Si può provare a trasporre la tecnica ora detta sul terreno giudiziario quotidiano. Muovendo da un esempio elementare (perché la difficoltà di descrivere compiutamente delle situazioni complesse obbliga a far riferimento ad esempi lineari), e cioè da quello di una vetrina di oreficeria ‘‘spaccata’’ in ora notturna, un grado di informazione pari ad 1 (persona sorpresa a breve distanza dal luogo del furto) autorizza a formulare un’ipotesi accusatoria esposta ad un alto grado di confutazione: basta infatti replicare che la presenza sul luogo, senza possesso alcuno di refurtiva, può avere una vasta gamma di possibili spiegazioni, e che solo una precomprensione orientata da modelli di vita specifici (‘‘di notte si sta a casa a dormire’’) permette di ritenere significativo un dato che invece è ambiguo.


— 1126 — Se però si acquisisce un grado di informazione pari a 2 (ad esempio: presenza sul luogo, e ferita all’avambraccio della persona ivi sorpresa) l’ipotesi secondo la quale quella persona sarebbe autrice dell’effrazione e del furto acquista un maggior grado di accettabilità. I due enunciati noti (‘‘Tizio è vicino al luogo del commesso furto’’ e ‘‘Tizio ha riportato una ferita da taglio provocando la rottura della vetrina’’) sono coerenti con un terzo enunciato (‘‘Tizio è autore dell’effrazione’’), più di quanto lo siano con un quarto enunciato composito (‘‘Tizio si trova in quel luogo perché è insonne e desidera passeggiare’’ e ‘‘Tizio si è ferito aprendo una scatola di latta nel prepararsi la cena’’). Correlativamente, la confutazione della ‘‘storia’’ unificante esige una pluralità di ‘‘storie’’ diverse, ed una pluralità di eventi mutuamente incoerenti, laddove H presuppone un singolo evento. Tuttavia il valore di ‘‘r’’ non è così esiguo da poter essere accantonato, e da giustificare l’accoglimento dell’ipotesi H ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’. Se peraltro si dispone di un grado di informazione pari a 3 (perizia medico-legale disposta nell’immediatezza, la quale colloca temporalmente la ferita da taglio pochi minuti prima dell’accertamento), l’ipotesi H diventa sempre più plausibile, vuoi perché aumenta la probabilità relativa di proposizioni mutuamente coerenti (‘‘Tizio ha infranto la vetrina poco tempo fa’’; ‘‘Tizio si è ferito poco tempo fa’’; ‘‘Tizio si è ferito in occasione dell’effrazione’’); vuoi perché diventa intrinsecamente contraddittoria l’ipotesi alternativa H’, secondo la quale Tizio si è ferito preparandosi la cena, cioè alcune ore prima. In questa situazione ‘‘ottimale’’ l’ipotesi alternativa H’ non solo è più complessa, e quindi meno accettabile di H sul piano della ‘‘semplicità’’, ma è inidonea a spiegare taluno degli elementi raccolti, e quindi si autoesclude dal novero delle ipotesi possibili. Si potrebbe obiettare che l’esempio si avvale di un panorama probatorio ideale, perché è stata immessa a bella posta una collocazione cronologica di eventi tale che ne scaturisse la contraddizione; ma in realtà lo spunto di contraddittorietà, che ha affondato H’, è nato da un ulteriore livello di informazione, costituito dall’enunciato specifico addotto da Tizio allorché gli è stato chiesto della ferita da taglio. Se l’interrogatorio si fosse limitato ad assumere l’informazione semplice (‘‘mi sono tagliato aprendo una scatoletta’’), sarebbe stato ancora possibile ipotizzare H’, anche se il racconto esplicativo avrebbe chiesto una serie di eventi sempre meno congruenti tra loro (‘‘Tizio passeggia di notte perché insonne’’ e ‘‘Tizio si ferisce nella strada manovrando una scatoletta di latta’’). L’aumento dell’informazione è scaturito da una opportuna analiticità nell’interrogatorio, che ha indagato anche sulla modalità temporale della lesione (ed eventualmente anche su altre circostanze, con la maggior puntualità possibile, perché tutto giova ad accrescere K).


— 1127 — 22. — Si configurano allora alcuni ulteriori interessanti profili operativi. Il primo concerne una diversa possibilità di lettura dell’art. 358 c.p.p. Il pubblico ministero ‘‘svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini’’ non solo per una esigenza di ordine deontologico, per una tutela della presunzione di non colpevolezza, e per un bisogno di garanzia contro l’errore; ma anche per un suo specifico e diretto interesse alla conferma o meno della propria ipotesi accusatoria. Solamente la ricerca di eventuali elementi a favore dell’indagato lo porrà al riparo da ‘‘falsificazioni’’ successive della propria ipotesi. Soltanto la ostinata prospettazione di altre ipotesi esplicative degli elementi posseduti, e la conseguente verifica degli eventi generati da queste, valgono a fargli abbandonare un’ipotesi debole o, viceversa, ad irrobustire un’ipotesi solida. Solo costruendo una cultura della falsificazione, e non della conferma, si offrono ipotesi accusatorie che hanno già superato il vaglio di quel che potrà loro opporre la difesa, ed hanno buone ‘chances’ di essere poi considerate ‘‘preferibili’’ ad ogni altra. Epistemologia ed etica, in tal modo, felicemente convergono nel proporre uno stile di indagine che giustifica l’attribuzione al pubblico ministero della nota qualifica di ‘‘parte imparziale’’. 23. — Una seconda importante acquisizione risiede nella constatazione che gli artt. 192 comma 1 e 546 comma 1 lett. e) diventano complementari nel descrivere il percorso argomentativo della decisione. Il primo indica la tecnica del singolo passaggio inferenziale; il secondo (attraverso il prescritto vaglio delle opposte ‘‘ragioni’’) recepisce e traduce l’esigenza del confronto tra le diverse ipotesi ricostruttive del fatto. L’uno denota, per cosi dire, i mattoni con i quali si costruisce l’edificio considerato dall’altro. La ‘‘preferibilità dell’ipotesi’’ ha, dunque, una base testuale rassicurante. 24. — Un ulteriore campo di applicazione delle riflessioni qui proposte risiede nella possibilità di offrire una lettura meno ‘‘descrittiva’’ dei diversi standard probatori che compaiono nelle varie norme processuali. Quando si afferma che è diverso il livello probatorio richiesto per l’adozione di misure cautelari, o per il rinvio a giudizio, o per il giudizio stesso, si finisce normalmente con il fare ricorso ad un’aggettivazione che colora diversamente il grado di probabilità richiesto: sforzo che è poco appagante in genere, e che ancor meno lo diventa una volta che ci si sia convinti che anche la decisione finale si esprime inevitabilmente in termini di (sia pur alta) probabilità. La costruzione qui proposta, invece, permette di individuare il diverso livello probatorio, tipico delle varie fasi processuali, in forza del


— 1128 — grado di verifica dell’ipotesi sino a quel momento compiuta. Nella fase iniziale dell’indagine preliminare l’ipotesi deve accontentarsi di essere coerente con tutto quanto raccolto sino a quel momento, a patto che gli elementi posseduti abbiano quanto meno un apprezzabile grado di concludenza, ed offrano un’informazione (K) di almeno media consistenza. Nei momenti successivi, poi, l’accoglibilità dell’ipotesi cresce in ragione della capacità di sollecitarne le deduzioni e dell’ampiezza delle verifiche compiute, sì che la sua capacità di resistenza a possibili falsificazioni si rafforza nella misura in cui vengono esplorate le possibili ipotesi alternative via via affacciate. 25. — Altro riflesso si produce sull’interpretazione e soprattutto sull’estensione dei poteri integrativi della prova, regolati dall’art. 507 c.p.p. Se il giudizio è una scelta tra ipotesi contrapposte, e se l’ipotesi si rende preferibile in ragione della quantità di informazione coerente che la sorregge, allora l’integrazione probatoria (d’ufficio o su richiesta delle parti) non può essere confinata nell’ambito di una eccezionalità da vedersi con sfavore, ma deve essere perseguita tutte le volte che il nuovo dato si presenta in prospettiva come idoneo a convalidarla o contraddirla. A questa stregua, non solo meritano consenso le note pronunce della Cassazione a sezioni unite e della Corte Costituzionale (n. 111/1993), ma anche la locuzione ‘‘assolutamente necessario’’ vede sbiadire la sua capacità limitativa, e la ‘‘assoluta necessità’’ assume il ruolo di ‘‘funzionalità alla verifica dell’ipotesi introdotta’’. 26. — Un ultimo corollario significativo dell’impostazione qui proposta risiede nella ‘‘convenienza epistemologica’’ che l’indagato concorra alla prospettazione di ipotesi alternative a quella formulata dall’accusa. Si tocca, con questo assunto, uno dei tasti più delicati della materia, poiché ripugna alla nostra tradizione, imperniata su una rigorosa tutela del ‘‘diritto al silenzio’’ in capo all’imputato, il pensare che lo stesso possa venire assoggettato ad un qualche onere di tipo probatorio. Ma è questione di intendersi. La formulazione dell’ipotesi è, come è stato detto, ‘‘una creazione di mondi’’ (ECO, op. loc. cit.), cioè un fatto mentale evocatore di eventi esplicativi che possono esistere oppure no, ed alla cui verifica è necessario procedere secondo un percorso di tipo ‘‘confermativo - esclusivo’’. Ciò significa che l’ipotesi provvisoriamente prescelta deve essere costantemente confrontata con altre, le quali possono bensì essere formulate da colui che indaga, ma possono (ed entro certi limiti ‘‘devono’’) essere prospettate anche da colui che ha interesse a contrastarle. L’‘‘onere’’ di allegazione di ipotesi alternative, allora, non rappresenta un carico che si pone sulle spalle dell’indagato, ma un interesse del


— 1129 — medesimo ad offrire un diverso factum explanans che dia ragione degli elementi a lui contestati dall’accusa. Questo, e non altro, significa l’invito ad ‘‘esporre quanto ‘l’indagato’ ritiene utile per la sua difesa’’, che compare nell’art. 65 c.p.p., e contro il quale non possono certo venir mosse accuse di inversione dell’onere della prova. È certamente compito dell’accusa configurare ipotesi diverse; ma non di rado l’ipotesi alternativa, se davvero è conforme a realtà, è conosciuta solamente dall’indagato, ed è conforme alla struttura del modello accusatorio il sollecitarlo ad offrirla, sia pure, eventualmente, in termini ora di mera allegazione, ora anche di dimostrazione, quando la ricerca da parte dell’accusa non può essere fruttuosa (ad esempio, perché la conferma dell’ipotesi difensiva risiede in un documento che solo l’indagato è in grado di far rinvenire). In questi sensi si è espressa talora la giurisprudenza anche di legittimità (‘‘Il principio secondo cui l’imputato non ha l’obbligo di rispondere alle contestazioni che gli vengono rivolte non comporta una limitazione legale della sfera del libero convincimento del giudice, che può legittimamente esercitarsi anche sulla portata significativa del silenzio mantenuto dall’interrogato, su circostanze su cui questi, potendo fornire indicazioni di dati che potrebbero scagionarlo e contribuire all’accertamento della verità, si rifiuti di farlo. In tal caso non può dirsi che il silenzio — garantito all’imputato come oggetto di un suo diritto processuale — venga utilizzato, in contrasto con tale garanzia, come tacita confessione di colpevolezza, giacché il convincimento di reità nel giudice viene a formarsi non sulla valorizzazione confessoria del silenzio, bensì sulla valorizzazione in senso probatorio di elementi già idonei a suffragare un giudizio di colpevolezza, in ordine ai quali il silenzio del soggetto viene ad assumere valore di mero riscontro obiettivo’’: Cass. VI, 21 dicembre 1988, in Cass. pen., 1990, I, p. 651; Cass. VI, 5 dicembre 1984, ivi, 1986, p. 977). Indubbiamente questo assunto richiede prudenza e vigilanza, al fine di non trasferire sull’indagato l’insuccesso dell’investigazione (ad esempio, se egli sostiene che la droga rinvenuta in un certo luogo a lui pertinente vi fu collocata da altri, non gli sarà possibile fornirne la prova: in questo caso è l’aumento dell’informazione coerente con l’ipotesi d’accusa quello che la può convalidare, vale a dire l’analitico accertamento di tutte le modalità del rinvenimento, così da fare ritenere decisamente ‘‘preferibile’’ l’ipotesi d’accusa all’altra prospettata). Ma è importante rivedere certe barriere psicologiche, per meglio mettere a fuoco un metodo. Il percorso proposto in queste pagine mette in luce come le inferenze abduttive, nelle quali si sostanzia l’ipotesi d’accusa, siano fondate su una ‘‘alta probabilità’’, a sua volta incentrata sull’idea di ‘‘normalità’’. Il rischio dell’idea di normalità è, ovviamente, l’evenienza di una ‘‘non normalità’’, essendo noto che innumerevoli possono essere le cause degli ac-


— 1130 — cadimenti. Ma questa ‘‘non normalità’’ se può, e di regola deve, essere cercata da chi investiga, più spesso, se esiste, può essere conosciuta solo su indicazione di chi la ha vissuta (ad esempio, se si accerta che 100 milioni di lire vengono cambiati con l’equivalente di 85 mila dollari, la circostanza è seriamente indiziante di un’attività di riciclaggio, poiché non è ‘‘normale’’ accettare di perdere il 15% in grandi transazioni economiche: una diversa causale è possibile, ma l’investigatore non la può conoscere, e se l’indagato quanto meno non la allega, l’elemento indiziante si consolida nella sua valenza accusatoria). In altri termini, ‘‘solo un processo che viva del contraddittorio delle parti nella formazione della prova può consentire una valutazione degli indizi limitata alle concrete alternative emerse dal confronto delle prospettive, anziché costretta a rincorrere le infinite conclusioni compatibili con i fatti noti’’ (A. NAPPI, Azione e prova nel nuovo c.p.p.: valori culturali e politici della riforma, in Questione Giustizia, 1990, p. 114). Di qui l’esigenza di accedere progressivamente ad una cultura del contraddittorio, intesa nel doppio versante di una leale e completa contestazione di tutti gli elementi di prova, e nello stesso tempo di una sollecitazione a contrastarli responsabilmente da parte dell’accusato e della sua difesa, costruendo ipotesi concrete da sottoporre al vaglio finale del giudice. 27. — La valutazione della prova, a questa stregua, non è più il sempre inquietante interrogativo su ‘‘quanto pesa’’ il singolo elemento probatorio, il cui dilemma si scarica interamente nel momento della valutazione, con il rischio ora di sacrificarne la portata in nome del dubbio residuo, ora invece di accettarne il piccolo rischio marginale in nome della forte carica indicativa che in esso è pur racchiusa. La valutazione, al contrario, diventa un atto che ha le sue radici nell’intera vicenda processuale; un impegno che nasce assai lontano dal momento della deliberazione, che si sviluppa essenzialmente nella fase delle indagini, ma vive anche nel dibattimento attraverso la continua integrazione delle opposte ipotesi ricostruttive (la locuzione, ed il correlato concetto epistemologico, si ritrovano testualmente nella importantissima sentenza della Cassazione a Sezioni unite, in data 6 novembre 1992, in Cass. pen., 1993, p. 280, che ha pronunciato sull’interpretazione dell’art. 507 c.p.p.); che si alimenta di quel continuo moto di ‘‘andata-ritorno’’ tra evocazione di mondi possibili e loro riscontro nell’universo del fenomeni reali. La valutazione, insomma, diventa un compito al quale concorrono tutti i soggetti nella costruzione prima, e nel raffronto poi, tra ‘‘storie’’ complessive aventi un diverso grado di accettabilità. Certo, la formula dell’‘‘ipotesi preferibile’’ è ben lungi dall’autorizzare semplificazioni inaccettabili: non basta dire che è ‘‘più credibile’’ lo svolgimento dei fatti sug-


— 1131 — gerito dall’accusa, per legittimare un’affermazione di colpevolezza; così come non basta che l’ipotesi dell’accusa sia ‘‘più semplice’’ di quella avanzata dalla difesa. Occorre che quest’ultima sia confinata in un àmbito così remoto di accettabilità, da poter essere esclusa ‘‘al di là di ogni ragionevole dubbio’’. Ma — per l’appunto — non al di là di ogni dubbio, bensì di ogni dubbio che rimane dopo che si sono esplorate tutte le fecondità dell’ipotesi d’accusa, e dopo che si sono confrontate tutte le ipotesi concretamente messe in campo. Lo schema proposto, in altre parole, non è un’equazione sulla quale scaricare una responsabilità valutativa, che è e rimane interamente del giudice. È solamente l’offerta di un metodo, che riduce il rischio dell’errore senza farlo pagare solamente al processo (anche la pratica del dubbio ad oltranza riduce il rischio dell’errore in malam partem, ma penalizza eccessivamente l’efficacia del processo). Il giudice, chiamato ad accertare se un certo fatto passato è stato realizzato da un dato individuo, è investito di una ‘‘profezia retrospettiva’’ che è sempre stata sentita come superiore alle forze dell’uomo. Rifuggirne spaventati, o viceversa accedervi con atteggiamento di fatalistica approssimazione, sono entrambi atteggiamenti non appropriati. Puntare invece alla massimizzazione dell’informazione (teoricamente un’informazione infinita non permetterebbe alcuna altra ‘‘storia’’ coerente con essa); cercare la congruenza narrativa del ‘‘testo’’ ricavabile da essa; sancire la preferibilità dell’ipotesi semplice rispetto a quella eccessivamente complessa: sono le direttrici lungo le quali ci si può utilmente muovere. Come ciò sia possibile nella pesante situazione in cui versano gli uffici giudiziari, è difficile dire. Ma ciò significa semplicemente che una loro migliore attrezzatura risponde non più soltanto ad esigenze organizzative, ma a postulati in qualche modo scientifici. ELVIO FASSONE Magistrato


I GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA NEL SISTEMA DELLE MISURE CAUTELARI TRA PROBABILITÀ E CERTEZZA

SOMMARIO: 1. La polivalenza semantica del termine indizio. — 2. La distinzione della materia indiziaria effettuata opponendo criteri non comparabili. — 3. Un’opinabile dicotomia: indizi rivelatori di una probabile responsabilità ed indizi richiesti per condannare (responsabilità certa). — 4. ‘Certo’ e ‘probabile’ nella gnoseologia giudiziaria di civil law. — 5. Gradi di conferma dell’ipotesi accusatoria e probabilità di colpevolezza: i gravi indizi nella fase investigativa. — 6. La gravità indiziaria ad accusa formulata. — 7. ‘Provvisorietà’ dei gravi indizi di colpevolezza e verifica in iudicio. — 8. La discutibile trasformazione dibattimentale del giudizio di colpevolezza da probabile a certo. — 9. Il superamento della contrapposizione tra giudizio di probabilità e giudizio di certezza: l’applicabilità dei criteri ex art. 192 c.p.p. in ambito cautelare. — 10. Considerazioni conclusive.

1. La polivalenza semantica del termine indizio. — Argomento ricorrente in molti provvedimenti della Suprema Corte che si occupano della materia cautelare è l’integrazione del ‘livello di gravità’ previsto dall’art. 273 comma 1 c.p.p. Il tema offre lo spunto per un tentativo: quello, cioè, di dipanare l’intreccio che nel contesto del codice di procedura penale lega le disposizioni generali del libro IV, specie l’art. 273 c.p.p., e del libro III, in particolare l’art. 192 c.p.p. La questione è resa intricata dalla presenza, in ambedue le norme richiamate, del sostantivo plurale « indizi ». Quest’ultimo vocabolo — il cui rilievo all’interno del modello culturale accusatorio è stato, non di rado messo in luce (1) — pare difficilmente riconducibile ad una nozione unitaria, appesantito com’è dai molteplici significati che, di volta in volta, gli sono stati attribuiti nel corso della storia processuale. E ciò a partire dalla suddivisione binaria — operata nella Retorica aristotelica — delle « ra(1) Cfr. in particolare G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 117 che fa sue le parole di Mittermaier circa la maggior importanza dell’indizio — non in un processo di matrice inquisitoria — bensì « in una legislazione fondata sul principio d’accusa »; v. anche quanto riportato da E. DEZZA, Tommaso Nani e la dottrina dell’indizio nell’età dei lumi, Milano, 1992, p. 99 e ivi nt. 138 (per il passo in latino tratto dal De indiciis). Cfr. pure A. NAPPI, Azione e prova nel nuovo codice di procedura penale. Valori culturali e politici della riforma, in Quest. giust., 1991, p. 114.


— 1133 — gioni probanti » (2) in átechnoi (specifiche dei discorsi giudiziari) e éntechnoi (3). Aristotele sembra prestar maggiore attenzione proprio a questa seconda species probatoria, che non può esser corrotta con il danaro e neppure sorpresa a rendere falsa testimonianza (4), essendo — sono parole di Cicerone — « tota in disputatione et in argumentatione oratoris conlocata » (5). L’estensione semantica davvero notevole del termine si riflette, tra l’altro, nell’affermazione — costituente una sorta di leitmotiv per i consensi pressoché unanimi incontrati — secondo cui il concetto di ‘indizio’ possiede, in ambito cautelare, un contenuto « non del tutto coincidente con quello » assunto « nella normativa generale delle prove » (6). Individuare le radici di questa polisemia non è problema secondario, specie ove si rammenti che gli indizi di colpevolezza « rappresentano ... il fondamento naturale e — se bene interpretati e rispettati nei loro limiti di proporzione e di ragione — la garanzia fondamentale » della custodia cautelare (7). 2. La distinzione della materia indiziaria effettuata opponendo criteri non comparabili. — A sostegno di questa ‘non corrispondenza concettuale’, se così può chiamarsi, vengono addotte alcune argomentazioni. Talvolta, si sottolinea che scopo precipuo dell’art. 192 comma 2 c.p.p. è la disciplina « della fase finale del percorso conoscitivo » inerente (2) Questa espressione per R. BARTHES, La retorica antica. Alle origini del linguaggio letterario e delle tecniche di comunicazione, trad. it., Milano, 1993, p. 60, è preferibile al termine ‘prove’ — sovraccarico di connotazioni scientifiche — e serve a tradurre con maggiore esattezza il greco písteis. (3) Le ragioni extratecniche (probationes inartificiales) « non sono procurate da noi stessi, ... ma si trovano già in partenza, come le testimonianze, le confessioni sotto tortura, i documenti scritti »; per tecniche (probationes artificiales) « intendo le argomentazioni che è possibile fornire attraverso il metodo e per mezzo nostro; per cui delle prime ci si deve servire », mentre « le seconde bisogna trovarle » ARISTOTELE, Retorica, I, A, 2, 1355 b. La partizione aristotelica è ripresa da QUINTILIANO, Institutio oratoria, V, 1, 1-2. In proposito si leggano le belle pagine di commento alla tradizione prima ellenistica e poi romana scritte da F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1987, p. 343. (4) V., nuovamente, ARISTOTELE, Retorica, I, A, 15, 1376 a. Trae spunto da questo celebre passo E. FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organizzata, in AA.VV., Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Roma-Bari, 1993, p. 231, per sottolineare quanto « i cardini tradizionali della prova si [siano] indeboliti » a vantaggio dell’indizio e, nel contempo, per suggerire uno spostamento delle odierne problematiche, dal rango probatorio assegnato alla circostanza indiziante ad una rinnovata e generale riflessione in tema di prova. (5) CICERONE, De oratore, II, 27, 116. (6) Così M. CHIAVARIO, Art. 273, in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, III, p. 31. (7) G. VASSALLI, Libertà personale dell’imputato e tutela della collettività, in Giust. pen., 1978, I, c. 13.


— 1134 — l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato (8), mentre nell’ipotesi dell’art. 273 comma 1 c.p.p. si tratta di individuare il « quantum probatorio integrante il minimo etico legittimante l’esercizio del potere cautelare » (9). La prima parte del discorso accentua il profilo finalistico, la seconda sembra prediligere l’aspetto meramente quantitativo. L’impiego di criteri discretivi operanti su piani indipendenti, e non del tutto omogenei, desta qualche perplessità d’ordine metodologico, dal momento che impedisce una corretta comparazione dei tratti differenziali concernenti le due ‘classi indiziarie’. Se si dovesse ritener preferibile una bipartizione incentrata sul contrasto teleologico, il dualismo potrebbe, allora, evidenziare due diverse finalità. Da un lato, uno ‘scopo principale’ che tende, attraverso l’opera di ricostruzione del fatto controverso da parte del giudice, al raggiungimento della verità giudiziale (10), dall’altro, un ‘fine cautelare’, ancillare rispetto al primo (11), pur nella sua parziale autonomia, inerente la sfera di limitazioni sofferte dalla libertà personale dell’accusato. La scelta di adottare un ‘parametro quantitativo’ complicherebbe non poco il distinguo, al quale non ci si potrebbe avvicinare senza opportune precisazioni. In realtà, la ‘costellazione indiziaria’ che l’organo giurisdizionale valuta per desumere, ex art. 192 comma 2 c.p.p., l’esistenza di un fatto è in grado di variare sensibilmente, a seconda che il giusdicente sia chiamato a sciogliere il dilemma tra proscioglimento e condanna nel rito ordinario (8) A. SANNA, Parametri di valutazione della prova e riesame delle decisioni cautelari, in Giur. it., 1992, II c. 272. (9) A. GAITO, I criteri di valutazione della prova nelle decisioni de libertate, in AA.VV., Materiali d’esercitazione per un corso di procedura penale, a cura di A. Gaito, Padova, 1995, p. 161, nonché G. GARUTI, La valutazione della prova nelle decisioni « de libertate », in Nuovo dir., 1993, p. 348 ed ancora A. SANNA, Parametri di valutazione della prova, cit., loc. ult. cit. (10) V., in proposito, G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in ID., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, p. 89 e ivi nt. 133. (11) Sull’idoneità della custodia cautelare « ad assolvere nel processo una funzione di cautela strumentale (o processuale in senso stretto) », funzione compatibile con il principio di cui all’art. 27 comma 2 Cost., v. diffusamente, V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, p. 51 ss.; si confrontino, poi, le p. 59 ss. per un esame critico della tesi finalizzata a stabilire una « perfetta analogia tra il sequestro di una cosa e la custodia preventiva di una persona » (F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 182 nt. 1; in questa direzione, v. G. DE LUCA, Lineamenti della tutela cautelare penale. La carcerazione preventiva, Padova, 1953, p. 11 ss. e 32). Per una sintesi dell’ampio dibattito sviluppatosi in seno alla dottrina nel corso degli ultimi decenni « sulla strumentalità » del provvedimento cautelare « al perseguimento di uno scopo », v. A. NAPPI, I presupposti per l’applicazione delle misure cautelari reali e personali, in AA.VV., Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, a cura di U. Canzio-D. Ferrante-A. Pascolini, Milano, 1989, p. 185-187.


— 1135 — con istruzione dibattimentale o nel giudizio abbreviato, caratterizzato dalla definizione del processo nell’udienza preliminare rebus sic stantibus (12). Inoltre, il quantum di indizi vincolante il potere cautelare (13) è determinato all’origine dalla cernita del pubblico ministero « che presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate » (14). La selezione dell’accusa (15) continua a circoscrivere il flusso di informazioni del decidente (16), limitando pure l’orizzonte al tribunale del (12) In questa seconda ipotesi, il giudice pronuncia sentenza avvalendosi di tutta la documentazione contenuta nel fascicolo del pubblico ministero; egli, « insomma, lavora sulle carte: e condanna o assolve usando materiale che nel dibattimento non costituirebbe prova » (F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, p. 528). Inoltre, il canone dello stato degli atti manifesta estrema duttilità ed acquista significati diversi in rapporto ai tempi in cui può intervenire, nel corso dell’iter procedimentale, la richiesta di abbreviazione del rito. (13) Sulla natura vincolata del ‘comando’ cautelare si vedano le osservazioni di G. DE LUCA, Lineamenti della tutela cautelare penale, cit., p. 63 ss. Secondo A. NAPPI, I presupposti per l’applicazione delle misure cautelari reali e personali, cit., p. 187, nel nuovo codice l’organo giusdicente eserciterebbe « una discrezionalità ricognitiva, anziché strumentale », potendosi ravvisare il cambiamento nel passaggio « da una strumentalità dell’atto ad una strumentalità della norma ». (14) Art. 291 comma 1 c.p.p. così risultante a seguito della recente sostituzione apportata al testo originario dall’art. 8, legge 8 agosto 1995 n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa). M. NOBILI, I rapporti con l’attività del pubblico ministero, relazione al Convegno su Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi (Cagliari, 29 settembre-1o ottobre 1995), ammette che ora « finalmente » il giudice « può ‘conoscere’ qualcosa in più sul versante della difesa », ma, si domanda, « chi saprà mai correttamente diagnosticare, a priori se e quando un ‘elemento’ risulta, oppur non, ‘a favore dell’imputato?’ » (p. 22 del dattiloscritto). (15) Talvolta l’insindacabilità della scelta operata dal richiedente è stata estesa anche alle « singole parti di uno stesso atto »; il pubblico ministero non sarebbe obbligato a motivare « gli eventuali omissis, attesa la sua natura di parte processuale, salva poi l’eventualità di subire il rigetto della sua richiesta da parte del giudice per mancanza o insufficienza del materiale indiziario offerto » (Cass., sez. VI, 14 ottobre 1993, Corlito ed altri, in Giust. pen., 1995, III, c. 219). (16) L’osservazione sembra mantenere intatta la sua validità anche dopo gli ultimi interventi (v. supra nt. 14) con i quali il legislatore « ha preferito imboccare la strada del compromesso, con una soluzione non del tutto soddisfacente, che presenta anche sotto il profilo più strettamente tecnico non poche manchevolezze » (G. GIOSTRA, Commento all’art. 8, in La riforma della custodia cautelare, fasc. spec., Italia Oggi, 9 agosto 1995, p. 13): solo una conoscenza globale, non frazionata — prosegue l’Autore — sottrarrebbe, infatti, il giudice « alla subalternità... nei confronti del p.m. richiedente ». Già da tempo il tema dell’ampliamento del patrimonio cognitivo del decidente, con precipuo riferimento al procedimento incidentale de libertate, era all’esame della dottrina:


— 1136 — riesame (17). Risulta arduo, quindi, paragonare una simile piattaforma cognitiva al « quadro probatorio ... richiesto per disporre il rinvio a giudizio » (18). M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, II, p. 408, nel criticare apertamente la scelta che l’organo dell’accusa poteva effettuare ai sensi dell’art. 291 comma 1 c.p.p., ravvisava uno « stridente contrasto » con la previsione dell’art. 358 c.p.p., secondo cui il pubblico ministero « svolge ... accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini »; G. GIOSTRA, Il giudice per le indagini preliminari e le garanzie della libertà personale, in questa Rivista, 1994, spec. p. 1257 ss., aveva avanzato la proposta di « conferire al giudice per le indagini preliminari un potere di integrazione probatoria, ogniqualvolta » avesse riconosciuto « la possibilità di attingere fonti probatorie in grado di fornire elementi decisivi per risolvere la quaestio libertatis » (p. 1263). Dal canto suo, V. GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’imputato, in Pol. dir., 1994, p. 542, auspicava un intervento legislativo teso a rafforzare il ruolo del giudice per le indagini preliminari « attraverso un allargamento della sua sfera di autonomia in ordine alle valutazioni che gli sono affidate ai fini delle decisioni di sua competenza »: si sarebbe potuta prevedere la trasmissione « al giudice dell’intero fascicolo, e questo, nel caso di richiesta di riesame » sarebbe stato « trasmesso anche al tribunale della libertà, senza che, peraltro, il suo contenuto » fosse « posto a conoscenza dell’imputato ». Del resto — informava E. MARZADURI, Quale rimedio è invocabile dinanzi a prove costituite da dichiarazioni rese sotto la pressione della custodia in carcere in atto o annunciata da inequivoci precedenti giudiziari?, in Crit. dir., 1995, p. 65 nt. 27 — è ormai invalsa in molte Procure la « prassi di allegare alle richieste di applicazione di misure cautelari l’intero fascicolo del pubblico ministero ». (17) V. M. CERESA CASTALDO, Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, p. 122-125. Il comma 5 dell’art. 309 c.p.p., nella versione originaria, richiamava « gli atti presentati a norma dell’art. 291 comma 1 ». Una volta impugnato il provvedimento concernente la libertà personale le conoscenze della difesa e del giudice finivano con l’equivalersi (tranne nell’ipotesi di atti oggetto di segretazione, inviati al tribunale della libertà in busta chiusa per l’esame da parte del solo collegio, così Cass., sez. VI, 17 maggio 1993, Feroce, in Cass. pen., 1995, p. 335): la « garanzia difensiva in sede di riesame » — commentava M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, cit., p. 408 nt. 23 — era « pagata a prezzo eccessivo ». Non di rado si avanzavano richieste di riesame unicamente per finalità cognitive (G. FRIGO, Commento all’art. 10, in La riforma della custodia cautelare, fasc. spec., Il Sole-24 Ore, 4 agosto 1995, p. 12); una prassi destinata ora a cadere in disuso, a seguito dell’inserimento — nell’art. 293 comma 3 c.p.p. — delle parole « insieme alla richiesta del pubblico ministero e agli atti presentati con la stessa »: innovazione apprezzabile « in quanto riesce a coniugare esigenze di garanzia con esigenze di economia processuale » (G. GIOSTRA, Commento all’art. 10, in La riforma della custodia cautelare, cit., p. 17). (18) In questi termini, vedi G. AMATO, Art. 273, in E. AMODIO e O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, III, p. 19, e G. GARUTI, La gravità degli indizi nei provvedimenti « de libertate », in Giur. it., 1993, II, c. 628; mentre il primo sostiene che la trama indiziaria ex art. 273 c.p.p. non deve essere ‘minore’ rispetto al mosaico probatorio che consente al giudice dell’udienza preliminare di disporre il decreto di cui all’art. 429 c.p.p., il secondo propende, invece, per una completa equiparazione (come del resto, S. DRAGONE, Misure cautelari, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1991, p. 406).


— 1137 — Coloro i quali approdano a questa conclusione sembrano trascurare almeno due dati di sicuro rilievo. E cioè che « l’emissione dell’ordinanza cautelare non implica esercizio dell’azione penale e quindi non preclude l’archiviazione » (19). Secondariamente, che le potenzialità di ampliamento delle conoscenze giudiziali — in vista dell’intervento volto « ad apprezzare il fondamento dell’accusa », scongiurando « la celebrazione di un dibattimento superfluo » (20) — sono svariate. Dipendono dall’ostensione integrale, senza stralci di sorta, del fascicolo investigativo (art. 416 comma 2 c.p.p.) (21), dai risultati di eventuali indagini suppletive (22), e dalla discussione sviluppatasi in seno all’udienza preliminare, specie laddove il giudice ravvisi la necessità di ulteriori acquisizioni ai sensi dell’art. 422 c.p.p., per superare la situazione di « stallo decisorio derivante da incompletezza del materiale informativo offertogli » (23). 3. Un’opinabile dicotomia: indizi rivelatori di una probabile responsabilità ed indizi richiesti per condannare (responsabilità certa). — Più spesso la giurisprudenza confronta gli aggettivi che determinano e specificano la materia indiziaria nelle disposizioni in questione (art. 192 comma 2 e 273 comma 1 c.p.p.), deducendone un elemento di discrimine. L’emissione dell’ordinanza cautelare — si legge in molte pronunzie della Cassazione — è subordinata alla sussistenza di indizi sì gravi, ma non an-

(19) F.M. IACOVIELLO, Il diritto imprevedibile: le contraddittorie pronunce della Suprema corte sulla motivazione delle ordinanze cautelari fondate su chiamate in reità de relato, in Cass. pen., 1993, p. 2345. (20) Corte cost. sent. 10 febbraio 1993 n. 41, in Giur. cost., 1993, p. 297 ss. (21) La Corte costituzionale (sent. 5 aprile 1991, n. 145), nel ritenere non fondata la questione di illegittimità dell’art. 416 comma 2 c.p.p., ha ribadito che la norma pone a carico dell’accusa « l’obbligo di trasmettere al giudice dell’udienza preliminare tutti gli atti attraverso cui l’indagine preliminare si è sviluppata e che concorrono a formare il fascicolo processuale nella sua interezza »; v., inoltre, più di recente, Cass., sez. VI, 4 giugno 1993, Carnazza, in Cass. pen., 1994, p. 2767. Sul punto sia consentito il rinvio a S. BUZZELLI, Il dossier dell’accusa di fronte all’udienza preliminare, in Riv. dir. proc., 1992, p. 971 ss. (22) I giudici della Consulta si sono occupati del problema relativo alla trasmissione e al deposito della documentazione degli atti d’indagine successivi alla richiesta di rinvio a giudizio; nel respingere la censura di illegittimità costituzionale dell’art. 419 comma 3 c.p.p., la Corte ha sottolineato che, « ove le indagini suppletive del p.m. sopravvengano in tempi tali da non consentire un’adeguata difesa, spetti al giudice di regolare le modalità di svolgimento dell’udienza preliminare anche attraverso differimenti congrui alle singole, concrete fattispecie, così da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio »: per un commento alla sentenza 3 febbraio 1994 n. 16, v. A. CASELLI LAPESCHI, Il deposito della documentazione concernente gli atti di indagine ex art. 419 comma 3 c.p.p.: primo, non del tutto soddisfacente, intervento della Consulta sul tema delle indagini suppletive, in Cass. pen., 1994, p. 2357 ss. (23) Corte cost. sent. 8 febbraio 1991, n. 64, in Giur. cost., 1991, p. 477.


— 1138 — che precisi e concordanti (24), estremi questi che richiede il solo secondo comma dell’art. 192 c.p.p. (25). L’apparente semplice raffronto del dato testuale, condotto con particolare scrupolo linguistico, nasconde, in realtà, un’operazione interpretativa dai risvolti impensabili, costruita, per di più, sull’opinabile non necessaria compresenza dei tre requisiti prima richiamati (26). Dopo aver affermato che l’‘indizio cautelare’, purché grave può essere unico (27), sulla scia di un orientamento piuttosto stabile, si ag(24) In questa direzione, v. fra le tante, Cass., sez. I, 21 aprile 1994, Pellicanò, in Riv. pen., 1995, p. 404; Cass., sez. I, 13 gennaio 1994, Stillitano, Mass. dec. pen., 196395; Cass., sez. I, 20 ottobre 1993, Martello, in Riv. pen., 1995, p. 254; Cass., sez. I, 22 ottobre 1993, Sabatelli, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 272; Cass., sez. I, 19 ottobre 1993, Moccia, in Riv. pen., 1995, p. 674; Cass., sez. III, 12 agosto 1993, Alberino, in Cass. pen., 1994, p. 2161; Cass., sez. fer., 12 agosto 1993, Longo, ivi, 1994, p. 2493; Cass., sez. III, 30 luglio 1993, Amalfi, ivi, 1994, p. 2150; Cass., sez. VI, 18 gennaio 1993, Bono, ivi, 1994, p. 678; Cass., sez. I , 13 ottobre 1992, Malorgio, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 113; Cass., sez. VI, 3 settembre 1992, Oliva, in Cass. pen., 1994, p. 687; Cass., sez. VI, 20 agosto 1992, Panigritti, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 320; Cass., sez. II, 5 giugno 1992, Minniti, ivi, 1992, p. 781; Cass., sez. I, 4 giugno 1992, Pisano, ivi, 1993, p. 146; Cass., sez. I, 18 marzo 1992, Russo, ivi, 1992, p. 597; Cass., sez. fer., 3 settembre 1991, Tartaglia, in Giur. it., 1992, II, c. 270; Cass., sez. fer., 27 agosto 1991, Gusmerini, in Cass. pen., 1992, p. 698; Cass., sez. fer., 20 agosto 1991, Giordano, ivi, 1992, p. 337; Cass., sez. I, 5 luglio 1990, De Rosa, ivi, 1991, II, p. 504. (25) Per alcune precisazioni della prassi giurisprudenziale in ordine ai tre requisiti presenti nella norma dedicata alla valutazione della prova, v. Cass., sez. I, 20 ottobre 1994, Oliveri, in Mass. dec. pen., 200083; Cass., sez. IV, 26 giugno 1992, Di Iorgi, nonché Cass., sez. IV, 25 marzo 1992, Di Giorgio, ambedue in Cass. pen., 1994, p. 368; Cass., sez. VI, 13 dicembre 1991, Grillo, ivi, 1993, p. 2068 (con nota di F.M. IACOVIELLO); Cass., sez. I, 30 gennaio 1991, Bizzantino, ivi, 1392, p. 2795. In dottrina, cfr. D. SIRACUSANO, Le prove, in SIRACUSANO e altri, Diritto processuale penale, I, Milano, 1994, p. 386-387; G. UBERTIS, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, p. 92. Vedi, pure, S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria » nel processo penale, in questa Rivista, 1995, p. 412 ss. (26) Torna immediatamente alla memoria un passo della Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1978, Roma, 1978, p. 212, ove nell’intento di non aderire alle proposte della Commissione consultiva — che voleva qualificare expressis verbis gli indizi come gravi, precisi e concordanti — si obiettò che, in ogni caso, gli indizi per rilevare « ai fini dell’adozione di misure coercitive de[vono] essere ‘gravi e precisi’ (nonché ‘concordanti’ se si tratti, come dovrebbe normalmente accadere, di una pluralità di indizi) ». A questo proposito si veda pure E. MARZADURI, Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), in Dig. disc. pen., Torino, VII, 1994, p. 66; cfr., inoltre, A. GIARDA, Le misure cautelari, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 159, favorevole ad una scissione concettuale dei tre aggettivi ricorrenti nel comma 2 dell’art. 192 c.p.p. (27) Cfr., a titolo d’esempio, Cass., sez. I, 8 giugno 1994, Lo Cascio, in Cass. pen., 1995, p. 2962; Cass. sez. III, 26 luglio 1993, Basile, ivi, 1994, p. 2150; Cass., sez. I, 13 ottobre 1992, Malorgio, cit. V. pure Cass., sez. III, 30 luglio 1993, Amalfi, in Cass. pen., 1994 (nella massima a p. 2153 si rileva che la gravità « può essere desunta anche da un solo elemento, che appaia di per sé significativo e determinante », mentre in quella a p. 2154 si evidenzia che « in pre-


— 1139 — giunge una considerazione: in forza dell’art. 273 c.p.p., la gravità indiziaria è indicativa « di una probabilità — e non di una certezza — di responsabilità dell’indagato in merito all’accusa rivoltagli » (28). In altre parole, per condannare l’imputato l’art. 533 c.p.p. richiederebbe un giudizio « informato a rigorosa certezza » (29), mentre per disporre una misura restrittiva sarebbe bastevole un giudizio di probabilità (30), potendo pervenire a quest’ultimo tramite un accertamento insenza di indizi tra loro contrastanti, è indispensabile utilizzare elementi di rilevante consistenza, dotati di un così alto grado di attendibilità da determinare un complessivo scadimento di quelli opposti. Questi ultimi dovranno pertanto costituire esclusivamente la traccia di una diversa tesi, da sottoporre comunque a ponderata analisi, anche se al limitato fine di disattenderla e conseguentemente di rafforzare il giudizio già espresso »); Cass., sez. VI, 21 luglio 1992, Alesci, ivi, 1994, p. 688 (ove si puntualizza, tra l’altro, che se « alcuni dettagli non marginali dell’indizio risultino contraddittori e qualora emerga che alcune componenti del fatto indiziante appaiono di problematica compatibilità con altre parti dello stesso fatto, il giudice di merito, per formulare il giudizio di gravità, deve sciogliere quella contraddizione e risolvere l’ambiguità, accertando che la compatibilità sussista »). Dal canto suo, definisce « necessaria » la pluralità degli indizi di cui all’art. 273 c.p.p., V. BOSCO (Sull’applicabilità dell’art. 192 comma 3o in materia di misure cautelari, in Crit. dir., 1994, p. 110-111) considerando insufficiente una sola chiamata di correo: un diverso parere è espresso da F. LATTANZI, in tema di indizi richiesti per l’applicazione di misure cautelari, in Cass. pen., 1993, p. 2350 (cfr., pure, S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria », cit., p. 378; T. TREVISSON LUPACCHINI, « Indizio », segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione?, in questa Rivista, 1995, p. 312). (28) Cass., sez. I, 8 giugno 1994, Lo Cascio, cit. La decisione citata rispecchia il prevalente indirizzo giurisprudenziale richiamato, di recente, anche dalla sentenza costituzionale n. 432 del 1995 (in Dir. pen. e proc., 1995, con commento di O. MAZZA, p. 1403 ss.); cfr., infatti, sia pure con variazioni marginali, Cass., sez. I, 25 maggio 1994, D’Urso, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 144; Cass., sez. V, 24 maggio 1994, Anderlini, in Cass. pen., 1995, p. 638; Cass., sez. I, 10 marzo 1994, Comisso, in Riv. pen., 1995, p. 254; Cass., sez. I, 4 febbraio 1994, Mostaccio ed altri, ivi, 1995, p. 254; Cass., sez. I, 19 gennaio 1994, Iamonte, ivi, 1995, p. 120; Cass., sez. VI, 1o gennaio 1994, Greganti, in Cass. pen., 1995, p. 1000; Cass., sez. III, 31 agosto 1993, Di Corrado, ivi, 1994, p. 2154; Cass., sez. III, 12 agosto 1993, Alberino, cit.; Cass., sez. I, 3 marzo 1993, Marras, in Cass. pen., 1994, p. 2166; Cass., sez. II, 28 gennaio 1992, La Rocca, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 597; Cass., sez. I, 23 aprile 1992, Montello, in Cass. pen., 1993, p. 2348; Cass., sez. I, 11 novembre 1991, Nemolato, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 447; Cass., sez. I, 23 aprile 1990, Coppolino, in Cass. pen., 1991, II, p. 506. Sotto la vigenza del c.p.p. 1930, v. Cass., sez. I, 6 febbraio 1989, Siracusa, ivi, 1990, p. 105. (29) L’espressione è di A. GAITO, I criteri di valutazione della prova nelle decisioni de libertate, cit., p. 164. (30) In dottrina — seppur con qualche sfumatura — impiegano il binomio ‘probabilità/certezza’, oltre a A. GAITO (op. cit. loc. ult. cit.), anche: S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria » nel processo penale, cit., p. 378 [« l’accertamento in ordine all’efficacia probatoria del dato o dei dati acquisiti ... si risolve, non già in un giudizio di certezza (una certezza non verificata non è altro che un’ipotesi, una probabilità di certezza), ma bensì in un giudizio che dimostri in modo altamente probabile la colpevolezza dell’imputato »]; V. BOSCO, Sull’applicabilità dell’art. 192 comma 3o in materia di misure cautelari, cit., p. 109;


— 1140 — completo, necessariamente fondato « su elementi probatori non ancora sottoposti a tutte le possibili verifiche » (31). 4. ‘Certo’ e ‘probabile’ nella gnoseologia giudiziaria di civil law. — Stupisce, a questo punto, l’uso disinvolto di due nozioni — come ‘certo’ e ‘probabile’ — che, non sembra fuor di luogo ricordare, hanno giocato un ruolo primario nell’evoluzione della gnosi di civil law. La coppia concettuale in questione, correttamente intesa, confluisce e convive, infatti, nell’impianto dell’inquisitio, contrassegnato da un fermento di idee che aspirano all’assoluto, a ciò che non può essere diverso da come è, ad una forma di sapere ‘certo’ per l’appunto (32). La tradizione inquisitoria — rifiutando « ogni limite, pur di trovare il bandolo della decisione giusta » (33) — si orienta verso un’interpretazione numerica e statistica del probabile, che tende ad assumere toni oggettivi ed è inteso come « frequenza relativa di un evento in una lunga serie di eventi » (34). Parlare di certezza diviene, invece, quasi inaccettabile all’interno del modulo accusatorio — cui fa espresso riferimento la legge-delega del 1987 (35) — che per sua natura ripudia qualsiasi tipo di conoscenza necessaria ed assoluta, considerandola estranea all’esperienza giudizia-

S. LORUSSO, Brevi considerazioni sull’applicabilità dell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. nella valutazione dei « gravi indizi di colpevolezza », in Cass. pen., 1995, p. 2954, il quale condivide la dicotomia giurisprudenziale ‘giudizio di probabilità-giudizio di certezza’, « a patto di conservare inalterata la percezione della sostanziale diversità esistente tra le due situazioni (e tra i due accertamenti) »; A. NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, Milano, 1995, p. 135; S. RAMAJOLI, Le misure cautelari (personali e reali) nel nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 40. V., infine, V. ADRIANI, Brevi osservazioni in tema di misure cautelari tra vecchio e nuovo rito, in Cass. pen., 1990, p. 109; F. PERONI, Chiamate di correo, dichiarazioni de relato e standards di gravità indiziaria nell’adozione di misure cautelari, ivi, 1994, p. 679, il quale esclude che « a presupposto delle misure de libertate » sia esigibile « il grado di certezza necessario per una decisione in ordine alla responsabilità dell’imputato ». Cfr., altresì, meno di recente, G. DE LUCA, Lineamenti della tutela cautelare penale, cit., p. 83 e 155. (31) A. NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, cit., p. 134 e cfr. pure p. 156. La stessa puntualizzazione si rinviene in Cass., sez. V, 24 maggio 1994, Anderlini, cit. (32) N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Napoli, 1886, p. 239, fa discendere l’aggettivo ‘certo’ dal latino certus (chiaro, evidente), spiegando che il termine ben si adatta a « cosa distintamente veduta; e però da non lasciare luogo a dubbio ». (33) F. CORDERO, Scrittura e oralità, in ID., Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 201. (34) A. GIULIANI, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1961, p. 14. Si veda, inoltre, G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., p. 86-87. (35) Esordio art. 2 comma 1 legge 16 febbraio 1987 n. 81.


— 1141 — ria (36) e, più in generale, alle vicende umane, contingenti e « non riproducibili » (37). L’assetto procedurale accusatorio rafforzatosi nel corso dei secoli — non un archetipo astratto, senza collocazione spazio-temporale — è pervaso da una ‘dimensione umana’ del probabile (38), misurabile grazie ad una scala che indica i gradi di conferma progressivamente raggiunti dall’ipotesi accusatoria (39). L’unità stabilita come termine di rapporto per compiere una determinazione del genere è la ragionevolezza, non a caso pilastro insostituibile del sistema giudiziario angloamericano e, al tempo stesso, parametro di rara complessità (40). (36) « ... è proprio nell’uomo colto ... richiedere in ciascun campo tanta precisione quanta ne permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere dimostrazioni da un oratore »: ARISTOTELE, Etica Nic., I, 3, 1094, b, 25 (il corsivo è mio). La certezza — è stato incisivamente scritto — come « il dubbio ‘morali’ sono proscritti dalla gnoseologia giudiziaria » (F. CORDERO, Il procedimento probatorio, in ID., Tre studi, cit., p. 46 nt. 106; si legga pure la precedente nt. 105 a p. 45). Su quest’ampia problematica cfr. i contributi di P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in ID., Studi sul processo penale II Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 53; V. GIANTURCO, La prova indiziaria, Milano, 1958, p. 169; G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., p. 112. (37) In proposito, cfr. C. PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in AA.VV., La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 207. N. FRAMARINO DEI MALATESTA, La logica delle prove in criminale, Torino, 1895, p. 4647, introduce, invece, una netta cesura tra i giudizi « semplicemente probabili » che guidano l’uomo nelle « varie ed ordinarie contingenze della vita » e « l’accertamento del fatto criminoso che dicesi avvenuto » improntato a criteri di rigorosa certezza. (38) Fin dall’antichità, nell’ambito delle tecniche del ragionamento argomentativo, il probabile appare in stretta connessione con il carattere ipotetico del fatto ed è strumento di cui non può farsi a meno poiché genera un sapere del tutto peculiare: nell’impossibilità di penetrare a fondo la realtà degli avvenimenti umani, relativi ed accidentali, si evita lo scetticismo radicale, che potrebbe emergere di conseguenza, attraverso l’individuazione e la scelta della probabilità migliore. Si coglie la presenza di una scala di probabilità (QUINTILIANO, Institutio oratoria, V, 10, 16), il cui vertice non è occupato da ciò che è preferibile, perché più frequentemente accade; è migliore, invece, la probabilità degna di approvazione, anche e soprattutto da un punto di vista morale: la teoria è improntata a un criterio etico, sostenuta dall’opinio, direttrice d’azione, base del normale, riposta in communi omnium intellectu (ID., op. ult. cit., V, 10, 18). La dimensione umana conduce a indulgere nei confronti della probabilità contraria a quella che si prospetta come la più opportuna, fino a non respingerla completamente (A. GIULIANI, Il concetto di prova, cit., p. 146): ma chi argomenta contro la probabilità migliore ha l’onere di provare quanto sostiene (v., nuovamente, ID., op. cit., p. 104 ss., 164 e 239). (39) V. G. GULOTTA, Il giurista in quanto solutore di problemi, in AA.VV., La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, a cura di L. De Cataldo Neuburger, Padova, 1988, spec. p. 187; a proposito del ruolo primario dell’ipotesi nella ricostruzione fattuale, cfr. C. PIZZI, Oggettività e relativismo, cit., p. 208. (40) Cfr. D.P. GENTILE, Il diritto delle prove penali, in Il processo penale negli Stati


— 1142 — 5. Gradi di conferma dell’ipotesi accusatoria e probabilità di colpevolezza: i gravi indizi nella fase investigativa. — Avvalendosi, pertanto, di questo standard si ordina una piramide. Pur con tutte le sue imperfezioni e carenze, da essa può forse trarsi qualche insegnamento. Ad un patto: quello di non perdere di vista, pena l’incomprensione del sistema, la relatività probatoria (41), fenomeno poliedrico che attraversa verticalmente e orizzontalmente la trama procedimentale (42). In ordine crescente si incontra, dapprima, la fase in cui l’ipotesi accusatoria non è ancora verificata, formulata com’è sulla base di dati astrattamente verosimili, suscettibili di sviluppi in buona parte imprecisati. La colpevolezza è qui solo possibile (43) e, rientrando nei limiti di una razionale supposizione, originata da « semplici sospetti, cioè ... credenze o opinioni subiettive dell’inquirente » (44), ha un esiguo spessore che non incide sullo status libertatis dell’individuo (45). Uniti d’America, a cura di E. Amodio e M. Cherif Bassiouni, Milano, 1988, p. 207; il criterio di reasonableness compare tutte le volte in cui l’organo giurisdizionale effettua il controllo sulla fondatezza dell’accusa, dell’arresto e della perquisizione (v. F. DE FRANCHIS, Dizionario giuridico, Milano, 1984, p. 1194; utile, inoltre, appare la consultazione delle Rules of criminal procedure, specialmente la rule 4 e la rule 5). Si rammenta che la tutela costituzionale contro eventuali arresti irragionevoli non è nel modello americano percepibile con immediatezza, sancendo piuttosto il quarto emendamento il diritto inviolabile dei cittadini contro perquisizioni (searches) e sequestri (seizure) unreasonable: l’arresto finisce così per integrare una particolare ipotesi di sequestro di persona. (41) Sull’argomento, si confrontino soprattutto M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, in Commento al nuovo codice di procedura penale, cit., p. 384, nonché G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 18 ss.; v., inoltre, G. COLOMBO, L’acquisizione degli elementi di prova nelle indagini preliminari, in questa Rivista, 1992, p. 1299 e G. ICHINO, La terzietà del giudice per le indagini preliminari: un problema aperto, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, Milano, 1994, p. 229. (42) Ed infatti, accade che una determinata conoscenza giudiziale possa esser utilizzata « in certe fasi di uno stesso procedimento e non in altre » (relatività in senso verticale), oppure solo « per talune decisioni di una stessa fase » (relatività in senso orizzontale): vedi M. NOBILI, op. cit. loc. ult. cit. (43) La scelta è ricaduta su un simile aggettivo dato l’impiego già fattone da dottrina e giurisprudenza (v. infra nt. 45). (44) V. GIANTURCO, La prova indiziaria, cit., p. 70. Sulla nozione di sospetto, distinta in termini « quantitativi » da quella di indizio, nel senso che l’elemento di sospetto « costituisce per così dire, un anello più lontano o più debole dell’elemento indiziario lungo la catena che può condurre alla verifica dell’oggetto di prova », v. G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 48 (cfr., pure, p. 49). (45) ...anche se, lamenta M. SCAPARONE, La libertà personale, in AA.VV., Il codice di procedura penale. Esperienze, valutazioni, prospettive, Milano, 1994, p. 114, « si ha spesso la sensazione che la misura cautelare sia applicata quando l’ipotesi che l’inquisito abbia commesso il reato appaia semplicemente non del tutto fondata ». Ribadisce che la « rilevanza » del materiale probatorio deve essere « tale da avvalorare non già la mera possibilità, ma la ragionevole probabilità che l’imputato sia colpevole del reato che gli viene attribuito », Cass. sez. I, 2 gennaio 1990, Gerola, in Mass. dec. pen., 190051.


— 1143 — Il secondo gradino è occupato da una sorta di colpevolezza sensatamente probabile che si raggiunge — proseguendo nelle operazioni di controllo e confronto dell’ipotesi di partenza — quando sono presenti « elementi conoscitivi di varia natura, di per sé idonei a concretare soltanto una situazione di fumus commissi delicti » (46). A questo livello, tuttavia, i gravi indizi di colpevolezza (47) che, unitamente alle esigenze cautelari, legittimano l’adozione dell’ordinanza de liSulla base del distinguo, ‘possibile/probabile’ C.U. DEL POZZO, La libertà personale nel processo penale italiano, Torino, 1962, p. 264, puntualizza che « l’ordinamento non potrebbe ammettere irreversibili sacrifici di diritti fondamentali senza un minimo di garanzie che la situazione finale sia non solo possibile, ma anche probabile ». (46) V. GREVI, Prove, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 201; cfr., pure, sempre dello stesso Autore, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, cit., p. 149. La giurisprudenza del Supremo Collegio — con qualche oscillazione — ha ripetuto più volte che « il quadro indiziario nel suo complesso » deve « indicare come altamente probabile la responsabilità dell’indagato in ordine al fatto addebitatogli » (Cass., sez. I, 19 ottobre 1993, Moccia, cit.; cfr., pure, Cass., sez. I, 26 gennaio 1994, Damiani, in Riv. pen., 1995, p. 254; Cass., sez. I, 19 gennaio 1994, D’Oronzo, ivi, 1995, p. 120; Cass., sez. I, 3 marzo 1992, Biacca, in Cass. pen., 1993, p. 1504 e Cass., sez. I, 9 luglio 1990, Morra, ivi , 1991, II, p. 505). Talvolta si pretende che i gravi indizi di cui all’art. 273 siano in grado di rilevare « un consistente fumus di colpevolezza, pur in presenza di spiegazioni alternative dei fatti, destinate ad esser verificate in prosieguo » (Cass., sez. I, 7 febbraio 1991, Caparrotta, ivi, 1993, p. 1505 e vedi anche Cass., sez. VI, 13 giugno 1991, Gonnella, ivi, 1992, p. 2420). Con precipuo riferimento al c.p.p. del 1930, misura l’idoneità degli indizi a legittimare il provvedimento di cattura sulla base della « probabilità di un futuro giudizio di colpevolezza », Cass., sez. I, 19 settembre 1988, Gritti, in Cass. pen., 1989, p. 1033. Cfr., altresì, Cass., sez. I, I7 ottobre 1988, Tedesco, ivi, 1990, p. 117 e Cass., sez. I, 16 febbraio 1987, Gangemi, ivi, 1988, p. 653 (con nota di R. PACIONI, e indicazioni di precedenti giurisprudenziali). (47) Pur consapevoli delle specificità insite in ogni impianto processuale, è di rigore il parallelo con la probable cause del sistema americano (v. M. MOLLO, La polizia giudiziaria tra « crime control » e « due process », in AA.VV., Il processo penale statunitense. Soggetti ed atti, a cura di R. Gambini Musso, Torino, 1994, p. 5, nonché B.J. GEORGE JR., La fase anteriore al dibattimento, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, cit., p. 77, il quale ricollega, però, lo standard di ragionevolezza alla sussistenza di indizi « sufficienti »), che giustifica l’arresto e ricorre tutte le volte in cui la gamma di informazioni è tale da provocare in un uomo di ordinaria prudenza il convincimento che il prevenuto abbia commesso un reato. Sul punto, si confrontino M. CHERIF BASSIOUNI, Lineamenti del processo penale e M. PAPA, Brevi spunti sulle rules of evidences, ambedue in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, cit., rispettivamente p. 57 ss. e 369; V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Torino, 1987, p. 75 ss.; M. SCAPARONE, « Common law » e processo penale, Milano, 1974, p. 5 ss. Con particolare riguardo all’esperienza inglese, vedi G. BIANCHI, I « committal proceedings » nel processo penale inglese e l’udienza preliminare in quello italiano: analogie e differenze, in questa Rivista, 1993, p. 736 ss. Lo stesso canone, non innalzato fino al livello di una substantial probability, è richiesto per ridurre l’incolpato in vinculis nelle more del giudizio (pretrial detention); ciò ha suscitato riserve di natura costituzionale: vedi, ampiamente, A. GASPARINI, Il prosecutor e le scansioni dell’azione penale, in Il processo penale statunitense, cit., p. 66 ss.


— 1144 — bertate, compongono ancora un substrato troppo fluido e sfuggente per sopportare rigide demarcazioni. Del resto, estremamente elastica è l’intera fase delle indagini preliminari, scandita da investigazioni non indirizzate solo « verso risultati aleatoriamente acquisibili in dibattimento » (48), caratterizzata, quindi, da una « realtà mobilissima » (49) e, cosa che più conta, da un continuo mutamento « della valutazione di gravità degli indizi » (50). In questa prospettiva, il parametro della gravità — specie se paragonata alla « persin superflua » sufficienza ex art. 252 c.p.p. 1930 (51) — suona anche come monito per l’organo giurisdizionale (52) che, nel ponderare con attenzione quanto raccolto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria senza il filtro del contraddittorio (53), dovrebbe rilevare, (48) G. COLOMBO, L’acquisizione degli elementi di prova nelle indagini preliminari, cit., p. 1304. (49) G. DE LUCA, Lineamenti della tutela cautelare, cit., p. 45. (50) G. ICHINO, La terzietà del giudice per le indagini preliminari: un problema aperto, cit., p. 228. (51) ...superflua, perchè — secondo G. GALLI, La politica criminale in Italia negli anni 1974-1977, Milano, 1978, p. 40 — « un indizio che non sia ‘sufficiente’, non è neppure un indizio ». Cfr., pure, C.U. DEL POZZO, La libertà personale nel processo penale italiano, cit., p. 261; E. FASSONE, Riflessioni sul tema della prova, in Quest. giust., 1985, p. 518; V. GREVI, Libertà personale e Costituzione, cit., p. 148 ss. In numerose pronunzie, la Suprema Corte ha rilevato che il « concetto di gravità dell’indizio » — contenuto nell’ultima versione dell’art. 252 c.p.p. 1930, così risultante a seguito della legge 5 agosto 1988 n. 330 — « non può identificarsi con quello di sufficienza da cui si distingue sia qualitativamente, sia quantitativamente » (Cass., sez. I, 12 agosto 1993, Alberino, cit.); v. Cass., sez. I, 12 febbraio 1992, Liguori, in Cass. pen., 1994, p. 105 e Cass., sez. I, 8 febbraio 1989, Siracusa, cit. (52) Ed infatti, nel motivare la scelta dell’aggettivo « gravi », il legislatore delegato adduce la convinzione — nonostante sia pressoché impossibile « tracciare ... linee di demarcazione nettissime » — che il mutamento, rispetto alla tradizionale formula dei sufficienti indizi di colpevolezza, esprima « un’indicazione di alto valore e di significato rilevante per gli operatori » (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale in Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 71), rivolta verso un’« adeguata responsabilizzazione del giudice »: così S. DRAGONE, Misure cautelari, cit., p. 406; v. pure, L. SARACENI, Il sistema cautelare nel nuovo processo penale: lineamenti generali e valori di fondo, in AA.VV., Contributi allo studio del nuovo codice, cit., p. 170. (53) « Senza il contraddittorio » — asserisce G. GIOSTRA, Il giudice per le indagini preliminari, cit., p. 1281 — « il giudice può anche vedere tutto, ma vede tutto in una prospettiva unidimensionale », « per certi versi fisiologica e ineliminabile », aggiunge G. FRIGO, commentando le innovazioni legislative dell’agosto 1995 (Commento all’art. 8, in La riforma della custodia cautelare, cit., p. 10). Cfr., altresì, P. FERRUA, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini e nell’udienza preliminare, in ID., Studi sul processo penale, Torino, 1990, p. 60, il quale dall’assenza del contraddittorio fa discendere « una ragione in più per soppesa[re] » i gravi indizi ex art. 273 c.p.p. « con cautela e soprattutto per ammettere l’applicabilità dell’art. 191 ».


— 1145 — anche d’ufficio, l’eventuale inutilizzabilità del materiale illegittimamente acquisito (54). S’impone, dunque, un esame scrupoloso degli indizi ad custodiendum, onde evitare che dietro la non necessità di allegazioni decisive (55) e la « minor valenza probatoria degli elementi » indispensabili « per esprimere un giudizio di colpevolezza probabile, anzichè ... certa » (56) finiscano per celarsi « eccessive disinvolture sul piano applicativo » (57), ed analisi poco approfondite. Analisi che potrebbero trarre origine dalla tendenza ad associare il giudizio di probabilità alla incompletezza dell’accertamento (58): un binomio discutibile, poiché confonde la variazione quantitativa dei dati informativi a disposizione del giudice con la correttezza metodologica di quest’ultimo nell’effettuare la ‘stima’ in termini di probabilità. Come dire che l’attuale sottrazione al conoscere giudiziale di uno o più elementi dell’insieme indiziario, prevista dall’art. 291 comma 1 (54) Uno spunto prezioso a sostegno di ciò, è reperibile nella Relazione al codice di procedura penale, in Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1988, cit., p. 181, e, precisamente, nella parte in cui si nota che le disposizioni generali sulla prova sono « tendenzialmente » rivolte « a regolare anche l’attività della fase investigativa e non solo quella della fase della decisione »: con queste parole, infatti, si accompagna la sostituzione — nel comma 1 dell’art. 191 c.p.p. — del concetto di « ammissione » con « acquisizione »: v. A. SCELLA, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in questa Rivista, 1992, p. 207 ss. Sull’argomento, v. G.P. VOENA, Attività investigativa ed indagini preliminari, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, Padova, 1989, p. 46, laddove dà particolare risalto al fatto che l’atto « contrastante con la regola di esclusione probatoria non solo diviene insuscettibile di entrare a far parte della documentazione » rimessa dall’accusa al giudice allo scopo « di ottenere un provvedimento coercitivo della libertà personale ... ma non può neppure figurare nella motivazione di un atto emesso » dal pubblico ministero. Oltre al passo di P. FERRUA, op. loc. ult. cit., cfr.: F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1993, p. 741 [ex art. 291 « è valutabile tutto, meno le prove invalidamente acquisite (art. 191) e i dati irrilevanti ai fini del processo, definiti tali da una norma ... artt. 350 c. 6 e 226 att. »]; A. GAITO, I criteri di valutazione della prova, cit., p. 164; N. GALANTINI, Inosservanza di limiti probatori e conseguenze sanzionatorie, in La conoscenza del fatto nel processo penale, cit., p. 186, secondo la quale « l’inutilizzabilità di un atto produce, già nell’ambito della fase in cui il medesimo è formato, l’invalidazione del provvedimento che sul medesimo si fondi, cosicché, ad esempio, dovrebbe risultare viziato ... il provvedimento che dispone l’adozione di una misura cautelare a fronte di elementi ... emergenti da una attività di perquisizione-sequestro vietata »; V. GREVI, Prove, in Profili, cit., p. 201, che nel far riferimento agli indizi ‘cautelari’, impiega l’espressione « elementi legittimamente acquisiti ». (55) Cass., sez. VI, 18 gennaio 1993, Bono, cit. (56) Cass., sez. III, 31 agosto 1993, Di Corrado, cit. (57) V. GREVI, Il sistema delle misure cautelari personali nel nuovo codice di procedura penale, in AA.VV., La libertà personale dell’imputato verso il nuovo processo penale, a cura di V. Grevi, Padova, 1989, p. 272. Rammenta E. FASSONE, Riflessioni sul tema della prova, cit., p. 509, che « uno dei modi di rispondere più efficacemente alla domanda di difesa sociale può essere quello di abbassare il livello di probabilità richiesto per poter predicare il fatto investigato ». (58) Cfr. supra par. 3 e spec. nt. 31.


— 1146 — c.p.p. (59), non autorizza l’organo giurisdizionale a seguire un excursus valutativo — sull’idoneità delle risultanze investigative ad assurgere a rango di grave indizio — incompleto, parziale e superficiale. 6. La gravità indiziaria ad accusa formulata. — Successivamente, affinché la configurazione dell’ipotesi accusatoria possa superare il vaglio del giudice nell’udienza preliminare, la probabilità — per dirla con le parole di common law — che « a crime has been committed, and that the person under investigation committed the crime » (60) dovrebbe essere ragguardevole (61). Bisogna subito avvertire, peraltro, come ciò non equivalga a « dar[e] senz’altro per sussistente » — oltrepassata la soglia del promuovimento dell’azione penale — « il requisito dei gravi indizi » (62). È sintomatico, a questo proposito, che abbia registrato una battuta d’arresto l’indirizzo giurisprudenziale — in via di progressivo consolidamento dopo la soppressione della parola « evidente » nel testo originario dell’art. 425 comma 1 c.p.p. (63) — diretto a precludere, una volta disposto il giudizio, la « proposizione » e l’« esame di ogni questione attinente alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza » (64). (59) La mancata ostensione dell’intero fascicolo investigativo — tuttora esclusa dalla nuova formulazione dell’art. 291 (v. supra nt. 14 e 16) — fa sì che il giudice, durante le indagini preliminari, pur godendo « di pieni poteri di disporre restrizioni alla libertà personale » abbia « una cognizione gravemente limitata »: la sua, insomma, sarebbe « una giurisdizione senza cognizione » (E. ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e di ricerca della prova, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, Milano, 1995, p. 70-71). (60) Vedi G.S. KATZAMANN, Inside to the criminal process, New York-London, 1991, p. 110 e p. 105: qui, in particolare, vengono individuati i due contrapposti ruoli del grand jury che è non solo ‘spada’ « against criminal conduct », ma anche, nel momento in cui considera, al pari del magistrato del preliminary hearing, la sussistenza della probable cause, ‘scudo protettivo’ dell’accused « against the power of the executive branch, personified by the prosecutor ». Cfr. A. GASPERINI, Il prosecutor e le scansioni dell’azione penale, in Il processo penale statunitense, cit., p. 83, laddove ricorda che alcuni Stati adottano dinanzi ai grand jury il parametro della prima facie evidence « per la quale la fondatezza dell’accusa deve essere valutata sulla base dell’idoneità, ad accreditare la condanna dibattimentale, delle risultanze investigative ». V., inoltre, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, cit., p. 93 e spec. nt. 31. (61) Avvalorata — giova di nuovo sottolineare — da una piattaforma conoscitiva diversa rispetto a quella su cui si fonda l’ordinanza cautelare eventualmente adottata nel corso delle indagini (vedi supra par. 2). (62) È questa l’osservazione di O. DOMINIONI, Misure cautelari, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, III, parte seconda, p. 6, dopo aver peraltro affermato che « l’esercizio del potere cautelare richiede un fondamento ... solido » simile a quello necessario per « inscenare a carico dell’imputato il giudizio pubblico ». (63) Si veda l’art. 1 legge 8 aprile 1993 n. 105. (64) Cass., sez. I, 30 novembre 1993, Russo, in Giust. pen., 1994, c. 396. Cfr., al-


— 1147 — Per una parte della giurisprudenza di legittimità, infatti, le ripercussioni del rinvio a giudizio sulla materia de libertate non sarebbero automatiche: il decreto che dà impulso allo stadio successivo e funge da vocatio in iudicium, pertanto, « non implica, di per sé » la gravità indiziaria « nel senso indicato nell’art. 273, essendo sufficiente ... che non sussitresì, Cass., sez. I, 13 febbraio 1995, Nania, Mass. dec. pen., 200932; Cass., sez. I, 17 ottobre 1994, Modeo, in Giur. it., 1995, II, c. 478, con osservazioni critiche di S. PRESTIPINO, Sui ‘limiti’ del riesame dopo il rinvio a giudizio; Cass., sez. I, 11 novembre 1991, Sottoferro, in Cass. pen., 1993, p. 383 e, vigente il c.p.p. 1930, Cass., sez. I, 24 ottobre 1989, Scrudato, ivi, 1991, p. 106. In questa direzione, v. pure, Cass., sez. V, 21 marzo 1994, Bonifati, ivi, 1994, p. 2745: la Suprema Corte si rivolge, in particolar modo, al giudice dell’impugnazione, il quale se dovesse pronunciarsi in merito all’esistenza di gravi indizi ex art. 273 c.p.p., legittimanti — nel corso delle indagini — l’emissione di un provvedimento restrittivo, interferirebbe sulla decisione dibattimentale: una sovrapposizione questa, che non può ritenersi consentita né al tribunale del riesame, né alla Suprema Corte (cfr. Cass., sez. I, 10 maggio 1994, Magellano, in Riv. pen., 1995, p. 519). La sentenza in esame contempla poi l’ipotesi in cui il giudice sia « chiamato a decidere sull’emissione di una misura cautelare o sulla revoca » ed aggiunge che egli « non sarebbe ... in grado prima del dibattimento » di valutare la gravità indiziaria a causa della mancata conoscenza del fascicolo del pubblico ministero » (in senso contrario, v. Cass., sez., 30 giugno 1993, Delli Gatti, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 573; v., inoltre, Cass., sez. I, 9 luglio 1990, Lo Cicero, in Cass. pen., 1991, II, 500, con nota di M. VESSICHELLI). In dottrina si confrontino l’opinione espressa da F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 741, il quale circoscrive « l’orizzonte ... al fascicolo del dibattimento » quando « la richiesta cautelare segua al rinvio a giudizio », e le riflessioni di E. MARZADURI, Misure cautelari personali, cit., p. 65-66, tese a scongiurare il pericolo di una « ingiustificata ... ‘immunità’ cautelare per l’imputato », concedendo all’accusa la possibilità di « fondare la richiesta dell’adozione di una misura ... esclusivamente su elementi ... non utilizzabili o non pienamente utilizzabili ai fini della decisione dibattimentale ». Nel caso in cui si tratti di revocare un provvedimento coercitivo predisposto nel corso delle indagini, il giudice del dibattimento (la cui competenza cautelare si radica con il ricevimento degli atti trasmessi ai sensi dell’art. 432 c.p.p.: in tal senso, Cass., sez. un., 24 marzo 1995, Marchese, in Cass. pen., 1995, p. 2122) dispone non solo di quanto contenuto nel fascicolo contemplato dall’art. 431 c.p.p., ma anche della documentazione relativa alla misura in corso, costituente il c.d. fascicolo della libertà personale. Sull’argomento, vedi — oltre a Trib. Vercelli, 14 marzo 1991, Ciuccio, in Foro it., 1992, II, c. 653 — R. D’ISA, Osservazioni sulla disciplina del fascicolo per il dibattimento, in questa Rivista, 1992, p. 1097; A. MURA, Le misure cautelari personali, in Quad. CSM, 1989, 28, p. 146. Dal canto suo, G. FRIGO, Art. 432, in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1990, IV, p. 738, si domanda « perché mai debba assumersi come referente necessario il provvedimento anteriore ... superato e superabile nei suoi stessi presupposti ‘probatori’ », ricavando un argomento dall’art. 526 c.p.p., per sostenere che in iudicio « ogni valutazione ... sul merito ... sulle cautele ... deve discendere solo dalle prove legittimamente acquisite in dibattimento ». In questo modo non si sfrutta adeguatamente l’estrema dinamicità insita nella concezione relativistica della prova, che permette di attingere al dossier ex art. 432 c.p.p. per i soli fini cautelari, ma non in vista della decisione sul merito; ciò che rimane fuori dal fascicolo dibattimentale ed è solo allegato ad esso « non potrà esser letto » a scopo probatorio: v. A. CAMON, La motivazione del rinvio a giudizio, in Foro it., 1995, II, c. 173.


— 1148 — stano le condizioni per la pronuncia » della sentenza di non luogo a procedere (65). In esito all’udienza preliminare, il giudice potrebbe propendere per il rinvio a giudizio anche nel caso in cui il mosaico probatorio si presenti insufficiente o contraddittorio (66). Una situazione questa che, impedendo (65) Cass., sez. I, 26 ottobre 1994, Barbaro, Mass. dec. pen., 200016. V., inoltre, Cass., sez. II, 28 gennaio 1994, La Delia, in Giust. pen., 1994, c. 396 (nella massima si asserisce che « non vi è concomitanza tra i presupposti del rinvio a giudizio, costituiti » — anteriormente alla modifica dell’art. 425 c.p.p. — « dalla sola non evidenza dell’innocenza, e quelli richiesti dall’art. 273, comma 1... rappresentati dalla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza ») ed anche Cass., sez. VI, 8 marzo 1993, De Maria, in Riv. pen., 1994, p. 224. Tra questo orientamento e quello antitetico — segnalato supra nt. 64 — rappresentano una sorta di posizione intermedia le pronunzie disposte a rimettere in discussione il requisito di cui all’art. 273 comma 1 c.p.p. alla sola « condizione che ciò non dia luogo a contrasto con altre statuizioni adottate da organi giurisdizionali nell’ambito del medesimo procedimento, a cui fondamento sia posta, esplicitamente o implicitamente, la sussistenza dei detti indizi. Tale possibilità è pertanto da escludere, in assenza di nuovi fatti, quando vi sia già stata pronuncia di condanna », l’instaurazione del giudizio immediato o del giudizio direttissimo. Invece, la possibilità in questione « può... essere ammessa quando si sia in presenza di fatti sopravvenuti, ancorché successivamente a pronuncia di condanna, ovvero quando », pur mancando tali fatti e non essendo intervenuta la condanna, il giudice abbia emesso decreto di rinvio a giudizio « fondato unicamente sul presupposto della non evidenza » (Cass., sez. VI, 28 luglio 1992, De Chirico, in Cass. pen., 1994, p. 346; analogamente, Cass., sez. I, 21 febbraio 1992, Acanfora, ivi, 1993, p. 378 con osservazioni critiche di P. DELL’ANNO, ed anche Cass., sez. VI, 23 novembre 1993, Morabito, in Giust. pen., 1994, c. 495). Questa interpretazione è accolta da Cass., sez. V, 16 febbraio 1994, Marando, in Cass. pen., 1994, p. 2748 (con nota adesiva di M. GIACCA, In tema di rivalutazione dei gravi indizi di colpevolezza dopo il rinvio a giudizio): posto che l’attuale formulazione dell’art. 425 c.p.p. « richiede un accertamento positivo della colpevolezza dell’imputato », la sentenza ravvisa « in materia di libertà personale, una preclusione alla rivalutazione del presupposto probatorio delle misure cautelari ... anche, in mancanza di fatti sopravvenuti », nell’ordinario rinvio a giudizio. V., inoltre, Cass., sez. I, 13 febbraio 1995, Greco, Mass. dec. pen., 200774; Cass., sez. I, 17 ottobre 1994, Secci, ivi, 199957; Cass., sez. I, 11 ottobre 1994, Falcone, ivi, 199685. (66) E ciò dal momento che sono assai numerose e consistenti le differenze tra la sentenza di proscioglimento dibattimentale e la sentenza di cui all’art. 425 c.p.p. « perché si possa persuasivamente sostenere che per questa debbano valere le medesime regole decisorie previste per quella »: G. GIOSTRA, L’archiviazione, Torino, 1994, p. 37. Si confrontino, pure, le sentenze costituzionali n. 64 del 1991 (v. supra nt. 23) e n. 381 del 1992, in Giur. cost., 1992, p. 3071 ss. Condividono l’« improponibilità di una applicazione, anticipata alla fase preprocessuale, della regola di giudizio stabilita dall’art. 530 comma 2 » oltre a A. PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, p. 1389, anche D. MANZIONE, Art. 425, in M. CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, secondo aggiornamento, Torino, 1993, p. 217-218 e M. VOGLIOTTI, Commento all’art. 1 l. 8 aprile 1993, n. 105, in Leg. pen., 1993, p. 453. Un parere contrario è invece espresso da G. ILLUMINATI, Per il « non luogo a procedere » non è più richiesta l’evidenza, in Gazzetta Giuffré-Italia Oggi, 7 maggio 1993, p. 1415; G. LOZZI, Udienza preliminare, relazione al Convegno su Il diritto di difesa dalle inda-


— 1149 — « di ritenere altamente probabile la condanna finale », dovrebbe precludere « il ricorso alle misure cautelari personali » (67). 7. ‘Provvisorietà’ dei gravi indizi di colpevolezza e verifica in iudicio. — Al vertice dello schema gerarchico, approssimativamente delineato, si colloca, infine, sempreché non si opti per forme processuali semplificate, la fase dibattimentale, preludio « all’elaborazione dei risultati che determinano se l’ipotesi è stata accettata oppure no (sentenza) » (68). Il dibattimento è spesso additato come punto su cui calibrare la provvisorietà degli indizi cautelari, finendo il termine ‘provvisorio’ per coincidere — nel linguaggio della dottrina — con ciò che viene usato in anticipo rispetto al contraddittorio che si svolge nell’udienza pubblica (69). gini preliminari ai riti alternativi, cit., p. 7-8 del dattiloscritto; G. NEPPI MODONA, Indagini e udienza preliminare, in Profili del nuovo codice, cit., p. 393-394. Vedi, altresì G. BIANCHI, I « committal proceedings » nel processo inglese e l’udienza preliminare in quello italiano, cit., p. 760-761. A. CAMON, La motivazione del rinvio a giudizio, cit., c. 174, nel mettere in guardia circa le insidie che un rinvio a giudizio motivato può procurare alla persona imputata, considera « la lesione... ancora maggiore » nel caso in cui trovi accoglimento pratico la tesi dell’identità di criteri decisionali (nell’udienza preliminare, nel dibattimento): l’organo giurisdizionale nel dibattimento « avrebbe... sotto gli occhi un decreto che gli spiega perché la prova (di regola, prova d’accusa) non sia insufficiente, né contraddittoria; l’imputato partirebbe in netto svantaggio ». (67) In questi termini, E. MARZADURI, Misure cautelari personali, cit., p. 66. (68) V. G. GULOTTA-G. CESARO, Il processo come complesso di problemi: come affrontarne le scelte, in AA.VV., Strumenti concettuali per agire nel nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 5. (69) Gli « indizi autorizzanti l’adozione di una misura cautelare consist[ono] in materiale decisorio che si diversifica dalla prova soltanto per la mancanza del contraddittorio, per effetto dell’anticipata utilizzazione rispetto alla verifica dibattimentale »: così scrivono sia A. GAITO, I criteri di valutazione della prova nelle decisioni de libertate, in AA.VV., Materiali d’esercitazione, cit., p. 162, sia G. GARUTI, La valutazione della prova nelle decisioni de libertate, cit., p. 348. Quest’ultimo rinvia poi a N. LAURO, Note in tema di prova indiziaria e presunzioni, in questa Rivista, 1980, il quale, però, più genericamente, e non solo in relazione alla quaestio libertatis, fa riferimento a « un materiale probatorio che ancora deve subire decisive verifiche »: in esso, aggiunge, « trovano spazio elementi di prova che si eleveranno nel prosieguo a prove concrete, ma che in tali fasi ancora coesistono confusamente con elementi dei quali successive verifiche paleseranno l’irrilevanza » (p. 1413). Nella medesima direzione, si confronti A. BAUDI, Il potere cautelare nel nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 46 ed anche T. TREVISSON LUPACCHINI, « Indizio », segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione?, cit., p. 312 nt. 18, dove si rileva che l’aggettivo « ‘provvisorio’ sta a qualificare un giudizio espresso in un momento cronologico nel quale non si è ancora dato fondo alle risorse dell’investigazione e, comunque, almeno di regola basato su ‘prove artificiali’ e/o ‘critiche’ non ancora sottoposte al vaglio del contraddittorio ». Dal canto suo, S. BATTAGLIO, « Indizio » e « prova indiziaria » nel processo penale, cit., p. 377, fa proprie le osservazioni formulate da M. CHIAVARIO, Art. 273, in Commento,


— 1150 — L’orientamento sembra avere ancora come modello di riferimento la sagoma del sistema previgente. Una ‘proiezione dibattimentale’ delle circostanze indizianti (70) era comprensibile quando la permeabilità del giudizio rispetto ai risultati delle pregresse attività istruttorie si presentava illimitata (71) e, per effetto delle tendenze involutive della giurisprudenza, il libero convincimento del giudice « trae[va] ... alimento da tutto ciò che anche per un solo istante » aveva fatto la sua comparsa « sulla scena del processo » (72). Ora, invece, non deve dimenticarsi che la verifica coram partibus è eventualità scarsamente consistente. Ad essa si potrebbe non pervenire per svariate ragioni: non è recondita la possibilità che « fatti sopravvenuti rovescino l’accusa o comunque la neutralizzino » (73); la vicenda giudiziaria potrebbe concludersi con un rito ablatore del dibattimento; il dato investigativo, qualificato nel corso delle indagini come grave indizio, potrebbe risultare non recuperato (o non recuperabile) nell’istruzione dibattimentale (74). Non esistendo un rapporto consequenziale tra gravità indiziaria e valorizzazione sul piano probatorio degli atti della fase prodromica (75), sarebbe opportuno concentrare l’attenzione sulla verifica interna all’iter cautelare: infatti, è in sede d’impugnazione, davanti al tribunale del riesame, che prende forma un « inizio di vero contraddittorio tra parti contrapposte » di fronte « a un giudice terzo » (76). Maggiori vantaggi potrebbero, inoltre, ottenersi ricorrendo all’aggettivo ‘provvisorio’ per denotare l’intero provvedimento de libertate. In quecit., p. 32, sui caratteri di ‘provvisorietà’ e ‘incompletezza’ delle ‘valutazioni indiziarie’, inquadrando cronologicamente la successsiva e più penetrante verifica delle circostanze indizianti nel momento in cui il giudice opera il rinvio a giudizio. Un atteggiamento identico a quello della dottrina sembra mantenuto sul punto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 432 del 1995 (v. supra nt. 28). (70) ...provvisorio in quanto colto « in un momento processuale anteriore alla completa verifica di tutti i possibili elementi di convincimento » (E. FASSONE, Riflessioni sul tema della prova, cit., p. 512). (71) Cfr. A. BAUDI, Il potere cautelare nel nuovo processo penale, cit., p. 47. (72) F. CORDERO, Diatribe sul processo accusatorio, in ID., Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 230. (73) F.M. IACOVIELLO, Il diritto imprevedibile: le contraddittorie pronunce della Suprema corte sulla motivazione delle ordinanze cautelari fondate su chiamate in reità de relato, cit., p. 2345. (74) Non si può, insomma, « aprioristicamente sapere... se quanto designato come ‘indizio’ dall’art. 273 comma 1 c.p.p. ed usato nell’ambito del procedimento cautelare sarà successivamente utilizzato per la verifica della regiudicanda»: G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 50. (75) In tal senso, v. Cass., sez. I, 21 novembre 1991, Mauro, in Cass. pen., 1993, p. 382. Dal punto di vista anglosassone, cfr. M. MOLLO, La polizia giudiziaria tra « crime control » e « due process », cit., p. 5. (76) G. FRIGO, Commento all’art. 8, in La riforma della custodia cautelare, cit., p. 10.


— 1151 — sto modo verrebbero alla luce specialmente le ragioni d’urgenza, i limitati effetti nel tempo, che concorrono all’adozione del provvedimento stesso, destinato « a durare fino a che non sopraggiunga un evento successivo, in vista ed in attesa del quale lo stato di provvisorietà permane nel frattempo » (77). 8. La discutibile trasformazione dibattimentale del giudizio di colpevolezza da probabile a certo. — Ancor più di dubbia efficacia è il continuo affannarsi a precisare che si giunge alla condanna dell’imputato dopo una sorta di metamorfosi del giudizio di colpevolezza che da probabile si tramuta in certo (78). Così dottrina e prassi giurisprudenziale si inseriscono nel solco di quella « tradizione un po’ enfatica » (79) disposta a considerare equivalente a certezza la conferma della validità dell’ipotesi accusatoria che si esprime in termini di altissima probabilità (80). Il perpetuarsi di questa consuetudine travisa la dimensione culturale che alimenta la gnosi accusatoria, refrattaria, si accennava prima, al sapere monolitico (81). Inoltre, viene fatto un uso irregolare del vocabolo ‘giudizio’. Immancabili le conseguenze. Da un punto di vista generale, non si coglie l’aspetto per certi versi più profondo del rito penale, quello per cui il « processo deve consacrare una certezza non avendo gli strumenti conoscitivi per farlo » (82). La contraddizione è qui solo apparente e svanisce non appena si introduca un adeguato distinguo tra ‘giudizio’ nell’accezione di « decisione e sua definitiva pronuncia giurisdizionale » e ‘giudizio’ inteso « tanto come attività di ricerca degli elementi su cui si fonda una deliberazione quanto come formazione di quest’ultima » (83). (77) P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 10; l’Autore avverte che l’idea di ‘provvisorietà’ esprime un concetto limitato, diverso dalla ‘temporaneità’: più in particolare ‘provvisorio’ « è fatto, ordinato per provvedere al tempo presente e in modo transitorio finché non si provveda stabilmente » (G. RIGUTINI, Neologismi buoni e cattivi, Firenze, 1989, p. 131). (78) Si confronti supra par. 3. (79) E. FASSONE, Il diritto penale e il processo penale: considerazioni generali, in C. CASTELLI e G. ICHINO, Il nuovo processo penale. Caratteri ed effetti del primo codice della repubblica, Milano, 1991, p. 30. (80) « Io parlo di probabilità in materia di delitti, che per meritare pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera, che rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità di agire, ed anteriore ad ogni speculazione » (C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di P. Calamandrei, Firenze, 1950, p. 191). (81) Vedi supra par. 4. (82) Ancora E. FASSONE, Il diritto penale e il processo penale, in Il nuovo processo penale, cit., p. 29. (83) Così G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., p. 129, dove


— 1152 — Infatti, diversamente dall’indagine storiografica, « l’accertamento » dell’organo giusdicente è « obbligatorio, e deve a un certo punto concludersi » (84): al momento cognitivo fa « inevitabilmente » seguito il momento decisionale (85). Da questo angolo prospettico, il giudizio-« sentenza di tribunale » (86) è certo in quanto risolve in modo netto l’alternativa tra proscioglimento e condanna, ed offre una soluzione anche per le « situazioni di dubbio » che l’attuale corpus normativo equipara alla mancanza di prova (art. 530 comma 2 c.p.p.) (87). Le enunciazioni contenute nella pronuncia giurisdizionale sembrano, quindi, possedere un’inconfondibile natura non probabilistica (88). Al contrario, il procedimento con cui il giudice ricostruisce il fatto controverso si snoda tutto in chiave probabilistica (89). La colpevolezza ‘legale’ (90) ritenuta a seguito dell’istruzione probatoria in dibattimento, è « probabile più di qualunque altra ipotesi alternativa che spieghi i fatti del caso » (91): tanto probabile da dissolvere — come vuole la formula cara alla giustizia penale anglosassone — ogni ragionevole dubbio (92). Infine, gli equivoci originati dall’abitudine in questione — che « ha cagionato alla scienza », è stato scritto ormai da tempo, « gravi impacci e fastidi » (93) — non mancano di riflettersi nella sfera de libertate. si aggiunge che il ‘giudizio’ è anche « fase processuale o ‘luogo’ in cui dialetticamente si realizza » la verità giudiziale. (84) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari-Roma, 1989, p. 27. (85) S. SENESE, La motivazione della ‘verità fattuale’ in AA.VV., Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli, a cura di L. Gianformaggio, Torino, 1993, p. 324. (86) ARISTOTELE, Retorica, II, B, 1, 1377 b. (87) Relazione al progetto preliminare, cit., p. 120. Con il codice del 1988 si è introdotta la previsione che « nell’ipotesi in cui si abbia una media probabilità di colpevolezza, in quanto gli elementi probatori non sono sufficienti per la condanna o sono tra loro contrastanti » la formula assolutoria « sia ‘piena’, cioé quella stessa prevista per i casi di probabilità medio-bassa, bassa, bassissima, mentre solo un’elevata probabilità di colpevolezza potrà giustificare la condanna », I. GIACONA, L’idoneità degli atti di tentativo come ‘probabilità’? Spunti problematici per un’indagine, in questa Rivista, 1993, p. 1374. Per un esame ad ampio raggio della sentenza assolutoria per insufficienza di prove, v. M. PISANI, L’assoluzione per insufficienza di prove. A) Prospettive storicosistematiche, in ID., Introduzione al processo penale, Milano, 1988, p. 55 ss. (88) C. PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto, cit., p. 210. (89) Si confrontino sul punto, nuovamente, E. FASSONE, Il diritto penale e il processo penale, cit., loc. ult. cit.; L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 26-27; C. PIZZI, op. ult. cit., p. 211. (90) Vedi in proposito, V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo statunitense, cit., p. 94. (91) P. COMANDUCCI, La motivazione in fatto, in La conoscenza del fatto, cit., p. 238. (92) In ambito civile, invece, « si richiede una prova meno stringente, fondata sulla balance o preponderance of probability », G. DE FRANCHIS, Dizionario giuridico, cit., p. 384. (93) Le parole sono di F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, Roma, 1946, p. 204.


— 1153 — Si trascura che la differenza più sensibile intercorrente tra l’attività conoscitiva per adottare la cautela e la corrispondente attività per decidere nel merito è riposta soprattutto nel grado di convinzione (94). Nel grado, beninteso, non nel genere (95), essendo il ragionamento del giudice costantemente orientato dalle probabilità, non dalla probabilità pari ad uno, cioè la certezza (96). 9. Il superamento della contrapposizione tra giudizio di probabilità e giudizio di certezza: l’applicabilità dei criteri ex art. 192 c.p.p. in ambito cautelare. — Se la critica al binomio giudizio di probabilità/giudizio di certezza — nei termini appena esposti — ha un qualche fondamento, esce incrinato un pilastro su cui la giurisprudenza costruisce la delimitazione del campo applicativo dei parametri stabiliti dall’art. 192 c.p.p. Con l’abbandono di questa contrapposizione si insinua il dubbio che a disciplinare la materia cautelare non intervengano autonome regole valutative — come ribadiscono numerose pronunzie della Suprema Corte (97) — bensì i criteri collocati tra le disposizioni generali del libro dedicato alle prove (98). (94) Deve essere chiaro, in altre parole, che ci troviamo dinanzi a « variazioni di grado su una scala sostanzialmente omogenea » non a « differenze qualitative ed assolute »: M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, III, t. 2, sez. I, 1992, p. 54. (95) Secondo M. CHIAVARIO, Art. 273, in Commento al nuovo codice, cit., p. 32, al contrario, « per fare legittimo uso del potere cautelare, non v’è bisogno dello stesso genere e dello stesso grado di convinzione che è richiesto per condannare od anche soltanto per mandare a giudizio ». (96) Cfr. P. COMANDUCCI, La motivazione in fatto, cit., loc. ult. cit. (97) L’orientamento secondo il quale « in tema di valutazione degli indizi validi per l’emanazione di una misura cautelare limitativa della libertà personale, non sono utilizzabili i criteri » attinenti alla valutazione della prova (Cass., sez. VI, 3 settembre 1992, Oliva, cit.), ha raccolto vasti consensi presso la giurisprudenza della Cassazione. Si confrontino, tra le altre, Cass., sez. I, 27 maggio 1994, Mangano, in Riv. pen., 1995, p. 519; Cass., sez. I, 13 gennaio 1994, Carelli, in Giust. pen. 1994, III, c. 393; Cass., sez. VI, 1o ottobre 1933, Giallombardo, in Cass. pen., 1995, p. 1909; Cass., sez. I, 12 febbraio 1992, Liguori, ivi, 1994, p. 104; Cass., sez. fer., 3 settembre 1991, Tartaglia, cit.; Cass., sez. fer., 28 agosto 1991, Romano, ivi, 1993, II, c. 622; Cass., sez. fer., 27 agosto 1991, Gusmerini, cit. Nella recente sentenza del 21 aprile 1995, Costantino e altro, in Cass. pen., 1995, p. 2838 ss., le Sezioni Unite della Cassazione hanno indicato autonomi criteri valutativi « cui il g.i.p. deve attenersi nell’adottare i provvedimenti riservatigli » nel corso dell’investigazione. In proposito, risulterebbero determinanti gli artt. 292 comma 2 lett. c, 384, 273, 274, 267 c.p.p. e l’art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152. Leggendo, però, queste previsioni del codice vengono alla luce le condizioni dalla cui esistenza e fondatezza deriva il conseguimento di un certo risultato: si ha la sensazione, cioè, di trovarsi dinanzi ad un’ordinata enumerazione di presupposti, non di criteri, come, invece, sostengono le Sezioni Unite, da intendersi questi ultimi come canoni razionali, ovvero principi su cui impostare l’attività valutativa (un discorso a parte merita l’art. 292 c.p.p. per il quale vedi nel prosieguo del testo e alle nt. 105 e 106). (98) In tal senso, v. Cass., sez. V, 24 maggio 1994, Anderlini, cit. Nella motivazione


— 1154 — L’operazione interpretativa per approdare ad una risoluzione del quesito è delicata e, nell’affrontarla, bisogna cercare di evitare le suggestioni prodotte dai titoli dei libri e dalle rubriche degli articoli (99), accettando, invece, i suggerimenti del legislatore delegato contenuti in alcuni passi dei lavori preparatori (100). S’impone, in particolare, una ricerca minuziosa all’interno della normativa de libertate per verificare se vi siano — e se sì, quale consistenza abbiano — deroghe e previsioni inconciliabili con la disciplina stricto sensu probatoria (101). Gli esiti negativi di questa indagine costituiscono valido argomento a sostegno della tesi propiziata dalla dottrina, incline, nel complesso, a estendere la sfera di incidenza delle regole probatorie alla fase investigativa (102), specie quando il giudice è « chiamato ad adottare qualsiasi a p. 639 si precisa che l’art. 192 c.p.p. prescrive « un metodo... che attiene alla controllabilità razionale delle decisioni. Le regole sugli indizi, che prescrivono criteri di valutazione, non possono non valere come direttive di prudenza valutativa anche per i giudizi di probabilità... Sicché il fatto che l’art. 273 c.p.p. descriva in termini di minore persuasività il presupposto probatorio delle misure cautelari... non esclude che all’art. 192 c.p.p. occorra far riferimento per individuare la natura e il peso degli elementi probatori di cui si dispone ». Con riguardo alla chiamata in correità « è certamente da escludere » — prosegue la sentenza — « che l’art. 273 ne richieda un pieno riscontro, ma è altrettanto certo che è l’art. 192 c.p.p. a definirla, anche per le misure cautelari, come prova minore rispetto a quella desumibile da un’ordinaria dichiarazione testimoniale ». Cfr., pure, Cass., sez. V, 25 novembre 1994, Fotia, in Arch. n. proc. pen., 1995, p. 709. (99) A ciò non sembrano sottrarsi, invece, le Sezioni Unite nella sentenza citata supra nt. 97, quando desumono — in modo, forse, eccessivamente sommario — che essendo il libro III del codice dedicato alle prove, le disposizioni generali in esso ricomprese riguardano in via esclusiva il giudizio: di qui, la non applicabilità dell’art. 192 c.p.p. alle indagini preliminari ed, in particolare, alle misure cautelari. (100) Cfr. supra nt. 54. Vedi, altresì, Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., p. 59. (101) Vedi E. MARZADURI, Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), cit., p. 66; M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, cit., p. 387. (102) Si confrontino A. GAITO, I criteri di valutazione della prova nelle decisioni de libertate, cit., p. 162; V. GREVI, Prove, in Profili del nuovo codice, cit., p. 195; R. MAGI, Presupposti normativi e finalità ‘possibili’ del provvedimento cautelare, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova, cit., p. 192; E. MARZADURI, Misure cautelari personali, cit. loc. ult. cit.; A. NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, cit., p. 135; M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, cit., p. 387; F. PERONI, Chiamate di correo, dichiarazioni de relato e standards di gravità indiziaria nell’adozione di misure cautelari, cit., p. 682-683; A. SANNA, Parametri di valutazione della prova e riesame delle misure cautelari, cit., c. 273; T. TREVISSON LUPACCHINI, « Indizio », segno equivoco o plurivoco per forza di connotazione?, cit., p. 314; G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in ID., Sisifo e Penelope, cit., p. 84 nt. 116. Esprimono una differente opinione, pur nella varietà delle sfumature, V. BOSCO, Sull’applicabilità dell’art. 192 comma 3o in materia di misure cautelari, cit., p. 109; G. ICHINO, La terzietà del giudice per le indagini preliminari: un problema aperto, in AA.VV., Il pub-


— 1155 — provvedimento cautelare ... sulla scorta degli elementi di prova raccolti » dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero (103). Ad un simile presupposto fanno immediatamente seguito alcuni corollari. Innanzi tutto, l’art. 192 comma 1 c.p.p., che obbliga il giudice a dar « conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati » (104), è in grado di interferire con l’art. 292 c.p.p. (105). Il fenomeno dell’interferenza è complesso e non conduce sempre all’elisione; talvolta — come in questo caso — prelude alla possibile sommatoria dei due elementi che vengono sovrapposti (106). Secondariamente, la norma di cui all’art. 192 comma 2 c.p.p. (107), sebbene riconducibile a « un promemoria, già ... praticato da qualsiasi operatore giudiziario che si proponga di ragionare » in modo corblico ministero oggi, cit., p. 229, che contrappone la « rigidità delle regole da applicarsi in giudizio per la valutazione della prova e delle chiamate in correità » agli « ampli margini di discrezionalità del gip nella valutazione dei gravi indizi legittimanti l’emissione di una misura cautelare »; G. ILLUMINATI, Il nuovo dibattimento: l’assunzione diretta delle prove, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, cit., p. 82, secondo il quale sono « chiaramente riferite alla decisione » adottata al termine del dibattimento « ed orientate in una prospettiva tendenzialmente accusatoria, le norme concernenti ... le dichiarazioni del coimputato »; S. RAMAJOLI, Le misure cautelari (personali e reali), cit., p. 40, ove l’Autore evidenzia la « parziale inutilizzabilità » dei criteri ex art. 192 c.p.p. (103) L.P. COMOGLIO, Prove e accertamento dei fatti nel nuovo c.p.p., in questa Rivista, 1990, p. 145. (104) M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, cit., p. 415), giudica « discutibile » la soppressione delle parole « con obiettività e prudenza » inizialmente presenti nell’art. 192 comma 1 c.p.p.; in senso contrario, v. P. FERRUA, Imputato e difensore nel nuovo processo penale, in ID., Studi sul processo penale, cit., p. 47-48. (105) Il risultato dell’interpolazione dell’art. 292 c.p.p. « non è certo dei più felici », tant’è che l’attuale testo normativo finisce per « suscita[re] più problemi di quanti ne risolve »: così G. GIOSTRA, Commento all’art. 9, in La riforma della custodia cautelare, cit., p. 15. (106) In proposito, cfr. A. CONFALONIERI, La struttura della motivazione delle decisioni del tribunale della libertà, in AA.VV., Materiali d’esercitazione, cit., spec. p. 177; G.L. VERRINA, La motivazione nelle decisioni del tribunale della libertà, in Cass. pen., 1995, p. 1573. Ribadisce il netto distinguo tra la motivazione della sentenza che « ha struttura complessa (artt. 192 comma 1 e 546 comma 1 lett. c c.p.p.) » e quella dell’ordinanza cautelare la cui « struttura » è « semplificata (art. 292 comma 2 lett. c c.p.p.) », F.M. IACOVIELLO, Il diritto imprevedibile, cit., p. 2345: l’ampliamento del contenuto dell’ordinanza ex art. 292 c.p.p., per effetto della legge n. 332 del 1995, nonostante faccia sorgere notevoli problemi esegetici (cfr. supra nt. 105), può attenuare questa rigida separazione segnalata, a suo tempo, dall’Autore. (107) In essa « spirano memorie civilistiche » rammenta F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, cit., p. 234 (v., altresì, M. BONETTI, Gli indizi nel nuovo processo penale, in Ind. pen., 1989, p. 488-489, L.P. COMOGLIO, Prove e accertamento dei fatti, cit., p. 120 ss.): la categoria degli indizi « corrisponde nella dogmatica del diritto penale a quelle, che nel campo del diritto civile si chiamano presunzioni; né il diverso nome per denotare il medesimo concetto ha altra ragione che non sia la mancanza di contatto tra i cultori di questi due rami della scienza del diritto » (F. CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, cit., p. 226).


— 1156 — retto (108), potrebbe essere impiegata nel procedimento cautelare per valutare una « ristretta categoria » scelta all’interno dell’ « universo probatorio » (109), cioè quella indiziaria in senso proprio (110). La nozione di indizio che si rinviene, invece, nell’art. 273 c.p.p. non è — a detta di dottrina e giurisprudenza — ‘strettamente tecnica’ (111), bensì « ampia » e impropria « tale da ricomprendere sia le prove cosiddette logiche o indirette, sia quelle dirette » (112). Sarebbe, forse, più opportuno indicare il genus (non più la parte per il tutto) (113), e ricorrere all’espressione ‘prove cautelari’ (114). Nel fare ciò bisognerebbe abbandonare i rigidi schematismi dettati dalla fuorviante idea secondo cui la procedura accusatoria è retta dall’osmosi tra prova e giudizio (115) e dalla « assoluta ... negazione di qualunque valore conoscitivo a quanto conseguito » ante iudicium (116). (108) E. FASSONE, L’utilizzazione degli atti, la valutazione della prova, in Quad. CSM, 1989, 27, p. 542. (109) P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in AA.VV., Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli, cit., p. 217. (110) I primi due commi dell’art. 192 c.p.p. disciplinano in successione fra loro « le caratteristiche del convincimento giudiziale concernenti, prima il genus rappresentato dalla prova in senso lato e, poi, la species costituita dall’indizio. Rispetto ad ogni strumento gnoseologico cioè viene garantito che sia dato conto in motivazione « dei risultati acquisiti e dei criteri adottati » ... ma per gli indizi si prevedono requisiti ulteriori per poter fondare su di essi la decisione »: G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 91. (111) V., con riguardo all’originaria versione dell’art. 252 c.p.p. 1930, F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, cit., p. 179. Si confrontino V. GREVI, Prove, in Profili del nuovo codice, cit., p. 200-201; M. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., p. 169 ss.; D. SIRACUSANO, Le prove, cit., p. 384-385; G. UBERTIS, La prova penale, cit., 39. (112) Testualmente, Cass., sez. I, 25 maggio 1994, D’Urso, cit., Cass., sez. I, 10 marzo 1994, Commisso, cit.; inoltre, si vedano fra le tante, Cass., sez. III, 31 agosto 1993, Di Corrado, cit., Cass., sez. fer., 3 settembre 1992, Butera, cit., Cass., sez. I, 11 novembre 1991, Nemolato, cit. (113) Cfr. C.U. DEL POZZO, La libertà personale nel processo penale italiano, cit., p. 263. (114) ...sull’esempio di G. COLOMBO, L’acquisizione degli elementi di prova nelle indagini preliminari, cit., p. 1299, che impiega la locuzione « prova preliminare » riferendosi a « quella destinata all’emissione di un provvedimento » del giudice per le indagini preliminari. I possibili pregi di questa scelta lessicale sarebbero due. Da un canto, si eviterebbe di « dover paradossalmente ritenere che per applicare una misura cautelare personale siano necessari indizi, ma non sufficienti prove in senso stretto », dall’altro di « dover ipotizzare una ingiustificabile ‘conversione’ degli uni nelle altre, qualora tanto il provvedimento cautelare quanto la pronuncia definitiva si fondino sui medesimi dati, riconosciuti da quest’ultima come costitutivi di prova in senso stretto » (G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 50). (115) Vedi, da ultimo, Cass., sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, cit.: i giudici di legittimità abbinano la ‘ricerca della prova’ all’istruzione che si svolge nell’udienza pubblica, mentre lo stadio preliminare avrebbe come scopo la ‘ricerca’ di elementi bastevoli per emettere il rinvio a giudizio; in questa prospettiva, il destino dell’indizio cautelare ‘provvisorio’ sarebbe quello di evolversi in prova ‘definitiva’ nel corso dell’istruzione dibattimentale. Si confronti, pure, la sentenza costituzionale n. 432 del 1995. Vedi supra paragrafo 7. (116) In proposito si vedano i rilievi avanzati da G. UBERTIS, La ricerca della verità


— 1157 — ‘Prove cautelari’, dunque — siano esse indizi, ovvero siano dichiarazioni provenienti dal teste e dalla persona offesa — da valutare senza disinvolture (117), senza alchimie tese a ridurre la gravità ex art. 273 c.p.p. ad una combinazione tra aggettivi specifici. Qualche osservazione meritano ora i commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p.: il tenore e la sintassi non sono qui, di certo, inequivocabili come spesso ha ricordato la dottrina (118). Però, la latitudine della formulazione testuale rende queste disposizioni flessibili e permette di convogliare su di esse eventuali complicazioni insorte all’atto di valutare la chiamata di correo (119) non solo quando quest’ultima è prova utilizzabile ai sensi dell’art. 526 c.p.p., ma anche quando assume la veste di grave indizio ex art. 273 c.p.p. La regola codificata nell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. potrebbe, quindi, contrastare il risorgere di quell’orientamento giurisprudenziale che, talvolta, ha ritenuto sufficiente, nell’adozione dei provvedimenti de libertate, la mera attendibilità intrinseca della chiamata di correo (120); e, giudiziale, in ID., Sisifo e Penelope, cit., spec. p. 83, nonché ID., Confini del diritto alla prova nel procedimento penale, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 724 ss. Cfr., inoltre, P. FERRUA, La formazione delle prove del nuovo dibattimento: limiti all’oralità e al contraddittorio, in ID., Studi, cit., p. 80; M. NOBILI, Il « diritto delle prove » ed un rinnovato concetto di prova, cit., p. 387. (117) V., invece, Cass., sez. VI, 22 dicembre 1993, Chianese, in questa Rivista, 1995, p. 308 con commento di T. TREVISSON LUPACCHINI, cit., ove si ritiene la dichiarazione dell’offeso « prova da sola sufficiente a legittimare l’adozione della misura cautelare » e si esclude pertanto « la necessità di fare ricorso al concetto di ‘gravità’ che inerisce alla prova logica costituente l’indizio, nonché alla verifica dell’attendibilità intrinseca del riscontro esterno, in quanto sul piano probatorio la gravità indiziaria è soverchiata dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita ». Cfr. i timori espressi da P. FERRUA, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione, in Studi, cit., p. 124, circa la possibilità di valutare superficialmente la prova testimoniale. (118) Vedi M. NOBILI, La nuova procedura penale, cit., p. 173. Si confrontino, altresì, F. CAPRIOLI, Le Sezioni unite e il caso Calabresi: ancora segnali confusi sul tema dei riscontri alla chiamata in correità (a margine Cass., sez. un., 22 febbraio 1993, Marino ed altri), in Giur. it., 1993, II, spec. c. 799-800; F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, cit., p. 234-235; M. DEGANELLO, Le dichiarazioni accusatorie del coimputato: ancora incertezze giurisprudenziali nonostante la riforma, in Leg. pen., 1991, p. 649; V. FANCHIOTTI, Prime osservazioni sulla chiamata di correo « plurima » nel nuovo processo penale, in Cass. pen., 1990, II, p. 179; E. FASSONE, L’utilizzazione degli atti, la valutazione della prova, cit., p. 542; P. FERRUA, La testimonianza nell’evoluzione del processo penale italiano, in Studi sul processo penale II, cit., spec. p. 113; V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato » nel nuovo codice di procedura penale, in questa Rivista, 1991, p. 1173; G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1994, p. 110; G. TRANCHINA, I canoni di valutazione probatoria della chiamata in correità, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 644; G. UBERTIS, Sul progetto preliminare del codice di procedura penale, in ID., Sisifo e Penelope, cit., p. 22. (119) ...o meglio le dichiarazioni del coimputato o dell’imputato in un procedimento connesso o collegato ex art. 371 comma 2 lett. b c.p.p. (120) Vedi, sia pure con alcune variazioni, Cass., sez. I, 18 novembre 1993, Moccia,


— 1158 — nel contempo, indirizzare il complesso vaglio dei riscontri ab externo, dominato dalle aggettivazioni estremamente rigorose con le quali sono stati spesso circoscritti gli elementi corroboranti (121). Affinché la dichiarazione del correo non generi erronei convincimenti (122) — potendo così costituire valido presupposto per l’applicazione di misure coercitive — è necessario che essa sia corroborated (123): in Riv. pen., 1995, p. 673 (in tema di misure cautelari personali « le dichiarazioni del coindagato, che riferisca di un reato e degli autori di esso per sua conoscenza personale, non sono indizio, ma costituiscono sul piano logico prova diretta. Ne consegue che non è necessario che la dichiarazione del chiamante, valutata con riferimento al criterio della gravità degli indizi definito dall’art. 273 c.p.p., sia corredata da ‘altri elementi di prova’, come è richiesto dall’art. 192 comma 3 c.p.p. ai fini della condanna »); Cass., sez. fer., 26 agosto 1993, Lombardi, in Giust. pen., 1994, III, p. 395 (nella specie, relativa a rigetto di ricorso, il tribunale attribuiva al collaboratore di giustizia « sicura attendibilità intrinseca ... per la ricchezza dei particolari narrati e per l’assenza di incongruenze o contraddizioni »); Cass., sez. fer., 28 luglio 1993, Settineri, in Cass. pen., 1994, p. 2151; Cass., sez. fer., 28 luglio 1993, Zimbaro, ivi, 1994, p. 2151; Cass., sez. III, 26 luglio 1993, Basile, ivi, 1994, p. 2150; Cass. sez. V, 1o marzo 1993, Lai, ivi, 1995, p. 335, con nota di E. SQUARCIA, Chiamata in correità ed indizi cautelari (nella massima si afferma che « ai fini dell’emissione di un provvedimento cautelare personale, la chiamata di correo, della quale sia stata motivatamente dimostrata la sicura attendibilità, da sola e senza la necessità di riscontri, può integrare i gravi indizi di colpevolezza a carico della persona che il chiamante in correità indichi come concorrente nel reato »); Cass., sez. I, 4 novembre 1991, Mazzocchi, ivi, 1993, p. 604; Cass., sez. I, 27 marzo 1991, Matina, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 413. (121) Si confrontino, ad esempio, Cass., sez. I, 8 giugno 1994, Lo Cascio, cit. e Cass., sez. I, 14 ottobre 1993, Lo Sardo, in Riv. pen., 1994, p. 760. (122) Vedi Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., p. 61; l’« attitudine » ricordata ha indotto il legislatore a « circondare (con) maggiori cautele » l’utilizzo probatorio delle dichiarazioni di « chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato o ha comunque legami con lui ». Nei confronti di queste dichiarazioni « il codice (configura) una sorta di presunzione relativa di inattendibilità » (V. GREVI, Le « dichiarazioni rese dal coimputato » nel nuovo codice di procedura penale, cit., p. 1174). (123) Non sembra perseguibile — neppure sul terreno cautelare — la strada inaugurata in Inghilterra dal Criminal Justice and Public Order Act del 1994 che, nel modificare alcuni tradizionali principi della law of evidence, ha rimosso il warning obbligatorio del giudice dibattimentale in tema di uncorroborated evidences. Infatti, la Section 32 (1) del Criminal Justice and Public Order Act del 1994 stabilisce che: « Any requirement whereby at a trial on indictment it is obligatory for the court to give the jury a warning about convicting the accused on the uncorroborated evidence of a person merely because this person is: (a) an alleged accomplice of accused, or (b) where the offence charged is a sexual offence, the person in respect of whom it is alleged to have been committed », is hereby abrogated ». La Subsection (2) chiarisce che « the abolition of corroboration warnings for complainants extends to child victims » ed ancora, la Subsection (3) prevede l’abrogazione dei « corresponding corroboration requirements at summary trial ». La Section 33, infine, esclude « the statutory corroboration requirements in certain offences under the Sexual Offences Act 1956 ». A commento di queste innovazioni si vedano: P. MIRFIELD, « Corroboration » After the


— 1159 — gli elementi estrinseci potranno essere di « qualsiasi tipo e natura » (124) — non predeterminati — purché non si sottraggano, nonostante le Sezioni Unite abbiano espresso diverso parere (125), ad un « dato di soggettivazione » (126): è indispensabile cioè, che i riscontri estrinseci siano inerenti alla posizione soggettiva del chiamato. 10.

Considerazioni conclusive. — Il discorso richiederebbe ancora

1994 Act, e I. DENNIS, The Criminal Justice and Public Order Act 1994. The Evidence Provisions, ambedue in Crim.L.R., 1995, rispettivamente p. 448 ss. e 4 ss. Da tempo in Inghilterra la corroboration era oggetto di aspre critiche provenienti sia dalla dottrina che da organi ufficiali: a questo proposito, v. V. FANCHIOTTI, Corroboration, in Enc. giur., Roma, 1988, IX, p. 3-4. (124) Cfr. Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli, in Cass. pen., 1990, II, p. 37 (con riferimenti allo stato della dottrina e all’elaborazione giurisprudenziale precedente l’entrata in vigore del nuovo codice), citata quale autorevole esempio ne Il testo dell’accusa dei giudici di Palermo. Andreotti. La fine del mandarino, a cura di E. Pellegrino, Verona, 1993, p. 22-23. Più di recente v. Cass., sez. IV, 11 maggio 1993, Ameglio, ivi, 1995, p. 1014, nonché, con particolare riguardo alla sfera de libertate, Cass., sez. I, 12 gennaio 1995, Gruppi, in Mass. dec. pen., 200994; Cass., sez. II, 21 gennaio 1995, Iacopetta, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 840, con nota di G. DI CHIARA, Quali riscontri esterni per una sola chiamata in correità?; Cass., sez., I, 25 maggio 1994, D’Urso, cit.; Cass. sez. I, 10 marzo 1994, Commisso, cit.; Cass., sez. VI, 1o febbraio 1994, Greganti, cit.; Cass., sez. I, 19 gennaio 1994, Iamonte, cit.; Cass., sez. I, 17 gennaio 1994, Semilia, in Riv. pen., 1995, p. 254. (125) Non necessariamente, secondo le Sezioni Unite, i riscontri debbono riguardare « in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, poiché l’assenza di questo ulteriore requisito — nell’ipotesi in cui non risultino elementi contrari al coinvolgimento di costui — non esclude, di per sé ... l’attendibilità complessiva della chiamata, una volta che la stessa sia stata accertata sia sotto il profilo intrinseco, sia ... sotto quello estrinseco »: così Cass., sez. un., 21 aprile 1995, Costantino ed altro, cit. (126) Cfr. Cass., sez. I, 23 novembre 1994, La Mosca, in Mass. dec. pen., 200872. Vedi, pure, Cass., sez. I, 25 gennaio 1995, Maggiolini, ivi, 200595 ed in termini più netti, Cass., sez. II, 21 gennaio 1995, Iacopetta, cit.; Cass., sez. VI, 30 giugno 1994, Mazzurco, in Mass. dec. pen., 199446; Cass., sez. I, 23 aprile 1994, Pirrello, ivi, 198968; Cass., sez. I, 21 febbraio 1994, Casano, in Riv. pen., 1995, p. 120; Cass., sez. I, 24 novembre 1933, Unia, in Giust. pen., 1994, III, c. 214. Diversamente, cfr. Cass., sez. II, 25 gennaio 1994, Gioffré, ivi, III, c. 394. Secondo E. FASSONE, Il valore probatorio delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in AA.VV., I collaboratori di giustizia. Legislazioni ed esperienze a confronto, Palermo, 1995, p. 111, « si de[ve] esigere il riscontro sulla persona, ma con la precisazione che, una volta riscontrata la narrazione sul fatto, il riscontro sulla persona può avere un grado di incidenza e di concludenza anche minore »; ciò sta a significare che « se la narrazione di un determinato fatto delittuoso è stata oggettivamente riscontrata, la partecipazione ad essa dei singoli soggetti indicati può essere convalidata anche dai semplici riscontri d’ambiente ». Così facendo si terrebbe « alto il livello della garanzia, il che è un debito al quale non dobbiamo mai sottrarci » affinando al tempo stesso « la capacità di lettura dei fatti » in modo da « non impoverire il processo di conoscenze utilizzabili ». Cfr. anche, G. DI CHIARA, Quali riscontri esterni per una sola chiamata in correità?, cit., p. 843, il quale asserisce che il riscontro deve avere « un coefficiente minimo di individualizzazione »; all’opposto, si legga quanto sostenuto da F. SCUDERI, La chiamata di correo ed il riscontro individualizzante, in Cass. pen., 1995, p. 219 ss.


— 1160 — più di una riflessione. In ogni caso, non ci si può esimere dal prevenire con sollecitudine un’obiezione motivata dall’identità — quasi paradossale — che verrebbe a stabilirsi tra la pronuncia di merito in esito al dibattimento e l’ordinanza con la quale si dispone la misura cautelare. Le discrepanze permangono, e non potrebbe essere diversamente, ma al dilemma sull’applicazione o meno dell’art. 192 c.p.p. alla sfera de libertate, si oppone un sistema equilibrato in cui costanti e variabili si compensano. Non muta il ricorso alle regole di valutazione che intervengono nel momento, in cui in ogni provvedimento giudiziale, « occorre effettuare un giudizio assertorio di concludenza probatoria » (127). Le variazioni significative sono di altro genere. Anzitutto, una — ovvia — è di carattere quantitativo: è instabile, cioè, il materiale conosciuto dal decidente. La caratteristica non è trascurabile dato che la mutata consistenza del patrimonio conoscitivo del giudice può evidentemente influire sulla valutazione probatoria complessiva (128). È diverso, inoltre, come si è avuto modo prima di ricordare, il grado di convinzione raggiunto (129). Alcune differenze potrebbero trarre origine, infine, dall’instaurazione del contraddittorio o dalla sua assenza, nel caso il provvedimento sia emesso de plano (130). SILVIA BUZZELLI Ricercatrice di Procedura penale nell’Università di Pavia

(127) G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in ID., Sisifo e Penelope, cit., p. 76-77 e ivi nt. 96. (128) Cfr. sul punto G. UBERTIS, La prova penale, cit., p. 83. (129) In proposito, cfr. supra par. 8. (130) V. R. ORLANDI, Atti e informazioni delle autorità amministrative nel processo penale. Contributo allo studio delle prove extracostituite, Milano, 1992, p. 222 ss.


INDAGINI PRELIMINARI DELEGATE

1. I rapporti tra pubblico ministero e la polizia giudiziaria. — L’istituto della delegazione trova la sua più ampia espressione nella fase delle indagini preliminari, relativamente all’intersecarsi dell’attività del pubblico ministero con quella compiuta dalla polizia giudiziaria. A tale riguardo è opportuno distinguere nell’ambito dell’attività di polizia giudiziaria l’attività guidata e diretta, comprensiva di atti compiuti a seguito delle direttive impartite dal p.m., da quella « consequenziale o successiva » correlativa agli atti delegati dal p.m. Entrambe queste attività presuppongono l’effettività nella direzione delle indagini da parte del p.m., ma, mentre per l’attività guidata più ampio sarà il potere di iniziativa della polizia giudiziaria, per gli atti delegati il ruolo della stessa sarà essenzialmente esecutivo. Inseriti nel contesto delle indagini preliminari, gli atti delegati si caratterizzano per la medesima funzione: essenzialmente endoprocessuale (1) perché finalizzata alla prosecuzione delle indagini per le « determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale » come emerge dal combinato disposto degli articoli 326 e 358 c.p.p. (2). Si tratta di disposizioni che attengono, sotto il profilo strutturale, all’attività del p.m. o della polizia giudiziaria, come limitata attività probatoria. La stessa Relazione al c.p.p., in riferimento alla Direttiva 37 Legge Delega, attribuisce agli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari, natura esclusivamente endoprocessuale perchè « articolata nei vari passaggi del cammino verso il giudizio ». Nello schema processuale del codice ’88, la natura endoprocedimentale delle indagini preliminari comportava che gli effetti di tali attività si esaurissero all’interno della fase: o con (1) Sotto un profilo prettamente strutturale, tale attività comprende atti del p.m. e della polizia giudiziaria costituenti elementi essenziali del fatto ex art. 347 ss. e art. 358 ss. c.p.p.: così RICCIO, in Profili funzionali e aspetti strutturali delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1990, p. 99. (2) In proposito è da sottolineare che le due norme vanno diversificate perché il contenuto dell’art. 326 c.p.p., solo descrittivo, riguarda genericamente sia il p.m. sia la polizia giudiziaria, mentre l’art. 358 c.p.p. si riferisce soltanto all’attività del p.m.


— 1162 — l’emissione di provvedimenti adottati nell’ambito delle indagini, o con decisioni finali circa il modo di concludersi delle stesse (3). Successivamente è intervenuta la Corte Costituzionale a dichiarare l’illegittimità dell’art. 500 comma 3 e 4 c.p.p., per l’evidente contrasto con l’art. 3 Cost., introducendo un nuovo criterio: di non dispersione dei mezzi di prova (3 bis). Ciò comporta che, in nome del principio di ricerca della verità, vanno recuperati al fascicolo del dibattimento, affermandone la utilizzabilità probatoria, quegli atti non suscettibili di essere surrogati da una prova dibattimentale. La possibilità che le acquisizioni probatorie rifluiscano nel dibattimento, consente di formare un nucleo probatorio omogeneo, utilizzabile sia per le « determinazioni inerenti alla fase preliminare », sia per « il dibattimento ». Di conseguenza il criterio di « non dispersione dei mezzi di prova » assume una certa rilevanza anche in ordine all’attività delegata, proprio perché le attribuzioni della polizia giudiziaria, in quanto complementari agli atti compiuti direttamente dal p.m., seguono lo stesso regime di utilizzazione. L’intervento della Corte Cost. ha comunque inciso relativamente in quella che è la determinazione del legislatore ’88, di mantenere distinta la fase procedimentale dalla processuale, con caratteristiche peculiari all’una e all’altra. In particolare l’attività investigativa degli organi di indagine può consistere anche in atti atipici e attività informali, purché non espressamente vietati (art. 191 c.p.p.); in tal caso anche la relativa documentazione può avvenire mediante semplice annotazione, anziché verbale ex art. 373 comma 3 c.p.p. L’unico limite di forma è richiesto per quegli atti che, o per aspetti strutturali, o per il regime di utilizzabilità nella fase successiva prevedono determinate modalità ex art. 373 comma 1 c.p.p. Per quanto attiene invece agli atti tipici, la differenza tra le due fasi si evince anche sotto il profilo strettamente lessicale: basti pensare che il p.m. potrà procedere alla « individuazione di persone e di cose » ai sensi (3) Si coglie la prima delle idee-guida che improntano la dinamica dell’attività investigativa: questa serve a reperire i mezzi che dovranno servire a sostenere l’accusa davanti al giudice, a deliberare la « notitia criminis » al fine di configurarla, se la deliberazione è positiva, entro una precisa imputazione con l’inizio dell’azione penale: così VIGNA, Commento all’art. 326 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di CHIAVARIO, 1990, p. 16. (3 bis) La Corte ha infatti ritenuto che l’oralità non debba rappresentare « il veicolo esclusivo di formazione della prova in dibattimento » così che nei casi in cui non sia possibile produrre oralmente la prova è dato rilievo « ad atti formatisi prima e al di fuori del dibattimento »; Corte cost., 3 giugno 1992, n. 255, in Cass. pen., 1992, p. 2022, m. 1073.


— 1163 — dell’art. 361 c.p.p. e non già a « ricognizioni » proprie della fase dibattimentale, come previsto dall’art. 213 c.p.p., o ancora lo stesso p.m. non assumerà « testimonianze », bensì solo « informazioni » ex art. 362 c.p.p. Inoltre la « necessarietà » delle indagini comporta che al p.m. e alla polizia giudiziaria è consentito il compimento delle attività finalizzate direttamente all’esercizio dell’azione penale, in relazione al fatto specifico per il quale si indaga. Così, nell’attività di indagine, non perdendo di vista il fine di una corretta decisione in ordine all’esercizio o no dell’azione penale, il p.m. « svolge altresì » accertamenti anche a favore della persona sottoposta alle indagini (4). Corre l’obbligo di sottolineare la congiunzione « altresì » che sta a significare come debba trattarsi di attività distinta e non meramente « accessoria » alla precipua del p.m. (5). Infine si evidenzia come anche per l’attività di indagine, sia essa compiuta dal p.m. o dalla polizia giudiziaria su delega, in riferimento alla Direttiva 38 Legge Delega, occorre che sia assicurato l’intervento del difensore non con funzione propriamente difensiva, bensì come forma di tutela della persona (6). Si tratta del diritto del difensore di assistere agli atti di indagine, sotto l’aspetto sia di « testimonianza all’atto investigativo », sia di « tutela della libertà morale della persona » per il rispetto dei diritti dell’indagato, costituzionalmente garantiti (7). È da intendere come ulteriore esplicazione dell’art. 190 c.p.p., norma che, pur non orientata nell’affermare l’esistenza di un diritto a difendersi provando, nel corso delle indagini preliminari, purtuttavia data la sua « portata poliedrica » come norma cardine, trova particolare estensione proprio nella fase preliminare. Nella ratio dell’art. 190 c.p.p. si inserisce infatti il diritto ad attività difensive che « consentano di poter ricercare e predisporre elementi probatori in vista dell’acquisizione dibattimentale ». In tal senso il diritto alla prova difensiva rileva, quindi, non solo con riguardo agli strumenti consentiti al difensore per preparare le future acqui(4) Accertare fatti per le determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale implica il prendere in considerazione tutti gli elementi di segno positivo e negativo contenuti nella notitia criminis o emergenti successivamente per una verifica nello sviluppo delle investigazioni; nello stesso senso: CORDERO, Procedura penale, 1987, p. 27. (5) Diversamente l’art. 2 della legge delega al punto 37 prevede un potere dovere del p.m. di compiere indagini in funzione dell’esercizio dell’azione penale e dell’accertamento di fatti specifici, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato. (6) Anche se la garanzia della difesa, che accompagna gli atti tipici del p.m. e rimane esclusa dalla disciplina degli atti generici, non sta a significare che l’intervento della difesa incide sul valore dell’atto compiuto dal p.m.; così Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, 1988, p. 202. (7) D’AMBROSIO-VIGNA, La pratica di polizia giudiziaria, 1992, p. 147.


— 1164 — sizioni dibattimentali, ma anche « per fare acquisire elementi a natura probatoria pur nel corso della fase preliminare » (8). Alla distinzione di ordine funzionale tra la fase delle indagini e quella processuale, corrisponde in parallelo l’attribuzione di poteri a organi diversi. « L’investigante » è, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., come già chiarito, il solo pubblico ministero (9); ma sotto un profilo tipicamente operativo, la norma di cui al 326 c.p.p. attribuisce valore « strumentale » all’attività compiuta dalla polizia giudiziaria. Può quindi concludersi che nell’attuale sistema processuale, gli organi delle indagini hanno un assetto unitario, ma con funzioni esercitate « nell’ambito delle rispettive attribuzioni » ex art. 326 c.p.p. 2. Atti diretti e atti delegati: il p.m. nel rapporto con la polizia giudiziaria. — L’art. 370, comma 1 c.p.p. ribadisce il carattere « personale » nel compimento dell’attività di indagine da parte del pubblico ministero, quale espressione di autonomia ed indipendenza nella gestione dell’iniziativa penale, nell’ambito di ogni ufficio di p.m., da parte di ogni singolo sostituto (10). Si tende in questo modo ad una maggiore responsabilizzazione del p.m., strettamente collegata alla continuità dell’esercizio delle funzioni durante il procedimento. Il pubblico ministero assume la direzione completa delle indagini, di conseguenza, se non opera personalmente, ha comunque la possibilità di impartire « direttive » alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348 comma 3 c.p.p. (11). La nozione di direttiva va intesa nel senso di una « istruzione » che il p.m. impartisce alla polizia giudiziaria, finalizzata ad un preciso « obiettivo di indagine », ma indeterminata nell’attività da svolgere per perseguirlo. Alla polizia giudiziaria è così attribuita una certa discrezionalità tec(8) Diritto alla prova, non solo nell’accezione di poter svolgere una indagine difensiva parallela in preparazione di eventuali acquisizioni dibattimentali, ma come diritto anche all’acquisizione nel corso del procedimento: così NOBILI, Diritto alla prova e diritto di difesa nelle indagini preliminari, in Giust. pen., 1990, p. 136. (9) Così appare il p.m. quando lavora sulle notitiae criminis: situato fuori dal processo, questo preliminare gli appartiene a titolo esclusivo, cerca e raccoglie quanto serve all’eventuale azione: CORDERO, op. cit., p. 181. (10) Dal potere accentrato al potere diffuso, fino alle forme estreme della personalizzazione delle funzioni. Si attua così il passaggio dal principio della rappresentanza organica a quello della personalizzazione delle funzioni, con attenuazione dei profili residuali di gerarchia e di rappresentanza connaturati alla natura delle funzioni e alla struttura degli uffici. Sul presupposto, infatti, che qualsiasi sistema di sindacato sull’attività dell’organo di accusa comporta pericolo di ingerenza e di condizionamenti nella delicata funzione. (11) Così CORDERO, Codice di procedura penale, 1990, p. 418.


— 1165 — nica in relazione alla scelta dei mezzi più idonei al conseguimento di quei fini di indagine indicati dal p.m. Si tratterà così, per la polizia giudiziaria di una « attività guidata » perchè svolta nell’ambito delle direttive impartite dal p.m. Tale attività consta di una serie di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa, ai sensi del combinato disposto degli articoli 55 e 348 c.p.p., insieme ad atti di identificazione, a sommarie informazioni, perquisizioni, sequestri ed accertamenti urgenti, ex art. 349 e seguenti. « Informale » sarà l’attività del primo gruppo, diretta ad assicurare le fonti di prova « mediante una azione di ricerca, individuazione e conservazione, libera nei modi del suo svolgimento » (12), mentre « tipizzata » l’altra che, ai sensi dell’art. 357 comma 2 c.p.p., dovrà essere documentata mediante redazione di verbale. Le direttive così impartite dal p.m. si ritiene costituiscano atti d’indirizzo per le indagini che la polizia giudiziaria compie conservando determinati margini di discrezionalità, pur con le garanzie previste per l’attività del pubblico ministero. Di seguito all’art. 370 c.p.p. è regolato il rapporto tra p.m. e polizia giudiziaria per quanto attiene alla delegabilità dell’attività d’indagine. L’utilizzazione dell’avverbio « specificamente » impone che il p.m. indichi alla polizia giudiziaria l’atto da compiere e l’ambito di indagine in cui l’atto si inserisce. In questo modo è da escludere la possibilità di una delega globale o in bianco, diversamente dalla prassi diffusa sotto l’abrogato codice. Infatti il legislatore, delineando l’ambito dell’attività delegata, ha inteso attribuire la direzione delle indagini solo ed esclusivamente al p.m. Non è detto, però, che sia da escludere la possibilità di deleghe ad ampio contenuto che diano valore alle capacità investigative della polizia giudiziaria. Si pensi ad una specie di « delega generica per le indagini » in relazione alla notizia di reato priva di sufficienti riscontri (13). In tal caso la « delega » risulterà comunque circoscritta a singoli specifici atti (14) che la polizia giudiziaria deve limitarsi ad eseguire nell’ambito del precipuo scopo da raggiungere: in specie, un minimo fondamento di notitia criminis. Si rafforza così la differenza dalla « direttiva » comprendente un più ampio spettro di attività investigativa, quasi come una (12) Così, la Rel. prog. prel., p. 90. Dello stesso orientamento la dottrina, ritenendo che la polizia giudiziaria resterà titolare di una discrezionalità tecnica in relazione alla scelta dei mezzi e delle investigazioni più idonei al perseguimento degli scopi di indagine indicati dal p.m.: D’AMBROSIO-VIGNA, op. cit., 1992, p. 183. (13) AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, 1991, p. 537. (14) Infatti dopo l’intervento del p.m. cessa l’attività ad iniziativa della polizia giudiziaria: MARCONE, P.m. e polizia giudiziaria nelle indagini preliminari, in Cass. pen., 1989, p. 1611.


— 1166 — sorta di « reviviscenza » del potere di iniziativa della polizia giudiziaria (15). Sulla ulteriore possibilità che il p.m. possa contemporaneamente impartire una direttiva di ampia indagine e nell’ambito di questa, delegare un singolo atto alla polizia giudiziaria, sembra potersi condividere l’opinione di chi ritenga « non sussistano impedimenti » in proposito (16). Ciò perchè, come già affermato, il p.m. nel momento in cui impartisce una direttiva di indagine ha sì presente un obiettivo, al cui chiarimento debba però contribuire la polizia giudiziaria nella sua generica attività, a differenza dell’atto delegato che viene eseguito dalla polizia giudiziaria sì nella sua compiutezza, ma con la minore libertà che le consegue in un ruolo essenzialmente esecutivo. L’attività delegata consiste perciò nel compimento da parte della polizia giudiziaria di specifici atti di indagine preliminare che altrimenti il pubblico ministero dovrebbe compiere in prima persona. In proposito è da puntualizzare come nella originaria stesura del codice erano esclusi dalla delega l’interrogatorio e il confronto della persona sottoposta alle indagini. Tale esclusione dall’ambito dell’attività delegabile era motivata da ragioni di garanzia in considerazione della particolare delicatezza degli stessi (17). Al fine di rendere « più funzionale ed elastica l’attività di indagine », il legislatore ha deciso in seguito di ampliare lo spettro degli atti delegabili alla polizia giudiziaria in modo da ricomprendervi anche l’assunzione dell’interrogatorio della persona « indagata » e i confronti con la medesima (18). Come argomentazione a sostegno della innovazione introduttiva dell’interrogatorio e dei confronti è da sottolineare che la « delicatezza » delle indagini in questione viene meno nell’ottica di un sistema processuale che non prevede l’interrogatorio dell’indagato come premessa per il passaggio alla fase del giudizio, di conseguenza alcun interesse potrebbe venir compromesso dalla delegabilità di tali atti alla polizia giudiziaria (19). Inoltre l’innovazione apportata all’art. 370 c.p.p. va comunque letta in parallelo con altra disposizione modificata dalla stessa legge; si tratta (15) Così LA MARCA, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di CHIAVARIO, 1990, vol. IV, p. 120. (16) In tal senso D’AMBROSIO-VIGNA, op. cit., p. 184. (17) Legge 7 agosto 1992, n. 356. (18) Il Legislatore ’88 aveva escluso dal novero degli atti delegabili l’interrogatorio della persona indagata e i confronti con la medesima, attenendosi a quanto prescritto dall’art. 2 n. 37 della Legge Delega. (19) SALVI, in Commento al nuovo codice di proc. pen. a cura di CHIAVARIO, 1990, vol. IV, p. 267.


— 1167 — dell’art. 503 comma 5 sulla allegazione, nel fascicolo del dibattimento, degli atti compiuti personalmente dal p.m. o da questi delegati alla polizia giudiziaria. Infatti alla espressa previsione della delegabilità degli atti, corrisponde lo specifico riconoscimento della loro utilizzabilità in sede dibattimentale (20). Conseguentemente, in riferimento al regime di utilizzazione, è da riconoscere che gli atti delegati non si differenziano da quanto previsto per quelli compiuti personalmente dal pubblico ministero. Per quanto attiene, inoltre, all’aspetto formale della delegazione, l’art. 370 comma 2 c.p.p., anche se non lo prevede specificamente, impone il rispetto delle garanzie previste in tema di nomina, assistenza e preavviso al difensore, ai sensi degli articoli 364 e 365 c.p.p., nonché in tema di documentazione ex art. 373 c.p.p. Così la polizia giudiziaria delegata è tenuta ad osservare le garanzie difensive previste per gli atti del p.m. e le modalità relative alla loro documentazione. In tema di poteri conferiti alla polizia giudiziaria dal pubblico ministero con atto di delega, l’art. 370 commi 1 e 2 c.p.p. va coordinato con l’art. 348 comma 3 ove è previsto che, qualora dal compimento di atti delegati emergano elementi che impongano attività di assicurazione delle fonti di prova, la polizia giudiziaria possa procedervi autonomamente, pur informandone prontamente il p.m. Infatti sarebbe contrario alle ovvie ragioni di speditezza, ratio dell’istituto della delegazione, se i poteri del delegato non comprendessero anche gli atti obiettivamente necessari, allorquando la necessità di compierli emerga dallo svolgimento dell’attività delegata, ricorrendo ragioni di urgenza o altri gravi motivi. 3. Limiti all’attività delegata. — Come in precedenza affermato, è consentita la delega dell’attività di indagine preliminare dal p.m. alla polizia giudiziaria, gli unici limiti sono riconducibili ad espresse previsioni di legge che fondano il loro presupposto sulla particolare natura dell’atto. Si fa riferimento, ad esempio, in tema di sequestro, peraltro espressamente delegabile ai sensi dell’art. 253, comma 3 c.p.p., all’ipotesi specifica riguardante gli oggetti di corrispondenza presso gli uffici postali: lettere, plichi, valori, telegrammi che si ritiene spediti dall’imputato o a lui diretti (21). In proposito, infatti, il divieto rivolto alla polizia giudiziaria (20) In virtù della sostituzione del comma 5 dell’art. 503 c.p.p. è oggi previsto che possano essere acquisite nel fascicolo per le contestazioni, non solo le dichiarazioni acquisite dal p.m. alle quali il difensore avesse diritto di assistere, ma anche quelle assunte dalla polizia giudiziaria su delega dello stesso p.m.: RIVELLO, Commento all’art. 8 legge 7 agosto 1992 n. 356, in La Legislazione penale, 1993, p. 104. (21) La polizia giudiziaria può procedere al sequestro del corpo del reato o delle cose


— 1168 — riguarda l’apertura di tali documenti, non anche la loro acquisizione, come si evince dall’art. 254 comma 2 c.p.p. (22). Così l’ufficiale di polizia giudiziaria delegato dovrà limitarsi a consegnare all’autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aver conoscenza del loro contenuto. Nella particolare ipotesi relativa al sequestro di documenti presso banche, l’art. 255 c.p.p. rimanda alla disposizione di carattere generale contenuta nell’art. 253, comma 3 c.p.p., in ossequio alle preminenti esigenze di funzionalità. È di tutta evidenza come tali « esigenze » si siano evidenziate nel tempo, in relazione a reati di particolare gravità (23). Per quanto attiene al sequestro presso gli uffici dei difensori, vige il divieto di delega alla polizia giudiziaria, come si evince dall’art. 103, comma 4 c.p.p. La natura del divieto è, in tal caso, garantistica perché strumentale all’interesse e alla posizione « istituzionale » della difesa (24). L’art. 103 c.p.p. si pone come norma di carattere speciale, a tutela del difensore, non come appartenente ad una categoria professionale qualificata, ma per il suo ruolo di depositario della fiducia e dei segreti dell’indiziato, motivo per cui risulta particolarmente garantito da ingerenze, nella sua attività. In tema di perquisizioni ed ispezioni è data al p.m. facoltà di delega, indipendentemente anche dal presupposto di necessità ed urgenza, caratteristica di tali attività compiute dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa, ex art. 247 comma 3 c.p.p. Da rilevare in proposito come, pure nelle suddette ipotesi, particolare incidenza è data alla garanzia difensiva in quanto, non rientrando nella categoria degli atti urgenti, è richiesto a pena di nullità, il preventivo avviso al difensore (25). Allo stesso modo che per il sequestro, così, non sono delegabili le pertinenti al reato, necessarie all’accertamento dei fatti, « su delega » dell’autorità giudiziaria, ma ne è legittimato il solo ufficiale di polizia giudiziaria (art. 253 comma 3 c.p.p.). (22) « Si tratta pur sempre di un sequestro probatorio di uno strumento destinato a preservare il corpo del reato o le cose ad esso pertinenti, necessarie per l’accertamento dei fatti »: Cass. pen., 9 ottobre 1992, in Giur. it., 1994, p. 522. (23) Infatti nel sistema abrogato l’art. 340, comma 3 c.p.p., prevedeva che al sequestro presso banche dovesse procedere sempre il giudice, personalmente. Tale disciplina risultava modificata dalla legge 6 febbraio 1980, n. 25 con la previsione che l’atto potesse essere compiuto, per delegazione, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria per verificare indizi o accertare reati di terrorismo o di evasione dell’ordine democratico, nonché di criminalità organizzata. (24) A riguardo è da aggiungere che anche se non è prevista alcuna causa di nullità, tale disposizione è comunque sanzionabile nello schema della inutilizzabilità ai sensi dell’art. 103 comma 4 c.p.p. (25) Così Cass. 5 luglio 1990, inedita.


— 1169 — perquisizioni e le ispezioni negli uffici dei difensori e presso le banche (26). La sanzione processuale che consegue all’atto di ispezione o di perquisizione compiuto in violazione dei suindicati limiti di delega, si concretizza, in virtù della concezione « relativistica della prova » nella inutilizzabilità dei risultati dei mezzi di ricerca della prova « per invalidità del procedimento con cui sono stati concessi o attuati » (27). È il caso di soffermarsi sugli accertamenti tecnici che costituiscono una ipotesi in cui l’attività ad iniziativa della polizia giudiziaria viene strutturata diversamente da quella che la stessa compie su delega del p.m., per quanto attiene agli adempimenti previsti a tutela del diritto di difesa. Infatti mentre gli accertamenti tecnici espletati dalla polizia giudiziaria, motu proprio, ricadono sotto la regola dell’art. 356 c.p.p. con la connessa tutela del diritto di difesa, per quelli compiuti su delega del p.m. non è prevista alcuna forma di assistenza (28). In giurisprudenza tale discrasia ha trovato spiegazione « nella diversità dei momenti acquisitivi e nelle differenze funzionali » caratterizzanti ciascun organo preposto al compimento degli atti di indagine (29). Sembra, però, più opportuno aderire alla tesi che si rifà alla distinzione tra « rilievi tecnici » che, non comportando una valutazione critica del materiale raccolto, non richiedono l’intervento del difensore e « accertamenti tecnici » che implicano una valutazione critica e la conseguente operatività del regime garantistico (30). In conclusione deve ritenersi che la polizia giudiziaria, motu proprio, (26) In tema di garanzie di libertà del difensore è incisiva una recente pronunzia della Corte a Sezioni Unite, a chiarimento dell’ambito operativo del limite posto alla ricerca della prova che si intende perseguire. La Corte ha infatti stabilito che l’attività difensiva va considerata nella sua più ampia esplicazione e non già limitatamente al rapporto difensivo nella sua attualità: Cass. 12 novembre 1993, in Cass. pen., 1994, p. 914, m. 506. (27) La verità è quella « processuale », per cui, allorquando ci si trovi di fronte ad una difformità dell’atto, rispetto al modello legale previsto per il procedimento ammissivo del mezzo di prova, è fissata l’inutilizzabilità dell’atto: JESU, Le garanzie di libertà del difensore nella ricostruzione delle Sezioni Unite: opportuna precisazione e qualche nuovo dubbio, in Cass. pen., 1994, pp. 2025, 1259. (28) Nuovo codice di procedura penale a cura di CONSO-RICCIO, 1990, p. 612. (29) In tal senso si è ritenuto che la difesa sia un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, pertanto non è vietato al legislatore disciplinare con modalità diverse tale diritto in rapporto alle singole fasi, ai singoli atti e alle funzioni e qualificazioni dell’organo che questi debba espletare: Cass. 14 marzo 1990, in Cass. pen., 1990, p. 86, m. 36. (30) L’ufficiale di polizia giudiziaria, quando vi sia urgenza di raccogliere le prove del reato, può procedere a necessari rilievi. Se detti rilievi si esauriscono in una attività di osservazione e descrizione che non comporti accertamenti tecnici e da cui rimanga estranea ogni valutazione critica sui dati raccolti, non è necessaria la nomina del difensore, giacché tale attività non rientra fra quelle a cui hanno diritto di assistere i difensori ex art. 225


— 1170 — può procedere ad accertamenti tecnici, rilievi descrittivi, operazioni di carattere tecnico disciplinati dall’art. 356 c.p.p., per quanto attiene al diritto di partecipazione del difensore. Diversamente il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, compie personalmente accertamenti tecnici funzionalmente non rinviabili, riguardanti persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione e il cui compimento implica l’attribuzione allo stesso p.m. di poteri discrezionali di scelta non attribuibili alla polizia giudiziaria (31). Quindi il pubblico ministero potrà delegare alla polizia giudiziaria semplici « rilievi tecnici » per i quali non è prevista alcuna forma di assistenza del difensore. Il riferimento normativo ex art. 370 c.p.p., infatti, rimanda espressamente all’art. 364 c.p.p. per interrogatori, ispezioni o confronti e all’art. 365 c.p.p. per perquisizioni o sequestri, così come al 360 c.p.p. per gli accertamenti tecnici non ripetibili. 4. Attività delegata ad altra autorità giudiziaria. — Per ragioni di economia processuale, il legislatore in casi tassativamente determinati, consente all’autorità giudiziaria « di avvalersi dello strumento della rogatoria, pur senza fare uso di tale termine » tipico dei rapporti internazionali, ma utilizzando ora il termine « richiedere » come per l’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale ex art. 294 comma 5 c.p.p., ora il termine « delegare » ai sensi dell’art. 370 c.p.p. (32). Tale norma, come principio di carattere generale, prevede che il p.m. possa procedere personalmente all’assunzione di atti nella circoscrizione di altro tribunale, senza peraltro darne avviso al pubblico ministero del luogo. Si tratta così di una prospettiva che, ancora una volta, potenzia particolarmente le funzioni del p.m. nella direzione delle indagini preliminari. Pur tuttavia, di seguito è offerta la facoltà al p.m., per le ragioni innanzi esposte, di delegare per l’assunzione di atti fuori della propria circoscrizione, il tribunale o la pretura del luogo, a seconda della rispettiva competenza. Dalla lettura del comma successivo si evince che debba trattarsi di « atti specificamente delegati » da cui si ricava l’inammissibilità di una « delega aperta ». Si è addirittura ipotizzato che la delega da uno ad altro p.m. debba essere, oltre che « specifica », come per la delega alla polizia giudiziaria, anche precisa e determinata, circoscritta a diretti atti di acquic.p.p.: così in giur., in vigore il codice 1930, Cass. 10 gennaio 1980, in Cass. pen., 1981, p. 1082, m. 953. (31) Si fa l’esempio della scelta rimessa al p.m. tra il procedere all’accertamento tecnico e il richiedere l’incidente probatorio ex art. 360 comma 4 c.p.p. (32) CONSO-BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, 1992, p. 658.


— 1171 — sizione della prova (33). Infatti val la pena sottolineare come la locuzione « atti specificamente delegati » è da interpretare non come inerente alla persona incaricata, bensì al contenuto dell’atto stesso. In tal modo si intende garantire una data organizzazione di attività all’interno degli uffici dell’autorità giudiziaria, che non stabilisce un rapporto caratterizzato da una valutazione di carattere personale. Ne consegue la possibilità di subdelega da parte del p.m. delegato, ad un ufficiale di polizia giudiziaria, affinché sia quest’ultimo ad adempiere all’effettuazione dell’atto stesso. Preliminare è comunque la puntualizzazione specifica degli atti delegati e non solo perché la direzione delle indagini rimane pur sempre del p.m., ma anche perché, se il delegato dovesse espletare una richiesta generica, dovrebbe necessariamente acquisire conoscenza dell’intero procedimento, con la conseguente duplicazione dell’attività processuale (34). Si evidenzia così che la delega di un atto non implica scelte di valutazione circa la sua rilevanza nei riguardi dell’indagine in corso: tale facoltà spetta esclusivamente al p.m. delegante, in quanto è il solo in grado di avere una visione completa del procedimento. Anche se l’art. 370 comma 3 c.p.p. lascia intendere che la dizione « atti da assumere » implichi un unico generico rapporto « atto » « luogo », si ritiene che l’ambito dell’attività delegata si restringa attorno a quei singoli atti collegati al luogo in virtù di un nesso logico di necessità. È comunque opportuno sottolineare come, in considerazione della regola che vuole l’istruzione svolta prevalentemente nel luogo ove ha sede l’ufficio che la conduce, non è elemento determinante per una eventuale deroga, semplicemente il domicilio dell’imputato, del testimone, o la sede di un ufficio cui richiedere documenti (35). Il pubblico ministero, così delegato, potrà inoltre procedere, di propria iniziativa, a compiere altri atti d’indagine necessari al fine dell’attività delegata. In proposito si osserva come, partendo dal presupposto che il potere derivante dalla delega include, come già affermato, tutto ciò che sia richiesto dalle indagini, risulti discordante tale attribuzione come « facoltà » per il p.m. secondo il dettato dell’art. 370 comma 4 c.p.p. Non si comprende, infatti, come possa essere ricondotta alla discrezionalità del delegato e non ad un suo obbligo, quell’attività peraltro legittimata da « ragioni di urgenza o altri gravi motivi ». L’esclusione di alcuni atti dall’area di quelli delegabili è motivata da ragioni riconducibili alla finalità degli atti stessi. (33) AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, 1992, p. 537. (34) Si può ritenere, infatti, che la sola autorità delegante sia legittimata a decidere della impostazione, della direzione e dell’orientamento utile alle indagini. (35) MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, vol. II, 6a ed., 1969, p. 126.


— 1172 — Il riferimento, in proposito, è all’informazione di garanzia, atto ritenuto a ragione non delegabile in quanto è la sola autorità delegante in grado di redigere l’avviso, sia per quanto attiene alle indicazioni normative, sia per individuare i destinatari della notifica. Ad analoghe conclusioni si arriva in merito alla richiesta di incidente probatorio che, implicando una delicata valutazione circa l’anticipazione di quei determinati mezzi di prova, non può che appartenere al p.m. investito dell’indagine. Meritevole di attenzione è una recente pronuncia della Cassazione che, sul fondamento di un probabile rifiuto dell’autorità delegata a compiere l’atto richiesto, ha ravvisato una analogica ipotesi di conflitto soltanto se « la contestazione riguardi la sussistenza dei presupposti formali o sostanziali per il compimento dell’atto » (36) scevra da valutazioni su scelte discrezionali dell’autorità delegante. Trova in questo modo valore rafforzativo il principio che le valutazioni definitive rimangono pur sempre dell’organo delegante. Nell’art. 294 comma 5 c.p.p. il legislatore adotta una diversa terminologia: non più « delega » bensì « richiesta » dal giudice per le indagini preliminari ad altro giudice del tribunale nella cui circoscrizione è da assumere interrogatorio. La differenza non è casuale perché il riferimento è alla diversa natura dei rapporti in questione: infatti la « delega » di poteri consiste nella facoltà di investire un organo di uguale natura, ma di grado inferiore, mentre la « richiesta » si ispira al criterio di cooperazione tra organi per lo più di pari grado, anche di natura diversa. Come previsione di ordine generale, il giudice delle indagini preliminari competente ad assumere interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale opera anche fuori dalla propria circoscrizione, ma « qualora lo ritenga » può anche « richiedere » il suo corrispondente organo locale. Su tale dettato normativo si innesta qualche perplessità ricollegata alla natura dell’interrogatorio che riveste una rilevante importanza sotto il profilo della tutela del diritto di difesa. Mediante l’interrogatorio, infatti, il giudice è chiamato a valutare la persistenza delle condizioni di applicabilità della misura custodiale. Di conseguenza, all’esito dell’interrogatorio, svolto secondo le modalità indicate negli articoli 64 e 65 c.p.p., ed al quale hanno facoltà di intervenire il p.m. e il difensore, previo avviso, il giudice potrà disporre la revoca o la sostituzione della misura applicata. Soffermando l’attenzione sull’art. 65 c.p.p. e, in particolare, sulla co(36) Mentre il rifiuto non è consentito qualora si risolva in inammissibile sindacato sull’opportunità o sulla convenienza del compimento dell’atto: Cass. 3 aprile 1989, in Riv. pen., 1990, m. 177.


— 1173 — municazione all’indagato degli elementi di prova e relative fonti, si argomenta come la « conoscenza » delle fonti di prova non debba arrecare pregiudizio alle indagini. Ne consegue che, nell’ipotesi di rogatoria per l’interrogatorio dell’imputato in stato di custodia cautelare, « il giudice delegato non è facultato a comunicare le fonti di prova », spettando ciò al delegante che è l’unico « responsabile » dell’indagine (37). Alla stessa stregua compete all’organo rogante anche « l’individuazione del difensore d’ufficio », al giudice delegato spetterà eventualmente la comunicazione di tale individuazione (38). Può quindi dedursi che se, ai sensi dell’art. 294, comma 5 c.p.p. è previsto delegare ad altra autorità giudiziaria l’interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare personale, purtuttavia la particolare ratio dell’atto, finalizzata, come già precisato, all’attuazione del dirito di difesa, comporta una serie di limitazioni nei confronti del giudice delegato. Infatti, se il ricorso alla rogatoria è previsto « al fine di evitare che il numero e la dislocazione degli indiziati possano pregiudicare la praticabilità dell’interrogatorio », parimenti è evidenziata la funzione del giudice che ha disposto la custodia cautelare « attraverso il contatto diretto con l’indiziato ristretto » (39). Non è pertanto condivisibile il ricorso alla rogatoria per un atto così « delicato nella funzione » da richiedere continuità per la sua esplicazione; ma di diverso avviso è anche la più recente giurisprudenza che, anzi, ha esteso la possibilità di interrogatorio per delega al giudice di sorveglianza (40). 5. Dalla fase istruttoria alle indagini preliminari: differenze funzionali. — L’istituto della delegazione, sul fondamento che l’attività processuale debba essere sorretta da « criteri di economia funzionale e finanziaria », ha trovato rispondenza anche nella fase istruttoria che caratterizzava il codice del 1930 (41). Preliminarmente, va evidenziato come le differenze tra il « vecchio » (37) Cass. 3 maggio 1974, in Cass.pen., 1976, 481. (38) CONSO-GREVI, Commentario breve al nuovo c.p.p., 1994, p. 434. (39) Tale potere-dovere è stato così attribuito al giudice, al fine di consentire l’acquisizione degli elementi necessari per una immediata verifica della sussistenza dei presupposti della misura cautelare disposta: Relazione al progetto preliminare c.p.p., p. 75. (40) « Se ai fini di sicurezza ed economia processuale può delegarsi il magistrato di sorveglianza perché senta il detenuto in luogo diverso da quello ove si trova il giudice che procede, deve ritenersi che la delega a tale giudice può essere conferita pure nel caso in cui l’imputato trovasi agli arresti domiciliari: Cass. 4 dicembre 1991, 4063, inedita. (41) A tal fine si cercava di evitare per quanto possibile lo spostamento dei magistrati: MANZINI, op. cit., vol. II, 1969, p. 25.


— 1174 — e il « nuovo » dettato normativo si fanno risalire essenzialmente alla ratio posta a loro fondamento. Infatti l’abrogato art. 296 comma 3 c.p.p. condizionava l’acquisizione personale da parte del giudice istruttore, fuori del circondario, solo alla sussistenza di ragioni di urgenza o altri gravi motivi. Di tutta evidenza è il particolare risalto dato al criterio di « collaborazione » necessario tra organi di pari grado: il rapporto di cui al 296 comma 3 c.p.p. era dettato, in parte per ragioni di economia processuale, ma ancor più per evitare una sorta di invadenza nell’altrui sfera di giurisdizione. A rafforzare tale disposizione, la previsione secondo la quale, nell’ipotesi che il giudice istruttore intendesse compiere personalmente attività istruttoria fuori della circoscrizione, era tenuto a darne avviso, senza ritardo, al giudice istruttore del luogo. Diversamente per il legislatore ’88 l’obiettivo primario è nella « personalizzazione » delle funzioni in capo ad un unico pubblico ministero, tanto da prevedere la possibilità di delega fuori della circoscrizione, come forma di eccezione. Quanto, in particolare, alla precedente normativa in tema di delegazione, l’art. 296 c.p.p. ’30 regolava per l’istruzione formale, l’attività del giudice istruttore, nell’offrirgli la scelta, quando per esigenze di procedimento l’indagine doveva essere compiuta in altro luogo, di spostarsi personalmente, o di delegare il pretore del luogo stesso. Si veniva ad attuare, così, una vera e propria forma di delegazione tra organi di eguale natura, di cui il delegato, di grado inferiore. Al fine di chiarire perchè il giudice istruttore poteva rivolgere le proprie rogatorie al solo pretore, è opportuno riandare alla definizione a quest’ultimo attribuita: « giudice dell’immediatezza » colui, cioè, che ha la percezione diretta dei fatti (42). Come il giudice istruttore poteva, nell’istruzione formale, delegare il pretore o altro giudice istruttore, così del pari, il p.m. poteva, nel corso del rito sommario, « richiedere » per i singoli atti da compiere fuori del comune di residenza, il Procuratore della Repubblica, il pretore, o un ufficiale di polizia giudiziaria. Da ciò si trae lo spunto per evidenziare una diversità di carattere soggettivo: per il codice 1930 « delegato » è l’organo di pari grado: il Procuratore della Repubblica o il pretore, l’ufficiale di polizia giudiziaria quale organo di natura diversa; nella vigente normativa, invece, l’autorità giudiziaria delega il proprio corrispondente nella circoscrizione di diverso tribunale o, in posizione strumentale, la polizia giudiziaria. (42) Come ribadito non solo in dottrina: cfr. LEONE, Manuale di dir. proc. pen., 1986, p. 407; MANZINI, op. cit., p. 126; ma anche in giurisprudenza: Cass. 28 maggio 1984, n. 4934, inedita.


— 1175 — Assume un certo rilievo, avendo condizionato l’orientamento del legislatore ’88, la decisione della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla sollevata eccezione di legittimità degli articoli 296 commi 2 e 3, 392 comma 2 c.p.p. in riferimento agli articoli 3, 25 comma 1, 102 comma 1 e 107 comma 3 Cost. Nelle ordinanze di rimessione si è osservato che le disposizioni in esame inciderebbero, innanzitutto, secondo un ordine logico-giuridico, sulla garanzia di precostituzione del giudice (art. 25 comma 1 Cost.), in quanto la delegazione istruttoria verrebbe a dipendere da una « determinazione discrezionale dello stesso giudice istruttore ». Di conseguenza, si avrebbe un « ampliamento di competenza » per il pretore, in contrasto con il principio secondo cui « la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario » (art. 102 comma 1 Cost.). È stato inoltre evidenziato il contrasto dell’art. 296 commi 2 e 3 con l’art. 107 comma 3 Cost. ritenendo che la delega di funzioni dal giudice istruttore al pretore violi il criterio di distinzione dei magistrati rapportato unicamente alla « diversità di funzioni ». Non si è mancato di sottolineare, inoltre, l’opportunità che gli atti istruttori vengano svolti sempre dallo stesso giudice che ha formulato l’imputazione e per questo in grado, più di ogni altro organo da lui delegato, di « valutare i risultati delle indagini in rapporto ad ogni prova raccolta e all’interesse della difesa ». Diversamente, fra l’imputato e i testimoni interrogati dallo stesso giudice istruttore e coloro i quali venissero interrogati dal pretore delegato, si verificherebbe disparità di trattamento contrario al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (43). La Corte, chiamata a pronunciarsi in merito, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 296 commi 2 e 3 e 392 comma 2: in primo luogo non può ravvisarsi contrasto con il principio del giudice naturale perchè la delegazione, limitata com’è al solo compimento di indagini probatorie, non comporta sostituzione nell’esercizio di funzioni e non incide sulla precostituzione del giudice stesso, incrinandone il fondamentale principio della imparzialità di giudizio. Per quanto riguarda, poi, il rilievo dei giudici di merito rapportato all’art. 102 comma 1 Cost. e 107 comma 3 Cost. la Corte ha precisato che le asserite violazioni si fondano sull’erroneo presupposto che la delegazione di atti istruttori, per il suo contenuto di discrezionalità, modifichi l’ambito delle funzioni giurisdizionali, vincolando l’organo delegato al compimento di atti eccedenti dalla sua competenza istituzionale. Va in proposito sottolineato che: l’istituto della delega è attributivo di (43) Ordinanza 20 febbraio 1971, n. 157, Pretore S. Agata Militello; ordinanza 22 febbraio 1971, n. 139, Pretore Bitonto, in Giur. cost., 1972, p. 197 s.


— 1176 — competenza e l’organo che agisce per delega non riceve una « nuova competenza » perché esercita poteri che rientrano, sia pure potenzialmente, tra le proprie attribuzioni. È infatti la legge che demanda al pretore il compimento di quei particolari atti « in ottemperanza ad esigenze dalla legge medesima indicate » (44). In tema di attività delegata è sempre valsa la regola che vuole il magistrato delegato competente a compiere, non solo gli atti strettamente indicati dal delegante, ma anche gli altri, ai primi connessi, che esauriscono la delega nella forma e nella sostanza. Così si riconosce all’autorità delegata il potere-dovere di compiere atti di valore strumentale, ordinatorio e secondario, diretti a rendere possibile l’espletamento dell’attività espressamente delegata (45). L’unica difformità in proposito riguarda la « necessarietà strumentale » degli stessi atti ai sensi dell’art. 370 c.p.p., più incisiva della semplice « utilità » prevista dall’art. 296 comma 2 c.p.p. ’30. Da ultimo, si pone l’accento sul richiamo ai « singoli atti » specificamente indicati dal delegante ai sensi dell’art. 392, comma 2 c.p.p. ’30 (46), recepiti nell’art. 370 c.p.p. anche nel più ampio spettro di « attività di indagine ». Il riferimento al termine « attività » potrebbe essere inteso nell’accezione, sia pur atecnica, dell’azione investigativa distinta da quella comprensiva di atti tipici. È opportuno, invece, porre l’accento sulla considerazione che l’unicità della fase delle indagini preliminari accomuna l’attività di preistruzione a quella di istruzione, momenti ben distinti nel precedente sistema. dott. LUCIA IANDOLO PISANELLI

(44) Corte Cost. 15 marzo 1972, n. 52, in Giur. cost., 1972, p. 197 s. (45) L’autorità delegata deve compiere, di sua iniziativa o su richiesta, tutti gli atti che dallo svolgimento di quelli specificamente delegati appaiono necessari o utili per la prosecuzione delle indagini istruttorie: Cass. 17 aprile 1974, inedita; Cass. 5 dicembre 1973, inedita; Cass. 9 novembre 1971, inedita; Cass. 3 ottobre 1960, in Giust. pen., 1961, 1, p. 241. (46) « Ne consegue che al delegato non è consentito operare alcun sindacato circa la natura esaustiva dell’intera istruttoria, desumibile dalla qualità degli atti di cui viene richiesto il compimento »: Cass. 20 giugno 1988, in Riv. pen., 1989, m. 516.


‘‘VUOLSI COSÌ COLÀ DOVE SI PUOTE CIÒ CHE SI VUOLE’’ (CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI)

SOMMARIO: 0. Preambolo. - 0.1. La ‘‘centralità’’ dell’art. 2621 n. 1 c.c. - 0.2. Il problema. — 1. Le altre comunicazioni sociali. - 1.1. Una ricognizione terminologica. - 1.2. Alla ricerca di una definizione perduta. - 1.3. Una definizione extrapenalistica di ‘‘comunicazione’’. — 2. La funzione delle iscrizioni e delle annotazioni nel libro soci. — 3. Un caso irrisolto: il bene giuridico del reato di false comunicazioni sociali. - 3.1. Gli interessi ‘‘pubblicistici’’. - 3.2. In merito alla c.d. ‘‘plurioffensività’’ della fattispecie. - 3.3. Gli interessi ‘‘privatistici’’. — 4. Brevi note sui §§ 331 HGB e 400 AktG. — 5. Non c’è pace per la ‘‘fraudolenza’’. — 6. Falsità e simulazione: una difficile convivenza. — 7. Conclusioni.

0.

PREAMBOLO

0.1. La ‘‘centralità’’ dell’art. 2621 n. 1 c.c. Il diritto penale societario ha nell’art. 2621 no 1 c.c. la sua ‘‘norma fondamentale’’. Il legislatore le ha riconosciuto questo ruolo assumendola a modello dei convulsi interventi con cui ha ‘‘delineato’’ la legislazione speciale in materia societaria. ‘‘Tangentopoli’’ l’ha infine resa nota al grande pubblico. Ma il successo non ha risolto i seri problemi che affliggono la ‘‘vita privata’’ di questa diva del diritto. La travagliata nascita, il desiderio di distinguersi dalle norme che l’hanno preceduta, si sono infatti dimostrate una greve eredità per una fattispecie giovane, isolata in un contesto normativo a lei estraneo (1). E così, precetto penale in casa del diritto civile, lontano dal tranquillizzante (1) A seguito della l. 4 giugno 1931 n. 660, parz. modificata con la l. 16 febbraio 1942 n. 107, la disciplina societaria ha trovato infine la sua sedes materiae nel titolo XI del libro V dell’attuale codice civile ‘‘Disposizioni penali in materia di società e consorzi’’. Suo immediato precedente è stato il codice di commercio del 1882 che, ispirato alla legislazione francese, faceva un parco uso della sanzione penale, per lo più limitata alla pena pecuniaria, strumento ritenuto invece poco efficace alla tutela dell’interesse dell’economia nazionale e del risparmio, assorbito, quest’ultimo, in misura sempre maggiore proprio dalle società commerciali, in un’evoluzione del mercato che aveva avuto sì nell’Italia del Rinasci-


— 1178 — abbraccio di un codice di commercio, la norma sulle false comunicazioni sociali ha sollevato dubbi che hanno finito per coinvolgere sia importanti scelte di politica criminale quanto delicate soluzioni dogmatiche nella parossistica centralità del ‘‘codice’’ chiamato a far fronte a tutto lo scibile giuridico (2). Non meravigliano perciò più di tanto le difficoltà esogene ed endogene incontrate dalla norma de qua, così come la persistente incapacità di farvi fronte con i necessari correttivi normativi. Difatti, non è certo dato al legislatore contemporaneo, così modesto nelle sue aspirazioni politico-criminali e, soprattutto, così confuso sulla scienza della legislazione, chiarire il rapporto che intercorre fra la norma sulle false comunicazioni sociali e l’impressionante pletora di interventi legislativi con cui invece ha sadicamente afflitto il diritto societario (3). Sicché, nel confronto con le fattispecie da esso derivate, il modello delle mento la sua patria, ma che trovava in quella del XX secolo una provincia minore, con lustri di ritardo nei confronti degli standards europei ed americani. (2) A titolo di esempio, le osservazioni di LA MONICA sull’evoluzione storica del rapporto dolo-evento naturalistico/giuridico, in LA MONICA, voce Reati societari, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Giuffrè, 972 s. Su cosa sia rimasto oggi della ‘‘centralità’’ del codice Rocco, tra i tanti pregevoli lavori, PADOVANI, La sopravvivenza del codice Rocco nell’età della decodificazione, in AA.VV., Il codice Rocco cinquant’anni dopo, in La questione criminale, 1981; di recente, anche in riferimento al ‘‘preoccupante’’ concetto dell’Interventionsstrafrecht, PALIERO, L’autunno del patriarca (rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici), in questa Rivista, 1994, 1220 ss; sulle esigenze di riforma dell’attuale codice, MARINUCCI, L’abbandono del codice Rocco: tra rassegnazione ed utopia, in La questione criminale, 1981, 306 s. (3) In soccorso della memoria, a testimonianza dell’affanno del legislatore, senza pretesa alcuna di completezza e nemmeno di attualità, si ricordano alcuni interventi legislativi ‘‘diretti’’ in materia societaria: a) l. 7 giugno 1974 n. 216 e succ. modifiche (‘‘miniriforma’’ in materia societaria); b) d.P.R. 31 marzo 1975 n. 136 in attuaz. art. 2 lett. a) l. 7 giugno 1974 n. 216 (Falsità nella certificazione dei bilanci o in relazioni comunicazioni o dichiarazioni). (Introd. società di revisione. V. in part. art. 14); c) l. 10 maggio 1976 n. 377, (Modifiche al codice civile in tema di consorzi e società consortili); d) l. 23 marzo 1983 n. 77; (istit. fondi comuni investimento mobiliare); in part. art. 10 oggi sost. da art. 12 d.lgs. 25 gennaio 1992 n. 83; e) l. 4 giugno 1985 n. 281 (ord. CONSOB); f) d.P.R. 10. febbraio 1986 n. 30 in att. 2a Direttiva CEE n. 77/91 ai sensi l. 8 agosto 1985 n. 412 (Disciplina S.p.A., S.a.p.a., S.r.l. e cooperative - modif. artt. 2621, 2629, 2630, 2632, nuovo 2630-bis c.c.); g) d.lgs. 16 gennaio 1991 n. 22 (fusioni e scissioni societarie); h) d.lgs. 25 gennaio 1992 n. 83, in attuaz. Direttiva CEE n. 85/611 e n. 88/220 (modif. discipl. fondi comuni di investimento mobiliare); i) d.lgs.14 dicembre 1992 n. 481, in att. Direttiva CEE n. 89/646, modif. Direttiva CEE n. 77/780 (enti creditizi). Importante è l’attività di depenalizzazione del legislatore, che ha influito non poco sulla disciplina societaria:


— 1179 — false comunicazioni sociali non può venire con sicurezza relegato al ruolo di ‘‘norma di chiusura’’ dalla distratta attenzione del nostro legislatore per i veloci mutamenti del fenomeno societario o dalla sua affannata rincorsa alle ‘‘invadenti’’ direttive CEE. Soluzione invero fin troppo facile da rinnegare quando la disponibile vaghezza del dettato legislativo dell’art. 2621 n. 1 c.c. o, ancor più, la natura delittuosa e severa delle pene da questo previste, si dimostrassero più confacenti alla pronta sensibilità repressiva degli organi giudicanti. Né d’altronde sembra sempre prospettabile la soluzione opposta, poiché lascia all’autonomia della norma de qua un margine d’intervento troppo esteso, anche nel regolare fenomeni relativamente nuovi — e bene o male compiutamente disciplinati — quali i fondi comuni d’investimento mobiliare. Non certo meno gravi risultano poi le difficoltà endogene alla norma. Sono infatti da tempo chiaramente denunciati dagli studiosi del diritto i difetti di tassatività degli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie, chiaramente riflessi nelle incertezze di un reato di mera condotta di cui ormai si può sostenere di tutto, dalla struttura di pericolo astratto alla — forse — conseguente plurioffensività degli interessi tutelati. 0.2. Il problema. Il presente lavoro è sensibile ai numerosi e pregevoli studi dedicati all’argomento e non ha di sicuro la presunzione di fornire soluzioni — tutt’al più: provocazioni — proponendo un problema che, a quanto risulta, la dottrina non ha ancora raccolto dalla prassi, né la prassi stranamente a) l. 24 dicembre 1975 n. 706 (depenalizzazione delle fattispecie contravvenzionali pecuniarie: abrog. ex art. 42 l. n. 689/81); b) l. 24 novembre 1989 n. 689 (ripenalizz. ex artt. 49-52; depen., ex art. 32, artt. 2626, 2627, 2633, 2634, 2635 c.c.). Sono inoltre da segnalare: a) l. 6 agosto 1990 n. 223, in part. artt. 30, 31 (disciplina sistema radiotelevisivo); b) l. 10 ottobre 1990 n. 287, in part. artt. 19, 29 (concorrenza, partecipazioni enti creditizi); c) d.lgs. 20 novembre 1990 n. 356, in part. artt. 42, 43: ora abrog. ex art. 161 d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385 (gruppi creditizi, comunic. Banca d’Italia); d) l. 2 gennaio 1991 n. 1, in part. artt. 4, 5, 9, 11, 14, 18 (intermediazione mobiliare); e) l. 9 gennaio 1991 n. 20 artt. 3, 16 (imprese o enti assicurativi); f) l. 17 maggio 1991 n. 157 artt. 2, 5, 7 (insider trading); g) l. 5 luglio 1991 n. 197 artt. 2, 5, 6, 10 (riciclaggio); h) l. 30 dicembre 1991 n. 413 artt. 8, 11, 19, 63. Per un ‘‘quadro’’ più dettagliato, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, leggi complementari, vol. I, I reati societari e bancari, 8a ed., Giuffrè, 1993, 6 ss., cui si rimanda anche per le ulteriori indicazioni in merito alle singole fattispecie delittuose e contravvenzionali.


— 1180 — ha evidenziato: l’iscrizione nel libro soci di false indicazioni realizza il reato di false comunicazioni sociali ex art. 2621 n. 1 c.c.? Spingere la fantasia ad anticipare la realtà nell’analisi di una questione dalle notevoli potenzialità, potrebbe contribuire — si spera — al dialogo troppo spesso interrotto tra la teoria e l’applicazione del diritto. Difatti, quando il diritto penale viene rappresentato da una norma dai contorni tanto fluidi quale quella de qua, cercare un confronto immediato tra i singoli elementi della fattispecie e le sollecitazioni di una questione volutamente scelta per l’indubbia valenza pratica, ma anche per la sua ferma collocazione nell’ambito del diritto civile, diventa infine motivo di riflessione sull’osservanza e la validità dei principi posti a presidio di un precetto penale, nonché sugli elementi che dovrebbero caratterizzarne la specificità. 1.

LE ALTRE COMUNICAZIONI SOCIALI

1.1. Una ricognizione terminologica. Per l’art. 2621 n. 1 c.c. ‘‘Salvo che il fatto costituisca reato più grave, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire due milioni a venti milioni: 1) i promotori, i soci fondatori, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime’’. Pertanto l’iscrizione nel libro soci potrebbe rientrare nell’articolo de quo solo se l’oggetto dell’iscrizione non rispondesse alla verità dei fatti o li nascondesse in tutto o in parte, ricadendo quindi in uno dei documenti descritti, e cioè: ‘‘nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali’’. Ma poiché nel libro soci ‘‘devono essere indicati il numero delle azioni, il cognome e il nome dei titolari delle azioni nominative, i trasferimenti e i vincoli ad esse relativi e i versamenti eseguiti’’ (art. 2421 n. 1 c.c.) un’iscrizione falsa, a tal riguardo, potrebbe trovare spazio nella norma de qua, solo dimostrando la sussumibilità di tali ‘‘indicazioni’’ nel concetto di altre comunicazioni sociali. E che si debba comunque trattare di una condotta commissiva, anche nel caso di nascondimento di fatti, è bene precisarlo. Ciò non significa che il nascondimento non abbia anche una componente omissiva, bensì che il legislatore ha ritenuto necessario ancorare la rilevanza penale di siffatti comportamenti ad un quid da aggiungere all’inerzia, propria delle condotte omissive, verso un obbligo giuridico. Questo ‘‘in più’’ è costituito da una attività volta a celare la verità dei


— 1181 — fatti, sì da poter sanzionare penalmente anche una comunicazione sociale ‘‘il cui silenzio non vada oltre la prospettazione di verità parziali’’ (4), pur escludendo la tipicità di quelle condotte il cui stato soggettivo rischiasse di ‘‘scivolare’’ dagli incerti confini del dolo eventuale all’estranea colpa cosciente. Situazione invero difficile, ma non impossibile da realizzare e comunque mal sopportabile da una norma, quale appunto le false comunicazioni sociali, già gravata dalla specificità di un amletico dolo di frode (5). 1.2. Alla ricerca di una definizione perduta. Dai ripetuti, e fin troppo particolari interventi della Suprema Corte spesso in riforma di contrarie posizioni sostenute dalla giurisprudenza di merito, si è fatto delle altre comunicazioni sociali un mostro capace di fagocitare senza particolare turbamento ‘‘comunicazioni scritte od orali promananti dai soggetti qualificati, riferite alla consistenza ed alle attività economiche delle società e dirette ai soci, ai creditori, e pure ad un solo destinatario’’, privato o pubblico che sia (6). Ma con una siffatta definizione, anche una azzardata dichiarazione dell’amministratore delegato ad un membro del consiglio di amministrazione avrebbe ragione di temere la qualifica di comunicazione sociale! In seguito ad una tale estensione del concetto la dottrina, considerando il carattere proprio del reato in questione, la specificatezza delle funzioni svolte dai soggetti attivi, la ricerca di omogeneità delle altre comunicazioni sociali con la diffusività implicita dei bilanci e delle relazioni sottoposti inoltre al regime della pubblicità legale, ed anche confrontando la portata del n. 2 dello stesso articolo — ritenuto palese espressione della volontà di tutelare i creditori sociali non come singoli ma in quanto categoria particolarmente esposta ad un’illegale ripartizione di utili (7) — ha infine opposto i ‘‘baluardi’’ della necessaria ‘‘socialità", ‘‘ufficialità’’ e ‘‘direzionalità pubblica’’ quali condizioni necessarie per realizzare una ‘‘comunicazione’’ ai sensi della norma in oggetto. Baluardi dimostratisi non proprio inespugnabili se, ciononostante, il concetto di comunicazione sociale ha debordato in ogni direzione, tant’è che, rispettando il solo limite della ‘‘socialità’’, ha finito per comprendere ‘‘ogni possibile comunicazione, diversa dalle relazioni e dai bilanci, (4) PEDRAZZI, Un concetto controverso: le comunicazioni sociali, in Riv. ital., 1977, 1566. (5) Si veda, § 5. (6) Cass. 8 novembre 1989, in Cass. pen., 1991 con nota di G.C. LUCENTE, cui si rimanda per le ulteriori indicazioni giurisprudenziali, 1643, nt. 3. (7) LUCENTE, cit. nt. 6, 1638.


— 1182 — scritta o verbale, e comunque portata a conoscenza dei soci e dei terzi in genere’’ (8) (9). In particolare, se la dottrina, confrontando il criterio della ‘‘socialità’’ con il dettato normativo, ha finito per abbandonare ogni cruccio riconoscendo laicamente che ‘‘vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole’’, assai più agguerrita si è invece dimostrata nei confronti del requisito della ‘‘direzionalità pubblica’’, intesa quale esigenza di conoscenza o conoscibilità delle comunicazioni sociali da parte del pubblico. Si è infatti giustamente obbiettato che il requisito della ‘‘direzionalità pubblica dell’offesa’’ — da cui taluno ha poi tratto un obbligo di pubblicità legale per le comunicazioni sociali in realtà non previsto per gli atti dei direttori generali inerenti alle loro funzioni (10) — ‘‘muta a seconda del tipo di comunicazione e delle modalità del falso... mentre non è detto che le categorie tutelate siano pregiudicate tutte assieme: il falso, spesso, attenta agli interessi di una particolare categoria, magari avvantaggiandone un’altra’’ (11). Diversa è invece la posizione che intende valorizzare la figura dei destinatari, individuati innanzi tutto nei soci e creditori sociali, anziché nel troppo generico ‘‘pubblico’’, e per tutelati non come singoli, ma come ‘‘categorie aperte... caratterizzate da un ricambio, almeno virtuale, dei loro componenti’’ (12). È bene tuttavia evidenziare che quando si spinge la tutela anche ai terzi ‘‘quali potenziali soci o creditori, si accentua (certo) l’indeterminatezza del numero dei beneficiari, e quindi la diffusività dell’offesa’’; si giustifica — forse — perché il legislatore abbia voluto proprio con le comunicazioni sociali derogare all’irrilevanza penale del falso ideologico in atti privati (13); ma si paga — anche — un prezzo assai alto, in breve: la perdita di ogni potere selettivo del requisito in esame accompagnata da una rigida sovrapposizione della figura dei destinatari della ‘‘comunicazione’’ a quella dei titolari dell’interesse protetto o, addirittura, da una loro sostituzione resa necessaria dalla supposta non individuabilità del soggetto passivo di tale fattispecie (14). Sicché viene da chiedersi se vi possa essere scarto tra i destinatari (8) Così LA MONICA, cit. nt. 2, 976. (9) In merito alla rilevanza delle comunicazioni ‘‘esterne’’ si è giustamente rilevato che benché l’art. 2 n. 1 della l. 4 giugno 1931 n. 660 specificasse, a differenza dell’attuale art. 2621 n. 1 c.c., ‘‘relazioni o comunicazioni fatte al pubblico’’, costante tradizione legislativa, e silenzio dei lavori preparatori, non autorizzano a ritenere diversamente (così ANTOLISEI, cit. nt. 3, 123). (10) ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali, Treccani, XIII, 3. (11) PEDRAZZI, cit. nt. 4, 1570; cfr. MORSELLI, Il reato di false comunicazioni sociali, 1974, 159. (12) PEDRAZZI, cit. nt. 4, 1569. (13) PEDRAZZI, cit. nt. 4, 1569. (14) MORSELLI, cit. nt. 11, 170. Vedi ZUCCALÀ, cit. nt. 10, 4.


— 1183 — della dichiarazione e i titolari dell’interesse tutelato dalla norma in questione; se comunque affermata tale identificazione, il reato si consumi anche quando l’atto venga comunicato a soggetti legittimati, ma diversi da quelli istituzionalmente deputati a ricevere l’atto stesso (15); e soprattutto se a tale quesito sia possibile rispondere senza dar luogo ad una rilettura della plurioffensività della norma alla luce di una diversa definizione dell’interesse tutelato, lettura nondimeno operata nella stretta osservanza del requisito della necessaria offensività della condotta incriminata. In conclusione: i criteri finora suggeriti sembrano insufficienti a chiarire non solo se le iscrizioni nel libro soci, ma anche avvisi, lettere di trasmissione, telegrammi, telex, comunicazioni verbali, dichiarazioni operate dai singoli amministratori o dai sindaci ai collegi di cui fanno parte: atti tutti apparentemente accomunabili alle ‘‘comunicazioni’’ di cui all’art. 2621 c.c. Perplessità rimangono pure sulla rilevanza penale, in base alla norma de qua, del prospetto informativo, dei bilanci-tipo e di quelli straordinari, delle valutazioni, così come sulla necessità di discriminare fra le ‘‘comunicazioni’’ ad un unico destinatario privato (ad es. una banca) da quelle rivolte ad un destinatario pubblico (ad es. un Ministero). Le soluzioni — se pur originali ed acute — offerte dalla dottrina non hanno infatti impedito che la giurisprudenza, sfruttando ‘‘l’elasticità’’ della fattispecie in questione, realizzasse infine una preoccupante dilatazione del campo applicativo della norma, lasciando eventualmente alla peculiarità del caso concreto le rare soluzioni restrittive. Occorre forse una diversa impostazione della questione: bandita ogni lamentosa nenia sulla sordità delle corti di giustizia circa i ‘‘prodotti’’ dottrinali, è necessario dar luogo alla ‘‘solita’’ esegesi semantica e sistemica della norma, per cercare soluzioni ad un problema specifico quale, appunto, la sussumibilità dell’iscrizione nel libro soci alla comunicazione sociale. È questo, infatti, il primo indispensabile passo per tentare di instaurare quel ‘‘circolo virtuoso’’ con l’interpretazione storico-teleologica necessaria ad inserire la norma in un contesto più ampio, capace di dialogare con gli interessi sottesi ad un precetto ormai pericolosamente lontano dai principi di garanzia del diritto penale. Il risultato di siffatta attività interpretativa dovrà ovviamente rimanere circoscritto al dettato letterale della norma, invalicabile limite all’impeto dell’analisi indirizzata al telos del precetto. Oltre, sulla fonte del diritto, può solo il legislatore.

(15)

ZUCCALÀ, cit. nt. 10, 4.


— 1184 — 1.3. Una definizione extrapenalistica di ‘‘comunicazione’’. Poiché la scienza penalistica sembra alquanto incerta sul contenuto di una ‘‘comunicazione’’, e vista la stessa collocazione extrapenalistica della norma in questione, spontanea sorge la domanda se da altri settori dell’ordinamento giuridico possa giungere qualche indicazione a tal proposito rilevante. È stato giustamente evidenziato che il concetto di ‘‘comunicazione’’ non è sempre distinto dall’operazione, anche quando è normativamente richiamata (16), tant’è che pigramente il legislatore spesso attribuisce un significato comune a ‘‘comunicare’’ e ‘‘comunicazione’’ (17). Duplice è infatti l’accezione etimologica del termine ‘‘comunicazione’’. La prima: ‘‘atto col quale si porta qualcosa a conoscenza di qualcuno’’ (18), dà della ‘‘comunicazione’’ un concetto più ampio, derivato e sovrapposto a quello di notum facere. La seconda: attività diretta a rendere comune ad altri qualcosa che sia una sensazione, un sentimento, ‘‘o, soprattutto, e per lo più, la conoscenza di una situazione, o di un fatto, o di un concetto’’ (19), inverte la prospettiva, e collega la ‘‘comunicazione’’ al commune facere. In tal senso la ‘‘comunicazione’’ può dunque comprendere la ‘‘dichiarazione’’, ma non identificarsi con essa, sia per la possibilità che la ‘‘comunicazione’’ non avvenga attraverso il discorso, sia perché — a prescindere dall’eventualità di divenire elemento costitutivo di una dichiarazione — la ‘‘comunicazione’’ infine si specifica quale ‘‘attività diretta a produrre la conoscenza, a prescindere dal suo risultato (positivo o negativo), e cioè dalla percezione del destinatario’’ (20). In breve: distinte dalle ‘‘dichiarazioni’’ e dalle ‘‘partecipazioni’’ — intese quest’ultime come dichiarazioni recettizie non negoziali — le ‘‘comunicazioni’’ sono attività il cui carattere dominante è dato dal loro orientamento teleologico volto a ‘‘produrre o rendere possibile la conoscenza ad uno o più soggetti determinati’’ (21). Quindi, se si eccettua dal fenomeno dell’uso ‘‘nominale’’ del termine, rimane l’effettività o potenzialità della conoscenza dell’atto — opportunamente sostituita da autorevole dottrina alla troppo generica ‘‘direzionalità’’ dell’atto (22) — il tratto dominante della ‘‘comunicazione’’. (16) Cfr. parte generale del codice di procedura civile, titolo VI, capo I, sezione IV. (17) LANCELLOTTI, voce Nov. dig., vol. III, 846 s. (18) MIRABELLI, L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, 40; PANUCCIO, voce Partecipazioni e comunicazioni, in Enc. dir., 40 ss., cui si rimanda anche per l’ulteriore bibliografia citata. (19) LANCELLOTTI, cit. nt. 17, 847. (20) LANCELLOTTI, cit. nt. 17, 847. (21) PANUCCIO, cit. nt. 18, 42 s. (22) PUGLIATTI, La simulazione dei negozi unilaterali, in Diritto civile. Metodo, teoria, pratica, 1951, 565 ss.; PANUCCIO, cit., nt. 18, 30 s.


— 1185 — Ma quanto aiuta questa caratteristica a precisare il concetto di ‘‘comunicazione’’ penalmente rilevante? Ben poco, e per due motivi. Il primo, è dato dalla conseguenziale necessità di specificare il carattere potenziale od effettivo della conoscenza in base a modelli il cui grado di personalizzazione nel campo civilistico non è, fra l’altro, legato alle ‘‘pastoie’’ del principio di colpevolezza. Il secondo, è spiegato dall’inutilità ed improprietà di una siffatta analisi. Difatti, se si passa dallo studio semantico del concetto di ‘‘comunicazione’’ a interpretazioni autorevoli ma controverse e, soprattutto, peculiari al diritto civile, si rischia di perdere di vista la specificità della norma penale, relegandola così, in modo aprioristico, ad un ruolo meramente sanzionatorio. Ciò non sembra accettabile. È certo infatti che la collocazione sistematica della norma proietta naturalmente le false comunicazioni sociali nell’ottica civilistica. Ma tale marchio d’origine, lungi dal costituire una sorta di ‘‘assicurazione’’ per il legislatore penale — per così dire — in trasferta, costituisce in realtà inesauribile fonte di problemi se il concetto elaborato in altra sede ed ‘‘imprestato’’ alla fattispecie penale non sia ben definito, solidamente impiantato in un’elaborazione dottrinale e/o giurisprudenziale che ne abbia con rigore delineato i confini. In particolare, il vincolo penalistico posto a presidio della sufficiente determinatezza della fattispecie, pur comprensibilmente affievolito dall’interdisciplinarità delle situazioni considerate, riacquista forza ed intransigenza quando l’elemento normativo sia di provenienza extrapenale. In breve: la presunzione — relativa — di uniformità nell’uso di termini comuni a branche diverse della scienza giuridica perde ogni valenza quando urta con i principi propri del singolo settore considerato e ciò, in particolare, quando coinvolta è la più grave delle sanzioni: quella appunto penale. È dunque inevitabile che la risposta al problema di cui si discute debba provenire da un’analisi strettamente penalistica della fattispecie. Quando il legislatore ha inopinatamente richiamato nel codice civile delle non meglio precisate altre comunicazioni, ha forse soddisfatto con l’omnicomprensività del termine intuibili preoccupazioni generalpreventive (23), ma lo ha fatto richiedendo un tributo assai doloroso: il sacrificio del principio di legalità (24). Però hoc iure utimur. Del resto, anche le inevitabili proposte de lege ferenda ricevono forse (23) Circa l’inaccettabilità di una politica-criminale ristretta alle sole ‘‘necessità preventive’’, per tutti, MONACO, Prospettive dell’idea dello ‘‘scopo nella teoria della pena’’, Jovene, Napoli, 1984, 99 ss. (24) Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte generale, 2a ed., Zanichelli, 1989, 56 ss.


— 1186 — indicazioni più chiare — e la disciplina societaria attuale ‘‘urla’’ un bisogno di chiarezza — se le potenzialità costituzionalmente accettabili della norma de qua vengono valutate in relazione a problemi concreti: ad esempio la sussumibilità nell’art. 2621 c.c. dell’iscrizione nel libro soci di fatti non rispondenti al vero circa il passaggio di quote od azioni di una società di capitali a seguito di una vendita simulata delle stesse di cui l’amministratore sia a conoscenza. La ritenuta sussidiarietà della norma penale, il valore altissimo della libertà personale, la necessità di proporzionatezza e ragionevolezza della risposta sanzionatoria rapportata alla gravità della condotta (25), il confronto con l’importanza dei documenti esplicitamente richiamati nell’articolo de quo (relazioni e bilanci) fanno infatti pensare ad una comunicazione sociale la cui falsità sia altamente pregiudizievole per l’interesse tutelato. Pertanto, solo se ‘‘l’importanza’’ dell’iscrizione nel libro soci fosse tale che una sua disfunzione, fraudolentemente determinata, realizzasse una lesione o una messa in pericolo dell’interesse tutelato paragonabile a quella arrecata da un falso in bilancio, potrebbe anche ‘‘reggersi’’ una reazione penale attuata mediante la norma in questione. 2.

LA FUNZIONE DELLE ISCRIZIONI E DELLE ANNOTAZIONI NEL LIBRO SOCI

Il libro soci rientra tra i libri sociali obbligatori di cui agli artt. 2421 e 2490 c.c.. In esso devono essere indicati: per le S.p.A. ‘‘Il numero delle azioni, il cognome e il nome dei titolari delle azioni nominative, i trasferimenti e i vincoli ad esse relativi e i versamenti eseguiti’’, e per le S.r.l. ‘‘il nome dei soci e i versamenti fatti sulle quote, nonché le variazioni nelle persone dei soci’’. Al libro soci è legata l’efficacia probatoria di alcuni ‘‘rapporti esterni’’ alla società. Più precisamente: il libro fa piena prova contro l’imprenditore dei fatti sfavorevoli in esso indicati (art. 2709 c.c.) — fatti di cui costituisce a tutti gli effetti una confessione (art. 2730 c.c.) — ed anche, se regolarmente vidimato e bollato, dei fatti a favore dell’imprenditore, se riguardanti ‘‘I rapporti inerenti all’esercizio d’impresa’’ (art. 2710 c.c.). Sempre al libro soci è legata la già citata ‘‘opponibilità interna’’ al riconoscimento dello status di socio. Infatti, sebbene il negozio di trasferimento di quote o di azioni — queste ultime in genere per girata autenticata (art. 2023 c.c.) — una volta perfezionato ha immediata efficacia inter partes, l’acquirente può tuttavia esercitare i diritti sociali solo dopo aver chiesto ed ottenuto l’annotazione sul libro soci dell’acquisto. Momento quest’ultimo fondamentale, perché ad esso ‘‘in una sorta di delibazione’’ (25) 18 s.

Per tutti, BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it, vol. XIX,


— 1187 — è legata la possibilità dell’organo amministrativo responsabile della regolare tenuta dei libri sociali di rifiutare la richiesta annotazione, richiamandosi, ad esempio, alla validità dell’atto negoziale, a norme statutarie che subordinano l’acquisto della qualità di socio, a clausole di prelazione, di gradimento, al possesso di certe qualità ecc. (26). Ed in tal senso anche i decisa del Supremo Collegio, laddove specificano che le controversie inerenti alla qualità di socio vanno individuate esclusivamente sulla base delle indicazioni del libro soci ‘‘senza che rilevi l’eventuale vendita dei titoli azionari a terzi, in considerazione dell’inopponibilità del relativo atto alla società medesima, prima del perfezionarsi del c.d. transfert con l’iscrizione nel suddetto libro’’ (27). Pertanto, evidenziando anche ‘‘la prevalenza, nelle società di capitali dell’aspetto organizzativo su quello negoziale, con la conseguente attenuazione nella disciplina societaria di molti dei principi tipici della teoria generale del contratto’’ (28), l’iscrizione nel libro soci, lungi dall’assumere i connotati di una particolare forma di notificazione della cessione del credito o del contratto (29), o di assumere la funzione di mera ‘‘condizione di efficacia di una vicenda già esaurita nei suoi elementi costitutivi’’, acquista, quale atto di ammissione nell’organizzazione sociale, ‘‘piena efficacia costitutiva, assolvendo altresì la funzione di dare la massima certezza ai rapporti tra soci e società’’ (30). Cionondimeno, sulla natura costitutiva dell’iscrizione è bene precisare: poiché non rileva la volontà delle parti, ma gli effetti sono predeterminati per legge, l’iscrizione nel libro soci è atto giuridico in senso stretto a struttura procedimentale, preferito ad un atto di natura negoziale per via della funzione svolta dall’iscrizione, ossia quella di rendere efficace e rilevante ‘‘nell’ordinamento giuridico privato della società, un fatto (l’atto traslativo come posizione nel rapporto contrattuale di società)’’ già efficace tra le parti per l’ordinamento giuridico generale (31). Quindi atto di accertamento costitutivo volto a risolvere una ‘‘situazione d’incertezza non sul piano soggettivo, ma su quello della valutazione giuridica’’ circa l’esistenza delle condizioni per attribuire lo status (26) NIUTTA, L’efficacia dell’iscrizione nel libro soci del trasferimento di quote della S.r.l., in Riv. comm., vol. II, 1993, 272 s.; TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, 13a ed., Giuffrè, 1990, 788. (27) Cass. n. 89/4647: da massima inserita nel Commentario Breve a cura di CIANTRABUCCHI, Cedam, 1992, sub art. 2422, n. 7. (28) NIUTTA, cit. nt. 26, 271; vedi anche Trib. Bologna, 5 febbraio 1992, con nota adesiva di PALLADINO, in Giur. comm., 1993, 154. (29) In rif. a cessione di quote ex art. 2479/3 c.c.: PALLADINO, cit. nt. 28, 154; per la natura meramente dichiarativa dell’iscrizione, SANTINI, Società a responsabilità limitata, in Comm. cod. civ., a cura di SCIALOJA-BRANCA, 1964, 109 s. (30) PALLADINO, cit. nt. 28, 154. (31) NIUTTA, cit. nt. 26, 274.


— 1188 — di socio, dando certezza legale ai suoi presupposti, nell’ambito di una ‘‘fattispecie complessa, a formazione complessiva’’, di cui l’atto traslativo è fonte di legittimazione per chiedere l’iscrizione nel libro soci (32). Ma all’iscrizione nel libro soci non è legata solo l’opponibilità interna dello status di socio. Diversamente dalle società di persone, dove i soci hanno sempre facoltà di ottenere dagli amministratori notizia della gestione, rendiconti ecc. (33), un controllo diretto da parte degli azionisti è reso possibile solo dal previsto diritto di ispezione dei libri sociali di cui all’art. 2422 c.c. Diversamente potrà e dovrà intervenire il collegio sindacale, ma mai direttamente il singolo socio. Il che non è limitazione di poco conto. In particolare, esalta l’importanza di individuare con esattezza la proprietà societaria la realtà stessa delle società di capitali italiane dove, a fronte di 2 milioni 316 mila imprese individuali (81,3% del totale delle imprese), le società di persone sono 182.000 (6,4%), quelle di capitali 135.000 (4,7%), di cui solo 38.000 (1,3%) sono S.p.A. ed invece ben 97.000 (3,4%) sono S.r.l. (34). È quindi la piccola e la media impresa la componente dominante dell’industria italiana. Imprese il cui carattere personalistico si mantiene forte anche quando esse assumano i connotati di una società di capitali, costituita in genere da pochi soci, spesso convinti a tale forma giuridica più da motivi fiscali e temuti rovesci finanziari che dalla speranza di trarre dal mercato il capitale necessario alla propria attività. Tendenza, infine, assecondata con il riconoscimento delle S.u.r.l. (società unipersonali a responsabilità limitata) (35) che ha così finito per derogare allo stesso principio della bilateralità (o pluralità) del contratto di società. Ora, queste società dalla proprietà limitatamente o niente affatto frazionata, affidano anche all’individuabilità dei loro titolari l’instaurarsi di rapporti sufficientemente flessibili con fornitori e canali creditizi. Difatti, in un mercato quale quello italiano, caratterizzato da un difficile accesso al credito, monopolio di un prudentissimo e provinciale sistema bancario, l’imprenditore si trova ormai in impari concorrenza con un soggetto senza, purtroppo, timore di insolvenza: lo Stato. I conseguenti alti tassi d’interesse fanno inevitabilmente dubitare della solvibilità dei normali clienti. Sicché le banche, raramente paghe della garanzia offerta dal capitale sociale spesso esistente — peraltro — solo sulla carta, (32) NIUTTA, cit. nt. 26, 277. (33) TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, 6a ed., Giuffrè, 1983, 699. (34) Dati aggiornati al maggio 1994. Fonte: Banca d’Italia, 99a Assemblea, Relazione del Governatore. (35) V. d.l. 3 marzo 1993 n. 88 in attuazione della Direttiva CEE n. 89/667.


— 1189 — vincolano quasi sempre la concessione di un credito ad ulteriori garanzie personali (36). A queste esigenze ‘‘finanziarie’’ si aggiungono assai di frequente i timori di perdere il controllo dell’azienda, tant’è che a monito contro ogni possibile tentazione speculativa, l’ingresso e l’uscita di nuovi soci sono operazioni di sovente ostacolate dall’esistenza di clausole di gradimento, di prelazione, di predeterminazione parziale dei criteri di calcolo delle quote societarie ecc. Ed è anche per questi motivi che la funzione informativa delle iscrizioni e delle annotazioni nel libro soci circa la titolarità e la presenza di garanzie reali sul pacchetto azionario, sia che venga considerata ‘‘specifica’’ o ‘‘generica’’, risulta in fondo molto importante. Ed è anche per questi motivi che tale funzione informativa deve essere oggetto di esegesi rapportata all’interesse tutelato dall’art. 2621 n. 1. Tuttavia, prima di valutare se le ‘‘importanti’’ annotazioni del libro soci possano rientrare nella definizione penalistica di altre comunicazioni sociali, occorre risolvere un’ultima questione terminologica: i bilanci e le altre comunicazioni sociali di cui alla norma de qua, devono riguardare l’esposizione fraudolenta di fatti non rispondenti al vero circa la costituzione... della società. E quindi il dubbio: per ‘‘costituzione’’ s’intende quell’insieme di atti rivolti alla creazione della persona giuridica, oppure il suo effetto, termine indicativo della struttura e del complesso delle qualità formali e sostanziali della società? Il significato proprio del termine, l’accostamento alle relazioni ed ai bilanci, la previsione, tra i soggetti attivi, dei liquidatori fanno propendere per la seconda soluzione (37). 3.

UN CASO IRRISOLTO: IL BENE GIURIDICO DEL REATO DI FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI (38).

L’individuazione del bene giuridico tutelato ovvero, in diversa prospettiva, l’interesse o l’accorpamento di interessi al cui presidio è posta la (36) Sulla ‘‘fragilità’’ del sistema bancario italiano, CAPISANI, voce Finanza italiana Il sistema bancario italiano, in Enciclopedie Rizzoli, Annuario 1994, 302. In merito ai ‘‘costi’’ di un’inversione di tendenza della politica dei tassi d’interesse sotto la ‘‘spada di Damocle’’ dell’antieuropeista italiano più agguerrito: il debito pubblico, v. RICCI, voce Economia, in Enciclopedie Rizzoli, Annuario 1994, 252 s., 256, 268 s. (37) Diff. NAPOLEONI, Cass. pen., 1994, 2237, nt. 10. (38) Si ricorda, oltre la dottrina già citata, e senza pretesa alcuna di completezza, visto il notevole impegno dei penalisti sulla questione dell’interesse tutelato dalla norma de qua, MAZZACUVA, False comunicazioni sociali e bene giuridico protetto, in Foro it., II, 1984, 304 ss.; MUSCO, Bilanci anomali e false comunicazioni sociali: identificazione inevitabile?, in Giur. comm., II, 1981, 499 ss.; PATALANO, Bene giuridico e dolo nel delitto di false comunicazioni sociali, Napoli, 1967, 68 ss.; ZUCCALÀ, Le false comunicazioni sociali. Problemi antichi e nuovi, in Dir. pen. economia, 1989, 756 ss.; ANTOLISEI, cit. nt. 3, 118 ss., cui si rimanda anche per l’ulteriore dottrina ivi citata.


— 1190 — norma penale in questione, è elemento insostituibile per l’operazione ermeneutica che ci si prefigge. Amplius: una volta esaurita l’interpretazione logico-semantica della norma, è necessaria l’individuazione del bene giuridico ‘‘sia per valutarne il rapporto di congruità rispetto alla tecnica di formulazione, sia per delimitarne correttamente l’ambito applicativo’’ (39). Analisi quindi della ‘‘capacità’’ politico-criminale del precetto, oltre che delle sue possibilità interpretative: momenti distinti, ma al contempo complementari. Quale sia però il bene giuridico tutelato dalla norma in questione, e quindi quali soggetti rientrino nel suo ambito di protezione, non è affatto chiaro. Si possono individuare tre filoni di pensiero: a) secondo un primo orientamento, la norma sarebbe posta a salvaguardia di interessi privati, individuabili nell’integrità patrimoniale dell’impresa, dei soci, dei creditori e dei terzi interessati, categorie di persone che se viste nel loro insieme sono dilatabili fino a coincidere con il pubblico in genere e, all’opposto, se ‘‘piegate a una tutela puramente individuale del socio e del creditore sociale... finiscono per configurare una sorta di truffa a consumazione anticipata’’ (40). Nell’apparente rigidità di tale dualismo un interessante ‘‘compromesso’’: interessi sì privati, ma riferibili al pubblico, quale veicolo per il superamento ‘‘controllato’’ della loro stessa individualità (41). Permane invece la denunciata ‘‘forzatura’’ della fattispecie di cui trattasi verso lo schema di un reato di danno a dolo generico pur nella sostenuta assenza di un evento naturalistico ricavabile dal dato testuale della norma; b) opposta prospettiva sostiene la natura pubblicistica degli interessi protetti, rispettivamente o cumulativamente individuati nella ‘‘fede pubblica’’, nella ‘‘pubblica economia’’, finanche nel ‘‘governo dell’economia e degli interventi statali’’ (42); c) ed infine la soluzione chiaramente maggioritaria in dottrina e giurisprudenza, che vede nell’art. 2621 n. 1 c.c. una commistione di interessi di natura pubblicistica e privatistica: reato di danno, in merito alla lesione della ‘‘fede pubblica’’, e reato di pericolo nei confronti degli interessi patrimoniali (43). (39) SEMINARA, Disposizioni penali in materia di società e consorzi, in Rass. giurispr., 1982-1989; Giurispr. comm., 1991, I, 124. (40) PEDRAZZI, cit. nt. 4, 1568. (41) MANTOVANI, Sul diritto penale dell’informazione societaria e dell’impresa, in Indice pen., 1987, 15. (42) MANTOVANI, cit. nt. 41, 15. (43) DI RAIMO, Unicità del bene giuridico e dolo di frode nel reato di false comunica-


— 1191 — 3.1. Gli interessi ‘‘pubblicistici’’. La prospettiva pubblicistica, pura o mista, lascia interdetti. Convince poco parlare di ‘‘governo dell’economia e degli interventi statali’’. Merita infatti considerazione quell’attenta dottrina che non ha esitato a tacciare tale proposta quale ‘‘pericolosa degenerazione della funzione limitatrice dell’oggetto giuridico... in quanto in grado di annoverare tra i soggetti passivi anche i pubblici poteri e far pensare ad un delitto contro la pubblica amministrazione’’ (44). Più articolato è il pensiero che identifica l’interesse tutelato nella ‘‘fede pubblica’’. Il sillogismo di supporto è semplice: a) le false comunicazioni sociali sarebbero una speciale e più grave forma di falso in scrittura privata, in realtà ben più vicina ad un atto pubblico per via della stretta dipendenza col settore economico-creditizio, per la potenzialità del danno e l’indeterminatezza delle persone che possono risentirne; b) il falso in atto pubblico ha come oggetto la ‘‘fede pubblica’’ e quindi c) le false comunicazioni sociali hanno quale loro bene giuridico la ‘‘fede pubblica’’ (45). Le perplessità in questo caso riguardano la possibilità stessa che la ‘‘fede pubblica’’ rappresenti un autonomo bene giuridico, una ‘‘cosa’’ determinata, ‘‘materiale o immateriale’’ diversa ‘‘dall’essere una qualità, un attributo di determinate cose materiali’’ (46). L’obiezione non convince più di tanto. Proprio in riferimento al delitto di falso già Carrara dissentì dal suo Maestro circa la pretesa mancanza di ‘‘fisicità’’ di tale fattispecie. Infatti, se Carmignani spiegava la penalizzazione del falso con l’arbitrio di un legislatore preoccupato a reprimere il danno sociale anche nelle sue relazioni più lontane (47), Carrara vi vedeva invece conferma della volontà del legislatore di tutelare la c.d. ‘‘oggettività giuridica’’, nel caso di specie: la ‘‘fede pubblica’’. ‘‘Fede pubblica’’ che individuava, poi, nel diritto universale dei cittadini alla non alterazione di monete e documenti, ‘‘perché nel circolo degli affari ciascuno poteva restare danneggiato dalla contrafzioni sociali, in Cass. pen., 1992, 447, cui si rimanda anche per le indicazioni dottrinali e giurisprudenziali di cui a pag. 451 nt. 1 dello stesso articolo. (44) MANTOVANI, cit. nt. 41, 15. (45) DELITALA, Il dolo nel reato di falsità in bilanci, in Riv. it. dir. pen., 1934, 819; LA MONICA, cit. nt. 2, 951 s., 967. (46) DE MARSICO, Il dolo nei reati di falsità in atti, in Scritti giuridici in memoria di E. Massari, Napoli, 1938, 424; cfr. LA MONICA cit. nt. 2, 951. (47) CARMIGNANI, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, Tomo II, 1831, 44; commentato da PICOTTI, Alle origini della nozione di dolo specifico: obiettività giuridica ed obiettività ideologica nell’evoluzione della teoria carrariana del reato, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, Giuffrè, 1991, 552, nota 69.


— 1192 — fazione’’ (48). E quindi del bene tutelato non tentativo, e nemmeno solo pericolo, ma danno potenziale, forse immateriale, ma pur sempre danno: e danno immediato. Dottrina autorevole, pur ammettendo l’esistenza del bene giuridico della ‘‘fede pubblica’’, sostiene tuttavia che, poiché non si falsifica tanto per falsificare ma per un interesse concreto nel perseguimento del quale il falso si pone con funzione strumentale, l’idea della ‘‘fede pubblica’’, quale bene giuridico tutelato dalla norma de qua, sarebbe infine ragione della sua plurioffensività implicita (49). Ma a prescindere dai problemi che accompagnano la categoria della ‘‘plurioffensività’’, e su cui ben presto si dovrà tornare, si è giustamente evidenziato che cumulare necessariamente l’offesa della ‘‘fede pubblica’’ a quella di interessi patrimoniali tra loro alternativi, riduce la prima ad una mera modalità permanente della lesione a scapito della specificità dell’oggetto giuridico ‘‘necessariamente’’ tutelato (50). D’altra parte, non sembra nemmeno privo di concretezza individuare nella ‘‘fede pubblica’’ l’interesse a ‘‘fotografare’’ in maniera durevole e sicura situazioni giuridiche rilevanti, sì da contribuire all’affidabilità del traffico economico e/o giuridico (51), negando al contempo rilevanza agli interessi concreti mediatamente tutelati, in particolare quando vi siano coinvolti atti pubblici di cui è particolarmente ardua l’individuazione dell’oggetto specifico di tutela (52). Soluzioni di compromesso non sembrano possibili. ‘‘Annacquare’’ la ‘‘fede pubblica’’ nella ‘‘plurioffensività’’ di una fattispecie, esaltando — di questa — la natura di reato di mera condotta a dolo generico, sembra solo una maniera elegante per negarne da ultimo l’autonoma oggettività giuridica. Sicché tutelata non sembra proprio la ‘‘destinabilità probatoria dei documenti richiamati dalla norma’’, quanto la veridicità del mezzo, del diritto sostanziale sottostante (53); non la ‘‘leale e fedele rappresentazione della situazione economica dell’azienda’’, quale ‘‘punto d’ arrivo’’ della sostenuta matrice comune fra le false comunicazioni sociali e i delitti di falso, bensì i ‘‘concreti’’ interessi patrimoniali coinvolti (54). Forse, però, le difficoltà nell’accettare la ‘‘fede pubblica’’ quale nume (48) CARRARA, Lezioni sul grado nella forza fisica del delitto. I. (1863), in Opuscoli di diritto criminale, vol. I, 3a ed., 1878, § 95, 407, commentato da PICOTTI, cit. nt. 47, 552 s. (49) ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, II, 10a ed., 1991, 66 s; con nota adesiva di MANTOVANI, cit. nt. 41, 16. (50) DI RAINO, cit. nt. 43, 447. (51) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, parte speciale, Zanichelli, 1988, vol. I, 403. (52) FIANDACA-MUSCO, cit. nt. 51, 427. (53) Cfr. DI RAIMO, cit. nt. 43, 448 s.; contra E. GALLO, Forma dei reati e funzione del danno in talune norme penali societarie, in Indice pen., 1971, 381 s. (54) DI RAIMO, cit. nt. 43, 448.


— 1193 — tutelare della fattispecie delle false comunicazioni sociali, non stanno nella presunta mancanza di un danno immediato o nella disposizione alla ‘‘pluriffensività’’ di tali beni giuridici. A ben guardare, infatti, pure l’interesse pubblicistico dell’‘‘economia pubblica’’, anch’esso oggetto di espressa attenzione nel codice Rocco e beneficiario di ulteriori possibili specificazioni nel confronto con i valori costituzionali dell’iniziativa economica privata, della cooperazione e del risparmio popolare (artt. 41, 45, 47 Cost.) (55), viene danneggiato se, indipendentemente dall’impatto concreto che il falso in bilancio di un’azienda possa avere sull’economia di uno Stato, finisce tuttavia per alimentare un giustificato motivo di sfiducia sull’attendibilità delle scritture contabili di un’impresa e sulle norme che tale attendibilità dovrebbero garantire. Si potrà poi contestare l’immediatezza della lesione arrecata e sostenere che alla lontana tutto può, perlomeno, mettere in pericolo l’‘‘economia pubblica’’ e, tuttavia, della sicurezza che accompagnava le tesi esposte rimane ben poco. Probabilmente la ragione della perplessità nell’accettare quale bene giuridico un interesse di natura pubblicistica è data, più che da difficoltà proprie a tali concetti, dal loro rapporto con gli elementi costitutivi della fattispecie de qua. Infatti, il maggior grado di astrattezza rinvenibile negli interessi di natura pubblicistica rende arduo compensare le forti mancanze mostrate dalla norma nell’offrire una descrizione sufficientemente determinata della condotta incriminata, mancanze aggravate poi dalla sostenuta natura plurioffensiva della fattispecie e, soprattutto, dalla persistenza di una fuorviante commistione fra interessi privatistici ‘‘secondari’’ e pubblicistici ‘‘primari’’ la cui eterogeneità rende invero alquanto incerta ogni soluzione basata su una classificazione dei beni giuridici protetti ragguagliata al grado di immediatezza dell’offesa loro prodotta. 3.2. In merito alla c.d. ‘‘plurioffensività’’ della fattispecie. In effetti la ‘‘plurioffensività’’ del reato è ipotesi che tende continuamente a riemergere: spesso data per presupposta, diventa base di partenza per individuare non tanto gli interessi offesi, quanto per trovare tra questi un denominatore comune. Alla ‘‘plurioffensività’’ è inoltre legata la ritenuta natura di reato a pericolo astratto della fattispecie in questione (56). Grazie alla ‘‘plurioffensività’’ si sostiene la ‘‘pluridirezionalità’’ delle co(55) TAGLIARINI, Le disposizioni penali in materia di società e consorzi, in Trattato di diritto penale privato, diretto da RESCIGNO, vol XVII, Utet, 1985, 598 s.; DI RAIMO, cit. 41, 447. (56) Cfr. MAZZACUVA, cit. nt. 38, 1984, II, 304.


— 1194 — municazioni sociali, interne ed esterne, nonché la nozione ‘‘omnicomprensiva’’ del termine bilanci (57). Ma la frequenza con cui tale concetto è richiamato, è in realtà direttamente proporzionale alle gravi perplessità che lo affliggono. Si ritiene infatti con ragione che la teoria della ‘‘plurioffensività’’ sposti sul piano dell’oggetto di tutela questioni attinenti alla meritevolezza della pena, svuotando di fatto il principio di offensività. Invero la funzione politico-garantista del bene giuridico viene tradita se, postulata la contestuale tutela di una pluralità di beni giuridici, si ammette poi la realizzazione della fattispecie anche quando la lesione non coinvolga ognuno di essi o, diversamente, si ritiene possibile in una norma la ‘‘plurioffensività’’ di interessi tra loro contrastanti (58). D’altronde la natura ‘‘plurioffensiva’’ di una fattispecie è ben difficile da accettare se solo si ritiene che l’elemento soggettivo debba interessare anche la c.d. ‘‘conoscenza parallela nella sfera laica’’ degli elementi normativi della fattispecie, in quanto tale conoscenza — anche sostenendo la validità scientifica del c.d. ‘‘dolo alternativo’’ — viene resa più difficoltosa proprio dalla presenza di interessi tanto eterogenei (59). Né sembra di conforto alcuno sostenere quale oggetto del dolo la coscienza del carattere antisociale del fatto o dell’offesa dell’interesse protetto pur ‘‘considerata nella sua dimensione fattuale concreta, e non già quale risultato di una qualificazione giuridico-penale’’ (60). Ed allora: vista l’imbarazzante genericità dei c.d. interessi pubblicistici e l’apparente inconciliabilità del carattere plurioffensivo del reato con il principio di offensività, la soluzione è forse rinvenibile tra i c.d. interessi privatistici? 3.3. Gli interessi ‘‘privatistici’’. Gli interessi privatistici individuano due blocchi contrapposti difficilmente conciliabili tra di loro: da una parte l’integrità patrimoniale dell’impresa e dei suoi soci e, dall’altra, gli interessi patrimoniali dei creditori e più genericamente dei terzi in rapporto diretto con l’impresa (ad es. clienti e fornitori). Unico apparente elemento in comune: la natura patrimoniale dell’interesse cui è offerta protezione. Ma forse nemmeno in questo caso si è di fronte ad un irrisolvibile antagonismo. (57) MANTOVANI, cit. nt. 41, 16. (58) Così MUSCO, cit. nt. 38, 509, cui si rimanda anche per la dottrina richiamata alla nt. 26. (59) MEZGER, Strafrecht, 1949, 328. (60) Così con chiarezza FIANDACA-MUSCO, cit. nt. 24, 276; M. GALLO voce Dolo, in Enc. dir., XIII, 1964, 285 s.; MANTOVANI, Responsabilità oggettiva espressa e responsabilità oggettiva occulta, in questa Rivista, 1981, 69.


— 1195 — Si valuti infatti l’impatto che l’irregolare tenuta del libro soci può avere nei confronti di queste categorie (61): a) i soci, come si è tentato di dimostrare, hanno la necessità di veder garantita e tutelata penalmente l’autenticità e veridicità delle scritture contabili, in quanto queste scritture sono l’unico strumento, diretto, di controllo della proprietà societaria; b) analogamente i creditori sociali e i fornitori in genere, che trovano nella forte componente personalistica delle società di capitali italiane ulteriore, necessaria garanzia; c) ed infine la società, comunque danneggiata, anche quando gli amministratori operino illecitamente, ma nell’esclusivo interesse della società stessa. A questo proposito si pensi, a titolo di esempio, ai c.d. ‘‘bilanci gonfiati’’ al fine di ottenere una linea di credito e così risolvere un momento di difficoltà, giudicato dagli amministratori momentaneo. Orbene, indipendentemente dal verificarsi della previsione, la società ha subito un’offesa, una lesione o una messa in pericolo — concreto — della sua integrità patrimoniale. Infatti, se la previsione circa la provvisorietà delle difficoltà finanziarie si rivelasse sbagliata, la società vedrebbe ovviamente pregiudicata in maniera assai grave la sua già difficile situazione finanziaria, risultando peraltro più ardua — se non esclusa — l’attivazione di quegli istituti (concordato preventivo, amministrazione controllata ecc.) predisposti dal legislatore proprio a soluzione o a contenimento del fenomeno, immanente nell’ambito societario, della temporanea insolvenza. Ma anche se le difficoltà finanziarie si fossero risolte come auspicato, la società potrebbe aver subito un’offesa rilevante, rimanendo esposta in maniera impropria ad un rischio superiore a quello legislativamente tollerato, perché prodotto al di fuori della corretta gestione societaria, e contro il quale il legislatore ha posto una serie di cautele, quali le norme sulla veridicità dei bilanci e la correttezza delle valutazioni, norme sul rispetto delle quali ogni socio ed ogni creditore deve poter fare assegnamento. In questo caso non ha senso differenziare le posizioni dei soci, dei creditori o della società stessa. La veridicità e completezza dell’informazione societaria (62) diventa lo strumento, la modalità di tutela specifica per garantire la società, e le persone ad essa legate, da una lesione o da una messa in pericolo dell’integrità patrimoniale sua e dei soggetti che sulla sua corretta gestione hanno fatto affidamento. La lesione o la messa in pericolo della corretta attività gestionale nel (61) Per la preferibilità di una tutela rivolta a categorie di beneficiari anziché a singoli soggetti, oltre a quanto esposto in premessa del presente paragrafo, v. le illuminanti precisazioni di PEDRAZZI, cit. nt. 4, 1568 s. (62) Cfr. MAZZACUVA, cit. nt. 38, 309.


— 1196 — suo naturale alveo patrimoniale sono quindi espressione di un danno ingiusto, perché prodotto di un rischio generato al di fuori delle regole deputate al corretto funzionamento societario. Unico, e nel pieno rispetto del doveroso principio di offensività del reato, è dunque l’interesse tutelato dalla norma de qua. D’altronde, vincolare tale interesse al ‘‘valore patrimoniale’’ di una corretta attività gestionale esprimibile mediante la veridicità e la completezza dell’informazione societaria, ritenendo penalmente rilevante solo ‘‘l’evento giuridico’’ della sua lesione o messa in pericolo — meglio se, quest’ultimo: concreto ed anch’esso di natura patrimoniale — non è poi concetto tanto astratto da dovervi rinunciare, soprattutto se ‘‘tanta’’ astrattezza porta in dote l’auspicata univocità dell’oggetto di tutela. In particolare, se la tipicità del pericolo venisse valutata in base alla c.d. prospettiva ‘‘ontologica totale ex ante’’ — e cioè considerando tutte le circostanze esistenti, e non solo quelle conoscibili, presenti al momento della realizzazione dolosa del fatto — si potrebbe anche evitare la fin troppo disponibile figura del reato di pericolo astratto a tutto vantaggio della compatibilità costituzionale della fattispecie, senza temere per questo ricadute sull’efficacia deterrente della norma (63). Un’ulteriore delimitazione dell’interesse tutelato sembra invece di difficile realizzazione. Certo la corretta attività gestionale espressa e controllabile dalla veridicità e completezza dell’informazione societaria ha diverse ‘‘proiezioni penalistiche’’, e si concorda con autorevole dottrina quando nega di voler ‘‘ridurre l’informazione societaria ad un dialogo tra privati’’, e così ‘‘misconoscere l’interesse dei pubblici poteri alla conoscenza della realtà aziendale’’, ma si rileva pure che non tutte tali ‘‘proiezioni penalistiche’’ sono necessariamente da ricondurre alla figura delle false comunicazioni sociali (64) (65). (63) ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, II, 1984, 96; ID., Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, in La struttura oggettiva, 2a ed. Giuffrè, 1994, 97 ss; CANESTRARI, voce Reato di pericolo, in Enc. Treccani, 4 s. (64) Così MANTOVANI, cit. nt. 41, 15. (65) PATALANO ritiene che il bene giuridico tutelato sia l’interesse dei soci alla conoscenza dell’esatta situazione della società (PATALANO, cit. nt. 38, 234), ed analogamente Musco — spostando l’accento sull’interesse interno alla società, in particolare dei soci, di coloro che pur partecipando alla società non hanno poteri di gestione, e tuttavia necessitano ‘‘un controllo assolutamente trasparente della gestione sociale’’ (MUSCO, cit. nt. 38, 510 s.) (crit., a favore di una tutela degli interessi pubblicistici costituzionalmente individuati, DI RAINO, cit. nt. 43, 448). Sintomatico della sfiducia nelle possibilità interpretative offerte dall’aggettivo ‘‘sociale’’ i citati Autori affidano dunque le sorti di una definizione del concetto di ‘‘comunicazione’’ al solo esame sostanziale degli interessi oggetto di tutela (MUSCO, cit. nt. 38, 506). Per contro l’analisi da noi impostata ritiene la valutazione sostanziale momento necessario ma


— 1197 — La figura delle altre comunicazioni sociali è, tuttavia, bisognosa di ulteriori precisazioni. Limiti di natura soggettiva, in riferimento all’individuazione legislativa dei soggetti che pongono in essere tali comunicazioni, e limiti di natura oggettivo-funzionale, quali la rilevanza per la società di tali atti, se non sono tautologici, risultano comunque del tutto insufficienti (66). Il ricorso alla funzione interpretativa del bene giuridico, opportuno e necessario (67), da solo, non risparmia alla norma de qua censure da parte del principio costituzionale di sufficiente determinatezza. 4.

BREVI NOTE SUI §§ 331 HGB E 400 AKTG.

Questa vocazione all’indeterminatezza sembra, tra l’altro, una caratteristica connaturata alle fattispecie penali deputate a garantire la veridicità dell’informazione societaria. Anche in Germania, le fattispecie analoghe alle nostre false comunicazioni sociali, che pur realizzano reati di pericolo astratto e sono state oggetto di innumerevoli interventi legislativi (68), non hanno ovviato all’indeterminatezza con cui si è descritto sia il contenuto delle comunicazioni non veritiere, ridotto a non meglio precisate ‘‘condizioni della società di capitali’’, sia, anche se in misura minore, l’indicazione offerta dei documenti che devono contenere tali condizioni (bilanci d’apertura e di fine d’anno, relazioni) (HGB, § 331) (69) (cfr: § 400 AktG) (70). integrativo delle pur limitate possibilità offerte dall’interpretazione formale della norma, e diverge, inoltre, dalla circoscrizione ai soli soci dell’interesse — funzionale al pregiudizio patrimoniale sotteso — al controllo della gestione sociale riscontrabile nella veridicità delle comunicazioni sociali (diff. MANZILLO, Le false comunicazioni sociali: nuovi problemi interpretativi, in Giust. pen., 1990, II, 381 e 384). (66) Cfr. LA MONICA, cit. nt. 2, 975. (67) MUSCO, cit. nt. 38, 506. (68) Già nel 1870 il legislatore tedesco provvedeva a disciplinare i più importanti reati societari (Bilanzfälschung, Gründungschwindel, Überschuldung). Nel 1889 vi era la redazione del primo codice di commercio, l’Allgemeine deutsche Handelsgesetzbuch (ADHGB), cui faceva seguito, come ‘‘necessaria’’ conseguenza della promulgazione agli inizi del secolo del codice civile (BGB), un nuovo codice di commercio (HGB) ed una legge specifica sulle società per azioni (AktG, 1937). Ulteriori modifiche ed interventi legislativi rilevanti si hanno nel 1965 (nuova AktG), 1974 (EGStGB), 1978 (II Direttiva CEE), 1980 (modifiche alla disciplina sulle GmBH), 1985 (legge di attuazione della Direttiva CEE 19 dicembre 1985 sui bilanci). A seguito di quest’ultima direttiva le fattispecie di cui ai §§ 400/I e 404/II n. 2 AktG sono state poste in funzione sussidiaria rispetto alle fattispecie di cui ai §§ 331 e 333 HGB, fattispecie, queste ultime, specificatamente volte alla disciplina delle false comunicazioni in bilanci e relazioni. (69) Cfr. HEYMANN HGB, vol.III, WdeG, 1989, § 331, con commento di H. OTTO, e letteratura ivi indicata, in part. numero a margine 19 (a) in merito all’Anhang, e le definizioni legislative circa il Lagebericht, §§ 264/I e 289. (70) FUHRMANN, Aktiengesetz, Kommentar von Geßler, Hefermehl, Eckardt, Kropff, Verlag Fran Vahlen, § 400, 5, 1994.


— 1198 — Tuttavia il deficit di determinatezza dei termini con cui il legislatore ha reiteratamente indicato il contenuto delle ‘‘comunicazioni’’ incriminate, non è motivo di particolare scandalo per la scienza penalitistica tedesca. Si sostiene, infatti, che il legislatore possa adottare una terminologia non meglio precisata quando questa poggi su una consolidata elaborazione giurisprudenziale — quale quella tedesca, appunto — che con accuratezza abbia illustrato le espressioni in questione (71). In Italia, purtroppo, o forse per fortuna, non si rileva altrettanta fiducia nell’operato della giurisprudenza. Pertanto, fino a quando non si potrà godere di una situazione analoga a quella d’Oltralpe, l’alternativa ad una censura di incostituzionalità o ad un’arbitraria, seppur giustificata, applicazione restrittiva della fattispecie de qua rimane affidata all’interpretazione teleologica. Interpretazione che pur entro gli invalicabili limiti del significato letterale della norma, sembra ancora in grado di chiarire la portata di un precetto con la dovuta sensibilità per le necessità contingenti (72). 5.

NON C’È PACE PER LA ‘‘FRAUDOLENZA’’.

L’avverbio ‘‘fraudolentemente’’, con cui si descrive l’esposizione dei fatti non rispondenti al vero circa la costituzione o le condizioni economiche della società o il nascondimento dei fatti concernenti le condizioni medesime, viene a ragione individuato come il ‘‘ventre molle’’ della fattispecie (73). In merito alla natura giuridica di questo elemento si individuano due filoni di pensiero: a) quale elemento oggettivo del fatto tipico, con il significato di condotta tenuta con ‘‘mezzi fraudolenti’’ e, quindi, con la norma de qua individuata dalla normale presenza del dolo generico; oppure b) quale elemento soggettivo, con il significato di ‘‘con intenzione fraudolenta’’, accezione che riporta l’avverbio alla figura del dolo specifico, poi diversa(71) Si consideri però che chi con più forza sostiene la completezza dell’interpretazione giurisprudenziale, FUHRMANN, è anche eminente giudice presso la Corte di Cassazione Federale. Comunque sia, la dottrina conferma implicitamente questa posizione, limitandosi solo a scalfire la denunciata indeterminatezza del termine con minime precisazioni sulla rilevanza economica che tali comunicazioni dovrebbero avere. Si veda, HEYMANN, cit. nt. 69, § 331 nm 20 b, 21. Si cfr. FUHRMANN, cit. nt. 70, § 400, 5, 1994. Sui delicati ‘‘equilibri’’ tra potere legislativo e giudiziario, STILE, Discrezionalità e politica penale giudiziaria, in Studi Urbinati, 1976-1977, 275 ss. (72) Per un’interessante analisi del rapporto tra il principio di legalità, i suoi ‘‘sottoprincipi’’, e la c.d. interpretazione teleologica, si veda, ROXIN, Strafrecht, A.T. 2a ed., C.H. Beck, 1994, 100 ss. (73) MANTOVANI, cit. nt. 41, 17.


— 1199 — mente individuato, oltreché nell’animus decipiendi, nell’animus lucrandi e/o nocendi (74). La prima tesi, minoritaria, estende di proposito la portata della fattispecie. Le false comunicazioni sociali vengono infatti viste come ipotesi più gravi delle falsità in scrittura privata, sia per le potenzialità del danno, sia per l’indeterminatezza del numero di persone che possono rimanerne coinvolte. Ragion per cui si è ritenuto inopportuno limitarne lo spettro d’azione mediante l’utilizzo del dolo specifico, preferendo invece richiamarsi al c.d. dolo di pericolo (75). Tale opinione è stata criticata sia nei suoi aspetti sostanziali che formali. Si ritiene invero che così la portata della norma divenga eccessiva e che, anche in considerazione degli alti livelli edittali, si finisca per creare le condizioni di una sua disapplicazione da parte di quella giurisprudenza ‘‘più sensibile’’ al rispetto del principio di proporzionatezza della pena rispetto al fatto di reato. Inoltre, se si stima il falso solo il mezzo con cui si realizza il reato de quo e, più in generale, ogni falsità una frode, l’avverbio ‘‘fraudolentemente’’ mantiene una sua valenza autonoma solo se identificato con un vincolo soggettivo rivolto ad una finalità ulteriore: un dolo specifico, appunto. Ma il riferimento al dolo specifico non si è dimostrato la panacea di ogni male. Si è già anticipato che il contenuto del dolo di frode è stato variamente e vanamente individuato, oltre che nel consilium fraudis, nell’animus nocendi e/o nell’animus lucrandi o, persino, nella qualifica legata alla disposizione antisociale dell’autore (76). Riferimento, quest’ultimo, in realtà inquietante ed estraneo al nostro sistema penale: sistema rimasto fortunatamente illeso dai propositi di soggettivizzazione estrema del diritto penale come sostenuti da quei giuristi, legati al nazionalsocialismo, che proprio nella c.d. Gesinnung dell’autore avevano trovato la via maestra per l’annullamento di ogni garanzia liberale dell’individuo (77). Meno compromessi dal punto di vista ideologico, ma comunque osteggiati da quello applicativo, sono invece il riferimento all’animus nocendi, specie di probatio diabolica per gli organi inquirenti e facile scappatoia per l’imputato (78), e all’animus lucrandi, di cui si lamenta invece la scarsa attitudine selettiva (79). Tant’è che pure la giurisprudenza, in un primo momento saldamente arroccata nella richiesta dell’animus no(74) MANTOVANI, ibidem. (75) DELITALA, cit. nt. 45, 819; cfr. LA MONICA, cit. nt. 2, 967 s. (76) Si veda ZUCCALÀ, cit. nt. 38, 751, 758. (77) FIANDACA-MUSCO, cit. nt. 24, 26, 146, 234. (78) Che, infatti, giammai agisce per danneggiare altri ma solo per il nobile fine di salvare l’impresa. (79) Cfr. MANTOVANI, cit. nt. 41, 17 s.


— 1200 — cendi e lucrandi — anche a spiegazione della sostituzione operata dal legislatore dell’avverbio ‘‘scientemente’’ di cui all’art. 247 del codice di commercio, con l’avverbio ‘‘fraudolentemente’’ di cui, invece, all’art. 2621 n. 1 c.c. — è passata quindi ad una progressiva ‘‘dematerializzazione’’ del profitto e ad un significativo ridimensionamento del dolo di danno (80). Sicché l’elemento soggettivo, qualificato ancora dolo specifico, accanto all’animus decipiendi e lucrandi ora affianca sempre più di sovente un generico dolo eventuale di danno se non, addirittura, la sola volontà di conseguire un utile ingiusto in luogo di quella di procurare, appunto, ‘‘un danno alla società, ai soci, o ai creditori sociali’’ (81). Più in generale, si rileva che siffatte concezioni di dolo, specifico nella forma ma generico nella tipizzazione del fine, rischiano di divenire oggetto di arbitrio da parte del giudice: e ciò lascia giustamente interdetti. Ma, come si è visto, è stata suggerita anche una soluzione ‘‘intermedia’’, che vede nella fraudolenza l’oggetto di un dolo in cui, alla coscienza e volontà di esporre atti falsi e all’intento di ingannare soci, creditori ecc., si aggiungerebbe l’intento od anche solo l’accettazione del rischio di cagionare danno od esporre a pericolo gli interessi altrui (82). Su quest’ultima soluzione, alcune precisazioni: la c.d. accettazione del rischio di cagionare un danno od un pericolo è, secondo opinione maggioritaria in dottrina, il ‘‘normale’’ contenuto del dolo eventuale, ed il dolo eventuale non è certo elemento di novità rispetto al dolo generico. L’elemento di ‘‘novità’’ sarebbe invece il riferimento alla ‘‘coscienza degli interessi altrui’’ se con questo si volesse poi, a nostro parere impropriamente, identificare nel semplice danno di un socio, creditore ecc., l’interesse tutelato dalla norma. La ‘‘coscienza dell’offesa’’ è, secondo autorevole dottrina, elemento che si dimostra in particolar modo necessario per i c.d. ‘‘reati senza offesa o scopo’’. Coscienza in genere correttamente limitata alla conoscenza ‘‘laica’’ dell’interesse protetto e degli elementi normativi in genere (83), sì da non sovvertire la gerarchia delle fonti con riferimenti estranei al nostro ordinamento in merito ‘‘all’antisocialità del fatto’’ (84), e nemmeno venir confusa con la ‘‘coscienza dell’antigiuridicità del fatto’’ (85), elemento di valutazione del divieto ed oggetto di più appropriato giudizio in sede di colpevolezza. (80) LUCENTE, cit. nt. 6, 1641. (81) Per l’ampia rassegna giurisprudenziale si rimanda a LUCENTE, cit. nt. 6, 451, nt. 35. (82) ANTOLISEI, cit. nt. 3, 151; con nota adesiva di MANTOVANI, cit. nt. 41, 18; contra ZUCCALÀ, cit. nt. 38, 750. (83) Cfr. FIORE, Diritto penale, parte generale, vol. I, Utet, 1993, 219 ss. (84) V. LISZT, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, 14a ed., 1905. (85) MANTOVANI, cit. nt. 60, 469.


— 1201 — Limiti tuttavia insufficienti per chi ritiene già la sola valutazione della coscienza dell’offesa un’inutile sovrapposizione con la tipicità, perché elemento difficile da accertare in presenza dei c.d. reati di pura creazione legislativa o, peggio, perché considerato un pericoloso fattore di arbitrio dell’organo giudicante (86). La disputa è difficile, ed investe momenti importanti della valutazione del rapporto tra il cittadino ed il diritto penale. Non è questa la sede per trattare la questione che, tra l’altro, ha visto nel recente progetto di riforma del codice penale delinearsi importanti elementi di giudizio. Sia permessa solo un’osservazione: ci sono categorie di reati, quali i reati contro ‘‘l’onore’’, contro la ‘‘fede pubblica’’ ecc., in cui ben poco rimane dell’oggetto del dolo se la conoscenza non investe in qualche maniera la coscienza dell’interesse tutelato (87). L’alternativa: tra il denunciare la mancanza di ‘‘coscienza dell’offesa’’, o la ‘‘tipicità solo apparente’’ del fatto, rimane puramente terminologica se al suo concreto accertamento viene comunque deputato il giudice. Indubbiamente una miglior ‘‘compenetrazione tra tipicità ed offesa’’ (88) rimane compito di un legislatore ben conscio dei vincoli di determinatezza, sussidiarietà, meritevolezza e, quindi, della necessaria frammentarietà del diritto penale, compito che tuttavia ben difficilmente potrà esaurirsi senza venire mai mortificato dalle infinite varianti che la realtà può offrire. Ritornando invece ai motivi d’incertezza in merito alla ‘‘soluzione intermedia’’ del dolo eventuale, si consideri anche che la presenza di un dolo di danno o di pericolo dovrebbe essere la proiezione soggettiva della struttura oggettiva della fattispecie in rapporto alla tipologia dell’offesa, e che di tale tipologia se non di vincolo dovrebbe almeno esserne forte testimone (89). Ma il reato de quo è considerato reato di pericolo astratto (90), mentre l’intenzione o l’accettazione del rischio del danno fanno pensare ad un evento più che ad un fine di danno (91). (86) FIANDACA-MUSCO, cit. nt. 24, 142. (87) In prospettiva storico-comparativa, con sensibilità per le ‘‘esigenze processuali’’ del dolo, VOLK, Dolus ex re, FS Arthur Kaufmann, C.F. Müller, 1993, 619 ss. (88) FIANDACA-MUSCO, cit. nt. 24, 172; STELLA, La teoria del bene giuridico ed i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, 1 ss. (89) FIORE, cit. nt. 83, 222 s. Il valore dell’osservazione è solo indiziario. Non si dimenticano certo le numerose ipotesi ‘‘marginali’’ di reato di pericolo con dolo di danno, che si perfezionano cioè con la sola messa in pericolo dell’interesse tutelato (delitto tentato, attentato) e di reati di danno con dolo di pericolo (preterintenzione) (così MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, 1992, 332). In merito alla complessa struttura dei reati aggravati dall’evento, ‘‘anche’’ quando preterintenzionali, sia consentito il rinvio a BONDI, L’esclusività di Rengier. Contributo alla critica dei reati aggravati dall’evento, in questa Rivista, 1994, 1475 ss.; con particolare richiamo alla dottrina ivi citata. (90) Per tutti MAZZACUVA, cit. nt. 38, 308 s. (91) ZUCCALÀ, cit. nt. 38, 750.


— 1202 — Perciò, se il quid pluris da tutti ricercato non è il riferimento alla coscienza dell’offesa, né l’identificazione di un dolo specifico in combattuta convivenza con il dolo eventuale, e nemmeno qualcosa di diverso da un dolo generico inserito in una fattispecie di pericolo presunto ‘‘normalmente’’ realizzabile con un dolo di danno: quale valenza soggettiva dare all’avverbio ‘‘fraudolentemente’’? Risulta d’altronde preoccupante l’estensione applicativa che viene ad assumere un reato di pericolo astratto, quale comunemente si ritiene il reato di false comunicazioni sociali, quando se ne accetta la realizzazione con la sola presenza del dolo eventuale. In pratica: la funzione selettiva dell’elemento soggettivo verrebbe così assolta in presenza della sola accettazione del rischio di creare un pericolo di nocumento, pericolo a sua volta sottratto ad ogni accertamento concreto per via della sua presunzione legale. Se a ciò si aggiungono i già denunciati limiti circa la determinatezza della fattispecie, ed il perdurare delle incertezze sul bene o sui beni giuridici tutelati, ciò che resta è una fattispecie che permette di tutelare quasi tutto ciò che abbia un contenuto informativo riguardante una società soggetta a registrazione. Ma se invece la funzione del dolo specifico vuol essere la tipizzazione di un fine col proposito di fornire uno strumento di selezione delle condotte rilevanti, funzione tanto più importante se consapevolmente riferita ad una fattispecie particolarmente fragile quale quella delle false comunicazioni sociali, si dubita che, riferendosi alla fraudolenza, il legislatore possa mai raggiungere cotanto risultato (92). 6.

FALSITÀ E SIMULAZIONE: UNA DIFFICILE CONVIVENZA

Rimane un ultimo ostacolo: se, nel caso proposto, l’annotazione ‘‘fraudolenta’’ nel libro soci del trasferimento simulato di azioni o quote di una società di capitali da parte dell’organo competente alla loro regolare tenuta rientra nelle altre comunicazioni sociali di cui all’art. 2621 n. 1 c.c., e se la falsa comunicazione è un falso ideologico in scrittura privata: è dunque possibile simulare un falso? (93). (92)

Si veda la giustificazione storica e la presa di posizione ‘‘moderna’’ del LA MO-

NICA, che rinviene il quid pluris cercato nella coscienza e volontà di ledere o porre in peri-

colo il bene tutelato da ‘‘aggiungersi’’ alla consapevole volontà di immutare il vero: troppo per un legislatore preso dal dibattito fra la concezione naturalistica o giuridica dell’evento, in LA MONICA, cit. nt. 2, 972 e s. (93) Il problema proposto solleva un’altra questione di notevole portata: è ammissibile il fenomeno simulatorio nell’ambito delle società di capitali? Contro, di recente, la Suprema Corte, non soltanto in riferimento alla simulazione soggettiva relativa (per via della necessità, nella simulazione, di un rapporto trilatero di cui la società non può risultare partecipe se non risulta da atti formali) ma anche a quella oggettiva assoluta, poiché, secondo la volontà delle parti, il negozio non deve produrre alcun effetto,


— 1203 — Se si mente solo quando si narra e si simula quando si vuole, la simulazione potrebbe solo attestare un fatto naturalisticamente vero, sì da circoscrivere ai soli atti dichiarativi l’eventuale qualifica di falso (94). In realtà già i presupposti dell’esaltazione della componente volitiva della simulazione sono più che altro da cercare nella datata disputa civilistica tra il dogma della volontà, sostenuta con forza dalla pandettistica tedesca, ed il dogma della dichiarazione, espressione invece del bisogno di certezza nei traffici commerciali da parte del sempre più influente ceto mercantile (95). Il codice civile italiano del 1942, con la disciplina della simulazione, ha infine riflesso il tentativo di conciliare il rispetto della volontà delle parti con la tutela dell’affidamento dei terzi, pur manifestando propensione a ridurre il peso del momento volitivo quando questo collida con il legittimo affidamento dei terzi in buona fede nei confronti del titolare apparente. Tutto ciò, se non è sufficiente per concludere sulla natura o, perlomeno, su una componente dichiarativa della simulazione, ne attenua in qualche modo il contrasto in tema di falso che, comunque, non presenta nel caso di specie ostacoli insormontabili, in quanto la comunicazione sociale-iscrizione nel libro soci è in realtà dichiarazione di scienza, effetto e non oggetto della simulazione, e quindi presupposto di un atto naturalisticamente vero quale la volontà della simulazione (96). Pertanto, la questione sollevata mostra: in prospettiva civilistica, una ‘‘comunicazione’’ quale atto dichiarativo e, come tale, possibile oggetto di falso. In prospettiva penalistica, invece, una ‘‘comunicazione’’ quale prodotto di una condotta che, per mezzo di un falso, con un dolo di frode che si proietta non su una simulazione, ma — data la simulazione quale suo presupposto — richiede la coscienza e volontà di realizzare l’offesa del precipuo interesse tutelato dalla norma de qua, ovvero: la corretta attività gestionale dell’impresa nei limiti esprimibili dalla veridicità e completezza dell’informazione societaria.

nemmeno limitato, ma ‘‘i soggetti che stipulano un contratto di società di capitali, almeno uno di tali effetti intendono certamente realizzarlo e conservarlo, sia pure per un limitato arco di tempo: ossia, la costituzione di una persona giuridica — con soggettività, quindi, distinta e separata da quella dei soci (quand’anche questi siano fittizi) e con obblighi e diritti diversi da quelli dei soci (veri o apparenti che siano) — attraverso la quale conseguire certi risultati’’. Le rilevanti conseguenze si riverberano sul regime probatorio. (Cass., sez. I, 28. settembre 1994 n. 7899, in Guida al diritto, n. 12, 48 con nota di MONTESANO, 51). (94) CARNELUTTI, La teoria del falso, Padova, 1935, 49 ss. (95) CASELLA, voce Simulazione, in Enc. dir., 613 s. (96) Cfr. Cass. 30 settembre 1983, in Giur. it., 1985, II, 29 ss.


— 1204 — 7.

CONCLUSIONI

Sotto il ‘‘pungolo’’ di un problema concreto quale la sussumibilità alle altre comunicazioni sociali dei fatti non rispondenti al vero relativi all’‘‘iscrizione nel libro soci’’, si è riaperta una ferita mai veramente rimarginata: la tutela penalistica dell’informazione societaria per mezzo della norma di cui all’art. 2621 n. 1 c.c. (§§ 0.2; 1). ‘‘Diva mai sulla via del tramonto’’ del diritto penale societario, la fattispecie delle false comunicazioni sociali ha visto anche dai fatti di ‘‘Tangentopoli’’ confermato il proprio ruolo di protagonista. Ruolo, invero, che neppure le tante incertezze da cui — e da sempre — è pesantemente afflitta sono mai riuscite a scalfire (§§ 0.1; 3; 5). ‘‘Precetto penale in casa del diritto civile’’, dalla criptica collocazione dogmatico-funzionale, la norma de qua ha infatti subito di tutto: dalla schizofrenica rincorsa del legislatore alle direttive CEE in materia societaria, al conseguenziale — ma non necessario — sovrapporsi degli interventi legislativi; dal moltiplicarsi dei fenomeni societari — comunque — disciplinati, alle paradossali — ma non troppo — lacune normative. E viste le premesse il risultato è stato tutto sommato contenuto: ‘‘solo’’ un’ormai assuefatta insofferenza del mercato nazionale ed internazionale per l’inaffidabilità della normativa italiana in fatto di società commerciali, motivo di inesauste diatribe dottrinali, a loro volta, complici senza dolo — ma con colpa — del preoccupante smarrimento giurisprudenziale in materia (§ 0.1). Generiche quelle penali, ed antagoniste ai principi del diritto penale quelle extrapenalistiche, le tante definizioni di comunicazione sociale sono quindi lo specchio delle difficoltà affrontate dagli interpreti che, sovraccaricati i ‘‘requisiti’’ della socialità, ufficialità e direzionalità pubblica di una ‘‘comunicazione’’ penalmente rilevante, e sviati da un’inevitabilmente fragile esegesi solo letterale dell’articolo in questione, ripropongono, con la contradditorietà dei risultati, l’attualità di una rilettura anche teleologica della norma (§§ 1.1; 1.2). Rilettura teleologica quanto mai necessaria vista la preoccupante indeterminatezza degli elementi oggettivi e soggettivi di tale precetto; rilettura resa — non a caso — impellente dalla sostenuta ‘‘plurioffensività’’ della norma; ‘‘plurioffensività’’ che, così come proposta per la fattispecie de qua, risulta invero poco più di una fuga dal principio di offensività e assai meno di un pietoso velo sull’imperante anarchia di idee in merito al bene giuridico da essa tutelato (§§ 3; 3.1; 3.2; 3.3). La proposta di un unico e diversamente individuato bene giuridico, proposta non confusa, ma preceduta dall’individuazione delle possibili categorie danneggiate da una falsa comunicazioni sociale, potrebbe dunque anche alleviare le infinite sofferenze dell’interprete chiamato a dare un


— 1205 — volto alla normativamente ‘‘definita’’ fraudolenza dell’elemento soggettivo (§§ 3.3; 5). La circoscritta comparazione con la normativa tedesca, perlomeno chiarificatrice del diverso rapporto che colà regna tra il legislatore e gli operatori del diritto, nonché il dovuto confronto con la funzione svolta dagli artt. 2421 e 2490 c.c. — vista la possibilità infine offerta dalle ‘‘parole della legge’’ di considerare comunicazione sociale anche l’iscrizione nel libro soci — hanno quindi suggerito una possibile soluzione al caso concreto inizialmente proposto (§§ 4; 2). ‘‘Molte volte al fatto il dir vien meno’’ e la limitatezza del presente lavoro si esaurisce in ‘‘un grido di dolore’’ incapace di allontanare le fosche nubi che si addensano sulla norma de qua. Ben altro ormai occorre per scongiurare che l’incombente piena della mala disciplina del fenomeno societario tracimi i già fragili argini di una norma, chiamata, nel 1930, ‘‘solo’’ a definire reato una falsa comunicazione sociale; ed oggi: chissà? Dott. ALESSANDRO BONDI Dottorando in Diritto penale italiano e comparato nell’Università di Pavia


L’USURA TRA PREVENZIONE E REPRESSIONE: IL CONTROLLO DEL RUOLO PENALISTICO

SOMMARIO: — 1. L’usura « moderna »: necessità di una prevenzione efficace e intervento penale sussidiario. — 2. La fattispecie-base: analisi e prospettive di riforma. Il ruolo del bene giuridico e la lesione penalmente rilevante. - 2.1. L’usurarietà e le prestazioni rilevanti. - 2.2. L’« approfittare » dello « stato di bisogno » altrui. - 2.2.1. Segue: lo stato di bisogno in particolare. - 2.2.2. Ricostruzione del ruolo dello stato di bisogno nella prospettiva dell’attitudine offensiva della condotta. — 3. Ipotesi particolari e circostanze. — 4. Il ruolo degli strumenti alternativi.

1. L’usura « moderna »: necessità di una prevenzione efficace e intervento penale sussidiario. — « L’usura, sulla base di quanto riferito alla Commissione dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, è gestita in Campania quasi esclusivamente dalla camorra. Anche i piccoli usurai che non appartengono a nessun clan, fanno ricorso al collegamento con il capozona camorrista nel momento della riscossione del credito, avvalendosi del suo controllo sul territorio ed utilizzando il suo apparato estorsivo. L’usura costituisce un investimento poco rischioso, assicura redditi elevatissimi, rappresenta un eccellente mezzo di riciclaggio del danaro sporco. Colpisce tutti i livelli sociali [...]. Le riscossioni avvengono attraverso mezzi intimidatori violenti e le denunce — proprio a causa della violenza delle pressioni esercitate e del timore di ritorsioni — sono rare. Si possono distinguere due categorie di usura. La prima si potrebbe definire « familiare » perché investe direttamente le famiglie in difficoltà. Secondo padre Rastrelli (1), il fenomeno si sarebbe esteso moltissimo negli ultimi anni, in misura proporzionale al degrado della città ed alla carenza del rispetto dei diritti fondamentali del cittadino. Per arginare il fenomeno padre Rastrelli ha creato un fondo di garanzia, alimentato da offerte spontanee, che provvede all’estinzione dei debiti contratti. I casi « risolti », dal maggio 1991 ad oggi, sono 289; le domande da evadere sono ancora 5.000. La seconda categoria è l’« usura di impresa », che colpisce chi ha (1) Parroco della chiesa Immacolata Gesù Nuovo, si è particolarmente dedicato ad aiutare le vittime dell’usura [...].


— 1207 — un’attività imprenditoriale, anche piccola. Tramite questo tipo di usura l’organizzazione camorristica mira ad impossessarsi dell’azienda impoverendo il proprietario e costringendolo a cedere l’attività come corrispettivo degli interessi usurai che non riesce più a corrispondere. La Commissione ritiene che l’azione di contrasto nei confronti dell’usura è del tutto inadeguata per varie ragioni. C’è una sottovalutazione della sua dannosità; [...] manca, infine, una strategia generale di attacco ai profili economico-finanziari delle organizzazioni mafiose. » (2) Questa descrizione del fenomeno dell’usura in Campania evidenzia, oltre, naturalmente, all’attualità del problema, una serie di dati che appaiono purtroppo caratterizzare ormai il fenomeno sul piano nazionale, e che vanno tenuti presenti in un’analisi dell’usura dal punto di vista giuridico, ed in particolare penalistico, sia con riferimento alle disposizioni attualmente vigenti che in una prospettiva di riforma. Il primo di tali dati consiste nel fatto che la pericolosità dell’usura risulta oggi fortemente accentuata dal fatto di essere spesso gestita da gruppi di criminalità organizzata, che mettono a disposizione il loro controllo del territorio ed i loro mezzi di coazione. Per le organizzazioni criminali, l’usura rappresenta, com’è noto, nel contempo, una possibilità di reimpiego di capitali di provenienza illecita ed un « investimento produttivo » altamente redditizio; attraverso l’usura la criminalità organizzata acquisisce attività imprenditoriali (3) o, comunque, realizza ingenti profitti, riducendo in miseria le sue vittime. A sua volta, come segnala la Relazione citata, l’agevole praticabilità dell’usura, dal punto di vista delle organizzazioni criminali, è assicurata dal ricorso a fatti estorsivi, che possono essere visti sia come uno strumento, sia come lo sviluppo finale (eventuale) di una « catena produttiva » criminale, secondo lo schema riciclaggio-usura-estorsione. In questo contesto, l’usura rappresenta soltanto una fase criminosa, il cui specifico contenuto d’illecito va individuato in conformità al ruolo effettivo che essa svolge nella dinamica reale del crimine organizzato. Ciò significa, da un lato, tenere distinto lo specifico disvalore dell’usura da quello costituito, in particolare, dall’uso di mezzi intimidatori, o addirittura violenti, diretto ad impedire il ricorso all’Autorità giudiziaria, oppure a riscuotere il credito usurario. D’altro canto, ciò comporta una ricostruzione del disvalore tipico dell’usura che si basi sulla reale dimensione del fenomeno, ovvero su ciò che fa dell’usura una grave aggressione al patrimonio del soggetto passivo. (2) COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, Camorra e politica. Relazione approvata dalla Commissione il 21 dicembre 1993, Roma-Bari, 1994, pp. 19-20. (3) V. ad es. MUCCIARELLI, Commento all’art. 11-quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (Usura e usura impropria), in LP, 1993, 137 ss.; ALBAMONTE, L’usura impropria nella legge n. 356 del 1992, in Cass. pen., 1993, 227.


— 1208 — A questo punto s’inserisce il dato, rilevato dalla Commissione antimafia, secondo cui l’elevata dannosità sociale dell’usura non scaturisce tanto dalla mera diminuzione patrimoniale insita nella sproporzione tra le prestazioni, isolatamente considerate, quanto dal fatto, particolarmente evidente nel caso dell’usura « imprenditoriale », che si tratti di un meccanismo tale da « mettere in ginocchio » il soggetto passivo, la cui posizione economica, già precaria, si aggrava in maniera decisiva, fino a costringerlo a cedere l’impresa. Questo considerevole aggravamento della posizione economica complessiva del soggetto passivo, o il pericolo di tale aggravamento, sembra costituire l’evento lesivo meritevole di tutela penale, come meglio vedremo in seguito. L’insieme dei dati sopra evidenziati, ed in particolare l’ultima costatazione, devono costituire i punti di partenza per un’indagine sulla ridefinizione del ruolo dello strumento penalistico nell’ambito di una strategia politico-criminale complessiva di lotta all’usura: la politica criminale, ed il diritto penale quale tecnica di controllo della devianza, non possono prescindere da un’adeguata osservazione dei fenomeni, se intendono prevenirli efficacemente e non solo rispondere in modo simbolico (4). Partendo dal dato empirico, si tratta allora di individuare le condotte rispetto alle quali è necessario l’intervento del diritto penale e, parallelamente, le possibilità di controllo del fenomeno con strumenti alternativi (5). In quest’ottica, un diritto penale teleologicamente orientato al perseguimento di istanze preventive (6) deve selezionare le offese più gravi, rispetto alle quali si manifesta un’effettiva necessità di tutela e, dunque, un giustificato allarme sociale, nonchè un’esigenza di risocializzazione, rendendosi, quindi, necessario un intervento in chiave di prevenzione generale cosiddetta integratrice e di prevenzione speciale positiva (7). Questa selezione (4) L’aderenza alla realtà delle costruzioni dogmatiche è uno dei punti caratterizzanti il programma di ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale (1970, 2a ed. 1973), trad.it. S. MOCCIA, Napoli, 1986, p. 40 ss. e passim; sull’importanza del dato empirico per una politica criminale efficiente v., inoltre, ad es., ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 237 ss.; NOLL, Gesetzgebungslehre, Reinbeck, 1973, p. 72 ss.; PULITANÒ, Politica criminale, in AA.VV., Diritto penale in trasformazione, a cura di G. Marinucci e E. Dolcini, Milano, 1985, 14 ss.; sottolineano la necessità di un’osservazione della dimensione criminologica dei fenomeni criminali relativi all’esercizio del credito DOLCINI-PALIERO, Il diritto penale bancario: itinerari di diritto comparato (Parte prima), in questa Rivista, 1989, 941; per rilievi analoghi rispetto alla lotta alla criminalità economica in generale, v. inoltre VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, in JZ, 1982, 85 e passim. (5) In proposito, può anche parlarsi di un problema di definizione del ruolo della « politica penale », ovvero delle strategie d’intervento affidate alla repressione penale, rispetto ad una politica criminale in senso ampio, che contempli anche l’uso di altri strumenti di controllo sociale; così PULITANÒ, op. cit., 6-7. (6) MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, p. 1 ss. e passim. (7) Per i concetti di prevenzione speciale e generale positive qui impiegati, riuniti nel


— 1209 — delle condotte penalmente rilevanti, partendo dalle finalità di prevenzione, deve tenere presenti, da una parte, i principi costituzionali relativi alla materia penale, ed in particolare, per quanto riguarda il tema in oggetto, quelli di extrema ratio e di offensività (8), che impongono, in via di principio, un arretramento della soglia di tutela penale, dall’altra l’esigenza di effettività della tutela (9), ovvero della sua congruenza rispetto allo scopo di prevenzione generale e speciale (10). Anche quest’ultimo aspetto non comporta un’estensione dell’ambito del penalmente illecito: al contrario, per quanto riguarda la prevenzione generale positiva (che sembrerebbe prestarsi, a prima vista, a tale estensione), proprio per ottenere, attraverso il diritto penale, una legittima aggregazione di consensi intorno ai principi-guida dell’ordinamento giuridico, è necessario che la tutela penalistica programmata corrisponda al fenomeno socialmente avvertito come grave, e solo ad esso, e non si estenda, invece, a fatti percepiti come non preoccupanti o addirittura potenzialmente utili; non solo, ma occorre anche che tale tutela programmata sia effettivamente attuabile da parte dell’ordinamento, altrimenti ne consegue la sfiducia dei consociati (11). Dunque, dal primo punto di vista, quello dei principi di extrema ratio e di offensività, si tratterà di individuare le caratteristiche strutturali che fanno dell’usura un fenomeno di grave dannosità sociale, ovvero che ne individuano l’offesa tipica non prevenibile se non attraverso lo strumento penale, tenendo altresì presenti le specifiche modalità di aggressione, che assumono rilevanza in quanto connotate da pericolosità (12). L’adozione, concetto generale di integrazione sociale, v. MOCCIA, op. cit., p. 96 ss.; ID., Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova, 1988, p. 29 ss. (8) Sulla costituzionalizzazione di questi principi v., per tutti, BRICOLA, Teoria generale del reato, in NSSDI, XIX, Torino, 1974, 14 ss., 81 ss. (9) Sulle tematiche connesse al principio di effettività nel diritto penale, si veda l’ampia indagine di PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in questa Rivista 1990, 430 ss. (10) Sulla relazione necessaria tra prospettive di efficienza e selezione delle condotte punibili cfr. ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, cit., p. 230 ss.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 179. (11) Cfr., con specifico riferimento alla lotta alla criminalità economica, VOLK, op. cit., 87. Sull’effetto di restrizione della tutela penale caratteristico di una prevenzione generale positiva correttamente intesa, agganciata alle effettive esigenze di tutela dei beni giuridici, v. MOCCIA, op. ult. cit., pp. 96 ss., 173 ss.; PULITANÒ, op. cit., 44; VOLK, op. cit., 86. Tra l’altro, notiamo qui, per inciso, come la restrizione della tutela penale allo strettamente necessario e realmente implementabile presenti evidenti implicazioni sotto il profilo dell’eguaglianza, in quanto appare suscettibile di eliminare o ridurre considerevolmente i processi selettivi inevitabilmente connessi all’impossibilità di fatto di perseguire realmente tutte le condotte lesive risultanti da fattispecie troppo ampie. Sul rapporto tra ipertrofia legislativa e selettività del sistema punitivo, v. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova, 1985, p. 203 ss., e, da ultimo, ZAFFARONI, Alla ricerca delle pene perdute. Delegittimazione e dommatica giuridico-penale, Napoli, 1994, p. 32ss. (12) Per una sistematica dei delitti contro il patrimonio incentrata sui criteri fonda-


— 1210 — nella ricostruzione dell’usura penalmente rilevante, dei criteri dell’oggettività giuridica e delle modalità di aggressione pericolose, mentre appare coerente con i principi costituzionali richiamati, obbedisce anche, in ultima analisi, alle finalità di prevenzione generale e speciale: si tratta, infatti, di individuare il disvalore d’evento e d’azione rispetto ai quali si legittima un intervento finalizzato in termini preventivi, e la rilevanza stessa dell’evento e delle modalità di aggressione dipende dai fini della pena costituzionalmente fissati (13). In altri termini, solo rispetto ad un evento (di danno o di pericolo) realmente offensivo si presenta un effettivo bisogno di tutela, ovvero un giustificato allarme sociale, e solo tale evento può costituire un idoneo e accettabile punto di riferimento legittimante un intervento di risocializzazione; soltanto se tale evento è riferibile ad un’aggressione non solo dolosa o colposa (Tatbestand soggettivo) (14), ma anche realmente dotata di attitudine offensiva (disvalore soggettivo ed oggettivo d’azione) (15) hanno un senso le considerazioni relative ad esigenze di prevenzione generale e speciale. In base a tutto ciò è, dunque, evidente che, in uno sviluppo coerente del fondamentale programma di Roxin (16), le finalità politico-criminali costituzionali, costruite tenendo conto dei principi relativi alle modalità dell’intervento penale, devono tradursi in principi strutturali della fattispecie, incidendo sulla costruzione di essa (17). Ciò fornisce proficue prospettive di analisi del diritto vigente, di critica dello stesso e di proposta de lege ferenda. D’altra parte, nell’approntare una tutela penale dell’usura, va tenuto mentali dell’oggettività giuridica e delle modalità di aggressione considerate nella loro attitudine offensiva, v. MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 111 ss. (13) Sulla relazione tra funzione della pena, offesa al bene giuridico e modalità di aggressione, v. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 173 ss. (14) Frutto della teoria finalistica, la considerazione del coefficiente psicologico della realizzazione del fatto all’interno della categoria della tipicità, irrinunciabile ai fini di una descrizione della fattispecie rispettosa del principio di legalità (cfr. ROXIN, Politica criminale e sistema del diritto penale, cit., Napoli, 1986, pp. 48-49, 71; SANTAMARIA, Rein objektive Auffassung des Tatbestandsbegriffs und Verletzung des Gesetzlichkeitsprinzip, in Festschrift für H. Welzel, Berlin-New York, 1974, 431 ss.) appare ora imprescindibile in una teoria generale del reato ricostruita secondo prospettive relative alla funzione della pena, cfr. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 124 ss. e passim; sulla teoria finalistica si veda la brillante indagine di SANTAMARIA, Prospettive del concetto finalistico di azione, Napoli, 1955, passim; per una trattazione manualistica che adotta un concetto complesso di fattispecie tipica, distinguendo un Tatbestand oggettivo ed uno soggettivo, v. ora FIORE, Diritto penale. Parte generale, vol. I, Torino, 1993, p. 158 ss. (15) Sulla struttura composita del disvalore d’azione dell’illecito v. per tutti GALLAS, Zur Struktur des strafrechtlichen Unrechtsbegriffs, in Festschrift für Bockelmann, München, 1979, 159. (16) ROXIN, Politica criminale e riforma del sistema penale, cit. (17) MOCCIA, op. ult. cit., pp. 26 ss., 115 ss., 173 ss. e passim.


— 1211 — nella debita considerazione un secondo punto di vista, quello dell’effettività; anch’esso presenta implicazioni per la costruzione della fattispecie (in quanto richiede la reale perseguibilità delle finalità preventive), e, più in generale, per la definizione dei ruoli dell’intervento penalistico e di altri strumenti di controllo. Le statistiche criminali parlano di un numero molto basso di condanne per usura, a fronte della pervasività del fenomeno (18). Non si tratta, dunque, di intervenire in maniera solo simbolica, ovvero con meri inasprimenti di pena, ma reale: un effetto di prevenzione generale positiva è legittimamente perseguibile se l’allarme sociale viene prevenuto, ovvero l’aggregazione di consensi perseguita, rispondendo ragionevolmente alle effettive necessità di tutela (19) e non narcotizzando attraverso l’innalzamento della sanzione la percezione soggettiva di reali vuoti di tutela (20). L’esigenza di effettività impone, inoltre, una tutela adeguata al fenomeno reale dell’usura, come esso si presenta nella sua odierna gravità, e non secondo prospettive meramente ideologiche, come quelle che improntano la tutela penale del patrimonio ed in particolare, come vedremo fra breve, anche la fattispecie di usura nel codice Rocco (21). Perché sia effettiva, la tutela penale dev’essere inoltre non ipertrofica: per essere non simbolica ed adeguata rispetto al fenomeno realmente lesivo, cioè congrua rispetto allo scopo, tale tutela dev’essere implementabile (22), e quindi mirare alla punizione solo delle ipotesi gravemente lesive, rispetto alle quali non siano utilizzabili altri strumenti (qui è evidente come l’esigenza di efficienza si coniughi con il principio di extrema ratio) (23). (18) In Germania Federale, tra il 1977 e il 1989 non sono state mai condannate più di 22 persone all’anno: per questi ed ulteriori dati, v. SCHEFFLER, Zum Verständnis des Wuchers gemäß § 302a StGB, in GA, 1992, 2-3. Per l’Italia, i dati statistici relativi agli anni dal 1990 al 1993 indicano anch’essi un basso numero di condanne, seppure con un lieve aumento, imputabile in parte anche all’acuirsi del fenomeno: 28 nel 1990, 50 nel 1991, 51 nel 1992, 60 nel 1993; cfr. ISTAT, Statistiche giudiziarie penali (anno 1990, Roma, 1991, p. 399; anno 1991, Roma, 1992, p. 393; anno 1992, Roma, 1993, p. 199; e anno 1993, Roma, 1994, p. 201). Rilievi analoghi svolge, con riferimento allo scarso numero di decisioni reperibili nei massimari, LUCCIOLI, Brevi note in tema di usura, in Cass. pen. Mass., 1979, II, 1527; cfr. anche ALBAMONTE, op. cit., 226; GAROFANO, Sullo « stato di bisogno » nel delitto di usura, in Cass. pen., 1993, 2283. (19) In questo senso MOCCIA, op. ult. cit., p. 97 ss. Sulla necessaria presenza di un reale pericolo per i beni giuridici, quale filtro rispetto ad un allarme sociale infondato, v. in particolare ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, cit., p. 239: « Il legislatore non deve essere supino esecutore di qualunque istanza repressiva. Da sempre il legislatore, anche quello penale, filtra il retroterra culturale, e tende a trasformarlo ». (20) Sui rischi di un uso simbolico del diritto penale, motivato con il riferimento ad esigenze di prevenzione generale, v. PULITANÒ, op. cit., 17 ss., 25 ss. (21) In proposito, per la tutela del patrimonio in generale, v. SGUBBI, Patrimonio (reati contro il), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 350 ss. e passim; per quanto riguarda l’usura in particolare, v. infra, pp. 26-27, 39. (22) V. supra, pp. 3-4. (23) Da questo punto di vista concordiamo con SCHEFFLER, op. cit., 19, nel ritenere


— 1212 — Inoltre, una tutela efficiente non può essere una tutela isolata, affidata alla sola incriminazione (24): questo aspetto presenta numerose implicazioni, a cui può solo accennarsi. Anzitutto, si è già rilevato come l’usura debba la sua pericolosità ed « efficacia », in misura notevole, alla possibilità di ricorrere a mezzi di coazione, anche violenta, per i fini già enunciati di riscossione e di dissuasione dal ricorso alla tutela giuridica. Una lotta effettiva all’usura non può, allora, non passare attraverso un più efficace controllo del territorio, tale da creare una situazione di minore insicurezza e da incoraggiare il ricorso all’autorità giudiziaria. Nella dottrina tedesca si è rilevato come, di regola, gli episodi di usura vengano a conoscenza dell’autorità giudiziaria attraverso le denunce dei privati (25), ma queste abbiano luogo molto raramente, in parte per timore, in parte per un meccanismo di dipendenza che è stato paragonato a quello caratteristico della tossicodipendenza, in quanto la vittima ritiene probabile di dover far ancora ricorso, in futuro, all’usuraio (26). Collegata al problema del controllo del territorio, appare anche la possibilità di un ricorso ai rimedi offerti dal diritto civile, dato che la propensione all’azione civile dipende anche dalla percezione della sicurezza della propria incolumità; tali rimedi potrebbero essere presi in considerazione per le ipotesi meno gravi, come vedremo in seguito. In proposito si pone, poi, il problema dell’effettività della tutela civilistica, che ovviamente non può essere affrontato in questa sede. Accanto all’esigenza di un migliore controllo del territorio e di un arretramento dell’intervento penale a favore di quello civilistico, ai fini di una efficace strategia complessiva di tutela, è necessario, infine, affrontare il punto, essenziale, delle possibilità di incidere, da parte dello Stato, nel settore bancario e finanziario, in tema di accesso al credito. Le organizzazioni criminali offrono un « servizio » rispetto al quale c’è una forte domanda, inevasa dal sistema legale del credito. È stato rilevato come, a differenza che nella circonvenzione d’incapaci, nell’usura il soggetto che versa in « stato di bisogno (art. 644 c.p.) o in « condizioni di difficoltà che il diritto penale possa dare solo un contributo « piccolo, ma non privo di rilevanza, alla lotta all’usura ». (24) « La lotta alla criminalità economica è più che mai un problema di divisione dei compiti »: VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 87. (25) HOHENDORF, Das Individualwucherstrafrecht nach dem ersten Gesetz zur Bekämpfung der Wirtschaftskriminalität, Berlin, 1982, p. 29; HEINZ, Die Bekämpfung der Wirtschaftskriminalität mit strafrechtlichen Mitteln - unter besonderer Berücksichtigung des 1 WiKG, in GA, 1977, 229; SCHEFFLER, op. cit., 2-3; STURM, Die Neufassung des Wuchertatbestandes und die Grenzen des Strafrechts, in JZ, 1977, 85; ARZT-WEBER, Strafrecht. BT, Heft 4, 2a ed., Bielefeld, 1989, pp. 91-92. (26) HOHENDORF, op. cit., p. 30; SCHAUER, Grenzen der Preisgestaltungsfreiheit im Strafrecht - Eine Untersuchung zum Verhältnis von Wucher und Betrug, München, 1989, p. 71.


— 1213 — economiche o finanziarie » (art. 644 bis c.p.) si comporti, in fondo, in maniera « razionale » (27): la stessa giurisprudenza, nell’ambito dell’interpretazione estensiva dello stato di bisogno, è giunta a definirlo come situazione in cui il richiedente « ritenga preferibile aderire ad una pretesa eccessivamente gravosa di interessi piuttosto che subire un danno maggiore » (28), e autorevole dottrina parla in proposito di carenza di un bene o servizio (deficit) e tendenza a soddisfarlo (29). Si tratta, allora, di tentare di espandere le possibilità di accesso al mercato legale del credito, sottraendo clienti al sistema illegale, e ciò in maniera preventiva e non tramite fondi di solidarietà e iniziative simili che intervengano solo in un momento successivo (30). In base a quanto detto, dunque, una politica criminale rispettosa dei principi fondamentali ed efficiente deve approntare una strategia complessiva, nell’ambito della quale il diritto penale intervenga in rapporto ai fenomeni più gravi che non possono essere combattuti con strumenti diversi. Attraverso la fattispecie di usura, il diritto penale deve individuare il contenuto tipico dell’illecito punibile, nella sua attuale dimensione di gravità, secondo un’ottica di prevenzione e nel rispetto dei principi, in particolare di quelli di extrema ratio ed offensività. Anche in una prospettiva di efficienza, la costruzione della fattispecie costituisce un momento centrale, in quanto deve cogliere il fenomeno nella sua reale dimensione lesiva e approntare uno strumento realmente idoneo allo scopo (31). Sulla (27) SAMSON, § 302a, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch. II. Besonderer Teil, 5 ed., Neuwied-Kriftel-Berlin 1994, 21. Lieferung (Febbraio 1987), 17; SCHEFFLER, op. cit., 7. (28) Cass. 18 gennaio 1980, in Giust. pen., 1980, II, 709. Su analoghe pronunce giurisprudenziali, v. GROSSO, voce Usura (dir.pen.), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 1143. (29) VIOLANTE, voce Usura (delitto di), in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1975, 383 ss. (30) Sulle prospettive legate all’impiego di strumenti alternativi di prevenzione, v. infra, p. 42 ss. (31) È stato evidenziato come alla base dell’insufficiente repressione dell’usura vi siano anche ragioni dommatiche: nella Germania Federale, ove la norma-base sull’usura (par. 302a StGB) presenta una struttura molto simile a quella del nostro art. 644 c.p., le fonti statistiche indicano una percentuale di condanne rispetto ai procedimenti iniziati del 10% (cfr. SCHEFFLER, op. cit., pp. 3-4). Per l’Italia, il rapporto tra le condanne per usura ed i delitti denunciati è stato nel 1990 del 15,5% (28 condanne a fronte di 180 delitti denunciati), nel 1991 del 15,3% (50 condanne su 325 delitti denunciati), nel 1992 del 12,1% (51 condanne su 421 delitti denunciati), nel 1993 del 7,1% (60 condanne su 844 delitti denunciati); nello stesso periodo 1990-1993, il rapporto tra condanne e delitti denunciati, con riferimento alla fattispecie di circonvenzione d’incapaci, è stato, rispettivamente, del 17% (1990), del 20% (1991), del 34% (1992) e del 27,7% (1993); ancora più significativo il raffronto con la fattispecie di estorsione, rispetto alla quale le percentuali sono rispettivamente del 37,2% (1990), del 50,5% (1991), del 45,8% (1992) e del 54% (1993); per questi dati, cfr. ISTAT, Statistiche giudiziarie penali (anno 1990, cit., pp. 250 ss., 399 ss.; anno 1991, cit., pp. 244 ss., 393 ss.; anno 1992, cit., pp. 50 ss., 199 ss.; anno 1993, cit., p. 50 ss., 201 ss.). Al riguardo, va comunque tenuta presente, per l’anno 1993, una possibile incidenza del-


— 1214 — base delle esigenze finora evidenziate, va affrontata l’analisi delle fattispecie attualmente vigenti in tema di usura. 2. La fattispecie-base: analisi e prospettive di riforma. Il ruolo del bene giuridico e la lesione penalmente rilevante. — Il reato di usura, che non era contemplato dal Codice Zanardelli, è stato introdotto nel codice Rocco all’art. 644 (32), che prevede due distinte ipotesi: l’usura (propria) e la mediazione usuraria. Recentemente, di fronte all’acuirsi del fenomeno in alcune regioni, è stata aggiunta, nell’ambito di provvedimenti urgenti per la lotta alla criminalità organizzata, una nuova fattispecie di reato, l’usura impropria (art. 644 bis c.p.) (33). Ci occuperemo per il momento dell’usura propria, che risulta comunque essere la figura-guida. Com’è noto, l’art. 644 c.p. si applica, in virtù di una espressa clausola di riserva, solo all’infuori dei casi di circonvenzione di persone incapaci (art. 643 c.p.). Si è molto discusso su quale sia il bene giuridico tutelato nell’art. 644 c.p. Nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore del codice, parte della dottrina sostenne che la norma tutelasse un bene giuridico superindividuale, ovvero l’ordinamento del credito; una tesi, questa, smentita, secondo autorevole dottrina, dal tenore letterale della norma, in virtù del riferimento allo « stato di bisogno » del soggetto passivo, che connota la tutela in senso individuale, giacchè la stipulazione di interessi usurari, pur lesiva dell’« ordinamento del credito », in assenza dello stato di bisogno individuale non basta a configurare il reato (34). A ben vedere, l’obiezione, corretta negli esiti, appare non solidissima nell’argomentazione: poichè lo stato di bisogno, dal punto di vista dommatico, costituisce un presupposto, che ha la funzione di restringere la tutela, esso non l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 644-bis sul numero dei delitti denunciati (anche per intuibili ragioni psicologiche o legate alle iniziative delle associazioni di categoria a sostegno dei professionisti ed imprenditori vittime dell’usura), mentre il numero delle condanne non è salito considerevolmente, forse anche a causa dei tempi dei procedimenti; per ora non sono disponibili i dati relativi al 1994, che consentirebbero un ulteriore controllo sui risultati dell’introduzione dell’art. 644-bis. In proposito, comunque, v. infra, p. 38 ss. Sulle implicazioni di alcuni elementi ai fini delle difficoltà applicative della fattispecie di usura, cfr. LUCCIOLI, op. cit., pp. 1527-8; più da vicino, v. infra, pp. 1228 ss., 1234 ss. (32) Sulle probabili motivazioni ideologiche di tale reintroduzione, cfr. SGUBBI, op. cit., p. 336. Per una rassegna dei progetti per la repressione dell’usura dal Codice Zanardelli al Codice Rocco, v. VIOLANTE, voce Usura (delitto di), cit., pp. 381-2. Ulteriori informazioni sulle vicende storiche dell’usura in MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, IX ed. aggiornata da NUVOLONE e PISAPIA, Torino, 1984, p. 869 ss.; da ultimo, v. BELLINI, Usura fra morale e jus positum, in Riv. pen., 1992, p. 623 ss. (33) V. art. 11-quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992, n. 356. (34) Per questi rilievi v. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo secondo, Delitti contro il patrimonio, Bologna, 1992, p. 171.


— 1215 — incide necessariamente sul bene tutelato, che ben potrebbe ravvisarsi nell’ordinamento del credito, difeso solo quando viene violato, appunto, « approfittando dello stato di bisogno » altrui. Questo elemento, considerato unitariamente, sembrerebbe, piuttosto, attenere alle modalità di aggressione. Tuttavia, la tendenza a ravvisare il bene protetto nell’ordinamento del credito sembra criticabile sotto un altro profilo, e cioè nella misura in cui si iscrive in una non condivisibile adozione di oggettività giuridiche inafferrabili, dietro le quali si cela un modello d’incriminazione di pericolo presunto rispetto al vero bene meritevole di tutela: fatti lontani dalla lesione del bene patrimoniale vengono resi oggetto di una tutela fortemente anticipata mediante il ricorso a beni artificiali come l’« ordinamento del credito » (35), secondo un meccanismo già denunciato dalla dottrina più attenta (36). Analoghe considerazioni ci sembra che valgano per beni come « il regolare funzionamento dell’economia » (37) o « l’interesse pubblico al funzionamento del meccanismo della domanda e dell’offerta » (38). Secondo un’altra tesi, l’usura sarebbe un reato plurioffensivo, essendo tutelati sia il patrimonio che la libertà morale della vittima (39). Giustamente si obietta che, come sopra si è accennato, in realtà la lesione della libertà morale del soggetto costituisce soltanto una modalità della lesione del patrimonio (40); forse può precisarsi ulteriormente tale affermazione, nel senso che la situazione di diminuita libertà personale rientra nello stato di bisogno del soggetto passivo, dunque fa parte dei presuppo(35) Così, da ultimo, BOTTKE, Das Wirtschaftsstrafrecht in der Bundesrepublik Deutschland - Lösungen und Defizite, in Wistra, 1991, p. 9, sostiene, proprio rispetto alla fattispecie di cui al par. 302a StGB, comprensiva delle ipotesi di cui agli artt. 643 e 644 c.p. it., che la costruzione di essa come reato di pericolo astratto è legittimata dal fatto che una società, che si riconosce nell’economia sociale di mercato, ha interesse a che non vengano sfruttati i gap di competenza esistenti tra soggetti economici, senza che rilevi il fatto che si giunga ad una lesione o messa in pericolo del patrimonio individuale. (36) MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in questa Rivista, 1995, 345 ss., con ampi riferimenti bibliografici. (37) OTTO, Grundkurs Strafrecht, 3a ed., Berlin-New York, 1991, p. 284; contra, espressamente, MAURACH-ZIPF, Strafrecht. AT, I, 6a ed., Heidelberg, 1983, p. 257; MAURACHSCHRÖDER-MAIWALD, Strafrecht, BT, 7a ed., Heidelberg, 1988, pp. 483-4. (38) BOHNERT, Ordnungswidrige Mietpreisüberhöhung, Berlin, 1991, p. 9 ss.; cfr. anche ARZT, Zwischen Nötigung und Wucher, in Festschrift für Lackner zum 70. Geburtstag, Berlin-New York, 1987, p. 653. VOLK, op. cit., p. 86, evidenzia in proposito come la fiducia nell’ordine economico, anziché costituire un bene giuridico, non sia in ultima analisi che la fiducia nella vigenza e nell’inviolabilità dell’ordinamento, ovvero una finalità di prevenzione generale positiva. (39) V., ad es., FRANK, RStGB, 18a ed., Tübingen, 1931-1936, § 302a, nota I; CANDIAN, Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione nel diritto positivo italiano, Milano 1946; in senso analogo v. oggi MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, (ristampa, 1994), p. 192; SCHEFFLER, op. cit., pp. 14-15. (40) FIANDACA-MUSCO, op. loc. ult. cit.


— 1216 — sti del fatto tipico, mentre la condotta tipica del « farsi dare o promettere », « approfittando » di quello stato, non sembra da riportarsi necessariamente ad una coartazione dell’altrui volontà, restando per ora impregiudicata la questione se sia o meno necessaria, per la configurabilità del reato, una qualsiasi condotta attiva da parte del soggetto attivo. Considerazioni analoghe valgono anche rispetto alla tesi secondo cui i beni tutelati dall’art. 644 c.p. sarebbero, da una parte, l’interesse all’autonoma determinazione del contenuto del contratto, dall’altra interessi attinenti al patrimonio o alla sfera personale del soggetto passivo. La norma in questione andrebbe interpretata, secondo questa opinione, come applicazione del principio, fissato nell’art. 41 cpv. della Costituzione, secondo cui all’autonomia privata sono posti dei limiti consistenti nella mancanza di contrasto con l’utilità sociale e nella tutela della sicurezza, libertà e dignità umana (41). Questa interpretazione, com’è stato rilevato, oltre ad esporsi ai rilievi critici già espressi, stravolge il significato originario dell’art. 644 c.p., senza che vi siano, nella struttura della fattispecie, elementi che costituiscano riscontri univoci della sua validità (42). Sembra che, rispetto a tale concezione, possano utilizzarsi argomenti analoghi a quelli utilizzabili relativamente alla tutela penale di cose di mero valore affettivo, in particolare con riguardo alla tesi secondo cui, in base alla ricostruzione della norma come concretizzazione dell’art. 41, co. 2, Cost., nell’ambito di tutela dell’art. 644 c.p. rientrerebbero anche le ipotesi in cui i « vantaggi usurari » dati o promessi dalla vittima non abbiano carattere patrimoniale, come può avvenire per prestazioni sessuali o votazioni favorevoli (43). In effetti, come avviene per le cose aventi valore affettivo, anche per le prestazioni insuscettibili di valutazione economica appare fuori luogo una tutela nell’ambito dei reati contro il patrimonio, con conseguente forzatura delle singole fattispecie previste a tutela di interessi patrimoniali (44); tra l’altro, sembra potersi paventare il rischio di concepire beni come l’autodeterminazione sessuale, ma anche, ad esempio, l’onore o (41) VIOLANTE, Il delitto di usura, Milano, 1970, p. 235 ss.; ID., voce Usura (delitto di), cit., p. 388; conforme DE ANGELIS, voce Usura, in Enc. giur. Treccani, XXXII, Roma, 1994, p. 5. (42) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 172. (43) VIOLANTE, Il delitto di usura, cit., p. 107 ss.; ID., Usura, cit., p. 385; DE ANGELIS, Usura, cit., p. 3. La dottrina dominante ritiene invece pacifica la natura patrimoniale dei vantaggi usurari. Va qui precisato che la prestazione del soggetto passivo ben può consistere in lavoro o servizi personali, sempre che essi siano economicamente valutabili (così ad es. MANZINI, op. cit., p. 890). Sull’importanza della forza-lavoro quale componente patrimoniale meritevole di tutela penale, con particolare riferimento proprio alla tutelabilità contro fatti di usura, v. MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 82 ss.; contro l’assunzione della forza-lavoro ad oggetto della tutela penale del patrimonio, v. invece ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, 9a ed., Milano, 1986, p. 218. (44) MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 104 ss.


— 1217 — la libertà personale, quali beni traducibili in prestazioni « economiche »; ad esempio, potrebbe ben darsi il caso che qualcuno esiga come « vantaggio usurario » una pur temporanea riduzione in schiavitù o in una condizione analoga. Come è stato rilevato, è evidente che casi del genere « presentino un disvalore più correttamente riconducibile ad altre previsioni di reato » (45). Pare, quindi, senz’altro da accogliere la tesi secondo cui l’art. 644 c.p. tutela un interesse patrimoniale individuale (46). Ora, questo interesse sembra essere individuato dalla dottrina, pur non espressamente, nell’impedimento di una lesione consistente nella sproporzione delle prestazioni (47). Ciò appare confermato dalla ricostruzione che la dottrina prevalente dà della norma in sede di interpretazione del significato dei singoli elementi della fattispecie. Infatti, in primo luogo, analizzando il presupposto dello « stato di bisogno », si afferma unanimemente che tale bisogno può essere anche contingente (48); ciò comporta l’identificazione della lesione tipica con la sproporzione delle prestazioni e non con il pericolo di un aggravamento sostanziale della posizione economica del soggetto passivo. Costui può anche essersi assoggettato a condizioni usurarie in vista di un superamento di una solo temporanea difficoltà e del raggiungimento di un risultato complessivamente positivo dal punto di vista patrimoniale, un risultato, il cui conseguimento stesso non esclude l’esistenza del reato di usura, neanche quando fin dall’inizio la pattuizione usuraria non potesse minimamente essere pericolosa per la posizione patrimoniale complessiva del soggetto passivo. Ma, soprattutto, l’interpretazione del requisito del concetto di « usurario », riferito agli interessi o vantaggi dati o promessi dalla vittima, è illuminante in proposito: innanzitutto, perché si tratta dell’unico dato su cui s’incentra la lesione dell’interesse patrimoniale protetto (che è realizzata dalla dazione o promessa, se ed in quanto essa è « usuraria »), rinviando il « farsi dare o promettere », « approfittando dello stato di bisogno di una persona » alle modalità di aggressione (o anche all’elemento psicologico, se si intende in questo senso l’« approfittare ») (49). Ed inoltre perché, nell’ambito della disputa sul significato del termine usato dal (45) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 178. (46) Così, ad es., CANDIAN, Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione nel diritto positivo italiano, cit., p. 35 ss.; PISAPIA, Istituzioni di diritto penale, Padova, 1970, p. 434; SANTORO, Manuale di diritto penale, V, Torino, 1968, p. 420 ss.; da ultimo, FIANDACAMUSCO, op. cit., p. 172. (47) Per tutti, cfr. FIANDACA-MUSCO, op. loc. ult. cit. (48) ANTOLISEI, op. cit., p. 319; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 175; MANTOVANI, op. cit., pp. 192-193. (49) Sul punto v. infra, p. 23 ss.


— 1218 — legislatore — che ha adoperato una tecnica assai carente dal punto di vista del rispetto del principio di determinatezza (50) —, sembra ormai prevalere, pur fra grandi incertezze (51), la tesi secondo cui è usurario l’interesse o il vantaggio « manifestamente sproporzionato » rispetto alla controprestazione (52). Tra l’altro, si noti che questa accezione dell’usurarietà è stata accolta dal codice penale tedesco, all’interno del quale la norma sull’usura (§ 302a StGB), nella versione introdotta con la Prima legge in tema di lotta alla criminalità economica (1.WiKG) del 1976 (53), espressamente richiede che i vantaggi patrimoniali promessi o garantiti siano « in vistosa sproporzione rispetto alla prestazione ». In proposito, l’obiezione di una parte della dottrina, secondo cui l’usurarietà andrebbe determinata con riferimento alla mancanza assoluta di titolo di tale sproporzione, dal che deriverebbe la necessità di qualificare usurario il profitto ingiusto o senza causa (54), sembra da tenere in considerazione non all’esterno, ma all’interno del giudizio di proporzione, nel senso che questo debba tener conto delle circostanze del caso concreto (55). In base a tutto ciò, sembra potersi affermare che il patrimonio venga tutelato, nella norma in esame, dalla diminuzione corrispondente alla sproporzione delle prestazioni. In quest’ottica, la dazione configura l’of(50) Per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2a ed., Bologna, 1989, p. 74. (51) Evidenziate ad es. da G.V. DE FRANCESCO, Art. 644, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale, Padova, 1992, p. 1516; FIANDACA-MUSCO, op. cit., pp. 176-177. (52) Cfr., ad es., ANTOLISEI, op. cit., p. 318; MANTOVANI, op. cit., p. 194; una conferma di ciò si trova però, probabilmente, anche nella tesi di chi considera l’usurarietà come violazione del tasso legale (DE MARSICO, Delitti contro il patrimonio, Napoli, 1951, p. 185), in quanto ciò che viene contestato è in realtà soltanto la misura della sproporzione penalmente rilevante; d’altronde, il riferimento, fatto da VIOLANTE, Il delitto di usura, cit., p. 128 ss., e, sulla sua scia, da DE ANGELIS, Usura, cit., p. 3, al criterio dell’« ingiustizia », da una parte rinvia necessariamente, come vedremo subito, al fondamento dell’affermazione di ingiustizia, ovvero alla sproporzione, dall’altra è agevolmente spiegabile in base al fatto che l’Autore vuole ricomprendere nell’art. 644, come già visto, anche ipotesi di lesione di interessi insuscettibili di valutazione economica. (53) La traduzione italiana di questa legge, a cura di A. Lanzi, si trova in L’indice penale, 1976, p. 470 ss. (54) Cfr. VIOLANTE, Usura, cit., p. 385. (55) In questo senso può condividersi l’osservazione secondo cui « un interesse può essere usurario in una situazione e non in un’altra, ove, ad esempio, il rischio del mutuante sia di gran lunga maggiore »; cfr. VIOLANTE, op. loc. ult. cit.; v. anche MANZINI, op. cit., pp. 888-9; GROSSO, op. cit., p. 1145; MALINVERNI, Interessi usurari e stato di bisogno, in Giur. it., 1965, I, 266; già nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, p. 467, si rilevava che « non si può stabilire in un codice quando la misura degli interessi raggiunga tal grado da fornir materia di usura, essendo la misura degli interessi dipendente dalle più diverse circostanze di tempo, di luogo, di persone, di rischio ». Nello stesso senso, nella dottrina tedesca, ad es., ARZT-WEBER, op. cit., p. 96; LENCKNER, Anmerkung zu StA Stuttgart 27 dicembre 1978, in JR, 1980, 16.


— 1219 — fesa in termini di danno, la promessa (che, si sottolinea, dev’essere seria e non può ritenersi rilevante in mancanza dell’intenzione di adempiere) (56) quella in termini di pericolo (57). A questa costruzione della fattispecie di usura si oppongono, però, i principi di extrema ratio e di offensività: infatti, nell’ambito del fatto tipico rientrano anche fatti non solo inidonei dall’inizio a ledere il patrimonio complessivo del soggetto passivo, ma suscettibili di cagionare un miglioramento della situazione patrimoniale complessiva, e comunque utili ad uscire da uno stato di bisogno contingente, senza essere in alcun momento pericolosi per il patrimonio della vittima, che viene leso, in ipotesi del genere, soltanto relativamente alla diminuzione patrimoniale consistente nella differenza di valore economico delle rispettive prestazioni, isolatamente considerate. Una tutela così ampia è ammissibile solo all’interno di una concezione atomistica del patrimonio (58), che tuteli le singole componenti patrimoniali al di fuori della considerazione della loro strumentalità e della loro relazione d’interesse rispetto al titolare di esse. Ciò risulta essere in contrasto con i principi di extrema ratio e offensività, in quanto vengono assunte ad oggetto di tutela penale anche ipotesi di lesioni irrilevanti per il patrimonio complessivo del soggetto passivo e, addirittura, ipotesi in cui la lesione di una singola componente patrimoniale appare utile al soggetto passivo in una prospettiva più ampia e generale, al fine di superare un bisogno contingente. Una tale estensione della tutela è incompatibile con il ruolo che la Costituzione assegna alla tutela del patrimonio (59), oltrechè con le finalità preventive della pena costituzionalmente sancite (60). Quel ruolo e quelle finalità impongono l’adozione di una concezione unitaria del patrimonio, secondo cui oggetto di tutela penale possano essere soltanto componenti patrimoniali considerate non isolatamente, ma nel contesto del patrimonio del soggetto passivo ed in relazione all’interesse del titolare, in una prospettiva di strumentalità al perseguimento delle sue finalità (61). In questa prospettiva, le esigenze già ricordate di extrema ratio e offensi(56) Cfr. ad es. VIOLANTE, Usura, cit., p. 386. (57) Che le cose stiano così è confermato esplicitamente da chi, peraltro, sostiene che l’interesse tutelato dalla norma non debba essere necessariamente patrimoniale: cfr. VIOLANTE, Usura, cit., p. 387. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 873, ritiene che anche la pattuizione configuri un evento di danno, in quanto « costituisce un onere patrimoniale, sia o non sia garantita »: sul punto v. però infra, p. 1221. (58) Sulle diverse concezioni di patrimonio, v. MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 51 ss. (59) MOCCIA, op. ult. cit., p. 25 ss. (60) MOCCIA, op. ult. cit., p. 29 ss. (61) Per la concezione personalistica del patrimonio, v. MOCCIA, op. ult. cit., p. 62 ss.; ID., Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 257-258.


— 1220 — vità impongono di considerare quale lesione penalmente rilevante nel reato di usura non la diminuzione patrimoniale isolata, consistente nella differenza di valore o sproporzione fra le prestazioni, bensì tale diminuzione patrimoniale in quanto idonea ad aggravare considerevolmente la posizione patrimoniale complessiva del soggetto passivo. Il bene giuridico tutelato dalla norma in esame diviene allora il patrimonio complessivo del soggetto passivo, che viene protetto da una diminuzione rilevante in rapporto ad esso o dal pericolo di una tale diminuzione. L’identificazione del bene tutelato nel patrimonio unitariamente considerato e quella, corrispondente, dell’offesa penalmente rilevante nella lesione di una componente patrimoniale rilevante in rapporto al patrimonio complessivo del soggetto passivo, o nel pericolo di tale lesione, consentono, inoltre, di cogliere la dimensione di potenziale plurioffensività dell’usura, che in realtà è implicita nell’adozione di un concetto di patrimonio che valorizzi la prospettiva dell’interesse del titolare e ne rappresenta soltanto un riflesso. L’aggressione al patrimonio della vittima sembra divenire meritevole di tutela penale nel momento in cui costituisce un attacco alla funzionalità strumentale di quel patrimonio rispetto al fine del libero sviluppo della personalità, della dignità umana, e quindi anche allo stesso diritto dell’individuo alla presenza in un campo d’azione economico. Tutto quanto detto si traduce, dunque, come si è già accennato, sul piano della struttura della fattispecie, nella necessità di richiedere, oltre alla manifesta sproporzione, considerata in concreto, fra le prestazioni, anche un consistente aggravamento della situazione patrimoniale complessiva del soggetto passivo o il relativo pericolo, che costituirebbero l’evento (di danno o di pericolo) della fattispecie di usura. Rispetto a tale evento, la fattispecie vigente dell’art. 644 c.p. risulta, allora, caratterizzarsi in termini di pericolo presunto: considerando bene protetto dall’art. 644 c.p. il patrimonio complessivo del soggetto passivo, e non la singola componente patrimoniale costituita dalla differenza di valore fra le prestazioni, rientrano, infatti, nell’attuale fattispecie, come sopra abbiamo già posto in risalto, fatti fin dall’inizio inidonei a creare un pericolo per tale bene (62). Da questo punto di vista, la tesi secondo cui i beni tutelati dall’art. 644 c.p. sarebbero di natura superindividuale (63) coglie il vero, nella misura in cui evidenzia la spiritualizzazione (64) o pubblicizza(62) Contro l’utilizzo di reati di pericolo astratto e presunto MOCCIA, op. ult. cit., p. 185 ss.; ID., Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, cit., 368 ss. (63) V. supra, p. 9 ss. (64) Così SGUBBI, voce Patrimonio (reati contro il), cit., p. 336: per l’illustre Autore, l’usura rappresenta un esempio di « incriminazione in cui la posizione dell’individuo-vittima, dei suoi interessi, della sua volontà, risulta in secondo piano rispetto alle esigenze di protezione di valori più generali, eticizzanti e smaterializzati ».


— 1221 — zione (65) dell’interesse protetto che avviene, in questa norma come altrove, tramite l’anticipazione della tutela ad una fase in cui la condotta non necessariamente è idonea a ledere il patrimonio individuale (66). Nell’ambito della dottrina tedesca, con riferimento alla fattispeciebase del § 302a StGB, che incentra anch’essa la lesione sulla sproporzione tra le prestazioni, è stato rilevato come una siffatta costruzione faccia dell’usura, in ultima analisi, non un reato contro il patrimonio, ma un reato contro disposizioni vincolanti sui prezzi: « Che il patrimonio di un imprenditore finito in stato di necessità economica venga tutelato dalla fattispecie di usura, non può rendersi assolutamente plausibile, almeno nei casi in cui il divieto nei confronti di chi concede il credito ha per conseguenza il tracollo economico dell’imprenditore » (67). Sul piano dei principi, la costruzione proposta costituisce un passo avanti, anche, e non da ultimo, perchè consente di sopperire all’indeterminatezza del concetto penalistico di interesse o vantaggio « usurario », richiedendosi espressamente che dall’usurarietà della prestazione possa scaturire l’evento sopra descritto. Un’ulteriore implicazione della costruzione qui tentata è data, ancora, dalla possibilità di ridimensionare, sempre de lege ferenda, la rilevanza della mera pattuizione usuraria: essa sembra dovere la sua previsione espressa ad una concezione giuridica di patrimonio, nell’ambito della quale è sufficiente il trasferimento di un diritto, anche se caducabile attraverso l’azione civilistica del contraente-vittima, perchè venga ad esservi un « onere patrimoniale » costituente evento dannoso (68). L’adozione, qui, di un concetto unitario e personalistico di patrimonio consente, invece, un recupero di offensività, in quanto l’evento lesivo viene ancorato al trasferimento reale, ovvero alla dazione o al tentativo di ottenerla da parte del soggetto passivo; con ciò, anche la pattuizione può riacquisire rilevanza, ma solo in quanto configuri, per l’appunto, un tentativo (69). (65) Secondo una tecnica generale del codice Rocco, particolarmente evidenziata da PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, p. 49 ss. (66) Sul tema, cfr. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 270 ss.; ID., Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, cit., p. 345 ss.; SGUBBI, Il reato come rischio sociale, Bologna 1990, p. 17 ss. e passim. (67) SAMSON, op. cit., p. 17; conforme BERNSMANN, Zur Problematik des Mißverhältnisklausel beim Sachwucher - Eine Untersuchung zu einem « dogmatischen Dunkelfeld », in GA, 1981, 144 ss. (68) Com’è noto, la concezione giuridica del patrimonio tende a difenderlo su posizioni più avanzate, anticipando il momento della lesione da quello del trasferimento reale a quello del trasferimento giuridico della componente patrimoniale. In questo senso, tra gli altri, MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 54; PECORELLA, voce Patrimonio (delitti contro il), in Noviss. dig. it., XII, Torino, 1965, 629; SGUBBI, voce Patrimonio (reati contro il), cit., 377. (69) Rispetto alla norma vigente, ritengono la punibilità del tentativo, arrivando,


— 1222 — La soluzione indicata appare non solo conforme ai principi costituzionali sopra menzionati, ma anche assistita da valide ragioni in relazione a prospettive di effettività del controllo sociale del fenomeno, nella sua dimensione attuale di grave reato tipico della criminalità organizzata. Da questo punto di vista, preme anzitutto sottolineare come una fattispecie così costruita appaia più rispondente al fenomeno usura nelle sue forme reali. La dannosità sociale dell’usura e l’allarme che ne consegue derivano proprio dalla pericolosità di essa per i patrimoni complessivi dei soggetti passivi. In proposito, va rilevato come di tale aspetto abbia tenuto conto, nella Repubblica federale tedesca, la Prima legge di lotta alla criminalità economica (1. WiKG), in cui si prevede come aggravante l’ipotesi in cui l’agente « riduce, attraverso il fatto di reato, il soggetto passivo in stato di necessità economico » (§ 302a co. 2 n. 1 StGB). La fattispecie-base prevista dal § 302a StGB resta, peraltro, ancora incentrata sul dato della manifesta sproporzione tra le prestazioni. La dottrina ritiene, quindi, in proposito, che si tratti di un reato di pericolo (70). Nell’ottica della reale implementazione dei programmi di tutela penale, inoltre, appare congruo circoscrivere la fattispecie penale ai casi di macrolesioni e macropericoli. Una fattispecie realmente adeguata al fenomeno criminale costituisce, infine, uno strumento non meramente simbolico, e risponde all’esigenza di una tutela penale non isolata, ma razionalmente coordinata con l’azione di tutela degli altri settori dell’ordinamento giuridico, nella misura in cui affida al diritto civile il controllo dei fatti di usura nei casi in cui essi non rappresentino un pericolo grave per il patrimonio del soggetto passivo (71). 2.1. L’usurarietà e le prestazioni rilevanti. — Ulteriori elementi per una ricostruzione della fattispecie di usura adeguata all’odierna, allarmante realtà del fenomeno derivano dall’indagine sull’usurarietà degli interessi o vantaggi dati o pattuiti: in proposito, va ripetuto quanto sopra si è accennato circa l’indeterminatezza del concetto di « usurarietà »: la sua attuale, corretta, identificazione con la manifesta sproporzione tra le rispettive prestazioni — valutata in concreto, ovvero tenendo conto di tutti i fattori che possono costituire « giusta causa » di tale sproporzione ed in così, al discutibile risultato di punire il tentativo rispetto alla mera promessa, ad es., ANTOLISEI, op. cit., p. 328; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 179; contra, proprio sulla base dell’incompatibilità del tentativo con la punibilità già della semplice promessa, in quanto ne deriverebbe la punizione del « pericolo del pericolo », MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., pp. 896-7; sembra sostenere questa tesi anche MANTOVANI, op. cit., p. 195. (70) SAMSON, § 302a, in RUDOLPHI-HORN-SAMSON, Systematischer Kommentar zum Strafgesetzbuch, cit., 16; STREE, § 302a, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, St. Kommentar, 24a ed., München, 1991, 2104. (71) Sul punto, v. infra, p. 1247 ss.


— 1223 — particolare del rischio sostenuto dal soggetto attivo (72) — appare alla dottrina più recente insufficiente (73). Si rileva, infatti, che mancano parametri stabili di un tale giudizio di sproporzione: e mentre la giurisprudenza civile tedesca ha individuato criteri e livelli massimi dei tassi, affermando la presenza di un negozio usurario in presenza di un tasso superiore al 100%, la giurisprudenza civile italiana non solo non ha provveduto a quest’opera di concretizzazione, ma addirittura mutua il concetto di interesse usurario di cui all’art. 1815 c.c. dal corrispondente concetto penalistico (74). D’altra parte, l’adozione di un criterio troppo rigido non appare consigliabile, stante la necessità, già evidenziata, di tener conto di una serie di fattori concreti che incidono sull’equilibrio tra le prestazioni date o pattuite. Inoltre, in Francia, ove con la legge sull’usura del 28 dicembre 1966 n. 66-1010 si è definito, all’art. 1, il concetto di usurarietà con riferimento a tassi calcolati secondo criteri fissi, tale soluzione ha dato luogo da un lato a problemi applicativi, dovuti a difficoltà di calcolo o ad inadeguatezza in concreto dei parametri, dall’altro a censure sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, ovvero della riconoscibilità del precetto normativo, a causa della complessità del criterio d’individuazione del tasso usurario (75); e la situazione non è mutata con la recente l. n. 93949 del 26 luglio 1993 (si veda il combinato disposto degli artt. L 313-3 e L 313-5). Migliori risultati sembra ci si possa attendere dall’utilizzazione del criterio, adottato dal legislatore tedesco, ed anche da quello spagnolo (76), della manifesta sproporzione, e da un’adeguata concretizzazione del relativo giudizio. Quest’ultima sembra assicurata, in buona mi(72) V. gli Autori citati alla nota 55. (73) DOLCINI-PALIERO, op. cit. (Parte seconda), 1375. (74) Su quest’ultimo punto cfr. già FIORE, Illecito penale e illecito civile nella convenzione di interessi « usurari », cit., in Dir. giur., 1970, 909 ss.; v. inoltre infra, p. 42 ss. (75) Cfr. DOLCINI-PALIERO, op. cit. (Parte prima), 970 ss. Non sembra, quindi, condivisibile la riproposizione in Italia, nell’ambito delle varie proposte di legge attualmente allo studio in parlamento, del modello francese dei tassi fissi: v. art. 1 co. 3 della proposta di legge presentata il 21 aprile 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di usura », primo firmatario on. Grasso, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 332; art. 3 co. 1 della proposta di legge presentata il 2 agosto 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di prevenzione e di repressione dell’usura », firmatario on. Lia, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1081; art. 1, co. 1, della proposta di legge presentata il 2 giugno 1994 e recante « Norme per la repressione e la prevenzione del reato di usura », primo firmatario on. Novelli, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 653; art. 1, co. 1 della proposta di legge presentata il 14 settembre 1994 e recante « Introduzione dell’articolo 644-ter del codice penale in tema di usura », firmatario on. Aliprandi, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1221. (76) V. il combinato disposto degli artt. 542 c.p. spagnolo e 1 della Ley de Usura del 23 luglio 1908; anche il Proyecto de ley organica del codigo penal (Ministerio de Justicia, Madrid, 1992) non prevede l’adozione di un parametro rigido, mentre l’Anteproyecto de ley organica de codigo penal del maggio 1994 (Ministerio de justicia e interior, Madrid, 1994)


— 1224 — sura, dal riferimento al valore di mercato di prestazioni similari (77), per quanto riguarda il parametro della sproporzione, e dal riferimento alla chiara riconoscibilità da parte di un esperto del settore (78) per quanto concerne il carattere « manifesto » della sproporzione. Tali tentativi di concretizzazione, tuttavia, sono stati fatti oggetto di critiche non del tutto infondate: da una parte, si è sostenuta l’inadeguatezza del riferimento al valore di mercato delle prestazioni, in quanto « un prezzo di mercato ottenibile dalla vittima non c’è nè per colui che sta morendo di sete nel deserto..., nè per chi cerca un prestito senza poter offrire alcun genere di garanzie » (79). Dall’altra, si è ritenuto necessario individuare un limite minimo rigido, al di sotto del quale, pur non essendo l’interesse richiesto normale, esso non possa definirsi usurario; limite che sarebbe dato, in sintonia con quello previsto dall’art. 1448 c.c., dalla metà del valore della prestazione (80). Invero, sembra che il problema della determinazione della manifesta sproporzione vada affrontato, in prospettiva di riforma, mettendo questo requisito in relazione alla necessità, già rilevata, di un’attitudine lesiva della pattuizione o dazione usuraria rispetto al patrimonio del soggetto passivo. Con il richiedere la presenza di un evento lesivo, infatti, da una parte appare meno decisivo il ruolo dell’elemento della sproporzione, in quanto ciò che conta è, appunto, che da tale sproporzione scaturisca quanto meno un evento di pericolo per il patrimonio unitariamente considerato; dall’altra, tale evento diventa un fattore da tenere presente nella determinazione della stessa sproporzione rilevante. La sproporzione diventa, allora, un fattore della pericolosità dell’operazione economica per il soggetto passivo (accanto, come vedremo fra breve, alla sua situazione economica al momento della condotta). Ciò comporta, a nostro modesto avviso, due ordini di conseguenze: in primo luogo, la manifesta sproporzione, in quanto fattore di rischio, dev’essere accertata autonomamente, ed in quest’ambito riteniamo sia condivisibile la fissazione di un limite minimo, superiore al prezzo di mercato, ma al di sotto del quale non ci sia creazione di un rischio illecito per il patrimonio del soggetto passivo, qualunque ne sia la situazione economica. Ciò sembra giustificarsi, dal punto di vista sostanziale, in quanto si tratti di operazioni particolarmente rischiose, per le quali non esista, proprio per questo motivo, un prezzo di mercato; ma, anche al di fuori di tali addirittura non prevede il reato di usura; in proposito, v. SILVA SÁNCHEZ, Il diritto penale bancario in Spagna, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 795. (77) Così, ad es., STREE, op. cit., 2107, e, in sostanza, ANTOLISEI, op. cit., p. 318; MALINVERNI, op. cit., p. 266. (78) STREE, op. cit., p. 2105. (79) SAMSON, op. cit., p. 17. (80) MALINVERNI, op. loc. ult. cit.


— 1225 — casi, la tutela penalistica al riguardo non può, se non si vuole contraddire il principio di sussidiarietà, andare al di là di quella civilistica, per cui non appare infondato, in mancanza di ulteriori criteri di concretizzazione del significato dell’usurarietà di cui all’art. 1815 c.c., il rinvio all’art. 1448 c.c.; non da ultimo, va evidenziata la funzione eminentemente garantistica di un limite minimo (81), che lascerebbe intatta la possibilità, in caso di suo superamento verso l’alto, di non ritenere senz’altro configurata la sproporzione usuraria, ma di considerare una serie di fattori concreti, incidenti sulla giustificabilità della sproporzione (82). I dubbi sull’opportunità della statuizione di una soglia minima, al di sotto della quale non vi è usura, pur essendo l’interesse superiore a quello (legale e) di mercato, derivano piuttosto dalla correlazione con l’evento lesivo ed acquistano significatività solo grazie ad essa: come vedremo meglio fra breve, sembra chiaro che un interesse relativamente basso, fissato a fronte di una situazione patrimoniale già fortemente compromessa del soggetto passivo, possa costituire un grave pericolo e debba essere ritenuto illecito allo stesso modo di un interesse altissimo in presenza di una situazione economica ben più solida. Inoltre, e con ciò veniamo al secondo ordine di conseguenze, nel concretizzare il giudizio di sproporzione, in relazione anche al rischio del credito, va tenuto presente che tale rischio consiste anche nella possibilità di mancata restituzione legata alla crisi della situazione economica complessiva del soggetto finanziato, il che corrisponde nei fatti alla « mancanza di sufficienti garanzie ». In tal caso quel rischio coincide, dal punto di vista di chi accede al credito, con il rischio di un tracollo economico. Per questo, in presenza di un rischio elevato, la pattuizione di un interesse corrispondentemente elevato, diviene, pur in assenza di una manifesta sproporzione « in concreto », vietata, in quanto implica la creazione di un rischio di aggravamento consistente della situazione patrimoniale complessiva del soggetto passivo. In altri termini, in una situazione di elevato rischio per il patrimonio complessivo del potenziale destinatario del credito non può essere consentito creare, attraverso un credito ad interessi o vantaggi elevati « in quanto proporzionati al rischio », un ulteriore (pericolo di) aggravamento di tale situazione complessiva. A ritenere diversamente, si dovrebbe considerare lecito il credito con interessi o vantaggi molto elevati, quando il sistema legale non « copra » certi rischi particolarmente (81) Il problema della compatibilità della concretizzazione del giudizio di sproporzione con il principio di legalità è segnalato anche da SAMSON, op. cit., 17, 19. (82) Anche nella dottrina tedesca si ritiene congrua la soglia del 50% annuo, anche se non come semplice limite minimo, ma come limite al di là del quale vi è usurarietà in ogni caso: ciò dipende, ovviamente, dalla diversa costruzione qui proposta; cfr. OTTO, Bankentätigkeit und Strafrecht, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, p. 86 ss.; nella giurisprudenza italiana, nello stesso senso, Cass. 16 marzo 1992.


— 1226 — alti. Da questo punto di vista, acquista una nuova luce l’obiezione sopra esposta, secondo cui, in definitiva, il criterio del valore di mercato è insufficiente, in quanto è necessario ravvisare un interesse usurario anche quando un valore di mercato non vi sia: l’operazione è usuraria quando è caratterizzata da una manifesta sproporzione che supera un certo limite minimo, e, seppure adeguata alla situazione concreta (ovvero, al rischio), appare suscettibile, in considerazione della sua situazione economica, di produrre un evento gravemente lesivo del patrimonio complessivo del soggetto passivo. Ci sia consentito ribadire ancora il fatto che una conclusione di questo genere, che ridisegna il carattere « concreto » del giudizio di (s)proporzione tra le prestazioni corrispettive agli effetti dell’art. 644 c.p., deriva evidentemente il suo valore dal fatto che si assuma a bene protetto il patrimonio considerato unitariamente e non la singola componente patrimoniale: altrimenti può anche ritenersi che il giudizio di (s)proporzione sia da concretizzare in relazione al rischio del credito. Invero, è il riferimento al pericolo o al danno patrimoniale complessivo che induce a negare che possano essere pattuiti o dati interessi o vantaggi eccessivamente elevati, anche se proporzionati in considerazione dei rischi, giacchè, in tale prospettiva, quella che potrebbe essere una giustificata differenza di rimunerazioni diventa un’aggressione non consentita al patrimonio complessivo del soggetto passivo. L’individuazione dell’evento del reato di usura è ottenuta, nell’art. 644 c.p., oltre che con il riferimento all’usurarietà, attraverso la definizione delle prestazioni che costituiscono i termini dello « scambio » sproporzionatamente oneroso per il soggetto passivo: il soggetto attivo si fa dare o promettere « interessi o altri vantaggi » usurari, « in corrispettivo di una prestazione di danaro o di altra cosa mobile ». Mentre, per quanto riguarda l’oggetto della dazione o della promessa da parte del soggetto passivo, abbiamo già in precedenza segnalato l’inopportunità di un’estensione di tale oggetto fino a ricomprendere prestazioni non suscettibili di valutazione economica, che stravolgerebbe la natura patrimoniale della tutela (83), per quanto riguarda l’oggetto della prestazione del soggetto attivo nessuna considerazione sembra opporsi all’esclusione di limitazioni al riguardo, per cui appare necessaria una corrispondente modifica dell’art. 644 c.p., che attualmente prevede che l’usura sia penalmente rilevante solo quando l’oggetto della prestazione del soggetto attivo sia « danaro o altra cosa mobile »: il fatto che quale corrispettivo degli interessi o vantaggi usurari possa venire in considerazione anche un immobile o un’attività professionale o di prestazione di servizi (cd. usura reale) non snatura il carattere patrimoniale della tutela, ma significa solo un amplia(83)

V supra, pp. 1216-1217.


— 1227 — mento della medesima, condivisibile in considerazione della non minore pericolosità dell’usura immobiliare e reale; tra l’altro, la stessa usura palliata può ben celarsi dietro la prestazione di un’attività professionale o di prestazione di servizi. E, in effetti, la dottrina ritiene unanimemente ingiustificabile l’esclusione delle cose immobili (84); sulla stessa linea, il recente Schema di legge delega per la riforma del codice penale, che per il resto non prevede alcuna modifica dell’attuale fattispecie di usura, richiede soltanto che il corrispettivo sia una cosa e non più una cosa mobile (85). Minore concordia si registra sull’opportunità di estendere l’usura penalmente rilevante, che oggi è soltanto quella cd. pecuniaria, in modo da ricomprendervi anche l’usura cd. reale (86). Invero, sia per quanto riguarda le prestazioni d’immobili, sia per quanto riguarda l’usura reale, il tenore letterale dell’attuale disposizione sembra incompatibile con tale estensione, che costituirebbe, probabilmente anche per quanto riguarda l’usura reale, analogia in malam partem (87); ma appare senz’altro opportuna l’estensione del corrispettivo rilevante a qualsiasi « prestazione di denaro o di altra utilità », prevista dal disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati l’11 ottobre 1994 ed attualmente all’esame del Senato (88). Alla tendenza estensiva, condivisibile, dunque, in una prospettiva de lege ferenda, circa l’oggetto della prestazione del soggetto attivo, fa d’altra (84) Cfr. ad es. FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 176; MANTOVANI, op. cit., p. 194. (85) Cfr. l’art. 83, n. 7 dell’articolato dello Schema, pubblicato in Documenti Giustizia, 1992, n. 3, p. 429. Il § 302a, co. 1, n. 1, StGB, prevede espressamente l’ipotesi in cui il compenso usurario costituisca il corrispettivo di una locazione d’immobile. Secondo STREE, § 302a, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, op. cit., 2104, si tratta anzi di uno dei casi più significativi e frequenti di usura. (86) In senso favorevole, MANTOVANI, op. cit., p. 194; VIOLANTE, Il delitto di usura, cit., p. 101 ss.; ID., Usura, cit., 384: l’Autore ritiene che già il riferimento fatto dall’art. 644 a cose mobili possa ritenersi comprensivo di energie non naturali ma suscettibili di valutazione economica, come le prestazioni di servizi e di attività professionali. Di contrario avviso, fra gli altri, MANZINI, op. cit., p. 882. (87) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 176; MANTOVANI, op. cit., p. 194. Il criticato tentativo di estensione consisteva, tecnicamente, nel considerare cose anche le energie non naturali, in contrasto con l’interpretazione prevalente dell’art. 624 co. 2 c.p., secondo cui l’estensione del concetto di cosa mobile alle energie aventi valore economico riguarderebbe le sole energie naturali. Sulla necessità, in una prospettiva di riforma costituzionalmente orientata, di considerare anche la prestazione di forza-lavoro come componente patrimoniale, cfr. MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 82, dove, tra l’altro, esplicitamente si fa riferimento alla possibilità di estendere il concetto di interessi e vantaggi usurari facendovi rientrare ipotesi di sfruttamento eccessivo della forza-lavoro; conforme SAMSON, op. cit., 18; STREE, op. cit., 2105. Contra, in base al rilievo dell’inscindibilità di quest’ultima dalla persona umana, MANTOVANI, op. cit., p. 22. (88) Cfr. art. 1, co. 1, di tale disegno di legge, presentato dal governo (Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1242. Disegno di legge recante « Disposizioni in materia di usura », presentato il 17 settembre 1994).


— 1228 — parte riscontro, già nell’attuale formulazione legislativa, l’indifferenza della forma assunta dalla dazione o promessa di interessi o vantaggi usurari, nonchè del destinatario della prestazione usuraria. Qui è ovvio l’intento di impedire l’elusione del divieto attraverso la cd. usura palliata, ovvero la dissimulazione dell’usura attraverso vendite fittizie, leasing, ecc. (89). 2.2. L’« approfittare » dello « stato di bisogno » altrui. — Anche le modalità di aggressione ed il presupposto dello stato di bisogno risultano costruiti, come si è accennato, in maniera tutt’altro che chiara e determinata. Inoltre, si assiste, in parte, ad una tendenza verso un ampliamento del significato dei singoli elementi della fattispecie obiettiva, alla quale ha fatto riscontro, talora, sul piano della fattispecie soggettiva, la deprecabile tendenza verso il dolo in re ipsa (90). Una prima questione riguarda la necessità o meno di una condotta positiva del soggetto attivo, che vada al di là del semplice ricevere o accettare la promessa degli interessi o altri vantaggi usurari. Il problema viene affrontato disputando sul significato delle espressioni « farsi dare o promettere » e « approfittando dello stato di bisogno di una persona ». Rispetto al requisito dell’« approfittamento » dello stato di bisogno, parte della dottrina afferma che esso costituisce una modalità della condotta, in termini di sfruttamento o strumentalizzazione di quello stato, in maniera del tutto analoga all’« abusare » contemplato dall’art. 643 c.p. (91); altra parte della dottrina ritiene, invece, che l’« approfittare » vada inteso in senso meramente psicologico e non richieda perciò alcuna condotta attiva (92). A ben vedere, sembra che, anche se si condividesse il rilievo circa la natura psicologica dell’approfittare, ciò non potrebbe essere sufficiente ad affermare che la norma non richieda una condotta attiva. Infatti, espressamente la norma punisce solo chi « si fa dare o promettere » gli interessi o vantaggi usurari (e non semplicemente di chi ne « riceve o accetta la promessa ») (93); da ciò sembrerebbe potersi dedurre la necessità almeno di una richiesta (94), se non di un’iniziativa o di una condotta di induzione, e, quindi, l’irrilevanza di un atteggiamento mera(89) Per tutti, cfr. ANTOLISEI, op. cit., p. 319. (90) Si tratta di una tendenza della giurisprudenza pretorile, segnalata da FIANDACAMUSCO, op. cit., p. 178; ma in senso opposto si vedano Cass. 86/174967; Cass. 18 maggio 1978; Cass. 10 marzo 1975, in Giust. pen., 1975, II, 682. (91) Da ultimo MANTOVANI, op. cit., p. 193; cfr. anche MANZINI, op. cit., p. 876. (92) ANTOLISEI, op. cit., p. 320; DE FRANCESCO, op. cit., pp. 1514-1515; FIANDACAMUSCO, op. cit., pp. 172-173, 176; GROSSO, op. cit., p. 1143. (93) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 176, ritengono invece irrilevante questo rilievo, che considerano meramente « linguistico ». (94) Così ad es. MANZINI, op. cit., p. 883.


— 1229 — mente passivo, altrimenti si estenderebbe la norma ad ipotesi che essa non prevede espressamente, in contrasto con l’art. 25 co. 2 Cost. Questo non implica che de lege ferenda non possa essere opportuno prevedere la sufficienza di una mera condotta passiva del soggetto attivo ovvero di una mera ricezione o accettazione della promessa (95). Al contrario, ciò appare indicato sotto diversi punti di vista: in primo luogo, l’inserimento, qui proposto, del requisito di una lesione o messa in pericolo significativa per il patrimonio complessivo del soggetto passivo, connota di pericolosità anche una modalità di aggressione meramente « ricettiva »; questa appare, inoltre, meritevole di punizione, in quanto all’evento suddetto fa da pendant, sul piano della fattispecie soggettiva, la consapevolezza di cagionarlo o di creare il pericolo corrispondente, oltre, naturalmente, alla consapevolezza della sproporzione fra le prestazioni isolatamente considerate. All’arricchimento della fattispecie sul piano del disvalore d’evento e del Tatbestand soggettivo sembra, dunque, poter corrispondere un’estensione delle modalità di condotta rilevanti, in quanto connotate da analoga pericolosità; certo, del maggior disvalore d’azione insito in una iniziativa o in una condotta di induzione può tenersi conto in sede di commisurazione della pena, ma l’assenza di tali elementi non sembra dover condurre ad un’esclusione della rilevanza penale della condotta stessa. Inoltre, va qui segnalato come tali modalità non sembrano corrispondere alla realtà del fenomeno criminale, dal momento che è implicita nell’accettazione, da parte del soggetto passivo, di condizioni usurarie (pericolose o dannose in maniera significativa per il suo patrimonio complessivo), la necessità di far ricorso alla « prestazione » del soggetto attivo, il che significa che nella maggior parte dei casi non vi è affatto bisogno che il creditore usurario prenda l’iniziativa o compia atti di induzione o simili. A tutto ciò si aggiungono le difficoltà probatorie legate all’inserimento nella fattispecie di una particolare modalità di condotta, che acquistano rilievo, beninteso, solo in quanto ad esse non corrisponde un’apprezzabile significatività dell’elemento da accertare e quindi concretano un ostacolo, non necessario e non imposto da particolari ragioni, alla effettiva repressione del fenomeno; dal punto di vista dell’esigenza della presenza di un’aggressione pericolosa, appare, perciò, sufficiente il dato della ricezione o dell’accettazione della promessa. Collegata alla questione appena affrontata è, evidentemente, quella del significato del termine « approfittando »: dal punto di vista meramente letterale, leggendo questo requisito non isolatamente, ma in rapporto al « farsi dare o promettere », sembra a prima vista fondata la tesi di chi at(95) La dottrina tedesca prevalente interpreta l’analoga locuzione presente nel § 302a StGB come non implicante necessariamente una condotta attiva: per tutti, v. STREE, op. cit., 2107.


— 1230 — tribuisce all’approfittare il significato di una oggettiva strumentalizzazione dello stato di bisogno (96), attraverso cui si ottiene (ci si « fa dare ») la promessa o la dazione. In effetti, sembrerebbe possibile tenere conto dell’elemento in questione, interpretandolo in modo da restituirgli significato sul piano del Tatbestand oggettivo, arricchendo nel contempo il Tatbestand soggettivo con il richiedere la corrispondente rappresentazione. Una tale direzione consapevole dell’attività interpretativa rispetto alla norma così come attualmente vigente apparirebbe legittimata dall’esigenza del rispetto dei principi di sussidiarietà, frammentarietà e determinatezza. Ed in effetti l’« approfittare » richiesto dall’art. 644 c.p. può ben ritenersi equivalente, dal punto di vista oggettivo, al trarre profitto da una situazione pre-data, con il che si indica, dunque, l’esigenza che la manifesta sproporzione ottenuta tra le prestazioni derivi dal punto di vista causale dallo stato di bisogno, sia conseguenza di esso. Questo requisito obiettivo si rifletterebbe, sul piano soggettivo, nella consapevolezza di ottenere interessi o vantaggi usurari solo grazie alla condizione di bisogno del soggetto passivo. Una conferma di tale interpretazione potrebbe rinvenirsi nel rilievo secondo cui, se si risolve l’approfittare in un mero dato psicologico, non è, ovviamente, concepibile una « volontà di approfittare », che si risolverebbe nel conoscere e volere un proprio elemento psichico; eppure tale volontà è ritenuta unanimemente un requisito necessario, tant’è che viene richiesta anche da quella parte della dottrina che tende a considerare l’approfittare come realtà meramente psichica (97); allora, per conservare un senso alla volontà di approfittare, non rimarrebbe che intendere l’approfittare in senso oggettivo. Tuttavia, come già è avvenuto per la necessità di una condotta attiva, anche per il requisito del rapporto causale tra stato di bisogno e condizioni usurarie (con corrispondente requisito soggettivo ulteriore rispetto alla mera conoscenza dello stato di bisogno) si pone il problema se esso vada mantenuto in una prospettiva di riforma. In proposito, va rilevato che l’esistenza di un nesso causale tra lo stato di bisogno e la promessa o dazione usuraria non incidono sulla pericolosità del negozio usurario per il patrimonio del soggetto passivo; infatti, ove lo stato di bisogno oggettivamente esista, ai fini di quella pericolosità non importa che il soggetto passivo sia effettivamente indotto a dare o promettere perchè spintovi da quella situazione, anche se, ovviamente, sul piano ontologico ciò sarà quasi sempre vero. Lo stato di bisogno iniziale del soggetto passivo costituisce, come meglio vedremo in seguito, un fattore di dannosità o pericolosità della promessa o dazione usuraria per il patrimonio del soggetto (96) Così la dottrina prevalente, che assimila l’approfittare all’« abuso » di cui all’art. 643 c.p. : per tutti, v. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 793. (97) Così FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 178.


— 1231 — passivo, indipendentemente dal fatto che sia causale rispetto alla decisione di effettuare la dazione o promessa usuraria. La promessa o dazione usuraria diventa dannosa o pericolosa per il patrimonio del soggetto passivo in una misura che deriva anche dallo stato di bisogno del soggetto passivo, oltrechè dall’entità degli interessi o vantaggi dati o pattuiti, astrattamente considerati. Dal punto di vista del Tatbestand soggettivo, inoltre, la consapevolezza del nesso causale in discorso non aggiunge alcun elemento significativo alla coscienza della dannosità o della pericolosità della dazione o promessa usuraria ed al disvalore di azione relativo a quell’evento. Nella rappresentazione, da parte dell’agente, della manifesta sproporzione fra le prestazioni date o pattuite e dello stato di bisogno della vittima, e quindi nella coscienza della ingiustificata dannosità o rischiosità dell’operazione per il patrimonio di essa, è senz’altro insito un disvalore d’azione sufficiente ai fini del reato di cui si tratta. Da questo punto di vista, la tecnica utilizzata dal Codice Rocco sembra privilegiare una descrittività apparentemente apprezzabile sotto il profilo della determinatezza e della frammentarietà, ma in realtà lontana dal concentrarsi su reali aspetti di dannosità sociale della condotta e tendente piuttosto ad esaltare una visione eticizzante, dietro cui si cela un’ottica da tipo d’autore (98). Infatti, da una parte, come si è visto, la situazione patrimoniale del soggetto passivo, quale deriva dalla dazione o pattuizione usuraria, viene come « persa di vista » dalla norma, che ferma lo sguardo alla sproporzione fra le singole prestazioni; con ciò rimangono irrilevanti prospettive di reale offensività per il patrimonio della vittima. D’altra parte, invece, la fattispecie viene arricchita di un elemento come l’« approfittare (dello stato di bisogno di una persona) », che, se non aggiunge nulla, come appena illustrato, nè alla dannosità o pericolosità dell’aggressione, nè al corrispondente disvalore soggettivo, costituisce una descrizione di modalità di aggressione oggettive e soggettive improntata ad un criterio eticizzante di riprovevolezza. Infatti, se l’approfittamento, ovvero l’esistenza di un nesso causale tra stato di bisogno e dazione (o promessa) e la consapevolezza di tale nesso, non rivelano un disvalore maggiore di quello già derivante dall’esistenza dello stato di bisogno e dalla manifesta sproporzione, oltre che dal concreto danno o pericolo patrimoniale, allora la funzione di tale elemento non può consistere che nell’evidenziare la tipica riprovevolezza del fatto e dell’atteggiamento interiore dell’usuraio dal punto di vista etico. Questo risulta utile anche nell’ottica di un processo legislativo di selezione della criminalità economica, nel momento in cui tende a istaurare, con l’aiuto di criteri eticizzanti, una netta demarcazione tra fatti di sproporzione economica anche marcata, ma legalizzati, e reato (98) Cfr. SGUBBI, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Milano, 1980, p. 145 ss. e passim; ID., voce Patrimonio (reati contro il), cit., 359 ss.


— 1232 — di usura quale reato dell’« approfittatore » usuraio che sfrutta l’altrui stato di bisogno. Peraltro, oltre che apparire superfluo e risultare condizionato da un’ottica moraleggiante e da opzioni in definitiva ideologiche, l’elemento dell’approfittamento, proprio come quello del « farsi » dare o promettere (che comunque la dottrina interpreta, per lo più, come non implicante una condotta attiva), finisce per appesantire inutilmente la fattispecie sul terreno probatorio, con risultati potenzialmente negativi sul piano dell’effettività della tutela e senza che ciò sia compensato da vantaggi, né dal punto di vista dell’offensività, nè da quello dell’adeguata tipizzazione delle modalità di aggressione realmente pericolose (99). Come è stato da tempo rilevato in relazione agli elementi dell’approfittamento, della condotta attiva e dello stato di bisogno, contenuti nella fattispecie di usura così come prevista nel codice penale tedesco prima e dopo la riforma del 1976, si è in presenza del classico esempio di come « un ammasso di circostanze soggettive e valutative rendano una fattispecie addirittura inapplicabile » (100). 2.2.1. Segue: lo stato di bisogno in particolare. — Considerazioni in parte analoghe valgono per lo « stato di bisogno ». Mentre la dottrina più risalente dava a tale requisito un significato meramente soggettivo, identificandolo con una condizione del soggetto passivo caratterizzata da una limitazione della sua volontà (101), attualmente prevale, nella definizione di questo requisito, un’accezione oggettiva (102) (anche se si richiede che questa abbia riflessi soggettivi), all’in(99) Per l’eliminazione del riferimento all’approfittamento ed allo stesso stato di bisogno si pronunciano SCHACHTSHABEL, Tagungsberichte der Sachverstandigenkommission zur Bekämpfung der Wirtschaftskriminalität, Bd. VI, Anl. 6, p. 24 s.; SICKENBERGER, Wucher als Wirtschaftsstraftat, Freiburg i. Br., 1985, p. 358 s., e, tendenzialmente, RÜHLE, Das Wucherverbot - effektiver Schutz des Verbrauchers vor überhohten Preisen?, Berlin, 1978, p. 5 ss. V. inoltre infra, p. 33 ss. (100) K. PETERS, Die strafrechtsgestaltende Kraft des Strafprozesses, Tübingen, 1963, p. 32; SCHEFFLER, op. cit., 4; analoghi rilievi in BERNSMANN, op. cit., 147; SCHAUER, op. cit., p. 74 s.; RÜHLE, op. cit., p. 22; STURM, op. cit., 85; cfr. anche DOLCINI-PALIERO, op. cit. (Parte seconda), 1133; VIOLANTE, Il delitto di usura, cit., p. 168; ALBAMONTE, op. cit., 226; BELLACOSA, Usura impropria, in Enc. giur. Treccani, XXXII, Roma, 1994, 4. (101) Cfr. ad es. MAGGIORE, Diritto penale. Parte speciale, II, 2a ed., Bologna, 1950, pp. 325, 794; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 877 ss.; LA PORTA, La repressione penale dell’usura, Milano, 1946, p. 43. In giurisprudenza, lo stato di bisogno viene definito come impellente assillo che, eliminando la volontà del soggetto, lo induca ad accettare la stipulazione del negozio usurario (cfr. Cass. 27 dicembre 1971, in Cass. pen. Mass., 1973, p. 285; per lo stato di bisogno come situazione meramente psicologica ancora Cass. 24 maggio 1993). Sulle motivazioni storiche di tale interpretazione, v. VIOLANTE, Usura, cit., 382-3. (102) Cfr. ad es. DE ANGELIS, Usura, cit., 1-2.


— 1233 — terno della quale è chiaramente ravvisabile una tendenza estensiva (103). Prima di tutto, si afferma concordemente che lo stato di bisogno è diverso dallo stato di necessità, in quanto nozione più ampia e meno rigorosa (104). Si precisa poi, utilmente, che esso presuppone la mancanza di beni di natura patrimoniale, come si deduce dal fatto che la controprestazione del soggetto attivo del reato consiste nella prestazione di denaro o altra cosa mobile (105). Ma l’accennata tendenza estensiva si manifesta soprattutto nell’opinione concorde secondo cui sono indifferenti l’origine del bisogno e la posizione socioeconomica complessiva del soggetto, per cui lo stato di bisogno può verificarsi anche rispetto ad un soggetto benestante, ad esempio in caso di mancanza contingente di liquidità (106); ed invero, come già ricordato, si afferma che lo stato di bisogno può essere anche soltanto contingente (107). Un’ulteriore estensione del bisogno rilevante ex art. 644 c.p. riguarda le difficoltà economiche o finanziarie dell’imprenditore: già prima dell’introduzione della figura dell’usura impropria (art. 644 bis c.p.) si riteneva che tali difficoltà configurassero uno stato di bisogno rilevante (108). Da questo punto di vista, come vedremo in seguito, tale introduzione appare più improntata ad un’ottica simbolica che all’intento di colmare una lacuna nella struttura della fattispecie, ed i relativi vantaggi dal punto di vista della determinatezza, che derivano dall’aver introdotto il presupposto delle « condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge attività imprenditoriale o professionale », si sarebbero potuti ottenere pure all’interno della stessa fattispecie dell’art. 644 c.p., anche in considerazione del fatto che la norma di cui all’art. 644 bis c.p. non presenta altre novità strutturali di rilievo. Speculare rispetto alla tendenza estensiva appena illustrata è quella verso una delimitazione dello stato di bisogno rilevante: giurisprudenza e (103) Il primo sintomo di essa è dato proprio dalla rilevanza concessa allo stato di bisogno putativo, che, nonostante l’oggettivizzazione di cui sopra, viene equiparato allo stato di bisogno reale: v., per tutti, VIOLANTE, Il delitto di usura, cit., p. 91. Anche la dottrina tedesca prevalente equipara il bisogno putativo a quello reale: cfr. p. es. HOHENDORF, op. cit., p. 94; STREE, op. cit., 2108. (104) Cfr. ad es. ANTOLISEI, op. cit., p. 319; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 174; MANTOVANI, op. cit., p. 192. (105) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 174. Per una caratterizzazione ampia, costituzionalmente orientata, delle esigenze che possono configurare un bisogno rilevante, v. VIOLANTE, Il delitto di usura, cit., p. 242 ss.; ID., Usura, cit., 383-4; DE ANGELIS, Usura, cit., 2. (106) Conforme, con riferimento al § 302a StGB, RG, 71, 325; BGH NJW 82, 2768. (107) ANTOLISEI, op. loc. ult. cit.; FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 175; MANTOVANI, op. cit., pp. 192-193; MANZINI, op. cit., pp. 878-9. Al contrario, ritiene che lo « stato di bisogno » debba consistere in una situazione che si protrae nel tempo DE ANGELIS, Usura, cit., 2. (108) Cfr. ad es. ANTOLISEI, op. cit., p. 320; G.V. DE FRANCESCO, Art. 644, op. loc. ult. cit.; GROSSO, op. cit., 1143; Cass. 7 dicembre 1978, in Riv. pen., 1979, 560; Cass. 29 gennaio 1985, in Cass. pen., 1986, 1282. Per la configurabilità dello stato di bisogno in relazione a persone giuridiche, da ultimo, DE ANGELIS, Usura, cit., 2.


— 1234 — dottrina escludono, infatti, la configurabilità del reato quando il compenso usurario è dato o promesso non per sopperire ad un bisogno, ma per conseguire un vantaggio, come nel caso della finalità di sviluppare l’impresa (109). Più in generale, vengono esclusi dal novero dei bisogni penalmente rilevanti quelli non essenziali rispetto alla vita individuale o familiare o professionale del soggetto passivo (110). Le restrizioni sono motivate dalla comprensibile esigenza di non abrogare implicitamente il presupposto in esame, ma anche da considerazioni vagamente moralistiche (nessuna tutela penale contro l’usura per l’imprenditore che « rischia troppo ») (111). Invero, anche se il quadro appena illustrato sembra, a prima vista, mostrare l’esistenza di potenziali frizioni fra diversi criteri — si pensi alla potenziale collisione tra la rilevanza del bisogno contingente e l’irrilevanza del bisogno non essenziale, o alle difficoltà che potrebbero presentarsi, ad esempio, nel differenziare, in una visione dinamica dell’attività imprenditoriale, la necessità d’investimenti produttivi immediati rispetto alla situazione di difficoltà economica di un’impresa legata alle condizioni del mercato —, si può comunque prendere atto di una certa chiarezza in materia, e soprattutto di una certa prevalenza della tendenza estensiva (112). Quest’ultima è ravvisabile anche nella dottrina e nella giurisprudenza tedesca, con riferimento all’analogo presupposto di cui al § 302a StGB (113), che viene ritenuto presente quando, « se viene a mancare la prestazione, avrà luogo una perdita economica rilevante ». In Italia, le stesse recenti proposte di legge convergono nel senso di un’estensione di tale requisito (114). (109) Cass. 22 marzo 1989, in Riv. pen., 1990, 511; cfr. anche ANTOLISEI, op. cit., p. 319; G.V. DE FRANCESCO, op. cit., 1515; FIANDACA-MUSCO, op. loc. ult. cit.; MANTOVANI, op. loc. ult. cit. (110) FIANDACA-MUSCO, op. loc. ult. cit. (111) « Non si può, a ben vedere, trasformare il delitto di usura in una sorta di assicurazione supplementare contro i rischi imprenditoriali mal calcolati »: così FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 175. Rilievi analoghi a quelli esposti nel testo possono forse valere anche per il criterio secondo cui lo stato di bisogno rilevante sarebbe quello avvertito come tale dal « buon padre di famiglia »: così MALINVERNI, op. cit., p. 264. (112) Di vera e propria « crisi » del requisito in esame parla MALINVERNI, op. cit., p. 262, che difende il valore di tale elemento in una prospettiva di determinatezza. (113) RGSt 71, 325; RG JW 1908, 587; BGHSt 11, 186; 12, 390; NJW, 1983, 2780; STREE, op. cit., 2108; SAMSON, op. cit., 23, secondo cui la situazione di bisogno economico non presuppone una situazione di debolezza patrimoniale complessiva. (114) L’art. 1 del disegno di legge governativo approvato dalla Camera dei Deputati (Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1242. Disegno di legge recante « Disposizioni in materia di usura », presentato il 17 settembre 1994) modifica la fattispecie di cui all’art. 644 c.p., sostituendo allo stato di bisogno le « condizioni di difficoltà economica o finanziaria di una persona », e contestualmente abroga l’art. 644-bis. Su quest’aspetto e su altre proposte di legge, v. infra, rispettivamente p. 44 e p. 33.


— 1235 — A nostro modesto avviso, considerazioni relative alla funzione politico-criminale e, di conseguenza, anche al ruolo sistematico dell’elemento dello stato di bisogno consigliano per un verso di portare fino in fondo tale tendenza estensiva, per un altro di modificare il significato di tale elemento nella struttura della fattispecie. Nel vigente art. 644 c.p., il requisito dello stato di bisogno, in quanto presupposto del fatto tipico, esistente al momento dell’azione, svolge un ruolo di restrizione dell’ambito della tutela; inoltre, nel suo collegamento con l’« approfittare », contribuisce alla descrizione tipica delle modalità di aggressione; infine, sembra rimandare implicitamente ad una dannosità o pericolosità per il patrimonio del soggetto passivo, diversa e ben più grave di quella derivante dalla sproporzione fra le prestazioni in sè. Relativamente al primo aspetto, può dirsi che il legislatore abbia seguito oggettivamente un punto di vista « vittimologico » (115): la tutela penale dell’usura scatta solo quando la vittima versi in stato di bisogno, il che comporta l’esclusione della tutela, come si è visto, nei casi in cui la vittima, con il suo comportamento imprudente, non imposto da difficoltà economiche, ma, per esempio, finalizzato ad investimenti produttivi, a speculazioni o al soddisfacimento di bisogni non essenziali, si sia esposta ad una diminuzione patrimoniale sproporzionata rispetto alla prestazione conseguita. L’esclusione della tipicità nelle ipotesi di condotta imprudente del soggetto passivo presenta, al di là delle sfumature moralistiche, implicazioni in termini di extrema ratio, a loro volta riconducibili ad un’istanza di prevenzione: il principio di sussidiarietà sembrerebbe imporre una restrizione della tutela penale ai casi in cui non possa esigersi dalla vittima di difendersi da sola attraverso un comportamento prudente (116). L’obiettivo di prevenzione generale sembra implicare, in questo contesto, la necessità di esigere dalle potenziali vittime il ricorso al sistema legale del credito o al limite la rinuncia allo stesso (ove esso sia precluso nonostante (115) Sulla Viktimodogmatik, cfr. HASSEMER, Schützbedürftigkeit des Opfers und Strafrechtsdogmatik, Berlin, 1981; ID., Rücksichten auf das Verbrechensopfer, in Festschriftk für U. Klug zum 70. Geburtstag, Köln, 1983, p. 217 ss.; HILLENKAMP, Vorsatztat und Opferverhalten, Göttingen, 1981; ID., Der Einfluß des Opfersverhaltens auf die dogmatische Beurteilung der Tat: einige Bemerkungen zum Verhältnis zwischen Viktimologie und Dogmatik, Bielefeld-Gieseking, 1983; KRATSCH, Verhaltenssteuerung und Organisation im Strafrecht, Berlin, 1985, pp. 186, 358 ss., 368 ss., 389; SCHÜNEMANN, Der strafrechtliche Schutz von Privatgeheimnissen, in ZStW 90 (1978), p. 11 ss.; ID., Methodologische Prolegomena zur Rechtsfindung im Besonderen Teil des Strafrechts, in Festschrift für Paul Bockelmann, München, 1979, p. 117 ss.; ID., Einige vorläufige Bemerkungen zur Bedeutung des viktimologischen Ansatzes in der Strafrechtsdogmatik, in Das Verbrechensopfer in der Strafrechtspflege, Berlin, 1982, p. 407 ss.; ID., Die Zukunft der Viktimodogmatik: die viktimologische Maxime als umfassendes regulatives Prinzip zur Tatbestandseingrenzung im Strafrecht, in Festschrift für Faller, München, 1984, 357 ss.; ARZT, Viktimologie und Strafrecht, in MSchrKrim, 1984, p. 105 ss.; DEL TUFO, Profili critici della vittimo-dommatica, Napoli, 1990. (116) ROXIN, Strafrecht. AT, I, München, 1992, p. 376.


— 1236 — l’assenza di una situazione di autentica difficoltà economica), quando esse non versino in una situazione che renda difficile l’accesso a tale sistema e indispensabile il conseguimento della prestazione. La prospettiva vittimologica è al momento attuale ancora in via di sviluppo e già oggetto di critiche serrate (117). In particolare, nei confronti del richiamo al principio di sussidiarietà, si obietta che « questo principio afferma soltanto che non è consentito punire, dove lo Stato ha a disposizione mezzi meno incisivi per risolvere i conflitti sociali, ma non che esso debba rinunciare ad intervenire laddove il cittadino potrebbe difendersi da solo », mentre, per quanto riguarda la funzione generalpreventiva di restrizioni vittimologicamente orientate della tutela penale, vale l’argomento secondo cui « anche se i vittimodommatici pretendono dalla vittima soltanto misure esigibili e dunque non troppo difficili da realizzare, tuttavia l’omissione di aggressioni è di gran lunga più esigibile, cosicchè, nel bilanciare gli interessi, il legislatore, di regola, dovrebbe mettersi dalla parte della vittima e non dell’autore » (118). Una riprova della condivisibilità di tali argomenti sembra potersi rinvenire anche con riferimento al caso specifico dell’usura, rispetto al quale la restrizione dell’ambito della tutela sopra illustrata sembra presentare implicazioni negative in termini di prevenzione generale e speciale (119). Dal punto di vista specialpreventivo, non sembra funzionale far dipendere la punibilità dalla preesistente situazione della vittima, finchè la condotta si presenti ugualmente connotata da potenzialità aggressiva, sia effettivamente lesiva e sia realizzata nella coscienza di tutto ciò. Finchè l’agente, in altri termini, è consapevole della pericolosità o dannosità della pattuizione o dazione usuraria per il patrimonio altrui, la sua aggressione al patrimonio appare bisognosa di un intervento in chiave di integrazione sociale: da questo punto di vista, lo stato di bisogno, come vedremo in seguito, acquista rilevanza nella misura in cui sia necessario perchè la pattuizione o dazione possa avere effetti pregiudizievoli, significativi rispetto al patrimonio del soggetto passivo. Ma l’efficacia lesiva dell’aggressione può, in certi casi, anche prescindere da un vero stato di bisogno e conseguire in buona parte all’entità della sproporzione tra le prestazioni, come, d’altra parte, la realtà dei fatti sembra dimostrare: in sede di analisi dell’usura impropria, si è rilevato che « il tentativo della mafia, di mettere le mani su imprese attraverso i prestiti usurari, comincia in una fase in cui la situazione di difficoltà economico-finanziaria dell’impresa non ha ancora (117) V. in proposito soprattutto HILLENKAMP, opp. locc. citt. (118) ROXIN, op. loc. cit. (119) Per un approccio in termini di funzione della pena relativamente ai problemi di parte speciale, v. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 215 ss.


— 1237 — raggiunto la soglia della necessità in senso stretto » (120). Per quanto riguarda l’aspetto della prevenzione generale, appare evidente come l’esigenza di una tutela dei beni giuridici capace di ridurre l’allarme sociale aggregando consensi intorno ai valori portanti dell’ordinamento (121) si ponga negli stessi termini anche quando la situazione di partenza del soggetto passivo non configuri uno stato di bisogno. Infatti, come si è appena evidenziato, il comportamento imprudente della vittima non elimina il carattere aggressivo della condotta dell’agente, nè la lesione del bene patrimonio; l’esigenza di tutela ed il relativo allarme sociale si presentano anche in questo caso, a meno che non si voglia interpretare il concetto di prevenzione generale in senso neoretribuzionistico, il che avverrebbe collegando questo concetto ad istanze emotive di punizione, che potrebbero risultare ridotte dalla considerazione che « è colpa della stessa vittima » se essa è finita nelle maglie dell’usura, in quanto non si trovava in stato di bisogno (beninteso, il riferimento al neoretribuzionismo rinvia qui al fatto che, simmetricamente, diminuirebbe la rimproverabilità all’agente dell’accaduto) (122). La considerazione del comportamento della vittima non può, dunque, in ossequio alla funzione preventiva della pena, condurre all’esclusione della realizzazione della fattispecie (123). Rimane dubbio se tale comportamento possa assumere rilievo a livello di commisurazione della pena, in quanto si configuri un concorso colposo della vittima; quest’ultimo potrebbe acquistare, forse, anche una valenza preventiva, nel senso che la collaborazione colposa della vittima implicherebbe una minore pericolosità dell’aggressione. Anche considerazioni basate su rilievi empirici sembrano indurre ad un ridimensionamento della rilevanza dello stato di bisogno iniziale del (120) FIANDACA-MUSCO, op cit., p. 181. (121) Per il concetto di prevenzione generale positiva, ci sia consentito rinviare nuovamente a MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 97 ss., 109 ss.; ID., Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 29 ss. (122) Un chiaro esempio di quest’ottica moralistica è dato dalla sent. Cass. 20 novembre 1990, con nota critica di GAROFANO, Sullo « stato di bisogno » nel delitto di usura, cit., 2280 ss., nella cui motivazione si legge: « Affinché possa dirsi realizzata l’ipotesi di usura occorre che lo ‘‘stato di bisogno’’... possa essere ricollegato a necessità socialmente apprezzabili ed in ogni caso non a comportamenti futuri illeciti e/o contro il buon costume e la morale in genere ». (123) In questo senso GAROFANO, op. cit., 2281-3, che giustamente rileva come nell’art. 644 lo « stato di bisogno della vittima... volutamente non è definito, né aggettivato in alcun modo ». Peraltro, condivisibile in prospettiva di riforma, in quanto massima espressione della tendenza estensiva sopra rilevata, ma non altrettanto apprezzabile de lege lata, appare l’affermazione secondo cui « ogni criterio, ogni parametro, offerti quale strumento interpretativo della locuzione ‘‘stato di bisogno’’, è forse arbitrario, certamente superfluo » (GAROFANO, op. cit., 2282), in quanto sembra suscettibile di risolversi in un’abrogazione interpretativa del requisito in questione.


— 1238 — soggetto passivo (124). Si è, infatti, rilevato come spesso tale elemento non sia presente, in quanto il fatto che la vittima si rivolga al mercato illegale deriva non di rado da carenza d’informazione (125). Va inoltre tenuto in considerazione il fatto che i prestatori ad interesse sono soliti mettersi al sicuro da future denunce attraverso l’assunzione di dichiarazioni scritte della vittima, attestanti la situazione economica della stessa e, di solito, « colorate » in senso positivo da colui che ha bisogno del finanziamento (126). In base a quanto detto, anche rispetto allo stato di bisogno si ripropone il problema, già posto in occasione dell’analisi degli estremi dell’approfittamento e della condotta attiva, di una rinuncia a tali elementi, nella misura in cui non contribuiscono in maniera significativa a delineare le modalità autenticamente offensive della condotta. Rilievi del genere sono stati formulati non solo nell’esperienza tedesca: anche con riferimento al nostro contesto normativo si è affermato che « in vista di una tutela più efficace ci si può domandare se un modello di condotta vincolata all’approfittamento non selezioni eccessivamente le ipotesi meritevoli di pena » (127), e diverse proposte di legge prevedono l’eliminazione del presupposto dell’approfittamento dello stato di bisogno (128). In Francia, la fattispecie di usura attualmente prevista dall’art. 313-5, legge 26 luglio 1993, n. 93-949, prescinde dagli elementi in discorso e s’incentra soltanto sull’usurarietà, definita dallo stesso legislatore all’art. 313-3, con riferimento, come si è visto, a tassi calcolati secondo criteri fissi, che fanno riferimento ad operazioni similari effettuate nel periodo immediatamente precedente rispetto alla commissione del reato (129). Anche in Spagna l’approfittamento dello stato di bisogno non è elemento necessario della (124) Per una ridefinizione delle modalità della condotta che tenga conto dei risultati delle indagini criminologiche si pronuncia MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 264. (125) SICKENBERGER, op. cit., p. 357; similmente OTTO, Strafrecht als Instrument der Wirtschaftspolitik, in MschrKrim 63 (1980), p. 406 s. (126) STURM, op. cit., p. 85; SCHEFFLER, op. cit., 3. Anche DE ANGELIS, Usura, cit., 6, evidenzia i problemi probatori che riguardano in particolare la conoscenza nell’agente dello stato di bisogno. (127) DOLCINI-PALIERO, op. cit. (Parte seconda), p. 1375. (128) Così l’art. 5 co. 1 della proposta di legge presentata il 2 giugno 1994 e recante « Norme per la repressione e la prevenzione del reato di usura », primo firmatario on. Novelli, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 653; l’art. 1 della proposta di legge presentata il 2 agosto 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di prevenzione e di repressione dell’usura », firmatario on. Lia, in Atti Parlamentari. XLL Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1081; art. 1 della proposta di legge presentata il 21 aprile 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di usura », primo firmatario on. Grasso, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 332. (129) Sull’analoga normativa previgente, cfr. DOLCINI-PALIERO, op. cit. (Parte prima), p. 970 ss.


— 1239 — fattispecie di usura, ma ne configura solo un’ipotesi, mentre il legislatore preferisce incentrare le fattispecie penali alternativamente sull’abitualità (art. 542 c.p. spagnolo) o sulla simulazione di pattuizioni non usurarie (art. 543 c.p. spagnolo) in quanto indici di maggior pericolosità dell’autore (130); il progetto di riforma del codice penale del 1992, invece, fa dell’approfittamento dello stato di bisogno una mera causa di applicazione della metà superiore della cornice edittale prevista per l’ipotesi base (131). In Italia, il disegno di legge approvato dalla Camera, invece, sostituisce lo stato di bisogno con le condizioni di difficoltà economica o finanziaria, esponendosi così al rilievo della sostanziale continuità con la normativa vigente, come si è accennato e si avrà modo di vedere meglio fra breve. Rispetto a soluzioni di questo genere, riteniamo condivisibile la critica avanzata nella dottrina tedesca, con riferimento all’eccessivo ampliamento di tutela che deriverebbe da una costruzione della fattispecie incentrata sulla sola manifesta sproporzione tra le prestazioni (132). Contemporaneamente, però, sembra che l’eccessivo ampliamento in questione sarebbe imputabile allo stesso deficit di offensività, ovvero alla stessa inadeguata selezione del danno patrimoniale penalmente rilevante, che abbiamo precedentemente riscontrato nel vigente art. 644 c.p. ; di conseguenza, tali critiche non sembra che possano farsi valere nei confronti di una costruzione che limiti la tutela ad ipotesi di gravi lesioni patrimoniali. Inoltre, come già si è rilevato, l’eliminazione degli elementi dell’approfittamento, dello stato di bisogno iniziale e della necessità di una condotta attiva, ma anche, e soprattutto, l’inserimento di un evento di (130) V. in proposito MUÑOZ CONDE, Derecho penal. Parte especial, 8a ed., Valencia, 1990, p. 351 ss. (131) Cfr. artt. 270-272, Proyecto de ley organica del codigo penal, Ministerio de Justicia, Madrid, 1992. L’ultimo progetto di riforma spagnolo (Anteproyecto de ley organica de codigo penal, Ministerio de justicia e interior, Madrid, 1994), come già evidenziato, non prevede il reato di usura. (132) V. SCHEFFLER, op. cit., 15-16. Contro un ricorso eccessivo all’eliminazione di requisiti della fattispecie, mirante ad impedire problemi probatori, VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., 91 (con l’interessante rilievo secondo cui la descrizione della condotta vietata non deve essere tale che in fase processuale si rovesci il rapporto regola-eccezione tra sospetta condotta lecita ed illecita). Da questo punto di vista, ci sembrano particolarmente pericolose, sotto il profilo dell’eccessivo ampliamento della tutela e dell’abbandono di prospettive di offensività, quelle proposte di legge che, eliminando il presupposto dell’approfittamento dello stato di bisogno, definiscono contestualmente l’interesse usurario come quello che supera, semplicemente, il tasso fissato dalla Banca d’Italia (così l’art. 1 co. 1 della proposta di legge presentata il 14 settembre 1994 e recante « Introduzione dell’articolo 644-ter del codice penale in tema di usura », firmatario on. Aliprandi, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1221) o dal Ministro del Tesoro, sentita la Banca d’Italia (così l’art. 3 co. 1 della proposta di legge presentata il 2 agosto 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di prevenzione e di repressione dell’usura », firmatario on. Lia, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1081).


— 1240 — danno o di pericolo per il patrimonio unitariamente considerato, costituiscono momenti di un adeguamento ai principi costituzionali in materia penale e alla reale dimensione del fenomeno criminale, specie se inserito nella dinamica della criminalità organizzata, con indubbi vantaggi sotto il profilo dell’efficienza della tutela. 2.2.2. Ricostruzione del ruolo dello stato di bisogno nella prospettiva dell’attitudine offensiva della condotta. — La non condivisibilità della subordinazione della tutela penale al comportamento iniziale del soggetto passivo, ovvero allo stato di bisogno quale mera situazione di partenza, non significa, tuttavia, che lo stato di bisogno, adeguatamente ricostruito, non meriti alcuna rilevanza all’interno della fattispecie di usura. Al contrario, precedentemente si è osservato come tale elemento svolga funzioni ulteriori rispetto a quella di restrizione « vittimologica » della tutela. In realtà, anzi, sembra potersi dire che nella costruzione della fattispecie il legislatore abbia assegnato a tale elemento un ruolo importante nella descrizione della situazione tipica dell’usura. Tale ruolo sembra consistere, da una parte, nel descrivere la condotta con una coloritura di sapore moralistico, che risulta dall’espressione « approfittando dello stato di bisogno » e che appare tale in quanto, come sopra abbiamo cercato di evidenziare, può anche prescindere da considerazioni di reale, significativa aggressività e lesività; dall’altra, in un’ottica di autentica lesività, consiste nell’individuazione di un fattore di pericolosità dell’operazione economica usuraria per il patrimonio del soggetto passivo, pericolosità che, però, nella disposizione vigente rimane allo stadio del pericolo presunto. Infatti, in presenza dello stato di bisogno e dell’usurarietà, si dà per immancabile l’evento lesivo per il patrimonio del soggetto passivo. In una prospettiva di riforma, invece, la presenza di un evento lesivo dovrebbe, secondo quanto precedentemente illustrato, costituire autonomo elemento di fattispecie, oggetto di accertamento. In questa prospettiva, il presupposto dello stato di bisogno sembra legittimare la propria rilevanza in quanto concorra a definire la reale dimensione dell’aggressione al patrimonio. Solo perché il soggetto passivo già versa in una situazione di difficoltà economica, la manifesta sproporzione tra le prestazioni assume connotati di idoneità a provocare una grave lesione o messa in pericolo patrimoniale. A questa ricostruzione corrisponde, però, uno spostamento verso l’offensività del requisito dello stato di bisogno: infatti, da un lato, non è indispensabile che la situazione di partenza del soggetto passivo sia configurabile come stato di bisogno, dal momento che, anche quando il soggetto passivo effettua senza necessità investimenti produttivi rischiosi, o ricorre al credito usurario per soddisfare bisogni non essenziali, l’eccessiva ed ingiustificata sproporzione tra le prestazioni può assumere dimen-


— 1241 — sioni tali da cagionare una macrolesione o un « macropericolo » patrimoniale. Dall’altro, occorre, invece, prendere in considerazione la situazione economica complessiva del soggetto passivo, e quindi il suo eventuale « stato di bisogno » o di « difficoltà economica o finanziaria », al fine di valutare la dannosità o pericolosità della pattuizione o dazione usuraria, che dovrà risultare dalla correlazione tra tale situazione economica del soggetto passivo e l’entità della sproporzione tra le prestazioni, ovvero dalla sproporzione « tenuto conto dell’eventuale stato di bisogno o di difficoltà economica o finanziaria » del soggetto passivo. Ciò significa fare dello stato di bisogno un fattore di pericolosità dell’aggressione al patrimonio, che risulta grave, per lo più, solo se alla sproporzione tra le prestazioni si accompagna una situazione di difficoltà patrimoniale (133). Ovviamente, si tratta, in questo caso, di un giudizio elastico, nel quale all’aumentare dell’ingiustificata sproporzione corrisponde una minore significatività della situazione patrimoniale complessiva. In questo senso va condiviso l’ampliamento interpretativo del significato del requisito dello stato di bisogno; perchè la manifesta sproporzione crei un danno o un pericolo serio per il patrimonio altrui non è sempre necessario che questi si trovi in una situazione economica disastrosa, ma può essere sufficiente una situazione di precarietà o, corrispondentemente alla definizione dell’usura impropria, di difficoltà economica o finanziaria; non solo, ma, addirittura, può anche essere sufficiente, in presenza di una sproporzione particolarmente elevata, il compimento di un’operazione rischiosa al di fuori di una precedente situazione economica critica, magari l’acquisto di beni non essenziali di un certo valore. Il fatto che ci si collochi in una prospettiva di pericolosità della pattuizione o dazione usuraria per il patri(133) Corrispondentemente, sul piano del Tatbestand soggettivo, dovrà richiedersi la consapevolezza della situazione economica complessiva, e magari dello stato di bisogno del soggetto passivo, solo in quanto tale consapevolezza sia necessaria perché l’agente si rappresenti il pericolo per il patrimonio altrui, il che non accadrà tutte le volte che l’accentuata sproporzione costituisca di per sé un rischio patrimoniale particolarmente grave e ingiustificato. In questa prospettiva si colloca la posizione — inammissibile, però, rispetto alla norma vigente, in quanto implica l’ammissibilità di presunzioni nella prova del dolo — secondo cui « nella struttura della norma in esame gli elementi si integrano e si completano a vicenda, tanto da apparire spesso idonei a porsi ciascuno come sufficiente prova dell’altro » (NOCENTINI, Riflessioni sul delitto di usura, in Riv. pen., 1971, I, 336-7; conforme LUCCIOLI, op. cit., 1531; contro le « catene di sospetti » che possono derivare da tale modo di procedere, VOLK, op. cit., 90). Per la stessa ragione, ci sembra inaccettabile anche la proposta di modificare l’art. 644 c.p., prevedendo che « ai fini dell’individuazione del reato... la prova della sussistenza degli elementi dello stato di bisogno della parte lesa e della conoscenza di tale stato da parte dell’agente è raggiunta in via presuntiva, qualora gli stessi... eccedono di quattro volte il tasso ufficiale di sconto vigente durante l’arco di vita del finanziamento » (art. 1, co. 1 della proposta di legge presentata il 16 luglio 1994 e recante « Modifica dell’art. 644 del codice penale in materia di usura », primo firmatario on. Nespoli, in Atti parlamentari. XII Legislatura. Camera dei deputati, n. 953).


— 1242 — monio del soggetto passivo, e non di esistenza di una situazione economica critica, anche contingente, come mero presupposto o situazione di partenza rilevante per il diritto penale, comporta l’inammissibilità di qualunque limitazione moralistica volta ad escludere la configurabilità del reato quando la vittima contribuisca con il suo comportamento imprudente alla propria rovina economica. Escludere la realizzazione della fattispecie in tali ipotesi significherebbe, come abbiamo accennato, non tenere conto della funzione preventiva della pena. Riassumendo, lo stato di bisogno può dunque assumere, nell’ambito di una ricostruzione della fattispecie di usura, un ruolo diverso, ossia di fattore di pericolosità o dannosità dell’operazione usuraria per il patrimonio altrui. In questo contesto, lo stato di bisogno può ben essere dilatato, in rapporto inverso all’entità della sproporzione. Essa, a sua volta, in quanto costituisce l’altro fondamentale fattore di dannosità o pericolosità dell’aggressione, va considerata, sì, in concreto, tenendo conto delle circostanze del caso e quindi anche dei rischi assunti, ma soltanto fino al limite costituito dalla palese pericolosità dell’assunzione di un onere eccessivo da parte del soggetto passivo. In presenza di tale pericolosità nemmeno l’assunzione di un rischio elevato può escludere la configurabilità dell’usura, per i motivi precedentemente illustrati. Ma lo stato di bisogno può essere recuperato anche in un’altra prospettiva. Alludiamo all’ordine d’idee seguito dal legislatore tedesco, che, come si è ricordato, ha introdotto, con la 1. WiKG, un’aggravante relativa all’ipotesi in cui l’agente « riduce, attraverso il fatto di reato, il soggetto passivo in stato di necessità economico (wirtschaftlicher Not) » (§ 302 co. 2 n. 1 StGB). Lo stato di bisogno può anche attenere al risultato finale dell’aggressione, e non solo ad essa stessa nella sua dimensione di pericolosità. In quest’ottica, come appare agevolmente comprensibile, lo stato di bisogno non può più essere costruito in termini così ampi, e cioè non può includere né situazioni meramente contingenti, né mere necessità relative a bisogni non essenziali, nè mancanze di disponibilità finanziarie per investimenti o speculazioni. A livello di risultato finale, lo stato di bisogno o wirtschaftlicher Not può rappresentare, a nostro modesto avviso, in quanto risultato di dimensioni particolarmente gravi, sia una circostanza aggravante rispetto ad una diminuzione significativa per il patrimonio unitariamente considerato, che costituisca l’evento del reato di usura, sia, invece, il vero e proprio evento dell’usura: essa potrebbe, quindi, configurarsi anche solo quando la perdita reale o minacciata è di tali dimensioni da mettere o rischiare di mettere « in ginocchio » il soggetto passivo. Molto probabilmente questa seconda possibilità risponderebbe meglio alla effettiva realtà del fenomeno criminale dell’usura familiare, mentre sembra a prima vista prestarsi meno ad un’efficace lotta all’usura imprenditoriale. D’altra parte, l’assimilazione della lesività dei due differenti tipi di


— 1243 — usura corrisponde ad una concezione unitaria del patrimonio, che quindi non può non tenere nel debito conto il significato drammatico della perdita dell’azienda per il piccolo imprenditore. Da questo punto di vista, potrebbe, dunque, anche ipotizzarsi una diversa configurazione dello stato di bisogno quale elemento attinente al risultato finale dell’usura, nel quale vengano equiparati eventi in astratto diversi, ma in concreto accomunati dalla stessa pervasività del fenomeno, tenuto conto delle situazioni concrete su cui esso incide: in altre parole, nell’estremo della riduzione, attraverso il fatto, in stato di bisogno, potrebbero essere accomunati la sopravvenuta impossibilità di sopperire ai bisogni essenziali (usura familiare) e quella di continuare l’attività economica finora svolta (usura imprenditoriale) (134). Se si concretizza in termini simili il risultato lesivo reale o potenziale dell’operazione usuraria, tale risultato potrebbe anche svolgere, all’interno della fattispecie, il ruolo dell’evento costitutivo anziché quello della circostanza aggravante, il che corrisponderebbe senz’altro alla realtà del fenomeno criminale da combattere e renderebbe perciò più mirata, e, quindi, più efficace la lotta all’usura. Va qui segnalato che l’utilizzo del requisito dello stato di bisogno sia come aspetto delle modalità di aggressione che come elemento dell’evento lesivo (ma in un’accezione diversa nei due casi) ci sembra tale da allontanare dalla costruzione proposta le possibili critiche basate sull’indeterminatezza che potrebbe conseguire all’eliminazione del requisito in questione in quanto presupposto del fatto tipico. 3. Ipotesi particolari e circostanze. — Dall’analisi fin qui svolta emerge, dunque, la possibilità di ricostruire, de lege ferenda, la fattispecie di usura in termini alquanto diversi dalla norma attualmente vigente. Riassumendo, si possono individuare i punti salienti di tale ricostruzione nel recupero di offensività, consentito dall’individuazione di un evento di danno o di pericolo per il patrimonio del soggetto passivo, unitariamente considerato; nel corrispondente ridimensionamento e spostamento del requisito dello stato di bisogno, sostituito, da una parte, dalla situazione economica del soggetto passivo, rilevante in quanto coefficiente di pericolosità dell’aggressione, accanto alla manifesta sproporzione delle prestazioni, e, dall’altra, spostato verso l’offesa e concepito quale evento lesivo; infine, nell’eliminazione del requisito dell’« approfittamento », sostituito, dal punto di vista oggettivo, dall’eventuale innestarsi della dazione o pattuizione sproporzionata su una, anch’essa eventuale, situazione di debolezza economica, e dal punto di vista del Tatbestand soggettivo, dalla coscienza e volontà dell’esposizione a rischio del patrimonio altrui. (134) In questo senso, espressamente, Entwurf eines Strafgesetzbuches - E 1962, mit Begründung, Bonn, 1962, Begründung, p. 440.


— 1244 — Sembra opportuno rilevare come tale ricostruzione discenda da una opzione in chiave di tutela del patrimonio individuale: solo nell’ambito di una concezione dell’usura come offensiva della libertà altrui o, ancor di più, come fatto disfunzionale rispetto al gioco della libera concorrenza, appare coerente richiedere la presenza di determinati elementi soggettivi e valutativi che selezionino in senso eticizzante le condotte punibili. Nell’ambito di tale concezione, si tratta infatti di « vietare un comportamento altrimenti legale e giustificato, quello di trarre da un affare il ‘‘maggior guadagno possibile’’ » (135); la sproporzione senza causa diventa allora penalmente rilevante in quanto riprovevole per l’approfittamento e per il precedente stato di bisogno, e non, più correttamente, in quanto da essa derivi, al di là di qualsiasi modalità riprovevole della condotta e dell’atteggiamento interiore, un danno o un pericolo per l’altrui patrimonio. Sembra sufficiente, in proposito, ricordare il carattere selettivo ed ideologico di una simile ricostruzione ed i pericoli che essa comporta in termini di rispetto del principio di offensività. Terminata, così, la disamina della fattispecie-base dell’usura, possono essere affrontati e risolti su queste basi i problemi relativi alle ipotesi speciali ed alle circostanze. A seguito dell’aggravarsi del fenomeno dell’usura, con particolare riguardo alla specie, precedentemente descritta, dell’« usura imprenditoriale », è stato recentemente introdotto, con l’art. 11-quinquies, co. 2, d.l. 8/6/1992 n. 306 (convertito nella l. 356/92), l’art. 644 bis c.p., rubricato « Usura impropria », che contempla, al secondo comma, anche un’ipotesi di mediazione usuraria impropria, e prevede, al terzo comma, l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 644, co. 3 c.p.. La differenza, rispetto alle ipotesi-base dell’art. 644 c.p., consiste, come già visto, nel presupposto del fatto tipico e nella qualità del soggetto passivo: essa si applica a chi, approfittando « delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge attività imprenditoriale o professionale », realizza condotte in tutto analoghe a quelle contemplate nell’art. 644 c.p.. Significativo appare il rilievo secondo cui « come risulta dai lavori preparatori, peraltro assai scarni, la preoccupazione predetta scaturisce dalla presa d’atto di un fenomeno verificatosi negli ultimi tempi e potenzialmente destinato ad incrementarsi. E cioè, in alcune regioni del paese (in particolare, nella Puglia), soggetti appartenenti ad associazioni mafiose hanno cominciato ad avvalersi dell’esercizio dell’attività usuraria come strumento strategico diretto a conseguire un duplice obiettivo: il primo, di natura intermedia, consistente nel fornire alle imprese in difficoltà un aiuto economico soltanto apparente, perchè finalizzato in realtà ad aggravarne la posizione di debolezza economica; il secondo, finale, risolventesi (135)

SCHEFFLER, op. cit., 18.


— 1245 — nel tentativo di acquisire il controllo o la proprietà delle medesime imprese in crisi. » (136). Dalle lucide considerazioni appena riportate emerge in maniera chiara che la ratio sottesa alla norma dell’art. 644 bis c.p. dovrebbe essere quella di offrire una tutela effettiva a chi esercita attività professionali o imprenditoriali, nei confronti del pericolo di un aggravamento consistente della posizione di debolezza economica, a seguito del quale spesso si è costretti a cedere la stessa attività o quote rilevanti della stessa. Ma di ciò non v’è traccia nella nuova fattispecie: la promessa o la dazione di interessi o vantaggi usurari integrano gli estremi del reato anche ove appaiano da principio inidonei a determinare la situazione di pericolo appena menzionata. Ciò in conseguenza del fatto che la nozione di patrimonio assunta a punto di riferimento è sempre una nozione « atomistica », e che, quindi, la norma assume ad evento dannoso o pericoloso la lesione o messa in pericolo della singola componente patrimoniale data dalla differenza di valore tra le prestazioni, che, rispetto alla lesione o messa in pericolo considerata in relazione al patrimonio nel suo complesso, si configura in termini di mero pericolo presunto (137). In effetti, sembra che, anziché da prospettive di lesività, rese evidenti dallo stretto rapporto tra usura imprenditoriale e perdita di attività professionali o imprenditoriali, acquisite, almeno in percentuale maggioritaria, da organizzazioni criminali, il legislatore si sia orientato verso considerazioni di meritevolezza di tutela in rapporto alla situazione economica di partenza, se è vero che la pena prevista risulta inferiore rispetto a quella dell’usura propria, innalzata in modo tale da comportare la competenza « della Procura della Repubblica presso il tribunale.... cioè dell’ufficio competente per i reati collegati con l’attività delle associazioni criminali » (138). Appare alquanto singolare che la stessa esigenza non si sia ravvisata per l’usura imprenditoriale. D’altra parte, per quanto riguarda l’estensione della tutela perseguita attraverso la previsione di un presupposto più « elastico » di quello dello stato di bisogno (139), va nuovamente ricordato come già prima dell’introduzione dell’art. 644 bis c.p. non si dubitasse, in dottrina e in parte (136) FIANDACA-MUSCO, op. cit., p. 181; cfr. anche MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, cit., Appendice di aggiornamento, pp. 6-7. (137) V. supra, p. 1220. (138) MUCCIARELLI, op. cit., 138; cfr. anche DI NARDO, Le innovazioni di diritto penale della l. n. 356/92, in Riv. pen. , 1993, 261. Sulla stessa linea sembra collocarsi anche il disegno di legge governativo, nella misura in cui contempla nell’ipotesi-base una situazionepresupposto di « difficoltà economica o finanziaria » del soggetto passivo, e fa, invece, dello « stato di bisogno » iniziale dello stesso una circostanza aggravante: v. art. 1, co. 1, del disegno di legge (Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1242. Disegno di legge recante « Disposizioni in materia di usura », presentato il 17 settembre 1994). (139) MUCCIARELLI, op. cit., 139-140. BELLACOSA, Usura impropria, cit., 3, sottolinea a questo riguardo l’utilità della nuova disposizione.


— 1246 — della giurisprudenza, della configurabilità del reato di usura nelle ipotesi di gravi difficoltà economiche o finanziarie che si presentino nell’esercizio di attività professionali o imprenditoriali (140). L’affrettata introduzione della norma sembra perciò obbedire almeno in parte (141) ad una logica simbolica e di « emergenza »; l’indubbio vantaggio della espressa inclusione degli esercenti le suddette attività tra i soggetti passivi del reato di usura avrebbe potuto essere conseguito modificando l’art. 644 c.p. nel senso illustrato, o, comunque, senza che fosse necessaria una previsione autonoma (142). Dalla ricostruzione sopra effettuata rispetto alla fattispecie-base risulta, quindi, senz’altro possibile riassorbire all’interno di essa anche l’usura impropria, che non presenta altre particolarità rispetto a quelle accennate e, come si è visto, superabili (143). Per quanto riguarda, invece, la mediazione usuraria, la ragione della sua previsione autonoma sembra consistere nell’impossibilità, ritenuta dal (140) MUCCIARELLI, op. cit., p. 141. Anche MANTOVANI, op. loc. ult. cit., rileva l’incertezza dei confini attuali tra usura propria ed usura impropria. Inoltre, rispetto al rilievo (v. ad es. BELLACOSA, Usura impropria, cit., p. 2) secondo cui è necessario che la tutela dell’imprenditore cominci già nella fase in cui ha luogo il primo contatto con l’organizzazione criminale, e in cui non è ancora riscontrabile uno stato di bisogno, va osservato che, se si accogliesse la soluzione qui proposta sulla struttura della fattispecie di usura, tali situazioni potrebbero ricadere nell’ambito della tutela penale; ma ciò solo ove il negozio usurario risulti pericoloso per la situazione patrimoniale complessiva dell’imprenditore, cosa che appare difficile da ritenersi, dal momento che si tratta di una fase in cui la situazione dell’imprenditore è ancora relativamente solida. D’altro canto, sia a legislazione vigente che in prospettiva di riforma, quando manca la suddetta pericolosità e si tratta di una fase iniziale, in cui la situazione economica del soggetto passivo non è affatto compromessa, sembra opportuno, sia dal punto di vista di una politica criminale efficace, sia sotto il profilo del rispetto dei principi di extrema ratio e di offensività, approntare strumenti extrapenali di tutela; in proposito, v. infra, p. 42 ss. (141) Nella giurisprudenza, prima dell’introduzione dell’art. 644 era ancora dato di incontrare la tesi dell’esclusione dello stato di bisogno in caso di difficoltà finanziaria temporanea, cfr. Cass. 22 novembre 1983; Cass. 7 maggio 1988; ma soprattutto, si escludeva la rilevanza di difficoltà finanziarie contingenti che non limitassero la libertà di scelta del soggetto passivo (ad es., Cass. 15 aprile 1981, n. 3396; Cass. 22 novembre 1983, n. 10025; Cass. 18 febbraio 1988, in Giust. pen. , 1989, II, 160), tenendo ferma, così, da un lato, la già menzionata accezione soggettiva dello stato di bisogno, ma, dall’altro, implicitamente non negando la rilevanza anche di difficoltà temporanee, purché presenti ed avvertite come tali dal soggetto passivo. D’altronde, anche con riferimento all’attuale art. 644-bis c.p., si sostiene che non possa parlarsi di difficoltà economica o finanziaria « allorquando l’imprenditore o professionista abbia di mira l’ampliamento e lo sviluppo della propria attività » (BELLACOSA, Usura impropria, cit., 3): ma allora non si vede quale sia la differenza tra l’ambito di applicabilità dell’art. 644-bis c.p. e quello dell’art. 644 c.p., così come delineato da dottrina e giurisprudenza. (142) In quest’ultimo senso BELLACOSA, Usura impropria, cit., p. 1. (143) Così anche l’art. 1, co. 2, del disegno di legge del governo approvato dalla Camera dei Deputati (Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1242. Disegno di legge recante « Disposizioni in materia di usura », presentato il 17 settembre 1994).


— 1247 — legislatore, di punire per usura colui il quale presta, in corrispettivo di interessi o vantaggi usurari, un’attività o un servizio, anziché denaro o altra cosa mobile; infatti, se l’usura reale fosse punibile ex art. 644 co. 1 c.p., i fatti di mediazione usuraria rientrerebbero senz’altro in tale previsione, costituendo l’attività del « procurare » denaro o altra cosa mobile una chiara ipotesi di tale tipo di usura (144). Nell’ambito della riformulazione della norma in sede di riforma, sembra perciò opportuno eliminare tale previsione autonoma, in conseguenza dell’inclusione nella fattispecie dell’usura reale. Con la legge n. 356/92 è stata, infine, introdotta un’aggravante, applicabile anche alla mediazione usuraria, che si configura quando i fatti di cui all’art. 644 e 644-bis c.p. « sono commessi nell’esercizio di un’attività professionale o di intermediazione finanziaria » (145); tale aggravante, anch’essa chiaramente ispirata dalla realtà del fenomeno in quanto caratteristico della criminalità organizzata (146), appare condivisibile nella misura in cui possa inquadrarsi nell’ambito della particolare rilevanza che può assumere, all’interno dei delitti contro il patrimonio, l’abuso di un rapporto fiduciario, quale modalità di aggressione caratterizzata da un’aumento dell’esposizione a pericolo del bene protetto (147). Di conseguenza, ci sembra vada condivisa l’osservazione secondo cui per « attività professionale » ai sensi di questa disposizione deve intendersi quella funzionalmente collegata alla « formazione di negozi giuridici a contenuto patrimoniale » (148), ovvero tale da suscitare un affidamento nella vittima. A conclusione dell’esame della disciplina penalistica dell’usura, ci sembrano opportuni due rilievi. L’analisi è stata condotta privilegiando le prospettive di riforma, particolarmente urgenti e avvertite come tali nell’opinione pubblica; ma sembra che i rilievi esposti possano valere anche ai fini di un’interpretazione teleologicamente orientata, finchè ciò sia compatibile con il tenore letterale delle norme vigenti. In secondo luogo, deve tenersi presente che l’adozione di un punto di vista de lege ferenda si giustifica solo nella prospettiva di una generale riforma dei delitti contro il patrimonio, perchè su soluzioni meramente settoriali incomberebbero « gravi ipoteche di legittimità costituzionale, principalmente sotto il profilo dell’uguaglianza » (149). (144) « Prestazione ai sensi del § 302a è... anche la mediazione di una prestazione »: STREE, op. cit., 2105. (145) V. MUCCIARELLI, op. cit., 138. (146) DI NARDO, op. loc. cit. (147) MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 131 ss. Un’aggravante analoga è prevista dal § 302a, co. 2, n. 2 StGB. (148) MUCCIARELLI, op. loc. ult. cit. (149) MOCCIA, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 97.


— 1248 — 4. Il ruolo degli strumenti alternativi. — Completata la disamina degli strumenti di controllo penalistico dell’usura, non resta che riprendere il rilievo circa la necessità, nella lotta al fenomeno in questione, di una strategia complessiva, non affidata esclusivamente allo strumento penalistico. La consapevolezza di ciò sembra ormai diffusa in parte dell’opinione pubblica, come rivela la stessa esistenza di iniziative di solidarietà alle vittime, che sembrano potersi considerare come un primo passo verso la presa di coscienza della necessità di un’azione globale indirizzata, a differenza delle pur meritevoli iniziative, attualmente in atto o proposte (150), verso una autentica prevenzione del fenomeno. L’arretramento della tutela penale, che sembra conseguire ad una costruzione della fattispecie in termini coerenti con prospettive di offensività, non significa, in realtà, un indebolimento della tutela, per le ragioni precedentemente illustrate. Qui preme sottolineare ancora una volta come la costruzione proposta delinei un evento dannoso o pericoloso pienamente corrispondente alla realtà lesiva del fenomeno ed al ruolo effettivo che esso svolge all’interno della strategia complessiva della criminalità organizzata. D’altra parte, all’arretramento citato fa riscontro l’ampliamento della condotta rilevante, che include perciò forme assai diverse, purché connotate da pericolosità, e l’alleggerimento del Tatbestand soggettivo, che attualmente è appesantito da elementi sostanzialmente privi di significatività rispetto alla coscienza e volontà dell’effettivo disvalore oggettivo (d’evento e d’azione) della fattispecie, ed appare orientato, piuttosto, in senso vagamente eticizzante. Alla trasformazione dello strumento penalistico devono corrispondere, comunque, la predisposizione di altri interventi o l’uso di altri strumenti già esistenti (151). Sul piano della tutela giuridica, vengono in considerazione gli istituti contemplati dal codice civile, e segnatamente, ad un primo esame, la nullità della clausola relativa all’interesse usurario, con conseguente ridu(150) Alludiamo al fondo di cui si dà notizia nel passo della Relazione della Commissione parlamentare antimafia precedentemente riportato e a quelli previsti da due delle proposte di legge presentate, v. art. 4, co. 2 della proposta di legge presentata il 21 aprile 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di usura », primo firmatario on. Grasso, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 332; art. 5 del disegno di legge del governo (Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1242. Disegno di legge recante « Disposizioni in materia di usura », presentato il 17 settembre 1994). Rispetto a quest’ultimo disegno di legge, si noti, però, che in sede di approvazione da parte della Camera dei Deputati l’art. 5 è stato stralciato a causa dei contrasti sulle caratteristiche del fondo di solidarietà, cosicché la questione relativa rimane aperta, limitandosi il disegno di legge a prevedere la futura costituzione del fondo stesso. (151) Sull’alternativa del controllo civilistico in relazione ai reati contro il patrimonio, cfr. ad es. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 258 ss.; ID., Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, cit., p. 70 ss.


— 1249 — zione dell’interesse alla misura legale (art. 1815, co. 2, c.c.), la rescissione del contratto concluso in stato di pericolo (art. 1447 c.c.) e la rescissione per lesione (art. 1448 c.c.) (152). Agli strumenti civilistici è possibile far riferimento in una prospettiva di differenziazione della tutela, dovendo lo strumento penale intervenire, come si è detto, solo in presenza di lesioni (o messe in pericolo) significative in rapporto all’intero patrimonio del soggetto passivo, nonché di modalità di aggressione particolarmente pericolose rispetto a tali lesioni (153). Ne risulta una distinzione dei compiti di tutela che non si impernia solo sulle modalità di aggressione, ma parte dal dato della differente, qualificata lesività delle ipotesi penalistiche; in questa prospettiva, anche il ruolo delle modalità di aggressione, che restano fondamentali per distinguere illecito penale ed illecito civile (154), cambia, in quanto la loro peculiarità s’incentra stavolta sulla qualificata pericolosità delle stesse e sulla relativa consapevolezza, anziché, come nella norma attuale, sulla riprovevolezza della condotta e dell’atteggiamento interiore dell’agente. In altre parole, ciò che connota l’aggressione penalmente rilevante è la pattuizione o ricezione, da parte del soggetto attivo, di un corrispettivo manifestamente ed ingiustificatamente sproporzionato, dalla quale, innestandosi essa su di una situazione di difficoltà economica (155), rischia di derivare un danno significativo in relazione al patrimonio del soggetto passivo. Non appare meritevole di rilevanza, su questo piano, invece, il fatto che il ricorso alla prestazione usuraria non sia imputabile ad imprudenza del soggetto passivo (ciò che in definitiva si richiede attraverso il requisito dello stato di bisogno), né tantomeno il fatto che la pat(152) Inoltre, una norma in un certo senso « preventiva » è quella che pone, per gli interessi convenzionali superiori alla misura legale, l’obbligo della forma scritta ad substantiam (art. 1284, co. 3, c.c.); in proposito, v. per tutti PERLINGIERI, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, p. 74; G.B. FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Riv. dir. comm., 1975, I, 273 ss.; CANTILLO, Le obbligazioni, III, Torino, 1993, p. 1461 ss. (153) GALGANO, Criminalità economica: il punto di vista del civilista, in Riv. delle società, 1980, p. 425 ss., evidenzia il ruolo delle norme e delle sanzioni civili in funzione di prevenzione e repressione della criminalità economica, richiamandosi al principio di extrema ratio della tutela penale. (154) C. FIORE, Illecito penale e illecito civile nella convenzione di interessi « usurari », cit., 909 ss., sottolinea, criticando il contrario orientamento della Cassazione (Cass. 31 marzo 1969, n. 1956), l’esigenza di una autonomia del concetto penalistico di usura da quello civilistico (art. 1815), autonomia che trova fondamento nel principio di sussidiarietà: la rilevanza di quest’ultimo è confermata, secondo l’illustre Autore, dalla selezione, nell’art. 644 c.p., delle modalità di aggressione, mentre l’art. 1815 c.c. si basa soltanto sulla natura usuraria e cioè sulla mera « manifesta sproporzione ». Conforme MALINVERNI, op. cit., 265-6. Considerazioni analoghe a quelle svolte per la selezione delle forme di aggressione penalmente rilevanti ci sembra possano valere anche per la stessa lesione penalmente rilevante. (155) Per la variabilità del livello di rilevanza di tale situazione in relazione all’entità della sproporzione v. supra, p. 35 ss.


— 1250 — tuizione o dazione usuraria sia legata allo stato di bisogno da un legame causale, né che vi sia consapevolezza nel soggetto attivo di riuscire ad ottenere condizioni manifestamente sproporzionate solo grazie allo stato di bisogno altrui (156). Inoltre, si è visto come lo stato di bisogno acquisti nell’ambito di una ridefinizione delle modalità di aggressione e dell’offesa una valenza diversa. Ad ogni modo, anche la costruzione proposta attribuisce rilievo alle modalità di aggressione per caratterizzare l’illecito penale, ed aggiunge a ciò una particolare connotazione della lesione rilevante. Specularmente, allora, restano affidate solo alla tutela civilistica le ipotesi in cui si tratti di porre rimedio alla diminuzione patrimoniale insita nella manifesta sproporzione tra le prestazioni del negozio usurario, quando questa non sia idonea a costituire un grave pericolo per la situazione patrimoniale complessiva della vittima. In tali casi si tratta, dunque, di approntare o ricostruire rimedi civilistici che consentano una tutela « anticipata » dall’usura, applicabili, quindi, ove non si configuri l’ipotesi di reato, a causa soprattutto, ma non soltanto (157), dell’assenza di una lesione patrimoniale qualificata dalla significatività per l’intero patrimonio della vittima (158). Non sarà del tutto inutile, allora, tentare di reperire qualche indicazione, sia pur necessariamente approssimativa e meramente propedeutica, sulle prospettive di una tutela attraverso gli strumenti del diritto civile. Al riguardo, sembra innanzitutto necessaria un’interpretazione il più possibile ampia della norma di cui all’art. 1815 co. 2 c.c., al di là degli schemi forse un po’ angusti del mutuo (l’applicabilità analogica della disposizione in argomento sembra, tuttavia, incontrare un limite quanto(156) V. supra, p. 1228 ss. e passim. (157) V. infatti supra le peculiarità della fattispecie penale proposta de lege ferenda, sul piano delle modalità di aggressione e del Tatbestand soggettivo. (158) Restano salve, naturalmente, le conseguenze della realizzazione del reato di usura sulla validità del negozio usurario: secondo parte della dottrina, oltre a quanto prevede l’art. 1815 co. 2, la rescindibilità ex art. 1448 c.c., con l’unica variante del prolungamento del termine di prescrizione fino alla coincidenza con il termine di prescrizione del reato (artt. 1449 co. 1 e 2947 ult. co. c.c.) (cfr. ad es. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, 2a ed., in VASSALLI, Trattato di diritto civile italiano, Torino, 1960, p. 116, nota 8; MESSINEO, Dottrina generale del contratto, 3a ed. (ristampa), Milano 1952, p. 466; SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, 3a ed., in GROSSO-SANTORO PASSARELLI, Trattato di diritto civile, Milano 1977, p. 263); tale rimedio presuppone, com’è noto, la lesione ultra dimidium, ma d’altronde, in assenza di essa, ritenere che si configuri il reato sarebbe, a tacer d’altro, palesemente contrario al principio di extrema ratio. Altri Autori sostengono, invece, la nullità del contratto per illiceità della causa (v. artt. 1418 co. 2 e 1343 c.c.) o per contrarietà a norme imperative (art. 1418 co. 1 c.c.) (cfr. ad es. CARRESI, Rescissione (diritto civile), in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, p. 5; MIRABELLI, La rescissione del contratto, Napoli, 1962, p. 132 ss). Sul tema, cfr. BIANCA, Diritto civile. 3. Il contratto, Milano, 1987, p. 649; BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSNELLI-NATOLI, Diritto civile. 1. Fatti e atti giuridici, Torino, 1989, p. 858.


— 1251 — meno nelle ipotesi di prestazione di servizi), al fine di prevenire il ricorso all’usura palliata (159); ferma restando la necessità di un’interpretazione slegata dalla norma penale, che non richieda l’approfittamento dello stato di bisogno, requisito introdotto, come si è accennato, surrettiziamente dalla giurisprudenza civile, contro parte della dottrina (160). Peraltro, nel codice civile esiste già una prescrizione generale avente evidenti punti di contatto con la norma di cui all’art. 644 c.p. : si tratta dell’art. 1448 c.c. (rescissione per lesione), secondo cui « se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto », quando la lesione eccede la metà del valore che la prestazione eseguita dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto (161). La centralità della sproporzione qualificata dalla lesione ultra dimidium e del requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno fa di questa disposizione un rimedio generale, in via di principio idoneo a costituire il fulcro della tutela civilistica da quelle forme di usura che, nella costruzione proposta, non sembrano dover costituire reato (162). In quest’ottica la stessa disposizione di cui all’art. 1815 co. 2 c.c. potrebbe apparire superflua (163), ma a torto: infatti, la soluzione che questa norma offre, quale forma di reductio ad aequitatem dell’interesse pattuito, appare particolarmente idonea a tutelare la vittima dell’usura, in quanto non scioglie il rapporto contrattuale, garantendo, così, l’interesse (159) A favore di una portata generale della norma in esame si pronuncia la dottrina dominante, v. in proposito, ad es., CANTILLO, Le obbligazioni, cit., pp. 1469, 1472. (160) Cfr. ad es. DE CUPIS, Usura e approfittamento dello stato di bisogno, in Riv. dir. civ., 1961, I, 504; FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Riv. dir. comm., 1975, I, 285 ss.; GIAMPICCOLO, Comodato e mutuo, in GROSSO-SANTORO PASSARELLI, Trattato di diritto civile, cit., p. 464. Sul tema, per ulteriori approfondimenti e riferimenti giurisprudenziali e bibliografici, cfr. CANTILLO, op. cit., p. 1469 ss. (161) L’identità di ratio delle due prescrizioni è sottolineata da GAZZONI, Manuale di diritto privato, 4a ed., Napoli, 1993, p. 940. Nella medesima direzione BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSNELLI-NATOLI, op. cit., p. 858. La stessa giurisprudenza evidenzia, implicitamente, le potenzialità della disciplina della rescissione in una tutela civilistica dall’usura, quando distingue tra contratto usurario, radicalmente nullo per illiceità della causa, e contratto « soltanto » rescindibile, configurando, perciò, in tale ultimo caso, una protezione giuridica più ampia, v. Cass. 20 novembre 1957, n. 4447, in Giur. it., 1957, I, 1338. (162) Con ciò è anche detto, quindi, che lo spazio di applicabilità della rescissione va ben al di là di quello dell’usura, come giustamente si sottolinea in dottrina, v. ad es. GAZZONI, op. cit., p. 944. (163) E probabilmente proprio nell’ottica di una generalizzazione del rimedio della rescissione (oppure, più verosimilmente, della nullità) si iscrive l’abrogazione dell’art. 1815 co. 2 c.c. prevista dall’art. 3 del disegno di legge del governo (Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 1242. Disegno di legge recante « Disposizioni in materia di usura » presentato il 17 settembre 1994), già approvato da un ramo del Parlamento.


— 1252 — di quella alla prestazione della controparte (164). È appena il caso di ricordare come la stessa soluzione della riduzione ad equità delle condizioni contrattuali sia invece posta, nella disciplina della rescissione, nella disponibilità della parte avvantaggiata, a cui è rimessa la facoltà di offrirla, quando l’altra parte abbia richiesto la rescissione (art. 1450 c.c.). Per quanto riguarda poi la norma di cui all’art. 1447 c.c. (contratto concluso in stato di pericolo), anch’essa sembrerebbe poter essere richiamata in vista della tutela civilistica dall’usura, ove la parte danneggiata si sia trovata nello stato di necessità delineato dalla norma in esame; ma parte della dottrina ritiene, argomentando sulla base del 2o comma dell’art. 1447, che la rescissione per necessità sarebbe invocabile solo qualora il contratto concluso sia un contratto di prestazione d’opera (165). In ogni caso, va rilevato come qui, a fronte di una situazione più grave rispetto allo stato di bisogno (166), sia richiesto soltanto che la parte che ha tratto vantaggio dalla situazione la conosca, e non che ne approfitti, il che — unitamente alla maggiore elasticità del requisito dell’« iniquità delle condizioni » rispetto a quello della lesione ultra dimidium richiesto dall’art. 1448 c.c. — aprirebbe spazi di applicazione per alcuni versi maggiore all’art. 1447 c.c., qualora se ne ammettesse, in contrasto con l’opinione sopra ricordata, ma con la dottrina prevalente (167), l’operatività generale. La norma centrale, tuttavia, su cui impostare una tutela civilistica dall’usura, appare pur sempre quella di cui all’art. 1448 c.c., in considerazione della ricordata maggiore ampiezza del presupposto dello stato di bisogno. In questo contesto si pone il problema della portata di tale disposi(164) Il carattere automatico della riduzione dell’interesse lascia inoltre preferire questa soluzione anche rispetto ad una eventuale declaratoria di nullità parziale (art. 1419 co. 1), che potrebbe aversi, qualora venisse abrogato l’art. 1815 (come si è proposto), solo sulla base di accertamenti sulla volontà delle parti. Dal punto di vista esposto nel testo, potrebbe risultare, dunque, dubbia l’utilità dell’idea di prevedere la nullità del mutuo usurario laddove si configuri l’ipotesi di cui all’art. 644-bis, v. art. 4 co. 1 della proposta di legge presentata il 21 aprile 1994 e recante « Modifiche al codice penale in tema di usura », primo firmatario on. Grasso, in Atti Parlamentari. XII Legislatura. Camera dei Deputati, n. 332; comunque, secondo questa proposta la nullità presuppone la configurabilità del reato di usura impropria, ragion per cui non ha l’effetto di fornire una tutela civilistica più ampia di quella penalistica. (165) Cfr. ad es. MIRABELLI, La rescissione del contratto, cit., p. 228 ss.; CARRESI, Rescissione, cit., p. 3. (166) Sulla nozione di pericolo nell’art. 1447 c.c. e sui rapporti con quella di stato di bisogno nell’art. 1448 c.c., v. più dettagliatamente CARRESI, op. cit., I e p. 4; SACCO-DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile diretto da R. SACCO, Torino, 1993, p. 472 ss. (167) Cfr. ad es. CIAN-TRABUCCHI, Commentario al codice civile, Padova 1992, p. 1167; CORSARO, L’abuso del contraente nella formazione del contratto (Studio preliminare), in Ann. Perugia, XIX, Perugia, 1979, 119.


— 1253 — zione (ed in generale delle ipotesi di rescissione), in vista di una tutela extrapenale che sia sufficientemente ampia da costituire un efficace strumento alternativo di protezione di quello che qui può definirsi come « contraente debole » anziché « vittima », ed allo stesso tempo non talmente rigida da ostacolare la libertà negoziale. Si tratta di un problema complesso, che non può certo trovare soluzione in questa sede. Va comunque detto che, com’è noto, nell’art. 1448 c.c. le esigenze dell’autonomia delle parti hanno avuto, almeno in una certa misura, la meglio sulle istanze di tutela dall’iniquità delle condizioni contrattuali: infatti, la rilevanza di tale iniquità è subordinata alla sussistenza dell’approfittamento dell’altrui stato di bisogno (e, conseguentemente, all’efficienza causale dello stato di bisogno rispetto alla determinazione a contrarre della parte danneggiata), il che riduce considerevolmente la portata della disposizione (168). La rescindibilità del contratto si fonda, dunque, non sull’iniquità in sé considerata, ma sull’iniquità risultante dall’approfittamento di una situazione di anomala alterazione della libertà negoziale (169). In dottrina è controverso se si tratti, perciò, di una situazione assimilabile a quella della presenza di vizi del consenso (170), oppure se l’istituto, anziché tutelare la libera formazione della volontà negoziale, miri ad accordare un rimedio contro le condizioni inique accettate in stato di pericolo o di bisogno (171). La prima tesi tende a vedere nella rescissione un’ulteriore forma di tutela della libertà della volontà negoziale, richiamando, però, in funzione di contrappeso, il limite della tutela dell’affidamento della controparte e della certezza negoziale ed anzi ampliandolo a dismisura, fino a non ritenere sufficiente la sola conoscenza dell’alterazione della volontà ed a richiedere l’approfittamento (172); la seconda opinione, invece, costruisce l’istituto come limite all’autonomia contrattuale dato da esigenze di equilibrio delle prestazioni, ed in definitiva di giustizia e solidarietà sociale. Appaiono chiare le implicazioni delle tesi prospettate: in particolare, a parte l’inquadramento o meno della responsabilità tra le forme di invali(168) Cfr. BIANCA, op. cit., p. 644. (169) BIANCA, op. cit., p. 643. (170) BIANCA, op. loc. ult. cit. (171) Così ad es. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli s.d., p. 123 ss.; GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, 424; LUCARELLI, Lesione d’interesse e annullamento del contratto, Milano, 1964, p. 91; QUADRI, La rettifica del contratto, Milano, 1973, p. 119; SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Ristampa, Napoli, 1989, p. 40. Per una rassegna articolata delle varie posizioni al riguardo, v. BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 1984, p. 214 ss. (172) A prescindere dal fatto che la dottrina tenda poi a risolvere quest’ultimo nella conoscenza, v. ad es. BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSNELLI-NATOLI, op. cit., p. 858.


— 1254 — dità del contratto, interessa qui rilevare l’incidenza delle due tesi sull’interpretazione e, al limite, sulla struttura auspicabile de lege ferenda delle fattispecie di rescindibilità ed in particolare dell’art. 1448 c.c. Su questo versante, da un lato si profila, come possibile conseguenza della ricostruzione in chiave di accostamento ai vizi del consenso, la centralizzazione ed il tendenziale rafforzamento dell’aspetto della menomazione delle condizioni per una libera formazione della volontà e, simmetricamente, della strumentalizzazione della situazione che causa tale alterazione da parte del contraente « forte ». Dall’altro, la tesi secondo cui assume maggior rilievo l’aspetto dell’iniquità delle condizioni sembra condurre, in sede di interpretazione, verso un ridimensionamento degli aspetti soggettivi ed un’accentuazione del requisito della manifesta sproporzione tra le prestazioni. De jure condendo, invece, porre l’accento su questo secondo profilo equivarrebbe, come si è accennato, a porre il problema della limitabilità dell’autonomia delle parti in ossequio all’esigenza di un giusto equilibrio tra di esse. Alla libertà negoziale si oppone qui il principio di cui all’art. 3 co. 2 Cost., che pone un’esigenza di giustizia sostanziale e di solidarietà sociale, imponendo l’intervento della legge laddove un ruolo esclusivo dell’autonomia privata non assicuri giusti rapporti (173). Il problema riguarda soprattutto la libertà di determinazione del contenuto del contratto e la tutela del contraente debole, e si è posto nella dottrina civilistica con particolare riferimento, ad esempio, alle condizioni generali di contratto. In questo caso, si riconosce la necessità di un controllo sostanziale sulla contrattazione perché qui l’iniquità trascende il singolo rapporto, danneggiando una generalità di contraenti, mentre si ritiene che probabilmente, sul piano della contrattazione individuale, « la possibile iniquità dei singoli contratti è il costo consapevole della libertà negoziale » (174). Tuttavia, ciò non è vero senza limiti, tant’è che la legge dispone la rescindibilità di singoli contratti stipulati a condizioni inique, laddove la manifesta sproporzione tra le prestazioni sia il risultato della diminuita libertà negoziale di un soggetto, causata da una situazione di debolezza economica individuale. Sembra potersi dire che qui si assiste ad un esplicito riconoscimento legislativo di un’esigenza di tutela del contraente debole, frutto, anche in questo caso, di istanze di giustizia sostanziale di derivazione costituzionale. Il fatto che da taluni si riconosca la rilevanza anche dello stato di bisogno putativo (175) non sposta i termini della questione, ma soggettivizza soltanto il concetto di debolezza del contraente: (173) BIANCA, op. cit., pp. 33-34. (174) BIANCA, op. cit., p. 370. (175) Cfr. CIAN-TRABUCCHI, Commentario al codice civile, cit., p. 1168; contra, fra gli altri, CARRESI, Rescissione, cit., p. 6.


— 1255 — risulta chiaro, così, l’intrecciarsi dei profili della libera formazione della volontà e della tutela dall’iniquità delle condizioni contrattuali, in quanto la tutela è accordata al contraente « debole » che si assoggetta a quelle condizioni inique in quanto si ritiene costretto per la sua debolezza economica a contrarre. La questione della rilevanza del bisogno putativo non sembra, tuttavia, essenziale; quello che invece importa sottolineare è che il legislatore subordina la rescindibilità del contratto, nell’art. 1448 c.c., all’approfittamento della controparte. L’art. 1447 c.c. richiede, invece, come si è visto, soltanto che la più grave situazione del soggetto danneggiato sia nota alla controparte. Si noti come la costruzione dell’art. 1448 c.c. sia da questo punto di vista simmetrica a quella dell’art. 644 c.p. In effetti, sembra potersi dire, con terminologia penalistica, che in entrambi i casi si tratta di una tipizzazione di « modalità di aggressione » dell’interesse tutelato. Un discorso analogo vale per la situazione economica del « contraente debole », che è condizione di rilevanza della lesione, e non rientra, ovviamente, nella definizione della lesione stessa, che è data, invece, dalle condizioni inique (art. 1447 c.c.) o dalla lesione ultra dimidium (art. 1448 c.c.). In effetti, le oscillazioni interpretative relative agli elementi dello stato di bisogno e all’approfittamento (art. 1448 c.c.) (176), derivano, in ultima analisi, dalla diversa ampiezza che si intende riconoscere alla tutela della posizione contrattuale del danneggiato. Ora, è interessante fermare un attimo l’attenzione su quella sorta di meccanismo di compensazione tra l’elemento della situazione oggettiva del danneggiato ed il requisito relativo alla controparte, che consiste nel fatto che nell’art. 1447 c.c., a fronte di una situazione di grave pericolo, si richiede la mera conoscenza di essa, mentre quando, come nell’art. 1448 c.c., la situazione del danneggiato è solo di bisogno economico, è necessario l’approfittamento (177). In realtà, sembra che si tratti di due aspetti della stessa tendenza del legislatore a restringere il campo della tutela dall’iniquità delle condizioni contrattuali. Il problema se ciò risponda adeguatamente alle esigenze di giustizia sostanziale sopra esposte non può essere ovviamente affrontato (176) In proposito, v. per tutti CIAN-TRABUCCHI, op. loc. ult. cit. (177) Peraltro, parte della dottrina fa praticamente coincidere i requisiti della conoscenza (art. 1447 c.c.) e dell’approfittamento (art. 1448 c.c.), risolvendo entrambi nella consapevolezza del fatto che l’altra parte si determina a contrarre a certe condizioni solo a causa della particolare situazione in cui versa, cfr. CARRESI, Rescissione, cit., pp. 6-7, con ampi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. Questa opinione, che abroga in via interpretativa la differenza tra i due requisiti, suscitando qualche riserva, può essere interessante in una prospettiva di coordinamento ed eventuale integrazione fra le due ipotesi di rescissione, ma, in tal caso, non va disgiunta da un riesame degli altri elementi delle rispettive fattispecie, altrimenti si rischia di perdere di vista la loro relazione.


— 1256 — in questo lavoro. Qui può formularsi solo l’ipotesi che una tutela oggettivizzata di un contraente, che è debole in quanto si trova in condizioni di libertà negoziale soltanto formale e non sostanziale (178), da condizioni contrattuali inique, non richieda necessariamente l’intento di approfittare di tale situazione di debolezza, essendo sufficiente, per la tutela della certezza del traffico giuridico, tutelare l’affidamento del contraente avvantaggiato, nel senso di richiedere soltanto la conoscenza (come già avviene nell’art. 1447 c.c. e, a volte, in sede di interpretazione dello stesso art. 1448 c.c. (179)) o, addirittura, la conoscibilità della predetta situazione. Ripetiamo, non è certo questa la sede idonea per tentare di risolvere problemi così complessi, di cui ci si deve accontentare di aver indicato le coordinate, ovvero i principi che sembrano venire in conflitto. Molto più limitatamente, è sufficiente, qui, porre comunque in evidenza anche il fatto che — sia in una prospettiva meramente ermeneutica, sia in un’ottica di riforma mirante a prevenire e reprimere, attraverso una strategia ordinamentale articolata, l’usura — in vista dell’efficienza della tutela patrimoniale appare significativo ampliare la tutela civilistica, ricavandole spazi di operatività che ne facciano un adeguato « filtro » rispetto all’intervento del sistema punitivo statuale. In questa ristretta prospettiva, risulta proficuo sollevare il problema del coordinamento tra fattispecie civilistiche e penalistiche applicabili a fenomeni di usura, pur tenendo presenti le diverse funzioni dei rispettivi strumenti di controllo. In particolare, per quanto riguarda la rescissione prevista dall’art. 1448 c.c., la diversa natura della lesione rilevante per il diritto civile — non qualificata dalla significatività rispetto al patrimonio, unitariamente considerato, della vittima — fornisce un’ulteriore giustificazione dell’esigenza di richiedere la presenza dello stato di bisogno; in caso contrario, infatti, si arriverebbe ad ipotizzare la rescindibilità di un contratto a causa soltanto della semplice sproporzione delle prestazioni. Ma anche nell’ipotesi di cui all’art. 1448 c.c., come è avvenuto con l’art. 644 c.p. e poi con l’art. 644 bis c.p., sembra che non possa non estendersi il presupposto in questione, fino a ricomprendervi situazioni di difficoltà economica o finanziaria (180), che individuano comunque una menomazione della li(178) Secondo la definizione di KRAMER, Die « Krise » des liberalen Vertragsdenkens, München-Salzburg, 1974, p. 20; sul punto v. anche BIANCA, op. cit., p. 34. (179) V. CORSARO, L’abuso del contraente nella formazione del contratto (Studio preliminare), cit., p. 69 ss. (180) Esplicitamente favorevoli alla rilevanza anche del bisogno contingente BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSNELLI-NATOLI, op. cit., p. 857; in giurisprudenza, cfr. ad es. Cass. 5 aprile, 1984, n. 2217; Cass. 26 marzo 1986, n. 2166, in Giust. civ., 1987, I, 653, con nota di COSTANZA; per un’interpretazione restrittiva dello stato di bisogno, v. invece CARRESI, op. cit., pp. 4-5.


— 1257 — bertà rispetto all’an ed al quomodo della contrattazione, ugualmente degna di tutela e relativa ad una categoria di soggetti che anche qui, come nel caso dell’art. 644 c.p., probabilmente non è stata presa in considerazione dal legislatore per ragioni storiche. Anche per quanto riguarda il requisito dell’approfittamento, ci sembra che sia opportuno un ragionevole ridimensionamento, nel senso, se non di sostituirlo con la mera conoscibilità dello stato di bisogno, quanto meno di ritenere sufficiente, come vuole parte della dottrina e della giurisprudenza (181), la conoscenza dello stesso, senza cioè richiedere la strumentalizzazione della situazione da parte del contraente avvantaggiato né la conoscenza del nesso causale tra stato di bisogno e determinazione a contrarre, requisiti non necessari ad una tutela che si fondi sulle basi oggettive sopra evidenziate. La soluzione incentrata sulla mera conoscibilità parrebbe comunque auspicabile in una prospettiva de lege ferenda, onde assicurare l’effettività di una tutela che rischia, altrimenti, di scontrarsi con ostacoli già noti, e sempre tenendo presente le esigenze di giustizia sostanziale che sembrano connotare l’istituto della rescissione, e che appaiono adeguatamente soddisfatte, sul piano della misura della lesione rilevante, dal limite della lesione ultra dimidium posto dall’art. 1448 c.c. (182). Concludendo sull’argomento, bisogna riconoscere che, purtroppo, la prospettazione di strumenti civilistici di tutela dall’usura deve fare i conti con una realtà poco propizia. L’azionabilità dello strumentario civilistico, infatti, dipende, come abbiamo in precedenza accennato, da fattori quali l’effettivo controllo del territorio — volto a creare un clima di minore insicurezza e ad ostacolare il ricorso a mezzi intimidativi e violenti allo scopo di recuperare i crediti usurari o di impedire il ricorso alla tutela giuridica — e l’effettività della tutela civilistica, che a sua volta dipende dal funzionamento della giustizia civile. A queste condizioni, la tutela attraverso strumenti civilistici può rivelarsi idonea nei casi in cui, trattandosi, magari, di un bisogno contingente, e, comunque, non presentandosi, come si è detto, un pericolo significativo per il patrimonio complessivo della vittima, quest’ultima si trova in una condizione di minore debolezza. Questo tipo di tutela appare idoneo anche nella fase iniziale della serie di pattuizioni o dazioni usurarie che caratterizzano concretamente la dinamica del fenomeno. Il carattere dispositivo dei rimedi civilistici, se costituisce, come si è appena visto, un rischio in termini di effettività (rischio che, d’altra parte, non viene eliminato dal ricorso allo strumento penale, dal momento che anche qui, di fatto, il per(181) V. supra, nota 177. (182) Queste considerazioni dovrebbero condurre a porre il problema del coordinamento tra le ipotesi di rescissione vigenti e della funzione della loro differenziazione; ma è fin troppo ovvio che si tratta di questioni che esulano ampiamente dai limiti di questo lavoro.


— 1258 — seguimento dei reati finisce per dipendere dalle denunce dei privati e quindi dalla disponibilità alla denuncia degli stessi (183)), va apprezzato anche in una dimensione diversa: l’usura, in quanto credito illegale, rappresenta comunque un’istanza informale di assorbimento di rischi che il sistema legale non assorbe. Una prestazione ad interessi usurari può risultare, in pratica, anche vantaggiosa per chi si trovi in una difficoltà economica contingente e, per qualunque motivo, non possa avere accesso al sistema legale del credito. Da questo punto di vista, l’‘usuraio’ classico ha un ruolo sociale spesso diverso dall’usuraio-‘mafioso’, nella misura in cui il prestito usurario tradizionale può a volte non presentare la stessa concreta potenzialità aggressiva e gli stessi mezzi violenti e intimidatori a disposizione, controllo del territorio compreso; l’usura tradizionale può anche costituire un ‘servizio’ non pericoloso per il patrimonio complessivo del ‘cliente’ (184). Queste brevi notazioni introducono la questione della prevenzione: un’efficace lotta all’usura presuppone che la forte domanda di credito venga evasa dal sistema legale e, quindi, sottratta a quello illegale. Rispetto alle recenti proposte di riforma, che contemplano l’istituzione di un fondo di solidarietà per le vittime dell’usura, ben più ampi e ben più decisamente orientati verso la prevenzione del fenomeno devono essere gli interventi a sostegno dei potenziali soggetti passivi dell’usura. Viene qui in considerazione, da un lato, la selezione degli operatori del settore dell’intermediazione finanziaria. In proposito, nel Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. n. 385/93), sono previste sanzioni penali, tra l’altro, per l’esercizio abusivo di attività bancaria (art. 131) e finanziaria (art. 132). L’art. 133 dello stesso decreto incrimina addirittura il mero abuso di denominazione bancaria, pur prevedendo la sola sanzione della multa da due a venti milioni. Si tratta di fatti(183) Al riguardo v. VOLK, Strafrecht und Wirtschaftskriminalität, cit., p. 89. Sulla denuncia (e sulla propensione alla stessa) come fattore di « depenalizzazione di fatto », cfr. ad es. PALIERO, « Minima non curat preator », cit., p. 253 ss.; ID., Depenalizzazione, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 428. (184) COMMISSIONE MINISTERIALE PER IL PROGETTO DEL CODICE PENALE (Verbale n. 57): « MANZINI: Vi è una certa usura utile, anzi indispensabile a numerose persone, che non troverebbero fido che presso gli usurai (per l’esercizio del più minuto commercio, ecc.), mentre le banche, molte delle quali del resto esercitano l’usura non meno dei privati, non farebbero loro credito. Fa quindi riserve sull’inciso: in qualsiasi forma, perché esso verrebbe a configurare anche questa ipotesi, in cui invece si ravvisa una funzione utile, anzi indispensabile, perché senza di essa si avrebbe la rovina di tanta gente. In questi casi, del resto, non si tratta (propriamente) di usura, ma di una specie di società di fatto fra il piccolo esercente bisognoso e il capitalista che gli presta quel tanto che è indispensabile per il rinnovamento del suo esiguo capitale circolante ... » (citato da MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 880, nota 17).


— 1259 — specie poste, in ultima analisi, a tutela di interessi patrimoniali (185), ma che configurano condotte talmente lontane dall’aggressione al bene da poter risultare inoffensive o che, come nel caso dell’abuso di denominazione bancaria, in certi casi possono risultare in concreto fin dal principio inidonee a suscitare l’affidamento della clientela e, quindi, a cagionare atti di disposizione patrimoniale della « vittima », che, inoltre, possono anche non risultare, di fatto, pregiudizievoli per il patrimonio della stessa. Si tratta, in sostanza, rispetto al bene realmente protetto, di reati di pericolo presunto, fortemente sospetti sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà (artt. 2, 3, 13, 25 co. 2 e 3 Cost.), di offensività (artt. 13, 25 co. 2 e 3, 27 co. 3 Cost.) e di proporzione e ragionevolezza (art. 3 Cost.). Rispetto a tali rilievi, assume valore secondario, ma pur sempre degno di nota, la circostanza, alquanto singolare, che l’abusiva attività bancaria e finanziaria venga punita, oltre che con pena pecuniaria, con la reclusione da sei a quattro anni, una pena che può risultare in concreto superiore, ad esempio, a quella applicata per l’usura, per non parlare del fatto che, anche in astratto, l’esercizio abusivo delle suddette attività risulta punito con pena più elevata nel massimo rispetto alla truffa, con la rilevante differenza che quest’ultima è punibile a querela della persona offesa. L’ovvia obiezione della potenziale plurilesività delle condotte di abusivismo sarebbe certo plausibile, se non fosse che si tratta, appunto, di presunzioni di pericolo. Certamente, per prevenire i pregiudizi patrimoniali che sono senz’altro agevolati dal mancato assoggettamento alle norme regolanti l’attività bancaria e finanziaria e dall’assenza di controlli che caratterizzano l’intermediazione finanziaria abusiva, è imprescindibile la presenza di una normativa « preventiva », volta a selezionare ed assoggettare a controllo gli operatori del settore (186); la necessità dell’effettività del controllo e, d’altra parte, del rispetto dei principi costituzionali sopra ricordati impone il ricorso all’illecito ed alla sanzione amministrativa. Ma un’autentica prevenzione passa non attraverso gli interventi sanzionatori dei vari settori dell’ordinamento giuridico, bensì attraverso la predisposizione di strumenti che consentano di sopperire in maniera legale ai bisogni di cui le potenziali vittime dell’usura sono portatrici: il fatto che si tratti, qui, di un tipico reato « di sfruttamento », che si rea(185) Un’opinione contraria, volta ad inquadrare le fattispecie in questione come ipotesi di tutela della trasparenza, o dell’ordine pubblico economico, si baserebbe su un’inammissibile e pericolosa confusione tra bene e ratio: v. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, cit., 347 ss. (186) Sull’importanza della normativa « preventiva » nella materia dell’intermediazione bancaria e finanziaria, in funzione antiriciclaggio, v. MOCCIA, Impiego di capitali illeciti e riciclaggio: la risposta del sistema penale italiano, in questa Rivista, 1995, pp. 3 ss., 20 ss.


— 1260 — lizza attraverso la cooperazione del soggetto passivo (187), tradisce, dal punto di vista della prevenzione sociale, un bisogno di credito che il sistema legale non è in grado di soddisfare e rispetto al quale la criminalità finisce per offrire, come si è accennato, un ‘servizio’ sostitutivo, sia pure infinitamente più rischioso per il patrimonio della vittima. Uno stato sociale di diritto deve, allora, attivare strategie di prevenzione sociale miranti a creare le condizioni economiche ed organizzative per una più ampia possibilità di accesso al credito e per un’adeguata distribuzione dei rischi inerenti alla concessione del credito stesso. Ciò sembra poter avvenire, in parte, ed a titolo meramente esemplificativo, sia attraverso interventi a sostegno del sistema bancario (particolarmente fragile nelle zone più interessate dal fenomeno (188)), correlati ai già previsti controlli volti ad impedire infiltrazioni delle organizzazioni criminali (189); sia mediante la predisposizione, da parte delle organizzazioni di categoria più direttamente interessate, di meccanismi di compensazione dei rischi, finanziati da fondi appositi; sia, ove lo si ritenga praticabile, attraverso analoghi strumenti di compensazione dei rischi assunti dai vari operatori del settore bancario e finanziario; sia, infine, attraverso la creazione di « fondi di solidarietà » destinati non a pagare i debiti usurari, ma a consentire l’accesso al credito, in termini di pronto intervento, anche in presenza di condizioni che eccedano, entro certi limiti prestabiliti, gli standards di esposizione a rischio normalmente vigenti nell’attività di concessione del credito (190). Mentre il lavoro era in corso di stampa, è stata emanata la legge 7 marzo 1996, n. 108, recante « Disposizioni in materia di usura ». Le novità più significative riguardano da un lato la modifica della fattispecie penale di cui all’art. 644 c.p., con la definizione del tasso usurario e l’eliminazione, quasi completa, del requisito dello stato di bisogno, dall’altro l’istituzione di fondi di prevenzione e di solidarietà. Approvata sotto la spinta emozionale di un forte movimento di opinione, amplificato dai mezzi di informazione, la legge presenta, peraltro, aspetti positivi, che (187) MOCCIA, Tutela del patrimonio e principi costituzionali, p. 129 ss. (188) Cfr. Camorra e politica. Relazione della Commissione parlamentare antimafia, cit., p. 84 ss. (189) Evidenzia l’importanza del problema DESIDERIO, Banca d’Italia e lotta alla criminalità organizzata, in Banca, Borsa, titoli di credito, 1988, p. 204 ss., in particolare p. 210 ss. Sull’attuale, preoccupante situazione a riguardo, cfr. Camorra e politica, op. loc. ult. cit. Sulla disciplina dei controlli nell’intermediazione finanziaria, v. ad es. AZZALI, L’intermediazione finanziaria. Aspetti generali, in questa Rivista, 1993, p. 32 ss. (190) Rispetto all’individuazione di tali standards il punto di riferimento potrebbe essere dato dai criteri osservati dalla Banca d’Italia in sede di vigilanza del sistema bancario; a livello informativo, rimane indispensabile uno strumento centralizzato come quello costituito dalla c.d. Centrale dei rischi; in proposito, v. ad es. SPINELLI-GENTILE, Diritto bancario, 2a ed., Padova 1991, p. 136 ss.


— 1261 — concernono essenzialmente il tentativo di sperimentare un’azione di controllo non limitata all’intervento repressivo. Infatti, nella seconda parte della legge si trovano, agli artt. 12 e 13, disposizioni relative a modifiche in senso estensivo della disciplina relativa alle « elargizioni pecuniarie a ristoro di danni conseguenti a rifiuto opposto a richieste estorsive », di cui al d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 febbraio 1992, n. 172; inoltre, l’art. 14 istituisce un « Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura », destinato alla erogazione di mutui senza interesse a favore delle parti offese in un procedimento penale per usura, quando sia stato disposto il giudizio, e salva un’anticipazione del 50% in casi di urgenza, erogabile dopo sei mesi dalla presentazione della denunzia o dall’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato. Ancor più interessante è l’istituzione, prevista dall’art. 15, di un ulteriore fondo « per la prevenzione del fenomeno dell’usura » utilizzato per il 70% ai fini dell’erogazione di contributi a favore di appositi fondi speciali, costituiti dai consorzi o cooperative di garanzia collettiva fidi istituiti dalle associazioni di categoria imprenditoriali e dagli ordini professionali, e per il 30% a favore delle fondazioni ed associazioni riconosciute per la prevenzione del fenomeno dell’usura; il fondo è finalizzato all’incremento delle garanzie, al fine di agevolare l’accesso al credito. Degne di rilievo, sempre nella prospettiva di un intervento integrato, sono le previsioni di cui agli artt. 17 e 18, relative, rispettivamente, alla riabilitazione dopo un anno del debitore protestato ed alla sospensione della pubblicazione o alla cancellazione del protesto, con decreto del presidente del tribunale, quando esso sia stato elevato a seguito di presentazione per il pagamento di un titolo di credito da parte dell’imputato di usura rinviato a giudizio. Si tratta, nel complesso, di utili interventi a sostegno di realtà economiche esposte per la loro fragilità al fenomeno dell’usura, come traspare dall’apprezzabile previsione, all’art. 14, comma 5, secondo cui la domanda di concessione del mutuo erogato dal fondo di solidarietà dev’essere corredata « da un piano di investimento e utilizzo delle somme richieste che risponda alla finalità di reinserimento della vittima del delitto di usura nella economia legale ». Certo, proprio il fondo di solidarietà di cui all’art. 14 si presta — come si è accennato precedentemente in rapporto ad analoghe disposizioni contenute nelle proposte di riforma — a riserve relative ad un possibile ricorso strumentale e, soprattutto, all’effetto non proprio dissuasivo nei confronti del ricorso al credito illegale, rispetto al quale esso può costituire addirittura un’ulteriore garanzia per quei soggetti che, non essendo « meritevoli di credito », non potranno, nemmeno ora, godere delle erogazioni previste dal fondo per la prevenzione (come si deduce dall’art. 15, comma 2, let. a e comma 6), e dunque non avranno altra via d’uscita che ricorrere all’usuraio, potendo contare, stavolta, per l’appunto, su una successiva denunzia penale e sulla correlativa erogazione di solida-


— 1262 — rietà. Nel complesso, comunque, va sottolineata l’impostazione non meramente repressiva della legge; inoltre, sul piano dell’intervento sanzionatorio extrapenale, va segnalato l’art. 4 della stessa, che sostituisce il secondo comma dell’art. 1815 c.c., sancendo la nullità della clausola relativa alla pattuizione di interessi usurari e la conseguente esclusione di qualsiasi interesse. Si tratta di una modifica piuttosto timida della disciplina civilistica dell’usura, su cui si rinvia a quanto si è già eposto. Meno convincente è invece la parte della legge che riguarda più propriamente l’intervento penale contro l’usura, che risente di un’ottica scopertamente emergenziale. Peraltro, ciò non vale tanto per la riformulazione della fattispecie di cui all’art. 644 c.p., nella quale spicca l’eliminazione del requisito dello stato di bisogno e soprattutto la definizione dell’« interesse usurario ». Tale è l’interesse che supera di oltre la metà il tasso medio risultante da rilevazioni trimestrali del Ministro del tesoro, per operazioni considerate della stessa natura sulla base di una classificazione annuale effettuata anch’essa dal Ministro del Tesoro, oppure quello meramente sproporzionato a sfavore di chi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria (vedi il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della legge in esame). Questa seconda ipotesi contiene in sé — nella misura in cui il requisito dello stato di bisogno nella previgente fattispecie di usura riceveva già un’interpretazione estensiva (v. supra par. 2.2.1.) — ipotesi prima previste dagli artt. 644 e 644-bis c.p., cosicché quest’ultimo viene abrogato (v. art. 1 comma 2). Circa la fissazione del tasso d’interesse usurario, pur potendosi rinviare alle considerazioni esposte nel lavoro, si ritiene necessario rilevare come tale innovazione, per un verso, risolva solo parzialmente problemi di determinatezza ed effettività della tutela, per altro determini un ulteriore slittamento del nucleo dell’illiceità della condotta dalla concreta potenzialità offensiva alla mera trasgressione, sia pure qualificata dalla misura, di una disciplina extrapenale che si riduce sostanzialmente alla rilevazione statistica dei tassi di mercato. Quanto al primo aspetto, invero, la preoccupazione di sottrarre alla discrezionalità poco controllabile del giudice la determinazione del carattere usurario del tasso, assicurando nel contempo una tutela più pronta e quasi « automatica », sembra trovare nella nuova normativa una risposta adeguata; ma in tal modo, ad una clausola manifestamente indeterminata, come quella tautologica del carattere « usurario », se ne sostituisce una fondata su una tecnica legislativa anch’essa censurabile sotto il profilo della determinatezza, quella del rinvio ad un meccanismo tabellare estremamente mobile ed articolato. In effetti, nella misura in cui il tasso non eccessivamente sproporzionato venga determinato tenendo effettivamente conto della peculiarità del settore economico e della concretizzazione per


— 1263 — tipi del rischio, la soluzione del singolo caso sarà quasi altrettanto differenziata — e, quindi, di non facile riconoscibilità al momento della condotta — quanto in un sistema, come ad esempio quello tedesco, a cui si è accennato in precedenza, che si affida alla concretizzazione giurisprudenziale, ormai stabilizzatasi, dell’elemento tipico della « manifesta sproporzione ». L’utilità marginale in termini di incremento della determinazione è dunque minore di quanto non appaia a prima vista. A ciò si aggiunga che solo in una prospettiva limitata vi è una convergenza, al riguardo, tra determinatezza ed effettività; infatti, la fissazione di soglie rigide, con una corrispondente limitazione dell’individualizzazione del tasso in relazione al rischio concreto nel caso singolo, comporta la punibilità di operazioni anche di poco eccedenti il tasso-limite. E ciò significa, da un lato, che certi rischi poco superiori a quelli gestiti dal sistema finanziario e creditizio legale non saranno più coperti (teoricamente, ovvero, in misura direttamente proporzionale all’effettiva punizione delle condotte criminose); dall’altro, che il tasso medio vedrà limitata l’elasticità del rialzo, a causa della presenza di un limite legale massimo sanzionato penalmente. Entrambi i fattori potrebbero, evidentemente, determinare un’ulteriore limitazione dell’accesso al credito legale, creando un aumento, anziché una diminuzione della domanda di servizi illegali. L’effettività della singola applicazione della norma sembra andare, dunque, a scapito dell’effettività della tutela nel suo complesso, potendo determinare, forse, laddove un procedimento venga avviato, qualche condanna in più, ma al caro prezzo del pericolo di una complessiva espansione del fenomeno. La fissazione di una soglia numerica a parametri fissi, ma variabile nel tempo e per settori, rischia non solo di risultare controproducente, ma anche di determinare la punibilità di condotte in concreto inoffensive, anzi salutari per certe realtà di difficoltà economica o finanziaria escluse da un accesso al credito a costi più bassi. Qui s’inserisce il secondo aspetto di cui si è parlato poco prima, quello, cioè, della lenta trasformazione del reato di usura in reato di mera trasgressione. È, questa, una tendenza ben visibile — sia in questa legge che nella precedente introduzione della fattispecie di usura impropria (art. 644-bis c.p.) ora abrogata — anche nell’eliminazione, ovvero nel ridimensionamento (nell’ipotesi legata alla mera sproporzione anziché al superamento della soglia massima) del requisito dello stato di bisogno, con contestuale individuazione del nucleo della fattispecie nella sproporzione fra le prestazioni. La contrazione dei requisiti della condotta viene completata, in effetti, attraverso la sostituzione parziale, ad un elemento di sproporzione situazionale, riferito al caso concreto, di un rinvio normativo tipico dello schema della violazione dell’obbligo, legato al superamento in misura pre-


— 1264 — stabilita di un limite fissato in una disciplina extrapenale, pur rispecchiante, sostanzialmente, il mero andamento del mercato. Sia nell’ipotesi legata alla sproporzione, che in quella legata al superamento della soglia, la tipicità è sganciata dal pericolo concreto rispetto al patrimonio complessivo del soggetto passivo (sul punto, v. supra par. 2). Nel primo caso, non si richiede una sproporzione manifesta, ritenendosi tale evidentemente solo quella che configura l’ipotesi alternativa, con il risultato di comportare un’ulteriore anticipazione della tutela rispetto allo stesso pericolo presunto in virtù della violazione del limite massimo del tasso d’interesse; inoltre, il non nuovo requisito delle condizioni di difficoltà economica e finanziaria è, come si è già rilevato in precedenza (v. supra par. 3), slegato da una prospettiva di offensività ed idoneo soltanto a riproporre inconvenienti applicativi. Anche nel secondo caso la tipicità è sganciata dall’offesa e si realizza sulla mera base della violazione del tasso-limite. Ciò comporta che vi potranno essere sia casi di violazione dell’obbligo senza concreto pericolo, sia casi in cui, pur non essendo violato l’obbligo, la situazione concreta ha reso fatalmente pericolosa per l’altrui patrimonio l’operazione realizzata, a causa della situazione economica della vittima al momento del fatto. E qui non potrà applicarsi automaticamente l’ipotesi alternativa, quando la situazione della vittima al momento del fatto non sia di difficoltà economica o finanziaria, avendo essa semplicemente effettuato un investimento rischioso o sproporzionato all’entità del proprio patrimonio (191). Con riferimento a tale ultima possibilità, si consideri inoltre che, non essendosi provveduto ad eliminare la dipendenza dell’usurarietà ai sensi della legge civile dal configurarsi del reato (v. supra, par. 4), in casi del genere si rischierebbe di non garantire alla vittima alcuna tutela. In effetti, la tendenziale trasformazione del reato di usura da reato di condotta pericolosa a reato di violazione dell’obbligo, costituito quasi esclusivamente sul superamento del tasso-limite, comporta lo smarrimento del bene giuridico patrimoniale e la sua sostituzione con un « ordine pubblico tecnologico » (192) rinvenuto, qui, in ultima analisi, negli assetti di mercato, con un’ipertrofia della tutela ed un appiattimento della responsabilità penale, che può prescindere dalla graduazione e dalla stessa presenza dell’offesa. Ma, come si accennava, più che nella costruzione della fattispecie, è nella disciplina sanzionatoria e nell’inquietante corredo di ulteriori fattispecie a consumazione anticipata, circostanze aggravanti e misure di prevenzione che si rivela più compiutamente l’impianto emergenziale della (191) In tal senso, recentemente, con riferimento all’identico requisito previsto dall’art. 644-bis, PROSDOCIMI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Riv. trim. dir. pen. econ. 1995, 586. (192) SGUBBI, Il reato come rischio sociale, cit., p. 19.


— 1265 — legge in esme (193). In primo luogo, infatti, si verifica il rituale, simbolico aumento di pena, con l’elevazione del limite edittale massimo a sei anni di reclusione. Contestualmente, si eleva di un anno anche il limite edittale massimo previsto per l’abusiva attività finanziaria, di cui all’art. 132 comma 1 d.lgs. n. 385/1993 (v. art. 5 l. n. 108/1996). Tra le circostanze aggravanti, accanto ad alcune condivisibili, come quella relativa a chi agisce « nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o d’intermediazione finanziaria mobiliare » (v. il nuovo art. 644 comma 5 n. 1 c.p.) e a chi abbia « richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari » (art. 644 comma 5 n. 2 c.p.), nonché quella prevista per l’ipotesi in cui la vittima versi in stato di bisogno (art. 644 comma 5 n. 3 c.p.) — che, però, sembra legata ancora una volta più alla riprovevolezza dell’atteggiamento dell’usuraio che ad una prospettiva di concreta pericolosità (sul punto, v. supra, par. 2.2.) — ve ne sono altre alquanto problematiche. Così, in primo luogo, quella relativa all’ipotesi in cui la vittima svolga un’attività imprenditoriale, professionale o artigianale (art. 644 comma 5 n. 4 c.p.), che, dietro la rassicurante apparenza di una tutela rafforzata per categorie più a rischio, cela, nel suo trascurare la non meno preoccupante usura « familiare », una gestione neocorporativa della tutela penale (194), volta alla difesa sociale di determinate categorie, secondo una logica quanto meno di dialogo privilegiato, se non di scambio, ben presente anche nella scelta di una gestione di fondi preventivi non affidata al sistema creditizio, ad esempio attraverso un fondo interbancario di garanzia dei rischi, ma proprio, in misura prevalente, ad organizzazione di categoria, in modo non del tutto esente da rischi di gestione selettiva. Ma ancor più allarmante è l’aggravante applicabile a chi è sottoposto « alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale », « fino a tre anni dal momento in cui è cessata l’esecuzione » (art. 644 comma 5 n. 5 c.p.): in questo caso, il previsto aumento di pena da un terzo alla metà costituisce un chiaro esempio di diritto penale d’autore. Se a tutto ciò si aggiunge l’applicabilità di problematiche misure di prevenzione (v. art. 9 l. n. 108/1996), il quadro sembrerebbe completo. Ed invece, all’art. 16 della legge in esame troviamo sostanzialmente un’integrazione delle norme incriminatrici contenute nel recente d.lgs. n. 385/1993, con la previsione della pena da sei mesi a quattro anni di reclusione, oltre alla multa da quattro a venti milioni di lire, per « chiunque svolge l’attività di mediazione creditizia senza essere iscritto nell’albo indicato al comma 1 » (art. 16 comma 7), ed inoltre dell’arresto fino a due (193) Per un esame complessivo delle tendenze involutive della recente legislazione penale, cfr. MOCCIA, La perenne emergenza, Napoli, 1995, p. 27 ss., 69 ss. (194) Secondo un meccanismo sostanzialmente simile a quello denunciato da SGUBBI, op. ult. cit., p. 26 ss.


— 1266 — anni o dell’ammenda da quattro a venti milioni di lire, salva la punibilità per un più grave reato, per « chi, nell’esercizio di attività bancaria, di intermediazione finanziaria o di mediazione creditizia, indirizza una persona, per operazioni bancarie o finanziarie, a un soggetto non abilitato all’esercizio dell’attività bancaria o finanziaria » (art. 16 comma 9). L’anticipazione della tutela dell’usura si spinge, qui, fino all’inammissibile estremo di punire eventualmente con pena detentiva una condotta che, in virtù della menzionata clausola di riserva, non integra neppure gli estremi della complicità in rapporto all’esercizio abusivo dell’attività bancaria o finanziaria, costituendo un vero e proprio tentativo di partecipazione ad un reato, per di più, di pericolo presunto (a meno che non si voglia sostenere che l’esercizio abusivo dell’attività bancaria o finanziaria integri già la lesione di un bene, con una macroscopica confusione tra bene giuridico e ratio di tutela) (195). ANTONIO CAVALIERE Dottorando in Diritto penale Università « Federico II » di Napoli

(195) Sul tema, cfr. MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, cit., 343 ss.


LA PARTECIPAZIONE MEDIANTE OMISSIONE A REATO COMMISSIVO GENESI E SOLUZIONE DI UN EQUIVOCO

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Cenni sull’evoluzione del concetto di obbligo giuridico di impedire l’evento: dalla formelle Rechtspflichttheorie alla Garantenlehre. — 3. Evento non impedito e reato commesso da altri: a) critica della equiparazione proposta in dottrina. — 4. Segue: b) gli orientamenti giurisprudenziali e la necessità di ridimensionare la posizione di garanzia diretta all’impedimento del fatto illecito altrui. — 5. Segue: c) conferme sul piano comparatistico. — 6. Verifica dell’autonomia dogmatica della partecipazione mediante omissione a reato commissivo: a) il ruolo rivestito dall’omittente nell’ambito della fattispecie concorsuale. — 7. Segue: b) riqualificazione dogmatica delle tipologie delittuose tradizionalmente ricondotte nell’ambito della partecipazione negativa al reato. — 8. Prospettive de lege ferenda.

1. Considerazioni introduttive. — La fattispecie del concorso per omissione in reato commissivo (1), non prevista espressamente da alcuna disposizione penale, postula l’applicazione congiunta delle clausole generali di cui agli artt. 110 e 40 cpv. c.p. ad una determinata norma incriminatrice: come tale, essa rappresenta la più sofisticata e, al tempo stesso, insidiosa combinazione di forme di manifestazione del reato (2). (1) Sul concorso per omissione in reato commissivo vedi, in particolare, CARRARA, Grado nella forza fisica del delitto, in Opuscoli di diritto criminale, vol. I, 6a ed., 1909, 581; DELOGU, La partecipazione negativa al reato secondo il nuovo codice penale, in Annali di dir. proc. pen., 1935, 279 e ss.; FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, 179 e ss.; ID., Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Arch. pen., 1983, 56 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1989, 464 e ss.; FREUND, Erfolgsdelikt und Unterlassen, Köln, 1992, 235 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 141 e ss.; ID., in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del c.p., II, Milano, 1990, sub art. 110/79; NITZE, Die Bedeutung der Entsprechenklausel beim Begehen durch Unterlassen (par. 13 StGB), Berlin, 1989, 157 e ss.; NUVOLONE, L’omissione nel diritto penale italiano. Considerazioni generali introduttive, in Indice pen., 1982, 437; PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, ed. 1993, 549; VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica mediante omissione a reato proprio, in questa Rivista, 1967, 307 e ss. (2) Il concetto di « forme di manifestazione del reato » risale, come è noto, a BELING, Die Lehre vom Verbrechen, 1906, secondo il quale le forme di manifestazione del reato sarebbero nicht direkt tatbestandsmässig, sondern modifiziert tatbestandsmässig. Sul punto vedi M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957,


— 1268 — A tale più generale categoria dogmatica è opportuno conferire adeguato rilievo al momento di avviare questa indagine. Ad essa, per lungo tempo ritenuta equivoca o comunque sorpassata dalla dottrina più accreditata (3) è stata, per tradizione, riconosciuta una limitata funzione di collegamento tra una serie di istituti della parte generale, al di fuori dell’identificazione di un rilevante substrato sostanziale comune e di significative connessioni sistematiche (4). In realtà, solo una considerazione unitaria delle forme di manifestazione del reato può fornire la dimensione dell’ effettiva « pressione » del magistero penale sul cittadino, posto che esse costituiscono lo strumento di un complesso procedimento di criminalizzazione « in secondo grado » di condotte di per sé non integranti gli estremi di una fattispecie tipica. La combinazione delle singole norme di parte speciale con le clausole di parte generale ( artt. 40 cpv., 56, 110 c.p.) dà luogo ad un’espansione difficilmente controllabile dei confini dell’illecito penale già fissati dal legislatore nella norma incriminatrice di base; ed in tal modo si pongono le premesse di una potenziale collisione con i canoni di proporzione, di necessità e di frammentarietà del controllo penale (5). Il contrasto diventa poi eclatante nel momento in cui le varie clausole di parte generale si combinano reciprocamente, criminalizzando, per così dire, « in terzo grado » condotte che, confrontate con il modello tipico di partenza, potrebbero addirittura apparire penalmente lecite (6). Da qui la necessità di considerare con particolare cautela la vis 65, nota 43. Il presente lavoro aderisce alla tesi che ravvisa nell’art. 40 cpv. c.p. una forma di manifestazione del reato piuttosto che — come sostenuto dalla dottrina più recente (per tutti, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2a ed., Bologna, 1989, 434) — una tipologia delittuosa autonoma. Sulla configurazione dell’art. 40 cpv. come forma di manifestazione del reato vedi, da ultimo, DE VERO, Le forme di manifestazione del reato in una prospettiva di nuova codificazione penale, in AA.VV., Valore e principi della codificazione penale: le esperienze italiana, spagnola e francese a confronto, Padova, 1995, 195 ss. (3) Cfr., per tutti, M. GALLO, Lineamenti, cit., 64, che contesta l’apparente equivocità dell’espressione « forme di manifestazione del reato »: « presa alla lettera, infatti, essa lascerebbe supporre che esista una entità, che chiamiamo reato, suscettibile di presentarsi in forme diverse, pur restando sempre fedele ad un qualche cosa che ne costituisce, appunto, l’unità. Ora, se il reato è concepito come fatto giuridico astratto, è chiaro che è del tutto arbitrario ravvisare nella fattispecie di concorso incriminatrice ex novo una variante della fattispecie di parte speciale che attribuisce rilevanza penale ad un certo comportamento ». Il concetto di « forme di manifestazione del reato » è respinto, anche sul piano meramente lessicale, da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 491, mentre è ritenuto ancora attuale, sia pure in ossequio ad esigenze di economia scientifica, da PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 447. (4) Sul punto, più approfonditamente, DE VERO, Le forme di manifestazione del reato in una prospettiva di nuova codificazione penale, in AA.VV., cit. (5) DE VERO, Le forme di manifestazione, cit. (6) Tale rischio è stato acutamente sottolineato da FIANDACA, Il reato, cit., 181, a proposito della disinvolta applicazione della combinazione tra gli artt. 40 cpv. e 110 c.p. operata acriticamente da certa giurisprudenza.


— 1269 — espansiva dei margini originari di incriminazione riconosciuta di solito al concorso per omissione in reato commissivo. A tal fine la nostra indagine non può non partire da una rapida ricognizione del significato e della portata della clausola di equivalenza di cui all’art. 40 cpv., onde risalire alle ragioni di quel singolare atteggiamento ermeneutico che porta anche gli Autori più sensibili (7) a considerare l’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. c.p. rigorosamente circoscritto sul versante del reato monosoggettivo e suscettibile invece di indiscriminata espansione sul versante del concorso di persone (8). L’art. 40 cpv. del codice penale italiano, inserito nell’ambito della disciplina del rapporto di causalità materiale, nasce sulla scia della formelle Rechtspflichttheorie (9) di matrice liberalgarantista (10), al fine di agganciare ad un dato formale giuridicamente rilevante l’obbligo di impedire l’evento. Il capoverso dell’art. 40 « prevede e regola un caso particolare di omissione: quello in cui l’omissione consiste nel non impedire un evento che direttamente è legato ad altra causa » (11). Per le sue caratteristiche strutturali, la norma in esame è stata sempre considerata dalla dottrina come clausola di equivalenza tra commissione e mancato impedimento dell’evento lesivo, idonea come tale a costituire la tipologia del reato commissivo mediante omissione (12). (7) Favorevoli all’estensione della portata dell’art. 40 cpv. c.p. nell’ambito del concorso di persone sono, ad es., GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 141 e ss.; ID., in ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico, cit., II, sub art. 110/79; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 549; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2a ed., 1995, sub art. 40/46; VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica, cit., 310. Contra FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, cit., 176 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 464. Sul punto vedi più approfonditamente infra, par. 3. (8) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 439; ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/46. (9) FIANDACA, Il reato, cit, 25 e ss. (10) Sul punto, più approfonditamente, infra, par. 2. (11) Così il Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli on. Alfredo Rocco, 1929, 83 e ss. Il Progetto definisce il legame tra questa specie particolare di omissione e l’evento come « causalità giuridica ». Tuttavia « la denominazione non va intesa nel senso che al rapporto fisico o materiale di causalità, scolpito nella prima parte dell’art. 44 (ora art. 40), venga a sostituirsi una finzione di causalità ex lege ». (12) Sul reato omissivo improprio vedi, tra gli altri, FIANDACA, Il reato, cit.; ID., Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, cit., 3 e ss.; ID., voce Omissione, in DigDP, 1994, 546 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit, 427 e ss.; FREUND, Erfolgsdelikt und Unterlassen, cit.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit.; JESCHECK, Lehrbuch des Strafrecht, Berlin, 1988, 540 e ss.; NITZE, Die Bedeutung der Entsprechenklausel, cit.; NUVOLONE, L’omissione nel diritto penale italiano, cit., 433; PALIERO, La causalità nell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in La causalità tra diritto e medicina (atti del convegno), a cura di F. Buzzi e P. Danesino, vol. I, Pavia, 1992, 102; ROMANO, Commentario sistematico, cit., sub art. 40/44; SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975; SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Milano,


— 1270 — La fattispecie di reato omissivo improprio, così generata, accusa tuttavia un deficit di legalità in rapporto, per un verso, al principio di tassatività, per l’insufficiente tipizzazione degli elementi costitutivi della clausola generale e, per altro verso, al principio di riserva di legge (13), potendo il c.d. obbligo giuridico di impedire l’evento derivare da una legge in senso materiale o addirittura da fonti non scritte, quali la consuetudine, la negotiorum gestio e l’agire pericoloso precedente (14). Sorge così la necessità di delimitare l’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. (15). Sul versante del reato monosoggettivo, si è cercato di circoscrivere entro i confini del rispetto del principio di legalità l’ambito di estensione della clausola di equivalenza tra azione ed omissione ancorando la responsabilità ex art. 40 cpv. c.p. ai reati di evento (16) e, più precisamente, ai reati causali puri (17): solo tali tipologie delittuose sono infatti strutturalmente suscettibili di essere convertite, ex art. 40 cpv. c.p., in reati commissivi mediante omissione, trattandosi di fattispecie in cui la pregnanza del disvalore di evento (18) è tale da rendere indifferenti le modalità di produzione del risultato lesivo. Inoltre, coerentemente con l’evoluzione storica del reato commissivo mediante omissione (che lega la sua nascita alla fattispecie di omicidio) (19), l’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. è stato in

1956; VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica, cit., 307; P. VIOLANTE, Considerazioni sull’art. 40 c.p., in Indice pen., 1983, 730; VOGEL, Norm und Pflicht bei den unechten Unterlassungsdelikten, Berlin, 1993. (13) ROMANO, Commentario, cit., sub art. 40/81. Contra SGUBBI, Responsabilità, cit, 69. (14) Per tutti, ROMANO, Commentario, cit., sub art. 40/56. (15) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 435 e ss.: « una indiscriminata applicazione, a tutte le fattispecie commissive, del principio dell’‘‘equivalenza’’, avrebbe come effetto di ampliare in maniera ‘‘ipertrofica’’ il sistema delle incriminazioni ». (16) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 437. Nello stesso senso ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/46. (17) La dottrina prevalente esclude che l’art. 40 cpv. possa applicarsi ai c.d. reati a forma vincolata. L’equivalenza posta dall’art. 40 cpv. è di natura causale: non sarà, di conseguenza, possibile legittimare — pena la violazione dei principi di tassatività e di frammentarietà — una equiparazione di ordine generale tra il « non impedire » un evento ed il cagionarlo con le modalità tipizzate esplicitamente dal legislatore. Sul punto ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/50; SGUBBI, Responsabilità penale, cit., 103. (18) Sul rapporto tra disvalore di evento e di azione vedi, da ultimo, MARINUCCIDOLCINI, Corso di diritto penale, I, 1995, 168. (19) Cfr. FIANDACA, Il reato, 1 e ss.; ID., Reati omissivi e responsabilità penale, cit., 3 e ss.; P. VIOLANTE, Considerazioni sull’art. 40 cpv., cit., 734: « storicamente e comparativamente l’obbligo di impedimento dell’evento è stato indirizzato a lesioni dell’integrità fisica individuale e dell’incolumità pubblica. In particolare, nei regimi liberal-democratici si è ritenuto che l’art. 40 cpv. implicasse notevoli restrizioni della libertà personale, il cui sacrificio potesse essere compensato solo dalla tutela di interessi più forti e più importanti ».


— 1271 — genere ristretto ai reati causali puri posti a tutela di beni di elevato rango, quali la vita e l’incolumità personale (20) o pubblica. Tale premessa costituisce indispensabile punto di partenza per la presente indagine, che sarà strutturata su due direttive distinte eppure convergenti: a) sul versante dell’art. 40 cpv., si procederà a verificare se sia realmente plausibile attribuire un diverso ambito di operatività alla clausola di equivalenza a seconda che venga in considerazione un reato monosoggettivo ovvero un reato (eventualmente) plurisoggettivo (21); b) sul versante dell’art. 110 c.p., invece, si vaglierà se — ed entro quali limiti — possa riconoscersi consistenza autonoma alla figura del concorso mediante omissione in reato commissivo. L’indagine sfocerà quindi nella verifica del ruolo rivestito dall’omittente all’interno della fattispecie concorsuale e nell’individuazione definitiva dei limiti della (eventuale) funzione estensiva della punibilità ricollegabile alla combinazione tra gli artt. 40 cpv. e 110 c.p. (22). 2. Cenni sull’evoluzione del concetto di obbligo giuridico di impedire l’evento: dalla formelle Rechtspflichttheorie alla Garantenlehre. — La struttura dell’art. 40 cpv. c.p. poggia su due elementi essenziali: la produzione di un evento e l’obbligo giuridico di impedirlo. La dottrina tradizionale, dando per scontato che il concetto di evento di cui all’art. 40 cpv. c.p. si riferisca — almeno nell’ipotesi di realizzazione in chiave monosoggettiva della fattispecie — ad una modificazione del mondo esterno fenomenicamente valutabile, ha prevalentemente concentrato la sua attenzione sul concetto di obbligo giuridico. Ciò è senza dubbio dovuto al fatto che questo secondo elemento si prestava come pochi ad essere manipolato sulla base di condizionamenti di ordine politico ed ideologico (23). Ne è prova l’evoluzione storica: si deve a Feuerbach la formulazione del principio secondo cui la punibilità dell’Unterlassungsverbrechen presuppone sempre un besonderer Rechtsgrund — esplicitamente ravvisato nella legge o nel contratto — in assenza del quale « non sarebbe configurabile un ob(20) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 437. Contra ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/53, secondo il quale la formula amplissima del capoverso dell’art. 40 c.p. « non consente restrizioni particolari a seconda del bene giuridico interessato ». (21) Vedi infra, par. 3. (22) Sul punto infra, parr. 6 e 7. (23) FIANDACA, Il reato, cit, 3 e ss. Il rischio di strumentalizzazioni ideologiche e politico-criminali della clausola di equivalenza è sempre valutato dall’Autore con particolare attenzione. Cfr., ad es., p. 8, laddove si definisce l’art. 40 cpv. come vera e propria « clausola in bianco, da estendere o restringere nella sua portata in funzione del soddisfacimento di esigenze di politica criminale avvertite episodicamente in relazione alle particolari contingenze del momento ».


— 1272 — bligo di attivarsi penalmente rilevante » (24). Siamo, ovviamente, ancora ben lontani dalla costruzione dogmatica della fattispecie omissiva impropria, destinata a nascere e a svilupparsi solo con l’avvento della concezione solidaristica dello Stato. Tuttavia già la dottrina contemporanea a Feuerbach si sforza di selezionare fonti di obblighi penalmente rilevanti al di là della legge e del contratto (25). Nasce in questo periodo il c.d. Ingerenz-Gedanke, cioè il principio che include tra le fonti degli obblighi di attivarsi penalmente rilevanti anche il mancato impedimento delle conseguenze dannose di una propria precedente azione pericolosa. Tale principio divenne ben presto terza fonte « classica » degli obblighi di impedire l’evento (26). Verso la metà del secolo scorso si sviluppa invece una nuova linea di tendenza, volta — almeno in origine — a risolvere il problema dogmatico senza scivolare in strumentalizzazioni ideologiche. È questa l’epoca delle kausale Lehren, volte alla ricerca di analogie strutturali tra azione ed omissione, ma non in grado di sottrarsi a valutazioni di tipo prettamente normativo (27). Si avvia così, quasi surrettiziamente, nella dottrina d’Oltralpe un processo di normativizzazione della causalità omissiva (28). Nel frattempo la dottrina italiana aveva non soltanto recepito le acquisizioni della formelle Rechtspflichttheorie, ma anche conservato e consolidato l’impostazione liberale ottocentesca. Ciò è dovuto « alla diversa influenza esercitata sul ceto giuridico dei due Paesi dall’avvento dello Stato totalitario », che ha fatto in modo che la nostra dottrina abbia « generalmente tenuto fermi certi legami culturali con la tradizione, quindi con la concezione liberale del diritto penale » (29). In Germania, invece, (24) FIANDACA, Il reato, cit., 5. Vedi anche SGUBBI, Responsabilità, cit., 21: l’elemento del besonderer Rechtsgrund sottolinea il carattere originariamente eccezionale della responsabilità per omesso impedimento dell’evento. Conf. ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/55, e GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 2. (25) FIANDACA, Il reato, cit., 10. La dottrina più sensibile comincia già a ravvisare la rilevanza penale di « rapporti giuridici speciali » produttivi di un « vincolo particolarmente stretto tra soggetti » (come il matrimonio e la parentela). È, in nuce, l’intuizione che — adeguatamente sviluppata — porterà alla Garantenlehre. (26) FIANDACA, Il reato, cit., 10: è evidente la non agevole riconducibilità — sottolineata anche da autori come Welzel — del c.d. Ingerenz-Gedanke a criteri legittimanti. (27) FIANDACA, Il reato, cit., 15 e ss. Va segnalata in questo contesto l’interessante posizione di Binding il quale, per spiegare l’operare del fare pericoloso precedente come condizione impeditrice dell’evento, perviene alla prima formulazione (ancora atecnica) dei concetti di « garante » e di « posizione di garanzia »: la situazione di affidamento provocata dal « garante » spiega l’operare della condotta precedente come impulso causale « mediato » al verificarsi dell’evento. (28) SGUBBI, Responsabilità, cit., 45. (29) Così FIANDACA, Il reato, cit., 26: non a caso, il periodo della massima espansione in Germania della formelle Rechtspflichttheorie coincide « col massimo consolidarsi, a livello tecnico e giuridico, di importanti aspetti del pensiero penale liberale ». Sul rapporto tra reato


— 1273 — l’avvento del nazionalsocialismo influenza il processo di Befreiung des Strafrechts vom zivilistischen Denken (30): si cerca, cioè, di selezionare su basi nuove gli obblighi giuridici di attivarsi rilevanti solo per il diritto penale. In questo clima politico-ideologico, certamente non immune da influenze eticizzanti, nasce la Garantenlehre, che trasforma le posizioni « speciali » di dovere facenti capo al garante in criteri generali di assimilazione, sul piano del Tatbestand, tra agire ed omettere (31). La Garantenstellung consiste in un vincolo di tutela tra un soggetto e un bene giuridico: esso nasce dall’incapacità del titolare del bene stesso (o del garante a titolo originario) di proteggerlo in maniera autonoma (32). Ciò presuppone che il garante sia in grado di impedire il verificarsi di eventi lesivi: sia, cioè, in grado di esercitare un potere di signoria che vada al di là della mera possibilità di impedire il verificarsi dell’evento (33), neutralizzando con il suo intervento le specifiche situazioni che aumentino l’esposizione a pericolo del bene protetto. La Garantenlehre è sopravvissuta fino ai giorni nostri, sganciandosi dalla matrice ideologica che ne ha condizionato la nascita, per l’esattezza dell’intuizione che la fonda: per la necessità, cioè, di individuare gli obblighi di attivarsi penalmente rilevanti sulla base di un criterio generale di selezione volto ad integrare le acquisizioni della formelle Rechtspflichttheorie. Dalla legge e dal contratto, infatti, possono nascere obblighi rilevanti anche per il diritto civile o per il diritto amministrativo. La precedente attività pericolosa, invece, per la sua ambiguità di fondo, mal si presta ad essere considerata fonte « formale » dell’obbligo giuridico di impedire l’evento. Ma il punctum dolens del concetto di Garantenstellung è commissivo mediante omissione e ideologia fascista vedi, approfonditamente, SGUBBI, Responsabilità, cit., p. 50, nota 26, il quale individua nel codice Rocco baluardi garantistici apparenti proprio perché rigorosamente formali: secondo l’Autore, nulla in realtà avrebbe potuto obiettarsi ad un giudice che avesse considerato la volontà del « duce » quale fonte di un obbligo giuridico rilevante ex art. 40 cpv. c.p. (30) FIANDACA, op. ult. cit., 28 e ss. (31) ID., op. ult. cit., 31: « seppure sorta nel clima del nazionalsocialismo, la Garantenlehre di Nagler... ha finito con l’influenzare la dottrina tedesca successiva fino ai nostri giorni. Nell’epoca in cui si colloca, essa rappresenta, forse, il migliore tentativo di superamento della formelle Rechtspflichttheorie, proprio perché cerca di attribuire un fondamento contenutistico (la posizione di garanzia) ai presupposti della responsabilità omissiva senza, peraltro, trascurare il rilievo dovuto alla specifica dimensione normativa del diritto penale ». Secondo SGUBBI, Responsabilità, cit., 53, grazie alla Garantenlehre « il problema dell’‘‘assimilazione’’ tra azione ed omissione viene ad essere un problema di integrazione della fattispecie incriminatrice ». (32) Cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit. 448. (33) FIANDACA, Il reato, 169 e ss. SGUBBI, Responsabilità, cit., 235, sottolinea come il potere di signoria dell’Hintermann, per essere rilevante, debba essere « qualificato »: circoscritto, cioè, all’impedimento « di tutti e soli quegli eventi naturalistici che possono provenire dalla fonte ‘‘gestita’’ ».


— 1274 — proprio quello di non riuscire a sfuggire a connotazioni eticizzanti (34) in assenza di criteri che, a loro volta, delimitino l’estensione del concetto di posizione di garanzia. Proprio per questo è necessario — in primo luogo — recuperare l’originario intento della concezione contenutistico-funzionale: quello, cioè, di integrare — e non di sostituire — l’indagine sulle fonti formali dell’obbligo di impedire l’evento (35). In secondo luogo, l’individuazione dei limiti della posizione di garanzia dovrà essere effettuata sulla base di referenti rigorosamente oggettivi, che riguarderanno: a) il potere di signoria del garante sulla fonte di pericolo; b) il rapporto tra la qualifica del garante ed il tipo di pericolo che egli è chiamato a neutralizzare; c) l’aumento dell’esposizione a pericolo del bene protetto conseguente alla concreta assunzione della posizione di garanzia: il garante crea infatti, nel titolare del bene, una specifica situazione di affidamento in grado di fondare un’eccezione al generale principio di autoresponsabilità vigente nel nostro ordinamento giuridico (36). Tali riferimenti, brevemente richiamati, serviranno nel quadro della nostra indagine sulla partecipazione negativa al reato a delimitare l’ambito di operatività della più ambigua posizione di garanzia (37): quella — di protezione o di controllo — volta ad impedire il fatto illecito altrui (38), veicolo primario delle ricorrenti tendenze dottrinali e giurisprudenziali alla indiscriminata estensione della compartecipazione mediante omissione al reato commissivo. 3. Evento non impedito e reato commesso da altri: a) critica della equiparazione proposta in dottrina. — Ricostruito — per brevi cenni — l’iter evolutivo del concetto di « obbligo giuridico di impedire l’evento » è ora necessario soffermarsi sul significato da attribuire al termine « evento » di cui all’art. 40 cpv. c.p. A questo proposito, abbiamo già (34) Sul punto, acutamente, SGUBBI, Responsabilità, cit., 236: le posizioni di garanzia hanno un contenuto « estremamente complesso ed eterogeneo; per giunta è sempre in agguato il pericolo che un’impronta eticizzante investa il fenomeno: ossia, il pericolo che il giudizio — anche penale — sulla condotta del garante finisca con lo staccarsi dal singolo fatto di trasgressione, dal singolo episodio di ‘‘mancato impedimento dell’evento’’ per giungere a coivolgere il comportamento del garante stesso nella sua globalità, alla luce di modelli irrazionali, soggettivizzati, incerti ». (35) ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/80: in assenza dell’integrazione reciproca, la teoria formale non evidenzia il contenuto materiale dell’obbligo giuridico, mentre la teoria funzionale corre il rischio di dimenticare la dimensione normativa della responsabilità ex art. 40 cpv. c.p. (36) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 451. (37) Sul punto, cfr. GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 327 e ss.; FIANDACA, Il reato, cit., 176 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 454; ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/64. (38) Vedi infra, par. 4.


— 1275 — messo in rilievo (39) come anche la migliore dottrina (40) giunga inopinatamente ad attribuire alla nozione di « evento » una valenza diversa a seconda che si esamini l’art. 40 cpv. c.p. sul versante del reato monosoggettivo ovvero sul versante del concorso di persone (41). Mentre, infatti, nell’ambito del reato monosoggettivo, pochi dubbi sussistono in merito all’applicabilità dell’art. 40 cpv. ai soli reati causali puri di evento, nell’ambito del concorso di persone la dottrina prevalente (42) e certa giurisprudenza (43) sogliono intendere per « evento » anche il reato commesso dal terzo, senza preoccuparsi di verificare se tale reato presenti o meno — a sua volta — nella sua struttura un evento in senso naturalistico. Si fonda in tal modo, sulla base di argomentazioni poco incisive, una responsabilità del garante a titolo di compartecipazione criminosa mediante omissione anche in relazione a reati di mera condotta. Un Autore in particolare (44) ritiene che l’applicabilità dell’art. 40 cpv. ai reati di mera condotta realizzati in regime di concorso sia « pienamente coerente con la struttura della fattispecie concorsuale delineata dall’art. 110 c.p., imperniata sulla c.d. ‘‘tipicizzazione causale’’ ». A legittimare ulteriormente l’estensione delle ipotesi di partecipazione omissiva anche a reati privi di evento in senso naturalistico militerebbero inoltre particolari esigenze di tutela, non identificabili a priori. Ma l’argomento decisivo, in favore della legittimità dell’estensione delle ipotesi di partecipazione negativa al reato, sarebbe in realtà fornito da una norma di legge, l’art. 138 c.p.m.p. (45), a tenore del quale « ferma in ogni altro caso la disposizione del secondo comma dell’art. 40 del codice penale » è punito « il militare che per timore di un pericolo o altro inescusabile motivo non usa ogni mezzo possibile per impedire l’esecuzione di alcuno dei reati (39) Cfr. supra, par. 1. (40) Per tutti, ROMANO, Commentario, I, cit., sub art. 40/46. L’Autore circoscrive l’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. c.p. ai reati di evento. Ma subito dopo aggiunge che « talvolta questo evento non impedito è dato dalla realizzazione di un fatto criminoso da parte di un terzo, e la norma funge allora da criterio di determinazione del concorso in una manifestazione plurisoggettiva ». I limiti di operatività dell’art. 40 cpv. c.p. non varrebbero più, cioè, nel caso in cui esso si combini con l’art. 110 c.p., laddove già il criterio della tipizzazione causale rende di per sé elastici i confini della punibilità. (41) L’incongruenza è stata più volte sottolineata da FIANDACA, Il reato, cit., 181; cfr. anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 464 e ss. (42) Vedi, in particolare, GRASSO, Il reato, cit., 141 e ss.; ID., in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 110/79; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit, 549; ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/46; VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica, cit., 307 e ss. (43) Cfr., ad es, Cass., sez. II, 2 aprile 1960, in Riv. pen., 1961, II, 260; Cass., sez. III, 18 giugno 1965, in Cass. pen. Mass. ann., 1966, 251. (44) GRASSO, Il reato, cit., 140 ss. (45) GRASSO, Il reato, cit, 140; cfr. anche ID., in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 110/79.


— 1276 — contro la fedeltà o la difesa militare, o di rivolta o di ammutinamento, che si commette in sua presenza ». Il riferimento all’art. 40 cpv. c.p. « non avrebbe alcun senso se quest’ultima norma non disciplinasse la partecipazione omissiva al reato commesso da altri » (46). Ora, riservandoci di esaminare in altra sede se realmente — ed entro quali limiti — l’art. 40 cpv. c.p. sia pienamente compatibile col modello della tipizzazione causale delle condotte concorsuali di cui all’art. 110 c.p. (47), alcune considerazioni sulle argomentazioni summenzionate sollecitano immediata attenzione. Bisogna, in primo luogo, rilevare che l’affermazione per cui particolari esigenze di tutela possono legittimare l’estensione delle ipotesi di partecipazione omissiva anche a reati privi di evento in senso naturalistico si pone in rotta di collisione con il fondamentale principio di frammentarietà della tutela penale dei beni giuridici (48): il giudice non può — se non entro i limiti determinati dal legislatore — ritenere punibile o non punibile una condotta in relazione a peculiari esigenze di tutela emergenti in un dato momento storico, soprattutto se nessun dato normativo giustifica l’estensione dei confini della punibilità. Ed è singolare che la sensibilità nei confronti del principio di frammentarietà si attenui proprio quando viene in considerazione un caso di applicazione « cumulativa » di forme di manifestazione del reato, laddove cioè — secondo quanto osservato in apertura (49) — sarebbe al contrario raccomandabile un’interpretazione restrittiva, piuttosto che estensiva delle clausole incriminatrici di parte generale. Né si può affermare che sia l’art. 138 c.p.m.p. a legittimare l’operatività dell’art. 40 cpv. c.p. anche in relazione a fattispecie concorsuali prive di evento in senso naturalistico. Anzi, ad una più attenta lettura della norma in esame si giunge alla conclusione opposta. Ciò per ben tre ordini di ragioni: a) l’art. 138 c.p.m.p., contenendo una tipizzazione espressa delle omissioni punibili, configura un distinto reato omissivo proprio (50), come conferma l’autonomia delle previsioni di pena ivi racchiuse rispetto ai limiti edittali dei reati di riferimento finale. La tematica della partecipazione negativa al reato è invece afferente alla categoria generale del reato commissivo mediante omissione che, almeno nel nostro ordinamento giu(46) GRASSO, Il reato, cit., 140. (47) Vedi infra, par. 6. (48) Per un’efficace sintesi del principio di frammentarietà vedi, di recente, FIORE, Diritto penale. Parte generale, 1993, 8. (49) Si rimanda supra, par. 1. (50) Si aderisce, come è evidente, al criterio distintivo tra reato omissivo proprio e improprio che valorizza non la presenza o l’assenza dell’evento ma la tipicizzazione in sede penale della condotta omissiva.


— 1277 — ridico, partecipa della stessa pena edittale della fattispecie-base. Stante questa diversità di piani, può una precisa e circoscritta fattispecie incriminatrice di parte speciale, quale l’art. 138 c.p.m.p., legittimare l’estensione indiscriminata della clausola generale ex art. 40 cpv. c.p.? b) L’art. 138 c.p.m.p., in virtù della clausola di riserva espressa in esso contenuta, fa salva l’operatività dell’art. 40 cpv. c.p. in ogni altro caso che non sia quello previsto dalla norma contenente il richiamo. La clausola di riserva di cui all’art. 138 c.p.m.p. delimita cioè l’ambito di applicazione della norma in cui è contenuta ai soli casi in cui non ricorrano gli estremi del secondo comma dell’art. 40 c.p. In questa prospettiva non possiamo non constatare che l’art. 138 c.p.m.p. è innanzitutto norma speciale rispetto alla disposizione generale di cui all’art. 40 cpv. c.p., della quale viene indirettamente prospettata la soccombenza nell’ipotesi di convergenza sul medesimo caso. Ma, al tempo stesso, l’inciso per cui l’operatività del secondo comma dell’art. 40 c.p. è ferma in ogni altro caso induce a ritenere che l’art. 138 c.p.m.p. non pregiudica in alcun modo i margini di applicabilità dell’art. 40 cpv. c.p. alle ipotesi da esso non previste, margini che dovranno essere distintamente ed autonomamente accertati sulla base delle esigenze interpretative prospettate di per sé dall’art. 40 cpv. Come tale, l’art. 138 c.p.m.p. non può costituire il fondamento di un’estensione generalizzata delle ipotesi di compartecipazione criminosa mediante omissione a reati di mera condotta. c) In queste condizioni, l’art. 138 c.p.m.p. non ha più valore, come prova dell’esistenza di una clausola generale di responsabilità per omesso impedimento dell’evento-reato, di quanto non ne abbiano — per richiamare una problematica per certi aspetti analoga — le singole fattispecie di agevolazione colposa rispetto all’ammissibiltà di un generale concorso colposo nel fatto doloso altrui (51). A ben guardare, la preoccupazione di rinvenire un fondamento normativo estrinseco all’estensione del concetto di evento rilevante ai sensi di una compartecipazione criminosa mediante omissione nasconde la consapevolezza di non poter procedere ad una così ardita operazione in assenza di una disposizione che la legittimi esplicitamente nel contesto proprio dell’art. 40 cpv. (52). Escluso quindi che l’art. 138 c.p.m.p. possa fondare la legittimità (51) Cfr. COGNETTA, La cooperazione nel delitto colposo, in questa Rivista, 1980, 82; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 375. Sull’agevolazione colposa come forma assolutamente anomala di concorso di persone nel reato, vedi SPASARI, voce Agevolazione colposa, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 895 e ss. (52) Lo stesso GRASSO, Il reato, cit., 142, riconosce la necessità di delimitare l’area dei reati suscettibili di realizzazione concorsuale mediante una condotta omissiva, sia pure attraverso « una più precisa individuazione delle posizioni di garanzia penalmente rilevanti ». Conf. ID., in ROMANO-GRASSO, Commentario, cit., II, sub art. 110/80. PAGLIARO,


— 1278 — della partecipazione negativa a reati privi di evento in senso naturalistico, integrando addirittura il contesto normativo proprio dell’art. 40 cpv. c.p., occorre ribadire che nessun dato positivo suffraga l’estensione dell’area di operatività dell’art. 40 cpv. nell’ambito del concorso di persone, nel quale il modello della tipizzazione causale consente già — di per sé — un’estensione potenzialmente vastissima delle condotte punibili, anche se meramente accessorie o preparatorie o persino non necessarie (53). Se l’art. 40 cpv. disciplina il c.d. equivalente normativo della causalità tra omissione ed evento in senso naturalistico, non c’è ragione di ritenere che tale regola possa essere arbitrariamente dilatata fino a far coincidere l’evento non impedito con un fatto illecito altrui comunque strutturato. Anzi: è la necessaria presenza di un evento in senso naturalistico nell’economia dell’art. 40 cpv. c.p. a delimitare l’operatività dell’art. 110 c.p., quando questa clausola generale entra in rapporto con la prima. Nell’ambito del concorso di persone, infatti, il modello della tipizzazione causale, accolto dal legislatore del ’30, ha posto alla dottrina più sensibile (54) il problema degli esatti termini di individuazione del contributo causale del concorrente. In particolare, ci si è chiesti quale debba essere il secondo termine del rapporto di causalità: la condotta del concorrente deve incidere sulla causazione dell’evento o può — più semplicemente — limitarsi ad accedere all’altrui condotta criminosa, acquistando rilevanza causale solo « mediata » (55)? Ora, nell’ambito della partecipazione negativa al reato, il problema del secondo termine di rilevanza del rapporto di causalità tra la condotta del partecipe ed il fatto di reato dovrebbe ritenersi già risolto in partenza: esso sarà rappresentato dall’evento (costitutivo di reato causale puro) non impedito di cui all’art. 40 cpv., appunto perché, essendo in questione il problema generale della rilevanza causale di un’omissione non tipizzata come tale, è a questa seconda norma che ci si deve imprescindibilmente richiamare, prima ed indipendentemente dalle eventuali applicazioni in materia di concorso di persone (56). Principi, cit., 549, pone invece delle restrizioni all’operatività della partecipazione negativa al reato sul piano dell’elemento soggettivo, escludendo la rilevanza del dolo eventuale. (53) PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, l952, 41 e ss. (54) VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, 1358 e ss. Sul problema dell’individuazione del contributo causale del concorrente, vedi anche AMATO, Sul contributo causale del concorrente nel reato, in Cass. pen., 1985, 2219 e ss.; CALAMANTI, Rilevanza e diversificazione del rapporto causale nel concorso di persone nel reato, in Riv. pen., 1991, 679; DONINI, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in questa Rivista, 1984, 175 e ss.; GIULIANI-BALESTRINO, L’equivalenza non causale tra le condotte dei concorrenti nel reato, in questa Rivista, 1985, 650. (55) Cfr. VIGNALE, Ai confini della tipicità, cit., 1362, la quale sottolinea come la maggior parte della dottrina escluda che la condotta di partecipazione possa essere tipizzata sulla base di un nesso eziologico con l’evento inteso in senso naturalistico. (56) Per una definitiva conferma, operata dall’angolo visuale dell’art. 110, vedi infra, parr. 6 e 7.


— 1279 — Se così è, rinunciare in sede di compartecipazione negativa al reato alla necessaria presenza di un evento in senso naturalistico nel fatto illecito altrui, per giungere ad identificare la nozione di evento con quella di reato tout court, equivale ad aggiungere arbitrariamente un terzo comma all’art. 40 c.p., in tutto e per tutto analogo al terzo comma dell’art. 41 c.p., che così reciti: « le disposizioni precedenti si applicano anche quando l’evento non impedito consiste nel fatto illecito altrui ». Ma — così procedendo — si opererebbe una vera e propria applicazione analogica in malam partem dell’art. 40 cpv. c.p. (57): si equiparerebbe cioè l’evento in senso naturalistico, costitutivo di un distinto fatto illecito altrui, con l’evento quale sinonimo dell’intero fatto illecito altrui, eventualmente strutturato quale reato di mera condotta. Le conseguenze nocive di tale tacita ed aberrante impostazione possono facilmente essere illustrate se solo si procede ad una sommaria verifica degli orientamenti giurisprudenziali in materia di partecipazione negativa al reato. 4. Segue: b) gli orientamenti giurisprudenziali e la necessità di ridimensionare la posizione di garanzia diretta all’impedimento del fatto illecito altrui. — Le applicazioni giurisprudenziali dell’art. 40 cpv. in rapporto all’art. 110 c.p. si caratterizzano per la loro disorganicità e per la persistente ed acritica adesione ai postulati della formelle Rechtspflichttheorie (58). Possiamo anzi affermare come l’analisi della giurisprudenza in materia di concorso per omissione riveli già, ad una prima lettura, una grave lacuna: non viene mai affrontato in modo esplicito « il problema dell’assimilazione dell’omettere all’agire in presenza di fattispecie prive di evento in senso naturalistico » (59), con pericolose conseguenze sul piano dell’accertamento della responsabilità individuale. Per questa via — come è stato sottolineato dalla migliore dottrina (60) — si corre il rischio di « utilizzare l’istituto del concorso proprio per sottoporre a pena comportamenti non impeditivi, i quali risulterebbero penalmente leciti ». Sarà opportuno, anche in questo caso, seguire l’evoluzione storica degli orientamenti in esame. La giurisprudenza più remota risente ancora del persistente retaggio della concezione liberale del diritto penale, nel cui (57) Vedi, in proposito, RINALDI, L’analogia e l’interpretazione estensiva nell’applicazione della legge penale, in questa Rivista, 1994, 198: l’equiparazione di comportamenti puramente negativi all’agire causale, sia in assenza di uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento, sia nell’ipotesi in cui il reato sia descritto dal legislatore in termini esplicitamente commissivi, fa supporre che nel caso di specie « si sia fatto uso del procedimento analogico in malam partem piuttosto che della regola generale di cui all’art. 40 2o comma ». (58) FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, cit., 195 e ss.; GRASSO, Il reato, cit., 332. (59) FIANDACA, Il reato, cit., 181. (60) ID., op. cit., 181. Vedi anche supra, nota 6.


— 1280 — ambito — come abbiamo già più volte avuto modo di sottolineare (61) — la responsabilità per omesso impedimento dell’evento ha carattere eccezionale e può essere giustificata solo in considerazione del rango del bene giuridico tutelato (62). Anche nelle sue decisioni più rigorose (63), la S.C. appare comunque rispettosa della formulazione testuale di cui all’art. 40 cpv. c.p., preoccupandosi di applicare la combinazione tra art. 40 cpv. e art. 110 c.p. solo in relazione a reati causali puri di evento e soltanto in presenza di un ben definito obbligo giuridico di attivarsi discendente da norme di legge. In tempi più recenti, invece, a parte significative eccezioni (64), l’ambito di operatività della partecipazione negativa al reato è stato disinvoltamente esteso a reati di mera condotta e senza una adeguata indagine sulla consistenza dell’obbligo giuridico di impedire il fatto illecito di terzi. È stato, ad esempio, ritenuto colpevole di concorso in violenza privata un carabiniere che, trovandosi presente alla perpetrazione del reato, nulla abbia fatto per impedirlo, « pur avendo l’obbligo giuridico di farlo per la sua qualità di carabiniere, considerato sempre in servizio benché fosse in licenza » (65). O, ancora, è stato considerato partecipe per omissione nel delitto di furto l’agente di polizia giudiziaria che, « sia di concerto col ladro, ma anche senza tale concerto, sorprendendo il ladro medesimo men(61) Cfr. supra, par. 2. (62) Particolarmente significativa risulta, ad es., Cass., sez. I, 1 dicembre 1932, in questa Rivista, 1934, 765 e ss., che non ritiene invocabile l’art. 40 cpv. c.p. « per il mancato impedimento da parte del figlio dell’uccisione del genitore, poiché nel nostro diritto positivo non esiste un corrispondente obbligo giuridico ». (63) Il riferimento è alla ben nota Cass., sez. I, 1 febbraio 1935, in Giust. pen., 1937, II, 932, per la quale è conclamata « la responsabilità del padre che, avendo assistito al convegno familiare in cui fu decisa l’uccisione del figlio, nulla fece per impedire il triste evento ». In tale ipotesi sussistono tutti gli elementi della compartecipazione negativa al reato: un reato causale puro di evento posto a tutela del bene indisponibile vita e l’obbligo giuridico gravante sui genitori di proteggere l’incolumità dei figli minorenni. La S.C. precisa, in proposito, che « gli obblighi del genitore relativamente alla prole sono nella legge positiva sanciti in norme penali ed in norme extrapenali. A questa seconda fonte costituita dal codice civile va ricondotto l’obbligo per i genitori di provvedere all’incolumità dei figli, presupposto codesto degli altri obblighi formalmente sanciti da detto codice di provvedere alla custodia, al mantenimento e all’educazione della prole ». (64) Cfr. Cass., sez. III, 20 maggio 1963, in Riv. pen., 1963, II, 741, la quale esclude che l’omissione di sorveglianza di una minore che si dia al meretricio determini la responsabilità penale della madre ai sensi dell’art. 40 cpv., poiché « l’applicazione di detto principio potrebbe condurre a conseguenze aberranti ». Contra ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/64, per il quale « sembra difficile negare che anche la libertà sessuale rientri nell’ambito di protezione dei genitori che esercitano la potestà sulla minore di anni sedici ». Tuttavia l’Autore comprende nell’ambito del controllo sulla libertà sessuale anche il sindacato sulla moralità sessuale, col rischio — peraltro avvertito — di sovrapporre valutazioni di tipo etico a criteri selettivi dell’obbligo di attivarsi rilevanti esclusivamente sotto il profilo giuridico-penale. (65) Cass., sez. I, 5 maggio 1950, in Giust. pen., 1950, I, 872.


— 1281 — tre sta compiendo l’azione criminosa, permette che questa sia compiuta » (66). In particolare, con riferimento alla responsabilità degli appartenenti alle forze dell’ordine, la giurisprudenza ha affermato che sussiste concorso nel delitto « nel caso dell’agente od ufficiale di polizia giudiziaria che, di concerto o non con i colpevoli, assistendo alla commissione di un reato, non impedisce che questo sia compiuto » (67). Ora, prima di verificare se i casi in esame rispondano o meno a definite tipologie delittuose (68), diventa fondamentale chiarire quale sia l’esatta estensione della più insidiosa posizione di garanzia: quella volta ad impedire il fatto illecito altrui. Solo grazie a questa operazione ermeneutica riusciremo infatti a capire come la giurisprudenza abbia ricompreso nell’ambito del concorso per omissione fattispecie che, in realtà, ben poco con esso avevano in comune. Bisogna anzitutto ribadire che la responsabilità per il mancato impedimento del fatto illecito altrui non può non avere carattere eccezionale già in considerazione dei principi generali in materia di Garantenstellung (69): se il garante dispone di un potere di signoria sul decorso causale ed è quindi in grado di impedire attivandosi il verificarsi dell’evento, ciò normalmente non si verifica quando causa dell’evento è l’azione di un altro soggetto. La condotta umana, infatti, si svolge di regola al di fuori del potere di controllo di una persona diversa dall’agente: ne è prova il principio di affidamento, limite generale alla responsabilità colposa per il fatto illecito altrui. È possibile affermare che l’Hintermann sia concretamente in grado di impedire il fatto illecito di terzi solo nel caso in cui — per particolari circostanze specificamente rilevanti — l’aggressore sia nella sfera di controllo del garante (70). Tale regola è stata — come abbiamo visto — sistematicamente disat(66) Cass., sez. II, 2 aprile 1960, in Riv. pen., 1961, II, 260. (67) Cass., sez. III, 18 giugno 1965, in Cass. pen. Mass. ann., 1966, 251, relativa alla fattispecie di un ufficiale di polizia giudiziaria (da considerarsi, secondo la S.C., sempre in servizio sulla base delle norme istituzionali del corpo di appartenenza) che, essendo a conoscenza del proposito di alcuni suoi amici di congiungersi con una prostituta su una pubblica spiaggia, non impedisce il compimento dei suddetti atti osceni, pur non partecipandovi direttamente. (68) Sul punto infra, par. 7. (69) FIANDACA, Il reato, cit., 176. Degna di nota è poi l’interessante posizione di NITZE, Die Bedeutung, cit., 159 e ss., secondo il quale per la complicità mediante omissione non può valere nient’altro che ciò che vale per la responsabilità omissiva in generale: il nesso della valutazione può cioè essere solo un evento che l’agente è obbligato ad evitare. Se il garante non è in grado di evitare l’evento lesivo del bene giuridico, non sussiste alcun obbligo di azione: non si può, insomma, pretendere dal garante che egli ostacoli semplicemente l’azione di un altro, perché ciò attesterebbe unicamente la buona volontà dell’Hintermann. (70) Basti pensare, ad esempio, alla posizione — di protezione o di controllo — dei genitori nei confronti dei figli minori. Cfr FIANDACA, Il reato, cit., 176: al di fuori di queste ipotesi, « l’affermazione della responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento non


— 1282 — tesa dalla giurisprudenza che ha affermato la generale responsabilità ex artt. 40 cpv. e 110 c.p. degli appartenenti alle forze dell’ordine. L’obbligo di impedire la perpetrazione di reati discenderebbe, per tali soggetti, dalle norme istituzionali dei vari corpi di appartenenza (71). Ma la dottrina è apertamente in polemica con questo orientamento: è fortemente dubbio, infatti, che l’obbligo di impedire la perpetrazione di reati, gravante sugli agenti della forza pubblica come dovere d’ufficio, possa per ciò solo integrare una posizione di controllo rilevante ai fini di una generalizzata responsabilità ex art. 40 cpv. Le opinioni in proposito giungono ad unanime soluzione negativa, pur con diverse argomentazioni (72). Si può comunque affermare che la Garantenstellung presuppone — a detta della dottrina prevalente — una specifica individuazione del bene-interesse tutelato. Di conseguenza, essa non può essere estesa fino a ricomprendere il mancato impedimento di tutti i possibili reati realizzabili dai consociati, pena la creazione di vere e proprie ipotesi di responsabilità oggettiva a carico degli appartenenti alle forze dell’ordine. Questo principio va , ovviamente, incontro a delle eccezioni solo nel momento in cui il destinatario della protezione o del controllo operati dal garante viene ad essere individuato sulla base dei referenti oggettivi di rilevanza della Garantenstellung cui abbiamo già fatto cenno nel corso della nostra indagine (73). Sarà cioè necessario verificare in concreto se il garante abbia effettivamente il popuò non andare incontro a seri ostacoli, e comunque dev’essere condizionata ad una verifica particolarmente attenta delle circostanze concrete del singolo caso ». (71) FIANDACA, Il reato, cit., 195 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo, cit., 331 e ss.; ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/70. (72) FIANDACA, Il reato, cit., 195 e ss., esclude una responsabilità a titolo di partecipazione negativa al reato per gli appartenenti alle forze dell’ordine sulla base dei principi generali fondanti la responsabilità per omesso impedimento dell’evento. Se cioè la Garantenstellung si costruisce sulla base di un potere di signoria sulle condizioni che producono il verificarsi dell’evento, si dovrà necessariamente escludere che gli appartenenti alle forze dell’ordine abbiano indiscriminatamente il potere-dovere di sorvegliare tutti i cittadini onde evitare la perpetrazione di tutti i possibili reati: i consociati « non sono individui irresponsabili, da tenere sotto controllo mediante la predisposizione di appositi garanti », tant’è che alle norme penali può attribuirsi efficacia deterrente solo se si ritiene che i relativi destinatari siano capaci di governare autoresponsabilmente la loro condotta. Per GRASSO, Il reato omissivo, cit., 331 e ss., invece, le posizioni di garanzia volte all’impedimento di reati (che — a detta dell’Autore — costituiscono un tertium genus, comprendendo sia posizioni di protezione che posizioni di controllo) possono anche non riguardare soggetti incapaci, poiché presuppongono semplicemente che il garante abbia il potere di impedire la perpetrazione di reati. Tuttavia, l’argomento decisivo che porta ad escludere la responsabilità ex artt. 40 cpv. e 110 c.p. degli appartenenti alle forze dell’ordine è che « manca quell’effettivo rapporto di protezione tra un soggetto e un interesse altrui (anche se individuato indirettamente) che costituisce l’elemento caratterizzante una Garantenstellung ». Su posizioni analoghe si attesta ROMANO, Commentario, cit., I, sub art. 40/71, per il quale l’obbligo di protezione esige comunque una determinazione delle singole persone tutelate. (73) Vedi supra, par. 2.


— 1283 — tere di impedire il verificarsi dell’evento lesivo. Se tale potere sussiste, non vi è però ragione di chiamare in causa l’art. 110 c.p., poiché l’Hintermann potrebbe già autonomamente rispondere ex art. 40 cpv. per aver violato l’obbligo giuridico di attivarsi (74). Occorrerà poi accertare se la qualifica formale del garante lo obblighi ad impedire la perpetrazione di attività illecite ed in quali termini. Basti pensare, ad esempio, agli artt. 55 e 380 c.p.p., i quali fissano gli obblighi gravanti su ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Essi, ai sensi dell’art. 55 c.p.p., devono « anche di propria iniziativa prendere notizia dei reati » ed « impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori », mentre hanno l’obbligo di procedere all’arresto in flagranza nei casi tassativamente indicati dall’art. 380 c.p.p. Di conseguenza, al di fuori dei casi di cui all’art. 380 c.p.p., è difficile parlare di un autentico obbligo giuridico di attivarsi rilevante ex art. 40 cpv. Avremo, al più, un’omissione dolosa dei doveri funzionali autonomamente rilevante. In ogni caso, appare fortemente dubbio ritenere l’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile ex art. 40 cpv. per il mancato impedimento del fatto illecito di terzi nel momento in cui egli non si trova nell’esercizio delle sue funzioni (75). Sarà infine opportuno stabilire se, in seguito alla concreta assunzione della posizione di garanzia, si sia verificato un aumento dell’esposizione a pericolo del bene protetto tale da giustificare una deroga al principio di autoresponsabilità. È questa la posizione in cui si trovano, ad esempio, gli agenti di scorta, titolari di una Garantenstellung in senso stretto nei confronti del singolo bene giuridico da proteggere. Le precisazioni sopra effettuate, in armonia con la dottrina più attenta, non debbono tuttavia far dimenticare che la c.d. posizione di garanzia diretta all’impedimento del fatto illecito altrui può avere ingresso nell’art. 40 cpv. nei limiti in cui il reato commesso da altri sia un reato causale puro di evento. Ma, ribadita questa doverosa condizione, affermare una responsabilità del garante a titolo di partecipazione negativa al reato è probabilmente fuori luogo, visto che i termini dell’omissione penalmente (74) Potrebbe infatti essere configurabile un’autonoma responsabilità monosoggettiva del garante per il mancato impedimento dell’evento, indipendentemente dall’indagine sulla fonte di pericolo che lo ha provocato. Anche in questo caso, comunque, diventa imprescindibile la presenza di un evento in senso naturalistico. In proposito, cfr. di recente NITZE, Die Bedeutung, cit., 159 e ss., che riporta due esempi di Kielwein: se un fulmine ovvero una condotta umana abbia appiccato fuoco ad una casa, se dei ragazzi di passaggio spingono un bambino in acqua o il bambino cade in acqua accidentalmente, non fa nessuna differenza ai fini della valutazione del contenuto di disvalore dell’omissione del garante, chiunque o qualsiasi cosa sia la causa dello stato di pericolo. Per questa via, una complicità mediante omissione sarebbe sempre esclusa, dovendosi parlare semmai di reità o, al più, di correità. Sul punto, più diffusamente, infra, par. 7. (75) Appare dunque aberrante la scelta operata da Cass., sez. I, 5 maggio 1950, cit., 872.


— 1284 — rilevante sono già autonomamente ricompresi nell’art. 40 cpv.: il ricorso all’art. 110 c.p. potrebbe cioè rivelarsi assolutamente superfluo e comunque si rafforza l’impressione che il richiamo « combinato » a tali due norme sia frutto di prese di posizione non sufficientemente meditate. Al momento, l’associazione tra art. 40 cpv. e art. 110 c.p. sembra poter rivendicare una semplice funzione di disciplina: se il garante è già ex art. 40 cpv. responsabile del mancato impedimento dell’evento costitutivo di reato, ove ricorrano anche gli estremi soggettivi del concorso egli potrà al più apparire come coautore rispetto al fatto illecito materialmente causato da terzi (76). Cominciano, per questa via, a profilarsi le prime fondate perplessità sulla reale consistenza di una funzione estensiva della punibilità propria della c.d. partecipazione negativa al reato (77). 5. Segue: c) conferme sul piano comparatistico. — Prima di proseguire l’indagine sul versante dell’art. 110 c.p., sarà estremamente interessante il raffronto tra l’art. 40 cpv. ed una norma che presenta parecchi punti di contatto con la nostra clausola di equivalenza tra azione ed omissione: il riferimento è, ovviamente, al par. 13 StGB (78), vera novità della riforma della parte generale del codice penale tedesco. Questa breve digressione comparatistica potrà — come vedremo — offrire alcuni spunti di riflessione sulla funzione estensiva della punibilità ricollegabile agli artt. 40 cpv. e 110 c.p. Il par. 13 StGB rappresenta il primo tentativo del legislatore d’Oltralpe di superare la radicata convinzione dei giuristi tedeschi relativa all’opportunità di non fornire definizioni legislative su concetti di carattere generale, poiché esse produrrebbero l’effetto negativo di cristallizzare l’evoluzione dogmatica e interpretativa in materia (79). Nella sua prima parte, la norma in esame è assolutamente speculare al nostro art. 40 cpv.: (76) Sul punto vedi infra, parr. 6 e 7. (77) Si rimanda a quanto trattato più approfonditamente infra, par. 7. (78) Per comodità del lettore, si riporta il testo del par. 13 StGB. « Commissione mediante omissione. 1. Chi omette di impedire un evento previsto dalla fattispecie di una norma penale è punibile secondo questa norma solo se è giuridicamente obbligato ad impedire il verificarsi dell’evento e se l’omissione corrisponde alla realizzazione di una fattispecie legale mediante una condotta attiva. / 2. La pena può essere diminuita ai sensi del par. 49 comma I ». Per una prima ricognizione della fattispecie in esame e dei fondamentali riferimenti dottrinali, si rinvia a STREE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommentar, 24a ed., München, 1991, pag. 186 e ss. Sul par. 13 StGB vedi, in particolare, GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., 27 e ss.; NITZE, Die Bedeutung, cit., 15 e ss.; NUVOLONE, L’omissione nel diritto penale italiano, cit., 437 e ss.; JESCHECK, Probleme des unechten Unterlassungsdelikts in rechtsvergleichender Sicht, in 140 Jahre Goltdammer’s Archiv für Strafrecht, Heidelberg, 1993, 125 e ss. (79) Manca, come è ben noto, nella parte generale dello StGB l’espressa definizione di una parte consistente dei concetti dogmatici fondamentali (quali, ad es., quelli di causa-


— 1285 — essa stabilisce infatti che « chi omette di impedire un evento previsto dalla fattispecie di una norma penale è punibile secondo questa norma solo se è giuridicamente obbligato ad impedire il verificarsi dell’evento ». In base ad un raffronto di carattere meramente linguistico, il legislatore italiano del ’30 sembra avere adottato una formulazione testuale più incisiva ed icastica. In realtà invece, sul piano propriamente comparatistico, il I comma del par. 13 fornisce una connotazione dell’evento non impedito meno generica e meno equivoca rispetto all’art. 40 cpv.: il riferimento ad un « evento previsto dalla fattispecie penale » mette nella dovuta luce che deve trattarsi dell’evento-elemento costitutivo e non dell’evento come equivalente dell’intero fatto tipico. Tuttavia, il par. 13 StGB richiede, ai fini della punibilità dell’omittente, un requisito ulteriore, sulla cui esatta portata è ancor oggi vivo il dibattito nella dottrina d’Oltralpe (80). L’omissione, cioè, deve corrispondere « alla realizzazione della fattispecie legale mediante una condotta attiva ». La c.d. Gleichwertigkeitsklausel è di incerta interpretazione, tanto che la dottrina ne ha spesso sottolineato la vacuità, la pericolosità o — quanto meno — l’inutilità (81). La clausola di corrispondenza suscita già ictu oculi delle perplessità, « perché l’omissione da parte del garante era sempre stata considerata « equivalente » o « corrispondente » alla realizzazione della fattispecie con un’azione e, come tale, sottoposta a pena. Sembrerebbe invece, in base alla formulazione letterale del del par. 13, che l’omissione dell’impedimento di un evento da parte del garante possa non sempre equivalere in antigiuridicità alla sua causazione » (82). La dottrina oggi prevalente in Germania (83) ha ricostruito il significato autentico della Gleichwertigkeitsklausel partendo da un’interpretazione sistematica del par. 13 StGB. Esso si riferisce certamente — in maniera in tutto e per tutto analoga al nostro art. 40 cpv. — ai reati di evento. D’altra parte, il fatto che l’omissione debba corrispondere alla realizzazione di una fattispecie legale mediante una condotta attiva non può certamente riferirsi ai reati causali puri di evento, ma a quei reati in cui l’evento debba realizzarsi a seguito di una condotta tipizzata dal legislatore nelle sue modalità esecutive. La clausola di corrispondenza, cioè, consentirebbe di trasformare in reati commissivi mediante omissione i c.d. verhaltensgebundene Delikte (84). Ma anche questa interpretazione prelità, di dolo e di colpa). Sul punto, cfr. FORNASARI, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1993, 10. (80) Per tutti, GRASSO, Il reato, cit., 27 e ss., e, più di recente, JESCHECK, Probleme, cit., 125 e ss. (81) GRASSO, Il reato, cit., 29. (82) ID., op. cit., 28. (83) JESCHECK, Probleme, cit., 125 e ss. (84) Cfr. GRASSO, Il reato, cit., 28. JESCHECK, Probleme, cit., 125, rileva come la clau-


— 1286 — sta il fianco a significative critiche (85): essa appare infatti poco rispettosa del principio di sufficiente determinatezza della fattispecie (86), perché rimangono vaghi i criteri alla cui stregua debbano essere ricercati gli elementi atti a determinare l’equivalenza (87). Ciò dà vita ad ulteriori incertezze interpretative, perché si corre il rischio di affidare al « sentimento giuridico » del giudice la risoluzione del caso concreto (88): ancora una volta la valutazione giuridica finirebbe col coincidere con giudizi di caratsola di corrispondenza sia presente anche nel par. 2 del codice penale austriaco e nell’art. 10 dell’avanprogetto svizzero. (85) Per JESCHECK, Probleme, cit., 125, la Gleichwertigkeitsklausel si presta pur sempre ad incertezze interpretative, poiché la questione dell’equivalenza tra omissione e modalità di condotta della fattispecie commissiva può, in primo luogo, trovare risposta solo separatamente per le singole fattispecie di reato e, in secondo luogo, ingenera il rischio di confondere il contenuto di disvalore dell’omissione con la valutazione dei momenti di colpevolezza. (86) GRASSO, Il reato, cit., 161 e ss; JESCHECK, Probleme, cit., 125 e ss. (87) Vedi significativamente GRASSO, op. ult. cit., 162: « non soltanto... non sono offerti criteri sicuri per giudicare della corrispondenza dell’ipotesi omissiva con quella commissiva; in realtà questa interpretazione significa che per le fattispecie in cui è descritto ‘‘in quale maniera’’ l’evento deve prodursi, l’omittente viene punito anche quando questa determinata ‘‘forma’’ manchi, ma vi sia qualcosa di equivalente ». In questo modo, si « rimedia » alle modalità di comportamento richieste tassativamente dalla norma attraverso qualcosa di corrispondente: e si finisce col creare un pericoloso meccanismo di costruzione delle fattispecie penali « i cui contorni sfuggono a qualunque predeterminazione ». (88) Così GRASSO, Il reato, cit., 55 e, da ultimo, JESCHECK, Probleme, cit., 125 e ss. L’Autore tedesco, in particolare, nella prospettiva de iure condendo di una regolamentazione perfezionata del reato omissivo improprio, riformula il par. 13 StGB nei seguenti termini: « Chi omette di evitare un evento che appartiene alla fattispecie di una legge penale mediante un’azione a lui possibile è punibile, in base a questa legge, soltanto se egli, in virtù di un obbligo giuridico che lo riguarda personalmente, deve garantire che l’evento non si verifichi e se nelle fattispecie di reato di evento a forma vincolata l’omissione sia equivalente all’azione nel contenuto di disvalore. / L’obbligo giuridico di evitare l’evento può basarsi sul fatto che o il bene giuridico protetto è affidato alla tutela dell’agente o l’evento risale nel suo ambito d’influenza ad un pericolo prossimo che l’agente doveva sorvegliare ». La riformulazione in esame si propone due obiettivi ambiziosi: quello di definire in maniera inequivoca la funzione estensiva della punibilità ricollegabile al par. 13 StGB e quello — non meno importante — di tipizzare in due categorie fondamentali le fonti degli obblighi di protezione e di controllo facenti capo al garante. Con ciò Jescheck tenta di dare una soluzione ai numerosi ed eterogenei tentativi della dottrina di formalizzare in una norma di legge le fonti degli obblighi giuridici di attivarsi. Sul punto, approfonditamente, GRASSO, op. cit., 32 e ss. In questa sede, meritano un cenno il tentativo effettuato dai redattori dell’Alternativ-Entwurf nel 1966 e la proposta avanzata da Grünwald. L’AE intendeva regolamentare i reati omissivi impropri attraverso una norma di parte generale che contenesse in maniera dettagliata i casi in cui l’omesso impedimento di un evento dev’essere equiparato alla causazione con un fare positivo. Il par. 12 AE disponeva che « chi omette di impedire un evento appartenente alla fattispecie, sebbene egli: / 1) sulla base di un obbligo giuridico, legale o liberamente assunto, debba assicurare, nei confronti della collettività o del danneggiato, che l’evento non si verifichi, ovvero / abbia provocato l’imminente pericolo della verificazione dell’evento, / è punibile, ai sensi della relativa fattispecie, solo quando l’antigiuridicità del suo comportamento, secondo le circostanze del fatto, corrisponde all’antigiuridicità del comportamento commis-


— 1287 — tere etico, ed il reato commissivo mediante omissione diventa lo strumento per dare ingresso nel diritto penale al disvalore dell’atteggiamento interiore (89). Anche in ambiente italiano hanno trovato eco le perplessità sull’esatta interpretazione della Gleichwertigkeitsklausel, dando luogo ad un isolato tentativo (90) di definire la portata del par. 13 sulla base di un diverso angolo prospettico. La clausola di equivalenza — secondo questa tesi — non avrebbe significato pregnante sul versante del reato monosoggettivo, ma proprio su quello del concorso di persone: il par. 13, cioè, consentirebbe « di legittimare un’interpretazione per cui deve sempre escludersi una forma di partecipazione all’altrui reato di azione, allorché l’omissione consista in un comportamento atipico rispetto alla fattispecie legale » (91). Per questa via, non sarebbe ad esempio configurabile il concorso in furto da parte dell’agente di polizia nel caso in cui questi fosse stato al corrente del proposito criminoso e non sia intervenuto, mentre sussisterebbe compartecipazione negativa al reato di omicidio qualora una guardia del corpo armata si sia dolosamente allontanata — senza intervenire — dalla persona protetta, lasciando che questa venisse uccisa. In questi casi, l’omissione della guardia del corpo realizza la fattispecie tipica dell’omicidio, perché il mancato impedimento è equiparabile nel suo disvalore ad un comportamento causale attivo. Questa rilettura della Gleichwertigkeitsklausel subordina, in sostanza, la rilevanza dell’omissione — a livello di partecipazione criminosa — al fondamentale presupposto che il reato in cui si concorre sia un reato causale puro. Si ribadisce così la necessità di rispettare i limiti strutturali di operatività del par. 13 sia nell’ambito del reato monosoggettivo che, a maggior ragione, nell’ambito del concorso eventuale di persone nel reato. La tesi in esame, come è evidente, assume particolare importanza ai nostri fini poiché sottolinea — sivo ». La disciplina prospettata dal par. 12 AE venne criticata dalla dottrina prevalente, perché avrebbe ingenerato il triplice rischio di sollevare nuovi e non irrilevanti problemi interpretativi, di escludere ipotesi già consolidate di Garantenpflicht e di ostacolare l’ulteriore sviluppo della materia. In un contesto del genere, la posizione di Grünwald è certamente singolare: egli rimprovera alla dottrina dominante di aver trattato il problema dell’omesso impedimento dell’evento come una questione di parte generale, mentre le posizioni di garanzia hanno un senso solo se riferite a determinati reati. Pertanto l’unica regolamentazione soddisfacente degli unechte Unterlassungsdelikte andrebbe ricercata nelle singole fattispecie — o gruppi di fattispecie — di parte speciale. Tale soluzione, a ben vedere, è l’unica a rispettare i principi di tassatività e di riserva di legge. Non a caso la scelta della tipizzazione normativa degli specifici obblighi di attivarsi viene auspicata anche in Italia dalla dottrina più recente. Sul punto GRÜNWALD, Zur gesetzlichen regelung der unechten Unterlassungsdelikte, in ZStW, 70 (1958), 424. (89) GRASSO, Il reato, cit., 55. (90) NUVOLONE, L’omissione, cit., 437. (91) ID., op. ult. cit., 437.


— 1288 — come già sostenuto poc’anzi in merito all’art. 40 cpv. c.p. (92) — l’impossibilità di fornire interpretazioni ambivalenti del significato e della portata di clausole estensive della punibilità quali l’art. 40 cpv. c.p. o il par. 13 StGB. La rilettura della clausola di equivalenza qui riportata appare senza dubbio più rispettosa del principio di sufficiente determinatezza della fattispecie e conferma l’imprescindibilità di un evento-elemento costitutivo nel reato non impedito dall’Hintermann, ma non sembra cogliere appieno il significato letterale della Gleichwertigkeitsqklausel: se l’omissione deve corrispondere alla realizzazione di una fattispecie legale mediante una condotta attiva, è in realtà assai probabile che il legislatore tedesco abbia inteso equiparare il disvalore dell’omissione al disvalore di condotte caratterizzate da ben precise modalità esecutive. Sembra più esatto ritenere — con la dottrina dominante — che la Gleichwertigkeitsklausel estenda espressamente l’ambito di operatività del par. 13 ai verhaltensgebundene Delikte, anche se — come abbiamo visto — tale estensione finisce col suscitare giustificate riserve. Dobbiamo dedurre allora che il par. 13 StGB ha — già a livello monosoggettivo — un ambito di operatività più esteso rispetto a quello del nostro art. 40 cpv. c.p. (93). Eppure, la conclusione che se ne può trarre sul piano comparatistico resta in linea con quella desumibile, in modo certo più diretto, dalla tesi contraria sopra riportata: se il legislatore tedesco ha avvertito l’esigenza di segnalare esplicitamente — appunto attraverso la clausola di equivalenza — l’applicabilità del par. 13 ai reati di evento a forma vincolata, è plausibile sostenere che l’art. 40 cpv. del nostro codice penale, in assenza di analoga clausola, vada interpretato come rigorosamente ristretto ai reati causali puri. Ribadito dunque con il conforto di dati comparatistici quanto argomentato già nella prima fase dell’indagine (94), occorre ora accertare se l’incriminazione di chi contribuisce attaverso un comportamento omissivo alla realizzazione dell’altrui illecito penale di mera condotta o comunque (anche se di evento) a forma vincolata non possa in qualche modo trovare fondamento nella inesauribile vis espansiva dei margini della tipicità certamente ricollegabile, di per sé, all’art. 110 c.p. Così come non manca in dottrina chi ritiene, per richiamare una problematica analoga, che l’art. 113 c.p. valga ad incriminare, nell’ipotesi della cooperazione, condotte che potrebbero non considerarsi colpose in prospettiva monosoggettiva (95), allo stesso modo appare opportuno non escludere a priori che la (92) Cfr. quanto ampiamente ribadito supra, par. 3. (93) Vedi supra, nota 17. (94) Cfr. supra, par. 3. (95) Per tutti, SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988, 168 e ss.


— 1289 — clausola generale ex art. 110 possa valere ad incriminare omissioni che non avrebbero rilievo giuridico-penale ai sensi dell’art. 40 cpv. È necessario insomma appurare definitivamente se la tipologia della partecipazione negativa al reato, intesa nel senso autentico di una nuova tipicità altrimenti carente, abbia una reale base normativa ed una legittima autonomia dogmatica o non sia piuttosto il frutto di una scorretta ed ibrida applicazione congiunta di norme incriminatrici di secondo grado, quali sono già di per sé le forme di manifestazione del reato riconducibili rispettivamente all’art. 40 cpv. ed all’art. 110 c.p. Per poter procedere in tal senso, diventa anzitutto fondamentale chiarire quale sia il ruolo rivestito dal garante nell’ambito della fattispecie concorsuale riferita ad un reato causale puro, quando cioè i requisiti dell’art. 40 cpv. sono integrati in partenza, indipendentemente da una supposta funzione estensiva esercitata per il tramite dell’art. 110 c.p. 6. Verifica dell’autonomia dogmatica della partecipazione mediante omissione a reato commissivo: a) il ruolo rivestito dall’omittente nell’ambito della fattispecie concorsuale. — In un ordinamento penale — quale quello tedesco — caratterizzato dall’ormai consolidata acquisizione del modello della tipizzazione differenziata dei singoli apporti criminosi, il problema del ruolo svolto dall’omittente nell’ambito della fattispecie concorsuale ha tradizionalmente rivestito notevole importanza, perché strettamente collegato con la graduazione di responsabilità tra i compartecipi. Il codice penale tedesco, già prima della riforma (96) distingueva nettamente, infatti, le varie forme di compartecipazione (97), individuando le figure della Täterschaft, dell’Anstiftung (98) e della Beihilfe (attuali parr. 25, 26 e 27 StGB): Täter e Anstifter sono puniti allo stesso modo, mentre la pena per il Gehilfe è determinata in base alla pena prevista per l’Autore, ma deve essere diminuita ai sensi del par. 49 comma I. Per tale ragione, la dottrina d’Oltralpe ha cercato di inquadrare il ruolo rivestito dall’omittente nell’ambito delle tipologie in atto definite dai parr. 25, 26 e 27 StGB. Una tesi più rigorosa (99) ha sostenuto l’impossibilità di distinguere il ruolo dell’omittente « autore » da quello dell’omit(96) La necessità di differenziare nel trattamento giuridico-penale le varie forme di partecipazione al reato è un postulato fondamentale dell’ordinamento penale tedesco già con riferimento alla originaria versione dello StGB. Vedi, per tutti, MEZGER, Diritto penale, trad. it. a cura di Mandalari, Padova, 1935, 429. (97) Solo nel settore delle Ordnungswidrigkeiten, in considerazione di esigenze di rapidità nelle decisioni, il legislatore tedesco ha rinunciato alla tipizzazione delle varie forme di partecipazione (par. 14 OWiG). (98) Ai sensi del par. 26 StGB, l’Anstifter è punito come autore. L’Anstifter è chi ha determinato dolosamente altri alla commissione dolosa di un fatto antigiuridico, facendo quindi sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente. (99) GRÜNWALD, Die Beteiligung durch Unterlassen, in GA, 1959, 115 e ss.; KAUF-


— 1290 — tente « complice ». Ciò sarebbe dovuto all’impossibilità concreta di graduare il contributo materiale di una non-azione. Ma, a ben vedere, la tesi in esame è rigorosa solo in apparenza, poiché oggi l’omittente può pur sempre beneficiare dell’attenuazione facoltativa di pena prevista dal II comma del par. 13 StGB. Una tesi più garantista (100) (nata non a caso prima dell’introduzione nella parte generale dello StGB del § 13 e della diminuzione facoltativa di pena in esso contenuta) ha invece affermato che il garante che si limiti a non impedire un reato riveste, in rapporto all’esecutore materiale, un ruolo senz’altro più vicino a quello del complice che a quello del coautore in senso stretto: il garante, con la sua omissione, aiuterebbe altri a compiere un fatto antigiuridico. In questi termini, la problematica in esame non può essere recepita dal sistema penale italiano. In primo luogo, infatti, il legislatore del ’30 ha, in tema di concorso criminoso, introdotto il principio della pari responsabilità dei concorrenti, pur consentendo, attraverso gli artt. 111, 112, 114 e 115 c.p., opportune graduazioni di responsabilità (spesso peraltro destinate a restare lettera morta nella prassi giurisprudenziale) (101). In secondo luogo, l’art. 40 cpv. c.p. stabilisce che « non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo ». Di conseguenza: se l’evento (in senso naturalistico) non impedito rientra a pieno titolo nella sfera di controllo del garante, egli è responsabile della causazione dell’evento come se ne fosse l’autore. Del resto, nel caso in cui volessimo considerare l’omittente come un semplice complice, ci troveremmo di fronte ad ulteriori complicazioni ed incertezze. Premesso infatti che il legislatore del ’30 ha introdotto il modello della tipizzazione causale delle condotte criminose, sarebbe necessario stabilire se il termine esatto della rilevanza causale dell’omissione debba essere l’evento o l’altrui condotta. Ora, se già suscita problemi la corretta definizione in tali termini della rilevanza causale del contributo atipico MANN Armin, Die Dogmatik der Unterlassungsdelikte, Göttingen, 1951, 295 e ss., citati da

FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 466 nota 89. (100) SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, AT, 1970, 556 e ss., citato da FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 466, nota 90. (101) VIGNALE, Ai confini della tipicità, cit., 1358 e ss. L’interessante tesi dell’Autrice mira ad individuare — sulla base di referenti normativi — criteri di tipizzazione « sussidiari » delle condotte concorsuali rispetto all’ineliminabile formula condizionalistica. Nell’ambito del concorso di persone, infatti, la teoria della condicio sine qua non appare eccessivamente limitata, perché incapace di determinare il contenuto tipico di tutte le condotte di partecipazione sostanzialmente meritevoli di pena, anche se non necessarie. Tale situazione non giustifica l’elaborazione di criteri di tipicità del tutto privi di un aggancio normativo: da qui la necessità di utilizzare gli artt. 112 n. 2 e 115 come criteri di determinazione del contenuto obiettivo degli atti di concorso non causali, ed il referente della c.d. « tipicità parziale » nei casi in cui la condotta concorsuale integri solo in parte gli estremi di una fattispecie incriminatrice di parte speciale.


— 1291 — (non necessario o meramente preparatorio) del concorrente attivo (102), a maggior ragione sarà perlomeno arduo — sotto il profilo del rispetto dovuto al principio di sufficiente determinatezza della fattispecie — definire la rilevanza causale di una non-azione che risulti atipica rispetto alla fattispecie commissiva di parte speciale. Per tal via si rischia di attuare una pericolosa estensione dei confini della punibilità, perché si rinuncia all’accertamento del collegamento causale tra omissione ed evento non impedito. Una corretta applicazione del c.d. equivalente normativo della causalità richiede per contro che sia l’evento lesivo connesso all’azione a risultare inscindibilmente collegato al mancato compimento dell’azione doverosa; ciò equivale a ribadire che il garante è autore o coautore, ma mai semplice complice. Se il concetto di « obbligo giuridico di impedire l’evento » nasce per colmare il deficit di tipicità dei reati commissivi mediante omissione, è quanto meno doveroso pensare che gli estremi dell’omissione penalmente rilevante debbano equivalere — ai fini della responsabilità penale — al compimento della fattispecie tipica prevista in chiave commissiva dalla norma incriminatrice di parte speciale. In questa prospettiva, il concorrente per omissione non può non rivestire il ruolo di coautore. Diversamente correremmo il rischio di incriminare omissioni assolutamente irrilevanti ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, violando il disposto dell’art. 40 cpv. c.p. L’equivalenza non può porsi tra l’azione ed un contributo omissivo meramente accessorio, pena il rischio di creare inaccettabili confusioni tra lecito ed illecito. A questo punto, acclarato che l’omittente è — e non può non essere correo nella realizzazione di un reato causale puro di evento, si rafforza il sospetto che la combinazione tra art. 40 cpv. e art. 110 c.p. abbia, in definitiva, una semplice funzione di disciplina piuttosto che di ulteriore incriminazione. Tale dubbio sarà — di seguito — risolto nella sede più opportuna (103). 7. Segue: b) riqualificazione dogmatica delle tipologie delittuose tradizionalmente ricondotte nell’ambito della partecipazione negativa al (102) Vedi, in proposito, VIGNALE, op. cit., 1373. È stridente il contrasto tra il modello della tipizzazione causale ed il principio di tassatività già sul piano della fattispecie plurisoggettiva commissiva: « l’art. 110, mentre svolge una funzione estensiva dell’ordinamento, rendendo perseguibili condotte che sarebbero atipiche ai sensi della fattispecie incriminatrice di parte speciale, non offre, di per sé, alcun criterio per individuare i limiti di questa estensione e non contiene, da sé solo, alcuna indicazione utile per definire il contenuto obiettivo dell’atto di concorso ». Di conseguenza « viene sostanzialmente rimessa ad una valutazione del caso concreto la determinazione dei confini che separano il lecito dall’illecito, la partecipazione criminosa dalla mera connivenza e dalla adesione morale al fatto ». (103) Infra, par. 7.


— 1292 — reato. — Giunti a questo punto dell’indagine, conviene richiamare brevemente i risultati già acquisiti, prima di procedere ad una definitiva verifica della consistenza della c.d. partecipazione negativa al reato commissivo: a) la responsabilità per omesso impedimento dell’evento non può prescindere dalla presenza di un evento in senso naturalistico neanche quando venga in considerazione una vicenda plurisoggettiva: l’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. c.p. non può essere arbitrariamente esteso ove il garante sia chiamato ad impedire il fatto illecito altrui; b) la responsabilità del garante per il fatto illecito altrui non può non avere carattere eccezionale, dovendo necessariamente limitarsi alle ipotesi in cui l’Hintermann abbia un effettivo potere di controllo sull’agente; c) nella compartecipazione mediante omissione al fatto illecito altrui il garante è sempre coautore, proprio perché siamo di fronte a reati di evento a forma libera . In una cornice così rigorosamente delineata, l’unico possibile spiraglio ad una funzione (ulteriormente) estensiva della punibilità provocata dalla interferenza tra l’art. 40 cpv. e l’art. 110 c.p. resta aperto sul versante dei reati di evento a forma vincolata. Tale ipotesi sembra ictu oculi essere avallata, sul piano del diritto comparato, proprio dal par. 13 StGB (104), la cui Gleichwertigkeitsklausel consente di estendere la responsabilità per omesso impedimento dell’evento ai c.d. verhaltensgebundene Delikte. Nell’ambito della dottrina italiana, invece, la tesi in esame sembrerebbe trovare implicita conferma nel riconoscimento di una limitata funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. in relazione ai reati colposi a forma vincolata (105). (104) Vedi supra, par. 5. (105) Come è ben noto, la disposizione che regola, nel nostro codice penale, la cooperazione nel delitto colposo nacque per risolvere la disputa sulla stessa ammissibilità di una compartecipazione criminosa nell’ambito del reato colposo (posta la tendenziale incompatibilità tra il carattere involontario della colpa ed il requisito del « previo accordo »). Ma subito ci si chiese se l’art. 113 fosse dotato di una semplice funzione di disciplina ovvero consentisse — analogamente a quanto accade con l’art. 110 per le condotte dolose — di incriminare forme di cooperazione che non si ponessero di per sé in contrasto con alcuna regola cautelare. Beninteso, attribuire una funzione incriminatrice all’art. 113 c.p. significherebbe rendere penalmente rilevanti comportamenti colposi solo in via « mediata » e — come tali — non punibili in assenza di una norma ad hoc. Quest’ultima conclusione sembra però incompatibile con i principi generali in materia di responsabilità colposa: il concetto di colpa ha carattere eminentemente normativo e per questo la violazione della regola cautelare rileva già sul piano della tipicità della condotta, prima ancora che sul versante dell’elemento psicologico. Di conseguenza, o il fatto negligente, imprudente o imperito si pone già ex se in contrasto con una fattispecie incriminatrice che lo contempli, oppure — dato il carattere eccezionale della responsabilità colposa — non è penalmente rilevante. Proprio tali argomenti inducono la dottrina più attenta ad escludere che l’art. 113 c.p. possa avere una funzione estensiva della punibilità in relazione ai reati causali puri di evento poiché, nella forma col-


— 1293 — Entrambe le argomentazioni, ad una analisi più approfondita, sono da respingere. In primo luogo, l’art. 40 cpv. del c.p. italiano non contiene alcun inciso paragonabile alla Gleichwertigkeitsklausel di cui al par. 13 StGB (106), tant’è che l’ambito di operatività della nostra clausola di equivalenza è stato per tradizione circoscritto ai soli reati causali puri di evento. Non possiamo poi in questa sede dimenticare le fondate critiche rivolte dalla dottrina (107) all’attuale formulazione della clausola di corrispondenza e dell’intero par. 13 StGB: la Gleichwertigkeitsklausel consente all’interprete di colmare un clamoroso deficit di tipicità quale quello nascente dall’equiparazione di una omissione alla commissione di un fatto caratterizzato da peculiari modalità esecutive. I criteri alla cui stregua tale equiparazione debba essere effettuata restano in definitiva affidati al potere discrezionale del giudice, con il conseguente rischio di applicazioni distorte del par. 13, fondate su semplici giudizi di valore privi di referenti normativi. Tale estensione è assolutamente improponibile sul versante dell’art. 40 cpv. del codice penale italiano per gli stessi limiti strutturali della clausola di equivalenza, la quale consente di convertire in forma omissiva solo quelle fattispecie incriminatrici in cui siano indifferenti le modalità di produzione dell’evento lesivo. In secondo luogo, l’ammissibilità di una funzione estensiva della punibilità limitata ai reati di evento a forma vincolata ricollegabile alla tipologia della compartecipazione omissiva a reato commissivo è da respingere per le stesse ragioni per cui è fortemente dubbia una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. in merito ai reati colposi caratterizzati da specifiche modalità di condotta (108). Questo meccanismo di estensione della tipicità suscita infatti fondate riserve sul piano politico-criminale, per il fatto di porsi in netto e stridente contrasto col principio di frammentarietà. La creazione legislativa di fattispecie (monosoggettive) a forma vincolata ha una sua ben precisa ragion d’essere: il legislatore non ha evidentemente inteso tutelare a oltranza determinati beni giuridici contro ogni possibile forma di offesa, bensì solo contro specifiche modalità di aggressione. Ritenere che, in prospettiva plurisoggettiva, l’omissione posa, essi presuppongono che la condotta si ponga direttamente in contrasto col dovere obiettivo di diligenza. Si potrebbe, viceversa, considerare plausibile una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. solo qualora la fattispecie colposa preveda un’offesa realizzata con specifiche modalità di comportamento, così da rendere penalmente rilevanti condotte di cooperazione che non integrino gli estremi del fatto previsto in maniera dettagliata dal legislatore. Per un’efficace sintesi dell’argomento cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 419 e ss. (106) Come già ribadito supra, par. 5. (107) GRASSO, Il reato, cit., 55; JESCHECK, Probleme, cit., 125 e ss. (108) FIANDACA-MUSCO, op. cit., 423 e, più approfonditamente, ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Arch. pen., 1983, 75 e ss.


— 1294 — possa equivalere all’azione non solo sul piano causale puro, ma altresì in funzione delle specifiche modalità comportamentali, richieste dalla norma-base, significa esaltare oltre ogni tollerabile limite la funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p.: piuttosto che funzione « estensiva », ad esso dovrebbe riconoscersi un’autentica funzione « eversiva » della originaria tipicità. Dai risultati dell’indagine fin qui acquisiti, può ricavarsi l’impressione che la tipologia della partecipazione negativa a reato commissivo abbia un ambito di operatività estremamente limitato, né più né meno che quello di per sé ascrivibile all’art. 40 cpv. nei termini dei reati causali puri. Ciò dipende essenzialmente da una corretta interpretazione della portata della clausola di equivalenza tra azione ed omissione: l’art. 40 cpv. c.p. non può — in assenza di una esplicita indicazione normativa — avere una estensione « rigida » ovvero « elastica » a seconda che venga in considerazione un reato monosoggettivo ovvero una fattispecie plurisoggettiva eventuale. Di conseguenza, il garante potrà incorrere in responsabilità penale per il mancato impedimento del fatto illecito altrui solo se tale fatto consista, a sua volta, nella realizzazione di un reato causale puro di evento posto a tutela di beni di rango elevato, quali la vita e l’incolumità individuale o pubblica e sempre che l’Hintermann abbia il potere di impedire il verificarsi dell’evento lesivo. Ad una siffatta lettura della partecipazione negativa al reato potrebbe obiettarsi che essa si risolve in una sorta di interpretatio abrogans della categoria del concorso mediante omissione. È pertanto opportuna una precisazione: non di interpretatio abrogans si tratta, ma dell’unica lettura possibile della « combinazione » tra l’art. 40 cpv. e l’art. 110. La « combinazione » tra le due norme risulta invero compatibile con il principio di legalità solo se si risolve in un’applicazione distinta e successiva delle due clausole generali alle singole fattispecie di parte speciale, in modo che siano osservati rigorosamente i rispettivi limiti di operatività. Dottrina e giurisprudenza, applicando insieme gli artt. 40 cpv. e 110 c.p., hanno spesso realizzato per contro un’inaccettabile « interferenza » tra le due clausole di parte generale: ne hanno cioè promosso un’applicazione cumulativa e contemporanea attraverso la quale elementi dell’una hanno subito un indiscriminato processo di espansione per il fatto di venire a contatto con elementi dell’altra (109). (109) Sorge l’esigenza di distinguere, sia pure per brevi cenni e riservandoci di approfondire l’argomento in altra sede più appropriata, la « combinazione » dalla vera e propria « interferenza » tra le clausole incriminatrici di parte generale. La « combinazione » conduce ad un’applicazione delle forme di manifestazione del reato tale che la fisionomia e l’ambito di operatività di ciascuna restano inalterate rispetto al caso in cui esse si presentino singolarmente. Ciò accade, ad esempio, nella fattispecie del concorso in delitto tentato o, ancora, nella tipologia del concorso in reato omissivo improprio, attraverso le quali si realizza


— 1295 — L’interferenza, tra l’altro, ad una più attenta considerazione degli effetti prodotti autonomamente dagli artt. 40 cpv. e 110 c.p., si rivela, oltre che illegittima, assolutamente inutile: le ipotesi di partecipazione negativa al reato potrebbero già essere riconducibili o all’art. 40 cpv. o all’art. 110 c.p., senza che l’una clausola debba chiamare in causa l’altra (110). La nostra indagine ha dimostrato come l’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. non debba variare a seconda che venga in considerazione l’ipotesi monosoggettiva ovvero un caso di compartecipazione. Di conseguenza, il garante è già autonomamente responsabile ex art. 40 cpv. se il bene giuridico che egli è chiamato a proteggere subisce una lesione, sia essa prodotta da fattori naturalistici ovvero dall’intervento di un terzo (111): la baby sitter che non interviene mentre il bambino soggetto alle sue cure affoga è sempre responsabile ex art. 40 cpv., sia che il bambino anneghi perché non sa nuotare, sia perché un individuo lo sta uccidendo. Viceversa, i termini per la definizione della responsabilità del garante potrebbero in ipotesi essere individuati nel solo art. 110. Potremmo cioè estendere al massimo la portata del modello di tipizzazione causale sotteso alla partecipazione in senso stretto: l’omissione (originariamente atipica) diverrebbe allora rilevante quale forma di partecipazione purché sia « causale », nel senso della condicio sine qua non ovvero della mera agevolazione, rispetto alla realizzazione del reato, anche al di fuori della clausola di equivalenza ed anche in assenza di un obbligo giuridico di attivarsi (112). In realtà, per valutare quali tipologie delittuose si celino effettivamente dietro lo schema della partecipazione negativa al reato, la nostra indagine deve licenziare i profili di causalità dell’omissione per spostarsi sul versante dell’elemento soggettivo e distinguere innanzitutto i casi in cui il garante abbia agito in concerto con i correi da quelli in cui non vi sia stato un processo di criminalizzazione in terzo grado non molto dissimile da quello prodotto dall’applicazione di una singola clausola estensiva della punibilità. L’« interferenza » tra le clausole di parte generale, con conseguente espansione incontrollata dei confini della punibilità, si fonda invece non sulla semplice somma degli effetti ricollegabili di per sé all’una o all’altra clausola, ma sull’arbitraria estensione di elementi dell’una per il tramite di elementi dell’altra norma, fino a creare un ibrido tertium genus in insanabile contrasto con il principio di legalità. È quanto avviene, appunto, quando dottrina e giurisprudenza sostengono disinvoltamente che l’evento non impedito ex art. 40 cpv. diventa sinonimo di reato non impedito allorché si ipotizza che l’omittente concorre nel medesimo reato con altre persone ai sensi dell’art. 110 c.p. (110) Come già accennato supra, par. 4. (111) NITZE, Die Bedeutung, cit., 158 e ss. Cfr. anche supra, par. 4. (112) L’argomentazione è volutamente paradossale perché non pare possa dubitarsi che l’espressione « concorrere in un reato » contenuta nell’art. 110 c.p. significhi sempre una condotta attiva. E ove il dubbio comunque sorgesse, sarebbe assolutamente doverosa un’interpretazione restrittiva in questi termini.


— 1296 — alcun legame psichico tra l’Hintermann ed i concorrenti in via commissiva. Se nel garante non sussiste — nemmeno unilateralmente — la consapevolezza di collaborare , col suo contegno omissivo, all’azione criminosa di terzi, siamo chiaramente al di fuori dell’ambito della compartecipazione al reato. Le soluzioni prospettabili saranno allora tre: 1) se ricorrono tutti i presupposti per l’applicazione della clausola di equivalenza tra azione ed omissione, il garante risponderà autonomamente ex art. 40 cpv. dell’evento materialmente provocato da terzi, ma solo nel momento in cui si provi che egli era concretamente in grado di interrompere — con l’azione doverosa omessa — il decorso causale tra la condotta illecita del terzo e l’evento; 2) in assenza di un obbligo giuridico di attivarsi o di un evento in senso naturalistico, l’omissione — dolosa o colposa — rileverà solo in quanto sia prevista dal legislatore come reato. L’omissione dell’Hintermann sarà cioè fonte di responsabilità penale, a prescindere dal concorso con l’azione illecita di terzi, solo qualora il legislatore abbia provveduto a renderla tipica. Si prospetta così una serie di reati dolosi o colposi indipendenti: soluzione certamente in linea con i principi di tassatività e di riserva di legge; 3) se non ricorrono gli estremi per l’applicazione dell’art. 40 cpv. c.p. e l’omissione non è prevista dal legislatore come autonomo reato doloso o colposo, dovremo giungere alla conclusione che l’omissione non costituisce reato, pur essendo moralmente riprovevole. Nel caso in cui, di contro, nel garante sussista la consapevolezza di collaborare col suo contegno omissivo al fatto illecito di terzi, non si dovrà erroneamente chiamare in causa l’art. 40 cpv. quando non ne ricorrono i presupposti, in quanto, in ipotesi, il reato commesso è di mera condotta o comunque a forma vincolata: potremo bensì avere una ipotesi di partecipazione al reato, ma che non dovremo necessariamente definire « negativa ». Se vi è in particolare « concerto » tra i compartecipi, il più delle volte si verserà nell’ambito del concorso morale, come già acutamente suggerito a suo tempo dal Carrara (113) e, in tempi recenti, dalla (113) CARRARA, Grado nella forza fisica del delitto, in Opuscoli di diritto criminale, cit., par. 297: « Si può avere concorso di azione anche in un fatto negativo, anche in una mera omissione; anche nella presenza quando la omissione o la presenza erano volontariamente coordinate a facilitare il delitto, e lo agevolarono realmente ». Ed ancora, a proposito delle condotte doverose la cui mancata esecuzione ha facilitato il delitto, cfr. il par. 302: « il fatto omesso assume il carattere di mezzo della esecuzione, benché in sé non sia il fatto criminoso. Laonde tutto è questione di scienza o di non scienza. Se colui che lasciò aperto l’uscio non ebbe cognizione che si dovessero per colà introdurre i ladri non può elevarsi sospetto di complicità, poiché non si può volere l’incognito; e senza volontà non si può essere complici. Si ha una negligenza redarguibile solo come fatto di per sé stante quando svolgasi in una mancanza di uffizio. Se invece la omissione fu dolosamente intesa ad agevolare il ma-


— 1297 — più attenta dottrina d’Oltralpe (114), dal momento che la particolare caratteristica della c.d. causalità psicologica, incentrata sulla produzione dell’effetto istigativo in forma del tutto libera (115), assorbe e « neutralizza » non solo le modalità di un’azione in senso stretto, ma la stessa natura di per sé omissiva del contributo. Così, nell’esempio di scuola del custode di una villa che, d’accordo con i ladri, lascia aperta una finestra per agevolare il furto, il contributo rilevante ai fini del concorso non è tanto il dato « materiale » dell’omessa chiusura del varco ma, ancor prima, l’influenza « morale » che la prospettazione di tale aiuto avrà avuto sulla determinazione criminosa degli autori. Questo assunto sembrerebbe trovare conferma in quella giurisprudenza che ritiene sufficiente ad integrare gli estremi del concorso morale la sola presenza inattiva del correo sul luogo del delitto , purché sia non casuale ed abbia comunque conferito uno stimolo all’altrui condotta criminosa, infondendo maggiore sicurezza agli esecutori materiali (116). Beninteso, il terreno del concorso morale rischia di rivelarsi altrettanto insidioso quanto quello della partecipazione negativa al reato: si dovrà tener conto delle difficoltà inerenti all’accertalefizio, si ha allora apertissima la nozione della complicità per concorso all’azione, purché esista l’accordo ». (114) NITZE, Die Bedeutung, cit., 157. L’Autore contesta — in polemica con Schmidhäuser — la possibilità di configurare una istigazione mediante omissione: se il garante manifesta la sua approvazione per la condotta illecita di terzi anche solo mediante la più silenziosa strizzata d’occhio (da cui il correo abbia fatto poi dipendere il suo proposito criminoso) c’è istigazione di azione. Diversamente, la mera omissione (non-azione) non può in alcun modo essere interpretata come proposta di comportamento. (115) È quanto sottolinea DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, 174, nota 80, e 225 ss. in merito alla caratterizzazione differenziale delle condotte di Anstiftung e Aufforderung nell’ordinamento penale tedesco. La dottrina d’Oltralpe sottolinea il carattere « vincolato » della seconda rispetto alla prima. Mentre infatti « la ‘‘determinazione’’ come istituto di parte generale comprende qualsiasi specie di influenza sull’altrui azione criminosa, anche se non mediata da un comunicazione interpersonale, purché riferibile al modello condizionalistico », l’« istigazione » come fattispecie autonoma, di cui al par. 111 StGB, resta circoscritta all’ipotesi di diretta ed univoca manifestazione dell’intento istigativo. (116) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. V, 15 novembre 1982, Stendardi, in Riv. pen., 1983, II, 714, nel cui dispositivo leggiamo che « costituisce concorso nel reato non solo la partecipazione materiale, ma anche quella morale o psichica che si concreta sotto forma di determinazione o rafforzamento dell’altrui proposito delittuoso. Ed integra tale forma di partecipazione anche la sola presenza, non casuale, del soggetto nel tempo e nel luogo della commissione del delitto, traendo da essa l’esecutore materiale uno stimolo all’azione ed una maggiore sicurezza nella propria condotta ». Ed ancora, Cass. pen., sez. I, 26 giugno 1986, in Riv. pen., 1987, I, 356, dove viene ribadito che « la sola presenza sul luogo del delitto può costituire concorso allorché l’agente-correo abbia la coscienza e la volontà dell’evento cagionato da altro o da altri coimputati ed abbia in qualche modo partecipato all’azione o comunque facilitato l’esecuzione della stessa ». Un importante spunto di riflessione ci viene poi offerto da NITZE, Die Bedeutung, cit., 159, il quale sottolinea come le ipotesi di Beihilfe durch Unterlassen vengano ricondotte dalla dottrina d’Oltralpe a forme di complicità psichica.


— 1298 — mento della causalità psicologica (117), vista l’inutilizzabilità di strumenti di tipo prognostico e l’impossibilità di accontentarsi — pena la creazione di una ipotesi di responsabilità per fatto altrui (118) — di un livello di certezza inferiore rispetto a quello richiesto per l’accertamento dell’efficacia causale del contributo materiale del concorrente (119). Se infine nel garante vi è la mera consapevolezza unilaterale di collaborare all’altrui azione delittuosa, e ci si trova al di fuori dell’ambito di operatività dell’art. 40 cpv. c.p. in quanto il reato commesso non sia un reato causale puro, è esclusa la possibilità di ravvisare nel comportamento dell’omittente un contributo di tipo « morale »: ancora una volta ci si dovrà rassegnare a considerare l’omissione penalmente irrilevante. Per riprendere l’esempio tradizionale, il custode che decide all’istante ed all’insaputa dei ladri di agevolare l’altrui condotta criminosa lasciando aperto il varco, non risponderà di furto con violazione di domicilio né a livello monosoggettivo ex art. 40 cpv. né plurisoggettivo ex art. 110 c.p. A questo punto è possibile trarre conclusioni definitive circa l’autentica consistenza e coerenza sistematica della categoria della partecipazione mediante omissione a reato commissivo. Questa formula tradisce un pericoloso equivoco, in quanto lascia intendere che sia configurabile una condotta di partecipazione (cioè originariamente atipica) di natura omissiva al reato commissivo, mentre l’indagine compiuta ha posto invece in evidenza come le fattispecie oggetto di studio vanno ricondotte a due qualificazioni dogmatiche distinte ed irriducibili. Se ricorrono i presupposti di operatività dell’art. 40 cpv., l’omittente che versa in situazione di concorso con altre persone non è partecipe, bensì coautore: la rilevanza penale della sua condotta omissiva non dipende cioè da una supposta funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p., ma va ricondotta pienamente alla combinazione tra l’art. 40 cpv. e la norma incriminatrice di parte spe(117) Sul dubbio che la causalità psicologica possa essere considerata come una vera e propria forma di causalità vedi STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, 102 e ss. Cfr. anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 370 e ss. (118) DONINI, La partecipazione al reato, cit., 221 e ss. Per l’Autore la mera presenza sul luogo del reato non integra la fattispecie plurisoggettiva eventuale se non nel momento in cui si accerti che l’esecuzione ed il fatto costitutivo dell’offesa non siano stati concretamente condizionati da essa. In casi del genere, infatti, sono « troppi i punti di contatto con l’incriminazione del tentativo di concorso. Non esistono sostanziali differenze tra l’incriminazione di atti istigatori idonei non seguiti dal reato, e l’incriminazione di atti istigatori idonei e seguiti dalla commissione del reato, ma senza che tali atti abbiano avuto effetto alcuno, o senza che sia necessaria la prova di ciò ». (119) La dottrina più sensibile ribadisce, in tempi recenti, l’imprescindibilità dell’accertamento di una effettiva influenza dell’istigatore sulla psiche dell’esecutore materiale del reato. In tal senso, cfr. SEMINARA, Riflessioni sulla condotta istigatoria come forma di partecipazione al reato, in questa Rivista, 1983, 1123 e ss. e, di recente, FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 371 e ss.


— 1299 — ciale (120), con la conseguenza che le norme sulla compartecipazione criminosa verranno in rilievo esclusivamente sotto il profilo della funzione di disciplina. Se di contro esulano i presupposti di operatività dell’art. 40 cpv., colui che omette un’azione doverosa potrà assumere il ruolo del partecipe, ma non in relazione ad un preteso contributo « materiale » di tipo omissivo, bensì in funzione del contributo « morale » consistente nell’eventuale rafforzamento del proposito criminoso in capo all’autore in senso stretto. Partecipazione ed omissione sono insomma categorie non suscettibili di essere coniugate in una formula unitaria, almeno nei termini ritenuti dalla dottrina e giurisprudenza tradizionali. Deve riconoscersi, per contro, una autentica autonomia dogmatica alla distinta figura, che non risulta essere stata oggetto di approfondimento, della partecipazione in reato commissivo mediante omissione. Al di là di un apparente gioco di parole, siamo qui in presenza di un fenomeno del tutto diverso. In questa ipotesi, è l’art. 110 c.p. a combinarsi con l’art. 40 cpv. in presenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge per l’applicazione della clausola di equivalenza. Supponiamo che A istighi B, giovane madre, a lasciare morire d’inedia il suo neonato di poche settimane. A non è legato a B ed al di lei figlioletto da alcun vincolo di tutela in grado di generare un obbligo giuridico di impedire l’evento rilevante ex art. 40 cpv. Se l’istigazione viene accolta ed il bambino muore perché la madre ha omesso di nutrirlo, la condotta di A, atipica ed irrilevante ex art. 40 cpv., sarà punibile ex art. 110 c.p. in quanto dotata di indubbia efficacia causale (sul piano « psicologico ») nei confronti dell’evento morte. Nell’esempio qui illustrato, l’art. 110 c.p. esercita certamente una funzione estensiva della punibilità in capo ad A, intervenendo su un nucleo di base già consolidato, rappresentato, nei riguardi di B, dall’integrazione tra l’art. 40 cpv. e la fattispecie causale pura di parte speciale, nel rispetto dei rigorosi limiti posti all’operatività dell’art. 40 cpv. Riprendendo gli accenni sopra fatti alla distinzione tra « interferenza » e « combinazione » delle forme di manifestazione del reato (121), la partecipazione a reato commissivo mediante omissione integra appunto la seconda specie di collegamento tra clausole incriminatrici di parte generale, che è del resto l’unica ad essere compatibile con il principio di legalità: l’applicazione distinta e successiva sulla fattispecie-base prima dell’art. 40 cpv. e poi del(120) Una conferma indiretta della tesi qui sostenuta ci è fornita dall’analisi della quasi speculare fattispecie del concorso commissivo in reato omissivo proprio: attenta dottrina ha sottolineato come, nel caso di specie, l’istituto della partecipazione criminosa si riveli superfluo qualora anche l’istigatore sia personalmente in grado di adempiere l’azione doverosa richiesta. A tali condizioni, infatti, l’istigatore può a buon diritto considerarsi autore del reato commesso. Sul punto FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., 464. (121) Vedi supra, nota 109.


— 1300 — l’art. 110 c.p. non forza infatti i limiti di rispettiva operatività delle due disposizioni generali e conduce a risultati del tutto plausibili (122). 8. Prospettive de lege ferenda. — Una volta esaurita l’indagine di tipo dogmatico, appare opportuno vagliare le linee evolutive della complessa materia che finora è stata racchiusa sotto la formula, rivelatasi impropria, della partecipazione negativa al reato. In una prospettiva de lege ferenda, il futuro delle ipotesi di cosiddetta partecipazione negativa al reato è fortemente condizionato dalla necessità di una riformulazione più articolata della clausola di equivalenza tra azione ed omissione. In tale contesto, non può passare sotto silenzio il tentativo effettuato dallo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale del 1992 (123), il cui art. 11 rielabora e seleziona le fonti da cui promana l’obbligo giuridico di attivarsi (124). La nuova norma sulla responsabilità per omesso impedimento dell’evento appare sempre inserita nel titolo relativo al reato e significativamente collocata subito dopo la disciplina generale del rapporto di causalità (art. 10) (125). Essa tuttavia è profondamente diversa dall’attuale art. 40 cpv. c.p., poiché non nasce esclusivamente nella prospettiva del reato monosoggettivo. (122) Sono, come è evidente, numerose le analogie riscontrabili tra le correlazioni che legano le due fattispecie in esame (partecipazione mediante omissione a reato commissivo — partecipazione a reato commissivo mediante omissione) e quelle che contraddistinguono la partecipazione in delitto tentato rispetto al tentativo di partecipazione; e non è casuale che, in assenza di una esplicita previsione nel nostro ordinamento penale di quest’ultima tipologia, la dottrina ne abbia sempre pressoché unanimemente escluso la configurabilità: cfr. per tutti, anche per un inquadramento storico-comparatistico, DE VERO, L’istigazione a delinquere nell’evoluzione del pensiero carrariano, in questa Rivista, 1988, 1368 e ss. (123) Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Documenti Giustizia, marzo 1992. (124) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 11. « Reati omissivi. — 1. Equiparare il non impedire l’evento al cagionarlo solo sotto il presupposto di un obbligo giuridico attuale di garanzia di un interesse tutelato dalla legge. Prevedere che la violazione degli obblighi giuridici di sorveglianza sia punibile solo in quanto espressamente prevista come reato. / 2. Titolare dell’obbligo di garanzia è la persona che, munita dei relativi poteri, è giuridicamente tenuta ad impedire l’evento offensivo di interessi legati alla sua tutela. / 3. Titolare dell’obbligo di sorveglianza è la persona che, priva dei suddetti poteri impeditivi, è giuridicamente tenuta a sorvegliare per conoscere della commissione di reati e comunque ad informarne il titolare del bene o il garante ». (125) Il par. 13 StGB apre, invece, la sezione relativa al fatto di reato ed il titolo concernente i fondamenti della punibilità. Una soluzione analoga, in una riformulazione de iure condendo dell’art. 40 cpv. c.p., è auspicata da GRASSO, Il reato, cit., 450. Per l’Autore, la clausola di equivalenza dovrebbe infatti in primo luogo essere sganciata da un inserimento all’interno delle norme disciplinatrici del nesso causale (non compatibili con la sua reale funzione) e collocata autonomamente in posizione di adeguato rilievo.


— 1301 — L’equiparazione tra mancato impedimento e commissione di un evento è subordinata ad un « obbligo giuridico attuale (126) di garanzia dell’interesse tutelato dalla legge ». Il 2o comma della norma specifica che « titolare dell’obbligo di garanzia è la persona che, munita dei relativi poteri, è giuridicamente tenuta ad impedire l’evento offensivo di interessi affidati alla sua tutela ». Da ciò si evince che l’evento di cui all’art. 11 è un evento in senso naturalistico, il cui omesso impedimento può essere imputato (sia in chiave monosoggettiva che plurisoggettiva) solo al titolare di un obbligo di garanzia; l’obbligo in questione è caratterizzato dalla titolarità e dall’esercizio di poteri effettivamente impeditivi del decorso causale. Non solo: l’art. 11 distingue nettamente gli « obblighi giuridici di garanzia » dagli « obblighi giuridici di sorveglianza », la cui violazione è « punibile solo in quanto espressamente prevista come reato » ed il cui contenuto è espressamente delineato dal 3o comma della fattispecie in esame. Il titolare dell’obbligo di sorveglianza non ha poteri concretamente impeditivi, ma è per legge tenuto a « sorvegliare per conoscere della commissione di reati e comunque ad informarne il titolare del bene o il garante ». Sembra chiaro che la previsione della rilevanza autonoma e limitata degli obblighi di sorveglianza intende risolvere la questione relativa alla responsabilità ex artt. 40 cpv. e 110 c.p. degli appartenenti alle forze dell’ordine (127). Sotto questo particolare profilo, l’art. 11 acquista un’autentica efficacia innovativa, perché prospetta l’eliminazione dei più importanti spazi vitali finora riservati dalla giurisprudenza al concorso per omissione (128): gli appartenenti alle forze dell’ordine non potrebbero più essere considerati in ogni caso partecipi negativi del reato commesso da terzi, ma semplicemente responsabili in via autonoma se l’omissione sia espressamente prevista come reato. Tale soluzione, peraltro, potrebbe già legittimamente essere adottata de iure condito, attraverso il ricorso agli artt. 323 e 328 c.p., ogni qual volta il pubblico ufficiale abbia integrato — col proprio comportamento — gli estremi di una omissione dolosa dei doveri funzionali (129). (126) Dalla Relazione sui principi di codificazione della parte generale del nuovo codice penale si evince che il requisito dell’« attualità » dell’obbligo è volto a « richiamare l’attenzione dell’interprete sulla stretta connessione che deve intercorrere tra il fatto non impedito e l’attualità della titolarità dell’obbligo nel momento in cui il soggetto è rimasto inerte ». (127) Vedi supra, par. 4. (128) L’art. 11 dello Schema di delega legislativa, cit., sembra — su questo punto — aver recepito pienamente le indicazioni de lege ferenda formulate da GRASSO, Il reato, cit., 453: la selezione degli obblighi giuridici di attivarsi penalmente rilevanti eviterebbe interpretazioni giurisprudenziali non coerenti con la reale funzione della disposizione e volte ad inaccettabili estensioni dei confini della punibiltà. (129) L’applicabilità dell’art 323 c.p. a fatti realizzati mediante omissione non deve considerarsi frutto di una forzatura ermeneutica, ma della trasformazione della clausola di sussidiarietà di cui al vecchio testo dell’art. 323 c.p. in clausola di consunzione: ora infatti


— 1302 — Gli orientamenti di riforma sembrano dunque decisamente indirizzati nel senso di una riduzione delle possibilità di reciproca combinazione delle clausole di parte generale ex artt. 40 cpv. e 110 c.p. Sarebbe tuttavia opportuno prendere in considerazione altresì la possibilità di introdurre una diminuzione facoltativa di pena per i reati commissivi mediante omissione, analogamente a quanto previsto dal II comma del par. 13 StGB, che valga anche e soprattutto nei residui casi in cui la responsabilità per omesso impedimento dell’evento si iscrive in un contesto plurisoggettivo (130). Ancora una volta, infatti, è opportuno ribadire il diverso disvalore della condotta commissiva dolosa rispetto alla omissione volontaria (131); né bisogna dimenticare che proprio per questa ragione la dottrina più sensibile ha inteso fortemente limitare l’ambito di operatività della c.d. partecipazione negativa al reato a casi eccezionali (132). Dott.ssa LUCIA RISICATO Università di Messina

l’art. 323 c.p. risulta inapplicabile solo se il fatto commesso costituisce un « più grave reato ». Di conseguenza, il pubblico ufficiale che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio omettendo di compiere un atto, risponderà a norma dell’art. 323 c.p. e non a norma dell’art. 328 c.p. Sul punto vedi PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, 6a ed., 1994, 238 e ss., il quale parla esattamente a questo proposito di felix culpa del legislatore storico (visti i notevoli difetti strutturali della nuova formulazione dell’art. 328 c.p.). L’Autore sottolinea, a scanso di possibili equivoci, che « la possibilità di un abuso omissivo discende non da un’applicabilità dell’art. 40 cpv. c.p.... ma dal fatto che la dizione « abusare dei poteri », impiegata dalla legge, indica anche la condotta omissiva. Contra FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, I, Bologna, 1988, p. 32 dell’appendice. (130) Cfr., in tal senso, GRASSO, Il reato, cit., 460, il quale ricorda che la diminuzione di pena per le ipotesi di omesso impedimento dell’evento in violazione di un obbligo giuridico era già stata prevista dall’art. 20 del progetto di un nuovo codice penale del 1949. (131) Sul punto significativamente GRASSO, Il reato omissivo, cit. 461: « in effetti — almeno nelle fattispecie dolose — appare fondamentalmente diverso il disvalore di una condotta di chi cagiona un evento con un’azione rispetto a quello del comportamento di chi assiste, senza intervenire e pur in presenza di un obbligo giuridico di attivarsi, ad una catena causale che sfocia in un risultato lesivo: nel primo caso c’è una decisione che si traduce in azione, nel secondo una consapevole inattività ». (132) FIANDACA, Il reato, cit., 176.


IL CONCORSO ‘‘ESTERNO’’ NELL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA: PROFILI DOGMATICI ED ESIGENZE POLITICO CRIMINALI (*)

SOMMARIO: PARTE I: 1. Premessa. — 2. Schema degli orientamenti dottrinali. — PARTE II: 3. Gli argomenti utilizzati dalla dottrina contraria alla configurabilità del concorso ‘‘esterno’’. - 3.1. La violazione del principio di legalità. - 3.2. (Segue): la violazione del principio di eguaglianza. - 3.3. (Segue): l’interpretazione sistematica. - 3.4. (Segue): l’elemento soggettivo e in particolare il problema del dolo specifico. — 4. Le ‘‘aporie dogmatiche’’ del concorso esterno secondo una recente dottrina. - 4.1. (Segue): l’art. 112, n. 1, c.p. - 4.2. (Segue): l’art. 116 c.p. - 4.3. (Segue): la desistenza e il recesso. 4.4. (Segue): la soluzione proposta: il concorso alla partecipazione. — 5. Ancora un’obiezione alla configurabilità del concorso ‘‘esterno’’: ‘‘la medesima tipizzazione causale’’ della condotta del partecipante e del concorrente. - 5.1. (Segue):.... e la natura plurisoggettiva del reato associativo. — PARTE III: 6. La dottrina ‘‘disincantata’’ e il problema della causalità. — 7. Alcune precisazioni sul rapporto tra diritto penale e prova. — 8. I criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza per distinguere il partecipante dal concorrente esterno. — 9. I criteri proposti dalle Sez. un. 5 ottobre 1994 e una possibile casistica. — 10. L’effetto ‘‘moltiplicatore’’ del concorso esterno. — 11. Schema riassuntivo. — 12. Quasi una provocazione e una (ottimistica?) speranza.

I 1. La trattazione del problema relativo ai presupposti e al limiti della tanto discussa figura del concorso esterno nel reato associativo, richiede alcune brevi ma necessarie osservazioni preliminari sul fenomeno oggetto dell’indagine. E, non a caso, parlo fin d’ora di fenomeno e non semplicemente di una questione giuridica, perché la figura del concorso esterno nel reato associativo (e, in particolare, in quello di tipo mafioso) risente fortemente di un condizionamento socio-criminologico e storicopolitico tale da non poter essere compresa fino in fondo nei suoi aspetti più rilevanti se non la si colloca nell’ambito di precise coordinate spaziotemporali. Da questo punto di vista, è bene ricordare che storicamente il con(*) Testo riveduto, e integrato con le note, della relazione svolta nel corso dell’incontro di studi sul tema ‘‘Il concorso di persone anche alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale’’, organizzato dal Consiglio superiore della magistratura, Ostia, 9 giugno 1995.


— 1304 — corso esterno nel reato associativo trova le prime significative applicazioni alla fine degli anni Settanta nei numerosi processi per banda armata celebrati nei confronti delle organizzazioni terroristiche di matrice politica che allora imperversavano nel nostro paese (1). Successivamente, è a partire da un’idea del compianto giudice Falcone, espressa nel contesto della motivazione del provvedimento di rinvio a giudizio del primo maxi-processo alla metà degli anni Ottanta, che tale modello incriminatorio viene trasferito nella prassi giudiziaria degli organi requirenti più impegnati nelle indagini di mafia. ln proposito, è illuminante riportare quel passo del provvedimento nel quale Falcone delineava la portata e gli stessi limiti della figura in esame: ‘‘le manifestazioni di connivenza e collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono — eventualmente — realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, e in quanto tali sussumibili — a titolo concorsuale — nel delitto di associazione mafiosa’’ (2). Da tale sintetica ricostruzione dei passaggi storico-giudiziari che hanno caratterizzato la vicenda applicativa del concorso esterno si possono già trarre due spunti di riflessione. Da un lato, sembra scorgersi una comune matrice nelle strategie di politica giudiziaria messe in campo dalla magistratura requirente rispettivamente contro il terrorismo e contro la mafia, e cioè la necessità di dotarsi di strumenti giuridico-penali capaci di consentire un controllo penale il più possibile esteso e duttile su un’entità criminologica articolata e caratterizzata da molteplici e complessi rapporti con la realtà circostante. Dall’altro, la comparazione dei due fenomeni criminali considerati testimonia come la criminalità mafiosa sia dotata di un così alto tasso di pervasività nella società civile, da sprigionare una pericolosità sociale superiore a qualsiasi altra realtà delinquenziale, terrorismo compreso (3). Sotto quest’ultimo profilo, mi spingerei peraltro a riflettere proble(1) Sul punto, per una rassegna della casistica sottoposta al vaglio della giurisprudenza di merito, v. CASELLI e PERDUCA, I delitti contro la personalità dello Stato, in Codice penale, P. S., Giurispr. sistemat. dir. pen., diretta da Bricola e Zagrebelskj, I, Torino, 1984, 69 ss.; nella giurisprudenza di legittimità si sono pronunziate in favore dell’ammissibilità del concorso esterno nei reati associativi: Cass. 27 novembre 1968, in Arch. pen., 1970, 8, in materia di cospirazione politica mediante associazione (art. 305 c.p.); e Cass. 25 ottobre 1983, Arancio, in Foro it., Rep. 1984, voce Concorso di persone nel reato, n. 30, in materia di banda armata (art. 306 c.p.); in senso contrario Cass. 14 gennaio 1985, Pinna, id., Rep. 1986, voce Personalità dello Stato (delitti contro), n. 28. Alcuni rilievi sulla configurabilità del concorso ‘‘dall’esterno’’ nel reato di banda armata in DE LIGUORI, La banda armata, Napoli, 1986, 60 ss. (2) Trib. Palermo 17 luglio 1987, inedita, (il corsivo è nostro). (3) In argomento, per un approccio multidisciplinare, v., per tutti, AA.VV., La mafia. Le mafie, a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, Bari, 1994.


— 1305 — maticamente sull’interrogativo se e quanto le prassi linguistiche vigenti nei diversi contesti storico-politici del tempo abbiano avuto e continuino ad avere influenza sulle forme di inquadramento giuridico sperimentate dalla magistratura al fine di ricomprendere nell’area del penalmente rilevante le condotte ritenute di fiancheggiamento o contiguità, rispettivamente, al terrorismo e alla mafia. Al riguardo, non deve sfuggire che se nella lotta al terrorismo si è potuto riscontrare un atteggiamento generalmente ostile della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica riguardo a tutte le forme di complicità alle organizzazioni terroristiche, nella lotta alla mafia, invece, ha sovente prevalso un atteggiamento contrassegnato o da un certo estraniamento derivante dalla scarsa consapevolezza della natura e delle dimensioni del fenomeno mafioso, oppure da una sorta di incapacità a porsi in un rapporto di radicale alterità sul piano dei valori e dei comportamenti con la subcultura mafiosa. Soltanto abbastanza di recente si è assistito alla graduale crescita di una sensibilità sociale, ormai forse maggioritaria, fortemente impregnata di valori antitetici al mondo mafioso. E lo specchio di questa evoluzione è rappresentato — credo — proprio dal linguaggio: pensiamo in questo senso alla sorte toccata alla locuzione ‘‘contiguità alla mafia’’. Tale locuzione, infatti, fu inizialmente coniata in alcuni uffici giudiziarii requirenti al fine di qualificare non penalmente rilevanti i comportamenti ascrivibili a tale connotazione linguistica; più tardi, però, proprio la nozione di ‘‘contiguità’’ è divenuta nel linguaggio comune il veicolo di un giudizio morale prima, e penale poi, che ravvisa nelle condotte di collateralismo o collaborazione con la mafia, da parte di soggetti antropologicamente estranei alle tradizioni dell’organizzazione criminale, uno degli aspetti maggiormente riprovevoli e perniciosi sul piano sociale (4). È su questo crinale che scorre, dunque, la vicenda giuridico-penale dell’applicabilità o meno dell’istituto del concorso di persone al reato associativo di tipo mafioso. Né si obbietti, a questo punto, che considerazioni siffatte turbano la corretta ricostruzione dommatica dell’istituto. In proposito, e in sintesi, basti ricordare il pensiero di uno dei più autorevoli studiosi di diritto penale d’oltr’alpe, e cioè Claus Roxin: ‘‘Separare nettamente la costruzione dommatica dalle giuste scelte di politica criminale non è assolutamente possibile. Anche la consueta contrapposizione tra il lavoro dommatico-pe(4) ‘‘Insomma Max Weber aveva ragione: solo tutelando una razionalità intrinseca al diritto in quanto tale si può garantire l’indipendenza del sistema giuridico. Tuttavia, giacché il diritto è collegato internamente sia con la politica sia con la morale, la razionalità del diritto non sarà mai faccenda esclusiva del diritto’’: HABERMAS, Morale. Diritto. Politica, Torino, 1992, 54. Sul tema del rapporto tra diritto penale e morale — che sarebbe fuor d’opera trattare qui analiticamente — si veda, di recente, la lucida sintesi di MARINUCCI e DOLCINI, Corso diritto penale, I, Milano, 1995, 45 ss.


— 1306 — nalistico e quello criminologico perde il suo significato: infatti trasformare acquisizioni criminologiche in istanze di politica criminale ed istanze di politica criminale in regole giuridiche de lege lata o ferenda, rappresenta un procedimento in cui singoli stadi sono tanto necessari quanto importanti per la realizzazione del socialmente giusto’’ (5). È di intuitiva evidenza quanto tale raccomandazione diventi preziosa nel momento in cui ci si trovi al cospetto di fattispecie incriminatrici, la cui origine affonda le radici in fenomeni criminali a sfondo collettivo e dalle complesse interrelazioni con il tessuto sociale, come, in particolare, il reato di associazione mafiosa (6). Oltretutto, è altrettanto importante precisare che in quest’ottica va privilegiato un modello di rapporto tra la parte generale e la parte speciale del codice penale che veda la prima prender corpo mediante l’insedianento dei principi in essa contenuti nelle singole fattispecie incriminatrici che compongono la seconda. Come è stato autorevolmente osservato, la parte generale rischia di essere ‘‘cieca forma’’ (7) se non se ne precisano i contenuti attraverso la combinazione con le singole scelte di politica criminale operate dal legislatore. Tanto più vale questo approccio laddove si discuta della concreta operatività di un istituto come il concorso di persone, che a livello normativo non fornisce alcuna reale informazione sulla soglia di punibilità delle singole condotte di concorso. Orbene, l’esame della figura del concorso esterno sarà condotta in due fasi: la prima diretta a render conto del dibattito sviluppatosi in dottrina e in giurisprudenza sulla sua configurabilità o meno; la seconda, volta ad individuare i connotati delle condotte sussumibili entro tale fattispecie anche alla luce della recente presa di posizione in argomento delle sezioni unite della Cassazione (8). 2. In questa prospettiva, va premesso che la dottrina, dopo un periodo di sostanziale disinteresse, ha negli ultimi tempi cominciato ad oc(5) ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, Berlin-New York, 1973, trad. it. Politica criminale e sistema del diritto penale, a cura di S. Moccia, Napoli, 1986, 68. (6) Per una ricostruzione della fattispecie di cui all’art 416-bis c.p. anche alla luce dell’evoluzione storica del modello di incriminazione dell’associazione per delinquere si veda INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, 53 ss. Per un quadro storico delle politiche penali elaborate dagli Stati di antico regime per fronteggiare fenomeni di banditismo e di (con terminologia moderna) criminalità organizzata si rinvia all’interessante e approfondito lavoro di LACCHÈ, Latrocinium. Giustizia, scienza penale e repressione del banditismo in antico regime, Milano, 1988. (7) Cfr. PADOVANI e STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 1991, 15, i quali riprendono il pensiero di FINCKE, Das Verhältnis des Allgemeinem zum Besonderen Teil des Strafrechts, Berlin, 1975, 26 ss. (8) Cass. 5 ottobre 1994, Demitry, in Cass. pen., 1995, 842 ss., con nota di IACOVIELLO, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere; e in Foro it., 1995, Il, 423, con il commento di INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragion di Stato e gli inganni della dogmatica.


— 1307 — cuparsi del problema dando vita a tre indirizzi che, per comodità espositiva, possiamo riassumere in: ‘‘contrari’’ (autori che negano la configurabilità del concorso esterno nei reati associativi nel nostro sistema) (9); ‘‘disincantati’’ (autori che, pur ammettendone in astratto la configurabilità, ne paventano l’uso indiscriminato e/o ne ridimensionano il reale spazio applicativo) (10); ‘‘favorevoli’’ (coloro, cioè, che ne valorizzano la capacità di soddisfare legittimamente un’importante e ineludibile esigenza politico criminale) (11). Tuttavia, prima di entrare nel merito di alcune delle posizioni espresse, va subito sottolineato un dato che può, per certi versi, sembrare sorprendente. Nonostante la differenza delle soluzioni prospettate, gran parte degli studiosi finiscono, però, per convergere generalmente su una duplice considerazione fondamentale: la c.d. contiguità alla mafia si incarna in condotte che sono, per un verso, per lo più riconoscibili sul piano logico-pratico, per un altro, portatrici di un notevole disvalore sul piano politico criminale. A ben vedere, dunque, i punti di contrasto fra le diverse posizioni si risolvono nel fatto che alcuni ritengono tale disvalore già penalmente rilevante nel nostro sistema in forza, appunto, del concorso esterno nel reato associativo; altri, invece, restringono la dimensione punitiva alle sole ipotesi in cui il comportamento integri specifiche fattispecie incriminatrici al di là dell’operatività dell’art. 110 c.p. in relazione al reato associativo; altri, infine, considerano tali condotte attualmente non punibili e sollecitano l’introduzione di apposite fattispecie incriminatrici in sede di riforma legislativa. (9) CONTENTO, II concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, contributo dattiloscritto alla ricerca C.N.P.D.S. e C.N.R, su La Riforma della parte generale del cod. pen. Concorso di persone nel reato, 1983, 10 ss.; INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, 143 ss.; ID., Il concorso esterno nei delitti associativi, cit.; F. SIRACUSANO, Il concorso di persone e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1994, 1872 ss.; MANNA, L’ammissibilità di un concorso ‘‘esterno’’ nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in questa Rivista, 1994, 1189 ss.; MUSCATIELLO, Profili giurisprudenziali e verifiche dommatiche del concorso eventuale in fattispecie associative, in Studi in memoria di Renato Dell’Andro, II, 1994, 589 ss. (10) FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro it., 1991, II, 472 ss.; G.A. DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in questa Rivista, 1994, 1267 ss.; SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, 137 ss. (11) DE LIGUORI, Concorso eventuale e reati associativi, in Cass. pen., 1989, 38 ss.; SAGLIA, Osservazioni in tema di concorso eventuale nel reato di associazione mafiosa, in Giust. pen., 1992, II, 310 ss.; GROSSO, La contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione e irrilevanza penale, in questa Rivista, 1993, 1191 ss.; MILITELLO, Agevolazione e concorso nel progetto 1992, in Indice pen., 1993, 581; PACI, Osservazioni sull’ammissibilità del concorso eventuale nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, in Cass. pen., 1995, 542 ss.; TURONE, II delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, 327 ss.


— 1308 — II 3. Passiamo, adesso, all’esame degli argomenti addotti da quegli studiosi che negano la configurabilità del concorso esterno. Non a caso iniziamo dalle tesi elaborate da questi ultimi e ad esse presteremo maggiore attenzione, in quanto lo sforzo teorico-dommatico è stato per lo più sopportato proprio da coloro che hanno negato tale figura, posto che la normale applicabilità delle norme sul concorso al reato associativo discenderebbe dalla stessa portata generale dell’istituto del concorso di persone. Anzi: fino a prima del sorgere della questione sollevata dalla combinazione dell’art. 110 c.p. con l’art. 416-bis c.p., la dottrina aveva invero discusso di tutt’altro: e cioè delle ben diverse problematiche attinenti, da un lato, all’applicabilità o meno delle norme incriminatrici concorsuali ai reati plurisoggettivi con riferimento a condotte descritte nella fattispecie incriminatrice e non espressamente punite oppure alle condotte diverse ed ulteriori tenute da uno dei concorrenti necessari contemplati nella norma di parte speciale; e, dall’altro, all’estensione ai reati plurisoggettivi delle norme di disciplina proprie del concorso di persone (ad es. quelle relative alla circostanza aggravante del numero di persone). Mentre in maniera presocché unanime la dottrina si era dichiarata favorevole (ancorché mai con particolare approfondimento) circa la possibilità di applicare l’art. 110 c.p. in funzione incriminatrice a condotte e a soggetti diversi da quelli previsti dalla fattispecie plurisoggettiva di parte speciale, con l’unico e ovvio limite del raggiungimento del numero minimo di concorrenti necessari richiesto dalla norma per la configurabilità del reato (12). Tanto premesso, possiamo occuparci della principale e per certi versi, invero, più generica accusa mossa alla figura del concorso esterno: la violazione del principio di legalità. Si è da taluno osservato (13) infatti, che la vocazione estensiva della punibilità propria del concorso di persone, sposandosi con la strutturale indeterminatezza delle condotte punite nell’ambito del reato associativo, darebbe alla giurisprudenza uno strumento formidabile per operare, in una sorta di giustizia del caso concreto, al di fuori del canone costituzionale della tassatività dell’applicazione della legge penale. Si lamenta, in particolare, la stretta parentela concettuale tra le tesi che ammettono la (12) Cfr. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. II, Torino, 1981, 619 ss.; ANTOLISEI, Diritto penale, p.g., Milano, 1994, 542; MONTANARA, Reato in generale (reato plurisoggettivo), in Encicl. dir., Milano, 1987, vol. XXXVIII, 882; FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, p.g., Bologna, 1989, 388; GRASSO, in ROMANO e GRASSO, Commentario sistematico al codice penale, II, Milano, 1990, 132; MANTOVANI, Diritto penale, p.g., Padova, 1992, 553. (13) INSOLERA, Il concorso esterno nei delitti associativi, cit., 429.


— 1309 — configurabilità del concorso esterno nell’associazione mafiosa e, addirittura, la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale (elaborata, com’è noto, da una parte della dottrina per dar ‘‘forma’’ sul piano dommatico al fenomeno concorsuale): la quale, sempre secondo lo stesso studioso, sarebbe ‘‘ una mistificazione concettualistica... incapace di dare reale determinazione al contributo atipico punibile’’ (14). In verità, la polemica sul carattere indeterminato dell’intero istituto del concorso di persone risale ben più indietro nel tempo, e ben emerge già dai lavori preparatori al codice Rocco. Peraltro, autori recenti (15) hanno contribuito a riportare la dottrina penalistica a delle riflessioni in materia svolte ‘con piedi per terra’, distogliendo cioè gli studiosi dal sogno (e talvolta dall’incubo) di poter governare in concreto il fenomeno concorsuale attraverso suggestivi modelli teorici inevitabilmente incapaci, però, di rispondere alla semplice e basilare domanda: quando si può essere puniti a titolo di concorso in tutti e in ciascuno dei reati previsti dal legislatore? Beninteso, non si vogliono qui sottovalutare i rischi legati ad un’eccessiva ‘‘esposizione politico-criminale’’ da parte della giurisprudenza e la necessità che l’intera materia dei reati associativi, per non dire dell’istituto del concorso di persone, venga rivisitata dal legislatore in un’ottica di maggiore rispetto del principio di determinatezza: tuttavia, l’arroccamento da parte della dottrina in posizioni interpretative de lege lata conchiuse in aprioristiche e astratte affermazioni di principio, superate poi dalla stessa realtà, provoca un incolmabile scollamento tra teoria e prassi e sottrae agli studiosi una fondamentale funzione di comprensione, controllo e limite degli orientamenti applicativi della giurisprudenza. 3.2. Tornando ai rilievi di carattere generale, un autore ha inoltre di recente obbiettato che si violerebbe il principio costituzionale di eguaglianza parificando, mediante l’applicazione dell’art. 110 c.p., il trattamento penale del partecipante e dell’estraneo all’associazione (16). Sul punto, però, nonostante vada apprezzata la particolare sensibilità costituzionale, si potrebbe paradossalmente osservare che la stessa censura può essere mossa a qualsiasi applicazione del concorso di persone nel nostro sistema penale, stante la scelta del legislatore del ’30 in favore di un modello indifferenziato di responsabilità concorsuale (17). 3.3. Tra gli argomenti più insidiosi va invece annoverato quello che si fonda sull’interpretazione sistematica della normativa antimafia com(14) INSOLERA, op. ult. loc. cit. (15) V., per tutti, SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, 1987; nella manualistica FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, cit., 361 ss. (16) MANNA, L’ammissibiIità di un c.d. ‘‘concorso esterno nei reati associativi, cit., 1194 ss. (17) In tal senso anche PACI, Osservazioni sul concorso eventuale, cit., 545.


— 1310 — plessivamente considerata: dalla quale, si dice, emergerebbe una doppia volontà del legislatore diretta, da un lato, a sussumere le condotte di appoggio esterno alle organizzazioni criminali entro determinate e specifiche fattispecie incriminatrici o aggravatrici, e, dall’altro, ad escludere esplicitamente e conseguentemente la possibilità di far ricorso alla figura concorsuale in relazione al reato di associazione mafiosa — argomento, peraltro, prontamente raccolto da quelle decisioni della S.C. che hanno negato negli ultimissimi tempi la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo —. In particolare, è stata riconosciuta una sorta di vis astractiva sul piano della qualificazione penale in capo alle fattispecie di assistenza ai partecipi (418 c.p.), di favoreggiamento e, soprattutto, all’aggravante prevista dall’art. 7, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203, rispetto alle condotte ritenute di fiancheggiamento alle associazioni criminali (18). Tuttavia, per revocare in dubbio tale presunta attitudine escludente nei confronti della configurabilità del concorso, è sufficiente aver chiara la funzione sussidiaria svolta dai predetti reati, peraltro testimoniata dagli angusti confini della condotta tipizzata nell’art. 418 c.p. (fornire vitto e alloggio ad un associato), e dalla clausola ‘‘fuori dei casi di concorso’’ inserita nella fattispecie di favoreggiamento. La clausola, in verità, è presente anche nel reato di assistenza agli associati e alcuni autori hanno tratto motivo dalla diversità del termine poi adottato nell’art. 418 c.p. al fine di indicare i soggetti destinatari dell’assistenza (‘‘partecipanti’’ invece che ‘‘concorrenti’’) per affermare che il legislatore storico ha contemplato fin dall’emanazione del codice Rocco la possibilità di un concorso esterno nel reato associativo (19). Probabilmente, una simile interpretazione (supportata anche dai lavori preparatori al codice secondo una ‘‘certa’’ lettura datane dai giudici di legittimità delle sezioni unite nella sentenza del 5 ottobre 1994) pretende di provare troppo: e però le conclusioni risultano invero plausibili se messe a confronto con le tesi che, al contrario, desumono proprio dall’asfittica fattispecie di assistenza ai partecipi un limite al principio dell’applicabilità dell’istituto del concorso di persone in generale a tutti i reati e, quindi, anche a quelli di natura associativa. (18) È la tesi di F. SIRACUSANO, Il concorso esterno, cit., 1879, il quale però non include nel ragionamento il reato di favoreggiamento, a cui invece fa anche riferimento la giurisprudenza ispiratasi all’impostazione in discorso in tre sentenze emesse nello stesso giorno e dal medesimo collegio di legittimità: Cass. 18 maggio 1994, Clementi, in Foro it., II, 1994, 562, con il commento di VISCONTI, Il tormentato cammino del concorso ‘‘esterno’’ nel reato associativo; Cass. 18 maggio 1994, Mattina, in Cass. pen., 1994, 2685, con nota di CERASE, Brevi note sul concorso eventuale ai reati associativi, e in Guida al diritto, 1994, n. 2, 74, con nota di PATALANO, L’occasionalità come criterio per valutare le diverse condotte; Cass. 18 maggio 1994, Abbate, inedita. (19) Cfr. SAGLIA, Osservazioni in tema di concorso eventuale nel reato di associazione, cit., 310; GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., 1190.


— 1311 — Un altro studioso ha peraltro osservato che nel linguaggio del legislatore la clausola di esclusione riferita ad un reato diverso da quello a cui è apposta recita normalmente ‘‘fuori dei casi previsti nell’articolo precedente’’, onde la formula adottata nell’art. 418 c.p. (‘‘fuori dai casi di concorso’’) rinvia necessariamente anche alle ipotesi di concorso eventuale e non soltanto necessario nel reato di associazione per delinquere (20). Volendo dare, comunque, una spiegazione della diversità terminologica acutamente rilevata da alcuni autori nel contesto dell’art. 418 c.p. (l’espressione ‘‘fuori dei casi di concorso’’ nell’iniziale clausola di esclusione mal si concilia, infatti, con la locuzione ‘‘taluno partecipante’’ nel prosieguo della norma), si può ritenere che essa è probabilmente ascrivibile alla necessità avvertita dal legislatore di utilizzare una sola formula (e cioè ‘‘casi di concorso’’) per far riferimento all’intero fascio di condotte descritte nell’art. 416 c.p. (non solo al partecipante, dunque, ma anche al capo all’organizzatore, etc.), le quali sono invero tutte suscettibili di ricomprendere e quindi assorbire comportamenti di assistenza ai partecipanti all’associazione. Va ricordato, inoltre, che la giurisprudenza ha utilizzato in maniera costante il criterio della riferibilità della condotta di assistenza all’intera organizzazione criminale o al singolo associato al fine di discriminare l’ambito di operatività del reato associativo da quello di assistenza ai partecipi, attribuendo così a quest’ultima norma una funzione politico-criminale complementare e nei fatti sussidiaria al concorso esterno inteso come contributo all’associazione complessivamente considerata (21). Per quanto concerne, invece, l’aggravante prima citata, essa, secondo alcuni autori, varrebbe ad assorbire le ipotesi di concorso esterno nella parte in cui prevede un sensibile aggravamento di pena per coloro che hanno commesso un reato ‘‘al fine di agevolare l’associazione di cui all’art. 416-bis’’. In altre parole, si dice, una volta che il legislatore ha tipizzato l’attività di ‘‘agevolazione’’ come contenuto di una circostanza aggravante, la stessa dimensione effettuale non può poi rilevare alla stregua di un contributo atipico concorsuale, anche se nella forma più sfumata sul piano causale tradizionalmente individuata, appunto, nella condotta semanticamente riferibile al predetto connotato linguistico. A ragionar diversamente, soggiunge il medesimo autore, si arriverebbe alla contraddizione dommatica e politico criminale di punire in modo più rigoroso e cioè a titolo di concorso nell’associazione mafiosa colui il quale abbia realizzato una condotta di per sé penalmente neutra, mentre con una semplice aggravante il soggetto che, al contrario, ha tenuto un comportamento illecito (22). (20) Così CERASE, Brevi note sul concorso eventuale, cit., 2685. (21) Tra le altre: Cass. 23 marzo 1992, Sorrentino, in Giust. pen., 1993, II, 136. (22) Cfr. F. SIRACUSANO, Il concorso esterno, cit., 1876.


— 1312 — Una semplice lettura della norma introdotta con l’art. 7 cit. lascia trapelare, tuttavia, un significato sistematico, politico-criminale e una angolazione applicativa, dai caratteri fondamentalmente diversi da quelli prospettati dalla dottrina appena esposta. Intanto, va corretto lo stesso punto di vista dal quale la dottrina in parola valuta le conseguenze sistematiche e applicative della circostanza in discorso: bisogna, infatti, prendere le mosse anzitutto dall’accertamento di un nesso oggettivo tra l’associazione e la condotta del soggetto, mancando il quale, e sussistendo invece una autonoma figura di reato, si porrà poi il problema della contestazione della aggravante in questione — ove chiaramente venga accertato in capo all’agente la finalità di agevolare l’ente criminale. In altre parole: se una condotta si concreta in un puzzle di fatti che trovano razionale sistemazione nella loro funzionalizzazione all’organizzazione dell’associazione criminosa, poco importa, in quest’ottica, se all’interno di tale condotta vengano o meno ravvisati gli estremi di specifiche ipotesi delittuose, rilevando invece, ai fini dell’incriminazione a titolo di concorso, l’incidenza causale sull’organizzazione criminosa del contributo apportato. Fuori da quest’ultima eventualità e riscontrata la commissione di una determinata fattispecie criminosa sorretta dal fine specifico di agevolare l’associazione mafiosa, rimarrà dunque applicabile la predetta circostanza aggravante. Tanto precisato, allora, l’introduzione di tale circostanza aggravante da parte del legislatore può esprimere semmai il diverso e apprezzabile intento (meglio: il tentativo) di dare veste normativa all’obiettivo politicocriminale di separare il più possibile la responsabilità per i reati scopo da quella per il reato associativo. Vi possono essere, infatti dei reati commessi da estranei all’associazione mafiosa che, pur non recando i presupposti materiali per ravvisarvi condotte punibili a titolo concorsuale (né tanto meno come partecipazione all’associazione) saranno tuttavia sanzionati più severamente in quanto realizzati proprio al fine di agevolare l’ente criminale. Ma si può dare anche il caso del partecipante che commette alcuni reati al di fuori della sua attività di sostegno permanente all’associazione: in tale ipotesi l’aggravante non andrà certamente applicata. In conclusione: la stella polare che guida la qualificazione penale del fatto è rappresentata nell’un caso (concorso esterno nell’associazione) dal contributo apportato alla organizzazione dell’associazione mafiosa in una dimensione essenzialmente oggettiva, mentre nell’altro (applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 cit.) dall’elemento soggettivo e in particolare dal fine specifico di agevolare l’ente criminale mediante la commissione di un reato a sé stante (23). E infatti, a ben vedere, nella (23)

Per questi argomenti v. già G.A. DE FRANCESCO, Dogmatica e politica criminale,


— 1313 — prima ipotesi ci si trova al cospetto dell’incriminazione di un fatto cui va agganciato ovviamente l’accertamento in concreto della colpevolezza dell’agente, nella seconda, invece, di un aggravamento di pena giustificato da un profilo intenzionale ulteriore ed afferente ad un fatto oggettivamente e soggettivamente già qualificato come reato. Sulla scorta di quanto appena osservato, risulta quindi logicamente scorretta la comparazione di trattamento tra una condotta presunta lecita e punita a titolo di concorso e un’altra intrisecamente illecita e punita però più lievemente con l’aggravante: la prima è, infatti, non lecita bensì illecita ab origine e cioè dal momento in cui viene qualificata penalmente alla stregua di un concorso ex art. 110 c.p. nel reato associativo. Chiaro è, per converso, che la contestazione dell’aggravante in parola è da ritenere comunque incompatibile con l’incriminazione a titolo di concorso qualora la condotta illecita si risolva esclusivamente nella commissione di un reato a se stante. Qui, però, entriamo nel campo delle valutazioni in concreto delle condotte che passano al vaglio degli organi giudicanti e requirenti e le sottili distinzioni concettuali rischiano di soccombere nell’impatto con la legnosa sintassi della prova nel processo: sarà meglio quindi parlare di ciò nel momento in cui ci occuperemo dei confini ‘interni’ (con la partecipazione) ed ‘esterni’ (l’area del lecito o dell’altrimenti illecito) del concorso eventuale nel reato associativo. 3.4. Altro argomento a sostegno della tesi contraria è stato proposto soprattutto da una parte della giurisprudenza con riferimento alla componente soggettiva del concorrente esterno nell’associazione. In particolare, la Cassazione (24) ha osservato come non sia possibile distinguere il soggetto intraneus dall’extraneus poiché in quest’ultimo, ai fini della punibilità, deve ravvisarsi necessariamente un profilo soggettivo inquadrabile entro il dolo specifico, alla stessa stregua del resto di tutte le condotte che si muovono nell’ambito del reato associativo, reato caratterizzato, com’è noto, da una struttura imperniata sul perseguimento di finalità illecite che costituiscono, appunto, oggetto del dolo. Di conseguenza, secondo tale impostazione, di fronte a condotte di soggetti non intenzionati e, anzi, disinteressati al raggiungimento delle finalità dell’ente criminale, non si potrebbe applicare il reato associativo, anche sotto forma di apporto concit., 1297; sull’aggravante in questione, in generale, cfr. INSOLERA, Primi appunti penalistici sui provvedimenti urgenti in materia di lotta alla criminalità organizzata, in Critica dir., 1990/6, 10 ss.; FONDAROLI, in AA.VV, Mafia e criminalità organizzata, Giurisprudenza sistematica di dir. pen., diretta da Bricola e Zagrebelsky, a cura di Corso, Insolera, Stortoni, II, Torino, 1995, 662 ss. (24) Cass. 30 giugno 1994, Della Corte, in Riv. pen., 1994, 1114, con nota di TENCATI, Fiancheggiamento e partecipazione nell’art. 416-bis del codice penale, e in Giur. it., II, 1995, 283, con nota adesiva di STEMPERINI, In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso.


— 1314 — corsuale dall’esterno, per mancanza di dolo, non bastando il riscontro della versione ‘‘generica’’ di quest’ultimo. Sul punto, invero, non è necessario soffermarsi molto, posto che la stragrande maggioranza della dottrina (anche quella avversa al concorso esterno) (25) e della giurisprudenza ha invece sempre ammesso la possibilità che si concorra con dolo generico in un reato a dolo specifico a condizione che altri concorrenti siano provvisti (o anche uno solo) di tale profilo soggettivo (26). Basterà, quindi, che il concorrente si rappresenti psicologicamente il nesso tra la sua condotta e l’associazione illecita volta al perseguimento dei fini oggetto del programma criminoso. In verità, le sezioni unite del 5 ottobre 1994 hanno ulteriormente sviluppato la questione sostenendo anche che nulla osta a che il concorrente esterno fornisca il contributo materiale provvisto di un profilo soggettivo caratterizzato dal dolo specifico, e cioè dalla particolare volontà di perseguire i fini propri dell’associazione: in tal caso mancherebbe comunque la parte del dolo (così si dice nella sentenza) tipica del partecipe e dunque la volontà di ‘‘far parte’’ dell’associazione. Si aggiunge, peraltro, da parte del medesimi giudici di legittimità, che risulta fortemente contradditorio (come sostenuto dalla sentenza criticata) negare la configurabilità del concorso esterno materiale a causa della pretesa incompatibilità ontologica tra essa condotta e il dolo specifico e, contestualmente, ritenere ammissibile il concorso esterno sotto forma di concorso morale. In tale ultimo caso, infatti, al soggetto che concorre moralmente non si potrà riconoscere un atteggiamento psicologico che coincida con la volontà di ‘‘far parte’’ perché, se così fosse, perderebbe proprio il carattere esterno all’associazione che invece sta alla base dell’incriminazione a titolo di concorso; non rimane, quindi, che la sola possibilità che egli concorra ‘‘con quella parte del dolo ravvisata nella volontà di contribuire agli scopi dell’associazione con la certa consapevolezza che, una volta dato quel suo contributo, si disinteresserà dell’associazione, almeno nel senso che non ne sarà più tra i protagonisti, neppure ad tempus’’. Perché, allora, conclude la sentenza, negare la prospettabilità del dolo specifico in capo al concorrente materiale e invece ammetterla in capo al concorrente morale? Il ragionamento è senz’altro difficilmente confutabile, tuttavia sem(25) ‘‘... ben si può ipotizzare un concorso con dolo generico in un reato a dolo specifico, sempre che tale connotazione soggettiva sia ravvisabile in un altro concorrente. Il partecipe atipico, anche se privo della particolare proiezione intenzionale animante l’esecutore, dovrà tuttavia esserne consapevole’’: INSOLERA, in Dig. disc. pen., II, voce Concorso di persone nel reato, Torino, 1988, 476; posizione ribadita dall’Autore in Il concorso esterno, cit., 427. (26) Per tutti, v. PICOTTI, Il dolo specifico, Milano, 1993, 611 ss.; nella manualistica: MANTOVANI, Diritto penale, cit., 533.


— 1315 — bra risentire di un’impostazione ricostruttiva dell’elemento soggettivo un pò meccanica, che forse nella realtà è destinata ad essere travolta da quella vischiosità e inafferrabilità che inesorabilmente caratterizza in sede di accertamento i processi psicologici cui fa riferimento. E però, al di là della questione meramente dommatica e tenuto conto che il concorso morale esterno è indubbiamente di esangue spessore sul piano politico criminale, sorprende che in alcuni orientamenti dottrinali che fanno dell’accusa di indeterminatezza il cavallo di battaglia contro il concorso materiale esterno, si arrivi poi a sostenere l’ammissibilità di quello morale, come se in tale ipotesi i problemi legati alla tipicità del contributo punibile non si presentassero di ben più ardua soluzione (27). 4. Di recente, un’altra dottrina, in un ampio e pregevole lavoro monografico proprio sul tema del concorso esterno nelle fattispecie associative (28), ha ulteriormente sviluppato la tesi contraria all’ammissibilità di tale figura, che — si sostiene — darebbe vita a tre ‘‘aporie dogmatiche’’ suscettibili di provocare, in sede applicativa, effetti sperequativi nel regime penale riservato rispettivamente al concorrente esterno e al partecipante interno. 4.1. La prima ‘‘aporia’’ risiederebbe nell’applicabilità al concorrente esterno, a differenza del partecipante, dell’aggravante delle cinque o più persone prevista dall’art. 112, n. 1, c.p., in materia di concorso di persone. Si dice, infatti, che mentre sarebbe esclusa l’aggravante per il partecipante in quanto prevarrebbe il dettato della fattispecie incriminatrice di parte speciale, lo stesso non potrebbe sostenersi riguardo al concorrente esterno che, invece è naturalmente sottoposto alle norme di disciplina del concorso di persone (29). L’argomento, in verità, sembra non reggere ad un’analisi più attenta del rapporto tra le fattispecie plurisoggettive necessarie (tra cui, appunto, l’associazione per delinquere e l’associazione di tipo mafioso) e la fattispecie plurisoggettiva eventuale (e cioè il fenomeno a cui dà vita il concorso di persone). Intanto e in generale la dottrina ritiene, quasi unanimemente, che le norme di disciplina proprie del concorso di persone possano essere applicate ai reati necessariamente plurisoggettivi compatibilmente con la struttura di ciascuno e con le indicazioni desumibili dalla loro fattispecie legale (30). Proprio con riferimento all’aggravante di cui all’art. 112 n. 1, (27) Ad. es. CONTENTO, Il concorso di persone, cit.; mentre INSOLERA, II concorso esterno, cit. e SIRACUSANO, Il concorso esterno, cit., 1878, tendono ad escludere il concorso ‘‘morale’’ alla stessa stregua di quello ‘‘materiale’’. (28) MUSCATIELLO, Il concorso esterno nelle fattispecie associative, Padova, 1995. (29) Cfr. MUSCATIELLO, Il concorso esterno, cit., 91 ss. (30) V., per tutti, GRASSO, in Commentario sistematico al codice penale, cit., 132 ss.


— 1316 — c.p., il legislatore si è inoltre premurato di condizionarne esplicitamente l’applicabilità all’assenza di controindicazionl nella fattispecie incriminatrice, mediante l’inciso ‘‘salvo che la legge disponga altrimenti’’. L’indagine si deve spostare, dunque, sulle singole fattispecie incriminatrici. Sotto questo profilo, va rilevato che nel reato di associazione per delinquere semplice il legislatore ha previsto un’aggravante specifica (art. 416, ult. comma, c.p.) da applicare quando gli associati sono più di dieci: da ciò si desume una chiara ed espressa scelta politico-criminale nel senso di attribuire rilevanza penale al numero di persone soltanto ed esclusivamente qualora venga raggiunta la quota indicata. Se è indiscutibile la prevalenza della circostanza specifica delle dieci persone riguardo ai partecipanti, non v’è ragione perché non lo sia altrettanto per i concorrenti: diversamente la scelta politico-criminale appena accennata sarebbe contraddetta da una presunta diversità di rilevanza attribuita al numero dei concorrenti esterni dall’art. 112 c.p. e quindi al di fuori della stessa fattispecie incriminatrice. Secondo la tesi criticata, invece, nel caso in cui vi fossero, ad esempio, nove partecipanti e cinque concorrenti esterni, mentre ai primi non sarebbe applicabile la circostanza aggravante speciale, ai secondi sarebbe invece applicabile l’art. 112, n. 1, con l’effetto così di invertire la gerarchia del disvalore fondata dall’art. 416, ult. comma, c.p., sulla rilevanza penale attribuita esclusivamente alla presenza di dieci associati, gerarchia peraltro confermata dall’inciso ‘‘salvo che la legge disponga altrimenti’’ contenuto nell’art. 112, n. 1, c.p. e limitante, appunto, l’applicazione dell’aggravante generica ivi prevista. Se passiamo, poi, all’associazione mafiosa il discorso si fa ancor più evidente. Nell’art. 416-bis c.p. il legislatore mostra di disinteressarsi del numero massimo di partecipanti (‘‘... tre o più persone..., 1o comma): ciò vale di per sé ad escludere che il sistema possa interessarsi del numero dei concorrenti eventuali (31). Oppure si vuole sostenere che il legislatore ritiene più grave penalmente la presenza di più di cinque concorrenti esterni rispetto, magari, a venti partecipanti pienamente integrati nell’associazione? 4.2. La seconda presunta ‘‘aporia’’ viene individuata nell’eventualità che al concorrente esterno possa essere applicata la rigorosa disciplina prevista dall’art. 116 c.p., prospettiva non ipotizzabile neanche teoricamente, invece, per la figura del partecipante all’associazione. Per una migliore comprensione del problema sollevato è preferibile (31) Sul punto cfr. G.A. DE FRANCESCO, in AA.VV, Mafia e criminalità organizzata, Giurisprudenza sistematica di dir. pen., diretta da Bricola e Zagrebelsky, a cura di Corso, Insolera, Stortoni, I, Torino, 1995, 42 s.


— 1317 — riportare l’esempio proposto dalla dottrina in esame al fine di chiarire l’aporia segnalata. ‘‘Si dia il caso che tre o più persone si siano associate per la commissione di azioni dirette a realizzare profitti ingiusti per sé o altri, e che in quest’attività illecita usufruiscano del contributo esterno di un concorrente, nelle forme ad esempio di un contributo in denaro, o della messa a disposizione di un proprio immobile per le riunioni illecite del sodalizio, e che l’associazione così costituita, utilizzando il contributo fornito da tutti i compartecipi, interni o esterni, per volontà di taluno o anche di tutti i soci, ma non anche del ‘‘socio’’ esterno, modifichi il piano delittuoso e realizzi, o si appresti a realizzare, fra l’altro, taluni delitti volti ad attentare all’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, dando vita per tal guisa ad un organismo non più di tipo comune, ma con una precipua finalità politica’’ (32). Ebbene: nel caso prospettato potremmo avere, sempre secondo tale dottrina, dei partecipanti che saranno chiamati a rispondere del reato di associazione semplice e non di cospirazione politica mediante associazione nella misura in cui hanno ritenuto di non aderire o contribuire dal momento del mutamento dello scopo sociale dell’ente; e un concorrente esterno il quale, invece, sarà chiamato a rispondere dell’evento diverso da quello voluto, e cioè della cospirazione politica rispetto all’associazione semplice, mediante l’applicazione appunto dell’art. 116 c.p. Nonostante la sagacia argomentativa dell’autore, neanche tale argomento sembra tranchant rispetto alla configurabilità del concorso eventuale nell’associazione. In primo luogo, si deve osservare che la concreta verificazione di casi come quello prospettato non sembra all’ordine del giorno di quanto accade nella realtà: anche perché, probabilmente neanche l’orientamento giurisprudenziale più rigoristico riuscirebbe ad inquadrare l’ipotesi predetta entro i limiti applicativi dell’art. 116 c.p. così come rivisitati dalla nota sentenza della Corte costituzionale del 1965 (33). In secondo luogo, e sopratutto, anche se quanto temuto dovesse accadere ci si troverebbe di fronte nient’altro che a un’ordinaria applicazione del principio rigoristico e tanto criticato contenuto nell’art. 116 c.p. Infatti, rispetto al partecipante che recede dall’associazione perché non vuole essere coinvolto nel mutamento dello scopo sociale, e al concorrente eventuale che si affida toto corde alle determinazioni altrui per la commissione di un reato, l’applicazione del principio fissato dal legislatore del ’30, piaccia o no, postula di punire con più rigore il secondo in quanto espressione, sul piano generale special-preventivo, di una maggiore minaccia per la società. E il discorso, a questo punto, non riguarda più il caso specifico della configurabilità del concorso esterno nel reato as(32) MUSCATIELLO, Il concorso esterno, cit., 95. (33) Corte cost. 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, II, 598.


— 1318 — sociativo, bensì la congruità costituzionale dell’operatività, nell’intero sistema penale, dell’istituto previsto dall’art. 116 c.p. (34). 4.3. Andiamo adesso alla terza aporia. Si sostiene, sempre da parte dello stesso autore, che il concorrente esterno avrebbe riservato, in materia di desistenza e recesso attivo, un trattamento meno benevolo rispetto a quello di cui può usufruire il partecipante (35). E ciò perché in sintesi, il primo sarebbe costretto, per approfittare della chance di non punibilità prevista dall’art. 56 3o comma, c.p., o della diminuzione di pena di cui al comma successivo, ad eliminare gli effetti prodotti della sua condotta, mentre al secondo basterebbe recedere dall’associazione. In proposito, tuttavia, va anzitutto osservato che la stessa distinzione tra desistenza e recesso attivo è oggetto di vivace dibattito in dottrina sia rispetto al fondamento politico criminale e alla conseguente diversità di trattamento previsto, sia all’individuazione dei criteri atti a delineare in concreto ciascuna figura nella realtà delle singole fattispecie incriminatrici (36). Con riferimento, poi, al concorrente e al partecipante all’associazione in particolare, sorge peraltro il dubbio se i termini della questione non vadano invertiti rispetto all’impostazione prima esposta: se, cioè, altrettanto paradossalmente il regime non finisca per essere più svantaggioso per il partecipante, il quale, a ben vedere e a differenza dell’extraneus, non sembra proprio avere concreti spazi per desistere. Se, infatti, gli estremi della condotta partecipativa vengono integrati — come ormai concordano buona parte della dottrina e giurisprudenza più recenti — dalla mera assunzione di un ruolo nel contesto organizzativo dell’ente criminale, sarà ben difficile, e forse impossibile, che all’agente sia offerto un realistico spazio logico-temporale nel quale la condotta, pur iniziata, non sia portata a termine e dunque rimanga ancora suscettibile di essere interrotta, in guisa da rappresentare un c.d. tentativo incompiuto. In altre parole, al partecipante sarà riservata in concreto la sola possibilità del ravvedimento, e cioè l’eliminazione, mediante il recesso dal vincolo associativo, del proprio apporto all’ente. Viceversa, la condotta del soggetto estraneo che, ad esempio, concorda con alcuni capi dell’associazione criminale un suo ‘‘interessamento’’ per le sorti di un processo in cui sono coinvolti numerosi membri dell’organizzazione, e poi, però, desiste dall’intento e non prende contatto con i magistrati che devono emettere la (34) Sull’art. 116 c.p. v. PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966; più di recente, ID., Diversi titoli di responsabilità per uno stesso fatto concorsuale, in Studi senesi, I, 1994, 83 ss. (35) MUSCATIELLO, Il concorso esterno, cit., 96 ss. (36) Per un esauriente quadro della problematica v. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, 1995, I, 567 ss.; e anche FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, cit., 347 ss.


— 1319 — sentenza, potrebbe essere sussunta entro il 3o comma dell’art. 56 c.p. e quindi risultare non punibile. La verità è, comunque, che ci si muove anche qui su un terreno sdrucciolevole, sul quale è rischioso costruire ipotesi dommatiche dalle quali trarre poi conclusioni che si pretendono dirimenti. D’altra parte è opportuno notare, riprendendo ancora la dottrina appena criticata, che riguardo al reato di cospirazione politica e di banda armata sono previste condizioni speciali di non punibilità le quali possono essere riferite soltanto ai partecipanti e non ai concorrenti. Comunque, a tutto voler concedere, l’incongruenza si ridimensiona sol che si pensi al fatto che le ipotesi previste — in particolare l’art. 308 c.p. citato paradigmaticamente dall’autore — afferiscono in ogni caso a una fase della vita di tali enti assolutamente iniziale e rudimentale, nella quale è molto difficile, invero, che essi si avvalgano di sostegni di carattere esterno. Va aggiunto, poi, che la medesima norma fa riferimento anche alla dissociazione di colui che ha prestato assistenza ai partecipi alla stregua delle condotte previste dall’art. 307 c.p.: condotte, quindi, positive, rispetto alle quali il legislatore non richiede all’autore, al pari delle altre, un’attività che ne elida gli effetti. Ne discende, dunque, che il legislatore ha esplicitamente equiparato il trattamento del partecipante e dello ‘‘estraneo assistente’’: lo stesso principio è da intendersi senz’altro esteso al concorrente esterno, così da superare il rischio di disparità di trattamento segnalato dalla dottrina criticata. 4.4. Ma al di là della forza degli argomenti addotti pro o contro tali presunte aporie e fino adesso esposti, il punto più discutibile è rappresentato proprio dall’esito finale a cui perviene la tesi dell’autore: va negata la configurabilità del concorso esterno all’associazione, e invece è ammissibile il concorso esterno alla partecipazione nell’associazione (37). È bene soffermarsi su questo punto perché in tal modo cominciamo ad entrare nella seconda parte della trattazione e cioè la definizione, fin dove possibile, dei contorni della figura del concorrente esterno. Peraltro, la prospettazione di un concorso nel reato di partecipazione sembra ritornare spesso nelle riflessioni degli studiosi come formula dommatica capace ‘‘magicamente’’ di evitare il sorgere di tutti quei problemi che invece si ritiene scaturiscano dal concorso esterno nell’associazione illecita (38). (37) Cfr. MUSCATIELLO, Il concorso esterno, cit., 117 ss., il quale, peraltro, muta opinione rispetto ad un precedente lavoro sul tema ove affermava: ‘‘(...) Né avrebbe maggior pregio un’eventuale differenziazione su basi oggettive distinguendo il contributo all’associazione da quello ai partecipi, realizzandosi il primo nelle forme di contributo ai secondi, e non essendo altrimenti configurabile la fattispecie di assistenza che, ancora una volta per espresso dettato normativo, bene può prestarsi in forma continuativa’’, ID., Profili giurisprudenziali, cit., 613. (38) Si orienta adesso in tal senso, seppur con un minor approfondimento teorico


— 1320 — Per intenderci sulla natura della soluzione proposta è preferibile riportare i casi mediante i quali l’autore esemplifica la figura del concorrente esterno alla partecipazione all’associazione ritenendo, così, di differenziarla dalla (presunta) inammissibile figura del concorrente esterno all’associazione. Il primo è forse il più illuminante: Tizio, membro di un’associazione segreta, sfornito di patente o di automobile, si affida all’amico Sempronio per essere accompagnato alle riunioni periodiche dell’ente criminale, rivelandogli il fine del passaggio e l’esistenza dell’associazione illecita. Ebbene, l’improvvisato autista risponderà di concorso esterno alla partecipazione (di Tizio) all’associazione. Con le parole dell’autore: ‘‘l’appoggio esterno, in tal caso, appare naturalmente e funzionalmente stabile e permanente, capace cioè di porsi come condicio sine qua non dell’altrui partecipazione’’ (39). In proposito, però, va osservato che se la soluzione dommatica proposta porta ad un simile inquadramento dei casi concreti, la sua pretesa virtù restrittiva dell’ambito applicativo del concorso in relazione ai reati associativi sembra, invero, discutibile. E infatti, la pur labile e sfuggente della questione, anche IACOVIELLO, Il concorso eventuale, cit., 861 ss. Mentre TURONE, Il delitto, cit., 333 ss., proprio al fine di valorizzare l’elemento dell’organizzazione, profila, più coerentemente, il concorso esterno nell’associazione alla stregua di un concorso nel reato di organizzazione di cui al 2o comma dell’art. 416-bis c.p. In proposito, tuttavia, va osservato che seppur in astratto sia certamente ammissibile prospettare il contributo dell’extraneus — a seconda del tipo e della qualità dell’apporto — come concorso nell’organizzazione o anche, a questo punto, nella direzione dell’associazione (come peraltro già sostenuto da numerosi autori: si veda, ad es., SPAGNOLO, L’associazione, cit., 149 e INGROIA, L’associazione, cit., 97), rimane discutibile dal punto di vista politicocriminale applicare una pena più grave ad una condotta che, comunque, presenta una tipicità offensiva (per dir così) affievolita rispetto alle condotte previste dall’art. 416-bis c.p. In altre parole, sembra eccessivo applicare la pena prevista, ad es., per l’organizzatore ad una condotta che pur apportando un contributo all’organizzazione dell’associazione criminale (e in ciò, appunto, differenziandosi dal mero sostegno ad un singolo associato), difetta di quel requisito fondamentale di tipicità riassumibile nel ‘‘far parte’’ dell’associazione: elemento, questo, che deve invece sussistere, oltre chiaramente alla specifica attività di organizzazione svolta, anche nella figura dell’organizzatore. Mentre nel caso della partecipazione, i connotati di tipicità si risolvono nella mera assunzione di un ‘‘ruolo’’ (e cioè, appunto, il ‘‘far parte’’), onde la carica di disvalore di tale condotta più s’avvicina a quella dell’estraneo che ha contribuito episodicamente all’organizzazione (intesa come entità a sé stante e non dinamicamente come attività) senza assumere stabilmente e permanentemente un ruolo nell’associazione. In conclusione: dal condizionare, sul piano dommatico e prasseologico, la rilevanza penale del contributo dell’estraneo alla connessione causale di quest’ultimo con l’organizzazione dell’associazione, non deriva la necessità giuridica di configurare tale condotta nei termini di un concorso nel reato di organizzazione e di applicare quindi la pena prevista dall’art. 416-bis, 2o comma, c.p., ben potendosi irrogare pur sempre la pena più lieve prevista dalla medesima norma per il partecipante. (39) Così MUSCATIELLO, Il concorso esterno, cit., 169, nt. 179.


— 1321 — figura del concorrente all’associazione non consentirebbe probabilmente l’incriminazione ex art. 110 c.p. di una condotta come quella appena riportata in quanto mancherebbe un pregnante e immediato legame funzionale con l’organizzazione illecita tale da giustificare l’imputazione per il reato associativo (e non bastando, anche sul piano politico-criminale, il mero sostegno al singolo associato). Tale condotta, invece, ove penalmente rilevante, sarebbe tutt’al più suscettibile di rientrare, a certe condizioni, entro l’ambito applicativo del reato di favoreggiamento personale. Anche un secondo esempio non convince: un appartenente ad un’organizzazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti (ove svolge il ruolo di procacciatore di partite di droga) è chiamato alla leva militare; per poter continuare a svolgere l’attività illecita in favore dell’associazione si accorda, allora, con il suo superiore militare il quale, consapevole delle finalità perseguite dal soldato, si impegna a rilasciare delle licenze a quest’ultimo che possano consentirgli di provvedere durante l’anno di leva all’acquisto delle partite di droga. Qui si configurerebbe un concorso esterno del superiore alla partecipazione del soldato all’associazione (40). A ben vedere, il caso prospettato può, più correttamente, dar luogo a due possibilità sul piano della qualificazione penale: se il superiore è consapevole di contribuire all’organizzazione dell’associazione criminale e in tale veste si presta a rilasciare sistematicamente le licenze non si capisce, invero, perché non debba rispondere di partecipazione all’associazione (ovvero di concorso esterno qualora la condotta non abbia assunto i caratteri della stabilità e permanenza); diversamente, se il predetto è a conoscenza soltanto della/e singole attività criminose del soldato, in tal caso concorrerà nei reati specifici commessi da questo. Il terzo esempio è probabilmente più realistico, ma anch’esso poco convincente sul piano quantomeno dei criteri utilizzati per qualificarlo penalmente. Vediamo: Sempronio, affiliato ad un’associazione mafiosa, ottiene una sentenza di assoluzione in un procedimento penale grazie alla compiacenza di un magistrato. Secondo l’autore, in tal caso ‘‘ove la sentenza di assoluzione si inserisca in un più ampio accordo illecito volto a facilitare l’altrui (di Sempronio) e permanente partecipazione al sodalizio, si avrà concorso esterno in capo al magistrato; ove invece l’appoggio si riveli idoneo e causalmente efficiente a garantire la permanenza altrui nel sodalizio ma scevro da tale finalismo causale si avrà responsabilità ad altro titolo’’ (41). In altre parole, ciò che rileva è la presenza o meno nelle intenzioni del magistrato di sostenere in futuro, magari con altre sentenze di assoluzione, quel singolo partecipante Sempronio: dimodoché, qualora lo stesso magistrato emetta a distanza di tempo un’altra sentenza bene(40) MUSCATIELLO, ibidem. (41) MUSCATIELLO, ibidem.


— 1322 — vola nei confronti di un altro partecipante alla medesima associazione al fine di garantire la di lui stabile e permanente partecipazione all’associazione gli si potrà contestare un concorso materiale di reati. E ancora: ipotizziamo che il signor Sempronio, sempre affiliato alla mafia, ottenga la sentenza in forza di un’antica amicizia con il magistrato e vi sia l’accordo per ripetere ove richiesto il servizio: è plausibile sul piano politico criminale e, a questo punto, anche sul piano dogmatico, chiamare a rispondere il giudice di concorso nel reato associativo (anche se, in linea con l’impostazione teorica proposta, mediato dalla connessione con il reato di partecipazione all’associazione di taluno)? Secondo chi scrive, no. Anche qui lo sforzo di tipizzazione del contributo punibile a titolo di concorso sostenuto lodevolmente dalla dottrina in esame rischia di allargare ingiustificatamente l’area applicativa del reato associativo. In effetti, nell’opposta ottica del concorso esterno come forma di contribuzione all’evento associazione sub specie organizzazione, nel caso richiamato difficilmente si potrebbe pervenire ad un’incriminazione ex art. 110 e 416-bis c.p., a meno che Sempronio abbia ottenuto la sentenza non in forza di un legame con il magistrato (o non solo), ma piuttosto grazie alla qualità di componente dell’organizzazione mafiosa: ed è presumibile che nella realtà ciò divenga immediatamente percebile in quanto avverrà attraverso intermediari i quali rendano edotto, più o meno ‘‘velatamente’’, il predetto magistrato dell’interesse dell’associazione criminale alle sorti di quel dato processo. Da precisare, poi, che aderendo all’impostazione appena proposta, le diverse occasioni di sostegno fornito all’ente criminale verrebbero ricondotte sul piano penale ad un’unica condotta punibile, e cioè di concorrente esterno all’associazione, e giammai a più fattispecie criminose in concorso materiale: conclusione alla quale, come abbiamo invece rilevato, si giungerebbe aderendo alla costruzione dommatica della dottrina criticata. Va inoltre osservato che la configurazione del concorso esterno alla stregua di un contributo al singolo partecipante e non al complesso dell’organizzazione dell’associazione illecita finirebbe per dar ragione a coloro (42) che escludono l’ammissibilità di un concorso ex art. 110 c.p. nell’associazione proprio in virtù della capacità ‘‘assorbente’’ che svolgerebbero le fattispecie incriminatrici di assistenza agli associati e favoreggiamento rispetto a tali condotte. In conclusione, le note critiche che sembrano compromettere, sia dal punto di vista politico-criminale sia teorico-dogmatico, la tesi del concorso esterno alla partecipazione all’associazione, possono riassumersi in due constatazioni ben evidenziate peraltro nell’esame dei tre casi riportati; (42)

V. supra, nt. 18.


— 1323 — tale soluzione teorica può provocare infatti: a) un’attrazione nell’orbita del reato associativo di condotte che esauriscono la loro funzione su un piano diverso dalla fattispecie associativa finendo così per ampliare l’ambito applicativo di quest’ultima e produrre un effetto espansivo della punibilità probabilmente maggiore di quello connesso alla figura che si voleva censurare del concorrente esterno all’associazione; b) un eccesso rigoristico nell’attribuire la responsabilità per il reato associativo (e francamente poco rileva a questo punto l’uso dell’etichetta concorso esterno ‘‘alla partecipazione’’ invece che ‘‘all’associazione’’), ad una condotta che risolve il contributo all’ente criminale nel sostegno esclusivo ad un partecipante alla stessa. E tuttavia rimane apprezzabile l’intento sotteso alla riflessione della dottrina appena criticata, e cioè quello di interrogarsi circa la latitudine della sponda sulla quale far approdare la condotta di un soggetto che non integra gli estremi della partecipazione al fine di giudicarne la rilevanza penale in relazione al reato associativo. Abbiamo però appurato che se la sponda è rappresentata da una singola condotta di partecipazione all’associazione, le difficoltà sembrano aumentare. Quid iuris, allora? Ci troviamo, in altre parole, nel bel mezzo dell’eterno dramma vissuto dalla scienza e dalla prassi penale: la struttura e l’accertamento del nesso di causalità. Dramma che diventa peraltro acutissimo quando la causalità da strumento di imputazione obiettiva dell’evento si trasforma come nel nostro caso, in metodo di tipizzazione del contributo concorsuale punibile (43). 5. E proprio su tale versante è stato sferrato un altro attacco da una parte della dottrina e della giurisprudenza alla configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione. Si dice: posto che la ‘‘dinamica di tipizzazione causale’’ è la medesima rispetto ad entrambe le figure del concorrente e del partecipante, ‘‘o il contributo appare significativo ed adeguato rispetto alla struttura organizzativa predisposta, ed allora verteremo in un caso di partecipazione all’associazione, ovvero, in mancanza di tale connotazione, esuleremo dall’ambito di rilevanza penale’’ (44). Una simile asserzione, però, non sembra reggere sotto diversi profili. Intanto, va discussa la stessa premessa, e cioè che la figura del partecipante e del concorrente sono individuate dalla stessa ‘‘dinamica di tipiz(43) Per tale distinzione v. ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura obiettiva della partecipazione criminosa, in Indice pen., 1977, 403; e anche VIGNALE, Ai confini della tipicità: l’identificazione della condotta concorsuale, in questa Rivista, 1983, 1358 ss. (44) Così INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, Milano, 1986, 148 ss.


— 1324 — zazione causale’’. Se si accetta l’idea sostenuta ormai da buona parte della dottrina, secondo cui il disvalore della fattispecie associativa si ricollega essenzialmente al nucleo organizzativo in essa stabilmente operante e suscettibile di reiterate e svariate ‘‘utilizzazioni’’ criminose (45), va anche accolta la corrispondente configurazione della condotta partecipativa alla stregua di una mera assunzione di ruolo nella trama organizzativa. Tanto più vale tale impostazione, laddove si debba interpretare la locuzione ‘‘far parte’’ utilizzata dal legislatore nell’art. 416-bis c.p. (a differenza della terminologia adottata in tutti gli altri reati associativi) per tipizzare la condotta partecipativa: con essa, infatti, si è voluto sollecitare l’interprete ad accertare la profonda compenetrazione che deve caratterizzare il rapporto del soggetto con l’associazione, accertamento giustificato dal particolare riferimento criminologico che il legislatore ha avuto innanzi nel momento in cui ha formulato la fattispecie. Tale lettura è meno peregrina di quanto ad alcuni sembra (46): in tal modo la partecipazione si struttura infatti alla stregua di un reato di pericolo, al quale il legislatore ha affidato la prognosi di efficacia causale rispetto al mega evento associativo. In sintesi, chi si affilia ad un’associazione mafiosa così come descritta dall’art. 416-bis c.p. di per sé realizza gli estremi della condotta di partecipazione punibile in quanto accresce la potenza dell’organizzazione criminale. Diversamente va impostata la questione del concorrente esterno: qui il soggetto non presenta il carattere della sufficiente compenetrazione con l’associazione, o perché non è affiliato, o perché la natura e l’estensione della condotta realizzata non consente di attribuirle quella stabilità e permanenza che consegue all’assunzione di un ruolo interno all’associazione. L’unico dato che si ha e disposizione è, in tal caso, rappresentato dal contributo conferito dal soggetto alla vita dell’associazione: assume rilievo, dunque, a differenza della fattispecie partecipativa, il nesso causale tra il contributo dell’estraneo e l’ente criminale, diventando così il suo accertamento la condizione per colmare quel deficit di tipicità che, abbiamo visto, non consente alla condotta di rientrare nel paradigma del ‘‘far parte’’. Il problema, quindi, non è costituito dalla medesima tipizzazione causale della condotta di partecipazione e di concorso nell’associazione come sostiene la dottrina prima citata, per il semplice fatto che di causalità ha senso parlare (e vedremo poi in che modo) soltanto per la seconda figura e non per la prima. Ma anche a voler considerare esatta la premessa appena criticata, la (45) Sul punto si veda, per tutti, G.A. DE FRANCESCO, voce Associazione per delinquere e di tipo mafioso, in Dig. disc. pen., vol. I, Torino, 1987, 315 ss.; ID., Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1994, 137 ss. (46) Ed è stata recepita dalle sez. un. del 5 ottobre 1994, cit.


— 1325 — conclusione a cui arriva la dottrina in esame, e cioè l’inevitabile sovrapponibilità e coincidenza tra la condotta di partecipazione e di concorso esterno, sembra invero fondata su una petitio principi. Portando, infatti, alle estreme conseguenze l’impostazione che muove dall’unicità del processo causale per negare in tali casi operatività al concorso di persone, si arriverebbe — paradossalmente — all’insostenibile esito secondo cui in tutti i reati causali a forma libera non abbia spazio la funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p., poiché sarebbe sufficiente ripercorrere il processo causale per ricomprendere entro la fattispecie incriminatrice tutte le condotte rilevanti sul piano eziologico e meritevoli di pena. Dunque, per fare un esempio, si pensi al semplice caso di colui che fornisce la pistola all’assassino: qui il processo causale che presiede alla tipizzazione delle condotte di chi spara e di chi fornisce la pistola è il medesimo, nondimeno il complice che ha dato l’arma all’esecutore materiale dell’omicidio verrà incriminato naturaliter a titolo di concorso e, soprattutto, realizza una condotta che già sul piano causale è pienamente distinguibile dall’altra/e conducenti al medesimo evento (47). 5.1. Ma per accostarci ad un’altra obiezione ancora mossa alla configurabilità del concorso eventuale nel reato associativo e fondata stavolta sulla particolare struttura plurisoggettiva di tale reato, è utile ricorrere ad un altro esempio. Si pensi all’art. 588 c.p., ove la fattispecie legale recita ‘‘chiunque partecipa ad una rissa è punito...’’. Il legislatore non ha dunque descritto il fatto collettivo se non con la generica (e verrebbe da dire ‘‘sociologica’’) locuzione ‘‘rissa’’, e purtuttavia si capisce che ha voluto evitare che i cittadini se le diano di santa ragione e in gruppo perché ciò può costituire fonte di un pericolo particolarmente diffusivo per l’incolumità fisica dei partecipanti. Orbene, sembra incontestabile il rilievo secondo il quale un soggetto che fornisce una mazza da golf ad un amico coinvolto nella rissa rimanendo, però, in disparte e anzi nascondendosi per non essere trascinato nella collutazione, potrà tuttavia essere incriminato a titolo di concorso ex art. 110 c.p. nel fatto collettivo previsto dall’art. 588 c.p. In altre parole, qui ci troviamo di fronte ad un reato necessariamente plurisoggettivo, ove il fatto ritenuto offensivo dal legislatore è descritto con la sola locuzione ‘‘rissa’’ e le condotte dei concorrenti necessari sono indicate genericamente nel ‘‘partecipare’’: ciononostante, la configurazione di un concorso non scandalizzerebbe nessuno. In tal caso, l’interprete ricostruisce il contenuto del reato alla luce del fenomeno ‘‘rissa’’ così come si presenta nella realtà e poi, in sede di valutazione del caso concreto, distinguerà le modalità, l’intensità, lo spessore del contributo dato da ciascuno al fatto e in quest’ottica contesterà la partecipazione o il concorso al delitto collettivo. (47)

Sul punto v. PEDRAZZI, Il concorso di persone, Palermo, 1952, spec. 41 s.


— 1326 — Analogamente accade nell’associazione di tipo mafioso: anzi, come abbiamo visto prima, nel reato previsto dall’art. 416-bis c.p. il legislatore delinea con maggiore ricchezza di contenuti il fatto collettivo ritenuto offensivo o pericoloso per l’ordine pubblico (metodo e finalità dell’associazione), ed individua alcune condotte tipiche mediante le quali tale fatto riceve alimento dalle singole persone; condotte le quali, una volta integrate, fanno scattare la responsabilità penale in capo all’agente in quella forma necessariamente personale sancita dall’art. 27 Cost. La previsione nella fattispecie legale delle condotte tipiche, quindi, non svigorisce la dimensione collettiva del fatto associativo, ma anzi l’accresce; nel senso che consente di mettere a nudo quel legame tra il singolo e l’ente criminale che ne giustifica la punibilità: tale legame è, appunto, rappresentato dal collegamento oggettivo e soggettivo con la ‘‘macchina dl reati’’ e cioè con l’organizzazione criminosa stabile e permanente in cui il legislatore individua il disvalore penale della fattispecie associativa. Ne discende che ove il predetto legame (id est il nesso causale) con l’organizzazione criminale viene ravvisato in una condotta che, però, non presenta gli estremi soggettivi ed oggettivi di una di quelle tipizzate nella norma, entra in campo l’ordinaria funzione incriminatrice svolta nel sistema penale dall’art. 110 c.p. Impostato così il problema, possiamo adesso dedicare tutta l’attenzione al vero nodo teorico e pratico della questione e cioè il contenuto della relazione causale tra il contributo dell’estraneo e l’associazione criminale. Lasciamo, quindi, il terreno su cui si sono mossi gli acerrimi nemici della configurabilità in punto di diritto del concorso esterno nel reato associativo, per entrare in quello percorso dagli studiosi che all’inizio ho definito ‘‘disincantati’’. Tali autori, infatti, non negandone la prospettabilità dommatica, pongono al centro della riflessione la ben diversa questione dei limiti di ammissibilità del concorso esterno sul piano concreto della prassi giurisprudenziale: con riferimento, da un lato, ai possibili rischi di manipolazione politico-giudiziaria della figura e, dall’altro, alla verificabilità empirica delle condotte punibili a titolo di concorso eventuale, del confine interno con la speculare figura della partecipazione, di quello esterno con altre fattispecie incriminatrici e con l’area dell’irrilevanza penale (48). III 6. Uno degli autori più attenti ed impegnati nello studio dei reati associativi si è posto il problema — una volta negata la possibilità di esclu(48)

V. supra nt. 10.


— 1327 — dere in punto di diritto l’applicazione dell’istituto concorsuale alle associazioni illecite — di come configurare concretamente il concorrente esterno quando l’organizzazione criminosa è di proporzioni talmente vaste che ‘‘soltanto in presenza di una reiterazione in forma massicccia di una molteplicità di contributi di partecipazione alla vita e allo sviluppo dell’ente delittuoso’’ si potrà affermare l’esistenza di un ‘‘nesso tra l’attività del soggetto e la conservazione od il consolidamento della struttura associativa’’, con la conseguenza che l’ambito applicativo riservato alla predetta figura si restringerebbe entro ‘‘spazi praticamente insignificanti per la difficoltà di differenziare — specialmente a fronte di un’attività esplicata in forma prolungata e continuativa — le ipotesi di concorso dalle condotte poste in essere in qualità di membri effettivi e permanenti dell’organizzazione delittuosa’’ (49). Il problema sollevato rappresenta probabilmente il cuore del tema che oggi discutiamo. Per affrontarlo, dobbiamo prendere le mosse dalla distinzione concettuale prima accennata tra nesso di causalità come strumento di imputazione dell’evento ad un soggetto e nesso di causalità come metodo di tipizzazione del contributo concorsuale punibile. Nel primo caso infatti e con riferimento al reato associativo, dovrà verificarsi l’esistenza di un’organizzazione avente i requisiti minimi richiesti dalla stessa nozione di associazione e imputabile, appunto, alle condotte dei concorrenti necessari (posta la struttura plurisoggettiva necessaria del reato de quo). Nel secondo, invece, si presume acquisita l’esistenza dell’associazione per delinquere e, cambiando prospettiva, dovrà accertarsi una relazione causale tra la singola condotta di un soggetto (del concorrente eventuale) e non più o non necessariamente il macro-evento associazione, bensì anche una sola parte di esso. Ciò significa, in concreto, che si deve accertare il collegamento dell’apporto di un estraneo con il ‘motore organizzativo’ dell’associazione tenendo conto che esso è scomponibile in diversi pezzi: la parte elettrica, quella meccanica, la carrozzeria... Fuor di metafora, e avendo bene in mente la natura ’vincolata’ sul piano criminologico di alcuni reati associativi, possiamo invero sdrammatizzare la verifica dell’incidenza di una singola condotta sull’organizzazione dell’ente criminale, facendo riferimento, ad esempio nell’associazione mafiosa, alla (49) Così G.A. DE FRANCESCO, Commento agli artt. 11-bis e 11-ter d.l. 8 giugno 1992, n. 306 conv. in l. 7 agosso 1992, in Legisl. pen., 1993, 131; il quale, peraltro, sembra riecheggiare le tesi di Trib. Catania 28 mano 1991, in Foro it., II, 1991, 474, nella parte della sentenza ove si afferma: ‘‘... qualora l’associazione criminosa sia costituita da una struttura talmente vasta da trascendere le singole territorialità ove il fenomeno si manifesta, è di tutta evidenza come l’apporto di eventuali soggetti esterni difficilmente potrà assumere efficacia decisiva in ordine all’esistenza ed all’operatività del vincolo associativo; e se, per avventura, una tale efficacia dovesse in qualche caso riscontrarsi, allora sarà più facile trovarsi di fronte ad una appartenenza a pieno titolo nel reato a concorso necessario piuttosto che ad un concorso esterno’’.


— 1328 — proficuità e in generale alle conseguenze di una relazione (o anche di un apporto) di sostegno intrattenuta da un soggetto rispetto, in particolare, ad una singola ‘‘famiglia’’ di ‘‘cosa nostra’’. Si tratta, in altre parole, di una riduzione di scala del secondo termine relazionale del nesso causale (il mega-evento associazione) mediante la scomposizione di esso in entità dotate di sostrato empirico maggiormente afferrabili e, soprattutto, comparabili con la singola condotta; in analogia, peraltro, con quell’approccio teorico-pratico che raccomanda la medesima operazione nell’ambito di reati posti a tutela di beni giuridici ad ampio spettro, come l’ambiente o l’amministrazione della giustizia, ove è normalmente impossibile attribuire ad una singola condotta la capacità di compromettere o addirittura distruggere il mega-bene tutelato (50). In questa prospettiva, perde invero pregnanza l’osservazione secondo cui il nesso causale sarà rilevabile soltanto al cospetto di condotte o apporti reiterati, con il conseguente oscuramento della linea differenziale tra partecipazione e concorso. Gli stessi autori favorevoli alla figura del concorso ‘‘esterno’’ riconoscono, peraltro, che la reiterazione di comportamenti collusivi e di sostegno all’associazione diventano indice — per ‘‘facta concludentia’’— di una piena partecipazione all’ente criminale, non dovendosi inserire nella valutazione alcuna pregiudiziale socio-criminologica relativa alla presunta estraneità antropologica del soggetto alla tradizione sub-culturale della mafia (51). 7. Tali considerazioni, d’altra parte, offrono l’occasione per una precisazione d’ordine generale. Non bisogna confondere i diversi piani del penale sostanziale e quindi del contenuto di disvalore delle condotte punibili, da un lato, e del diritto processuale penale e cioè delle prove (i segni) di quei contenuti, dall’altro. Mantenere distinti questi due piani non significa, però, disinteressarsi della sorte cui vanno incontro i concetti elaborati in sede sostanziale quando passano al vaglio del meccanismo processuale; significa, al contrario, indurre a chiarire ciò che la prova deve dimostrare ed eventualmente, in un’ottica riformatrice, evidenziare con maggiore consapevolezza i limiti di quei concetti o della forma linguistica che essi assumono nella norma penale. A tal proposito, in una recente presa di posizione, un autore d’oltr’alpe (52) ha messo in luce come la giurisprudenza di legittimità tedesca si stia orientando verso forme di argomentazione simili a quelle tipiche (50) Cfr ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, 187 ss. (51) Per tutti, v. GROSSO, La contiguità, cit., 1192. (52) VOLK, Diritto penale ed economia, contributo dattiloscritto al convegno ‘‘Il diritto penale degli anni ’90’’, Bologna, 18-20 maggio 1995.


— 1329 — della giustizia del caso concreto e proprie dei sistemi di case law. E ciò attraverso giudizi che non investono il contenuto dei concetti di diritto penale sostanziale (ad esempio il dolo, la colpa, il nesso di causalità etc.), bensì la loro rappresentazione, e cioè, in ultima analisi, la prova nel processo, assicurando così una efficace re-intepretazione del sistema penale alla luce delle esigenze via via emergenti nella realtà e lasciando però ‘‘intatti’’ i concetti predetti. 8. Tornando al nostro tema, le osservazioni appena svolte consentono di prendere posizione nel dibattito dottrinale intorno al contenuto della condotta di partecipazione, che vede contrapposti coloro i quali lo incentrano sull’assunzione di un ruolo (53) a quelli che, invece, richiedono una attività concreta alternativa o concorrente al ruolo assunto (54), senza la quale non si dovrebbe perfezionare il reato di partecipazione. Così impostata, in realtà, la questione risente della commistione tra i due piani sopra richiamati (penale e penal-processuale): bisogna, invece, partire dall’acquisizione teorica secondo cui il reato di partecipazione all’associazione è già integrato dal mero incardinamento nel tessuto organizzativo dell’ente criminale, e ragionare poi sugli elementi dai quali desumere tale contenuto sostanziale, tenendo conto però che essi appartengono ad un altro livello di riflessione e sono inevitabilmente più elastici poiché connessi al diverso fenomeno criminologico a cui il tipo di reato associativo fa di volta in volta riferimento. Tanto premesso, possiamo adesso comprendere appieno il significato e il fondamento dei criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza per distinguere la figura del concorrente esterno da quella del partecipante. Essi costituiscono, infatti, la proiezione specularmente inversa dei caratteri di ciascuna figura: sicché alla coppia stabilità/permanenza, che rappresenta l’indice rivelatore della condotta partecipativa, viene contrapposto solitamente il binomio occasionalità/episodicità o comunque il carattere ‘‘non istituzionale’’ della prestazione del concorrente esterno (55). A voler essere, però, più fedeli alla ‘‘storia’’ degli orientamenti giuri(53) Tra gli altri, pur se con impostazioni non coincidenti, cfr. DE FRANCESCO, Societas sceleris, cit., 137 ss.; e SPAGNOLO, L’associazione, cit., 85 ss. (54) Per tutti: FIANDACA e MUSCO, Diritto penale, p.s., Bologna, 1988, I, 28; INSOLERA, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, 221. (55) V., con riferimento all’associazione mafiosa, Cass. 4 febbraio 1988, Barbella, in Foro it., Rep. 1989, voce Ordine pubblico (reati contro l’), n. 18; e, più di recente, Cass. 31 agosto 1993, Di Corrado, in Cass. pen., 1994, 1496; nella giurisprudenza di merito cfr. Trib. Roma 8 febbraio 1985, Materazzo, in Cass. pen., 1985, 1682. Relativamente all’associazione per delinquere comune v. Cass. 24 gennaio 1994, Silveira, in Giust. pen., 1994, II, 424. A dir la verità, sui caratteri che dovrebbe presentare la condotta del concorrente


— 1330 — sprudenziali in materia di associazione per delinquere, si deve menzionare la ricorrente formula del ‘‘contributo al mantenimento o rafforzamento dell’associazione ancorché di minima importanza’’, inteso come soglia minima per la punibilità del partecipante. Tale formula, tuttavia, se, per un verso, è probabilmente servita a far risaltare l’aspetto oggettivo, materiale della condotta di partecipazione rispetto a quello più sfumato e soggettivistico della c.d. ‘‘affectio societatis’’, per un altro, è via via degradata ad una sorta di clausola di stile entro la quale poter far rientrare qualsiasi condotta entrata in contatto con l’ente criminale. Anche perché, con particolare riferimento allo spessore causale dell’apporto, la giurisprudenza ha attinto alle tradizionali categorie elaborate in generale nell’ambito dell’istituto del concorso di persone per connotare le condotte c.d. non necessarie, e quindi ai concetti di contributo di agevolazione, cooperazione, o alla famigerata idoneità ex ante, etc.: categorie le quali, tutte, non brillano certo per la loro attitudine selettiva. A ciò si aggiunga, infine, l’inguaribile indeterminatezza contenutistica del bene giuridico ‘‘ordine pubblico’’ alla cui tutela, com’è noto, è predisposto il reato di associazione per delinquere (56). Per concludere sul punto: il quadro complessivo che si delinea è in effetti quello di una giurisprudenza del caso concreto, nel cui ambito è veesterno, almeno fino alla sentenza delle sez. un. del 5 ottobre 1994, ha regnato in giurisprudenza una certa ‘‘anarchia’’. Ad es., per Cass. 6 giugno 1994, Bargi, in Giust. pen., 1995, II, 18, concorre nel delitto di associazione mafiosa ‘‘colui che, estraneo alla struttura organizzativa del sodalizio, non avendo aderito al pactum sceleris e non partecipe della tipica attività consortile, abbia tuttavia posto in essere comportamenti atipici, incoerenti con lo scopo delittuoso dell’associazione, ma dotati di idoneità causale al mantenimento della stessa’’; mentre, secondo Cass. 23 agosto 1994, Amato, in Cass. pen., 1994, 2678 ‘‘è giuridicamente corretto contestare il concorso ex art. 110 c.p. a coloro i quali nell’associazione per delinquere comune o di tipo particolare si aggiungono ai concorrenti necessari per svolgere attività di cooperazione, istigazione, aiuto e simili’’; ovvero ancora l’impostazione di Cass. 18 giugno 1993, Turiano, in Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 28, secondo cui il concorso esterno ‘‘si realizza quando la condotta dell’agente non sia intrinsecamente connaturata con la struttura del sodalizio criminoso, ma ne costituisca soltanto supporto esterno non direttamente incidente sugli elementi necessari per la configurazione dell’associazione’’. Successivamente alla sentenza delle sez. un., si segnala Cass. 7 ottobre 1994, Tringale, in Giur. it., 1995, 408, sulla quale v. diffusamente infra, nota 63; e Cass. 10 ottobre 1994, Ensabella, n. 4379, inedita, secondo la quale ‘‘in materia di associazione per delinquere di stampo mafioso, la qualifica dell’indagato come persona ‘avvicinata’ dall’organizzazione criminale, configura il concorso eventuale nel reato associativo’’. V., altresì, per completare la rassegna dell’orientamento favorevole all’ammissibilità del concorso esterno: Cass. 3 febbraio 1993, Oro, in Giust. pen., l994, II, 258; Cass. 23 novembre 1992, Altomonte, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 11; Cass. 13 giugno 1987, Altivalle, in Cass. pen., 1988, 1812. (56) In argomento, v. DE VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, 233 ss.; ID., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in questa Rivista, 1993, 93 ss.


— 1331 — ramente difficile scorgere tendenze dotate di un’apprezzabile e significativa omogeneità applicativa (57). In quest’ottica, l’adozione nella giurisprudenza della formula del contributo causale all’associazione non sembra aver dato molto sul piano della reale controllabilità empirica delle decisioni circa il contenuto minimo della condotta del partecipante. Su un’esperienza siffatta si è poi innestata la giurisprudenza relativa all’associazione mafiosa, con la differenza, però, che in essa ha pesato una più precisa dimensione socio-criminologica che, nel bene e nel male, ne ha senz’altro influenzato gli orientamenti. Da questo punto di vista, mette conto segnalare che per quanto riguarda l’associazione mafiosa, in un primo momento, è stato fatto molto uso a fini qualificatori delle c.d. regole interne alla mafia stessa, per cui soltanto agli affiliati a ‘‘cosa nostra’’ secondo la tradizionale liturgia d’ammissione (i c.d. ‘‘uomini d’onore’’) veniva contestata sempre e comunque la partecipazione, mentre ai colletti bianchi (e cioè ai non affiliati) il concorso esterno (58). Adesso, invero, sembra prender piede pian piano un approccio che tende maggiormente a valutare in concreto la natura del ruolo o del contributo apportato dal soggetto, con la consapevolezza che il dato formale dell’affiliazione può essere, a seconda dei casi, non sufficiente o, al contrario, non necessario per configurare la partecipazione piena al reato associativo (59). Peraltro, l’orientamento imperniato sull’avvenuto o meno inserimento formale nell’associazione da parte del soggetto, va storicamente spiegato con il tipo di quadro probatorio e, più in generale, con le conoscenze a disposizione dei giudici sulle organizzazioni mafiose nel corso degli anni Ottanta. In una prima fase, infatti, si avevano soprattutto chiamate di correo rivelanti l’organigramma (per dir così) ufficiale delle famiglie mafiose, e prevaleva quindi la necessità di trovare riscontri a tali dichiarazioni e di farle bastare per l’incriminazione e la condanna di ciascun affiliato. In una seconda, invece, i magistrati acquistano consapevolezza (e informazioni) circa la complessità degli intrecci tra il tradizionale ‘‘personale’’ mafioso e la ‘‘società civile’’, e comincia quindi a prevalere la necessità di dar corpo sul piano penale e probatorio a tali rapporti anche mediante la figura del concorrente esterno. Tale schema qualificatorio appare d’altronde destinato ad essere in (57) Interessante, sul punto, l’ampia casistica passata in rassegna da MINNA, La mafia in Cassazione, Firenze, 1995, e in part. 175 ss. (58) Su tale tendenza sia consentito rinviare a VISCONTI, Il tormentato cammino del concorso ‘‘esterno’’, cit., 573 ss.; cfr. pure PACI, Osservazioni sull’ammissibilità del concorso eventuale, cit., 545 s. (59) Si veda, per tutte, Cass. 1 agosto 1994, Graci, in Cass. pen., 1995, 542.


— 1332 — gran parte superato, almeno nei suoi aspetti troppo rigidamente legati allo stereotipo socio-criminologico, se è vero che financo le pronunzie dei giudici di legittimità contrarie all’ammissibilità del concorso esterno nell’associazione hanno confermato la possibilità di pervenire alla configurazione della partecipazione piena all’associazione pur in assenza e prescindendo dall’affiliazione formale all’ente (60). Sorge, perciò, un ragionevole dubbio sulla sorte che verrà riservata in concreto alla figura del concorrente esterno dalla futura prassi giudiziaria, posto oltretutto che negli ultimi tempi si è assistito spesso a dei repentini passaggi dall’incriminazione per concorso esterno a quella per partecipazione nell’associazione mafiosa, operati dalla magistratura inquirente non in virtù dell’acquisizione di nuovi elementi di fatto ovvero di una nuova valutazione degli stessi elementi, bensì secondo la buona o cattiva stampa goduta dalla combinazione tra l’art. 110 e l’art. 416-bis c.p. presso i giudici di legittimità. Ad una preoccupazione siffatta sembra riconducibile l’adozione in numerosi provvedimenti cautelari di formule linguistiche del tipo ‘‘l’aver contribuito sistematicamente’’, ovvero in modo ‘‘continuativo e non occasionale’’ al rafforzamento dell’associazione criminale, per descrivere condotte risolventesi sovente in singoli apporti forniti da soggetti non affiliati e comunque incriminati a titolo di concorso nel reato di cui all’art. 416bis c.p. Sembra, cioè, che soprattutto la magistratura inquirente tenda a non ‘compromettersi’ nella fase della prima qualificazione giuridico-penale dei fatti oggetto d’indagine con univoci schemi d’imputazione, adottando a tal uopo formule stereotipate che consentano in un secondo momento di precisare i presupposti della responsabilità. Si consideri il caso di quel medico, cui la procura di Palermo ha contestato il concorso esterno ‘‘per aver contribuito in modo continuativo e non occasionale all’associazione mafiosa’’: (...) ‘‘egli era stato incaricato dagli uomini d’onore di Brancaccio di seguire l’attività del parroco (si tratta di Don Puglisi, ucciso, poi, dalla mafia, n.d.r.) e di riferire agli stessi. Ciò costituisce la riprova dell’importanza del ruolo del professionista per l’organizzazione criminosa: una sorta di collegamento permanente tra l’area criminale e l’area della legalità. (...) Il quadro delineato, dà la misura del livello di contributo prestato dal medico all’organizzazione mafiosa, sotto il profilo dell’agevolazione degli scopi perseguiti da essa e del rafforzamento delle stessa, attraverso la sua opera di medico chirurgo estrinsecantesi nel curare i membri dell’associazione che, in quanto latitanti, non potevano ricorrere alle cure presso strutture pubbliche (...) e l’apporto offerto agli « affiliati » mediante le sue conoscenze derivantegli dall’appartenenza alla massoneria’’ (61). Dato il tenore della descrizione della condotta del me(60) Ad. es., cfr. Cass. 18 maggio 1994, Clementi, cit. (61) Trib. Palermo, ufficio delle indagini preliminari, ord. di custodia cautelare n. 3407 emessa il 21 giugno 1994 a carico di Graviano e altri.


— 1333 — dico non desterebbe alcuna sorpresa, invero, se il giudice del merito, ove ritenesse sufficienti le prove, la qualificasse poi come partecipazione piena all’associazione. E dunque, delle due l’una: o il soggetto ha realizzato una condotta di sostegno all’organizzazione mafiosa avente i caratteri della stabilità e permanenza, in guisa da rivelare una compenetrazione con l’ente criminale tale da poter dire che egli appunto ne faccia parte e, allora, potrà essere considerato un partecipante anche in assenza di un atto di formale affiliazione; ovvero ha contribuito in maniera frammentaria, magari mediante anche un solo apporto dotato di efficacia causale rispetto al rafforzamento o alla sopravvivenza dell’organizzazione e, dunque, andrà più correttamente applicato lo schema d’imputazione ex art. 110 c.p. 9. Orbene, in un contesto dottrinale e giurisprudenziale così brevemente delineato e alla luce delle considerazioni appena svolte, vanno analizzati i criteri proposti dalle sezioni unite del 5 ottobre 1995 per distinguere il concorrente esterno dal partecipante. Nella sentenza si dice infatti che ‘‘il concorrente eventuale è per definizione colui che non vuole far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a far parte, ma al quale si rivolge sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, sopratutto, nel momento in cui la ‘‘fisiologia’’ dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase ‘‘patologica’’, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un esterno, dimodoché, continuano i giudici di legittimità, ‘‘lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell’emergenza nella vita della associazione o, quanto meno, non lo spazio della normalità, occupabile da uno degli associati. L’anormalità, la patologia, poi, può esigere anche un solo contributo, anche episodico, estrinsecantesi, appunto, in un unico intervento, ché ciò che conta, ciò che rileva è che quell’unico contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi’’. Tali criteri non hanno mancato di sollevare consistenti perplessità in alcuni commenti ‘‘a caldo’’ della sentenza. Uno studioso, in particolare, si è posto il problema di come sia possibile qualificare mero concorrente esterno invece che partecipante a pieno titolo un soggetto il quale, alla stregua dell’impostazione prospettata dalle sezioni unite, anche con un solo intervento riesca ad assicurare addirittura la sopravvivenza dell’ente criminale in un momento ‘‘patologico’’ in cui è minacciata la sua esistenza (62). L’obiezione, però, seppur convincente sul piano del senso comune, trascura forse che la differenza tra partecipante e concorrente ri(62)

G.A. DE FRANCESCO, lezione tenuta presso la Scuola di perfezionamento in di-


— 1334 — siede non nell’intensità dell’apporto causale, bensì nella compenetrazione o meno del soggetto con l’ente criminale, la quale per il partecipante deve essere massima (deve, cioè, ‘‘far parte’’) mentre per il concorrente può anche essere assente. Per fare un esempio, si consideri quanto possa essere determinante l’interessamento di un politico, che riveste un’alta carica istituzionale, circa l’adozione o meno di una norma nel contesto di un provvedimento legislativo molto temuto dall’organizzazione mafiosa, interessamento ovviamente richiestogli dall’associazione stessa. In tal caso, saremmo di fronte ad un unico contributo apportato da un soggetto che non fa parte e, purtuttavia, decisivo per le sorti dell’ente criminale (fatta salva beninteso la possibilità, in un caso come questo, di considerare comunque operante la scriminante dell’esercizio di una libertà politico-parlamentare). Rimane non facile, comunque, orientarsi secondo i criteri additati dalle sezioni unite nel coacervo di condotte che nella realtà possono entrare in contatto con l’organizzazione criminale (63). Possiamo, però, tenscipline giuridiche S. Alfonso de Liguori di Palermo il 13 aprile 1994 dal titolo ‘‘Il concorso morale degli assoclati nei reati-fine dell’associazione’’. (63) Da questo punto di vista sembra fornire indicazioni più semplici e condivisibili (o meglio: più rassicuranti) una sentenza della I sez. della Cassazione pronunziata appena due giorni dopo quella delle sez. un., e cioè il 7 ottobre 1994, Tringale, cit. Nella motivazione, infatti, i giudici di legittimità fissano tre condizioni in presenza delle quali può parlarsi di concorso esterno nell’associazione mafiosa a carico di un soggetto estraneo al sodalizio: a) ‘‘che l’interesse agevolato, ancorché privato, avvantaggi, comunque, e complessivamente il sodalizio mafioso nella specificità delle sue finalità delituose’’; b) ‘‘che la motivazione della condotta ausiliaria sia deliberatamente volta a fornire una prestazione utile anche all’associazione, oltre che alla persona affiliata’’; c) ‘‘che l’intervento ausiliario non sia occasionale, ovvero nel senso di una ripetitiva prestazione, al limite di una mediazione sistematica’’. Ora, al di là di alcune affermazioni forse discutibili o quantomeno poco chiare, tale decisione riveste particolare importanza tenuto anche conto del caso concreto giudicato. Si trattava, infatti, del sindacato di legittimità su un provvedimento de libertate emesso dal Trib. Catania a carico di un tale, ritenuto dagli stessi giudici requirenti estraneo all’associazione criminale, che aveva fornito una macchina ad un capo mafia latitante e vitto e alloggio ad un altro componente di ‘‘cosa nostra’’, con la fondamentale, però, particolarità che entrambi i soggetti così aiutati erano avvinti da un legame parentale con l’indagato (cugino e nipote). Ciò fa giustamente concludere i giudici di legittimità nel senso che tali ‘‘circostanze connotano comportamenti assistenziali nei confronti dei singoli componenti e non dell’associazione... dove semmai sarebbe di tutta evidenza la figura residuale dell’art. 418 c.p., nella quale manca una qualunque verosimile adesione agli scopi del sodalizio e, quindi, un deliberato contributo allo stesso’’. Ebbene, se nella prassi applicativa relativa al concorso esterno nell’associazione mafiosa fosse sempre presente una tale capacità di discernimento e inquadramento penale delle condotte di sostegno ai sodalizi mafiosi, probabilmente le numerose e peraltro ragionevoli perplessità manifestate da una parte della dottrina e della giurisprudenza riguardo al pericolo di una indiscriminata ‘‘penalizzazione’’ di qualsiasi comportamento ‘‘contiguo’’ alla mafia (e ai mafiosi), perderebbero gran parte della loro pregnanza.


— 1335 — tare una esemplificazione casistica, tenendo anche conto del carattere meramente indicativo dei predetti criteri riconosciuto dagli stessi giudici di legittimità — e della conseguente necessità di sottoporli al filtro di una più approfondita riflessione teorica e di una maggiore consapevolezza pratica. Anzitutto, sembra più agevole la sussunzione entro la figura del concorso esterno di tutte quelle condotte che apportano un contributo direttamente all’organizzazione senza assumere una definita, autonoma e pregnante qualificazione penale, trattandosi sovente di comportamenti privi di rilevanza se non messi in relazione con l’attività di un determinato settore dell’associazione illecita. Si faccia l’esempio del piccolo delinquente Filano, residente in una città del nord Italia, a cui un esponente dell’organizzazione chiede ed ottiene la disponibilità di un appartamento per alcuni affari dell’associazione mafiosa. Il destinatario della richiesta accetta, pur conoscendo il tipo di organizzazione da cui proviene la richiesta (anzi proprio perché la conosce e quindi o ha paura di rifiutare o pensa un giorno di trarne vantaggio), senza sapere, però, che quell’appartamento costituirà il luogo di transito per nascondere un grosso quantitativo di esplosivo da impiegare in un gravissimo attentato. A strage compiuta, Filano non risponderà certo di concorso in essa, bensì di concorso nell’associazione mafiosa in quanto egli ha realizzato una condotta diretta consapevolmente a fornire un contribuito materiale all’organizzazione mafiosa, apporto di cui l’associazione si è effettivamente avvalsa raggiungendo un risultato (dotarsi prontamente di una base logistica su un territorio non controllato come quello di provenienza) che con le proprie forze, e cioè attraverso i propri associati, non avrebbe ottenuto. Ancora: il tecnico Sempronio, impiegato in un’importante azienda di telecomunicazioni, il quale, su richiesta di alcuni esponenti di ‘‘cosa nostra’’, mette al corrente questi ultimi o altri soggetti a loro vicini delle tecniche di intercettazione realizzabili su particolari apparecchi telefonici. Ai fini della punibilità a titolo di concorso nell’associazione mafiosa del tecnico, è sufficiente che la condotta di consulenza sia prestata nella consapevolezza di fornire un contributo all’organizzazione mafiosa e non dell’uso in concreto (peraltro presumibilmente molteplice e eventuale) che questa ne farà. Più in sintesi: l’avvocato Tizio viene incaricato del compito (e lo svolge) di portare un messaggio di un noto capo dell’associazione criminale ad alcuni individui gravitanti intorno all’ente criminale, necessario all’assunzione di importanti decisioni relative alla vita dell’organizzazione; il proprietario di un immobile mette a disposizione lo stabile per una riunione ‘‘al sicuro da occhi indiscreti’’ del vertice dell’organizzazione mafiosa; il magistrato invita un collega a ‘‘esaminare attentamente’’ sotto un profilo giuridico l’applicabilità di una misura di prevenzione ad una im-


— 1336 — portante impresa controllata da esponenti mafiosi, avendone ricevuto richiesta da questi direttamente o da persone a loro vicine e consapevole di fornire così un sostegno a quel dato gruppo mafioso; l’importante ed influente personaggio politico decide, in accordo con i capi mafiosi di una zona rientrante in un determinato collegio elettorale, di ordinare ai suoi galoppini elettorali di procacciare voti in favore di un candidato sostenuto da quella famiglia mafiosa (64); l’imprenditore in cambio dell’assunzione di alcuni lavoratori indicati dagli esponenti di ‘‘cosa nostra’’ ottiene alcuni sub-appalti grazie al vuoto creatosi attorno a lui per la consapevolezza degli altri imprenditori di non poter competere contro chi ha l’appoggio dell’organizzazione criminale (65); il cancelliere offre informazioni ad alcuni intermediari di un’importante e potente organizzazione criminale circa i nomi, le abitudini, le amicizie dei componenti di un collegio giudicante della Corte di Cassazione in vista dell’esame di un processo in cui sono coinvolti numerosi esponenti dell’associazione criminale, consapevole della reale destinazione delle notizie rivelate. In tutti questi casi (riportati, peraltro, in una versione, per dir così, ‘estremizzata’ e cioè riducendoli ad un unico contributo alla stregua della recente impostazione delle sezioni unite), sembrano sussistere coordinate sostanziali comuni che ne consentono la sussumibilità entro la figura del concorso esterno: l’occasionalità del contributo, la sua funzionalità immediata all’organizzazione dell’ente criminale, l’esistenza di un nesso causale tra questo contributo e un vantaggio ottenuto dall’apparato criminale anche in un suo particolare settore, la consapevolezza del soggetto di sostenere con la sua condotta l’organizzazione criminale nel suo complesso. Il filo rosso che lega fattualmente le fattispecie riportate è, inoltre, individuabile nell’avvalersi da parte dell’associazione criminale di sostegni provenienti ‘‘dall’esterno’’, ogni qual volta l’organizzazione non riesce a far fronte, mediante i propri associati, alle molteplici esigenze legate alle svariate attività svolte e alla loro sopravvivenza. Ciò che più caratterizza, in ultima analisi, la posizione dell’esterno nel contesto dell’economia organizzativa dell’associazione sembra essere la natura infungibile della sua prestazione rispetto alle prestazioni pretendibili dagli associati medesimi: l’avvocato, il perito, il funzionario della p.a. rendono, infatti, un servizio all’associazione altrimenti non ottenibile. Con questa chiave di lettura (il criterio, appunto, della infungibilità) potrebbe essere re-interpretata quella dimensione ‘‘patologia’’ nella quale (64) In tal caso vi sarebbe, inoltre, da verificare l’eventuale interferenza con gli artt. 416-ter, 294 c.p. e 96, 97 del t.u. 361/57: sul tema sia consentito rinviare a VISCONTI, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Indice pen., 1993, 273 ss. (65) Per una approfondita disamina della complessa e variegata fenomenologia dei possibili rapporti tra imprenditori e organizzazioni criminali v., in particolare, TURONE, Il delitto, cit., 337 ss.


— 1337 — dovrebbe versare l’associazione criminosa nel momento in cui richiede l’intervento dell’estraneo, e che le sezioni unite additano come criterio al fine di distinguere il concorrente esterno non solo dal partecipante ma anche dal concorrente nel reato-scopo. In tal senso, va ribadito che il presupposto di una corretta qualificazione penale di ogni condotta afferente al fenomeno associativo, siano esse di partecipazione o concorso, rimane fondamentalmente l’elemento dell’organizzazione. Il giudice, quindi, dovrà accertare in concreto caratteri, modalità, e struttura dell’associazione e, una volta avuti chiari i connotati e il funzionamento di quella specifica organizzazione criminale, procedere alla qualificazione penale della singola condotta verificando, a ritroso, se il soggetto in quel contesto abbia assunto un ruolo stabile e permanente (e allora avremo la partecipazione) ovvero (e avremo invece un’ipotesi di concorso esterno) abbia fornito uno o più contributi di natura episodica i quali, secondo i parametri prima accennati, hanno prodotto un oggettivo effetto di rafforzamento o consolidamento sull’associazione o anche su un suo particolare settore (nel caso dell’art. 416-bis c.p., sarà più agevole, ad esempio, far riferimento alla singola ‘‘famiglia’’). Con riferimento, poi, in particolare al concorrente esterno, v’è da precisare che l’accertamento probatorio non dovrà avere ad oggetto una mera disponibilità dell’estraneo a conferire il contributo richiestogli dall’associazione, bensì l’effettività di esso, e cioè che a seguito di un impulso proveniente dall’ente criminale il soggetto si è di fatto attivato nel senso indicatogli. Per intenderci: il consulente finanziario cui è stato richiesto un piano di investimento globale per i patrimoni di una famiglia mafiosa, posta l’esistenza dei requisiti sul piano soggettivo, risponderà di concorso nell’associazione se si raggiunge la prova che la richiesta abbia avuto seguito e cioè che il piano sia stato fornito (non soltanto, quindi, che abbia accettato di farlo), non rilevando, invece, la sua concreta attuazione da parte dell’organizzazione criminale. Così come, per far riferimento ad uno degli esempi sopra riportati, rileverà ai fini penali che il magistrato abbia effettivamente parlato al collega per quel determinato caso secondo le indicazioni fattegli pervenire dall’organizzazione mafiosa e non soltanto, quindi, che abbia accettato di intervenire (discutibile è se sia anche necessario, poi, che il magistrato destinatario del ‘‘consiglio tecnico’’ si sia comportato di conseguenza). D’altra parte, qualora dovesse trattarsi di contributi reiterati nel tempo e della stessa natura, non va esclusa la possibilità di riconoscere l’assunzione da parte del soggetto — per facta concludentia — di un ruolo stabile all’interno dell’organizzazione e quindi gli estremi di una piena partecipazione all’associazione. Una simile osservazione, però, se convince sul piano teorico-ricostruttivo, sul piano della differenziazione in


— 1338 — concreto presenta non poche difficoltà. Ci troviamo, cioè, di fronte ad un altro nodo del concorso esterno che forse non può essere sciolto con nessuna, neanche la migliore, delle formule teoriche possibili: ognuna di esse rischierebbe, inevitabilmente, di venire manipolata nell’impatto con la realtà applicativa. Piaccia o no, la verità è che soltanto il giudice potrà valutare quando, alla presenza non di uno solo ma di più contributi di un soggetto all’associazione, siano ravvisabili quei caratteri di stabilità e permanenza che spingono la qualificazione penale della condotta verso la partecipazione e non verso il concorso esterno. È appena il caso di segnalare la particolare delicatezza che assume la valutazione di tutti quei casi nei quali la condotta di sostegno è connessa all’esercizio di una libera professione, soprattutto quella forense. Qui il discrimine tra un comportamento di legittima tutela del cliente, ancorché appartenente ad un’associazione mafiosa, e la condotta di fiancheggiamento penalmente rilevante a titolo di concorso può presentare non pochi problemi: tuttavia, proprio per questa ragione, va tenuta a debita distanza qualsiasi tentazione semplificatoria volta a ridurre efficaci prestazioni di assistenza processuale e di consulenza giuridica effettuate da un avvocato ad un oggettivo contributo all’associazione, rilevante penalmente in quanto a tal fine consapevolmente fornito. Si rischia, diversamente, di guardare con occhio repressivo proprio quei professionisti più abili nella difesa penale dei soggetti processati o inquisiti per fatti legati ad una associazione per delinquere (e più abili, piaccia o no, può e deve significare la capacità di avvalersi di ogni strumento processuale possibile per salvaguardare gli interessi del cliente), dando ingiustificato rilievo probatorio, magari, anche all’alto numero di mafiosi assistiti, ben spiegabile, invece, appunto con la fama professionale acquisita sul campo. Da questo punto di vista, neanche può rilevare una particolare familiarità con i propri clienti da parte del professionista, testimoniata da numerosi benefici materiali ottenuti da quest’ultimo, i quali, invece, possono talvolta rappresentare soltanto forme di cattivo gusto nella percezione dei compensi alle prestazioni professionali eseguite e non di prestazioni necessariamente illecite. Al contrario, non sembra più semplicemente riconducibile ad un’abile difesa né a forme di malcostume professionale, il comportamento dell’avvocato che partecipa ad una riunione di latitanti ove si discute e decide — non soltanto sul piano processuale — la strategia dell’associazione; ovvero, ancora, l’avvocato latore dei ‘‘desiderata’’ dell’associazione mafiosa o dei suoi capi in alcuni ambienti ove egli ha possibilità di accesso (66). (66) Sul rischio che attraverso la figura del concorso esterno prenda piede nella giurisprudenza una sorta di foga incriminatrice nei confronti di condotte che altro non rappresentano che l’esercizio di funzioni defensionali, v. MANNA, L’ammissibilità di un concorso


— 1339 — 10. Risulta, invece, meno semplice l’analisi di quella casistica cui allude la sentenza delle sezioni unite nella parte ove contesta l’interferenza dell’aggravante prevista dall’art. 7 cit. sulla configurabilità e sull’ambito applicativo del concorso esterno. La Cassazione, cioè, osserva che, quando a un soggetto estraneo viene richiesto di uccidere ‘‘per impartire una lezione a qualcuno che ha osato disobbedire senza che la disubbedienza abbia messo minimamente in forse la vita dell’associazione’’, si configurerà un omicidio aggravato dal fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa; mentre, qualora ‘‘l’omicidio abbia di mira l’eliminazione di un qualche pericoloso concorrente o di altri che possono minare la vita dell’associazione’’, l’estraneo che lo ha commesso, ‘‘consapevole del valore del suo contributo’’, dovrà rispondere di concorso esterno nell’associazione (oltre che, ovviamente, di omicidio). In proposito, v’è (67) chi ha osservato criticamente che in tal modo la qualificazione penale della condotta dell’estraneo finisce per derivare dagli scopi perseguiti dall’associazione e non dalla condotta stessa. Ma, al di là di tale obiezione, che pure solleva un problema reale, la questione che riemerge è quella — invero tutt’altro che nuova — della distinzione tra la partecipazione alla commissione di un reato-scopo e l’eventuale concorso nell’associazione (distinzione che la Cassazione parrebbe affidare, appunto, alla finalità perseguita dall’organizzazione o, meglio, all’esistenza di una sorta di stato necessità in cui essa verserebbe e che intenderebbe superare con la commissione del reato). Peraltro, sul punto i giudici di legittimità si soffermano diffusamente, ricordando che in generale ‘‘nessuno dubita che colui che si impossessa di un veicolo altrui per porlo a disposizione dei correi con i quali ha deliberato di commettere una rapina risponda sia del delitto di furto che di quello di rapina, né che risponda ugualmente di furto e concorso in rissa chi fornisca un’arma, dopo averla rubata, ad un corissante’’. Il ragionamento appena riportato sembra, invero, difficilmente confutabile. Tuttavia permane la perplessità di fondare la soluzione su di uno schema sostanzialmente presuntivo: nel senso che dalla commissione di un reato grave in un momento ‘‘patologico’’ della vita dell’ente criminale viene pressoché automaticamente dedotta l’esistenza di un nesso causale ‘‘esterno’’ nei reati associativi, cit., 1198 ss.; con accenti diversi, GROSSO, La contiguità alla mafia, cit., 1203; e anche GUALDI, Il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere con particolare riferimento alla figura del difensore, in questa Rivista, 1989, 300. La problematica, peraltro, presenta rilevanti profili di analogia con quella, già ampiamente approfondita dalla dottrina, dei rapporti fra il reato di favoreggiamento e l’attività di patrocinio legale: si vedano le osservazioni di GELARDI, L’oggetto giuridico del favoreggiamento come dover essere del processo, Padova, 1993, 113 ss., e ivi ulteriori riferimenti dottrinali. (67) INSOLERA, Il concorso esterno, cit., 428.


— 1340 — tra la condotta che ha realizzato il reato medesimo e il rafforzamento dell’associazione. Proprio questo schema presuntivo di ragionamento rischia infatti di svigorire, sul piano tanto dommatico che politico criminale, la diversità di disvalore tra concorso esterno nell’associazione e compartecipazione in un reato-scopo di quest’ultima: e ciò perché sarà quasi sempre possibile riscontrare in ogni contributo ad un reato-scopo un qualche vantaggio, sia pure indiretto, a beneficio dell’associazione. Si ritorni proprio agli esempi forniti dai giudici di legittimità: l’omicidio di un tale che ‘‘ha osato disobbedire’’ da parte di alcuni killer estranei a ‘‘cosa nostra’’, a ben vedere, può certamente rappresentare un fatto da cui dipende il mantenimento e il rafforzamento del dominio esercitato dall’associazione criminale in quel dato territorio. Da questo punto di vista, la differenza rispetto all’‘‘omicidio del pericoloso concorrente che minaccia la stessa vita dell’associazione’’ affidato all’estraneo, sembra affievolirsi fino a diventare un dato psicologico riscontrabile solo nella mente di chi ha commissionato il delitto. Orbene, qualsiasi pretesa classificatoria di carattere dogmatico sembra qui dover lasciare il campo a ragioni di opportunità di carattere politico-criminale da valutare necessariamente caso per caso. In questa prospettiva casistica, l’eventuale scelta di considerare il primo caso un omicidio a cui va applicata l’aggravante del fine di agevolare l’associazione, e il secondo caso, invece, un omicidio cui si aggiunge un concorso esterno nell’associazione, potrebbe davvero apparire la dimostrazione paradigmatica dell’effetto (per dir così) metastatico-moltiplicatore provocato, sul piano della qualificazione penale, dall’innesto del concorso esterno nella trama già dilatata del reato associativo. Se si condividono le considerazioni che precedono, il criterio del momento c.d. ‘‘patologico’’, così come indicato dalle sezioni unite, non solo non riesce a fornire alcun reale discrimine tra concorso nell’associazione e commissione di un reato-scopo aggravato dal fine di agevolare l’associazione, ma rischia anche di avallare una prassi già poco incline a praticare in concreto tale distinzione. Rischio che appare concretizzarsi quando viene da taluno prospettato — proprio al fine di esemplificare (68) il criterio della fase ‘‘patologica’’— il concorso nell’associazione in capo all’estraneo che concorre materialmente nell’omicidio perpetrato, su ordine di ‘‘cosa nostra’’, da tre affiliati all’organizzazione ai danni di un ‘‘uomo d’onore’’, il quale, ancorché ristretto in carcere, era divenuto molto pericoloso per i capi dell’organizzazione perché in forte dissenso con loro. In tal modo, invero, si appaga più un bisogno ‘‘penal-simbolico’’ che una reale (68) Tale esempio fa riferimento all’omicidio Puccio consumato nel 1989 nel carcere di Palermo ed è stato riportato da NATOLI nel corso di una lezione tenuta presso la Scuola di perfezionamento in discipline giuridiche S. Alfonso de Liguori il 2 maggio 1995 dal titolo ‘‘Il concorso esterno nei reati associativi tra teoria e prassi’’.


— 1341 — esigenza di politica criminale. Potrebbe essere vero, infatti, che l’importanza per le sorti dei vertici dell’associazione mafiosa rivestita dall’eliminazione di quell’uomo ‘‘d’onore’’ in carcere sia tale da integrare quelle condizioni di ‘‘emergenza’’ che qualificano secondo le sezioni unite una condotta come concorsuale rispetto all’associazione. Purtuttavia, il sistema penale conseguirebbe, nell’ipotesi di ritenuta sussistenza del concorso in omicidio e del concorso esterno nell’associazione, il discutibile risultato di procedere a qualificazioni plurime che enfattizzano oltre misura il disvalore del medesimo fatto e finiscono, oltretutto, per disattendere esigenze pratiche di razionale economia punitiva. Esito, questo, davvero non auspicabile e forse evitabile mediante un’intepretazione, anche qui, del requisito delle situazione d’emergenza dell’associazione alla stregua del concetto di ‘‘infungibilità’’ nei termini più sopra chiariti (69): in modo tale da considerare non sufficientemente ‘‘qualificato’’, nell’esempio prima prospettato, l’apporto del detenuto rispetto alle necessità dell’associazione criminale nella vicenda specifica. Se l’opera prestata dal detenuto nel caso concreto rivela, infatti, una natura fungibile, nel senso che l’organizzazione si sarebbe potuta avvalere di qualsiasi altro detenuto o componente dell’associazione per ottenere il medesimo risultato, allora il contributo dell’estraneo non si può ritenere portatore di un diretto ed essenziale collegamento funzionale con l’organizzazione nel suo complesso e con la sua sopravvivenza. Diversamente, ad esempio, avverebbe nell’ipotesi in cui l’apporto all’omicidio fosse fornito da una guardia carceraria, talché senza il suo sostegno logistico, magari di ‘‘copertura’’, sarebbe stato impossibile, mediante la normale opera degli associati, conseguire l’obiettivo. Non v’è chi non veda, comunque, la fragilità del criterio suggerito, e, a dir la verità, essa non sfugge neanche a noi che lo proponiamo. Anche perché rimarebbe sempre valida l’obiezione fatta in precedenza: insomma, quale ragione politico-criminale aggiuntiva (rispetto al caso del detenuto qualsiasi) sosterrebbe l’incriminazione a titolo di concorso esterno nel reato associativo, oltre che nel reato di omicidio, della stessa guardia carceraria dell’esempio prima esposto? 11. Volendo, adesso, riassumere le riflessioni svolte, si può procedere ad una schematica tripartizione dell’area di operatività del concorso esterno, prendendo le mosse dall’ipotesi in cui a tale figura sembra riservato, pur se esiguo, uno spazio applicativo autonomo, passando poi a quella ove essa sostanzialmente produce un mutamento della qualificazione penale di una condotta altrimenti punibile, per finire con i casi nei quali l’incriminazione concorsuale si cumula con altri reati. (69)

Cfr. supra, 35.


— 1342 — Ed invero il concorso esterno: a) svolge un autonoma funzione incriminatrice rispetto a quelle condotte di per sé ‘‘neutre’’ (ed estrinsecantesi anche in un solo contributo) le quali acquistano rilievo penale in quanto strumentalmente connesse al funzionamento dell’organizzazione criminale. In tal caso dovrà accertasi l’effettivo svolgimento da parte dell’estraneo dell’attività richiestagli dall’associazione, assumendo, eventualmente, come punto di riferimento per verificarne l’incidenza causale anche un solo settore o componente dell’organizzazione criminosa; b) parimenti attrae nell’ambito applicativo del reato di associazione quelle condotte che già potrebbero rientrare in singole fattispecie incriminatrici di natura sussidiaria (in particolare il reato di assistenza ai partecipi e il reato di favoreggiamento), ma che tuttavia assumono una diretta connessione con l’organizzazione criminosa nel suo complesso. In tali casi, e sopratutto di fronte a condotte che si esauriscono in un unico contributo, si vanno attenuando le peculiarità oggettive della condotta e inevitabilmente assume primaria importanza l’aspetto soggettivo, e cioè la volontà dell’estraneo di sostenere l’intera associazione e non di assistere il singolo partecipante (art. 418 c.p.) o di aiutarlo ad eludere le indagini ovvero le ricerche (art. 378 c.p.); c) è suscettibile, inoltre, di ricomprendere anche condotte già punibili alla stregua di altre figure delittuose più specifiche, qualora in esse si ravvisi un contributo causale all’associazione particolarmente qualificato secondo i criteri indicati dalle sezioni unite e sopra riportati. In tal caso, peraltro, si pone un problema di convergenza sulla medesima condotta non solo del concorso nel reato associativo e del singolo reato commesso, ma anche dell’aggravante del fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa prevista dall’art. 7 cit., per risolvere il quale è necessaria una valutazione in concreto che tenga il più possibile distinta la responsabilità per il reato associativo da quella per il reato-scopo. In proposito, tuttavia, la sentenza delle sezioni unite del 5 ottobre 1994 non manca di destare ulteriori perplessità, ove afferma — seppur incidentalmente e con il condivisibile intento di confutare le tesi di coloro che dall’introduzione dell’aggravante in discorso fanno discendere la volontà del legislatore di escludere l’ammissibilità del concorso esterno nell’associazione illecita — che sarebbe ‘‘tutto da dimostrare... che il delitto o i delitti, aggravati come vuole la norma in esame (l’art. 7 cit., n.d.a.), non possano concorrere con il reato di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p.’’. Secondo quest’impostazione, quindi, nulla osta a che uno stesso fatto sia sanzionato contestualmente in forza di tre distinte fattispecie: prima come autonomo reato, poi come concorso esterno all’associazione mafiosa in quanto contributo alla ‘‘sopravvivenza’’ di tale ente e, infine, alla stregua della circostanza aggravante che prevede un aumento della pena per i reati commessi, appunto, ‘‘al fine di agevolare’’ l’associazione


— 1343 — mafiosa. Non v’è chi non veda, però, come quell’effetto ‘‘moltiplicatore’’ delle imputazioni penali a cui rischia di dar vita la figura del concorso esterno — e poc’anzi da noi paventato — raggiunga, così operando, un livello di tensione con il principio ne bis in idem non più tollerabile. Abbiamo già visto, infatti, che la circostanza prevista dall’art. 7 cit. mira a sanzionare la presenza di un ulteriore e specifico profilo soggettivo — costituito dal fine di agevolare l’associazione mafiosa — in capo a coloro che hanno realizzato una condotta di per sé integrante gli estremi soggettivi e oggettivi di un reato diverso da quello associativo. Una volta, però, configuratisi per tale condotta anche gli estremi del concorso nell’associazione, il fine specifico di agevolare l’ente criminale sarà per lo più ricompreso nell’ambito di quegli elementi che hanno delineato l’aspetto subiettivo del contributo concorsuale punibile: l’applicazione della circostanza predetta finirebbe, quindi, per sanzionare ciò che in realtà ha già ricevuto un’adeguata qualificazione e un severo trattamento penale (70). In conclusione, sembra possibile affermare che l’importanza pratica del concorso esterno scema gradualmente, fino a diventare pressocché inavvertibile via via che si passi dal punto a) al punto c) dello schema prima tratteggiato. Se si escludono, infatti, le ipotesi nelle quali il concorso esterno riguarda condotte che altrimenti non sarebbero punibili (sub a), nelle altre si tratta di una diversa (sub b) o aggiuntiva (sub c) qualificazione penale di condotte già punibili mediante l’applicazione di singole fattispecie incriminatrici. Al riguardo, si potrebbe però obiettare che, almeno nelle ipotesi già sussumibili nei reati di assistenza ai partecipi o di favoreggiamento, quando la condotta è anche dotata dei requisiti oggettivi e soggettivi per la configurazione del concorso eventuale nell’associazione, è opportuno che venga punita in base a quest’ultimo titolo di reato, in quanto il fatto assumerebbe un diverso e più grave disvalore penale. Il rilievo è condivisibile, e però ci muoviamo su un terreno che non mi sembra giustifichi una ‘‘guerra di religione’’, sia in dottrina che in giurisprudenza, tra i fautori e i contrari del concorso esterno, trattandosi, a ben vedere, di scelte di qualificazione che vanno operate in base al materiale probatorio a disposizione degli organi requirenti e giudicanti. Per quanto concerne, infine, le ipotesi in cui il concorso eventuale nell’associazione si aggiunge all’incriminazione per un diverso reato, va fatta un’ulteriore distinzione sul piano pratico. (70) Sul punto, cfr. PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici, in questa Rivista, 1982, 21, il quale segnala lucidamente il medesimo rischio con riferimento all’analoga aggravante a carattere ‘‘soggettivistico’’ introdotta in materia di criminalità politico-terroristica dall’art. 1, d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, conv. in l. 6 febbraio 1980, n. 15. Sembra invece discostarsi dall’orientamento espresso dalle sez. un. del 5 ottobre 1994: Cass. 5 luglio 1994, Magliari, in Giur. it., 1995, II, 355, con nota adesiva di MAZZOCCO, ove si ritiene incompatibile la contestazione dell’aggravante prevista dall’art. 7, cit., con l’incriminazione per partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso.


— 1344 — Abbiamo già visto, infatti, che sembra quantomeno superfluo procedere alla contestazione del concorso esterno nell’associazione nei confronti di un soggetto che, come nel caso sopra riportato, abbia contribuito alle sorti dell’ente criminale mediante la commissione di un omicidio. Qualche dubbio, invece, potrebbe sorgere rispetto a condotte che sì integrano anche un reato autonomo, ma nelle quali sembra prevalere il disvalore derivante dalla loro funzionalizzazione all’organizzazione associativa. Per intenderci: il funzionario di un commissariato che rivela ad alcuni esponenti di spicco di ‘‘cosa nostra’’ il contenuto di indagini condotte da un collega nei confronti di una pericolosa e potente ‘‘famiglia’’ mafiosa del luogo, con la volontà di evitare che questa venga sgominata, verosimilmente potrà rispondere del reato di rivelazione di segreti d’ufficio, peraltro aggravato dal fine di agevolare l’associazione mafiosa. In tal caso, però, può sorgere il dubbio se contestare al funzionario estraneo alla associazione anche il concorso esterno ex art. 110 e 416-bis c.p. Qui, il disvalore penale della condotta sembra, invero, appuntarsi in particolare sul contributo fornito all’associazione, mentre il reato di rivelazione di segreti d’ufficio assumerebbe una natura (per dir così) accessoria rispetto ad esso: sia sul piano soggettivo (l’estraneo vuole, infatti, evitare che la ‘‘famiglia’’ venga sgominata dal prosieguo delle indagini) sia oggettivo (la ‘‘confidenza’’ riguarda l’intera organizzazione). Tuttavia, anche stavolta, va fatta una scelta caso per caso, sapendo, però, che sotto il profilo politico-criminale e della giusta pena, basterebbe probabilmente punire il funzionario per il reato previsto dall’art. 326 c.p. aggravato dalla circostanza di cui all’art. 7 cit. A meno che non si voglia far prevalere l’esigenza di lanciare un messaggio ‘‘penal-simbolico’’ il più efficace possibile sul piano mass-mediologico, e affermare, cioè, che Tizio, funzionario di polizia, è ‘‘contiguo alla mafia’’. In proposito, peraltro, va ricordato che la diversa qualificazione penale delle condotte come concorso esterno ovvero alla stregua del reato specifico applicabile autonomamente, non incide neanche sotto il profilo della competenza processuale: la contestazione dell’aggravante del fine di agevolare l’associazione mafiosa prevista dall’art. 7 l. 12 luglio 1991 n. 203, consente, infatti, l’attrazione del reato nella competenza riservata ai fatti sussumibili entro l’art. 416-bis (71). Tenendo conto, da un lato, anche di queste semplici considerazioni, e, dall’altro, del rischio di colpire soltanto singoli capri espiatori che paghino per l’intera società malata, si dovrebbe por mano quanto prima ad una riforma dell’intera materia (72). (71) Per tali problematiche, in particolare, si veda ORLANDI, Il procedimento penale per fatti di criminalità organizzata dal Maxi-processo al ‘‘Grande processo’’, in AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, a cura di G. Giostra e G. Insolera, Milano, 1995, 83 ss. (72) Non è questa la sede per affrontare la complessa questione dei criteri e delle


— 1345 — 12. A questo punto, però, sembra anche opportuno chiedersi se nell’attuale sistema penal-processuale la figura del concorrente esterno non finisca per presentare paradossalmente minori rischi sul piano delle garanzie rispetto alla condotta di partecipazione. Come abbiamo visto nel corso della trattazione, buona parte della dottrina e della giurisprudenza assumono la mera messa a disposizione della propria persona a servizio dell’ente criminale come elemento necesprospettive che dovrebbero ispirare un progetto di riforma dei reati associativi; tuttavia, in estrema sintesi, si potrebbero indicare alcuni punti di partenza così sintetizzabili: a) mettere al centro delle fattispecie associative ‘‘criminologicamente vincolate’’ l’elemento organizzativo come fulcro del disvalore penale del reato; b) tipizzare il più possibile non solo le condotte di piena partecipazione, ma anche quelle di sostegno logistico, servendosi a tal’uopo proprio dell’elemento dell’organizzazione come parametro di riferimento; c) trasformare eventualmente in circostanza aggravante la partecipazione o il fiancheggiamento al reato associativo, qualora la condotta risulti già punibile alla stregua di un reato più grave. Sempre in una prospettiva di riforma, va rammentato che nello Schema di legge delega per un nuovo codice penale (v. Documenti giustizia, III, 1992) i reati associativi previsti non contemplano l’associazione mafiosa (in senso critico FIANDACA, La riforma della parte speciale tra codificazione e legislazione speciale, in corso di stampa) e, nello stesso tempo, non viene recepita la proposta di incentrare le fattispecie associative sull’elemento dell’organizzazione (cfr. DE FRANCESCO, Societas sceleris, cit., 107 s.; e DE VERO, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in questa Rivista, 1993, 109 ss.) (cfr., al riguardo, anche le perplessità di MILITELLO, Agevolazione e concorso, cit., 580 s.). Nella relazione al progetto, peraltro, si spiega l’assenza della previsione specifica di un reato di associzione mafiosa con l’argomento secondo cui ‘‘le tecniche della lotta contro gli illeciti in questione (e, talvolta, i fenomeni stessi) sono troppo legate alla contingenza dei tempi, per poter essere stabilmente formalizzate in un codice’’. Sull’oppurtunità o meno di mantenere nel futuro codice penale una fattispecie analoga a quella prevista dall’attuale art. 416-bis c.p., si veda, di recente, anche BRICOLA nell’introduzione a AA.VV., Lotta alla criminalità organizzata, cit., 10, ove il compianto studioso osserva come ‘‘trattasi, comunque, di un profilo sempre meritevole di attenzione e che, probabilmente, non va risolto in maniera netta: delicato è identificare lo spartiacque tra ciò che, attinente ai settori predetti, deve confluire nel codice ed essere amalgamato ai capisaldi che lo reggono e ciò che, senza pericolo per la stabilità complessiva, può rimanere ad esso estraneo, o meglio periferico’’. Va rammentato, inoltre, che rispetto in particolare al problema della tipicità delle condotte di contiguità alla mafia, G.A. DE FRANCESCO, in Commento, cit., 132 ss., auspica che il legislatore imbocchi quanto prima la strada di una tipizzazione in autonome e specifiche fattispecie incriminatrici delle forme di collegamento con le associazioni mafiose da parte di categorie di persone ad essa tradizionalmente estraneee (ad es. imprenditori, professionisti, pubblici amministratori, etc.), sul modello del reato di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter) recentemente introdotto dal legislatore nel codice penale (reato a cui, peraltro, tale autore non risparmia severe critiche per la pessima tecnica di formulazione della fattispecie adottata). In proposito, tuttavia, v’è anche chi, partendo dall’idea secondo cui tutti i reati associativi andrebbero espunti dal sistema penale, risolve il problema della rilevanza penale delle condotte di fiancheggiamento alle associazioni criminali nell’ambito di una profonda riforma dell’istituto del concorso di persone, la cui disciplina, se ben congegnata, consentirebbe di colpire tali condotte alla stregua di contributi alla realizzazione dei singoli reati commessi dai componenti delle organizzazioni criminali: MOCCIA, La perenne emergenza, Napoli, 1995, 46 ss.


— 1346 — sario e sufficiente per configurare la condotta di partecipazione all’associazione, mentre per il concorrente esterno abbiamo ritenuto necessario qualcosa di diverso, e cioè l’accertamento di un contributo non solo potenziale ma effettivamente fornito all’associazione da parte dell’estraneo. E allora, vagliando la qualità e quantità del materiale probatorio sovente a disposizione dei giudici, viene il dubbio che quelle ‘‘scorciatoie probatorie’’ paventate da alcuni (73) per il concorso esterno rischiano di diventare, in realtà, più facilmente praticabili dalla giurisprudenza al fine di contestare il reato di partecipazione all’associazione. Ad esempio: se un numero consistente di pentiti rendono dichiarazioni mediante le quali emerge per un uomo politico un quadro di rapporti consolidato nel tempo, in cui questi appare essere un ‘‘referente’’ al quale gli esponenti di un’organizzazione mafiosa hanno diverse volte fatto capo per avere degli appoggi in sede istituzionale, non è necessario dimostrare un suo concreto intervento in una determinata vicenda che ha fatto seguito a una richiesta dei boss: quel quadro delineato mediante le rivelazioni dei collaboratori, infatti, sarà probabilmente sufficiente per dimostrare una stabile e permanente messa a disposizione dell’uomo politico rispetto alle esigenze dell’ente criminale e quindi per configurare il reato di partecipazione all’associazione mafiosa. Diversamente per il concorrente esterno: qui i magistrati dovranno accertare non soltanto che almeno un solo intervento vi sia stato (e cioè che, ad esempio, alla richiesta dei mafiosi abbia corrisposto un’attività dell’estraneo), ma anche che esso abbia contribuito in maniera decisiva in una fase ‘‘patologica’’ dell’associazione criminale secondo l’impostazione proposta dalla sentenza delle sezioni unite e tenuto conto anche delle osservazioni sopra svolte. Tali considerazioni sono certamente un pò provocatorie e non mi spingono ad iscrivermi tra gli entusiasti del concorso esterno: al contrario ribadiscono la necessità, al di là delle inutili e talvolta interessate schermaglie teorico-dogmatiche, che gli studiosi rispolverino la capacità di guardare in prospettiva e quindi, tenendo conto delle esigenze della prassi, concentrino i loro sforzi nel pensare ad una riforma che consenta di dotare la magistratura di efficaci strumenti giuridico penali congegnati nel pieno rispetto di quei principi irrinunciabili che fanno del diritto penale la magna charta libertatum. COSTANTINO VISCONTI dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università di Trento

(73)

V., per tutti, INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, cit, 97.


NOTIZIE

PRINCIPIO DI LEGALITÀ E PROCESSO PENALE

Si è svolto a Bologna, dal 18 al 20 maggio 1995, organizzato dall’Università degli studi di Bologna, il Convegno in ricordo di Franco Bricola, dal titolo ‘‘Il diritto penale degli anni ’90’’; la terza delle giornate di lavoro è stata dedicata al tema ‘‘Principio di legalità e processo penale’’. La tavola rotonda si è aperta con l’intervento del Prof. Alfredo Molari, il quale ha inizialmente ricordato di Franco Bricola, in particolare quattro opere ben note: ‘‘La discrezionalità del diritto penale’’; ‘‘La teoria generale del reato’’; ‘‘Legalità e crisi: l’art. 25, 2o e 3o comma della Costituzione, rivisitato alla fine degli anni ’70’’ e ‘‘L’azione per la repressione dell’illecito tra obbligatorietà e discrezionalità’’ del 1990. Le prospettive aperte da Bricola, ha sottolineato il Prof. Molari, hanno profondamente innovato una tradizione scientifica da sempre dedicatasi ai risvolti sostanziali del principio di legalità e scarsamente a quelli processuali. Lo sforzo di coordinamento delle due diverse prospettive, sullo sfondo dei principi della Carta costituzionale, ha seguito due linee guida: in primo luogo si è volto a sottolineare come i principi processuali dettati dalla Costituzione siano anche costitutivi dei criteri di legalità e determinatezza sul piano sostanziale; in secondo luogo ha sviluppato lo studio delle interdipendenze tra i riflessi sostanziali e processuali dell’art. 13 Cost. Se, ad esempio, dall’interpretazione dei principi in tema di libertà personale, si evince la necessità di rispettare il criterio di determinatezza in ordine alle misure cautelari, che sono per natura provvisorie, tale esigenza assume a fortiori importanza sul piano delle fattispecie sostanziali, le quali comportano misure per la loro natura definitive, quali le sanzioni criminali. Il Prof. Molari ha continuato ricordando come il principio di legalità implichi diversi corollari: la riserva di legge (esclusivamente dello Stato) deve essere assoluta, alle fonti secondarie può al massimo essere delegato un ruolo di aggiornamento tecnico. Si è ricordato in proposito come la argomentazioni utilizzate da Bricola contro la possibilità di configurare una potestà legislativa regionale in materia penale, fossero particolarmente incisive: mentre infatti alcuni Autori si erano appellati all’art. 3 Cost. (richiamo che ‘‘prova troppo’’), oppure all’art. 117 Cost., rispetto al quale si era replicato che quella penale non è una materia, ma una modalità di reazione dell’ordinamento. Egli aveva basato le sue osservazioni sul principio del giudice naturale, ex art. 25 Cost. Tale norma sancisce il principio del giudice naturale e comporta l’affermazione del principio dell’unità della giurisdizione dello Stato che, a maggior ragione, vale nella posizione della norma sostanziale. Anche in questo caso si ripropone il forte nesso esistente tra diritto sostanziale e processo, sia sotto il profilo, definito dal Prof. Molari ‘‘paradossale’’, per cui sono i principi processuali che ribadiscono e ridefiniscono quelli sostanziali, sia nel senso che le norme processuali presuppongono, per valere, il principio di stretta legalità sostanziale: è la stessa Costituzione a delineare lo schema del giusto ed equo procedimento, che implica un giudice imparziale. L’art. 112, nel sancire obbligatorietà dell’azione penale, si salda con il principio di eguaglianza e con il diritto di difesa inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Questi due principi presuppongono però, sul piano sostanziale, il rispetto del principio


— 1348 — di legalità con la connessa determinatezza, affinché la discrezionalità dell’interprete resti dentro i limiti della verificabilità; altrimenti l’azione penale cade, di fatto, in balia di una discrezionalità politica e la difesa non ha modo di esplicarsi di fronte a contestazioni del fatto storico tutt’altro che chiare e precise. La relazione del Prof. Massimo Nobili dell’Università di Ferrara è stata dedicata a due aspetti del rapporto tra principio di legalità e processo penale (rinviando la analisi di un terzo profilo, definito come legalità del processo, agli atti del convegno): il primo viene indicato come principio di legalità ‘‘in senso lato’’, il secondo come principio di legalità ‘‘in senso stretto’’. Secondo il primo profilo indicato, il sistema penale complessivamente considerato deve essere strutturato come un sistema in cui la legge appaia come un corpus distinto da chi la applica, estraneo, se non addirittura contrapposto a chi la deve interpretare. È opinione del Prof. Nobili che il sistema vigente nel nostro Paese si sia allontanato in modo significativo da questo modello ‘‘ideale’’, avendo finito per caratterizzarsi come un sistema in cui il rapporto tra la magistratura e il dato normativo risulta ribaltato: il potere giudiziario, anziché agire come potere sottoposto alla legge e al servizio di questa, teorizza se stesso piuttosto come superiore al diritto positivo. Si è parlato in proposito di una sorta di ‘‘illusione di un superpotere giudiziario, comunque buono’’. La forza dei provvedimenti dei magistrati risiede oggi sempre meno nella legge e sempre più nel semplice fatto di provenire da un organo che ha il potere; inoltre si sono notevolmente indeboliti i meccanismi legali di controllo sull’operato dei giudici e nel processo, ha dichiarato il Prof. Nobili, il principio di legalità non è stato mai così elastico, tanto da determinare il fiorire di prassi che solo a fatica sono riconducibili alla legge. Ricordando un lavoro di Luciano Violante, ha voluto poi soffermarsi su due ‘‘postille’’: in primo luogo sul fatto che è attualmente cambiato addirittura il significato di ‘‘norma giuridica’’, nel senso che l’enfasi posta sul valore, pur reale, dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giurisdizionale tende a presentare quest’ultima come un contropotere che ha di fronte un quid oggi degradato e non riconoscibile che produce la legge. Si guarda quindi al prodotto legislativo non più come ad un valore, comunque meritevole di servigio, ma come ad un prodotto infido, di cui dubitare, anche da contrastare, a cui conviene essere superiori: serpeggia insomma un atteggiamento di superiorità del giudice alla legge, e segnatamente alla legge processuale. La seconda postilla si impernia sulla considerazione che la storia e la comparazione insegnano che possono esserci ottimi sistemi giudiziari puntati sulla qualità del magistrato: l’aspetto grave della nostra situazione attuale risiede però in come ci si stia spostando verso questo tipo di modello, facendo finta che le cose stiano ancora come prima, fenomeno che il Prof. Nobili ha definito ‘‘sfasatura del come se’’. Prima di introdurre il secondo profilo di analisi dei rapporti tra principio di legalità e processo, egli ha accennato ad un significativo fenomeno, che ha denominato come la nascita di una ‘‘vulgata penalistica’’, una sorta di opinione comune che si manifesta in alcune espressioni gergali, per lo più sintomatiche di una certa ‘‘non cultura’’, per cui si sente parlare di giudice riferendosi ad un pubblico ministero, o si usano espressioni come ‘‘rischi di normalizzazione’’, ‘‘trasparenza’’ e ‘‘prova sociale’’. Tali espressioni significative e pericolose, ad esempio, ‘‘ legittimazione-delegittimazione’’, sono manifestazioni di un’ideologia per cui il potere del giudice non si basa più sulla legge e gli organi dell’accusa, in particolare, godono di una forza incontrollabile e illimitata; a conforto di queste affermazioni si è fatto cenno ad una recente pubblicazione, in cui si legge testualmente di una ‘‘investitura e delega politica e istituzionale da parte di basi popolari’’. Dall’altro lato si sente spesso parlare di ‘‘risposta giudiziaria’’, cosicché in quest’ottica è il processo, non più la sanzione penale, a costituire la reazione dello Stato alla criminalità: ‘‘riempire i vuoti politici e istituzionali con gli strumenti processuali’’.


— 1349 — Il secondo tema sviluppato dal Prof. Nobili attiene ai rapporti tra il principio di legalità in senso stretto, (del nullum crimen, nulla poena sine lege) e il processo penale, domandandosi cosa accada sul piano della struttura della fattispecie quando questa in qualche modo sia concepita come funzionale al processo, o meglio cosa accade della norma sanzionatoria, del diritto penitenziario quando l’obiettivo del sistema complessivo diventi il processo. Citando un’espressione del Prof. Tullio Padovani, il Prof. Nobili ha parlato di processo passato da ‘‘servo muto a socio paritario, fino a socio tiranno’’ del diritto sostanziale. Si nota oggi come novità rispetto al passato, la finalizzazione del sistema della legalità sostanziale ad un certo tipo di processo, un processo cioè incentrato sullo scopo di alleviare la fatica dell’accusa e basato sulla collaborazione: si è portato come esempio l’art. 416-bis cod. pen. e, più in generale, tutta la legislazione sulla mafia del 1991-1992, dichiaratamente protesa ad ottenere confessioni e delazioni, con la contestuale previsione di un forte rigore penitenziario per chi non coopera con l’investigazione e sconti di pena fino all’esenzione dal carcere a favore di chi collabora. Ma il più vistoso turbamento degli equilibri imposti dalla legalità consiste nel passaggio dal nulla pena sine iudicio alla pena nel processo, al controllo sociale tramite il processo. Questo, ha sottolineato il Prof. Nobili, viola mortalmente in pari misura la presunzione di non colpevolezza, che implica soprattutto un processo concepito come mero accertamento e il principio di legalità, dal momento che la mappa dei controlli legali non funziona più, non corrisponde più a quelli effettivamente applicati: si è creato un vero e proprio ‘‘arsenale’’, graduato e graduabile, di forme di stigmatizzazione, di intimidazione, quali che siano le finalità che si vogliono riconoscere alla pena. Questa straordinaria patologia evidentemente taglia in modo brutale le gambe al principio di legalità sostanziale, tanto da indurre il Prof. Franco Cordero a parlare di ‘‘surrogati a buon mercato di una sanzione lontana e ipotetica, spesso non eseguita’’ e il Prof. Ennio Amodio di ‘‘processi inventati solo per porre in essere una misura cautelare’’. Il Prof. Nobili ha proseguito nelle citazioni ricordando Luciano Violante, che aveva parlato di ‘‘sentenza divenuta ormai un atto pressoché irrilevante’’ ed Ennio Fassone che aveva ricordato i casi di ‘‘misure cautelari intese come una sorta di provvisionale penale’’. Massimo Nobili ha concluso il suo intervento sottolineando come, alla luce di tutte queste, pur sconfortanti, considerazioni, occorra oggi ridiffondere nella collettività una cultura della legalità e delle garanzie. Ha preso poi la parola il Prof. Giovanni Flora dell’Università di Firenze, che ha iniziato il suo intervento sottolineando l’avvenuta scissione tra gli schemi del diritto penale liberale, tipici della dogmatica, quelli del diritto penale positivo, sia codicistico che speciale e, infine, quelli della magistratura. Esemplificando la situazione, il Prof. Flora ha ricordato la dilatazione a dismisura dell’istituto del concorso di persone; l’ampliamento politico dell’ambito di applicazione dell’art. 40 cpv. cod. pen.; la fattispecie della corruzione applicata anche a prescindere da un collegamento sinallagmatico con un atto d’ufficio e, soprattutto, l’art. 416-bis cod. pen., il cui contenuto nella prassi è individuato sul modello comportamentale sociologico costituente il prius, il retroterra culturale della fattispecie, piuttosto che sul riconoscimento dei requisiti legali della stessa. Tutto questo fotografa una situazione sconfortante in cui emerge con evidenza un’incomunicabilità, quasi una contrapposizione tra legislatore, dottrina e prassi. Il superamento di questa situazione per il Prof. Flora sarà possibile solo muovendo da una base culturale comune, e quest’ultima non può che essere rinvenuta nei principi costituzionali, dotati da assoluta forza di resistenza, di materialità del fatto, almeno tendenziale offensività dello stesso, tassatività e irretroattività della norma, personalità della responsabilità, serietà della pena, diritto penale come extrema ratio o dignità penale del fatto. È possibile forse che vi siano settori in cui, per ragioni contingenti, difficilmente si rispettino tutti questi principi, ma alcuni di questi non potranno mai essere derogati, altrimenti non potrà più parlarsi di diritto penale, forse di ‘tecnica di controllo sociale’’.


— 1350 — Egli ha concluso il suo intervento con una certa dose d’ottimismo, affermando che sono presenti oggi sintomi di un movimento culturale che va nella direzione indicata, citando ad esempio sia lo schema di legge delega elaborato dalla Commissione Pagliaro, sia alcune sentenze della Corte costituzionale, come la n. 364 del 1988 sull’art. 5 cod. pen. che riprende alcuni spunti della teoria generale del reato di Bricola. Il Prof. G. Pansini dell’Università di Urbino, ha introdotto il tema dell’allontanamento dell’attuale schema di procedimento penale, frutto dei continui interventi della Corte costituzionale, dal modello creato dal legislatore del 1988, al cui centro era la figura del giudice come soggetto necessariamente super partes. La Corte, facendo leva sull’art. 3 Cost., ma soprattutto sul principio di obbligatorietà dell’azione penale e di sottoposizione del giudice alla legge, è pervenuta ad identificare come valore costituzionale la ricerca della ‘‘verità reale’’, che certo pone in crisi la struttura stessa del processo accusatorio. Questa tendenza a ridisegnare il codice ha finito per portare ad un ritorno al modello ‘‘inquisitorio garantito’’ cui la Corte stessa era giunta nella vigenza del sistema processuale precedente. Il primo sforzo dunque, ha sottolineato il Prof. Pansini, deve consistere nel recupero del valore e della funzione dalla notitia criminis: la recente sentenza della Cassazione, che ha sostituito al concetto di indagine quello di investigazione o di inchiesta, porta invece a svincolare l’inizio dell’indagine dalla notitia criminis, ed a mettere nelle mani del pubblico ministero la scelta del soggetto o del settore nel quale dirigere le proprie indagini. Dal momento poi che la possibilità di una modifica costituzionale del principio di obbligatorietà dell’azione penale non appare per nulla attuale, il secondo aspetto da recuperare è la posizione di ‘‘parte’’ nel processo da assegnare al pubblico ministero, negandogli di conseguenza il ruolo di organo in grado di svolgere la funzione di formare la prova che progressivamente gli è stata riconosciuta (in quest’ottica c’è anche il traguardo della separazione delle carriere). Il terzo momento indispensabile per un ritorno alla legalità, ha concluso il Prof. Pansini, è il recupero del ruolo e della funzione del difensore, una funzione non meramente passiva nell’ambito del processo: non può essere strumento di compromesso in una struttura processuale che si costruisce sulla figura del collaboratore o del pentito, ma deve recuperare dignità ed identità nel flusso dialettico del procedimento. Ha concluso la prima parte dei lavori il Prof. Gaetano Contento dell’Università di Bari il quale, dopo aver richiamato l’importanza di una considerazione unitaria del diritto penale sostanziale e processuale, ha proposto il quesito circa la reale vigenza del principio di legalità nel processo e circa i mezzi per impedire che la violazione dello stesso diventi la regola. Egli si è soffermato a sottolineare come il destinatario del principio di legalità, soprattutto nel senso della tassatività e della determinatezza della fattispecie, sia il potere giudiziario: se da un lato infatti il legislatore è spesso carente rispetto alla sua funzione politica, costruendo fattispecie elastiche anche ai fini della semplificazione probatoria, dall’altro si assiste oggi al fenomeno per cui norme, pur costruite nel rispetto di principi rigorosi, vengono di fatto stravolte nel momento applicativo nel corso del procedimento. Questo si verifica o perché il procedimento ha origine dalla fattispecie legale ma in realtà si risolve nell’accertamento di fatti che non sono coincidenti con essa, o perché si comincia un procedimento per un fatto addirittura non corrispondente affatto ad alcun modello legale. È possibile che un’indagine abbia inizio in base ad una mera notitia facti che non sia una notitia criminis. Si verifica, ha affermato il Prof. Contento, un fenomeno di ‘‘eterogenesi’’ rispetto agli scopi di norme importanti, ad esempio dell’art. 550 c.p.p., quest’ultima, è vero, prevede che il procedimento si possa concludere con una sentenza che dichiari che ‘‘il fatto non è previsto dalla legge come reato’’, ma essa deve intendersi come riferita alle ipotesi in cui il fatto abbia perso nello sviluppo delle indagini la nota dell’illiceità penale, non certo ad ipotesi fisiologiche di fatti ab origine penalmente irrilevanti.


— 1351 — Il problema allora cambia angolatura, nel senso che il punto non è più se sia legittimo che questo accada, ma se sia possibile opporsi, da parte di chi è oggetto di un’indagine per un fatto che solo nell’opinione di chi svolge l’investigazione integra gli estremi di un reato, a che quell’iniziativa sfoci formalmente in un’inchiesta. La situazione è aggravata dal fatto che, una volta iniziata e legittimata in questi termini un’indagine, di quanto il pubblico ministero possa in itinere venire a conoscenza, mediante l’uso di tecniche di investigazione che già in radice non avrebbero dovuto essere sperimentabili, in forza della carenza di illecito della notitia facti, si può fare un uso processuale perché diventi oggetto di ulteriori attribuzioni di responsabilità. Questo tipo di prassi determina l’avvio di un’investigazione non a seguito di fatti specifici penalmente rilevanti, ma al solo scopo di scandagliare sulla vita di una persona, perché nel corso di queste indagini possano eventualmente emergere fatti capaci di assumere rilievo penale. Di fronte a simile situazione, secondo il Prof. Contento è ingenuo ritenere sufficiente una modifica legislativa: le disposizioni sulle misure cautelari sono il chiaro esempio di come norme più che univoche possano essere stravolte ed aggirate nel momento applicativo: nella prassi le misure diverse dalla custodia in carcere sono sempre inadeguate a priori rispetto allo scopo reale di quest’ultima, che è quello di fiaccare la resistenza psicologica di chi si ritiene essere in possesso di notizie che non riguardano il suo fatto, ma altri fatti verso cui in realtà si proietta l’obiettivo delle indagini. La strada da percorrere è piuttosto quella di rifondare una cultura operativa che assegni al processo il ruolo di strumento che gli è proprio, non perdendo mai l’occasione di esprimere il proprio dissenso, di evidenziare i rischi che si stanno correndo, nonché di alimentare una cultura scientifica che abbia degli interlocutori dal pensiero robusto; dal canto suo il potere legislativo si ricostituisca attraverso energie, capacità, competenze, dirittura morale, così da poter essere in grado di capire il messaggio della dottrina. I lavori sono ripresi con l’intervento del Prof. F. Coppi dell’Università di Roma, che ha sviluppato il tema del principio di legalità del processo penale e del costume giudiziario come riflesso della cultura della legalità. Il primo principio su cui egli si è soffermato è la presunzione di non colpevolezza, costantemente rinnegata dalla prassi degli ‘‘arresti spettacolari’’ (si è citato il caso Tortora) e da quella sorta di presunzione di infallibilità delle indagini e della sentenza di primo grado per cui, da un lato si chiede con sempre maggiore insistenza da parte della magistratura l’abolizione dell’appello, dall’altro si parla di ‘‘anni di indagini vanificate’’, quando la Cassazione riforma o annulla una sentenza. Il secondo tema riguarda l’abuso della custodia cautelare in carcere, per cui da uno ‘‘Stato di diritto’’, ha detto il Prof. Coppi, siamo passati ad uno ‘‘Stato di polizia’’. La mancanza di confessione implica, nella concezione dell’accusa, la permanenza nel sistema criminale: chi non parla conta di essere riassorbito nel sistema una volta fuori dal carcere e si è ammesso testualmente che ‘‘la custodia cautelare è stata usata solo come strumento per spezzare la catena dell’omertà’’; per non parlare di persone tenute in carcere anziché processate, per ottenere confessioni su responsabilità altrui, pur in presenza di prove schiaccianti di colpevolezza. Il silenzio dell’imputato, anziché rispettato come scelta difensiva, viene considerato come il mezzo per occultare e rendere impenetrabile all’indagine il quadro delle responsabilità: sul piano processuale esso infatti coincide con la custodia cautelare. Il secondo principio costituzionale, sulla cui effettiva vigenza il Prof. Coppi ha voluto riflettere, è quella del giudice naturale: egli ha denunciato come oggi con grande frequenza il giudice si ‘‘autoscelga’’ volta per volta, e come il pubblico ministero, sciolto da ogni controllo sulla competenza, scelga i processi, tentando poi di giustificarsi rilevando l’operare del criterio di assegnazione automatica: in questa logica si colloca il dare un unico numero di ruolo ad indagini articolate e complesse per garantire sul processo il controllo sempre dello stesso g.i.p. oppure il contestare ‘‘gratuitamente’’ l’ipotesi associativa per radicare la competenza presso il tribunale an-


— 1352 — ziché presso la pretura, anche allo scopo di giustificare il ricorso alle intercettazioni telefoniche o ambientali. Il principio di inviolabilità della difesa poi è aggirato dall’utilizzo rarissimo dell’istituto dell’informazione di garanzia, tanto che la difesa è praticamente impossibilitata ad esplicarsi nella fase dell’udienza preliminare e le chances di accedere al giudizio abbreviato e al patteggiamento nella fase delle indagini preliminari sono ridotte a zero. Il principio di personalità della responsabilità penale infine, non trova alcun riscontro nei maxi-processi, la cui celebrazione per altro non è stata affatto scongiurata dall’applicazione del nuovo codice, essi, rispetto all’osservatorio del giudice, si collocano su un lontanissimo orizzonte ove si appiattiscono tutte le posizioni degli imputati. È intervenuto poi il Prof. V. Scordamaglia dell’Università di Roma, che ha ricordato l’opera di Franco Bricola del periodo intorno agli inizi degli anno ’80, parte della c.d. letteratura della crisi, opera di cui il nullim crimen, nulla poena sine lege era il programma costante. Il Prof. Scordamaglia ha sottolineato come l’operazione intellettuale di rivisitazione ‘‘dinamica’’ dell’art. 25 Cost. compiuta da Bricola abbia permesso di continuare ad utilizzare il codice Rocco, perché di questo aveva cambiato non solo il sangue, ma lo stesso codice genetico, attraverso il costante aggancio ai valori costituzionali. All’indomani della novella del ’74, Bricola era stato il primo a capire che il legislatore, non potendo modificare la parte speciale del codice penale, aveva deciso di ampliare a dismisura la discrezionalità dell’interprete a discapito della legalità. Anche a proposito della legge n. 689 del 1981, con profondità di pensiero Bricola era giunto a comprendere che il legislatore aveva fatto in realtà una contromanovra rispetto alle tendenze liberali del 1865, che avevano portato all’abolizione del contenzioso amministrativo. Dopo aver ricordato l’esperienza fatta insieme a Franco Bricola al convegno svoltosi nel 1951 all’Università di Padova, il Prof. Scordamaglia ha proseguito affermando che quella di oggi è una legalità negoziata, in cui le ragioni dell’economicità sembrano prevalere su quelle della legalità. Il principio di legalità, per poter funzionare, deve essere realmente saldato al potere: se viceversa si accetta che la democrazia sia soltanto una democrazia dei numeri, si corre il gravissimo rischio che questa si trasformi in democrazia assoluta. Una ‘‘democrazia procedurale’’ non è in grado da sola di dare risposte, occorre riempirla di filosofia e guardare con decisione alla riforma del codice penale come ad un’esigenza ormai assoluta e improrogabile. Ha chiuso la serie di interventi, prima della conclusione del Prof. Antonio Pagliaro, il Prof. S. Vinciguerra dell’Università di Genova, il quale ha voluto porre l’accento sulle responsabilità che si devono attribuire al mondo accademico per quel fenomeno di progressivo distacco, che ha portato al crearsi di un forte steccato tra diritto penale e processo e ciò nonostante il fatto che, a favore dell’interrelazione tra questi due settori dell’ordinamento militino, accanto a considerazioni di ordine pratico, anche serie motivazioni di ordine teorico, tra le quali spicca il principio di legalità come comune radice. Il nostro modello, ha proseguito il Prof. Vinciguerra, è decisamente minoritario rispetto a quello che accade in Francia, Germania, Belgio, Olanda, per non parlare poi della costellazione degli Stati di Common Law, dove addirittura i termini del rapporto e della priorità sono rovesciati. D’altra parte non si è riflettuto abbastanza sul fatto che, mentre nel diritto civile è possibile un’esperienza giuridica massiccia al di fuori del processo (e lo stesso vale per il diritto amministrativo), questo non è vero per il diritto penale, in cui l’esperienza giuridica si risolve esclusivamente nel processo. Diritto penale e processo, per assolvere bene al loro compito, devono essere costruiti l’uno in funzione dell’altro. Non è un caso che l’esperienza ad esempio della Francia mostri le due codificazioni sorgere in un contesto unitario, come è stato dal 1808-1810; così in Italia il codice del 1930 ha


— 1353 — dimostrato una vitalità ignota ai suoi antecedenti (del 1865 e del 1913), nati avulsi da una stretta connessione progettuale con il codice sostanziale. Il prof. Vinciguerra ha voluto perciò offrire alcuni esempi della forza di tale interazione, traendoli dall’esperienza comparatistica. Un primo esempio, in cui una riforma del diritto sostanziale è stata capace di produrre immediati e profondi riflessi sul piano processuale, viene dall’esperienza della Francia: l’introduzione della discrezionalità dell’azione penale, infatti, è stata anche una conseguenza del riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche, dal momento che questo avrebbe portato a moltiplicare le ipotesi di responsabilità, rischiando di rendere ingestibile il carico giudiziario. Se questo è un caso di riflessi processuali di fenomeni sostanziali, l’ipotesi inversa si ha nei Paesi di Common Law, nei quali la maggior parte delle decisioni compete alle giurie, cioè ad un giudice non tecnico: tutto ciò ha come inevitabile conseguenza che, nel tentativo di semplificare al massimo il lavoro, si indugi verso forme di responsabilità oggettiva. Le garanzie processuali interagiscono anche con l’istituto della prescrizione, tanto che in alcuni ordinamenti se ne prevede la sospensione dopo che il processo ha raggiunto un certo grado di sviluppo. Non deve costituire motivo di scandalo il fatto che il processo penale sia diventato uno strumento di controllo sociale perché, dopo che per anni si è spiegato ai magistrati che potevano essere un ‘‘contropotere’’, non può stupire che nel nostro Paese la magistratura abbia oggi un potere assolutamente singolare; il vero scandalo è piuttosto il processo parallelo che si svolge sui mezzi di comunicazione, rispetto al quale non esiste alcuna garanzia dei diritti della persona, perché il Garante per l’editoria, secondo l’oratore, tutela di fatto interessi di altra natura. Contro queste distorsioni è fondamentale non fare l’errore del silenzio o della confusione; il Prof. Vinciguerra ha ricordato che i rimedi ci sono e sono a portata di mano: in primo luogo occorre riflettere sul nuovo dimensionamento del processo operato dalla Corte costituzionale, espressione della politica giudiziaria di un contropotere, diventato ormai come un esecutore che suona una musica diversa da quella del compositore-legislatore. E se in altri ordinamenti, come in Francia e soprattutto in Germania, gli scontri parlamentari hanno potuto essere composti preventivamente dall’intervento della Corte costituzionale, non si capisce perché da noi si debba continuare a vivere una vita giuridica costellata di colpi della Corte, ai quali non esiste rimedio; è auspicabile allora introdurre il giudizio preventivo di legittimità costituzionale. Sul piano più strettamente sistematico poi, è indispensabile ridefinire con precisione il significato di legge processuale, soprattutto ai fini della successione di leggi nel tempo; sul presupposto che si tratti di leggi processuali, spesso si vedono applicare retroattivamente norme che incidono sui diritti dei cittadini. La stessa Corte di Cassazione ad esempio discute se, in tema di pene sostitutive, il cambiamento della misura di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria possa essere immediatamente applicato; e questo discorso vale a fortiori per la riforma penitenziaria, perché i contenuti della pena si deducono esclusivamente dalle disposizioni di quest’ultima. Il Prof. Vinciguerra ha accennato infine al problema delle regole sulla valutazione della prova, sostenendo che, nella misura in cui si vogliano arginare alcune espressioni radicali ed estremistiche del principio del libero convincimento del giudice, devono porsi in essere rigorose norme per tracciare degli itinerari processuali che il giudice sia tenuto a seguire per concludere che il fatto è conforme al modello legale. Ha ricordato ad esempio l’insufficienza del disposto dell’art. 192, 3o comma c.p.p. (pur unico rispetto ad una più recente tradizione legislativa), a fronte di legislazioni del 1800 (il riferimento era al codice estense del 1855) che richiedevano, per la validità della chiamata in correità come prova indiziaria, requisiti numerosi e dettagliati: che i correi non avessero ottenuto l’impunità; che le loro dichiarazioni non attenuassero le proprie responsabilità; che,


— 1354 — per le qualità dell’incolpato, il loro detto fosse credibile; che l’incolpazione fosse chiara e dettagliata, ecc. Il Prof. Vinciguerra ha concluso affermando che l’unica seria alternativa all’introduzione di norme di tale tenore sarebbe quella di riuscire a creare nella pratica giudiziaria una cultura piena scrupoli di questo tipo. In chiusura dei lavori il Prof. Antonio Pagliaro dell’Università di Palermo, ha ricordato Franco Bricola per la sua eccezionale intelligenza di studioso, un’intelligenza non solo ‘‘testuale’’, ma ‘‘ipertestuale’’, nel senso che gli permetteva di collegare filoni e campi apparentemente lontani, per trarne risultati nuovi e sorprendenti. L’ampiezza del programma di Bricola e la profondità del suo pensiero, ha detto il Prof. Pagliaro, sono ben dimostrate dagli argomenti affrontati nel Convegno in suo ricordo: come detto dal Prof. Marinucci, Bricola era ‘‘illuminista’’, nel senso che aspirava alla libertà attraverso la razionalità. La razionalità stava nel suo metodo scientifico, nella profondità dei suoi sfondi culturali, nell’onestà intellettuale, nell’uso sapiente del metodo comparatistico sempre attento alla compatibilità con il modo di essere della società italiana. Quanto alla finalità di porre il diritto penale al servizio della libertà del cittadino, da Bricola è stata perseguita agganciando il diritto penale italiano al tessuto della Costituzione e, soprattutto, a quegli aspetti costituzionali che più da vicino riguardano il tema delle libertà civili. La teoria generale del reato di Franco Bricola è in realtà una vera e propria teoria costituzionale del reato, è un’opera che ha determinato una svolta decisiva negli orientamenti della scienza penalistica non solo italiana: essa lascia oggi stupefatti per la preveggenza anticipatrice di molte affermazioni, come è stato per il commento all’art. 5 cod. pen., trasfuso quasi testualmente nella ricordata sentenza della Corte costituzionale del 1988. Con il suo senso critico, ha proseguito il Prof. Pagliaro, Bricola ha evitato di considerare verità assolute le tesi da lui formulate: si deve ricordare la moderazione con cui ha sempre sostenuto la teoria della necessaria offensività del reato. Un fatto che non offenda un bene giuridico non corrisponde al sistema costituzionale complessivo, che impone un bilanciamento tra i beni giuridici e richiede quindi una proporzionalità tra la risposta sanzionatoria e l’evento. In quest’ottica Bricola ha affermato che le incriminazioni di pericolo presunto non possono avere legittimità costituzionale, se per pericolo presunto si intende un pericolo che non c’è. Il Prof. Pagliaro ha proseguito ricordando la centralità del codice penale e di una legislazione penale speciale che rispetti i principi generali di questo e ha sottolineato come il contributo di Bricola non si sia esaurito nella parte generale: egli è stato il primo infatti a dare fondamento costituzionale al diritto penale dell’economia, superando anche in questo settore i confini nazionali. Il Prof. Pagliaro ha concluso riassumendo con incisività gli aspetti principali degli interventi che l’hanno preceduto sul tema dei rapporti tra principio di legalità e processo, e il Prof. Molari ha voluto chiudere i lavori del Convegno rendendo un ultimo commosso omaggio alla memoria di Franco Bricola. Dott. ELENA MANFREDINI Cultore di Procedura penale nell’Università Cattolica del « Sacro Cuore » di Milano


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

G. DI FEDERICO, M. FABRI, D. CARNEVALI, F. CONTINI, Organizzazione e gestione degli Uffici Giudiziari. Il caso di una Procura della Repubblica presso il tribunale, ricerche dirette da G. Di Federico, Ed. Scientifiche Lo Scarabeo, Bologna, 1994, pp. 243. Purtroppo, è a tutti ben nota la crisi di funzionalità in cui versano, nel nostro Paese, l’amministrazione della giustizia, in generale, e le strutture requirenti, in particolare, che aggravata dall’incremento della domanda di giustizia e dall’accresciuta complessità delle risposte da dare, richiede l’urgente rinnovamento di una macchina fattasi sempre più involuta. Quale antidoto all’inefficienza di tale macchina non bastano strumenti volti a comprimere la domanda di giustizia o il suo completo dispiegarsi, quali i riti alternativi o la depenalizzazione, nè l’aumento delle tradizionali risorse da assegnare all’apparato: senza un adeguato management, neppure maggiori stanziamenti finanziari, neppure più magistrati e più personale ausiliario servirebbero a ridare efficienza a meccanismi obsoleti, incrostati da aspetti procedurali ed organizzativi disfunzionali, da modalità di divisione del lavoro assai poco razionali, da una serie di problemi derivanti dal non felice coordinamento tra gli uffici giudiziari e tra essi e le organizzazioni esterne, quali la polizia giudiziaria, il casellario giudiziale, l’ufficio del registro. È questa la conclusione alla quale approda la ricerca condotta, nel 1992, presso una procura della Repubblica dell’Italia meridionale, al cui interno opera un’importante direzione distrettuale antimafia, da G. DI FEDERICO, M. FABRI, D. CARNEVALI e F. CONTINI. I risultati, esposti nella pubblicazione qui recensita, hanno il dichiarato intento « di perseguire non solo finalità scientifiche, ma anche di fornire un contributo al miglioramento del nostro apparato giudiziario ». Anche se il lavoro non può non risentire dei limiti imposti dall’essere stato circoscritto il campo della ricerca ad un unico, per quanto significativo, ufficio giudiziario, va sottolineato che la notevole serie di problemi individuati dagli Autori, relativi ai diversi piani strutturali, funzionali, organizzativi e tecnologici relativi all’ufficio esaminato, sono tali da indurre alla consapevolezza della necessità quanto mai impellente di avviare un sistematico processo di modernizzazione organizzativa e tecnologica dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso. Tanto più se si considera che i dati emersi dalla ricerca sono stati rielaborati tenendo conto anche della normativa vigente, spesso ridondante e disorganica. L’accento viene, di volta in volta, posto su norme frutto di faticosi compromessi diretti a realizzare difficili equilibri tra le diverse esigenze della tutela processuale, della sicurezza, dell’affidabilità, nonchè dell’efficienza (esemplare, al riguardo, la materia delle intercettazioni telefoniche); ovvero su norme congegnabili senz’altro in modo più armonico e lineare al fine di non creare ulteriori disfunzioni e tensioni all’interno di un apparato già in crisi (basti, pensare, alla legge istitutiva delle direzioni distrettuali antimafia). Per quanto attiene alle strutture di queste ultime, vengono evidenziate le non poche difficoltà in ordine all’assegnazione dei procedimenti e i problemi causati dal mancato aumento dei giudici per le indagini preliminari, che incide negativamente sul complessivo flusso di lavoro, soprattutto nel momento del passaggio dei fascicoli dalla procura alle fasi giurisdizionali. Un altro grave inconveniente deriva dal fatto che la legge istitutiva delle direzioni antimafia ha accentrato presso l’ufficio del giudice per le indagini della procura distrettuale i procedimenti della direzione distrettuale, attribuendo, nel contempo, la competenza per il giudizio agli uffici giudicanti periferici, di tal che i pubblici ministeri della direzione antimafia sono costretti, per sostenere l’accusa, a spostarsi frequentemente in altre città.


— 1356 — Ulteriori difficoltà concernono i rapporti tra apparato giudiziario e apparato amministrativo, anche se dai dati raccolti emerge che il primo dirigente amministrativo dell’ufficio in cui è stata svolta la ricerca « è riuscito a motivare il personale ed a creare una sorta di direzione per obiettivi con risultati sicuramente positivi ». Un elemento di potenziale conflittualità fra i magistrati ed i funzionari amministrativi è dato, comunque, dalla formazione culturale di base omogenea tra gli stessi, pur svolgendo i secondi funzioni di natura organizzativa e gestionale che richiederebbero competenze diverse rispetto a quelle giuridico-formali impartite nelle facoltà di giurisprudenza, in quanto i funzionari amministrativi risultano tanto più utili all’organizzazione quanto più riescono ad impossessarsi di competenze gestionali. Viene, perciò, proposta la creazione di una figura inedita di « amministratore », differenziata da quella del magistrato, « che sia portatore di competenze nuove e diverse rispetto a quelle del giurista, in grado di gestire domini sconosciuti al gruppo professionale, portando così un considerevole valore aggiunto all’azione organizzativa ». Questi frammenti dell’ampia analisi svolta danno la misura dell’utilità dell’opera al fine di individuare le più adeguate forme di organizzazione, le opportune tecnologie di supporto, nonchè le specifiche competenze professionali richieste per una concreta ristrutturazione dell’amministrazione della giustizia. Come si precisa nella prefazione, l’analisi organizzativa delle strutture e del funzionamento degli uffici giudiziari costituisce un’insostituibile premessa per interventi riformatori che debbono imprescindibilmente operare sulla base di un’analitica conoscenza della complessa realtà operativa che si vuol rendere più funzionale. Sotto questo profilo, la ricerca costituisce soprattutto per i giuristi un imprescindibile momento di riflessione sulla correlazione esistente tra riforme processuali e riforme dell’ordinamento giudiziario e su tutte le implicazioni che tale correlazione comporta. Se è vero che fin dall’origine delle codificazioni processuali vi è stata l’esigenza di una organica « tecnicizzazione » dell’attività giudiziaria, è altrettanto vero che attualmente risulta non più procrastinabile un sistematico processo di modernizzazione organizzativa dell’amministrazione della giustizia, per depurarla delle tante anticaglie e delle troppe formalità burocratiche che ne inceppano i meccanismi. (Tiziana Trevisson Lupacchini).

GIUNTA F., Interessi privati e deflazione nell’uso della querela, Giuffrè, Milano, 1993, pp. VI-226. 1. Il progresso tecnologico, la sofisticazione delle strutture della società e non ultima, la concezione sociale dello Stato portano alla luce nuovi interessi bisognosi di tutela penale. Di fronte al costante incrementio della popolazione carceraria ed, ancor prima, al sovraccarico delle agenzie di controllo, è dunque necessario promuovere la deflazione del sistema penale su più fronti: in astratto, eliminando quelle fattispecie per le quali la meritevolezza di pena è venuta meno; in concreto, tramite istituti che consentano di rinunciare talora alla repressione di fatti penalmente rilevanti. Il potenziamento dell’istituto della querela come strumento di contenimento della domanda di giustizia è una tecnica recente, affermatasi in particolare con la legge n. 689 del 1981. La dottrina tradizionale si è dimostrata più attenta alla natura giuridica della querela e al suo ruolo nel processo penale che alle sue funzioni e potenzialità politico-criminali. L’opera di Giunta rappresenta dunque un contributo originale: partendo da una visione del diritto penale retta dai principi di conformità allo scopo, di sussidiarietà e di proporzionalità, l’A. analizza infatti le funzioni politico-criminali assolte dalla querela nella storia del diritto penale, per poi giungere, tramite l’analisi del dibattito dottrinale e dell’esperienza legislativa


— 1357 — straniera, a conclusioni circa il ruolo che alla querela potrebbe assegnarsi nella riforma del codice penale. 2. L’analisi della nostra legislazione permette all’A. di individuare un triplice fondamento della querela: tutela dalla pubblicità del dibattimento per i delitti contro la libertà sessuale; strumento di tutela in forma specifica nei delitti contro l’onore; indicatore della concreta gravità del fatto in una categoria di delitti individuata in modo residuale. Spunto per interessanti riflessioni è il regime di procedibilità dei delitti contro l’onore. Alla teoria che vede nella prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico la giustificazione dell’istituto, l’A. risponde osservando che nel momento in cui viene posta, la fattispecie incriminatrice pubblicizza il suo oggetto di tutela. Vi sono tuttavia casi nei quali l’interesse privato mantiene la sua importanza anche se posto sotto la tutela di una fattispecie penale. È il caso della scriminante del consenso dell’avente diritto, ove però la volontà del privato incide direttamente sul piano della illiceità, eliminando l’interesse pubblico alla non commissione del fatto lesivo. Fuori di tale ipotesi, l’interesse privato rileva soltanto ai fini del risarcimento del danno. Così, pur essendo l’onore un bene disponibile, rispetto al quale può operare la causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, il carattere privato dell’offesa non può essere invocato per spiegare la perseguibilità a querela, che presuppone un’offesa non scriminata, ancorchè scriminabile. Resta innegabile che nei reati offensivi di un bene disponibile, e come tale scriminabili ex art. 50 c.p., querela e consenso dell’avente diritto presentano un notevole parallelismo operativo: la disponibilità del bene prima dell’offesa si riflette a livello processuale ai fini della repressione del reato. D’altra parte, la querela opera anche per i delitti non scriminabili dal consenso dell’avente diritto, in quanto offensivi di interessi superindividuali. In questi casi, ove la gravità complessiva delle fattispecie in questione può variare, in concreto, in ragione del pregiudizio arrecato all’interesse privato, compresente nella sfera di tutela della norma incriminatrice, la querela funge da indicatore della gravità del fatto. Così confermata la necessità di spiegare le funzioni della querela distinguendo per gruppi di reati, Giunta pone una prima distinzione: nei casi in cui si collega alla pubblicità del dibattimento (quale strumento per evitare o per ottenere la pubblicità), la querela è finalizzata alla tutela della vittima e si parla di querela-garanzia; ove invece la querela funziona come indicatore della concreta intollerabilità di singoli episodi conformi al tipo, abbiamo la querela-opportunità. A seguito della evoluzione legislativa successiva al codice Rocco, il tradizionale rapporto intercorrente tra querela-garanzia e querela-opportunità è stato capovolto. Riguardo alla querela-garanzia, si segnala una delegittimazione che, per i delitti sessuali, dipende dalla configurazione di possibili deroghe alla pubblicità del dibattimento. Un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 472 e 273 c.p.p. porta a ritenere codificato il diritto della vittima, ove ricorrano i presupposti, ad una celebrazione del dibattimento a porte chiuse. Nel caso di delitti contro l’onore, attributivi di un addebito determinato, significativa è la trasformazione qualitativa dell’offesa realizzata attraverso i mass media. La diffusione ampia e immediata realizzata da questi è difficilmente contrastabile dalla ridotta pubblicità del dibattimento. Nel caso di addebito generico o di attribuzione di una mera qualifica offensiva sembrerebbe preferibile, d’altra parte, la depenalizzazione del fatto, nella premessa che la sola responsabilità civile sia adeguata alla gravità dell’offesa. Degno di nota è anche il richiamo ai riti alternativi, potenziati dal nuovo codice per soddisfare esigenze di alleggerimento del sovraccarico giudiziario. L’applicazione della pena a richiesta delle parti e il giudizio abbreviato, pur rispondendo ad apprezzabili interessi di miglior utilizzo delle strutture della giustizia, sacrificano, tra gli altri, l’interesse della vittima all’accertamento della verità, delegittimando di riflesso la querela-garanzia. Diversamente dalla querela-garanzia, la querela-opportunità ha visto crescere da ultimo le proprie possibilità d’impiego. Rispetto alla depenalizzazione, la querela ha un suo ruolo autonomo, essendo strumento ideale per quei reati che possono presentare una differente meritevolezza di pena in astratto e in concreto.


— 1358 — Infine l’A. osserva come le innovazioni apportate dalla legge n. 689 del 1981, la quale ha reso punibili a querela reati originariamente perseguibili d’ufficio, sono indicative di un nuovo impiego della querela, in chiave deflattiva: si parla in questo senso di querela-selezione. L’analisi dei delitti contro l’amministrazione della giustizia e contro la fede pubblica, nel caso di falso in scrittura privata, porta l’A. ad opporsi a quella parte della dottrina che vede nella perseguibilità a querela un indice univoco della natura privata dell’interesse tutelato. L’efficacia scriminante del consenso nella fattispecie di falso in scrittura privata, ammessa da parte della dottrina al fine di attenuare gli effetti paradossali di una applicazione rigorosa della fattispecie nei casi di falso consentito, dal punto di vista dogmatico non è sostenibile, data la natura superindividuale dell’interesse tutelato. Ciò che ha suggerito la previsione della perseguibilità a querela è invece la rilevante divaricazione tra la gravità astratta e quella concreta. Normalmente scopo principale della querela-selezione è la non punibilità dei reati che, in concreto, risultino non meritevoli di pena, rilevando la funzione selettiva normalmente in via subordinata; viceversa, nelle lesioni personali colpose gravi e gravissime, l’istanza deflattiva è stata l’unico fondamento della modifica legislativa, poichè l’indisponibilità del bene è indice di una lesione la cui gravità è tale da meritare una repressione incondizionata, pure contro la volontà del soggetto. 3. Il secondo capitolo della monografia di Giunta è dedicato all’analisi critica delle opinioni espresse dalla dottrina contraria alla perseguibilità a querela. Esse riguardano, in primo luogo, l’uso dell’istituto come strumento di selezione nella legge n. 689 del 1981, e in particolare la perseguibilità a querela del delitto di lesioni personali colpose gravi e gravissime. Le critiche, di ordine generale, rivendicano l’esclusività dello ius puniendi in capo allo Stato; tale posizione critica, forte soprattutto in passato, si è ampiamente riflessa nella disputa sulla natura processuale o sostanziale dell’istituto. Confutando la costruzione dogmatica che attrae la punibilità tra gli elementi costitutivi del reato e ritiene conseguentemente che la mancata presentazione della querela escluda la stessa configurabilità del reato, l’A. mette a fuoco il confine tra illiceità del fatto e punibilità, fornendo ulteriori approfondimenti rispetto ad un recente intervento sul punto della Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 1989, in Foro italiano, 1989, I, p. 31). Secondo Giunta, le condizioni obbiettive di punibilità e le cause di non punibilità antecedenti o concomitanti all’azione incidono sull’illecità e impongono al giudice una decisione sul merito, con un conseguente proscioglimento per insussistenza del reato, impeditivo di nuovi giudizi sul merito. Viceversa la mancanza della querela o la presenza di cause di non punibilità sopravvenute esprimono un’immeritevolezza di pena del reato, che va rilevata con sentenza di proscioglimento processuale. Per quel che riguarda l’asserita incompatibilità della querela con i requisiti di pubblicità e officialità, tradizionalmente attribuiti all’azione penale, l’A. osserva che la querela, pur condizionando l’azione del pubblico ministero, non privatizza l’interesse tutelato, né trasforma la titolarità del diritto di azione: presentata la querela, l’azione penale viene esercitata dal pubblico ministero, in modo indipendente dalla volontà della parte lesa, che non assume la posizione di soggetto del processo. Maggiori dubbi potrebbe semmai destare la remissione della querela, cui l’ordinamento collega un effetto estintivo del reato, attribuendo al privato il potere di condizionamento e di risoluzione di un processo già iniziato, quindi, in definitiva, una disponibilità delle attività processuali. Ma tale carattere non sembra scontrarsi con il dettato dell’art. 112 della Costituzione, il quale fa riferimento esclusivamente all’obbligatorietà dell’azione penale. La compatibilità della querela con il principio di obbligatorietà è, per l’A., pacifica, ove ci si attenga al significato minimale di cui l’articolo 112 è portatore: l’esclusione della regola dell’opportunità, cioè l’impossibilità per il pubblico ministero di operare una scelta discrezionale in relazione alla meritevolezza di pena del fatto. La querela non intaccca infatti la


— 1359 — posizione di totale assoggettamento del pubblico ministero al principio di ‘legalità processuale’. Ulteriori obiezioni di ordine sostanziale contro la procedibilità a querela sono fondate sulle funzioni della pena. Dal punto di vista teorico la querela mal si concilia con la funzione generale preventiva deterrente, mentre nell’ambito di una concezione della prevenzione generale positiva, che attribuisce alla pena la funzione di sensibilizzare i consociati al rispetto di determinati valori, il regime di procedibilità non influisce significativamente. Ma anche volendo partire da una concezione della prevenzione generale come mera controspinta, si può osservare che il requisito della certezza non significa rigida ineludibilità della pena, ma credibilità del sistema penale nel suo complesso. Essendo difficile prevedere il comportamento del titolare del diritto di querela, il regime di procedibilità non può influenzare in modo rilevante il calcolo dei rischi e dei vantaggi da parte del destinatario della norma penale. Per quel che riguarda la prevenzione speciale, la querela può compromettere tale esigenza solo là dove sia lecito ritenere, per la gravità del fatto posto in essere, che il colpevole possa recuperarsi più facilmente attraverso un intervento sanzionatorio che si concreti in una forma di trattamento del condannato: quando il reato abbia invece caratteri di scarsa gravità, si avverte semmai l’esigenza di non desocializzare il colpevole. 4. Nel terzo capitolo, l’A. allarga la propria analisi all’esperienza legislativa straniera francese, tedesca e spagnola, mettendo in luce come l’interesse privato possa incidere sull’attività repressiva e soffermandosi sulle aree di rilevanza di tale interesse, sulle funzioni riservate alla querela, nonchè sul nesso che intercorre tra la scelta di determinate soluzioni e il retroterra storico-culturare e istituzionale del paese di riferimento. 5. Nell’ultimo capitolo, riferendosi anche allo schema di delega legislativa per un nuovo codice penale, redatto dalla commissione istituita presso l’ufficio legislativo del Ministero di Giustiza, Giunta delinea le potenziali aree di espansione della procedibilità a querela. Si tratta di una sorta di « parte speciale » della monografia, nella quale l’analisi dogmatica e politico-criminale svolta nei capitoli precedenti si concretizza in puntuali e meditate proposte de lege ferenda, relative a singole figure o a classi delimitate di reati. Nell’ambito della querela-garanzia, l’A. formula innanzitutto alcune indicazioni relative alla disciplina dei delitti contro la libertà sessuale. Propone, in primo luogo, una riformulazione dell’art. 472 del codice di procedura affinchè risulti chiaro il diritto della vittima alla celebrazione del dibattimento a porte chiuse; in secondo luogo, nell’ambito del diritto di cronaca, l’elevazione ad obbligo giuridico delle regole deontologiche di rispetto della riservatezza. Efficace potrebbe risultare la sanzione dell’interdizione dall’attività giornalistica. Auspica inoltre una riformulazione dell’art. 499 comma 4, del c.p.p., che, sancendo l’inammissibilità delle domande relative alle precedenti esperienze sessuali, realizzi un più pieno rispetto della dignità della vittima. Nei delitti contro l’onore, la soddisfazione dell’interesse dell’offeso al dibattimento va tutelata nei soli casi in cui l’accertamento del giudice si estenda alla verità dell’addebito. Si suggerisce pertanto la creazione di una fattispecie unica, incentrata sull’attribuzione di un fatto determinato, così da collegare l’operatività della querela con l’exceptio veritatis. L’esclusione della fattispecie dall’ambito del patteggiamento assicurerebbe la soddisfazione dell’interesse al dibattimento. Ove, per la modesta gravità del fatto, l’offesa sia tenue già in astratto, risulterebbe d’altra parte preferibile la depenalizzazione delle fattispecie, nel rispetto del principio di offensività. Sarebbe inoltre opportuna una riforma della fisionomia del risarcimento del danno non patrimoniale exq art. 2059 c.c., come strumento alternativo di tutela civile delle offese, operante anche per fatti penalmente irrilevanti. Diverso è il discorso per la querela-selezione: poiché l’ipertrofia del diritto penale appare un fenomeno per ora non destinato a regredire, è necessario un uso razionale degli strumenti adatti a contrastare tale tendenza. Se la depenalizzazione in astratto resta una via ancora da percorrere, grazie alle garanzie offerte dalla disciplina organica dell’illecito ammini-


— 1360 — strativo creata dalla legge n. 689 del 1981, va nondimeno incrementato il ricorso a tecniche di depenalizzazione in concreto. L’analisi dell’ordinamento tedesco dimostra come la querela sia strumento alternativo alla discrezionalità dell’azione penale, come tale in grado di rendere effettivo il principio di obbligatorietà, evitandone le deroghe di mero fatto, a carattere patologico. La querela appare preferibile rispetto all’oblazione, la quale, facendo dipendere la repressione penale dalla volontà del reo, contraddice le finalità di tutela della norma incriminatrice. La previsione di un diritto all’oblazione nel caso di contravvenzioni punite con la sola ammenda implica un giudizio di non meritevolezza di pena in astratto, cui meglio risponderebbe una depenalizzazione: in base ai principi di proporzionalità e sussidiarietà, l’area delle contravvenzioni potrebbe essere ristretta alle fattispecie punite con l’arresto o — secondo il progetto di riforma — con la semidetenzione. Inoltre, ove le contravvenzioni rappresentino reati-mezzo rispetto a delitti punibili a querela di parte, il giudizio sull’opportunità di punire potrebbe essere rimesso — attraverso la querela — alla valutazione del privato. L’esenzione da pena, determinata da condizioni di non punibilità e condizioni obbiettive di punibilità, è legittima ove tutta la categoria di fatti verso i quali opera è immeritevole di pena: se tale giudizio non è possibile, è preferibile l’uso della querela. Così, per i delitti contro il patrimonio, ove l’entità dell’offesa attualmente rileva ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti e aggravanti e, più in generale, per tramite del potere discrezionale del giudice, nella commisurazione della pena, si suggerisce di escludere dall’ambito del penalmente rilevante, con la tecnica delle condizioni di punibilità, quei fatti che si concretizzano in un danno minimo, essendo sufficiente in questi casi un risarcimento del danno. D’altro canto, un modello di fattispecie articolata in due fasi — emblematico è il caso dell’insolvenza fraudolenta —, potrebbe essere esteso ad altre figure di reato: ad esempio, alla frode in assicurazione, nella quale il conseguimento del prezzo, che oggi rileva come circostanza aggravante, potrebbe essere attratto nella fattispecie, restringendo la punibilità ai soli casi nei quali effettivamente l’assicurazione abbia subito un danno, eventualmente affidando poi al privato, tramite la querela, il successivo giudizio sulla meritevolezza di pena. Infine, un’estensione della procedibilità a querela è auspicabile per i delitti offensivi di un bene privato disponibile, che possono essere scriminati dal consenso dell’avente diritto. Al fine di utilizzare la querela per quei delitti che, pur non essendo propriamente plurioffensivi, offendono in via mediata un interesse privato e nei quali è ben individuato colui che risulta in concreto danneggiato, risulta opportuna la riformulazione dell’art. 120 del codice penale nella parte in cui collega il diritto di querela alla qualità di persona offesa dal reato e la precisazione degli ambiti possibili d’intervento. 6. In conclusione, l’opera di Giunta, attenta alle indicazioni che scaturiscono dalla tradizione legislativa italiana, dagli ordinamenti stranieri e dall’analisi criminologica, rappresenta un fine e meditato contributo non soltanto per l’approfondimento dei diversi profili della querela, in particolare, dei suoi profili politico-criminali, ma anche per la progettata riforma del codice penale italiano. (Annalisa Ricardi).

MARCONI G., Il nuovo regime d’imputazione delle circostanze aggravanti. La struttura soggettiva, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 281. Il tema della responsabilità soggettiva per le aggravanti si delinea ormai con un autonomo sviluppo ricostruttivo collaterale a quello riguardante la struttura del reato e basato sulle peculiarità del sistema circostanziale. L’imputazione colpevole delle aggravanti, riscritta dalla legge n. 19/20 come esplicazione degli indirizzi dati dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 1988 sull’ignorantia legis, forma ora oggetto di quel dibattito che, prima dell’intervento del legislatore, « non sembrava suggerire modifiche dello status quo senza una più attenta riflessione dottrinale » (p. 39).


— 1361 — Non è mero avvio all’argomento l’utilizzazione di un termine impegnativo come « transizione » per indicare il passaggio dal vecchio al nuovo criterio di imputazione. La disciplina previgente — afferma Marconi — « sanciva la superfluità dell’instaurazione di un rapporto di intima compenetrazione tra fattore circostanziale e persona » (p. 12) ed era costituita dalla presunzione di conoscenza delimitata da deroghe. Su di esse, con particolare riguardo all’errore sull’offeso ed alle aggravanti che contengono un nucleo « colpevole » nella loro struttura, l’opera si diffonde in una sintesi coordinata, sorretta dall’indagine sulle posizioni dottrinali che non inserivano l’imputazione di circostanza nella responsabilità oggettiva, sugli orientamenti giurisprudenziali, sulle proposte di nuova formulazione, sull’iter parlamentare della modifica (p. 56). Il « nuovo volto » dell’imputazione delle aggravanti, privato della clausola di salvaguardia « salvo che la legge disponga altrimenti » che avrebbe vanificato in sede applicativa il contenuto colpevole, non è stato adeguatamente controbilanciato dall’introduzione delle attenuanti c.d. « putative », rischiando perciò di introdurre uno « squilibrio commisurativo ». Le aggravanti mutuano eccessivamente i « modi di disciplina dai requisiti oggettivi » e rendono ancor più complessa la sintesi richiesta al giudice in caso di concorso di circostanze. L’A. dunque, all’unisono con la maggior parte della dottrina, vede nella disciplina del 1974 del giudizio di valenza nel concorso eterogeneo la convergenza di affrettate scelte legislative e temibili distorsioni applicative. I problemi aperti dall’espressione « circostanze ... conosciute » formano oggetto di particolare analisi. Il mero conoscere è letteralmente limitativo e non parrebbe idoneo ad abbracciare tutti i possibili coefficienti soggettivi richiesti dal sostrato materiale delle singole aggravanti presenti nell’ordinamento. Il « livello minimo di responsabilità colpevole » deve raggiungere, secondo Marconi, « la soglia dell’atteggiamento colposo che è causa di erronea rappresentazione o di ignoranza inescusabile dell’oggettiva esistenza dell’aggravante ». Il contenuto della conoscenza non può dunque essere ricostruito nel suo significato attraverso « una mera operazione semantica » che prescinda dalle acquisizioni raggiunte in sede di analisi strutturale del dolo. Conoscenza è anche previsione della possibilità di un fatto e dunque sua rappresentazione. La relazione intellettiva che l’agente instaura tra sè e gli elementi descritti nella fattispecie criminosa è destinata a subire scarti più o meno accentuati a seconda che l’oggetto della conoscenza esista già e sia in diretto contatto con i suoi sensi, oppure debba materializzarsi a seguito della sua nozione (p. 75), sino a ricomprendere situazioni nelle quali manca una piena sicurezza sull’esistenza degli elementi che integrano la fattispecie circostanziante. Nel capitolo dedicato ad ignoranza ed errore sulle circostanze vengono ripercorse le acquisizioni dottrinali in tema di errore sul fatto e sul precetto. Lo snodo rappresentato dai riflessi della sentenza costituzionale sull’errore inevitabile sul precetto viene risolto delimitandone l’applicabilità alle aggravanti allorchè il soggetto non è in grado di percepire la contrarietà dell’intera azione criminosa rispetto all’ordinamento o sia persuaso che il fatto commesso non collida con nessuna norma del diritto positivo. Non ha rilievo dunque che siano ignote la punibilità o il quantum di punibilità. « L’irrilevanza della consapevolezza della punibilità — afferma l’A. — si trae innanzitutto dalla considerazione per cui la coscienza del divieto è in ogni caso bastevole per consentire all’autore di motivarsi all’assunzione di un comportamento conforme al diritto » (p. 158). La rilevanza dell’ignorantia legis in ambito circostanziale non andrà a coincidere con quella del reato semplice solo nei casi in cui esiste un’accentuata sfasatura « tra le piattaforme di valori tutelate rispettivamente dalla norma incriminatrice e da quella circostanziale aggravatrice », tali da rendere possibile l’« evitabilità dell’ignoranza parziale » (p. 174). La rilevanza ed i limiti della responsabilità colposa per le aggravanti sono affrontati nel capitolo conclusivo riguardante l’oggetto ed il fondamento della « colpa » che il nuovo art. 59/2 c.p. pone fra i criteri d’imputazione. Punto nodale è la soluzione del problema dello standard di diligenza. Innanzi all’ostacolo insormontabile costituito dall’incongruenza che rappresenterebbe l’apprezzamento di una condotta alternativa diligente per il soggetto che si muove in re illicita, l’A. nega che possa individuarsi un limite di esigibilità soggettiva rita-


— 1362 — gliato sulla semplice circostanza. Gli scopi di tutela perseguiti dal sistema si legano all’osservanza di una rigida regola di condotta che si traduce, non già in un obbligo di informarsi o agire con cautela in relazione allo specifico sostrato materiale della circostanza, ma in un vero e proprio dovere di astensione dal comportamento illecito. Il rimprovero soggettivo « finisce così per prescindere — prosegue l’A. — dall’individuazione della misura di prevedibilità della realizzazione del fatto di reato » e dalla « rappresentabilità del fenomeno in capo all’uomo avveduto e giudizioso », in quanto si riduce « ad una mera virtualità la ricerca del limite di esigibilità dell’(ipotetica) azione alternativa lecita » (p. 228). L’impianto ricostruito si arricchisce progressivamente, nello sviluppo dell’opera di aperture ai temi specifici sui quali viene ad interferire quello centrale della struttura soggettiva delle aggravanti. L’indagine si estende così a considerare le complesse implicazioni in tema di tentativo, di concorso di persone, di imputabilità, di delitti aggravati dall’evento, affrontando i molteplici risvolti applicativi che nascono da tali interferenze. Ben giustificato il giudizio che l’A. dà in premessa sull’istituto delle circostanze come l’oggetto di vistose e penetranti riforme normative nell’ultimo ventennio. L’opera del Marconi viene ad inserirsi nello sforzo di approfondimento dottrinale su un tema rispetto al quale il Contento trent’anni or sono, nella sua Introduzione allo studio delle circostanze del reato, stimolava la dottrina che lo aveva negletto, ritenendolo a torto, sino ad allora, « arido ed esangue ». (Giorgio Pighi).

S. MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, pp. 1-324. 1. Se è vero, come ha scritto Nowakowski, che la storia del diritto penale rappresenta un continuo ripiegamento dell’idea retributiva, allora è da attendersi che, parallelamente, l’‘idea dello scopo’ acquisisca una importanza sempre maggiore nella scienza penalistica. Questa ipotesi riceve conferma dal fatto che la lunga tensione dialettica tra teorie ‘relative’ ed ‘assolute’ sembra essersi risolta — almeno da un punto di vista squisitamente teorico — a favore delle teorie relative. Due dati, tuttavia, si pongono in contrasto, nel nostro ordinamento, con la crescente fortuna dell’idea dello ‘scopo’: da un lato, l’impianto rigoristico del codice Rocco — pendant di una concezione retributiva ed eticizzante della pena — rimasto, nonostante i numerosi interventi di riforma, sostanzialmente inalterato; dall’altro lato la giurisprudenza di legittimità che, pur avendo mostrato in anni recenti significative aperture verso l’idea dello ‘scopo’, non ha mai escluso, tra i fini della pena, quello retributivo. In tale contesto, una considerazione a parte merita, invece, la sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, che ha profondamente inciso sulla disciplina dell’error juris valorizzando il principio di colpevolezza e riaffermando la centralità dell’idea rieducativa. La risocializzazione del condannato, a cui viene assegnata finalmente un ruolo di tutto rilievo, diventa infatti, attraverso una lettura coordinata dei comma primo e terzo dell’art. 27 Cost., il principio informatore dell’intero sistema penale. Si ripropone a questo punto l’aporia sopra segnalata: ad un modello di pena orientato alla rieducazione, confermato autorevolmente dalla giurisprudenza costituzionale (anche nella sentenza n. 313 del 1990), si oppone un diritto penale che, nella sua sistematica, reca ancora l’impronta politico-criminale tipica di uno stato autoritario, ancorato ad una idea di giustizia assoluta e ad una concezione della pena di tipo compensativo. In una prospettiva de lega ferenda appare, dunque, quanto mai indispensabile che l’impianto codicistico sia orientato da un teleologismo in sintonia con i valori costituzionali e, soprattutto, da criteri politico-criminali correlati ad una presa di posizione inequivoca circa la funzione della pena. 2.

L’esigenza che la costruzione sistematica del diritto penale sia coerente con l’op-


— 1363 — zione relativa ai fini della pena è segnalata con chiarezza e passione argomentativa nell’ultimo libro di Sergio Moccia « Il diritto penale tra essere e valore ». L’ipotesi da cui muove l’Autore è quella della centralità della funzione della pena. Il criterio politico-criminale che reca l’impronta più evidente nella costruzione sistematica è davvero quello legato alla funzione della pena? (p. 37). La risposta a questo interrogativo è nella seconda parte dell’opera, interamente dedicata alla ricognizione delle implicazioni della teoria della pena nella struttura del sistema. La prima parte, invece, contiene una sintetica ma esaustiva panoramica sulle riflessioni eticogiuridiche che hanno avuto ad oggetto la sanzione penale par excellence: quella detentiva. Vengono così ripercorse la teoria retributiva kantiana, la teoria della coazione psicologica di Feuerbach, la prevenzione speciale nella elaborazione di Karl Grolman, la teoria della emenda di Krause e, infine, la teoria generalpreventiva elaborata da Andenaes. In particolare, della prevenzione generale « positiva » l’Autore sottolinea i due presupposti essenziali, innegabilmente funzionali anche alla ipotesi di una impostazione sistematica consapevolmente orientata alla funzione della pena: (a) la creazione di norme chiare poste a tutela di beni particolarmente significativi e che rispettino il principio di ragionevolezza nel rapporto tra illecito e sanzione e (b) una efficiente amministrazione della giustizia, in cui siano assicurate razionalità nella commisurazione e prontezza della pena. L’Autore si sofferma quindi sui tentativi di ricostruzione teleologica del sistema penale succedutisi a partire da Beccaria. Il riferimento è alla breve stagione della dottrina penalistica di estrazione neokantiana e, in particolare: a Jhering, secondo cui le idee di valore e di scopo sono i concetti fondamentali della esperienza giuridica; a von Liszt, le cui felici intuizioni esaltano la sistematica teleologica soprattutto in riferimento alla sanzione e al bene giuridico; a Graf zu Dohna e alla sua elaborazione del concetto di antigiuridicità materiale; infine, ad Emil Lask, che ha sottolineato la necessità di dare una struttura assiologica al sistema penale secondo una metodologia teleologica. Il discorso sul metodo antiformalistico e sulla permeabilità della dogmatica alle direttive di politica criminale si arricchisce di una dimensione pragmatica nel quarto capitolo, in cui l’Autore cerca di stabilire quale sia la funzione della pena nel nostro ordinamento. La retribuzione sembra non reggere alle critiche sempre più stringenti della dottrina, se non nella formulazione che la vede agganciata alla colpevolezza come limite alle esigenze di prevenzione. Ma, a giudizio dell’Autore, la colpevolezza è necessariamente connessa, in qualità di premessa logico-teorica, al dogma della retribuzione tradizionalmente intesa. Nell’opinione di Moccia, se la pena retributiva non ha spazio, occorre liberarsi anche della colpevolezza — che di quel genere di pena è il presupposto indispensabile — per approdare ad un concetto, eticamente neutro, di ‘responsabilità’, alla stregua di una proposta avanzata alla fine degli anno ’70 da Roxin. Dal canto suo, la prevenzione generale, ispirata al fattore deterrenza, incontra, come è noto, problemi di carattere costituzionale che ne comprimono la rilevanza soprattutto in sede di commisurazione. La prevenzione speciale, infine, intesa non come emenda ma come recupero sociale, trova un limite fondamentale nella libertà di autodeterminazione dell’individuo (perché siano scongiurati pericolosi sconfinamenti nella manipolazione della personalità) e si scontra con i deludenti risultati conseguiti alla sua applicazione concreta. L’Autore propone allora un’idea di pena come integrazione sociale in cui siano valorizzate le componenti positive della prevenzione generale e della prevenzione speciale. Il modello che ne deriva vede la fase della minaccia ispirata all’intimidazione e alla prevenzione speciale positiva, perché sia garantito il principio di proporzione, la fase della inflizione, guidata dai principi della prevenzione generale positiva e della prevenzione speciale positiva, la fase della esecuzione, esclusivamente orientata al recupero sociale del condannato (il cui limite minimo è costituito dalla non-desocializzazione) (p. 109 s.). 3. Dalla seconda parte dell’opera emerge come le implicazioni di teoria della pena e, in particolare, la prospettiva della integrazione sociale possono avere un ruolo determinante nel passaggio da una sistematica categoriale ad una sistematica teleologica.


— 1364 — Già nella categoria della tipicità, la funzione della pena possiede un compito insostituibile. Feuerbach aveva per primo intuito che la pena poteva operare come ‘controspinta’ solo se prevista in relazione a fatti tassativamente descritti da una norma di legge. La chiara riconoscibilità del precetto, espressione del principio di legalità, aveva per Feuerbach una impronta strettamente politico-criminale collegata alla concezione generalpreventiva della pena (p. 122). Il portato maggiore dell’orientamento teleologico nella categoria della tipicità riguarda comunque l’elaborazione del Tatbestand soggettivo. Ai fini di una corretta tipizzazione di un fatto di reato è decisiva la scelta sistematica dell’inserimento del dolo e della colpa all’interno della struttura della fattispecie. Porre ad oggetto del divieto penale non solo il disvalore di evento ma anche quello di azione ha inoltre il pregio di sbarrare la strada all’introduzione (o al mantenimento) di qualunque ipotesi di responsabilità oggettiva. Una conferma della necessarietà di un duplice criterio di imputazione — oggettiva e soggettiva —, riaffermato nell’ormai nota sentenza n. 364 del 1988 con cui la Corte Costituzionale ha introdotto il requisito della coscienza della illiceità ai fini della responsabilità penale, si ottiene argomentando in termini di teoria della pena. « La realizzazione della funzione dell’integrazione sociale reca con sé notevolissime implicazioni in rapporto all’affermazione del principio di personalità della responsabilità (...). Infatti, soltanto in rapporto ad un fatto che sia ‘proprio’ di un soggetto, tale da poter essere avvertito come integrale espressione della persona, può legittimamente e, eventualmente, con proficuità, essere intrapresa una azione di (ri)socializzazione o confidarsi in una non (ulteriore) desocializzazione. D’altro canto, in un’ottica di prevenzione generale (...) l’adesione reale ai principi dell’ordinamento può determinarsi soltanto se questo chiama i consociati a rispondere penalmente per fatti inequivocabilmente ad essi imputabili, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo » (p. 147). 4. Oltre che sui profili della tipicità, la teoria della pena incide, a giudizio dell’Autore, nella sistematica dell’antigiuridicità e nella messa a punto di una teoria del bene giuridico. Quanto alla seconda, la prospettiva dell’integrazione sociale esige che il diritto penale punisca solo quei comportamenti che rechino un reale turbamento alle condizioni di una pacifica convivenza. « Il connotato della indiscutibile dannosità sociale costituisce la condizione indispensabile perché, da un lato, la generalità dei consociati possa approvare la criminalizzazione di un fatto e, d’altro canto, il singolo possa legittimamente (...) essere avviato al recupero sociale: l’azione di risocializzazione richiede innanzitutto che il soggetto percepisca con chiarezza l’antisocialità del proprio comportamento ovvero l’offesa significativa al bene giuridico » (p. 174). Da questo assunto si ricavano due indicazioni politico-criminali di fondamentale importanza: è necessario in primo luogo ribaltare la tendenza attuale verso la proliferazione ipertrofica delle fattispecie. In secondo luogo, occorre dare rilevanza — in ossequio al principio di frammentarietà — alle diverse modalità di aggressione dei beni giuridici e perciò approntare strumenti di controllo alternativi per il trattamento, differenziato, delle microviolazioni. Ancora due indicazioni di metodo, infine, per quanto attiene alle tecniche di tutela: sconsigliabile il ricorso al pericolo astratto (le fattispecie esistenti andrebbero trasformate in illeciti depenalizzati); il tentativo, come limite invalicabile della condotta punibile. 5. Dall’impostazione metodologico-sistematica proposta dall’Autore discende una serie di corollari che incidono in maniera significativa sulle scelte di criminalizzazione (Parte II, sez. II). Il superamento dell’idea retributiva e l’accoglimento di un concetto di pena intesa come ‘integrazione sociale’ — in una prospettiva de lege ferenda — implicano in primo luogo il divieto di criminalizzare condotte meramente immorali. I delitti attualmente collocati nel Titolo IX del codice penale andrebbero ricostruiti attorno ad una oggettività giuridica meno inafferrabile di quella di « buon costume ». Per quanto attiene ai delitti contro la famiglia sarebbe auspicabile un arretramento semplificativo della tutela penale con la riconduzione di taluni fatti ad ipotesi di reato poste a tutela della persona, della fede pubblica e del patrimonio (p. 221).


— 1365 — I delitti contro l’ordine pubblico — che per loro stessa natura si pongono necessariamente in contrasto con il perseguimento della integrazione sociale —, nonostante abbiano superato il vaglio della Corte costituzionale, sono da sfrondare quantomeno da tutte quelle fattispecie che appaiono incompatibili con il principio della libertà di opinione e perciò di manifestazione del pensiero. Anche per la materia patrimoniale, infine, è necessario procedere ad una migliore identificazione del bene tutelato — da effettuarsi attraverso la valorizzazione della funzionalità del bene giuridico al perseguimento di obiettivi personali da parte del suo titolare (p. 258) — e, eventualmente, predisporre strumenti di controllo alternativi a quello penale. Indicazioni di non poco momento per una riforma globale del sistema penale si possono trarre dunque dalla proposta dell’Autore per una nuova centralità della funzione della pena intesa come integrazione sociale. L’orientamento teleologico della sanzione può costituire infatti « un filtro molto efficace per la verifica della conformità delle singole opzioni dommatiche rispetto all’assetto normativo complessivo » (p. 37) (Grazia Mannozzi).

E. MORSELLI, Dispense di diritto penale, II ed., CUSL, Perugia, 1994, pp. 176. L’Autore con questa opera, formata da testi inediti (prima parte), saggi e conferenze tenute a Buenos Aires, S. Miguel de Tucuman, Mar del Plata (Argentina), Vilnius (Lituania), Belo Horizonte, San Paolo (Brasile), Berlino, Lima, Cuzco (Perù), Cali (Colombia), quest’ultime in buona parte riadattate e sintetizzate ad uso degli studenti, offre un importante strumento per un approccio critico nello studio delle principali tematiche del diritto penale. La rivisitazione di singoli istituti di parte generale, che si compie nella prospettiva del diritto penale della condotta in contrapposizione alla tradizionale concezione causalistica, mette il lettore in grado di conseguire un più persuasivo approfondimento dei medesimi. La prima parte, suddivisa in tre capitoli, fornisce in maniera sintetica nozioni di base del diritto penale e dei suoi principi generali. La seconda parte, dedicata a saggi di teoria generale, si apre con la trattazione dell’analogia. Partendo da un esame critico delle ragioni che autorevole dottrina porta a fondamento dell’applicabilità dell’analogia in bonam partem, l’Autore arriva viceversa ad affermarne il divieto assoluto nel campo penale. Argomento centrale e decisivo per tale innovativa posizione è rappresentato dalla considerazione che « non vi può essere analogia ogni qual volta ci si trovi di fronte ad una norma tassativa, non potendo più valere in tal caso l’argumentum a similibus, bensì solo quello a contrariis ». Ebbene, ben « pochi altri disposti della parte generale del codice presentano una struttura a così alto livello di descrittività, determinatezza e tassatività paragonabile a quello delle norme scriminanti ». Agli stessi risultati cui si perviene con il metodo analogico, peraltro, si può arrivare attraverso una interpretazione estensiva delle scriminanti e restrittiva delle norme incriminatrici alla luce del criterio della sociale adeguatezza. Nel capitolo V viene affrontato l’aspetto della teoria del reato che più di ogni altro caratterizza e qualifica l’originalità del pensiero dell’Autore: l’elemento soggettivo. Pur definendosi finalista in quanto aderente alla teoria secondo la quale il dolo e la colpa appartengono alla fattispecie, cioè sono elementi del Tatbestand Morselli se ne discosta sulla natura e struttura del dolo. Il dolo non consiste nel fine dell’azione, bensì va concepito come Gesinnung o atteggiamento interiore, secondo la definizione offerta dalla psicologia c.d. dinamica, o del profondo, che ha per matrice la psicoanalisi di ortodossa derivazione freudiana. Il dolo così inteso, dalla natura non più razionale-cognitiva, bensì affettiva-emozionale, permetterebbe di dare pertinenti risposte a problematiche di parte generale quali la descrizione del dolo diretto di II grado (o dolo indiretto), del dolo eventuale, dei tre casi di c.d. colpa impropria, dell’elemento soggettivo delle contravvenzioni e del dolo nei reati


— 1366 — omissivi propri, superando le critiche e le obiezioni alle quali prestano il fianco le relative selezioni prospettate sia dal ‘‘finalismo’’ che dalla tradizionale concezione causalistica. Dopo una risposta agli appunti mossi alla sua teoria del dolo come Gesinnung antisociale, l’Autore ne ribadisce il triplice fondamentale ruolo svolto in seno alla teoria generale del reato: « di tramite, o trait d’union, tra la dogmatica e la criminologia »; « di portatore del significato antisociale del fatto e, quindi, di nucleo centrale e indice-base del disvalore personalistico della condotta e, quindi, del fatto delittuoso »; « di criterio fondamentale per la individualizzazione della fattispecie e della conformità ad essa del fatto concreto ». La IV sezione del V capitolo è dedicata al tentativo. Diversamente dalla dottrina dominante, la ratio della punibilità del tentativo non viene ravvisata nella messa in pericolo del bene, ma nell’allarme sociale suscitato dalla condotta tenuta. L’astratta previsione legislativa, infatti, presuppone necessariamente come evitata la possibilità della consumazione, « esclude cioè in partenza la realizzabilità dell’intento del soggetto attivo, e, pertanto, la sussistenza di un effettivo pericolo ». Perciò il disvalore del tentativo non è già di evento (e precisamente di evento di pericolo), ma di condotta. Ruolo centrale, pertanto, deve essere riconosciuto all’elemento psicologico; è solo il dolo, infatti, che, quando l’esteriorizzazione è ridotta al minimo, può dare un significato univoco all’azione del soggetto agente. E poiché « il dolo del tentativo non può essere altro che il dolo della consumazione », vi è piena compatibilità fra tentativo e dolo eventuale. Il dolo come atteggiamento interiore svolge, inoltre, un ruolo centrale anche nella soluzione delle problematiche proprie del concorso eventuale di persone nel reato (è questo l’argomento della sezione V del capitolo V). Partendo dalla critica sia della teoria associazionistica dell’Antolisei che della teoria causalistica, l’Autore riafferma la piena validità della teoria soggettivistica della compartecipazione, l’unica che, rivisitata nel quadro di una moderna visione personalistica dell’illecito penale, permetta di cogliere sulla base del diverso tipo di dolo (animus auctoris o animus socii) la distinzione tra autore e partecipe, indispensabile ai fini della individuazione della pena. Il capitolo VI è dedicato alla capacità criminale, per il cui esame dogmatico si prendono le mosse dai risultati cui l’indagine criminologica appare pervenuta. Risultati, che, accanto ai fattori socio-ambientali, attribuiscono alla psicologia dinamica e del profondo un ruolo centrale per spiegare il meccanismo della criminosi (ed in particolare della c.d. risposta differenziale). In questo quadro l’essenza della capacità criminale viene ravvisata nell’evidenziare « fino a che punto la tendenza criminosa manifestata nello specifico delitto sia radicata nella personalità dell’autore ». Si può così definire capacità a delinquere « l’attitudine criminosa attualizzata, resa manifesta nel delitto commesso ». « Tener conto dell’attitudine delinquenziale del reo significa individuare, e conseguentemente quantificare, la tendenza criminosa specifica che ha condotto al delitto, nel quadro globale della personalità del reo ». Solo così è possibile distinguere, ad esempio, tra le varie forme di delinquenza primaria o meno, occasionale, abituale o professionale e via dicendo. Una capacità a delinquere in tal modo concepita si distingue nettamente dalla colpevolezza; basta considerare che l’art. 133 c.p. non si rivolge soltanto agli imputabili, ma a tutti i delinquenti, servendo di base anche per l’applicazione delle misure di sicurezza. In definitiva il giudizio sulla capacità a delinquere coincide con quello della pericolosità sociale. In questa linea, si differenziano soltanto le conclusioni derivanti da un’unica premessa. Se cioè risulta « che la criminalità del soggetto non raggiunge un rilevante grado di cronicità e di fissazione psicopatologica, il giudice si limiterà ad applicare la pena, in caso contrario egli applicherà, in concomitanza o meno con la pena, le misure di sicurezza ». Nel settimo e ultimo capitolo si affronta ex-professo il tema della funzione della pena. L’Autore aderisce alla concezione retributiva, che, alla luce della moderna psicologia dinamica, o del profondo, si fonda su una « più corretta e persuasiva giustificazione criminologica ». « La pena serve alla rimozione dal campo della coscienza del turbamento, ossia dell’allarme sociale provocato dal fatto criminoso, con la conseguente ricostituzione dell’equilibrio intrapsichico sia individuale che sociale, ossia dell’ordine collettivo e, quindi, dell’ordi-


— 1367 — namento giuridico costituito. La prevenzione di futuri delitti non è altro che un effetto indotto dalla retribuzione: effetto negativo di deterrente ed effetto positivo di consolidamento del sentimento collettivo di giustizia ». L’opera si chiude con un’appendice criminologica, e precisamente con la rappresentazione schematica delle percentuali dei soggetti intimidabili e non intimidabili con la previsione della pena in base al funzionamento dei contenitori interni. Il felice ed innovativo tentativo di porre in forma di schema il meccanismo della criminogenesi permette al lettore un’immediata percezione della concezione dell’Autore, che si rifà alla teoria dei contenitori di Reckless, integrata con la visione psico analitica del fenomeno della criminalità. Si tratta di un insieme di testi che, seppure originariamente dedicati ai singoli punti nevralgici della parte generale, per il loro inserimento in una struttura sistematica complessiva e il loro ricordato riadattamento formale, supera la frammentarietà quasi sempre riscontrabile nel genere letterario ‘‘miscellanea di saggi’’ e costituisce uno strumento per l’approfondimento del pensiero di Morselli che appare utilissimo sia sotto il profilo didattico, sia sotto il profilo scientifico. Per di più, emerge chiaramente, dai singoli testi che compongono l’insieme, il filo rosso che si dipana dall’innesto, nella sistematica finalistica, della concezione del dolo come Gesinnung antisociale (con i relativi presupposti criminologici) e si svolge, poi, nei diversi temi della teoria generale del reato, tutti affrontati dall’Autore in modo coerente ed omogeneo a tale concezione. I singoli testi divengono, così, i rami di un unico albero, i quali si alimentano per mezzo delle stesse convinte radici del pensiero di Morselli. Un pensiero dal respiro ampio — anche per le sue aperture comparative — e profondo — anche per i suoi presupposti criminologici —, ognora appassionatamente ribadito e specificato, il quale meriterebbe, da parte della dottrina penalistica italiana, lo stesso precipuo interesse già riservatogli dalla dottrina straniera. (Giovanni Cerquetti).

L. PICOTTI, Il dolo specifico: un’indagine sugli ‘‘elementi finalistici’’ delle fattispecie penali, Giuffrè, Milano, 1993, pp. XII-639. L’A., nello svolgimento del suo ampio studio delinea innanzitutto le origini storiche della nozione di dolo specifico, utilizzata consapevolmente per la prima volta da Carrara che, nella parte speciale del ‘‘Programma’’, attribuì al ‘‘fine dell’agente’’ nel delitto di furto una funzione che contribuiva a connotare la stessa oggettività giuridica del reato. In particolare, il dolo veniva inteso, in contrapposizione al ‘‘fine dell’opera’’, come fine dell’agente, dato ulteriore rispetto all’azione in sé, elemento che caratterizzava il reato senza che fosse rilevante il suo effettivo conseguimento. Fu dunque nella parte speciale del ‘‘Programma’’ che il Carrara individuò la nozione di oggettività ideologica, intesa come fine al quale l’agente dirige la propria azione, autonoma sia rispetto all’oggettività materiale (azione come puro fatto) che a quella giuridica (azione come ente giuridico il cui oggetto è il diritto aggredito). L’oggettività ideologica costituiva infatti concetto che emergeva guardando all’azione come ‘‘ente puramente ideologico’’, che dirige l’atto ad un fine piuttosto che ad un altro. La scuola positiva valorizzò definitivamente la nozione di dolo specifico, trascurando l’obiettività ideologica. 2. In questo contesto giuridico — come ben evidenzia l’A. — emerse il principale nodo problematico che a tutt’oggi impegna la dottrina penalistica in tema di dolo specifico: il rapporto fra il concetto di dolo specifico e la nozione generale di dolo. La questione inizialmente fu risolta in modo diverso dal Florian e dal Ferri. Mentre quest’ultimo negava che il dolo specifico costituisse una figura particolare di dolo, assumendo che fosse in realtà presente in ogni reato come motivo determinante (‘‘nessuno opera senza uno scopo’’), il Florian pervenne ad un vero e proprio compromesso teorico, sostenendo che alcuni reati, data la


— 1368 — loro particolare natura, richiedessero elementi peculiari sotto il profilo della forza soggettiva. Accanto quindi ad una nozione generale di dolo come volontarietà del fatto, si veniva delineando una nozione di dolo come peculiare elemento intenzionale, appunto specifico. Nel codice Zanardelli venne seguita l’impostazione del Florian, verso la quale l’A. nutre numerose riserve critiche, in primis, poiché si tratta di una sistemazione concettuale del dolo specifico in chiave meramente psicologica. Il ‘‘compromesso teorico’’ del Florian, infatti, sarebbe nato da una profonda contraddizione: il fine dell’agente non era un elemento fondante una particolare specie di dolo, bensì costituiva un’eccezione normativa, aggiungendo un quid pluris alla generale struttura del dolo. 3. Dopo l’excursus storico, l’A. dedica accurata attenzione all’indagine di parte speciale, tesa ad esaminare le diverse fattispecie c.d. a dolo specifico. La dottrina tradizionale, individuava, accanto ad una categoria di reati a dolo specifico espresso, una categoria di reati c.d. a dolo specifico implicito. Questi ultimi, non contenevano nella loro formulazione normativa, alcun riferimento ad un fine speciale dell’agente, ma per la loro particolare struttura, ne evidenziavano un animus peculiare. L’A. nega che si possa parlare, nel nostro ordinamento, di reati a dolo specifico implicito. Per la configurabilità del dolo specifico, è infatti sempre necessaria la esplicita previsione legislativa. In relazione ai reati contro l’onore e a quelli di oltraggio e di vilipendio, in particolare, l’A. evidenzia come sia sufficiente un dolo anche eventuale, che investa il particolare rapporto che lega soggetto attivo e passivo. Proprio il carattere non paritetico del rapporto fra tali soggetti spiega perché, nei reati di oltraggio e vilipendio, dottrina e giurisprudenza tendano a configurare un dolus in re ipsa. Non quindi l’esistenza di un animus di offendere, bensì la piena consapevolezza del rapporto di aggressione dell’agente verso il soggetto passivo. L’A. esamina poi i reati contro la moralità pubblica e il buon costume, rispetto ai quali, in passato, si è parlato di delitti di tendenza, per una tendenza speciale dell’azione che li caratterizzerebbe. Pur considerandoli reati a dolo generico, la dottrina tende ancora a sottolineare la peculiare tendenza soggettiva dell’atto, idonea ad identificare la natura libidinosa ed oscena dello stesso. Tale orientamento è nettamente contrastato dall’A., che ribadisce la assoluta mancanza di riferimenti normativi a scopi o momenti di sorta, sottolineando a questo proposito che mentre nel reato di violenza carnale la tipicità è evidente, la indeterminatezza della descrizione di un reato come gli atti di libidine violenti spiega il frequente riferimento ad una particolare colorazione psicologica. Tuttavia ‘‘la tipicità della condotta deve cogliersi ‘oggettivamente’, nella specifica prospettiva del (...) rapporto illecito col soggetto passivo’’ (p. 148). In sostanza — conclude l’A. — i diversi moventi che spingono l’agente sono del tutto estranei alla stessa imputazione soggettiva dei reati in questione. Quindi, anche in tali ipotesi, il dolo è generico. Infine, riguardo ai delitti di attentato, l’A. evidenzia come non possano in alcun modo confondersi con quelli a dolo specifico, se non altro considerando che per la consumazione di alcuni reati di attentato si richiede il perseguimento di fini ulteriori, e solo in tali ipotesi si combinano le caratteristiche del delitto di attentato e del reato a dolo specifico. Da ciò — evidenzia Picotti — si può dedurre la sicura distinzione strutturale fra le due categorie. 4. L’indagine sui reati a dolo specifico è limitata ai delitti contro il patrimonio ed a quelli dei pubblici ufficiali contro la p.a. Il principale fra i primi è certo, per ciò che riguarda il tema in esame, il furto. A fronte delle diverse posizioni dottrinali e giurisprudenziali relative alla interpretazione dell’elemento finalistico, l’A. ritiene che il fine (specifico) venga utilizzato per tipizzare il conflitto fra condotta dell’agente e interesse del soggetto passivo. Conflitto di interessi che è oggettivo e sul quale si appunta il fine dell’agente. Così il fine contribuirebbe a tipizzare la condotta di appropriazione, non riferendosi certo ad un mero atteggiamento interiore. E contribuirebbe altresì ad individuare il momento consumativo del furto. Il dolo nel furto è generico, nel senso che deve investire tanto la materiale sottrazione quanto l’ulteriore e oggettivo instaurarsi del conflitto d’interessi con il soggetto passivo. Non


— 1369 — è il dolo — dice Picotti — che assume una forma particolare, in rapporto di species ad genus rispetto al dolo normalmente richiesto, è bensì la struttura della fattispecie ad essere particolare. È un problema che investe non il « tipo di dolo », ma il suo oggetto. Tuttavia la terminologia può essere mantenuta per distinguere tali reati a dolo specifico da quelli di tendenza (a consumazione anticipata). Anche fra i delitti contro la p.a. si rinvengono numerosi esempi di fattispecie tradizionalmente considerate di dolo specifico. A parere dell’A., sarebbe proprio la figura centrale dei delitti dei pp.uu. contro la p.a. — l’abuso d’ufficio — a dimostrare che il fine specifico concorre ad integrare la tipicità del reato, poiché rende penalmente rilevante non un qualsiasi abuso, ma soltanto quello finalizzato ad un risultato ulteriore. Anche in questo caso il dolo è dunque da considerarsi generico, perché abbraccia semplicemente tutti gli elementi della fattispecie. L’A. ribadisce quindi come la categoria « dolo specifico » non individui una specie di dolo, bensì una particolare struttura del suo oggetto. Può quindi essere utilizzata per individuare quelle fattispecie legali il cui fatto tipico si fonda su un modello articolato sul nesso mezzo-fine fra condotta e scopo soggettivo dell’agente. 5. All’analisi delle principali ipotesi di reato tradizionalmente considerate, nel nostro ordinamento ‘a dolo specifico’, segue una ricca indagine comparatistica in cui l’A. esamina soluzioni dogmatiche adottate in materia da alcuni ordinamenti europei e di common law. Di particolare interesse, per le preziose indicazioni di metodo che se ne ricordavano, è l’esame dell’ordinamento tedesco, ove il c.d. Absicht (intenzione) non può essere assimilato al dolo specifico, bensì al dolo intenzionale. Ciò in quanto, per connotare i c.d. Absichtdelikte, che hanno struttura simile ai reati a dolo specifico, si fa riferimento non all’Absicht bensì alle c.d. besondere Absichten, elementi soggettivi della fattispecie utilizzati nella parte speciale. Benché infatti si parli tradizionalmente di « delitti d’intenzione », l’intenzione non è qui una specie di dolo, ma un elemento soggettivo della fattispecie, ulteriore rispetto al dolo. Per ciò che riguarda invece gli ordinamenti di common law viene preliminarmente precisato come non esista una sufficiente univocità nel definire la nozione di intention, e quindi di specific intent, la quale ultima, tuttavia, fra i molteplici significati assunti nel sistema anglosassone, può in qualche modo essere assimilata al nostro dolo specifico, in specie sul terreno probatorio-processuale. L’A. ha peraltro cura di avvertire come negli ordinamenti di common law, manchi una attenzione dogmaticamente consapevole alle peculiarità delle fattispecie corrispondenti alle nostre ipotesi a dolo specifico. Non vi è, infatti, un’adeguata considerazione del particolare rapporto fra condotta dell’agente ed oggetto del fine ulteriore perseguito, da valutare in sede di tipicità. Ciò è evidentemente dovuto all’insufficiente sviluppo della teoria della fattispecie legale in tali ordinamenti, connesso all’origine consuetudinaria delle più importanti figure di reato. 6. L’ultima parte del lavoro è dedicata alle conclusioni dogmatiche e sistematiche. L’A. sottolinea innanzitutto come, ancora oggi, la manualistica italiana classifichi il dolo specifico come un fine ulteriore che l’agente deve perseguire, ma la cui realizzazione è indifferente per la consumazione del reato. In sostanza: una specie di dolo, da collocarsi dogmaticamente nell’ambito della colpevolezza. Ma dall’analisi di parte speciale è emerso come la struttura dei reati a dolo specifico si caratterizzi essenzialmente come rapporto di mezzo a fine fra condotta e scopo dell’agente. Tale scopo, però, non è requisito psichico ulteriore rispetto al dolo, bensì elemento di specificazione che contribuisce a tipizzare la condotta. In altri termini: la condotta è tipica solo se finalizzata allo scopo. Il fine quindi risulta selettivo dei comportamenti penalmente illeciti, tali in quanto strumentali al suo soddisfacimento. Queste fattispecie tipizzano un oggettivo conflitto di interessi: quello per così dire di parte, perseguito dall’agente, e quello generale tutelato dall’ordinamento con la pena. La consumazione del reato è in questi casi pertanto anticipata al momento dell’oggettivo instaurarsi del conflitto. Secondo l’A., non è necessario che la condotta sia idonea a realizzare il fine. Ciò contribuisce a distinguere netta-


— 1370 — mente tali figure dalle ipotesi di tentativo, che, al contrario, non hanno bisogno di una descrizione tassativa della condotta. Se è vero che il fine dell’agente incide sull’oggettività del fatto di reato, allora l’oggettività possiede un contenuto più ampio, di quello delineato dagli elementi esteriori della condotta, visto che comprende anche la proiezione offensiva del fatto sul piano dei rapporti sociali. Esso è cioè utilizzato per puntualizzare i termini del conflitto con gli interessi penalmente tutelati, nonché la questione relativa alla ascrizione di responsabilità per coloro che concorrano in un reato a dolo specifico, nell’ipotesi in cui il fine specifico sia perseguito soltanto da alcuni di essi. Anche in ordine alla disciplina sul concorso di persone, secondo l’A., si manifesta la insoddisfacente tradizionale bipartizione naturalistica fra elementi materiali e psichici della fattispecie, ciò che fa emergere, una volta di più, la necessità di valorizzare, dogmaticamente e sistematicamente, il significato oggettivo dei rapporti sociali, nelle molteplici ipotesi in cui essi rilevano nell’ambito del sistema penale. 8. Come si vede, il testo ruota attorno ad una nozione di dolo specifico chiamata ad assolvere un duplice compito: frustrare, da un lato, le velleità di ulteriore psicologizzazione delle fattispecie delle quali costituisce elemento strutturale; delineare, dall’altro lato, la peculiare nozione di tipicità di tali fattispecie, da intendersi quindi non solo come mera condotta materiale, ma come condotta connotata oggettivamente dalla specifica finalità dell’agente, in conflitto con l’interesse del soggetto passivo. (Alberto Sirani).


GIURISPRUDENZA

CORTE COSTITUZIONALE 12 gennaio 1995, n. 27 Pres. Casavola — Rel. Spagnoli (G.U. 1a serie speciale, n. 4 del 25 gennaio 1995) Indagini preliminari — Archiviazione — Omessa riapertura delle indagini — Decreto di citazione — Mancata previsione di tale ipotesi come causa di nullità del decreto — Menomazione del diritto di difesa — Questione di legittimità costituzionale — Infondatezza (Cost. art. 24; c.p.p. art. 555 comma 2, in relazione all’art. 414 c.p.p.). Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 555 comma 2, in relazione all’art. 414 c.p.p., sollevata, in riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari (la Corte ha osservato che in tal caso deve ritenersi precluso l’esercizio della azione penale e, dunque, impedita la procedibilità, non diversamente da ciò che accade nell’ipotesi di mancata revoca della sentenza di non luogo a procedere per la quale è da ritenersi operante l’istituto del ne bis in idem) (1). Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 555 comma 2 c.p.p., in relazione all’art. 414 del medesimo codice, promosso con ordinanza emessa il 17 febbraio 1994 dal Pretore di Brescia — sezione distaccata di Breno — nel procedimento penale a carico di Fostera Giovanni iscritta al n. 270 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella G.U. n. 21, prima serie speciale, dell’anno 1994. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1994 il giudice relatore Ugo Spagnoli. RITENUTO IN FATTO. — 1. Investito del giudizio in ordine a un’imputazione per la quale era stato in un primo tempo emesso provvedimento di archiviazione, cui aveva fatto seguito l’emissione del decreto di citazione a giudizio in assenza dell’autorizzazione alla riapertura delle indagini prevista dall’art. 414 c.p.p., il Pretore di Brescia, sezione distaccata di Breno, ha sollevato, in riferimento all’art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 555 comma 2 c.p.p., in relazione all’art. 414 citato, nella parte in cui « non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari ». Espone il giudice a quo che l’imputazione per la quale era stata esercitata l’azione penale, relativa a una fattispecie perseguibile a querela di parte, era la stessa per la quale era stata a suo tempo disposta l’archiviazione; e che il p.m., a seguito


— 1372 — di sollecitazione della parte lesa (estrinsecatasi formalmente in un nuovo atto di querela, peraltro tardivo), aveva provveduto a nuova iscrizione, per l’identico fatto, nel registro delle notizie di reato e proceduto a ulteriori indagini preliminari, conclusesi con l’emissione del decreto di citazione a giudizio, senza curarsi di richiedere preventivamente al g.i.p. l’autorizzazione prescritta dall’art. 414 c.p.p. Tale anomalia procedurale, a parere dell’organo remittente, non è adeguatamente sanzionata, essendo solo possibile ritenere l’inutilizzabilità degli atti delle nuove indagini a norma dell’art. 191 c.p.p.; ma non potendosi impedire l’efficacia dell’atto di esercizio dell’azione penale, cui, pertanto, fa seguito inevitabilmente la fase del giudizio. In tal modo verrebbe elusa la funzione di controllo attribuita al g.i.p. dall’art. 414 c.p.p., consentendosi al p.m. di esercitare liberamente l’azione penale senza che siano previamente rimossi dall’organo giurisdizionale gli effetti del decreto di archiviazione. Ne deriva, secondo il pretore, la menomazione del diritto di difesa, non essendo possibile all’imputato, in mancanza di specifiche previsioni normative, di eccepire davanti al giudice del dibattimento l’invalidità del decreto di citazione a giudizio. 2. È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, in subordine, per l’infondatezza della questione. Osserva in primo luogo l’Avvocatura dello Stato che il remittente è incorso in un’evidente aberratio ictus, poiché, stando alla prospettazione della questione, il contrasto con l’art. 24 Cost. deriverebbe non dalla norma impugnata, ma dall’art. 414 c.p.p., in quanto non contemplante una sanzione processuale per l’inosservanza da parte del p.m. del dovere di richiedere l’autorizzazione al giudice ai fini della riapertura delle indagini. Nel merito, il diritto di difesa sarebbe pienamente tutelato, sia che si ritenga, come sostiene il giudice a quo e parte della giurisprudenza, che gli atti di indagine non preceduti da autorizzazione del g.i.p. siano inutilizzabili, poiché, in tal caso l’imputato sarebbe tratto a giudizio sulla base dei soli elementi raccolti nella fase conclusasi con l’archiviazione, sia che si configuri l’autorizzazione alla riapertura delle indagini come condizione di procedibilità, in mancanza della quale si imporrebbe il proscioglimento dell’imputato con la relativa formula. CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. È stata sollevata la questione del contrasto con l’art 24 Cost. dell’art. 555 comma 2 c.p.p., in relazione all’art. 414 del medesimo codice, nella parte in cui « non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari », per la menomazione del diritto di difesa conseguente alla impossibilità per l’imputato, in mancanza di specifiche previsioni normative, di eccepire davanti al giudice del dibattimento l’invalidità del decreto di citazione a giudizio. Ad avviso del giudice remittente, l’ordinamento non contempla alcuna sanzione processuale per il caso in cui il p.m. abbia esercitato l’azione penale in ordine al medesimo fatto per il quale sia stata precedentemente disposta l’archiviazione, senza previamente richiedere e ottenere l’autorizzazione alla riapertura delle indagini prescritta dall’art. 414 c.p.p.


— 1373 — Né, a sanzionare tale condotta contraria alla legge processuale, potrebbe ritenersi sufficiente la conseguenza dell’inutilizzabilità degli atti di indagine, perché ciò non avrebbe alcun formale effetto sull’atto dell’esercizio dell’azione penale, in mancanza di una previsione di nullità che si ricolleghi a tale ipotesi. 2. Va rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha sostenuto che la norma da sottoporre a censura avrebbe dovuto essere quella recata dall’art 414 c.p.p., in quanto non contemplante una sanzione processuale per l’inosservanza da parte del p.m. del dovere di richiedere l’autorizzazione al giudice ai fini della riapertura delle indagini. Nella prospettiva del giudice remittente, infatti, l’omessa previsione normativa concerne proprio la nullità che, nell’ipotesi dedotta, dovrebbe inficiare l’atto di esercizio dell’azione penale; atto che, trattandosi di procedimento pretorile, si estrinseca nel decreto di citazione a giudizio regolato appunto dall’art. 555 c.p.p., norma, dunque, correttamente sottoposta a censura. 3. Va premesso che, diversamente dal previgente ordinamento processuale, il nuovo codice di rito penale assegna un’efficacia (limitatamente) preclusiva al provvedimento di archiviazione. Ciò è reso esplicito proprio dal citato art. 414, in base al quale, dopo l’archiviazione, l’inizio di un nuovo procedimento è subordinato a un provvedimento autorizzatorio del giudice. Tale provvedimento ha dunque l’effetto di rendere possibile il riaprirsi di un procedimento per il fatto già archiviato e, all’esito di esso, l’eventuale esercizio dell’azione penale, che, in difetto dell’autorizzazione, sarebbe precluso. Ora, la caratteristica indefettibile di ogni ipotesi di preclusione è quella di rendere improduttivi di effetti l’atto o l’attività preclusi; ed è naturalmente compito del giudice quello di sancire tale inefficacia. 4. Se si prende ad esempio il caso più eminente di preclusione, quello del giudicato, può rilevarsi che, qualora sia iniziato un secondo giudizio per il medesimo fatto, il giudice ha il dovere di pronunciare sentenza (a seconda delle fasi processuali, di proscioglimento o di non luogo a procedere), « enunciandone la causa nel dispositivo » (art. 649 comma 2 c.p.p.). Ma anche nel caso in esame, nel quale parimenti deve ritenersi precluso l’esercizio dell’azione penale, in quanto riguardante il medesimo fatto già oggetto di un provvedimento di archiviazione, in carenza di autorizzazione del giudice a riaprire le indagini, è l’instaurabilità di un nuovo procedimento e, quindi, la « procedibilità » a essere impedita; sicché se il presupposto del procedere manca, il giudice non può che prenderne atto, dichiarando con sentenza, appunto, che « l’azione penale non doveva essere iniziata » (cfr. artt. 529, 469, 425, nonché, sia pure in termini formalmente non identici, art. 129 c.p.p.). È quanto si verifica, ancora, qualora sia esercitata l’azione penale per un fatto per il quale sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere nell’udienza preliminare, in mancanza della revoca giudiziale prevista dagli artt. 434-437 c.p.p. Anche in quest’ipotesi la regola della declaratoria dell’effetto preclusivo, sub specie di sentenza di improcedibilità dell’azione penale, è da ritenere espressa in termini generali dalle disposizioni sopra menzionate, dovendosi pertanto reputare ininfluente che il nuovo codice, a differenza di quanto comunemente si affermava


— 1374 — con riferimento a quello abrogato (art. 90 c.p.p. del 1930), non consideri specificamente tale situazione nell’ambito dell’istituto del ne bis in idem (v. artt. 649 comma 1 e 648 comma 1 c.p.p.). 5. Giova sottolineare che il petitum perseguito dal giudice a quo (sanzione di nullità dell’atto di esercizio dell’azione penale) appare del tutto inadeguato a risolvere l’« anomalia » procedimentale da cui ha tratto le mosse la presente questione di costituzionalità. Invalidato l’atto di impulso processuale, residuerebbe un procedimento eternamente in vana attesa di definizione giudiziale: esso non potrebbe mai risolversi in sede processuale, ma nemmeno essere nuovamente archiviato, se non altro perché il giudice, ai fini di un nuovo provvedimento di archiviazione, non potrebbe delibare atti di indagine espletati contra legem. 6. Poiché, invece, l’ordinamento, sistematicamente considerato, appresta già un rimedio atto a sanzionare processualmente l’esercizio dell’azione penale per un fatto già oggetto di un provvedimento di archiviazione, in mancanza dell’autorizzazione giudiziale ai sensi dell’art. 414 c.p.p., la questione deve essere dichiarata non fondata. P.Q.M. — la Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 555, comma 2 c.p.p., in relazione all’art. 414 del medesimo codice, sollevata, in riferimento all’art. 24 Cost., dal Pretore di Brescia, sezione distaccata di Breno, con l’ordinanza in epigrafe.

—————— (1) Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale. 1. Nel disporre che « dopo il provvedimento di archiviazione emesso a norma degli articoli precedenti, il giudice autorizza con decreto motivato la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dall’esigenza di nuove investigazioni » — con obbligo per l’inquirente di « procede(re) a nuova iscrizione (della notizia di reato) a norma dell’art. 335 » —, l’art. 414 c.p.p. non dice altro se non che per riaprire un procedimento « archiviato » occorre l’assenso del giudice per le indagini preliminari a una conforme richiesta dell’organo dell’accusa (1). Taluni corollari sono agevolmente deducibili dal sistema: la richiesta ex art. 414 c.p.p. è indispensabile ogni volta che le « nuove investigazioni » riguardino il medesimo fatto e la medesima persona di cui al precedente decreto di archiviazione (2) (a nulla rilevando, nonostante una contraria opinione espressa in giurisprudenza, che sia intervenuta nel frattempo una nuova notitia criminis con-

(1) Dunque « il comma 1 dell’art. 414 non vieta soltanto al pubblico ministero di riaprire le indagini senza autorizzazione, ma anche al giudice di autorizzare la riapertura senza la richiesta »; e « allo stesso modo è da escludere che il giudice possa revocare d’ufficio il decreto o l’ordinanza di archiviazione che ha emesso, per spianare la strada a una ripresa delle indagini »: così, esattamente, GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, Torino, 1994, p. 95 s. (2) Cfr. la Relazione sul progetto preliminare del codice di procedura penale, in Speciale Documenti Giustizia, II, Roma, 1988, p. 224, nonché CARLI, Preclusione e riapertura delle indagini preliminari nell’art. 414 c.p.p., in Giur. it., 1993, II, c. 640 s.; GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 91.


— 1375 — forme a quella originaria) (3); l’autorizzazione alla riapertura delle indagini presuppone un provvedimento di archiviazione che sia divenuto definitivo (4); il provvedimento del giudice (sia esso di accoglimento o di rigetto della richiesta del pubblico ministero) è inoppugnabile (5). Ma per il resto, che l’organo dell’accusa possa ricominciare a indagare solo quando vi sia « esigenza di nuove investigazioni » è poco più di una tautologia: il problema è stabilire quali nuove investigazioni debbano ritenersi consentite. Inoltre, la norma non spiega quali siano le conseguenze processuali della sua inosservanza, cioè che cosa accada nell’ipotesi in cui il pubblico ministero resusciti il procedimento archiviato senza avere richiesto — o peggio, senza avere ottenuto — l’autorizzazione del giudice. Sul punto esistono due possibili opzioni interpretative. La prima è ritenere che oggetto dell’autorizzazione giudiziale sia unicamente lo svolgimento di attività di indagine. In mancanza del provvedimento ex art. 414 c.p.p., dunque, il pubblico ministero non potrebbe compiere validamente atti investigativi ma conserverebbe intatto il potere/dovere di esercitare l’azione penale. La situazione conseguente all’omessa richiesta o alla mancata emanazione del provvedimento di riapertura delle indagini sarebbe parzialmente analoga a quella che si realizza allorché siano scaduti i termini per le indagini preliminari e non sia stata richiesta o concessa la proroga: inutilizzabili gli atti investigativi compiuti (nell’un caso per l’espresso disposto dell’art. 407 comma 3 c.p.p., nell’altro per violazione di un divieto stabilito implicitamente dalla legge) (6); valido ed efficace l’atto di esercizio

(3) Così invece Trib. Vercelli, 3 dicembre 1992, Barisone, in Giur. it., 1993, II, c. 638, con nota parzialmente critica di CARLI, Preclusione, cit. Secondo tale pronuncia, « il decreto di riapertura delle indagini preliminari ex art. 414 c.p.p. è necessario soltanto per il compimento di nuove investigazioni nell’ambito del medesimo procedimento già archiviato, ma non anche per lo svolgimento delle indagini relative al diverso procedimento instauratosi a seguito di una successiva notizia di reato riguardante lo stesso fatto ». Questo perché l’art. 414 comma 2 c.p.p. contempla una « nuova » iscrizione della notizia di reato che « non avrebbe senso alcuno in presenza di una successiva notizia di reato (diversa da quella prima archiviata) »; e perché una diversa soluzione « determinerebbe conseguenze assurde, ponendo a carico di ciascun pubblico ministero ‘‘investito’’ di una notitia criminis l’onere di verificare preventivamente se, rispetto al medesimo fatto, sia intervenuto o meno un precedente decreto di archiviazione conclusivo di altri procedimenti eventualmente iscritti (si badi!) non solo presso il proprio ufficio, ma anche presso tutte le altre Procure esistenti nella Repubblica: onere di impossibile adempimento ». Sono argomenti non privi di valore; ma la soluzione proposta dal Tribunale di Vercelli — oltre a far dipendere da una circostanza del tutto occasionale (la reiterazione o meno della notitia criminis) la tutela degli interessi alla cui salvaguardia è preposto l’istituto di cui all’art. 414 c.p.p. — offrirebbe una comoda scappatoia per evitare il controllo giurisdizionale sulla decisione di riprendere le indagini: al pubblico ministero basterebbe infatti sollecitare una nuova segnalazione del medesimo reato, magari da parte di una compiacente persona offesa. (4) Se non altro, perché diversamente la « nuova iscrizione » ex art. 414 comma 2 c.p.p. « andrebbe a sovrapporsi a quella ancora ‘‘attuale’’ da cui ha preso le mosse l’originario procedimento e di cui l’art. 335 comma 2 consente soltanto, durante le indagini, ‘‘aggiornamenti’’ specificativi o integrativi ». Così GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 91, nota 1. (5) Per questa opinione — imposta dal principio di tassatività delle impugnazioni — cfr. ad esempio GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 102. (6) Sulla diretta applicabilità dell’art. 191 c.p.p. nell’ipotesi in esame la dottrina è concorde. Cfr. BERNARDI, Commento all’art. 414 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Mario Chiavario, IV, Torino, 1990, p. 558; CARLI, Preclusione, cit., c. 639; F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1993, p. 414; GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 103; KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 355; RAMAJOLI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, Padova, 1992, p. 10 s. (che tuttavia ritiene circoscritto l’ambito di operatività del divieto ai soli atti c.d. « irripetibili »); VALENTINI REUTER, In tema di riapertura delle indagini dopo l’archiviazione e misure coercitive, in questa Rivista, 1994, p. 325. Secondo G.i.p. Trib. Nuoro, 18 febbraio 1993, Sanna, in Foro it., 1994, II, c. 177, l’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo l’archiviazione discenderebbe invece dal « combinato disposto degli artt. 191 e 407, comma 3, c.p.p. »: ma il riferimento alla disciplina dei termini massimi di indagine è considerato improprio da GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 103, in quanto « il provvedimento di archiviazione... non solo... potrebbe essere stato chiesto prima della scadenza dei termini, ma la sua stessa emissione, in ogni caso, esclude l’operatività della norma ».


— 1376 — dell’azione penale (7). È significativo notare come le due ipotesi fossero già accomunate nella previsione della direttiva n. 56 della legge delega: anche se il legislatore delegante — in relazione ai « fatti precedentemente oggetto di provvedimento di archiviazione o per i quali siano decorsi i termini di indagine preliminare » — richiedeva che fossero individuati idonei presupposti « per l’esercizio dell’azione penale », lasciando intendere che, in difetto di tali presupposti, l’intervenuta archiviazione o il decorso dei termini investigativi avrebbero dovuto inibire lo stesso esercizio della potestas agendi (8). È appunto questa la seconda possibile interpretazione dell’art. 414 c.p.p., già prospettata in dottrina (9) ed ora condivisa dalla Corte costituzionale. « Il nuovo codice di rito penale — osservano i giudici della Consulta — assegna un’efficacia (limitatamente) preclusiva al provvedimento di archiviazione », in quanto « dopo l’archiviazione, l’inizio di un nuovo procedimento è subordinato a un provvedimento autorizzatorio del giudice ». Tale provvedimento « ha dunque l’effetto di rendere possibile il riaprirsi di un procedimento per il fatto già archiviato e, all’esito di esso, l’eventuale esercizio dell’azione penale, che, in difetto dell’autorizzazione, sarebbe precluso ». 2. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Pretore di Brescia con ordinanza emessa il 17 febbraio 1994 (10). Il giudice rimettente faceva notare come il mancato rispetto delle regole dettate per la riapertura delle indagini determinasse effetti processuali « soltanto parziali »: « infatti, gli atti compiuti successivamente all’effettuale riapertura delle indagini non saranno utili per l’acquisizione di prove nel processo, intervenendo la previsione dell’art. 191 c.p.p. »; ma « la formulazione del decreto di rinvio a giudizio emesso dal pubblico ministero non trova sanzione che ne elimini gli effetti », dal momento che l’art. 555 comma 2 c.p.p. « non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione a giudizio nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini ». Di qui la dedotta violazione dell’art. 24 comma 2 Cost., essendo lesivo del diritto di difesa — secondo l’opinione del giudice bresciano — che dopo l’emanazione del provvedimento archiviativo l’esercizio dell’azione penale possa « svolgersi al di fuori di ogni controllo, consentendo la riviviscenza di indagini al cui esito si era giunti a conclusioni difformi (archiviazione) ». Così formulata, l’eccezione conteneva l’evidente errore di trascurare il combinato disposto dell’art. 178 lett. b) e 179 comma 1 c.p.p., a norma del quale, come è noto, deve intendersi prescritta a pena di nullità assoluta l’osservanza di tutte le disposizioni concernenti l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale. La Corte avrebbe dunque potuto escludere ogni profilo di illegittimità costituzionale senza neppure scendere sull’insidioso terreno dell’interpretazione dell’art. 414 c.p.p. Bastava osservare come una previsione specifica di nullità del decreto di citazione sarebbe risultata comunque inopportuna: superflua (per l’esistenza della nullità di ordine generale) laddove si fosse inteso il decreto di riapertura delle indagini come autorizzazione ad agire oltre che come autorizzazione a investigare; ingiustificata nel caso contrario. I giudici costituzionali hanno invece preferito spingersi oltre. « In carenza di

(7) Più difficile mantenere l’analogia con riferimento alle richieste cautelari del pubblico ministero. L’opinione giurisprudenziale prevalente ritiene infatti ammissibili tali richieste dopo la scadenza dei termini investigativi (v. per tutte Cass. 3 marzo 1992, Guarnieri, in Giur. it., 1993, II, c. 291), mentre non sembra che la stessa soluzione possa venire accolta con riguardo all’ipotesi dell’indagine illegittimamente riaperta. (8) Cfr. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 99. (9) V. soprattutto GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 92 ss. (10) Cfr. Gazz. uff. 18 maggio 1994, prima serie speciale, n. 21, p. 16 s.


— 1377 — autorizzazione del giudice a riaprire le indagini — essi affermano — è la instaurabilità di un nuovo procedimento e, quindi, la ‘‘procedibilità’’ a essere impedita; sicché se il presupposto di procedere manca, il giudice non può che prenderne atto, dichiarando con sentenza, appunto, che ‘‘l’azione penale non doveva essere iniziata’’ (cfr. artt. 529, 469, 425, nonché, sia pure in termini non identici, art. 129 cod. proc. pen.) ». Il risultato è un discutibile accostamento tra gli effetti ex art. 414 c.p.p. del provvedimento di archiviazione e l’efficacia stricto sensu preclusiva derivante dal giudicato penale, nella sua forma « tipica » descritta nell’art. 649 c.p.p. come in quella « attenuata » caratteristica della sentenza di non luogo a procedere. « Se si prende ad esempio il caso più eminente di preclusione, quello del giudicato — nota la Corte —, può rilevarsi che, qualora sia iniziato un secondo giudizio per il medesimo fatto, il giudice ha il dovere di pronunciare sentenza... ‘‘enunciandone la causa nel dispositivo’’ (art. 649 comma 2 c.p.p.)... Ma anche nel caso in esame... deve ritenersi precluso l’esercizio dell’azione penale, in quanto riguardante il medesimo fatto già oggetto di un provvedimento di archiviazione... È quanto si verifica, ancora, qualora sia esercitata l’azione penale per un fatto per il quale sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere nell’udienza preliminare in mancanza della revoca giudiziale prevista dagli artt. 434-437 c.p.p. Anche in quest’ipotesi la regola della declaratoria dell’effetto preclusivo, sub specie di sentenza di improcedibilità dell’azione penale, è da ritenere espressa in termini generali dalle disposizioni sopra menzionate ». 3. Riassumendo, la Corte costituzionale ritiene: a) che l’art. 414 c.p.p. contenga un divieto di agire (oltre che di indagare) per il pubblico ministero non « autorizzato » dal giudice per le indagini preliminari; b) che l’azione penale esercitata in difetto di autorizzazione debba sfociare in una declaratoria di improcedibilità (11). Ma questo non è che il contenuto esplicito della sentenza della Corte: accogliendo le premesse che abbiamo illustrato, i giudici costituzionali implicitamente risolvono numerosi altri dubbi interpretativi suscitati dalla norma codicistica. La prima regola inespressa desumibile dalla pronuncia che si annota riguarda l’ipotesi dell’esercizio « immediato » dell’azione penale successivo all’archiviazione. Se il pubblico ministero non può validamente promuovere l’azione penale al termine di indagini non autorizzate a norma dell’art. 414 c.p.p., a fortiori si deve ritenere che non possa validamente agire quando non abbia svolto alcuna nuova investigazione. Sarebbe infatti palesemente irragionevole un sistema che impedisse al rappresentante dell’accusa di promuovere l’azione penale dopo avere acquisito nuovi decisivi elementi di prova a carico della persona sottoposta a indagine (sia pure in difetto della necessaria autorizzazione giudiziale), ma che, per converso, considerasse valida l’azione esercitata sulla base di una mera rivalutazione degli stessi elementi di prova già posti a fondamento della richiesta e del provvedimento di archiviazione. Dunque « il pubblico ministero non può esercitare l’azione, perché il provvedimento archiviativo del giudice — nulla essendo mutato — fa preclusivamente stato » (12). Non solo. Se non è pensabile — nella prospettiva recepita dalla Corte costitu-

(11) Condivide la prima conclusione ma non la seconda GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 102: « in difetto di un’autorizzazione del giudice, l’azione esercitata nonostante la preclusione costituita dal provvedimento di archiviazione si deve considerare inficiata di nullità assoluta ai sensi dell’art. 179 comma 1, riguardando l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale ». (12) Cfr. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 102; in prospettiva analoga DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, in AA.VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1993, p. 576 s., e SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, p. 344 ss.; contra F. CORDERO, Procedura (1993), cit., p. 414 (« ipotesi folle »).


— 1378 — zionale — che il pubblico ministero possa esercitare di propria iniziativa l’azione penale avendo semplicemente mutato opinione circa la sostenibilità dell’accusa in giudizio, neppure si può ritenere che in una simile ipotesi il giudice per le indagini preliminari possa « autorizzarlo ad agire » nelle forme di cui all’art. 414 c.p.p. Oltre ad essere preclusa dalla lettera della norma codicistica — che subordina in termini inequivoci la ripresa del procedimento alla prospettata esigenza di « nuove investigazioni » (13) —, una simile interpretazione dell’art. 414 c.p.p. collocherebbe l’istituto della riapertura delle indagini in una prospettiva di totale contrasto con la logica « tradizionale » dei rapporti tra organo inquirente e organo giudicante, trasformando la relativa procedura in un atipico meccanismo di controllo preventivo sulla fondatezza dell’azione penale (14). Non deve trarre in inganno l’apparente simmetria fra l’« autorizzazione a non agire » contenuta nel provvedimento di archiviazione e l’« autorizzazione ad agire » che verrebbe in tal modo concessa al pubblico ministero; come giustamente è stato osservato, « l’inazione esige un controllo, essendo obbligatorio l’impulso al processo »: ma « quando indaga su possibili reati » (e a fortiori, quando esercita l’azione penale) « il pubblico ministero adempie degli obblighi » (15). D’altra parte, emanando il decreto o l’ordinanza di cui all’art. 409 c.p.p. il giudice dichiara l’insussistenza dei presupposti per la nascita dell’obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale, non già la sussistenza di un preteso « dovere di non agire » imposto dalla legge all’organo dell’accusa (la cui forza vincolante potrebbe venire meno solo per effetto di un provvedimento uguale e contrario del giudice). Il nostro sistema processuale ignora completamente un siffatto dovere negativo: non esistendo controlli sulla fondatezza dell’azione penale diversi dalla sentenza che giudica sul contenuto dell’imputazione, il pubblico ministero agisce — nel « merito » — sempre validamente (16); una richiesta di rinvio a giudizio formulata in palese contrasto con il criterio di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p. non potrebbe certamente considerarsi affetta da nullità per violazione delle norme che attengono all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale [art. 178 lett. b) c.p.p.], né potrebbe

(13) Per questo motivo, secondo un’isolata pronuncia giurisprudenziale (G.i.p. Pret. Verona, 11 maggio 1991, Trevenzoli, in Cass. pen., 1991, II, p. 767) sarebbe indispensabile riconoscere al giudice per le indagini preliminari la facoltà di revocare ex officio il provvedimento archiviativo errato (con contestuale emissione dell’ordine di formulare l’imputazione). Ma si tratta di una soluzione inaccettabile, se non altro perché l’art. 328 c.p.p. esclude chiaramente la legittimità di interventi officiosi del giudice dell’indagine (cfr. BOCHICCHIO, Archiviazione degli atti ed error in iudicando, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 428; SELVAGGI, Sulla revocabilità del decreto di archiviazione, in Cass. pen., 1991, II, p. 769). (14) In argomento cfr. DOMINIONI, Giudice e parti nell’udienza preliminare, in L’udienza preliminare, Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Urbino 20-22 settembre 1991, Milano, 1992, p. 78, secondo cui « istituire un controllo giurisdizionale per la determinazione del pubblico ministero di promuovere l’azione penale (comporterebbe) uno stravolgimento dei ruoli processuali, ancora più marcato in un sistema di processo di parti: l’azione penale, una volta promossa, trova la naturale verifica della sua fondatezza nella sentenza, che il giudice pronuncia secondo la regola di giudizio assegnatagli ». (15) F. CORDERO, Procedura (1993), cit., p. 413. (16) « Quale che sia la fonte a cui il pubblico ministero ha attinto per esercitare l’azione penale, quest’ultima è sempre validamente promossa, ossia idonea a costituire il dovere del giudice di decidere in merito, prosciogliendo o condannando l’imputato »; dunque « per quanto la cosa possa apparire singolare, l’azione penale si esercita e si sviluppa validamente a scapito della sua stessa causa (la notizia di reato non manifestamente infondata); detto in termini più tecnici, i presupposti del dovere di esercitare l’azione penale non coincidono con quelli del relativo potere, giacché, se il pubblico ministero deve esercitare l’azione penale solo a seguito di una notitia criminis non manifestamente infondata, egli può efficacemente esercitarla per ogni reato di sua competenza, quali che siano le fonti del suo sospetto »: così — in maniera del tutto condivisibile — FERRUA, L’iniziativa del pubblico ministero nella ricerca della notitia criminis, in Leg. pen., 1986, p. 315.


— 1379 — dare luogo a una declaratoria di improcedibilità perché l’azione penale « non doveva » essere esercitata (artt. 425, 469, 529 c.p.p.) (17). In breve, la Corte costituzionale assegna un carattere di assoluta intangibilità alle valutazioni probatorie poste a fondamento della pronuncia di archiviazione. Richiesta e ottenuta la trasmissione degli atti all’archivio, il pubblico ministero non può esercitare l’azione penale sulla base degli stessi elementi di prova già ritenuti inidonei a sostenere l’accusa; né — restando immutato il quadro probatorio — il giudice per le indagini preliminari potrebbe autorizzarlo ad agire. Tutto questo non può non incidere anche sull’individuazione dei presupposti per la riapertura delle indagini. Abbiamo già detto come l’art. 414 c.p.p. subordini la richiesta del pubblico ministero a un presupposto estremamente generico (l’« esigenza di nuove investigazioni »). Il principale dubbio interpretativo che ne deriva riguarda il concetto di « novità » delle investigazioni: è sufficiente che il pubblico ministero sottoponga al giudice un nuovo piano di indagine (la cui prospettazione, come si legge nella Relazione al progetto preliminare del codice, potrebbe anche « scaturire dalla diversa interpretazione degli elementi già acquisiti ») (18), o è necessario, invece, che siano emersi elementi nuovi, non valutabili al momento dell’emanazione del provvedimento archiviativo?

(17) L’opinione secondo la quale il verificarsi o meno dei presupposti per l’esercizio della potestas agendi determinerebbe due simmetriche situazioni soggettive di dovere in capo all’organo dell’accusa (dovere di agire ove tali presupposti si realizzino, dovere di non agire nel caso contrario) è accolta dalla quasi unanime dottrina (cfr. ad esempio CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, 1991, p. 94; D’ORAZI, Le fattispecie di archiviazione, in Crit. pen., 1991, p. 34; GAITO, Natura, caratteristiche e funzioni del pubblico ministero. Premesse per una discussione, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Atti del convegno di Perugia 20-21 aprile 1990, Napoli, 1991, p. 22; GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 11 ss.; GREVI, Archiviazione per « inidoneità probatoria » ed obbligatorietà dell’azione penale, in questa Rivista, 1990, p. 1281; PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, p. 1374), talora sul presupposto che una diversa soluzione contrasterebbe con lo stesso principio di obbligatorietà dell’azione penale (così — almeno implicitamente — GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, prima edizione, Torino, 1993, pp. 9 s. e 28; ma v. anche LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, in Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, p. 154 ss.) o con altre disposizioni costituzionali (cfr. SAMMARCO, La richiesta, cit., p. 119 ss.). Giova tuttavia ribadire che l’esercizio avventato del potere di azione non fa scattare alcun meccanismo sanzionatorio di natura processuale (tale non essendo neppure la sentenza di non luogo a procedere, la cui natura giurisdizionale postula la validità dell’azione promossa), né consente al giudice — stante il principio di irretrattabilità dell’azione penale riaffermato nell’art. 50 comma 3 c.p.p. — di « trasformare » l’azione avventata in inazione mediante la pronuncia di un provvedimento archiviativo non richiesto, secondo schemi analoghi a quelli previsti per l’udienza preliminare nella legge delega del 1974 (sul punto v. Cass. 9 marzo 1993, Hocip Agira, in Mass. cass. pen., 1993, 6, p. 129; Id., 19 ottobre 1990, Sica, in Cass. pen., 1991, II, p. 93; Id., 22 giugno 1990, Gherarduzzi, ivi, 1990, II, p. 397). Anche se esercitata in condizioni che legittimerebbero la richiesta ex art. 408 c.p.p., l’azione penale spiega dunque per intero la sua efficacia tipica, determinando l’avvio del processo e la pronuncia di una decisione giurisdizionale sull’imputazione. Di conseguenza, un « dovere » del pubblico ministero di non agire (e di richiedere l’archiviazione) può ritenersi positivamente sussistente nel sistema processuale penale solo a condizione che lo si configuri come un dovere la cui violazione è improduttiva di effetti sul piano giuridico, deducendosi la sua esistenza dalla sola previsione del modello legale di comportamento (cfr. F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1957, p. 108 e p. 116 s.). (18) Relazione al progetto preliminare, cit., p. 224; ma v. anche, significativamente, la Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, in Gazz. uff. 24 ottobre 1988, serie generale, n. 250, Supplemento ordinario n. 2, p. 188, in cui si giustifica la limitata impugnabilità dell’ordinanza di archiviazione sottolineando come la stessa sia « di per sé caducabile in rapporto alla sempre possibile riapertura delle indagini ». Condividono, nella sua sostanza, l’opinione dei relatori CASELLI LAPESCHI, La riapertura delle indagini preliminari ex art. 414 c.p.p.: importanza del controllo giurisdizionale, in Giur. it., 1994, IV, c. 180 s.; CONGIU, Sulla revocabilità del decreto di archiviazione, ivi, 1992, II, c. 603; CONSO-BARGIS, Glossario della nuova procedura penale, Milano, 1992, p. 28; CONTI, La chiusura delle indagini preliminari, in AA.VV., Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, a cura di Canzio-FerrantiPascolini, Milano, 1989, p. 54; DEAN, Novità in tema di archiviazione, in AA.VV., Le nuove disposizioni sul processo penale, Atti del convegno di Perugia 14-15 aprile 1988, Padova, 1989, p. 205; GREVI, Funzioni di garanzia e funzioni di controllo del giudice nel corso delle indagini preliminari, in AA.VV., Il


— 1380 — Non c’è dubbio che la strada intrapresa dalla Corte costituzionale conduca alla soluzione più restrittiva del quesito. Se si ritiene che gli esiti investigativi consacrati nel provvedimento di archiviazione non possano venire contraddetti da un atto di esercizio immediato dell’azione penale, ugualmente si deve escludere che un mero ripensamento del pubblico ministero (sia pure condiviso dal giudice) possa rappresentare un valido presupposto per la reinstaurazione della fase investigativa. Accogliendo la richiesta di archiviazione — e rinunciando ad avvalersi della facoltà che gli attribuisce l’art. 409 comma 4 c.p.p. —, il giudice per le indagini preliminari non dichiara soltanto l’infondatezza della notizia di reato, ma riconosce anche la completezza rebus sic stantibus delle indagini svolte (o, quanto meno, la loro inidoneità ad essere « completate ») (19). Ritenere intangibile soltanto la prima valutazione — e di conseguenza, garantire l’« archiviato » dai soli revirements dell’organo dell’accusa che si traducano nell’immediato esercizio dell’azione penale — sarebbe una conclusione palesemente illogica (20). Un ultimo problema concerne l’ipotesi in cui le « nuove investigazioni » si rivelino probatoriamente insignificanti all’esito dell’indagine legittimamente riaperta. Che cosa accade in una simile circostanza? Potrebbe il pubblico ministero esercitare l’azione penale sulla base dei soli elementi acquisiti in precedenza? Ancora una volta, le premesse accolte dalla Corte costituzionale inducono a privilegiare l’opzione interpretativa più « garantista ». Se il pubblico ministero, dopo avere richiesto e ottenuto l’autorizzazione di cui all’art. 414 c.p.p., potesse impunemente richiedere o disporre il rinvio a giudizio sulla base delle medesime risultanze investigative già ritenute non idonee a supportare l’accusa in dibattimento (non avendo acquisito elementi di prova determinanti nel corso delle « nuove investigazioni » autorizzate dal giudice delle indagini preliminari, o, peggio, non avendo neppure effettuato tali investigazioni), l’efficacia preclusiva riconosciuta al provvedimento di archiviazione diventerebbe una garanzia del tutto fittizia per l’inquisito (21): al pubblico ministero basterebbe prospettare un nuovo plausibile progetto investigativo — magari senza nessuna intenzione di attuarlo concretamente — per riacquistare nella sua interezza il potere di azione (22).

nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, p. 37; NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1992, p. 234; NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in CONSO-GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1991, p. 327 s.; NOBILI, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, p. 199; TAMBURINO, La chiusura delle indagini preliminari, in Quad. C.S.M., Incontri di studio sulle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del nuovo codice di procedura penale, Roma, 1989, p. 124 s.; VALENTINI REUTER, In tema di riapertura delle indagini, cit., p. 323; VOENA, Appunti sulle funzioni del procuratore generale presso la Corte d’appello, in Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit., p. 334. (19) La precisazione è necessaria: nonostante l’evidente incompletezza degli accertamenti effettuati dal pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari non potrebbe comunque ordinare il supplemento istruttorio ex art. 409 c.p.p. laddove ritenesse ormai inaridite le fonti di prova cui si sarebbe dovuto tempestivamente attingere. (20) Non a caso, la dottrina che giudica indispensabile un quid novi per la riapertura delle indagini è la stessa che ritiene che il pubblico ministero non possa esercitare tout court l’azione penale dopo l’archiviazione. Cfr. in particolare GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 96 s. (21) A queste conclusioni giunge tuttavia SAMMARCO, La richiesta, cit., p. 344 ss.: « l’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione impedisce al pubblico ministero di porre nel nulla tale provvedimento con una semplice nuova iniziativa concernente l’azione penale... Pertanto, allorché il pubblico ministero intenda esercitare l’azione penale con riferimento a fatti per i quali è stata disposta l’archiviazione, deve richiedere la riapertura delle indagini. Una volta che le indagini siano state riaperte, il pubblico ministero non necessariamente dovrà procedere all’acquisizione di ulteriori elementi a carico dell’indagato, ma potrà legittimamente esercitare l’azione penale anche sulla base degli stessi elementi in precedenza ritenuti insufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, e quindi posti a fondamento della richiesta di archiviazione, purché li abbia rivalutati in chiave accusatoria ». (22) Vigente il codice Rocco, la migliore dottrina processuale perveniva alle medesime conclusioni con riferimento all’ipotesi della riapertura dell’istruzione: qualora — si affermava — « la prova o le prove


— 1381 — 4. Fin qui l’opinione della Corte costituzionale, nei suoi contenuti espliciti e in quelli inespressi. È appena il caso di notare come tale opinione attribuisca alla riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. connotati molto simili a quelli dell’analogo istituto descritto negli artt. 434 e seguenti del codice (riapertura delle indagini conseguente a revoca della sentenza di non luogo a procedere). Oltre ad essere identiche — per esplicita ammissione della Corte — le conseguenze del mancato rispetto delle due procedure, risultano infatti largamente coincidenti anche i rispettivi presupposti, richiedendosi nell’uno e nell’altro caso la sopravvenienza di elementi di novità rispetto al quadro probatorio consacrato nei provvedimenti di chiusura delle indagini. È stato sostenuto in dottrina che il differente grado di preclusività dei due provvedimenti in esame sarebbe da mettere in correlazione con il maggiore o minore grado di « concretezza » del progetto investigativo sul quale si deve fondare la richiesta di riapertura delle indagini. Mentre nell’ipotesi di cui all’art. 434 c.p.p. occorre che siano sopravvenute o siano state scoperte « nuove fonti di prova », nel caso di riapertura delle indagini conseguente ad archiviazione basterebbe qualcosa di meno: « un quid novi, che, senza assurgere necessariamente a fonte di prova consenta di rivisitare gli stessi elementi già presenti nel fascicolo del pubblico ministero in una diversa chiave investigativa ». In altre parole — si afferma —, « le nuove fonti di prova, nella riapertura ai sensi dell’art. 434 costituiscono il presupposto, in quella ai sensi dell’art. 414, l’obiettivo da conseguire » (23). L’opinione non appare del tutto convincente. L’art. 435 c.p.p. prevede infatti che il pubblico ministero debba richiedere la riapertura delle indagini — contestualmente alla revoca della sentenza di non luogo a procedere — solo quando le nuove fonti di prova siano « ancora da acquisire »: se le nuove fonti di prova sono « già state acquisite », l’organo dell’accusa può formulare, insieme alla domanda di revoca, un’immediata richiesta di rinvio a giudizio. A prescindere dall’evidente anomalia di una « acquisizione » delle fonti di prova che non può che essere avvenuta al di fuori dell’ambito procedimentale (e che secondo una parte della dottrina può costituire il frutto di una vera e propria attività investigativa del pubblico ministero) (24), il significato della norma sembra essere chiaro: la richiesta di riapertura delle indagini formulata dal pubblico ministero a norma dell’art. 435 c.p.p. presuppone — non diversamente dalla corrispondente richiesta ex art. 414 — un progetto investigativo dall’esito incerto, rispetto al quale l’acquisizione della fonte di prova rappresenti l’« obiettivo » e non il « presupposto ». D’altra parte, riesce difficile immaginare in che cosa il « quid novi » richiesto dall’art. 414 potrebbe consistere, se non nella concreta possibilità, che si presenti al pubblico ministero, di acquisire una nuova fonte di prova. È opportuno ricordare che anche le « nuove investigazioni » ex art. 414 c.p.p. debbono avere un contenuto determinato (25):

di acquisizione successiva, sul cui presupposto è stata ordinata la riapertura, risultassero poi insussistenti o anche fossero ritenute inattendibili, ...l’eventuale decisione difforme dalla prima sarebbe invalida »; « anzi, in quanto il risultato probatorio fosse rimasto tale e quale, il giudice in ogni stato o grado del processo, anche d’ufficio, dovrebbe dichiarare il non luogo a procedere sotto il profilo del ne bis in idem ». Così F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1983, p. 652; ma v. anche FERRUA, La riapertura dell’istruzione, Milano, 1976, p. 209 ss., ed ivi ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza. (23) GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 96. (24) KOSTORIS, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 289. (25) A tale proposito, non è senza significato che nell’art. 414 c.p.p. venga utilizzata la locuzione « investigazioni » per definire le ulteriori indagini richieste dal pubblico ministero. Nell’art. 410 comma 1 c.p.p. il legislatore ha infatti usato questa stessa locuzione — ritenuta preferibile a quella « più generica » di « indagini » — con la dichiarata finalità di circoscrivere entro ambiti teleologicamente predeterminati l’oggetto delle richieste istruttorie contenute nell’atto di opposizione della persona offesa. Cfr. le Osserva-


— 1382 — sarebbe certamente da respingere una richiesta di riapertura delle indagini a norma dell’art. 414 con la quale il pubblico ministero si limitasse ad affermare la generica necessità di ulteriori approfondimenti investigativi (26). Proprio l’inevitabile accostamento tra le due procedure di riapertura delle indagini fa nascere, tuttavia, i primi dubbi in ordine all’interpretazione dell’art. 414 c.p.p. offerta dalla Corte costituzionale. In primo luogo, infatti, è significativo che l’art. 414 — a differenza dell’art. 434 c.p.p. — non preveda un interpello del giudice per le indagini preliminari inteso all’immediato rinvio a giudizio, ignorando l’ipotesi in cui il pubblico ministero abbia già « acquisito » gli elementi di prova idonei a modificare il giudizio di sostenibilità dell’accusa (si pensi a un documento decisivo tardivamente fornito dalla persona offesa). L’omissione è agevolmente comprensibile se si concepisce il controllo del giudice ex art. 414 c.p.p. come un controllo sull’indagine anziché come un controllo sull’azione: non dovendo essere riaperta la fase investigativa, il pubblico ministero non ha bisogno dell’autorizzazione giudiziale per rimettere in moto il procedimento archiviato (e trasformarlo immediatamente in processo) (27). In secondo luogo, l’accostamento tra le due ipotesi di riapertura delle indagini mette in risalto la totale assenza di garanzie che caratterizza la scheletrica procedura descritta nell’art. 414 c.p.p. A differenza di quanto accade nel caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere (art. 435 comma 3 c.p.p.), la decisione di riaprire il procedimento archiviato viene presa senza che il potenziale reindagato e la persona offesa possano esercitare il diritto al contraddittorio; inoltre, solo « contro l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di revoca » — e non anche contro il decreto che rigetta la richiesta presentata a norma dell’art. 414 c.p.p. — « il pubblico ministero può proporre ricorso per cassazione » (art. 437 c.p.p.). L’impressione che se ne ricava è che il meccanismo processuale delineato nel-

zioni Governative sull’art. 407 del progetto definitivo del codice, divenuto l’art. 410 del testo definitivo (in CONSO-GREVI-NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, V, Il progetto definitivo e il testo definitivo del codice, Padova, 1990, p. 313): « nel comma 1, malgrado il suggerimento della Commissione parlamentare, si è mantenuto il termine ‘‘investigazione’’, ...in considerazione del suo significato più concreto e specifico rispetto a quello generico del termine ‘‘indagini’’. (26) In definitiva, la differenza tra le « nuove investigazioni » di cui all’art. 414 c.p.p. e le indagini volte ad « acquisire... nuove fonti di prova » di cui all’art. 435 c.p.p. non può che fondarsi sul criterio suggerito dalla Relazione al progetto preliminare, imperniato sulla differente rilevanza del novum probatorio ai fini degli sviluppi ulteriori del procedimento. La più chiara indicazione in tal senso proviene dalla stessa lettera degli artt. 414 e 434 c.p.p.: nel primo caso è sufficiente che vi sia la necessità di svolgere « nuove investigazioni »; nel secondo caso, occorre invece che le acquisende fonti di prova siano « determinanti » ai fini del rinvio a giudizio (v. KOSTORIS, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 287; SPANGHER, Commento agli artt. 434 ss. c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Mario Chiavario, IV, cit., p. 749). A norma dell’art. 414, la ripresa delle indagini deve essere pertanto autorizzata anche quando gli elementi di prova che si intendono acquisire non siano di per sé decisivi per l’esercizio dell’azione penale (potendolo diventare solo sulla base di una determinante riconsiderazione degli elementi già in possesso dell’inquirente); nel caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere, occorre invece che sia la nuova fonte di prova a fungere, per così dire, da elemento trainante della rivisitazione del quadro probatorio. (27) Osserva acutamente GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 101, che « il pubblico ministero, se non ottiene la riapertura del procedimento, può avere una disponibilità materiale, ma non processuale », degli elementi informalmente acquisiti, « poiché ciò che cade al di fuori del procedimento rimane, ove non vi abbia ritualmente accesso, irrilevante ». Dunque « il pubblico ministero è tenuto a richiedere la riapertura della fase delle indagini, al fine di acquisire i nuovi elementi ed esercitare l’azione »; « l’art. 414 va letto... nel senso che il giudice dispone la riapertura della fase delle indagini su richiesta del pubblico ministero motivata dall’esigenza di nuove acquisizioni o investigazioni ». Tuttavia, l’obiezione dovrebbe valere anche per la richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere finalizzata all’immediato rinvio a giudizio (in argomento KOSTORIS, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 289); inoltre, nulla impedisce al pubblico ministero di effettuare le nuove « acquisizioni » dopo l’esercizio dell’azione penale, a norma dell’art. 419 comma 3 c.p.p.


— 1383 — l’art. 414 c.p.p. sia troppo esile per sopportare il « peso » contenutistico che la Corte costituzionale gli vorrebbe accollare. Se davvero il legislatore avesse inteso attribuire al procedimento di riapertura delle indagini il significato che la Corte gli riconosce — vale a dire, se il decreto emesso a norma dell’art. 414 c.p.p. avesse realmente la funzione di restituire al pubblico ministero il potere di esercitare l’azione penale, perduto in conseguenza dell’archiviazione —, sicuramente la persona sottoposta a indagine non sarebbe stata privata del potere di interloquire nel procedimento formativo dell’autorizzazione giudiziale, né quest’ultima avrebbe assunto la forma di una decisione immotivata e insindacabile del giudice per le indagini preliminari. È vero che si tratta di scelte legislative comunque criticabili, quale che sia il valore attribuito all’intervento giurisdizionale ex art. 414 c.p.p. (28): ma il confronto con la procedura di cui agli artt. 434 ss. c.p.p. rimane illuminante, non potendo non corrispondere — al diverso corredo garantistico — anche una diversa portata degli interessi in gioco (29). L’opinione avversata produce infine conseguenze paradossali nell’ipotesi di fallimento del nuovo progetto investigativo. Si è visto come in tale ipotesi, non essendo mutato il quadro probatorio, il provvedimento di archiviazione dovrebbe conservare la sua (ipotetica) efficacia preclusiva, mancando i presupposti « sostanziali » per il riacquisto del potere di azione da parte del pubblico ministero. Ragionando in questi termini, si finirebbe tuttavia per garantire all’« archiviato » un trattamento più favorevole di quello che viene riservato allo stesso prosciolto ex art. 425 c.p.p. Dopo la revoca della sentenza di non luogo a procedere, il pubblico ministero autorizzato a riprendere le indagini non è infatti soggetto ad alcuna preclusione: l’effetto totalmente ablatorio che la « revoca » produce sulla sentenza conclusiva dell’udienza preliminare (confermato dalla circostanza che le nuove indagini si possono addirittura concludere con l’archiviazione) (30) induce la dot-

(28) ll rischio che il giudice per le indagini preliminari possa « diventare in concreto un vero e proprio arbitro dei destini del promuovimento dell’azione penale dopo l’archiviazione » è efficacemente denunciato da KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, cit., p. 354. Preoccupazioni del medesimo tenore (anche con riferimento alla possibile lesione del principio di obbligatorietà) sono espresse da CARLI, Preclusione, cit., c. 639; F. CORDERO, Procedura (1993), cit., p. 414; GIOSTRA, L’archiviazione, cit, p. 102; SAMMARCO, La richiesta, cit. p. 340 ss.; VALENTINI REUTER, In tema di riapertura delle indagini, cit., p. 325; VIGLIETTA, Obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale tra realtà e apparenza, in Critica del diritto, 1990, n. 4-5, p. 32. In argomento cfr. inoltre Cass. 1 giugno 1990, Vianello/Venezia, in Giur. it., 1991, II, c. 42 (e in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 112); Cass. 5 febbraio 1991, Ventrilla, in Giur. it., 1992, c. 602. In termini critici in ordine alla possibilità che la riapertura delle indagini venga autorizzata in assenza di contraddittorio con la persona già sottoposta a indagine, la quale può essere pertanto « inquisita a più riprese per il medesimo fatto senza averne contezza alcuna », cfr. invece CASELLI LAPESCHI, La riapertura delle indagini, cit., c. 186 s.; analogamente GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 97, e KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, cit., p. 354. (29) Secondo la condivisibile opinione espressa da MACCHIA, Nota a Corte cost. 12 gennaio 1995, n. 27, in Cass. pen., 1995, p. 1150, « ciò che resta preclusa dall’archiviazione è la possibilità di rimettere ‘‘sotto inchiesta’’ la medesima persona al di fuori del controllo del giudice, così da evitare — tale essendo la ratio della norna — che resti affidato all’arbitrio del pubblico ministero il potere di indagare sostanzialmente un determinato soggetto per una determinata ipotesi di reato ». Il che « permette di escludere la possibilità di costruire una assimilazione quanto mai opinabile tra giudicato e decreto di archiviazione sul piano dell’identità di effetti preclusivi che dagli stessi verrebbero a scaturire ». (30) Cfr. l’art. 436 comma 4 c.p.p. (« il pubblico ministero, qualora sulla base dei nuovi atti di indagine non debba chiedere l’archiviazione, trasmette alla cancelleria del giudice la richiesta di rinvio a giudizio »). In argomento KOSTORIS, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 292. È fuori dubbio che la facoltà concessa al pubblico ministero di concludere con richiesta di archiviazione le indagini riaperte a norma dell’art. 435 c.p.p. costituisca una nota dissonante nel sistema dei rapporti tra il provvedimento archiviativo e la sentenza di non luogo a procedere. L’ex-imputato « aveva lo scudo di un effetto preclusivo rebus sic stantibus e l’ha perso...; può darsi, dunque, che venga sottoposto a dibattimento sullo stesso materiale illo tempore ritenuto inidoneo a un’accusa sostenibile » [F. CORDERO, Procedura (1993), cit., p. 808]. Ma la volontà del legislatore sembra inequivoca: ritenere che la revoca sia « puro atto ricognitivo » o che la stessa operi « sotto condizione, in quanto emergano prove che,


— 1384 — trina a ritenere che l’infondatezza « sopravvenuta » della domanda di riapertura del procedimento non possa influire sulla validità e sulla efficacia dell’azione penale che sia stata, nel frattempo, nuovamente esercitata (31). 5. In aggiunta a quanto precede, non si può non osservare come la tesi che attribuisce un’efficacia preclusiva al provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. risulti difficilmente conciliabile con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (32). Ritenere che dopo una prima rinuncia ad esercitare l’azione — e in mancanza di elementi nuovi — il pubblico ministero non possa richiedere direttamente il rinvio a giudizio della persona sottoposta a indagine, né porre rimedio all’eventuale incompletezza degli accertamenti investigativi in precedenza svolti, significa introdurre una consistente limitazione di natura estrinseca all’operatività dell’obbligo sancito dall’art. 112 Cost. Una simile operazione potrebbe ritenersi consentita solo se compiuta in nome di un interesse corredato di uguale tutela: ma non potendosi attribuire dignità costituzionale all’interesse dell’inquisito alla stabilità degli esiti investigativi (33), non sembra che tale condizione possa dirsi realizzata nel caso di specie (34).

da sole o integrate nel vecchio mosaico, risultino idonee all’accusa » (sono le due soluzioni proposte da F. CORDERO, ivi, p. 808, per ricucire lo strappo sistematico) significa disconoscere la novità più qualificante dell’istituto disciplinato negli artt. 434 e seguenti del codice, rappresentata da quella « eliminazione » della sentenza di non luogo a procedere » a cui « il legislatore ha voluto intitolare... l’intero istituto » (KOSTORIS, ivi, p. 291; ma v. anche CARULLI, Dell’archiviazione e delle prove nel nuovo codice di procedura penale, Napoli, 1989, p. 52 s., e DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, cit., p. 77 s.). (31) Cfr. KOSTORIS, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 291, e SPANGHER, Commento all’art. 434, cit., p. 753; mentre F. CORDERO, Procedura (1993), cit., p. 808, per affermare che « persiste l’effetto preclusivo » della sentenza di non luogo a procedere, è costretto ancora una volta a « suppo(rre) che quella tal revoca non sia da intendere alla lettera ». Nel senso che il decreto di riapertura delle indagini emesso dal giudice a norma dell’art. 414 c.p.p. non implica, invece, una vera e propria revoca del provvedimento di archiviazione, cfr. BERNARDI, Commento all’art. 414 c.p.p., cit., p. 555 s. (32) Sul concetto di efficacia preclusiva occorre intendersi. Per il fatto stesso che le indagini preliminari non possano validamente riprendere dopo l’archiviazione se non in virtù della procedura di cui all’art. 414 c.p.p. — e sulla base del presupposto sostanziale « minimo » costituito dalla necessaria prospettazione di un nuovo piano investigativo da parte del pubblico ministero —, non c’è dubbio che il provvedimento di archiviazione acquisti nell’attuale sistema processuale una parziale stabilità, sconosciuta alla sua tradizione normativa. Una vera e propria efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione sarebbe tuttavia ravvisabile (con riferimento sia alla ripresa delle indagini, sia all’eventuale esercizio « diretto » dell’azione penale) solo se la legge vincolasse il pubblico ministero alla valutazione degli elementi di causa già compiuta dal giudice delle indagini preliminari, rendendo tale valutazione intangibile in difetto di elementi nuovi. Non essendo questa l’interpretazione corretta dell’art. 414 c.p.p., può essere condivisa l’opinione di chi ritiene che il provvedimento ex art. 409 c.p.p. non determini alcuna preclusione: così ad esempio CONSO-BARGIS, Glossario, cit., pp. 28 e 624; DEAN, Novità, cit., p. 206; GREVI, Funzioni di garanzia, cit., p. 37. (33) A meno — come diremo — di ravvisare un’implicita tutela dell’interesse in questione nello stesso art. 112 Cost. (34) In realtà, un parziale contrasto fra l’istituto della riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. e il principio consacrato nell’art. 112 Cost. appare ineliminabile. Da un lato, infatti, l’accoglimento delle premesse enunciate nel testo induce a ritenere che sia incompatibile con l’art. 112 Cost. qualunque presupposto sostanziale per la riapertura dell’indagine: ivi compresa quella condizione « minimale » che è rappresentata dalla necessaria prospettazione da parte del pubblico ministero di un concreto progetto investigativo, finalizzato al reperimento di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio (e non a caso v’è chi ritiene indispensabile configurare il provvedimento autorizzativo del giudice come un vero e proprio atto dovuto, svincolato da qualsiasi presupposto che non sia quello formale costituito dalla richiesta stessa dell’organo requirente: cfr. Cass. 5 febbraio 1991, Ventrilla, cit.; F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, p. 494 s.; nonché, in prospettiva de iure condendo, NANNUCCI-CHELAZZI, Una proposta di modifica « ragionata » del codice di procedura penale, in Doc. giust., 1993, p. 972). D’altro lato — anche a prescindere dalla maggiore o minore estensione dei presupposti sostanziali della riapertura —, non pare dubbio che lo stesso meccanismo previsto dall’art. 414 c.p.p. possa suscitare gravi dubbi di legittimità costituzionale in rapporto all’art. 112 Cost., specie se si considera che il provvedimento negativo del giudice per le indagini preliminari è inoppugnabile e rende non utilizzabili gli elementi di prova


— 1385 — L’unico modo per aggirare il problema — che non sia quello di procedere a una complessiva « rivisitazione » del principio di cui all’art. 112 Cost. alla luce del nuovo sistema processuale (35) — è ritenere che un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio successiva al provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. non rappresenterebbe comunque l’atto con il quale si esercita per la prima volta l’azione penale, avendo il pubblico ministero parzialmente « consumato » il suo potere di azione con la stessa richiesta archiviativa. Il rischio che la tesi accolta dalla Corte costituzionale conduca a simili (inaccettabili) conseguenze sul piano interpretativo non è da sottovalutare. È fuori dubbio che il legislatore del 1988 abbia inteso porre azione e archiviazione in un rapporto di esclusione reciproca: chiaramente espresso nell’art. 50 comma 1 c.p.p. (« il pubblico ministero esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione »), il concetto ritorna nell’art. 405 comma 1 (« il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, nei casi previsti nei titoli II, III, IV del libro VI ovvero con richiesta di rinvio a giudizio »), nell’art. 412 comma 1 (« il procuratore generale presso la Corte d’appello dispone con decreto motivato l’avocazione delle indagini preliminari se il pubblico ministero non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine stabilito dalla legge »), e, per quanto riguarda il processo di pretura, nell’art. 554 comma 1 (« concluse le indagini, il pubblico ministero trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari con richiesta di archiviazione... ovvero emette decreto di citazione a giudizio »). Nel vigore del codice abrogato, tuttavia, la dottrina riteneva che la richiesta di archiviazione costituisse un atto di rinuncia all’esercizio dell’azione penale non solo in ragione dell’esplicita alternativa sancita nell’art. 74 comma 3 c.p.p. (« il pubblico ministero, qualora reputi che per il fatto non si debba promuovere l’azione penale, richiede il giudice istruttore di pronunciare decreto »), ma anche — e soprattutto — per le caratteristiche normative del provvedimento con il quale il giudice istruttore accoglieva la richiesta dell’organo inquirente. Dovendosi infatti ravvisare l’esercizio della potestas agendi in ogni atto del pubblico ministero destinato a provocare l’emanazione di un provvedimento che potesse definirsi « giurisdizionale », per stabilire se anche con la richiesta formulata ex art. 74 comma 3 c.p.p. venisse esercitata l’azione penale era sufficiente chiedersi se il decreto del giudice istruttore possedesse i connotati tipici della giurisdizionalità. La risposta a questa domanda era peraltro sicuramente negativa, dal momento che il decreto di cui all’art. 74 c.p.p. — fatta salva la sua indubbia provenienza da un organo della giurisdizione — non possedeva alcuno di tali connotati. Oltre a non essere espresso in forma di sentenza e a non essere necessariamente corredato di motivazione, tale decreto non aveva infatti contenuto decisorio ed era totalmente privo di efficacia preclusiva; inoltre, la sua emanazione non era preceduta né seguita dal contraddittorio delle parti (36). Né valeva osservare come esistessero provvedimenti processuali penali che erano certamente di natura giurisdizionale pur essendo privi di talune di queste caratteristiche (37): anche

successivamente raccolti. Ma tutto questo non significa che l’argomento incentrato sul principio di obbligatorietà provi troppo: se non altro, perché l’accoglimento dell’opinione avversata determina una notevole accentuazione del contrasto tra la norma ordinaria e la norma costituzionale. (35) La proposta è di KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, cit., p. 353, che su queste basi giudica opportuno considerare « in qualche misura irreversibile » la valutazione operata dal pubblico ministero circa l’insussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale, osservando che ciò « finirebbe con il portare solo ad una maggiore responsabilizzazione del pubblico ministero nelle sue scelte ». (36) In argomento ci sia consentito rinviare — anche per i necessari riferimenti dottrinali — a CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, p. 186 ss. (37) In questo senso, in particolare, DALIA, Il decreto di archiviazione, Milano, 1968, p. 123 s.


— 1386 — ammettendo che ciò fosse vero, si faceva giustamente rilevare come « solo con una petizione di principio » avrebbe potuto considerarsi espressione di iurisdictio « un atto sprovvisto di tutti contemporaneamente i suddetti indicatori di giurisdizionalità » (38). Applicando il medesimo schema argomentativo alla « nuova » archiviazione, risulta molto più difficile riconoscere alla decisione del giudice la natura di atto non giurisdizionale (39). Il provvedimento emanato ai sensi dell’art. 409 c.p.p. possiede infatti molte delle caratteristiche normative che in passato venivano indicate come tipiche ed esclusive della giurisdizione, in quanto proviene da un organo giurisdizionale, è necessariamente motivato, ha un contenuto decisorio, può venire emanato nel contraddittorio delle parti ed è talora impugnabile (40). Riconoscere a tale provvedimento anche l’idoneità a formare la res iudicata significherebbe ricondurre definitivamente il decreto e l’ordinanza di cui all’art. 409 c.p.p. nell’area della giurisdizionalità, e ammettere, di conseguenza, che la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero costituisce esercizio dell’azione penale (o, quanto meno, ne presuppone l’« inizio ») (41). Parafrasando ciò che la dottrina osservava a proposito del « vecchio » decreto di archiviazione, si può ben dire che soltanto una petizione di principio consentirebbe oggi di affermare la natura non giurisdizionale di un provvedimento che presentasse « tutti, e contempo-

(38) UBERTIS, voce Azione penale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 7. (39) Sulla natura del nuovo provvedimento di archiviazione non esiste uniformità di vedute tra gli interpreti. Riconoscono espressamente il carattere non giurisdizionale del provvedimento BERNARDI, Commento all’art. 409 c.p.p., cit., p. 534; BORRACCETTI, Archiviazione, indagini preliminari e obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1989, p. 572; F. CORDERO, Procedura (1993), cit., p. 801 s. (« resta identica... la cosiddetta ‘‘natura’’ del provvedimento: decreto de plano o ordinanza in contraddittorio, non è atto giurisdizionale, sebbene risalga al giudice; scioglie solo il pubblico ministero da un obbligo d’ufficio... Insomma, è atto permissivo o autorizzativo »); DRAGONE, Le indagini, cit., p. 566; NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 214; RAMAJOLI, Chiusura, cit., p. 4; in giurisprudenza Cass. 22 ottobre 1991, Panicucci, in Cass. pen., 1992, p. 2140; G.i.p. Pret. Verona, 11 maggio 1991, Trevenzoli, cit. Meno convinte le posizioni di CRISTIANI, Manuale, cit., p. 326 [« la nuova disciplina dell’istituto present(a) caratteri misti: da un lato la natura amministrativa del provvedimento e la sua collocazione preprocessuale riconducono l’archiviazione nell’ambito delle attività di ordine extragiurisdizionale; dall’altro il controllo motivato del giudice delle indagini preliminari, non privo di iniziative, seppure indirette, nel merito, aprono prospettive di ordine giurisdizionale »] e GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 5, nota 5 (che osserva come « gli stessi caratteri che nella previgente disciplina erano stati ineccepibilmente ritenuti tipici della sentenza di non luogo a procedere, oggi si attagliano perfettamente al provvedimento di archiviazione »). Apertamente schierati per la tesi della giurisdizionalità sono ARIOLLI, L’applicazione « definitiva » delle misure di sicurezza nel processo penale e la natura del decreto di archiviazione, in Cass. pen., 1993, p. 2789 (ma con riferimento alla sola ordinanza emessa all’esito dell’udienza camerale); MENCARELLI, Procedimento probatorio e archiviazione, Napoli, 1993, pp. 112 ss. e 140; SAMMARCO, La richiesta, cit., p. 299 ss.; TAORMINA, Diritto processuale penale, Torino, 1991, p. 554. (40) Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda ancora a CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 387 ss. (41) A queste conclusioni giunge, ad esempio, MENCARELLI, Procedimento probatorio, cit., pp. 112 ss. e 140 s. Secondo Mencarelli, l’archiviazione nel nuovo codice si caratterizzerebbe « per un tratto complessivamente ‘‘giurisdizionale’’, tale da differenziare fortemente l’attuale istituto... rispetto al passato. Questo sia per l’esplicito richiamo al contenuto probatorio degli elementi utilizzati ai fini del rispetto del parametro di cui all’art. 125: e quindi per fondarvi la deliberazione circa l’archiviazione. Con le inevitabili conseguenze sulla natura di una decisione che viene a basarsi sul vaglio, anche in contraddittorio..., degli elementi raccolti a conclusione di un’approfondita ed accurata investigazione quale quella svolta nelle indagini preliminari, contrassegnate oltre tutto dal carattere della completezza. Sia, poi, ... per la previsione dell’art. 409, ultimo comma, dalla quale... si trae un ulteriore argomento, nel momento che viene affermata l’impugnabilità dell’ordinanza, in ordine al carattere giurisdizionale del provvedimento in oggetto » (ivi, p.112 s.). Dunque, « qualunque sia il tipo di sviluppo dell’attività posta in essere successivamente all’iscrizione » (della notizia di reato nell’apposito registro), « questa si conclude sempre con provvedimenti giurisdizionali, tra i quali si colloca anche l’archiviazione » (ivi, p. 140). In conclusione, « è da ritenere che le indagini preliminari configurino sicuramente un inizio di azione penale, il cui sbocco sarà o l’esercizio della stessa attraverso l’adozione dei riti alternativi o l’instaurazione del dibattimento, o il non esercizio, attraverso l’archiviazione » (ivi, p. 141).


— 1387 — raneamente », i connotati della giurisdizionalità, ivi compresa quell’efficacia di ne bis in idem che ne costituisce forse il tratto saliente. A meno di porsi in aperto contrasto con le scelte sistematiche del legislatore processuale (42), conviene dunque rovesciare i termini del discorso, ritenendo che la veste non giurisdizionale inequivocabilmente attribuita a tale provvedimento costituisca un ulteriore e decisivo argomento per risolvere i dubbi interpretativi suscitati dall’art. 414 c.p.p. a favore della tesi che nega l’esistenza di ogni efficacia preclusiva. Come immediatamente vedremo, ciò non significa negare che alla persona sottoposta a indagine dovrebbe oggi essere riconosciuto (in una certa misura) il diritto alla stabilità degli esiti investigativi: significa soltanto che non è possibile assegnare alla disciplina dell’archiviazione il compito di garantirne la tutela, senza in tal modo gettare il provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. in una crisi irreversibile di identità. 6. Siamo giunti così al principale argomento addotto a sostegno della tesi avversata. Lo spostamento dell’alternativa azione/archiviazione all’esito della fase inquirente — si osserva — rende l’attuale provvedimento di archiviazione assimilabile più alla vecchia sentenza istruttoria di proscioglimento che al decreto emanato a norma dell’art. 74 comma 3 c.p.p. abr. Come il vecchio proscioglimento istruttorio, il provvedimento emesso a norma dell’art. 409 c.p.p. ha infatti alle spalle « indagini virtualmente complete »; e « come questo può essere preceduto dall’adozione di misure cautelari coercitive e di mezzi investigativi incidenti sulle libertà fondamentali dell’inquisito ». Ovvio — se ne deduce — che l’ordinamento non possa consentire al pubblico ministero di « tenere in non cale » un provvedimento siffatto: ad esempio, « non è pensabile... che una persona sottoposta a lunga custodia cautelare, il cui caso sia stato archiviato con ordinanza dal giudice su richiesta del pubblico ministero, si veda l’indomani, per capricciosa iniziativa di quest’ultimo, nuovamente sottoposta a procedimento penale » (43). In altre parole, l’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione andrebbe direttamente ricollegata al carattere afflittivo delle indagini che precedono la sua emanazione, secondo uno schema argomentativo corrispondente a quello che induceva a riconoscere la medesima efficacia — nel vigore del codice abrogato — alla sola sentenza istruttoria e non anche al decreto emesso a norma dell’art. 74 comma 3 c.p.p. (44). È un argomento di indubbio peso. Se riconoscere alla decisione del giudice

(42) L’intento legislativo di collocare il provvedimento di archiviazione « al di fuori dell’area della giurisdizionalità » (cfr. la Relazione sul progetto preliminare, cit., p. 221) e di escluderne, conseguentemente, ogni efficacia preclusiva, appare in verità difficilmente conciliabile con il disposto dell’art. 345 c.p.p., nella parte in cui ricomprende anche il decreto e l’ordinanza emessi a norma dell’art. 409 tra le declaratorie di improcedibilità che consentono il successivo esercizio dell’azione penale soltanto se in seguito si realizzano le condizioni per procedere (sul punto v. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 99). Forse mai come in tale norma si avverte la tentazione del legislatore di considerare l’archiviazione alla stregua di un provvedimento giurisdizionale. È davvero significativo che riferendosi a una fase del procedimento nella quale l’azione penale non è stata ancora esercitata, la legge si preoccupi di precisare una circostanza che sembrerebbe assolutamente pacifica, e cioè che il pubblico ministero può esercitare per la prima volta l’azione se interviene la necessaria condizione di procedibilità. Se a questo si aggiunge che il legislatore incorre nel lapsus di definire comunque « riproponibile » l’azione penale (cfr. la rubrica dell’art. 345), non sembra dubbio che convenga giudicare il richiamo al provvedimento archiviativo come un’innocua superfetazione, senza trarne conseguenze che potrebbero rivelarsi a doppio taglio in ordine alla presunta efficacia di giudicato di tale provvedimento. (43) Così GIOSTRA, L’archiviazione, cit., pp. 14 e 94. Rilievi analoghi in BOCHICCHIO, Archiviazione degli atti, cit., p. 429; CONGIU, Sulla revocabilità, cit., c. 602 s.; KOSTORIS, voce Riapertura delle indagini, cit., p. 351 s.; SELVAGGI, Sulla revocabilità, cit., p. 769; VALENTINI REUTER, In tema di riapertura delle indagini, cit., p. 322. (44) A questo rilievo se ne potrebbe aggiungere un altro: oltre che per la circostanza di avere sop-


— 1388 — un’efficacia autenticamente preclusiva significa condurre l’archiviazione sino al punto di non ritorno della sua metamorfosi in chiave giurisdizionale (con tutto quello che ne segue in termini di « tenuta » complessiva del sistema), negare tale efficacia significa effettivamente ridurre il provvedimento di cui all’art. 409 c.p.p. al rango di una beffarda scheinbare Freisprechung, rassegnandosi alla violazione delle fondamentali istanze di garanzia che ispirano il principio del ne bis in idem (45). Nell’abrogato sistema processuale, la mancanza di ogni efficacia preclusiva del decreto di archiviazione si spiegava con il contenuto minimo delle indagini che potevano precedere la sua emanazione: l’esigenza di sottrarre il singolo ad una « reiterata persecuzione penale » — e quindi « all’arbitrio incondizionato dell’organo punitivo » (46) — non poteva essere avvertita, perché mancava una precedente attività investigativa che presentasse connotati realmente persecutori (47). Non così nell’attuale sistema processuale, in cui l’attività di ricerca delle prove che precede l’archiviazione può durare per molto tempo, e comportare, per chi ne sia oggetto, anche una lunga privazione della libertà personale. La verità è che l’istituto dell’archiviazione soffre delle medesime contraddizioni che oggi caratterizzano l’intera disciplina della fase inquirente. Preoccupato del fatto che una qualificazione in chiave processuale e giurisdizionale degli atti di indagine del pubblico ministero potesse favorirne l’utilizzo probatorio a dibattimento (non diversamente da quanto avveniva in passato per gli atti di istruzione sommaria), il legislatore del 1988 ha espressamente sottratto la fase investigativa alla sfera della giurisdizionalità e della processualità (48), tra-

portato il peso di una penetrante attività di indagine, sarebbe giusto garantire all’inquisito la stabilità degli esiti investigativi anche per il fatto che la valutazione di tali esiti può essere stata operata con il suo decisivo contributo dialettico. Sembra infatti alquanto irragionevole che attraverso il provvedimento di cui all’art. 414 c.p.p. — emanato de plano — possa venire legittimamente rovesciato il contenuto di una pronuncia emessa nel contraddittorio delle parti (l’ordinanza di archiviazione); ancora più irragionevole — nell’ipotesi di azione penale esercitata tout court — che gli effetti del contraddittorio possano venire azzerati in conseguenza dell’unilaterale iniziativa del pubblico ministero. (45) È da notare che la ripresa delle indagini potrebbe anche coincidere con un’immediata privazione della libertà personale del « reindagato ». In argomento v. Cass. 8 maggio 1992, Rapisarda, in questa Rivista, 1994, p. 314 (« l’ordinanza di custodia cautelare, emessa nei confronti dell’indagato dopo l’archiviazione, ma una volta che sia stata autorizzata la riapertura delle indagini, non è affetta da nullità alcuna, a prescindere dal fatto che il pubblico ministero procedente abbia o meno effettuato nuovi atti di acquisizione probatoria »). (46) DE LUCA, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, 1963, p. 90, nota 34. (47) Il problema era esattamente inquadrato da CONSO, Il provvedimento di archiviazione, in Riv. it. dir. pen., 1950, p. 360 s., nota 98: « non si può negare che sia giustificato limitare l’archiviazione al solo periodo in cui l’attività del pubblico ministero ha carattere generico: una volta che l’organo dell’accusa si sia orientato in una direzione soggettiva specificamente determinata, il processo deve concludersi con sentenza, perlomeno istruttoria. In quel momento... esso riceve una spinta decisiva, poiché l’attività del pubblico ministero perde il puro carattere investigativo e assume carattere persecutorio. La diversità di struttura e di conseguenze che risulta evidente nel confronto fra decreto di archiviazione e sentenza di proscioglimento trova in questa svolta la sua ragione logica » . Cfr. anche ivi, p. 356: « l’istituto in tanto acquista un suo rilievo in quanto si arresti ai limiti dell’istruzione »; « solo in questo modo possono giustificarsi le diverse conseguenze » che sentenza di proscioglimento e decreto di archiviazione « presentano in ordine alla ripresa del procedimento penale: ...di fronte a una sentenza istruttoria di proscioglimento soltanto la sopravvenienza di nuove prove può dar luogo alla riapertura dell’istruzione, perché la sentenza istruttoria presuppone l’esperimento di quell’importante e complessa fase processuale che è l’istruzione. Viceversa, nel caso di un decreto di non doversi promuovere l’azione penale, nulla vieta la successiva instaurazione del processo; ciò risulterebbe senza ragione se l’archiviazione potesse essere deliberata anche dopo l’inizio dell’istruttoria, mentre appare pienamente giustificato con la preclusione dell’archiviazione alle soglie dell’istruzione ». (48) Cfr. la Relazione al progetto preliminare del codice, cit., p. 34: « le indagini preliminari rappresentano una fase pre-processuale. È stato ritenuto importante insistere nel fissare tale profilo normativo poiché ad esso è legata una delle fondamentali caratteristiche impresse dalla legge-delega al nuovo processo penale, nel quale dovrà restare ben ferma la cesura fra attività pre-processuali e processo vero e proprio: a ciò, infatti, è legato quell’insieme di garanzie — che è al tempo stesso esigenza di funzionalità e di razionalità — che si traduce nel diverso valore delle attività processuali rispetto alle pre-processuali ».


— 1389 — sportando l’esercizio dell’azione penale dalle battute iniziali a quelle conclusive dell’inchiesta. Per fare questo, è stato necessario non soltanto introdurre la distinzione tra procedimento e processo (al fine di conciliare l’affermata non processualità degli atti di indagine con l’esistenza di una tutela difensiva), ma anche attribuire connotati di accentuata « concretezza » all’atto di esercizio dell’azione penale, fino a farlo coincidere — nel procedimento ordinario — con la richiesta (o il decreto) di rinvio a giudizio. L’introduzione dei riti alternativi nonché, soprattutto, la fissazione di una soglia probatoria molto elevata per il passaggio a dibattimento (art. 125 disp. att. c.p.p.) hanno tuttavia conferito alle indagini preliminari contenuti sostanzialmente assimilabili a quelli della vecchia istruzione sommaria. L’opinione secondo la quale le investigazioni del pubblico ministero avrebbero dovuto consistere in accertamenti di carattere preliminare estremamente limitati sia dal punto di vista cronologico che dal punto di vista contenutistico è presto tramontata, per essere sostituita dall’opposto principio di « tendenziale completezza » dell’indagine. L’inchiesta preliminare rapida e « indolore » immaginata dai riformatori si è trasformata in breve tempo in un ponderoso procedimento istruttorio, caratterizzato spesso da un ricorso massiccio allo strumento della custodia cautelare. Il contrasto tra la forma e la sostanza delle indagini preliminari ha prodotto effetti doppiamente pregiudizievoli per la persona sottoposta a indagine. Da un lato, la sottrazione della fase inquirente alla sfera della giurisdizionalità non ha impedito che gli atti d’indagine — aumentando progressivamente di peso e di importanza — travolgessero i deboli sbarramenti opposti dal legislatore al loro utilizzo come prova. È innegabile che il principio di (tendenziale) irrilevanza probatoria degli atti investigativi sia stato definitivamente sovvertito solo con la nota « controriforma » del 1992: ma gli interventi della Corte costituzionale e del legislatore non hanno fatto altro che ribadire un primato della fase precedente il giudizio che era già stato implicitamente sancito dall’art. 125 disp. att. (49). D’altro lato, lo sviluppo ipertrofico delle investigazioni del pubblico ministero ha accentuato quei caratteri di « sostanziale » giurisdizionalità e processualità dell’indagine preliminare che già erano presenti nell’originario impianto codicistico (50). Se fin dall’inizio era apparso alquanto sconcertante che fosse possibile emanare provvedimenti di custodia cautelare in assenza di un imputato e di una imputazione, o che si potesse esercitare il diritto di difesa (inteso anche come contraddittorio) al di fuori del processo, con il passare del tempo la consistenza imputativa e afflittiva delle indagini preliminari si è rivelata ancora piu chiaramente, confermando l’assoluta inadeguatezza dell’inquadramento sistematico voluto dal legislatore. Di riflesso, è apparsa sempre più difficile da condividere anche l’opinione di chi — tra i fautori del modello processuale imperniato sull’« inchiesta preliminare » e sull’alternativa tra richiesta di archiviazione e richiesta di rinvio a giudizio

In argomento, per tutti, PULITANÒ, Chiusura delle indagini preliminari, archiviazione ed esercizio dell’azione penale, udienza preliminare, imputato e indagato, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 108 s. (49) Come notava una insigne dottrina quasi trent’anni or sono, è una contraddizione in termini volere rafforzare il dibattimento elevandone al contempo la soglia di accessibilità: posto che un rinvio a giudizio troppo « cauto e meditato » comporta inevitabilmente un « soffocamento » della fase dibattimentale, per « potenziare il dibattimento » è indispensabile far precedere il rinvio a giudizio da una « semplice inchiesta preliminare... (non) basata sul contraddittorio », dettando regole di giudizio poco selettive per l’instaurazione del processo (CONSO, Natura e funzioni del pubblico ministero, in Costituzione e processo penale, Milano, 1969, p. 552). (50) Sul punto cfr., in generale, NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 29 ss.


— 1390 — — considerava la fisiologica non preclusività del provvedimento archiviativo alla stregua di un mero « inconveniente », non particolarmente « grave » (51). Come si è accennato, le conseguenze di questo assetto contraddittorio della fase inquirente sono doppiamente pregiudizievoli per l’inquisito. Per un verso, il cittadino sottoposto a indagine può tuttora essere giudicato sulla base di elementi di prova raccolti unilateralmente dall’organo dell’accusa; per altro verso, egli si vede privato anche delle garanzie giurisdizionali di cui beneficiava nell’ambito della vecchia istruzione sommaria: prima fra tutte, quella di ottenere un provvedimento liberatorio corredato di efficacia preclusiva. Considerato tutto questo, c’è da chiedersi se la scelta legislativa di spostare la soglia di esercitabilità dell’azione penale dalla semplice « non manifesta infondatezza della notizia di reato » fino alla « sostenibilità dell’accusa in dibattimento », non sia stata una scelta — oltre che inopportuna (52) — persino lesiva del dettato costituzionale. È noto che l’art. 112 Cost. — nello stabilire che « il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale » — sottintende un necessario intervento del legislatore ordinario volto a individuare i presupposti normativi in presenza dei quali sorge, in concreto, l’obbligo di agire. L’opinione prevalente in dottrina riconosce che l’unico limite imposto al legislatore in subiecta materia sia quello di definire tali presupposti in maniera sufficientemente tassativa, in modo da rendere efficace il controllo del giudice sull’osservanza dell’obbligo (53). Tuttavia, considerato il nesso indissolubile che lega azione e giurisdizione, non sembra azzardato desumere dal sistema anche l’esistenza di un limite di natura sostanziale, rappresentato dalla sopravvenuta necessità di rendere operative le garanzie giurisdizionali. Dove sia possibile disporre limitazioni della libertà personale (54), dove esistano indagini oggettivamente e soggettivamente orientate, dove si decida, magari nel contraddittorio delle parti, sulla fondatezza in fatto e in diritto di un’accusa già delineatasi in tutti i suoi elementi essenziali e accidentali (anche se al fine limitato di valutarne la sostenibilità in giudizio) (55), non possono non operare tutte le garanzie connesse all’esercizio dell’azione penale, ivi compresa (sia pure nella sua forma « attenuata ») la garanzia del ne bis in idem. Una disciplina ordinaria che consenta al pubblico ministero di non agire in presenza di tali condizioni sembra in contrasto con la stessa configurazione « minima » dell’azione penale che si ricava dall’art. 112 Cost. È vero che desumere tutto questo dal principio di obbligatorietà dell’azione

(51) Così — in termini ineccepibili se riferiti allo schema originario di inchiesta preliminare — F. CORDERO, Linee di un processo di parti, in Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 183 s.: « i possibili esiti dell’inchiesta preliminare sono una conclusione negativa e una positiva. Nel primo caso il pubblico ministero ricorre all’archiviazione »; ma « siamo in una fase prodromica, nella quale il processo non è stato ancora instaurato: perciò non è possibile un equivalente del proscioglimento istruttorio. Si dirà che la sentenza del giudice istruttore, a differenza dell’archiviazione, produce un sia pur limitato effetto preclusivo, in quanto impedisce un riassoggettamento al processo in base alle medesime prove. Il rilievo è esatto, ma l’inconveniente non è così grave che si debba rinunciare alla pregevole semplicità della soluzione proposta ». (52) Cfr. GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 24, nota 13. (53) Per i necessari riferimenti cfr. CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 251 s. (54) È « molto opinabile... consentire un’archiviazione anche dopo, ad esempio, un provvedimento di cattura. Se v’è sufficiente ‘‘materia’’ per catturare, come può non esservi ‘‘materia’’ per reputare integrato in ciò un esercizio dell’azione? »: così NOBILI, La nuova procedura, cit., p. 241. (55) Secondo TAORMINA, Diritto processuale penale, cit., pp. 570 e 594 s., « la sostenibilità o non sostenibilità dell’accusa in dibattimento non è argomento afferente all’esistenza o inesistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’azione penale, ma... argomento afferente alla logica giudiziale »; sarebbe dunque indispensabile — per garantire la stessa legittimità costituzionale del sistema — prevedere che il controllo del giudice sulla ricorrenza di tale presupposto abbia natura giurisdizionale e postuli l’avvenuto esercizio dell’azione penale.


— 1391 — penale significa forse chiedere troppo al precetto costituzionale. Ma se si considera il medesimo problema dal versante speculare dell’archiviazione, appare non privo di significato che la migliore dottrina processuale considerasse la manifesta infondatezza della notitia criminis — prima della riforma del 1988 — come « una condizione strettamente collegata all’essenza stessa dell’istituto » (56), la cui rinuncia avrebbe trasformato l’archiviazione in « un caricaturale surrogato del processo » (57). 7. In conclusione, riteniamo che non possa essere condivisa l’opinione della Corte costituzionale secondo la quale il provvedimento di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. avrebbe la funzione di una vera e propria autorizzazione ad agire (oltre che ad indagare) concessa al pubblico ministero, dal momento che tale opinione — oltre ad essere in scarsa sintonia con la disciplina del procedimento autorizzativo — risulta apertamente contrastante con le scelte sistematiche del legislatore del 1988 in materia di azione penale e archiviazione. Allo stesso tempo, non possiamo tuttavia non sottolineare come le conclusioni accolte inducano a ravvisare nella vigente disciplina dell’archiviazione una palese violazione delle istanze di garanzia che ispirano il principio della certezza in senso soggettivo (58). In prospettiva futura, sembrerebbe dunque opportuno riportare la soglia preclusiva dell’archiviazione alle battute iniziali dell’indagine, restituendo al pubblico ministero il potere/dovere di richiedere una decisione munita di efficacia preclusiva (secondo schemi analoghi a quelli recepiti nell’abrogato sistema processuale) dopo la nascita « sostanziale » dell’imputazione e il conseguente trapasso dell’indagine dalla fase « informativa » a quella « persecutoria » (59). Con due possibili varianti: a) ritenere che l’avvenuto superamento di questa soglia funzioni da presupposto necessario e sufficiente perché il pubblico ministero eserciti in seguito

(56) Così CONSO, Il provvedimento di archiviazione, cit., 1950, p. 337; ma v. anche CARNELUTTI, Richiesta di archiviazione di denuncia penale e sospensione del processo civile, in Riv. dir. proc., 1953, II, p. 229 (che definiva l’infondatezza manifesta della notitia criminis « un presupposto esplicito e ineliminabile del rifiuto di esercizio dell’azione »); PISAPIA, Presupposti e limiti del decreto di non doversi procedere, in Riv. it. dir. pen., 1954, p. 183. Per una presa di posizione ancora più esplicita v. F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1987, p. 66, secondo il quale l’art. 112 Cost. garantirebbe « che la macchina sia messa in moto da ogni notizia di reato non manifestamente infondata » (l’opinione è condivisa da GIOSTRA, L’archiviazione, cit., p. 33, nota 28). (57) In questi termini, pochi anni prima dell’entrata in vigore del nuovo codice, CHIAVARIO, Archiviazione, cit., p. 45, nota 14 [a consentire l’archiviazione « può essere soltanto un’infondatezza ‘‘manifesta’’: senza questa precisazione, l’archiviazione finirebbe per diventare un caricaturale surrogato del processo (il quale si instaura proprio per verificare, con certe garanzie, la fondatezza della notizia di reato) »]. D’altra parte, si è sempre ritenuto — e si ritiene ancora oggi — che l’istituto dell’archiviazione abbia quale presupposto « naturale » la constatata « superfluità » del processo e della giurisdizione (cfr. Corte cost. 28 gennaio 1991, n. 88, in Giur. cost., 1991, p. 591, e in dottrina, per tutti, CHIAVARIO, L’obbligatorietà, cit., p. 2665). L’assunto va condiviso anche in una prospettiva di compatibilità della disciplina dell’archiviazione con l’art. 112 Cost.: è ovvio che la rinuncia ad agire sia costituzionalmente legittima solo quando un eventuale esercizio dell’azione sarebbe del tutto inutile. Ma proprio questo è il punto: quando le indagini del pubblico ministero abbiano assunto connotati di afflittività e di persecutorietà, l’instaurazione del processo e l’esercizio della giurisdizione non possono mai definirsi « superflui », perché solo attraverso l’emanazione di un provvedimento giurisdizionale può essere tutelato il diritto dell’inquisito alla stabilità degli esiti investigativi. (58) Analoghe perplessità vengono manifestate da NOBILI, La nuova procedura, cit., pp. 50, 72, 89, 199, 213 s. e 356. Una circostanza « sulla quale dovremo meditare — osserva Nobili — consiste nella praticabilità, al termine della fase preliminare, di una mera archiviazione, ...senza gli effetti del vecchio ne bis in idem istruttorio. Una mera archiviazione, dunque, anche al termine della più articolata e complessa tra le indagini, magari durata due anni, e, soprattutto, anche dopo la cattura dell’imputato. Nel sistema precedente una soluzione così poco garantista... non era ammessa ». Sulla base delle medesime premesse, giudica « evidente... la menomazione della certezza in senso soggettivo » LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1994, p. 389. (59) In argomento — e in genere, sul problema dei limiti « cronologici » della vecchia archiviazione — cfr. CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 60 ss.


— 1392 — l’azione penale (magari per la prima volta con la stessa richiesta di non luogo a procedere) (60); b) costringere il pubblico ministero ad attestare la sopravvenuta svolta persecutoria dell’inchiesta attraverso l’emanazione immediata di un atto di esercizio dell’azione (di natura imputativa) che non abbia altro scopo se non quello di segnare l’ingresso nella fase giurisdizionale (61). Un parziale « ritorno alle origini » dell’archiviazione gioverebbe anche alla complessiva efficacia dell’istituto come strumento di controllo sul rispetto dell’obbligo di agire. Trasferita sul terreno funzionale, l’assimilazione del provvedimento ex art. 409 c.p.p. alla vecchia sentenza istruttoria di proscioglimento ha infatti alimentato pericolose tendenze, come quella di considerare addirittura superfluo il ricorso alla procedura di archiviazione — e pertanto, legittimamente « cestinabile » l’informativa di reato — nelle ipotesi di infondatezza autenticamente « manifesta » della notitia criminis (62). Il risultato è una situazione paradossalmente analoga a quella precedente la riforma del 1944: con il provvedimento di archiviazione in luogo della sentenza istruttoria di proscioglimento, e con l’iscrizione nel « modello 45 » nei panni di un sinistro revenant della trasmissione diretta all’archivio delle notizie di reato. FRANCESCO CAPRIOLI

(60) Da questo punto di vista, una disciplina molto peculiare ma di estremo interesse è quella contenuta nel Progetto di un nuovo codice di procedura penale per la Repubblica di San Marino redatto da Massimo Nobili (in Dif. pen., 1993, p. 130 ss.). A norma dell’art. 197 comma 3 del progetto, l’archiviazione della notizia di reato — il cui presupposto è la « manifesta infondatezza » della notizia stessa (art. 197 comma 1) — risulta infatti preclusa non soltanto « dopo l’esercizio dell’azione penale » (cioè dopo la formulazione dell’imputazione: art. 200 comma 4), ma anche « dopo che si sia provveduto ad acquisizione di prove, salvo che si tratti di quelle disciplinate negli artt. 208 comma 2 (primi rilievi di polizia giudiziaria sullo stato dei luoghi e sulle tracce del reato, rilievi dattiloscopici), 209 (accertamenti tecnici della polizia in speciali materie) e 210 (acquisizioni probatorie della polizia giudiziaria in via di assoluta urgenza), della testimonianza del denunciante, dell’interrogatorio della persona indiziata di reato, dell’acquisizione di documenti in forma diversa dalla perquisizione ». Verificatasi questa « preclusione per acquisizioni probatorie » (art. 197 comma 3), il procuratore del fisco deve richiedere al commissario della legge, a norma dell’art. 197 comma 5, « sentenza di assoluzione » anticipata (art. 226) o dibattimentale (art. 227), formulando l’imputazione — vale a dire, esercitando l’azione penale — a questo limitato fine (arg. ex art. 225 comma 1). Se il rappresentante dell’accusa, nonostante l’intervenuta preclusione ex art. 197 comma 3 richiede e ottiene l’archiviazione, la persona indiziata e il suo difensore possono proporre appello avverso il decreto archiviativo (art. 197 comma 7) e provocarne l’annullamento (art. 197 comma 8). Le ragioni di questa disciplina sono lucidamente esposte da Nobili nella relazione che accompagna il progetto (ivi, p. 142): « è ragionevole vietare una mera archiviazione dopo il compimento di attività processuale di una certa consistenza; ad esempio, dopo un provvedimento di coercizione cautelare... L’archiviazione non spiega gli effetti liberatori (ne bis in idem) di una sentenza » (bastano « nuove ragioni » per revocare il decreto: art. 198); « perciò l’art. 197 provvede con preclusioni ». (61) Una riforma di questo genere risulterebbe tanto più necessaria, se il legislatore dovesse accogliere le istanze di chi — per uscire dall’impasse seguita alla « restaurazione » del 1992 — propone di accrescere i poteri di acquisizione probatoria attribuiti al giudice delle indagini preliminari, sia pure nel rispetto della terzietà dell’organo giurisdizionale. Così ad esempio FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, p. 187 s., e NOBILI, Prove « a difesa » e investigazioni di parte nell’attuale assetto delle indagini preliminari, in questa Rivista, 1994, p. 419 s., i quali riconoscono che la soluzione proposta dovrebbe « poter contare su una revisione non superficiale dell’assetto complessivo della fase preliminare » (NOBILI, ivi, p. 420), e che, in questa logica « tesa a valorizzare la prima fase del procedimento, sarebbe forse più coerente far retroagire l’esercizio dell’azione penale alla prima richiesta di provvedimento cautelare o addirittura di incidente probatorio » (FERRUA, ivi, p. 188). (62) Sul problema CAPRIOLI, L’archiviazione, cit., p. 393 ss.


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